Questo è il patto che farò con la casa d'Israele,
dopo quei giorni, dice l'Eterno:
io metterò la mia legge nell'intimo loro,
la scriverò sul loro cuore,
e io sarò loro Dio,
ed essi saranno mio popolo.
Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
SALMO 145
Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
GENESI 2
L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
ISAIA 53
Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
GIOVANNI 20
Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
PROVERBI 8
Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
GENESI 2
E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
GIOVANNI 3
Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
1 CORINZI 15
Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
GENESI 3
E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
ISAIA 7
Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
GIOVANNI 12
“Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
ESODO 3
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni;
e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
ESODO 29
Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
GIOVANNI 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.
ATTI 4
E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
LUCA 2
Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.
MATTEO 2
Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
ATTI 8
Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
E vi fu grande gioia in quella città.
ATTI 13
Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
ROMANI 15
Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.
Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo,
per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio.
Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.
FILIPPESI, cap. 2
Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione,
rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.
Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso,
cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,
ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;
trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;
infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.
Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute,
perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo,
tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.
Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi;
e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.
Buona cosa è celebrare l'Eterno,
e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
proclamare la mattina la tua benignità,
e la tua fedeltà ogni notte,
sul decacordo e sul saltèro,
con l'accordo solenne dell'arpa!
Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
Come son grandi le tue opere, o Eterno!
I tuoi pensieri sono immensamente profondi.
L'uomo insensato non conosce
e il pazzo non intende questo:
che gli empi germoglian come l'erba
e gli operatori d'iniquità fioriscono,
per esser distrutti in perpetuo.
Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
ecco, i tuoi nemici periranno,
tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.
Ma tu mi dai la forza del bufalo;
io son unto d'olio fresco.
L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi che si levano contro di me.
Il giusto fiorirà come la palma,
crescerà come il cedro sul Libano.
Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
fioriranno nei cortili del nostro Dio.
Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
saranno pieni di vigore e verdeggianti,
per annunziare che l'Eterno è giusto;
egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.
Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
ATTI 10
Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni:
vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno.
Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse
non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.
MARCO 10
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».
PROVERBI 10
Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.
Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!
GIONA
Capitolo 1
La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Capitolo 4
Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.
O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!» Io cerco il tuo volto, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!
Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
ECCLESIASTE 2
Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.
ECCLESIASTE 12
Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.
1 PIETRO 1
E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.
1 CORINZI 15
Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
«O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.
E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.
E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.
Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
"Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti
che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo
ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce
e il mio carico è leggero.
Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.
Capitolo 4
Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che langoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto allinesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le buone parole con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.
Marcello Cicchese
novembre 2018
Testo delle letture
1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.
2.E l'Eterno disse a Satana:
3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
2 E prese a dire così:
3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!
3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?
9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?
19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!
24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.
24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?
27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.
31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!
1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!
19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!
9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!
42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.
32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.
33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».
34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».
35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».
36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!
37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.
38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»
42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».
42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.
42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.
Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
Giovanni 14:27
Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
Io non vi do come il mondo dà.
Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
Giovanni 16:33
Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
Nel mondo avrete tribolazione;
ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.
Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
da lui viene la mia salvezza.
Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
e cercherete tutti insieme di abbatterlo
come una parete che pende,
come un muricciuolo che cede?
Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
prendono piacere nella menzogna;
benedicono con la bocca,
ma internamente maledicono. Sela.
Anima mia, acquétati in Dio solo,
poiché da lui viene la mia speranza.
Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
Confida in lui ogni tempo, o popolo;
espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
Dio è il nostro rifugio. Sela.
Gli uomini del volgo non sono che vanità,
e i nobili non sono che menzogna;
messi sulla bilancia vanno su,
tutti assieme sono più leggeri della vanità.
Non confidate nell'oppressione,
e non mettete vane speranze nella rapina;
se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
Dio ha parlato una volta,
due volte ho udito questo:
Che la potenza appartiene a Dio;
e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi,
senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi;
di notte ancora, e non ho posa alcuna.
Eppure tu sei il Santo,
che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
I nostri padri confidarono in te;
e tu li liberasti.
Gridarono a te, e furono salvati;
confidarono in te, e non furono confusi.
Ma io sono un verme e non un uomo;
il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque;
lo salvi, poiché lo gradisce!
Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno;
m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina,
e non v'è alcuno che m'aiuti.
Grandi tori m'han circondato;
potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
apron la loro gola contro a me,
come un leone rapace e ruggente.
Io son come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa si sconnettono;
il mio cuore è come la cera,
si strugge in mezzo alle mie viscere.
Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi s'attacca al palato;
tu m'hai posto nella polvere della morte.
Poiché cani m'han circondato;
uno stuolo di malfattori m'ha attorniato;
m'hanno forato le mani e i piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e m'osservano;
spartiscon fra loro i miei vestimenti
e tirano a sorte la mia veste.
Tu dunque, o Eterno, non allontanarti,
tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
Libera l'anima mia dalla spada,
l'unica mia, dalla zampa del cane;
salvami dalla gola del leone.
Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.
Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
O voi che temete l'Eterno, lodatelo!
Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe,
e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
Poich'egli non ha sprezzata
né disdegnata l'afflizione dell'afflitto,
e non ha nascosta la sua faccia da lui;
ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea;
io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
Gli umili mangeranno e saranno saziati;
quei che cercano l'Eterno lo loderanno;
il loro cuore vivrà in perpetuo.
Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno
e si convertiranno a lui;
e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
Poiché all'Eterno appartiene il regno,
ed egli signoreggia sulle nazioni.
Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno;
tutti quelli che scendon nella polvere
e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
La posterità lo servirà;
si parlerà del Signore alla ventura generazione.
31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
Ezechiele 8:1-13
E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.
Ezechiele 14:1-11
Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
La pazienza di Dio e la nostra speranza Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza
(Romani 8.25).
Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Il corpo della nostra umiliazione Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Il rinnovamento della mente Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.
Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e il mondo,
da eternità a eternità tu sei Dio.
Tu fai tornare i mortali in polvere
e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
Perché mille anni, agli occhi tuoi,
sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
e come una veglia nella notte.
Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
Son come l'erba che verdeggia la mattina;
la mattina essa fiorisce e verdeggia,
la sera è segata e si secca.
Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
e siamo atterriti per il tuo sdegno.
Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
o, per i più forti, a ottant'anni;
e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
Chi conosce la forza della tua ira
e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
che acquistiamo un cuore saggio.
Ritorna, o Eterno; fino a quando?
e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
Saziaci al mattino della tua benignità,
e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
e degli anni che abbiamo sentito il male.
Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
e la tua gloria sui loro figli.
La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.
Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.
Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015
Crisi di governo: Degel haTorah si ritira dalla coalizione, e Shas ci pensa
Mentre Bibi cerca di tenere in piedi il governo, in mezzo alla guerra e alla tragedia degli ostaggi
di Anna Balestrieri
Mentre gli Stati Uniti spingono per un accordo sugli ostaggi, il premier israeliano Beniamin Netanyahu affronta pressioni crescenti dall’estrema destra e dai partiti religiosi della coalizione. Il rischio di una crisi istituzionale si affianca alla prosecuzione della guerra a Gaza e alle tensioni sul fronte interno.
• Crisi sulla legge sulla leva: Degel HaTorah annuncia il ritiro dalla coalizione È infatti di lunedì 14 luglio la notizia che Degel HaTorah – una delle due componenti principali del fronte haredi – ha annunciato il proprio ritiro dalla coalizione a causa della legge sull’esenzione degli studenti delle yeshivot che, secondo loro, non fa progressi. La decisione è stata comunicata dopo la presentazione di una bozza ritenuta non conforme agli accordi presi con il Likud. “Il testo di legge presentato oggi si discosta da quanto promesso. I parlamentari di Degel HaTorah si dimettono e lasciano immediatamente la coalizione.” Shas, altro partito ultraortodosso, ha per il momento rifiutato di firmare una mozione per lo scioglimento della Knesset, ma ha lasciato intendere che potrebbe uscire dal governo nei prossimi giorni se la legge non avanzerà. Senza Degel HaTorah, la maggioranza si riduce a 61 seggi; senza Shas, scenderebbe a 50, rendendo il governo tecnicamente minoritario. Tuttavia, la pausa estiva offre a Netanyahu un margine di manovra: la Knesset non sarà attiva e non sono previste votazioni imminenti.
• Pressioni, dimissioni minacciate e cinismo politico Durante l’intera giornata di lunedì, Netanyahu ha cercato di ricucire con i partiti haredim, convocando riunioni d’emergenza e tentando di mediare tra i loro rappresentanti e il Likud. In serata, una bozza condivisa sembrava profilarsi, ma alcuni esponenti ultraortodossi hanno subito raffreddato gli entusiasmi, definendo la proposta “problematicamente distante” da quanto promesso. Tutto questo, mentre la morte dei tre soldati era già nota ai vertici politici, come ha sottolineato il deputato d’opposizione Naor Shiri: “Sapevamo dei caduti dalle 12:30. Eppure l’unica priorità del governo è stata trattare con chi rifiuta la leva, per non perdere il potere. È un tradimento dei nostri soldati.”
• Ostaggi e guerra: il tempo come strategia A quasi due anni dall’inizio dell’operazione militare a Gaza, il primo ministro Benjamin Netanyahu torna da Washington senza alcun accordo sugli ostaggi, nonostante le forti pressioni esercitate dal presidente statunitense Donald Trump. Le trattative rimangono bloccate: da un lato, Hamas chiede garanzie americane per la fine del conflitto; dall’altro, Israele insiste nel voler mantenere una presenza militare significativa a Gaza durante l’implementazione di una prima fase dell’accordo. Intanto, il conflitto continua a mietere vittime. Tre soldati israeliani sono rimasti uccisi lunedì 14 luglio nel nord della Striscia, colpiti da un missile anticarro. Nonostante i sondaggi mostrino una maggioranza netta della popolazione favorevole a un accordo complessivo per riportare a casa tutti gli ostaggi e porre fine ai combattimenti, Netanyahu denuncia una manipolazione mediatica, accusando la stampa israeliana di influenzare l’opinione pubblica.
• L’obiettivo di Netanyahu: arrivare alla pausa estiva senza strappi Secondo osservatori politici, la priorità del premier resta la tenuta della propria coalizione. In caso di necessità, sarebbe pronto a cedere alle richieste americane, ma punta a rinviare ogni decisione sostanziale dopo l’inizio della pausa estiva della Knesset, prevista a fine luglio. In quel momento, il governo potrebbe sopravvivere anche senza una maggioranza operativa, almeno temporaneamente. Fonti vicine al governo parlano di un’intesa in due fasi: una prima con il rilascio parziale degli ostaggi (circa dieci dei venti ancora in vita) e la restituzione di alcune salme, seguita da un possibile ritorno alle operazioni militari per contenere le critiche dell’ultradestra.
• L’allarme istituzionale di Herzog e la sicurezza interna La Corte Suprema ha aperto la strada alla nomina del nuovo direttore dello Shin Bet, che potrebbe essere David Zini, vicino all’ala messianica della coalizione. L’opposizione avverte che una tale scelta potrebbe compromettere l’imparzialità dei servizi di sicurezza in vista di future elezioni. In parallelo, è in corso un duro scontro istituzionale tra il governo e la consigliera legale Gali Baharav-Miara, minacciata di rimozione. La procuratrice Baharav-Miara aveva avviato un procedimento contro uno dei consiglieri più vicini a Netanyahu, Yonatan Urich, accusato di furto e diffusione di documenti riservati alla stampa estera. Il premier ha definito le accuse infondate, pur contraddicendo dichiarazioni precedenti in cui affermava di non essere a conoscenza dei fatti. A un’ora dall’audizione prevista per lunedì 14 luglio, la funzionaria ha annunciato che non vi avrebbe preso parte, denunciando l’intero procedimento come una farsa con esito già deciso. “È un’udienza di facciata, che legittima la rimozione del consulente legale per motivi impropri, come l’opposizione ad atti illegali o la promozione di indagini. È un attacco diretto allo stato di diritto.” Anche il presidente Isaac Herzog è intervenuto con toni allarmati: “Siamo su una montagna russa senza freni. Bisogna fermarsi, prima che si cada nel baratro.” Il governo regge, ma su fondamenta fragili: tra ostaggi ancora in mano a Hamas, minacce di crisi parlamentare, e un sistema giudiziario sotto pressione, la stabilità dell’esecutivo appare sempre più precaria.
Regno Unito – Antisemitismo sistemico, l’allarme in un rapporto bipartisan
Dieci raccomandazioni su come affrontare l'emergenza
Ospedali, sindacati, ordini professionali, scuole, festival artistici: l’antisemitismo nel Regno Unito si è insinuato in profondità nelle istituzioni pubbliche e nella società civile. Non si tratta di casi isolati, ma di una condizione diffusa e spesso ignorata, che ha lasciato molti ebrei britannici con la sensazione di non avere più un luogo sicuro al di fuori della propria comunità. È quanto emerge dal rapporto pubblicato dalla Commissione sull’antisemitismo del Board of Deputies of British Jews, presieduta da Lord John Mann, consigliere contro l’antisemitismo del governo laburista di Sir Keir Starmer, e Dame Penny Mordaunt, esponente conservatrice ed ex ministra della Difesa.
Il documento nasce come risposta al forte aumento di attacchi antisemiti registrato dopo le stragi di Hamas del 7 ottobre 2023. Secondo il Community Security Trust, nel 2024 sono stati documentati 3.528 episodi di antisemitismo, il secondo dato annuale più alto mai registrato. «Siamo di fronte a una questione urgente per l’intero Regno Unito» avvertono Mann e Mordaunt, sottolineando come «il 7 ottobre ha portato alla ribalta problemi che già esistevano».
Molti ebrei britannici hanno smesso da tempo di rivolgersi alle istituzioni esterne alla propria comunità. Non si tratta di una sfiducia improvvisa, ma la constatazione che, in molti ambiti, la protezione promessa non si applica a tutti allo stesso modo. Phil Rosenberg, presidente del Board of Deputies, lo riassume così: «Molti settori promuovono forti processi di uguaglianza, diversità e inclusione, che sono molto importanti, ma troppo spesso queste tutele sembrano escludere gli ebrei». E aggiunge: «Per citare il titolo del libro di David Baddiel, troppo spesso sembra che Gli ebrei non contano (Jews Don’t Count)».
Nel rapporto bipartisan viene menzionata la Bbc, invitata, insieme ad altre istituzioni culturali e mediatiche, ad riflettere sul proprio ruolo nella rappresentazione della comunità ebraica. La Commissione sollecita l’emittente pubblica a garantire maggiore equilibrio e consapevolezza nel modo in cui affronta temi legati all’ebraismo, all’antisemitismo e Israele.
Il documento propone poi dieci raccomandazioni operative per affrontare la situazione. Alcune sono definite immediatamente applicabili, come la convocazione di un incontro con i vertici del National Health Service, il servizio sanitario nazionale britannico, per affrontare il problema dell’antisemitismo all’interno del settore. La Commissione parla di una «questione specifica e non risolta» e sollecita l’introduzione di percorsi formativi per tutto il personale sanitario, incentrati sull’antisemitismo contemporaneo.
Uno dei punti più sensibili dell’indagine riguarda la necessità di garantire la neutralità nei servizi pubblici. Vengono citati episodi in cui membri del personale sanitario hanno indossato simboli politici – ad esempio spille con la bandiera palestinese – mentre erano in servizio. Pur sottolineando il diritto alla libertà di espressione, la Commissione sottolinea un dato: «Quando una persona è impiegata per garantire il benessere e la sicurezza degli altri, ha anche il dovere di far sentire tutti in grado di ricevere assistenza».
Nel settore artistico e culturale sono stati registrati casi di esclusione di artisti ebrei da festival ed eventi, in alcuni casi giustificati dagli organizzatori con generici “motivi di opportunità”. Il rapporto sottolinea che il rispetto dei contratti e delle norme antidiscriminatorie dovrebbe essere garantito in ogni circostanza, tanto più quando sono coinvolti fondi pubblici o sponsorizzazioni istituzionali.
In ambito educativo, viene evidenziata l’urgenza di formare gli insegnanti sulle origini storiche e religiose dell’antisemitismo. Viene citata come esempio virtuoso l’iniziativa avviata dalla diocesi di Winchester, volta a fornire strumenti concreti per riconoscere e prevenire stereotipi antiebraici. Si raccomanda che progetti di questo tipo siano valutati e ampliati a livello nazionale, comprese le scuole confessionali.
In generale, molte delle garanzie previste dalla legge per i gruppi vulnerabili non vengono applicate con la stessa intensità alla comunità ebraica, sottolineano Mann e Mordaunt. Il rischio, si legge nel rapporto, è che la società britannica perda credibilità proprio nei suoi strumenti di tutela e inclusione. «L’antisemitismo è razzismo e deve essere trattato come tale», ha dichiarato Lord Mann in un intervento pubblico. «Nessuno dovrebbe subire abusi o discriminazioni mentre svolge la propria attività, che si tratti di perseguire la carriera scelta o di accedere ai servizi pubblici», ha aggiunto Mordaunt.
Il Board of Deputies ha confermato l’intenzione di utilizzare le raccomandazioni come base per un’azione istituzionale coordinata. «Gli ebrei devono contare quanto chiunque altro» si legge nella nota finale del rapporto. «E ci impegneremo affinché le istituzioni pubbliche siano all’altezza di questo principio». d.r.
L’eroe indiano che salvò gli ebrei durante la Shoah
di Michelle Zarfati
Era il 1938, quando Kundan Lal, un facoltoso imprenditore del Punjab, si trovava a Vienna per curare alcuni problemi di salute. Fu lì che incontrò Alfred e Lucy Wachsler, una giovane coppia di ebrei in attesa del loro primo figlio, rendendosi conto personalmente del deteriorarsi della situazione per gli ebrei dopo l’annessione dell’Austria da parte di Hitler.
Così, decise di agire. Senza alcuna autorità, ma con grande determinazione, cominciò a pubblicare annunci su giornali austriaci in cerca di lavoratori da assumere in India: falegnami, tessitori, falegnami e macchinisti. Ma le imprese promesse — “Kundan Cloth Mills”, “Kundan Agencies” — erano soltanto di facciata. Lo scopo era fornire documenti ufficiali necessari per ottenere visti e lasciare l’Europa. Tra il 1938 e il 1939, grazie a quello stratagemma, Lal riuscì a salvare cinque famiglie ebraiche: i Wachsler con il loro figlio neonato, Hans Losch, l’avvocato Fritz Weiss, i fratelli Schafranek e Siegmund Retter, ciascuno con un ruolo professionale riconosciuto nei documenti.
L’arrivo in India fu un momento di speranza ma anche molto duro da affrontare. Ludhiana, nel Punjab, era calda, isolata e priva di una comunità ebraica. Alcuni, come Losch e Weiss, si spostarono subito a Bombay, alla ricerca di opportunità migliori. Altri trovarono il modo di adeguarsi: i Wachsler avviarono un laboratorio artigianale, i Schafranek persino un’industria di compensato, grazie alla generosità di Lal che costruì loro case affiancate. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la condizione dei rifugiati tedeschi — sebbene ebrei — divenne complicata. Visti come “alieni nemici”, i Wachsler e i Schafranek vennero internati vicino a Pune e poi rilasciati in cambio del loro impegno lavorativo. Entro il 1948, quasi tutti riuscirono a emigrare: i Wachsler negli Stati Uniti, altri in Europa e altrove .
Lal, tornato in India, riprese la sua vita, dirigendo una fabbrica di fiammiferi. Fondò poi una scuola per le figlie, e si dedicò alla sua famiglia. Morì nel 1966, lasciando però dietro di sé una storia rimasta sconosciuta fino a quando il nipote Vinay Gupta non ne ha fatto emergere il racconto nel saggio “A Rescue in Vienna”. Una vicenda di umanità silenziosa, che ribalta la percezione del “bystander” indiano, come estraneo alla tragedia europea. Questo racconto mostra come un singolo individuo, privo di ambizioni politiche o militari, ma dotato di coraggio e creatività, abbia saputo riscrivere il destino di molte vite. Un esempio che ci ricorda quanto la solidarietà non abbia bisogno di grandi parole o gesti pubblici, ma solo di determinazione.
Francesca Albanese ha violato gli standard etici Onu, il report che inchioda la relatrice: i rapporti con entità affiliate al terrorismo
Il governo israeliano ha pubblicato un documento di accusa nei confronti di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite. Il testo critica la sua parzialità, denuncia le violazioni degli standard etici Onu e condanna la sua retorica antisemita. Di seguito è riportato un estratto dei passaggi più significativi del report.
di Eleonora Tiribocchi
Questo breve documento – basato su fonti pubbliche, rapporti ufficiali e dichiarazioni documentate – esamina quanto la condotta di Francesca Albanese, in qualità di relatrice speciale dell’Onu, sia fondamentalmente incompatibile con le responsabilità e gli standard etici previsti dal suo mandato. Nominata nel 2022 nell’ambito delle “Procedure speciali” del Consiglio per i Diritti umani dell’Organizzazione, Albanese ricopre una posizione che le conferisce visibilità istituzionale e accesso a piattaforme internazionali. Pur non rappresentando formalmente l’Onu, i titolari di mandato sono percepiti come voci autorevoli legittimate dal sistema delle Nazioni Unite e tenuti a rispettarne i valori fondamentali con imparzialità. Durante il suo mandato, Albanese ha ripetutamente violato le norme di imparzialità, universalità e integrità professionale che sono alla base della sua funzione. Le sue dichiarazioni pubbliche hanno incluso distorsioni sull’Olocausto, la negazione del diritto all’esistenza di Israele e una retorica che minimizza o giustifica la violenza terroristica – un linguaggio in palese contrasto con i princìpi del diritto internazionale dei diritti umani. Le sue azioni hanno suscitato continue condanne da parte di governi democratici, organizzazioni della società civile e istituzioni accademiche, molte delle quali hanno denunciato la sua condotta come antisemita e moralmente inaccettabile. Le reazioni diffuse riflettono non solo la gravità delle sue trasgressioni, ma anche il danno reputazionale arrecato al sistema Onu per i diritti umani.
• Violazioni degli standard etici Onu In quanto esperta nominata dalle Nazioni Unite, Albanese è vincolata dal Codice di Condotta dell’OHCHR (risoluzione 5/2 del Consiglio dei Diritti Umani, articoli 3–6), che impone:
Obiettività, indipendenza, integrità ed equità;
Divieto di incitamento all’odio o alla violenza;
Astensione da atti che compromettano la neutralità;
Obbligo di dichiarare finanziamenti esterni.
Albanese ha più volte violato tali obblighi attraverso dichiarazioni pubbliche, affiliazioni e comportamenti, descritti di seguito.
• Normalizzazione della violenza politica Nel dicembre 2022, Albanese ha tenuto un intervento video a una conferenza a Gaza organizzata dal Consiglio per le Relazioni internazionali-Palestina (CIR Palestine), un think tank affiliato ad Hamas che promuove apertamente la “liberazione totale della Palestina” – espressione ampiamente intesa come eliminazione dello Stato di Israele. Il CIR ha dichiarato che “il popolo palestinese continuerà la sua lotta contro l’occupazione […] con ogni mezzo disponibile e legittimo”; un linguaggio che richiama la Carta di Hamas. Alla conferenza erano presenti alti esponenti di Hamas e della Jihad islamica palestinese, entrambe considerate organizzazioni terroristiche da Usa e Ue. Le dichiarazioni di Albanese – “Israele dice ‘resistenza uguale terrorismo’, ma l’occupazione genera violenza” – sono state trasmesse dai media affiliati ad Hamas e si allineano alla cornice ideologica dell’evento. La sua partecipazione ha conferito legittimità a un contesto che glorifica la violenza armata. Presentandosi accanto a rappresentanti di entità terroristiche e sostenendo una retorica che confonde la resistenza legittima con il targeting di civili – proibito dal diritto umanitario internazionale – Albanese ha violato i princìpi di imparzialità e integrità previsti dal suo ruolo Onu. Inoltre, non ha mai condannato esplicitamente il massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas. Anziché denunciarlo come atto terroristico, lo ha definito una “risposta all’oppressione”; una narrazione condannata da molti governi democratici come moralmente ingiustificabile.
• Legami con entità affiliate al terrorismo Albanese ha partecipato a eventi promossi da Al-Haq e dal Palestinian Return Centre (PRC), organizzazioni indicate da Israele come affiliate a gruppi terroristici. Al-Haq è legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), responsabile di numerosi attacchi contro civili. Il PRC è parte della rete globale di Hamas. Queste affiliazioni violano gravemente il principio di neutralità richiesto ai titolari di mandato Onu.
• Falsificazione del diritto internazionale e negazione del diritto di Israele alla difesa Albanese ha affermato più volte che Israele non avrebbe diritto alla legittima difesa nei territori occupati secondo l’art. 51 della Carta Onu. Tale interpretazione ignora la prassi giuridica e decontestualizza l’opinione consultiva del 2004 della Corte internazionale di Giustizia. La Corte, pur discutendo l’applicabilità dell’art. 51, ha riconosciuto espressamente il diritto e il dovere di Israele di difendere i suoi cittadini da atti di violenza indiscriminata. Albanese omette tali passaggi e avanza una posizione politicizzata e incoerente.
• Finanziamenti esterni non dichiarati Un rapporto di UN Watch del maggio 2025 ha rivelato che Albanese non ha dichiarato finanziamenti ricevuti in occasione della sua visita ufficiale in Australia e Nuova Zelanda (novembre 2023), in violazione dell’art. 6 del Codice Onu. Gli eventi erano ospitati dalla Georgetown University. L’opacità delle fonti solleva dubbi sulla trasparenza.
• Retorica antisemita Secondo la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), adottata da molti Stati, la retorica di Albanese risponde a diversi criteri:
Teorie del complotto: nel 2014 scriveva che “l’America è schiava della lobby ebraica”.
Distorsione della Shoah: equipara Olocausto e Nakba, relativizzando la Shoah.
Negazione del diritto all’esistenza di Israele: descrive Israele come “entità coloniale”.
Silenzio sull’antisemitismo: non ha condannato attacchi contro ebrei dopo il 7 ottobre.
Legittimazione della violenza: ha definito gli attacchi del 7 ottobre come “atti di resistenza”.
• Condanne internazionali Le dichiarazioni di Albanese hanno suscitato condanne senza precedenti:
Usa (3 aprile 2025): condanna per antisemitismo e sostegno ad Hamas.
Germania: condanna per aver paragonato Netanyahu a Hitler.
Paesi Bassi (26 marzo 2025): dichiarazioni pubbliche inaccettabili.
Francia: definisce le sue parole sul 7 ottobre “una vergogna”.
Zona umanitaria a Rafah: l'esercito frena, i ministri insistono
L'idea di una zona di sicurezza umanitaria a Rafah, concepita come rifugio protetto per centinaia di migliaia di civili palestinesi, sta vacillando. Il calendario è utopistico, i costi stanno esplodendo, il sostegno politico sta sgretolandosi.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Netanyahu parla chiaro: “Non è realistico”. Tra necessità strategica, responsabilità morale e pressioni interne, la situazione si sta drammaticamente aggravando. Mentre l'esercito mette in guardia dal sovraccarico, i ministri insistono per ottenere risultati rapidi. E su tutto aleggia la domanda: Israele può conciliare sicurezza e umanità senza perdersi nuovamente in un conflitto di cui nessuno conosce la fine? Israele deve stare molto attento a non perdere di nuovo la strada. In una riunione tesa del gabinetto ristretto di sicurezza, il primo ministro Benjamin Netanyahu si è mostrato chiaramente disilluso. La sua reazione al calendario presentato dall'esercito, che prevede un periodo di costruzione fino a un anno, non ha lasciato dubbi: il progetto è “semplicemente irrealistico”. L'idea era chiara: nel mezzo della guerra in corso contro Hamas, doveva essere creato un corridoio sicuro che proteggesse la popolazione civile, consentisse gli aiuti umanitari e allo stesso tempo creasse una chiara separazione tra terroristi e civili. Ma come spesso accade quando le visioni si scontrano con la realtà, emerge il divario tra le aspirazioni politiche e la fattibilità militare. Non è solo il calendario – un anno invece dei cinque-sei mesi inizialmente previsti – a far infuriare Netanyahu. Anche i costi previsti, pari a diverse decine di miliardi di shekel, e la lentezza nell'attuazione alimentano la frustrazione. Un partecipante alla riunione lo ha espresso chiaramente: “Il primo ministro ha praticamente gettato alle ortiche il piano presentato e ha chiesto un'alternativa immediata e più realistica, più veloce, più economica e realizzabile”. Sul fronte interno, Netanyahu è sottoposto a forti pressioni. Ministri come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich chiedono risultati rapidi, non solo militari, ma anche simbolici. In colloqui interni, Netanyahu ha recentemente cercato di dissipare la loro resistenza a un possibile accordo sugli ostaggi. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha criticato aspramente i tempi proposti, affermando: “Non capisco: quante persone transitano ogni giorno dall'aeroporto Ben Gurion? Come è possibile che ci voglia così tanto tempo per organizzare un'operazione del genere a Rafah?”. Da ricordare. Questa settimana il primo ministro ha incontrato Ben Gvir e Smotrich in colloqui riservati per ottenere il loro consenso e creare così un quadro per un accordo sugli ostaggi senza mettere a rischio la coalizione. Durante la riunione, Netanyahu ha anche trasmesso un chiaro messaggio politico: intende promuovere un accordo sullo scambio di ostaggi che includa una tregua temporanea. Allo stesso tempo, però, ha sottolineato che Israele si riserva il diritto di riprendere i combattimenti in un secondo momento. Ben Gvir su X:Il dibattito sulla creazione della città umanitaria è principalmente una manovra diversiva volta a nascondere l'accordo in fase di definizione. Questa cosiddetta città umanitaria non sarà certamente costruita nell'ambito dell'accordo di capitolazione negoziato con Hamas, che prevede il ritiro delle forze armate israeliane dai territori terroristici conquistati con il sangue dei nostri combattenti, il rilascio di centinaia di terroristi assassini e la concessione a Hamas di ulteriori risorse e tempo per ricostruire le proprie capacità. La manipolazione non può sostituire una vittoria completa. Dietro la disputa sui tempi e sui bilanci si nasconde un dilemma più profondo: come può Israele inviare segnali strategici chiari alla propria popolazione, a Hamas, ai partner regionali e internazionali? Perché la “città umanitaria” non è solo un progetto edilizio, ma anche uno strumento di potere. Ha lo scopo di dimostrare che Israele, anche in condizioni di guerra, si assume la responsabilità umanitaria, ma alle sue condizioni. Il problema è che da Israele si levano voci che descrivono questa città umanitaria nella Striscia di Gaza come un campo di concentramento, come ha recentemente affermato l'ex primo ministro israeliano Ehud Olmert sui media stranieri. E qui lo dico chiaramente: lo fa solo per cieco odio verso il suo ex collega di partito Bibi. Lui, come gli altri critici in patria, sa molto bene da quale DNA sono fatti Israele e l'esercito. Il piano prevede che gli aiuti umanitari, in particolare quelli provenienti dagli Stati Uniti, vengano distribuiti solo dove Israele è presente militarmente. Ciò significa controllo, ed è proprio questo che non piace a Hamas. Il suo timore è che Israele stia sfruttando la tregua solo per riorganizzarsi tatticamente prima di riprendere la guerra. Hamas non ha quasi nessuna fiducia nelle garanzie degli Stati Uniti. La creazione di una zona umanitaria a Rafah potrebbe teoricamente ottenere molto: protezione dei civili, separazione dei fronti, simbolismo della responsabilità internazionale. Tuttavia, se l'attuazione, la strategia e il sostegno politico non sono sincronizzati, il progetto rischia di fallire prima ancora di iniziare. Un alto rappresentante del governo ha sintetizzato la situazione: “Quello che c'è oggi sul tavolo sembra più una scusa per non attuarlo affatto”. Ed è proprio questo che Netanyahu vuole evitare. La sera stessa, Netanyahu ha incaricato i vertici militari di presentare entro oggi una versione ridotta e realistica. Il caso della “città umanitaria” è un esempio lampante di come la pianificazione militare, la pressione politica e le rivendicazioni morali entrino in conflitto, soprattutto in conflitti asimmetrici come quello tra Israele e Hamas. La reazione di Netanyahu può sembrare dura, ma riflette una posizione strategica di fondo: chi vuole sopravvivere a lungo termine in questa regione deve pianificare più rapidamente dei propri avversari e comunicare in modo più chiaro dei propri critici. La Striscia di Gaza è sull'orlo del collasso e Israele sta cercando un modo per bilanciare le aspettative internazionali e gli interessi di sicurezza nazionale. Resta da vedere se una città fatta di tende e container sia la chiave. Il capo di Stato Maggiore israeliano Eyal Zamir ha sottolineato che la preparazione del terreno per la zona umanitaria prevista compromette la capacità dell'esercito di svolgere i suoi compiti principali nella Striscia di Gaza, in particolare la lotta contro Hamas e la liberazione degli ostaggi. Israele deve rimanere vigile, molto vigile, per non ritrovarsi nuovamente impantanato in una missione senza fine, come un tempo nel Libano meridionale, dove ha operato per 18 anni in una zona di sicurezza da sé creata, senza un chiaro piano strategico di uscita. Anche nella Striscia di Gaza c'è ora il rischio che una presenza temporanea si trasformi in un peso permanente. Quello che inizia come un obiettivo tattico – ad esempio la creazione di una zona umanitaria a Rafah – può rapidamente trasformarsi in un vicolo cieco politico: responsabilità quotidiana per centinaia di migliaia di civili, una guerra di logoramento senza fine contro le strutture terroristiche, critiche internazionali per ogni misura adottata e nessuna prospettiva chiara su come e quando l'operazione dovrà terminare. Le lezioni del passato invitano alla cautela: chi controlla una zona in nome della sicurezza senza un piano realistico per il giorno dopo rischia di rimanere bloccato in uno status quo estenuante. Per questo Israele non ha solo bisogno di coraggio per passare all'offensiva, ma anche di lungimiranza strategica e saggezza affinché la lotta contro Hamas non si trasformi in una trappola politica. Una cosa è certa: in questa guerra il tempo non è un lusso. Il tempo è parte integrante della guerra.
(Israel Heute, 14 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Un report rivela l’aumento dell’antisemitismo nel Regno Unito dopo il 7 ottobre 2023
di Nathan Greppi
Un recente rapporto redatto per conto del governo britannico ha messo in luce l’aumento dell’antisemitismo nel Regno Unito dopo il 7 ottobre, e in particolare nella classe media. Gli autori del rapporto, il consigliere del governo per l’antisemitismo John Mann e l’ex-segretario alla Penny Mordaunt, hanno dichiarato di essere rimasti allarmati dalle prove che hanno trovato. Interpellati in anteprima dal quotidiano The Telegraph, mentre la presentazione del loro rapporto avverrà ufficialmente martedì 15 luglio, hanno affermato che, nonostante la loro pluridecennale esperienza politica, sono rimasti sconvolti dalle prove raccolte, soprattutto tra i giovani della comunità ebraica. I due autori, che appartengono ad aree politiche diverse (Mann è un laburista, la Mordaunt una conservatrice), hanno aggiunto di essere rimasti allarmati dalla combinazione di più fattori: da un lato, l’impatto sul vissuto quotidiano delle persone, dall’altro lato la frequenza e la naturalezza con le quali ciò si sta verificando. In particolare, il Telegraphsottolinea che l’antisemitismo è diventato particolarmente pervasivo nella sanità pubblica, nelle università e nelle arti. Uno dei risultati chiave è che molti ebrei si sentono sempre più esclusi, soprattutto in ambito professionale e nella sfera pubblica, dove non si sentono rispettati e inclusi come in passato. Il loro rapporto prevede 10 raccomandazioni su come contrastare l’antisemitismo, incluso il riconoscimento più ampio del fatto che gli ebrei rappresentano un gruppo etnico protetto, come sono attualmente definiti dalla legge, e che la polizia dovrebbe essere coerente nell’affrontare i crimini d’odio antisemiti. Così come il fatto che, secondo loro, andrebbe istituita una qualifica di formazione sull’antisemitismo per i datori di lavoro. L’antisemitismo, hanno dichiarato, è una questione urgente non solo per la comunità ebraica, ma più in generale per tutto il Regno Unito. Hanno spiegato che, man mano che approfondivano la questione, ciò che li ha maggiormente preoccupati è stata la crescente normalizzazione di un impatto sempre più estremo sulla vita dei singoli individui, presi di mira unicamente in quanto ebrei. Il rapporto rileva che molti ebrei in Gran Bretagna vengono percepiti come responsabili delle politiche del governo israeliano, facendone dei bersagli durante le manifestazioni filopalestinesi. Il rapporto sottolinea anche l’incoerenza delle forze dell’ordine quando si tratta di crimini d’odio contro gli ebrei, in particolare durante le proteste. Si afferma che uno dei problemi centrali è il mancato riconoscimento dell’antisemitismo come di una forma di razzismo, che porta a risposte prive di sufficiente fermezza. Secondo le statistiche, nel 2024 risultavano essere circa 292.000 gli ebrei che vivevano nel Regno Unito, facendone il quinto paese al mondo con la maggiore popolazione ebraica (dopo Israele, Stati Uniti, Francia e Canada). Di questi, la quasi totalità vive in Inghilterra, e in particolare nelle grandi città come Londra e Manchester.
Nel fine settimana Wimbledon ha sorriso per la prima volta all’Italia con la storica vittoria di Jannik Sinner nel singolare maschile. Ma prima dell’incoronazione del tennista italiano a re del torneo, il leggendario campo in erba ha regalato anche a Israele una gioia: la vittoria in doppio del tennista paralimpico Guy Sasson.
Sasson, insieme al compagno olandese Niels Vink, ha conquistato il titolo nella categoria quad di doppio in carrozzina, dominando in finale contro Gregory Slade (Regno Unito) e Donald Ramphadi (Sudafrica) con un netto 6-0, 6-2. Per i due, già vincitori del Roland Garros, si tratta del secondo Slam consecutivo, a conferma di una stagione di altissimo livello. «Solo entrare a Wimbledon, vedere la storia, i nomi sulle pareti, sapere d’ora in avanti ci sarà anche il mio nome, è una sensazione incredibile», ha affermato Sasson dopo la vittoria. «Un successo rappresenta raggiungere la vetta della montagna». Sul campo, davanti al pubblico e in diretta sulla BBC, il tennista israeliano ha concluso il suo discorso con una citazione in ebraico dalla Torah: «Il popolo si alza come un leone», seguita da un sentito «Am Yisrael Chai». Citazione presente nel brano della Bibbia letto questa settimana nelle sinagoghe di tutto il mondo, usata come titolo della recente operazione israeliana contro l’Iran.
Per Sasson, 45 anni, la vittoria a Wimbledon è una tappa importante di una carriera cominciata sette anni fa. Nato a Ramat Gan, appassionato di tennis fin da giovane, nel 2015 un incidente con lo snowboard in Francia lo ha lasciato paralizzato dalle ginocchia in giù. Dopo un anno di riabilitazione intensiva, Sasson è riuscito a camminare con l’aiuto di tutori e bastoni. Nel mentre ha ripreso a coltivare la sua passione per il tennis e nel 2019 ha vinto il campionato israeliano in carrozzina. Da allora la sua affermazione sportiva è stata rapidissima: è diventato uno dei migliori al mondo nella categoria quad, conquistando i titoli di singolare all’Open di Francia nel 2024 e nel 2025, e una medaglia di bronzo alle Paralimpiadi di Parigi del 2024. In quell’occasione, dedicò la vittoria a Israele e ai quattro ostaggi liberati da Gaza proprio quel giorno.
Sasson si allena con l’allenatore belga Damien Martinquet e ammette che, vista la differenza d’età con molti dei suoi avversari, spesso poco più che ventenni, è necessaria una disciplina rigorosa. «Quando non ho voglia di andare in palestra, mi ricordo che Niels e Sam sono sicuramente già lì», ha scherzato in un’intervista con il Jerusalem Post. Sam è Sam Schröder, olandese, numero due del mondo, che proprio a Wimbledon, nel torneo singolare, ha eliminato Sasson a quarti di finale per poi conquistare il titolo.
Dopo Wimbledon, l’obiettivo è lo US Open a fine agosto, dove il tennista israeliano spera di proseguire la striscia positiva. Ma prima, «come ogni volta che vinco», ha spiegato Sasson al Jerusalem Post, «festeggerò in uno dei ristoranti dello chef israeliano Assaf Granit. È diventata una tradizione: Parigi, Londra, ovunque mi trovi». Sul suo successo a Londra ha poi concluso: «Questa vittoria non è solo mia. È per tutti quelli che lottano, che si rialzano, che credono».
Dopo la Shoah, tornare a dire certe cose sulla malvagità degli ebrei («il cattivo sangue», per usare un’amara espressione di Bergoglio) e del loro Dio, sembrava impossibile. Hitler, come notava giustamente Bernanos, aveva «disonorato» l’antisemitismo. Ma questo disonore è durato veramente poco, l’espace d’un matin, direbbero i francesi. Dall’inizio della reazione israeliana all’eccidio del 7 ottobre, quello che Francesca Albanese considera un «atto di resistenza», gli ultimi argini sono crollati e con essi anche gli ultimi pudori: l’antisemitismo è tornato a essere moneta corrente, sebbene nelle vesti della rispettabilità «antirazzista» e «umanitaria». Il recente articolo del teologo Vito Mancuso, intitolato I due volti del fanatismo religioso. Nazi-sionisti e nazi-islamisti, è un esempio lampante di quella che Taguieff chiama «giudeomisia», ossia l’odio al calor bianco per gli ebrei in nome di valori presuntivamente «umanistici» e aspirazioni «universaliste». Nel caso di Mancuso, la giudeomisia si innesta sulla sua deplorevole lettura marcionita dell’ebraismo. Ma il più televisivo dei teologici non è una sprovveduto, sa bene di muoversi su un terreno sdrucciolevole, dunque, a differenza di Marcione, non condanna l’ebraismo tout court, ma solo quello che lui chiama il suo «lato oscuro»: l’israelismo, ovvero l’elemento nazionale insito nella religione ebraica. Esisterebbero, dunque, un «ebraismo cattivo», nazionale e identitario, e un «ebraismo buono» perché universale e assolutamente «spirituale» − come questa spiritualità possa essere dissociata dalla storia particolare del popolo ebraico, ovviamente, non viene detto, probabilmente non lo sa nemmeno Mancuso − proprio come esistono degli ebrei «buoni», quelli antisionisti, mercuriani, che non hanno esercitato il loro diritto al ritorno, e degli ebrei «cattivi», i sionisti, che hanno eretto uno Stato nella loro terra d’origine − rivendicare una «terra» e avere una «origine» sono, per Mancuso, due colpe capitali. Nel suo articolo risuona l’eco della condanna che Paolo di Tarso pronunciò contro l’ebreo «secondo la carne», chiuso nel suo particolarismo e nel suo egoismo nazionale, infatuato di se stesso e sordo a ogni richiamo di umana fratellanza. Un discorso che si inscrive alla perfezione nell’attuale «decostruzione» penitenziale dello Stato-nazione, come di ogni identità e tradizione. E fin qui, non ci sarebbe nulla di diverso dalle consuete dabbenaggini che si leggono su La Stampa e altrove, se non fosse che Mancuso si spinge più in là. Per lui, infatti, l’israelismo − ossia l’ebraismo, dato che la distinzione operata dal teologo è decisamente fallace − è la matrice di ogni genocidio, di ogni «pulizia etnica», nonché degli sterminatori per antonomasia: i nazisti, come ci dimostra l’uso del termine «nazi-sionisti». Fondata su una lettura destoricizzata della Bibbia ebraica, in particolare del Deuteronomio nell’articolo in questione, questa «ebraizzazione» del nazismo, procede di pari passo con la «nazificazione» di Israele. Al tempo della Seconda Intifada, intellettuali come Sepúlveda, Breytenbach, Saramago, hanno condannato il «razzista» e «violento» monoteismo ebraico. Secondo questi scrittori, a cui dobbiamo ora aggiungere il teologo Mancuso, le presunte politiche «genocidarie» di Israele sono riconducibili allo stesso ebraismo, che altro non sarebbe che il nazismo dell’antichità. Se «Morte all’ebreo», per ora, rimane ancora uno slogan ritenuto deplorevole, su «morte ai nazi-sionisti con la kippah» si è pronti a discutere, tanti lo ritengo già accettabile, ovviamente per il Bene dell’umanità. L’odio per l’ebreo parla la lingua della filantropia. Il lupo si traveste da agnello per entrare nel gregge. La benevola teologia di Mancuso ci conduce, con la coscienza pulita, all’israelicidio.
(L'informale, 13 luglio 2025) ____________________
L’autore parla della “condanna che Paolo di Tarso pronunciò contro l’ebreo «secondo la carne», chiuso nel suo particolarismo e nel suo egoismo nazionale, infatuato di se stesso e sordo a ogni richiamo di umana fratellanza”. Si rende conto Davide Cavaliere della quantità di sciocchezze che riesce dire in poche parole? “Particolarismo”, “egoismo nazionale”, “infatuato di se stesso”, questa è pura ignoranza. Si spera che nel suo ambiente qualcuno glielo faccia notare. Non è con l’ignoranza arrogante che si difende Israele. M.C.
La settimana di Israele – La visita di Netanyahu a Washington
di Ugo Voll
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Un viaggio di lavoro utile
Il senso generale del viaggio a Washington di Bibi Netanyahu, che è durato quasi tutta la settimana scorsa con numerosi incontri con i maggiori dirigenti americani e ben due colloqui riservati con Trump, è evidente: il coordinamento con gli Usa è fondamentale per lo stato ebraico ed è anche da sempre uno degli impegni personali del primo ministro. Netanyahu è particolarmente competente in questi rapporti, essendo il politico israeliano che conosce meglio gli Usa: ha vissuto in America per una dozzina di anni, prima da ragazzo, poi studiando al MIT e poi ottenendo il dottorato a Harvard, facendo infine il rappresentante di Israele all’Onu nel periodo fra la sua brillante carriera militare e l’inizio della vita politica. Da primo ministro l’ha visitata decine di volte, parlando spesso al Congresso e incontrando tutti i protagonisti politici ed economici. La sua conoscenza dei meccanismi politici e dei protagonisti della vita pubblica di Washington gli ha permesso di esercitarvi da sempre un’influenza unica, sia durante le presidenze amiche come questa, sia quando l’amministrazione non aveva nessuna simpatia per Israele, come durante l’epoca di Obama. Questo viaggio, tenuto appositamente un po’ nascosto ai media, gli è servito non solo ad incontrare il presidente, ma anche a sondare e cercare di influenzare rappresentanti dell’amministrazione e del Congresso.
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Le ragioni del viaggio
Ma perché il leader di una nazione in guerra, che deve gestire una maggioranza di governo traballante, l’ostilità del sistema giudiziario e a quanto pare anche il dissenso dello stato maggiore delle forze armate sulla gestione della guerra a Gaza, decide di dover restare all’estero tanto a lungo, senza che emergano decisioni nuove? Certamente i colloqui si sono incentrati su tre temi: l’Iran, per precedere la possibilità ammessa da Trump che Israele (ma non l’America) possa riprendere i bombardamenti se interverranno indizi di lavori per recuperare il progetto nucleare; la via per realizzare un nuovo Medio Oriente in pace con Israele e aperto al progresso economico e sociale; gli sviluppi della campagna di Gaza. Su questo punto probabilmente c’è stata la maggior necessità di discutere per coordinare la posizioni ed eliminare malintesi.
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È possibile il negoziato?
Trump vuole la fine della guerra di Gaza e la liberazione degli ostaggi, l’ha detto molte volte e ha spesso annunciato il progresso delle trattative con Hamas. Netanyahu è molto meno ottimista, anche se accetta l’idea di un cessate il fuoco per riavere almeno alcuni dei rapiti. Ma, probabilmente, è convinto che Hamas non li libererà tutti se non in cambio della sua sopravvivenza come forza armata e dominante a Gaza, in futuro anche nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese, dove ha il consenso della maggioranza degli arabi e Muhamed Abbas è troppo vecchio e malato per poter tenere a lungo il potere.
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Le difficoltà di una presa completa di Gaza
La soluzione più ovvia per Israele sarebbe occupare tutta la Striscia e distruggere quel che resta dell’organizzazione e dell’infrastruttura terroristica, dopo aver già eliminato quasi tutti i suoi capi, moltissimi uomini e mezzi. Ma ci sono tre ostacoli. Il primo è ben noto, la protezione che tutta la sinistra occidentale, buona parte dei governi e dei media europei e conseguentemente l’opinione pubblica hanno accordato ai terroristi di Gaza, sotto ipocriti pretesti umanitari. La seconda, in genere meno considerata, è il fatto che Hamas, per ragioni ideologiche ma anche pratiche (il suo dominio sugli aiuti alimentari, che le organizzazioni internazionali continuano in sostanza a delegargli), conserva un forte controllo della popolazione ed è in grado di mobilitare se non quadri di alto livello tecnico, almeno numerosi attentatori come quelli che hanno inferto gravi danni nelle ultime settimane alle truppe israeliane, in un inatteso soprassalto di aggressività. La terza, emersa di recente, è la resistenza dello stato maggiore delle forze armate, anche sotto la nuova direzione di Zamir, e a entrare finalmente nelle zone più pesantemente presidiate da Hamas nel centro di Gaza e a occuparle, con la motivazione che in questa maniera si metterebbe a rischio la vita dei rapiti e si costringerebbe l’esercito ad amministrare la vita di due milioni di arabi, mettendolo in pericolo e danneggiando le sue capacità di combattimento.
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La possibilità dei negoziati
Netanyahu potrebbe dunque dover tentare di ottenere con la trattativa quei risultati che è difficile ottenere oggi con un’occupazione militare. Nessuno può dire che questo sia il suo piano, o se invece la trattativa sia solo una diversione tattica per convincere Trump (e Zamir) che l’occupazione di Gaza è inevitabile. È probabile che si tenga aperte le due strade. Anche perché il negoziato può funzionare, come si è visto in Libano quando un cessate il fuoco, da molti percepito come un’imposizione americana che impediva di “portare fino in fondo la guerra”, ha prodotto il primo governo da decenni che sta cercando di disarmare Hamas e osa parlare di pace con Israele. Nel quadro rientra anche il fatto che i partiti di destra del governo non vogliono sentir parlare di trattative e minacciano dimissioni (come peraltro anche gli charedim che non riescono a ottenere la legge sulla leva che esenti i loro studenti). La maggioranza insomma è a rischio. Ma il sistema politico israeliano non ammette la caduta del governo senza un passaggio in Parlamento e da fine mese fino a tutto ottobre le sessioni sono sospese. Dunque Netanyahu deve temporeggiare un paio di settimane per condurre quest’estate nella pienezza dei poteri del governo di guerra l’azione diplomatica o militare che riterrà opportuna e che probabilmente ha concordato con Trump. A quanto pare, ha proposto nel negoziato una mappa circolata sui media in cui durante il cessate il fuoco continuerà la presenza dell’esercito israeliano per la profondità di un paio di chilometri su tutti i bordi di Gaza e soprattutto al Sud, dove in uno spazio sicuro senza presenza terrorista Israele vuole continuare la fondamentale gestione degli aiuti alimentari attraverso la fondazione americana saltando la mediazione di Hamas, che procura fondi e potere ai terroristi. La proposta come prevedibile è stata rifiutata anche per questa ragione, ma probabilmente era solo un ballon d’essai.
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Una nuova struttura tribale?
Fra i vari dati strategici ve ne sono diversi positivi. Il primo è che l’azione segreta continua a colpire i vertici politici, militari e scientifici (cioè atomici) dell’Iran, dove per il momento non vi sono segni di recupero dei materiali nucleari danneggiati nei bombardamenti. La seconda è che non solo tiene duro contro le intimidazioni di Hamas il gruppo armato tribale che si è costituito intorno ai centri di distribuzione americana di aiuti, ma vi è stata un’importante dichiarazione di numerosi capi tribali di Hebron in cui si proponeva a Israele la costituzione in quella città di un emirato indipendente dall’Autorità Palestinese, aderente agli accordi di Abramo e in pace con Israele. Se la riemersione della struttura tribale profondamente iscritta nella cultura araba riuscisse a spezzare i meccanismi tradizionali di rivendicazione di uno “stato di Palestina”, i giochi politici della regione cambierebbero profondamente e ci potrebbe profilarsi davvero una nuova via per la pace.
La parola profetica della Bibbia è una luce sicura che offre orientamento in un mondo sempre più oscuro e confuso.Per questo è necessario studiare il piano di Dio e la profezia biblica, affinché possiamo attraversare con fiducia e sicurezza la notte presente. - Un'esposizione e un incoraggiamento.
di Philipp Ottenburg
Qualche anno fa, nell'ambito della mia formazione alla scuola biblica, dovevo svolgere uno stage in una casa per ritiri in Svizzera. Arrivato nel tardo pomeriggio, scesi dal treno e incontrai il responsabile dello stage, con cui mi recai alla struttura. Il complesso era piuttosto grande, composto da più edifici collegati tra loro da passaggi sotterranei. Il responsabile mi mostrò le varie strutture, conducendomi attraverso cunicoli e corridoi fino ai diversi locali. Davanti a una stanza, mi disse che lì, la mattina seguente, si sarebbe tenuta la colazione alle 7:00.
Non arrivai mai a quella colazione. Il mattino seguente vagai senza orientamento nei bui corridoi sotterranei dell'edificio. Tutto appariva uguale, ed era difficile trovare la strada. Spinto qua e là, mi chiedevo: sarà questa la direzione giusta, oppure quell'altra?
Questa immagine della mia disorientante esperienza nella struttura in cui ero ospite è un'ottima introduzione al nostro tema. Quante volte, anche riguardo alla fine dei tempi, ci troviamo smarriti e bisognosi di una luce che ci guidi?
• Luce nelle tenebre
Cos'è questa luce? Un passo ben noto ci dà la risposta:
«Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori» (2 Pietro 1,19).
La luce nelle tenebre ha un nome: la parola profetica.
Questa luce della profezia biblica è assolutamente certa, immutabile e sicura. L'apostolo Pietro la definisce «totalmente sicura».
Dove, sulla terra, esiste una certezza assoluta? Le certezze che avevamo svaniscono. Ciò che consideravamo scontato, molte cose che ritenevamo inamovibili e normali, oggi non lo sono più. Questo può turbare sia voi che me! Ma cosa rimane di assolutamente certo in questo mondo? La parola profetica.
Viviamo in un'epoca di confusione; colui che porta disordine è all'opera. È un tempo che si fa sempre più oscuro. Un'epoca di corridoi sotterranei. Non sappiamo quale sia la giusta direzione ... Ci sentiamo stressati, inquieti davanti all'incertezza di ciò che ancora deve accadere. Senza energia, svogliati, forse anche nel nostro cammino spirituale e nello studio della Bibbia. I media, in particolare, diffondono spesso panico, le persone sono in preda alla paura ...
Ci lasciamo trascinare interiormente? Siamo forse in una crisi spirituale? Così è difficile resistere fino al rapimento, vivendo nel timore e nell'ansia.
Sorge allora una domanda: come possiamo resistere e rimanere saldi?
Cosa possiamo fare per non perdere il coraggio? Davanti a questi turbamenti interiori, a queste crisi spirituali e momenti di sconforto che tutti possiamo attraversare, la parola profetica rimane incontrovertibilmente sicura. Ma perché?
Meraviglioso e glorioso è lo sguardo rivolto all'Autore, a Dio stesso. Egli è sopra ogni cosa, e lo dimostra:
«Io annuncio la fine sin dal principio, molto tempo prima dico le cose non ancora avvenute; io dico: Il mio piano sussisterà, e metterò a effetto tutta la mia volontà» (Isaia 46,10).
Dio vede Adamo e il ritorno di Gesù in un solo sguardo. Non c'è consigliere o rivelatore migliore di Dio stesso. Nessuno può paragonarsi a Lui. Questa verità diventa particolarmente evidente nel libro dell'Apocalisse:
«Poi il settimo angelo versò la sua coppa nell'aria; e dal tempio uscì una gran voce proveniente dal trono, che diceva: È Compiuto» (Apocalisse 16,17).
Il piano di Dio si realizza con la settima coppa d'ira, quando viene versata, e sfocia nella gloriosa seconda venuta del Figlio. Interessante è l'espressione «È compiuto ... »
È compiuto, sì, ma si trova ancora nel futuro. Tuttavia, per Dio è già una realtà. Tale è la certezza che Egli realizzerà la Sua parola, al punto che tutto ciò che è ancora futuro può essere espresso al passato. Perché? Perché Dio vede l'inizio e la fine in un solo sguardo. Egli vede già l'adempimento di ogni cosa. Per Dio, tutto ciò che è stato profetizzato è già realtà oggi.
Il libro dell'Apocalisse è particolarmente significativo.
Dio avrebbe potuto trasmettere a Giovanni gli eventi futuri come semplice testo scritto o parlato. Ma no, Dio gli mostrò la realtà futura in modo così vivido che egli non solo la vide, ma la visse in prima persona. Non è stato solo fissato il testo, ma anche i movimenti, le azioni, le esperienze vissute: tutto è già stabilito. Tale è la sicurezza dell'adempimento della parola profetica. Ogni gesto è preciso.
Giovanni aveva una partecipazione con i suoi fratelli, come è scritto nel primo capitolo. Potremmo dire: era già presente nel futuro. Non semplicemente spettatore, ma immerso in esso. Esiste una prova maggiore della certezza della parola profetica, di quella che Dio stesso ci offre?
Oppure pensiamo al Monte della Trasfigurazione. Pietro, dopo ciò che ha visto con i suoi occhi, può scrivere: «È certo!». Vide con i propri occhi Elia, Mosè e Gesù avvolto di luce sfolgorante.
Non possiamo rendere le parole divine più solide di quanto già siano. Ma Dio conferma ciò che dice a modo Suo. E questo Dio ci ha donato la luce della parola profetica affinché possiamo comprendere. Per Lui, tutto ciò che deve ancora avvenire è già realtà.
La parola profetica è incontrovertibilmente sicura! Nella Sua parola, Egli mostra come porterà ogni cosa al Suo compimento.
• Prestare attenzione alla parola profetica
Pietro dice riguardo alla parola profetica: «Fate bene a prestarle attenzione». La certezza dona pace. Dio ha tutto nelle Sue mani. Perciò ci chiediamo: Studiamo veramente la parola profetica? Leggiamo la Bibbia anche nella prospettiva della storia della salvezza? Prestiamo attenzione a come Dio agisce con Israele, con le nazioni e con la Chiesa, il corpo del nostro Signore Gesù? Oppure leggiamo la Bibbia solo in modo personale e riferito esclusivamente a noi stessi?
Se così fosse, allora, per usare un'immagine data dalla mia esperienza pratica, raccontata all'inizio di questo articolo, non arriveremo mai a fare colazione. Questo ci disorienta, porta paura, sbalzi emotivi. Applicare gli insegnamenti della Bibbia solo in senso pratico ha conseguenze negative. Certo, anche questo aspetto è importante, ma la Parola di Dio è la guida attraverso l'intera storia del mondo e dell'umanità, con Gesù Cristo come glorioso centro. Anche oggi, essa è il compasso di Dio per noi!
La Bibbia è il piano della salvezza di Dio, il progetto di Colui che tutto vede, che è l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine. E ce lo ha donato. Perché? Affinché conosciamo, affinché perseveriamo, affinché non siamo sballottati da ogni vento! Prestare attenzione significa esaminarla con impegno e dedizione.
Paolo dice a Timoteo:
«Sforzati di presentare te stesso davanti a Dio come un uomo approvato, un operaio che non abbia di che vergognarsi, che tagli rettamente la parola della verità» (2 Timoteo 2,15).
Dobbiamo impegnarci con zelo per presentarci davanti a Dio come persone mature e salde. Esaminiamo la Sua parola per crescere nella conoscenza e diventare uomini e donne di Dio fermi nella fede, anche in questo tempo. Tagliamo rettamente la parola. Ciò significa distinguere a chi appartiene ogni Scrittura: a Israele, alla Chiesa, alla tribolazione, alla seconda venuta di Gesù, al rapimento. Chiediamoci cosa significhi ogni cosa. Questo porta chiarezza.
E con tutto il caos mediatico che ci circonda ... fino a quando avremo bisogno di questa luce della profezia biblica?
• Fino a quando il giorno sorgerà
Abbiamo bisogno della luce finché verrà il chiarore. Come dice Pietro:
«Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori» (2 Pietro 1,19).
Cosa significa qui la parola «giorno»? Il giorno ritorna sempre, vero? «Il giorno» significa la seconda venuta del nostro Signore e il Suo regno sulla terra, il regno messianico. Fino al ritorno di Gesù dobbiamo aggrapparci alla parola profetica, totalmente sicura, e allora il giorno sorgerà. Ma, logicamente, se oggi abbiamo bisogno della luce, cosa significa? Significa notte, notte oscura, come vediamo nel libro dell'Apocalisse riguardo alla fine dei tempi. Quando Cristo nacque, per un breve momento si fece luce. Il sole brillò per un attimo sopra Israele. Una luce splendente apparve. Ma da quando Cristo è asceso al cielo, è nuovamente notte per Israele e per il mondo delle nazioni.
Cristo ritorna come la stella del mattino. Al mattino vi è la prima luce che sorge, quando ancora tutto è avvolto nell'oscurità. Per questo Paolo dice che noi, come corpo di Cristo, siamo «figli del giorno» (1 Tessalonicesi 5,5). Noi, come Chiesa, non apparteniamo a questa notte.
Pietro chiama la parola profetica «luce in un luogo oscuro», un faro che ci guida fino al ritorno del Signore. Prestare attenzione alla parola profetica significa avere orientamento. Anche se il mondo va sottosopra, noi abbiamo una direzione.
Nella grande notte, i pastori trovarono la via e giunsero a Gesù. Furono guidati dalla luce, dalla stella di Betlemme. Rimasero concentrati, tennero lo sguardo fisso sulla luce e giunsero alla meta.
Lo stesso vale per noi. La luce della parola profetica conduce sempre a Cristo.
I pastori trovarono Cristo. E per noi, come Chiesa, come corpo di Cristo, lo sguardo è rivolto al prossimo evento: il rapimento.
Paolo dice: «Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole!» (1 Tessalonicesi 4,18).
Allora saremo sempre con Cristo! Vegliamo sulla luce della profezia biblica.
• Notte nella storia della salvezza
Molte persone hanno paura del buio, soprattutto i bambini. Anche i nostri figli hanno ancora bisogno di una piccola luce per addormentarsi. A volte mi stupisco di quanto rapidamente inizino a piangere non appena spengo la luce, anche se in quel momento dormono profondamente e hanno gli occhi chiusi.
Essere nel buio è scomodo, a volte persino pericoloso.
Ladri e malintenzionati preferiscono agire nell'oscurità. Nell'oscurità non sai cosa ti aspetta: potresti cadere in una buca, urtare contro qualcosa, o persino trovare qualcuno nascosto pronto ad attaccarti. Ma quando la strada è illuminata, tutto cambia. Ci sentiamo al sicuro e sereni.
E una luce del genere ci viene data dalla Parola di Dio, anche nei corridoi bui della nostra vita.
La luce della profezia biblica illumina questi passaggi sotterranei. Rivela chiaramente tutto il male che deve ancora accadere. E sì, intendiamo consapevolmente dire «deve accadere» o «deve necessariamente avvenire». Ma andiamo con ordine. Ci sono diversi ambiti in cui riceviamo luce.
• Le parabole del Regno dei Cieli
Ai tempi di Gesù, quando nacque, visse e percorse il Suo cammino di sofferenza, solo pochi in Israele si ravvidero. Solo una minoranza cambiò mentalità di fronte al Regno che si era avvicinato. I farisei e gli scribi arrivarono persino ad accusare Gesù di compiere miracoli nel nome di Beelzebù. Eppure, segni e prodigi erano direttamente collegati al Regno, e i Giudei sapevano bene che solo il Messia poteva compiere tali opere.
Per tutto l'Antico Testamento, il Regno messianico con Israele era il grande obiettivo di Dio. Questo non cambiò con l'arrivo dei Vangeli.
Dopo 400 anni di silenzio divino, Zaccaria ricevette il primo messaggio rivolto a Israele. Il suo nome significa «Dio si è ricordato», mentre il nome di sua moglie Elisabetta significa «giuramento di Dio». Dio si ricordò del Suo giuramento con Israele.
I Vangeli si collegano perfettamente all'Antico Testamento. Anche in passato solo delle minoranze si erano pentite.
Per questo motivo, Gesù iniziò a parlare in parabole come espressione del giudizio. Ma su cosa parlava esattamente? Qual era il punto centrale?
Il tema principale era Israele, non la Chiesa. Quest'ultima sarebbe nata solo più tardi.
Gesù fu crocifisso come Re dei Giudei. In questo contesto, il Regno dei Cieli - il Regno messianico con Israele - era atteso.
Molti interpretano le parabole del Regno nei Vangeli, specialmente in Matteo 13, in senso positivo. Vengono spesso spiegate come se il Regno si sviluppasse in modo graduale e progressivo.
Ma è davvero questa l'interpretazione corretta?
Il fatto che il Regno dovesse venire era già noto ai profeti. Era una realtà ben conosciuta da tempo. Ezechiele ne parla in modo straordinario. L'Antico Testamento già affermava chiaramente che il Regno messianico sarebbe giunto.
Dov'era allora il mistero? Perché Gesù avrebbe dovuto parlare in parabole di qualcosa che era già noto?
Piuttosto, nelle parabole Gesù rivela sette misteri riguardanti il Regno per il tempo in cui Israele sarebbe stato accecato. Esse mostrano lo sviluppo della notte della storia della salvezza vista da Israele, perché è da lì che un giorno sorgerà l'alba.
Quando il nostro Signore, la luce, fu crocifisso, la notte ricominciò a calare.
La notte iniziò quando Egli ascese al cielo. I credenti giudei pensavano che il Regno sarebbe venuto subito (Atti 1,6).
Esaminiamo alcuni esempi che dimostrano come le parabole non abbiano un significato positivo:
1. La parabola del lievito: «Il regno dei cieli è simile al lievito che una donna prende e nasconde in tre misure di farina, finché la pasta sia tutta lievitata». (Matteo 13,33). Questa non è una cosa positiva. Nella Bibbia il lievito rappresenta sempre il male, la falsa dottrina, l'impurità che si insinua.
Paolo ci ricorda: «Il vostro vanto non è buono. Non sapete che un po' di lievito fa lievitare tutta la pasta?» (1 Corinzi 5,6).
Non c'è motivo per cui dovremmo interpretare il lievito in modo positivo proprio in questa parabola. Un principio fondamentale dell'interpretazione biblica è che la Bibbia spiega la Bibbia. Qui il lievito rappresenta una forza negativa, che crescerà fino alla fine e che renderà il Regno anticristico allettante per le persone. Solo allora Cristo verrà a stabilire il vero Regno dei Cieli.
2. La parabola del granello di senape: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. 32 Esso è sì il più piccolo di tutti i semi, ma, quando è cresciuto, è maggiore degli ortaggi e diventa albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami” (Matteo 13,31). Essa mostra la rapida espansione del Regno anticristico. Il seme di senape non cresce mai tanto quanto descritto nella parabola. Una crescita anormale è negativa.
Il parallelo perfetto lo troviamo in Daniele 4, dove si parla dell'albero di Nabucodonosor. Qui si tratta dell'albero anticristico, che vuole prendere il posto di Dio nel provvedere alle persone. Un'altra particolarità della senape è che cresce molto rapidamente e diventa presto matura per la mietitura.
Inoltre, non si deve mai piantare la senape accanto alle piante di cavolo: la senape è portatrice di una malattia chiamata "ernia del cavolo". Anche questa parabola indica una degenerazione.
3. La parabola del grano e della zizzania «Il Regno dei Cieli è simile a un uomo che seminò buon seme nel suo campo. Ma mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò ... » (Matteo 13,24-30). Questa parabola mostra l'attuale periodo della storia, lo sviluppo del tempo, la messa da parte di Israele fino al raccolto finale.
Notiamo che il Regno è paragonato sia a chi semina il buon seme, sia a chi semina la zizzania.
Entrambi fanno parte di questo quadro. Anche il nemico semina.
Le parabole mostrano lo sviluppo del Regno e la parte negativa, che fino a quel momento era sconosciuta.
Ecco perché la parola profetica ci dà luce sulla notte della storia della salvezza. E in questa luce, vediamo come il male continua a crescere.
• Il Tempo della Notte
La notte ebbe inizio quando Gesù ascese visibilmente al cielo dal Monte degli Ulivi. Questa notte finirà solo quando Egli tornerà visibilmente sullo stesso monte (Apocalisse 19).
Chi si trova in questa notte? L'intero mondo delle nazioni, incluso il popolo di Israele. È il tempo in cui Israele è stato messo da parte, mentre la zizzania continua a crescere-ancora oggi.
È l'epoca in cui viviamo, quella che chiamiamo "tempo della grazia", perché Dio sta radunando un corpo per Suo Figlio (Efesini 1,23).
Ma questa notte della storia della salvezza è anche un tempo in cui il male matura. La zizzania deve crescere. E proprio la luce della parola profetica ci mostra questo processo. Così possiamo orientarci nell'oscurità! Come si manifesta questa notte? La viviamo tutti i giorni. La nostra epoca diventa sempre più oscura. Questa è una realtà. Le persone e i governi agiscono sempre più come strumenti delle forze delle tenebre. Vediamo crescenti ingiustizie, azioni malvagie, divisioni tra le persone.
Ma noi, che conosciamo la Parola di Dio e possediamo la luce sicura della profezia, sappiamo che nulla di tutto ciò è una sorpresa. Possiamo essere persone consapevoli.
Cosa dice la Bibbia su questa epoca?
La Bibbia è molto chiara: Il dio di questo mondo è il diavolo.
Egli governa l'umanità in questo tempo (2 Corinzi 4,4; Galati 1,4). L'attuale epoca è chiamata "secolo malvagio". La caratteristica di questa era è l'oscurità. Lo conferma la luce della profezia biblica:
«Ecco, le tenebre coprono la terra, e una fitta oscurità avvolge i popoli» (Isaia 65,2).
In Efesini 6,12 sono elencate le potenze spirituali delle tenebre, in azione dietro il mondo. Daniele 10 ci mostra la stessa realtà. E in Romani 13,12 leggiamo che la notte è avanzata. Cosa possiamo aspettarci dal mondo? Dai governi? Dalle persone? La Bibbia è chiara. Oggi è un tempo di inganno. Le persone vengono sviate. Vediamo ovunque-sia in ambienti cristiani che religiosi o persino atei-come il mondo sia dominato dall'egoismo, dalla menzogna, dall'amore per il denaro, dalla ricerca del piacere, dall'orgoglio, dall'indifferenza, dall'ambizione egoistica e dalla falsa giustizia.
Le dinamiche politiche ed economiche delle nazioni mostrano quanto la Parola di Dio descriva esattamente la via del peccato dell'umanità. Ma possiamo avere orientamento in questa notte. Possiamo dirlo anche così: Conosciamo i passaggi sotterranei e oscuri in cui ci troviamo. E questo privilegio lo dobbiamo alla luce della Parola di Dio.
Dove agisce per primo Satana?
La Bibbia ci mostra che Satana mira prima di tutto alla mente delle persone:
«Anche voi, voi che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, ai quali un tempo vi abbandonaste seguendo l'andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell'aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli» (Efesini 2,1-2).
Lo spirito di Satana agisce nei figli della disubbidienza.
Se volessimo influenzare la mentalità delle persone, su chi ci concentreremmo? Sui leader influenti:
Politici
Insegnanti
Scienziati
Ed è esattamente ciò che fa Satana. La Bibbia ci offre un chiaro esempio nella storia di Israele. Quando il re e i capi del popolo erano corrotti e senza Dio, l'intero popolo precipitava sempre più nella decadenza morale e nell'apostasia.
Oggi sta accadendo esattamente la stessa cosa. Paolo ci dice che l'iniquità è sempre stata all'opera. Ma prima che venga rivelato l'uomo del peccato, l'Anticristo, essa aumenterà in modo sottile e progressivo. Più ci avviciniamo alla fine di questo tempo malvagio, più chiaramente lo vediamo. Ma non dobbiamo sorprenderci. Come corpo di Cristo, non dobbiamo farci travolgere dall'agitazione. Dobbiamo perseverare! Non siamo chiamati a fermare l'iniquità. Perché dovremmo combatterla? E cosa pensiamo di ottenere?
La nostra chiamata non è fermare quello che Dio ha già stabilito. Egli vede l'inizio e la fine. Potrebbe fermare ogni cosa con un semplice gesto. Ma non lo fa. Perché?
Perché la zizzania deve crescere. Spesso combattiamo perché non conosciamo le Scritture. Se non leggiamo la Bibbia, andiamo incontro a grandi difficoltà. Ma quando studiamo la profezia biblica, comprendiamo che tutto deve accadere così. E questo ci incoraggia.
Anche se le cose peggiorano, il mondo sta solo seguendo il percorso che Dio ha predetto.
Questo ci dà orientamento. Possiamo rimanere in pace, perché vediamo che è Dio a guidare la storia della salvezza.
Più spazio ha Dio nella tua vita, meno spazio ha la paura. Come abbiamo detto: la crescita della zizzania fa parte del piano di Dio. Dobbiamo ricordarlo costantemente, in modo che la realtà del mondo non ci scoraggi. Tutto questo deve accadere.
Le forze delle tenebre un giorno inganneranno tutte le nazioni, spingendole a combattere contro Dio, Suo Figlio e Israele. Ma la parola profetica è sicura. Invece di agitarci, dobbiamo rallegrarci. Perché? Perché possiamo vedere che la Bibbia è vera! E così rimaniamo saldi.
Cristo è il nostro esempio. Nel Getsemani, Egli si sottomise completamente alla volontà di Dio.
L'azione più malvagia degli uomini-la crocifissione era parte del piano divino. E Cristo disse: «Sia fatta la Tua volontà.»
Anche noi diciamo sì al piano di Dio. Gesù lo aveva detto ai Suoi discepoli: «Ecco, vi ho predetto ogni cosa.» (Marco 13,23)
• La mietitura
La zizzania deve crescere fino alla maturazione nella tribolazione, fino a un punto stabilito.
Ma quando inizia la mietitura? Non solo al momento della seconda venuta, anche se essa rappresenta il culmine del processo. Troviamo la mietitura in Apocalisse 14,14-16:
«Poi guardai e vidi una nube bianca; e sulla nube stava seduto uno, simile a un figlio d'uomo, che aveva sul capo una corona d'oro e in mano una falce affilata. Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che stava seduto sulla nube: "Metti mano alla tua falce e mieti; poiché è giunta l'ora di mietere, perché la mèsse della terra è matura". Colui che era seduto sulla nube lanciò la sua falce sulla terra, e la terra fu mietuta.»
La mietitura inizia con i giudizi della grande tribolazione, nella seconda metà, e continua fino al ritorno del Signore. Questo momento è fissato. E vediamo che la mietitura appartiene al Signore. Cristo ha la falce nelle Sue mani. La giustizia è interamente nelle mani del Giusto.
Perciò possiamo rimanere sereni. Perché sappiamo che ogni mossa del diavolo alla fine servirà a glorificare Dio ancora di più.
L'ora più buia fu quando Cristo morì sulla croce, abbandonato da Dio.
Eppure, proprio in quel momento Dio si glorificò più che mai.
C. H. Spurgeon lo riassume perfettamente: «Confidare nel Signore quando si è nella luce è facile. Ma confidare nel Signore nel buio, questa è vera fede.»
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump non ha sollevato obiezioni quando questa settimana il primo ministro Benjamin Netanyahu gli ha comunicato che Israele potrebbe attaccare nuovamente l’Iran se la Repubblica islamica riprendesse il programma nucleare, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal. L’articolo, che riferisce che Trump avrebbe detto al premier di preferire una soluzione diplomatica, aggiunge che il presidente degli Stati Uniti spera di utilizzare la minaccia di ulteriori attacchi per convincere l’Iran a firmare un accordo che gli impedisca di sviluppare una bomba atomica. Tuttavia, l’articolo afferma anche che Netanyahu potrebbe subire pressioni da Trump affinché non attacchi l’Iran per preservare i colloqui diplomatici, citando un alto funzionario israeliano secondo cui Gerusalemme non chiederebbe necessariamente il via libera esplicito degli Stati Uniti prima di attaccare. Il funzionario afferma inoltre che Israele è in grado di impedire all’Iran di dotarsi rapidamente di armi nucleari e dispone di informazioni sui luoghi in cui Teheran potrebbe tentare di riprendere segretamente il suo programma atomico.
Samuel Oppenheimer, l’uomo dietro alla potenza militare degli Asburgo nel Seicento. Un fragile equilibrio fra prestigio e persecuzione.
di Michele Magno
Niente letture "piagnucolose" della diaspora, che è anche storia di innovazione, creatività intellettuale, intraprendenza mercantile.
Nel 1683, con le truppe ottomane alle porte di Vienna, il denaro di Samuel O. impedì la catastrofe. Pur essendo stato lui vilipeso.
Mobilitava flotte di zattere e chiatte per trasportare soldati e artiglieria. La merce più preziosa? L'avena. Niente avena, niente cavalleria.
Wertheimer, il successore di Oppenheimer, continuava a credere in un futuro per gli ebrei nell'impero asburgico nonostante gli abusi.
In Sfere di giustizia (1983), Michael Walzer osserva che il temperamento dell’ebreo della diaspora mal si concilia con una lettura “piagnucolosa” della storia del popolo dell’Alleanza. Perché essa è anche una storia di coraggiosa innovazione, di creatività intellettuale, di intraprendenza mercantile, di sopravvivenza individuale e collettiva contro ogni avversità. Dal canto suo, quasi due secoli e mezzo prima Montesquieu, nello Spirito delle leggi (1748), aveva spiegato il contributo decisivo degli ebrei nella trasformazione del commercio da attività disprezzata, associata all’usura e al prestito su pegno, a professione degna e stimata. In questo senso, la biografia di Samuel Oppenheimer (1630-1703) avrebbero potuto scriverla sia il filosofo della politica americano sia il grande giurista francese.
C’è un episodio della parte finale della sua esistenza che ne riassume idealmente tutto il significato. Vienna, ottobre 1700: la sua fastosa residenza che dava sul Bauernmarkt, il mercato agricolo della capitale austriaca, viene rasa al suolo. Una folla di artigiani inferociti, guidata da un produttore di spade e da uno spazzacamino, aveva deciso di sbarazzarsi del deicida che li stava mettendo con le spalle al muro. Del resto, erano già apparse le prime copie del trattato di Johann Eisenmenger “Entdecktes Judenthum” (“Il giudaismo mascherato”). Una durissima requisitoria contro gli ebrei infanticidi, figli del demonio, infezioni ambulanti, parassiti bipedi, con cui non c’era modo di convivere.
L'incisore Johann Andreas PfeHel ritrae Oppenheimer come un incrocio tra un rabbino e un feldmaresciallo
che indica tutto ciò
di cui dispone
Nato a Heidelberg, lo “Hofjuden”, l’ebreo di corte, era accusato di aver assunto il controllo dell’impero. Girava su una carrozza a quattro cavalli col suo stemma dipinto sugli sportelli, mentre gli onesti cristiani morivano di fame. E, cosa ancora peggiore, si vociferava che fosse in combutta con i turchi. Così la sua dimora, che si levava al di sopra delle bancarelle dei verdurai, fu saccheggiata, ripulita dei suoi offensivi piatti d’oro e candelieri d’argento. Tappeti e arazzi, “troppo voluminosi anche per i carri in attesa, furono squarciati e ridotti a brandelli, calpestati con gli stivali infangati; le porcellane atterrarono in frantumi tra le rape. I vini scorsero giù per le strozze dei rivoltosi […]” (Simon Schama, La storia degli ebrei, vol. I, Mondadori, 2019). Oppenheimer riuscì a fuggire attraverso una galleria espressamente costruita per simili evenienze. Quando la ribellione fu sedata, il cliente e protettore del suo “Oberkriegsfaktor ” (fornitore militare), l’imperatore del Sacro romano impero Leopoldo I, fece impiccare i suoi capi. Non che gli importasse molto degli ebrei, ma i disordini avevano la cattiva abitudine di diffondersi. Appena l’anno prima c’era stata una grave sommossa di contadini contro gli ebrei della Franconia rurale. Ma Oppenheimer non era uno sciocco. Sapeva che chi adesso fingeva di fare giustizia aveva partecipato al complotto per eliminarlo. Gli doveva una cifra enorme, duecentomila fiorini, per l’acquisto di segale, grano e farina, moschetti e carabine, granate e proiettili, pastrani e calzature. Se l’imperatore voleva fare la guerra a Luigi XIV, qualcuno doveva procurargli l’equipaggiamento necessario, e lui l’aveva fornito. Perciò si era appellato alla Hofkammer, la suprema autorità fiscale della monarchia asburgica, per ottenere i rimborsi pattuiti per contratto. Il “Finanzminister” allargò le braccia, gli mostrò le mani vuote e si scusò, ma c’erano ancora soldati sul campo di battaglia e lui non aveva nemmeno un “groschen” (soldo) da restituirgli.
Non era una novità. Dieci anni prima gli dovevano la bellezza di cinque milioni di fiorini e se l’erano tolto di torno. Allora Oppenheimer scrisse direttamente al sovrano, il quale gli rispose che era lui in debito con il regno, e non viceversa. Del resto, i nemici di Samuel erano ovunque. Il cardinale Kollonitsch, che odiava gli ebrei, non gli aveva perdonato il crollo del proprio consorzio di banchieri cattolici. La devastazione della sua casa serviva a ricordare al presuntuoso giudeo che, se non avesse rinunciato alle sue arroganti pretese, la vita gli avrebbe riservato sorprese assai amare. Più amare persino delle prigioni austriache che aveva conosciuto con il figlio Emanuel nel 1697, quando erano stati arrestati con la falsa accusa di aver tramato per uccidere un rivale in affari.
La rovina di Samuel O, come veniva chiamato nelle cancellerie di mezza Europa, è una vecchia storia ebraica, caratterizzata da una resistenza indomabile alle sventure. Gli ebrei di corte dell’epoca barocca erano soltanto l’ultima versione di una vicenda iniziata nei secoli medievali. Grazie a solidi rapporti personali con i correligionari del Vecchio continente, erano riusciti ad assicurarsi merci poco voluminose e pregiate, come le gemme e le spezie, e a immetterle nel mercato con profitti notevoli, ammassando così cospicui capitali. Sia i tassi elevati praticati dai prestatori di denaro cristiani, sia la disapprovazione ufficiale della Chiesa per il prestito a interesse, avevano contribuito a dar loro un vantaggio competitivo sui concorrenti, e per giunta erano in grado di offrire prestiti anticipati in cambio di redditizi appalti di riscossione di imposte e dazi doganali. I rischi, tuttavia, erano enormi. Sapevano per esperienza che in ogni momento i debiti potevano essere ripudiati, le loro proprietà confiscate, essi stessi o i loro eredi spogliati di tutto o incarcerati dal regnante di turno. Eppure continuavano a offrire i propri servigi, perché per ogni ebreo impiccato c’erano tante storie di successo di banchieri e maestri di zecca che sopravvissero ai pericoli diventando straordinariamente ricchi.
Le esigenze dei principi – eserciti, cittadelle e palazzi – non erano cambiate dall’età gotica a quella barocca. Era però cambiata la loro gerarchia. A metà del Seicento gli Asburgo, in Austria come in Spagna, avevano abbandonato la campagna avviata un secolo prima da Carlo V per sgominare l’eresia protestante e riunire la cristianità in una crociata contro i turchi. Cinquant’anni dopo, nessuno immaginava più una riunificazione confessionale. Tuttavia, la guerra tra cristiani era a malapena terminata che già veniva sostituita da un mercantilismo armato. Tra il 1650 e il 1780 era vitale disporre di un patrimonio garantito dall’erario, e guai a quel reame che non ricorreva, se necessario, alla forza per incrementarlo. In realtà, il patrimonio si poteva calcolare anche in popolazione, terre, schiavi, oro, navi, miniere, manifatture. Alcune dinastie predatrici – gli Svevi, gli Hohenzollern di Prussia, i Borboni – tenevano costantemente d’occhio i rivali, pronte ad approfittare dei loro momenti di debolezza o dei loro passi falsi.
Inizia per queste ragioni una costosissima corsa agli armamenti. Vauban, il grande ingegnere militare di Luigi XIV, aveva rivoluzionato le strategie difensive, ma i bastioni a punta di freccia, con i muri più spessi e impenetrabili che si fossero mai visti, avevano un prezzo esorbitante. E, a loro volta, richiedevano una mostruosa artiglieria d’assedio. Le dimensioni degli eserciti triplicarono. Le navi da guerra e i loro cannoni gareggiavano per superarsi nella gittata delle bordate. Tutto ciò accadeva nel periodo in cui la crisi economica dovuta a decenni di conflitti sanguinosi, la riduzione dei territori a deserti bruciati e città semidiroccate, faceva sì che i soliti a pagare – i contadini assoggettati e i latifondisti – non fossero in grado di fornire il gettito fiscale necessario. Ad aggravare la situazione c’era poi il rifiuto dei ceti nobiliari di cedere al re o al margravio persino una piccola quota dei loro beni per finanziare un convoglio di artiglieria pesante o un reggimento di granatieri.
Qui entra in scena Samuel O. Ma non è l’unico. Entra in scena anche la ditta Machado e Pereyra di Amsterdam, che sovvenziona l’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo d’Orange nel 1688, e la successiva campagna contro l’esercito cattolico francoirlandese del suocero, Giacomo II. Entrano in scena anche altri facoltosi personaggi delle comunità ebraiche: Solomon Medina, che sussidia le campagne del duca di Marlborough nella guerra di successione spagnola contro Luigi XIV (1701-1714); la famiglia Gumpertz di Clèves, ebrei di corte e maestri di zecca degli Hohenzollern di Brandeburgo; i due successivi mariti di Esther di Praga, Israel Aaron e Jost Liebmann, che placano la passione per i gioielli più sofisticati di Federico di Prussia; e ancora Berend Lehmann, che si svena per pagare lo sbalorditivo palazzo Zwinger di Augusto il Forte a Dresda. I ministri delle Finanze con l’acqua alla gola degli stati germanici avevano ottimi motivi per preferire gli ebrei agli svizzeri o agli ugonotti. I loro tassi d’interesse non potevano varcare la soglia del sei per cento, e comunque li si poteva obbligare – con le buone o cattive maniere – ad abbassarli ulteriormente. Il rimborso del capitale, peraltro, era rateizzabile ad libitum del debitore. Da ultimo, grazie alle loro relazioni con le famiglie ashkenazite più lontane, dall’Ucraina alla Danimarca, erano in grado di rifornire rapidamente gli eserciti di stoffe olandesi, salnitro boemo e grano polacco.
Fino a quando non cadde in disgrazia, Samuel O era ripetutamente accorso in aiuto dell’imperatore asburgico. Nel 1683, con le truppe ottomane di Kara Mustafa alle porte di Vienna, il suo denaro impedì la catastrofe. Pur essendo stato pubblicamente vilipeso e destituito in favore di un consorzio di banchieri cattolici, intervenne quando i fondi consacrati dal clero cominciarono a mancare. In questo senso, il suo virtuosistico ritratto dell’incisore Johann Andreas Pfeffel (1674-1748) è un caso di autopromozione senza precedenti nell’iconografia ebraica. L’uomo che ha spezzato l’assedio è raffigurato come un incrocio tra un rabbino e un feldmaresciallo, che indica tutto ciò di cui dispone: polvere da sparo e mortai, moschetti, l’elmo solitamente associato alla sovranità e un documento con stampata l’aquila a due teste degli Asburgo.
La millanteria era però compensata dai fatti. Samuel O mobilitava flotte di zattere e chiatte fluviali per trasportare soldati, animali da tiro e artiglieria lungo il Danubio fino alle fortezze assediate dell’Ungheria. Recinti galleggianti di bovini, pecore e pollame percorrevano il fiume fino al loro appuntamento con gli spiedi e i tegami dei soldati. Accampamenti e caserme erano riforniti di pane, munizioni e bende. Sciabole, moschetti, cannoni e pistole, polvere da sparo e palle, micce a combustione lenta e rapida, si materializzavano come per magia. La flotta di Oppenheimer solcava senza sosta i mari settentrionali e meridionali fino a quando non trovava ciò che serviva. Anzitutto, fino a quando non trovava la merce più preziosa in assoluto, quella che determinava l’esito di una battaglia: l’avena. Niente avena, niente cavalleria. Niente avena, niente carri per l’artiglieria. Niente avena, non restava che la resa.
Dopo la morte di Oppenheimer, nel 1703, il suo socio di minoranza Samson Wertheimer (1658-1724) si fece avanti per prenderne il posto. La lettera di nomina lo definiva “industrioso, infaticabile, efficiente, leale e generoso”. Tradotto, si poteva fare affidamento su di lui per ottenere l’anticipo di un milione di fiorini fino a quando l’impero era in guerra. In qualità di banchiere personale della dinastia ungherese degli Esterhazy, Wertheimer si era fatto una reputazione di probità amministrativa e, cosa ancora più importante, di prodigo soccorritore dei potenti. Anche il fatto che fosse stimato come “Grandrabbiner” (rabbino capo) d’Ungheria, Moravia e Boemia, noto per i suoi taglienti sermoni, attestava la sua integrità morale. I suoi interessi erano innumerevoli. Proprietario delle miniere di sale di Siebenbürgen, aveva il monopolio del tabacco nei Balcani. Si poteva contare su Wertheimer per mantenere le ambasciate all’estero, liberare l’imperatrice dai suoi debiti, pagare i fuochi d’artificio dell’incoronazione imperiale di Carlo VI, succeduto a suo fratello Giuseppe nel 1711. A Vienna, Praga, Francoforte, finì per essere considerato un forziere di saggezza e di monete, al punto che Leopoldo gli fece dono del proprio ritratto in segno di riconoscenza.
Nonostante le periodiche espulsioni, gli episodi di violenza, gli abusi e gli attacchi di cui erano oggetto, Wertheimer continuava a credere in un futuro per gli ebrei nell’impero asburgico. Era diventato, infatti, l’erede della lunga tradizione dei “resh galuta” (i capi dell’esilio), un protettore degli ebrei in anni molto tempestosi. Tanto che, dopo essere stati cacciati da Eisenstadt nel corso dell’insurrezione ungherese del 1708, li persuase a rientrare in città e a costruire una sinagoga privata mettendo a disposizione la sua casa. Danneggiata da un incendio nel 1795, fu riedificata negli anni Trenta dell’Ottocento in un sobrio stile classico visibile ancora oggi. Nel novembre del 1938, quando i roghi appiccati durante la “notte dei cristalli” (“Kristallnacht”), su istigazione dei tanti austriaci entusiasti dell’Anschluss al Terzo Reich, distrussero la principale sinagoga della città, la sua “shul” (sinagoga in yiddish) si salvò, forse perché era al primo piano della sua abitazione. La sua congregazione non fu altrettanto fortunata. Oggi è un luogo di spettrale devozione: il Museo ebraico austriaco.
Il Foglio, 12 luglio 2025)
Come la Cina influenza le proteste propal negli USA
di Nathan Greppi
Già nel maggio 2024, un rapporto stilato dal NCRI (Network Contagion Research Institute) aveva dimostrato che le proteste filopalestinesi scoppiate negli Stati Uniti dopo il 7 ottobre erano state almeno in parte foraggiate da una rete di persone e associazioni legate al PCC (Partito Comunista Cinese), al fine di destabilizzare la società americana dall’interno.
Oltre un anno dopo, questa teoria ha ricevuto ulteriori conferme a seguito della recente pubblicazione di un report analogo da parte del Program on Extremism della George Washington University. Redatto da Jennifer Baker, ex-agente del FBI con oltre vent’anni di esperienza negli ambiti della sicurezza nazionale e del controspionaggio, il report si intitola CCP Influence in U.S. Pro-Palestinian Activism.
• La galassia filocinese Nello specifico, il rapporto spiega come l’attivismo filopalestinese negli Stati Uniti sia sempre più collegato a delle operazioni del PCC per esercitare la propria influenza negli Stati Uniti. Viene fatto in particolare il nome di Neville Roy Singham, un imprenditore statunitense residente a Shanghai e legato al PCC, che ha costruito una vasta rete che finanzia gruppi di attivisti con un agenda politica antiamericana e antisraeliana.
Le organizzazioni chiave di questa rete, come il Forum dei Popoli, la ANSWER Coalition e l’Assemblea Internazionale del Popolo, hanno ampiamente sostenuto la campagna “Shut It Down for Palestine” (SID4P), lanciata sull’onda dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. L’evidenza suggerisce che questi gruppi, alcuni dei quali legati ad organizzazioni terroristiche come il FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), beneficiano di finanziamenti e promozioni in linea con la narrazione portata avanti dalla Cina, che si vuole presentare come un difensore della giustizia globale. Il rapporto delinea come queste organizzazioni siano unite tra loro da un’ideologia condivisa, la cooperazione logistica e l’allineamento agli obiettivi della guerra mediatica portata avanti da Pechino.
• La propaganda della Cina Il rapporto analizza anche il modo in cui la Cina si è rapportata alla guerra tra Israele e Hamas. Pur dichiarandosi ufficialmente a favore della Soluzione dei due Stati, il governo cinese ha criticato duramente l’operazione militare israeliana a Gaza, specialmente per bocca del presidente Xi Jinping. E nonostante la repressione interna che il governo cinese porta avanti da anni nei confronti dei musulmani uiguri, Xi ha cercato di dipingersi come un amico degli arabi e dei musulmani, palestinesi in primis.
Ci sono stati anche casi di media cinesi che hanno promosso narrazioni complottiste e stereotipi antisemiti: nell’ottobre 2023, in un programma dell’emittente statale China Central Television (CCTV) si è sentito dire che “gli ebrei, che sono il 3% della popolazione americana, controllano il 70% delle sue ricchezze”.
Antisemitismo negli USA: un quarto degli americani ritiene “comprensibili” le violenze contro gli ebrei
di Luca Spizzichino
Un nuovo sondaggio condotto dal Center for Antisemitism Research dell’Anti-Defamation League rivela un dato allarmante: quasi un americano su quattro considera “comprensibili” le recenti aggressioni violente contro cittadini ebrei negli Stati Uniti. Il rapporto arriva dopo tre gravi episodi di antisemitismo, tra cui un incendio doloso presso la residenza del governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, e gli attentati di Washington D.C. e Boulder, Colorado.
Il sondaggio, effettuato il 10 giugno su un campione rappresentativo di 1.000 adulti americani tramite Ipsos Observer Omnibus, mette in luce una preoccupante normalizzazione dell’odio antiebraico. Il 24% degli intervistati ha definito le violenze “comprensibili”, mentre percentuali simili le hanno bollate come “false flag”, ovvero operazioni montate ad arte per generare sostegno verso Israele. Secondo la ricerca , il 15% ha definito gli attacchi “necessari”, il 14% non li considera crimini d’odio e il 13% li ritiene “giustificati”.
“È inaccettabile che un quarto degli americani giustifichi o comprenda la violenza mortale contro cittadini ebrei. Questo è un chiaro segnale di quanto le narrazioni antisemite siano penetrate nel discorso pubblico”, ha dichiarato Jonathan Greenblatt, CEO dell’ADL. “Dal 7 ottobre 2023 in poi, abbiamo assistito a un’escalation continua di odio: molestie, aggressioni, e persino omicidi contro ebrei americani”.
Nonostante la diffusione di retoriche violente, il 60% degli americani, indipendentemente da età, orientamento politico o posizione su Israele, riconosce l’antisemitismo come un problema grave. Le preoccupazioni emergono anche all’interno dei partiti: il 25% dei democratici e il 23% dei repubblicani temono l’antisemitismo nei rispettivi schieramenti. La percezione del problema è più forte tra le generazioni più anziane: l’80% della Silent Generation e il 64% dei Baby Boomer lo ritiene una minaccia, contro il 50% di Millennials e Gen Z. Ma è proprio tra i più giovani che emergono dati particolarmente preoccupanti. Il 59% della Gen Z ha una visione favorevole dei movimenti anti-Israele – quasi il doppio rispetto alla media nazionale (29%) – e il 34% ammette di non sapere cosa significhi “antisionismo”.
Il sondaggio dell’ADL ha messo in luce anche il radicamento di stereotipi antisemiti: il 34% degli americani crede che gli ebrei siano più fedeli a Israele che agli Stati Uniti, il 30% ritiene abbiano “troppo potere” in politica e nei media, e il 27% pensa che dovrebbero essere ritenuti responsabili per le azioni del governo israeliano. Significativo anche il dato sul linguaggio delle proteste: il 68% degli americani ritiene che slogan come “Globalize the Intifada” o “From the River to the Sea” aumentino il rischio di violenze contro gli ebrei. Inoltre, il 58% è convinto che il termine “sionista” venga spesso usato come sinonimo di “ebreo” in contesti offensivi.
Nonostante i segnali inquietanti, il sondaggio mostra anche una volontà diffusa di combattere l’antisemitismo: l’82% degli americani sostiene la rimozione dei contenuti d’odio online, e il 77% chiede un maggiore impegno governativo contro l’antisemitismo. “C’è ancora una finestra di opportunità per agire,” ha dichiarato Matt Williams, vicepresidente dell’ADL Center for Antisemitism Research. “La maggioranza degli americani rifiuta l’odio e la violenza contro gli ebrei. Ma il tempo per intervenire è ora, prima che l’antisemitismo diventi un elemento normalizzato del discorso pubblico”.
Lo chiamerò F.C. con le sue iniziali per sua precisa richiesta, ma anche perché più che una persona è l’archetipo di un certo tipo di ebreo secolarizzato e integrato. È nato a Roma nell’immediato dopoguerra, genitori e nonni erano fortunosamente scampati alla cattura il 16 ottobre del ‘43. Il nonno paterno era un affermato avvocato civilista con una clientela composta in maggioranza da correligionari. Suo padre non aveva potuto completare il liceo né laurearsi a causa delle leggi razziali, per cui il nonno avvocato aveva rilevato da un parente anziano una bottega di abbigliamento in una via commerciale, affidandola a lui che l’ha gestita con successo per tutta la vita, coadiuvato da sua moglie. F.C. è cresciuto, maggiore di due fratelli e una sorella, in un appartamento in affitto di un quartiere limitrofo al vecchio ghetto, la famiglia è religiosa, ma non ortodossa, non rispetta le norme alimentari ebraiche e si reca in sinagoga solo per le festività più importanti, ha usi e costumi della media borghesia. Fino all’età scolare non ha precisa cognizione della sua appartenenza, perché amici e parenti sono quasi tutti ebrei, solo qualche volta sente parlare dei “goym” traducibile come i gentili, cioè i non ebrei, in Italia in pratica i cattolici. É in prima elementare alla scuola pubblica che ha l’occasione di verificare la sua diversa identità religiosa, poiché la maestra lo informa, unico ebreo in classe, che a inizio lezioni dovrà alzarsi in piedi come gli altri senza però fare il segno della croce. Questo innescherà molte domande cui soprattutto il nonno darà risposte articolate. Al temine della terza media festeggia il Bar Mitzvah, che dovrebbe farne un ebreo maschio adulto, ma paradossalmente segna il suo progressivo allontanamento dalle pratiche religiose, per approdare a un laicismo ateo, senza però rinnegare le proprie origini, particolarmente sotto l’aspetto culturale, se richiesto risponderà sempre: ”Sono ebreo”. Alle superiori contrae diverse amicizie, alcune delle quali per la vita, un gruppo di amici orientati a sinistra con varie sfumature, dove di religione non si parla. Le uniche frizioni riguardano Israele e le ricorrenti crisi, mentre qualche compagno non del gruppo gli chiede se farà il soldato in Italia o in Israele, restando perplesso e incredulo all’ovvia risposta. Infatti mentre frequenta la facoltà di lettere, viene ammesso al corso allievi ufficiali dei bersaglieri, cosa che farà appena laureato. All’università avrà per compagni di corso alcuni futuri giornalisti e cineasti poi divenuti famosi e conoscerà una ragazza cattolica che diverrà sua moglie. La cosa produrrà mal di pancia nelle famiglie dei futuri sposi, ognuna rivendicando il proprio rito di appartenenza, alla fine il matrimonio civile sarà il compromesso che risolverà i contrasti lasciando tutti scontenti. Tutto questo avviene nella seconda metà degli anni ’60, quando FC ha trovato lavoro, dopo aver terminato il servizio militare, partecipando come ultimo impegno prima del congedo, alla sfilata del 2 Giugno, ritto sulla torretta di un carro armato con le piume al vento e la fascia azzurra. I suoi genitori nutrivano la speranza che il loro “bechor” (in ebraico primogenito maschio) prendesse in mano le redini del ben avviato negozio, per gli altri, ancora impegnati in vari gradi del percorso scolastico, c’erano da parte i denari per iniziare altre attività, per la ragazza, oltre alla cospicua dote, si sperava in un buon partito, infatti era stata iscritta a vari club ebraici giovanili ed inviata a campeggi e vacanze organizzate da quei sodalizi. Ma F.C. fu subito chiaro, della bottega non voleva saperne, aveva altri interessi, fu così che per caso un giorno un industriale fornitore del padre gli disse che un suo amico pubblicitario cercava giovani da inserire nella sua attività, FC accettò entusiasta e partì per Milano, sede dell’agenzia pubblicitaria, dove fece due anni di apprendistato, tornando a Roma ogni fine settimana per stare con la sua ragazza. Fu un periodo proficuo, favorito da un ottimo rapporto con i giovani colleghi con i quali apprendeva il mestiere, ma di tanto in tanto il suo essere ebreo veniva fuori nei discorsi, impregnati più di stereotipi che di pregiudizi, eccone alcuni esempi: “Certo che voi ebrei avete una marcia in più, basta pensare ai premi Nobel, poi vi aiutate molto tra di voi.” “Vedrai che il capo ti manderà in America, tutte le grandi agenzie sono in mano agli ebrei, per te sarà semplicissimo inserirti”. “Ma tu oltre l’inglese parli anche l’ebraico?” “Ho letto che in Italia ci sono 30.000 ebrei iscritti in 21 comunità, ma è certamente sbagliato, sono molti di più”. “Si parla di nuovo di antisemitismo, non conosco persone antisemite, anzi io per esempio ho tanti amici come te”. “Hai anche il passaporto israeliano?” “È vero che Gesù era ebreo?” F.C. qualche volta rispondeva sommariamente, più spesso consigliava qualche libro da leggere, infastidito in cuor suo di certe domande o affermazioni in un contesto in cui i suoi interlocutori erano tutti neo-laureati. A fine stage ottenne il posto di account-manager nella filiale di Roma dell’agenzia, potendo finalmente sposare. Dal matrimonio nacquero una femmina e un maschio, che fu fatto circoncidere, anche se non ebreo, perché per essere tale bisogna essere di madre ebrea, però, pensò FC, non si sa mai cosa penserà da grande. Col passare degli anni, le molteplici guerre e crisi che hanno visto coinvolto lo Stato ebraico, ne hanno mutato il sentimento dell’opinione pubblica, passando da consenso entusiasta a un malcelato malessere fino a un evidente risentimento che ha coinvolto gli ebrei di tutto il mondo in quanto tali, chiamati a scindere pubblicamente le proprie responsabilità dai cittadini israeliani. I drammatici eventi recenti hanno portato a galla l’anti-sionismo, con grande sforzo dei mass-media e delle singole persone di attribuirgli un significato politico, lontano dal puro e semplice antisemitismo, dicotomia attualmente argomento di accese polemiche. F.C. ha a lungo riflettuto su tutto ciò, iniziando a percepire diffidenza anche da parte di persone amiche di vecchia data, in realtà era sempre stato conscio che, oltre gli stereotipi, in molti albergassero pregiudizi inconfessati che sfuggivano involontariamente in mezzo ad altri discorsi, ai quali non aveva mai replicato perché certo che sarebbe stato impossibile rimuoverli. Ora però è certo che mettere in dubbio il diritto di Israele ad esistere e l’infamante accusa di genocidio non avrebbero trovato terreno fertile se il millenario preconcetto antisemita non aleggiasse nell’animo di molti. Con un certo scandalo di correligionari e non, recentemente aveva mostrato in più occasioni la propria contrarietà alla “Giornata della Memoria” da lui definita la fiera dell’ipocrisia, dicendo: “Si piangono i morti inermi, ma si condannano i vivi che non vogliono fare la stessa fine”. Oggi FC è un uomo anziano in pensione da anni, quello che sta avvenendo in Medioriente lo turba e lo preoccupa, è acerrimo nemico di Netanyahu e dei suoi alleati millenaristi e non condivide l’entusiasmo miope di molti ebrei, ma comprende fino in fondo le ragioni dei cittadini israeliani a causa del pogrom del 7 ottobre 2023, nutrendo seri dubbi che un cambio di maggioranza alla Knesset possa far mutare in modo radicale la politica israeliana verso coloro che vogliono cancellare lo stato ebraico, né ha alcuna fiducia che muti l’acquiescenza verso i coloni in Cisgiordania. L’unica tenue speranza che ha consiste nella pace con gli arabi sunniti, senza la quale, dice: “Come potrebbe sopravvivere un popolo di 8 milioni in un fazzoletto di terra grande come la Lombardia, circondato da centinaia di milioni di nemici politici e religiosi?” Questo mi ha detto in un recente colloquio seduti nel suo giardino a un tavolo su cui erano poggiati due bicchieri e una brocca di tè freddo in cui galleggiavano fette di pesca.
(InOltre, 10 luglio 2025)
Quanto è importante il corridoio di Morag per Israele?
Chi oggi chiede che Israele si ritiri dal corridoio di Morag rischia più che solo terreno militare: sacrifica una delle ultime speranze reali di cambiamento nella Striscia di Gaza.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Ciò che molti commentatori, osservatori dell'ONU e giornalisti ben intenzionati non capiscono o non vogliono capire è la dimensione di ciò che si sta sviluppando tra il corridoio di Morag e quello di Philadelphi. Mentre in Occidente si fantasticano “campi di concentramento”, davanti ai nostri occhi sta nascendo una nuova realtà: un modello palestinese alternativo a Hamas. Ed è proprio questo che Hamas vuole distruggere a tutti i costi. Una guida per chi è confuso, con uno sguardo alla strategia, alla sicurezza e alla speranza nella Striscia di Gaza. Molti ritengono che il cosiddetto corridoio Morag non sia così importante da giustificare il fallimento di un accordo per il rilascio degli ostaggi e di un cessate il fuoco. Ma è proprio questo corridoio, a nord della strada di confine egiziana del corridoio di Philadelphi, che attualmente costituisce il principale ostacolo a un accordo di cessate il fuoco. Ma cos'è esattamente questo corridoio di Morag? Perché è così conteso? E perché è così importante per la sicurezza di Israele?
Dall'inizio delle operazioni a Rafah, l'esercito israeliano ha completamente liberato questa zona dalle strutture di Hamas. L'IDF controlla militarmente il territorio e ha distrutto gran parte degli edifici e dei tunnel.
Il corridoio di Philadelphi corre lungo il confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto.
Il corridoio di Morag si trova tra Rafah e Khan Yunis, una striscia di terra strategica che oggi è diventata l'ultima zona libera da Hamas nella Striscia di Gaza meridionale
Nella terra di nessuno tra rovine e macerie sta ora sorgendo un nuovo spazio, non solo geografico, ma anche politico. Qui dovrebbe sorgere anche la città umanitaria, ovvero un centro abitativo per i palestinesi, spesso descritto all'estero come un campo di raccolta negativo.
In questa striscia opera una milizia palestinese guidata da Yasser Abu Shabab. Il comandante beduino, originario della tribù dei Tarabin, ha radunato attorno a sé centinaia di uomini armati. Agiscono in coordinamento non ufficiale ma pratico con l'IDF. Assicurano la distribuzione di generi alimentari da parte dell'organizzazione umanitaria americana GHF “Global Hunger Fund”, scortano convogli di aiuti e, secondo Hamas, conducono persino operazioni mirate in zone in cui le truppe israeliane non osano avventurarsi per motivi tattici.
Per Hamas, Abu Shabab è un incubo. Perché? Perché non è solo un avversario militare, ma sta anche iniziando a costruire un modello civile funzionante, un'alternativa al regime terroristico islamista di Hamas. Nella sua zona di influenza vivono ormai diverse centinaia, forse addirittura migliaia di civili, con scuole funzionanti, approvvigionamenti stabili, un'amministrazione rudimentale e la sensazione di non doversi più sottomettere agli ordini di Hamas.
Nella sua prima intervista a un media israeliano (Ynet) circa tre giorni fa, Yasser Abu Shabab, leader delle “Forze popolari” nella Striscia di Gaza, descrive come sta cercando di costruire un ordine alternativo a Hamas con il sostegno dell'Autorità palestinese, in piena guerra e sotto costante minaccia. “Quando sono fuggito con la mia famiglia ad Al-Mawasi, tra i due corridoi, regnavano la fame, il caos e l'umiliazione”, racconta Abu Shabab. "Hamas controllava tutto, si appropriava degli aiuti umanitari. Non potevo più tacere“. Quando ha visto con i propri occhi che Hamas deviava gli aiuti umanitari destinati alla propria clientela, Abu Shabab ha deciso di agire. ”Ho iniziato a fermare i camion, a prendere il cibo e a distribuirlo io stesso alla gente, ai bambini e alle donne. Per mesi".
«Hamas ci trattava con diffidenza perché abbiamo legami familiari con la tribù dei Tarabin nel Sinai, una tribù che si oppone chiaramente alla Fratellanza Musulmana». Il risultato è stato che «hanno ucciso 52 membri della mia famiglia allargata, compreso mio fratello». Hamas lo ha dichiarato nemico, ma la sua popolarità tra la popolazione è cresciuta. Sempre più giovani si sono uniti a lui.
“Chi aveva armi veniva da me. Chi le nascondeva me le consegnava volontariamente”, racconta. Hamas, invece, sembra sempre più indebolita: “Quando li attacchiamo, scappano come topi”. Abu Shabab commenta anche il dibattito su un possibile cessate il fuoco: "Vogliamo che gli ostaggi israeliani tornino a casa.
Ogni innocente, da qualsiasi parte stia, deve tornare dai propri figli“. Allo stesso tempo, però, mette in guardia da un ritiro troppo affrettato di Israele dai territori liberati da Hamas: ”La popolazione di Gaza ha pagato un prezzo inimmaginabile per questa folle organizzazione terroristica. Non ci fermeremo. Continueremo a combattere fino all'ultimo, fino alla fine di Hamas".
Ciò che sta nascendo qui è più di un semplice corridoio sicuro. È un tentativo di stabilire un'autonomia palestinese indipendente da Hamas e altrettanto indipendente da Fatah e dall'Autorità palestinese di Ramallah, di cui molti palestinesi diffidano. Una sorta di “terza via” nella Striscia di Gaza, nata dal vuoto lasciato dalla guerra.
Proprio in questo contesto, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha annunciato il piano per la creazione di una cosiddetta città umanitaria nella zona di Rafah, una zona che, dopo i controlli di sicurezza, dovrebbe ospitare fino a 600.000 palestinesi e oltre. Le persone che non hanno legami con Hamas dovrebbero trovare lì protezione, assistenza e prospettive. L'obiettivo: una zona sicura senza la presenza terroristica di Hamas, senza armi, senza tunnel, ma con rifornimenti, aiuti per la ricostruzione e un'amministrazione minima.
Il ritiro delle truppe israeliane dal corridoio di Morag, come richiesto da Hamas come condizione per un accordo di cessate il fuoco, vanificherebbe tutto ciò che ho detto prima. Sarebbe un passo indietro, un tradimento nei confronti di coloro che proprio ora hanno il coraggio di intraprendere una strada diversa. Abu Shabab e i suoi uomini sarebbero in pericolo di vita nel giro di poche ore. Hamas riconquisterebbe immediatamente il territorio, insieme agli aiuti umanitari, alle infrastrutture e, soprattutto, alla speranza di qualcosa di diverso. Gli stessi palestinesi parlano sui social network di sentirsi più al sicuro nella zona tra i due corridoi, mentre all'estero questa viene descritta come un “campo di concentramento”.
Non si tratta quindi solo di territorio. Si tratta di un'opportunità storica per dare un nuovo slancio alla Striscia di Gaza, dall'interno, non attraverso l'occupazione o governi in esilio. Un'alternativa locale a Hamas, che sta appena iniziando a formarsi.
La domanda cruciale rimane: vale la pena rinunciare a questo sviluppo per ottenere una fragile tregua? Una tregua che Hamas sfrutterà per riorganizzarsi? Una tregua che potrebbe consentire a un regime terroristico radicale di riprendere piede? Il corridoio di Morag non è un simbolo, è realtà. E forse è uno dei pochi luoghi in cui è già visibile oggi ciò che potrebbe essere possibile domani nella Striscia di Gaza. Chi rinuncia a questo non solo rischia un passo indietro sul piano militare, ma potrebbe anche perdere l'occasione per un vero cambiamento politico.
(Israel Heute, 11 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Gli aiuti dell’UE a Gaza non passeranno più da Hamas
di Amedeo Ardenza
Un passo avanti sugli aiuti alla popolazione gazawi e mezzo sul futuro della Striscia di Gaza. Ieri la Commissione europea ha annunciato che a seguito di «un dialogo costruttivo» con il governo di Gerusalemme sono stati concordati passi significativi di Israele «per migliorare la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza». Un risultato, ha spiegato un portavoce comunitario, frutto del dialogo fra l’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas, e il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar. Le misure previste dall’accordo «saranno attuate nei prossimi giorni, con l’intesa che aiuti su larga scala debbano essere consegnati direttamente alla popolazione e che continueranno a essere adottate misure per evitare qualsiasi deviazione degli aiuti verso Hamas». Più aiuti, dunque, come chiesto dal blocco dei 27, ma nessun favore a Hamas, come preteso da Israele dopo decenni di sostegno europeo a entità ritenute troppo vicine al gruppo terrorista palestinese.
L’accordo sull’asse Bruxelles-Gerusalemme prevede un «sostanziale aumento» dei camion giornalieri di generi alimentari e non alimentari verso Gaza; l’apertura di altri valichi, sia nelle aree settentrionali che meridionali; la riapertura delle rotte di aiuto giordana ed egiziana; la distribuzione di generi alimentari attraverso panifici e mense pubbliche in tutta la Striscia; la ripresa delle forniture di carburante per le strutture umanitarie «fino a un livello operativo»; la protezione degli operatori umanitari; e la riparazione e facilitazione dei lavori sulle infrastrutture vitali, come la ripresa della fornitura di energia all’impianto di desalinizzazione dell'acqua.
Da parte sua l’Ue ha rinnovato l’appello «per un cessate il fuoco immediato e la liberazione di tutti gli ostaggi rimasti» e «sostiene gli attuali sforzi di mediazione di Egitto, Qatar e Stati Uniti».
Su questo fronte, però, il negoziato procede a singhiozzo nonostante lo stesso presidente americano Donald Trump si sia impegnato in prima persona perché le due parti arrivino a un cessate il fuoco in tempi brevi. Ieri, riferiva il Jerusalem Post, gli emissari israeliani a Doha hanno presentato ai mediatori nuove mappe sul possibile ridispiegamento delle Israeli Defense Forces (Idf) dopo l’entrata in vigore della tregua da 60 giorni, mappe che, scrive ancora la testata, indicano una maggiore flessibilità soprattutto per quanto riguarda la presenza israeliana nel sud della Striscia.
Nell'ambito sempre dei negoziati in Qatar, Israele avrebbe concordato in linea di principio che l’Emirato inizi a destinare risorse e fondi alla ricostruzione della Striscia di Gaza già durante il cessate il fuoco.
Lo riferisce il quotidiano Ynet, secondo cui è stata Hamas a esigere questo impegno quale garanzia dell'intenzione israeliana di porre fine alla guerra.
Lo Stato ebraico da parte sua insiste affinché non solo Doha trasferisca i fondi, ma anche altri Paesi (dei quali forse si fida di più). Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita si rifiuterebbero però di aiutare senza prima avere assicurazione che Israele non si limiti a siglare una tregua ma punti, invece, a una pace di durata.
Parlando con un gruppo di famigliari degli ostaggi da Washington DC dove è ancora in visita, ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che sono stati fatti progressi verso un accordo di tregua a Gaza e che lui e il presidente Trump hanno «dei piani» che non possono essere divulgati; quindi ha esortato le famiglie alla pazienza.
Nella regione la tensione resta alta: ieri due palestinesi hanno ucciso un giovane israeliano a Gush Etzion, un insediamento in Giudea, per essere poi eliminati da forze di sicurezza presenti nell’area. Ieri Israele ha ucciso Il comandante delle forze di artiglieria di Hezbollah Nuhammad Murad a sud di Tiro in Libano: «La sua attività costituiva una palese violazione delle intese tra Israele e Libano», hanno scritto le Idf.
Sergey Brin contro l’ONU: «Antisemitismo mascherato da attivismo»
Il cofondatore di Google attacca duramente un rapporto delle Nazioni Unite che accusa Big Tech di sostenere l’offensiva israeliana a Gaza: «Un documento distorto e offensivo».
di Nina Deutsch
Il cofondatore di Google, Sergey Brin, ha accusato le Nazioni Unite di essere «apertamente antisemite» in un messaggio rivolto ai dipendenti di Google DeepMind. Il suo intervento arriva in risposta a un rapporto delle Nazioni Unite che accusa diverse aziende tecnologiche, tra cui Google, di trarre vantaggio dalle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza, fornendo servizi di cloud computing e intelligenza artificiale.
Il documento, redatto dalla relatrice speciale Francesca Albanese, cita espressamente Project Nimbus, un contratto da 1,2 miliardi di dollari firmato nel 2021 da Google e Amazon con il governo israeliano per creare un’infrastruttura digitale autonoma e sicura, isolata da server esterni. Il progetto è stato oggetto di critiche per il possibile utilizzo in attività di sorveglianza e operazioni militari. Secondo il rapporto, tali tecnologie contribuirebbero alla cosiddetta «strategia genocidaria» israeliana contro la popolazione di Gaza.
Brin ha definito l’uso del termine «genocidio» come «profondamente offensivo per molti ebrei che hanno vissuto o ricordano autentici genocidi», aggiungendo che il documento delle Nazioni Unite è «scritto con un pregiudizio evidente». Le sue parole, condivise in una chat interna dell’azienda, hanno colpito molti colleghi, considerato il suo abituale riserbo sulle discussioni pubbliche.
Gli Stati Uniti hanno criticato il rapporto e chiesto formalmente la rimozione di Francesca Albanese, accusandola di antisemitismo e ostilità sistemica nei confronti di Israele. La relatrice ha respinto le accuse, sostenendo che il suo lavoro si limita a documentare il coinvolgimento delle aziende tecnologiche nell’infrastruttura militare israeliana, soprattutto dopo l’attacco lanciato da Hamas il 7 ottobre 2023.
Sergej Brin, nato Sergej Michajlovič Brin in Unione Sovietica nel 1973 da una famiglia ebraica, è fuggito negli Stati Uniti per evitare la persecuzione religiosa. È tornato a essere attivamente coinvolto nelle operazioni di Google a partire dal 2022, con l’obiettivo di guidare la competizione nel campo dell’intelligenza artificiale contro rivali come OpenAI.
Google, da parte sua, ha già chiarito che Project Nimbus non è destinato all’uso da parte delle forze armate israeliane. Tuttavia, il coinvolgimento dell’azienda in progetti governativi legati a scenari di guerra ha sollevato forti polemiche anche all’interno, tra lavoratori e ingegneri che da tempo chiedono maggiore trasparenza e un’etica più rigorosa nello sviluppo dell’AI.
Come riportato dal Washington Post, il dibattito su tecnologia, guerra e responsabilità morale delle grandi aziende si fa sempre più acceso, mentre la linea di confine tra innovazione e complicità si fa ogni giorno più sottile.
L’appello dei docenti contro il boicottaggio di Israele: «Disastro politico, umano e morale»
«Sono già pervenute quasi 2mila adesioni, ma altre centinaia sono in arrivo nelle prossime ore. È un segnale molto importante».
Lo psicanalista David Meghnagi, già coordinatore del Master in Didattica della Shoah all’Università di Roma Tre, è uno dei sei accademici promotori di un appello “contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani”, rivolto in prima istanza alla ministra dell’Università e della Ricerca e alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui). Nell’appello si denunciano con allarme «le mozioni di boicottaggio promosse in alcuni atenei contro università e istituti di ricerca israeliani e il loro corpo docente, di ricerca e studentesco», citando vari episodi avvenuti in questi mesi. Tali iniziative, si legge, «anche quando non consapevolmente antisemite, non solo contrastano con la vocazione dell’università e della ricerca, che devono restare spazi di libertà, confronto critico e cooperazione internazionale, ma contribuiscono anche a portare in superficie forme di antisemitismo latente».
Secondo Meghnagi, interpellato da Pagine Ebraiche, è un tema sul quale la Crui «deve pronunciarsi in modo netto, perché il boicottaggio delle università israeliane è un disastro politico, umano, morale». Morale anche perché, ricorda Meghnagi, le università israeliane «sono in parte figlie della tragedia della persecuzione fascista: molti docenti italiani allontanati dall’insegnamento con la promulgazione delle leggi razziste del ’38 hanno plasmato e rinnovato diverse aree della ricerca israeliana». Fu un gruppo percentualmente molto rilevante, il secondo in assoluto dopo quello tedesco. «Va aperta una riflessione morale su quello che sta accadendo»; incalza Meghnagi. «facendo notare che i nipoti di coloro che allora si sono voltati dall’altra parte, permettendo il suicidio dell’università italiana, partecipano ora al boicottaggio dei nipoti di quanti furono allora perseguitati». È poi inquietante, aggiunge Meghnagi, «che tutto questo avvenga ad appena sette anni distanza dalla “cerimonia del ricordo e delle scuse” durante la quale le università italiane riunite a Pisa affrontarono insieme quel tema, dopo aver aspettato 80 anni».
Gli atenei israeliani possono fare qualcosa per contrastare la deriva in atto? A detta dello studioso, «le università israeliane sono portatrici di un messaggio prezioso, anche in questo difficile periodo, continuando a preservare il valore della convivenza tra diverse componenti culturali e religiose». La sua speranza è che voci arabe e islamiche si facciano sentire in ambito accademico a difesa degli stessi valori. «Spero si pronuncino molto più di adesso, perché sarebbe la premessa per creare le condizioni culturali per uscire dalla tragedia in cui vive il vicino Oriente», sostiene Meghnagi. «Non siamo decisori politici, ma docenti. E come docenti il nostro compito è fornire delle buone pratiche e alimentare l’empatia». In quest’ottica, conclude, «anche psicologi e psicanalisti italiani hanno perso finora un’occasione, concentrandosi nel deumanizzare la realtà d’Israele» .a.s.
Università ebraica di Gerusalemme, l’officina dei geni che cambiò il mondo
di David Meghnagi
L’Università ebraica di Gerusalemme compie 100 anni, e li porta bene. La foto di Einstein con lo sguardo sognante, che gira in bici per il campus, ti segue e ti incoraggia amichevolmente. Dalla terrazza dell’ateneo è possibile guardare in lontananza il luogo più basso del pianeta. La città di Gerusalemme si affaccia sul deserto. Ma il deserto, con il suo silenzio, non è mai stato concepito come assenza totale. Dal midbar (deserto) viene davar, la parola che consola e restituisce un senso al dolore. L’Università, scrisse Freud nel suo toccante messaggio, «è il luogo in cui si insegna il sapere al di sopra di ogni differenza di religione e di nazionalità», in cui gli esseri umani «apprendono fino a che punto può spingersi la loro comprensione del mondo», una «nobile testimonianza del grado di sviluppo cui il nostro popolo è faticosamente pervenuto in duemila anni di traversie sfortunate».
Nonostante i laceranti conflitti che scuotono la regione, l’Università non è mai venuta meno all’appello di Freud. Se non fosse per la follia che dilaga verrebbe da ridere amaramente che ci siano fisici, psicologi e purtroppo anche psicoanalisti che vogliono porre fine a ogni forma di collaborazione con un ateneo in cui il ruolo degli accademici italiani – espulsi dalle Università italiane dopo le Leggi razziali – è stato importante. Giusto per citare alcuni nomi da ricordare: Giulio Racah, fisico espulso dall’Università di Pisa, uno dei padri della fisica israeliana; Guido Tedeschi, giurista dell’Università di Siena a cui si deve lo sviluppo del pensiero giuridico in Israele. Quando Ben Gurion gli chiese di assumere la presidenza dell’Alta Corte, Tedeschi rispose che per lui era più importante formare dei giuristi di qualità. E poi ci sono l’anatomopatologo Salomone Enrico Emilio Franco; Roberto Bachi, statistico e demografo; Guido Mendes, tisiologo; Umberto Cassuto, orientalista; Enzo Bonaventura, psicologo sperimentale e pioniere della psicoanalisi italiana, che morì assassinato insieme ad altre 68 persone in un agguato mortale nell’aprile 1948. Tre generazioni di studiosi uccisi in un solo giorno.
Per non parlare di Enzo Sereni (fratello di Emilio), che fondò un kibbutz e non si rassegnò mai, come tanti, all’idea che non fosse possibile costruire un rapporto di convivenza con il mondo arabo e islamico. Sul finire della guerra, Enzo Sereni, che il Comune di Roma ha deciso di ricordare con una via, si fece paracadutare in Italia per unirsi alla lotta partigiana e portare aiuto agli ebrei braccati dai nazisti. La storia dell’Università ebraica è anche un pezzo di storia italiana, da riscoprire come tale per gettare un ponte tra un passato che non passa e un futuro possibile di convivenza.
Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Palestinesi, accusandola di condurre una “guerra politica ed economica” contro Washington e Gerusalemme. L’annuncio è stato dato direttamente dal Segretario di Stato Marco Rubio, che ha definito inaccettabili gli sforzi della relatrice speciale per coinvolgere la Corte Penale Internazionale contro funzionari, aziende ed esponenti politici americani e israeliani.
“Non tollereremo oltre la campagna di guerra politica ed economica di Francesca Albanese contro Stati Uniti e Israele,” ha dichiarato Rubio in un post su X. “Continueremo a intraprendere tutte le azioni necessarie per contrastare il lawfare e difendere la nostra sovranità e quella dei nostri alleati”.
L’iniziativa arriva in un momento delicato, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si trova in visita a Washington per negoziati con l’amministrazione Trump riguardo a un possibile cessate il fuoco a Gaza e un accordo per la liberazione degli ostaggi. La decisione di Rubio ha raccolto immediatamente il sostegno di diversi rappresentanti israeliani, come ha riportato il Jerusalem Post. Il Ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha commentato con entusiasmo: “Un messaggio chiaro. È ora che l’ONU presti attenzione!”. Anche l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Danny Danon, ha applaudito l’iniziativa: “Albanese ha superato da tempo il confine tra difesa dei diritti umani e propaganda antisemita. Le sue dichiarazioni e azioni danneggiano profondamente la credibilità delle Nazioni Unite”.
Le accuse nei confronti di Francesca Albanese spaziano da posizioni ritenute antisemite — come l’aver parlato di una “lobby ebraica” che controllerebbe gli Stati Uniti — a una presunta legittimazione di Hamas e del ricorso alla lotta armata da parte dei palestinesi. In un’intervista del 2022, ripresa dal Times of Israel, aveva paragonato l’azione di Israele a quella dei nazisti. Più recentemente, ha descritto le azioni di Israele a Gaza come “genocidio” e ha invitato gli Stati membri dell’ONU a prendere misure concrete contro lo Stato ebraico, comprese sanzioni internazionali.
(Shalom, 10 luglio 2025)
La viceministra Haskel: Italia tra i paesi più vicini a Israele
Il governo italiano? «Uno dei più vicini a Israele, hanno capito perfettamente la situazione e per questo li ringrazio»
Sharren Haskel è la viceministra israeliana degli Esteri. È di ritorno in Israele dopo una tre giorni a Roma nel corso della quale ha incontrato ministri, parlamentari, esponenti della maggioranza e di parte dell’opposizione, rappresentanti del mondo ebraico e dell’associazionismo. Una missione proficua, fa capire incontrando alcuni giornalisti nella sede della missione israeliana, affiancata dall’ambasciatore Jonathan Peled. Haskel ha risposto a domande su vari temi, a partire dal recente conflitto dei “12 giorni” con l’Iran e dai negoziati per una tregua a Gaza e per il rilascio di parte degli ostaggi. La viceministra ha rivendicato «il grande successo» dell’operazione in Iran, che avrebbe riportato il progetto nucleare di Teheran indietro di almeno due anni. «Si apre per tutti una grande opportunità», ha dichiarato. «Ed è il momento che emergano delle leadership in grado di stabilizzare la situazione in Medio Oriente». Stabilità della quale il regime degli ayatollah «è il più grande nemico, come si vede nella guerra che stiamo combattendo da quasi due anni con i suoi proxies». L’Iran è un pericolo globale, ha proseguito la viceministra, «perché ha tentacoli in tutto il mondo, è infiltrato in Europa e in America Latina: noi siamo in prima linea». Israele «non ha avuto alternative», ha spiegato. «Negli ultimi mesi il regime ha impresso un’accelerazione drammatica sia rispetto al programma nucleare, sia alla produzione di missili balistici; quando il regime grida “morte a Israele!” sappiamo bene cosa intende e non possiamo permetterlo».
Per quanto riguarda i negoziati in corso a Doha, la viceministra ha affermato che «Israele ha sempre detto sì, facendo molte concessioni, perché la nostra priorità è riportare gli ostaggi a casa». Hamas invece «ha sempre rifiutato, ponendo condizioni inaccettabili: non possiamo permettere che riprenda il controllo della distribuzione degli aiuti umanitari». È un punto non negoziabile, ha ribadito, «e malgrado ciò siamo ancora a Doha perché vogliamo un accordo». Sul “day after” per Gaza, quando la guerra sarà finita, «stiamo dialogando con alcuni paesi arabi, che concordano con noi sul fatto che Hamas non possa più avere un ruolo: una delle ipotesi in campo è un controllo internazionale con il coinvolgimento di alcuni di questi paesi». È ancora attuale soluzione “Due popoli, due stati?”. Haskel ha espresso un no netto, sostenendo che chi la avalla in questo momento storico (il riferimento era al presidente francese Emmanuel Macron) «sta di fatto chiedendo di arrenderci ad Hamas, perché la festa nazionale di quello Stato diventerebbe il 7 ottobre».
La situazione nei Territori è spesso incandescente. Haskel ha condannato le violenze di alcuni “giovani delle colline” che di recente hanno attaccato anche soldati dell’esercito israeliano, sostenendo comunque che si tratta di episodi «non così frequenti, certo non su base quotidiana». E in ogni caso, ha aggiunto, «la giustizia farà il suo corso, abbiamo un sistema molto solido che non fa differenza a seconda dell’identità degli imputati: ebrei, musulmani, cristiani è lo stesso per tutti». La viceministra si è poi detta ottimista sul futuro degli Accordi di Abramo: «Altri paesi vorrebbero entrare a farne parte». E anche sulla tenuta dell’economia israeliana: «Siamo di fatto in una nuova guerra d’indipendenza, sottoposti a una minaccia esistenziale; ciò nonostante, anche a livello economico, stiamo mostrando la nostra resilienza».
L’obiettivo è rafforzare le relazioni con l’Italia in vari ambiti, promuovendo ricerca e sviluppo. Haskel ne ha parlato con Anna Maria Bernini, la ministra italiana dell’Università e della Ricerca. Haskel ha posto l’accento con preoccupazione sulla crescente influenza del movimento Bds nel sistema universitario. «Boicottando Israele, perdono tutti», ha sostenuto. «Il Bds è un movimento estremista che punta a distruggere la possibilità di un futuro migliore, anche per i palestinesi. Nelle aziende prese di mira dal Bds, ad esempio SodaStream, ebrei e arabi lavorano fianco a fianco, si conoscono e vanno ai matrimoni e alle feste l’uno dell’altro».
Rav Bahbout rinuncia alla cittadinanza onoraria di Napoli: “L’amministrazione napoletana appoggia assassini criminali e terroristi”
“Non intendo, quindi, essere più cittadino di una città che rappresenta, da parte di chi la amministra, l’esatto contrario di quella che mi conferì la cittadinanza” ha scritto l’ex rabbino capo della città partenopea al sindaco Gaetano Manfredi dopo la decisione del consiglio comunale di interrompere i rapporti con Israele.
di Nina Prenda
Rav Scialom Bahbout, già rabbino capo della città di Napoli e del Sud Italia, ha rinunciato al conferimento della cittadinanza onoraria del capoluogo campano e ha scritto una lettera al sindaco Gaetano Manfredi per declinare l’invito ed esprimere la sua posizione in merito. Deluso ma deciso, compiendo un gesto forte e ricco di significato, Bahbout rigetta il conferimento poiché il Consiglio Comunale della città ha deciso di interrompere i rapporti con Israele.
“Signor Sindaco, la Sua città ebbe a conferirmi la cittadinanza partenopea che accolsi con spirito di orgoglio e responsabilità” così inizia la lettera. Ricordando di essere stato accolto nel 1953, quando giunse a Napoli come profugo dalla Libia, il rabbino riconosce la “responsabilità quale rabbino capo in una realtà dialogante e che guardava al Mediterraneo aspirando giustamente ad un ruolo centrale anche di pacificazione” e la sua intenzione di “corrispondere anche dal ruolo ricoperto all’ accoglienza che ricevetti nel 1953”.
In passato, il ruolo da lui ricoperto è stato motivo di orgoglio, così da lui stesso definito, “perché mi consentiva di essere parte di una comunità che aveva costituito una città aperta e tollerante e che è stata, con il ghetto di Varsavia, unica in Europa a sollevarsi da sola e con le armi contro assassini crudeli, sterminatori e oppressori che avevano lo scopo di assoggettare popoli ed eliminare quello al quale appartengo”.
Eppure oggi qualcosa nella città di Napoli è cambiato. Rav Bahbout esprime la sua profonda delusione per le decisioni del Consiglio Comunale, giacché “un recente voto del Consiglio che Ella presiede promuove un boicottaggio contro l’unica democrazia del Medio Oriente e, sposando facili quanto falsi slogan, calpesta le gloriose, spontanee ed eroiche gesta della città”; ottantadue anni dopo “con tale voto l’amministrazione napoletana ha inteso appoggiare assassini criminali e terroristi che hanno gli stessi scopi e metodi di quelli che furono cacciati dalla popolazione nel 1943 e che ho sopra richiamato”.
È per questa ragione che il rabbino declina il conferimento della cittadinanza onoraria, scrivendo: “Non intendo, quindi, essere più cittadino di una città che rappresenta, da parte di chi la amministra, l’esatto contrario di quella che mi conferì la cittadinanza e che risulta oggi perseguire l’opposto di quei valori di Libertà, Giustizia e Verità che ne fecero un faro tra le genti e non soltanto in occasione delle eroiche quattro giornate per le quali la città venne insignita di medaglia d’oro”. Conclude così Bahbout: “Le comunico quindi la mia volontà a rinunciare alla cittadinanza di Napoli”, chiosa.
Forse c’è anche una stanchezza che logora più delle bombe. È la stanchezza di una nazione che da mesi manda i suoi figli di diciannove anni a morire in un dedalo di vicoli a Gaza, senza che nessuno sappia indicare quale sia la vera meta, quale sia l’uscita dal labirinto. “Il capo di stato maggiore continua a ripetere che non c’è ragione di rimanere lì”, scrive un’amica da Israele, e in quella frase c’è il dramma di un intero popolo. Un popolo che si sente sotto assedio, non solo dai missili che piovono da ogni dove, ma anche dal dito puntato del mondo intero, e che inizia a dire, semplicemente, “basta”.
Di fronte a questo logoramento, le domande strategiche restano sospese a mezz’aria, senza risposta. Qual è il piano del governo Netanyahu, al di là del corretto obiettivo di “estirpare Hamas”? Cosa si è guadagnato davvero dalla guerra lampo con l’Iran se non un “cessate il fuoco”? E dopo mesi di combattimenti a Gaza, Israele è davvero più sicura? Il vuoto di una strategia a lungo termine viene così colmato da un atto di disperata diplomazia personale.
La speranza non è più in un piano, ma nell’intervento di un attore esterno come il presidente Trump, la cui benevolenza va corteggiata con gesti plateali. Lo conferma la notizia, riportata dalla CNN e da altre testate, della lettera che Bibi ha consegnato ieri a Trump per candidarlo al Nobel per la Pace: non un omaggio, ma l’ultima moneta di scambio per ottenere quella parola ‘fine’ che la sua leadership è incapace di prevedere.
E sullo sfondo un Occidente ripiegato su se stesso, perso tra le sue piazze urlanti e i suoi salotti accademici schierati nella quasi totalità con lo slogan “dal fiume al mare”. L’uscita dal labirinto, forse, non si trova a Washington o a Bruxelles, ma sta prendendo forma proprio in quel mondo arabo che per decenni è stato considerato la radice del problema.
Il primo segnale è un cambio di paradigma geopolitico, riassunto nel vecchio adagio: “il nemico del mio nemico è mio amico”, pronunciato poco tempo fa dal principe Mohammed bin Salman. Il vero nemico che unisce non è più lo Stato ebraico. È l’Iran. La prospettiva di un’egemonia persiana, e forse nucleare, sta costringendo le monarchie sunnite a un ricalcolo radicale dei propri interessi. La sopravvivenza dei loro troni vale più della vecchia retorica panaraba. E la stabilità, si rendono conto, passa per una normalizzazione dei rapporti con l’unica altra potenza tecnologica e militare della regione in grado di fronteggiare Teheran: Israele.
Su questo terreno di realismo spietato, stanno germogliando semi che fino a ieri sarebbero stati considerati pura eresia. Non si tratta più solo degli Accordi di Abramo. Dal mondo arabo stesso, come riporta la stampa israeliana, si sta formulando una nuova Iniziativa di Pace Araba. E, ancora più sorprendente, dal basso, dal cuore della Cisgiordania, emergono proposte locali, come quella dello sceicco di Hebron, Wadee’ al-Jaabari, che, scavalcando l’Autorità Palestinese ormai decrepita e corrotta, propone al Wall Street Journal la creazione di un emirato locale pronto a fare la pace.
Queste non sono soluzioni definitive, ma sono crepe nel muro dell’immobilismo. Sono tentativi pragmatici di costruire qualcosa di nuovo sulle macerie di un’ideologia fallita, quella del rifiuto a oltranza. L’idea che la “questione palestinese” possa essere risolta non da un accordo globale imposto dall’esterno, ma da una serie di patti locali e regionali sostenuti da chi ha davvero interesse a pacificare l’area, è un concetto rivoluzionario.
Questa svolta non nasce da un ingenuo idealismo, ma da un realismo che mette sul tavolo una scelta tra due visioni del futuro, incompatibili e antitetiche. Da un lato, c’è un modello di cooperazione basato sul progresso concreto: la sicurezza idrica, l’agricoltura, l’innovazione e l’interdipendenza economica. È la via di chi vuole “costruire e assicurare un futuro condiviso”, allineandosi con partner strategici come Israele, visto sempre più come un pilastro necessario per la prosperità a lungo termine.
All’opposto, c’è la dottrina del caos, incarnata dall’Iran e dai suoi emissari del terrore come Hamas, Hezbollah e Houthi. Il loro unico progetto non è costruire un futuro, ma orchestrare un conflitto senza fine per annientare Israele e muovere guerra all’Occidente. È il regno dei predicatori di morte, un investimento garantito nell’instabilità che una parte del mondo occidentale, con una perversione quasi incomprensibile, sembra voler abbracciare.
I leader arabi, con lungimiranza, stanno semplicemente scegliendo tra un partner che è pilastro di prosperità e un movimento che è “l’antitesi della civiltà”.
E così, mentre in Italia e in Occidente ci si lacera su boicottaggi e liste di proscrizione, la storia si muove altrove. L’uscita dal labirinto potrebbe non essere la porta principale che tutti fissano da settant’anni, ma un passaggio secondario, aperto silenziosamente da chi ha capito che, per sopravvivere alla minaccia più grande, è necessario scegliere il proprio alleato, anche se ieri lo si chiamava nemico.
(InOltre, 10 luglio 2025) ____________________
Analisi di questo tipo mettono sempre da una parte i "barbari" orientali: Hamas, Iran, Hezbolla, Houthi, con qualche accenno alla putiniana Russia, e dall'altra i "civili" occidentali: Israele, America, Europa. Sono analisi prettamente laiche e pertanto superficiali. Il nemico profondo di Israele e degli ebrei si trova, ora come nel passato, in un Occidente percorso da correnti religiose cangianti secondo i tempi. Nella superficiale religiosità laica dei diritti e della libertà si è innestata una religiosità islamica adattata ai tempi e alle circostanze che sta potenziando il sempre latente odio antiebraico occidentale rendendolo più universale, più ecumenico, più resistente. E in sostanza più occidentale. Registro anche, con dolore e umiliazione, il riemergere di un antisemitismo cristiano, anche questo ecumenico, proveniente da zone teologiche diverse che però si ritrovano in una comune svalutazione dello Stato di Israele e degli ebrei di oggi. E anche questo è un fenomeno che avviene in Occidente. M.C.
Cinque soldati israeliani uccisi in un’imboscata di Hamas a Beit Hanoun
di Luca Spizzichino
Lunedì sera cinque soldati israeliani sono stati uccisi e altri 14 feriti, di cui due in modo grave, in un attacco coordinato da Hamas nella città settentrionale di Beit Hanoun, nella Striscia di Gaza. L’imboscata, avvenuta intorno alle 22:00, ha colpito una forza del battaglione Netzah Yehuda della Brigata Kfir, impegnata in un’operazione di avanzamento a piedi in una zona sotto intenso controllo militare israeliano.
Secondo una prima indagine dell’IDF, l’attacco è stato innescato da una serie di quattro-cinque ordigni esplosivi nascosti e fatti detonare in rapida successione. Gli esplosivi, probabilmente piazzati nei due giorni precedenti, avrebbero preso di mira una colonna di soldati in prossimità di carri armati e veicoli del Genio militare israeliano. Le forze di soccorso, intervenute per evacuare i feriti, sono poi finite sotto un intenso fuoco di copertura in quella che i vertici militari hanno definito “un’imboscata ben preparata”, organizzata dopo un’attenta osservazione dei movimenti delle truppe israeliane.
Il battaglione era entrato a Beit Hanoun come parte di una più ampia offensiva congiunta, condotta insieme alla Brigata Paracadutisti della Riserva 646 e alla Divisione settentrionale della Striscia, con l’obiettivo di neutralizzare una roccaforte di Hamas alla periferia della città. L’area era stata sottoposta a pesanti bombardamenti aerei e di artiglieria nei giorni precedenti.
Questo episodio rappresenta la più grave perdita per il battaglione Netzah Yehuda dall’inizio della guerra. Prima di lunedì, il battaglione aveva perso quattro soldati, tre dei quali in un attacco simile avvenuto a maggio. Con questi ultimi caduti, il numero totale di soldati israeliani morti nella guerra sale a 888, di cui 446 uccisi durante le operazioni terrestri a Gaza. Tra le vittime c’è Benyamin Asulin, 28 anni, riservista originario di Haifa, arruolato nella Brigata settentrionale della Divisione Gaza. Con lui hanno perso la vita quattro giovani soldati in servizio attivo del Netzah Yehuda, tutti tra i 20 e i 21 anni: Noam Aharon Musgadian, Meir Shimon Amar e Moshe Nissim Frech, tutti e tre cresciuti a Gerusalemme, e Moshe Shmuel Noll, di Beit Shemesh.
Parlando da Washington, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Questo è un mattino difficile per tutti noi. Il popolo d’Israele china il capo nel dolore e nell’orgoglio, rendendo omaggio ai nostri eroi caduti. Hanno dato la vita nel nome di una missione più grande: sradicare Hamas e riportare a casa i nostri ostaggi”.
“I cinque soldati uccisi erano in prima linea nella lotta per la sicurezza di Israele. Hanno combattuto con valore e sacrificato tutto. La nostra responsabilità è continuare la loro missione” ha aggiunto il ministro della Difesa Israel Katz.
Il codice etico di IDF: un filo collega l’attacco del 7 ottobre e le leggi della guerra
Un filo collega l’attacco del 7 ottobre e le leggi della guerra.
di Joe Shammah
Il kibbutz Be’eri fu fondato il 6 ottobre 1946. Il 7 ottobre è il giorno del fatidico attacco di Hamas del 2023. Le due date sono separate da 77 anni. La fondazione del kibbutz (1946) precede di 2 anni la costituzione (1948) dello Stato di Israele ed è successiva di 2 anni (1944) alla morte di Berl Katznelson. Il nome del kibbutz venne attribuito in suo onore, Be’eri è la versione ebraica di Berl. Katznelson (1887-1944) era un ebreo lituano emigrato nella Palestina ottomana nel 1909. Fondò nel 1920 il sindacato dei lavoratori, Histadrut, e nello stesso anno la cassa mutua malattie, Clalit, entrambi tuttora operativi. Nel 1925 diede vita al quotidiano socialista Davar (Parola) e la casa editrice ‘Am ‘Oved (Popolo Operaio). Anche questi sono attivi tutt’oggi.
Nel 1936-1939 durante la Rivolta Araba al Mandato Britannico, in un periodo fragile per la comunità ebraica, esposta al terrorismo arabo prima della costituzione dello Stato, il Palmach (acronimo di Plugot Maḥatz, Compagnie d’Attacco) garantì l’ autodifesa degli insediamenti ebraici. Katznelson sviluppò allora un codice di norme di guerra e attinse dalla tradizione biblica il nome di “purezza delle armi”. Il codice fu adottato prima dal Palmach, poi da IDF quando vi confluì il Palmach.
Il codice etico di IDF (Israel Defense Forces, in ebraico ZAHAL, Zvà haHaganà LeIsrael) del 1994 fu redatto nella continuazione del pensiero di Katznelson.
È opera di Asa Kasher con contributi di Moshe Halbertal. Affonda le sue radici nella tradizione ebraica: “Se il tuo nemico cade, non festeggiare; se cade, non si rallegri il tuo cuore” (Proverbi 24:17).
Le Laws of War sono state redatte nel 1949, 4 trattati e 3 protocolli, a cui ci si riferisce come Convenzioni di Ginevra.
Katznelson ha anticipato le leggi internazionali di un decennio, permeando IDF di un codice etico che ispira e precede norme di condotta militare di altri eserciti.
Il kibbutz Be’eri è stato devastato da 101 morti, un decimo dei suoi membri, e da 30 rapiti il 7 ottobre.
L’ateneo filo-palestinese di Padova che ripudia Israele e i suoi istituti
di Pompeo Volpe
Il Senato accademico (Sa) dell’Università di Padova ha approvato tre mozioni, successivamente al 7 ottobre, cioè all’eccidio di oltre 1200 civili e al rapimento di circa 250 ostaggi. Il 7 novembre 2023, in una “Mozione per la pace”, «condanna fermamente le atrocità commesse da… Hamas, …esprime sconcerto e preoccupazione per il drammatico evolversi della situazione nella striscia di Gaza dove l’intervento dell’esercito israeliano, colpendo anche obiettivi non militari, sta imponendo alla popolazione palestinese perdite umane e disagi inaccettabili» e «si esprime a favore della risoluzione pacifica del conflitto». Prescindendo dall’aggressione subita da Israele su sette fronti di guerra e dal suo diritto all’autodifesa, nonché dalle responsabilità di Hamas che usa i gazawi come scudi umani, il Sa si presenta quasi equidistante tra i due contendenti, 30 giorni dopo il 7 ottobre, ma si preoccupa dell’intervento “inaccettabile” dell’IDF.
Il 14 maggio 2024, a fronte dell’insistenza di alcuni suoi componenti che vorrebbero un atto di condanna di Israele, la maggioranza del Senato accademico e la rettrice Mapelli si oppongono alla denuncia degli accordi con le Università israeliane, ma fanno passare alcuni elementi di narrazione filo-palestinese. Nella “Mozione sul conflitto nella Striscia di Gaza”, l’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre diventa l’”esacerbazione” del conflitto in corso e la liberazione degli ostaggi è posposta alla richiesta di un immediato cessate il fuoco. Tutta l’attenzione viene rivolta alle «gravissime emergenze umanitarie e a[lle] numerosissime vittime tra la popolazione civile palestinese, tra cui migliaia di bambini… drammatiche notizie provenienti quotidianamente dalla Striscia di Gaza», e all’«ulteriore drammatico evolversi del conflitto condotto con ingiustificabile accanimento dall’esercito israeliano ai danni della popolazione civile palestinese, alla quale vanno sentimenti di vicinanza e solidarietà». Accettando per buona la propaganda di Hamas sul numero e sul tipo di vittime (tra cui migliaia di bambini) e dimenticando il continuo lancio di razzi verso centri abitati israeliani, dalla Galilea al Negev, emergono gli stereotipi del palestinese vittima e dell’israeliano carnefice.
Il 1° luglio 2025, regista la rettrice Mapelli, il Senato accademico dispiega pienamente la narrazione filopalestinese e anti-israeliana omettendo ogni riferimento alle vittime israeliane (dagli ostaggi ancora detenuti, ai morti e ai feriti delle centinaia di missili balistici lanciati dall’Iran). Inizialmente il Sa constata il «proliferare delle violazioni sistemiche (sic) dei diritti umani fondamentali del popolo palestinese» e l’«esacerbarsi dell’azione militare della Stato di Israele a Gaza» e poi «condanna … tutte le ripetute violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani compiute dalla Stato di Israele, certificate dall’ONU, dalla Corte Penale Internazionale e dall’Unione Europea». Ma le violazioni si “certificano”? E ammesso che si certifichino, sono state certificate?
Quando mai è stato condannato Israele nelle sedi opportune? Essendo le violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani a carico di Israele ad oggi inesistenti, fino a quando ascolteremo le falsità divulgate dal Sa dell’Università di Padova? In base a tale, infondata, premessa, il Senato accademico si impegna poi a «farsi promotore … del riconoscimento dello Stato Palestinese … [e] a non intraprendere nuovi accordi istituzionali, né a rinnovare gli accordi in essere, con le istituzioni e gli enti israeliani che contribuiscono al perpetrarsi delle gravissime violazioni del diritto internazionale e al mantenimento dell’occupazione illegale del Territorio Palestinese».
Adesso l’istituzione universitaria si sente autorizzata a negare la sottoscrizione di nuovi accordi per evidenti complicità con le violazioni del diritto internazionale e con il mantenimento dell’occupazione illegale. Nella chiusa della mozione, il Sa raggiunge quindi il suo “Nadir anti-israeliano” tratteggiando un Israele imperialista e colonizzatore: ma qualcuno di loro ha letto i documenti del trattato di Sanremo (1920), del Mandato della Lega delle Nazioni (1922) fino a quelli degli Accordi di Oslo (1993)? Accettando la propaganda di Hamas, affiancando chi vuole semplicemente la distruzione di Israele, praticando il doppio standard (che condanna i presunti bombardamenti indiscriminati condotti dallo Stato ebraico, ma cancella quelli subiti per venti anni da Israele), discriminando Israele e ignorandone il diritto all’auto-difesa e all’esistenza, il Sa non rende un buon servizio alla verità, alla libertà e alla storia dell’Università di Padova, spesso memorabile.
Mentre Benjamin Netanyahu atterra a Washington, sembra che gli ingranaggi della macchina dell’intelligence israeliana si stiano rimettendo in moto، silenziosi, nascosti, lontani dai riflettori mediatici. Non è solo un viaggio diplomatico. È l’inizio di un nuovo capitolo in una guerra invisibile, una battaglia d’intelligence che potrebbe sfociare in un altro terremoto geopolitico in Medio Oriente. Il Mossad e le sue reti di collaboratori, già attive nelle profondità del territorio iraniano, si preparano a uno scenario nuovo. Non se ne parla nei talk show internazionali, né se ne sente l’eco nei corridoi dell’ONU, ma i segnali sono visibili. La visita ufficiale del Primo Ministro israeliano, in un momento critico per la ridefinizione degli equilibri di sicurezza in Medio Oriente, grida una verità inequivocabile: il dossier Iran è tutt’altro che chiuso. Al contrario, è entrato in una fase ancora più nascosta, chirurgica e brutale. Dopo i dodici giorni di guerra tra Iran e Israele, la polvere ancora non si è del tutto posata. Ma ciò che avvolge la regione ora non è quiete, bensì la calma prima della tempesta. È in corso un gioco d’ombre, una partita d’intelligence in cui l’obiettivo non è solo distruggere le installazioni nucleari o le basi militari iraniane, ma qualcosa di molto più ambizioso: sgretolare dall’interno la volontà strategica del regime, logorare psicologicamente i suoi quadri di comando, e aprire crepe nel cuore stesso del potere. Il Mossad, con un curriculum di operazioni audaci nel cuore dell’Iran, sta nuovamente posizionando le sue pedine. Le cellule dormienti si risvegliano. Tecnologie di sorveglianza e comunicazione avanzate vengono dispiegate. Agenti addestrati da anni per questo momento cruciale sono pronti a eseguire un piano che potrebbe, per la seconda volta in un mese, ribaltare completamente gli equilibri. Nel frattempo, ciò che accade nella Striscia di Gaza non è affatto scollegato. Fonti autorevoli parlano di una tregua di due mesi tra Netanyahu e Hamas, mediata da Qatar ed Egitto, sotto pressione americana. Perché ora? Perché l’opinione pubblica mondiale è sempre più ostile verso governo di Israele. Le immagini dei bambini morti sotto le macerie hanno generato un’ondata di condanna globale. Ma Netanyahu, un politico temprato da decenni di crisi, potrebbe ancora una volta usare questo clima a suo favore. La tregua a Gaza potrebbe essere parte di una tattica più ampia: abbassare il livello di tensione mediatica, guadagnare legittimità internazionale con una faccia più “razionale”, e concentrare tutte le forze contro ciò che Israele considera la minaccia esistenziale: Il regime islamico dell’Iran. In questo contesto, il viaggio di Netanyahu a Washington ha un messaggio: ottenere il via libera definitivo dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per sferrare un colpo più duro, più deciso – forse, finale. Trump, tornato alla Casa Bianca con l’intenzione dichiarata di contenere nuovamente l’Iran, sa bene che Netanyahu può essere il suo braccio operativo nella nuova fase della politica di “massima pressione”. La cooperazione tra Tel Aviv e Washington si è rafforzata dopo la guerra recente, e ora, mentre il polverone si deposita, è il momento di pianificare il prossimo attacco. Israele sa che il tempo non gioca a suo favore. Ogni giorno di attesa consente al “regime di Ayatollah” di rafforzarsi e complica il contesto diplomatico. Per questo, la nuova strategia non punta a una guerra convenzionale, ma a una guerra invisibile: smantellare le reti informative, neutralizzare i centri decisionali, e soprattutto, distruggere la fiducia strategica del regime. Questa volta, l’obiettivo potrebbe non essere solo Fordow, Isfahan o Parchin. Forse, il Mossad non cerca più l’esplosione, ma il collasso. Distruzione senza fumo. Attacco senza detonazione. Mandare in tilt i meccanismi interni della sicurezza iraniana, è questa l’arte oscura che ha reso Israele uno degli attori più temuti nel mondo dell’intelligence. Il silenzio dei media, la lentezza sospetta degli analisti occidentali e il focus globale su altre crisi sono tutti segnali rivelatori: il prossimo attacco potrebbe essere già finito prima ancora che qualcuno si accorga che è iniziato. In tutto questo, il popolo iraniano deve essere più vigile che mai. Perché la posta in gioco non è solo il destino di un regime, ma il futuro di un’intera regione. Un regime che ha usato il terrore e la penetrazione per esportare la sua rivoluzione, ora rischia di diventare vittima delle stesse armi. La storia ha un senso dell’ironia feroce. Nel teatro della politica internazionale, chi tace non è sempre inattivo.
Oltre Monte Porzio Catone, se una sezione del Pd riflette la sinistra italiana
di Valentina Belgrado e Aldo Winkler
I fatti sono ormai noti.
Presso il Pd di Monte Porzio Catone, il 3 luglio 2025, è stato organizzato un incontro pubblico sulla situazione di Gaza, dal titolo: “Stop al Massacro”, promosso dall’Anpi Frascati – Grottaferrata, di cui era già evidente l’intento dalla locandina. Questa, nella versione inviata a scopo promozionale dalla Sezione del Pd, non riportava la presenza di Marina Argada in qualità di relatrice per il Bds Italia.
Siamo molto affezionati a quel circolo Pd, dove abbiamo partecipato a diversi eventi culturali che, all’epoca del nostro trasferimento da Roma e Firenze a Monte Porzio Catone, ci permisero di inserirsi nell’allora fervido attivismo di un paese che nel tempo abbiamo frequentato sempre meno.
La nostra partecipazione all’evento è stata senz’altro animata da voglia di comprendere fino a che punto ci si potesse spingere a livello di trattazione unilaterale del conflitto. Infatti, era ovvia già dalla locandina la faziosità di un incontro proditoriamente chiamato “dibattito”, mancando tra i relatori una presenza che potesse esprimere il punto di vista israeliano sul conflitto in corso. Erano diversi poi i motivi di pregiudizio, avendo l’Anpi apposto il proprio logo dedicato all’80° Anniversario della Liberazione fuori contesto e competenza in un evento del genere che, piuttosto, doveva essere territorialmente legato alla Resistenza nei Castelli Romani e al fondamentale contributo degli ebrei italiani raccontato da Pino Levi Cavaglione nel suo diario Guerriglia nei Castelli Romani. Le cartine sull’evoluzione territoriale della Palestina dal 1917 all’epoca attuale non sono neppure commentabili, per quanto notoriamente false in tutti i piani storico-politici che intenderebbero rappresentare, con la cui diffusione il circolo del Pd si è assunto la responsabilità di contravvenire all’obbligo di proporre contenuti atti a non diffondere pregiudizio e falsi storici.
Abbiamo potuto apprezzare l’intervento accorato a cura di Emergency, e quello del delegato di Amnesty International, di cui è stato contestabile il solo uso della parola genocidio, unico rappresentante che ha parlato della tragedia del 7 ottobre e delle difficoltà, anche a livello di reperimento di fonti affidabili e statisticamente riscontrabili, di trattare dati riguardanti una forza di natura terroristica quale Hamas.
Per quanto riguarda gli altri interventi, possiamo soltanto ribadire che presso una sede del Pd — forza politica che si definisce democratica che ha ambizioni di governo — si è consumato un evento di propaganda anti-occidentale, violentemente antisionista, antisemita e anti-storica, che può essere soltanto marginalmente rappresentata da ciò che andiamo brevemente a descrivere, non potendo purtroppo raccontare gli sguardi, le espressioni letteralmente (ma anche oralmente) di schifo che abbiamo subito e il livello di recepimento acritico di ciò che è stato narrato.
Una sezione del Pd si è permessa di consegnare al pubblico un delirio autoriferito sul boicottaggio con elenchi di ditte, supermercati e aziende da boicottare, invitando persino a non assumere medicinali, qualora riconducibili a Israele, e a mettere in crisi, fino a farli fallire, persino piccoli negozi locali che vendono prodotti di origine israeliana. La rappresentante Bds, da noi contestata per aver parlato dello Stato ebraico come “territorio che adesso viene chiamato Israele”, ha replicato sostenendo che Israele è lo Stato più razzista del mondo.
Il termine più adatto a descrivere l’intervento del presidente della Comunità palestinese di Roma è comizio.
Si è trattato di un esercizio dialettico intriso di odio antiamericano, antisraeliano e antiebraico, per quanto il rappresentante palestinese stesso abbia riferito di non avercela contro gli ebrei romani e di aspirare a una sola terra in cui laicamente convivano ebrei, palestinesi e cristiani. Dalla continua ostentazione delle mappe di cui sopra, fino al lungo sproloquio sulla natura di Israele quale Stato creato dagli americani per controllare il mondo e rubare le ricchezze agli arabi, è arrivato a sostenere che il sionismo sia peggio del nazismo, nel silenzio del rappresentante dell’Anpi, inducendo interrogativi evidentemente subdoli su come mai Italia e Germania, complici della Shoah, ora favoreggino Israele, il tutto consumato tra l’approvazione del pubblico. Per giunta, alimentando la consueta falsa narrazione che Israele sia nato come una sorta di risarcimento concesso a seguito della persecuzione nazifascista, e che non ci sia modo di controbattere a un popolo che pretende di avere terre in quanto popolo di Dio.
Essendo terminati gli interventi dei relatori, a seguito dell’insistente richiesta di prendere la parola, credevamo fosse arrivato il momento di controbattere. Ma è stato dato prima spazio ad altri ospiti, e la discussione ha preso a quel punto un’altra piega, esplicitamente antisemita. Un ospite del pubblico è intervenuto per sostenere che gli ashkenaziti controllano le ricchezze del mondo e decidono le guerre. Con il pubblico sempre più convinto e consenziente. Purtroppo, la narrazione seguente non può procedere al plurale – con un noi – perché ci è stato impedito. E proseguo la narrazione come Aldo. Ero ormai pronto per il mio intervento, in cui ho rivendicato la mia origine ashkenazita, ironizzando su una posizione economica tale da consentirci comunque di vivere in affitto e, a quel punto, l’ospite di cui sopra mi ha risposto sostenendo che, in quanto ashkenazita, sarei comunque complice di Netanyahu e, pertanto, assassino. Mentre il pubblico continuava ad applaudire e annuire, Valentina, offesa per queste indegne affermazioni, ha risposto con veemenza allo spettatore e a tutti coloro che, intorno a lui, continuavano a dare cenni di approvazione e sostegno a quelle offese antisemite. È stata sostanzialmente costretta ad abbandonare la sala lei, anziché lo spettatore antisemita, e poi interdetta dal rientrare. Voglio ribadire qui che Valentina non ha mai chiesto di tornare a casa, anzi, ha voluto che restassi lì per portare avanti il mio intervento, in cui il rappresentante palestinese mi ha interrotto a ogni parola proferita. Ho sottolineato alla rappresentante Bds quanto il suo comportamento fosse corresponsabile anche della perdita di impiego di tanti palestinesi, per sentirmi rispondere che sono lavoratori schiavizzati. Il tutto, nella connivente gestione, inadeguata e reticente, del segretario locale del Pd, che vogliamo continuare a ritenere persona equilibrata, in grado di rendersi conto di quanto sia accaduto, anziché continuare a portare avanti il leitmotiv del non essere antisemita, accusa che peraltro mai gli è stata rivolta.
Ora, è necessario uscire dal contesto monteporziano, comprendendo piuttosto quanto questi eventi che propagandano disinformazione e odio si diffondano a livello sempre più capillare, contando sulla possibilità di sobillare audience sempre più allineate alla narrazione mainstream. Al di là delle parole francamente antisemite, è ora di obbligare Pd, Anpi Cgil e associazionismo di sinistra a fare una scelta precisa e netta, in cui non ci siano equivoci e smarcamenti dialettici sui piani del contrasto all’antisemitismo e all’antisionismo.
Siamo stati testimoni di un vile mercimonio in cui Gaza è stata sfruttata, come sempre più spesso accade, come parola magica per inculcare visioni antistoriche non del conflitto in corso, bensì della stessa esistenza, natura e legittimità dello Stato d’Israele, deridendo il dramma del 7 ottobre fino al punto di sostenere che i palestinesi fatti del genere, li subiscano continuamente. I circoli del Pd non possono diventare zone franche in cui si può liberamente promuovere il BDS e propagandare odio antioccidentale e antiebraico: questa esperienza arrivi alle dirigenze nazionali dell’associazionismo coinvolto, perché se ne assumano la dovuta responsabilità.
Intendiamo concludere con un messaggio positivo, approfittando di questo spazio per ringraziare con affetto tutti coloro che hanno sostenuto le nostre posizioni, decisamente maggioritari rispetto ai pochi messaggi di sostegno all’evento. L’Ucei ci ha onorati di parlare di quanto accaduto al Consiglio di domenica 6 luglio, in cui abbiamo avuto modo di incontrare l’onorevole Pina Picierno, cui vogliamo rivolgere un caro saluto per il modo con cui ha voluto onorarci con la sua deliziosa attenzione e disponibilità. Ringraziamo il Nes e Sinistra per Israele per i comunicati stampa che hanno diffuso verso l’esterno questi accadimenti, trattati poi da “Il Tempo”, “Il Riformista” e “Libero”. Sinistra per Israele – due popoli due stati – è stata per me, Aldo, una palestra politica importante e qualificata, con cui comprendere e agire dall’interno su quanto sta accadendo nella sinistra italiana.
Agam ha chiesto ai suoi rapitori un libro di preghiere ebraico. L'hanno derisa, ma poi è avvenuto un miracolo.
di Oriel Moran
Gli ostaggi israeliani che sono stati tenuti prigionieri a Gaza dalle forze di Hamas raccontano della speranza che un potere superiore vegliasse su di loro mentre sopportavano fame, percosse, torture fisiche e psicologiche, interrogatori, abusi sessuali e umiliazioni. C'era una cosa che i loro rapitori non potevano togliere loro: la fede. Ascoltando i liberati, emerge una sorta di filo conduttore che accomuna le loro storie.
• Cosa hanno vissuto le donne L'osservatrice dell'IDF Agam Berger è stata in prigionia per 482 giorni, l'osservatrice Liri Elbag per 477 giorni. Entrambe hanno mantenuto salda la loro fede. Agam ha deciso di osservare lo Shabbath, quando possibile. Una volta, mentre guardavano la televisione israeliana, le due donne capirono che giorno era. Da quella data continuarono a contare i giorni fino a Tisha B'av, e poi osservarono le festività ebraiche successive. A Yom Kippur digiunarono, anche se in generale ricevevano pochissimo cibo. Chiesero un pezzetto di mela e un po' di miele per celebrare Rosh Hashana. Quando a Pesach non vollero mangiare chametz (lievito), fu loro concessa anche un po' di farina di mais. Per Sukkot costruirono piccole decorazioni per le capanne. Conoscevano a memoria la Haggadah. Agam chiese ai rapitori un Siddur (libro di preghiere ebraico). La derisero. In precedenza le avevano portato un Corano, ma lei non voleva leggerlo. Come per miracolo, poco dopo aveva un Siddur tra le mani. Un soldato israeliano aveva lasciato il libro in una postazione. I rapitori lo presero e glielo diedero. Il giorno del suo rilascio, durante il volo di ritorno in elicottero, Agam scrisse su una lavagna: “Nella fede, che ho scelto, in questa fede ritorno”. Un'altra osservatrice dell'IDF, Daniella Gilboa, è stata prigioniera per 477 giorni. Lì ha cantato il tradizionale canto dello Shabbat Malachei Hashalom, che però ha tradotto in arabo perché non le era permesso pronunciare una sola sillaba in ebraico.
Emily Damari è stata in prigionia per 471 giorni. Durante lo Yom Kippur ha ascoltato alla radio le preghiere dello Slichot al Muro del Pianto. Ha sentito che si pregava anche per gli ostaggi. Dopo il suo rilascio, si è recata al Muro del Pianto per pregare. Qualche tempo prima del 7 ottobre 2023, Sapir Cohen ha avuto un brutto presentimento. Sentiva il bisogno di leggere ogni giorno, per un mese, il Salmo 27. Questo salmo è legato alla guerra. Quando è stata rapita, questo salmo, che ormai conosceva a memoria, le ha dato forza. È certa di aver sopravvissuto grazie alla sua fede in Dio, che ha dato un nuovo significato alla sua vita. Sapir è stata tenuta in ostaggio per 55 giorni.
• Cosa hanno vissuto gli uomini Elia Cohen è stato prigioniero per 505 giorni. Ha recitato le preghiere del Tefillin che ricordava. Ha anche pregato sull'acqua per il Kiddush dello Shabbat.
Omer Shem Tov è stato tenuto prigioniero da solo per la maggior parte del tempo, 505 giorni. I fratelli Mia e Itai Regev, rilasciati come ostaggi, hanno raccontato che Omer osservava lo Shabbath a Gaza recitando il Kiddush con un tappo di bottiglia ammuffito e dei salatini. Come kippah si metteva un pezzo di carta igienica sulla testa. Lo stesso giorno in cui Omer Shem Tov ed Elia Cohen sono stati liberati, il nonno di Elia Cohen ha celebrato l'Havdalah (un rituale che separa il sabato dal giorno normale) in ospedale. Ha benedetto il vino, acceso le candele e recitato le preghiere. Gli ostaggi che sono tornati hanno cercato di rispettare l'ultimo desiderio dei loro amici. Hanno onorato in modo particolare coloro che sono stati uccisi durante la prigionia. Ori Danino è riuscito inizialmente a fuggire dal luogo del festival Nova, ma poi ha ricevuto una telefonata dai partecipanti al festival Omer Shem Tov, Mia e Itai Regev, a cui aveva dato un passaggio in auto. Gli hanno chiesto di tornare a prenderli. In realtà erano degli estranei per lui. Ma lui è tornato per aiutarli. Ori è stato poi assassinato. La sua ultima volontà era che Eliah Cohen dedicasse un nuovo rotolo della Torah a una sinagoga in suo nome. Omer Shem Tov ha indossato i tefillin in sua memoria.
• Lehitchasek Alcuni ostaggi sono diventati credenti durante la prigionia, anche se prima non erano particolarmente religiosi. Lehitchasek è un termine che esprime il fatto di diventare “più forte” nell'osservanza religiosa dei comandamenti. Keith Segal (484 giorni di prigionia) iniziò a recitare una delle poche benedizioni che conosceva. Si trattava di una preghiera di Kiddush sul pane Challah. Lo recitava sull'unico pezzo di pane pita che gli veniva dato ogni giorno, poiché non conosceva la preghiera vera e propria per il pasto. Una volta, mentre guardava la televisione, era in onda un programma sui buoni ristoranti di Tel Aviv. Prima di mangiare, il conduttore recitò il “Baruch Mine Mezonot” e così Keith imparò la preghiera giusta per il pasto. Recitava anche lo “Shma Yisrael”. Ohad Ben Ami (499 giorni di prigionia) iniziò a celebrare l'Havdala ogni settimana: "Hitchasakti un po' in prigionia. Durante tutta la mia prigionia ho sentito che c'era qualcuno in cielo che mi proteggeva e dovevo essere forte. Dentro di noi siamo una nazione molto forte, e ciò che ci unisce è la nostra fede in Dio. Questo mi ha sostenuto, grazie a Dio oggi sono qui". Dopo il suo rilascio, Ohad ha ricevuto un set per l'Havdala e ha chiesto di essere istruito sul suo utilizzo.
Alexander “Sasha” Trufanov ha iniziato a pregare durante la prigionia per la sua ragazza, l'ex ostaggio Sapir Cohen. Sapir ha detto commossa: “Sasha ha pregato durante tutto questo tempo affinché io non lo aspettassi e trovassi un altro uomo con cui passare la mia vita. Non pensava che sarebbe sopravvissuto”. La madre di Sasha ha raccontato che durante la prigionia suo figlio ha capito che la sua vita era nelle mani di Dio. Dopo il rilascio, Sasha ha indossato per la prima volta i tefillin.
• La tangibilità della grazia di Dio Forse possiamo capire un po' come Daniella cantava a Dio in arabo a Gaza. Dio capisce tutte le lingue sotto il sole. Oppure pensiamo ad Agam Berger. Quanto era felice con il Siddur, completamente impolverato, ma un libro spirituale scritto in ebraico. Ha onorato il santo nome di Dio “Jud He Vav He” in terra straniera rifiutando il Corano. Pensiamo a Omer Shem Tov ed Elia Cohen. Erano rinchiusi in una prigione profonda diversi metri, tagliati fuori dall'aria fresca e dalla luce del giorno. Eppure capivano che non c'era luogo dove Dio non potesse vederli. Avevano lo stomaco vuoto, ma con timore di Dio posero la mano sul capo e Dio diede loro il necessario, letteralmente sotto gli occhi dei loro nemici. Pensiamo alla nostra vita normale e facciamoci coraggio! Lo stesso Dio che era con coloro che erano in prigionia è con tutti coloro che invocano il suo nome.
(Israel Heute, 8 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L’incontro fra Netanyahu e Trump: coordinamento e progetti
di Ugo Volli
• I colloqui
Quella di ieri sera era la terza visita di Netanyahu alla Casa Bianca nei primi sei mesi della seconda presidenza Trump: un record assoluto, che insieme ai numerosi contatti telefonici, ai frequenti incontri del ministro degli Affari strategici Darmer a Washington e quelli dell’inviato americano per il Medio Oriente Witkoff mostrano il livello di coordinamento fra Israele e Usa in questo momento, anche se continuamente i commentatori ostili a Israele (quasi l’intera stampa “autorevole” in Occidente) cercano di spacciare come notizie la loro speranza di dissidi fra i due leader. Questi incontri però significano più di una semplice solidarietà di schieramento, sono i momenti in cui si prendono le decisioni importanti, di solito non rese immediatamente note o anche coperte da un velo di disinformazione per ingannare il nemico. È così che nell’incontro precedente Netanyahu e Trump quasi certamente decisero i modi e i tempi dell’attacco israeliano all’Iran e dell’intervento americano, anche se le dichiarazioni del presidente americano lo escludevano. Probabilmente questa volta si è parlato di cosa fare se l’Iran riprende il suo progetto nucleare, del modo di eliminare la minaccia degli Houthi non solo su Israele ma sul commercio internazionale che passa dal Mar Rosso e dal Canale di Suez diretto in Europa e America settentrionale e soprattutto di come concludere la guerra a Gaza e liberare i rapiti. Nella conferenza stampa informale condotta insieme dai due leader sono intanto emersi alcuni punti fermi.
• Gaza
In primo luogo, si è riaffermato il pieno coordinamento e la fiducia reciproca rispetto ai negoziati su Gaza. L’accordo sulla liberazione dei rapiti non è ancora concluso ma la trattativa continua. Hamas ha sostanzialmente rifiutato l’ultima offerta formulata dal Qatar, fingendo di accettarla ma aggiungendole condizioni inaccettabili; ma i punti di dissenso fra le parti sono abbastanza limitati. I terroristi sono ancora capaci di far male a Israele, come si è visto purtroppo anche ieri, grazie alla tecnica degli agguati alla mescolanza coi civili e alle fortificazioni sotterranee sopravvissute. Ma è chiaro a tutti che hanno perso, quasi tutti i capi sono eliminati e non controllano più l’80%del territorio. Trump e Netanyahu sono d’accordo che bisogna continuare a trattare e insieme a esercitare pressione su Hamas, proseguendo la disabilitazione del suo apparato militare, fino a che sarà accettato un accordo di tregua.
• La fine della guerra
Per quel che riguarda lo stato finale della Striscia, è emerso un consenso sulla posizione presentata da Netanyahu: Hamas non dovrà avere nessun ruolo a Gaza né altrove, dovrà sciogliersi, i suoi capi principali saranno esiliati, gli altri saranno giudicati o forse amnistiati, la Striscia dovrà essere smilitarizzata. Israele continuerà ad avere la responsabilità della sicurezza, il che significa che potrà intervenire a bloccare ogni rischio di ritorno del terrorismo. Sarà istituita una nuova struttura amministrativa, che sarà affidata non all’Autorità Palestinese, ma più probabilmente alle tribù locali, anche se non è escluso che vi partecipino membri dei gruppi politici. La popolazione non sarà espulsa, ma chi vorrà andarsene sarà libero di farlo. In generale, come ha risposto esplicitamente Netanyahu a una domanda, Israele considera necessario che i palestinesi possano autoamministrarsi ma non può accettare che costituiscano una minaccia. Il che implica che dovrà esserci un cambiamento profondo anche nel funzionamento dell’Autorità Palestinese.
• Il quadro internazionale
Per quanto riguarda l’Iran, gli scopi dell’operazione sono stati raggiunti, bloccandone l’armamento nucleare, che non sarà mai consentito. Se occorresse, Israele potrebbe intervenire di nuovo. Gli Usa sperano che la lezione dell’attacco sia stata compresa e che sia possibile far ripartire le trattative. Comunque anche su questo tema continuerà ad esservi uno stretto coordinamento fra Israele e Stati Uniti in ambito politico e militare. Per quanto riguarda Siria e Libano, Israele e Usa concordano che si è aperta una possibilità di cambiamento nelle relazioni. Israele non ha obiezioni alla decisione americana di togliere le sanzioni alla Siria, anche se considera prematura una completa normalizzazione dei rapporti. Quanto all’Arabia Saudita, sia Israele che gli Usa sperano che l’avvicinamento interrotto in seguito alla guerra prosegua e giunga a una conclusione positiva. In generale il tema dell’estensione di “patti di Abramo” è la prospettiva comune per dare tranquillità e progresso alla regione.
• Le prospettive
Non vi sono state, insomma, in questa visita, o almeno non sono state annunciate decisioni nuove, forse perché la trattativa con Hamas non è proseguita come l’amministrazione americana sperava, tanto che alcune fonti accennano alla possibilità di un nuovo incontro fra i due leader addirittura in settimana. Ma resta la solidità e l’impegno di un’alleanza che sta ristrutturando il Medio Oriente. Gli effetti politici sono in genere assai più lenti delle operazioni militari, ma già l’equilibrio complessivo della regione è profondamente cambiato e questo progresso richiede attenzione e coordinamento.
L’ambasciatore d’Israele in Senato: informazione manipolata contro di noi
«La demonizzazione di Israele è di fatto mainstream». È il pensiero dell’ex ministro degli Affari Esteri e ambasciatore d’Italia in Israele, Giulio Terzi di Sant’Agata. Oggi senatore di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Politiche dell’Unione Europea di Palazzo Madama, Terzi di Sant’Agata ha inaugurato un incontro dedicato a tre libri “contro la disinformazione su Israele” nella sala dell’Istituto Santa Maria in Aquiro del Senato. I tre libri sono La cultura dell’odio. Media, università e artisti contro Israele (ed. Lindau) di Nathan Greppi, La guerra antisemita contro l’Occidente (ed. Giubilei Regnani) di Fiamma Nirenstein e Nicoletta Tiliacos e Ritorno a Sion (ed. Studium) di Claudia De Benedetti, David Elber, Niram Ferretti e Ugo Volli, tutti di recente uscita, e per il senatore vanno letti come argine conoscitivo rispetto «all’ondata di antisemitismo che si sta abbattendo sull’Italia e l’Europa». Per Jonathan Peled, l’ambasciatore d’Israele a Roma, si tratta di «tre letture preziose per favorire la cultura della responsabilità e del rispetto dei fatti in un’epoca in cui la manipolazione dell’informazione è un’arma di propaganda». In questo senso, ha aggiunto, «conoscere e denunciare diventa uno scudo fondamentale». L’ambasciatore ha poi definito gli autori dei saggi dei «soldati della verità», contrapposti «ai cattivi maestri che diffondono pregiudizio e odio». Pure Andrea Cangini, il segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi, ha lanciato l’allarme: c’è un grave pregiudizio su Israele «diffuso nei grandi media e nel mondo della cultura» e varie università stanno seguendo a suo dire quest’onda «per conformismo e per paura di minoranze agguerrite e scalmanate». Moderati da Matteo Angioli, segretario del Global Committee for the Rule of Law (Gcrl) “Marco Pannella”, sono intervenuti infine tre autori. «Il confine tra antisemitismo e antisionismo è molto più sottile di quanto in molti vogliano far credere», ha sostenuto Greppi.
Elber ha illustrato le ragioni che hanno portato alla stesura del saggio storico a più mani al quale ha contribuito: «Il popolo ebraico non si può scindere dalla sua terra, si fonda in terra d’Israele e in special modo a Gerusalemme». Nirenstein ha denunciato «un’esplosione di antisemitismo mostruosa», ma anche ravvisato vari motivi di speranza per il Medio Oriente. Secondo la giornalista, «Israele sta portando avanti una politica meravigliosa con il mondo arabo» e questo rapporto «fiorirà sempre di più».
Contro il boicottaggio d’Israele e l’antisemitismo negli atenei italiani
L’appello dei docenti silenziosi
di Alessandro Tedesco
Se il tradimento dei singoli intellettuali ci lascia più soli, le università italiane fanno di peggio: elevano quel fallimento individuale a vero e proprio dogma istituzionale. La storia di Yaël, studentessa israeliana e riservista dell’IDF all’Università Statale di Milano, è più di un caso di cronaca: è il sintomo di una malattia che ha infettato l’accademia italiana. È la storia di una ragazza il cui percorso di studi viene messo in discussione non per demeriti, ma per la colpa di esistere come cittadina di uno stato messo alla gogna. Questa non è una crepa isolata nel sistema, è la prova che la struttura sta cedendo. Il caso di Yaël è solo l’epilogo più noto di una caccia alle streghe che serpeggia in tutta Italia: dal professore dell’Università di Firenze, sottoposto a procedimento disciplinare dopo la denuncia di una studentessa attivista pro-Palestina, al docente aggredito fisicamente a Napoli da collettivi studenteschi per il suo impegno a favore di Israele. È proprio per reagire a questa deriva intollerabile che una rete silenziosa di docenti ha lanciato l’appello “Contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani”. Un manifesto di resistenza intellettuale che, nel denunciare un “clima di intimidazione”, cita a sua volta i casi delle università di Torino, dello IUAV di Venezia e della stessa Statale di Milano, dove studenti e docenti si trovano esposti a “esclusioni” e “delegittimazioni” continue. Di fronte a questo, come ha scritto il professor Francesco Faldini su Pensalibero.it, emerge un dovere ineludibile, perché “un Ateneo dovrebbe contribuire a non radicalizzare narrazioni distorte che favoriscano la ricomparsa di pregiudizi del passato”, altrimenti cessa di essere una palestra di pensiero per diventare un luogo di indottrinamento. Nel loro testo, questi accademici, “docenti silenziosi”, rigettano con forza “ogni forma di boicottaggio” definendolo un “impoverimento dello scambio culturale” e una “negazione della missione stessa dell’università”. Si uniscono attorno a principi solidissimi: che l’università è un luogo di dialogo, non di esclusione; che il boicottaggio è un atto di violenza intellettuale; che l’antisemitismo va combattuto senza ambiguità; e che il dialogo con le istituzioni accademiche israeliane va preservato e rafforzato. Mentre il conformismo ideologico fa rumore nelle piazze e in televisione, questa rete si muove sottotraccia, attraversando l’Italia dalla Sicilia alla Lombardia. È composta da professori universitari che non si sono arresi alla barbarie e che, con tenacia, si scambiano informazioni e offrono sostegno a chi subisce ostracismo. La loro posizione, che in Italia oggi appare come un atto di resistenza, all’estero è la norma. Lo statement del presidente dei rettori tedeschi, ad esempio, va nella direzione opposta a quella dei nostri boicottatori, chiedendo che l’UE sostenga e rafforzi la ricerca in Israele. Questo scarto misura l’abisso in cui sta precipitando parte della nostra accademia, diventata terreno fertile per la propaganda di regimi autocratici e organizzazioni terroristiche. Questa rete silenziosa è una minoranza, non ha i megafoni dei cattivi maestri che oggi riempiono le aule. Ma la sua esistenza è un flebile ma tenace segnale di speranza. È la testimonianza che non tutta l’accademia italiana si è arresa e che da qualche parte c’è ancora chi crede che il compito di un docente non sia imporre una verità, ma fornire gli strumenti per cercarla. Anche quando è difficile, anche quando va controcorrente.
Israele, svolta sulla leva militare: l’IDF lancia un reclutamento di massa degli Haredim mentre cresce lo scontro politico
Gli ordini di leva saranno inviati in più fasi durante il mese di luglio 2025, con appuntamenti di arruolamento distribuiti lungo l’anno di leva 2025–2026. I partiti ultraortodossi Shas e UTJ hanno minacciato di boicottare tutte le votazioni plenarie alla Knesset fino alla consegna del testo finale. Ma per il 2025, l’IDF punta a integrare almeno 4.800 haredim.
di Anna Balestrieri
Israele si trova al centro di una trasformazione epocale in materia di leva militare, con una serie di decisioni senza precedenti che puntano all’arruolamento su larga scala degli ebrei ultraortodossi (Haredim). La controversa riforma, promossa dal governo e sostenuta dalle forze armate, ha scatenato tensioni all’interno della coalizione, critiche da parte dell’opposizione e accese reazioni della società civile.
• Netanyahu cerca di evitare la crisi, Lapid attacca Nel tentativo di prevenire una crisi politica imminente, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha chiesto al presidente della Commissione Difesa della Knesset, Yuli Edelstein, di condividere in anticipo una bozza della legge sulla leva con Ariel Atias, rappresentante politico degli Haredim. La mossa mira a contenere le proteste della componente ultraortodossa della coalizione prima del volo di Atias verso Washington.
Yair Lapid, leader dell’opposizione, ha definito il disegno di legge “una misura pensata per legalizzare l’evasione dalla leva”. Anche le associazioni dei riservisti hanno reagito duramente, accusando il governo di aver tradito le promesse e di “fare politica sulla pelle dei soldati”.
• La minaccia degli Haredim: senza progressi immediati, il governo cade La versione preliminare della legge sulla leva è stata presentata da Yuli Edelstein ad Ariel Atias (Shas) prima della partenza di Netanyahu per Washington, provocando un ritardo nel viaggio del premier. Il testo, più morbido rispetto alle versioni precedenti, è stato condiviso prima ancora con gli Haredim che con i riservisti, scatenando l’indignazione dell’opposizione. Dalla parte opposta, i rappresentanti del mondo ultraortodosso hanno lanciato un chiaro avvertimento: se la nuova legislazione non avanzerà rapidamente, il sostegno al governo potrebbe venir meno. La posta in gioco è la tenuta stessa dell’esecutivo Netanyahu, fondato su una fragile alleanza tra laici e religiosi. Una recente minaccia di caduta del governo era stata sventata solo il mese scorso, grazie a sforzi concertati del premier e della coalizione di governo. Dopo l’accordo preliminare sulla legge, un attacco israeliano contro il programma nucleare iraniano ha scatenato una guerra di 12 giorni, che ha sospeso ogni discussione alla Knesset. Edelstein e Deri erano stati informati in anticipo dei raid, facilitando il loro consenso momentaneo. Gli ordini di leva saranno inviati in più fasi durante il mese di luglio 2025, con appuntamenti di arruolamento distribuiti lungo l’anno di leva 2025–2026. I partiti ultraortodossi Shas e UTJ hanno minacciato di boicottare tutte le votazioni plenarie alla Knesset fino alla consegna del testo finale. La loro opposizione alla bozza resta, ma non intendono far cadere il governo, almeno per ora.
Contenuti specifici della bozza annacquata
Validità limitata: sei anni, o quattro se non vengono raggiunti gli obiettivi di reclutamento.
Sanzioni immediate: divieto di viaggi all’estero, revoca della patente, esclusione da sussidi per università.
Altre sanzioni, come l’esclusione da asili e trasporti pubblici sovvenzionati, posticipate.
Niente più sussidi per famiglie con disertori, ma le misure sono state notevolmente diluite rispetto alla bozza originaria.
• L’IDF avvia la più vasta campagna di reclutamento degli Haredim della storia israeliana Nel frattempo, l’esercito ha annunciato l’avvio di un piano senza precedenti: entro fine luglio 2025 verranno inviati 54.000 ordini di leva ai cittadini haredim considerati idonei al servizio militare, di età compresa tra i 16 anni e mezzo e i 26. L’obiettivo è portarli in servizio attivo entro luglio 2026. Il processo per dichiarare un giovane come disertore sarà ridotto a circa due mesi, contro i diversi mesi richiesti in passato. Questo permetterà arresti molto più rapidi. Si tratta del più vasto tentativo mai compiuto di integrare gli ultraortodossi nell’IDF. Questo avviene in un contesto di forte pressione pubblica e giudiziaria: il numero crescente di caduti e feriti tra le forze regolari, unito al prolungamento dei turni di riserva, ha spinto la Corte Suprema e l’opinione pubblica a chiedere una maggiore equità nella distribuzione del peso della difesa nazionale. Finora, nonostante i richiami, la risposta della comunità haredi è stata minima. La leadership ultraortodossa continua a sostenere che “è proibito arruolare studenti di yeshivà la cui professione è lo studio della Torà”, ritenendo che tale studio costituisca una forma di protezione spirituale per lo Stato.
• Sanzioni individuali e arresti: stretta dell’IDF sui disertori L’IDF ha inoltre richiesto al governo l’introduzione di sanzioni dirette contro i singoli haredim che ignorano le convocazioni. Nel frattempo, però, non ha atteso l’approvazione della nuova legge — ferma in Parlamento e bloccata dalla pausa estiva della Knesset — per dare il via alla campagna. La Polizia Militare e la Polizia di Frontiera saranno autorizzate a istituire checkpoint sia in Cisgiordania che all’interno di Israele, per facilitare l’arresto dei disertori. Già da settembre, l’IDF sarà operativo per arrestare disertori. Chi ignorerà tre convocazioni sarà considerato disertore; chi si sottrarrà per oltre 540 giorni potrà essere incarcerato. In alternativa, per coloro che rientrano in periodi più brevi di diserzione, è prevista la detenzione in unità speciali dell’esercito. Attualmente, sono disponibili tra i 250 e i 300 posti nelle prigioni militari, ma l’IDF sta valutando l’apertura di una nuova struttura detentiva per aumentare la capacità. L’arresto dei disertori avverrà in modo strategico: anziché irrompere nei quartieri haredi o nei villaggi beduini, l’esercito sfrutterà aeroporti, posti di blocco e controlli lungo le principali arterie del Paese, tra cui i valichi in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e la strada per Eilat. Solo all’ingresso delle città ultraortodosse verranno eretti checkpoint, per evitare tensioni nel cuore dei quartieri religiosi. Negli ultimi mesi, circa 140 disertori sono già stati arrestati all’aeroporto Ben Gurion. Si prevede che entro pochi mesi il numero di individui arrestabili possa salire a 35.000, con una netta prevalenza di Haredim. A settembre partirà l’operazione “Nuovo Inizio”, che offrirà una possibilità di regolarizzazione a chi ha disertato in passato: questi potranno arruolarsi senza conseguenze penali, prestando un anno di servizio “in prova”. Se completato con successo, il loro status di disertori sarà annullato.
• Obiettivo 2025: 4.800 Haredim integrati, ma serve il sostegno dei rabbini Per il 2025, l’IDF punta a integrare almeno 4.800 haredim, un numero significativamente superiore rispetto agli anni precedenti. Tuttavia, senza il sostegno aperto di rabbini e politici ultraortodossi, pochi si aspettano che la risposta alle convocazioni possa migliorare sensibilmente. Nonostante le tensioni, alcune unità haredi sono già operative e attivamente coinvolte nei combattimenti. Due compagnie ultraortodosse sono schierate nella Striscia di Gaza e una di esse ha partecipato all’eliminazione di circa 41 terroristi, in operazioni coordinate con l’aviazione. Il Capo di Stato Maggiore, generale Eyal Zamir, ha visitato la Brigata Hashmonaim, composta da soldati haredim, e si è rivolto a loro con parole di stima: “Voi dimostrate che fede e servizio militare possono coesistere. Siete pionieri, un orgoglio per le vostre famiglie e per l’intera società. So che affrontate difficoltà personali, ma la perseveranza premia sempre.” Zamir ha concluso ringraziando i soldati per il loro contributo, sottolineando il valore esemplare del loro impegno. Yair Lapid ha espresso pieno sostegno alle nuove misure dell’IDF, ribadendo che “l’esercito israeliano è l’esercito di tutto il popolo, non di mezzo popolo.” Lo scontro sulla leva militare in Israele rappresenta molto più di un dibattito tecnico: tocca i nervi scoperti dell’identità collettiva, dei diritti e dei doveri nella società israeliana. Tra l’urgenza operativa dell’IDF, le rivendicazioni religiose, le pressioni dell’opinione pubblica e l’instabilità politica, il Paese si prepara a una trasformazione profonda del proprio contratto sociale.
È atterrato giovedì il primo volo di gruppo che inaugura un’estate intensa per Israele: 45 nuovi immigrati provenienti da otto stati americani e province canadesi sono arrivati nel Paese, avviando un’ondata che, secondo le stime, porterà circa duemila “olim” nordamericani entro la fine dell’estate.
A organizzare i voli è l’ONG Nefesh B’Nefesh, in collaborazione con il Ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione, l’Agenzia Ebraica per Israele e altre istituzioni. Nonostante le tensioni regionali e la recente guerra lampo di 12 giorni con l’Iran, il flusso migratorio dall’America del Nord verso Israele prosegue senza sosta. “Anche nei momenti difficili, il popolo ebraico sceglie di venire in Israele” ha dichiarato il ministro dell’Aliyah, Ofir Sofer. “L’aliyah continua è il simbolo della vittoria dello Stato di Israele. Questi nuovi immigrati sono degli eroi”.
I passeggeri del primo volo collettivo provenivano da luoghi diversi come New York, New Jersey, Maryland, Wyoming, Ohio e Ontario. A bordo, uomini e donne di ogni fascia d’età, dai neonati agli anziani ultra-settantenni, con diverse professionalità tra cui ingegneri, avvocati, insegnanti e persino uno chef. Molti di loro si stabiliranno in città principali come Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa, ma altri hanno scelto comunità più piccole, come Safed e aree periferiche designate come prioritarie per l’integrazione.
Nel frattempo, altri 60 immigrati già presenti in Israele hanno completato questa settimana il loro processo ufficiale di aliyah, portando il totale a oltre 100 nuovi cittadini israeliani. Logicamente, l’impatto emotivo di questa stagione è particolarmente sentito. Dal brutale attacco terroristico del 7 ottobre 2023 compiuto da Hamas, l’interesse per l’aliyah è esploso, con oltre 13.500 richieste presentate a Nefesh B’Nefesh.
“Ogni estate è un periodo di rinnovamento e speranza, ma quest’anno ha un valore ancora più profondo” ha affermato il direttore esecutivo dell’ONG, Rabbi Yehoshua Fass. “In uno dei momenti così determinanti della nostra epoca, queste persone stanno scegliendo di tornare a casa. Oltre ad essere un traguardo personale, è anche e soprattutto una potente dichiarazione nazionale, un atto di destino ebraico”.
I nuovi arrivati potranno contare su una vasta rete di servizi e agevolazioni, come contributi per l’affitto in zone di priorità nazionale, corsi di lingua ebraica (ulpan), iniziative per l’integrazione sociale e lavorativa e benefici fiscali.
L’arrivo del primo volo collettivo segna l’inizio di un’estate significativa per Israele, in un contesto segnato ancora dalle conseguenze del 7 ottobre. Nonostante le tensioni e i rischi, la spinta verso l’aliyah non si ferma. Per i nuovi arrivati, è l’inizio di una nuova vita; per lo Stato, un segnale di continuità e determinazione.
Perché la guerra nella Striscia di Gaza dura così a lungo?
Come è possibile che l'operazione israeliana contro l'Iran abbia avuto successo in soli dodici giorni, che la guerra contro Hezbollah sia finita dopo dieci settimane, ma nella Striscia di Gaza non si intraveda alcuna fine?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Nessuna vittoria chiara, nessuna decisione tangibile. Forse questa settimana ci sarà una svolta, quando Benjamin Netanyahu e Donald Trump annunceranno uno scambio di ostaggi e un cessate il fuoco che potrebbero portare alla fine della guerra. Ma il paragone è ingannevole, perché l'operazione contro l'Iran è stata un colpo preciso e nascosto, con obiettivi ben definiti, un territorio limitato e senza ostaggi, ed è quindi stata conclusa rapidamente. Nella Striscia di Gaza, invece, Israele sta combattendo contro un'organizzazione terroristica radicata in zone residenziali, rispettando gli standard umanitari, sotto forte pressione internazionale e lottando allo stesso tempo per la vita degli ostaggi. Hamas usa la propria popolazione come scudo, mentre Israele deve soppesare ogni decisione in base a criteri morali, militari e diplomatici. Questa guerra non è una battaglia classica, ma uno scenario ibrido e permanente: una crisi con ostaggi, una guerra asimmetrica, diplomazia globale e un test quotidiano di stress morale. A differenza delle operazioni rapide come quelle contro l'Iran o Hezbollah nel 2006, Israele deve agire con cautela, perché è l'unica democrazia della regione, perché ha la responsabilità dei propri cittadini e perché ogni sua parola e ogni sua azione sono sotto gli occhi di tutto il mondo. Gli ostaggi israeliani nella Striscia di Gaza sono un vero ostacolo al rapido avanzamento dell'offensiva terrestre. Israele mostra una sensibilità straordinaria per il destino dei suoi fratelli in prigionia, siano essi civili o soldati. Per ragioni tattiche, gran parte della Striscia di Gaza è militarmente inaccessibile perché potrebbero esserci degli ostaggi. Israele rinuncia quindi a bombardamenti su vasta scala o a massicce incursioni terrestri per non mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Leva strategica per Hamas: l'organizzazione terroristica usa gli ostaggi come “ancora di salvezza”, liberandone alcuni per imporre tregue, riorganizzarsi, rifornirsi di armi e stabilizzare il proprio controllo. In nessun altro paese al mondo gli ostaggi hanno un peso strategico così grande come in Israele. Ciò ha diverse ragioni, prima fra tutte il DNA sociale. In Israele ogni soldato caduto o rapito è considerato una questione che riguarda tutto il popolo, non solo una statistica militare. Le famiglie degli ostaggi mobilitano i media, i politici, la società civile. In questo modo viene esercitata una pressione politica sul governo, anche se dal punto di vista militare ciò appare poco saggio. La pressione internazionale ha ritardato la guerra nella Striscia di Gaza più di quanto si rimproveri al capo del governo israeliano Netanyahu all'interno del Paese. Israele opera nella Striscia di Gaza sotto la costante osservazione di un'opinione pubblica mondiale critica.
• Pressione da Washington Il governo Biden ha esercitato fin dall'inizio pressioni su Israele affinché consentisse i consensi umanitari quotidiani, anche nelle zone di guerra attive. Ciò ha ignorato in larga misura il fatto che gran parte di questi aiuti finisce nelle mani di Hamas. Hamas è riuscita a rubare le forniture, rivenderle sul mercato nero a prezzi esorbitanti e persino a tassarle. In questo modo, centinaia di milioni di dollari sono finiti nelle casse di Hamas. Con questi soldi ha reclutato nuovi combattenti, pagato i suoi funzionari e consolidato il suo controllo sulla popolazione civile. Ricordiamo che durante la guerra una sigaretta costava 50 euro!
Biden ha promesso al primo ministro Netanyahu di interrompere immediatamente le forniture di aiuti se Hamas le avesse confiscate o bloccate. Ma questa promessa non è stata mantenuta. Invece di un vero aiuto umanitario, denaro e risorse sono finiti direttamente nelle mani di Hamas. Israele ha annientato gran parte dei suoi combattenti, solo per trovarsi poco dopo di fronte a nuovi terroristi appena pagati, finanziati proprio con quelle forniture che Israele è stato costretto a concedere sotto la pressione internazionale. La volontà ben intenzionata di aiutare la popolazione ha finito per prolungare le sofferenze e garantire la sopravvivenza di Hamas.
• I media distorcono la realtà I media internazionali si concentrano sulle vittime civili, piuttosto che sulle necessità militari. Ciò indebolisce il sostegno diplomatico di Israele. Inoltre, nonostante la sua superiorità militare, Israele dipende fortemente dalla mediazione americana, egiziana e qatariota e deve quindi rispettare il loro margine di manovra nei negoziati. Ciò ha fatto perdere molto tempo.
• La tattica militare di Israele nel sud Il sistema terroristico di Hamas si basava su tre elementi: terroristi, territorio e un vasto sistema di tunnel. L'esercito israeliano sta conducendo una guerra asimmetrica contro una crudele organizzazione terroristica che non conosce regole umane. Hamas opera da uno Stato terroristico sotterraneo. Ciò rende estremamente difficile distruggere in modo duraturo le sue infrastrutture, a differenza, ad esempio, delle postazioni missilistiche in terreno aperto in Iran. I suoi terroristi si mescolano alla popolazione civile, utilizzando scuole, ospedali e moschee come scudi umani. Anche dopo gravi perdite, Hamas riesce a reclutare nuovi combattenti tra la popolazione civile o attraverso incentivi finanziari come gli aiuti umanitari. La Striscia di Gaza è urbanizzata. Una “marcia selvaggia” come nel deserto o in terreno aperto non è possibile. È invece necessario mettere in sicurezza casa per casa, scoprire e neutralizzare tunnel per tunnel, e questo richiede tempo. In confronto, durante l'attacco all'Iran è stato possibile colpire obiettivi militari o nucleari in modo mirato, senza prestare particolare attenzione alla popolazione civile o a lunghe operazioni di terra.
Nel primo anno di guerra, anche a causa del fronte contro Hezbollah nel nord, l'esercito israeliano non ha potuto operare con tutta la sua forza nella Striscia di Gaza. Si è invece limitato a operazioni puntuali per l'eliminazione mirata di terroristi. Tuttavia, dopo ogni ritiro delle truppe israeliane, Hamas ha rapidamente ricostituito le sue file. Nel frattempo, però, la situazione è cambiata. Dopo la fine della guerra nel nord di Israele, l'esercito sta procedendo in modo sistematico nella Striscia di Gaza, occupando territori in modo permanente, distruggendo tunnel e assicurando il controllo. Hamas ha così perso gran parte del suo spazio di ritirata, limitando il suo dominio a circa un quarto della Striscia.
Anche ragioni politiche e strutturali hanno contribuito a ritardare i tempi. La divisione politica in Israele – tra la pressione della coalizione da parte di ministri di destra come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich e le aspettative degli Stati Uniti – porta Netanyahu a temporeggiare. Inoltre, in Israele si sostiene che il governo e Netanyahu stiano deliberatamente ritardando la guerra nella Striscia di Gaza per motivi di sopravvivenza politica. Le critiche popolari sono controverse e dipendono dalla posizione politica di ciascuno in Israele. Tuttavia, a causa di disaccordi, il governo ha ritardato la definizione di obiettivi chiari: “smantellamento di Hamas” contro “liberazione degli ostaggi” o “stabilità regionale”.
• Minaccia su più fronti A differenza dei conflitti precedenti (Iran, Hezbollah), Israele deve fare i conti in qualsiasi momento con escalation nel nord (Libano, Siria), in Cisgiordania e persino nello Yemen. Ciò vincola le risorse. I limiti mediatici e giuridici hanno fortemente limitato la libertà d'azione di Israele attraverso una costante attenzione e iniziative giuridiche internazionali (CPI, ONU, ecc.). Chi vuole davvero la fine di Hamas deve sostenere la strategia di Israele, in particolare la richiesta di distribuire gli aiuti umanitari esclusivamente attraverso canali indipendenti. A Israele bastano pochi mesi per portare a termine l'operazione, a condizione che il mondo glielo permetta. La fine di Hamas non sarebbe una vittoria locale, ma globale.
La guerra nella Striscia di Gaza non è un semplice scontro, ma un conflitto complesso tra democrazia e terrorismo, moralità e cinismo, calcolo strategico e dolore umano. Chi vuole porvi fine non deve puntare solo su cessate il fuoco, ma deve chiedersi cosa rimarrà dopo e chi. Una pace vera inizierà solo con la fine di Hamas, non con la sua riabilitazione. Allo stesso tempo, però, Israele ha il dovere morale di liberare i suoi fratelli e sorelle rapiti dalla prigionia.
(Israel Heute, 7 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Cinque sceicchi di Hebron propongono di uscire dall’Autorità Palestinese per aderire agli Accordi di Abramo
di Anna Balestrieri
Cinque capi tribali della città palestinese di Hebron, situata in Cisgiordania (nota in arabo come Al-Khalil), hanno inoltrato una proposta audace: staccarsi dall’Autorità Palestinese e costituire un piccolo emirato indipendente, al fine di stringere un’intesa di pace con Israele e partecipare agli Accordi di Abramo.
• Una lettera a Israele con richieste precise I promotori hanno formalmente inviato una missiva al ministro israeliano dell’Economia, Nir Barkat, chiedendo di trasmetterla all’attenzione del primo ministro Benjamin Netanyahu. L’iniziativa segna un netto cambiamento rispetto alla politica tradizionale palestinese . Tra i firmatari figura lo sceicco Wadi al-Jaabari, esponente di un’importante famiglia di Hebron, che ha ribadito il desiderio di “cooperazione e convivenza con Israele”. Questa presa di posizione coraggiosa ha segnato una svolta, con al-Jaabari e altri leader tribali che riconoscono ufficialmente Israele come stato ebraico, impegnandosi per la pace.
• Un piano con forte impatto economico La proposta prevede l’assunzione iniziale di 1.000 lavoratori da Hebron su base sperimentale, con l’intenzione di farne arrivare fino a 5.000 in una fase successiva. Secondo i promotori, Barkat avrebbe ipotizzato di arrivare a 50.000 occupati nel tempo. Uno sceicco citato dal Wall Street Journal ha commentato: “Se avremo il supporto dell’amministrazione Trump, Hebron potrebbe diventare come Dubai”, delineando una visione ambiziosa di sviluppo economico e integrazione regionale.
• Critiche agli Accordi di Oslo e all’Autorità Palestinese Nel documento si chiede l’adesione agli Accordi di Abramo con un calendario preciso, giudicando gli Accordi di Oslo falliti e responsabili di “morte, rovina economica e distruzione”. Al‑Jaabari ha criticato duramente l’Autorità Palestinese, affermando che “non è capace di proteggerci” e negando qualsiasi possibilità di uno Stato palestinese nel prossimo millennio: “Dopo il 7 ottobre, Israele non lo permetterà; continuare a puntare su quello Stato ci condurrà al disastro”.
• Un’iniziativa con l’avallo israeliano Secondo i promotori, il ministro Barkat avrebbe esaminato la proposta insieme al governo israeliano, sotto l’egida di un atteggiamento cauto da parte di Netanyahu. Le discussioni tra le parti risalirebbero a febbraio, con diversi incontri ospitati nella residenza del ministro. Barkat ha dichiarato al Wall Street Journal che “il vecchio modello dei due Stati ha fallito” e ha criticato la leadership dell’Autorità Palestinese per la perdita di fiducia sia tra i palestinesi sia in Israele.
• Reazioni contrastanti e potenziali implicazioni Alla domanda se questa posizione potesse essere vista come un tradimento, al-Jaabari ha risposto: “Il tradimento è stato Oslo. Io seguo la mia strada”. Le sue parole mettono in luce profonde spaccature nella società palestinese, tra chi punta su approcci tradizionali e chi vuole sperimentare soluzioni locali più pragmatiche. Questa iniziativa emerge mentre l’amministrazione Trump considera l’ampliamento degli Accordi di Abramo anche a paesi come Siria, Libano e Arabia Saudita. Se portata avanti, l’idea di Hebron potrebbe rappresentare un precedente significativo, dimostrando come la diplomazia locale possa superare impasse geopolitiche. Tuttavia, non mancano interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine e sui rischi di frammentazione territoriale. Per ora si tratta di una proposta inedita e non ancora ufficialmente adottata.
«Ebreo? Meglio se qui non parla» Cosa sta diventando il Pd?
di Aldo Torchiaro
Ogni volta che temiamo di aver capito cosa sia diventato il Pd, nelle sue espressioni periferiche più ancora che in quelle centrali, i fatti si incaricano di avvisarci: bisogna scavare ancora più in basso. Oltre il fondo del barile, dove tutto è ormai concesso. Anche di gridare, finalmente sentendosi liberi di farlo, il profondo, viscerale antisemitismo che evidentemente alberga nella pancia di quel partito.
Quel che è accaduto giovedì sera nel piccolo comune di Monte Porzio Catone, nelle immediate vicinanze di Roma, è solo la punta di un iceberg avvelenato. Sotto la regia dell’ANPI e con la partecipazione di rappresentanti del movimento Bds, che propugna il boicottaggio di prodotti israeliani, si è svolto nel circolo Pd di Monte Porzio Catone un incontro pubblico sulla situazione a Gaza. Peccato che il cosiddetto dibattito si sia rivelato una piattaforma unilaterale di propaganda antioccidentale, antisionista e, non troppo velatamente, antisemita. In un clima tossico sin dall’inizio, ecco che Yousef Salman, che pretende di essere il Presidente della comunità palestinese di Roma, ammalia la platea, gridando al genocidio di Gaza e arrivando presto all’apice della vergogna: mappe false, slogan urlati, teorie complottiste e affermazioni aberranti come “il sionismo è peggio del nazismo”. Il tutto condito dalla risata sprezzante sul 7 ottobre, come se quell’orrendo massacro di famiglie e bambini fosse materia da ridicolizzare. I trenta militanti seduti annuiscono, applaudono. Il segretario del circolo, vicino a Elly Schlein, si compiace di avere riempito la sala e si guarda bene dall’intervenire. Parla invece Martina Argada, del gruppo dei boicottatori Bds. Vengono distribuiti materiali con elenchi di aziende, supermercati, persino farmaci da boicottare perché “collegati a Israele”. Lo Stato ebraico è stato definito “quello che oggi si chiama Israele”, come a dire che prima o poi una soluzione finale al problema si troverà.
In quel contesto, si fa coraggio Aldo Winkler, cittadino di quel comune e membro del direttivo di Sinistra per Israele. Alza la mano e chiede di poter dire la sua. Si qualifica come ebreo. Prova a iscriversi parlare, ma cercano di impedirlo. Lo mettono ultimo, in lista. Pazienta. E quando riesce a prendere la parola, viene zittito, interrotto e attaccato da quattro persone alla volta. La moglie accenna a un malore.
«Andiamo a casa». Lui vuole rimanere, lei esce. Riprova a parlare: «Vengo da una famiglia askenazita, abbiamo vissuto in casa la tragedia dell’Olocausto », prova a accennare, ma si sente dire che “gli ashkenaziti controllano le ricchezze del mondo” e che, con Netanyahu, sarebbe responsabile delle guerre globali. Tra frizzi e lazzi, applausi e cenni di approvazione, Winkler, l’ebreo irriducibile, non si fa mettere nell’angolo. Parla della Resistenza, del partigiano ebreo Pino Levi Cavaglione, che era di Monte Porzio. Parla della Shoah, di cui una volta si conservava la memoria, a sinistra. E di come senta diventato improvvisamente ostile il clima tra quelle mura.
Una volta era un militante anche lui. Adesso non più. È ebreo. E gli altri lo sanno, glielo rinfacciano. Alzano la voce. Si alzano tutti, finisce l’incontro.
Il linciaggio, stavolta, è solo sfiorato. «In quel circolo del Pd ho rivissuto una nuova Difesa della Razza», ci dice al telefono, amareggiato ma combattivo. «Poi però, alla fine, una persona gentile si è avvicinata e, fuori dalla sezione, mi ha espresso solidarietà». Quell’iscritto da solo non basta a salvare l’onore di una comunità che, democratica nel nome, finisce spesso per rappresentare nei fatti l’esatto opposto. Le responsabilità di chi ha organizzato, ospitato, applaudito sono enormi. Ma la colpa più grave è di chi tace.
Israele – Parla lo psichiatra: «Riconoscere il trauma collettivo»
Demian Halpérin è medico, psichiatra, a Tel Aviv. Con il progetto SafeHeart – Lev Batuach, offre supporto psicologico a giovani e famiglie colpite dagli effetti della guerra. Nell’intervista rilasciata ad Antoine Strobel-Dahan per Tenoua il 26 giugno delinea una diagnosi netta: Israele è una società traumatizzata alla sua base. Il trauma non riguarda solo il presente ma affonda in strati più profondi della memoria collettiva e individuale e si alimenta in un tempo che non ha avuto tregua. Le settimane più recenti, seguite all’intensificarsi del confronto con Hezbollah e alla guerra aperta con l’Iran, hanno amplificato un malessere già largamente diffuso nella popolazione israeliana.
La ferita del 7 ottobre non si è mai chiusa. Allora, dice Halpérin, a essere colpiti furono non solo i corpi, ma le fondamenta psicologiche della società: la fiducia nel fatto che lo Stato sapesse proteggere i suoi cittadini, la certezza di vivere in un luogo dove la vita civile potesse scorrere in sicurezza, la convinzione – implicita e profonda – di non dover più subire ciò che era accaduto in passato. Oggi, a molti mesi dall’attacco di Hamas, l’intera popolazione continua a vivere sotto pressione.
Lo stress non colpisce solo i soldati in prima linea. Le famiglie dei riservisti, lasciate ad affrontare l’assenza di padri, madri e figli riportano segnali evidenti di logoramento. Le coppie spesso si trovano a dover fronteggiare una gestione quotidiana sbilanciata, in cui una sola persona porta il peso della cura dei bambini, del lavoro e della tenuta emotiva.
I bambini stessi non sono risparmiati. Halpérin osserva che la loro sofferenza riflette in maniera speculare quella degli adulti. Non c’è distanza tra l’ansia dei genitori e quella dei figli. I più piccoli registrano i cambiamenti negli sguardi, nei toni della voce, nella frenesia degli spostamenti, nelle notizie che trapelano anche quando si tenta di proteggerli. Non servono spiegazioni esplicite: la paura si trasmette comunque. La psiche infantile è porosa e capta i segnali del pericolo senza filtri.
Diversamente da quanto si potrebbe pensare, anche gli anziani non appaiono anestetizzati dal passato. L’idea di una resilienza costruita su esperienze precedenti – guerre, evacuazioni, attacchi missilistici – non regge. La guerra attuale, spiega Halpérin, non ha paragoni. Per l’intensità, per la durata, per la sovraesposizione mediatica, per la discontinuità del conflitto. Ma anche perché la società stessa è cambiata. È più frammentata, più esposta, più dipendente da equilibri precari. In questo contesto, i professionisti della salute mentale rilevano sintomi diffusi: insonnia, ansia generalizzata, difficoltà di concentrazione, depressione reattiva. Si manifesta anche un senso di colpa latente: per essere sopravvissuti, per non essere coinvolti in prima linea, per non riuscire a essere all’altezza delle aspettative proprie o familiari.
Halpérin insiste sul fatto che non si tratta di fenomeni isolati: l’intera società è attraversata da un malessere strutturale. Alla domanda su come affrontare una crisi di queste dimensioni, lo psichiatra risponde con cautela. Israele è, da sempre, una società costruita in reazione a traumi profondi: la Shoah, prima di tutto, ma anche l’esperienza della diaspora e l’ostilità costante dell’ambiente regionale. Questa storia sedimentata si traduce, nel presente, in una difficoltà a distinguere tra minaccia reale e paura amplificata. «Viviamo – dice – con una parte della psiche costantemente in allerta».
Il progetto SafeHeart nasce per offrire strumenti di ascolto e sostegno, in particolare ai giovani. Gli operatori cercano di mantenere uno spazio di calma e continuità nel caos. Ma è chiaro che l’intervento terapeutico, da solo, non basta. La crisi è politica, sociale e culturale prima ancora che clinica. I genitori, spesso in difficoltà, chiedono aiuto non solo per i figli, ma anche per sé. «Ci dicono: non siamo sicuri di riuscire a garantire stabilità», racconta Halpérin. Anche il sollievo provvisorio che si avverte quando l’allarme si attenua è, in realtà, parte del meccanismo traumatico. Non è una vera guarigione, ma una pausa, un respiro tra due tensioni. Il sistema nervoso resta iperattivo, pronto a riattivarsi. Questo stato di attesa prolungata ha un costo, che si somma ai dolori individuali, ai lutti, agli sradicamenti.
Alla fine dell’intervista, Halpérin torna su un punto centrale: riconoscere la natura traumatica della società israeliana non è una forma di giudizio, ma un dato di fatto. Accettare questa diagnosi significa porre le basi per un processo di cura che deve coinvolgere non solo i singoli, ma anche le istituzioni e la cultura pubblica. «Non siamo ancora in grado di elaborare tutto ciò che è successo», afferma. «Ma possiamo cominciare a prenderne atto».
Perché Dio ha creato il mondo? - 7Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Formazione di una nazione speciale Dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino di Eden, i rapporti ravvicinati tra Dio e gli uomini si sono interrotti, e dopo la sparizione dell’Eden per effetto del diluvio, il mondo, che nell’originario progetto creativo era costituito da habitat, società e santuario, è rimasto senza santuario. La terra è stata maledetta, dunque Dio non può discendere fisicamente in essa senza distruggerla con la sua santità. Da quel momento il Creatore si collega alla creatura mediante rapporti a distanza, rivolgendo la parola ad alcuni uomini o, in certi casi, apparendo a loro in visione. Noè ed Abramo hanno avuto l’immenso privilegio di udire direttamente da Dio una parola che non era soltanto un’assicurazione di immediata salvezza personale dal giudizio, ma, soprattutto nel caso di Abramo, una promessa di redenzione del mondo nel futuro attraverso la formazione di una grande nazione discendente da lui.
Le solenni parole di Dio: “Io farò di te una grande nazione”, costituiscono l’atto costitutivo della nuova nazione. Invece di un’Assemblea Costituente, come avviene oggi nei paesi cosiddetti democratici, qui agisce un “Dio Costituente”, le cui delibere non possono essere impugnate. In questo modo Dio lega la costituenda grande nazione alla persona di Abramo, a cui è stato chiesto di apporre la sua firma di accettazione ottemperando alla richiesta iniziale: “'Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò” (Genesi 12:1), cosa che Abramo ha eseguito scrupolosamente: “E Abramo se ne andò, come l’Eterno gli aveva detto” (Genesi 12:4).
A questo punto l’atto giuridico è completo: Dio figura come esecutore: “Io farò…” e Abramo come beneficiario: “… di te”.
Il beneficiario però non deve aspettarsi che l’esecutore gli prepari da qualche parte una nazione già pronta, con tutto ciò che occorre: terra, popolo, struttura amministrativa, in cui a lavoro finito egli entrerà con tutti gli onori e sarà riconosciuto come primo cittadino. La nazione - avverte il Signore - nascerà personalmente da te, e si svilupperà come risultato del lavoro che Io farò su di te e a partire da te.
Paragonando la costituenda nazione a un’opera d’arte in terracotta, si può dire che Dio è il modellatore e Abramo l’argilla. La nazione, che pure esiste fin dall’atto costitutivo, prenderà forma attraverso un lungo lavoro di creativa manipolazione da parte di Dio. Si parla di manipolazione, ma il materiale su cui si fa il lavoro è l’uomo, a cui Dio ha riservato fin dall’inizio il margine di libertà che gli compete come creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
L’artista operante dunque è Dio, e il materiale su cui agisce è un oggetto vivo, desideroso di ascoltare, oppure no, pronto ad ubbidire, oppure no, capace di ringraziare, ma anche di lamentarsi, pronto a rispondere all’amore, ma anche ad essere infedele; e così via in un’altalena di su e giù che metteranno a dura prova l’Artista che s’affatica al suo lavoro. Ma Dio lo sapeva già, e l’ha messo in conto.
La manipolazione di Dio sulla parte umana dell’opera sarà di due tipi: genetico e storico.
• Aspetti genetici e storici nella formazione della nazione Se l’intera popolazione umana sopravvissuta al diluvio nasce e si forma come progenie di Noè, il popolo della nazione voluta da Dio nasce e si forma come progenie di Abramo. L’aspetto genetico nell’opera di formazione della speciale nazione abramitica emerge nella storia dall’importanza che hanno sempre avuto in Israele le genealogie. Esse esprimono la precisa volontà di Dio di accrescere numericamente il popolo e interferire nella sua storia attraverso la generazione di uomini, prima ancora che per il susseguirsi di fatti storici.
Non è forse “manipolazione genetica” quella che Dio opera nel popolo in formazione dando ad ognuno dei tre patriarchi Abramo Isacco e Giacobbe una moglie sterile, per poi farla diventare feconda al momento opportuno? Si prenda ad esempio l’ultima delle tre matriarche:
Dio si ricordò anche di Rachele; Dio l'esaudì e la rese fertile; concepì e partorì un figlio, e disse: “Dio ha tolto la mia vergogna”. E lo chiamò Giuseppe, dicendo: “L'Eterno mi aggiunga un altro figlio” (Genesi 30:22-24).
Rachele chiede un figlio, ma è Dio che “si ricorda” di lei e interviene nel suo corpo donandole Giuseppe.
Questo frutto di manipolazione genetica viene poi usato per operare una grandiosa manipolazione storica nella politica della più grande potenza mondiale del momento:
“Il Faraone disse a Giuseppe: ‘Vedi, io ti stabilisco su tutto il paese d'Egitto’. E il Faraone si tolse l'anello di mano e lo mise alla mano di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino, e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece montare sul suo secondo carro, e davanti a lui si gridava: ’In ginocchio!’. Così Faraone lo costituì su tutto il paese d'Egitto. Poi il Faraone disse a Giuseppe: “Io sono il Faraone! e senza te, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d'Egitto” (Genesi 41:44).
Tutto questo poté avvenire a Giuseppe per il semplice motivo che “L’Eterno era con lui” (Genesi 39:3, 23). Stando alla Bibbia, Giuseppe non ebbe mai una visione di Dio, né mai ricevette da Lui una parola. Ebbe soltanto dei sogni e la capacità di interpretarli. Ma l’Eterno era con lui, senza che Giuseppe forse neppure lo avvertisse. Dio dunque era disceso con Giuseppe in Egitto, e attraverso di lui aveva preso il governo della più grande potenza mondiale del momento.
Non si dica ora che Dio non aveva bisogno di Giuseppe per governare una nazione perché Dio può tutto e comanda su tutti. Certo, Dio può tutto quello che vuole, ma non vuole tutto. Avrebbe potuto far pervenire al Faraone l’ordine di nominare Giuseppe Primo Ministro di Egitto, un po’ come farà in seguito con il “re che non aveva conosciuto Giuseppe” (Esodo 1:8), ma non ha voluto agire così. Ha voluto invece che il re della più forte nazione al mondo lo facesse “spontaneamente”, dopo aver visto quello che era capace di fare un rappresentante significativo di una particolarissima nazione che ancora non compariva nella storia, ma che il Creatore dei cieli e della terra stava formando con pazienza e perseveranza.
Questo è il primo atto di politica internazionale che Dio compie nella storia attraverso la sua nazione in fieri. Ed è una politica vincente.
• In marcia verso la nazione Avevamo detto che dopo il peccato di Adamo ed Eva Dio ha interrotto il suo riposo e si è rimesso a lavorare. Il primo lavoro che Dio si è impegnato a fare è la costruzione di una grande nazione. Ma come si fa a formare ex novo una nazione? Dopo il costitutivo patto con Abramo, la nazione esiste già de jure, ma nella realtà effettuale una nazione è composta di tre elementi: un proprio popolo, una propria terra, un proprio governo. Dal capitolo 12 in poi, il libro della Genesi è interamente dedicato a descrivere il procedimento seguito da Dio per generare il popolo della nazione,
Dopo la stesura del patto di Dio con Abramo, un passo avanti nella formazione della nazione si ha con Giacobbe, che mentre era in viaggio verso Paddan Aram in cerca di moglie fa un’esperienza stranissima:
Giacobbe partì da Beer-Sceba e se ne andò verso Caran. Capitò in un certo luogo dove passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del luogo, la pose come suo capezzale e si coricò lì. Fece un sogno: una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed ecco gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala. L'Eterno stava al di sopra di essa, e gli disse: “Io sono l'Eterno, l'Iddio di Abraamo tuo padre e l'Iddio di Isacco; la terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua progenie; e la tua progenie sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai a occidente e a oriente, a settentrione e a meridione; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua progenie. Ed ecco, io sono con te, e ti guarderò ovunque tu andrai, e ti riporterò in questo paese; poiché io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto”. Appena Giacobbe si svegliò dal suo sonno, disse: “Certo, l'Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo!”; ebbe paura, e disse: “Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!”. Allora Giacobbe si alzò la mattina di buon'ora, prese la pietra che aveva posta come suo capezzale, la eresse come pietra commemorativa e vi versò dell'olio sulla cima. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora, il nome della città era Luz. Poi Giacobbe fece un voto, dicendo: “Se Dio è con me, se mi guarda durante questo viaggio che faccio, se mi dà pane da mangiare e vesti per coprirmi, e se ritorno sano e salvo a casa di mio padre, l'Eterno sarà il mio Dio; e questa pietra che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio; e di tutto quello che tu darai a me, io, certamente, darò a te la decima” (Genesi 28;10-22)
L’espressione "la sua cima raggiungeva il cielo" ricorda subito quella usata dagli uomini di Scinear che volevano costruire una torre "la cui cima raggiunga il cielo". Indubbiamente la scala apparsa a Giacobbe è la risposta di Dio alla torre di Babele. Non si raggiunge il cielo con una laboriosa e abile opera umana, perché soltanto Dio può stabilire un contatto non distruttivo ma vivificante tra il cielo e la terra.
Il preannuncio che il Signore ha voluto dare a Giacobbe con questo sogno mette in evidenza che il progetto redentivo di Dio non si conclude con la generazione dei patriarchi, ma si estende fino a un lontano futuro che non arriverà prima di quattrocento anni, come Dio aveva rivelato ad Abramo in una terribile notte (Genesi 15:7-21).
Come ad Abramo e ad Isacco, Dio annuncia a Giacobbe il suo progetto, che si estende nel futuro a occidente e a oriente e contiene due elementi essenziali: la terra e la progenie. Quanto alla terra, anche a Giacobbe Dio ripete: "Io la darò a te e alla tua progenie"; dunque non solo alla progenie, ma anche a te personalmente, il che esprime in forma indiretta che Giacobbe risusciterà e vedrà il compimento di queste parole.
Inoltre, la terra su cui si appoggia la scala è indubbiamente terra d'Israele. Si capisce allora il feroce antisionismo di oggi, perché se nel passato gli uomini fallirono nel loro tentativo di innalzarsi verso il cielo con una torre che poggiava sulla terra di Scinear, oggi gli uomini cercano di impedire che il cielo faccia scendere sul mondo la benedizione su una scala che
poggia sulla terra d’Israele. Anche Gesù, molti secoli dopo, ha fatto riferimento a un traffico di angeli tra la terra e il cielo: “Poi gli disse: “In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo” (Giovanni 1:51)
La progenie di Giacobbe che sarà come la polvere della terra è certamente il popolo etnico d'Israele, dal quale Dio un giorno farà scaturire il "germoglio di giustizia" che costituisce la vera scala che congiunge in modo salvifico il cielo e la terra. Sta scritto infatti:
“In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia, ed esso eserciterà il diritto e la giustizia nel paese" (Geremia 33:15).
Ma c’è un altro fatto importante in questo racconto:
“E come Giacobbe si fu svegliato dal suo sonno, disse: ‘Certo, l'Eterno è in questo luogo ed io non lo sapevo!' Ed ebbe paura, e disse: 'Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!’” (Genesi 28:16-17).
Per la prima volta nella Bibbia compare qui l’espressione casa di Dio, che in seguito si userà per indicare il tabernacolo prima e il tempio poi. In quel luogo dunque è stato presente per breve tempo il santuario di Dio. Che è stato anche la porta del cielo, cioè il passaggio attraverso cui gli uomini possono avvicinarsi a Dio e rimanere in sua presenza.
Nulla di questo è entrato in funzione nell’esperienza di Giacobbe, ma Dio in quell’occasione ha voluto rivelare qualcosa di Se stesso e del suo piano al suo servitore, il quale naturalmente è stato preso da paura, perché l’uomo peccatore non può avvertire la vicinanza di Dio senza provare spavento, come è avvenuto fin dall’inizio ad Adamo.
Nel viaggio di ritorno da Paddan Aram, sulle rive dello Iabbok, Giacobbe ha una lotta notturna con "un uomo" .
Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui fino all'apparire dell'alba. E quando quest'uomo vide che non lo poteva vincere, gli toccò la giuntura dell'anca; e la giuntura dell'anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. L'uomo disse: “Lasciami andare, perché spunta l'alba”. E Giacobbe: “Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!”. E l'altro gli disse: “Qual è il tuo nome?”, egli rispose: “Giacobbe”. E quello disse: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con Dio e con gli uomini, e hai vinto”. Giacobbe allora gli disse: “Ti prego, palesami il tuo nome”. E quello rispose: “Perché chiedi il mio nome?”. E lo benedisse lì. E Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, “perché”, disse, “ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata”. Il sole sorgeva appena egli ebbe passato Peniel; e Giacobbe zoppicava dall'anca. Per questo, fino a oggi, gli Israeliti non mangiano il nervo della coscia che passa per la giuntura dell'anca, perché quell'uomo aveva toccato la giuntura dell'anca di Giacobbe, al punto del nervo della coscia (Genesi 32:24-32).
Alla fine dello scontro Giacobbe dice: "Ho visto Dio faccia a faccia". Questo è un altro passo avanti nei rapporti fra il Creatore e la creatura: non c’è qui soltanto comunicazione verbale, o apparizione, o vicinanza di luogo come a Betel, ma visione faccia a faccia e contatto fisico, sia pure in forma temporanea e altamente enigmatica.
Perché questa lotta? Sembrerebbe che a cominciare lo scontro sia stato l’uomo sconosciuto, e che Giacobbe abbia cercato in un primo momento di difendersi come da un’aggressione. Ma poi comincia ad avere il sopravvento, e allora l’uomo cerca di sfuggire alla presa e mostra di voler scappare. A questo punto Giacobbe capisce che contro di lui è Dio stesso che combatte, e allora con tutte le sue forze cerca di impedire che l’uomo riesca a divincolarsi e scappare. Vuol essere benedetto, perché avverte che senza quella benedizione per lui sarebbe la fine. La benedizione che aveva strappato al fratello con il traffico commerciale, adesso vuole ottenerla con la forza. E ci riesce. L’uomo misterioso capisce di star soccombendo in quel tipo di lotta con Giacobbe e allora manifesta la sua forza assestandogli un colpo speciale sulla commessura dell'anca, e manifesta la sua autorità cambiandogli il nome. E per la prima volta nella Bibbia compare qui il nome "Israele", applicato prima al patriarca Giacobbe e poi esteso a tutta la nazione da lui discesa.
Una serie di attacchi antisemiti ha sconvolto Melbourne venerdì sera, esacerbando le preoccupazioni della comunità ebraica australiana, che conta 117.000 membri. Verso le 20:00, un uomo ha versato un liquido infiammabile sulla porta della sinagoga di Albert Street, nella zona est della città, prima di appiccare il fuoco, mentre 20 persone, tra cui donne e bambini, stavano consumando la cena dello Shabbat. I vigili del fuoco hanno spento l'incendio senza causare feriti, ma il sospetto, un uomo di circa trent'anni, è ancora in fuga. A un chilometro di distanza, una ventina di manifestanti hanno invaso il ristorante israeliano Miznon, in Hardware Lane, scandendo “Morte alle FDI (Tsahal)”, secondo testimoni citati da Nine News. Un uomo di 28 anni è stato arrestato per ostruzione alla polizia, poi rilasciato. Durante la notte, un terzo incidente ha preso di mira un'azienda a Greensborough, dove sono state incendiate tre auto e imbrattati i muri, un luogo già preso di mira dai militanti filopalestinesi. La polizia del Victoria, mobilitando la sua unità antiterrorismo, sta indagando su questi atti senza ancora qualificarli come terroristici. “Stiamo esaminando le intenzioni e l'ideologia dei responsabili”, ha dichiarato il comandante Zorka Dunstan. Le autorità australiane hanno condannato con forza queste violenze. Il primo ministro dello Stato di Victoria, Jacinta Allan, ha denunciato un atto ‘abietto’ volto a “traumatizzare le famiglie ebree”, sottolineandone il carattere antisemita, particolarmente odioso in pieno Shabbat. Il sindaco di Melbourne, Nicholas Reece, ha definito l'attacco «scioccante», ribadendo che la città promuove la pace e la tolleranza. Alex Ryvchin, co-direttore dell'Executive Council of Australian Jewry, ha chiesto una risposta ferma: «Questi crimini non possono essere perdonati, devono essere affrontati con tutta la forza della legge». Anche Israele ha reagito con forza. Il viceministro degli Esteri, Sharren Haskel, ha definito questi attacchi “terrorismo antisemita”, accusando l'assenza di sanzioni contro l'odio di incoraggiare gli estremisti. «Prendere di mira luoghi di culto ebraici e un ristorante israeliano mira a intimidire un'intera comunità a causa della sua religione», ha dichiarato, esortando l'Australia a consegnare i colpevoli alla giustizia. Questi incidenti si inseriscono in un'escalation di atti antisemiti a Sydney e Melbourne dalla fine del 2024, che includono incendi di sinagoghe e graffiti con svastiche. La polizia sta raddoppiando gli sforzi per identificare i responsabili, in un clima di crescente tensione.
(i24, 5 luglio 2025)
Monte Porzio Catone, è rissa nel circolo-pd dopo il comizio anti-ebraico
di Andrea Muzzolon
Lo chiamano dibattito, ma evidentemente a sinistra non hanno idea di cosa sia il confronto. Quello vero, che mette sullo stesso piano due opinioni diverse. E così a Monte Porzio Catone, in provincia di Roma, si è consumato l’ultimo, ennesimo, comizio anti-ebraico e anti-israeliano. Questa volta, teatro dello show pro-Pal è stato il circolo locale del Pd, intitolato ad Antonio Gramsci, che ha ospitato un confronto dal titolo “Stop al massacro. Vita, terra, libertà per il popolo palestinese”. Se già il titolo non fosse sufficientemente esplicativo, basta scorrere l’elenco dei relatori per capire dove si vuole andare a parare. Si parte con un esponente dell’Anpi, ormai in prima linea nel sostegno alla Palestina, passando per poi quelli di Emergency, Amnesty, fino ad arrivare a un rappresentante della comunità palestinese romana e uno del gruppo Bds, movimento che accusa apertamente Israele di apartheid e colonialismo. C’erano pochi dubbi sul fatto che in breve l’incontro si sarebbe trasformato in un plotone d’esecuzione contro lo Stato ebraico, ma comunque anche alcuni cittadini che non girano con la kefiah hanno deciso di assistere. Certo, mai si sarebbero aspettati uno spettacolo del genere. Fra di loro c’era anche un uomo di origini ashkenazite, un gruppo etnoreligioso ebraico originario della Valle del Reno in Europa centrale.
Non ha potuto credere alle sue orecchie quando dal palco è stato recitato un elenco di ditte, supermercati, perfino medicinali, da boicottare perché legati a Israele. Come da lui raccontato, l’intervento dell’esponente palestinese è stato il solito concentrato di odio contro Gerusalemme e Washington, quest’ultima accusata di aver creato lo Stato di Israele addirittura per conquistare il mondo. Un comizio con tanto di mappe manipolate sull’evoluzione temporale dei confini palestinesi dal 1945 ad oggi. Non sono poi mancati gli accostamenti vergognosi fra “sionismo” e “nazismo”, con tanto di sorrisi beffardi quando è stato nominato il 7 ottobre 2023, data del massacro dei giovani israeliani al rave party.
Per non farsi mancare nulla, c’è stato spazio anche per la repressione di chi la pensava in modo diverso. Proprio l’ashkenazita, residente da anni ai Castelli Romani e frequentatore del circolo dem, ha provato a portare una voce fuori dal coro sul conflitto in atto a Gaza. Di tutta risposta, è stato accusato di essere responsabile dei conflitti mondiali insieme a Netanyahu solo per le sue origini. Ogni sua parola è stata interrotta con violenza da chi sedeva sul palco nel tentativo di zittirlo finché non ha deciso di defilarsi. Il tutto, nel silenzio più totale degli esponenti locali del Pd che gestiscono il circolo. Un canovaccio diventato ormai la normalità nell’indifferenza generale di una sinistra che continua a fomentare pericolosamente l’odio verso Israele e il popolo ebraico.
Libero, 5 luglio 2025) ____________________
L'odio antiebraico è ormai fuori misura. Non ci sono più ragioni umane che potrebbero contrastarlo. E' una libidine spirituale di natura diabolica. Hanno paura. Sono afferrati da una primordiale paura di Dio, la cui ombra vedono continuamente riapparire dietro i fatti inconsueti di Israele e degli ebrei. E' quest'ombra che non vogliono vedere, e il continuo non riuscirci aumenta la loro paura, fino a farla diventare rabbia. M.C.
D'ora in poi ci si ricorderà della “guerra dei 12 giorni”, proprio come ci si ricorda della “guerra dei 6 giorni” del giugno 1967.
di Pastore Gérald Fruhinsholz
GERUSALEMME - Iniziato alle 3 del mattino del 13 giugno 2025, l'attacco di Israele contro l'Iran islamico ha colto di sorpresa il mondo intero. L'obiettivo di Israele era quello di privare l'Iran della sua capacità futura di dotarsi dell'arma atomica, come era già avvenuto con l'Iraq nel 1981 e con la Siria nel 2007. Non è un caso che l'operazione sia stata chiamata “Am kelavi” (il Risveglio del Leone), un'espressione tratta dalla Torah. Come credenti, dobbiamo prendere coscienza del carattere profetico dell'evento che si è svolto sotto i nostri occhi. Dalla guerra del 7 ottobre 2023, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha subito numerose critiche da parte dell'ONU, dalle nazioni e persino all'interno di Israele. Tuttavia, molte voci si sono levate per dire che Dio aveva scelto quest'uomo “per un tempo come questo”. Poco prima dell'attacco, il Primo Ministro aveva inserito questo versetto tra le antiche pietre del Kotel
«È un popolo che si leva come una leonessa e si erge come un leone; non si corica finché non ha divorato la preda e bevuto il sangue dei feriti» (Numeri 23:24).
• L’attualità dei testi Queste parole descrivono la potenza e la determinazione del popolo di Israele, paragonato a un leone pronto a colpire. Fanno parte della profezia di Balaam, che, nonostante i suoi tentativi di maledire Israele, finisce per benedirlo. Balaam riconosce che Dio benedice Israele e lo descrive come un popolo temibile, che non riposa finché non ha compiuto la sua missione. È sempre sorprendente vedere quanto i testi letti ogni settimana – la Parashà della Torah e la Haftarah, tratta dai Profeti – risuonino con l'attualità. Il 13 giugno, Israele ha quindi lanciato un'operazione su larga scala: il più massiccio attacco contro l'Iran dalla guerra Iran-Iraq (1980-1988). Eppure, nella Haftarah di quella settimana, era scritto:
«Non è con la potenza né con la forza, ma con il mio Spirito» (Zaccaria 4:6),
dice l'Eterno degli eserciti. Israele sa che può contare solo sull'aiuto dell'Altissimo. Al Kotel, gli shofar e le trombe hanno già suonato. La Parashà del giorno evocava proprio la dichiarazione di Dio a Mosè di suonare le trombe (Numeri 10:9), conferendo a questa guerra una dimensione spirituale e profetica.
• La testa del serpente Si può definire l'Iran degli ayatollah come «la testa del serpente», un serpente simile a una piovra i cui tentacoli si estendono su tutto il mondo. L'Iran è il principale fornitore di armi e fondi ai suoi proxy: Hamas, Hezbollah e Houthi - nemici diretti di Israele - attraverso il denaro sporco proveniente da un vasto traffico di droga. Tutti i paesi sono colpiti, più o meno direttamente, dall'influenza destabilizzante dell'Iran islamico. Daniele 10 descrive una battaglia celeste tra il Principe di Persia e l'arcangelo Michele. L'angelo Gabriele dice a Daniele, che digiuna e pregava per il suo popolo:
«Il capo del regno di Persia mi ha resistito per ventuno giorni; ma ecco, Michele, uno dei capi principali, è venuto in mio aiuto» (Daniele 10:13).
Questa battaglia spirituale è più attuale che mai. Dio usa Israele come strumento per liberare il mondo dalla minaccia esistenziale rappresentata dal regime dei mullah.
• La pace in Medio Oriente & E' giunto il momento di pregare per la pace annunciata dai profeti. Isaia parla di un Medio Oriente pacificato, ma la Bibbia avverte anche:
«Ci sarà guerra dell'Eterno contro Amalek fino alla fine» (Esodo 17:16).
Hitler con il nazismo, Stalin con il comunismo e oggi i mullah iraniani con il terrorismo islamico incarnano questa figura di Amalek. Solo Dio conosce la fine. Siamo chiamati all'umiltà e alla vigilanza, anche nei momenti di vittoria. Il Leone si è risvegliato, ma è Dio che conduce la battaglia. C'è ancora molto da fare: il regime dei mullah non è caduto; Gaza non è stata liberata e gli ostaggi sono ancora prigionieri; Hamas, gli Houthi, Hezbollah sono ancora attivi... Ma celebriamo questa vittoria di Israele, quella del suo capo, dei suoi servizi segreti, del suo esercito e dei suoi piloti in particolare, durante la «guerra dei 12 giorni» che ha visto molti miracoli. Era Ben Gurion a dire: «Chi non crede nei miracoli non è realista». Siamo con tutto il cuore accanto alle famiglie delle vittime e preghiamo per la pronta guarigione dei feriti.
È ora di portare a casa gli ostaggi, porre fine alla guerra e sconfiggere Hamas una volta per tutte
Se il mondo vuole davvero aiutare, deve finalmente affrontare la verità: la liberazione dei palestinesi (e di tutti noi) inizia con la sconfitta di Hamas
diZina Rakhamilova
Il cessate il fuoco con il regime iraniano è iniziato poco più di una settimana fa, il 24 giugno. Nonostante noi in Israele avessimo appena sopportato quasi due settimane di vero terrore – secondo modalità che ci hanno riportato alla mente la stessa paura e la stessa angoscia provate nelle prime settimane dopo il 7 ottobre 2023 – in pieno stile israeliano gran parte del Paese è tornata quasi immediatamente alla normalità, come se non fosse mai successo. A molti, questo potrebbe sembrare un concetto strano ed estraneo. Come si fa a passare da due settimane di notti insonni – dall’ansia scatenata da ogni rumore forte, dall’ossessione di “cos’altro dovrei mettere nella mia borsa d’emergenza?” – allo svegliarsi la mattina, indossare una camicia pulita e andare in ufficio come se fosse un giorno qualsiasi, spesso passando per le stesse stazioni ferroviarie dove centinaia di persone avevano trascorso la notte precedente accalcate sottoterra, usandole come rifugi antiaerei? E’ perché in Israele non abbiamo scelta. Se smettessimo di vivere la nostra vita a causa del terrorismo, non vivremmo mai veramente. Ma la verità è che qui le cicatrici della guerra non sono sempre visibili. Sì, Tel Aviv può sembrare tornata alla sua vitalità ed energia, ma nessuno di noi è veramente tornato alla normalità. Siamo ancora fisicamente ed emotivamente esausti per le notti insonni. Sussultiamo ancora ad ogni suono inaspettato. Abbiamo amici e parenti che stanno cercando di ricostruire le loro case, alcune ridotte in macerie.
15 giugno: israeliani in un rifugio di condominio a Gerusalemme, in attesa del cessato allarme
Ovunque andiamo, continuiamo istintivamente a individuare il rifugio antiaereo più vicino. Vi sono alcuni quartieri tuttora devastati dai recenti attacchi missilistici del regime iraniano. Può essere che viviamo le nostre giornate come se tutto andasse bene, ma la verità è che nessuno di noi è più lo stesso da quel giorno orribile e traumatico in cui Hamas ha preso d’assalto i nostri confini, ha devastato le comunità civili nel sud e un festival musicale, ha bruciato, decapitato e stuprato in gruppo civili innocenti e ha trascinato in cattività centinaia di persone (vive e morte). Sì, da un certo punto di vista abbiamo visto dispiegare una forza straordinaria da parte delle nostre forze armate. Abbiamo visto la piena potenza e portata delle Forze di Difesa israeliane, non solo contro Hamas, ma contro fronti ancora più formidabili e pericolosi. Nell’operazione dei cercapersone di Hezbollah, agenti israeliani sono riusciti a piazzare detonatori in dispositivi di comunicazione non rilevabili nemmeno ai raggi X, un’operazione che ha rivelato quanto profondamente avessimo infiltrato da tempo le milizie sponsorizzate e al servizio dell’Iran. Negli ultimi due anni, Israele ha eliminato quasi tutti gli alti dirigenti di Hamas dietro al 7 ottobre, insieme a figure chiave della rete terroristica iraniana come Ismail Haniyeh, tolto di mezzo nientemeno che su suolo iraniano. Abbiamo visto, forse più chiaramente che mai, che Israele dispone di un’innegabile superiorità militare, anche rispetto alla testa stessa della piovra: la Repubblica Islamica dell’Iran. Da qualsiasi punto di vista razionale, Israele ha ripristinato la deterrenza che aveva perso il 7 ottobre. Eppure la nostra vitale deterrenza non sembra del tutto ripristinata. Non finché 50 ostaggi rimangono nelle mani di Hamas. Non finché Hamas detiene ancora il potere su Gaza. Non finché la popolazione israeliana continua a convivere con le conseguenze di un trauma che nessuna vittoria sul campo di battaglia può cancellare. Quindi, cosa viene dopo? Per gli israeliani, la priorità rimane chiara: bisogna riportare a casa gli ostaggi e porre fine a questa guerra a Gaza. Secondo i funzionari israeliani, la dirigenza di Hamas è ora in preda al panico, dopo il recente successo militare di Israele contro l’Iran, e la paura che un tempo instillava nella sua popolazione si sta incrinando. Il feroce gruppo terroristico ha governato Gaza per decenni rubando aiuti, accumulando risorse e rivendendole a prezzi da estorsione. Ma la creazione di un nuovo meccanismo di aiuti sostenuto dall’Occidente – la Gaza Humanitarian Foundation – ha finalmente iniziato a rompere quel sistema di controllo. Dalla fine di maggio 2025, la Gaza Humanitarian Foundation (violentemente osteggiata da Hamas e sciaguratamente boicottata dagli organismi internazionale ndr) ha consegnato quasi un milione di pasti al giorno direttamente alla popolazione di Gaza. L’efficacia dell’iniziativa è tale che l’amministrazione Trump ha promesso 30 milioni di dollari per sostenerla. Si immagini come sarebbe potuta essere Gaza se il Qatar, invece di dare a Hamas 30 milioni di dollari al mese, avesse finanziato iniziative come questa. Giornalisti israeliani riferiscono che ora clan palestinesi locali hanno persino iniziato a rivolgersi alle Forze di Difesa israeliane avanzato idee circa la governance in una Striscia di Gaza post-Hamas. Oltre a tutto questo, Israele sembra aver fatto significativi passi avanti nell’intelligence. Solo nelle ultime settimane sono stati recuperati i corpi di otto ostaggi, un altro colpo alla morsa di Hamas e un altro segnale che sta perdendo il controllo. Nel frattempo, l’amministrazione statunitense esprime ottimismo riguardo a un possibile cessate il fuoco e ad un accordo sulla consegna degli ostaggi nelle prossime settimane. Ma qui in Israele sappiamo che non è mai così semplice. Hamas non ha ancora accettato le basilari richieste israeliane: il pieno controllo del Corridoio Philadelphi (fra Gaza ed Egitto ndr) per impedire il traffico di armi, il disarmo di Hamas e l’esilio da Gaza della sua leadership. E’ tutt’altro che sicuro che tutto questo si realizzi. E tuttavia, la situazione attuale sembra indicare un punto di svolta in Medio Oriente. Un vero cambiamento è possibile. Paesi come l’Arabia Saudita (e forse persino Siria e Libano) potrebbero presto normalizzare i rapporti con Israele. Se lo facessero, potrebbero finalmente collaborare con gli Stati Uniti per combattere il terrorismo e portare tranquillità, stabilità e speranza nella regione. Possiamo immaginare un futuro in cui gli stati arabi stabili svolgano un ruolo concreto nel migliorare la vita dei palestinesi, non finanziando il terrorismo né voltandosi dall’altra parte, ma costruendo scuole, ospedali, case e posti di lavoro. Un futuro in cui i palestinesi non siano più pedine nella guerra di qualcun altro, ma esseri umani dotati di dignità, capacità e responsabilità decisionale, e pace. Questo futuro dipende dai nostri leader – in Occidente, in Israele e nel mondo arabo – che devono fare la scelta coraggiosa e audace di reprimere Hamas e costringerla al disarmo. Non c’è futuro per Gaza – né libertà, né pace – finché Hamas rimane al potere. Se il mondo vuole davvero aiutare la martoriata enclave costiera, allora deve finalmente affrontare la verità: la liberazione dei palestinesi inizia con la sconfitta di Hamas. Solo allora israeliani e palestinesi potranno iniziare a guarire dal trauma della guerra e muovere verso una pace condivisa e sostenibile. (Da: Jerusalem Post, 2.7.25)
(israelnet.it, 3 luglio 2025)
Donne in uniforme: i ruoli segreti e strategici dell’IDF
di Michelle Zarfati
Mentre l’opinione pubblica si concentra sui ruoli da combattimento più tradizionali, all’interno delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) esistono posizioni meno note ma di cruciale importanza, oggi sempre più spesso occupate da donne. Dalla guerra elettronica all’addestramento al combattimento ravvicinato, questi incarichi dimostrano come le soldatesse israeliane siano ormai parte integrante anche delle unità più specializzate dell’esercito. Uno di questi ruoli è quello dell’istruttrice di droni, diventata fondamentale nell’attuale conflitto a Gaza. Queste soldatesse non solo conoscono a fondo le tecnologie più avanzate, ma insegnano anche a impiegarle in missioni reali, tra cui la ricognizione, l’individuazione di minacce e il supporto tattico alle truppe sul campo.
Allo stesso modo, le istruttrici di Krav Maga, trasmettono competenze essenziali per la sopravvivenza e l’autodifesa. Insegnano tecniche di combattimento corpo a corpo, disarmo e reazione rapida in scenari estremi, come rapimenti o attacchi improvvisi. Il corso di formazione, pur breve, è intensivo e punta alla padronanza tecnica e mentale. In scenari di addestramento, un ruolo altrettanto strategico è quello dell’operatrice di Hummer da combattimento, incaricata di guidare mezzi blindati durante esercitazioni complesse. Queste simulazioni, spesso notturne e in ambienti urbani, sono essenziali per preparare le unità combattenti a operare in situazioni di crisi.
Nell’IDF si è scelto inoltre di schierare sempre più donne nell’ambito della guerra elettronica, una sfera invisibile ma decisiva del conflitto moderno. Queste operatrici gestiscono sofisticati sistemi di difesa e attacco informatico: disturbano comunicazioni nemiche, neutralizzano droni e proteggono infrastrutture digitali. Durante l’attacco missilistico iraniano dell’aprile 2024, il loro intervento si è rivelato cruciale. Un’altra figura chiave è quella delle simulatrici del “Red Team”, che ricreano fedelmente tattiche, abiti e metodi del nemico per migliorare l’addestramento delle forze israeliane. Dotate di grande creatività e intuizione tattica, queste soldatesse si immergono nel ruolo dell’avversario per testare le reali capacità delle unità sul campo. Anche nel settore navale, non mancano le opportunità: oggi le donne possono diventare ufficiali della Marina israeliana, guidando imbarcazioni armate, coordinando l’equipaggio e gestendo i sistemi di difesa in mare aperto. Il percorso per arrivarci è lungo e impegnativo, e comprende anche una laurea e il prestigioso brevetto di ufficiale. Infine, ci sono le istruttrici di paracadutismo, che non solo accompagnano le truppe nei lanci, ma gestiscono tutta la fase di preparazione, dalla sicurezza all’aspetto psicologico. Addestrate in salti automatici e lanci ad alta quota, contribuiscono a costruire sicurezza e disciplina tra i soldati destinati a missioni speciali. In un contesto militare che continua a evolversi, queste sette posizioni dimostrano come le donne non siano più solo parte dell’esercito, ma protagoniste delle sue trasformazioni più strategiche.
La distruzione, parziale o totale che sia, dell’infrastruttura nucleare iraniana da parte di Israele e degli Stati Uniti rappresenta un successo per quello che, un tempo, si sarebbe definito «mondo libero». Eppure, il successivo «cessate il fuoco» imposto dal Presidente Trump a Israele testimonia, per l’ennesima volta, l’incapacità dell’Occidente di comprendere la natura dell’Islam, sunnita e sciita, e in particolare la sua santificazione della violenza e del «martirio» in adempimento al comando di Allah sul dovere della guerra santa, il jihad. Uno dei più significativi esegeti islamici, lo studioso di fine XIV secolo Ibn Khaldun, nei suoi «Prolegomeni a una storia universale» (al-Muqaddimah), scrisse: «Nella comunità musulmana, la guerra santa è un dovere religioso, a causa dell’universalità della missione musulmana e dell’obbligo di convertire tutti all’Islam, sia con la persuasione che con la forza». È noto che gli islamici dividono il mondo in due categorie: la «Dimora dell’Islam» (dar al-Islam), ossia i territori sottoposti al dominio dell’Islam, e la «Dimora della Guerra» (dar al-harb), il territorio dei non musulmani, che devono essere combattuti e convertiti. Più o meno come Carl Schmitt, il giurista del Terzo Reich, divideva il mondo in «amici» e «nemici» (hostes), facendo dell’individuazione e dell’annientamento di quest’ultimi il fondamento dell’agire politico. Questa ambizione «universalista» del jihad, animò le conquiste e le occupazioni islamiche di territori che erano stati cristiani per millenni. Una volontà di dominio che rappresentò una minaccia per l’Occidente fino a quando l’espansione dell’Europa nei territori extraeuropei, compresi quelli musulmani, non iniziò ad accelerare nel XVIII secolo. Questo cambiamento, avvenuto nel corso di lunghi decenni, ha avuto un profondo impatto sull’Islam e ha suscitato richieste di riforma e un ardente desiderio di tornare ai «fondamenti» della fede (da qui il termine fondamentalismo). «Dall’inizio della penetrazione occidentale nel mondo non europeo – ha scritto lo storico Bernard Lewis – fino ai nostri giorni, le risposte politiche più caratteristiche, significative e originali a tale penetrazione sono state quelle islamiche. Esse si sono concentrate sui problemi della fede e della comunità sopraffatta dagli infedeli». La fede nel mandato divino dell’Islam di conquistare e «redimere» il mondo intero non è stata intaccata dai solventi secolari della modernità, come invece è accaduto al Cristianesimo. Il sogno di dominio mondiale è rimasto vivo nei cuori e nelle menti di molti musulmani. Nel 1924, l’egiziano Hasan al-Banna creò la Fratellanza Musulmana per riportare l’Islam alla sua purezza dottrinale, incentrata sul jihad, al fine di far rivivere l’impero islamico usurpato dagli infedeli occidentali. Hasan al-Banna riteneva che fosse nella natura dell’Islam dominare il creato e imporre le sue leggi a tutte le nazioni del pianeta. Il suo confratello musulmano Sayyid Qutb, «padrino intellettuale» di Osama bin-Laden e di al-Qaeda, sostenne la necessità di far rivivere la comunità musulmana (Umma), ritenuta «decadente» e sepolta sotto il peso di false leggi e false usanze lontane dagli «autentici» insegnamenti islamici. A queste ambizioni catartiche e apocalittiche – così simili a quelle che animavano gli ideologi dei totalitarismi europei (nazismo e comunismo) – non sono estranee nemmeno all’Islam sciita. La Rivoluzione Islamica iraniana e la sua Guida, l’ayatollah Khomeini, hanno rilanciato con successo il sogno di una rigenerazione dell’Islam attraverso una violenza «purificatrice» a danno degli infedeli e, soprattutto, degli ebrei e del loro Stato. La dottrina teologica del clero sciita, ritiene che il ritorno di Muhammad ibn Hossein al-Mahadi – più semplicemente noto come Mahdi, ovvero il «dodicesimo imam» (donde la definizione di Islam duodecimano), figura messianica dell’escatologia islamica destinata ad annunciare la «Fine dei Tempi» – dal suo «divino nascondimento» possa essere accelerata attraverso la guerra e la «conflagrazione mondiale», per usare le parole dell’ex presidente iraniano, Ahmadinejad. La distruzione dell’infrastruttura nucleare iraniana ha frustrato le attese messianiche degli sciiti e deluso tutti quei musulmani sunniti, come i membri di Hamas, che sognavano un «olocausto nucleare» attraverso l’atomica mahadista. Noi occidentali laici, che abbiamo relegato la fede a un fatto privato o a una bizzarra superstizione, spesso non riusciamo a comprendere o a prendere sul serio il ruolo smisurato che queste esaltate fantasie religiose hanno nella politica islamica. Questa mancanza di immaginazione, quando non vera e propria ignoranza, si è rivelata un errore strategico. Lo Stato di Israele, ritenuto erede di quegli ebrei che si opposero a Maometto, fin dalla sua erezione, è stato bersaglio di una violenza sancita e glorificata dalla religione. Israele rimarrà «una democrazia in guerra» finché i fondamentalisti non saranno sconfitti in modo definitivo. La cosiddetta «guerra dei dodici giorni» è stata necessaria per smantellare almeno parte del nucleare iraniano, tuttavia, come si è già detto, la riluttanza del Presidente statunitense a intervenire militarmente, così come la sua affannosa ricerca di un «accordo», hanno impedito a Israele di portare fino in fondo l’azione militare. Per quanto possano, strumentalmente, apprezzare gli appelli di Trump alla pace e alla riconciliazione, i mullah e gli altri ferventi jihadisti non li vedono come espressioni di magnanimità e rispetto per la vita, ma come sintomi della debolezza spirituale degli «infedeli». Ogni respiro concesso agli ayatollah sarà sfruttato e utilizzato per alimentare le loro ambizioni globali. Trump, proprio come i suoi predecessori, Obama e Biden, nonché l’intera leadership europea, è caduto vittima della retorica dell’«impegno diplomatico», una formula che ha assunto una valenza quasi magica, come se, pronunciando semplicemente queste parole, anche il più fanatico degli jihadisti decidesse di diventare ragionevole.
R. Hershel Schachter (Scranton, 1941-) in Insights and Attitudes (p. 206-7) scrive che per tanti anni il Salmo 23 (che comincia con le parole “Salmo di Davide. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce..”) era il più noto presso la popolazione cristiana negli Stati Uniti. Si può aggiungere che questo salmo è ancora il più popolare. Infatti durante il funerale del senatore ebreo Joe Lieberman, quando venne letto questo salmo in inglese, tutti i presenti, ebrei e non ebrei lo seppero recitare a memoria.
R. Schachter aggiunge che qualche ministro di culto protestante voleva vendere la religione alle masse con la motivazione che chi è religioso non avrà contraddizioni nelle vita. Invece, dice r. Schachter, che il suo maestro r. Joseph Beer Soloveitchik, (Belarus, 1903-1993, Boston) non era affatto d’accordo con questa idea.
Re Salomone in Kohèlet (Ecclesiaste, 7:23) affermò che credeva di poter capire tutto, ma dovette confessare che la mitzvà della vacca rossa, il primo argomento di questa parashà, era al di là della sua comprensione. Il motivo è la evidente contraddizione: lo scopo delle ceneri della vacca rossa è di purificare coloro che sono impuri per aver avuto contatti con una cadavere. Con tutto ciò chi usa le ceneri per purificare diventa impuro. La vacca rossa purifica gli impuri e rende impuri i puri!
La verità è che il mondo è pieno di contraddizioni. Quando recitiamo una berakhà(benedizione) iniziamo usando la seconda persona (“Benedetto tu o Signore”) e concludiamo in terza persona (“che fa uscire il pane dalla terra”). Talvolta sentiamo vicina a noi la presenza divina e altre volte, assai lontana. Entrambe le impressioni sono vere.
Un altro esempio è il Salmo 8 (4-5) nel quale re David descrive la dualità della natura umana:”Che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura? Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore agli angeli, e l’hai coronato di gloria e d’onore”. Nel primo versetto l’uomo viene descritto come essere insignificante; nel secondo ad un livello quasi come quello degli angeli!
Anche nella Halakhà vi sono contraddizioni. R. Avraham Borenstein, rebbe di Sochachow (Polonia, 1838-1910) nella sua opera Avnè Nèzer elenca delle contraddizioni halakhiche in almeno trenta dei suoi responsi.
Vivere seguendo e osservando le mitzvòt della Torà non risolve tutte le contraddizioni. È piuttosto vero che ci renderà coscienti di più contraddizioni. La vacca rossa non è il solo esempio di contraddizioni nella Halakhà. È una Chukkà, un decreto. L’intera creazione è tutto un decreto. Per fare un altro esempio, è impossibile spiegare i fenomeni del quantum con i principi tradizionali della fisica. Così scrisse il rav professor Aaron Schreiber in “Quantum Physics , Jewish Law, and Kabbalah”. Certe cose sono note solo all’Eterno e per gli uomini rimarranno oscure.
MENDY & TZVI BLAU di Colel Chabad si uniscono all'allora ministro del welfare Haim Katz alla Knesset per celebrare il lancio del Progetto Nazionale per la Sicurezza Alimentare di Israele, una partnership innovativa che garantisce a decine di migliaia di famiglie in tutto il paese un sostegno alimentare affidabile e nutriente ogni mese
Quando un'organizzazione di successo esiste da quasi 250 anni, aiutando chi è nel bisogno, è comprensibile che si sia riluttanti a cambiarne il nome. Dopo tutto, perché rovinare una cosa buona? È il caso di Colel Chabad, la più antica organizzazione benefica ancora in attività in Israele, fondata nel 1788 dal rabbino Shneur Zalman di Liadi, fondatore del movimento Chabad-Lubavitch. Zalman Duchman, amministratore delegato dell'organizzazione, afferma: “Non siamo un colel tipico, né una casa Chabad tipica. Il nostro marchio esiste da quasi 250 anni e continuerà ad esistere. Siamo un conglomerato di hessed [amorevole gentilezza] al servizio di ogni fascia demografica in Israele”. Colel Chabad è diventata una delle organizzazioni più importanti di Israele, offrendo una vasta gamma di programmi, che includono mense per i poveri, asili nido, centri di riabilitazione medica, cliniche di salute mentale e molto altro ancora. Il suo programma più importante è l'Iniziativa per la sicurezza alimentare, parte della Blavatnik Food Bank of Israel. Ha sviluppato una partnership con il governo israeliano che raggiunge 40.000 famiglie ogni mese, contribuendo a garantire la loro sicurezza alimentare. La sicurezza alimentare è definita come lo stato di avere accesso affidabile a una quantità sufficiente di cibo nutriente e a prezzi accessibili. Il padre di Zalman, il rabbino Sholom Duchman, direttore di Colel Chabad, è stato nominato dal Lubavitcher Rebbe a capo dell'organizzazione nel 1978. Egli spiega l'importanza della collaborazione con il governo. “Quando il Rebbe mi ha affidato personalmente la missione di espandere le attività di Colel Chabad e di prendermi cura dei più vulnerabili in Israele, era chiaro che il nostro mandato era quello di raggiungere tutti coloro che ne avevano bisogno, senza eccezioni. Allora capimmo, e continuiamo a credere oggi, che una partnership strategica con il governo israeliano è la strada più efficace per realizzare questa visione”.
Il RABBINO SHOLOM DUCHMAN, direttore di Colel Chabad, consegna un premio di riconoscimento al presidente Isaac Herzog e a Yael Eckstein, presidente dell'International Fellowship of Christians & Jews, in segno di apprezzamento per il loro sostegno all'iniziativa nazionale per la sicurezza alimentare di Israele. Con Mendy Blau, direttore di Colel Chabad, Israele.
Nei comuni di tutto Israele, da Rahat ad Ashkelon, da Beit Shemesh ad Acri, Colel Chabad è l'organizzazione ufficiale responsabile della supervisione del sostegno alla sicurezza alimentare per tutti i cittadini israeliani bisognosi. “Diamo da mangiare ai poveri, ebrei e non ebrei”, afferma Duchman. Aggiunge Moshe Lavon, vicedirettore generale del Ministero del Welfare e degli Affari Sociali: “Colel Chabad si occupa di tutto ciò che riguarda il cibo per le famiglie bisognose in qualsiasi momento e in qualsiasi momento per tutti i settori, senza distinzione di religione, razza e sesso”. Colel Chabad utilizza tre metodi per fornire cibo a chi ne ha bisogno. In primo luogo, i partecipanti al programma ricevono ogni mese una speciale carta di debito da 500 NIS, che può essere utilizzata nelle principali catene di supermercati per acquistare generi alimentari di prima necessità. In secondo luogo, grazie a una partnership con Leket, l'organizzazione nazionale israeliana che gestisce un banco alimentare, i partecipanti ricevono ogni mese consegne di frutta e verdura fresca. Infine, Colel Chabad fornisce latte in polvere alle madri lavoratrici bisognose in collaborazione con la Fondazione Ted Arison.
Un operatore di COLEL CHABAD conforta una sopravvissuta all'attacco missilistico iraniano su Bat Yam
Mendy Blau, che dirige le attività di Colel Chabad in Israele, spiega la natura unica del progetto di sicurezza alimentare dell'organizzazione. “La particolarità del nostro programma nazionale di sicurezza alimentare”, afferma, “è che si tratta del primo e unico programma governativo in questo settore. In Israele sono molte le organizzazioni caritative che si occupano di sicurezza alimentare, ma l'aiuto che possono fornire è relativamente limitato e solitamente viene erogato in periodi diversi dell'anno, come la Pasqua ebraica e il Rosh Hashanah”. Al contrario, osserva, il programma di Colel Chabad è attivo tutto l'anno. Sebbene il programma sia pienamente operativo da tre anni, dice Blau, Colel Chabad ha condotto test per 10 anni per garantirne il successo. Poiché Colel Chabad fa parte dell'iniziativa nazionale israeliana per la sicurezza alimentare, i suoi rappresentanti fanno parte del dipartimento di assistenza sociale di ogni comune in cui opera. I rappresentanti indagano sulle famiglie registrate presso il dipartimento di assistenza sociale della città per identificare quelle che hanno bisogno di assistenza alimentare. “Non ci occupiamo semplicemente delle famiglie povere”, dice Blau. “Lavoriamo con famiglie che soffrono di estrema insicurezza alimentare, persone che temono di non avere cibo a sufficienza per il giorno successivo”. SECONDO l'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale israeliano (Bituach Leumi), aggiunge, circa 265.000 famiglie in Israele soffrono di estrema insicurezza alimentare e saltano i pasti perché semplicemente non hanno cibo a sufficienza. “Individuiamo queste famiglie e le raggiungiamo con aiuti”, afferma. Attualmente, il programma raggiunge circa 40.000 famiglie e si prevede che ne raggiungerà 50.000 entro la fine dell'anno. Secondo il Quadro politico nazionale israeliano per la sicurezza alimentare, le abitudini alimentari delle persone che vivono in condizioni di insicurezza alimentare e nutrizionale sono caratterizzate da un elevato consumo di alimenti malsani e trasformati e da un basso consumo di alimenti sani. La loro combinazione con il rischio di problemi di salute come diabete, obesità, malattie cardiache e respiratorie ne aumenta l'importanza. Blau spiega che l'assegno mensile di 20 kg di alimenti e verdure che le famiglie ricevono è destinato a prevenire l'insorgenza di questo tipo di malattie. L'iniziativa per la sicurezza alimentare di Colel Chabad non si limita a soddisfare i bisogni fisici dei partecipanti. L'organizzazione offre alle famiglie che partecipano al programma seminari sulla gestione delle finanze, sulla promozione di una corretta alimentazione e sull'educazione ai loro diritti in relazione alla loro situazione finanziaria. Le famiglie che aderiscono al programma di sicurezza alimentare di Colel Chabad possono partecipare per un periodo di due anni. Oltre all'importanza di fornire cibo alle famiglie bisognose, il programma, attraverso varie iniziative delle agenzie di assistenza sociale israeliane, offre formazione professionale e programmi pomeridiali per i bambini a sostegno delle famiglie che lavorano. Una percentuale significativa del sostegno al progetto di sicurezza alimentare di Colel Chabad – il 65% – proviene dal governo israeliano, mentre il 10% proviene dai comuni israeliani. Colel Chabad e l'International Fellowship of Christians and Jews forniscono il restante 25% dei finanziamenti. Blau afferma che molte famiglie che hanno partecipato al programma di sicurezza alimentare sono riuscite a tirarsi fuori da situazioni difficili insieme ai propri figli. Cita il caso di una madre single di Lod che cresceva due gemelli in una situazione di estrema insicurezza alimentare. Grazie alla partecipazione della famiglia al programma e all'assistenza ricevuta, i ragazzi hanno conseguito il diploma di scuola superiore con ottimi voti e hanno prestato servizio nell'IDF con distinzione, uno dei due entrando a far parte dell'élite del corpo di intelligence 8200. “Nessuna di queste cose sarebbe stata possibile per una famiglia in queste circostanze [senza il nostro aiuto]”, afferma. Un secondo caso ha riguardato una donna il cui marito aveva abusato di lei ed era in carcere. La moglie viveva in una casa per donne maltrattate con suo figlio. Colel Chabad l'ha aiutata a iscrivere il bambino a un asilo nido pomeridiano, permettendole di lavorare come cassiera in un supermercato. La donna ora vive in un appartamento con suo figlio. Se la famiglia non fosse stata inserita nel programma di sicurezza alimentare del Colel Chabad, dice Blau, è probabile che la madre sarebbe finita in circostanze poco favorevoli. “Una volta che le persone vogliono prendere in mano la propria vita, possono risolvere i propri problemi e uscire dalla situazione in cui si trovano”, afferma. Un terzo caso in cui il programma si è rivelato fondamentale ha coinvolto una famiglia etiope che viveva a Netanya. Il marito aveva problemi di salute mentale ed era costretto a casa, e il loro figlio era disabile. La famiglia trascorreva la maggior parte del tempo a casa. Grazie alla sua partecipazione al programma, la moglie ha trovato un lavoro fuori casa e ha potuto organizzare l'assistenza per il figlio fuori casa e per il marito a casa. Blau afferma che il programma alimentare, con le numerose iniziative offerte dal Ministero del Welfare, è molto apprezzato da molte famiglie. “Oggi, quando il ministro del Welfare visita i comuni, gli viene chiesto di aumentare il numero di partecipanti al programma perché è molto richiesto”, dice. “Siamo ancora lontani dal poter fornire soluzioni a tutte le famiglie bisognose, ma è un miglioramento significativo rispetto a prima”. MOSHE LAVON, del Ministero del Welfare e degli Affari Sociali, afferma che Colel Chabad svolge un ruolo fondamentale nell'aiutare le famiglie a superare le situazioni di insicurezza alimentare. “Ha dato prova di sé e ha aiutato molte famiglie a uscire dal ciclo della povertà sia attraverso la carta di debito alimentare, che consente loro di conoscere i propri diritti, sia attraverso seminari che aiutano a uscire dal ciclo della povertà”. Blau afferma che Colel Chabad sta sviluppando ulteriori progetti per assistere chi è nel bisogno. Sebbene il programma principale di sicurezza alimentare dell'organizzazione sia rivolto alle famiglie con bambini, presto inizierà un progetto pilota in collaborazione con l'International Fellowship of Christians and Jews e il Ministero del Welfare e degli Affari Sociali per assistere circa 50.000 anziani che affrontano problemi di insicurezza alimentare. Oltre a fornire cibo, le organizzazioni metteranno a disposizione volontari che visiteranno gli anziani e controlleranno il loro benessere. “Dobbiamo essere in grado di aiutare più famiglie”, afferma Blau, “e i 500 NIS che forniamo ogni mese non sono sufficienti. Abbiamo creato la cornice del quadro e abbiamo il governo dalla nostra parte. Dobbiamo solo riempire l'immagine”. Per Blau, che collabora con Colel Chabad in Israele da 34 anni, il messaggio centrale del programma di sicurezza alimentare è il fatto che è realizzato in collaborazione con il governo israeliano. “Lavorare insieme al governo dà potere e forza al programma. Una volta che il programma ha questa forza, possiamo raggiungere persone che altrimenti non avrebbero accesso alle singole organizzazioni. Inoltre, dobbiamo coinvolgere lo Stato in questo importante lavoro. Il Paese deve rendersi conto che è una sua responsabilità”. Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Colel Chabad.
(The Jerusalem Post, 29 giugno 2025)
Dopo 477 giorni di prigionia a Gaza, Liri Albag, ex osservatrice dell’IDF, si prepara a tornare alla vita quotidiana. Rapita il 7 ottobre dal Kibbutz Nahal Oz, all’inizio del suo servizio militare, è stata liberata a gennaio insieme ad altre tre osservatrici: Naama, Daniela e Karina. Oggi Liri intraprende un nuovo percorso, difficile ma consapevole, tornando nell’esercito israeliano. Tuttavia, non riprenderà il suo vecchio ruolo: stavolta, come ha raccontato suo padre Eli Albag in un’intervista a Channel 12 News, assumerà un incarico di maggiore responsabilità.
“Vuole essere parte di qualcosa che abbia davvero un senso, e lo farà” ha detto Eli. Dopo la liberazione, Liri ha affrontato un intenso percorso di riabilitazione, tra cure, viaggi e momenti di esplorazione personale. “Ha intrapreso un cammino di recupero, ha viaggiato all’estero per aprire di nuovo gli occhi sul mondo, ha visitato ogni angolo d’Israele, si è concessa qualche momento di relax” ha spiegato il padre, lasciando intendere quanto fosse fondamentale per lei ritrovare un equilibrio con la normalità, oltre che con sé stessa.
Nonostante l’esperienza traumatica, Liri ha dimostrato una forza interiore che ha stupito persino la sua famiglia. “Mi sono reso conto che è molto più forte di quanto pensassi, è riuscita persino a sorprendermi” ha raccontato Eli, visibilmente orgoglioso. La giovane condivide la sua triste esperienza solo quando si sente pronta: “Non la spingiamo a parlare, è lei a decidere quando e come aprirsi con noi”. La decisione di tornare nell’esercito è stata accolta con pieno sostegno dalla famiglia. “Liri è molto matura e sa esattamente cosa vuole. Abbiamo appoggiato con convinzione la sua scelta”, ha aggiunto Eli.
Il ritorno di Liri dalla prigionia è stato accompagnato dalla visibilità mediatica e da non poche polemiche. Alcune critiche online rivolte a Liri hanno indignato il padre: “Solo quando sarà tuo figlio ad essere rapito potrai capire cosa abbiamo vissuto… sono un branco di ignoranti che non ha idea di cosa significhi essere la famiglia di un ostaggio”.
Sul piano politico, Eli ha espresso sostegno al Primo Ministro Netanyahu, pur riconoscendo la legittimità del dibattito pubblico: “Criticare il Primo ministro è lecito, ma lo è anche riconoscerne i meriti”. Tuttavia, ha sottolineato che c’è una sola vera priorità in questo momento: “La cosa più importante adesso è riportare tutti gli ostaggi a casa”.
La famiglia Albag non ha mai smesso di battersi per la liberazione di Liri e, oggi, continua a farsi portavoce di chi ancora aspetta. In Israele, storie come quella di Liri non sono rare: ogni ferita porta con sé il peso del dolore, ma anche la volontà di andare avanti. La sofferenza non viene nascosta, ma affrontata giorno dopo giorno, nella speranza di trovare il coraggio di ripartire senza lasciare che la paura guidi il futuro.
Nata a Parigi, ebrea e apparsa improvvisamente a Londra. Appassionata di storia e letteratura araba e persiana. Sapeva tutto dei sunniti e degli sciiti. Conosceva le preghiere e i versi di Khomeini. È andata a vivere a Teheran, con tanto di chador e conoscendo a memoria il Corano. L’establishment iraniano l’ha accolta a braccia aperte. Lei faceva la giornalista e scriveva per due testate del regime. Ma Catherine, in realtà, era un agente del Mossad: ha tracciato mappe, svelato nomi, luoghi ed orari. Ha fornito informazioni fondamentali a Israele. Ha permesso operazioni fondamentali come Shabgard (Nightwalker). Questa la sua storia raccontata da Gabriele Paglialonga e pubblicata sulla pagina Facebook ‘Noi che amiamo Israele‘.
• Chi è Catherine, l’agente del Mossad che ha colpito in Iran Una donna che ha distrutto un regime senza sparare un solo proiettile – Solo con la fede. È nata a Parigi. Ebrea. Laica. Libera. Ma il suo sangue portava con sé i venti dello Yemen, il battito dell’esilio, la poesia del silenzio del deserto. Ha studiato il Medio Oriente come un amante legge una lettera – Sunniti e sciiti. Arabi e persiani. Rivoluzione e marciume. Poi – è scomparsa. È riapparsa a Londra. Come una devota musulmana sciita. Chador. Persiano. Hadith. Citava Khomeini come fossero sacre scritture. Si è inchinata verso Qom. Ha pianto con i fedeli khomeinisti. E Teheran le ha aperto le braccia.
• Da Londra a Teheran, poi la misteriosa scomparsa dopo gli attacchi Ma lei era un pugnale. Affilato a Tel Aviv. Avvelenato dalla prosa. Scriveva per Press TV. Per il Teheran Times. I suoi articoli venivano pubblicati sul sito ufficiale della Guida Suprema Khamenei. La sua penna non elogiava: Tracciava mappe. Ogni paragrafo, un codice. Ogni metafora, un aggancio missilistico. La chiamavano Catherine. Sorseggiava té alla menta con le mogli delle Guardie della Rivoluzione islamica (IRGC). Pregava accanto alle figlie degli scienziati. Sussurrava con velata dolcezza: “Dorme bene dopo un tale fardello?“; “Ha mai avuto paura quando viaggiava?“. E loro rispondevano. Con orari. Con nomi. Con segreti. Ogni sospiro che sentiva diventava un funerale. Operazione Shabgard (Nightwalker), 13-14 giugno 2025. L’Iran bruciava: • 8 comandanti dell’IRGC inceneriti nei loro letti. • 7 scienziati nucleari – mai arrivati al lavoro. • 3 fantasmi della Forza Quds – spazzati via dalla terra. Nessun drone. Nessuna cimice nei vicoli. Solo le sue parole. I suoi sussurri. Il suo silenzio. La sua poesia. Quando i missili caddero, lei scomparve. Qom. Isfahan. Karaj. Tracciarono ogni tappeto da preghiera su cui si inginocchiava. Ma lei era sparita. Una squadra del Mossad la sollevò dal letto di un fiume secco sui Monti Zagros. Nessuna impronta. Nessuna chiamata. Solo fumo. Oggi è un fantasma. Il suo blog? Cancellato. Il suo account Twitter? Sparito. Nessuna foto. Nessuna pista. Nessuna traccia. Ma a Teheran, maledicono il suo nome. E a Tel Aviv, lo sussurrano come un mito: “La donna che incendiò Qom senza un fiammifero“. “La scrittrice dei minareti”. “La penna che trafisse la Repubblica“. Non ha combattuto con i pugni, ma con la fede. Non con la violenza, ma con l’intimità. Non ha ucciso nessuno. Eppure migliaia di persone non si sono mai più risvegliate dal sonno. Non è un personaggio. È un promemoria. Che nell’era dei droni e dei dati…Una donna con una penna e una preghiera può ancora riscrivere la storia.
Verso una tregua a Gaza? Segnali di apertura tra Hamas, Israele e Stati Uniti
di Anna Balestrieri
Secondo il quotidiano saudita Asharq, Hamas si dichiara soddisfatto delle garanzie contenute nella proposta di cessate il fuoco recentemente ricevuta. Una fonte informata ha riferito che la proposta prevede l’impegno, da parte dei mediatori, affinché nessuna delle due parti riprenda le ostilità durante il proseguimento delle trattative. Inoltre, si attende che il presidente americano Donald Trump annunci ufficialmente l’accordo una volta ottenuto il consenso di entrambe le parti, assumendone anche il ruolo di garante. Tuttavia, secondo un’altra fonte vicina ad Hamas, la nuova proposta non presenta sostanziali novità rispetto a quella precedente redatta dal mediatore statunitense Steve Witkoff, ma solo modifiche marginali. Hamas dovrebbe fornire la propria risposta entro venerdì.
• Punti chiave della proposta: ritiro e aiuti umanitari Il giornale libanese Al-Akhbar descrive la proposta attuale come centrata su tre elementi principali:
Ritiro dell’IDF alle posizioni precedenti al 2 marzo, prima della rottura dell’ultimo cessate il fuoco. In quel momento, l’esercito israeliano non si era ancora completamente ritirato da Gaza e manteneva il controllo del corridoio di Filadelfia.
Ripristino del meccanismo ONU per gli aiuti umanitari, volto a garantire una distribuzione senza interruzioni. Non viene menzionata esplicitamente la Gaza Humanitarian Foundation, sostenuta da USA e Israele, ma il sistema delle Nazioni Unite verrebbe adottato in modo esclusivo.
Impegno a proseguire i negoziati anche nel caso in cui non si arrivi subito a un’intesa complessiva sulla fine della guerra.
• Israele spinge per l’accordo prima della visita di Netanyahu a Washington Israele è impegnato in un’accelerazione diplomatica per raggiungere un’intesa sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi prima del viaggio del premier Netanyahu a Washington, previsto per la prossima settimana. Per la prima volta, secondo fonti israeliane, Tel Aviv sarebbe pronta a discutere un cessate il fuoco complessivo e un accordo per la liberazione di tutti i 50 ostaggi rimasti nelle mani di Hamas. Qualora Hamas accetti il quadro proposto nelle prossime 24 ore, si dovrebbero comunque avviare negoziati a Doha o Il Cairo su temi come:
lo scambio di prigionieri;
il ritiro graduale dell’IDF da Gaza;
e l’ingresso di aiuti umanitari.
Queste trattative, secondo le previsioni, richiederebbero almeno una settimana. Secondo il New York Times, l’accordo sugli ostaggi attualmente in fase di definizione prevede il rilascio di dieci ostaggi vivi e di 18 corpi in cambio della liberazione di terroristi palestinesi. A differenza della proposta americana di maggio, che prevedeva il rilascio di tutti i prigionieri entro il settimo giorno, questo accordo si articolerà in cinque fasi distribuite in 60 giorni. Questa volta, Hamas rinuncerà alle “cerimonie di consegna” filmate che hanno caratterizzato gli scambi precedenti. Tre fonti israeliane senza nome hanno dichiarato al quotidiano americano che “questo sforzo mira a offrire ad Hamas garanzie più solide di un cessate il fuoco temporaneo e potrebbe aprire la strada a una cessazione permanente delle ostilità”. L’accordo seguirà un calendario dettagliato: otto prigionieri vivi saranno rilasciati il primo giorno, seguiti da cinque salme il settimo giorno. Trenta giorni dopo l’inizio, saranno consegnati altri cinque corpi, seguiti da due prigionieri vivi il cinquantesimo giorno e infine da altri otto corpi il sessantesimo giorno. Gli aiuti umanitari inizieranno subito dopo l’approvazione di Hamas, in quantità sufficiente con la partecipazione dell’ONU e della Mezzaluna Rossa. Il ritiro israeliano inizierà il primo giorno nel nord di Gaza, poi il settimo giorno nel sud, secondo le mappe concordate tra le parti.
• Pressioni internazionali e sanzioni mirate Nel frattempo, Israele starebbe spingendo gli Stati Uniti a fare pressione sul Qatar, affinché minacci di espellere i leader di Hamas in caso di mancati progressi. Il tema dei leader del movimento che vivono all’estero con trattamento privilegiato è tornato al centro del dibattito. Secondo Channel 12, sanzioni mirate contro figure chiave, ospitate in paesi come Qatar e Turchia, potrebbero spingere Hamas ad accettare un compromesso. «I leader di Hamas si muovono liberamente nel mondo e non sentono alcuna pressione — per questo non hanno fretta di firmare un accordo», ha dichiarato una fonte della sicurezza israeliana coinvolta nei negoziati.
• Tra apertura e scetticismo Hamas ha recentemente dichiarato di essere aperta a un cessate il fuoco, ma non ha accettato la proposta sostenuta da Trump, che prevede 60 giorni di tregua durante i quali si lavorerebbe a una fine definitiva del conflitto. Il nodo centrale resta quello del diritto di Israele a riprendere le ostilità, un punto su cui Gerusalemme insiste e che Hamas rifiuta, chiedendo un cessate il fuoco permanente. Secondo Kan, Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz avrebbero espresso appoggio alla proposta in incontri a porte chiuse, anche se finora non è arrivata alcuna conferma ufficiale da parte del governo.
• Nuove perdite per l’esercito israeliano a Gaza Il sergente Yaniv Michalovitch, 19 anni, è stato ucciso mercoledì nel quartiere Shujaiyeh di Gaza City, colpito da un missile anticarro. Originario di Rehovot, serviva come carrista nell’Armored Corps dell’IDF. Altri quattro soldati sono rimasti feriti in due distinti episodi: tre nello stesso attacco al carro armato di Michalovitch e uno, appartenente all’unità di ricognizione Egoz, colpito da un cecchino. Domenica scorsa, un altro soldato, il sergente Yisrael Natan Rosenfeld, 20 anni, è morto nel nord della Striscia per l’esplosione di un ordigno. Nato nel Regno Unito, viveva a Ra’anana da 11 anni ed era in servizio nel Battaglione del Genio da combattimento. Giugno si è rivelato il mese più letale per l’IDF a Gaza da inizio guerra: 20 militari caduti, su un totale di 881 vittime militari dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Mentre si moltiplicano i segnali di una possibile svolta diplomatica, il contesto rimane fragile. Il viaggio di Netanyahu negli Stati Uniti potrebbe trasformarsi nel teatro dell’annuncio di un accordo, oppure rivelare ancora una volta l’impasse di un conflitto che da mesi attende una soluzione sostenibile.
(Bet Magazine Mosaico, 3 luglio 2025) ____________________
Dunque l'accordo previsto sarebbe questo:
1° giorno 8 vivi
7° giorno 5 morti
30° giorno 2 vivi + 5 morti
50° giorno 2 vivi
60° giorno 8 morti
TOTALE:
10 vivi + 18 morti
Non è detto quanti ne restano in deposito a Hamas
Certo, dopo 60 giorni i vivi diminuiranno, ma basterà alzare il prezzo.
Ripugnante. M.C.
Ostaggi violentati, corpi profanati: l’ONU documentò l’orrore del 7 ottobre
L’ONU documentò stupri e torture durante l’attacco del 7 ottobre: “Un pattern da crimini contro l’umanità”.
di Luigi Giliberti
• Marzo 2024 Fu un documento pesante come piombo, ma scritto con precisione chirurgica. Il 4 marzo del 2024, l’Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti (SRSG-SVC), guidato da Pramila Patten, pubblicò il primo rapporto ufficiale delle Nazioni Unite sui fatti avvenuti durante l’attacco del 7 ottobre contro Israele. La conclusione, prudente ma inequivocabile, recitava: “Esistono motivi ragionevoli per credere che si siano verificati stupri, stupri di gruppo e altre forme di violenza sessuale sia durante l’attacco sia successivamente, su ostaggi detenuti a Gaza”.
• Una missione di verifica indipendente La missione si svolse tra il 29 gennaio e il 14 febbraio 2024 su invito del governo israeliano. Il team dell’ONU, guidato da Pramila Patten – che ricopriva il ruolo di Inviata Speciale del Segretario Generale per la violenza sessuale nei conflitti dal 2017 – visionò oltre 50 ore di filmati, analizzò centinaia di fotografie e raccolse testimonianze da medici, paramedici, soccorritori, investigatori forensi e membri delle forze dell’ordine israeliane. Pur senza incontrare direttamente le vittime sopravvissute – per ragioni di riservatezza, sicurezza o trauma – il team ONU definì le prove raccolte come “chiare e convincenti”.
• I luoghi delle violenze documentate Furono tre le località in cui vennero riscontrati episodi documentati di violenza sessuale:
Il Nova Music Festival a Re’im
La Strada 232, percorsa dai terroristi durante l’infiltrazione
Il kibbutz di Re’im
In questi siti furono rilevati indizi di stupri, violenze di gruppo, nudità forzata, mutilazioni genitali post-mortem e profanazioni sessualizzate dei corpi. «In almeno tre località, ci sono motivi ragionevoli per ritenere che siano avvenuti atti di violenza sessuale, inclusi stupri e stupri collettivi», si leggeva nel rapporto ufficiale ONU pubblicato sul sito un.org
• Gli ostaggi: un orrore che proseguì Il documento riportava anche “informazioni credibili e consistenti” su abusi sessuali inflitti agli ostaggi israeliani, incluse donne e bambini, rapiti e trasferiti a Gaza. Secondo Patten, alcuni casi suggerivano che gli abusi sessuali fossero proseguiti anche nei mesi successivi all’attacco, configurando una forma di “violenza sessuale prolungata” e possibile uso della tortura a scopo umiliante.
• Mutilazioni e prove circostanziali Gli investigatori raccolsero materiale fotografico e video che ritraeva corpi femminili nudi, legati, mutilati. Alcuni presentavano segni compatibili con penetrazione forzata da oggetti contundenti, anche post mortem. In più casi, i soccorritori dell’organizzazione ZAKA e i medici legali israeliani riferirono di “desecration sessualizzata”. Il team ONU, pur mantenendo uno standard di oggettività, ritenne che la quantità e la coerenza delle testimonianze fossero sufficienti per formulare una valutazione basata su motivi ragionevoli – la soglia minima richiesta per una missione di verifica ONU.
• Le limitazioni dell’indagine Il rapporto precisò che non tutte le accuse furono confermate e che alcune testimonianze si basavano su elementi circostanziali. Tuttavia, Patten sottolineò che l’assenza di sopravvissuti disposti a parlare non negava la realtà dei crimini, poiché molte vittime erano decedute, traumatizzate o ancora in ostaggio. Il team lamentò anche la mancanza di accesso forense completo ai luoghi degli attacchi, spesso già bonificati o contaminati prima dell’arrivo degli investigatori. • Una responsabilità storica Fu il primo rapporto delle Nazioni Unite a riconoscere ufficialmente l’esistenza di un pattern di violenza sessuale da parte di miliziani palestinesi durante l’attacco del 7 ottobre. «La violenza sessuale non è avvenuta in modo accidentale. Il modo in cui i corpi sono stati lasciati, il modo in cui le vittime sono state trattate, l’assenza di pudore, indicano un’intenzionalità chiara», dichiarò Patten in conferenza stampa.
• Reazioni e sviluppi Il rapporto ricevette il plauso del governo israeliano, che da mesi denunciava l’uso del silenzio internazionale come forma di complicità. L’ambasciatore israeliano all’ONU, Gilad Erdan, lo definì “un passo cruciale per combattere la negazione sistemica” dei crimini di Hamas. Nel frattempo, l’Unione Europea inserì Hamas e la Jihad Islamica Palestinese in una nuova lista di soggetti sanzionati, citando esplicitamente il dossier Patten tra le motivazioni.
• Una verità scomoda per molti Nonostante le evidenze raccolte, molte voci nel mondo accademico e mediatico occidentale reagirono con ambiguità o scetticismo, invocando “ulteriori verifiche” o ridimensionando la gravità delle accuse. Eppure, il documento dell’ONU parlò chiaro. E se il termine “pogrom” aveva ancora un significato nel XXI secolo, quello che avvenne il 7 ottobre nei campi, nei kibbutz e sulle strade del sud di Israele lo incarnava in pieno.
Hamas e la distribuzione degli aiuti: confermate le violenze sui civili
di Luca Spizzichino
Hamas starebbe sabotando attivamente la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, ricorrendo alla violenza e alla propaganda contro i civili palestinesi e gli operatori umanitari. È quanto emerge da registrazioni audio diffuse dal COGAT (Coordinatore delle Attività Governative nei Territori), che documentano le testimonianze di residenti gazawi presenti nei centri di distribuzione. Le accuse sono gravi: atti di terrorismo, disinformazione e attacchi armati.
Secondo le testimonianze, Hamas non solo aprirebbe il fuoco contro i civili nei pressi dei centri di distribuzione, ma diffonderebbe anche false notizie, attribuendo gli attacchi all’IDF (Forze di Difesa Israeliane), accompagnandoli con video manipolati e dati falsi sulle vittime. «È Hamas che spara alla gente. Vogliono far credere che sia l’esercito israeliano, ma sono loro», ha dichiarato un testimone. Un altro ha parlato di «banditi che sparano e rubano gli aiuti alla popolazione». Le accuse trovano conferma anche da parte della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), l’organizzazione sostenuta dagli Stati Uniti e attiva nella distribuzione degli aiuti nel territorio. Lunedì, la GHF ha reso noto che Hamas avrebbe offerto taglie in denaro per chiunque ferisca o uccida membri del suo staff, sia americani che palestinesi. Dodici operatori locali sono già stati uccisi, altri sarebbero stati torturati. «Abbiamo ricevuto informazioni credibili secondo cui Hamas ha messo una taglia sui nostri operatori. Le nostre squadre sono state attaccate, e alcuni colleghi potrebbero essere stati rapiti», si legge in un comunicato ufficiale dell’organizzazione. Uno degli episodi più gravi si è verificato sei giorni fa, quando un autobus della GHF con oltre 20 operatori umanitari a bordo è stato assalito da uomini armati di Hamas nella zona di Khan Yunis: cinque dipendenti palestinesi sono stati uccisi e molti altri feriti.
Alla luce di queste rivelazioni, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant hanno ordinato all’IDF di presentare entro 48 ore un piano operativo per impedire che Hamas continui a sottrarre gli aiuti umanitari destinati alla popolazione del nord della Striscia di Gaza.
Le testimonianze dirette dei gazawi, i dati forniti dalla GHF e le intercettazioni dell’intelligence israeliana delineano una strategia sistematica: Hamas non solo ostacola la consegna degli aiuti, ma strumentalizza la sofferenza della popolazione per fini propagandistici, agendo contro gli stessi civili che afferma di voler proteggere.
Da circa sessant’anni s’è diffusa la convinzione che lo Stato di Israele costituisca l’espressione della più bieca prevaricazione dell’Occidente sul Medioriente: lo Stato occupante e colonizzatore di terre non sue. Tale convinzione, profusa a piene mani dall’URSS (che fu la prima a riconoscere de jure lo Stato di Israele tre giorni dopo la sua costituzione) e poi da tutta la sinistra militante, costituisce il principio per il quale lo Stato di Israele deve sparire e la Palestina tornare libera “dal fiume al mare” o viceversa. Tale convinzione ha attecchito come un’edera che scala i muri delle ideologie antioccidentali fino al punto in cui anche il Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, ebbe a dire che gli attacchi di Hamas del 23 ottobre 2023 non vengono dal nulla, quindi: se non giustificabili, almeno comprensibili. Secondo questo cliché anche l’annientamento nucleare di Israele da parte dell’Iran diverrebbe, almeno, comprensibile. Tutto questo è falso perché smentito severamente dalla storia, dunque, non si tratta di uno scontro di vedute o di opinioni schierate politicamente ma si tratta proprio di storia, quella con la “S” maiuscola. Qui è in gioco l’elemento principe atto al conferimento del titolo di verità o realtà fattuale rispetto alla trattazione di un caso, sia questo familiare o mondiale: il fondamento storico. Esso può essere di varia natura, ad esempio può essere di pietra. Quella che oggi è conosciuta come la Spianata delle moschee, con la Moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia risalenti al 705 e al 691, è, in realtà, il sito del primo e del secondo Tempio ebraico: il Beit ha-Miqdash, l’importantissimo luogo della memoria degli ebrei, dove sorge il Muro del pianto. I due templi risalgono all’833 a.C. e al 515 a.C. Ci troviamo vicini alla collina di Sion, conquistata da Re David nel 1010 a.C. quando fece di Gerusalemme la sua capitale, quasi 2000 anni prima della nascita dell’Islam. Sempre nella zona troviamo la valle di Kidron, che nelle Scritture ebraiche e nei Vangeli è chiamata la valle dei Re e/o valle di Giosafat. Proprio qui Gesù dodicenne giunse con Maria e Giuseppe nel suo pellegrinaggio della Pasqua ebraica e qui predicò nel tempio. Tuttavia, l’UNESCO ha deciso di ritenere la zona una pura eredità islamica e così la storica denominazione di “Monte del Tempio” è divenuta “Spianata delle moschee”. Tale inesattezza o falsificazione da parte dell’UNESCO dovrebbe essere evidenziata anche a fronte di un importante documento storico di cui sotto.
• Lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon a Hijaz Al-Husain ibn Ali Himmat. Il Regno Unito, Nazione mandataria per la Palestina, secondo la vulgata corrente, avrebbe conferito agli ebrei un ingiusto privilegio: la realizzazione di un focolare in Palestina dopo aver promesso la stessa terra agli arabi. Tale spregio sarebbe, dunque, avvenuto dopo che gli inglesi avevano illuso il mondo arabo, sotto l’egida dell’impero Turco-Ottomano che, una volta finita la guerra (I° guerra mondiale), avrebbe concesso loro la disponibilità di ampie estensioni territoriali sì da formare la grande Nazione Araba. Normalmente si fa riferimento alla lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon (Alto Commissario britannico) al governatore della regione di Hijaz Al-Husayn ibn Ali Himmat. Tale documento viene nominato anche su tiktok come prova della disonestà inglese ma senza mai dire che nel testo della missiva non si dice affatto che la Palestina sarebbe stata concessa agli arabi secondo gli accordi presi. Essa non viene nominata ma si dice che le zone non ritenute puramente arabe (si citavano le zone ad ovest di Damasco) non avrebbero fatto parte degli accordi. La Palestina rientrava fra queste. Nella lettera si parlava dei distretti di Mersin e di Alessandretta, e zone della Siria che si espandono a ovest del distretto di Damasco, Homs, Hama e Aleppo…, ma non si nominava mai il sangiaccato[1] di Gerusalemme, che era la divisione amministrativa ottomana che copriva la maggior parte della Palestina. Tale sangiaccato comprendeva cinque cazà: Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba. Nel Libro bianco del 1939 (Churchill White Paper) stabilì che la frase in cui si parlava dei “distretti a ovest di Damasco” doveva intendersi come inclusiva del Sangiaccato di Gerusalemme e del vilayet di Beirut (cioè la Palestina). A proposito del Monte del Tempio si ribadisce il concetto di zone non puramente arabe. Nonostante le due diaspore, l’ultima nel 70 d.C. gli ebrei non hanno mai abbandonato completamente le loro terre ma, in quantità più o meno cospicue sono sempre rimasti là dove avevano le loro radici. Gli ebrei non sono giunti nell’inesistente Stato palestinese perché lo ha voluto il Regno Unito, essi non sono i colonizzatori di terre altrui ma sono coloro che, in parte, ritornano nell’antica casa della terra di Israele. Gli ebrei in quei luoghi non sono immigrati ma rimpatriati. Il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito (attraverso la lettera Balfour, la conferenza di Parigi e la Conferenza di Sanremo) non fu quello di inventarsi lo Stato di Israele ma quello di fare sì che la comunità ebraica, già esistente in Palestina e già con le caratteristiche proprie di uno Stato, potesse svilupparsi compiutamente in tale senso. Di seguito quanto scritto in un brano del Libro Bianco inglese del 1922:
«Durante le ultime due o tre generazioni gli Ebrei hanno ricreato in Palestina una comunità, ora di 80 000 persone, di cui circa un quarto sono agricoltori e lavoratori della terra. La comunità ha i suoi organi politici […] I suoi affari sono effettuati usando la lingua ebraica e la stampa ebraica soddisfa le sue necessità. [La comunità ] ha la sua vita intellettuale e mostra una considerevole attività economica. La comunità quindi, con la sua popolazione urbana e rurale, con la sua organizzazione politica, religiosa, sociale, la sua lingua e i suoi costumi, e la sua vita, ha di fatto caratteristiche “nazionali”. Quando viene chiesto cosa significa lo sviluppo di un focolare nazionale ebraico in Palestina, la risposta è che non si tratta dell’imposizione della nazionalità ebraica sugli abitanti palestinesi in toto, ma l’ulteriore sviluppo della comunità ebraica esistente, con l’assistenza degli Ebrei del resto del mondo, in modo che questa possa diventare un centro di cui il popolo ebraico intero possa avere, per motivi di religione e razza, un interesse e un vanto. Ma, per poter far sì che questa comunità abbia le migliori prospettive di libero sviluppo e possa offrire la piena possibilità al popolo ebraico di mostrare le proprie capacità, è essenziale che sia riconosciuto che questo è in Palestina di diritto e non perché tollerato. Questa è la ragione per cui è necessario che sia garantita internazionalmentel’esistenza di un focolare nazionale ebraico in Palestina e riconosciuta formalmente la sua esistenza in base agli antichi legami storici.»
Nel 1922 la Società delle Nazioni emette il mandato britannico per la Palestina e nel preambolo del mandato si afferma:
«Considerato che in tal modo è stato riconosciuto il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e le ragioni per ricostituire la propria patria nazionale in quel paese.»
Tutti gli atti prodotti dalla Società delle Nazioni e dal Regno Unito per giungere alla costituzione dello Stato di Israele partono dal presupposto fondamentale del riconoscimento del legame storico del popolo ebraico con quell’area chiamata Palestina dall’Imperatore Adriano nel 135 d. C, in realtà Terra di Israele ed è questo ciò che è stato riconosciuto a partire dalla dichiarazione di Arthur James Balfour, segretario al ministero degli affari esteri britannico, a Lord Rothschild, capo dell’agenzia sionista per lo Stato di Israele.
• La risoluzione ONU 181 del 29 novembre del 1947 Sappiamo che la risoluzione ONU non rappresenta il comando che determina un obbligo ma “solo” un suggerimento da parte di un organismo sovranazionale legalmente riconosciuto. Come è noto in quella occasione venne raccomandata caldamente la soluzione dei due popoli e due stati. I sionisti accettarono senza riserve e dettero vita allo Stato di Israele. Tuttavia, è opportuno evidenziare il fatto che in tutti i passaggi burocratici internazionali precedenti, quelli di cui sopra, quindi il Mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito, si è sempre parlato di un focolare ebraico in Palestina e non in una parte di questa. A tale proposito la Risoluzione 181 fu penalizzante proprio per gli ebrei. La reazione degli arabi a tale suggerimento e alla proclamazione dello Stato di Israele fu la guerra del 1948 scatenata da Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq contro il nuovo Stato.
• Conclusioni L’illegalità dello Stato di Israele in Palestina è una menzogna di dimensioni colossali sotto tutti i punti di vista. Del resto, chiunque abbia un minimo di cognizione dei Vangeli e/o delle Scritture ebraiche comprende benissimo che gli ebrei e quei luoghi costituiscono quasi la carta d’identità gli uni degli altri. Non si tratta di simpatizzare o avversare nessuno ma solo di riconoscere la verità storica che in molti, troppi, si ostinano a ignorare o a falsificare. Vorrei concludere con alcune considerazioni personali a proposito della risoluzione 181 dell’ONU. Questa non concede niente agli ebrei in quanto il diritto alla costituzione del loro Stato in Palestina è sancito dalla verità storica e da quanto stabilito dalla Società delle Nazioni nelle varie vicende istituzionali. Tuttavia, c’è chi sostiene che gli ebrei avrebbero dovuto accordarsi con gli arabi prima di passare alla costituzione del loro Stato ma questo è del tutto falso. In primo luogo si deve tenere conto di quanto viene messo in risalto da David Elber nel suo “Il Mandato per la Palestina. Le radici legali dello Stato d’Israele”, «la Risoluzione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d’Israele”, ma il risultato della decurtazione di una parte consistente di terra che già sarebbe dovuta appartenere, de jure, allo Stato ebraico dal 1922, data in cui la Gran Bretagna operò la prima partizione del territorio mandatario.» In secondo luogo si tenga presente che gli arabi, anche nelle consultazioni internazionali con l’UNSCOP (Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina), che precedettero l’emissione della Risoluzione 181, avevano reclamato a gran voce e con la violenza il diritto all’istituzione di uno stato arabo su tutta la Palestina e fecero capire in ogni modo la loro indisponibilità ad accettare altre soluzioni. Diritto che non avevano per tutte le ragioni suddette. La risoluzione 181, nel suo preambolo, pone tutta una serie di condizioni inderogabili ai fini della formazione dei due stati e una su tutte è quella che si creino stati democratici. A questa dicitura fa seguito un elenco di richieste che caratterizzano le società democratiche. Non si dimentichi il punto di partenza di questa piccola dissertazione: il mondo era da poco uscito dalle macerie della seconda guerra mondiale e si parlava di autodeterminazione dei popoli e di una nuova e diversa capacità di rapportarsi reciprocamente. La risoluzione 181 propone una concezione dello stato di stampo illuminista, burocratico e lontano da ogni tendenza teocratica, qualcosa che non poteva rientrare nell’orizzonte esistenziale dell’arabo musulmano. A mio parere vi è una questione culturale che sovrasta tutto il resto. Detto in parole povere: gli ebrei avevano la capacità di ragionare in termini politici aconfessionali, i musulmani no. Gli ebrei avevano vissuto per secoli in Occidente, dopo le due diaspore che avevano costretto molti di loro a fuggire e non solo conoscevano le dinamiche culturali occidentali ma le avevano anche acquisite e fatte proprie. In altri termini: per gli arabi musulmani costituirsi in uno stato democratico, secondo i criteri richiesti dall’ONU, avrebbe voluto dire andare contro la propria essenza culturale, quindi, l’esatto opposto del concetto di autodeterminazione di un popolo. Stiamo parlando di etnie avvezze ad assetti “politici” che comprendevano emirati e sultanati sia prima della dominazione Turca-ottomana che, in alcuni casi, durante. Lo Stato palestinese non è mai esistito perché il concetto stesso di “Stato” nel mondo arabo musulmano è incompatibile con quello occidentale. [1] Il sangiaccato di Gerusalemme (Suddivisione amministrativa dell’Impero Ottomano; sopravvive ancora in alcuni paesi arabi)è stato una provincia dell’Impero ottomano fino al 1918. Parte della Palestina, la quale faceva parte del vilayet di Sham (Siria), il sangiaccato di Gerusalemme era formato da cinque cazà (Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba)[1]. Nel 1887 il sangiaccato di Gerusalemme, in quanto sede dei Luoghi Santi, divenne un mutasarriflik indipendente il cui mutasarrif era responsabile direttamente nei confronti del governo centrale di Costantinopoli, dei suoi ministeri e dipartimenti di Stato.
C’è qualcosa in Israele che mette le persone a disagio - e non è ciò che dicono che sia. Indicheranno la politica, gli insediamenti, i confini, le guerre. Ma se si scava sotto la rabbia, si scopre qualcosa di più profondo. Non è un disagio per quello che Israele fa, ma per quello che Israele è. Una nazione così piccola non dovrebbe essere così potente. Punto. Israele non ha petrolio. Nessuna risorsa naturale speciale. Una popolazione a malapena pari a quella di una città americana di medie dimensioni. È circondata da nemici. Disprezzata alle Nazioni Unite. Bersaglio del terrorismo. Dileggiata da celebrità. Boicottata, diffamata e attaccata. Eppure prospera come se non ci fosse un domani: nell’esercito, nella medicina, nella sicurezza, nella tecnologia, nell’agricoltura, nell’intelligence, nella morale, nella pura e incrollabile volontà. Trasformano il deserto in terra coltivabile. Producono acqua dall’aria. Intercettano razzi in volo. Salvano ostaggi sotto il naso dei peggiori regimi del mondo. Sopravvivono a guerre che avrebbero dovuto cancellarli — e vincono. Il mondo guarda tutto questo e non riesce a comprenderlo. E così fanno quello che la gente fa quando assiste a una forza che non riesce a spiegare: presumono che ci sia un imbroglio. Deve essere per gli aiuti americani. Dev’essere per le lobby. Dev’essere per l’oppressione. Per il furto. Per qualche trucco oscuro che ha dato agli ebrei un tale potere. Dev’essere ricatto. Perché guai a pensare che sia qualcos’altro. Guai a pensare che sia reale. Guai a pensare che sia stato conquistato. O peggio, che sia stato destinato. Il popolo ebraico doveva scomparire da tempo. È così che finiscono le storie delle minoranze esiliate, schiavizzate e odiate. Ma gli ebrei non sono scomparsi. Sono davvero tornati a casa. Hanno ricostruito la loro terra, rianimato la loro lingua, fatto rivivere i loro morti — nella memoria, nell’identità, nella forza. Questo non è normale. Non è politico. È biblico. Non c’è nessun trucco che spiega come un popolo torni nella propria patria dopo 2000 anni. Non c’è un percorso razionale dalle camere a gas all’influenza globale. Non c’è alcun precedente storico per sopravvivere a babilonesi, romani, crociati, inquisizione, pogrom e Shoah — e poi presentarsi al lavoro il lunedì mattina a Tel Aviv. Israele non ha senso. A meno che non si creda in qualcosa che va oltre la matematica. Ed è questo che fa impazzire il mondo. Perché se Israele è reale, se questa nazione antica, improbabile e odiata è ancora in qualche modo scelta, protetta e prospera allora forse Dio non è un mito dopotutto. Forse è ancora nella storia. Forse la storia non è casuale. Forse il male non ha l’ultima parola. Forse gli ebrei non sono solo un popolo… ma una testimonianza. Ed è questo che non riescono a sopportare. Perché nel momento in cui si ammette che la sopravvivenza di Israele non è solo impressionante, ma divina - tutto cambia. La tua bussola morale deve essere reimpostata. Le tue certezze su storia, potere e giustizia crollano. Capisci che non stai assistendo alla fine di un impero. Stai testimoniando l’inizio di qualcosa di eterno. E allora lo negano. Lo diffamano. E ne sono furiosi. Perché è più facile chiamare un miracolo “imbroglio” che affrontare la possibilità che Dio mantenga ancora le Sue promesse. E lo faccia in silenzio.
(Daily Telegraph, giugno 2025) Segnalato da Emanuel Segre Amar.
Ebrei persiani in Israele: soffrire per i due fronti della guerra
L’Iran radicale e indistruttibile, così come lo conoscevamo fino all’attacco israeliano nei cieli di Teheran, forse non esiste e non esisterà più. Il regime oggi è vulnerabile, isolato, spaventato. Ma ha reagito, bombardando Israele e le basi americane nel Golfo. Come vivono tutto questo gli israeliani di origine iraniana? Sperando nel crollo del regime, per poter visitare l’antica patria.
di David Zebuloni
L’attacco di Israele all’Iran il 13 giugno ha certamente avuto grandi ripercussioni sugli equilibri non solo mediorientali, ma anche mondiali. Alleanze, forze e sistemi cristallizzati in decenni sono scossi nel profondo. Tra attacchi reciproci, cessate-il-fuoco, pressioni internazionali, la situazione è in continua evoluzione e solo il tempo ci dirà se gli effetti del conflitto saranno positivi o negativi per Israele e per la popolazione. E se l’incubo del nucleare iraniano sia finito per sempre. Quello che è certo è che questo conflitto ha fatto nascere un nuovo moto di speranza in Iran, che ha scosso gli animi stanchi di chi aveva perso fiducia in un futuro di democrazia per la propria patria. E non mi riferisco solo a quei coraggiosi dissidenti iraniani che da anni si battono per la liberazione del loro popolo, ma anche agli ebrei iraniani, oggi sparsi principalmente in Israele, a Milano, a Londra e a New York, che non hanno mai dimenticato, rinnegato o cancellato le loro origini. Ebrei ancora straordinariamente legati alle loro radici, che hanno abbracciato delle nuove culture senza mai dimenticare quella di provenienza. Figli e nipoti di quella storia che oggi cercano la loro voce, lacerati tra passato e presente. Una crisi identitaria che non permette loro di vivere questo conflitto come hanno già vissuto i conflitti con Hamas, con Hezbollah, con gli Houthi. Giovani ebrei israelo-iraniani che oggi faticano a definire “nemico” il loro paese di provenienza, ma che riconoscono la minaccia esistenziale che esso rappresenta per loro. “Credo che, a differenza dei conflitti precedenti, il conflitto in corso contro il regime iraniano suscita in me più curiosità e coinvolgimento, poiché emotivamente vicino”, mi racconta Yael Carmeli, giovane sociologa e ricercatrice universitaria presso la Hebrew University di Gerusalemme. “Sento le conversazioni dei miei genitori e dei miei nonni, e sento che ne parlano diversamente. Che si immedesimano, che si preoccupano particolarmente per il destino degli iraniani. Ecco, questo non può che influire anche sulla mia personale percezione della guerra”. Yael nasce infatti da due genitori di origini persiane. La madre italiana, ma originaria della città di Mashad, e il padre israeliano, ma nato e cresciuto a Teheran. «Non posso non pensare che, se il regime realmente crollerà, potrò finalmente partire in Iran e visitare i luoghi nei quali hanno vissuto i miei antenati – prosegue la ricercatrice. – Personalmente sto seguendo questo conflitto più di quanto abbia fatto con i precedenti. Tuttavia, la paura è assolutamente proporzionale al coinvolgimento. E in questo caso, non una paura per il nostro destino, il destino di Israele e per il popolo ebraico, ma per il precario destino dello stesso popolo iraniano. Provo per loro un inspiegabile e innato senso di solidarietà. D’altronde, non è difficile immedesimarsi in loro: mi assomigliano vagamente, la loro lingua mi è assolutamente famigliare e così anche le loro usanze». E non è tutto. Oltre a simpatizzare per il popolo iraniano e per la sua sacrosanta causa, Yael si rifiuta categoricamente di riconoscere in lui un nemico. «Il regime è il nemico di Israele, ma a differenza di altri popoli sparsi per il Medio Oriente, il popolo iraniano ama e sostiene il popolo ebraico e lo Stato d’Israele. Non posso e non voglio desiderare il loro male, così come loro non hanno mai desiderato il mio. Il nostro. Dunque, non posso fare altro che auspicare alla caduta del regime. E pregare per una pace tra i due popoli». Yaniv Sayeh l’ho conosciuto quando, svariati mesi fa, cercavo degli ebrei iraniani che si fossero recentemente trasferiti in Israele. Dopo una serie infinta di ricerche estenuanti e molto poco producenti, ho finalmente incontrato Yaniv: un giovane ragazzo israelo-iraniano che mi ha spalancato la porta su un mondo a me sconosciuto. In Israele, infatti, esiste oggi una piccola comunità di giovanissimi ebrei nati e cresciuti Teheran, e recentemente fuggiti nello Stato Ebraico in cerca di libertà. Giovani e coraggiosi ebrei disposti a varcare il confine pur di fuggire dalla realtà dittatoriale che vige nella terra degli Ayatollah, consci di dover abbandonare tutto alle loro spalle. Forse, per sempre. Yaniv funge per loro oggi da casa e famiglia. Sostiene questa piccola e schiva neo comunità con grande e mai scontata sensibilità. «Entrambi i miei genitori sono nati a Teheran – mi racconta. – La mia mamma è fuggita dopo la rivoluzione islamica e il mio papà dopo la guerra con l’Iraq. Puoi dunque immaginare quanto la cultura iraniana sia parte di me e della mia famiglia. I miei genitori mi hanno insegnato la lingua persiana e a casa di mia nonna, ogni tavolata viene arricchita con qualche prelibatezza persiana. Suono anche il Tau, uno strumento a corde iraniano, e ultimamente mi sto dedicando allo studio della poesia, della letteratura e della filosofia persiana». Un legame viscerale che oggi viene messo a dura prova. «È difficile per me vedere le mie due patrie in guerra – spiega Yaniv. – Sai, sono cresciuto sui racconti dello Scià buono e dello stravolgimento che ha subito il suo, il nostro paese dopo l’avvento di Khomeini. Per anni in casa abbiamo parlato, anzi discusso, della possibilità che il regime venisse rovesciato. Quando? Come? Per mano di chi? E ora mi domando: ci siamo? Il regime sta crollando? È questo il momento che abbiamo sempre sognato? Sta davvero per succedere? Non ho una risposta a questa domanda, ma so che qualcosa è cambiato. Che qualcosa è diverso. La guerra è sempre triste, sempre dolorosa, sempre sbagliata, ma oggi c’è nell’aria qualcosa in più. Forse, una speranza perduta e ora ritrovata. Desidero da sempre visitare la città di Esfahan e d’un tratto questo sogno non mi sembra più lontano. O irrealizzabile. Spero di non illudermi e spero soprattutto di non rimanere deluso dall’accoglienza iraniana, quando questa guerra sarà finita e si potrà finalmente parlare di pace. Reputo gli iraniani miei fratelli e non vorrei scoprire che questo sentimento sincero non è ricambiato». L’emozione di Yaniv è papabile. «Sono giorni che non penso ad altro. Che immagino mille scenari possibili per la fine di questa guerra. Dai più pessimisti ai più ottimisti – mi confessa. – Ho mille dubbi e perplessità, ma di una cosa sono certo: al termine di questi combattimenti dobbiamo assolutamente essere persone migliori. Popoli migliori. Più vicini, più uniti. Nulla ha avuto senso se, finita questa guerra infinita, il Medio Oriente non diventerà un luogo più libero e sicuro nel quale vivere. Per tutti». Un’altra immancabile voce in questo nostalgico mosaico di vissuti e riflessioni, è quella di Noa Yanai, la mia più cara amica degli anni dell’Università, oggi Chief Marketing Officer di un’importante società di moda. Anche Noa, come me e come gli altri giovani intervistati, ha delle forti origini iraniane. «Non mi dà pace questa guerra contro l’Iran – mi ha confidato una notte al telefono, mentre allattava sua figlia e aspettava il suono della sirena antimissili. – So che è una guerra necessaria. So che gli iraniani stessi desiderano l’aiuto di Israele per liberarsi dei loro tiranni, ma non riesco proprio a scindere le mie due identità». Una vera e propria renaissance identitaria, che non passa inosservata. «Fa sorridere, non sono mai stata tanto legata alle mie origini come in questo periodo – aggiunge poi. – Da bambina pensavo che le nostre usanze fossero goffe e grottesche, oggi invece penso che senza quel passato, il mio presente sarebbe completamente diverso. Che senza le canzoni iraniane di mia mamma e il cibo persiano di mia nonna, oggi non sarei la donna che sono. La madre che sono. Ironico, non trovi? Non conosco nemmeno un iraniano, eppure ho a cuore il destino del loro intero popolo». Non ho fatto in tempo a rispondere: la sirena è suonata, la bambina è scoppiata a piangere e Noa ha riattaccato la chiamata prima che potessi dirle di essere stranamente d’accordo con lei (una vera rarità). No, non è ironico avere a cuore il destino di un popolo che appartiene a un tuo passato remoto. Un paese i cui odori e sapori ti rievocano casa. Una casa che non hai mai visitato, eppure che ti porti dentro. Talvolta, inconsciamente. Inconsapevolmente. Una sorta di memoria cellulare proiettata sulle emozioni. Sogni e ricordi che non vengono trasmessi a parole, ma in piccoli gesti. O melodie lontane. Chissà, forse nello stesso latte materno. Forse, in attesa del suono della sirena, mentre allattava sua figlia, Noa le stava trasmettendo anche le memorie dei suoi antenati. I piatti della nonna, le canzoni della mamma. Le radici che un giorno definiranno la donna che sarà. La mamma che a sua volta diventerà. Lo scrittore sopravvissuto alla Shoah Primo Levi constatò in una delle su opere che “non c’è futuro senza passato”. Molti giovani ebrei iraniani oggi aggiungono: senza pace, non c’è futuro. Un futuro privo di terrorismo, all’insegna della democrazie. Della fratellanza. Un nuovo slogan: Israeliani, Iraniani, Vita, Libertà.
• La profezia di Reza Ciro Pahlavi Nel novembre del 2023, tra le pagine di questa testata venne pubblicata un’intervista che realizzai con l’erede al trono del Pavone, Reza Ciro Pahlavi. Oggi, a distanza di un anno e mezzo da quell’indimenticabile incontro, rileggo le sue parole e quasi non mi capacito della loro attualità. All’epoca, confesso, pensai che il re senza trono e senza corona stesse ostentando un ottimismo forzato, poco autentico. Oggi mi ricredo e chiedo venia: Reza sapeva esattamente quale sarebbe stato il destino del suo popolo e del suo paese. “Se un giorno ci sarà la pace tra Israele e Iran? Assolutamente sì, senza alcuna ombra di dubbio. Non perché lo dico io, ma perché lo dicono milioni di iraniani. Credimi David, non immagini quanto potenziale strategico potrebbe esserci tra i due paesi”, mi spiegò l’erede al trono con fermezza, senza esitare. Poi aggiunse: “La mia non è una speranza o un augurio, ma una piena certezza. L’attuale regime iraniano comprende tutte le peggiori forme di regime che abbiamo conosciuto nell’età moderna. È un regime al contempo totalitario, razzista e fascista. Ecco, la storia ci insegna che i regimi totalitari, alla fine, crollano sempre ed è la pace a regnare”.
GERUSALEMME - In Israele c'è un gruppo di giovani ebrei noto come “Hilltop Youth”. A sentire molti, si direbbe che siano dei mostri in sembianze umane: estremisti dall'aspetto feroce, radicali violenti, criminali che vivono ai margini della nostra società Ma io dico: basta. Gli Hilltop Youth non sono mostri. Vivo in una fattoria che ho contribuito a costruire, all'estremità sud-orientale della Giudea. Conosco questi giovani. Centinaia di loro sono passati di qui come volontari, pastori, operai, aiutanti edili. Sono pionieri e sono la punta di diamante che difende il cuore della nostra patria. Sono diamanti. Sì, a volte sono diamanti grezzi, ma sono comunque diamanti. Sono giovani uomini e donne che, invece di cercare il comfort, hanno scelto le colline battute dal vento della Giudea e della Samaria. Vivono in roulotte che tremano al vento invernale. Piantano alberi. Costruiscono case. Allevano capre e pecore, e anche bambini. E lo fanno perché credono profondamente che questa terra sia l'eredità del popolo ebraico, promessa da Dio, pagata con il sangue e difesa per generazioni. E per anni sono stati il capro espiatorio preferito di Haaretz, della BBC, del Tagesschau e di gran parte della sinistra del nostro Paese. Ma il 7 ottobre 2023 ha cambiato tutto. In quel giorno nero, quando il terrore ha varcato i confini di Israele e massacrato intere comunità nel sud, la nazione si è risvegliata a una dolorosa verità: la Giudea e la Samaria non sono il problema, sono la soluzione. Sono state le comunità della Giudea e della Samaria, situate sulle colline e nelle valli, a proteggere il cuore di Israele dallo stesso incubo che ha colpito il sud. È stata la presenza ebraica in queste zone a impedire che un'ondata di terrore penetrasse più a fondo nel nostro Paese. La geografia della Giudea e della Samaria, controllata dal nostro popolo, era un muro che proteggeva Tel Aviv, Gerusalemme e la pianura costiera dalla distruzione. E proprio ai margini di questo muro si trovano, a volte letteralmente, i Hilltop Youth. Sono la punta di diamante. Sono gli occhi e le orecchie al confine di Israele. Sono i primi a notare movimenti sospetti. I primi a dare l'allarme. I primi a correre in aiuto quando il vigneto di un vicino è in fiamme, quando le strade vengono assaltate, quando i terroristi assediano le case degli ebrei durante la notte. Eppure, invece di ringraziarli o almeno di concedere loro un po' di fiducia, vengono diffamati e condannati. Politici, giornalisti e persino ebrei sono fin troppo pronti, a volte quasi con gioia maligna, a diffamare questi giovani. Li dipingono come il problema. Li gettano in pasto ai lupi, a volte sembra proprio per dimostrare la propria superiorità morale. È un teatro grottesco: «Guardateci», sembrano dire. «Noi condanniamo i nostri. Noi siamo i buoni ebrei. Noi non siamo come loro». Molto comodo. Molto codardo. Tuttavia, alla luce della copertura mediatica prevenuta e propagandistica, è difficile biasimarli. Perché mentre a Tel Aviv o New York è di moda condannarli, questi giovani vivono in luoghi dove la legge a volte non ha potere e non li protegge. Dove le famiglie vengono uccise nelle loro case. Dove l'esercito ha le mani legate da considerazioni politiche. Dove la polizia spesso arriva troppo tardi, o non arriva affatto. Se la legge non li protegge, alcuni credono di doversi proteggere da soli. È così che nascono le milizie popolari, non per odio, ma per paura e per un senso di abbandono insopportabile. E per questo vengono braccati. Perseguitati dal loro stesso Stato. Messi in detenzione amministrativa, senza accuse, senza processo, senza possibilità di difendersi. Privati dei loro diritti perché “sospetti”. Sospetti di credere troppo fermamente in qualcosa. E il mondo applaude. Perché è più facile perseguitare adolescenti ebrei che affrontare la verità: che la Giudea e la Samaria sono la spina dorsale della sicurezza di Israele e che l'espulsione degli ebrei da queste colline provocherebbe un disastro. Se in questo Paese ci fosse un altro gruppo di minori trattato come questi bambini, l'intera nazione sarebbe in subbuglio. Lo scorso Shabbat, un ragazzo di 14 anni della Hilltop Youth è stato colpito da un proiettile ed è ora in fin di vita, solo per essersi opposto allo sgombero del suo avamposto. Il ragazzo ha riportato una ferita da arma da fuoco al braccio, con il proiettile che gli è entrato nel braccio e si è conficcato vicino alla schiena. Ha riportato fratture alla spalla e al braccio, un trauma polmonare causato dall'esplosione e diverse ferite da schegge. Il quattordicenne è stato soccorso sul posto dai paramedici della United Hatzalah e trasportato dal Magen David Adom all'ospedale Hadassah. Incredibilmente, la polizia ha arrestato il paramedico della United Hatzalah e un altro residente che aveva aiutato nell'evacuazione. Entrambi sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati. Immaginate se fosse stato un adolescente di sinistra di Tel Aviv a essere ucciso nelle stesse circostanze. Il Paese sarebbe in rivolta. I media esploderebbero, i politici farebbero a gara per condannare l'accaduto e il soldato che ha premuto il grilletto verrebbe probabilmente arrestato prima del tramonto. Ho visto con i miei occhi come questi bambini vengono privati dei loro diritti umani fondamentali. Come vengono vessati, detenuti senza accuse, demonizzati dalla stampa e dipinti come mostri, anche se la stragrande maggioranza di loro, nonostante queste persecuzioni, non nutre odio nei loro cuori. Solo amore. Questi bambini sono adolescenti: hanno 14, 15, 16 anni. Pensate alle sciocchezze che avete fatto a quell'età. Gli errori. L'incoscienza. Fa parte della crescita. Sì, alcuni di loro commettono errori. Ma sono ancora bambini, bambini che preferiscono le cime delle montagne alle discoteche, le capre agli smartphone e il senso della vita a TikTok. Bambini che rifiutano la droga e la ricerca insensata delle tendenze moderne. Molti di loro usano ancora i vecchi cellulari Nokia perché si rifiutano di diventare schiavi dei loro smartphone: una disciplina e una forza interiore che, devo ammettere, io stesso non ho raggiunto. E sono fermamente convinto che la stragrande maggioranza delle persone che leggono questo articolo amerebbe questi bambini se solo li conoscessero personalmente, invece di giudicarli sulla base delle menzogne distorte che vengono diffuse su di loro. Prima di credere alle parole di attori politici e ideologici che dipingono questi giovani come cattivi, vi prego: andate a conoscerli di persona. Guardateli negli occhi. Parlate con loro. Scoprirete anime giovani che bruciano di idealismo, passione e amore per il loro popolo e il loro Paese. Ci sono azioni che vanno troppo oltre? Sì. E dovrebbero essere condannate. Ma condannare l'intera Hilltop Youth, privarla della sua dignità, trattarla come criminali prima ancora di essere giudicati, è un fallimento morale della nostra società. Non sono orde selvagge. Sono idealisti. Sono costruttori. Sognatori. Sono i discendenti di coloro che hanno bonificato le paludi, costruito kibbutz in valli infestate dalla malaria e combattuto eserciti per issare la bandiera di Israele su Gerusalemme. E siamo onesti: non ci vuole coraggio a stare in città e condannarli. Il vero coraggio è stare da soli su una collina, con nient'altro che la propria fede, le proprie mani e la convinzione che questa terra appartiene al proprio popolo. Israele è sempre stato costruito da coloro che si sono rifiutati di seguire la via più facile. I Hilltop Youth possono essere giovani, sfacciati e talvolta sconsiderati, ma portano dentro di sé lo stesso fuoco che ha infiammato i cuori di tutti i pionieri che li hanno preceduti. Non dovremmo sacrificarli così facilmente sull'altare dell'opportunismo politico. Non dobbiamo unirci al coro di coloro che cercano di dimostrare la propria purezza morale condannando la propria carne e il proprio sangue. Riconosciamo invece i giovani delle colline per quello che sono veramente: i pionieri – e i vigilanti – del nostro tempo. Meritano la nostra guida. Meritano la nostra giustizia. E soprattutto, secondo gli insegnamenti del 7 ottobre, meritano la gratitudine e la fiducia che ogni difensore di Israele ha meritato mille volte.
(Israel Heute, 1 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Operazione Rising Lion e il fronte caucasico: Israele, Azerbaijan e l’Iran
La partnership strategica tra Baku e Gerusalemme, forgiata in anni di cooperazione energetica e militare, ha ormai un peso geopolitico cruciale. Per Israele, si tratta non solo di una fonte di approvvigionamento petrolifero – oltre il 40% del greggio israeliano proviene da lì-, ma anche di un potenziale avamposto d’intelligence in una regione chiave. Ma per la repubblica islamica di Iran è fonte di grande preoccupazione.
di Davide Cucciati
Il viaggio di ritorno del ministro israeliano dell’Aliah e integrazione Ofir Sofer non è stato solo un’odissea diplomatica. È diventato, in controluce, il simbolo della fragilità dell’equilibrio geopolitico che lega Israele al Caucaso. Tra il 14 e il 17 giugno 2025, Sofer è rientrato in Israele via mare dopo essere stato evacuato dall’Azerbaijan. La sua missione a Baku, iniziata solo poche ore prima, aveva come obiettivo la partecipazione a un seminario per giovani ebrei organizzato insieme all’Agenzia Ebraica. Venerdì 13 giugno, mentre si trovava ancora in hotel nella capitale azera, Israele ha dato inizio all’“L’Azerbaijan condivide 680 chilometri di confine con l’Iran. Non è un dettaglio. Lapartnership strategica tra Baku e Gerusalemme, forgiata in anni di cooperazione energetica e militare, ha ormai un peso geopolitico cruciale. Per Israele, si tratta non solo di una fonte di approvvigionamento petrolifero – oltre il 40% del greggio israeliano proviene da lì-, ma anche di un potenziale avamposto d’intelligence in una regione chiave.
• Le preoccupazioni dell’Iran L’apertura dell’ambasciata azera a Tel Aviv, avvenuta nel marzo 2023, ha rappresentato il culmine di questo rapporto. Per Teheran, si è trattato di una provocazione. La Repubblica Islamica osserva con crescente preoccupazione i legami tra i due Paesi e teme che Baku possa fungere da piattaforma logistica o informativa per operazioni contro obiettivi iraniani. La tensione si è riflessa perfino in un contesto insospettabile: l’Eurovision Song Contest. Il Jerusalem Post, il 22 maggio 2025, ha riportato che l’agenzia iraniana Fars News, vicina ai Pasdaran, ha lanciato un duro attacco propagandistico contro Azerbaijan e Israele. Il motivo? La cantante israeliana sarebbe di origine azera (ma quest’affermazione non risulta confermata da altre fonti), mentre il rappresentante dell’Azerbaijan era ebreo. “Non una nazione in due Stati, ma due nazioni in uno Stato – lo Stato che divide il mondo islamico”, scriveva l’editoriale di Fars News. L’Iran ha visto in quella partecipazione incrociata la prova definitiva dell’“alleanza segreta e vergognosa” tra i due Paesi e una minaccia diretta all’unità islamica. Israele ha accolto con favore il voto massimo (12 punti) ricevuto da Baku. Il ministro della Difesa Israel Katz ha ringraziato pubblicamente l’Azerbaigian per il gesto e per il sostegno fornito dopo l’attacco del 7 ottobre. In quello stesso contesto, ha ricordato anche il ruolo azero nella mediazione tra Israele e Turchia. Ma la tensione non si limita a scambi mediatici. Israel Hayom, il 18 maggio 2025, ha rivelato che mentre Israele e l’Azerbaigian rinsaldano la loro alleanza, le forze speciali azere e iraniane hanno condotto un’esercitazione congiunta (“Aras 2025”) nella regione del Karabakh. Secondo l’agenzia iraniana Tasnim, unità dei Pasdaran sono entrate in territorio azero attraversando il confine presso Bileh Savar (provincia di Ardabil), per partecipare a manovre che si sono protratte fino al 21 maggio. Si tratta della seconda esercitazione in due anni, ma questa volta si è svolta in un’area simbolicamente sensibile: il Karabakh, riconquistato da Baku nel 2023, ma storicamente legato all’alleanza tra Armenia e Iran. Il generale Vali Madani, comandante iraniano dell’operazione, ha dichiarato: “Questa esercitazione rappresenta un passo significativo per rafforzare la sicurezza lungo il nostro confine e affrontare potenziali minacce.” La vera minaccia, per Teheran, resta l’alleanza tra Israele e Azerbaijan, che non si limita ad armi e petrolio, ma include anche cooperazione diplomatica, rapporti religiosi e logistica strategica. In novembre, una delegazione militare azera aveva già visitato l’Iran per assistere all’esercitazione “Aras 2024”, segno che il doppio gioco tra Teheran e Baku è parte integrante del calcolo geopolitico. Se le foto ufficiali ci mostrano ministri, ambasciatori e comunità in festa, c’è un’altra dimensione del rapporto tra Israele e Azerbaijan che sfugge alle inquadrature diplomatiche. È quella che riguarda l’intelligence, la logistica e le operazioni sul campo. In una guerra che ha ormai travalicato le soglie della clandestinità, l’Azerbaijan è diventato anche una delle piattaforme potenziali per la guerra segreta del Mossad contro l’Iran. Lo ha scritto con chiarezza Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa, all’indomani dell’attacco israeliano: “Nei prossimi anni verranno scritti libri su libri. Il tema: la guerra segreta condotta dal Mossad contro l’Iran in questi anni; guerra che questa notte ha raggiunto il suo apice. Secondo le ricostruzioni, “le squadre del Mossad, e presumibilmente anche team di forze speciali infiltratisi da tempo (dal Kurdistan iracheno, piuttosto che dall’Azerbaijan), sono entrate in azione poco prima del lancio degli attacchi, muovendosi poi in perfetta sincronia con questi”. Il riferimento al territorio azero non è casuale. Da anni si ipotizza che l’intelligence israeliana abbia strutture logistiche, punti di appoggio e vie di fuga attive a nord del confine iraniano. Per questo, la fuga di Sofer da Baku non è stata solo un fatto di cronaca, ma un simbolo di un’alleanza che, tra petrolio e operazioni segrete, ha ridisegnato la mappa del Medio Oriente.
Hamas tortura i cittadini di Gaza per mettere a tacere le proteste
Per aiutare a comprendere che cosa stia accadendo alla popolazione palestinese all’interno della Striscia di Gaza, stretta fra la “macchina da guerra” israeliana e il terrorismo di Hamas, pubblichiamo questo articolo del corrispondente del Telegraph da Gerusalemme. Esso attira l’attenzione sul fenomeno forse più significativo delle ultime settimane, poco ripreso dalla stampa italiana, ossia sugli episodi di resistenza della popolazione palestinese contro la violenza di Hamas all’interno della Striscia. Il gruppo terroristico ricorre a metodi sempre più crudeli per mantenere il controllo di una popolazione disperata
di Henry Bodkin*
Il volto del giovane che fissa la telecamera mentre la folla gli si accalca attorno è forte e provocatorio. Nelle sue mani, il ventiseienne tiene uno striscione con un messaggio incendiario: «Hamas non ci rappresenta». Un video di accompagnamento lo mostra mentre incita gli altri, alimentando apertamente il fuoco del dissenso, mentre molte delle persone attorno a lui distolgono nervosamente il viso per non essere identificate dalle telecamere. Quell’uomo è Ahmed al-Masri, uno degli organizzatori chiave nel nord di Gaza delle proteste che hanno scosso l’enclave ad aprile e maggio. Questa settimana sono emerse le foto dello stesso uomo su una barella, con uno sguardo spaventato e impotente negli occhi e le gambe insanguinate. Secondo diverse fonti che hanno parlato con il Telegraph, Al-Masri è stato rapito da uomini armati di Hamas a Beit Lahia, vicino al confine settentrionale con Israele, dopodiché è stato brutalmente torturato. Gli sono stati deliberatamente spezzati i piedi con grosse pietre e piedi di porco di ferro; lo hanno anche colpito alle gambe. Questa atrocità fa parte di un’ondata crescente di spargimenti di sangue scatenata da Hamas contro i comuni cittadini di Gaza che pretende di rappresentare. Mentre si trova ad affrontare una stretta senza precedenti sulla sua forza militare ed economica a causa della campagna di logoramento di Israele, il gruppo terroristico sta ricorrendo a metodi sempre più crudeli per mantenere il controllo su una popolazione sempre più disperata. Khaled Abu Toameh, docente ed esperto di questioni palestinesi, ha affermato: «Dopo le proteste degli ultimi mesi, hanno iniziato a giustiziare e arrestare persone per intimidire la popolazione e terrorizzarla. Penso che stia funzionando. A un certo punto, le proteste sono scomparse». Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le segnalazioni di persone prelevate mentre erano in coda per ricevere aiuti, torturate negli scantinati o semplicemente giustiziate in pieno giorno. In un video, pubblicato entusiasticamente dagli account dei social media affiliati a Hamas, si vedevano figure mascherate che usavano una lunga sbarra di metallo per fracassare le rotule di un uomo bendato. Le sue urla strazianti e le sue suppliche di pietà sono troppo raccapriccianti per essere descritte adeguatamente. Gran parte di questa violenza viene perpetrata in nome della cosiddetta “unità Sahm”, che in arabo significa “freccia”. Quelli che riescono ad arrivare in ospedale a volte vengono braccati ed eliminati all’interno dei reparti. Nel caso di Al-Masri, la violenza si è verificata in diverse ondate e si è concentrata attorno a una grande struttura medica. Persone a conoscenza della situazione, troppo spaventate dalle rappresaglie per rivelare i loro nomi, hanno dichiarato che il giovane attivista è stato rapito e portato all’ospedale Al-Shifa di Gaza City, dove è stato interrogato e gli è stato intimato di non parlare con i media. Uno di loro ha dichiarato: «Hanno sparato a due persone davanti a lui, poi gli hanno sparato ai piedi. Gli hanno frantumato i piedi con grosse pietre e piedi di porco e poi lo hanno esposto al sole per un’ora. Poi hanno chiamato un’ambulanza e lo hanno portato all’ospedale, dove lo hanno picchiato sui piedi all’interno dell’ambulanza». In un altro tristemente noto episodio, avvenuto all’inizio di questo mese, uomini armati di Hamas avrebbero provocato le vittime che avevano ferito in precedenza, impedendo loro di entrare in un ospedale e lasciandole a contorcersi all’esterno. Secondo gli amici, Al-Masri, che gestisce una farmacia, è stato inizialmente portato all’ospedale principale di Al-Shifa, ma ora è stato trasferito altrove per la sua sicurezza. Ora fanno appello a chiunque voglia aiutarlo a uscire da Gaza, sia per sfuggire a Hamas sia per ottenere le cure adeguate alle sue ferite. «Sta malissimo», ha detto una persona. «Stiamo cercando di fare del nostro meglio per lui, ma la gente ha paura di parlare, perché potrebbe essere la prossima vittima». Alcuni attivisti ritengono che Hamas abbia approfittato del conflitto tra Israele e l’Iran per intensificare la sua campagna intimidatoria, mentre gli occhi del mondo sono puntati altrove. Stanno facendo del loro meglio per inondare le sezioni dei social media viste dall’Occidente con video e fotografie esplicite pubblicate da Hamas negli angoli arabi di Internet e guardate principalmente dalla gente di Gaza. Uno di loro, Howidy Hamza, ha descritto le vittime come «uccise due volte». In primo luogo, da Hamas; in secondo luogo, «da un movimento che si rifiuta di vederli», il movimento pro-Palestina in Occidente, molti dei cui sostenitori, compresi quelli nei campus universitari, considerano Hamas un legittimo organo di resistenza. Lo ha sottolineato questa settimana in un video che mostra un uomo bendato interrogato per presunta «collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese», l’organismo che governa, sotto il controllo israeliano, la Cisgiordania. Poiché tale accusa costituisce un crimine capitale sotto il regime di Hamas, è probabile che l’uomo sia stato giustiziato. Il Telegraph ha appreso i dettagli di un ulteriore omicidio di un organizzatore della protesta, Mohammed Abu Saeed, che guidava il movimento a Khan Younis. I testimoni hanno dichiarato che è stato colpito ai piedi così tante volte che è stato necessario amputarne uno. Durante il suo funerale, uomini armati di Hamas avrebbero aperto il fuoco sul corteo funebre, uccidendo alcuni membri della sua famiglia. Oltre alla violenza fisica, queste campagne diffamatorie contro chi manifesta dissenso sono una tattica fondamentale di Hamas. A Gaza accusare qualcuno di collaborare con Israele è la calunnia peggiore. «Risale ai tempi del mandato britannico», ha detto Toameh. «Se vuoi diffamare qualcuno, lo accusi di collaborare con l’occupante. Migliaia di persone sono morte in Cisgiordania per questo dal 1967». Un attivista, che ha preferito restare anonimo, ha affermato che il gruppo terroristico tenta di indurre la gente a rivolgere accuse, contattandole tramite falsi account sui social media. Sebbene le proteste di aprile e maggio si siano esaurite, Hamas si trova ad affrontare una sfida enorme alla sua autorità con l’introduzione del nuovo sistema di distribuzione degli aiuti. Secondo un piano concordato da Israele e dagli Stati Uniti – e osteggiato da quasi tutti gli altri – un’azienda statunitense, la Fondazione umanitaria di Gaza (GHF) distribuisce aiuti tramite un numero limitato di hub creati appositamente. Il piano, giudicato disumano, è oggetto di sparatorie di massa quasi quotidiane, mentre le truppe israeliane forniscono una protezione esterna per i contractors statunitensi, come indicato da testimoni oculari. Nonostante le numerose crudeltà del sistema, questo sembra aver preoccupato Hamas, che in passato intercettava e poi rivendeva enormi quantità di aiuti che arrivavano nelle comunità tramite camion. «Colpito con bastoni, tubi di ferro e pietre» L’11 giugno, uomini armati hanno teso un’imboscata a un autobus che trasportava lavoratori palestinesi destinati a uno degli hub della GHF in una zona di Al-Mawasi, vicino a Khan Younis, uccidendo otto persone. Uno dei morti era Osama Sa’adu Al-Masahal. Sua sorella, Heba Almisshal, ha dichiarato che dopo la sparatoria, «mio fratello e i suoi compagni sono stati trasportati all’ospedale Nasser, ma non sono stati lasciati in pace». Ha aggiunto: «Gli uomini armati li hanno catturati, li hanno gettati contro il cancello dell’ospedale, hanno impedito a medici e infermieri di prestare soccorso e hanno costretto la gente a colpirli con bastoni, tubi di ferro e pietre». Successivamente si è ipotizzato che Hamas avesse preso di mira i lavoratori perché riteneva che fossero associati a una milizia legata a Yasser Abu Shabab, il leader di un clan nel sud della Striscia che Israele sta armando. Mentre la carestia aumenta, incoraggiando i disperati abitanti di Gaza a mettere in discussione i loro governanti degli ultimi due decenni, il potere di queste famiglie armate, che precedono di gran lunga il gruppo terroristico, è cresciuto. Giovedì sono spuntate le immagini delle conseguenze di uno scontro a fuoco nell’ospedale Nasser, dopo che gli uomini armati di Hamas si erano rifugiati dietro ai familiari infuriati di un giovane che avrebbero appena ucciso. Tre loro veicoli sono stati bruciati. Nonostante tutto questo, Hamas resta di gran lunga il gruppo palestinese più potente a Gaza. Come hanno dimostrato le ultime settimane, le insinuazioni dei ministri israeliani più intransigenti, secondo cui i comuni cittadini di Gaza avrebbero potuto semplicemente “sbarazzarsi” del gruppo terroristico – con l’implicazione che forse in realtà non lo volevano – si sono rivelate crudelmente lontane dal vero. Ciò significa che la popolazione, di cui giovedì sono morte più di cento persone in meno di 24 ore, continua a essere stretta tra la macchina da guerra israeliana e i jihadisti che usano la loro sofferenza per giustificare la propria causa di fronte al mondo.
* Corrispondente da Gerusalemme del Telegraph
L’evento del Riformista: Noi, dalla parte di Israele
A inizio giugno Il Riformista ha lanciato un appello a difesa delle ragioni di Israele, raccogliendo migliaia di adesioni. Partendo dall’appello, il quotidiano diretto da Claudio Velardi ha organizzato lunedì sera a Roma un evento “Dalla parte di Israele” in un teatro cittadino. Sul palco sono saliti rappresentanti politici e delle istituzioni ebraiche, giornalisti, comunicatori, studenti universitari.
«Israele è vittima di una asimmetria informativa. Credo molto in questa battaglia a sua difesa, una battaglia che mi sta facendo ridiventare giovane dopo tanti anni di cinismo», ha esordito Velardi. In quattro panel sono stati affrontati tra gli altri temi come “Giovani”, “Media, emergenza antisemitismo”, “I nuovi nemici della libertà delle donne” e “Prospettive”, con uno sguardo anche al futuro. «Dalla parte di Israele è un titolo stupendo e coraggioso, soprattutto in un momento in cui viene promosso un odio ideologico verso Israele e il suo popolo», ha dichiarato l’ambasciatore israeliano a Roma, Jonathan Peled. «Un odio che rischia di avere profonde conseguenze sociali nei prossimi anni».
Era tra gli altri presente in sala la presidente Ucei, Noemi Di Segni. Mentre sul palco è salito Victor Fadlun, il presidente della Comunità ebraica di Roma. Israele, ha detto Fadlun, «è l’avamposto della società occidentale che parte mondo arabo vuole annientare: questo è il dramma che una parte della nostra società non capisce». Per Stefano Parisi, il presidente dell’associazione Setteottobre, «l’Europa è oggi invasa dalla Fratellanza Musulmana e alcuni paesi che finanziano il terrorismo si stanno comprando le nostre università, le nostre città, le nostre grandi piattaforme culturali come lo sport». Al riguardo, si è chiesto Parisi, «cosa fa la leadership europea?». Secondo la giornalista Fiamma Nirenstein, una delle promotrici dell’iniziativa, «Israele non può essere distrutta perché vive in noi il dettame del Deuteronomio che ci impone di scegliere sempre la vita». È un dettame, ha concluso Nirenstein, «che condividiamo nella cultura giudaico-cristiana».