Questo è il patto che farò con la casa d'Israele,
dopo quei giorni, dice l'Eterno:
io metterò la mia legge nell'intimo loro,
la scriverò sul loro cuore,
e io sarò loro Dio,
ed essi saranno mio popolo.
Geremia 31:33-34  

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Predicazioni
Dio con noi
    MATTEO 1
  1. Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
  2. E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
  3. Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
  4. Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  5. Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
  6. Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
    SALMO 145

  1. Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
  2. Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
  3. L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
  4. Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
  5. Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
    GENESI 2
  1. L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
  2. gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
    ISAIA 53
  1. Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
    GIOVANNI 20
  1. Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
  2. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
    PROVERBI 8
  1. Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
  2. quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
  3. quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
  4. io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
  5. mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
    GENESI 2
  1. E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
    GIOVANNI 3
  1. Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
    1 CORINZI 15
  1. Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
    GENESI 3
  1. E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
    ISAIA 7
  1. Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
    GIOVANNI 12
  1. “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
    ESODO 3
  1. E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; 
  2. e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
    ESODO 29
  1. Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
  2. E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
    GIOVANNI 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.

Marcello Cicchese
febbraio 2024

Una grande gioia

ATTI 2

  1. Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
  2. Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
  3. E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
  4. E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
  5. e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
  6. E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
  7. lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.

ATTI 4

  1. E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
  2. E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
  3. Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
  4. e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.

LUCA 2

  1. Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
  2. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.

MATTEO 2

  1. Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.

ATTI 8

  1. Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
  2. E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
  3. Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
  4. E vi fu grande gioia in quella città.

ATTI 13

  1. Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
  2. Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
  3. E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
  4. E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
  5. Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
  6. Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
  7. E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

ROMANI 15

  1. Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
  2. affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
  3. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
  4. poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
  5. mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
  6. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
  7. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
  8. E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
  9. Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.


    Marcello Cicchese
    maggio 2016

L'interesse di Cristo
FILIPPESI, cap. 1

  1. Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, 
  2. per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. 
  3. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 
  4. sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.

FILIPPESI, cap. 2

  1. Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 
  2. rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento
  3. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 
  4. cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 
  5. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 
  6. il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 
  7. ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 
  8. trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 
  9. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 
  10. affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 
  11. e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
  12. Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; 
  13. infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo. 
  14. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute
  15. perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, 
  16. tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. 
  17. Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; 
  18. e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.


Marcello Cicchese
novembre 2006

Salmo 92
Salmo 92
    Canto per il giorno del sabato.
  1. Buona cosa è celebrare l'Eterno,
    e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
  2. proclamare la mattina la tua benignità,
    e la tua fedeltà ogni notte,
  3. sul decacordo e sul saltèro,
    con l'accordo solenne dell'arpa!
  4. Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
    io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
  5. Come son grandi le tue opere, o Eterno!
    I tuoi pensieri sono immensamente profondi.

  6. L'uomo insensato non conosce
    e il pazzo non intende questo:
  7. che gli empi germoglian come l'erba
    e gli operatori d'iniquità fioriscono, per esser distrutti in perpetuo.
  8. Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
  9. Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
    ecco, i tuoi nemici periranno,
    tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.

  10. Ma tu mi dai la forza del bufalo;
    io son unto d'olio fresco.
  11. L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
    le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi
    che si levano contro di me.
  12. Il giusto fiorirà come la palma,
    crescerà come il cedro sul Libano.
  13. Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
    fioriranno nei cortili del nostro Dio.
  14. Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
    saranno pieni di vigore e verdeggianti,
  15. per annunziare che l'Eterno è giusto;
    egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.

Marcello Cicchese
gennaio 2017

Saggezza che viene da Dio
PROVERBI 2
  1. Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti,
  2. prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all'intelligenza;
  3. sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all'intelligenza,
  4. se la cerchi come l'argento e ti dai a scavarla come un tesoro,
  5. allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio.
  6. Il Signore infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l'intelligenza.
  7. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell'integrità,
  8. allo scopo di proteggere i sentieri della giustizia e di custodire la via dei suoi fedeli.
  9. Allora comprenderai la giustizia, l'equità, la rettitudine, tutte le vie del bene.
  10. Perché la saggezza ti entrerà nel cuore, la scienza sarà la delizia dell'anima tua,
  11. la riflessione veglierà su di te, l'intelligenza ti proteggerà;
  12. essa ti scamperà così dalla via malvagia, dalla gente che parla di cose perverse,
  13. da quelli che lasciano i sentieri della rettitudine per camminare nelle vie delle tenebre,
  14. che godono a fare il male e si compiacciono delle perversità del malvagio,
  15. i cui sentieri sono contorti e percorrono vie tortuose.
  16. Ti salverà dalla donna adultera, dalla infedele che usa parole seducenti,
  17. che ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio.
  18. Infatti la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti.
  19. Nessuno di quelli che vanno da lei ne ritorna, nessuno riprende i sentieri della vita.
  20. Così camminerai per la via dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti.
  21. Gli uomini retti infatti abiteranno la terra, quelli che sono integri vi rimarranno;
  22. ma gli empi saranno sterminati dalla terra, gli sleali ne saranno estirpati.

Marcello Cicchese
aprile 2009

Sovranità e grazia di Dio
ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Preghiera sacerdotale 1

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.


Marcello Cicchese
agosto 2017

Preghiera sacerdotale 2

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.


Marcello Cicchese
ottobre 2017

Un sabato sacro
ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

Marcello Cicchese
maggio 2017

Benedizione a domicilio?
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
  4. Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
  5. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
  6. Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
  7. Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
  8. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.

MARCO 10
  1. Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
  2. Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
  3. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
  4. Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
  5. Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
  6. Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
  7. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
  8. I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
  9. È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
  10. Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
  11. Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
  12. Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
  13. Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
  14. il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
  15. Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

PROVERBI 10
  1. Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.

Marcello Cicchese
giugno 2006


Salmo 56
Salmo 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.

Marcello Cicchese
agosto 2016

Una lampada al piede
Salmo 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Il peggiore dei profeti
MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'

Marcello Cicchese
febbraio 2015

Salmo 27
Salmo 27
  1. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?
    Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
  2. Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
  3. Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
  4. Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
  5. Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
  6. E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.

  7. O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
  8. Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
    Io cerco il tuo volto, o Signore.
  9. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
  10. Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
  11. O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
  12. Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
  13. Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
  14. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!

Marcello Cicchese
dicembre 2007

Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015



Legati a testa in giù e affamati: gli ostaggi israeliani liberati raccontano le torture di Hamas

di Fabio Tonacci

GERUSALEMME – Eliya Cohen è vivo, ma spezzato. Tenuto per quindici mesi in manette e legato dentro un tunnel, senza aria né luce, con le gambe ferite da colpi di arma da fuoco e non curate, sottoposto ad “abusi fisici e psicologici”. È la storia dell’orrore raccontata dai tre sopravvissuti liberati sabato scorso, Eli Sharabi, Or Levy e Ohad Ben Ami che stanno fornendo all’intelligence e alle famiglie degli ostaggi informazioni preziose sullo stato dei loro cari. E drammatiche.
Eliya ha 23 anni, solo uno in più di Alon Ohel, il pianista, anche lui prigioniero a Gaza dal 7 ottobre e anche lui in pessime condizioni: ha schegge nell'occhio, nella spalla e nel braccio, non è mai stato curato e come Eliya è legato in catene dall’inizio della prigionia. Tutti sono affamati, e non tanto a causa della guerra, ma per una scelta deliberata di Hamas che sulla pelle degli ostaggi sta giocando la sua vera guerra a Israele. Lo ha rivelato il fratello di Or Levy, Tal. Già a novembre aveva detto di temere che gli ostaggi sarebbero tornati come “scheletri ambulanti, ombre di quello che erano un tempo”, ma non si aspettava di trovarsi di fronte ciò che ha visto.
"Ho sentito tutti i falsi briefing del primo ministro Netanyahu, che sostenevano di non essere a conoscenza della fame deliberata a cui sono costretti. Non è vero. Lo sapevano", ha rivelato Tal. Qualche mese fa, i funzionari israeliani hanno avvisato le famiglie dei rapiti che l'ex capo di Hamas Sinwar "aveva ordinato di far morire di fame gli ostaggi maschi. Fino ad allora, ci avevano detto che stavano ricevendo cibo. Quindi se la mia famiglia e le fonti ufficiali lo sapevano, non è possibile che Netanyahu non lo sapesse. Dire ‘non lo sapevo’ è una vergogna".
Gli ostaggi liberati hanno confermato la circostanza. Sono stati deliberatamente lasciati senza cibo, ricevevano solo una pita marcia ogni pochi giorni, che dovevano condividere con altri ostaggi. Sono stati interrogati e torturati, legati a testa in giù e imbavagliati con un panno fino quasi al soffocamento. Sui loro corpi ci sono segni di bruciature. A volte, sono rimasti giorni senza acqua. Per le dure violenze subite, uno di loro un giorno si è accasciato e gli altri pensavano che fosse morto. “È stato il momento più difficile”, hanno raccontato.
Uno dei tre sopravvissuti, che è voluto rimanere anonimo, ha rivelato di essere stato anche lui tenuto legato per 15 mesi. "Ero ammanettato in un tunnel buio. Non potevo camminare o stare in piedi, e solo prima del mio rilascio i miei rapitori hanno rimosso le catene, costringendomi a imparare di nuovo a camminare", ha raccontato alla sua famiglia, che ha condiviso il suo racconto con Channel 12.
I sequestratori illudevano gli ostaggi con la possibilità del rilascio, solo per negarlo subito dopo, una forma di pressione psicologica come costringerli a scegliere chi avrebbe mangiato e chi no. Scalzi, senza potersi lavare: veniva concessa loro una doccia solo ogni paio di mesi. Levy ha raccontato anche che i tunnel erano così stretti e bassi che non potevano stare in piedi né camminare. Solo prima di essere liberati, dice Channel 13, hanno cominciato a ricevere più cibo: Hamas voleva rimetterli in piedi per poterli scambiare.
Il rilascio di sabato scorso ha cambiato la dinamica della tregua. In Israele, la pressione nella società civile è aumentata: non c'è più tempo per salvarli. Allo stesso tempo, si moltiplicano le indiscrezioni sulla presunta volontà del premier di boicottare la fase due dell'accordo che prevede il ritiro dell'Idf dalla Striscia. La delegazione inviata a Doha con un mandato solo tecnico è già di ritorno in Israele. La madre di Alon, Idit, ha lanciato un appello a Netanyahu: “Chiedo al primo ministro e al governo, ora, di fare di tutto per riportare a casa Alon e tutti gli altri” 76 ostaggi ancora a Gaza.

(la Repubblica, 10 febbraio 2025)

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La fame come arma di Hamas. Il fratello dell'ex ostaggio: "È un'idea di Sinwar" - Shalom

di Michelle Zarfati

Tal Levy, fratello di Or Levy, ex ostaggio di Hamas, ha descritto le dure condizioni e la fame che suo fratello ha dovuto subire durante i suoi 491 giorni di prigionia. “Affamare gli ostaggi era una politica intenzionale, un’idea di Yahya Sinwar “, ha detto. Secondo la testimonianza rilasciata ai media locali da Tal, il fratello non sarebbe sopravvissuto a lungo se fosse rimasto prigioniero per altre due o tre settimane. Anche l’altro fratello di Or, Michael, ha rilasciato una dichiarazione allo Sheba Medical Center: “Ieri, dopo 491 giorni di inferno, Or è tornato da noi – ha detto Michael – Era imprigionato nei tunnel di Hamas, tagliato fuori dal mondo, dalla sua vita, dalla sua famiglia. Per 491 giorni, ogni minuto è stata una battaglia per lui: fisica, mentale, emotiva”.
  Or è stato rapito il 7 ottobre del 2023 dal “rifugio della morte” dove era fuggito con la moglie Einav e molti altri durante l’attacco di Hamas al Nova Festival. La moglie è stata uccisa in quel rifugio, insieme ad altre 15 vittime. Ieri, Or è finalmente tornato a casa e si è riunito al figlio di 3 anni, Almog, ma ha anche ricevuto la devastante notizia della morte della moglie. “È stato tenuto in un tunnel senza saper nulla della moglie”, ha detto ieri sua madre, Geula.
  Michael ha continuato descrivendo lo stato fisico di Or: “Dopo un anno e quattro mesi, ho rivisto mio fratello. L’ho abbracciato, ma non era più lo stesso Or che aveva lasciato casa il 7 ottobre 2023. Or è tornato in deboli condizioni. Per 16 mesi è stato scalzo, affamato e nella costante paura che ogni giorno sarebbe stato l’ultimo” ha raccontato Michael. La sua più grande paura è stata confermata quando è stato liberato. Per 491 giorni ha aspettato per avere notizie di sua moglie, Einav. Tuttavia, ha saputo, solo quando è stato liberato, che era stata assassinata da Hamas. Ieri, ha finalmente incontrato Almog suo figlio, che gli ha chiesto: ‘Perché ci hai messo così tanto a tornare?’. Per 491 giorni, mio fratello e altri ostaggi hanno vissuto l’inferno lì, ma niente e nessuno li aveva preparati a ciò che avrebbero ritrovato qui, in Israele”.
  Michael ha sottolineato l’urgenza di continuare la lotta per riportare a casa altri ostaggi. “Ogni momento e ogni secondo lì è critico. La nostra lotta non è finita qui. Il ritorno di Or è un miracolo, ma tutto il popolo d’Israele merita questo tipo di miracoli. Mio fratello è qui, ma ci sono altri fratelli e sorelle nell’inferno di Gaza. Non dobbiamo dimenticarli o smettere di combattere”. Tal Levy ha condiviso anche con Keshet News notizie circa la graduale ripresa di Or. “Or si sta riprendendo lentamente – ha detto – Ieri è stata una giornata un po’ dura e confusa per lui, non ha dormito molto. Si è seduto con mia madre e mio fratello e ha condiviso le esperienze della prigionia. Si è addormentato solo alle 7 del mattino”. Tal ha spiegato come “le storie che racconta siano incredibilmente difficili da ascoltare. Non riesco nemmeno a descriverle. Se potessi condividere tutto quello che ci ha raccontato e se il pubblico sapesse cosa hanno passato e le scarse possibilità che avevano di sopravvivere in quelle condizioni. L’uomo che ho visto ieri non sarebbe sopravvissuto altre due o tre settimane, o un mese di prigionia”.
  Tal ha anche confermato che Or era a conoscenza della politica intenzionale di affamare gli ostaggi imposta da Yahya Sinwar. Secondo quanto condiviso, Sinwar ordinava di far morire di fame gli ostaggi uomini. Tal ha aggiunto che Or aveva inizialmente rifiutato di essere liberato e aveva suggerito che un altro ostaggio venisse rilasciato al suo posto. “Si sentiva molto in colpa per essere stato liberato mentre altri erano ancora prigionieri. Gli abbiamo detto che quanto importante fosse la sua presenza ora per Almog, suo figlio che aveva perso anche la mamma”.
  Tal ha anche descritto l’incontro emozionante tra Or e Almog. “Almog lo ha riconosciuto immediatamente. La paura di tutti era che il figlio non lo riconoscesse. Ma per mio fratello l’idea di riabbracciare suo figlio è stata l’unica cosa che l’ha fatto sopravvivere all’inferno della prigionia. Il ricongiungimento è stato incredibile, è stato come se non si fossero mai separati”. Appena tornato a casa, Or ha messo a letto Almog per la prima volta dopo tanto tempo. “Era il sogno che mio fratello faceva ogni notte durante la prigionia. Sognava di mettere a letto suo figlio Almog e ora finalmente l’ha fatto” ha concluso Tal Levy.

(Shalom, 10 febbraio 2025)
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A commento riportiamo di seguito un articolo pubblicato su questo sito cinque mesi fa.


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L’IDF mostra il tunnel “degli orrori” dove erano tenuti prigionieri i sei ostaggi assassinati di recente da Hamas

Martedì 10 settembre le Forze di Difesa israeliane hanno diffuso un filmato che mostra l’interno di un tunnel nel sud della Striscia di Gaza dove sei ostaggi israeliani sono stati uccisi da terroristi di Hamas alla fine del mese scorso e i loro corpi sono stati trovati e recuperati dalle truppe israeliane due giorni dopo.
  Il video mostra il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, mentre visita il claustrofobico passaggio sotterraneo nel quartiere Tel Sultan di Rafah. Il tunnel è stato visto disseminato di bottiglie di urina, vestiti da donna e grandi macchie di sangue sul terreno, dove sono stati uccisi gli ostaggi.
  Gli ostaggi Hersh Goldberg-Polin, Eden Yerushalmi, Ori Danino, Alex Lobanov, Carmel Gat e Almog Sarusi sono stati giustiziati nel tunnel dai loro rapitori il 29 agosto, prima di essere scoperti dalle truppe il 31 agosto.
  Oltre al filmato, l’IDF ha rilasciato nuovi dettagli sul tunnel e sull’operazione di ritrovamento dei corpi dei sei israeliani uccisi, tra cui il fatto che erano tenuti a soli 700 metri di distanza da dove un altro ostaggio era stato salvato vivo giorni prima.
  Il tunnel in cui sono stati ritrovati i corpi è uno stretto passaggio di 120 metri – non abbastanza alto da poterci stare in piedi senza piegarsi – che collegava parti di una vasta rete sotterranea nel quartiere di Tel Sultan, che secondo l’IDF apparteneva alla Brigata Rafah di Hamas. La rete di tunnel era uno dei più grandi complessi sotterranei trovati dall’esercito a Gaza fino ad oggi, hanno detto le fonti militari.
  All’interno del tunnel, situato a circa 20 metri di profondità, l’IDF ha trovato cibo e attrezzature che, secondo l’IDF, sono state utilizzate dai terroristi di Hamas e dagli ostaggi israeliani per sopravvivere sottoterra per lunghi periodi. Secondo fonti dell’IDF, le scorte erano sufficienti per sopravvivere nel tunnel per almeno diverse settimane.
  Tra gli oggetti trovati nel tunnel c’erano cibo secco, acqua, un secchio usato come gabinetto di fortuna, numerose bottiglie di urina, materassi e caricatori di fucili d’assalto.
  Il video è stato mostrato alle famiglie e ai membri del gabinetto israeliano.
  Il video pubblicato questa sera dall’IDF dimostra le condizioni inimmaginabili e disumane in cui sono stati tenuti per mesi i 6 ostaggi Alex, Hersh, Eden, Ori, Carmel e Almog. Le macchie di sangue secco non lasciano dubbi sulla crudeltà dei loro ultimi momenti – si legge in una nota del Forum delle Famiglie degli ostaggi -.  Il filmato di stasera dal “tunnel degli orrori” è scioccante. Rivela le orribili condizioni sopportate da Carmel Gat, Hersh Goldberg-Polin, Alex Lobanov, Almog Sarusi, Ori Danino e Eden Yerushalmi – per 11 mesi. Sono stati confinati in stretti tunnel alti 1,5 metri, in profondità, privati dell’aria e delle condizioni sanitarie e sottoposti a continui abusi mentali e fisici prima della loro brutale esecuzione. Carmel, Hersh, Alex, Almog, Ori ed Eden hanno sofferto fino all’ultimo respiro. Hanno implorato di essere rilasciati, hanno supplicato per la loro vita. Hanno lottato per la loro vita fino alla morte.”
  A gaza ci sono 101 ostaggi ancora detenuti (almeno 30 dei quali già dichiarati morti dall’IDF), che stanno sopportando sofferenze inimmaginabili.

(Bet Magazine Mosaico, 11 settembre 2024)
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Il pogrom del 7 ottobre non è, come la Shoah, un evento del passato: è un fatto del presente, è “in corso d’opera”. Non ci viene riportato con testimonianze orali, documenti o libri, ma trasmesso quasi in diretta con i più moderni strumenti video. E noi assistiamo al pogrom in corso con valutazioni e giudizi diversi sul contenuto dello spettacolo, senza accorgerci che siamo diventati noi stessi parte in causa del pogrom, partecipi diretti di un orrendo super-spettacolo di cui forse un giorno saremo chiamati a rispondere. M.C.
A questo commento dell’11 settembre 2024 aggiungiamo oggi che lo spettacolo del pogrom “in corso d’opera” adesso non è più offerto soltanto con “testimonianze orali, documenti o libri”, ma proprio “in diretta”, con la presentazione al pubblico di ciò che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, con l’esposizione delle vittime in carne ed ossa, con la possibilità di toccare con mano il risultato delle lacerazioni fisiche e morali subite dai loro carnefici, con l’informazione ricevuta dagli stessi carnefici che loro intendono mantenere le vittime a loro totale disposizione fino a che lo riterranno opportuno. La restituzione di alcune di queste vittime in condizioni volutamente spaventose dà nuova forza e determinazione alla volontà dei carnefici di continuare ad andare avanti come hanno fatto fino ad ora. Va detto che se lo spettacolo del pogrom in corso d’opera adesso è live, gli ebrei di Israele oggi sono in pari tempo vittime e primi spettatori del pogrom dal vivo. Che faresti tu se fossi al loro posto? Qualcuno potrebbe chiedere. Domanda mal posta che non merita risposta. Le domande col “se” provocano risposte col “se” (se io fossi al loro posto…) quindi non hanno alcun valore. Ciascuno osserva, esamina e parla dal posto in cui si trova. E se ne assume la responsabilità. M.C.

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Hamas mantiene la parola, Israele no!

Il ritiro delle truppe israeliane dal corridoio di Netzarim rafforza Hamas e indebolisce Israele

di Aviel Schneider

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Terroristi di Hamas consegnano ostaggi israeliani alla Croce Rossa l'8 febbraio 2025
a Deir al-Balah, come parte dell'accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas      

GERUSALEMME - Tutti noi vediamo le immagini e i filmati di terroristi di Hamas in marcia e ben nutriti ogni volta che vengono rilasciati ostaggi israeliani nell'ambito dell'accordo sugli ostaggi e del cessate il fuoco. Un circo psicologico imposto a tutti noi - ne abbiamo scritto spesso. L'ultima volta è stato particolarmente sarcastico e cattivo quando si è visto il contrasto tra gli ostaggi israeliani affamati e i terroristi palestinesi sazi e quasi grassi. Molti lettori mi hanno scritto personalmente per dire che questo è impossibile e che Israele non deve giocare a questo gioco. È vero, e sarebbe bello, ma spesso non c'è altro modo. La situazione è complessa. Ciò che stabilizza Hamas ancor più del circo settimanale è il ritiro delle truppe israeliane dal corridoio di Netzarim, al centro della Striscia. Questo dimostra che Hamas sta mantenendo la parola data - e Israele no!
Per oltre un anno, l'intera comunità internazionale ha ballato al ritmo della propaganda sulla presunta carestia nella Striscia di Gaza. Ma le immagini non mentono: i terroristi di Hamas e gli abitanti di Gaza sembrano ben nutriti. I mercati di Gaza sono pieni di bancarelle di verdure colorate - tutto questo è visibile sui social network e sui canali Telegram. Gli ostaggi israeliani, invece, sembrano dei sopravvissuti all'Olocausto che hanno chiaramente sofferto di malnutrizione. L'Occidente viene continuamente preso per il naso dai palestinesi - e purtroppo anche da Israele. A causa delle pressioni internazionali, Israele ha dovuto più volte consentire l'afflusso di aiuti e cibo nella Striscia di Gaza - un grossolano errore tattico. Hamas ha prima rifornito se stesso e poi ha venduto il resto alla popolazione palestinese a prezzi esorbitanti.

Il corridoio di Netzarim
A mio avviso, lo spettacolo mediatico settimanale è rivolto principalmente alla popolazione palestinese della Striscia di Gaza. È il modo in cui Hamas segnala alla popolazione che l'organizzazione, il regime, non è stato sconfitto. Ogni volta che vedono terroristi mascherati e armati fino ai denti, con uniformi stirate. In questo modo, Hamas vuole instillare la paura nella sua stessa popolazione e dimostrare che è ancora al potere. Siamo onesti: i terroristi di Hamas non sono realmente preoccupati per il loro popolo. Lo vediamo in molti casi - ne abbiamo scritto più volte. Ieri questo è apparso ancora una volta chiaro: il blocco dell'autostrada nella Striscia di Gaza dopo il ritiro delle truppe israeliane dal corridoio di Netzarim. Perché non ci sono terroristi di Hamas a mantenere l'ordine sulla strada? Perché non ci sono telecamere. Hamas non si preoccupa del benessere della propria popolazione palestinese nella Striscia di Gaza. Hamas è un male su questa terra che deve essere distrutto - prima di tutto per il bene del suo stesso popolo.
Ma ciò che simbolicamente rende Hamas ancora più forte nel quadro dell'accordo sugli ostaggi e del cessate il fuoco non è solo il teatro mediatico settimanale, ma soprattutto il ritiro completo delle truppe israeliane dal corridoio di Netzarim, strategicamente importante, che separa il nord e il sud della Striscia di Gaza. Hamas la sta pubblicizzando come una vittoria. Ancora una volta, i soldati israeliani hanno dovuto ritirarsi - e ogni ritiro israeliano rafforza la reputazione di Hamas tra la popolazione palestinese.
Perché la divisione della Striscia di Gaza in due metà era così importante per Israele? Il controllo del corridoio consente all'IDF di controllare meglio la Striscia di Gaza a sud e a nord dal punto di vista tattico. Questo limita la libertà di movimento di Hamas e rende più difficile il trasferimento di forze, rifornimenti e armi. Inoltre, il controllo del corridoio isola la città di Gaza - il più importante centro di potere di Hamas nel nord - dal centro e dal sud della Striscia. Israele perde tutto questo ritirandosi dal corridoio di Netzarim. Un errore strategico.
Questa è la conclusione dei numerosi post che vediamo sui social media dalla Striscia di Gaza. Con il recente ritiro delle truppe israeliane dal corridoio di Netzarim, la popolazione ha ricevuto un incoraggiamento significativo. Può sembrare banale, ma la questione cruciale rimane il controllo della terra e del territorio - e la questione di chi governa la terra. Il fatto che a Gaza siano morte 50.000, 80.000 o 150.000 persone è meno importante nella loro memoria collettiva. Alla fine, conta solo una domanda: chi controlla il terreno, la terra, il territorio? Se Israele si ritira da un'area in cui, da un anno a questa parte, ha dichiarato 24 ore su 24 che vi rimarrà, per Hamas si tratta di un notevole successo. Quante volte il governo di destra israeliano ha sottolineato nelle riunioni di gabinetto e di governo - o Benjamin Netanyahu nei suoi brillanti discorsi alla nazione - che Israele non si ritirerà mai più dal corridoio di Netzarim e dal corridoio di confine meridionale di Philadelphi? Innumerevoli volte! Questo dimostra ai palestinesi che Israele non mantiene le sue promesse e stabilizza l'immagine malconcia di Hamas.
Il recente ritiro delle truppe dà nuove speranze alla popolazione di Gaza e - come detto - rafforza la posizione di Hamas, soprattutto in considerazione della tempistica attuale: poco dopo la fantastica idea di Trump e i suoi piani per la Striscia di Gaza. L'inferno sarà trasformato in paradiso, ma prima i palestinesi devono essere reinsediati dalla Striscia di Gaza. Dal loro punto di vista, Trump sta annunciando grandi progetti, proprio come una volta aveva annunciato il suo “affare del secolo” in Israele - e alla fine ha fallito. Hamas ritiene quindi che alla fine riuscirà a riconquistare la terra nella Striscia di Gaza. Hamas lo ha sottolineato più volte e, allo stato attuale, sta ottenendo da Israele tutto ciò che aveva richiesto. Hamas sta mantenendo la parola data e questo lo rafforza. L'unico antidoto sarebbe una nuova riconquista israeliana di queste aree, dove Hamas vuole stabilizzarsi di nuovo.
Israel Katz, il ministro della Difesa israeliano, ha recentemente dichiarato che il sangue di qualsiasi palestinese che si avvicini alla barriera di confine ricadrà sulla sua testa. E allora? C'è dell'altro, ovvero i sentimenti della popolazione della Striscia di Gaza. Attualmente hanno la sensazione che Hamas si stia muovendo passo dopo passo verso uno scenario e una promessa che determineranno anche la prossima fase dei negoziati. L'assunto di base di Hamas è che ogni territorio che ritorna nel nord della Striscia di Gaza non può più essere riconquistato da Israele. Hamas è convinto che non ci saranno nuovi scontri nella situazione attuale.
Hamas sta attualmente affrontando due sfide importanti:

  1. Il piano di Trump per una Riviera americana a Gaza - Sta cercando di conquistare i leader arabi al suo piano e di mobilitare il sostegno internazionale.
  2. La creazione di fatti irreversibili sul terreno - Hamas vuole dimostrare: “È troppo tardi - qui non succederà nulla senza di noi”.

Questa è la vera battaglia. Dobbiamo presumere che Hamas trascinerà i negoziati, aumenterà il prezzo e perseguirà tattiche dilatorie, in modo che Israele alla fine ceda sempre di più e Hamas ottenga il successo. Questo consoliderà ulteriormente Hamas nella Striscia di Gaza. Le ultime immagini sono dolorose: annullano tutti i successi militari di Israele. Mentre 1.000 prigionieri palestinesi sono già stati rilasciati, i palestinesi si trovano di nuovo dall'altra parte della barriera di confine. È incredibile. Hamas sta mantenendo la parola data, Israele no. Israele ha bisogno di saggezza creativa e spirituale per destreggiarsi tra la distruzione di Hamas e il salvataggio degli ostaggi israeliani rimasti. Come ciò sia possibile non lo so, ma lo sa Dio. I ministri religiosi del governo lo capiscono - e io sono d'accordo.

(Israel Heute, 10 febbraio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il piano di Trump per la Striscia di Gaza continua ad essere rifiutato

WASHINGTON - Il piano del presidente americano Donald Trump per la Striscia di Gaza continua ad essere respinto. Durante il dibattito televisivo contro lo sfidante della CDU Friedrich Merz, domenica sera, il cancelliere tedesco Olaf Scholz (SPD) ha definito la proposta uno “scandalo”. “Il reinsediamento di persone è inaccettabile e contrario al diritto internazionale”.
  Merz si è detto d'accordo con Scholz. I due politici hanno quindi condiviso l'opinione della maggior parte dei capi di Stato. Solo domenica il presidente turco Reccep Tayyip Erdogan (AKP) ha criticato il progetto. Era certo che la proposta fosse nata “sotto la pressione della lobby israeliana”. Ha poi aggiunto: “Nessuno ha il potere di rimuovere la popolazione di Gaza dalla sua patria eterna, che esiste da migliaia di anni”.

“Cambiamento di proporzioni bibliche”
  Nel frattempo, il futuro ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, ha sottolineato che la Striscia di Gaza non dovrà mai più rappresentare una minaccia per Israele. In un'intervista rilasciata domenica al canale americano “Fox News”, ha chiesto che Hamas venga esautorato. Riguardo al piano per Gaza, ha affermato che Trump è caratterizzato da un “pensiero coraggioso e innovativo”. La Striscia di Gaza subirà cambiamenti di “proporzioni bibliche”.
  Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) è rimasto ancora una volta colpito dal piano. Domenica ha dichiarato che è “molto meglio per Israele” rispetto al ritorno dell'Autorità Palestinese, ad esempio. “Qui c'è un'opportunità di possibilità che non sognavamo nemmeno fino a pochi mesi fa”.
  Martedì scorso, Trump ha sorpreso gran parte della politica mondiale con la sua proposta: la Striscia di Gaza dovrebbe passare nelle mani degli Stati Uniti a lungo termine per poterla ricostruire. Ai palestinesi che vi risiedono deve essere data la possibilità di trasferirsi in Egitto o in Giordania attraverso un modello di incentivi. In futuro, persone provenienti da tutto il mondo dovranno vivere e lavorare nella Striscia di Gaza ricostruita.

Previsto un incontro di crisi
  Domenica Trump ha ribadito la sua intenzione: “Siamo determinati a possedere la Striscia di Gaza e ad assicurarci che Hamas non torni”. Anche altri Paesi potrebbero quindi partecipare alla ricostruzione sotto la supervisione degli Stati Uniti.
  Trump ha poi affermato di voler garantire che i palestinesi possano vivere in pace e armonia. Ha ribadito la sua teoria secondo cui essi rimangono nella Striscia di Gaza solo perché non ci sono alternative per loro. Ha invitato i Paesi della regione a contribuire alla creazione di un'alternativa.
  Tuttavia, gli Stati arabi hanno finora reagito negativamente. Domenica l'Egitto ha anche annunciato una riunione di crisi della Lega Araba il 27 febbraio per discutere il “nuovo e pericoloso piano”. 

(Israelnetz, 10 febbraio 2025)
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Il piano di Trump assomiglia sempre di più alla caramella che il nuovo Presidente americano ha offerto a Netanyahu per fargli ingoiare il rospo di un accordo tra Israele e Hamas, e quindi l’interruzione della guerra. Dopo di che la guerra non ripartirà più, almeno nella stessa forma. Sarà per Israele una guerra che segue una sconfitta. Del resto Trump l’aveva detto più volte, che lui vuol far finire le guerre. Tutte. Sia Ucraina-Russia, sia Israele-Gaza. E qui si raccoglie l’ultimo bel risultato di aver equiparato queste due guerre, come hanno fatto anche molti amici di Israele. M.C.

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Il difficile ritorno a casa di Or, Eli e Ohad

di Luca Spizzichino

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Dopo 491 giorni di prigionia, Or Levy, Eli Sharabi e Ohad Ben Ami sono finalmente tornati a casa. Il loro rilascio è avvenuto a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, dove sono stati consegnati al Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Tuttavia, le immagini trasmesse hanno mostrato i tre uomini in condizioni fisiche precarie, visibilmente indeboliti e costretti a parlare in pubblico mentre venivano sorretti da membri armati di Hamas prima della consegna alla Croce Rossa.
  Un primo esame medico presso il Tel Aviv Sourasky Medical Center e lo Sheba Medical Center ha confermato la gravità delle loro condizioni, evidenziando segni di malnutrizione e una perdita di circa il 30% del peso corporeo.
  La tragedia personale di Eli Sharabi ha assunto contorni ancora più strazianti. Rapito il 7 ottobre 2023 durante il massacro di Hamas nel sud di Israele, ignorava la sorte della sua famiglia fino al momento del rilascio. Secondo Channel 12, appena liberato, aveva espresso il desiderio di riabbracciare la moglie Leanne e le figlie Noya (16 anni) e Yahel (13 anni), ignaro che fossero state brutalmente assassinate nel Kibbutz Be’eri. Hamas, inoltre, lo ha costretto a parlare in pubblico rivelandogli in quel momento la morte del fratello Yossi, ucciso in prigionia, il cui corpo è ancora trattenuto a Gaza. “Eli torna da una realtà impossibile in cattività a una realtà altrettanto difficile in Israele”, ha dichiarato il Kibbutz Be’eri. “Una realtà in cui le persone a lui più care non sono più vive. Lo accoglieremo con affetto e gli daremo tutto il supporto possibile”.
  Le figlie di Ohad Ben Ami – Yulie, Ella e Natalie – lo hanno finalmente potuto vedere dopo il rilascio, all’ospedale Ichilov. “Nostro padre è uscito dall’orrore e il trauma è scritto sul suo volto”, hanno dichiarato. “Ma noi siamo forti per lui, proprio come lui lo è per noi. Presto potremo finalmente abbracciarlo. Abbiamo riavuto nostro padre. Ora dobbiamo riportare indietro ogni ostaggio rimasto”.
  Le condizioni in cui sono stati rilasciati hanno suscitato indignazione nella politica israeliana. Il presidente Isaac Herzog ha definito la grave denutrizione degli ostaggi “un crimine contro l’umanità”. L’ufficio del Primo Ministro ha accolto con soddisfazione il ritorno dei tre uomini, ribadendo l’impegno a riportare a casa tutti gli ostaggi ancora in mano a Hamas. “Le loro famiglie sono state informate che sono al sicuro con le nostre forze”, ha dichiarato il governo, promettendo “azioni adeguate” per rispondere alle atrocità subite.
  Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha inviato un messaggio forte alla comunità internazionale, evidenziando la drammatica differenza tra lo stato di salute degli ostaggi e quello dei civili gazawi: “Per oltre un anno, il mondo ha dato credito alla propaganda sulla ‘carestia’ a Gaza. Ma le immagini non mentono: i terroristi di Hamas e i civili gazawi appaiono in buona salute. Gli ostaggi israeliani, invece, sembrano sopravvissuti alla Shoah, gli unici nelle foto a mostrare segni evidenti di denutrizione. Hamas ha commesso crimini contro l’umanità su civili rapiti. L’orrore nazista di Hamas deve essere sradicato”.

(Shalom, 8 febbraio 2025)


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Rilascio degli ostaggi tra dure polemiche: emaciati e denutriti, sono l’ombra di loro stessi

di Anna Balestrieri

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Tre ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre 2023 sono stati rilasciati sabato da Hamas dopo 16 mesi di prigionia. Eli Sharabi, 52 anni, Or Levy, 34, e Ohad Ben Ami, 56, sono apparsi estremamente magri e debilitati mentre venivano consegnati alla Croce Rossa nella città di Deir al-Balah, a Gaza.

Chi sono gli ostaggi liberati?

  • Eli Sharabi, 52 anni, è stato rapito da Kibbutz Be’eri il 7 ottobre. Sua moglie e le due figlie sono state uccise durante l’attacco di Hamas, e anche suo fratello Yossi è stato sequestrato e successivamente ucciso. La sua famiglia ha descritto il suo ritorno come un sogno sia personale che nazionale.
  • Ohad Ben Ami, 56 anni, contabile e padre di tre figlie, è stato rapito dallo stesso kibbutz. La moglie, Raz, è stata liberata nel primo scambio di novembre 2023. Da ottobre non vi era alcuna prova di vita di Ohad, e la sua famiglia ha vissuto mesi di angoscia e incertezza.
  • Or Levy, 34 anni, è stato sequestrato al Nova Festival mentre tentava di fuggire con la moglie Einav, uccisa nell’attacco. La coppia ha un figlio piccolo, Almog, che da allora viene cresciuto dalla famiglia. I parenti hanno raccontato le difficoltà di spiegare al bambino l’assenza del padre.
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Un ritorno segnato dal dolore
   Israele ha celebrato il ritorno di tre ostaggi detenuti da Hamas: Eli Sharabi, Ohad Ben Ami e Or Levy. La loro liberazione è avvenuta sabato, nell’ambito dell’accordo di cessate il fuoco e scambio di prigionieri dopo 16 mesi di prigionia.
Magri e provati, Sharabi e Levy sono tornati in un incubo familiare: Sharabi ha scoperto solo al suo arrivo in Israele che la moglie e le due figlie adolescenti (foto in basso) erano state assassinate il 7 ottobre. Anche la moglie di Levy è stata uccisa durante l’attacco di Hamas. Le loro famiglie, con l’aiuto di professionisti, hanno dovuto affrontare il difficile compito di comunicare loro queste tragiche notizie.
Michal Cohen, madre di Ben Ami, ha dichiarato: “Mio figlio sembra un uomo distrutto. Ha 57 anni, ma ne dimostra dieci di più. È uno scheletro.”
Il fratello di Levy ha aggiunto: “È molto, molto magro. È difficile vederlo così, ma almeno è tornato e potrà riprendersi con il tempo.”

La reazione politica e le critiche a Netanyahu
  Un comunicato dell’ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha definito “inaccettabili” le condizioni in cui i tre ostaggi sono stati rilasciati, promettendo azioni in risposta. “Le immagini scioccanti che abbiamo visto oggi non passeranno senza conseguenze”, si legge nel comunicato. “Israele è impegnato a riportare tutti gli ostaggi a casa.”

Le reazioni dei familiari degli ostaggi
  Tuttavia, la gestione della situazione da parte di Netanyahu ha suscitato dure critiche. Yehuda Cohen, il padre di un ostaggio ancora detenuto, ha condannato il fatto che il premier sia rimasto a Washington nel fine settimana invece di concentrarsi sulla liberazione degli ostaggi: “Mentre cittadini israeliani vengono rilasciati dalla prigionia di Hamas in condizioni simili a quelle dei sopravvissuti dell’Olocausto, Netanyahu si trova in una suite di lusso a Washington, a spese dei contribuenti israeliani.”
Anche Einav Zangauker, madre di un ostaggio ancora a Gaza, ha espresso rabbia: “Non penso che ci sia una goccia di sangue nel mio corpo che non stia ribollendo di rabbia. Il mio ragazzo sta vivendo un Olocausto. Oggi i sopravvissuti sembravano usciti dai campi di concentramento. Il primo ministro deve porre fine alla guerra e riportare tutti gli ostaggi, oggi.”
Il Forum delle Famiglie degli Ostaggi e dei Dispersi ha accolto con favore la notizia, sottolineando che la lotta continuerà fino al ritorno di ogni ostaggio, vivo o deceduto, per garantire la riabilitazione dei sopravvissuti e la degna sepoltura dei caduti. Le famiglie degli ostaggi chiedono un’accelerazione della trattativa per la seconda fase dell’accordo di cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi. Tuttavia, Netanyahu ha ritardato l’invio di una squadra negoziale, apparentemente violando i termini dell’accordo, suscitando ulteriore preoccupazione tra i parenti degli ostaggi ancora prigionieri.

Il contesto del rilascio
  Questa liberazione rientra nella prima fase del cessate il fuoco iniziato il 19 gennaio, che dovrebbe durare 42 giorni. Secondo l’accordo, Hamas ha il potere di decidere l’ordine dei rilasci, ma è tenuto a liberare prima gli ostaggi vivi.

(Bet Magazine Mosaico, 9 febbraio 2025)

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Che cosa ci insegna il nuovo terribile riscatto dei rapiti

di Ugo Volli

La scena della liberazione dei rapiti
   Tre uomini. Smunti, pallidi, magrissimi, con gli occhi vuoti. Fanno fatica a camminare, gli hanno messo addosso una grottesca maglietta cachi e pantaloni fuori misura. Li costringono a prendere in mano il solito assurdo diploma e li obbligano anche a dire quattro parole di “ringraziamento” ai loro torturatori. Se si sbagliano a recitarlo li correggono. Intorno si aggirano dei personaggi in tuta mimetica con una fotocamera in mano, non si capisce se di Al Jazeera o di Hamas (probabilmente di entrambe) che intrecciano un balletto di passettini avanti e indietro ai prigionieri, una recita per passare per professionisti delle riprese. Come se fosse il red carpet di un festival. Sullo sfondo altre decine di giovani anch’essi col volto coperto di passamontagna nero alla Fantomas e in tutta mimetica nuova e ben stirata, armati di mitra. Sono spuntati fuori di nuovo i pick-up bianchi, quelli del 7 ottobre (ma dove li tenevano? Nascondere uniformi non è difficile, perfino le armi e le telecamere possono stare in qualche ripostiglio. Ma le macchine?). Del pubblico si vede qualche bambino vestito a festa, una donna che prende da un cestino dei fiori o dei confetti e li butta addosso agli sgherri. Il solito palco con striscione scritto in arabo, inglese ed ebraico che dice cose senza senso (“siamo all’indomani del futuro”). Sul palco arrivano obbedienti e ossequienti i delegati della Croce Rossa, che in un anno e mezzo non hanno avuto il tempo di visitare i rapiti, ma ora firmano i documenti di consegna, come se fosse una spedizione di Amazon. I rapiti questa volta non hanno la vitalità resistente delle ragazze rilasciate la settimana scorsa, stanno in piedi a stento. Non sanno ancora che a uno di loro, Or Levy hanno ucciso la moglie; all’altro, Eli Sharabi, tutta la famiglia (moglie, fratello e due figlie); al terzo, Ohad Ben Ami, hanno “solo” rapito la moglie ma l’hanno rilasciata in uno scambio dell’anno scorso.

Nuda violenza
   A guardare questa scena non si è colpiti dalla grottesca coreografia militare, come nei rilasci precedenti dei rapiti, ma dalla nuda violenza, dalla ferocia sistematica, dalla distruzione dell’umanità. Siamo rimandati subito alle immagini del 7 ottobre e ancora più in là, a quelle della Shoah. Tutto il popolo ebraico soffre con questi uomini distrutti, si ritrova nel loro destino. Non ci può essere gioia nella liberazione, quando il dolore è tanto, solo immensa angoscia per loro e per gli altri rapiti, che siano sopravvissuti o siano stati assassinati e ne restino solo le salme, trattenute anch’esse da terroristi privi di ogni traccia di umanità. Quel che resta nel cuore è pietà per loro e ira per i loro aguzzini e per chi li ha fiancheggiati.

Dov’era la fame e il genocidio?
   Di fronte a queste immagini e a quelle correlative di gioia e festa per gli assassini che Israele ha dovuto rilasciare per liberarli, si squarcia la tela di menzogne propagandistiche che ha avvolto questa vicenda. A Gaza c’era sì la fame, c’era sì la violenza, c’era sì la volontà genocida di distruggere e di umiliare un popolo – ma era quella subita da queste persone rapite a casa loro, per strada o a una festa musicale. C’è stata all’inizio la violenza atroce dello stupro, della strage, dell’incendio, della distruzione di pacifici villaggi la cui colpa era solo di essere abitati da ebrei. Una violenza che si è poi prolungata per 411 giorni: la tortura quotidiana di persone trattenute senza ragione e senza diritto, ridotte alla fame, all’oscurità, alla schiavitù – sempre per la sola colpa di essere ebrei.

La complicità
   Non conosciamo ancora i dettagli delle sevizie subite da questi tre uomini, ma abbiamo sentito abbastanza di quelle dei rapiti riscattati in precedenza. Non vale la pena di ripeterle qui. Bisogna dire invece che queste violenze, questi crimini contro l’umanità sono stati resi possibili anche da complicità che si vogliono nascondere. Innanzitutto quella dei “civili innocenti”, che tutti dicono di voler difendere. Li abbiamo visti, questi civili, il 7 ottobre: invadere anche loro, rapinare anche loro, violentare, uccidere, picchiare i cadaveri delle vittime, esaltare la “vittoria delle resistenza” in cortei. Non se n’è presentato nessuno quando Israele ha offerto libertà e soldi a chi avesse dato informazioni sui rapiti, che almeno in parte erano detenuti in case private e installazioni dell’Onu. Li abbiamo visti di nuovo far festa e tentare linciaggi al momento del riscatto dei rapiti. Probabilmente questo non è vero di tutti, qualcuno davvero innocente della violenza terrorista ci sarà; ma è chiaro che mentre nella Germania nazista c’era una resistenza, c’erano emigrati, c’erano personalità che aiutarono i deportati o scelsero di testimoniare fino alla morte, questa opposizione a Gaza non esiste. La seconda complicità da denunciare in questo momento è quella del sistema internazionale, dell’Onu, dell’UNRWA, delle corti internazionali, della Croce Rossa, che hanno fatto molto per rendere possibile questo scempio. La terza è quella dei politici, dei giornalisti, degli intellettuali che hanno in sostanza giustificato Hamas amplificando la sua propaganda, ripetendo con compunzione le sue menzogne.

Non basta liberare i rapiti
   Di tutto questo bisogna ricordarsi pensando ai rapiti, alla parte di loro che è stata liberata e a quelli che ancora si trovano nella sofferenza della schiavitù. Il quadro che ha reso possibile l’assalto multifronte a Israele oggi è profondamente trasformato. Israele deve cercare di liberare i propri rapiti. Ma deve anche fare tutto quel che è possibile per non subire altri rapimenti, altre aggressioni, altri lutti, altre aggressioni. Per questo è necessario continuare la guerra fino alla distruzione totale dei movimenti terroristici e di chi li comanda (il regime iraniano).

(Shalom, 9 febbraio 2025)

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È tutto sbagliato e Israele rischia di perdere il vantaggio acquisito

Da Gaza all'Iran passando per la Siria, Israele rischia seriamente di perdere il vantaggio acquisito sul campo aspettando i progetti della Casa Bianca

di Franco Londei

So già per certo che con questo articolo mi farò un sacco di nemici tra gli Hooligans di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu, ma che buon amico di Israele sarei se mi astenessi dal criticare (spero) costruttivamente quello che a mio avviso è sbagliato?  Allora partiamo.  
La tregua con Hamas l’ha pretesa Trump, PRETESA, non chiesta, non consigliata. Ha preteso una tregua e la chiamerà “pace”. Quindi non crediate che tra un po’ Israele possa tornare a finire il lavoro con Hamas.  
La storia del progetto “Gaza come Montecarlo”, che prevede il trasferimento di 2,5 milioni di palestinesi, la consegna della Striscia di Gaza da Israele agli Stati Uniti e infine la costruzione di una realtà sul modello Emirati Arabi Uniti, è semplicemente inattuabile, forse addirittura demenziale. Prima di tutto perché i palestinesi da Gaza non se ne andranno se non costretti con la forza, e non credo che sia nelle corde di Israele la deportazione forzata di milioni di persone verso chissà dove, ricorderebbe troppo quanto subito dagli ebrei nel secolo scorso. Per non parlare del fatto che gli unici che si sono detti disponibili ad accogliere i profughi palestinesi sono Puntland e Somaliland. Da ridere per non piangere. Diciamolo: Trump l’ha buttata senza uno straccio di progetto (dove un progetto sarebbe indispensabile) solo per vedere cosa succedeva e perché, come detto sopra, ha preteso una tregua e la chiamerà pace. Troverà qualcuno a cui addossare la colpa quando immancabilmente tutti quelli che oggi fanno salti di gioia si accorgeranno che il piano non è attuabile. Tra parentesi, Netanyahu in una recente intervista ha criticato l’ex Ministro della difesa Gallant, ma non è che le condizioni di questa tregua siano così lontane da quello che proponeva proprio Gallant. La guerra di Gaza è molto probabilmente finita e Hamas è ancora lì. La potete mettere come volete ma questa è la verità. 
L’Iran è sparito dall’orizzonte degli obiettivi da colpire. Come mai? Trump ha promesso che sarà il Presidente che porterà pace ovunque quindi sull’Iran vuole “il massimo della pressione” affinché rinunci alla bomba atomica, ma niente raid sulle centrali atomiche. Niente azioni contro i pasdaran. Ma anche qui c’è un problema. Gli iraniani non hanno nessuna intenzione di rinunciare alla bomba, anzi, persa la deterrenza dei proxy l’arma atomica diventa indispensabile per gli Ayatollah. Gli iraniani hanno già materiale fissile altamente arricchito per due o tre bombe atomiche o, peggio come incubo, per svariate bombe sporche. Davvero Trump pensa di fermare gli iraniani con ulteriori sanzioni senza lasciare mano libera a Israele per colpire le centrali atomiche iraniane? E adesso gli hooligans di Trump diranno: «aspetta prima di giudicare, vedrai che Donald ha un piano in mente… ecc. ecc.». Come no, ha in mente un piano come per Gaza. Cioè nessun piano. Aspettiamo che gli Ayatollah si riprendano dalle sberle subite, che ripristino le difese e che, finalmente, raggiungano la bomba. E già che ci siamo diamo il tempo anche a Hezbollah di riprendersi, così possiamo ricominciare da capo tutta la tiritera di missili. Sempre perché è bello chiamare “pace” quella che dovrebbe essere una tregua.   
E della Siria ne vogliamo parlare? Donald Trump sembra intenzionato ad abbandonare di nuovo i curdi siriani. Lo fece nel 2018 e sembra intenzionato a rifarlo anche adesso. Il Presidente americano non ha mai nemmeno nominato la Siria, eppure è una vera e propria colonna portante del Medio Oriente. Non sarà che il semi-silenzio della Turchia sulla follia del “progetto Gaza” nasconda nuovi accordi tra Washington e Ankara? Non è che Israele si ritroverà i turchi al confine nord? Per non parlare di cosa succederà ai curdi siriani abbandonati a loro stessi. Lo so, sulla Turchia sono paranoico, ma cosa ci volete fare? 
Infine lasciatemi inimicare anche gli Hooligans di Elon Musk. Negli ultimi giorni ho visto sui social molti ebrei o sostenitori di Israele inneggiare a Elon Musk. Signori, l’uomo più ricco del mondo, il visionario che porterà l’uomo su Marte, è un nazista. Al 100% nazista che sostiene i nazisti. E non lo nasconde. Mi spiegate come fa un ebreo a inneggiare o a sostenere un nazista? E come fa un ebreo a non rabbrividire al pensiero che uno come Elon Musk siede alla destra del Presidente Trump dentro lo studio ovale?  

(Rights Reporter, 9 febbraio 2025)
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"La guerra di Gaza è molto probabilmente finita e Hamas è ancora lì" dice l'autore. Il che è come dire che Israele ha perso la guerra. Non è la prima volta, se per interpretare i fatti si volesse tornare alle origini, ai tempi biblici. Ma questo i governanti israeliani di oggi, fieri del loro laicismo doc, non lo farebbero mai. "Vittoria totale, assoluta: questo è l'obiettivo che Israele vuole raggiungere e su cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu insiste", ha scritto il direttore di Israel Heute su un articolo che abbiamo riportato pochi giorni fa. Bisogna dire allora che questo obiettivo non è stato raggiunto, né si otterrà per questa via. Israele beneficerà un giorno di una vittoria totale e assoluta sui suoi nemici, ma questo avverrà per la vittoria dell'Eterno sui suoi nemici (Salmo 83), quando Egli avrà fatto di loro lo sgabello del suo Unto (Salmo 110). I riferimenti biblici del direttore di Israel Heute dunque non sono appropriati, perché l'Israele politico di oggi non è interessato alla volontà dell'Altissimo, e questo rende del tutto appropriato il riferimento della sconfitta di oggi alle sconfitte di Israele in tempi biblici. Israele esiste per volontà di Dio. Voler continuare a procedere trascurando questa semplice verità è folle. E questa follia forse emerge oggi nella sorprendente facilità con cui sono state prese sul serio le proposte demenziali di Donald Trump. Molti non saranno d'accordo, ma con questa sconfitta di peso storico il sionismo asetticamente laico può dirsi definitivamente morto. M.C.

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Il pentimento di Israele e il Regno Messianico

di Erez Sofer

Circa un quarto della Bibbia è costituito da profezie. In Amos 3:7 si legge: “No, il Signore Dio non fa nulla senza rivelare il suo segreto ai suoi servi, i profeti”. E in Proverbi 25:2 si legge: “È gloria di Dio nascondere una cosa, ma è gloria dei re investigarla.” - Dio ci ha dato un cervello e si aspetta che lo usiamo - per studiare la sua Parola con la nostra mente e i nostri sforzi spirituali. Un famoso rabbino del XII secolo disse una volta, studiando la Genesi: “Le azioni dei padri sono un segno per i figli”. Con questo intendeva dire che nella Bibbia Dio ci insegna qualcosa sul futuro attraverso la storia. Anche nella nostra vita vediamo che gli eventi del passato possono influenzarci nuovamente nel futuro.
  Oggi non viviamo al tempo del primo ritorno degli ebrei nella terra, ma durante il secondo. Possiamo imparare da questo come Dio ha operato durante il primo ritorno, quando ha preparato il popolo ebraico alla prima venuta di Gesù. Allo stesso modo, il secondo ritorno degli ebrei nella terra è una preparazione alla seconda venuta di Gesù.
  Zaccaria 12 ci mostra il pentimento nazionale di Israele e come la nazione verrà a Cristo. Questo è un evento futuro. Oggi solo un piccolo resto crede in Gesù, ma Paolo dichiara che verrà il tempo in cui tutto Israele tornerà a Cristo.
  Zaccaria era un giovane che proveniva da un'importante famiglia sacerdotale. Negli ultimi tre capitoli della sua profezia (Zaccaria 12-14), parla in particolare di Israele. Così leggiamo in Zaccaria 12,1: “Oracolo, parola dell’Eterno riguardo a Israele”. Non è sempre stato facile essere un profeta. Un profeta parlava della parola di Dio al popolo del suo tempo, e questo era spesso associato a grandi sfide. Era un fardello che doveva portare. Doveva trasmettere il messaggio di Dio, anche se non era facile da trasmettere.
  In un certo senso, anche noi portiamo un fardello - anche se non come Zaccaria - perché vogliamo avvicinare Cristo a un mondo che ne ha disperatamente bisogno. Negli ultimi tre capitoli Dio porta il profeta Zaccaria a parlare specificamente di Israele. In questo passo incontriamo spesso l'espressione “in quel giorno”. Questa espressione ricorre anche in molti altri libri profetici, ma qui troviamo la sua massima concentrazione. Dio non si riferisce a un giorno di 24 ore, ma a un periodo di tempo molto specifico. È il momento in cui il Messia tornerà sulla terra. Tutto Israele e tutte le nazioni lo vedranno come realmente è. Allora giudicherà le nazioni e governerà il mondo da Gerusalemme. Questo accadrà “in quel giorno”.
  Il nome di Dio più citato in questo passo è “il Signore degli eserciti”. Questa espressione è usata 17 volte. Descrive la potenza e l'autorità di Dio - un'espressione militare che si riferisce a Dio come giudice che verrà con potenza. Gerusalemme è menzionata 22 volte in questo passo. Se vi state chiedendo quale luogo abbia il maggior significato geografico, è Gerusalemme. Ma Dio non è un Dio etnocentrico. Anche se ha in mente Gerusalemme, parla di tutte le nazioni - 13 volte in questo brano.
  Zaccaria 12 descrive un periodo molto difficile per la nazione di Israele. È il periodo definito “tribolazione di Giacobbe” o “grande tribolazione”. Questo periodo di sette anni inizia con la nazione di Israele che stringe un'alleanza con l'Anticristo. All'inizio tutto sembra andare bene, ma poi le cose si mettono molto male per il popolo ebraico.
  Se guardiamo al mondo di oggi, pensiamo che le cose siano già molto brutte con l'antisemitismo globale. Ma è solo un'anticipazione: non è ancora la fine. Le cose andranno molto peggio. Alla fine di questo periodo, solo una minoranza del popolo ebraico sopravviverà. Alcuni dicono che sarà un terzo, sulla base di un versetto di Zaccaria 13. In ogni caso, rimarrà solo un piccolo resto.
  Tutte le nazioni si riuniranno e diranno: “Distruggeremo gli ebrei una volta per tutte”. Purtroppo non è difficile da immaginare. Stiamo parlando di una grande forza militare che si raduna intorno a Gerusalemme, ed è importante capire che l'intenzione di distruggere gli ebrei o Israele non riguarda in ultima analisi Israele stesso. Riguarda il Dio di Israele. Satana cerca di distruggere Israele perché pensa di poter dimostrare che Dio è un bugiardo.
  Zaccaria 12:9 dice:

    In quel giorno avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme”.
Sembrerà che non ci sia alcuna speranza per il popolo ebraico in questo momento: nessun esercito che lo difenda, nessuna forza aerea, niente. Saranno completamente allo stremo. Molte persone in Israele e gli ebrei di tutto il mondo si sentono molto umiliati e scoraggiati a causa di ciò che è accaduto negli ultimi anni. Ad esempio, oltre 50.000 persone in Israele non possono più vivere nelle loro case. Molti si sono arruolati nella riserva per dimostrare che “Possiamo ancora difenderci”. Il motto dell'esercito israeliano è: “Mai più”. L'Olocausto non deve ripetersi. Ci difenderemo. Ma “quel giorno” tutto sarà diverso. Non ci sarà più speranza. E come nazione, Israele arriverà all'amara constatazione: “Non abbiamo più un futuro, è finita”. È spesso simile nella nostra vita personale: quando siamo allo stremo e non possiamo più fare nulla, Dio può arrivare, operare e cambiare tutto.
  Come in molti altri passi profetici, anche qui si dice che Dio stesso interverrà. Il popolo d'Israele alzerà lo sguardo e si chiederà: “Chi combatterà per noi adesso?”. E questo ci porta a Zaccaria 12, versetto 10, un versetto molto speciale in cui Dio parla in prima persona: “Io effonderò lo spirito di grazia e di preghiera sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme”. Qui accade qualcosa di straordinario: Dio effonde lo Spirito di grazia e di preghiera su Gerusalemme. Questo ci ricorda gli Atti 2, quando la Chiesa iniziò a Gerusalemme per mezzo dello Spirito Santo. È simile, ma è un evento diverso.
  Poi continua dicendo: “E guarderanno a me che hanno trafitto”. È un'affermazione straordinaria, una chiara dichiarazione di ciò che è accaduto a Dio. Qualche anno fa ho avuto una conversazione con un ebreo ortodosso su questo passo. Mi chiese: “Come sei diventato un seguace di Cristo? Perché lo vedi in questo modo? Non l'avevo mai letto così”. Abbiamo letto insieme questo passo e lui è rimasto assolutamente scioccato. Non l'aveva capito.
  È stato scritto circa 450 anni prima di Gesù: “Volgeranno lo sguardo a me che hanno trafitto”. Ci sono diversi passaggi nella Bibbia che parlano di Dio che viene trafitto - per esempio nel Salmo 22:17. Ci sono diversi termini per “trafitto”, che hanno diversi significati nell'originale ebraico, a volte incluso “scavare”. Ma la parola usata qui significa proprio “trafiggere”. Dio dice: “Guarderanno a me che hanno trafitto”.
  In questo versetto accade qualcosa di speciale: si passa dalla prima alla terza persona. Prima Dio dice: “Effonderò lo Spirito di grazia”. Poi dice: “Mi hanno trafitto e faranno cordoglio per lui”. Chi è questo “lui”? È lo stesso Dio che hanno trafitto, ma ora piangono su di lui.
  E continua: “Come si piange per il Figlio unigenito, così piangeranno amaramente per lui, come si piange amaramente per il primogenito”. Questo è un po' misterioso. Apparentemente questo Figlio unigenito è Dio stesso, perché è stato descritto in prima persona come il trafitto. Ma c'è un'altra particolarità in questo versetto: L'espressione “il suo Figlio unigenito” è molto insolita in ebraico. In tutta la Bibbia ebraica, Dio è sempre descritto al plurale: un solo Dio, ma con un termine plurale. La stessa parola è usata anche per una nazione, per descrivere la sua unità. Ma qui è diverso. Il termine “Figlio unigenito” è usato al singolare, cosa unica in ebraico. Si riferisce al Figlio di Dio.
  Quando un ebreo sente parlare di “figlio unigenito”, pensa alla storia di Abramo e Isacco. Lì si dice: “Prendi il tuo unico figlio, il tuo solo figlio, e sacrificalo”. Questo è esattamente ciò che ci ricorda questo brano: il padre che sacrifica il figlio.
  Questa rivelazione arriverà nel momento più difficile per Israele di cui stiamo parlando. Il versetto 11 dice: “In quel giorno ci sarà un grande lamento a Gerusalemme, come il lamento di Hadad-Rimmon nella pianura di Megiddo. Tutto il paese sarà in lutto, ogni famiglia per sé, la famiglia della casa di Davide per sé e le loro mogli per sé”.
  Mi sono chiesto: se gli ebrei hanno appena riconosciuto Gesù Cristo come loro Messia, non dovrebbe esserci gioia? Perché invece si lamentano? La mia teoria è questa: Negli ultimi 2000 anni, gli ebrei hanno detto molto su Gesù, e molto di negativo, anche nel Talmud, che molti ebrei leggono. Si sosteneva che fosse uno stregone, che usasse il potere del diavolo. Sono state dette e scritte cose ancora peggiori. Quando gli ebrei accetteranno Cristo come Messia, si renderanno improvvisamente conto di ciò che hanno detto su di lui e di ciò che le generazioni passate pensavano di lui. Si renderanno conto delle loro trasgressioni e questo li scuoterà nel profondo.
  Isaia 53 è un capitolo significativo a questo proposito. Non solo è una delle più belle profezie messianiche dell'Antico Testamento, ma è anche la confessione di colpa del popolo ebraico quando un giorno riconoscerà il Messia. Alla fine di Isaia 52, Dio parla del suo servo. Questo servo è il tema principale di Isaia e qui Dio lo descrive in modo speciale. Dice: “Chi ha creduto al nostro annuncio? E a chi è stato rivelato il braccio del Signore?” Isaia 53 descrive poi un uomo dei dolori, che ha conosciuto la sofferenza, che è stato disprezzato e abbandonato. Eppure ha portato le nostre malattie, i nostri dolori, le nostre colpe. Questo capitolo descrive la profonda presa di coscienza di Israele su chi sia il Messia e su ciò che gli hanno fatto. Il lamento si trasformerà in vera gioia quando si renderanno conto di ciò che è accaduto. Lo stesso vale per la nostra vita: quando comprendiamo veramente chi è Cristo e riconosciamo come abbiamo peccato, questo ci porta al pentimento e quindi alla gioia.
  Il capitolo successivo, Zaccaria 13, inizia con le parole: “In quel giorno si aprirà una fonte per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme contro il peccato e l'impurità. In quel giorno, dice l'Eterno degli eserciti, io taglierò i nomi degli idoli dal paese e non saranno più menzionati; scaccerò anche i profeti e lo spirito di impurità dal paese”.
  In questo passo vediamo un quadro affascinante. In Ezechiele leggiamo che la topografia e la geografia cambieranno al ritorno di Cristo. Il Monte del Tempio sarà la montagna più alta della terra e Gerusalemme sarà molto più grande di oggi. Sul Monte del Tempio si aprirà una sorgente che scorrerà verso ovest e verso est. La menzione dell'acqua in questo contesto non è casuale.
  Per quanto riguarda la fine della tribolazione, leggiamo nell'Apocalisse che tutte le sorgenti e le acque si trasformeranno in sangue. L'acqua sarà una risorsa rara. Ma la sorgente che si aprirà sul Monte del Tempio purificherà le altre fonti d'acqua. Quando Cristo regnerà a Gerusalemme, ogni impurità sarà rimossa dalla terra.
  Cristo ha dato se stesso in sacrificio per tutti. Chiunque voglia può accettare la sua offerta di colpa e il suo perdono. Ma molti non vogliono seguire Dio e si rivolgono agli idoli. In quel giorno, le cose saranno diverse. Non ci saranno più idoli, ma un solo re, il cui nome è Yeshua - Gesù.
  Un'altra riflessione su questa fonte di purificazione: Sapete cosa serviva al popolo dell'alleanza mosaica per purificare i sacerdoti prima di poter entrare nel Monte del Tempio? Avevano bisogno delle ceneri di una giovenca rossa. Oggi molti ebrei investono tempo e denaro per cercare nel mondo una giovenca rossa. Ne hanno effettivamente trovata una, in Texas, negli Stati Uniti. Questa mucca è stata acquistata per milioni e portata in Israele. Molti evangelici hanno sostenuto finanziariamente questa impresa.
  Non sto dicendo che sia una cosa buona. Perché no? Come seguaci di Cristo, la nostra missione è condividere la buona novella, non affrettare il ritorno di Gesù. Alcuni dei miei amici americani che hanno investito in questo progetto hanno detto: “Vogliamo affrettare il ritorno di Gesù”. Sapete cosa ho risposto? “È già abbastanza forte, non ha bisogno di aiuto”. Il nostro compito è trasmettere la buona notizia di Gesù.
  Così le vacche rosse sono in Israele. Un professore che conosce la Bibbia ha pubblicato su Internet un intero trattato su come queste mucche dovrebbero essere sacrificate e le loro ceneri utilizzate. Le ceneri devono essere mescolate con l'acqua per purificare i sacerdoti in modo che possano entrare nel tempio. Ma in quel giorno, quando Cristo tornerà, non avremo più bisogno di vacche rosse. L'ombra sarà passata e sarà arrivata la realtà. A volte possiamo parlare con condiscendenza degli ebrei che lavorano e investono in queste cose. Ma io conosco alcuni di loro. Sono molto seri nella loro fede. Forse si deve arrivare a questo. Forse verrà costruito un altro tempio. Ma è sbagliato per i cristiani investire tempo e denaro in queste priorità.
  Eppure in quel giorno ci sarà una sorgente. Tutta l'idolatria che raggiunge il suo apice con l'Anticristo sarà eliminata. Il vero Re regnerà e tutto sarà purificato.
  Che cosa significa tutto questo per noi oggi? Come seguaci di Cristo, siamo chiamati soprattutto per la missione del Vangelo: parlarne a tutti sulla terra. “Io infatti non mi vergogno del vangelo di Cristo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e del Greco poi” (Romani 1:16).
  È importante capire che questo non significa che gli ebrei siano più intelligenti, più belli o più importanti. Si tratta piuttosto dell'ordine del regno di Dio. In Deuteronomio 7 vediamo che Dio, nella sua provvidenza, ha chiamato il popolo d'Israele in modo speciale. Ma come nazione ha mancato questa chiamata. Ma il compito di Israele non è ancora finito. Dio ha ancora un profondo peso per Israele e la sua parola si compirà.
  In Romani 11:14-15, Paolo dice: “... se in qualche modo posso provocare la gelosia dei miei connazionali e salvare alcuni di loro. Infatti, se il loro rifiuto [ha prodotto] la riconciliazione del mondo, che cosa produrrà la loro accettazione se non la vita dai morti?”.
  Alcuni chiedono: “Qual è il piano per Israele dopo il Rapimento?”. Altri dicono: “Voglio organizzare la mia volontà in modo che continui ad avere effetto dopo il Rapimento”. Ma cosa fare dopo il Rapimento? Devo dare istruzioni a un avvocato ebreo non credente e sperare che non diventi credente per poter attuare i miei piani? Non so cosa accadrà. Ma posso dirvi cosa significa per noi l'adempimento della profezia biblica: dovrebbe darci un senso di urgenza, spingendoci a diffondere la buona novella. Godiamo di una grande libertà. Nessuno ci perseguita, nessuno ci impedisce di farlo. In Israele è lo stesso: possiamo stare ovunque per strada e parlare di Cristo. Tutto ciò che facciamo è legale al 100%. Questo non significa che piaccia a tutti, ma è permesso.
  Il tempo è breve. Prego che Dio sia ancora paziente, che questo tempo di libertà duri in modo da poter raggiungere ancora molte persone con il Vangelo. Ci sono molti modi per benedire Israele, ma il modo migliore, quello che siamo chiamati a fare come cristiani, è benedire Israele con Gesù.

(Nachrichten aus Israele, gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Stati Uniti: approvati due nuovi pacchetti di armi a Israele

di Sarah G. Frankl

Venerdì il Dipartimento di Stato ha informato il Congresso di aver approvato la vendita a Israele di 6,75 miliardi di dollari in bombe, kit di guida e spolette, oltre a 660 milioni di dollari in missili Hellfire.
“Gli Stati Uniti sono impegnati per la sicurezza di Israele ed è fondamentale per gli interessi nazionali degli Stati Uniti assistere Israele…”, ha affermato in una nota la Defense Security Cooperation Agency (DSCA) degli Stati Uniti.
Questo pacchetto di armi è solo l’ultimo approvato dal presidente Donald Trump allo scopo di rafforzare le scorte di armi di Israele. Subito dopo il suo insediamento, ha revocato il blocco dell’invio di bombe da 2.000 libbre destinato allo Stato Ebraico.
Secondo il Dipartimento di Stato, venerdì sono state inviate al Congresso due vendite separate. Una è per 6,75 miliardi di dollari in una serie di munizioni, kit di guida e altre attrezzature correlate.
Include 166 bombe di piccolo diametro, 2.800 bombe da 500 libbre e migliaia di kit di guida, spolette e altri componenti di bombe e attrezzature di supporto. Tali consegne inizieranno quest’anno.
L’altro pacchetto di armi riguarda 3.000 missili Hellfire e relative attrezzature, per un costo stimato di 660 milioni di dollari.
La decisione è stata presa dopo la visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti per incontrare Trump.
Sotto l’ex presidente Joe Biden, gli Stati Uniti hanno fornito a Israele 17,9 miliardi di dollari in aiuti militari da ottobre 2023 fino a ottobre 2024. La cifra è circa sei volte il volume degli aiuti militari annuali di routine forniti da Washington a Gerusalemme.

(Rights Reporter, 8 febbraio 2025)

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Il palazzaccio di vetro

Ostaggi dell’Onu, il club dei dittatori. L’anno della gang “umanitaria” che vuole farla finita con Israele, da Guterres che giustifica Hamas fino a Volker Türk, l’alto commissario Onu per i diritti umani, che incriminò Israele di crimini di guerra e contro l'umanità solo un mese dopo il 7 ottobre.

di Giulio Meotti

Anneliese Dodds, ministro per lo Sviluppo del governo inglese, si è entusiasmata per il “ruolo vitale” che l’Unrwa svolge a Gaza e ha ordinato a Israele di lasciarla lavorare. Uno dei “ruoli” che l’agenzia dell’Onu ha svolto, consapevolmente o meno, è la fornitura a Hamas di strutture per privare un’ebrea britannica della sua libertà per quindici mesi. Emily Damari ha rivelato di essere stata tenuta prigioniera nelle strutture delle Nazioni Unite a Gaza in una telefonata al primo ministro britannico Keir Starmer. Damari gli ha raccontato di essere stata tenuta prigioniera nelle strutture dell’Onu dopo essere stata catturata negli attacchi del 7 ottobre, senza che le siano state fornite cure mediche, giusto una bottiglietta di disinfettante, nonostante fosse ferita alla gamba e avesse due dita in meno. Non sappiamo cosa Starmer abbia risposto, speriamo qualcosa del tipo: “Cosa? L’agenzia dell’Onu a cui ho appena dato milioni di sterline?”.
Prima un video del 7 ottobre che mostra un dipendente delle Nazioni Unite che mette il corpo di un israeliano, Jonathan Samerano, nel retro di un suv. Poi un’inchiesta del New York Times che rivela che un consulente scolastico dell’Unrwa a Khan Younis ha rapito una donna israeliana. Poi il corpo dell’ostaggio tedesco-israeliano Shani Louk che viene ritrovato (senza testa) in un edificio dell’Onu. La madre di Shani, Ricarda Louk, ha detto alla West tedesca: “Che un’organizzazione umanitaria fosse così coinvolta nel terrorismo è scioccante”. Poi Ditza Heiman, la nonna deportata a Gaza dal kibbutz Nir Oz, che ha rivelato di essere stata tenuta prigioniera da un insegnante dell’Onu: “Il terrorista che mi ha tenuto in ostaggio per 53 giorni lavorava come insegnante per l’Unrwa”. E quello che sappiamo non è ancora tutto, ma non è poco: il cadavere di Noa Marciano che è stato trovato vicino a un ospedale dell’Unrwa, Romi Gonen e Doron Steinbrecher che sono state trattenute in rifugi delle Nazioni Unite destinati ai civili, il quartier generale dell’Unrwa a Gaza che era sopra un centro di comando di Hamas, personale dell’Unrwa che è stato filmato mentre partecipava all’omicidio e al rapimento di israeliani il 7 ottobre e un membro che si è rivelato essere un comandante di Hamas. Non è ancora tutto, ma è più che sufficiente.
Appena un mese dopo il 7 ottobre, l’alto commissario Onu per i diritti umani, Volker Türk, diceva che Israele era già colpevole di “crimini di guerra e contro l’umanità”. Al suo ufficio ci è voluto un anno (novembre 2024) per citare Hamas. Inutile aspettare la Corte di giustizia dell’Onu, che indaga sulle accuse di “genocidio” a Israele e che ha dato la guida dell’organismo a un giudice libanese diventato poi premier del Libano, Nawaf Salam. La relatrice speciale delle Nazioni Unite, Francesca Albanese, ha detto a Emmanuel Macron che “le vittime (del 7 ottobre) non sono state uccise a causa del loro ebraismo, ma in risposta all’oppressione di Israele”. Il capo ad interim degli aiuti delle Nazioni Unite Joyce Msuya ci ha messo del suo: “L’intera popolazione palestinese nella Striscia di Gaza settentrionale è a rischio imminente di morire di malattie, carestia e violenza”. L’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), collegata all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, aveva previsto una carestia a Gaza tra marzo e luglio 2024. Una copertura stampa pazzesca ha seguito questa dichiarazione. Un secondo studio dello stesso Ipc, a giugno, non ha avuto alcuna copertura mediatica. Lo studio stavolta non interessava a nessuno. L’Ipc ha ammesso: “In questo contesto, le prove disponibili non indicano che sia in corso una carestia”.
Le Nazioni Unite hanno celebrato la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo con una mostra nell’atrio del loro edificio a New York, ma senza alcun riferimento alle vittime israeliane del terrorismo. D’altronde, “Hamas non è un gruppo terroristico per noi… è un movimento politico”, ha detto Martin Griffiths, sottosegretario generale per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti delle Nazioni Unite. In un’intervista a Sky News, Griffiths ha anche detto che Gaza è “peggio degli orrori dei Khmer Rossi” (un terzo della popolazione cambogiana sterminata).
Poi ci si è messa la “Commissione indipendente d’inchiesta sui territori palestinesi occupati e Gerusalemme est”, istituita dal Consiglio per i diritti umani e presieduta da Navi Pillay, sudafricana che nel 2020 ha firmato una petizione che invoca sanzioni contro “l’Israele dell’apartheid”. Un collega di Pillay, Miloon Kothari, indiano, nel 2022 ha detto: “Siamo sconfortati dai social che sono controllati in gran parte dalla lobby ebraica”. Kothari si è anche detto contrario al fatto che Israele sia membro dell’Onu.
“Fuck him”: così Tlaleng Mofokeng, relatrice speciale delle Nazioni Unite sul diritto alla salute, qualche settimana fa si è rivolta a Benjamin Netanyahu. Per due mesi dopo il 7 ottobre, i rappresentanti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile si sono rifiutati di incontrare le donne israeliane per sentire degli stupri di Hamas. Le Nazioni Unite decidono di celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: non una parola su Hamas. Alla relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, la giordana Reem Amsalem, ci sono voluti mesi per riconoscere che le donne israeliane erano obiettivi speciali dei terroristi. Amsalem ha però dichiarato che dal 7 ottobre “l’assalto alla dignità e ai diritti delle donne palestinesi ha assunto dimensioni nuove e terrificanti”. Per leggere due righe di Sima Bahous, anche lei giordana e direttrice di UN Women, ci sono volute le inchieste del New York Times, altrimenti era il silenzio.
Poi Pramila Patten, rappresentante delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, si è ritirata da una sessione in programma al Consiglio di sicurezza in cui avrebbe dovuto parlare degli ostaggi deportati a Gaza da Hamas. “Le proteste nei campus universitari sono state duramente represse”, ha affermato intanto la relatrice per la protezione del diritto alla libertà di opinione, Irene Khan, che da segretaria di Amnesty ebbe a definire Guantanamo “il Gulag del nostro tempo”. L’Onu è una gigantesca porta girevole.
Prendiamo l’ex funzionaria della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, Agnès Callamard, oggi segretaria di Amnesty International. O l’ex direttore dell’Unrwa, Pierre Krähenbühl, oggi direttore della Croce rossa internazionale (a novembre UN Watch ha pubblicato una sua foto a Beirut con alcuni capi delle organizzazioni terroristiche). O l’ex direttore dell’Unrwa, Filippo Grandi, oggi a capo dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati. Entrano ed escono dalle strutture dell’Onu per entrare in quelle delle ong che accusano Israele di “genocidio”.
Intanto il segretario generale dell’Onu, António Guterres, per il quale il 7 ottobre non era avvenuto “dal nulla”, ha incluso Israele nella lista nera dei paesi e delle organizzazioni che danneggiano i bambini nelle zone di conflitto. La lista, redatta da Virginia Gamba, comprende Isis, al Qaida, Boko Haram e l’unica democrazia del medio oriente. Intanto un altro rapporto delle Nazioni Unite dello scorso settembre dice che ci vorranno “350 anni” per riportare l’economia di Gaza al livello in cui si trovava nel 2022.
Chi dissente da questa campagna, è fuori. Lo scorso novembre, Guterres ha rifiutato di rinnovare il contratto della Consigliera speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio, la keniota Alice Wairimu Nderitu, perché si è rifiutata di definire “genocidio” la guerra di Israele a Gaza. Dopo aver partecipato all’80esimo anniversario della liberazione di Auschwitz, Nderitu ha deciso di raccontare la storia del suo controverso mandato all’Onu in un’intervista esclusiva alla Free Press. Nderitu aveva viaggiato nei campi profughi in Bangladesh e Iraq; in Serbia, Montenegro e Bosnia ed Erzegovina per valutare l’entità della negazione del genocidio; e in Ciad, per valutare il rischio per le varie popolazioni del Darfur in Sudan. Poi arrivò il 7 ottobre 2023. Nderitu condanna i crimini di Hamas. Quella notte, un funzionario dell’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite inviò a Nderitu un’email, inviata in copia a diversi alti funzionari, tra cui l’alto commissario delle per i diritti umani e il sottosegretario generale per gli affari umanitari (a febbraio 2023, quel sottosegretario avrebbe creato scalpore affermando, in un’intervista a Sky News, che “Hamas non è un gruppo terroristico per noi, è un movimento politico”). Il funzionario dell’Onu descrisse la dichiarazione di Nderitu come “unilaterale”, suggerendo che “potrebbe causare un rischio all’immagine delle Nazioni Unite come organismo indipendente, neutrale e imparziale”. Così avrebbero ottenuto la testa dell’unica relatrice dell’Onu che non si è bevuta la propaganda di Hamas.
Dal 7 ottobre, il Consiglio di sicurezza ha adottato non meno di quattordici risoluzioni sul medio oriente. Sette riguardano l’obbligo di combattere la minaccia che il terrorismo rappresenta per la sicurezza globale, escluso ovviamente il terrorismo palestinese. Nessuna di queste risoluzioni menziona il 7 ottobre, i terroristi palestinesi, Hezbollah o l’Iran. Le altre sette risoluzioni affrontano direttamente il “conflitto armato” fra i terroristi e Israele, ma non il fatto che i terroristi sono coloro che quel conflitto lo hanno iniziato. L’Assemblea generale ha approvato a larga maggioranza le risoluzioni del 27 ottobre e del 13 dicembre che chiedevano un cessate il fuoco immediato che avrebbe lasciato Hamas armato e al potere. Gli Stati Uniti hanno posto il veto a due risoluzioni del Consiglio di sicurezza che chiedevano anch’esse un cessate il fuoco immediato. Nessuna di queste risoluzioni ha condannato gli attacchi di Hamas, ha menzionato il gruppo terroristico per nome o affermato il diritto di Israele all’autodifesa.
Nel 2024, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato diciassette risoluzioni su Israele e solo sei sull’intero resto del mondo, tra cui la Corea del Nord, l’Iran, la Siria, il Myanmar, la Russia per l’occupazione della Crimea e gli Stati Uniti per l’embargo su Cuba. All’Onu, Israele è il male. Nel 2024, su un totale di 23 risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che criticano paesi, 17 di esse, ovvero tre quarti, erano incentrate su un singolo paese, l’unico stato ebraico del mondo.
Dal 2015, l’Assemblea generale ha approvato 141 risoluzioni contro Israele, che è più del doppio del numero di risoluzioni di condanna rivolte a tutti gli altri paesi messi insieme. E il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (da cui Israele si è ritirato questa settimana) ha approvato 104 risoluzioni contro Israele, rispetto alle 99 contro altri paesi.
Capitava intanto che l’Iran venisse eletto alla “Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile e l’uguaglianza di genere”. Poi capitava che la Repubblica islamica fosse eletta alla presidenza del “Forum sociale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite”. Prima i membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu hanno osservato un minuto di silenzio per il defunto presidente iraniano, Ebrahim Raisi. Poi l’ambasciatore del Mozambico, che deteneva la presidenza di turno del Consiglio, ha chiesto ai membri di alzarsi in piedi per onorare Raisi. Poi c’è stata la bandiera a mezz’asta dell’Onu. Poi, il segretario Guterres è andato nella sede della delegazione iraniana, si è seduto al tavolo con le foto di Raisi e ha firmato il libro di condoglianze. Poi è stata la volta della vicesegretaria dell’Onu, Amina Mohammed, che ha anche pregato. Infine, l’Assemblea generale ha tenuto un incontro per rendere omaggio a Raisi. “Le Nazioni Unite sono un enorme club per dittatori”, afferma Thor Halvorssen, fondatore della Human Rights Foundation.
Osservando l’ultimo anno al Palazzo di vetro, dittature e islamisti sono al settimo cielo e iniziano a sognare: se soltanto tutto il mondo fosse come l’Onu, i nostri piani andrebbero decisamente più velocemente del previsto.

Il Foglio, 8 febbraio 2025)

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La sparata di Trump su Gaza e i riferimenti storici

Dalle migrazioni forzate in Europa dopo le guerre mondiali all’esilio di ebrei e palestinesi: un viaggio tra esodi, confini ridisegnati e popoli nell’altrove.

di Maurizio Stefanini

A fine 2015, secondo una stima dell’Ufficio centrale di statistica dello Stato di Palestina, nel mondo si contavano circa 12.370.000 palestinesi. Di questi, 6.220.000 vivevano ancora nei territori che facevano parte del mandato palestinese conferito all’Impero Britannico dopo la Seconda guerra mondiale, sebbene per lo più in sedi diverse da quelle dei loro antenati. Più precisamente, 4.750.000 abitavano in quello che l’Autorità nazionale palestinese considera lo Stato di Palestina, suddivisi in 2.900.000 in Cisgiordania e 1.850.000 nella Striscia di Gaza. Dieci anni dopo, quest’ultima cifra corrisponde alle circa due milioni di persone che Trump proponeva di trasferire altrove, al fine di trasformare il territorio in un resort. Inoltre, altri 1.470.000 palestinesi vivevano in Israele, dove godevano della cittadinanza, e 5.460.000 risiedevano in paesi arabi, soprattutto in Giordania, Siria e Libano. Infine, 685.000 palestinesi vivevano nel resto del mondo, tra cui, per esempio, il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, noto anche per la sua amicizia con Trump. E’ evidente, infatti, che mentre Bukele non è un rifugiato, la maggior parte di questa popolazione non possiede tale status. Al primo gennaio 2015, risultavano registrati dall’Unrwa 5.149.742 rifugiati palestinesi in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Striscia di Gaza, di cui molti risiedevano nei campi profughi.
E qui si presenta una prima particolarità. L’Agenzia dell’Onu per il Soccorso e l’Occupazione (Unrwa) fu istituita con una risoluzione l’8 dicembre 1949, in seguito all’emergenza della guerra arabo-israeliana del 1948. Successivamente, poiché nel mondo non esistevano soltanto i profughi palestinesi – e, per esempio, l’Italia stava ancora metabolizzando l’esodo di istriani, giuliani e dalmati – il 14 dicembre 1950 venne istituito anche l'Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati). Tuttavia, l’Unrwa non fu inglobata nell’Acnur, come sarebbe stato logico. Oltre a essere gestiti separatamente, i palestinesi godono di un ulteriore singolare privilegio: a differenza di altri rifugiati, il loro status si trasmette di padre in figlio.
Infatti, secondo le stime Onu, nel 1949 i rifugiati palestinesi ammontavano a 711.000, mentre quelli registrati dall’Unrwa nel 1950 erano 940.000. E’ una popolazione rilevante dal punto di vista numerico. Un primo confronto da fare è con gli ebrei che, dopo il 1948, furono espulsi dai paesi islamici: sorprendentemente, il loro numero si aggira attorno ai 900 mila. Per esempio, in Marocco la popolazione ebraica passò da 250-265.000 unità nel 1948 a 31.000 nel 1972 e a 2.100 nel 2019; in Algeria da 140 mila  a mille  e 50-200  nel 2021; in Libia da 35-38.000 a 50 e 0 nel 2014. Non tutte queste espulsioni derivarono da episodi di violenza: la Turchia, per esempio, rimase a lungo alleata di Israele, e in Marocco e Tunisia i governi cercarono di proteggere gli ebrei locali, seppure in un clima di ostilità nei confronti di Israele. Tuttavia, anche in tali contesti si osservò una generale pressione della società civile. Non tutti gli ebrei, infatti, si trasferirono in Israele: molti ebrei algerini preferirono la Francia. Complessivamente, 650.000 si trasferirono in Israele, 235.000 in Francia e il resto in altri paesi. Israele si impegnò così a reintegrare questi ebrei nella propria società, concedendo loro la piena cittadinanza.
I paesi arabi, invece, non integrarono i palestinesi nelle loro società, e persino dopo la sconcertante proposta di Trump, Egitto e Giordania si sono irrigiditi all’idea di accogliere i profughi della Striscia di Gaza. Per questo motivo, sebbene sia noto che dopo il 1948 vi furono 900.000 profughi palestinesi, per sapere che ci furono anche 900.000 profughi ebrei occorre essere specialisti in certi temi (o appartenere alla comunità ebraica).
Mentre l’espulsione degli ebrei dal mondo islamico seguì quella che i palestinesi definiscono la Nakba, precedette in una certa misura l’esilio dei giuliano-dalmati, commemorato il 10 febbraio come Giorno del Ricordo, che coinvolse tra 235 e 350 mila  persone. Tale dramma fu, in realtà, peggiore di quello subito dai palestinesi per due motivi: in primo luogo, i censimenti del 2001-2002 registrarono, per esempio, 2.259 italiani in Slovenia e 19.636 in Croazia, evidenziando una percentuale molto più elevata della popolazione interessata; in secondo luogo, mentre l’esodo istriano-dalmata fu un fenomeno unilaterale, la presenza di circa 900 mila palestinesi esuli da Israele e di altrettanti ebrei esuli dai paesi arabi rappresenta uno scambio di popolazione. In termini crudi, mentre nel primo caso è necessario reperire risorse per accogliere i fuggiaschi, nel secondo ciascuno potrebbe, in teoria, ospitare chi è stato cacciato dalle proprie case.
Poco più di un secolo fa, ciò fu formalizzato nella Convenzione riguardante lo Scambio delle popolazioni greca e turca, siglata a Losanna il 30 gennaio 1923 dai governi di Atene e Ankara. Tuttavia, lo scambio non fu paritario: furono trasferiti in Grecia 1.221.489 cristiani ortodossi provenienti dall’Asia minore, dalla Tracia Orientale, dal Ponto e dal Caucaso, mentre solo 355-400.000 musulmani furono inviati in Turchia dalla Grecia. Sebbene, in teoria, la Turchia di Kemal fosse una repubblica laica in cui si imponeva una laicizzazione forzata in stile occidentale, in pratica l’identificazione etnica avveniva in base alla religione, e non alla lingua. In Grecia furono così trasferiti anche i Karamanli – almeno 100.000 cristiani ortodossi della Cappadocia di lingua turca, che però scrivevano in caratteri greci – mentre in Turchia furono inviati i musulmani cretesi, di lingua greca. Naturalmente, i primi vennero grecizzati e i secondi turchizzati, ponendo fine a culture plurisecolari. Con ciò terminò anche quella presenza, durata oltre 2.500 anni, dei Greci in Asia minore e a Costantinopoli. In una Grecia che all’epoca contava circa sei milioni di abitanti, questo flusso di fuggiaschi, pari a un quarto della popolazione, ebbe un impatto che in parte perdura tuttora, contribuendo in particolare a dare origine a una sinistra massimalista rimasta radicata nel paese. A oggi, persino squadre di calcio come l’Aek di Atene o il Paok di Salonicco mantengono l’identità degli espulsi. 
Un altro scambio di popolazione avvenne nel 1947 tra India e Pakistan, dopo la partizione dei due paesi e della guerra che ne seguì per delimitare i confini. Circa 14,5 milioni di persone si spostarono da territori in cui sarebbero stati minoranza a quelli in cui sarebbero stati maggioranza. In particolare, il censimento pachistano del 1951 individuò 7.226.000 persone provenienti dall’India, mentre il censimento indiano registrò 7.295.980 persone provenienti dal Pakistan. Apparentemente si trattava di un impatto paritario, ma, in realtà, poiché l’India contava allora 330 milioni di abitanti e il Pakistan solo 60, il fenomeno ebbe un peso maggiore in quest’ultimo. Conosciuti come Muhajir – termine che richiama l’egira compiuta da Maometto – i profughi in Pakistan erano mediamente di ceto professionale e culturale più elevato. Ancora oggi, contraddistinti dall’uso della lingua urdu anziché da quella punjabi, sindhi, beluchi o pathan dei locali, costituiscono spesso un’élite dirigente, in netto contrasto con l’immagine proletarizzata dei Greci dell’Asia Minore.
Un modello ancora diverso fu quello della Polonia, che, dopo la Seconda guerra mondiale, perse territori a est a favore dell’Urss, guadagnandone invece a ovest a spese della Germania. In sostanza, lo “scambio” fu finalizzato a sistemare gli sfollati dall’Armata Rossa in case e città sgomberate dai tedeschi. Non solo: il 9 settembre 1944, il governo polacco filocomunista, istituito a Lublino dall'Armata Rossa in contrapposizione al governo filo-occidentale in esilio a Londra, firmò tre accordi con le Repubbliche sovietiche di Ucraina, Bielorussia e Lituania per scambiare, secondo i nuovi confini, circa un milione di ucraini e 160.000 bielorussi con 1,1 milioni di polacchi e ebrei dall’Ucraina, 150.000–250.000 dalla Bielorussia e 150.000-200.000 dalla Lituania. Questi 1,5-1,6 milioni di polacchi furono poi sistematicamente insediati nei cosiddetti “Territori Recuperati”, precedentemente appartenuti alla Germania, da cui erano stati espulsi i tedeschi. Nel 1947, con la cosiddetta Operazione Vistola, furono risistemati anche 141.000 ucraini considerati irrimediabilmente anti-sovietici.
Quanti tedeschi furono cacciati dai Territori Recuperati? Uno studio del 2005 dell’Accademia Polacca delle Scienze stima che, alla fine della guerra, 4-5 milioni di tedeschi fuggirono seguendo la Wehrmacht in ritirata; 4,5-4,6 milioni rimasero, ma entro il 1950 circa 3.155.000 furono espulsi in Germania. Inoltre, 1.043.550 divennero cittadini polacchi e altri 170.000 poterono restare in Polonia come cittadini tedeschi. Una stima ufficiale redatta in Germania occidentale nel 1953 indicava che, nel 1945, vi fossero 5.650.000 tedeschi all’interno dei nuovi confini polacchi, di cui 3.500.000 furono successivamente espulsi e 910.000 rimasero, oltre a due milioni di vittime civili; tuttavia, nel 1974 una nuova stima ufficiale della Brd ridusse quest’ultima cifra a 400.000.
Altri 4,5 milioni di tedeschi furono espulsi dalla Cecoslovacchia, dove rimasero in 250 mila, considerati essenziali per l’economia; 233.000 furono espulsi dall’Ungheria; in Romania la popolazione tedesca scese da 786.000 a 400.000 unità; mentre in Jugoslavia diminuì da 500.000 a 82.000. Complessivamente, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il numero totale di tedeschi espulsi si attesterebbe tra 13,5 e 16,5 milioni, con un bilancio di vittime che varia tra 500.000 e tre milioni.
Riguardando un numero minore di persone, ma con un peso relativo maggiore, va ricordata la pulizia etnica subita dagli ebrei durante la Shoà: su 9.689.500 ebrei presenti in Europa prima del conflitto, ne morirono 5.594.623. Nel 1945, nel territorio del Mandato di Palestina, vivevano 605.000 ebrei, mentre al momento dell’indipendenza nel 1948 il numero salì a 716.000. Il grande flusso di superstiti del genocidio ebbe inizio successivamente. Tuttavia, insieme agli ebrei, il nazismo sterminò anche un numero di zingari stimato tra 130.000 e un milione e mezzo. Durante la Seconda guerra mondiale, dai tedeschi furono uccisi anche tra 1,8 e 3 milioni di polacchi, mentre in Jugoslavia, tra il 1941 e il 1945, gli Ustascia croati uccisero tra i 248.000 e i 548.000 serbi ed ebrei, e i Cetnici serbi causarono la morte tra i 47.000 e i 68.000 bosniaci e croati. Questi conti in sospeso riaffiorarono mezzo secolo dopo, durante la guerra di secessione jugoslava, quando tra il 1992 e il 1995 i serbi uccisero tra i 31.000 e i 62.000 bosniaci.
Anche questa è una differenza importante, tra alcune identità nazionali che sembrano mantenere i conti in sospeso nel corso dei secoli, e altre che invece decidono di superare il passato. Nel caso di Germania e Italia ciò è dovuto soprattutto al senso di colpa percepito per le aggressioni commesse dai regimi nazista e fascista. Naturalmente, alcune recriminazioni persistono, ma mentre gli ebrei espulsi dai paesi arabi sono stati accolti in Israele, anche i profughi giuliani, istriani e dalmati sono stati reintegrati nella società italiana. Se, come i palestinesi, fossero stati trattenuti in campi profughi al confine per mantenere una rivendicazione, probabilmente anche a 80 anni di distanza potremmo assistere a una Organizzazione per la Liberazione dell’Istria che, da Trieste e Gorizia, sparasse missili contro Zagabria e Lubiana.
Ma il regime che probabilmente detiene il record storico di deportazioni è quello sovietico. Una lista praticamente ininterrotta che inizia nel 1920 con la deportazione di 45.000 cosacchi; poi, successivamente, i kulak, i finlandesi dell’Ingria, i tedeschi e polacchi in Ucraina, i coreani nell’Estremo oriente.  Dopo la guerra furono deportati  tedeschi, ungheresi, ucraini, polacchi e 400 mila fra giapponesi e coreani. E’ importante ricordare che, durante la deportazione dei ceceni, tra il 23,5 e il 50 per cento della popolazione fu sterminata, mentre quella dei tatari di Crimea subì una riduzione stimata tra il 18 e il 46 per cento. 
Sempre nell’Urss staliniana si verificò l’Holodomor, un genocidio per fame che, tra il 1932 e il 1933, provocò la morte di 3-5 milioni di persone, pari ad almeno il 10 per cento della popolazione ucraina. Purtroppo, la Russia ex sovietica non ha ricevuto il minimo riconoscimento per le responsabilità del proprio passato, a differenza di Germania o Italia. Il risultato è che questo passato ritorna in modo drammatico, come dimostra l’aggressione putiniana all’Ucraina, durante la quale sono stati uccisi tra i 10.000 e i 40.000 civili e 307.000 bambini ucraini sono stati illegalmente deportati in Russia.

Il Foglio, 8 febbraio 2025)

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Pensiero stupendo

di Niram Ferretti

Nessuno era preparato martedì scorso ad ascoltare alla Casa Bianca quello che Donald Trump ha detto in conferenza stampa alla presenza di Benjamin Netanyahu. Netanyahu ne aveva avuto sentore prima ma non aveva il quadro completo. Non ha importanza, ciò che conta è che gli ascoltatori non sapessero, che il mondo intero non sapesse.

Scossa tellurica
  Quello che ha detto Trump è noto, ed è stato dirompente. Ha detto che la popolazione di Gaza deve lasciarla, che il luogo non è più idoneo alla sua permanenza, che la cosa migliore per i circa due milioni di gazawi è di trovare accoglienza altrove. Gaza sarà ricostruita senza di loro, Gaza ha il potenziale di diventare un luogo ambito per il turismo. Perché questo accada bisognerà che essa sia ricostruita sotto tutela americana. A questo punto il fiato dei presenti era già corto.
  Le parole di Trump hanno suscitato immediato sdegno e fatto gridare ai benpensanti che si tratta di pulizia etnica, che i gazawi non possono e non devono essere sradicati dalla loro terra (che in realtà non gli appartiene affatto). Gli Stati arabi, l’Unione Europea, la Russia, la Cina, hanno trovato la proposta inaccettabile, e soprattutto, a trovarla inaccettabile è stato Hamas. E come potrebbe trovarla accettabile l’organizzazione terroristica integralista islamica artefice del 7 ottobre? Perché ciò che Trump ha dichiarato sottende che Hamas, a Gaza non ci sarà più, e insieme a Hamas non ci sarà più la popolazione che Hamas lo ha votato entusiasticamente nel 2005, e di cui esso è un prodotto, la popolazione innocente, impregnata di antisemitismo, di odio per Israele.
  No, ha inteso dire Trump spazzando via di un colpo solo il feticcio dello Stato palestinese di cui Gaza dovrebbe idealmente fare parte, non si può avere uno Stato palestinese con queste caratteristiche, e Gaza è stata, è, dal 2005, un mini modello di Stato palestinese. Occorre pensare a un’altra soluzione e occorre che questa diversa soluzione sia chiara anche agli arabi, soprattutto ai riluttanti Egitto e Giordania, che senza i miliardi di aiuti americani affonderebbero.
  Trump ha sbattuto in faccia all’ipocrisia araba che il problema “palestinese” che loro hanno alimentato e forgiato non può più trovare soluzione al vecchio modo, quello di ricattare Israele come ha fatto la Lega Araba dal 1952 quando consigliò i paesi arabi di posporre gli sforzi per riallocare i rifugiati palestinesi conseguiti alla guerra del 1948-49, demandando all’ONU di produrre risoluzioni su risoluzioni relative al loro ritorno. L’UNRWA li ha  quindi moltiplicati esponenzialmente.
  La verità è che gli arabi, i cosiddetti rifugiati palestinesi e i loro discendenti, li hanno sempre trattati come espatriati a vita, collocandoli permanentemente in campi, sottomettendoli a uno status di inferiorità in modo da poterli usare come accusa nei confronti di Israele. Non esistono rifugiati a seguito della Seconda guerra mondiale. I diciotto milioni di tedeschi che furono espulsi dall’Europa dell’Est non hanno trovato accoglienza in campi profughi e il loro status non è stato esteso alla loro discendenza. Il falso problema dei rifugiati palestinesi sarebbe già stato risolto da mezzo secolo se solo gli arabi se ne fossero preso carico, ma hanno preferito fare altro, usarli come ricatto contro Israele con il beneplacito di buona parte del mondo occidentale.

Enclave antisemita
   Gaza è una enclave di radicalismo islamico antisemita, governata da sedici anni da una formazione estremista che considera tutta la Palestina ex mandataria, una proprietà islamica.
  Quale altro Stato al mondo tollererebbe ai suoi confini una entità simile a Gaza, dove cova un odio totale nei suoi confronti e dove i bambini, fin dai primi anni, vengono istruiti a considerare gli abitanti di quello Stato demoni che vanno eliminati?
  La risposta è semplice. Nessuno.
  Dunque non c’è niente di sconcertante nell’idea di spostare altrove questa popolazione, che, attenzione, non si dice, non si trova su un territorio che le appartiene di diritto.
  Gaza, come la Cisgiordania non è “palestinese”, ovvero non appartiene agli arabi, ma, esattamente il contrario, venne assegnata agli ebrei dal Mandato Britannico per la Palestina del 1923. Solo a Israele, tra tutti gli Stati al mondo, viene imposto di accettare una situazione simile.
  Gli arabi hanno tentato di distruggere Israele dal 1948 in poi. Ce ne sono centinaia di migliaia che sono integrati e fanno parte del tessuto sociale e culturale del Paese e non desiderano distruggerlo, ma quelli che desiderano farlo perché dovrebbero restare?
  Trump non è mosso da queste considerazioni, ma da motivi sostanzialmente umanitari, dislocare altrove, in luoghi più abitabili chi non ha più una casa, chi si trova a dovere affrontare un luogo diventato inospitale e invivibile per molti.
  In realtà dovrebbe dire che Hamas è la sua popolazione, perché Hamas è un prodotto islamico esattamente come il nazismo fu un prodotto tedesco, vanno messi in condizione di non nuocere più al principale alleato americano in Medio Oriente.
  Uno Stato ebraico con una purulenza antisemita al proprio interno dovrebbe essere bonificato da quest’ultima.

Il futuro e gli ostacoli
   Ci vorranno dai dieci ai quindici anni per ricostruire Gaza, ha dichiarato Steven Witkof, l’inviato per il Medio Oriente che Trump ha scelto e che il quindici gennaio ha di fatto obbligato Netanyahu ad accettare un accordo con Hamas, quello stesso accordo che per quindici mesi, Netanyahu aveva respinto.
  Va detto con chiarezza, quell’accordo noi de L’Informale lo abbiamo trovato mefitico, perché ha consentito a Hamas di intestarsi la vittoria. Cedere ai terroristi è sempre una sconfitta anche quando si tratta di liberare degli ostaggi, significa dargli potere, forza. Sappiamo quale è la ragione che ha spinto Trump a chiederlo, per poterselo intestare. Questo accordo ci ha spiazzato e ora siamo di nuovo stati spiazzati, Trump ha giocato una nuova carta, inaspettata e più dirompente della prima. Questa carta ci piace assai di più, ma sappiamo anche che perché si possa trasformare in realtà bisogna superare molti ostacoli. Ciò nonostante non si può non apprezzare la sua portata rivoluzionaria. Ci si è forse già dimenticati di come fu rivoluzionaria la decisione di Trump, otto anni fa, di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele spostandovi l’ambasciata americana, o di decidere di tagliere i fondi all’UNRWA, o di esautorare l’Autorità Palestinese da ogni ruolo negoziale e quindi di persuadere gli Emirati ad accettare un accordo diplomatico con Israele? Sedicenti esperti predissero che a seguito della decisione di spostare da Tel Aviv a Gerusalemme l’ambasciata americana e di proclamare Gerusalemme la capitale di Israele, il Medio Oriente sarebbe andato in fiamme. Non ci fu neanche una fiammella.
  Qui il passo è ulteriore, e più ampio. Trump ha la forza politica di poterlo imporre se sarà determinato a farlo. Questo comporta, in primis, la fine di Hamas e dunque concedere a Israele di riuscirci, cosa che l’Amministrazione Biden gli ha impedito durante tutta la guerra, ma affinché questo accada è necessario che la guerra possa riprendere e che Hamas sia sconfitto. Trump dovrebbe dunque fare marcia indietro sul suo desiderio di avere tutti gli ostaggi liberati, a meno che di non lasciarsi andare a un eccesso di onirismo e pensare che prima Hamas li rilasci tutti e poi si faccia eliminare.
  L’altro aspetto del problema riguarda il mezzo con cui Trump obbligherà Egitto e Giordania e altri paesi arabi a farsi carico di una popolazione radicalizzata. La leva economica è quella fondamentale, senza sussidi americani e appoggio politico, Egitto e Giordania si troverebbero in grave difficoltà, ma basterà a convincerli?
  Lo sfollamento dei gazawi necessita la presenza capillare di Israele sul territorio, non il suo ritiro progressivo, come stabilisce l’accordo in corso, quindi, di fatto lo interrompe, e mette in mora il rilascio degli ostaggi rimanenti e le loro vite. Trump sarà disposto ad accettare questo rischio e a passare dal ruolo di chi ha voluto l’accordo a quello di chi lo ha interrotto?.
  Gli interrogativi restano inevasi. Di nuovo, per potere attuare ciò che Trump ha annunciato, il suo “pensiero stupendo”, la guerra deve riprendere, Hamas deve essere sconfitto e Israele deve potere avere il controllo del territorio, se no si resta prigionieri dello scenario magico.

(L'informale, 7 febbraio 2025)
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Il merito di Trump sta nel fatto di aver scartato con decisione l'obsoleta soluzione impossibile dei "Due stati l'uno accanto all'altro ecc." e di averne affiancata un'altra ancora più impossibile ma nuova, e profondamente diversa, anzi opposta. Ed è questo che la rende interessante, anche a chi forse avrebbe soltanto voglia di gridare a tutta voce che è un'enorme boiata, ma si trattiene perché... non si sa mai. Il pericolo della sparata trumpiana sta nel fatto che il politicamente corretto potrebbe riprendere a dire con maggior forza che se di questo tipo pazzoide sono le alternative, la proposta più "sensata" resta quella ereditata dalla recente tradizione: "Una terra per due popoli che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza. Amen". Dopo di che Israele resta nei guai, ma questo è normale.

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Moldavia: inaugurata l’ambasciata israeliana

“Un paese amico”, ha affermato il ministro Sa’ar

di Michael Soncin

“Questo è un momento storico che segna una pietra miliare nelle relazioni tra i paesi. La Moldavia è un paese amico di Israele. La nostra politica sarà quella di rafforzare le relazioni con i nostri amici. Stiamo potenziando le nostre relazioni oggi e lo stiamo facendo con grande gioia”. Parole del ministro israeliano degli esteri Gideon Sa’ar in occasione della cerimonia di apertura della nuova sede.
Presenti, oltre a Sa’ar, anche il vice primo ministro e ministro degli affari esteri della Moldavia Mihai Popșoi. È la prima ambasciata di Israele ad aprire in Moldavia. Prima di allora Israele aveva un ambasciatore non residente in Moldavia.
Già dal 1994 la Moldavia ha un’ambasciata in Israele. L’indipendenza della Moldavia è stata riconosciuta dallo Stato Ebraico nel 1991 e l’anno successivo si sono stabilite le relazioni diplomatiche tra i due paesi.
L’apertura della sede dell’ambasciata israeliana in Moldavia, nella sua capitale, Chisinau, coincide con la chiusura di quella presente in Irlanda, decisione che sarebbe avvenuta, secondo il ministro Israel Katz, in seguito alle “politiche estreme anti-Israele”.
Come si legge dal Times of Israel, Sa’ar durante l’evento ha anche incontrato, Maia Sandu, la presidente della Moldavia, invitandola a visitare Israele.

In Moldavia uccisi 200.000 ebrei durante la Shoah
  Il ministro israeliano Sa’ar ha ricordato il pogrom del 1903 avvenuto nella capitale moldava e i tragici episodi durante il nazifascismo. Gli esperti hanno constatato che durante la Shoah circa 200.000 ebrei che vivevano in Moldavia persero la vita. In seguito, Sa’ar ha ringraziato la Moldavia per avere riconosciuto “questo doloroso periodo della storia e per ciò che ha fatto per garantire che quegli eventi non venissero dimenticati”.

Chi è il nuovo ambasciatore
  Joel Lion, l’ambasciatore rappresenterà Israele, ha riferito che in Moldavia negozi e supermercati hanno già fatto scorta nei magazzini di prodotti israeliani. “Queste sono piccole cose che dimostrano che esiste un buon rapporto. Questo è un paese amichevole, la gente qui ci ama”.
Inoltre, ha detto che la Moldavia potrebbe diventare una meta turistica molto importante per i turisti israeliani. È di circa 70.000 il numero degli ebrei che dalla Moldavia sono immigrati in Israele. “C’è un potenziale enorme qui per relazioni straordinarie con un paese che si sta dirigendo verso l’Unione Europea”.

(Bet Magazine Mosaico, 7 febbraio 2025)

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L’antisemita felice

Henryk Broder: “Tredici attacchi al giorno in Germania, ormai non si nascondono più”. In Germania ci sono zone vietate agli ebrei, in quanto non sicure. Le autorità tedesche devono mettere un argine al dilagante antisemitismo, altrimenti si rischia una catastrofe!

di Giulio Meotti

ROMA - In Germania nel 2024 ci sono stati più di 5.100 reati antisemiti. Una media di tredici al giorno. Lo afferma il ministero federale dell’Interno in risposta a una inchiesta della deputata di sinistra Petra Pau. Il commissario federale contro l’antisemitismo, Felix Klein, ha messo in guardia sul Rheinische Post contro una “normalizzazione dell’antisemitismo” in Germania. “L’odio verso gli ebrei sta diventando più frequente, più veemente e più spudorato, e si verifica in tutti gli ambiti della società. La vita ebraica in questo paese è ora più a rischio che in qualsiasi altro momento dai tempi della Shoah”. “Per la prima volta nella storia tedesca, gli antisemiti non si nascondono più” dice al Foglio Henryk Broder, 78enne ebreo tedesco, autore di bestseller, uno dei giornalisti più celebrati di Germania che scrive una rubrica per la Welt.
  “La situazione attuale è il risultato delle politiche degli ultimi anni, ovvero l’accoglienza di tutti” continua Henryk Broder al Foglio. “Non c’è mai stato un tempo in Germania senza antisemiti, ma ora è socialmente accettabile essere antisemita. Karl Lagerfeld lo aveva detto con una semplicità geniale: ‘Non puoi uccidere sei milioni di ebrei e poi portare nel paese milioni dei loro peggiori nemici’. Non sono stato io a inventare il termine ‘antisemitismo importato’, ma l’ho reso popolare nel 2014 in un articolo sul quotidiano Bild. Naturalmente, a quel tempo si negava con veemenza che esistesse un simile antisemitismo. Ora le cose sembrano diverse. Abbiamo importato antisemiti che sono molto orgogliosi di essere antisemiti. Siamo all’happy hour antisemita e ogni weekend ci sono manifestazioni contro gli ebrei e Israele. Non si nascondono più sotto il tavolo, sono fieri. Importiamo energia che non produciamo più e importiamo antisemiti. Al governo sono serviti dieci anni per ammetterlo”.
  Berlino, Amburgo, Monaco, Stoccarda: nelle principali città tedesche ormai si parla apertamente di “zone vietate agli ebrei”, dove un ebreo non dovrebbe farsi riconoscere. “E’ pericoloso farsi vedere come ebreo in pubblico” dice Broder. “A Stoccarda, la comunità ebraica ha pubblicato una newsletter per i fedeli: ‘Non andate in certe aree della città’. Ci sono zone vietate. Milleduecento persone assassinate in Israele in un solo giorno e cosa succede dopo? Non orrore per l’antisemitismo, ma lo scoppio della più grande ondata di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale”.
  Intanto proseguono le manifestazioni, quasi quotidiane, contro Israele. “Nelle manifestazioni devo dire che la percentuale di tedeschi nativi è relativamente bassa, ma Hamas è molto popolare. Gran parte dei manifestanti sono arabi e palestinesi che cercano di sfruttare il senso di colpa tedesco. Hanno manifestato anche davanti al nostro ministero degli Esteri gridando ‘liberate Gaza dal senso di colpa tedesco’. Capito? Non siate più in colpa per la Shoah e aiutateci a eliminare Israele. Stanno facendo un appello a un sentimento popolare per cui Hamas può finire il lavoro interrotto nel 1945. Stanno dicendo: ‘Finiremo il problema ebraico in medio oriente e in Europa’. Attualmente nel mondo ci sono quattordici milioni di ebrei. Nella sola Mumbai vivono oltre venti milioni di persone. Ma a quanto pare la gente è infastidita da quei quattordici milioni. Il mondo ha un problema con gli ebrei. Semplicemente perché esistono. Non so perché, ma a quanto pare il mondo ha un conto in sospeso con gli ebrei. Il lavoro abbandonato a metà del 1945 deve essere portato a termine. Questa volta in Palestina, ‘dal fiume al mare’. Laddove ai tempi del nonno e della nonna si gridava, ‘fuori gli ebrei, in Palestina!’, oggi si dice ‘fuori gli ebrei dalla Palestina!’”.
  Molti mettono in dubbio che in futuro ci sarà ancora una vita ebraica in Europa. Conclude Broder: “Ci sarà ancora una vita ebraica in Europa, ma gli ebrei saranno relegati in certe zone e ci saranno ancora comunque i religiosi che si sacrificheranno, mentre i laici lasceranno. La domanda è: per dove? In Francia? La situazione è persino peggiore. A Tel Aviv? Questa è la catastrofe del 7 ottobre: l’altra parte ha visto che Israele può essere sconfitto. Ecco perché sono estremamente preoccupato. Forse molti ebrei torneranno a est: Cracovia, Praga, Budapest, Breslavia. I luoghi della Shoah, dove oggi sono molto più al sicuro. L’ironia della storia?”.

Il Foglio, 7 febbraio 2025)

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Una guerra totale?

Tre giorni fa abbiamo riportato in traduzione un articolo molto interessante del direttore di “Israel Heute” dal titolo “Vittoria totale ed eternità”, ancora visibile su questa pagina. A commento abbiamo scritto: se ne riparlerà. Per mantenere la promessa ho segnalato l’articolo all'ebreo messianico Kirill Swiderski, di cui abbiamo riportato pochi giorni fa un articolo, chiedendogli se fosse disposto a commentarlo. Kirill, che conosco da anni e di cui sono stato il traduttore delle sue predicazioni in Italia, da buon amico mi ha inviato prontamente il suo commento e oggi ne riporto la traduzione. C’è da aspettarsi che farà crescere ancor di più il numero e il volume delle discussioni sullo scottante tema, in campo ebraico come in quello cristiano. Grazie Kirill. M.C.

di Kirill Swiderski

Per noi ebrei messianici è molto difficile discutere la situazione in Israele con i nostri fratelli e sorelle non ebrei. Da buoni cristiani ci si aspetta che non prendiamo le armi e trattiamo i cosiddetti palestinesi con comprensione e amabilità. Il problema è che noi ci associamo del tutto a Israele. Anche se non viviamo in Israele, ci consideriamo comunque israeliani e ci associamo completamente a questo Paese. E c'è un motivo per questo. Il motivo è l'antisemitismo. Lo abbiamo sperimentato fino in fondo. Soprattutto noi ebrei dell'ex Unione Sovietica. Sappiamo cosa significa vergognarsi di essere ebrei. Per questo Israele è il nostro orgoglio, la nostra unica casa su questa terra.
  Se un ladro entra in casa tua, caro non ebreo, che tu sia cristiano o no, quanto meno chiami la polizia. Da noi invece ci si aspetta che trattiamo il ladro con misericordia e che gli diamo tutto quello che ha cercato di rubare. No, noi difenderemo la nostra casa. Netanyahu è il leader ebreo eletto della nostra casa. Quando i non ebrei lo criticano, noi lo difendiamo. Questo non significa che noi stessi non possiamo criticarlo. Noi lo possiamo, ma voi è meglio che non lo facciate, altrimenti diventiamo vostri nemici.
  Non dimenticherò mai la donna ebrea che abbiamo incontrato in Israele nel 1996. Ci parlò con orgoglio di suo figlio, non perché fosse laureato in medicina o in legge, ma perché era morto per difendere la sua patria. E noi abbiamo capito il suo orgoglio. Mi fece venire le lacrime agli occhi il fatto che mentre io avevo prestato servizio per due anni nell'esercito sovietico, perdendo praticamente due anni della mia vita, suo figlio era morto per difendere il mio Israele.
  Israele è il compimento della promessa di Dio. Israele non è nato grazie a sionisti coraggiosi o perché Stalin ha deciso all'ultimo momento di sostenere la creazione di uno Stato ebraico alla sessione ONU del 1947. Israele è nato nonostante tutto questo. Israele è nato perché il nostro Dio è un Dio fedele. Non è che noi ebrei, compresi gli ebrei messianici, ce lo siamo meritato. Non si tratta di questo! Il Signore Dio fa del bene a Israele non a causa nostra, ma a causa sua: “Io, io sono colui che cancella i vostri crimini per amor mio e non ricorderò i vostri peccati.” (Isaia 43:25). Noi ebrei messianici crediamo che questo Stato sia l'ultimo nella storia di Israele. Yeshua verrà qui per governare il mondo da qui per 1000 anni.
  Noi trattiamo bene i non ebrei che sostengono Israele, che credano o no in Gesù. Se sono cristiani, probabilmente leggono la Bibbia e credono nella Parola di Dio. Se non sono cristiani, è un miracolo. Li apprezziamo, perché abbiamo pochi amici. Ecco perché Trump viene accolto con favore da noi, anche se pochi di noi credono che le sue incredibili idee possano essere realizzate; perché le norme internazionali non tengono mai conto degli interessi degli ebrei. Ma ci siamo abituati.
  Però ci è permesso di sognare, e a volte ne viene fuori qualcosa. I nostri lontani antenati sognavano di lasciare l'Egitto, ed è accaduto. I nostri nonni hanno sognato il loro Stato ebraico, ed è nato. Noi sogniamo che un giorno Israele sarà il luogo più sicuro del mondo. E lo sarà. Un giorno l’Ebreo verrà lì. Siederà sul trono ebraico del suo antenato, il re Davide, e governerà il mondo in modo molto ebraico. Di conseguenza, ci sarà la pace. Pace ebraica. I nemici di Israele saranno sconfitti da Lui con il “metodo della verga di ferro”. A confronto, la “vittoria totale di Netanyahu” o la trasformazione della Striscia di Gaza nella “spiaggia americana dopo Trump” sembreranno un gioco da ragazzi.

(Notizie su Israele, 7 febbraio 2025)

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Regno Unito: un’inchiesta svela l’odio verso gli studenti ebrei

di Nathan Greppi

Gli studenti ebrei nelle università del Regno Unito hanno affrontato numerose aggressioni, minacce di attentati e accuse di essere “assassini di bambini” a causa della crescente ostilità nel campus, secondo un’inchiesta condotta dal giornale Jewish Chronicle. Il 45% degli intervistati in un sondaggio informale su oltre 200 studenti ebrei nei campus di tutta la Gran Bretagna ha dichiarato di aver subito atti di antisemitismo. L’indagine, condotta tra dicembre 2023 e gennaio 2024 in collaborazione con la Union of Jewish Students (UJS), principale organizzazione in rappresentanza degli studenti ebrei nel Regno Unito e in Irlanda, ha portato alla luce un volume inquietante di incidenti gravi.

Episodi salienti
  Una studentessa di infermieristica del secondo anno all’Università di Liverpool ha detto di aver paura di camminare da sola nel campus dopo essere stata abusata da degli studenti mascherati per aver pranzato con il rabbino dell’università. La studentessa è stata chiamata “fottuta ebrea” e “assassina di bambini” dopo che le immagini del suo incontro con il rabbino sono state pubblicate online con l’etichetta “gli ebrei di Liverpool”. Ha denunciato questi fatti all’università, ma poiché le persone coinvolte si erano coperte il volto con la kefiah, le autorità le hanno detto che non potevano aiutarla.
Kit Boulton, uno studente della University of East Anglia, è stato chiamato “kike” (termine dispregiativo per indicare gli ebrei, ndr) mentre lavorava in un bar. Alla Royal Holloway dell’Università di Londra, uno studente che indossava la kippah è stato aggredito quando un uomo ha fermato la sua auto ai margini del campus e ha urlato: “Vai a farti fottere”. Lo studente ha smesso di indossare la kippah per sicurezza, “anche se questo riguarda tanto il modo in cui mi sentivo fuori dal campus con pregiudizi antisraeliani, quanto nel campus”, ha detto.
All’Università di Bristol, lo studente ebreo Rafael Mansoor è stato aggredito in una discoteca dagli studenti dell’accampamento universitario pro-Palestina. “Hanno iniziato a chiedermi delle mie opinioni (su Israele) e sono diventati sempre più aggressivi. Non ho dato alcuna risposta netta, e poi mi hanno gettato un drink in faccia e hanno iniziato a tirare pugni. Uno mi ha colpito intorno al lato della testa e al sopracciglio. Ho avuto una protuberanza rossa sul viso”, ha detto Mansoor.
In un altro incidente segnalato al Jewish Chronicle, uno studente di storia del secondo anno alla Royal Holloway ha deciso di smettere di frequentare il suo gruppo di amici del primo anno dopo essere stato etichettato come “ebreo sionista” e averli sentiti fare battute sull’Olocausto per provocarlo. Mentre una studentessa ebrea all’Università di Bristol è stata schernita dalla sua coinquilina per il suo “naso ebreo” e il suo “stupido cervello ebreo”, e un’altra studentessa della stessa università ha detto che la sua coinquilina faceva battute offensive su Anne Frank e la Shoah.
Sempre a Bristol, una studentessa di lingue moderne ha svolto il suo anno all’estero a Siviglia dal 2023 al 2024. Dopo il 7 ottobre, il suo professore ha chiesto se c’erano studenti ebrei nella sua classe: “Sentivo il peso dei miei antenati che mi dicevano di essere orgogliosa della mia eredità, così ho alzato la mano”. Dopodiché, il docente si è riferito a lei come alla “ragazza ebrea” o “la judía” e l’ha interrogata sulla sua famiglia in Israele”. Tornata a Bristol per il suo quarto anno, ha cercato aiuto, ma il suo tutor le ha detto che le loro diverse opinioni sul sionismo facevano sì che lui non potesse aiutarla. “Ho lasciato i servizi di sostegno sentendomi ancora più sola. […] La solitudine mi ha portato a un crollo nervoso e sono dovuto tornare a casa per un po’”.

Prima del 7 ottobre
  Sebbene la maggior parte degli incidenti segnalati si siano verificati dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e l’inizio della guerra a Gaza, alcuni risalivano a molto tempo prima. Nel 2022 una studentessa dell’Università di Swansea, nel Galles, ha trovato della pancetta attaccata alla porta della sua stanza all’università. “L’ho presa subito e l’ho gettata nel cestino. Non volevo causare problemi. Alla gente di quell’appartamento, non piacevo  ero isolata”, ha detto.
Una studentessa dell’Anglia Ruskin University ha detto di essere stata affrontata da tre studenti per la sua collana con il Magen David. Uno di loro ha detto che “preferirebbero non essere circondati da persone come me”. Alla Queen Mary University di Londra, una commemorazione per il primo anniversario dell’attacco di Hamas del 7 ottobre è precipitata nel caos quando centinaia di studenti hanno assaltato il raduno. Portavano striscioni che inneggiavano alla “intifada studentesca globalizzata”. Uno studente ebreo ha ricordato: “Ci hanno circondato, cantando e gridando. La folla ha iniziato a gridare ‘Chiudili’. La situazione è diventata così grave e si è incitata così tanta violenza che la sicurezza ha dovuto scortarci via”.
Alcuni studenti israeliani hanno subito l’ostilità nei campus. Una studentessa dell’Università del Kent ha ricordato di aver detto a un coetaneo di essere israeliana, al che lui ha risposto che, secondo lui, Israele non esiste. “A volte, esito a dire alla gente da dove vengo”, ha detto la studentessa.
Uno studente del primo anno di scienze politiche all’Università di Nottingham è rimasto senza parole quando il suo seminario includeva un dibattito formale su Hamas. Alla fine della discussione, gli studenti hanno votato se “questa Camera (la nostra classe) abbraccia o condanna Hamas”. Lo studente ha detto: “Sono rimasto scioccato. Come studente ebreo, mi ero sentito relativamente al sicuro, ma questo è partito dai docenti. Sembrava che stessero minimizzando il 7 ottobre, riducendolo a un dibattito in classe. È stato sconvolgente”. Un altro studente, all’Università del Sussex, ha detto che il loro professore ha sollevato la guerra in una lezione e “ha ripetutamente detto che la cultura israeliana ed ebraica è omicida e malvagia”.
Alcuni studenti hanno detto che la “cartina di tornasole” per l’accettazione nel campus ora ruota attorno al sionismo, con il sostegno allo Stato ebraico sempre più equiparato al nazismo. Uno studente del Rose Bruford College di Bexley ha detto che i manifesti nel campus “definivano il sionismo razzista e velenoso”. Uno studente dello University College di Londra (UCL) ha riferito di essersi sentito dire che “gli ebrei stanno uccidendo palestinesi innocenti”, mentre a un altro è stato detto da un coetaneo che “odiava i sionisti e che Israele non dovrebbe esistere”.
Una studentessa della Nottingham Trent University ha dichiarato che durante una discussione della loro associazione studentesca su Israele nell’aprile 2024, è stata definita una “simpatizzante e ritardata nazista”. La studentessa ha aggiunto: “Sono stata presa di mira perché ero aperta sul fatto di essere ebrea. Mi sento isolata quando si presentano dibattiti, spesso mi viene chiesta la mia opinione perché sono ebrea”, ha detto.

(Bet Magazine Mosaico, 7 febbraio 2025)

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L'epopea di un ebreo polacco nell'Europa sconvolta dall'odio

La storia di Kurt Rosenberg offre una sintesi della rete di fattori che scatenarono la persecuzione degli ebrei tra le due guerre mondiali. Una storia "piccola" che illumina la storia "grande", per cogliere le radici e la persistenza dell'antisemitismo.

di Eugenio Capozzi

Le rievocazioni della Shoah in occasione della Giornata della memoria tendono troppo spesso a ridursi a pure evocazioni sentimentali e retoriche, in cui lo sterminio degli ebrei europei da parte del nazismo appare quasi come un'esplosione di follia, un'assoluta quanto quasi disumana manifestazione del Male. Ma il Male, che alberga nella natura umana e irrompe nella storia, è pienamente comprensibile soltanto attraverso ricostruzioni storiche che portino alla luce la rete, spesso complessa, di fattori in cui esso prende forma. Nel caso della Shoah, soltanto la contestualizzazione di vicende concrete in uno scenario definito e documentato può favorire una consapevolezza piena delle radici dell'antisemitismo, e quindi anche della sua persistenza nel mondo attuale.
Un caso esemplare, in tal senso, ci è dato ora dalla pubblicazione di un avvincente racconto biograficoTutto iniziò da quel finestrino. La storia di Kurt Rosenberg, di Ugo Rosenberg (Edizioni Croce). In esso l'autore traduce, completa e arricchisce di preziose notizie il memoriale autobiografico del padre, ebreo polacco nato a Wadowice nel 1919, in cui si narra della sua avventurosa fuga dai tedeschi e dai sovietici attraverso l'Europa durante la seconda guerra mondiale: una fuga conclusasi in Italia, dove Kurt si arruola nella divisione polacca delle truppe alleate e combatte contro i tedeschi fino alla fine del conflitto, e dove rimarrà a vivere il resto della sua vita.
La vicenda privata di Kurt Rosenberg rappresenta una utilissima cartina di tornasole della situazione in cui si svilupparono la persecuzione e lo sterminio degli ebrei nell'Europa centro-orientale.
Prima della guerra la famiglia Rosenberg vive tra Wadowice e la vicina Bielsko: città in cui si trovano fianco a fianco polacchi, ebrei e tedeschi. La pressione del nazismo dalla vicina Germania aveva portato alla nascita di un movimento filo-nazista, al quale faceva da contraltare un partito nazionalista polacco, ad esso accomunato dall'antisemitismo. Quando, dopo il patto Ribbentrop-Molotov, la Germania invade la Polonia occidentale, i Rosenberg fuggono a Leopoli, allora polacca, ma popolata di una cospicua minoranza ucraina. Entro pochi giorni però la città, come tutta la parte orientale del Paese, viene invasa dalle truppe sovietiche. Kurt, nella sua memoria, nota come tra gli ucraini del luogo fossero diffusi sentimenti nazionalisti, e come essi sperassero di essere "liberati" invece dai tedeschi.
La situazione descritta nel volume evidenzia tre elementi fondamentali alla base dell'esplosione dell'antisemitismo in tutta l'area, che si vanno sommando tra loro. In primo luogo, l'antisemitismo cronico latente in tutto il mondo germanico e slavo, pronto a riacutizzarsi quando compare qualche nuovo fattore "irritante". In secondo luogo, la crescita dei nazionalismi e micro-nazionalismi etnici in regioni in cui la convivenza secolare è andata di pari passo con grandi linee di frattura nei conflitti internazionali tra potenze. Infine, la pressione delle ideologie e dei regimi totalitari – il comunismo sovietico e il nazismo in Germania – che enfatizzano e strumentalizzano fino a un punto di rottura insanabile tutti i conflitti già esistenti.
È in questo quadro che può essere adeguatamente compresa l'accelerazione drammatica degli eventi intorno alla famiglia Rosenberg.
Il padre di Kurt, ufficiale di riserva dell'esercito polacco, viene prelevato dalle truppe sovietiche, e se ne perdono le tracce. Molto tempo dopo, si saprà che è stato una delle decine di migliaia di vittime del massacro delle fosse di Katyn.
Per sfuggire alla deportazione in Urss Kurt si dà alla fuga. Nei mesi e anni successivi la sua vita si trasforma in un drammatico gioco dell'oca di "salti" da un angolo all'altro del continente; una partita a scacchi angosciosa in cui la posta in gioco è la sua vita, e in cui in ogni quadrato della scacchiera viene immediatamente messo sotto scacco, costringendo a ulteriori, concitate mosse che sembrano non aver mai fine.
Ogni Paese in cui il giovane cerca rifugio diventa ben presto pericoloso per l'espandersi del conflitto e dell'occupazione tedesca: dalla Romania alla Serbia, alla Croazia. In particolare poi la Serbia, che sembrava a Kurt e ad altri amici ebrei polacchi il possibile punto di partenza di un trasferimento verso la Palestina, si rivela un vicolo cieco, perché i britannici ostacolano in ogni modo l'emigrazione ebraica verso la regione dell'ex impero ottomano di cui sono amministratori mandatari per non inimicarsi gli arabi dell'area. Migliaia di ebrei che speravano di salvarsi in quel modo rimangono così prigionieri a Sabac, e saranno poi massacrati dai tedeschi. Questa storia nella storia fornisce illuminanti elementi di riflessione, dunque, anche sulle origini della questione mediorientale che esploderà nel dopoguerra.
La salvezza di Kurt e dei suoi amici, paradossalmente, arriva proprio da un Paese "nemico": l'Italia, in cui essi giungono attraverso la Slovenia: scelta come destinazione per disperazione perché, nonostante fossero in vigore le leggi antisemite del fascismo, almeno la persecuzione degli ebrei non si spingeva fino alla violenza e allo sterminio. Con l'ausilio, comunque, di documenti falsi, i polacchi in fuga vengono confinati nel 1941 in un paesino dell'Abruzzo. E quando, dopo l'8 settembre del 1943, le truppe tedesche invaderanno anche il nostro Paese, un'ultima rocambolesca fuga li porterà a passare il fronte, e a incontrare l'esercito alleato. Alla fine della guerra i giovani scopriranno che gran parte dei familiari e amici rimasti in Polonia sono morti nei campi di sterminio.
Una storia "piccola" che illumina la storia "grande", dicevamo sopra. Ogni vita individuale nel corso degli eventi conta, e rappresenta nella sua vicenda particolare una sintesi irripetibile delle grandi forze in gioco, del loro contrastarsi e comporsi. Il "lieto fine" della fuga di Kurt non cancella la grande tragedia della Shoa, ma segue ed evidenzia le tappe di quella vera "discesa agli inferi" che è stata la "guerra civile europea", come la definì Ernst Nolte: cioè la spirale mortale di politica cieca di potenza, odi etnici, parossismi ideologici, razzismi che ha segnato tra il primo e il secondo conflitto mondiale il collasso di quell'Europa la quale, solo pochi decenni prima, aveva potuto essere definita la heartland, il centro egemone del mondo intero. 

(La Nuova Bussola, 7 febbraio 2025)

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Lechaim! È made in Israel uno dei migliori vini del mondo

di Jacqueline Sermoneta

Tra i migliori vini del mondo ce n’è uno israeliano. A renderlo noto ‘Wine Spectator’, una prestigiosa rivista americana del settore, che ha inserito nella top 100 del 2024 White Label Judean Hills 2021, un vino prodotto dall’azienda israeliana Flam, situata sulle colline della Giudea, vicino a Gerusalemme.
  L’autorevole rivista, che posiziona White Label al 95esimo posto, lo elogia per il suo “nucleo pieno di sapori di ribes rosso, mora, fiori secchi e terra polverosa. Mostra una spina dorsale di grafite che concentra l’attenzione e conduce al palato rotondo e lussureggiante. – prosegue – Offre dettagli di liquirizia nera, legno di melo grigliato, anice e fumo che si manifestano nel finale, incorniciati da tannini a grana fine”.
  Nel 2023, il mercato del vino in Israele è stato valutato 1,6 milioni di dollari. Si prevede che raggiungerà un valore stimato di 2,5 milioni di dollari entro il 2093.
  “È emozionante vedere il nostro nome accanto ai grandi nomi delle aziende vinicole di tutto il mondo che ho sempre ammirato”, ha detto a Ynet Gilad Flam, uno dei proprietari dell’azienda vinicola. “Come appassionato di vino, sono abbonato a questa rivista e ora siamo nella lista dei migliori vini del mondo. Ero solito seguire queste liste e per tutta la mia vita ho sognato di assaggiare alcuni dei vini segnalati”, ha detto. “Ma la cosa davvero notevole è che queste liste includono sempre vini della Borgogna, del Piemonte e della Napa Valley, importanti regioni vinicole a cui il mondo intero guarda. … Non è scontato vedere un vino israeliano in questa lista”.
  “White Label 2021 – ha affermato l’azienda in un comunicato – incarna la filosofia di vinificazione dell’enologo Golan Flam, che enfatizza finezza e precisione, rendendo omaggio al frutto e al terroir. La sua etichetta pulita e minimalista consente al vino di parlare da solo, con la sua qualità ottenuta attraverso una dedizione senza compromessi all’eccellenza, in ogni fase del processo di creazione”.
  Flam Winery è un’azienda nata nel 1998, come tenuta di famiglia in stile italiano. E non a caso, proprio dall’Italia – in maggior parte dalla Toscana, ma anche da Marche e Sicilia – provengono venti vini presenti nella lista di Wine Spectator.

(Shalom, 6 febbraio 2025)

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Parashat Beshallach. La musica, il linguaggio dell'anima - Mosaico

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Per la prima volta dalla loro partenza dall’Egitto, gli israeliti fanno qualcosa insieme. Cantano.
“Allora Mosè e i figli d’Israele intonarono questo canto al Signore”. (Esodo 15:1)
Rashi, spiegando l’opinione di Rabbi Nehemiah nel Talmud, secondo cui cantarono spontaneamente il canto insieme, dice che lo Spirito Santo si posò su di loro e miracolosamente le stesse parole gli vennero contemporaneamente in mente. In ricordo di quel momento, la tradizione ha chiamato questa settimana Shabbat Shirà. Il sabato del canto.
Qual è il posto del canto nell’ebraismo?
Esiste una connessione interiore tra la musica e lo spirito. Quando il linguaggio aspira al trascendente e l’anima desidera liberarsi dall’attrazione gravitazionale della terra, si modula nel canto. La musica, diceva Arnold Bennett (1867-1931 drammaturgo inglese) è “un linguaggio che solo l’anima comprende, ma che l’anima non può mai tradurre”. Nelle parole di Richter (1932-… pittore tedesco) è “la poesia dell’aria”. Tolstoj l’ha definita “la stenografia delle emozioni”. Goethe disse: “Il culto religioso non può fare a meno della musica. È uno dei mezzi principali per operare sull’uomo con un effetto di meraviglia”.
Le parole sono il linguaggio della mente. La musica è il linguaggio dell’anima. Quindi, quando cerchiamo di esprimere o evocare un’emozione, ci rivolgiamo alla melodia. Deborah (la profetessa) cantò dopo la vittoria di Israele sulle forze di Sisera (Giudici 5). Hannah cantò quando ebbe un figlio (I Samuele. 2). Quando Saul era depresso, Davide suonava per lui e il suo spirito si rinfrancava (1 Samuele 16). Davide stesso era conosciuto come il “dolce cantore d’Israele” (II Samuele 23:1). Eliseo chiamò un arpista a suonare affinché lo spirito profetico potesse riposare su di lui (II Re 3:15).
I Leviti cantavano nel Tempio. Ogni giorno, nell’ebraismo, precediamo le nostre preghiere mattutine con i Pesukei de-Zimra, i “Versetti del canto” con il loro magnifico crescendo, il Salmo 150, in cui strumenti e voce umana si uniscono per cantare le lodi di Dio.
I mistici vanno oltre e parlano del canto dell’universo, quello che Pitagora chiamava “la musica delle sfere”. È questo il significato del Salmo, quando dice: I cieli dichiarano la gloria di Dio, i cieli proclamano l’opera delle sue mani…”. Non c’è discorso, non ci sono parole, dove non si senta la loro voce. La loro musica si diffonde su tutta la terra, le loro parole fino alla fine del mondo. (Salmo 19)
Sotto il silenzio, udibile solo dall’orecchio interno, la creazione canta al suo Creatore.
Così, quando preghiamo, non leggiamo: cantiamo. Quando ci confrontiamo con i testi sacri, non recitiamo: cantiamo. Ogni testo e ogni momento ha, nell’ebraismo, la sua melodia specifica. Ci sono melodie diverse per Shacharit, Mincha e Maariv, le preghiere del mattino, del pomeriggio e della sera. Ci sono melodie e atmosfere diverse per le preghiere dei giorni feriali, dello Shabbat, delle tre feste di pellegrinaggio, Pesach, Shavuot e Succot (che hanno molto in comune dal punto di vista musicale, ma anche melodie distinte per ciascuna di esse), e per i Yamim Noraim, Rosh Hashanà e Yom Kippur.
Ci sono melodie diverse per testi diversi. C’è un tipo di cantillazione per la Torà, un’altra per le Haftarot dei libri profetici e un’altra ancora per i Ketuvim, gli Scritti, in particolare le cinque Meghillot. Esiste un canto particolare per lo studio dei testi della Torà scritta, per lo studio della Mishnah e della Ghemarà. Così, solo dalla musica possiamo capire che tipo di giorno è, e che tipo di testo si sta usando. C’è una mappa delle parole sacre, ed è scritta in melodie e canti.
La musica ha il potere straordinario di evocare emozioni. La preghiera Kol Nidrei con cui inizia lo Yom Kippur non è affatto una preghiera. È un’arida formula legale per l’annullamento dei voti. Non c’è dubbio che sia la sua antica e struggente melodia ad averle conferito la sua presa sull’immaginario ebraico. È difficile ascoltare queste note e non sentirsi alla presenza di Dio nel Giorno del Giudizio, in compagnia di ebrei di tutti i luoghi e di tutti i tempi che implorano il cielo per ottenere il perdono. È il Santo dei Santi dell’anima ebraica. (Lehavdil, Beethoven vi si è avvicinato nelle note iniziali del sesto movimento del Quartetto in do diesis minore opera 131, la sua composizione più sublime e più ricca di significato, superba e spirituale).
Non si può stare seduti a Tisha b’Av leggendo Echà, il Libro delle Lamentazioni, con la sua cantilena unica, e non sentire le lacrime degli ebrei attraverso i secoli, mentre soffrivano per la loro fede e piangevano ricordando ciò che avevano perso, un dolore recente come il giorno in cui il Tempio fu distrutto. Le parole senza musica sono come un corpo senza anima.
Per molti anni ho avuto il privilegio di far parte di una missione canora (insieme al Coro Shabbaton e ai cantanti Rabbi Lionel Rosenfeld e i chazzanim Shimon Craimer e Jonny Turgel). Abbiamo viaggiato in Israele per cantare alle vittime del terrorismo, così come alle persone negli ospedali, nei centri comunitari e nelle cucine. Abbiamo cantato per – e con – i feriti, le persone in lutto, i malati e le persone con il cuore spezzato. Abbiamo ballato con persone in sedia a rotelle. Un ragazzo che era rimasto cieco e aveva perso metà della sua famiglia in un attentato suicida, ha cantato un duetto con il membro più giovane del coro, facendo piangere le infermiere e i suoi compagni di stanza. Questi momenti sono epifanie, che riscattano un frammento di umanità e di speranza dalla crudeltà casuale del destino.
Beethoven scrisse sul manoscritto del terzo movimento del suo Quartetto in La minore le parole Neue Kraft fühlend, “Sentire nuova forza”. Questo è ciò che si percepiva in quelle corsie d’ospedale. Capite cosa intendeva il re Davide quando cantava a Dio le parole: “Hai trasformato il mio dolore in danza; hai tolto il mio sacco e mi hai rivestito di gioia, perché il mio cuore canti a Te e non taccia”. Uniti nel canto, è possibile sentire la forza dello spirito umano che nessun terrore può distruggere.
Nel suo libro Musicophilia, il neurologo e scrittore Oliver Sacks (che non è un parente, ahimè) racconta la toccante storia di Clive Wearing, un eminente musicologo che fu colpito da una devastante infezione cerebrale. Il risultato fu un’amnesia acuta. Non era in grado di ricordare nulla per più di qualche secondo. Come disse sua moglie Deborah, “era come se ogni momento di veglia fosse il primo”.
Incapace di mettere insieme le esperienze, era intrappolato in un presente infinito che non aveva alcun legame con tutto ciò che era accaduto in precedenza. Un giorno sua moglie lo trovò che teneva un cioccolatino in una mano e lo copriva e scopriva ripetutamente con l’altra mano, dicendo ogni volta: “Guarda, è nuovo”. Lei disse: “È lo stesso cioccolato”. “No”, rispose lui, “Guarda. È cambiato”. Non riusciva più a trattenere i ricordi. Aveva perso il suo passato. In un momento di autocoscienza disse di sé: “Non ho sentito nulla, non ho visto nulla, non ho toccato nulla, non ho annusato nulla. È come essere morti”.
Due cose hanno fatto breccia nel suo isolamento. Una era l’amore per la moglie. L’altra era la musica. Poteva ancora cantare, suonare l’organo e dirigere un coro con tutta l’abilità e la verve di un tempo. Cosa c’era nella musica, si chiede Oliver Sacks (1933-2015), che gli permetteva, mentre suonava o dirigeva, di superare l’amnesia? Suggerì che quando “ricordiamo” una melodia, ricordiamo una nota alla volta, ma ogni nota si riferisce all’insieme. Cita il filosofo della musica Victor Zuckerkandl (1896-1965), che ha scritto: “Ascoltare una melodia significa sentire, aver sentito ed essere sul punto di sentire, tutto insieme. Ogni melodia ci dichiara che il passato può essere presente senza essere ricordato, il futuro senza essere previsto”. La musica è una forma di continuità percepita che a volte riesce a rompere le disconnessioni più forti nella nostra esperienza del tempo.
La fede è più simile alla musica che alla scienza. La scienza analizza, la musica integra. E come la musica collega nota a nota, così la fede collega episodio a episodio, vita a vita, età a età in una melodia senza tempo che irrompe nel tempo. Dio è il compositore e il librettista. Ognuno di noi è chiamato a essere voce nel coro, cantori del canto di Dio. La fede ci insegna a sentire la musica sotto il rumore.
La musica è quindi un segnale di trascendenza. Il filosofo e musicista Roger Scruton (1944-2020) scrive che è “un incontro con il soggetto puro, svincolato dal mondo degli oggetti, che si muove in obbedienza alle sole leggi della libertà”. Cita Rilke (scrittore austriaco 1875-1926): Le parole vanno ancora dolcemente verso l’indicibile e la musica, sempre nuova, da pietre palpitanti
costruisce nello spazio inutile la sua casa divina.
La storia dello spirito ebraico è scritta nelle sue canzoni. Le parole non cambiano, ma ogni generazione ha bisogno delle sue melodie.
La nostra generazione ha bisogno di nuovi canti, affinché anche noi possiamo cantare con gioia a Dio come fecero i nostri antenati nel momento della trasfigurazione, quando attraversarono il Mar Rosso ed emersero dall’altra parte, finalmente liberi. Quando l’anima canta, lo spirito si eleva.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl

(Bet Magazine Mosaico, 7 febbraio 2025)
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Parashà della settimana: Beshalach (Fece partire)

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Il piano Trump per Gaza per cambiare la storia

di Luca Spizzichino

Un incontro all’insegna della sintonia, quello tra il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, con quest’ultimo che ha donato un cercapersone dorato, simbolo dell’operazione effettuata contro Hezbollah avvenuta a metà settembre, che, secondo fonti israeliane, sarebbe stata lodata da Trump.
  Nella conferenza stampa congiunta, Trump ha annunciato il progetto per la Striscia di Gaza secondo cui gli Stati Uniti ne dovrebbero assumeranno il controllo. L’inattesa dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti ha scatenato una serie di reazioni nel panorama politico israeliano. Durante un incontro nello Studio Ovale con il premier israeliano, Trump ha esposto la sua idea di trasformare Gaza in una “prospera oasi mediorientale”, con opportunità economiche significative, e ha ipotizzato la possibilità di ricollocare i civili gazawi in Paesi limitrofi disposti ad accoglierli.
  Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha elogiato le “idee fuori dai parametri tradizionali” di Trump, affermando che potrebbero “cambiare la storia”. Ha lodato il Presidente americano per aver detto “quel che altri rifiutano di dire” e ha sottolineato che la cooperazione tra Israele e gli Stati Uniti è fondamentale per la sicurezza e la stabilità della regione.
  Anche il leader dell’Unione Nazionale, Benny Gantz, ha accolto positivamente l’annuncio, definendolo “un’ulteriore prova della profonda alleanza tra Stati Uniti e Israele”. Ha inoltre elogiato l’approccio “creativo e interessante” di Trump, sottolineando che le sue idee devono essere valutate in relazione agli obiettivi della guerra e al ritorno degli ostaggi.
  Il presidente di Yisrael Beytenu, Avigdor Liberman, ha ringraziato Trump per il suo “impegno assoluto per la sicurezza di Israele” e per la sua determinazione nell’eradicare il regime di Hamas in cooperazione con l’Egitto. Ha anche elogiato la sua fermezza contro le minacce iraniane.
  Il ministro della Diaspora e della Lotta all’Antisemitismo, Amichai Chikli, ha definito le dichiarazioni di Trump un “terremoto geopolitico” che sovverte il paradigma degli accordi di Oslo e rimescola le carte sul futuro di Gaza e del conflitto israelo-palestinese. Chikli ha attribuito questa svolta politica alla leadership di Netanyahu, auspicandone la realizzazione. Anche la ministra dei Trasporti, Miri Regev, ha elogiato l’incontro tra Trump e Netanyahu, definendolo un momento storico che inaugura “un nuovo ordine mondiale”.
  Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha dichiarato che studierà attentamente il piano di Trump e ne discuterà con gli Stati Uniti durante il suo imminente viaggio a Washington. Ha sottolineato che il ruolo della leadership israeliana è quello di proporre piani, non solo di attendere quelli americani. Lapid ha anche insistito sull’importanza del completamento della seconda fase dell’accordo sugli ostaggi, criticando le dichiarazioni di Netanyahu sulla necessità di “schiacciare Hamas” dopo la fine dell’accordo.
  Anche il leader laburista Yair Golan ha enfatizzato che la priorità assoluta rimane la liberazione degli ostaggi, aggiungendo che la sicurezza di Israele e un’alleanza regionale forte devono essere il fulcro della strategia post-bellica.

(Shalom, 6 febbraio 2025)
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"Cambiare la storia" potrebbe, il progetto di Trump, dice Netanyahu. E giù lodi da ministri e politici israeliani di spicco. Approccio "creativo e interessante", osserva Benny Gantz; "terremoto geopolitico", aggiunge Amchai Chiklu; "un nuovo ordine mondiale" è stato inaugurato dall'incontro Trump-Netanyahu, sentenzia Miri Regev. E tutti a sottolineare la "profonda alleanza tra Stati Uniti e Israele" ancora una volta ribadita con le sue dichiarazioni dal Presidente americano, che Avigdor Liberman sentitamente ringrazia per il suo “impegno assoluto per la sicurezza di Israele”. Ma sono tutti impazziti? vien voglia di dire. Si intende: gli israeliani che si sono espressi. Osservazioni critiche sono state rivolte soltanto a Netanyahu, che secondo Yair Lapid avrebbe fatto male a ribadire la necessità di "schiacciare Hamas", mentre il leader laburista Yair Golan ha enfatizzato la "priorità assoluta" della liberazione degli ostaggi.
Il futuro più o meno prossimo che ci può aspettare guardando avanti è uno scivolamento più o meno rapido e rovinoso degli Stati Uniti dal loro posto di supremazia mondiale e il disonesto tentativo di rallentare questo declino trascinandovi dentro anche chi è presentato come il suo più prossimo alleato: Israele. M.C.

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Lo scenario magico

Il nuovo Medio Oriente prospettato da Trump ieri alla Casa Bianca in conferenza stampa davanti a un estasiato Netanyahu che ad ogni uscita del presidente lo guardava come un bambino goloso a cui vengano offerti dei dolciumi, è uno scenario che non sarebbe dispiaciuto al Mago di Oz.
Gaza, secondo Trump ormai un “demolition site” ha tutto il potenziale per trasformarsi in un magnifico resort, magari simile a Palm Beach.
Saranno gli Stati Uniti a gestirlo, magari, se necessario con l’assistenza di soldati americani. Perché questo avvenga sarà tuttavia necessario dislocare la popolazione, spingerla verso altri lidi, già individuati nell’Egitto e nella Giordania, o altrove, Stati che hanno già dichiarato la loro indisponibilità. Ma anche l’Arabia Saudita si è opposta al piano, sottolineando che l’unica opzione per un avvicinamento a Israele è uno Stato palestinese.
Steven Witkoff, da immobiliarista e inviato speciale di Trump in Medio Oriente, ha dichiarato che per ricostruire Gaza ci vorranno dai dieci ai quindici anni, quindi prima che possa attirare frotte di turisti nella sua veste rinnovata, l’Amministrazione Trump sarà già da tempo nel cestino della storia.
Al di là delle roboanti dichiarazioni di Trump, del suo scenario magico, nel quale Israele verrebbe liberato dalla minaccia islamica radicata a Sud, i problemi restano tutti sul tappeto. Alcuni appena evidenziati, ma il principale no, ovvero la presenza politica e militare di Hamas ancora persistente nella Striscia.
Netanyahu ha ribadito quello che dice da quindici mesi a questa parte, che gli obiettivi della guerra, la vittoria su Hamas e la liberazione degli ostaggi restano immutati, senza tuttavia spiegare come, soprattutto dopo che lo stesso Trump gli ha imposto un accordo con il gruppo jihadista.
C’è solo un modo per ottenere la vittoria, è lo stesso praticato dalle Termopili in avanti, ovvero quello di sconfiggere il nemico e di costringerlo alla resa, ma per ottenerlo occorre riprendere la guerra.
Eliminare Hamas, riavere gli ostaggi liberi, dislocare un milione e ottocentomila persone senza intoppi, e trasformare Gaza in un resort, assomiglia al canovaccio di una fiaba. Saranno le settimane a venire che ci diranno con certezza quale contorno assumeranno i fatti.

(L'informale, 6 febbraio 2025)

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Due terzi degli israeliani sono a favore della sovranità ebraica

GERUSALEMME - Due terzi degli israeliani sono favorevoli alla sovranità ebraica almeno in alcune parti della Giudea e della Samaria. Questo è il risultato di un recente sondaggio. Il 68% dei partecipanti si è detto favorevole alla sovranità in qualche forma. Di questi, il 25% vorrebbe il controllo israeliano sull'intera area. Un altro 20% si limita alla Valle del Giordano e alle comunità ebraiche circostanti. Il 10% ritiene corretta l'amministrazione ebraica dell'intera area con blocchi di insediamenti arabi. Un altro 10% ritiene che Israele debba essere sovrano solo nella Zona C.
  Per quanto riguarda i vantaggi della sovranità in Giudea e Samaria, la sicurezza e la stabilità regionale sono state citate più frequentemente: il 42% degli intervistati le considera decisive. Il punto dell'identità ebraica e del legame storico è stato condiviso dal 16% degli intervistati Un altro argomento è stato l'iniziativa del presidente statunitense Donald Trump (repubblicano) di incoraggiare l'emigrazione volontaria dei palestinesi dalla Striscia di Gaza. Questa iniziativa ha ricevuto il sostegno dell'80% degli israeliani intervistati. Il 10% è contrario o non ha espresso un'opinione.

Meno sostegno per uno Stato palestinese
  Ai partecipanti è stato chiesto anche di esprimere la propria opinione in merito alla creazione di uno Stato palestinese. L'approvazione è diminuita dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023. Complessivamente, il 71% degli intervistati si è detto contrario alla creazione di uno Stato. Il 59% di tutti gli intervistati aveva già questa opinione prima dell'attacco terroristico. Il 12%, invece, aveva precedentemente sostenuto la creazione di uno Stato palestinese.
  Allo stesso tempo, il 4% ha dichiarato di essere stato contrario prima del 7 ottobre e di aver cambiato opinione. Un altro 25% ha dichiarato di essere ancora favorevole alla creazione di uno Stato palestinese.
  Il 53% dei partecipanti rifiuta un accordo di pace con l'Arabia Saudita se la condizione è la creazione di uno Stato palestinese. In questo caso, il 39% sarebbe favorevole e l'8% non ha un'opinione.
  L'istituto “Direct Polls” ha condotto il sondaggio per conto delle organizzazioni “Movimento per la sovranità” e “Pulse of Israel”. I sondaggisti hanno intervistato 504 adulti il 29 gennaio. Il margine di errore è stato indicato nel 4,4%.

(Israelnetz, 6 febbraio 2025)

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Europarlamentari all’Onu: “UNRWA è da chiudere: ha contravvenuto a tutte le sue missioni”

di Ludovica Iacovacci

Un gruppo di 30 parlamentari europei provenienti da 14 Paesi, tra cui Francia, Spagna, Germania, Italia e Paesi Bassi, ha inviato una lettera al Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, chiedendo la rimozione dell’UNRWA come organismo ufficiale delle Nazioni Unite. 
La missiva esorta il Segretario generale delle Nazioni Unite a “porre fine alle operazioni dell’UNRWA, che contravvengono alla neutralità dell’Onu e arrecano grave danno al vostro lavoro essenziale e all’immagine dell’organizzazione che rappresentate”.
La lettera degli europarlamentari fa notare che l’agenzia delle Nazioni Unite “ha contravvenuto a tutte le sue missioni” consentendo al gruppo terroristico Hamas nella Striscia di Gaza “di nascondere ostaggi, il che è politicamente, moralmente e legalmente altamente riprovevole”.
I parlamentari europei propongono di trasferire le responsabilità sui rifugiati palestinesi all’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), ovvero l’agenzia che si occupa di tutti gli altri rifugiati a livello globale. Da decenni ormai gli analisti si domandano perché i palestinesi siano gli unici ad avere un’agenzia delle Nazioni Unite esclusivamente per loro, oltre ad interrogarsi sulla ratio della facile trasmissibilità dello status di “rifugiato” quando si tratta di un palestinese.
L’Unione Europea, attraverso i suoi 27 Stati membri, è il terzo maggiore donatore dell’UNRWA.
 L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Danny Danon, ha espresso sostegno alla richiesta dei parlamentari europei, affermando che “sostenere l’UNRWA significa sostenere Hamas” e criticando il Segretario Generale Guterres e il Commissario Generale Lazzarini per aver ignorato la situazione.
Le accuse di legami tra UNRWA e Hamas sono emerse da diverse fonti nel corso degli anni, con rapporti che suggeriscono una complicità attiva o passiva tra l’agenzia dell’ONU e il gruppo terroristico che governa Gaza. Israele ha più volte denunciato che scuole e strutture UNRWA sono state utilizzate da Hamas per immagazzinare armi e persino detenere ostaggi, come emerso nelle recenti testimonianze dei rapiti israeliani durante la loro prigionia a Gaza. Inoltre, indagini hanno rivelato che alcuni dipendenti dell’UNRWA sono stati direttamente coinvolti in attività terroristiche e hanno partecipato alla strage del 7 ottobre 2023.
L’ONU, pur negando un coinvolgimento istituzionale, ha avviato indagini interne, mentre Israele continua a chiedere la dismissione totale dell’UNRWA, ritenendola non più una semplice organizzazione umanitaria, ma uno strumento di Hamas per perpetuare il conflitto anziché risolvere la questione dei rifugiati palestinesi.
Chi sono i rifugiati palestinesi? Secondo l’Unrwa: “I rifugiati palestinesi sono definiti come “persone il cui normale luogo di residenza era la Palestina durante il periodo dal 1 giugno 1946 al 15 maggio 1948, e che hanno perso sia la casa che i mezzi di sussistenza a seguito del conflitto del 1948”. È bene specificare che la definizione di rifugiato palestinese dell’UNRWA non copre solamente le persone che hanno bisogno di assistenza ma si estende perfino ai discendenti delle persone “il cui normale luogo di residenza era la Palestina nel 1948”, indipendentemente dalla loro residenza nei campi profughi. Infatti, secondo l’Unrwa: “Anche i discendenti dei maschi rifugiati palestinesi, compresi i bambini adottati, possono essere registrati”. È per questa eccezionale facilità nell’acquisire lo status di rifugiato, riconoscimento dato solo ai palestinesi, che l’Unrwa dalla sua fondazione ha più che sestuplicato i suoi numeri, infatti sul suo sito si legge: “Quando l’Agenzia iniziò le operazioni nel 1950, stava rispondendo alle esigenze di circa 750.000 rifugiati palestinesi. Oggi, circa 5,9 milioni di rifugiati palestinesi hanno diritto ai servizi dell’UNRWA”.
Lo status di rifugiato palestinese, eccezionale nel suo genere, è l’unico al mondo ad essere ereditario. 
 

(Bet Magazine Mosaico, 6 febbraio 2025)

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Trani – I nuovi progetti per valorizzare l’antica Giudecca

di Adam Smulevich

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La Giudecca di Trani

Annota nel suo diario di viaggio Beniamino da Tudela, il rabbino esploratore che fu a Trani nel 1165: «In due giorni di viaggio arrivai a Trani, situata in riva del mare; grazie alla comodità del suo porto, Trani è luogo di raccolta dei pellegrini diretti a Gerusalemme; è una città grande e bella, abitata da circa 200 ebrei con a capo rabbi Eliah, rabbi Nathan il commentatore e rabbi Yaaqov».
  Le violenze della storia e poi gli editti di espulsione cinquecenteschi avrebbero posto fine a tale idilliaco affresco. E solo in anni recenti la sinagoga medievale Scolanova, trasformata in chiesa, è tornata all’uso originario. Caso forse unico al mondo, all’esterno dell’edificio convivono una Stella di Davide e una campana. «Ci troviamo nella Giudecca, il cuore della vecchia Trani ebraica. Pochi però, passeggiando tra quelle strade, ne sono davvero al corrente», sottolinea Renzo Funaro, architetto e vicepresidente della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia (Fbcei). È una consapevolezza da rafforzare e va in quella direzione l’evento “Progetto Trani ebraica” in programma la mattina di venerdì 7 febbraio nell’auditorium di un istituto tecnico cittadino, con la partecipazione tra gli altri dello stesso Funaro, del rabbino capo di Napoli Cesare Moscati, dello storico Giancarlo Lacerenza e dell’architetto Giorgio Gramegna, progettista della sezione ebraica del museo diocesano.
  Per il Comune sono previsti gli interventi tra gli altri del sindaco Amedeo Bottaro e della consigliera Irene Cornacchia. «Lo scopo è dare visibilità alla Giudecca, agendo attraverso un piano di segnaletica e cartellonista ad hoc. Vogliamo valorizzare il quartiere, la sua storia, i suoi luoghi sensibili. C’è tanto da conoscere e l’intenzione è di favorire la trasmissione di informazioni anche in digitale», spiega Funaro, che fa parte di un gruppo di lavoro istituito nel 2023 per far risaltare l’area «dal punto di vista culturale, turistico e architettonico».

La presentazione del logo
  Nel corso dell’evento sulla Trani ebraica sarà presentato il logo dell’iniziativa, «scelto da una commissione qualificata tra numerosi progetti». Il percorso, racconta Funaro, è stato condiviso «con le scuole e con le organizzazioni turistiche attive localmente», insieme ad altri soggetti interessati «a questa operazione di rilancio». Tutto, prosegue Funaro, è iniziato con la pubblicazione anni fa di un libro da parte di uno studioso tedesco: il professore di Storia del tardo medioevo e della prima modernità Benjamin Scheller. In Die Stadt der Neuchristen, «ha svolto una poderosa ricerca sulla presenza ebraica a Trani, individuando i luoghi di residenza e le collocazione delle varie attività commerciali; le sue mappe riportano nomi, mestieri e altre informazioni per ricomporre pezzi di quel mondo, attinte da uno studio negli archivi dell’arcivescovado».

(moked, 6 febbraio 2025)

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“Gli Stati Uniti assumeranno il controllo di Gaza”. Trump incontra Netanyahu e annuncia la svolta

di Ugo Volli

L’attesissimo incontro fra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è svolto ieri sera alla Casa Bianca di Washington in un’atmosfera particolarmente cordiale e si è concluso con una conferenza stampa comune. “Abbiamo avuto dei colloqui fantastici. Lei è il primo capo di stato straniero a visitare il Paese durante la nostra amministrazione”, ha esordito Trump, rivolgendosi direttamente a Netanyahu. Ha quindi parlato degli “Accordi di Abramo”, esprimendo la speranza di estenderli: “Credo davvero che molti paesi aderiranno presto a questa straordinaria occasione di pace e sviluppo economico. Penso che avremo molti che aderiranno molto rapidamente”.

Gaza
  “Nei nostri incontri di oggi, il Primo Ministro e io ci siamo concentrati sul futuro, discutendo su come possiamo lavorare insieme per garantire che Hamas venga eliminato e, in definitiva, riportare la pace in una regione molto travagliata”, ha detto Trump, che poi ha definito la Striscia di Gaza un simbolo di “morte e distruzione”, “un male” per le persone che gli stanno vicino, “e specialmente per coloro che ci vivono”. “È stato un posto sfortunato per molto tempo” che ” non dovrebbe passare attraverso un processo di ricostruzione e occupazione da parte delle stesse persone che hanno combattuto per essa, ci sono vissute, ci sono morte e hanno vissuto un’esistenza miserabile”. Trump ha ribadito il suo piano di trasferire i cittadini di Gaza in diversi luoghi dove saranno “in grado di vivere in comodità e pace”. “Non mi diranno di no. Voglio rimuovere tutti i residenti di Gaza. Succederà”. Trump ha dichiarato che altri paesi potrebbero accogliere i rifugiati di Gaza, ripetendo che i paesi musulmani “non rifiuteranno”. Ha aggiunto che ci sono “circa 1,8 milioni di persone a Gaza, e possono vivere tutte in un posto dove avranno una vita fantastica senza temere per la loro vita ogni giorno”. Ha aggiunto una novità importante, l’idea di un coinvolgimento diretto degli Usa nel governo della Striscia: “Gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza; li gestiremo, e saremo responsabili dello smantellamento di tutte le bombe pericolose e inesplose e di altre armi, e di sbarazzarci degli edifici distrutti, creando uno sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e alloggi per la gente della zona”. Secondo Trump, tutti quelli con cui ha parlato “amano l’idea che gli Stati Uniti amministrino Gaza”.

Arabia e cessate il fuoco
  Un’altra novità dichiarata da Trump è che per quel che gli consta l’Arabia Saudita non pone più come precondizione alla normalizzazione la costituzione di uno stato palestinese. Rispondendo a una domanda su questo tema Trump ha aggiunto: “Vogliono la pace in Medio Oriente. È molto semplice. Vogliono la pace in Medio Oriente”. Sul cessate il fuoco e l’accordo sugli ostaggi, Trump ha detto: “Non posso dirvi se il cessate il fuoco reggerà o meno. Abbiamo liberato un bel po’ di ostaggi. Ne faremo uscire altri, ma abbiamo a che fare con persone molto complicate. Speriamo che l’accordo regga”. Trump ha anche detto che ha in programma di visitare Israele, Gaza, Arabia Saudita e “altri posti in tutto il Medio Oriente”, anche se non ha specificato quando.

Il discorso di Netanyahu
  Netanyahu ha risposto a Trump: “Sono onorato che lei mi abbia invitato a essere il primo leader straniero a visitare la Casa Bianca nel suo secondo mandato. Questa è una testimonianza della sua amicizia e del suo sostegno allo Stato ebraico e al popolo ebraico. L’ho già detto, lo ripeto: lei è il più grande amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca. La sua leadership ha aiutato a riportare a casa i nostri ostaggi, tra cui cittadini americani, ha reso disponibili munizioni che erano state tolte a Israele nel mezzo di una guerra condotta su sette fronti per la nostra esistenza. Ha posto fine alle sanzioni ingiuste contro i cittadini israeliani rispettosi della legge. Ha affrontato coraggiosamente il flagello dell’antisemitismo. Ha tolto il finanziamento a organizzazioni internazionali come l’UNRWA che sostengono i terroristi e oggi ha rinnovato la campagna di massima pressione contro l’Iran. Tutto questo in sole due settimane. Riusciamo a immaginare dove saremo tra quattro anni?” Netanyahu ha poi sottolineato i risultati di Israele dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e ha sostenuto che “dobbiamo finire il lavoro”. Ha aggiunto rivolgendosi al presidente Usa: “Credo che la sua volontà di rompere il pensiero convenzionale, di pensare fuori dagli schemi con idee nuove, ci aiuterà a raggiungere tutti questi obiettivi. Lei vede cose che gli altri si rifiutano di vedere. Dice cose che gli altri si rifiutano di dire”. “Israele porrà fine alla guerra vincendola. La vittoria di Israele sarà la vittoria dell’America. Con la sua leadership, signor Presidente, e la nostra partnership, credo che forgeremo un futuro brillante per la nostra regione e porteremo la nostra grande alleanza a vette ancora più alte”.

Le conseguenze dei colloqui
  È presto per vedere le conseguenze dei colloqui dei due leader. Ma è chiaro che le ipotesi di un atteggiamento più distaccato della seconda amministrazione Trump rispetto alla prima, con l’imposizione possibile di un arresto della guerra non sono confermate. Trump ha intenzione di risolvere radicalmente il problema di Hamas e di cambiare l’assetto della regione, in maniera tale da garantire la sicurezza di Israele. Bisognerà vedere che politiche si svilupperanno rispetto all’Iran e come si evolverà il processo negoziale sulla guerra: temi su cui i due leader non hanno voluto entrare nel concreto. Insomma, l’incontro di ieri è l’inizio di un percorso che potrà riservare ancora molte sorprese.

(Shalom, 5 febbraio 2025)
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La cosa più inquietante di questo colloquio non sono certo le sparate di Trump, che appartengono al suo stile di sparare 100 per vedere l’effetto che fa e poi contrattare il possibile, ma la reazione di Netanyahu: “Israele porrà fine alla guerra vincendola. La vittoria di Israele sarà la vittoria dell’America. Con la sua leadership, signor Presidente, e la nostra partnership, credo che forgeremo un futuro brillante per la nostra regione e porteremo la nostra grande alleanza a vette ancora più alte”. Ma ci crede davvero? M.C.

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Perché Hamas deve essere distrutto

di  Niram Ferretti

Il culto della morte e del martirio, abbinato a un antisemitismo radicale, è al centro dell’ideologia di Hamas, costola palestinese della Fratellanza Musulmana.
  “Le conclusioni di Hamas sul destino di Israele sono esplicitate inequivocabilmente nello Statuto. Secondo l’art. 6, Hamas, ‘innalzerà la bandiera di Allah su ogni metro quadrato della Palestina. […] Non c’è soluzione per il problema palestinese se non il jihad'”, scrive Matthias Küntzel.
  Lo Statuto di Hamas del 1988, mai abrogato, è il manifesto programmatico dell’organizzazione jihadista, un miscuglio esiziale di fanatismo religioso, antisemitismo e volontà eliminazionista. Così come Adolf Hitler aveva espresso in modo eloquente le sue intenzioni nel Mein Kampf, poi messe in atto in modo puntuale, lo stesso ha fatto Hamas.
  Il 7 ottobre del 2023 è stato la logica conseguenza dello Statuto. Eppure, per sedici anni, dal 2007, (anno della presa assoluta del potere da parte di Hamas a Gaza), al 2023, Israele ha preferito ignorare la realtà dello Statuto considerando Hamas un attore politico che si poteva tenere a bada attraverso elargizioni economiche fornite dal Qatar, suo principale sponsor finanziario e ideologico. Tutto ciò ha portato a quattro conflitti, di cui, il più esteso è quello attuale interrotto attualmente da una tregua.
  Già nel 2005, quando Ariel Sharon prese la decisione di mettere fine agli insediamenti ebraici nella Striscia, dichiarando che essa aveva il potenziale di diventare la Singapore del Medio Oriente, sottovalutava come il politico, quando è innestato sul religioso, subordina tutto alle proprie convinzioni.
  Non c’è benessere economico, arricchimento personale, possibilità di migliorare le condizioni della vita collettiva che possa avere la meglio sulla convinzione ferocemente e religiosamente radicata che Israele deve essere cancellato dalla mappa del Medio Oriente. Il mero fatto che Hamas non possegga la capacità materiale di poterlo fare non modifica di nulla la sua pericolosità e il suo programma, come il 7 ottobre, vera e propria anticamera di un genocidio, ha ampiamente dimostrato.
  Lasciare sopravvivere Hamas a Gaza sarebbe come avere voluto fare sopravvivere Al Qaeda in Afghanistan o l’Isis in Iraq invece di avere deciso di porre fine alla loro radicamento.
  Non ci sono vie di mezzo, non possono esserci tregue che tengano, e duole dirlo, la vita degli ostaggi dovrebbe essere subordinata a questo obiettivo, la distruzione di Hamas e la bonifica di Gaza.
  Durante la Seconda guerra mondiale, gli Alleati non decisero di lasciare intatto in Germania un residuo attivo ma operante del Terzo Reich, così come a Mosul non si è optato per preservare l’Isis dalla sconfitta totale dopo nove mesi di assedio e la morte reale di quarantamila civili.
  L’evidenza di questa guerra che è durata quindici mesi e che ora si è  momentaneamente arrestata, è che più che avere come obiettivo la capitolazione di Hamas si sia optato per una massiccia operazione di deterrenza, esattamente come è accaduto nei conflitti precedenti, con il risultato che ciclicamente si è ripresentato lo stesso problema e si è infine giunti al maggiore eccidio di ebrei dal dopoguerra ai nostri giorni.
  Netanyahu ha sempre dichiarato di volere la vittoria, ma è il primo a sapere che questo esito è inconciliabile con la liberazione di tutti gli ostaggi, l’assicurazione sulla vita di Hamas. La capitolazione di Hamas prevede un prezzo alto da pagare, la salvezza di tutti gli ostaggi un prezzo altrettanto alto, ma più esorbitante.
  La realtà bruta è questo, il resto è solo ipocrisia e wishful thinking.

(L'informale, 5 febbraio 2025)

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Studenti ebrei contestati alla Statale di Milano

I collettivi di sinistra hanno tentato di impedire un convegno organizzato dall'Ugei insieme ai giovani di Forza Italia e Lega

Contestazione a un convegno di studenti all'Università Statale di Milano, martedì 4 febbraio, organizzato dagli studenti ebrei (Ugei) e dai giovani di Forza Italia e Lega, dal titolo 'Vogliamo studiare. Contro le occupazioni violente e l'odio per Israele, raccontiamo il nostro viaggio'. Durante l'incontro, alcuni giovani dei collettivi di sinistra hanno tentato di entrare nell'aula, ma sono stati respinti dalla sicurezza dell'ateneo e dagli agenti della Digos. I contestatori si sono quindi fermati in corridoio scandendo slogan come "Palestina libera" e "fuori i sionisti dalle università", con le bandiere palestinesi.
"Questo evento non appartiene alla comunità studentesca. Abbiamo dimostrato, con mesi di lotta, che vogliamo non ci sia complicità sul genocidio", hanno detto gli studenti in corridoio. Secondo Ilan Boni, vice presidente della comunità ebraica di Milano, "è un peccato che durante una manifestazione pacifica i ragazzi che vogliono divulgare il loro messaggio vengano attaccati o qualcuno provi a farli tacere". E poi ha aggiunto che l'ateneo "sicuramente non è più tanto sicuro come lo era prima", ma ha sottolineato che i contestatori sono "una minoranza che fa molto rumore".

Le reazioni
  Inevitabili le reazioni politiche. "Le università potrebbero e dovrebbero fare molto, non attuando inutili boicottaggi né permettendo che gruppi di studenti neghino il diritto ad altri di esprimersi liberamente", il commento di Daniele Nahum, consigliere comunale di Azione: "I ragazzi stavano ricostruendo la loro esperienza nei luoghi colpiti il 7 ottobre e hanno espresso la loro contrarietà alle occupazioni e all'odio verso Israele". "Inaccettabile qualsiasi forma di intimidazione o violenza che limiti la libertà di espressione e il diritto al confronto democratico, principi fondamentali su cui si fonda il mondo accademico", fanno sapere Alessandro Verri e Andrea Poledrelli, rispettivamente capogruppo della Lega a Palazzo Marino e responsabile dei giovani della Lega a Milano.

(MilanoToday, 5 febbraio 2025)


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Studenti ebrei, l’appello: "Basta paura in università"

L’evento dell’Ugei con i gruppi di destra e la contestazione dei ProPal. I racconti del viaggio negli atenei israeliani. Sfuma l’idea di un confronto.

"Vogliamo studiare": il titolo dell’iniziativa, promossa ieri pomeriggio da Studenti per Israele, Studenti per la Libertà, Siamo Futuro e Unione Giovani ebrei d’Italia alla Statale di Milano. Ma è ancora muro contro muro. In aula i promotori, alcuni esponenti della comunità ebraica e un gruppetto di giovani, fuori dall’aula una trentina di studenti di Cambiare Rotta e Rete della conoscenza con lo striscione: "Anche i palestinesi vogliono studiare". In mezzo la Digos e il direttore generale dell’ateneo che spiega che è stata raggiunta la capienza massima dell’aula. "Ma se di solito facciamo lezioni a terra e nessuno parla di capienza?", protestano gli esclusi. "È il primo evento che organizziamo all’università – premette Pietro Balzano, autore del Manifesto nazionale per il diritto allo studio –. Per questo ateneo è stato un anno pieno di avvenimenti: occupazione, vandalismo e aggressioni, avvenute nello stesso corridoio dove siamo passati per venire qui. Ci siamo riuniti perché questa cosa non ci può andare bene, non solo come studenti, ma come cittadini. Deve essere garantito a tutti un dibattito pubblico, alla pari. Senza paura".
Filippo Leon di “Siamo Futuro“, gruppo vicino alla Lega, racconta del viaggio di una delegazione di studenti a Israele - dal 12 al 16 gennaio - mentre alle spalle scorrono le foto anche della Reichman University e di Ariel, finite al centro del dibattito sugli accordi internazionali: "Siamo andati per smentire le bugie, non c’è l’apartheid. Anche alla Sapir University, a ridosso della Striscia di Gaza, abbiamo incontrato studentesse beduine che almeno lì possono studiare". In corridoio, intanto, partono i cori: "Fuori i sionisti dall’università". "Sarebbe bello che potessero entrare qui a confrontarsi pacificamente", dicono da dentro. "Non ci fanno entrare, chiudono le porte": ribattono da fuori. "Da 15 mesi il pretesto della lotta in difesa della Palestina è stato sempre un modo per creare un clima ostile per gli studenti ebrei e israeliani, cercando di ostacolare chi ha un pensiero diverso dalla loro narrativa", commenta David Fiorentini dell’Unione dei giovani ebrei d’Italia. Una dipendente della Statale prende la parola: "Ho subìto direttamente il 7 ottobre perché persone troppo vicine a me erano lì: ho tremato di paura. Pochi giorni dopo ho tremato di rabbia per tutte le cose che ho visto e sentito qui. Ci vogliono eventi come questi, vi ringrazio. E, ironicamente, ringrazio anche gli studenti fuori per le loro urla: almeno ho trovato l’aula facilmente". "Per fortuna ci sono le forze dell’ordine che ci hanno permesso di svolgere questa manifestazione in maniera serena – ha ribadito il vicepresidente della Comunità ebraica di Milano, Ilan Boni –. Sicuramente l’ambiente delle università non è più tanto sicuro come lo era prima. Si tratta però di una minoranza che fa molto rumore, poi c’è una grande maggioranza che ha voglia di studiare e di dire le proprie opinioni liberamente". "La commissione comunale contro l’odio inizi il proprio lavoro dalla Statale – chiede Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica di Milano -. Se non c’è spazio per idee democratiche e liberali in università, la cultura intera è a rischio". La giornata si chiude con un timido tentativo di dialogo per organizzare un secondo dibattito, congiunto, che sfuma. Almeno per ora.

(Il Giorno, 5 febbraio 2025)

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“Carissimo, dica pure… a patto che accusi e rinneghi Israele”

A molti ebrei viene ormai inibito il diritto di parlare nelle Università, a meno che siano “ebrei buoni”, ossia anti-israeliani. Si accampano scuse e bugie per coprire la vigliaccheria degli Atenei. Ma come far valere le ragioni di Israele? Ne parliamo con Iuri Maria Prado, giurista e scrittore.

di Ester Moscati

Strattonata, abusata, fraintesa, falsificata: è la parola “censura”, di cui sembra si sia perso oggi il senso e il (dis)valore. Si grida alla censura se a un cantante misogino e violento si nega un palco. Ma se giornalisti e intellettuali vengono zittiti nelle università, nessuno si leva in loro difesa. Che cosa sta accadendo? Ne parliamo con Iuri Maria Prado, avvocato, giurista e giornalista, firma de Il Riformista, Il Foglio e Linkiesta.
«Il limite è, da un punto di vista normativo, sia che si tratti di musica, di scritti, di ogni manifestazione del pensiero, quello stabilito dalla legge. Fermo il principio costituzionale, non può trattarsi di propalazioni che istighino alla commissione di atti violenti o discriminatori. Questo in termini generalissimi. Poi c’è un’altra questione, paradossalmente ancora più vasta, e difficile da trattare: quella sul fronte culturale . Quando implica la cessione di spazi pubblici, dovrebbe esserci una sorta di monitoraggio, sorveglianza, autocontrollo. Questo per verificare che manifestazioni che magari non oltrepassano il limite della liceità però siano opportunamente contenute, non favorite né accreditate».
Un caso di censura/boicottaggio è stato il recente blitz del gruppo antagonista “Cambiare rotta” all’incontro pro-vita alla Statale, lo scorso 26 novembre: hanno interrotto con urla, schiamazzi e bestemmie un’iniziativa della lista studentesca “Obiettivo studenti”, vicina a Comunione e liberazione. La rettrice Brambilla lo ha definito “Una violazione dei valori fondamentali di una comunità accademica”. Mentre gli antagonisti hanno affermato di contestare “la vergognosa iniziativa di Obiettivo Studenti” e hanno rivendicato il diritto di censurare gli antiabortisti, di non lasciare loro il diritto di parola.
Quando la “censura” viene dal basso e non dal “potere”, è sempre “censura” o diventa bavaglio e altro ancora? «Dovrebbe esserci una pratica di segno assolutamente opposto – spiega Prado -. Se si tratta di manifestazioni di pensiero e di opinioni, a maggior ragione su temi delicati e sensibili, il limite invalicabile è quello del commettere atti di intimidazione o violenti. Se viene impedito lo svolgimento di un seminario, di una lezione, sulla base della pretesa che certe posizioni non possano essere discusse, si tratta di manifestazioni non tollerabili, verosimilmente confliggenti con la legge, ma comunque con i minimi criteri di rispetto e della pacifica convivenza».
A questi gruppi “antagonisti” sembra invece che tutto sia concesso. Il tappare la bocca altrui come qualcosa di normalizzato. Cioè non viene sanzionato né stigmatizzato, il fatto che sia “normale” che si impedisca l’espressione del libero pensiero altrui, come è accaduto lo scorso anno a David Parenzo alla Sapienza di Roma e a Maurizio Molinari alla Federico II di Napoli. Così come il convegno su Israele all’Università Statale di Milano, bloccato per presunti motivi di sicurezza: il titolo Israele: storia di una democrazia sotto attacco. Terrorismo, propaganda e antisemitismo 4.0. La sfida all’occidente, nel quale il pubblico avrebbe dovuto assistere anche alla proiezione del docufilm #NOVA sul massacro compiuto il 7 ottobre dai terroristi di Hamas al Nova Music Festival. A pochi giorni dall’evento, gli organizzatori hanno dovuto annullarlo, dopo una serie di minacce da parte dei collettivi. Così diventa “normale” impedire a qualcuno di parlare, per non assumersi l’onere di prevenire la violenza dei “censori/boicottatori”.
«Nel caso del convegno all’università di Milano è stato fatto di peggio. Me ne sono occupato professionalmente – dice Prado – e quello che è successo è che il Rettore, per impedire lo svolgimento del convegno su Israele, ha mentito, dichiarando di avere avuto una segnalazione di rischio sicurezza dalla Digos. La stessa Digos ha invece, dopo poche ore, smentito il Rettore. In quale, o autonomamente o su pressioni propalestinesi, aveva ritenuto di non far svolgere quel Convegno. Per quanto riguarda giornalisti e intellettuali ebrei ai quali è stato impedito di parlare, abbiamo avuto episodi plurimi e preoccupanti. È stato contestato il loro diritto di parlare, di fatto in quanto ebrei. Nel caso di Molinari alla Federico II di Napoli, ci fu addirittura un comunicato della Presidenza della Repubblica , che, sia pur meritevole, in realtà aggirava l’argomento, perché Mattarella scrisse ‘è intollerabile che in una Università venga impedito di parlare a chi la pensa diversamente’. Ma diversamente da cosa? A Maurizio Molinari non è stato impedito di parlare perché la pensava diversamente, da che cosa poi? Gli è stato impedito di parlare in quanto EBREO. Punto. Questa è la questione.
Oggi l’essere ebrei costituisce un problema, addirittura nell’esercizio delle libertà costituzionali, di espressione del proprio pensiero. Questi fatti sono stati gravissimi, in sé e soprattutto perché non sono stati destinatari della necessaria, pubblica esecrazione. Anzi. Oggi, nel 2024/2025, gli ebrei in Italia, sono non solo a rischio di incolumità se portano la kippà o la stella di David, ma gli viene impedito il diritto di esercitare le proprie facoltà costituzionali. Salvo in una occasione: se ripudiano Israele, se condannano la guerra a Gaza, se parlano di genocidio… Allora è un ‘ebreo meritevole’, un “ebreo buono” al quale viene concesso il diritto di parlare. È una situazione gravissima».
È accaduto di recente nella trasmissione di Marco Damilano Il cavallo e la Torre. Ha invitato Anna Foa a parlare del suo libro Il suicidio di Israele e a conclusione Damilano ha detto “Se queste cose le dice Anna Foa, allora non ci possono accusare di antisemitismo”. « Questo è l’atteggiamento più radicalmente e profondamente antisemita che si possa immaginare. Cioè il passo ulteriore dopo ‘ho tanti amici ebrei’. ‘Lo dice anche un ebreo’ è l’atteggiamento più antisemita che ci sia. Gli ebrei non sono una nebulosa, non esistono ‘gli ebrei’, esiste certo il popolo ebraico, ma non esiste una posizione degli ebrei in quanto tali. È l’atteggiamento del negriero che chiama a parlare il servo più fedele che dice ‘Sì, il padrone è buono’. È il comportamento più razzista che si possa immaginare, più radicale».
Che cosa si può fare per contenere questa deriva, per contrastare censure e boicottaggi? «Dal punto di vista giuridico – conclude Iuri Maria Prado – se si traducono in atteggiamenti violenti, sono sanzionabili. Ma il lavoro da fare non è tanto giuridico, quanto politico, civile e culturale, e non viene fatto, almeno non abbastanza. Questo lavoro manca. E la prima mancanza è il mancato riconoscimento di un problema. Ho citato volutamente il comunicato della Presidenza della Repubblica. ‘Gente che la pensa diversamente’… L’impedimento a parlare non deriva dalla diversità di opinione, ma dal fatto che si è ebrei.
I giovani poi sono sottoposti quotidianamente ad una inoculazione di tipo goebbelsiano contro gli ebrei e Israele Sionista è diventato un insulto. Se oggi nelle Leggi razziali del ’38 si sostituisse la parola ‘ebreo’ con la parola ‘sionista’, ci sarebbe una buona fetta della nostra classe politica disposta a sottoscriverle. È una cosa che i nostri ragazzi, dai giornali ai talk show, si sentono dire ogni giorno. Un esempio giornalistico? Usare ‘sparatoria’ invece di ‘attentato’. Dare le notizie in questo modo vuol dire sminuire il terrorismo. È un automatismo del pregiudizio, uno stillicidio costante. Contrastarlo è un lavoraccio, ma bisogna farlo nel piccolo angolo di cui disponiamo. Il fronte avverso è più vasto e più potente, ma questo non vuol dire che possiamo rinunciare a combattere. In Europa gli ebrei pensavano di essere a casa, ma non lo sono più». 

(Bet Magazine Mosaico, 5 febbraio 2025)

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Kippah Italia: caccia all’ebreo

Roma, Milano, Torino, Trieste, Livorno. Cronaca orrenda di un anno di aggressioni antisemite. Siamo diventati come gli altri paesi europei, dove è pericoloso essere “riconoscibili”.

di Giulio Meotti

ROMA - “A Roma non c’è motivo di non indossare la kippah”, titolava nel 2016 la Repubblica, dopo che il capo della comunità ebraica di Marsiglia, Zvi Ammar, aveva consigliato alla propria comunità di non metterla più in pubblico. Era anche l’anno in cui un giornalista israeliano, Zvika Klein, si mise una kippah e, munito di telecamera, andò in giro per le banlieue francesi. A malapena Klein ne è uscito vivo. Era anche l’anno in cui a Sarcelles, banlieue multiculturale di Parigi, un ragazzino di otto anni che indossava la kippah fu preso a calci e pugni. L’Italia sembrava diversa, al riparo dalla temperie multiculturale che scuote gli altri paesi. Ci abbiamo messo un po’, ma anche in Italia è finita che è pericoloso indossare la kippah in pubblico.
  Mentre stava passeggiando tenendo la mano della mamma in via Nazionale a Roma con in testa il tipico copricapo ebraico, un bambino di otto anni è stato aggredito e minacciato con una bottiglia di vetro da un egiziano che gli ha gridato: “Togliti la kippah”.
  Poteva finire male, malissimo, come è successo a Nathan Graff, israeliano con la kippah ferito a coltellate da un uomo incappucciato a Milano alla schiena, alla gola e al volto. E pensare che in Italia sui giornali si pubblicano vignette di primi ministri israeliani con la kippah e la didascalia “l’ebreo (ab)errante”.
  Una settimana fa, a Trieste, un ebreo con la kippah si è sentito dire per strada da due che impugnavano la bandiera palestinese: “Ebreo, ti sgozziamo”. L’estate scorsa era successo qualcosa di simile ad Ariel Haddad, rabbino capo della Slovenia e responsabile del Museo della comunità ebraica triestina. “Peccato che non siamo in anni precedenti altrimenti ti avremmo potuto bruciare”: queste le parole che un bambino ebreo di undici anni con la kippah si è sentito rivolgere da un coetaneo a Torino. “Ci nascondiamo, ci rendiamo irriconoscibili e la kippah la copriamo con il cappello”, ha confessato Cesare Moscati, rabbino capo della comunità ebraica di Napoli. A Venturina Terme, in provincia di Livorno, un ragazzo ebreo di dodici anni è stato preso a calci e sputi da due quindicenni. Di fronte alla residenza per anziani della comunità ebraica di Milano, un uomo ha pesantemente insultato due ebrei ortodossi, chiamandoli “assassini” e urlando “viva la Palestina”.
  A un raduno pro Pal a Milano un anziano ebreo con la kippah è stato gettato a terra e gli hanno strappato il copricapo al grido di “sporco ebreo”. E questo per restare agli ultimi mesi. Nel resto d’Europa, dove come scrive l’Economist “l’aumento dell’antisemitismo mette alla prova i valori liberali”, la kippah è scomparsa. Qualche settimana fa, il capo della polizia di Berlino ha detto agli ebrei e ai gay di non farsi “riconoscere” in certe zone della capitale tedesca. Gli ebrei di Bruxelles non la indossano più in pubblico da anni. “Bisogna togliere la kippah per preservare la santità della vita”, ha detto Prosper Abenaim, rabbino di La Courneuve, banlieue di Parigi. Lo stesso da Londra a Malmö. E mentre i numeri delle partenze per Israele e altrove sono aumentati dal 7 ottobre, in Francia è uscito per Flammarion un libro di Guillaume Erner, “Judéobsessions”, in cui l’autore scrive: “La popolazione ebraica europea è paragonabile a quella del Medioevo. Con la Shoah, l’antisemitismo raggiunse il suo obiettivo. Mentre nel 1939 la Polonia era popolata da tre milioni di ebrei, nell’Unione europea ne restano 750 mila. L’altro elemento vertiginoso, di cui nessuno parla, è la scomparsa degli ebrei nel mondo arabo. C’erano un milione di ebrei”. Oggi, nessuno.

Il Foglio, 5 febbraio 2025)

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Per il premier israeliano colloqui con dirigenti dell'amministrazione Usa, tra cui Musk

Seguirà un incontro con Trump. Inviati in Qatar gli emissari di Tel Aviv. L'indiscrezione del Nyt sui nuovi aiuti a Tel Aviv

FOTO
Netanyahu si trova negli Stati Uniti per una visita al presidente Donald Trump, con il quale terrà un colloquio ufficiale oggi. Ma un incontro c'è già stato a giudicare dalla fotografia che sta circolando sui social nella quale si vede il premier israeliano insieme al presidente Usa e a Elon Musk. Le recenti polemiche sul saluto nazista del miliardario sudafricano, braccio destro di Trump, non sembrano aver creato distanza tra i due tanto meno scalfito i rapporti tra i rispettivi Paesi. Nel corso della giornata si sono tenuti a Washington incontri tra Netanyahu e alti funzionari statunitensi che hanno portato frutti, si direbbe, visto che l'ufficio del primo ministro israeliano ha comunicato che Tel Aviv invierà una delegazione in Qatar "alla fine della settimana" per discutere un cessate il fuoco "esteso", come previsto dalla seconda fase dell'accordo con Hamas. A seguire il premier "convocherà il Gabinetto di Sicurezza per discutere le posizioni di Israele", si legge nel comunicato. 

1 miliardo di dollari in armi dagli Usa per Israele
  Intanto si parla di armi per Israele. L'amministrazione Trump ha chiesto ai leader del Congresso di approvare nuovi trasferimenti per circa 1 miliardo di dollari in bombe e altro materiale militare a Tel Aviv, secondo quanto scrive il Wall Street Journal, citando dirigenti statunitensi a conoscenza del dossier. Le vendite di armi pianificate includono 4.700 bombe da 1.000 libbre (450 kg), per un valore di oltre 700 milioni di dollari, nonché bulldozer blindati costruiti da Caterpillar, per un valore di oltre 300 milioni di dollari.

(TiscaliNews, 4 febbraio 2025)

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L’Iran cerca metodi veloci per dotarsi di una bomba nucleare

Nuove informazioni americane indicano che un gruppo segreto di scienziati iraniani sta esplorando modi per sviluppare rapidamente un’arma nucleare se la leadership del Paese decidesse di perseguirla. Lo ha detto il New York Times in un articolo di ieri.
Il rapporto afferma che le informazioni indicano che l’Iran sta cercando una scorciatoia per ottenere una bomba che gli consentirebbe di convertire le sue scorte di uranio in un’arma in pochi mesi piuttosto che in anni, se necessario, anche se la decisione di correre verso una bomba non è stata presa.
Il documento afferma che le informazioni sono state raccolte negli ultimi mesi dell’amministrazione Biden e condivise con la squadra di Donald Trump.
Il documento osserva che, con il potere regionale dell’Iran indebolito dai colpi inferti alle sue forze per procura nella regione e dall’incapacità di colpire in modo significativo Israele con i suoi bombardamenti missilistici, Teheran è ansiosa di trovare nuovi modi per scoraggiare un attacco da parte di Israele o degli Stati Uniti.

(Rights Reporter, 4 febbraio 2025)

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Dopo il 7 ottobre gli Usa non hanno preso le difese di Israele sotto attacco, ma le hanno fatto solo pressioni

Una strategia politica incomprensibile

di Paolo Salom

[Voci dal lontano occidente] Si è appena conclusa una stagione dettata da una visione del mondo secondo i principi dell’amministrazione democratica del presidente Usa Joe Biden, e siamo all’inizio di una nuova di cui, credo, vedremo presto gli effetti una volta che il repubblicano Donald Trump avrà avviato in pieno la nuova macchina del governo a sua immagine e somiglianza. Nel frattempo vorrei registrare i commenti finali del segretario di Stato uscente, Antony Blinken, diffusi con generosità dai media israeliani.
In sostanza, Blinken ha ammesso che il conflitto a Gaza si è protratto così a lungo, e gli ostaggi sono rimasti nelle mani dei terroristi per un periodo semplicemente inaccettabile, perché “Hamas faceva un passo indietro, quando la trattativa sembrava giunta al traguardo, ogni volta che osservava aumentare la pressione internazionale su Israele”. Blinken si è anche detto “stupefatto” della totale assenza di analoga pressione su Hamas: “Se gli ostaggi fossero stati liberati, la guerra sarebbe subito finita”.
Se permettete, io sono invece stupefatto dello stupore dell’ormai ex segretario di Stato. Mi sarei aspettato un briciolo di consapevolezza maggiore da parte di un uomo responsabile della politica estera della più grande Potenza mondiale dai tempi dell’antica Roma. Intanto, pronunciare queste parole quando la guerra crudele, voluta e scatenata da Hamas (con i burattinai iraniani a tenere i fili), è stata di fatto risolta dallo Stato ebraico – con un prezzo in vite umane e risorse spaventoso, certo – suona francamente fuori luogo.
Per un anno e mezzo gli americani hanno rappresentato la prima e maggiore fonte di pressione su Israele: perché non invadesse Gaza, perché non entrasse a Rafah, perché facesse entrare più aiuti umanitari ai civili, perché accettasse i termini proposti dagli aguzzini di Hamas, perché consentisse tregue e cessate il fuoco… aggiungete pure a questo elenco delle cose “da non fare o da fare” tutto quello che vi viene in mente, perché gli americani (e gli alleati europei, con poche eccezioni) lo hanno detto ripetutamente, mettendo sul banco degli accusati non i terroristi del 7 ottobre e i loro complici, quanto piuttosto (e sempre) lo Stato ebraico. Tutto questo non solo non ha aiutato, al contrario ha allungato la guerra e, quindi, il costo in vite umane che ogni conflitto comporta.
Come sapete io preferisco non entrare nella politica interna israeliana: ritengo che solo chi viva la realtà di quel Paese abbia un diritto naturale di giudizio. Una cosa, arrivati a questo punto, però è certa: se a guidare il governo dí Gerusalemme non ci fosse stato Benjamin Netanyahu, vincere su sette fronti, decapitare i vertici di organizzazioni terroristiche quali Hamas, Hezbollah, gli Houthi, assestare una lezione mai vista al regime degli ayatollah non sarebbe stato possibile. Comunque non con i risultati davvero stupefacenti ottenuti contro i pareri e la volontà di tutti, dentro e fuori Israele.
Il mio non è un giudizio politico ma una semplice osservazione della realtà. E, peraltro, avrete notato anche voi che, passate le elezioni presidenziali in America, le voci “contro” il premier e le sue scelte si sono fatte molto, molto più discrete (con la perniciosa eccezione, ahimè, di papa Francesco): segno che non erano così fuori dal mondo.
Resta per me sorprendente se non incomprensibile osservare a ritroso la politica della Casa Bianca di fronte a una guerra tanto atroce nata da una strage contro i civili ebrei mai vista dai tempi della Shoah. Un vero leader, e qui mi riferisco alla Casa Bianca tutta, sa prendere decisioni in nome degli interessi più alti della propria nazione e di quelle alleate. Non farlo significa perdere il proprio status morale, il proprio diritto implicito al primato. E questo, alla lunga, non porta alla pace. Al contrario stuzzica gli appetiti di chi si sente pronto a conquistare il posto d’onore nella guida del mondo. Prepariamoci a tempi difficili. Per fortuna per noi, Israele c’è.

(Shalom, 3 febbraio 2025)

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“Vittoria totale” ed eternità

Vittoria totale, assoluta: questo è l'obiettivo che Israele vuole raggiungere e su cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu insiste.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Un anno fa, Netanyahu ha detto ai diplomati di un corso per comandanti: “La mia richiesta principale è la vittoria assoluta. Niente di meno. Non c'è alcun sostituto della vittoria”. Continuo a sentire da commentatori ed esperti frasi come: “Non è possibile” o “Non è necessario”. Sì, è possibile, è necessario e non abbiamo altra scelta. Il termine ebraico “Nitzachon Muchlat” (ניצחון מוחלט), che letteralmente si traduce come “vittoria totale”, può avere una connotazione negativa se visto con occhi tedeschi. Qui in Israele, significa esattamente il contrario di ciò che i nazisti avevano in mente con la loro ricerca del dominio mondiale: la difesa del diritto all'esistenza dello Stato ebraico. Ricordate lo slogan degli islamisti: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà liberata”. Non ci sarebbe spazio per uno Stato ebraico e questo sarebbe inaccettabile. Una vittoria totale su questa ideologia e sui suoi perfidi piani è assolutamente necessaria per evitare un nuovo Olocausto.
Israele non ha altra scelta e per questo Netanyahu ripete da mesi: “Marceremo verso Rafah e otterremo una vittoria totale. Abbiamo distrutto Haman e distruggeremo anche Sinwar”.

Vittoria ed eternità
  Vittoria ed eternità - “nitzachon” e “netzach” (ניצחון ונצח) - sono strettamente legate in ebraico, sia linguisticamente che concettualmente. Qui cercheremo di mostrare il legame tra questi due termini. Entrambe le parole hanno come radice נ.צ.ח. Queste tre lettere sono sinonimo di sopravvivenza, continuità ed eternità, oltre che di superamento degli ostacoli e di vittoria. Eternità (נצח) sta per tempo infinito, qualcosa che non passa - eterno e costante. La vittoria (ניצחון) indica il raggiungimento o la superiorità rispetto a una sfida o a un avversario, ma anche il raggiungimento di qualcosa che trascende il momento e ha un valore eterno.
Netanyahu ha fatto riferimento a questo obiettivo nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti nel luglio 2024 e nel suo discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre 2024. Nella sua giustificazione per il licenziamento del Ministro della Difesa Yoav Galant nel novembre 2024, Netanyahu ha anche sottolineato: “Il mio più alto obbligo come Primo Ministro di Israele è quello di garantire la sicurezza di Israele e condurci alla vittoria totale”.
All'interno della popolazione israeliana, tuttavia, l'obiettivo di Netanyahu della “vittoria totale” è molto controverso. Molti ritengono che le vittorie totali non siano più possibili al giorno d'oggi. Si presume che solo la diplomazia basata sul compromesso sia in grado di risolvere i conflitti. Un esame più attento dimostra che questa visione non è corretta.

Il cammino verso l'eternità
   In un contesto spirituale, la vittoria è il cammino verso l'eternità. Una vittoria in un contesto morale, idealistico o nazionale lascia sempre un'impressione duratura. Ad esempio, una vittoria in battaglia può garantire la sopravvivenza di una nazione. Può anche essere vista come il trionfo di un'idea attraverso le generazioni. L'eternità come significato della vittoria in un'interpretazione profonda è una vera vittoria. Non è temporanea, ma ha un significato a lungo termine, legato a valori o obiettivi elevati che durano oltre il tempo.
Questo è un obiettivo da sogno per Israele, perché una vittoria completa sui nemici sarebbe duratura. Garantirebbe sicurezza, tranquillità e pace. Siamo in un'epoca di guerra complessa e la domanda che molti si pongono è: è possibile sconfiggere questi folli terroristi e nemici? Per sconfiggere il nemico, dobbiamo capire il motivo della lotta. E da questo deriva il modo in cui possiamo vincerla. Bisogna sempre ripeterlo: La battaglia riguarda la Terra Santa.
È su questo che verte la guerra. È il punto centrale della contesa. Di conseguenza, è anche la chiave della vittoria. Il popolo di Israele deve decidere in modo chiaro e inequivocabile di accettare la volontà di Dio, ovvero che l'intera Terra di Israele ci appartiene. Non c'è posto per nessun'altra entità nella terra d'Israele e non c'è posto per chi non accetta il dominio di Israele su questa terra. Ciò richiede una decisione chiara e passi decisivi verso l'effettiva sovranità sulla Terra d'Israele.
Questa è l'idea spirituale che deve essere realizzata politicamente. E questo non è niente di strano nella folle regione in cui viviamo, e non è niente di nuovo. In Esodo 26, Dio ha mostrato al suo popolo come funziona: “Se camminerete nei miei statuti, osserverete i miei comandamenti e li metterete in pratica... allora darò pace nel paese, così che dormirete e nessuno vi farà paura. Scaccerò le bestie cattive dal vostro paese e nessuna spada si abbatterà sul vostro paese. Darete la caccia ai vostri nemici e cadranno di spada davanti a voi. I tuoi cinque daranno la caccia a cento, i tuoi cento daranno la caccia a diecimila, e i tuoi nemici cadranno di spada davanti a te”.

Gli statuti di Dio
   La domanda è: come interpretiamo questo fatto ai nostri giorni? Osservare gli statuti di Dio - cosa significa in termini concreti? Conformarsi al governo di destra di Netanyahu? Seguire le regole dei religiosi e degli ortodossi? Gli ebrei laici non osservano gli statuti biblici? E gli israeliani di sinistra hanno completamente torto?
Nei tempi biblici, tutti gli uomini religiosi servivano nell'esercito. Oggi non è più così. Come giudica Dio il comportamento degli ebrei ortodossi che non prestano servizio nell'esercito? Ha lo stesso peso del comportamento degli israeliani di sinistra? Oppure tutti gli ebrei devono prima credere in Gesù perché questo versetto abbia senso dal punto di vista biblico?
Molti cristiani sembrano essere di questa opinione. Suona più o meno così: “Poiché gli ebrei non riconoscono Gesù, il popolo è in guerra”. Ma ignorano il fatto che il popolo di Israele non ha celebrato Gesù come Messia nemmeno durante la fondazione dello Stato, eppure è avvenuto il miracolo della rinascita di Israele, un miracolo di portata biblica. Non si può schiacciare tutto in uno stampo in modo che si adatti alla propria concezione spirituale.

Concessioni e compromessi
   Siamo in conflitto con i nostri nemici dal 1948. Non abbiamo lasciato nulla di intentato per raggiungere la pace. Sono state esplorate tutte le strade possibili, sono state fatte molte concessioni. Abbiamo rinunciato a fiorenti insediamenti e li abbiamo lasciati intatti ai nostri nemici. Abbiamo dotato la loro polizia di armi affinché si amministrassero da soli. Ci siamo ripetutamente trattenuti nella speranza che i nemici riconoscessero che stiamo tendendo una mano di pace e di cooperazione. Abbiamo riconosciuto il loro diritto di vivere nel Paese. In cambio, abbiamo limitato non poco la nostra colonizzazione. Non si è ottenuto nulla. Al contrario, la situazione è solo peggiorata.
Tuttavia, non ci siamo impegnati abbastanza: Non abbiamo percepito e messo in pratica i comandamenti di Dio per la sua terra. “Dio ricorda la sua alleanza per sempre, la parola che ha comandato a mille generazioni, l'alleanza che ha fatto con Abramo, il giuramento che ha fatto a Isacco. L'ha stabilita per Giacobbe come uno statuto, per Israele come un'alleanza eterna, perché ha detto: “A te do la terra di Canaan come tua eredità”"[1].
Solo se ci atteniamo a Dio potremo vivere in sicurezza nella nostra terra.

L’eternità di Israele
   Qual è la strada giusta? Quella degli ebrei di destra, degli ebrei di sinistra, degli ebrei ortodossi, degli ebrei messianici? O una via di mezzo tra tutte? Forse anche questa domanda è un approccio sbagliato e tutto ciò di cui abbiamo bisogno è uno sguardo più attento alla Parola di Dio?
Nella Bibbia, il termine “eternità” (נצח) compare spesso in relazione a Dio, al mondo e all'infinito, mentre “vittoria” (ניצחון) è associato alle battaglie e al superamento dei nemici. Il legame tra le due cose sta nell'idea che Dio è un “Dio eterno” (אל נצח) che garantisce l'eternità di Israele e i valori su cui si basano le sue vittorie. Ad esempio, l'espressione “l'eternità di Israele non mente”[2] sottolinea l'idea dell'eternità come parte dell'identità nazionale e morale del popolo di Israele, con le vittorie che servono a preservare i valori eterni.
La vittoria può quindi essere interpretata non solo in termini di valore militare, ma anche come raggiungimento di una superiorità spirituale e intellettuale. In questo contesto, l'eternità è la capacità di lasciare un'impronta duratura sul mondo o di conservare un significato che trascende il tempo e il luogo.
La connessione tra l'eternità (נצח) e la vittoria (ניצחון) nell'interpretazione risiede nell'idea che le azioni umane - specialmente le vittorie - sono giudicate in base al loro effetto sull'eternità. Una vittoria temporanea senza significato a lungo termine è transitoria, mentre una vittoria che assicura l'eternità ideale o spirituale è strettamente legata al concetto di “eternità”.
La prima battaglia per la terra d'Israele fu una vittoria senza guerra. La determinazione di Giacobbe decise a suo favore la prima battaglia per la terra d'Israele senza bisogno di una battaglia. Quando il popolo d'Israele è deciso che questo è il suo posto e la sua terra, i suoi nemici cedono e cercano un altro posto dove vivere. Ma finché il popolo d'Israele esita e dubita che questa sia davvero la sua terra, i suoi nemici rialzano la testa.
Dio deve salvare il suo popolo da questa trappola politica e spirituale. Tutti devono rendersi conto, indipendentemente da come credono e da chi sono, che la nostra esistenza nella terra dipende dalla vittoria e dall'eternità. Ma questo è soggetto a regole che sono ancora valide per il popolo d'Israele 3000 anni dopo. Senza di esse, Dio non si ricorderà della terra, perché dice: “Mi ricorderò della mia alleanza con Giacobbe, della mia alleanza con Isacco e della mia alleanza con Abramo, e mi ricorderò della terra”[3].

Fede totale
   Pertanto, il concetto “vittoria totale” (piuttosto comune in ebraico), che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu usa di continuo politicamente dal 7 ottobre 2023, deve essere afferrato. Ma come? Per una vittoria incondizionata e completa, Israele ha bisogno di fede in Dio e nelle sue promesse bibliche in questo Paese. Questo include la consapevolezza che abbiamo il pieno diritto di vivere qui senza alcun dubbio. Solo così saremo forti. Solo così possiamo vincere la guerra, e vincere si chiama “Le'Natzeach” (לנצח) e deriva dalla stessa radice Netzach (נ.צ.ח.). Da qui deriva Nitzachon - vittoria, “vittoria totale”.
E questo collega Israele con un tempo infinito, con l'eternità e, d'altra parte, con la forza e la potenza di Dio. Il significato fondamentale della connessione tra vittoria ed eternità si basa su questa comprensione. Ciò si traduce in stabilità, forza e superamento. “L'eternità di Israele non mente": il popolo di Israele deve rendersene conto e sperimentarlo di nuovo per sconfiggere i nemici e vivere così nella terra per sempre, fino alla venuta del Messia.

 [1] Salmo 105
[2] Samuele 15:29
[3] Esodo 26

(Israel Heute, 4 febbraio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’articolo è di enorme interesse, perché tocca diversi punti oggetto di forti e contrastanti discussioni. E’ pieno di approssimazioni e imprecisioni nella resa di fatti biblici e storici, ma ha il pregio di porre la questione politica dello Stato di Israele in riferimento al Dio che ha fatto nascere Israele, alla Bibbia, alla figura del Messia. C’è da discutere per tutti. Lo lasciamo lì senza commenti, sapendo che sia la tesi nel suo insieme, sia diverse sintetiche dichiarazioni si prestano ad essere spunto per appassionate discussioni. Se ne riparlerà. M.C.

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Emily Damari a Kfar Aza: “Torno dove è iniziato l’incubo”

di Michelle Zarfati

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Il cartello: “Da questa casa Emily Tehila Damari è stata rapita”

È seduta su un divano l’ex ostaggio Emily Damari e alle sue spalle spunta il cartello con scritto “Da questa casa Emily Tehila Damari è stata rapita”. Così, Damari è tornata nel kibbutz di Kfar Aza per la prima volta, per ripercorrere le tappe da dove l’incubo ha avuto inizio. Ha postato subito dopo una foto su Instagram scrivendo semplicemente “sono tornata”. Ad accompagnarla nella visita c’era l’ostaggio liberato assieme a lei, Romi Gonen.
  “Oggi sono tornata a casa mia, al mio appartamento, all’ossigeno di cui avevo bisogno e che era quasi finito. Sono tornata nel luogo in cui sono iniziati tutti i miei incubi, 485 giorni fa, e ho chiuso solo una parte del cerchio che tanto desideravo chiudere”, ha scritto Damari, aggiungendo: “Come me, ci sono altri 79 ostaggi che hanno bisogno di completare il cerchio e stanno aspettando di riempire i pezzi mancanti. Non dobbiamo fermarci qui; dobbiamo riportare tutti a casa: la vita per i sopravvissuti e l’onore per i caduti. Arriverà davvero la vittoria quando ogni ostaggio tornerà a casa”.
  Tom, il fratello di Emily, ha deciso invece di pubblicare su Instagram una foto della sorella con l’immagine di Aviv Baram, un caro amico di Emily ucciso il 7 ottobre. “Emily è venuta oggi per chiudere un cerchio – per conquistare la sua vittoria personale e tornare nel luogo in cui è stata rapita dai mostri di Hamas. È tornata qui con la sua famiglia e accompagnata da qualcuno che si è unito alla nostra famiglia ed è diventato una parte inseparabile di essa, Romi Gonen. Romi ed Emily sono diventate una cosa sola, ed è così incredibile vedere tutto questo oggi”, ha scritto Tom.
  Emily, cittadina britannica, è stata liberata dalla prigionia di Hamas nella Striscia di Gaza durante la prima fase dell’attuale scambio insieme a Romi Gonen e Doron Steinbrecher. Subito dopo il suo rilascio, è diventata simbolo di coraggio, dopo aver spinto uno dei terroristi di Hamas fuori dal veicolo che l’ha portata al punto di raccolta della Croce Rossa – e durante una telefonata, ha condiviso una sorprendente immagine di vittoria con suo fratello mostrandogli le sue dita mozzate. Fino al suo rilascio, Emily era l’unica cittadina britannica detenuta a Gaza. La mattina del 7 ottobre, i terroristi di Hamas hanno preso d’assalto la sua casa nel Kibbutz Kfar Aza, hanno ucciso il suo cane e l’hanno rapita. Anche sua madre, Mandy, si è nascosta quando i terroristi hanno fatto irruzione nella loro casa – ed è sopravvissuta dopo che un proiettile ha colpito la serratura della porta della stanza in cui si nascondeva, inceppandola in modo che i terroristi non potessero entrare.
  Circa una settimana e mezza prima del rilascio di Emily, sua madre ha supplicato: “Emily, se in qualche modo riesci a sentirmi, sappi che tutti ti amiamo infinitamente. Non passa un secondo senza che pensiamo a te, preghiamo per te, combattiamo in modo che tu possa tornare a casa viva”. Venerdì, Mandy ha rivelato che sua figlia è stata nascosta in una struttura gestita dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Ha detto di aver parlato con il primo ministro britannico Keir Starmer, ringraziandolo per il suo sostegno e la sua assistenza e ha aggiunto che “Hamas ha tenuto Emily nelle strutture dell’UNRWA e le ha negato l’accesso alle cure mediche dopo che era stata colpita due volte. È un miracolo che sia sopravvissuta” ha concluso Mandy.

(Shalom, 3 febbraio 2025)

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Israele e la sua terribile debolezza

Un incontro teso tra il ministro Orit Strook e i parenti degli ostaggi rivela le profonde divisioni in Israele su come affrontare Hamas e a quale costo salvare vite umane.

di Aviel Schneider

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I familiari degli ostaggi israeliani detenuti a Gaza durante una riunione del Comitato
per l'istruzione, la cultura e lo sport alla Knesset, 24 dicembre 2024                      

La scorsa settimana, il ministro degli Insediamenti ebraici e delle Missioni nazionali, Orit Strook
Il Ministro Orit Strook

(65), ha incontrato i familiari degli ostaggi israeliani non inclusi nell'attuale fase dell'accordo, nonché gli ostaggi liberati, per una difficile conversazione. Il ministro di destra e collega di partito del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich
Il Ministro Bezalel Smotrich

che era ed è fondamentalmente contrario all'accordo sugli ostaggi, ha incolpato l'accordo sugli ostaggi del 2011 per il raid del 7 ottobre, in cui sono state rapite 251 persone nella Striscia di Gaza. In quell'occasione, 1.027 terroristi palestinesi imprigionati in Israele furono rilasciati per il soldato israeliano Gilad Schalit . Nella riunione a porte chiuse, i familiari hanno cercato di far cambiare idea a Strook, ma le registrazioni audio della tesa conversazione hanno rivelato un divario incolmabile. Un incontro teso, le cui registrazioni audio sono state diffuse da N12 senza nominare i familiari.
Il dialogo rivela la profonda divisione nella società israeliana tra due visioni del mondo: alcuni chiedono la liberazione ad ogni costo, mentre altri vedono una capitolazione ad Hamas come un pericolo per nuovi rapimenti.
“Abbiamo insegnato loro che ne vale la pena”, ha detto Strook. “Il punto debole della società israeliana è la santificazione della vita. I nostri nemici lo hanno capito, ed è per questo che è successo di nuovo”.

Dalla conversazione:

    Familiare: “Siamo in questa situazione da più di un anno. Se finiamo la guerra, tutti gli ostaggi torneranno. Se Hamas attacca di nuovo, ci difenderemo di nuovo. Quindi perché non salvare chi possiamo ora e affrontare le conseguenze dopo?”.
    Ministro Strook: “So per certo che ogni ostaggio che riportiamo indietro porterà al prossimo rapimento. È sufficiente che rapiscano i nostri bambini, le donne e gli anziani - e noi ci inginocchiamo e diamo loro tutto ciò che chiedono”.
    Un familiare: “Ci hanno insegnato che la differenza tra noi e gli arabi è che noi santifichiamo la vita. Quando sentiamo affermazioni come la sua, cosa ci rende diversi da loro?”.
    Strook: “Ma noi santifichiamo la vita”.
    Familiare: “Se santifichiamo la vita, perché lasciamo gli ostaggi al loro destino?”.
    Strook: “Questa è la nostra terribile debolezza. In nessuna nazione, in nessun luogo del mondo è mai successo quello che è successo a noi il 7 ottobre. Ed è successo solo perché loro (Hamas) hanno capito che questo è il modo giusto per attaccare Israele”.
    I familiari: “No, è successo per un fallimento del vostro governo, dell'esercito e dei servizi segreti”.
    Ostaggio liberato: “Non è successo a causa dell'accordo sugli ostaggi, vi siete semplicemente dimenticati di noi per anni”.
    Strook: “Hamas si è deliberatamente concentrato sui rapimenti di massa perché noi, lo Stato di Israele, gli abbiamo insegnato che era molto utile. E ora glielo stiamo insegnando di nuovo”.
    Familiare: “Quello che ci state insegnando è che se veniamo rapiti, siamo da soli perché volete dare una lezione agli arabi”.
    Ostaggio liberato: “Mi state dimostrando che non vi importa dei vostri cittadini”.
    Strook: “Se non mi importasse, non saresti stato rilasciato - ho votato per il tuo rilascio”.
    Ostaggio liberato: “E ora vuole che la ringrazi? Ringraziarti per aver accettato di rilasciarmi? Sono stato rapito mentre lei era in carica! Non ho nessun premio!”.
    Strook: “Quindi dovrei cambiare il mio atteggiamento, un atteggiamento che serve solo a proteggere Israele e i suoi cittadini, solo perché lei ha un'opinione diversa?”.
    Familiare: “Se la guerra continua, *** potrebbe non sopravvivere nemmeno altri sei mesi”.
    Strook: “Non necessariamente”.
    Familiari: “Carmel Gat non è sopravvissuto, Eden Yerushalmi nemmeno”.
    Ostaggio liberato: “Hersch non è sopravvissuto”.
    Strook: “Ricordo bene i grandi festeggiamenti in Israele dopo l'accordo per l'ostaggio Gilad Schalit nel 2011. E alla fine, è proprio per questo che *** è ora in cattività”.
    Ostaggio liberato: “Questo è successo perché avete fallito, perché il vostro governo dormiva, perché non avete protetto i vostri cittadini. Se i servizi segreti avessero funzionato, se il governo avesse fatto in modo che i servizi militari e di intelligence facessero il loro lavoro - allora questo non sarebbe successo!”.

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu è negli Stati Uniti questa settimana per incontrare il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump per compiere il prossimo passo verso la liberazione di tutti gli ostaggi rimasti prigionieri a Gaza, compresi tutti i corpi. Sarà molto difficile, perché Israele dovrà accettare numerosi compromessi, come la fine della guerra. Anche se la maggioranza del governo ha votato a favore dell'attuale accordo sugli ostaggi, il governo dipende da Strook e dai suoi colleghi di partito di Otzma Yehudit e del Sionismo religioso, perché senza di loro il governo di Netanyahu cadrà.
Nonostante i numerosi sforzi dei familiari per sottolineare l'importanza di concludere l'accordo e liberare tutti gli ostaggi rimasti, anche nella fase finale, l'incontro con il ministro Strook ha dimostrato che le posizioni sembrano inconciliabili. Entrambe le parti hanno le loro argomentazioni, ed è questo che rende l'intera situazione del Paese così difficile. Da un lato, vediamo la situazione degli ostaggi e delle loro famiglie, e non dobbiamo abbandonare i nostri fratelli e sorelle in difficoltà, in conformità con il comandamento biblico “Non stare sul sangue del tuo prossimo”. D'altra parte, dobbiamo anche ammettere apertamente che rischiamo nuovi rapimenti. Per evitarlo, Israele deve distruggere Hamas & Co.

(Israel Heute, 3 febbraio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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"Non stare sul sangue del tuo prossimo", che significa? Si collega al versetto di Levitico 19:16 dove nelle traduzioni italiane il termine letterale "sangue" è reso con la parola "vita". Ricercando in rete ho trovato un articolo che ne dà una lettura ebraica. M.C.


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Il sangue del nostro vicino

Cosa c'è in una traduzione? Quando si tratta della traduzione di un versetto della Torah, c'è potenzialmente molto. Pertanto, leggendo la traduzione di Etz Hayim Humash di Levitico 19:16, sono stato colpito dalla sua traduzione non letterale di Lo ta-a-mod al dam ray-ekha. Nel contesto dei versetti circostanti riguardanti il trattamento equo e giusto degli altri, Etz Hayim traduce il nostro versetto: “Non trarre profitto dal sangue del tuo prossimo”, e il commento al versetto ci dice che, nel contesto, il versetto sembra significare: “Non perseguire il [tuo] sostentamento in un modo che metta in pericolo un altro o a spese del benessere di un altro”. (p. 696) Questa traduzione e questo commento sembrano adattarsi al contesto dei versetti circostanti.
Ma una traduzione più letterale del nostro versetto è: “Non stare a guardare [o “sopra”] il sangue del tuo prossimo” e la maggior parte dei commentari tradizionali non applica questa frase a una situazione di lavoro. Un commento sefardita del XVIII secolo, il Me'am Lo'ez, scritto da Rabbi Yitzchak Magriso, incorpora i precedenti commenti talmudici e medievali, aggiungendo poi la sua prospettiva contemporanea. Rabbi Magriso scrive
Nel comandamento “Non stare sul sangue del tuo prossimo” è inclusa l'ingiunzione che se uno vede il suo prossimo in pericolo e ha la possibilità di fare qualcosa, deve fare tutto ciò che è in suo potere per aiutarlo.
Per esempio, se uno vede qualcuno annegare o essere attaccato da assassini o bestie selvatiche, se può aiutarlo o far sì che altri lo facciano, è obbligato a farlo.
Se sente che altri hanno intenzione di uccidere il suo vicino o di fargli del male, ha l'obbligo di informarlo.Se sa che un gentile vuole fare del male al suo amico e può riconciliarli, ha l'obbligo di farlo.
Va da sé che se uno è a conoscenza del fatto che qualcuno vuole convertire con la forza il suo vicino a un'altra religione, ha l'obbligo di salvarlo. La conversione forzata equivale a distruggere un'anima. Allo stesso modo, se una persona è stata allontanata dall'ebraismo e si ha il potere di riportarla indietro, si ha certamente l'obbligo di farlo.
In tutti questi casi... Dio sta dicendo: “Non restate fermi e dite: ‘Tutto va bene per me’ quando vedete il vostro amico in pericolo. Devi fare ogni sforzo con tutte le tue forze per salvarlo”.

Il commento di Rabbi Magriso, originariamente scritto in ladino (giudeo-spagnolo), fu pubblicato per la prima volta a Costantinopoli nel 1753. Chiaramente, egli sentiva ancora le scosse di assestamento e forse gli ultimi tentacoli dell'Inquisizione che aveva tormentato il suo popolo in Spagna e Portogallo (e anche nel Nuovo Mondo) per centinaia di anni. Nella sua mente, il “sangue” del versetto 16 era potenzialmente molto reale e quindi l'imperativo di insegnare ai suoi seguaci a correre rischi per salvare i loro compagni ebrei era molto concreto.

(JTS, 1 maggio 2004)
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E' biblicamente valida questa interpretazione? Inoltre, è davvero applicabile all'attuale caso degli ostaggi catturati da Hamas?

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Diario minimo (di un conflitto). La rimozione automatica dell’intellighenzia italiana

di Luciano Assin

Il rilascio di cinque lavoratori tailandesi  dopo 482 lunghissimi giorni di prigionia da parte dei nazi islamisti di Hamas non è bastato per portare alla ribalta sui media italiani la crudeltà e la disumanità di questa organizzazione che ancora per troppi incarna il vero spirito della resistenza palestinese.
  Il 7/10 furono assassinati 49 lavoratori stranieri, per la maggior parte provenienti dal sud est asiatico. Nel novembre successivo vennero rilasciati 24 prigionieri, dopo la recente liberazione si trovano ancora nelle grinfie di Hamas 10 ostaggi assolutamente estranei al conflitto in corso fra Hamas ed Israele, di questi 7 sono ancora in vita e 3 sono stati ufficialmente dichiarati morti dallo stesso Hamas.Questi dati dovrebbero fare riflettere ognuno di noi sulla crudeltà, la disumanità e il cinismo di questi sedicenti partigiani. Che senso ha averli tenuti in prigionia anche per un solo singolo giorno? Qual è la logica contorta che porta i palestinesi a usura dei cadaveri come merce di scambio? A queste ed altre numerose domande non riesco a fornirmi delle risposte decenti nonostante viva in questa regione da quasi cinquant’anni.
  Chi di certo non si è mai posto questi quesiti etici sono i mass media italiani e la sterminata corte di commentatori, opinionisti e tuttologi onnipresenti in tutti i programmi riguardanti Israele. Questa rimozione automatica di qualsiasi forma di critica nei confronti della leadership palestinese presente nella maggior parte dell’intellighenzia italiana è una macchia etica che sarà difficile smacchiare ma a quanto pare non provoca particolari crisi di coscienza per chi la esercita.In questo sofferto ed interminabile periodo iniziato il 7 ottobre e di cui ancora non si vede la fine, i nominativi dei lavoratori stranieri prigionieri di Hamas sono stati regolarmente scanditi tutte le settimane in tutte le manifestazioni a favore della liberazione degli ostaggi. Insieme ai regolari contatti fra le famiglie israeliane e quelle straniere coinvolte in questo crimine così inumano e’ stato uno dei segnali più eloquenti della differenza abissale fra la grandezza dell’animo umano e l’abisso nel quale si può sprofondare. Ed i prossimi rilasci in programma nelle prossime settimane non faranno che rimarcare il baratro.

(Bet Magazine Mosaico, 3 febbraio 2025)

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La famosa “neutralità e indipendenza” della Croce Rossa è andata in frantumi a Gaza

Il Cicr è stato disposto a fungere da sostegno per Hamas, prima e dopo le atrocità del 7 ottobre 2023. L’organizzazione è stata in gran parte passiva e non è riuscita a usare il suo vasto prestigio per chiedere l’accesso agli ostaggi o fare una campagna per il loro rilascio. Mani legate.

Il 19 gennaio, in seguito alla conclusione dell’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas, tre donne israeliane sono state rilasciate dopo 471 giorni di prigionia a Gaza”, ricorda su Quillette Gerald Steinberg, direttore di Ngo Monitor. “Gli ostaggi sono stati trasferiti sui veicoli della Croce Rossa, dove sono stati scherniti da ‘militanti’ armati e da una folla minacciosa che si è schiacciata contro i finestrini e ha scandito ‘Allahu Akbar!’. I funzionari del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) non hanno fatto nulla per interferire con questa intimidatoria dimostrazione di indegnità e umiliazione pubblica. Al contrario, i funzionari in uniforme del Cicr hanno obbedito quando i combattenti di Hamas hanno consegnato loro ‘certificati di completamento da firmare’. Le tre giovani donne sono state quindi costrette a tenere questi documenti mentre venivano scattate le loro foto, come se fossero venute a Gaza per corsi universitari. 

  Questo spettacolo grottesco ha evidenziato il grado in cui il Cicr è stato disposto a fungere da sostegno per Hamas, prima e dopo che i jihadisti palestinesi hanno perpetrato le atrocità del 7 ottobre 2023. Più di 250 prigionieri sono stati sequestrati da Israele in quel giorno terribile. La maggior parte di loro erano vivi, alcuni erano già morti e un numero ancora sconosciuto è morto in prigionia o è stato assassinato dai rapitori. Nessuno dei rapiti israeliani ha ricevuto una visita dall’organizzazione apparentemente responsabile dell’attuazione dei requisiti della Convenzione di Ginevra. La Croce Rossa non ha fornito un briciolo di informazione alle famiglie tormentate in merito alle condizioni dei prigionieri perché, come insistono blandamente le sue stesse dichiarazioni ufficiali, senza l’accordo di Hamas, ‘il Cicr non può agire’. Giustificazioni come queste sono tecnicamente corrette, ma eludono le questioni principali sollevate dai critici del Cicr. La rabbia espressa da israeliani e altri non è causata dal fallimento del Cicr nel costringere in qualche modo Hamas a consentire le visite e a fornire farmaci. Il problema è che l’organizzazione è stata in gran parte passiva e non è riuscita a usare il suo vasto prestigio per chiedere l’accesso agli ostaggi o fare una campagna per il loro rilascio. I funzionari della Croce Rossa che hanno viaggiato in tutta la regione, incluso il Qatar, non hanno tenuto conferenze stampa in cui questo messaggio sarebbe stato amplificato. Né hanno pubblicato lettere pubbliche indirizzate, ad esempio, ai capi del governo del Qatar, chiedendo assistenza per spingere Hamas a seguire i princìpi umanitari e legali fondamentali sul trattamento dei suoi ‘prigionieri’. 

Quando sono apparsi sulle principali piattaforme mediatiche, i funzionari del Cicr non hanno battuto sui tavoli né hanno avanzato alcuna richiesta ad Hamas. Come ha sottolineato Richard Goldberg, un consulente senior della Foundation for the Defense of Democracy di Washington, ‘molti membri del Comitato internazionale della Croce Rossa, che hanno visitato Gaza, tenuto conferenze stampa e se ne sono andati senza scatenare l’inferno su Hamas, scalciando e urlando e chiedendo di vedere gli ostaggi, hanno le mani sporche di sangue’. I funzionari del Cicr hanno offerto docilmente e ripetutamente la scusa che scalciare, urlare e sbattere sui tavoli era semplicemente impossibile. Allo stesso modo, sulle piattaforme dei social media, i riferimenti agli ostaggi erano pochi e rari. Nel 2024, l’account Icrc in Israele ha inviato solo sette tweet che menzionavano gli israeliani su centinaia di post. L’account principale @ICRC, che ha un seguito enorme di 2,2 milioni di follower, è in grado di indicare qualche altro esempio, ma la maggior parte di questi ha ripetuto la scusa dell’organizzazione secondo cui le sue mani erano legate dalle apparenti limitazioni del suo ruolo di ‘intermediario neutrale’. 

  Questa politica strettamente legalistica ricorda la vergognosa inazione del Cicr durante l’Olocausto nazista, quando i suoi funzionari ignorarono le prove interne ed esterne dei campi di sterminio tedeschi e della ‘Soluzione finale’. I leader della Croce Rossa hanno deliberato e deciso di evitare condanne pubbliche che avrebbero creato attriti tra le autorità naziste e i funzionari svizzeri. Quella politica non era semplicemente passiva: il Cicr era anche un partecipante volontario alle prove di propaganda nazista. Nello specifico, l’organizzazione presentò il ghetto di Theresienstadt come un ‘modello’ per il Cicr, il che lo portò a far circolare un falso rapporto in cui si affermava che gli ebrei non venivano trasferiti nelle camere a gas. Ci vollero sessant’anni, un’enorme pressione e l’emergere di documenti che rivelavano la duplicità morale dell’organizzazione prima che la Croce Rossa riconoscesse che Auschwitz ‘rappresenta il più grande fallimento nella storia del Cicr, aggravato dalla sua mancanza di risolutezza nell’adottare misure per aiutare le vittime del nazismo’. La loro dichiarazione concludeva: ‘Per il Cicr il modo più appropriato per onorare le vittime e i sopravvissuti... è lottare per un mondo in cui la dignità umana di ogni uomo, donna e bambino sia rispettata senza riserve. Forse non sarà mai possibile raggiungere pienamente questo obiettivo, ma la memoria di Auschwitz ci obbliga a fare tutto ciò che è in nostro potere per lavorarci’. 

Nonostante queste nobili parole, la risposta della Croce Rossa agli ostaggi e alla guerra di Gaza è strettamente parallela all’inazione e alle scuse dell’organizzazione durante la Shoah. Come le vittime che languivano nei campi di concentramento nazisti, gli ostaggi israeliani che languivano a Gaza sono diventati non-persone, né visti né ascoltati nelle azioni e nelle campagne pubbliche del Cicr. I doppi standard del Cicr sono particolarmente irritanti. Per quanto riguarda gli israeliani, la politica di neutralità è una strada a senso unico. Il Cicr si è ripetutamente e apertamente unito alle intense campagne politiche condotte dalle agenzie delle Nazioni Unite e dalle ong alleate come Amnesty International e Human Rights Watch, che descrivono l’antiterrorismo di Israele a Gaza come gravi violazioni del diritto internazionale. Durante il conflitto di Gaza, il Cicr ha ripetutamente condannato le azioni militari israeliane che coinvolgevano ospedali e cliniche a Gaza, ma non ha detto nulla sullo sfruttamento esteso di queste strutture da parte di Hamas. Per anni, il personale del Cicr a Gaza ha incluso personale permanente, e sono state frequenti le visite di alti funzionari. Come le loro controparti delle Nazioni Unite e delle ong, erano tutti a conoscenza della vasta rete di tunnel costruita da Hamas sotto scuole, ospedali, cliniche, moschee, residenze e parchi. Questi tunnel erano essenziali per la strategia terroristica di Hamas, anche per la produzione e lo stoccaggio di migliaia di razzi utilizzati per colpire i centri abitati israeliani. Ognuno di questi attacchi contro Israele è stato un crimine di guerra, ma la Croce Rossa non ha riferito nulla, a differenza dei giornalisti e dei dottori che hanno osservato e documentato la presenza di armi e combattenti di Hamas e lo sfruttamento sistematico di ospedali e altre strutture mediche per la guerra e il terrorismo. 

La sede centrale della Croce Rossa a Ginevra si trova vicino all’edificio dell’Oms e di fronte al vecchio complesso della Società delle Nazioni, che ora ospita agenzie come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il Cicr è un’entità privata svizzera che opera secondo un accordo con il governo svizzero, che include anche l’immunità legale per lo staff dell’organizzazione, nonché esenzioni e altri privilegi paragonabili a quelli di cui godono le ambasciate di paesi sovrani. I funzionari di alto livello, principalmente il presidente e il direttore generale, sono responsabili delle operazioni e sono nominati dall’Assemblea del Cicr, composta da 25 cittadini svizzeri che, secondo le normative, devono essere francofoni. Il fallimento della Croce Rossa nell’agire durante l’Olocausto è stato parallelo alla politica apparentemente neutrale della Svizzera di non irritare il regime nazista tedesco. 

I processi decisionali del Cicr sono chiusi e generalmente privi di trasparenza, il che, a sua volta, impedisce una responsabilità sistematica e un’analisi indipendente. Per la maggior parte, le principali piattaforme mediatiche svizzere fungono da camere di risonanza a sostegno della leadership del Cicr, aggravando la mancanza di responsabilità. Le critiche sistematiche della Svizzera a Israele e il sostegno più generale alla causa palestinese si riflettono quindi nel Cicr, incluso il suo allontanamento dalla politica europea mantenendo un ‘dialogo’ con Hamas. L’attuale direttore generale del Cicr è Pierre Krähenbühl, un’importante figura politica svizzera che ha ricoperto una posizione di alto livello nell’organizzazione dal 1991 al 2014. E’ stato poi nominato capo dell’Unrwa, un’agenzia nota per il suo stretto coinvolgimento con Hamas. Nel 2019, in seguito a numerose segnalazioni di cattiva gestione e corruzione e a un’indagine ufficiale, Krähenbühl si è dimesso dall’Unrwa (…) 

Elliott Abrams, ex direttore senior del Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e assistente del segretario di stato per i diritti umani e gli affari umanitari, ha suggerito che gli Stati Uniti trattengano i loro finanziamenti (622 milioni di dollari), che ammontano a circa un quarto del budget totale del Cicr di 2,8 miliardi di dollari. Se gli Stati Uniti prendessero l’iniziativa, alcuni altri governi dei principali donatori potrebbero seguire, a seconda degli allineamenti politici. Ma per ora e per il prossimo futuro, il Cicr è oggetto di un’intensa rabbia israeliana (…). L’illusione attentamente curata del Cicr di ‘neutralità, imparzialità e indipendenza’ è  scomparsa ed è stata sostituita da una reputazione di palese ipocrisia che Israele non può più permettersi di tollerare”.

Il Foglio, 3 febbraio 2025 - trad. Giulio Meotti)

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Firenze – Il seminario dell’Università di Tel Aviv: affrontiamo l’antisemitismo, rafforziamo la resilienza

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Milette Shamir

In un palazzo del centro storico di Firenze è in corso il seminario “Affrontare l’antisemitismo. Creare la resilienza”, promosso dall’Università di Tel Aviv e rivolto a un pubblico di accademici, studiosi di storia ebraica, professionisti. L’evento è disturbato da alcune decine di manifestanti propal che, all’esterno dell’edificio, hanno intonato per ore slogan anti-israeliani, fischiato e rullato tamburi. A separarli dal luogo della conferenza uno schieramento ingente di forze di polizia.«La nostra università è stata spesso al centro della campagna di boicottaggio internazionale. Vi ringraziamo per essere venuti qui, per avere avuto coraggio», ha dichiarato la vicepresidente dell’ateneo Milette Shamir in apertura di evento. «La contestazione ha seguito un suo iter in questi mesi. All’inizio ci hanno accusati di praticare apartheid, poi di essere complici di “crimini di guerra” a Gaza. È una campagna basata su disinformazione e bugie, ma che sta purtroppo lasciando il segno. Ne sentiamo gli effetti, anche se non intendiamo arretrare e puntiamo anzi a rafforzare le collaborazioni». Il seminario fiorentino, ha aggiunto Shamir, si inserisce in quella direzione: «Siamo qui per condividere alcune competenze su antisemitismo e resilienza, ma anche per ascoltare quello che avete da raccontarci. Perché è indubbio che dal 7 ottobre si siano presentate sfide molto grandi nei campus, negli spazi pubblici, nella vita quotidiana».

La relazione di Tamir Herzig
  Sullo stesso tema si sono soffermati nel suo saluto introduttivo il console onorario d’Israele in Toscana Marco Carrai, costretto da tempo a una vita sotto scorta, e la prima relatrice del workshop: la storica israeliana Tamir Herzig. Specializzata in storia del Rinascimento, Herzig ha confessato di essersi ricreduta sulla sua iniziale convinzione rispetto all’antisemitismo come a un fenomeno esclusivo del passato. «Dopo il 7 ottobre», ha affermato, «mi sono confrontata per la prima volta con docenti e studenti italiani spaventati all’idea di essere identificati come ebrei». Herzig ha anche menzionato l’esistenza di testi respinti da riviste accademiche per via dell’identità dei loro autori e il «silenzio» di parte del sistema universitario verso i crimini compiuti da Hamas. A detta di Herzig, l’università vive di «conformismo». Ed è un conformismo anti-israeliano.

La relazione di Uriya Shavit
  Uriya Shavit, docente al dipartimento di studi arabi e islamici, si è poi soffermato sulle diverse declinazioni dell’antisemitismo, parlando inoltre delle “sfide identitarie” che attendono le comunità ebraiche in futuro. Nella sua relazione il docente ha affrontato tra i vari temi la «storia molto complicata» delle relazioni del mondo arabo e islamico con l’antisemitismo. Per secoli, ha spiegato Shavit, «gli ebrei residenti in società arabe hanno vissuto molto meglio degli ebrei abitanti in paesi cristiani». Definirla un’età dell’oro come fatto da alcuni sarebbe un errore, «perché la loro vita era tutto fuorché luminosa», ma una retorica antiebraica di un certo tipo non fu comunque un tratto distintivo di quelle società. Molto diversa la situazione attuale, ha proseguito il docente. Le comunità ebraiche nel mondo arabo sono quasi del tutto scomparse e l’antisionismo arabo è oggi di fatto “nutrito” dal più classico vocabolario antisemita. Per quanto riguarda il mondo ebraico, l’invito del docente è ad aprirsi alla società, condividendo feste e ritualità con un pubblico non ebraico e cercando collaborazioni e intese a tutti i livelli. Anche con le comunità islamiche di riferimento, ovviamente quando possibile. Per Shavit, in ogni caso, la più grande sfida che riguarda l’ebraismo in Diaspora è la ridefinizione stessa di identità ebraica «in un contesti in larga maggioranza secolarizzati». Secondo Shavit, combattere l’antisemitismo ed essere al fianco di Israele non sarà abbastanza per garantire la continuità.
  I lavori proseguiranno nel pomeriggio di lunedì e tutta la giornata di martedì. Tra gli argomenti in discussione ci sono “Strategie educative e linee guida per combattere l’antisemitismo”, “Resilienza individuale, comunitaria e sociale” e “Prendere le decisioni in condizioni di incertezza”.

(moked, 3 febbraio 2025)

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La posizione celeste e l'uomo nuovo

L'effusione dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste è avvenuta sul suolo ebraico, nella capitale ebraica Gerusalemme, in una festa ebraica e al popolo ebraico.

di Norbert Lieth

Presi insieme, in Efesini 1:20 e 2:6 l'apostolo Paolo rivela qualcosa di straordinario

    « ... operando in Cristo, risuscitandolo dai morti; e lo pose alla sua destra nei luoghi celesti»,
    « ... ci ha risuscitati con lui e ci ha fatti sedere con lui nei luoghi celesti in Cristo Gesù».

In queste due affermazioni, vediamo una nuova rivelazione data all'apostolo Paolo dall’innalzato Signore,  riguardante il corpo di Cristo, che non era ancora stata data nei Vangeli.
  Nel passo di Matteo, quando Giacomo e Giovanni chiedono al Signore di sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel regno imminente, Gesù risponde:

    «Voi certo berrete il mio calice; ma quanto al sedersi alla mia destra e alla mia sinistra, non sta a me concederlo, ma sarà dato a quelli per cui è stato preparato dal Padre mio» (Matteo 20,23).

In quel momento, si riferivano al regno messianico che il Signore avrebbe stabilito sulla terra, in cui i dodici apostoli sarebbero stati chiamati a sedere su dodici troni per giudicare le dodici tribù d'Israele (Matteo 19,28). Gesù aveva già comunicato loro questo aspetto.
  Tuttavia, più avanti è stato rivelato il corpo di Cristo, un'entità speciale che non era ancora stata compresa nei Vangeli. Questo corpo occupa una posizione particolare nei luoghi celesti, non sulla terra, essendo in Cristo e alla destra di Dio. Questa è la posizione della chiesa dei Giudei e dei Gentili del Nuovo Testamento (cfr Colossesi 3,1-3). Nella sezione successiva, vedremo come questo corpo è stato formato.

Il nuovo umano

    «Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. 14 Lui, infatti, è la nostra pace; lui, che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione, abolendo nel suo corpo terreno la causa dell'inimicizia, 15 la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; 16 e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la croce, sulla quale fece morire l'inimicizia. 17 Con la sua venuta ha annunciato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; 18 perché per mezzo di lui abbiamo gli uni e gli altri accesso al Padre in un medesimo Spirito» (Efesini 2,13-18).

In questo passaggio, l'apostolo Paolo rivela qualcosa di straordinario, che in precedenza era sconosciuto. Il sangue di Gesù non solo ha avvicinato le nazioni, e questo poteva essere intuito anche dall'Antico Testamento e dai Vangeli, ma c'è qualcosa di nuovo, qualcosa che non era ancora stato rivelato: Cristo non solo ha avvicinato le nazioni affinché partecipassero alla redenzione, ma Dio le ha unite, attraverso l'opera redentrice di Gesù. Il recinto che separava ebrei e gentili, ovvero l'antica alleanza con la legge dei comandamenti espressi in ordinanze, è stato abbattuto. In questo modo, è nato qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che prima non esisteva: un nuovo essere umano, composto da credenti ebrei e gentili, è emerso. Essi sono stati uniti in un solo corpo e riconciliati con Dio, avendo ora accesso al Padre in un unico Spirito. Questa è la trasformazione che rende una persona nuova.
  Ora la domanda è: quando nella storia è avvenuto questo evento? Quando i Gentili sono stati aggiunti alla chiesa dei Giudei, creando qualcosa di nuovo? Questo è riportato in Atti 10.
  Fino a quel momento, c'era stata soltanto una comunità puramente ebraica. Fino ad Atti 8 non era stato rivolto neanche un messaggio a persone provenienti dai Gentili. L'effusione dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste è avvenuta sul suolo ebraico, nella capitale ebraica di Gerusalemme, durante una festa ebraica e al popolo ebraico. Questo avvenimento aveva anche adempiuto una promessa fatta da Dio al popolo ebraico attraverso un profeta ebreo (Atti 2:16; Gioele 3:1-5).
  È evidente che tutto questo è avvenuto all'interno di un contesto ebraico, su uno sfondo ebraico e su una base ebraica fino ad Atti 10. Ma quando il centurione romano Cornelio si convertì (Atti 10), ricevette visibilmente lo Spirito Santo, proprio come gli ebrei nel giorno di Pentecoste. Questa ripetuta effusione dello Spirito Santo era importante per la comunità ebraica per comprendere cosa stesse facendo Dio. Se la chiesa degli Ebrei e dei Gentili fosse sorta nel giorno di Pentecoste, questo evento speciale non sarebbe stato necessario. Dio avrebbe potuto già aggiungere le nazioni a quella comunità.
  Tuttavia, nel giorno di Pentecoste, sorse una comunità puramente giudaica (Matteo 16,18), alla quale si aggiunsero i gentili secondo Atti 10. Da quel momento in poi, vediamo emergere l'unico corpo di Cristo, composto da ebrei e gentili.
  È stato questo evento descritto in Atti 10 che ha avuto Pietro come figura chiave; perciò, gli fu anche mostrata la visione preparatoria del lenzuolo con gli animali impuri. Ma solo più tardi l'apostolo Paolo riuscì a comprendere tutta la profondità di questo evento.

(Chiamata di Mezzanotte, lug/ago 2023)



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Netanyahu condanna la “crudeltà inimmaginabile” di Hamas

“Chiedo ai mediatori di garantire che scene così terribili non si ripetano”, ha dichiarato il primo ministro israeliano dopo che folle di residenti della Striscia di Gaza hanno molestato gli ostaggi.

di Canaan Lidor

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha condannato giovedì la folla che nella Striscia di Gaza ha infastidito tre ostaggi israeliani mentre venivano rilasciati da Hamas.
“Considero molto gravi le scene scioccanti che si sono verificate durante il rilascio dei nostri ostaggi”, ha scritto Netanyahu dopo la liberazione di Arbel Yehud, Gadi Mozes, Agam Berger e cinque cittadini thailandesi, tutti rapiti a Gaza il 7 ottobre 2023.
“Questa è un'ulteriore prova dell'inimmaginabile crudeltà dell'organizzazione terroristica di Hamas. Chiedo ai mediatori di assicurare che tali scene orribili non si ripetano e di garantire la sicurezza dei nostri ostaggi. Chiunque osi fare del male ai nostri ostaggi lo fa a proprio rischio e pericolo”, ha scritto Netanyahu.
Le immagini del salvataggio mostrano una folla esultante riunita intorno alle auto con gli ostaggi e i terroristi di Hamas che scortano gli israeliani fuori dai veicoli.
Il leader del partito Otzma Yehudit, Itamar Ben-Gvir, un critico dell'accordo di cessate il fuoco il cui partito si è recentemente dimesso dal governo per questo motivo, ha definito la rappresentazione una “scena dell'orrore” che dimostra che “questa non è una vittoria totale, ma un fallimento totale, in un accordo irresponsabile”.
Il governo, ha continuato, “avrebbe potuto trattenere gli aiuti umanitari, il carburante, l'elettricità e l'acqua dalla folla assetata di sangue che ora cerca di linciare i nostri ostaggi e schiacciarli militarmente”.
Israele ha accettato di rilasciare 110 terroristi in cambio dell'ultimo gruppo di ostaggi, tra cui Zakaria Zubeidi, Mohammad Abu Warda e Sami Jaradat, come riporta Channel 12.
Zubeidi era il leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa di Fatah nella città di Jenin, in Samaria, ed è evaso per breve tempo dal carcere israeliano di massima sicurezza di Gilboa nel settembre 2021. Poiché Zubeidi non è stato condannato per omicidio ma per altri reati di terrorismo, non sarà espulso e si prevede che venga rilasciato in Samaria.
L'accordo raggiunto tra Hamas e Israele il 19 gennaio prevedeva il rilascio di oltre 90 ostaggi in cambio di quasi 2.000 prigionieri e detenuti palestinesi. Israele ha accettato di dislocare le proprie truppe nella Striscia di Gaza e di consentire il reinsediamento nel nord del territorio.
La prima fase dell'accordo prevede il rilascio di 33 ostaggi in cambio di oltre 700 prigionieri palestinesi e più di 1.000 detenuti in un periodo di 42 giorni. Dei 33 ostaggi israeliani presenti nella lista della prima fase, 10 sono stati finora restituiti.

(Israel Heute, 1 febbraio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La scelta di Israele. Su dieci terroristi palestinesi liberati, otto tornano a uccidere

La storia si ripete e sempre come tragedia. In quarant’anni, 7.747 terroristi  per 147 ostaggi israeliani, civili e militari, vivi o morti. Il prezzo atroce che da mezzo secolo il paese ostaggio dell’odio deve pagare per continuare a esistere.

di Giulio Meotti

In quarant’anni, 7.747 terroristi palestinesi per 147 ostaggi israeliani, civili e militari, vivi o morti. Questo è il bilancio del ricatto a cui è stato costretto Israele dal 1985 a oggi. A cui vanno aggiunti i 251 ostaggi rapiti il 7 ottobre da Hamas, dal Jihad islamico e da civili di Gaza non affiliati alle sigle del terrore a cui li hanno poi venduti. 113 ostaggi sono tornati in Israele al novembre 2023 (al termine della prima tregua); otto sono stati salvati vivi dall’esercito israeliano nel corso di operazioni speciali a Gaza. Dal 19 gennaio scorso è in corso la seconda tregua che prevede il rilascio, in un arco di 42 giorni, di 33 ostaggi in cambio di 1.904 terroristi palestinesi. Quanti moriranno domani per riavere oggi gli ostaggi?
Venerdì scorso, il direttore dello Shin Bet Ronen Bar ha presentato al gabinetto di sicurezza israeliano le statistiche che indicano che “l’82 per cento di coloro che sono stati rilasciati nell’accordo per Gilad Shalit nel 2011 sono tornati al terrorismo”. La storia non si ripete, si dice spesso. Ma nel caso di Israele, si ripete sempre. E sempre come tragedia, mai come farsa.
Il più infame dei terroristi rilasciati nel 2011, a cui avevano curato anche un cancro in carcere, è stato ovviamente il leader di Hamas, Yahya Sinwar, e decine di suoi uomini saliti alla guida del gruppo. L’ex leader militare di Hamas, Ahmed Jabari, si vantava che i prigionieri rilasciati in base a quell’accordo erano stati responsabili dell’uccisione di 569 israeliani. Sinwar avrebbe poi pianificato la morte di 1.200 israeliani.
Fra i 1.027 terroristi che nel 2011 Israele liberò per riavere il caporale  Shalit, prigioniero di Hamas per cinque anni, c’erano Abed al Hadi Ganaim, che scaraventò un autobus da un dirupo uccidendo sedici persone; Walid Anajas, che uccise una dozzina di israeliani al Moment Caffè di Gerusalemme; Abd al Aziz Salaha, che fece a pezzi due riservisti israeliani che avevano preso la strada sbagliata a Ramallah (sue sono le mani sporche di sangue mostrate da una finestra e che sarebbero diventate uno dei simboli delle manifestazioni pro Gaza in occidente); Musab Hashlemon, sedici ergastoli per due attentati a Beersheba; Ibrahim Jundiya, dodici ergastoli per l’attacco alla stazione degli autobus a Gerusalemme; Fadi Muhammad al Jabaa, diciotto ergastoli per la strage in un autobus di Haifa; Husam Badran, che ha fatto strage di venti ragazzini russi al Dolphinarium di Tel Aviv e quattordici che pranzavano al ristorante Matza di Haifa. Israele “condonò” 924 ergastoli per riavere uno solo dei suoi.  
La prima crepa nella posizione ufficiale israeliana del “non si tratta coi terroristi” apparve nel 1968, quando Israele accettò di scarcerare sedici terroristi in cambio di dodici ostaggi su un aereo El Al costretto ad atterrare ad Algeri. Nel 1969 Israele scarcerò settantuno terroristi in cambio di 113 ostaggi a bordo dell’aereo TWA diretto a Tel Aviv e dirottato a Damasco. Nel 1970, il guardiano notturno Shmuel Rosenwasser, rapito da Fatah nella cittadina israeliana di Metulla al confine con il Libano, venne rilasciato in cambio di Mahmoud Hijazi, un capo di Fatah. Ma i ricatti dei terroristi continuarono a crescere. Israele sarebbe arrivato a uno dei suoi per mille dei loro. Poi la tragedia olimpica di Monaco, con la dilettantesca operazione tedesca che finì con l’uccisione da parte di “Settembre nero” di tutti gli ostaggi israeliani.
Da allora, le vittime del terrorismo e i loro famigliari iniziarono a guardare impotenti mentre quelli che avevano inflitto loro morte e dolore venivano lasciati andare, spesso dopo pochi anni di carcere. I soldati israeliani che avevano rischiato la vita (e in tanti ce l’avrebbero lasciata) per arrestare quei terroristi vedevano tutte le loro fatiche gettate al vento. E il serbatoio di terroristi, desiderosi solo di ammazzare quanti più ebrei possibile, veniva regolarmente rifornito, spesso a un ritmo incredibile. Alla fine, nessun israeliano avrebbe più potuto sentirsi al sicuro. Che da quarant’anni lo stato ebraico, unico tra le nazioni, debba fare ogni volta un calcolo così tragico non è motivo di festa. E certamente non hanno diritto di gioire gli europei che dedicano le strade a Marwan Barghouti.
Il primo a comprendere quanto fosse fragile e sensibile l’opinione pubblica israeliana sulla questione degli ostaggi e dei dispersi fu Ahmed Jibril, il leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Nel 1978, Israele iniziò una campagna militare per cacciare i terroristi dal Libano meridionale, da dove stava lanciando attacchi mortali contro i civili israeliani della Galilea. Cinque soldati israeliani, Avraham Amram e altri quattro, furono catturati. Quando iniziarono le trattative per il rilascio dei soldati, gli israeliani speravano di mantenere qualsiasi scambio su uno di due parametri. Un israeliano per un terrorista. E se necessario, tutti i palestinesi catturati in una operazione con gli israeliani catturati nello stesso lasso di tempo. I terroristi, guidati da Jibril, rifiutarono lo schema. Alla fine, gli israeliani capitolarono, scambiando 76 prigionieri per Amram e gli altri. Jibril aveva imparato una lezione importante. In una intervista nel 2006 a Damasco, gli occhi di Jibril si illuminarono quando parlò dell’“operazione Kiryat Shmona”, dove i terroristi arrivati dal Libano erano entrati in un edificio residenziale e  massacrato diciotto uomini, donne e bambini. Jibril fantasticava di “soldati iraniani che entrano a Gerusalemme”.
Il più grande successo di Jibril arrivò nel 1985, quando in cambio di tre soldati israeliani ottenne il rilascio di 1.150 prigionieri. Il gruppo comprendeva alcuni dei terroristi più infami detenuti da Israele, tra cui Ahmed Yassin, che di lì a poco avrebbe fondato Hamas, e Kozo Okamoto, un membro dell’Armata Rossa giapponese che partecipò al massacro di ventisei israeliani all’aeroporto di Lod nel 1972. Fu liberato anche Ziad Nakhaleh, l’attuale leader del Jihad islamico palestinese. Sulla scia della richiesta di Jibril, Israele tentò di fare pressione su di lui rapendo il figlio di sua sorella, Murad al Bushnak, che gli agenti israeliani avevano attirato a Beirut con la promessa di un weekend di sesso, droga e gioco d’azzardo. Israele fece a Jibril una semplice offerta, uno scambio rapido, senza che nessuno lo sapesse: Bushnak per i tre israeliani. Jibril aumentò il prezzo per includere anche il nipote. Due anni dopo lo scambio scoppiò la prima Intifada, in cui ebbero un ruolo chiave i terroristi rilasciati. Quasi duecento i civili israeliani uccisi.
Intanto, nell’estate del 1986, due ufficiali si incontrarono al quartier generale del Comando Nord e stilarono uno degli ordini  più controversi nella storia delle Forze di difesa israeliane. Erano il colonnello Gabi Ashkenazi (poi capo di stato maggiore sceso in politica) e il colonnello Yaakov Amidror, futuro consigliere per la sicurezza di Benjamin Netanyahu. L’ordine diceva: “Durante un rapimento, la missione principale è salvare i nostri soldati dai rapitori anche a costo di ferire o uccidere i nostri soldati”. Scelsero un nome in codice: “Annibale”. Dal punto di vista dell’esercito, un soldato morto era meglio di un soldato prigioniero che costringe lo stato a liberare migliaia di prigionieri per ottenere la sua liberazione. Morti o vivi, nessun soldato resta indietro.
Benjamin Netanyahu intanto pubblicava un libro intitolato “Terrorismo. Come l’occidente può sconfiggerlo”, in cui sosteneva di non negoziare con i terroristi in nessuna circostanza. Scrisse: “Questa  politica dice ai terroristi che non cederemo alle loro richieste. Insistiamo affinché liberiate gli ostaggi. Se non lo farete pacificamente, siamo pronti a usare la forza. Stiamo offrendo un semplice scambio: la vostra vita per la vita degli ostaggi. In altre parole, l’unico ‘accordo’ che siamo disposti a fare con voi è questo: se vi arrendete senza combattere, rimarrete vivi”. Ma anche Netanyahu, come il governo laburista del tempo, avrebbe firmato due dei più grandi scambi di terroristi della storia israeliana. Dopo l’accordo Jibril del 1985, il ministero della Difesa israeliano ha stabilito che 114 dei 238 che erano stati rilasciati erano subito tornati al terrorismo. Nel periodo 1993-1999, 6.912 terroristi sono stati liberati in seguito a vari accordi. Nel settembre 1997, Hadi Nasrallah, figlio del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, fu ucciso in uno scontro con le truppe israeliane. Gli israeliani speravano che, con il suo corpo nelle loro mani, i negoziati per la restituzione dei corpi dei soldati israeliani detenuti da Hezbollah avrebbero accelerato. Yaakov Perry,  capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele, era responsabile del caso. “Eravamo ottimisti, pensavamo che ci saremmo avvicinati a una soluzione, ma Nasrallah era indifferente. Ha ordinato ai suoi uomini di non mettere il nome di suo figlio in cima alla lista e di trattarlo come tutti gli altri caduti. In seguito ho sentito che quando la bara di Hadi è arrivata in Libano, suo padre ha sollevato il coperchio, ha guardato il corpo del suo amato figlio e lo ha chiuso. Non un muscolo del suo viso si è mosso”. Il capo dell’intelligence tedesca dell’epoca, August Hanning, che mediava un accordo tra Israele e i terroristi, si sentì dire da Nasrallah che “gli israeliani hanno un atteggiamento molto insolito su questa questione”. Nasrallah lo sapeva e alzò la posta dell’orrore: “Abbiamo teste, mani, piedi, e un cadavere israeliano quasi completo della testa al bacino”. Nel 2004 Israele ha liberato quattrocento terroristi palestinesi in cambio di Elhanan Tannenbaum, tenuto prigioniero da Hezbollah, e dei corpi di tre soldati rapiti sul monte Dov. Tra i terroristi rimessi in libertà figurava Mustafa Dirani, responsabile della cattura nel 1986 del pilota israeliano Ron Arad, scomparso in Iran. Dirani era stato catturato nel 1994 con un’audace operazione israeliana nel tentativo di ottenere la restituzione dell’aviatore. Dirani oggi vive da uomo libero in Libano, di Arad più nessuna traccia. L’ex capo del Mossad, Meir Dagan, avrebbe rivelato che uno di quelli rilasciati in quell’accordo, Luay Saadi, da solo sarebbe tornato a uccidere trenta israeliani. La prima guerra del Libano del 2006 scoppiò con il rapimento di due soldati israeliani: due anni dopo, Hezbollah riuscì a scambiare i loro corpi con i terroristi vivi. Migliaia di terroristi liberati tra il 1993 e il 1999 hanno preso parte alla seconda Intifada, durante la quale mille israeliani sono stati assassinati. Abbas Muhammad Alsayd, rilasciato nel 1996, è stato coinvolto nell’attentato del 2002 a un seder pasquale a Netanyahu, dove morirono numerosi sopravvissuti alla Shoah. Nel 1998, Iyad Sawalha è stato rilasciato come gesto di “buona volontà”: quattro anni dopo ha fatto esplodere una bomba che ha ucciso diciassette persone. Sette mesi dopo il rilascio, Ramez Sali Abu Salmin si è fatto esplodere in un bar di Gerusalemme, uccidendo sette persone. Abdullah Abd Al Kadr Kawasme fu arrestato in seguito all’omicidio del poliziotto israeliano Nissim Toledano ed esiliato. Tornò a fare quello per cui era diventato famoso, tra cui l’infiltrazione nella comunità di Adura il 27 aprile 2002, dove furono uccise quattro persone, tra cui la bambina di cinque anni Danielle Shefi. Kawasme fu  responsabile di due attentati suicidi a Gerusalemme nel maggio 2003, in cui furono uccise sei persone, e nel giugno 2003 in cui furono uccise 17 persone.
Nel 2006 il rapimento di Gilad Shalit. E chi continuava a parlare di “occupazione”, si era forse dimenticato che Shalit era l’unico ebreo rimasto nella Striscia di Gaza. La famiglia del caporale iniziò a fare pressioni sul governo per un accordo per liberare il figlio. Non avrebbero permesso che Gilad fosse un altro Nachshon Wachsman, il soldato rimasto ucciso in un tentativo di salvataggio. Wachsman era figlio di Esther, nata in un campo della Croce Rossa da genitori sopravvissuti alla “soluzione finale” in cui le loro famiglie erano state cancellate. Il figlio fu rapito dai terroristi e mostrato in video da Hamas. Il rabbinato d’Israele chiese al popolo ebraico di leggere ogni giorno tre Salmi. Vecchi e bambini, uomini e donne, chassidim in nero e laici con le kippà, si radunarono al Muro occidentale per intercedere per Wachsman. Le Brigate al Qassam, ala militare di Hamas, diffusero un filmato in animazione grafica in cui si vede Shalit tornare a casa in una bara. Nel cartone animato, intitolato “Il sentimento nella società sionista su Shalit”, si vede il padre Noam, invecchiato e col bastone, che vaga sconsolato per la strade d’Israele stringendo una foto del figlio ancora ostaggio. Poi l’anziano padre che siede in attesa al valico di Erez fra la Striscia di Gaza e Israele finché non gli viene consegnata una bara coperta dalla bandiera israeliana.
Al tempo dell’affare Shalit non si conoscevano ancora i nomi, i volti e le famiglie di coloro che sarebbero stati uccisi da alcuni dei 1.027 terroristi islamici rilasciati in cambio di Shalit. E poi arrivò il 7 ottobre 2023. Ora conosciamo i nomi, i volti e le famiglie degli uccisi e degli ostaggi rapiti in un’operazione pianificata dai terroristi rilasciati  per Shalit. Quelli che non conosciamo ancora sono i nomi, i volti e le famiglie di coloro che saranno uccisi nel prossimo grande massacro organizzato da chi in questi giorni è stato rilasciato. Non è questione di se, ma quando.
Intanto, di Ariel e Kfir Bibas ancora nessuna traccia, mentre il padre esce oggi da Gaza. L’ultima immagine che si ha di loro è avvolti nella coperta della madre, portata via da Hamas tra le urla e i pianti. Kfir, che avrebbe compiuto due anni a gennaio, è l’unica persona al mondo ad aver trascorso più tempo della sua brevissima vita ostaggio di un gruppo terroristico che a casa con i suoi. Ora per loro si teme il peggio. E non sarà un cartone animato.

Il Foglio, 1 febbraio 2025)
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La scelta di Israele. Si può applicare la frase di Churchill: "Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e continueranno la guerra". M.C.

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L’Iran cerca nuove strade per far rinascere Hezbollah

La Turchia, sempre più minaccia per Israele, sembra essere ben disposta ad aiutare l'Iran a riarmare Hezbollah. La Siria invece ha chiuso le vie per terra e per cielo.

di Sarah G. Frankl

L’Iran sta sostenendo finanziariamente la ricostituzione militare di Hezbollah. Israele ha presentato un reclamo al comitato israelo-libanese per il cessate il fuoco, sostenendo che gli inviati iraniani stanno consegnando “decine di milioni di dollari in contanti” all’aeroporto internazionale Rafic Hariri di Beirut per finanziare la rinascita di Hezbollah.
Nel dicembre 2024 era già stato ipotizzato che l’Iran potrebbe cercare di stabilire un nuovo “hub” nell’aeroporto di Beirut per le spedizioni militari a Hezbollah.
Le forze di sicurezza dell’aeroporto libanese hanno perquisito un volo iraniano Mahan Air a Beirut con l’accusa di aver trasportato fondi a Hezbollah all’inizio di gennaio.
Il Wall Street Journal ha riferito che 28 filiali di al Qard al Hassan, uno dei principali rami bancari e finanziari di Hezbollah, hanno ripreso le operazioni.
Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno spesso colpito le filiali di al Qard al Hassan in Libano negli ultimi mesi per isolare le reti finanziarie di Hezbollah. Fonti non specificate hanno affermato che Israele ha accusato cittadini turchi di aver trasferito denaro per Hezbollah da Istanbul a Beirut via aerea.
I media israeliani hanno riferito nel dicembre 2024 che il leader di Hayat Tahrir al Sham (HTS) Ahmad al Shara ha deciso di impedire ai voli civili e militari iraniani di transitare nello spazio aereo siriano, il che potrebbe spiegare perché l’Iran potrebbe ora fare affidamento sull’accesso dalla Turchia.
L’Iran ha storicamente spostato materiale tramite la Siria. Tuttavia si è valutato che la perdita di accesso allo spazio aereo siriano avrebbe gravemente limitato la capacità dell’Iran di riarmare Hezbollah e avrebbe richiesto all’Iran di stabilire altre vie di accesso.
Tuttavia, le sole consegne di denaro iraniano probabilmente non saranno sufficienti a ricostituire il gruppo militarmente senza ulteriori forniture di armi. La decisione di Shara, se vera, di interrompere la rotta di rifornimento dell’Iran a Hezbollah tramite la Siria renderà comunque difficile per l’Iran aiutare Hezbollah a ricostituirsi militarmente.

(Rights Reporter, 1 febbraio 2025)

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“I musulmani devono chiedere scusa ad Arbel Yehud”.

Una conduttrice televisiva musulmana è rimasta sconvolta dalla folla aggressiva in occasione della liberazione degli ostaggi. Si vergogna dell'immagine dell'Islam che è stata trasmessa.

La presentatrice Aharish esprime il suo orrore per ciò che è accaduto all'ostaggio prima del suo rilascio
GERUSALEMME - La conduttrice di notiziari arabo-israeliani Lucy Aharish ha espresso il suo orrore per il comportamento dei palestinesi durante la liberazione di Arbel Yehud. Si è sentita male alla vista delle immagini di Chan Junis, ha dichiarato la donna musulmana giovedì a “Hajot 13”. Durante il tragitto verso il veicolo della Croce Rossa Internazionale, l'ostaggio 29enne è stato molestato dalla folla e quasi linciato.
“Sono state ore snervanti. Eravamo tutti seduti qui, trattenendo il fiato insieme a voi”, ha esordito Aharish raccontando la liberazione di otto ostaggi da parte dei terroristi. “Mi sono sentita male alla vista della folla barbara, piena di malvagità, senza educazione”.

• “Mi vergogno”
   Come donna musulmana, si è vergognata di quella vista. “Mi vergogno che questa sia l'immagine dell'Islam che viene diffusa, soprattutto dopo il 7 ottobre”. Si vergogna che Arbel si sia trovata di fronte a una cosa del genere nei suoi ultimi momenti da prigioniera. E per il fatto che “la sua famiglia, un intero Stato sia seduto lì a guardare questo spettacolo dell'orrore”, ha aggiunto la conduttrice televisiva.
Secondo Aharish, “ogni musulmano che è stato educato ai valori dell'Islam - non ai valori che abbiamo visto qui sullo schermo” - deve scusarsi con la famiglia per quello che Arbel Yehud ha passato.
Aharish ha fatto scalpore nell'ottobre 2018 quando è emerso che era già sposata con un ebreo da quattro anni: suo marito è l'attore Zachi Halevy, noto per la serie Netflix “Fauda”.

(Israelnetz, 31 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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«I grandi media megafono di Hamas, ma non servono le commissioni anti odio» 

Il fondatore dell'associazione Setteottobre: «Le università propalano il pensiero unico antioccidentale e antisemita. Per vigilare sui social basta e avanza la polizia postale» 

di Maurizio Caverzan 

Capo della segreteria di Gianni De Michelis nella Prima repubblica, poi responsabile del dipartimento economico di Palazzo Chigi, city manager a Milano con Gabriele Albertini sindaco, direttore generale della Confindustria presieduta da Antonio D'Amato, direttore e amministratore delegato di Fastweb, tra i fondatori di Chili, piattaforma per film in streaming, candidato sindaco di Milano nel 2016 per la coalizione di centrodestra, fondatore di Energie per l'Italia, formazione liberale di area moderata, fondatore dell'associazione Setteottobre: instancabile ed eclettico, Stefano Parisi. «Ho lavorato vent'anni nel settore pubblico e altri venti in quello privato. Sono entrato in politica perché Silvio Berlusconi mi candidò sindaco, ma non era nella mia agenda, ho perso e quando si perde si deve lasciare. Ho avuto la fortuna di fare cose che mi sono sempre piaciute». 

- Che scopi ha l'ultima creatura, l'associazione Setteottobre? 
  «È nata a novembre 2023 quando ci siamo accorti che la reazione all'attacco di Hamas contro gli ebrei stava producendo un aumento esponenziale di antisemitismo e ampio sostegno ad Hamas. Io e mia moglie (Anita Friedman fondatrice di Appuntamento a Gerusalemme ndr) ci siamo detti che di fronte a questa situazione non potevamo rimanere inermi. Crediamo che Israele vada difesa e che siano in gioco i valori di libertà e di vita propri delle democrazie occidentali. Perché oggi, qui in Occidente, stanno prevalendo sentimenti di odio e di morte contro gli ebrei. Riteniamo necessario un grande lavoro prepolitico di contrasto a questa ondata antisemita e antioccidentale». 

- Che vede protagonisti i movimenti pro Pal non solo nelle università? 
  «Scendono settimanalmente in piazza a sostegno dei terroristi. Temiamo l'accondiscendenza e il supporto che alla loro propaganda danno alcune parti delle élite del Paese, da settori dell'accademia ai media». 

- Perché è un sostegno che si genera e si espande soprattutto a sinistra? 
  «Una parte della sinistra è all'origine dell'odio verso l'Occidente da prima del 7 ottobre. Inoltre, adesso assistiamo a un corto circuito drammatico: i movimenti in favore delle donne e delle persone Lgbtq che manifestano a sostengo di Hamas e contro Israele sebbene nei regimi islamici gli omosessuali siano perseguitati e le donne sottomesse. Al contrario, a Tel Aviv si tiene il più grande gay pride del mondo. Ma l'odio verso gli ebrei è così forte da portare i militanti dei diritti a stare con i carnefici e gli oppressori». 

- Quali élite appoggiano l'antisemitismo? 
  «Molti media sono megafono della propaganda di Hamas, pubblicano le loro informazioni e censurano le notizie che le smentiscono. Mi sconcerta lo spazio concesso alla minoranza di giovani antisemiti di fronte ai quali una parte dell'accademia piega la testa, permettendo che questa violenza si espanda nelle università». 

- Si riferisce alla richiesta di interrompere le collaborazioni scientifiche con le accademie israeliane? 
  «Non solo. Anche all'impossibilità che un ebreo parli a un convengo in un ateneo italiano affinché ci sia una minima riflessione critica su ciò che sta avvenendo in Medio oriente. La conseguenza è che le università di un Paese libero, che dovrebbero essere il luogo dove si educano le nuove generazioni allo spirito critico e alla libertà del pensiero, stanno diventando luoghi dove prevale il pensiero unico antioccidentale e dov'è tarpata qualsiasi libertà di espressione». 

- Nei media nazionali non mancano figure di vertice di cultura ebraica, penso a Paolo Mieli, Enrico Mentana e Maurizio Molinari, per citarne solo alcuni. 
  «Sicuramente sono presenti persone che scrivono articoli importanti e lavorano con questa sensibilità. Ma se si guardano i tg o si leggono le pagine di politica estera ci si trova quasi sempre di fronte a un'informazione distorta. Il  mainstream della stampa italiana è questo, le persone da lei  citate rappresentano una minoranza». 

- Che cosa pensa della mancata partecipazione della comunità ebraica milanese alle manifestazioni per la Giornata della memoria indette dall'Anpi? 
  «Concordo con la decisione della comunità ebraica. Non si può commemorare la Shoah con coloro che dal 1948 dicono "mai più" mentre dall'8 ottobre 2023 dicono che Israele se l'è meritata. Da tanti anni l'Anpi nega alla Brigata ebraica di partecipare alle manifestazioni del 25 aprile. È evidente che il Giorno della memoria non può cancellare il nuovo odio verso gli ebrei. Purtroppo, dobbiamo ammettere che sotto la retorica del giorno della Shoah è cresciuto l'antisemitismo esploso dopo il 7 ottobre». 

- La comunità ebraica è risentita anche con papa Francesco. 
  «Giustamente. Invito a riflettere su questo: se prevalessero Hamas e l'Iran e in Israele ci fosse uno Stato islamico i cristiani non potrebbero più pregare nei loro luoghi sacri. Il Papa ha detto parole molto gravi evocando un genocidio che non c'è. Il conflitto in Medio oriente è un conflitto esclusivamente religioso. L'islam radicale odia gli ebrei e i cristiani. Un leader religioso dovrebbe diffondere un messaggio di pacificazione e chiedere ai musulmani di riconoscere gli ebrei e i cristiani. E dovrebbe dire: non in nome di Dio». 

- Si parla di genocidio anche per l'azione di Benjamin Netanyahu, 
  «E’ evidente che non esiste, come dimostrano le immagini di questi giorni con gli ostaggi rilasciati in mezzo a un'immensa folla di palestinesi, terroristi e civili, che si riversa nelle strade di Gaza e urla il suo odio verso gli ebrei». 

- Qualche giorno fa è nata un'altra commissione contro l'odio in seno al comune di Milano: c'è il pericolo che queste commissioni generate dagli ingiustificati attacchi a Liliana Segre si trasformino in una nuova forma di controllo sulla libertà di espressione? 
  «Nei social c'è molto odio e va sradicato. In Italia abbiamo la legge Mancino contro l'incitamento all'odio e alla violenza e c'è l'obbligatorietà dell'azione penale contro i reati che la violano. Non c'è bisogno di nuove commissioni che non servono a niente. La polizia postale ha una mappatura di tutto ciò che avviene, la magistratura faccia il suo mestiere». 

- Che memoria conserva della sua esperienza di city manager con Gabriele Albertini? 
  «È stata un'esperienza bellissima. Era l'epoca di Mani pulite e c'erano intere aree urbane degradate da sviluppare. Con una squadra di bravissimi assessori e un ottimo sindaco riuscimmo a stabilire un rapporto trasparente tra pubblico e privato: la Milano di oggi è il risultato del lavoro di quegli anni». 

- Un rilancio non solo urbanistico avvenuto senza inchieste della magistratura. 
  «Per volontà di Albertini fu fatto un lavoro anche preventivo con il pool di Mani pulite. Senza protagonismi da parte di nessuno si posero le basi legali di ciò che si fece negli anni successivi». 

- Nel 2016 ha conteso fino all'ultimo la carica di sindaco a Beppe Sala, che cosa pensa della Milano di oggi? 
  «È molto cambiata, sta perdendo il suo ruolo di motore del Paese. Un primo cambiamento è dovuto alla crisi della classe dirigente industriale: Mediobanca era l'infrastruttura finanziaria dell'industria italiana che ha a Milano il suo fulcro. Oggi una banca come Monte dei Paschi di Siena, che pochi anni fa era sostanzialmente fallita, ha lanciato un'Opa su Mediobanca stessa. Milano oggi brilla per la parte più superficiale della vita cittadina, l'agenda degli eventi, la settimana della moda, le piste ciclabili. Per contro, non si sono affrontati i problemi sociali e di sviluppo di Milano». 

- È una città schizofrenica, sensibile alle élite, protettiva verso gli immigrati e tiepida con la popolazione e le famiglie? 
  «Non so se sia schizofrenica, attrarre le élite è giusto. Ma mentre ci si è concentrati sullo sviluppo dell'edilizia per affari, si sono completamente dimenticate le periferie e l' edilizia sociale, laddove bisognerebbe demolire e ricostruire le case fatiscenti e avviare le ristrutturazioni come si è fatto con quella di pregio, nell'alleanza tra pubblico e privato. Il secondo nodo da sciogliere riguarda i servizi sociali che funzionano ancora con il vecchio schema della longa manus pubblica». 

- Lo schema virtuoso quale sarebbe? 
  «Quello del principio di sussidiarietà. Anziché agire attraverso gare d'appalto, con gli enti pubblici che finanziano l'offerta e scelgono i privati, finanziare la domanda destinando i fondi secondo il bisogno, con i privati che potrebbero spenderli presso società e realtà non profit. È un sistema più liberale e meno statalista, che ha una lunga tradizione, ricorderà quando si diceva "Milano ha il cuore in mano"». 

- Di cosa è sintomo l'inchiesta che ha coinvolto gli architetti Stefano Boeri e Cino Zucchi? 
  «A trent'anni da Tangentopoli il sistema giudiziario non ha ancora capito che azioni così eclatanti rischiano di danneggiare sia la città che la stessa magistratura. E giusto che il sistema giudiziario presidi la legalità e la trasparenza, ma è necessario farlo con il rigore e lo stile che deve riguardare una metropoli come Milano. D'altronde, questi eccessi si ripetono anche a livello nazionale nell'azione contro il governo. Dopo trent'anni la magistratura vuole ancora giocare un ruolo da star invece di fare il suo lavoro con serietà». 

- Quando le inchieste riguardano personalità pubbliche di primo piano risonanza e visibilità sono inevitabili. 
  «Non entro nel merito. In Italia c'è un uso eccessivo e inutile della custodia cautelare e l'eccesso di visibilità e protagonismo dei giudici ha danneggiato la credibilità della magistratura. Siamo a Milano dove sappiamo cosa ha prodotto la trasformazione dei magistrati in star. Conosciamo la storia e l'ampio numero di processi che sono finiti in condanne vere o in assoluzioni».

- Il sindaco Sala preme per l'approvazione del decreto salva Milano per sanare azioni pregresse. 
  «Approvarlo è interesse di tutta la politica. Operare in sicurezza è utile sia all'amministrazione attuale che a quelle future». 

- Per le quali Sala sembra prenotarsi, visto che si è pronunciato a favore del terzo mandato? 
  «lo penso che dieci anni bastino e sia giusto il limite di due mandati. Per non sedimentare troppo un sistema di potere è giusto lasciare spazio alle alternative». 

- Per le elezioni del 2026 a sinistra si fanno i nomi di Pierfrancesco Majorino, Mario Calabresi, Ferruccio De Bortoli e, ultima idea, Cecilia Sala, a destra di Alessandro Sallusti e Maurizio Lupi: qualcuno la convince di più? 
«Non mi faccia giocare al totosindaco. Speriamo che Milano sappia trovare un buon primo cittadino com'è stato Gabriele Albertini». 

(La Verità, 1 febbraio 2025)

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Trump insiste: “i palestinesi di Gaza andranno in Giordania ed Egitto”

di Sarah G. Frankl

Giovedì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha insistito sul fatto che Egitto e Giordania accoglieranno (dovranno accogliere) gli sfollati di Gaza, nonostante le due nazioni arabe abbiano respinto il suo piano di spostare i palestinesi dal territorio devastato dalla guerra.
I commenti di Trump sono arrivati un giorno dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi e il re di Giordania Abdullah II avevano respinto qualsiasi spostamento forzato degli abitanti di Gaza a seguito della guerra tra Israele e Hamas.
“Lo faranno”, ha detto Trump ai giornalisti nello Studio Ovale quando gli è stato chiesto di rispondere al rifiuto di Egitto e Giordania e se avrebbe preso in considerazione l’idea di imporre tariffe a entrambi i Paesi per spingerli ad abbandonare l’attività.
“Lo faranno. Noi facciamo molto per loro, e loro lo faranno.”
Dopo che il cessate il fuoco tra Israele e Hamas è entrato in vigore il 19 gennaio, Trump la scorsa settimana ha lanciato un piano per “ripulire” la Striscia di Gaza e per far sì che i palestinesi si trasferiscano in luoghi “più sicuri” come Egitto o Giordania. I suoi commenti hanno scatenato l’indignazione dei palestinesi e le rapide condanne da gran parte dei ministeri degli esteri del mondo arabo.
Ha affermato che la guerra durata 15 mesi ha ridotto il territorio palestinese a un “cantiere di demolizione”.
Questa settimana l’inviato di Trump per il Medio Oriente Steve Witkoff ha fatto una rara visita a Gaza, ha detto la Casa Bianca, nel tentativo di sostenere il fragile cessate il fuoco. Ha incontrato anche il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Mercoledì, il presidente egiziano Al-Sisi, alleato chiave degli Stati Uniti, nella sua prima risposta pubblica ai commenti di Trump, aveva dichiarato che scacciare “il popolo palestinese dalla sua terra è un’ingiustizia a cui non possiamo prendere parte”.
Il re di Giordania Abdullah II ha sottolineato separatamente la “ferma posizione del suo Paese sulla necessità di mantenere i palestinesi sulla loro terra”.
Dall’inizio della guerra, sia l’Egitto che la Giordania hanno denunciato i presunti piani di espulsione dei palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania. 

(Rights Reporter, 31 gennaio 2025)

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Politica israeliana: un blocco guidato da Naftali Bennett domina i sondaggi

Il blocco guidato dall'ex primo ministro otterrebbe una maggioranza di 66 seggi, mentre quello di Netanyahu solo 44.

Un blocco di partiti guidato dall'ex Primo Ministro, Naftali Bennet, continua a dominare i sondaggi mentre la coalizione dell'attuale capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, continua a perdere terreno, secondo i risultati del sondaggio settimanale del quotidiano Maariv pubblicato ogni venerdì mattina.
Secondo il sondaggio, in uno scenario in cui un partito guidato da Bennett partecipi alle elezioni, il blocco dell'opposizione guidato da Bennett otterrebbe una maggioranza di 66 seggi, mentre quello di Netanyahu ne otterrebbe solo 44. Il sondaggio ha anche indicato che il blocco dell'opposizione otterrebbe buoni risultati alle elezioni anche senza Bennett come leader del partito.
Alla domanda “Credi che l'accordo sugli ostaggi sarà pienamente concluso?”, il 36% degli intervistati ha risposto “Sì”, la stessa percentuale ha detto “No” e il 28% ha risposto “Non so”. Alla domanda: “Alla luce del ritorno dei gazesi nel nord della Striscia di Gaza, possiamo dire che la guerra è finita?”, le risposte sono state le seguenti: “Sì” 31%, “No” 57%, “Non so” 12%.
Inoltre, il 57% degli intervistati ritiene che gli obiettivi della guerra non siano stati pienamente raggiunti, il 32% ha risposto che non sono stati affatto raggiunti e il 7% ha detto di non saperlo.
Per quanto riguarda la fiducia nella Corte Suprema, dopo l'elezione del giudice Yitzhak Amit a Presidente, nonostante l'opposizione del Ministro della Giustizia Yariv Levin,
il 32% degli intervistati ha dichiarato di non avere “alcuna fiducia” nell'istituzione, il 19% “pochissima fiducia”, il 15% “un po' di fiducia”, il 18% “molta fiducia” e il 16% “non so”. I risultati indicano che quasi la metà del pubblico ha poca o nessuna fiducia nella Corte Suprema.
Per quanto riguarda l'ultimatum dato a Netanyahu dai partiti ultraortodossi, il 30% dei partecipanti al sondaggio ha dichiarato che preferirebbe una legge sulla coscrizione, il 57% preferirebbe le elezioni e il 13% non lo sa.

(i24, 31 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Architetti volontari aiutano a ricostruire le case distrutte

L'iniziativa “Together at Home” (Insieme a casa) riunisce architetti e interior designer israeliani che offriranno servizi gratuiti per ricostruire le case distrutte dalla guerra, riporta il Jerusalem Post.
Uno dei promotori è il rabbino Schlomo Ra'anan, che ha fondato l'organizzazione Ajelet HaSchachar nel 1997. L'organizzazione senza scopo di lucro è impegnata a formare in Israele una società mista di ebrei religiosi e non religiosi. L’organizzazione vuole permettere agli ebrei di destra e di sinistra di incontrarsi e quindi colmare il divario sociale nel Paese. Ra'anan è stato determinante nella fondazione del progetto “Insieme a casa”.

Portare luce e calore nelle case distrutte
  All'evento di fondazione, durante il quale circa 100 architetti, designer e altri professionisti hanno espresso il loro sostegno, Ra'anan ha dichiarato: “Il nostro obiettivo è portare luce e calore nelle case distrutte, sia in senso letterale che figurato, e allo stesso tempo promuovere l'unità in tutte le parti della società israeliana”. Il progetto non si limita a ricostruire le case, ma vuole “colmare i divari e rafforzare il tessuto della società israeliana”.
Vered Solomon-Maman, architetto capo del Ministero delle Costruzioni e delle Abitazioni, ha elogiato l'iniziativa: “Il progetto ‘Insieme a casa’ illustra la resilienza, la solidarietà e il processo di guarigione del popolo israeliano”. Ha annunciato certificati di ringraziamento per tutti i partecipanti.
Amichai Schindler, di Kerem Shalom, ha raccontato di aver subito gravi ferite nell'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 mentre cercava di proteggere la sua famiglia. La moglie di Schindler, Avital, ha parlato delle sfide per la ricostruzione della loro casa e ha espresso la sua gratitudine per il sostegno del progetto.
Zami Ravid, pianista che 30 anni fa ha fondato il museo Zami's Music Box nel nord di Israele, ha descritto la distruzione della sua comunità e ha presentato le foto della sua casa, distrutta dai bombardamenti. Eres Diner, residente del Kibbutz Sufa, ha parlato della ricostruzione della sua casa. Ha sottolineato l'importanza del ritorno dei residenti nei loro kibbutzim come passo fondamentale per la ripresa.

(Israelnetz, 31 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Un viaggio stellare: Israele si prepara a inviare la sua prima astronauta donna con la NASA

di Anna Coen

In un momento in cui le notizie dal Medio Oriente continuano a suscitare attenzione e preoccupazione, arriva qualcosa che riaccende l’orgoglio e la speranza: Israele invierà la sua prima astronauta nello spazio con la NASA. Una svolta storica, che conferma ancora una volta come questo piccolo Paese non si arrenda mai e continui a brillare anche nel panorama scientifico e tecnologico globale.

Israele punta alle stelle
  L’annuncio è arrivato direttamente dalla 20ª Conferenza Spaziale Internazionale Ilan Ramon a Tel Aviv. Il ministro dell’Innovazione, della Scienza e della Tecnologia, Gila Gamliel, ha dato la notizia che in questi giorni sta facendo il giro del mondo: «Abbiamo ricevuto il via libera dalla NASA, ora parte la ricerca della nostra astronauta tra le donne più qualificate del Paese».
Non è solo una questione di prestigio, ma anche di futuro. L’industria spaziale israeliana sta crescendo rapidamente e potrebbe raggiungere un giro d’affari di 15 miliardi di shekel nei prossimi decenni. Questo significa investimenti, innovazione e nuove opportunità per le menti brillanti di Israele.

Dalla tragedia al sogno
  Il nome della conferenza non è scelto a caso. Ilan Ramon, il primo astronauta israeliano, perse la vita nel disastro dello Space Shuttle Columbia nel 2003. Un evento che ha segnato profondamente Israele e la sua comunità scientifica. Ma da quella tragedia è nato un nuovo impegno: guardare avanti, investire nel futuro, non arrendersi. «Questa astronauta sarà un simbolo di progresso e continuità, portando avanti l’eredità di Ramon con orgoglio», ha dichiarato Gamliel.
Anche il presidente Isaac Herzog ha voluto sottolineare l’importanza di questo momento con un videomessaggio da New York: «Non stiamo solo esplorando lo spazio, ma trovando nuovi modi per usare la tecnologia a beneficio dell’umanità». Ha quindi aggiunto: «Israele, nonostante sia un piccolo Paese, è all’avanguardia mondiale nel campo spaziale e svolge un ruolo significativo nella guida dei programmi spaziali internazionali. Stiamo già promuovendo la cooperazione con i Paesi che hanno firmato gli Accordi di Abramo e sono sicuro che nel prossimo futuro assisteremo a un’ulteriore cooperazione, che contribuirà sia a Israele sia alla comunità spaziale internazionale. La nostra leadership nel promuovere l’innovazione nel campo è estremamente importante per la sicurezza, l’economia e il futuro scientifico di Israele e dovrebbe avere la massima priorità».

Collaborazioni che contano
  Israele non si limita a guardare in alto, ma stringe anche alleanze strategiche. Alla conferenza di Tel Aviv c’erano rappresentanti di diversi Paesi, tra cui Omran Sharaf degli Emirati Arabi Uniti e Teodoro Valente, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana. E proprio con l’Italia è stato firmato un nuovo accordo per sviluppare un progetto destinato a una missione sulla Luna.
«La nostra collaborazione spaziale sta crescendo in modo significativo», ha affermato Uri Oron, capo dell’Agenzia Spaziale Israeliana. E non è un caso. Dopo gli Accordi di Abramo del 2020, Israele ha ampliato, come dicevamo, la sua rete di cooperazione anche con Emirati Arabi Uniti e altri Paesi della regione
Ma non finisce qui. A marzo, nove nano-satelliti costruiti da studenti israeliani voleranno nello spazio grazie ai razzi di SpaceX. «Non stiamo solo costruendo tecnologia, ma investendo nel futuro delle nuove generazioni», ha raccontato Or Ziner, una delle studentesse coinvolte nel progetto.

E ora, chi sarà la prescelta?
  La domanda che tutti si fanno è: chi sarà la prima astronauta israeliana? La selezione è appena iniziata, ma una cosa è certa: sarà un momento storico. Non solo per Israele, ma per tutto il mondo scientifico. «Israele vuole essere protagonista nell’esplorazione spaziale globale – ha dichiarato Gamliel –. Ogni missione, ogni satellite, ogni collaborazione ci porta sempre più vicini a questo obiettivo».
Ora non resta che aspettare il nome della donna che entrerà nella storia. Qualcosa ci dice che sarà un annuncio che farà sognare in grande un intero Paese.

(Bet Magazine Mosaico, 31 gennaio 2025)

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Due pesi due misure

A seguito delle dichiarazioni di Roberto Jarach, Presidente del Memoriale della Shoah di Milano, il quale ha pubblicamente rimproverato Walker Meghnagi, Presidente della Comunità ebraica di Milano per avere deciso di non fare partecipare quest’ultima all’evento pubblico organizzato dal Comune a commemorazione della Giornata della Memoria, “L’Informale” ha ricevuto e pubblica un intervento di Emanuel Segre Amar. 

Caro Roberto,
Dopo quattro anni ti scrivo nuovamente ma questa volta ho deciso di farlo pubblicamente visto che le tue dichiarazioni sono pubbliche; allora criticavo Gabriele Nissim e la sua associazione Gariwo, e oggi potrei aggiungere molte parole a conferma di quelle di allora.
Ma oggi ti scrivo per dirti che esprimo la mia totale solidarietà a Walker Meghnagi e mi dispiace enormemente che la “sinistra ebraica milanese” lo abbia attaccato pubblicamente dimenticando che “i panni sporchi…”, ammesso che siano sporchi. Al contrario sono lindi e per questo plaudo Walker come Presidente prima che come amico.
Ma non vi rendete conto, tu, nel tuo ruolo di Presidente del Memoriale e Milo Hasbani, in quello di vicepresidente UCEI, di che cosa sta succedendo nel mondo? Non avete letto l’articolo del Wall Street Journal ripreso da Il Foglio il quale riporta che il 50% della popolazione del mondo è antisemita?
E nonostante ciò tu, come Presidente del Memoriale, consenti che al Memoriale venga presentato il libro di un odiatore di Israele, l’influencer Lorenzo Tosa. Non solo non ti opponi al suo invito ma ti fai fotografare con lui che, su Facebook, ha pubblicato diversi post accusando Israele di genocidio? Post che ti sono stati inviati prima che il suo libro fosse presentato al Memoriale. La fortuna ha voluto che presenti all’incontro con questo odiatore di Israele fossero pochi.
Curioso che accusi Walker di non essere collegiale nel decidere quando non hai tenuto minimamente conto delle numerose riserve che ti sono state comunicate in merito all’opportunità di invitare al Memoriale un odiatore di Israele.
Vedi, sulla parete del Memoriale sta scritta la giusta parola (se riferita ad allora): INDIFFERENZA, ma tutta la sinistra occidentale è colpevole oggi per la propria indifferenza di fronte alla maggioranza delle guerre che insanguinano il mondo (oltre 130) prima del 7 ottobre e ancor più dopo, per concentrarsi con insistenza solo sulla guerra difensiva di Israele.
Walker, come Presidente della Comunità ebraica di Milano ha deciso coraggiosamente di rompere il muro di ipocrisia eretto intorno alla retorica ormai insostenibile del  “mai più” che è ormai diventato soltanto un mero artificio retorico.
Shalom
Emanuel Segre Amar
Presidente del Gruppo Sionistico Piemontese

(L'informale, 31 gennaio 2025)

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Archiviare la vittoria

Chi immaginava che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca avrebbe iniettato a Israele un tonico di rinvigorimento muscolre allargando per Benjamin Netanyahu l’orizzonte della vittoria sui nemici dello Stato ebraico, ha dovuto in questi giorni riconvertirsi rapidamente alla realtà.
  Il primo atto di Trump non ancora insediato, pochi giorni prima del giuramento, è stato quello di obbligare Netanyahu a un accordo con Hamas, e dunque a quel cessate il fuoco che per mesi, invano, l’Amministrazione Biden aveva tentato di fargli siglare.
  A maggio dell’anno scorso, Joe Biden dichiarò che Israele poteva accettare l’accordo con Hamas in quanto la capacità offensiva di quest’ultimo era stata drasticamente limitata e non sussistevano più le condizioni per un altro 7 ottobre. Sottinteso al ragionamento di Biden era che Hamas seppure fortemente indebolito continuasse a permanere a Gaza.
  Se, come tutto lascia supporre, Hamas ottempererà ai termini dell’accordo, che prevedono la progressiva consegna degli ultimi ostaggi in cattività e quindi la cessazione completa della guerra, Trump sarà l’esecutore materiale della volontà del suo predecessore.
  I ruoli, d’altronde, si invertono. Nel 2020 fu Trump a siglare con i talebani l’accordo per l’uscita di scena degli Stati Uniti dall’Afghanistan dopo vent’anni di permanenza e fu quindi Biden, che gli succedette, a eseguire l’esito, seppure in modo disastroso.
  Trump è, prima di ogni altra cosa un immobiliarista, non si scopre adesso, la sua stella polare sono i negoziati, ed è con i negoziati che ritiene di risolvere i problemi, il politico è solo un fattore secondario che il negoziato può addomesticare. Non è un caso se per forzare Netanyahu a un accordo con Hamas, Trump abbia scelto un altro immobiliarista, Steven Witcoff, al quale ha anche delegato il dossier sull’Iran.
  Tra pochi giorni Netanyahu sarà faccia a faccia con Trump nella sua veste piena di presidente in carica. Cosa si diranno non lo sa nessuno, ma i segnali finora pervenuti lasciano supporre che l’impostazione che Trump prevede per il Medio Oriente sia quella di spegnere le braci non di attizzarle. Ciò significa che la guerra a Gaza non potrà riprendere e che Netanyahu dovrà accettare che Hamas vi permanga con il correttivo di ottenere in cambio ulteriori incentivi per la deterrenza, ma nulla più di questo. È probabile che gli venga prospettato che il semaforo verde per colpire i siti nucleari iraniani dovrà attendere, in quanto verrà usato come minaccia per consentire prima a Trump, tramite Witcoff, di aprire un negoziato con Teheran.
  In sintesi, Israele dovrà accettare che la vittoria intesa come si è sempre intesa, ovvero sconfitta del nemico sul campo di battaglia, sua resa, con conseguente occupazione, anche se limitata nel tempo, del territorio da lui governato, va posta sugli scaffali della storia. Sicuramente non lo è nella prospettiva di questa amministrazione, come non lo era in quelle precedenti post Bush jr.
  Il problema di questa prospettiva morbida è che la forza negoziale non può soppiantare quella militare, e che nessuna guerra è  stata mai vinta con gli accordi ma solo quando uno o più dei  contendenti in lizza è stato costretto ad accettare la sconfitta.
  Per attori come Hamas e l’Iran totalmente motivati dall’ideologia e quindi dal politico, nulla è più vantaggioso che guadagnare tempo, facendo credere di essersi addomesticati e quindi preparare un’altra guerra.

(L'informale, 30 gennaio 2025)
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Dall'articolo che segue si può vedere come dall'altra parte hanno visto il risultato di questa guerra.


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Hamas: l'attacco "Diluvio di Al-Aqsa" ha posto fine a 76 anni di mito israeliano

Il Presidente del Consiglio di Leadership di Hamas, Mohammed Darwish, ha dichiarato che l'attacco "Diluvio di Al-Aqsa" ha "posto fine a 76 anni di mito israeliano e riportato la questione palestinese al centro dell'agenda mondiale".
Parlando durante la cerimonia di accoglienza al Cairo per i palestinesi rilasciati dopo l'accordo di cessate il fuoco e scambio di prigionieri tra Israele e Hamas, Darwish ha affermato che "nonostante 15 mesi di sfollamenti, senzatetto, disastri e tonnellate di bombe, l'eroismo delle Brigate al-Qassam, che hanno condotto il popolo palestinese verso la vittoria e la libertà, è diventato ancora più evidente.”
Darwish ha inoltre sottolineato che quanto accaduto dimostra che Israele non è riuscito a spezzare la determinazione e la fede del popolo palestinese.
"Il sistema dell'occupazione israeliana è crollato in un'ora il 7 ottobre (2023), rivelando la debolezza della potenza israeliana", ha dichiarato Darwish, aggiungendo che Israele sopravvive grazie al sostegno degli Stati Uniti.
Darwish ha ribadito che l’attacco Diluvio di Al-Aqsa ha trasformato la questione palestinese in una priorità assoluta a livello globale, riportandola in primo piano sulla scena internazionale.

(TRT italiano, 30 gennaio 2025)

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La soldatessa Agam Berger rilasciata dai terroristi di Hamas dopo 482 giorni di prigionia

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La ragazza non sorride come le precedenti. Sul suo viso c'è il terrore di tutti quelli che sono ancora sotto

La soldatessa Agam Berger, dopo 482 giorni di prigionia nelle mani dei terroristi di Hamas, è stata rilasciata questa mattina. Agam è apparsa visibilmente terrorizzata sul palco allestito per la messinscena terrorista, costretta a salutare i palestinesi partecipanti alla minacciosa coreografia. La ragazza è stata consegnata dalla Croce Rossa all’Idf. L’esercito israeliano e lo Shin Bet hanno riferito che un’unità d’élite sta accompagnando la soldatessa verso Israele, dove avrà luogo una prima valutazione medica.
  “Il governo di Israele abbraccia Agam Berger, soldato dell’Esercito di Difesa di Israele. La sua famiglia è stata aggiornata dalle autorità competenti che è tra le nostre forze. Il governo, insieme a tutte le autorità di sicurezza, accompagnerà lei e la sua famiglia. Il governo di Israele è impegnato a riportare a casa tutti i rapiti e i dispersi”, lo riferisce in una nota l’ufficio di Benjamin Netanyahu.
  Si prevede che i civili Arbel Yehud (29) e Gadi Mozes (80), così come cinque cittadini thailandesi, saranno rilasciati più tardi giovedì.
  Le IDF e l’ISA hanno confermato: “Secondo le informazioni ricevute dalla Croce Rossa, una donna presa in ostaggio è stata consegnata nelle loro mani e si sta dirigendo verso le forze delle IDF e dell’ISA a Gaza”.

(Shalom, 30 gennaio 2025)
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Non è una messinscena, è il segno dell'umiliazione che Hamas ha voluto imporre a Israele e comunicare al mondo. E il "mondo libero" occidentale, quello che ha obbligato Israele a sottoporsi, osserva silenzioso e compunto. Da piangere ci sarebbe, con le parole del libro delle Lamentazioni: "Essa piange, piange, durante la notte, le lacrime le rigano le guance; fra tutti i suoi amanti non c'è chi la consoli; tutti i suoi amici l'hanno tradita, le sono diventati nemici" (1:2), "A noi si consumavano gli occhi in cerca di un soccorso, aspettato invano; dai nostri posti di vedetta scrutavamo la venuta d'una nazione che non poteva salvarci" (4:17). M.C.

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“È fondamentale mantenere una presenza ebraica in questo luogo”

La storia di Hila Weisz-Gut, l’unica ebrea residente a Oświęcim

di Pietro Baragiola

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Lunedì 27 gennaio, le autorità di tutto il mondo e molti sopravvissuti alla Shoah si sono recati in Polonia per commemorare ’80° anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau.
Passando per la città di Oświęcim, a pochi chilometri dal campo di sterminio, alcuni visitatori hanno colto l’occasione per far visita all’unica residente ebrea del luogo: la 34enne Hila Weisz-Gut, nipote di una sopravvissuta ad Auschwitz.
Nata in Israele, dove ha conseguito un master in Studi sulla Shoah presso l’Università di Haifa, Weisz-Gut si è trasferita a Oświęcim nel 2023 per raggiungere il suo fidanzato polacco, conosciuto durante un viaggio di istruzione.
Da allora la vita della giovane donna ha attirato l’attenzione dei giornalisti di tutto il mondo per essere l’unica residente ebrea della città che ancora oggi simboleggia il genocidio ebraico compiuto dai nazisti.
Diversi membri della sua famiglia sono stati uccisi proprio nel campo di Auschwitz e solo sua nonna è sopravvissuta.
“Se oggi conoscesse il mio indirizzo probabilmente si rivolterebbe nella tomba” ha affermato Hila nella sua recente intervista rilasciata alla CNN, spiegando che oggi può vedere l’ex-campo di sterminio dalla finestra della propria camera da letto. “Mia nonna non ha mai voluto parlare delle sue esperienze durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando le ho chiesto di Auschwitz mi ha detto di andarmene da casa sua.”
Ciononostante, l’unica residente ebrea di Oświęcim ha affermato di essersi sentita a casa con gli altri concittadini che l’hanno subito accolta come una di loro.

La comunità di Oświęcim
  La storia di Oświęcim è un monito importante sugli effetti dell’antisemitismo. Nel 1939, prima dell’arrivo dei nazisti, la città era composta per quasi il 60% da ebrei, mentre oggi conta solo una residente ebrea su 34.000 abitanti.
“Da quando sono qui non ho avuto nemmeno un alterco antisemita con gli altri residenti” ha spiegato Hila. “Sono stati tutti molto accoglienti e gentili, facendomi spesso domande e rivolgendosi a me nel loro weekend con ‘Shabbat Shalom’”.
L’anno scorso la giovane ha sposato il suo fidanzato nel caffè del Museo ebraico locale, dove lavora con lo scopo di richiamare l’attenzione sulle comunità della regione pre-Shoah.
Durante la sua intervista rilasciata al sito di notizie Forward, Weisz-Gut ha raccontato che spesso si reca nella sinagoga del museo e chiede ai visitatori di aiutarla a recitare il Kaddish, la preghiera di lutto che richiede un gruppo di 10 uomini ebrei, per rendere onore a suo padre.
Quando Auschwitz ha ospitato la cerimonia per l’80° anniversario della sua liberazione, il museo e la sinagoga di Oświęcim hanno deciso di aprire le porte ai partecipanti ebrei che desideravano pregare in memoria dei loro cari.
“Le comunità che vengono a farci visita spesso mostrano scetticismo o disprezzo per la mia scelta di residenza” ha spiegato Hila. “Tuttavia, vivere così vicino ad Auschwitz ha acquisito un significato davvero importante per me, specialmente dopo gli eventi dell’ultimo anno.”
Il 7 ottobre 2023, l’unica residente ebrea di Oświęcim è rimasta inorridita dai video pubblicati sui social media che mostravano migliaia di israeliani che correvano per mettersi in salvo dall’attacco di Hamas al festival musicale Supernova. La sua stessa madre, che vive nel nord di Israele, ha dovuto nascondersi in un rifugio sotterraneo e Hila ricorda di aver provato un’intensa paura per la sua incolumità tanto da recarsi nella sinagoga di Oświęcim per pregare.
“Ho sentito il bisogno di aprire l’Aron haQodesh” ha spiegato la giovane alla CNN. “È stato devastante. Come se tutti gli orrori della Shoah stessero davvero accadendo di nuovo.”
Hila Weisz-Gut nella sinagoga di Oswiecim

• L’antisemitismo in Europa
  Negli ultimi mesi Hila ha vissuto in prima persona il crescente pregiudizio antisemita. Durante un viaggio a Londra la madre e il marito della giovane l’hanno esortata alla cautela, suggerendole di togliere la sua collana di stelle di David e di indossare maniche lunghe per coprire un tatuaggio scritto in ebraico.
“Da quando è scoppiata la guerra a Gaza la gente non distingue più tra ebrei e soldati israeliani” ha affermato Hila. “Non ci sono confini chiari.”
In questi giorni l’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali ha segnalato che, a partire dal 7 ottobre 2023, c’è stato un aumento del 400% degli episodi europei di antisemitismo.
“Abbiamo osservato che ogni volta che c’è stata o c’è una crisi in Medio Oriente, questa ha portato ad un aumento degli incidenti antisemiti in Europa” ha dichiarato alla CNN Nicole Romain, portavoce dell’Agenzia. “In media, il 96% degli ebrei ci ha detto di aver incontrato l’antisemitismo almeno una volta nella propria vita e l’80% ritiene che sia peggiorato negli ultimi anni.”
Secondo i dati riportati, il Regno Unito ha registrato 1.978 incidenti antisemiti solo nella prima metà del 2024, mentre la Francia, il Paese con la popolazione ebraica più numerosa d’Europa, ha avuto un incremento del 284% di segnalazioni di crimini legati all’odio.
Nonostante questi dati preoccupanti, Hila continua tutt’ora a credere che mantenere una presenza ebraica, anche se minima, a Oświęcim sia vitale per contrastare questa nuova ondata di antisemitismo.
“Per me è una dichiarazione del fatto che hanno cercato di distruggerci e di sterminarci, ma non ci sono riusciti” ha concluso la giovane. “Noi siamo la generazione che è qui per dire: ‘non ci siete riusciti. Mai più. Mai più.’”

(Bet Magazine Mosaico, 30 gennaio 2025)


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La cosiddetta “liberazione” del 27 gennaio 1945

La data del 27 gennaio segna l'anniversario esatto del giorno in cui il campo di sterminio tedesco di Auschwitz fu raggiunto dall'“Armata Rossa” nel 1945. Quando al mattino le truppe sovietiche al comando del colonnello generale Pavel Alexeyevich Kurochkin abbatterono con i loro carri armati le recinzioni del campo principale di Monowitz, incontrarono solo poche “figure” emaciate rimaste. Le cifre variano da 600 a 850 persone, di cui almeno 200 morirono nei giorni successivi nonostante l'assistenza medica.
  Nel pomeriggio dello stesso giorno furono raggiunti anche il campo principale e Auschwitz-Birkenau. Lì c'erano altri 5.800 prigionieri circa, esausti e malati, tra cui quasi 4.000 donne, tutti affetti da malnutrizione e infezioni e completamente traumatizzati. Molti morirono anche lì.
  In ogni caso, i soldati dell'Armata Rossa non dovettero “liberare” eroicamente il campo di sterminio di Auschwitz. A parte qualche sparuto gruppo di sbandati, le SS erano scomparse da tempo. Insieme ai soldati sovietici arrivarono anche medici e sanitari, ma soprattutto giornalisti e fotografi. Tutti portarono resoconti e immagini di un orrore inimmaginabile...

(Israel Heute, 30 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Profilassi contro la dissonanza cognitiva

di Niram Ferretti

Che la guerra a Gaza, la più lunga guerra mai intrapresa da Israele a seguito dell’eccidio di Hamas del 7 ottobre 2023 volgesse al termine si era reso plastico quando l’inviato scelto per il Medio Oriente da Donald Trump, Steven Witkoff, il 15 gennaio incontrando a Gerusalemme Benjamin Netanyahu, gli fece una offerta che non poteva rifiutare. Cosa si siano detti di preciso in quell’occasione è ignoto ai più, ma la deduzione è facile, “Acetta l’accordo con Hamas, Trump lo vuole e ti conviene, soprattutto perché lo vuole. Lui ha progetti grandiosi per il Medio Oriente e non vuole intralci”.
  Queste immaginarie frasi di Witkoff, uomo vicinissimo al Qatar, grande sponsor di Hamas, con il quale ha fatto importanti affari, contengono realtà fattuali: il ruolo egemone del Qatar negli accordi per il rilascio degli ostaggi, la vicinanza al Qatar di Witkoff, e gli ottimi rapporti del ricchissimo e minuscolo emirato con Trump stesso, il quale, il settembre scorso, quando l’Emiro Al-Tahani ando a trovarlo in Florida, lo definì “uomo di pace”.
  Più recentemente è stato lo stesso Witkoff a dichiarare che sarebbe buona cosa se la Casa Bianca aprisse con Hamas un canale di comunicazione diretta, magari un telefono verde al posto di quello rosso che esisteva all’epoca della Guerra Fredda e forniva la comunicazione diretta tra Washington e il Cremlino.
  Il fischio di fine partita vero è arrivato però due giorni fa, quando è cominciato il rientro al nord di Gaza di mezzo milione di rifugiati, fatti spostare da Israele a sud della Striscia, una umana fiumana biblica. Chiunque pensi che il ritorno degli sfollati, il loro cospicuo addensamento umano in zone dove Hamas non ha mai smesso di operare, preluda a prossimi bombardamenti dovrebbe rinfrescarsi la memoria sul concetto di dissonanza cognitiva, elaborato da Leon Festinger nel 1957, in base al quale lo psicologo spiegava i meccanismi di difesa che entrano in azione a difesa di ciò che della realtà non ci piace e sconfessa le nostre convinzioni più profonde.
  I fatti, i bruti e crudi fatti, ci dicono che dopo quindici mesi di guerra, dopo la massiccia distruzione di una parte di Gaza, dopo il depotenziamento altrettanto massiccio delle strutture operative di Hamas, dopo l’uccisione sistematica dei suoi capi, tra cui il “capo dei capi”, Yahya Sinwar, Hamas è ancora in controllo della Striscia e può contare su reclutamenti freschi che i Servizi americani stimano intorno ai diecimila, quindicimila combattenti.  Se questo scenario si può definire una vittoria da parte di Israele occorrerà presto ridefinire il senso del termine, un po’ come è accaduto per “genocidio”, utilizzato dagli odiatori dello Stato ebraico al punto da provocarne il corto circuito.
  Si può dare torto a Hamas quando proclama la vittoria? Quando afferma che la “resistenza” ha avuto la meglio nei confronti dell’ “aggressore”? Tutto questo è illusione ci dicono i narratori dell’epica israeliana, per i quali israele vince sempre anche quando perde, o come, in questo caso, raggiunge una vittoria mutilata. A un certo punto arriveranno i nostri e faranno tabula rasa.
  Di nuovo la realtà incalza. Donald Trump non vuole guerre, la sua visione del mondo è impostata sulla negoziazione, sul primato dell’economia sulla politica, it’s all about money, baby. Per lui il nuovo Medio Oriente ha come vettore principale gli Accordi di Abramo, l’isolamento dell’Iran e la realizzazione della via del Cotone, il grande progetto di intesa tra Europa, e il Golfo, che prevede quella tra Riad e Gerusalemme e tra India e Golfo, e che, sotto egida americana, si contrapponga alla Via della Seta cinese. In questa prospettiva fastosa, che Hamas continui a governare a Gaza, seppure fortemente indebolito, è considerato marginale.
  Il quattro febbraio Netanyahu andrà a Washington, dove, primo leader internazionale a farlo, incontrerà il neo eletto presidente. La cosa più probabile è che ottenga un maggiore impegno per la difesa di Israele, l’incondizionato appoggio alla sua necessità di deterrenza, molte pacche sulle spalle, ma certo non la disponibilità a ricominciare la guerra a Gaza. Non la vuole Trump, non la vogliono i sauditi, non la vuole il Qatar e, alla fine non la vuole un pezzo importante dell’esercito e degli apparati israeliani, quello che fin dal principio affermava che l’obiettivo della guerra non era sconfiggere Hamas, ma liberare gli ostaggi. Israele dovrà accontentarsi di avere inferto a Hamas il più duro colpo da quando esiste, e di avere quindi rinforzato la propria deterrenza. Si ritorna dunque alla casella di partenza, quella pre 7 ottobre.
  Certamente due pezzi grossi dell’Amministrazione Trump, Marco Rubio, Segretario di Stato e Mike Waltz, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, dichiarano che Hamas non governerà più Gaza, ma fino a quando non lo dirà Trump, i loro sono solo flatus vocis.
  La storia insegna che le guerre vinte parzialmente fanno covare le braci sotto la cenere e preparano nuovi incendi, soprattutto in Medio Oriente. Hamas è ormai una realtà transnazionale, l’avanguardia più agguerrita della Fratellanza Musulmana, ed è protetto dal Qatar, sostenuto dalla Turchia, e certamente anche dall’Iran che non è affatto fuori gioco. Al Qaeda è stata disarticolata, e così l’Isis, ma non Hamas, e non perché sia più forte, ma perché fin dall’inizio questa guerra non è stata combattuta realmente per sconfiggerlo. Per Hamas, come per Al’Qaeda e l’Isis, la politica viene prima dell’economia. Ritengono che sia l’ideologia che muove gli eventi della storia più della prosperità economica.
  Ci vorrebbe qualcuno che lo facesse presente a Trump.

(L'informale, 29 gennaio 2025)
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Resta confermato quello che abbiamo sempre detto
L'America è un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora (Is. 36:6)

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L'informazione capovolta che parla di ostaggi israeliani “in salute” e palestinesi “torturati”

di Giulio Meotti

I media occidentali sono stati al gioco della narrazione dei terroristi palestinesi. Dei trentatré ostaggi da liberare nella prima fase, sette donne in vita sono state liberate tra domenica 19 e sabato 25 gennaio, diciotto sono vivi, otto sono morti
  I parenti delle quattro ragazze israeliane rilasciate sabato, Naama Levy, Daniella Gilboa, Karina Ariev e Liri Albag, hanno cominciato a condividere alcune storie della loro prigionia a Gaza. Naama è rimasta sola in un tunnel per mesi. Quando è emersa, ha chiesto agli altri ostaggi: “Siamo vivi?”. Sussurrava. Daniella ha ancora un proiettile conficcato nella gamba. “A volte mangiavano uno o due pezzi di pita al giorno”, hanno raccontato i familiari. Dormivano su materassi e studiavano arabo. A Emily Damari mancano due dita. Nelle ultime settimane, Hamas aveva iniziato a nutrirle di più in previsione dell’accordo di cessate il fuoco e del macabro spettacolo a favore delle telecamere di al Jazeera e sotto lo striscione “il sionismo non vincerà”.
  E i media occidentali sono stati al gioco. Hanno riferito che gli ostaggi indossavano le uniformi con cui sono state catturate: falso, erano ancora in pigiama la mattina del 7 ottobre. Anche la Bbc ha trasmesso la scena da Gaza City. Ma da Londra hanno interrotto uno dei loro corrispondenti in medio oriente a metà trasmissione. Il conduttore in studio parlava della straziante esperienza degli ostaggi e del “momento difficile” che devono aver vissuto, quando l’inviato della Bbc, Sebastian Usher, ha detto quanto sembrassero “in buona salute”. 
  Troppo, anche per la “zietta” non certo nota per la sua politica filo israeliana e che ha trasmesso in diretta anche il discorso integrale dell’ayatollah Khamenei. Non diversa la cronaca dell’inviata di Sky, Flavia Cappellini: “Verranno condotti esami medici, ma le abbiamo viste camminare con le proprie gambe su quel palco, i primi rapporti arrivata dalla Croce Rossa sono assolutamente buoni, bisognerà vedere a livello psicologico queste ragazze come si troveranno dopo quindici mesi di prigionia. Anche i palestinesi rilasciati oggi avranno altrettante cure mediche, soprattutto perché la settimana scorsa quando ci trovavamo a Betunya, molti di questi prigionieri ci avevano raccontato di abusi e torture nelle carceri (israeliane)”. 
  Ecco: Hamas ha trattato bene gli ostaggi, “le ragazze che possono rimanere incinte” come le chiamarono i terroristi nel video del 7 ottobre, mentre i prigionieri palestinesi forse sono stati torturati nelle carceri israeliane.  

I terroristi palestinesi
  Gli stessi terroristi palestinesi che nelle carceri israeliane ricevono tre pasti al giorno e si dedicano ad attività ricreative e sportive da una a tre ore al giorno, che possono usufruire della tv via cavo (con una scelta di programmi in varie lingue), tavoli da ping pong, campetti da basket, istruzione e stipendi mensili che variano a seconda di quanto sia efferato il crimine? Più è odioso il crimine, ovvero più ebrei hai ucciso, più alto è lo stipendio versato dall’Autorità nazionale palestinese con i soldi degli aiuti ricevuti dai donatori europei. Ma per i nostri media, sono stati “torturati”. 
  Il New York Times del 26 gennaio definitiva “attivisti” i terroristi della Jihad islamica scarcerati da Israele nell’ambito dell’accordo. A cosa serve al Aqsa tv? Su FranceInfo, la radio pubblica francese, si parla invece di “ostaggi palestinesi”. Su Radio24, nella trasmissione di Alessandro Milan, un ospite ha elogiato lo stato di salute degli ostaggi israeliani e accusato Israele di aver costruito una “propaganda” per giustificare l’operazione militare a Gaza. 
  E pazienza se la Croce Rossa, che ha visitato gli ostaggi americani nell’ambasciata statunitense occupata in Iran nel 1979 e che ha fornito cibo e assistenza medica agli ostaggi giapponesi rapiti dalle forze della guerriglia in Perù, per 473 giorni il massimo che ha fatto per gli ostaggi israeliani a Gaza è stato fungere da servizio taxi al momento del loro rilascio in cambio di centinaia di terroristi.
 Israele ha ricevuto nella tarda serata di domenica la lista degli ostaggi che Hamas avrebbe dovuto inviare sabato scorso, con dettagli sulle condizioni dei ventisei nomi ancora da liberare nella prima fase dell’accordo, che è più un ricatto. Dei trentatré ostaggi da liberare nella prima fase, sette donne in vita sono state liberate tra domenica 19 e sabato 25 gennaio. Secondo la lista di Hamas, dei ventisei nomi rimanenti da liberare nella prima parte dell’accordo, diciotto sono vivi, otto sono morti.

Il Foglio, 29 gennaio 2025)

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Libano: Hezbollah consegna la grande base sotterranea mostrata ad agosto

di Sarah G. Frankl

Secondo fonti libanesi, il gruppo terroristico Hezbollah ha ceduto una base missilistica sotterranea alle forze armate libanesi, mentre Gerusalemme e Beirut hanno concordato di prorogare la scadenza per il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale, nell’ambito di una tregua entrata in vigore a fine novembre.
Al-Arabiya riferisce che la struttura sotterranea nel Libano meridionale, dotata di grandi tunnel attraverso i quali possono transitare i camion, è stata svuotata di tutti i macchinari pesanti prima che le LAF ne prendessero il controllo.
L’emittente di proprietà saudita trasmette un filmato che mostra le truppe libanesi mentre ispezionano i locali.
Hezbollah si era vantato della base missilistica, soprannominata Imad 4, in un video di propaganda pubblicato ad agosto, prima che Israele lanciasse la sua campagna militare che ha spazzato via la maggior parte dei vertici del gruppo terroristico sostenuto dall’Iran, tra cui lo storico capo Hassan Nasrallah.
Israele ha affermato che non potrà rispettare la scadenza di 60 giorni prevista dall’accordo di cessate il fuoco per garantire che Hezbollah non ripristini la sua presenza nel Libano meridionale, perché le LAF non si sono schierate in tutte le aree a sud del fiume Litani, a circa 30 chilometri dal confine con Israele, come concordato.
La Casa Bianca ha dichiarato domenica che la scadenza per il ritiro delle IDF è stata prorogata al 18 febbraio.

(Rights Reporter, 29 gennaio 2025)

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Trump designa gli Houthi come organizzazione terroristica

di David Fiorentini

Continua a scorrere il fiume di cambiamenti che il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump sta apportando alla politica estera americana. In un recente comunicato, il gruppo armato Ansar Allah attivo nello Yemen, conosciuto come movimento degli Houthi, è stato designato come Organizzazione Terroristica Straniera (FTO).
La Casa Bianca ha dichiarato che questa decisione rappresenta un cambio di rotta rispetto all’amministrazione Biden, che invece aveva rimosso gli Houthi dalla lista delle FTO, un mese dopo che lo stesso Trump li aveva inseriti per la prima volta nel 2021.
Inoltre, il comunicato ha evidenziato le conseguenze di tale approccio moderato, sottolineando come “a causa della politica debole dell’amministrazione Biden, gli Houthi hanno attaccato decine di volte navi da guerra statunitensi, lanciato numerosi attacchi contro infrastrutture civili in paesi partner e attaccato oltre 100 volte navi commerciali che transitavano nello stretto di Bab al-Mandeb.”
Il nuovo obiettivo degli Stati Uniti sarà “eliminare le capacità e le operazioni degli Houthi, privarli delle risorse e porre così fine ai loro attacchi contro i militari e i civili statunitensi, i partner degli USA e la navigazione marittima nel Mar Rosso.”
Inoltre, tutti i riceventi degli aiuti economici americani, saranno sottoposti a una revisione a tappeto congiunta da parte dell’Amministratore dell’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti (USAID) e del Segretario di Stato.
“Dopo questa revisione, il Presidente indirizzerà l’USAID a terminare i rapporti con entità che hanno effettuato pagamenti agli Houthi o che si sono opposte agli sforzi internazionali per contrastare il terrorismo e gli abusi degli Houthi,” ha concluso Washington.
Parole forti, che hanno generato la preoccupazione degli enti attivi nella regione, a partire dalle organizzazioni umanitarie. La britannica Oxfam ha già avvertito come il provvedimento peggiorerà la sofferenza dei civili yemeniti, interrompendo le importazioni vitali di cibo, medicine e carburante.
“L’amministrazione Trump è consapevole di tali conseguenze, ma ha scelto di procedere comunque, e sarà responsabile della fame e delle malattie che ne deriveranno,” ha affermato Scott Paul, direttore di Oxfam America per la pace e la sicurezza.
D’altro canto, alcuni analisti avevano ampiamente previsto questa mossa, nell’ambito di una più ampia strategia per aumentare la pressione sul regime di Teheran.
“Sebbene la ridefinizione probabilmente non avrà un impatto positivo sul comportamento del gruppo, la misura suggerisce che la nuova amministrazione non intende indurre (o persuadere) gli iraniani a negoziare attraverso concessioni,” ha spiegato David Schenker, ex assistente del segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente
Nel frattempo, con il temporaneo cessate il fuoco a Gaza, gli Houthi hanno ridotto gli attacchi nel Mar Rosso e hanno rilasciato l’equipaggio della nave commerciale Galaxy Leader, sequestrata oltre un anno fa al largo delle coste yemenite.

(Bet Magazine Mosaico, 29 gennaio 2025)

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Abbiamo bisogno di cultura, arte e mondo accademico – ma non di quelli che abbiamo ricevuto

La cultura al suo meglio può purificare ed elevare, ma per ottenere questo auspicabile risultato ci sono due condizioni.

di Rav Chaim Navon - Makor Rishon

La cultura ci raffina? L'università arricchisce il nostro pensiero? Gli uomini di cultura, arte e del mondo accademico rivendicano uno status speciale nella società israeliana. Chiedono finanziamenti generosi, descrivono ogni critica nei loro confronti come un pericolo per lo stato e si presentano come la coscienza nazionale di tutti noi. Tutto questo si basa sull'assunzione che cultura, arte e istruzione accademica rendano effettivamente le persone migliori e più profonde. Quando gli artisti protestano contro l'intenzione di chiudere la Broadcasting Corporation, ricordano ancora e ancora che senza cultura siamo perduti. Ma è davvero così?
Il critico letterario George Steiner ha sollevato dubbi su questo dopo l'Olocausto: "Sappiamo già che è possibile che una persona legga Goethe o Rilke la sera, suoni Bach e Schubert, e vada a lavorare ad Auschwitz la mattina. Come influisce questa conoscenza sulla speranza diventata quasi un assioma che la cultura sia una forza che genera umanità?" Steiner ha aggiunto: "Abbiamo ben poche prove concrete che gli studi letterari arricchiscano la nostra percezione morale".
Pablo Picasso era forse il più grande artista del XX secolo. Molti dicono che il suo più grande dipinto fosse "Guernica", un meraviglioso dipinto pacifista sugli orrori della guerra. Picasso stesso era un uomo malvagio, egoista e crudele. Mentre dipingeva Guernica, sua moglie è venuta a trovarlo in studio e lo ha trovato con la sua amante. Picasso ha incoraggiato le due a picchiarsi, ridendo con piacere e continuando a dipingere. Questo è ciò che il magnifico dipinto umanistico Guernica ha fatto all'uomo che lo ha dipinto.
La cultura al suo meglio può effettivamente purificare ed elevare. Ma per ottenere questo risultato desiderato ci sono due condizioni: primo, il benefico effetto di un libro eccezionale e di un dipinto emozionante lo trarranno solo persone già educate e fondamentalmente buone. Una persona rozza e aggressiva non trarrà nulla da un'opera d'arte sublime, ed è per questo che gli insegnanti sono importanti. Secondo, bisogna setacciare accuratamente dall'oceano di spazzatura le poche opere che possiedono realmente questa influenza.
E per quanto riguarda l'università? Da essa si può trarre molto, e ricordo con piacere i miei studi presso la Facoltà di Scienze Umane dell'Università Ebraica, con i suoi grandi studiosi. Ma quando guardo la voce pubblica dell'accademia israeliana, la sensazione complessiva è di amarissima delusione. Ci aspettavamo che l'accademia ci desse una prospettiva sofisticata, misurata e complessa sui nostri dilemmi; che dai nostri professori anziani sentissimo una voce delicata e moderata sulle tensioni che ci lacerano: nel dibattito sullo scambio di ostaggi ci sono argomenti pro e contro; nella riforma giudiziaria ci sono vantaggi e svantaggi. Invece vediamo la maggior parte dei leader accademici israeliani guidare un coro isterico e aggressivo, unidimensionale e univoco, una voce che non arricchisce il discorso israeliano ma lo soffoca.
I professori sono anzi tra i più chiassosi e diretti. I rettori delle università hanno persino avviato per la prima volta scioperi politici in accademia, imponendoli ai pochi docenti e ai molti studenti che la pensano diversamente. Chi ha sollevato il nostro spirito in questo difficile anno? Persone come il rav Tamir Granot, Iris Haim, Menachem Klemenzon – che non sono accademici e non lavorano nell'"industria culturale".
Un dibattito si sta oggi svolgendo all'Università Ebraica intorno al conferimento di un dottorato honoris causa al Presidente dello Stato, Yitzhak Herzog. Herzog è una persona gentile e affabile, e nel contempo un chiaro uomo di sinistra, che in passato ha persino guidato il Partito Laburista. Herzog ha mancato un'opportunità di proporre un buon compromesso sulla riforma giudiziaria e all'ultimo momento ha scelto di spostarsi a sinistra. Da molti mesi si esprime a favore di uno scambio di ostaggi a un prezzo elevato e contro le fazioni estremiste del governo. Nonostante questo, è accettabile in modo ragionevole anche tra le persone di destra. Ma molti professori all'Università Ebraica vogliono negargli il titolo, non per la sua chiara preferenza per la sinistra, ma perché non è abbastanza estremista nella sua sinistra. 46 professori hanno votato a favore di Herzog, 35 contro e 12 si sono astenuti.
Gli oppositori del presidente hanno sottolineato che la maggioranza non lo ha sostenuto e hanno dichiarato ai media: "Non ha richiesto con fermezza una commissione d'inchiesta nazionale e ha firmato missili dell'IDF". In risposta, le autorità universitarie hanno sottolineato che il titolo è stato conferito come segno di rispetto per l'istituzione presidenziale – probabilmente per suggerire che forse il presidente stesso ha peccato nell'identificarsi con i suoi soldati, ma l'istituzione presidenziale non ha firmato missili.
La conclusione da tutto questo non è che possiamo rinunciare a cultura, arte e mondo accademico. Abbiamo assolutamente bisogno di cultura – una cultura diversa; l'arte è molto importante per noi – un'arte che elevi spiritualmente; non c'è sostituto alla ricchezza che l'istruzione accademica può offrirci – quella che educa a un pensiero complesso e misurato, e non a un clamoroso inseguimento del gregge illuminato. Volete la nostra fiducia e i nostri finanziamenti? Prima di tutto, verificate cosa state realmente offrendo alla società israeliana.

(Kolòt - Morashà, 28 gennaio 2025)

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«Pronti a lasciare il potere a Gaza

L'ufficio politico dei miliziani elogia il tycoon: «Un presidente serio». Lui imita Israele e prepara un decreto per dotare gli Usa di un Iron dome. L'Italia spedisce altri sette carabinieri per la missione europea a Rafah

di Flaminia Camilletti

Migliaia di palestinesi in viaggio verso Nord, a piedi. Israele, nonostante gli scettici, ha mantenuto la promessa e ha aperto il corridoio Netzarim per la prima volta dopo 15 mesi di guerra. Le immagini riprese dai droni sono impressionanti e per la prima volta dal 7 ottobre si ha l'idea di una distensione senza precedenti.
  L'arrivo di Donald Trump ha cambiato il verso del conflitto in Medio Oriente, che piaccia o meno. E anche se la sua proposta di far evacuare la Striscia, trasferendo i rifugiati in Egitto e Giordania, è stata presa male praticamente da tutti, c'è anche chi, tra gli avversari, ne riconosce la serietà. Moussa Abu Marzouk, un membro dell'ufficio politico di Hamas, ha fatto sapere che i miliziani sono disposti a lasciare il governo di Gaza e a negoziare con gli Stati Uniti una soluzione per il «martoriato territorio palestinese». Marzouk ha poi dichiarato di ritenere Donald Trump «un presidente serio» alla luce dell’accordo di cessate il fuoco con Israele che il suo inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ha aiutato a chiudere.
  Hamas, ha spiegato Marzouk, è conscia che una nuova autorità che guidi la Striscia di Gaza avrebbe bisogno di appoggio sia regionale sia internazionale e dovrebbe essere sostenuta dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen. Il mese scorso Hamas e Al Fatah avevano trovato un'intesa sulla creazione di un comitato di dieci-quindici figure che amministri Gaza con il consenso di entrambe le fazioni. Un piano impossibile da accettare per Israele, che da una parte vuole escludere completamente Hamas dalla Striscia e dall'altra non ritiene gli attuali vertici dell'Anp in grado di svolgere un compito così complesso. Il timore è che presto Gaza diventi di nuovo un covo di terroristi nascosti tra scuole e ospedali. Marzouk, d'altro canto, a sua volta ha spiegato che non intende aprire «al dialogo con Israele» e dopo gli apprezzamenti a Trump ha puntualizzato: «Nessun palestinese o arabo accetterà l'idea di sfollamento di Trump», riferendosi all'idea di evacuare la Striscia, facendo rifugiare la sua popolazione tra Giordania ed Egitto, Entrambi i Paesi si sono opposti con risolutezza.
  Ieri, Hamas finalmente ha consegnato a Israele la lista dei 33 ostaggi che ha promesso di liberare: 25 sono vivi e 8 sono morti. Nessun nome, solo numeri, con le famiglie disperate in attesa. Le autorità israeliane hanno fatto sapere alla stampa che le informazioni fornite coincidono con quelle di cui già erano a conoscenza. Hamas ha poi confermato che libererà tre ostaggi entro venerdì prossimo, 31 gennaio. Altri tre saranno rilasciati sabato 1° febbraio. Venerdì dovrebbe esserci anche Arbel Yehud, la ventinovenne rapita a Nir Oz che avrebbe dovuto essere liberata già con il secondo rilascio. L'ufficio del primo ministro, Benjamin Netanyahu, scrive che Israele ha raggiunto l'accordo con Hamas dopo «trattative forti e determinate» e ribadisce che «non tollererà alcuna violazione dell'accordo». Il premier israeliano, intanto, ha messo in agenda un viaggio a Washington per la prossima settimana: incontrerà il presidente degli Stati Uniti Trump, che proprio ieri ha fatto sapere che intende firmare un decreto esecutivo per la costruzione di un Iran Dome per gli Usa. Lo stesso scudo missilistico che possiede Israele. Decisione assunta a causa della « minaccia di attacchi di missili balistici, cruise e ipersonici» per gli Stati Uniti. In realtà si tratterà di un sistema simile, probabilmente, perché Iran Dome non sarebbe in grado di coprire l'intera superficie della nazione americana .
  Anche l'Europa riattiva il suo impegno a Rafah. Il Consiglio Affari esteri dell'Unione ha annunciato il ripristino della missione Eubam-Rafah. Lo ha annunciato l'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Kaja Kallas, spiegando: «Tutti concordano che questa missione può giocare un ruolo decisivo nel sostenere la tregua. Oggi i ministri hanno concordato il suo rilancio. Questo permetterà che un certo numero di persone ferite potranno lasciare Gaza e ricevere cure mediche». L'Italia parteciperà inviando altri 7 carabinieri entro fine gennaio, che si uniranno ai due italiani già presenti. Questo personale sarà integrato nella Forza di gendarmeria europea (Eurogendfor). L'Italia si farà inoltre carico del trasporto dell'intero contingente attraverso il Comando operativo di vertice interforze della Difesa (Covi), che coordinerà il trasferimento e il dispiegamento nell'area di militari della Guardia civil spagnola e di gendarmi francesi, che si uniranno alla forza internazionale.  

(La Verità, 28 gennaio 2025)

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Ritorno degli sfollati a Gaza Nord: ecco come avviene. Quali i controlli

Contractor americani ed egiziani controllano i veicoli che fanno ritorno a Gaza Nord

Gli appaltatori della sicurezza hanno iniziato a ispezionare i veicoli a Gaza per evitare che le armi pesanti vengano spostate nel nord dell’enclave, dove decine di migliaia di palestinesi sono tornati lunedì.
Un funzionario egiziano ha dichiarato che gli appaltatori egiziani, insieme a una ditta statunitense, stavano gestendo i posti di blocco per ispezionare i veicoli diretti verso il nord della Striscia di Gaza attraverso la strada Salah a-Din. Gli appaltatori fanno parte di un comitato egiziano-qatariota che attua il cessate il fuoco.
Un uomo d’affari palestinese che ha attraversato un posto di blocco ha raccontato al New York Times che il personale di sicurezza statunitense in tenuta scura controlla le auto, mentre i soldati che parlano un dialetto egiziano dell’arabo organizzano il movimento dei veicoli e i passeggeri che vengono fatti scendere durante le ispezioni.
“L’ispezione e l’attraversamento dell’auto non richiedono più di un minuto o due”, ha dichiarato. “Mi hanno chiesto di aprire il bagagliaio e il cofano e poi mi hanno augurato buon viaggio”.
Un funzionario israeliano, che ha confermato che le ispezioni sono iniziate lunedì, ha descritto il team che opera le ispezioni come “multinazionale”, ma non ha fornito ulteriori dettagli, tranne che per dire che include una società di sicurezza privata americana. Secondo quanto riportato la scorsa settimana, la società statunitense Safe Reach Solutions sarà responsabile della gestione operativa dei valichi lungo il corridoio, mentre un’altra società americana e una società egiziana effettueranno le ispezioni.
Il funzionario ha anche giurato che Israele continuerà ad agire contro le violazioni dei termini del cessate il fuoco.
L’IDF ha riferito che nel centro di Gaza, un attacco di droni è stato effettuato come avvertimento dopo che un veicolo ha tentato di recarsi a nord di Gaza attraverso un’area vietata al traffico veicolare dall’accordo, e come tale non sarebbe stato sottoposto a ispezione.
I media palestinesi hanno riferito di un attacco di droni contro un trattore che cercava di superare la barriera a Nuseirat.
In diverse aree di Gaza dove le truppe israeliane sono ancora dispiegate, l’esercito ha detto che i soldati hanno sparato colpi di avvertimento ai sospetti che si avvicinavano. In un incidente nel nord di Gaza, l’IDF ha dichiarato che le truppe hanno preso di mira un sospetto che non si è ritirato dopo aver sparato i primi colpi di avvertimento.
Gli incidenti sono avvenuti mentre masse di palestinesi si riversavano lungo le strade che portavano al nord di Gaza, con immagini che mostravano operatori di Hamas armati e mascherati che mostravano il segno della vittoria tra la folla di ritorno. A differenza di quanto avviene per i veicoli, il cessate il fuoco esenta dalle ispezioni i palestinesi che viaggiano a piedi, anche se non dovrebbero portare armi.
Hamas ha rilasciato una breve dichiarazione in cui afferma che “più di 300.000 sfollati” palestinesi “sono tornati oggi… nei governatorati del nord” di Gaza, una cifra che non è stato possibile verificare in modo indipendente. Le Nazioni Unite hanno dichiarato che oltre 200.000 persone sono state osservate spostarsi verso nord lunedì mattina.
Durante i 15 mesi di combattimenti, Israele è stato cauto nel permettere lo spostamento dei gazesi dal sud al nord, temendo che Hamas avrebbe sfruttato l’opportunità per riposizionare i suoi combattenti.
Secondo i termini dell’accordo di cessate il fuoco, i residenti del nord di Gaza dovevano inizialmente rientrare durante il fine settimana, ma Israele ha affermato che Hamas aveva violato l’accordo non rilasciando l’ostaggio civile Arbel Yehoud mantenendo quindi chiusi i valichi.
Nella tarda serata di domenica, i mediatori del Qatar hanno dichiarato che Hamas aveva accettato di rilasciare Yehoud e altri due ostaggi – uno dei quali era la soldatessa Agan Berger – entro venerdì e che Israele, in cambio, avrebbe permesso ai palestinesi sfollati di tornare nel nord di Gaza a partire da lunedì mattina. Tre uomini sarebbero stati rilasciati sabato.
Gerusalemme ha detto anche che Hamas ha finalmente inviato una lista che dettaglia le condizioni dei restanti ostaggi che devono essere rilasciati nella prima fase del cessate il fuoco, che dura da 42 giorni ed è iniziata il 19 gennaio. Sia il mancato invio dell’elenco entro sabato che la mancata liberazione di Yehoud da parte di Hamas prima del rilascio di quattro donne dell’IDF sono stati considerati da Israele come violazioni dell’accordo di tregua.

(Rights Reporter, 28 gennaio 2025)

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Klaus Davi espone nel centro di Milano lo striscione “Free Gaza from Hamas”

“Free Gaza from Hamas” è la frase contenuta in uno striscione nella centralissima Via Santa Sofia a Milano. Visibile dalle prime luci dell’alba, lo striscione è stato esposto sulla ringhiera di un’abitazione privata del capoluogo lombardo che si affaccia sulla trafficatissima circonvallazione interna della metropoli. A esporlo sulla propria terrazza è stato il giornalista Klaus Davi, proprietario dell’appartamento in centro. Autore di numerose inchieste sull’Islam radicale e sulla criminalità organizzata, Klaus Davi ha più volte preso posizione a favore del diritto dello Stato di Israele di esistere e di difendersi dall’aggressione del terrorismo stragista e mafioso dell’organizzazione Hamas perpetrata il 7 ottobre 2023.“Li espongo a casa mia, in un appartamento di mia proprietà, pagandoli con i miei soldi cosi qualcuno non può dire che sono un ‘provocatore'”, ha dichiarato Davi all’Ansa. Lo striscione che ho affisso ieri “Free Gaza from Hamas” e la bandiera di Israele che si affaccia sulla centralissima via Santa Sofia, sarà il primo di una lunga serie.

(Bet Magazine Mosaico, 28 gennaio 2025)

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Tra woke, slogan e sfumature antisemite: Hamas e i suoi utili idioti

“Organizzazioni studentesche, ong, intellettuali, accademici, partiti: così la nebulosa della Fratellanza musulmana ha organizzato la guerra culturale in occidente”. Intervista a Michaël Prazan.

di Giulio Meotti

Il giorno in cui è stata annunciata la tregua tra Israele e Hamas, in Francia è uscito il nuovo libro del giornalista francese Prazan, “La vérité sur le Hamas et ses idiots utiles”. Quando si tratta di comunicazione, i terroristi sono diventati esperti, padroneggiando sia la guerra culturale sia l’uso delle armi grazie agli “utili idioti” sulla copertina di Prazan. Lo si è visto nella parata organizzata a Gaza per il secondo scambio tra Israele e Hamas. Un grande cartello annunciava: “il sionismo non vincerà”.
“‘Utili idioti’ è un termine attribuito a Lenin, con cui si indicavano gli intellettuali occidentali e altri ‘compagni di viaggio’ del Partito Comunista che servivano la causa dell’oppressione sovietica, sinceramente oppure manipolati da Mosca” dice Prazan al Foglio. “In primo luogo, ci sono le organizzazioni della Fratellanza Musulmana, provengono dalle nebulose associazioni della Fratellanza, di cui Hamas è il ramo palestinese, presente in più di ottanta paesi in tutto il mondo, e particolarmente radicata nel mondo studentesco”. In Francia, è stata l’associazione “Studenti per la giustizia in Palestina” a dare il via alle manifestazioni  a Sciences Po, “reclutando schiere di utili idioti tra gli studenti della prestigiosa scuola, destinati a diventare l’élite del paese. Questa associazione, creata negli anni Novanta da Hatem Bazian, un Fratello Musulmano palestinese che insegnava diritto islamico  a Berkeley in California, è stata bandita negli Stati Uniti per aver finanziato Hamas. L’associazione Étudiants musulmans de France, creata nel 1989 e legata a Femyso, è un’altra propaggine della Fratellanza Musulmana specializzata nell’infiltrazione nelle istituzioni europee. E’ stata all’origine di una campagna di manifesti che promuoveva il velo islamico e ha la vocazione, come afferma Mohamed Louizi, dirigente pentito della associazione, del proselitismo nelle università.
Organizzano distribuzioni di cibo in collaborazione con un’altra associazione, ancora più interessante: Humani’Terre. Questo non è niente di più e niente di meno che il nuovo volto del Palestinian Charity and Relief Committee, un’organizzazione che si definisce umanitaria e agricola; ma di fatto una vetrina per Hamas. Sebbene Humani’Terre fosse nel mirino del Dipartimento del Tesoro americano dal 2003, la sua filiale francese continuava a ricevere sussidi pubblici. Oltre a queste associazioni, che hanno animato l’agitazione studentesca tra giovani tanto ignoranti quanto facilmente manipolabili, ovunque in occidente, e in particolare nelle più prestigiose università, abbiamo assistito all’emergere di intellettuali, islamologi, ma anche politici”. 
Questi ultimi sono particolarmente forti nella France Insoumise, il partito di Jean-Luc Mélenchon: “Tanto per ragioni di clientelismo elettorale (il voto musulmano e il voto dei giovani), quanto per un ruolo sincero e più o meno presunto, ha giocato la carta di Hamas, riprendendone gli slogan e gli elementi linguistici. Il discorso di questa estrema sinistra si è diffuso a macchia d’olio, poiché il suo discorso si è in parte esteso alle fila del Partito socialista e ha contaminato alcune dichiarazioni di Emmanuel Macron”.    

Dal “Sud del mondo” all’Onu
  Allargando il campo d’azione, abbiamo visto numerose ong, governi del “Sud del mondo” e organismi delle Nazioni Unite gettarsi a capofitto nella breccia. “Queste ong non hanno condannato l’attacco di Hamas, non hanno mostrato alcuna preoccupazione per gli ostaggi, tanto meno per la loro salute, né hanno chiesto il loro rilascio; si precipitano a maledire Israele. Astenendosi dal definire Hamas un’organizzazione terroristica, Amnesty ha proposto di utilizzare la parafrasi di ‘gruppo armato palestinese’, con il pretesto che ‘il terrorismo non esiste secondo il diritto internazionale’, quando non aveva esitato, qualche anno prima, a utilizzare l’aggettivo ‘terroristi’ per descrivere le atrocità di Boko Haram. Da parte sua, Greenpeace ha condannato ‘le uccisioni indiscriminate della popolazione palestinese di Gaza come rappresaglia per gli attacchi di Hamas’, senza una parola di compassione per le vittime israeliane.
Per quanto riguarda l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che aiuta i  palestinesi, che educa i giovani palestinesi nelle sue scuole ad odiare gli ebrei e Israele, tremila dei suoi insegnanti hanno esultato lo stesso giorno dei massacri su Instagram, celebrando questa ‘gloriosa mattina indimenticabile’, rallegrandosi che ‘i razzi eliminino i sionisti dalla faccia della terra’. Altrettanto risuonava il silenzio delle femministe, che non sembravano toccate dagli stupri e dalle uccisioni di massa che colpivano donne di tutte le età. La reazione del Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, con ancora i cadaveri in fiamme del 7 ottobre, in cui ha condannato gli ‘atti perpetrati da Hamas’ senza nominarli, aggiungendo nella stessa frase che ‘è anche importante’ riconoscere che essi ‘non si verificano fuori dal contesto’, è tanto disarmante quanto indecente”.

Il Foglio, 28 gennaio 2025)

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Il giorno della memoria ormai è la fiera dell’ipocrisia

Una ricorrenza da abolire. Perfino la data della commemorazione è inopportuna: i sovietici entrarono ad Auschwitz quando il campo era ormai vuoto. E l'imposizione di un ricordo non genuino ha alimentato un antisemitismo che già aleggiava in tutta Europa durante la guerra.

di Silvana De Mari

Il 27 gennaio è sempre più la fiera dell'ipocrisia e dell'antisemitismo. In effetti è sempre stata la fiera dell'ipocrisia e dell'antisemitismo, l'affetto infinito degli ebrei morti e l'odio isterico contro quelli vivi. Quelli in coda davanti le camere a gas, quelli sì che erano ebrei per bene, mica come questi insopportabili israeliani armati fino ai denti che si permettono di rispondere al fuoco. La scelta della data è già discutibile. Quando i sovietici hanno liberato il campo di sterminio di Auschwitz, con molta calma, non era una loro priorità, il campo era praticamente vuoto. Le Ss si erano fortunatamente dimenticate di sopprimere gli internati che in quel momento si trovavano nelle infermerie, dando anche probabilmente per scontato che sarebbero morti da soli di fame e di freddo prima dell'arrivo dei sovietici. E’ grazie a questo che Primo Levi si è salvato. Le migliaia di deportati non erano più nel campo di concentramento, ma erano state spostate verso ovest, verso la Germania, sia perché non fossero liberate, sia per sfruttarle come forze di lavoro, in un viaggio fatto in parte a piedi e in parte in vagoni ferroviari aperti nel gelido inverno polacco. Il numero di morti nelle marce è stato talmente alto che sono state chiamate marce della morte. Il 27 gennaio del '45 gli ebrei non sono stati liberati: la schiavitù e gli assassinii sono continuati per ancora lunghi atroci mesi. Il 27 gennaio semplicemente l'Armata Rossa è arrivata in un campo di concentramento vuoto.
  Dovendo scegliere come data la liberazione di un campo di concentramento avrei scelto Buchenwald, 11 aprile 1945. Il campo era stato evacuato solo parzialmente grazie alla resistenza dei detenuti, per cui ne furono liberati più di 20.000. A Buchenwald però sono arrivati gli americani, il partito comunista preferiva la data della liberazione del campo di Auschwitz anche se abbandonato. Il Partito comunista sovietico con tutte le sue numerose ancelle, ha imposto la data, ha imposto anche un ricordo che non è spontaneo, né poteva esserlo ovviamente, e che, come tutte le cose calate dall'altro, ha creato fiumi di soffocato risentimento. Una delle linee di questo risentimento è il negazionismo: non erano 6 milioni ma 2 milioni e mezzo, anzi 50.000, forse 1200. Il 4 e il 6 ottobre 1943 a Posen, Himmler riconobbe in due discorsi ufficiali come i nazisti stessero sterminando sistematicamente tutti gli uomini, le donne e i bambini ebrei che trovavano sulla loro strada, tutti. Questo dovrebbe porre fine alle discussioni. Gli ebrei non potevano scappare da nessuna parte, visto che tutte le nazioni a cominciare la Svizzera avevano chiuso loro le frontiere, e meno che mai potevano scappare nemmeno nella terra di Israele visto che i palestinesi avevano costretto la Gran Bretagna a mettere il veto. Dello sterminio una parte di responsabilità l'hanno le nazioni che hanno chiuso le frontiere. Lo sterminio e stato reso possibile dalla collaborazione delle popolazioni locali. Dove le popolazioni locali non hanno collaborato, o hanno collaborato poco e male, Danimarca, Bulgaria e Corsica, le popolazioni ebraiche sono state in tutto o in parte salvate.
  Che l'Europa abbia collaborato allo sterminio degli ebrei fa sì che gli europei intendano superare i sensi di colpa con l'antica pratica della criminalizzazione della vittima, con le tesi più tragicamente idiote che comunque continuano a circolare: «Hitler era ebreo, o comunque aveva sangue ebraico, il nazismo è stato sostenuto dagli ebrei, ai quali ha fatto comodo avere un po' di morti così hanno potuto mettere le mani sulla Palestina, dove stanno commettendo un genocidio, quindi siamo al pareggio». Queste bestiali idiozie continuano a circolare. Il popolo d'Israele ha riconquistato e difeso con il suo coraggio la terra dei suoi padri, che prima aveva acquistato a prezzi altissimi e come si dice in Toscana «chi vende non è più suo». Il progetto di sterminio nazista comprendeva anche gli ebrei già al sicuro nella terra che sarebbe poi diventata Israele, mediante un patto d'acciaio tra i palestinesi e nazisti. Ha ricostruito tutta questa oscura parte della storia il libro Nazi Palestine, the plans for extermination of the Jews in Palestine, di Klaus Michael Mallmann e Martin Cuppers. I campi di concentramento non sono stati fatti in un giorno. All'inizio ci fu un allontanamento dalle cariche pubbliche, il divieto di matrimoni misti, e ovvi progetti di espulsione. Alla Conferenza di Evian del 1938 tutte le nazioni con l'esclusione dell'Honduras rifiutarono di accogliere gli ebrei tedeschi, sia perché non avevano capito, era inconcepibile, che rischiavano la vita, sia per non destabilizzarsi accogliendo minoranze. La Gran Bretagna vietò che andassero in Palestina per evitare altri disordini. L'odio condiviso per gli ebrei creò una convergenza crescente che portò a un cambiamento epocale nella politica estera tedesca, che alla fine degli anni '30 spostò il suo focus dal cercare di accelerare l'emigrazione ebraica al fornire sostegno diretto ai nazionalisti arabi.
  Nel momento in cui Hitler salì al potere è evidente e anche ovvio che divenne la speranza di chi voleva distruggere quell'embrione di nazione che sarebbe diventata Israele. Nel 1941 la Germania nazista sembrava invincibile. Nel Nord Africa la sua vittoria sembrava certa. A Berlino venivano elaborati piani molto specifici per garantire il genocidio degli ebrei in Palestina. Con l'invasione dell'Egitto alle porte, molti nazionalisti arabi che cercavano di eliminare la presenza britannica e francese nel Nord Africa e nel Vicino Oriente si rivolsero a un leader, il Gran mufti di Gerusalemme, Haj Amin el-Husseini, come guida. Il Mufti visitò le capitali dell'Asse e ebbe diversi incontri con Adolf Hitler. La Germania nazista non solo promise di porre fine alla «presenza coloniale» europea che aveva sostituito l'Impero Ottomano, ma si impegnò anche a spazzare via gli ebrei che vivevano in Palestina da tempo immemorabile, così come i nuovi arrivati con il movimento sionista moderno nel diciannovesimo secolo e in seguito alla Dichiarazione Balfour del 1917. Il processo di sterminio stava per essere attivato e gli ufficiali delle Ss e dell' Sd (Sicherheitsdienst Servizio di sicurezza) erano stati selezionati e assegnati al compito. Quando l'Afrika Korps fu sconfitto a EI Alamein, l'Einsatzkommando (nome dato a squadre della morte mobili come quelle che agirono in Ucraina) spostò le sue operazioni in Tunisia, dove per molti mesi attuò crudeli politiche antiebraiche. Fu uno specifico programma di sterminio regionale nel contesto dell'Olocausto, di cui resta traccia negli statuti di Hamas e Al Fatah, che prevedono al primo articolo la distruzione dello Stato di Israele. L'articolo 7 di Hamas afferma che saranno assassinati gli ebrei ovunque si trovino nel mondo. Questo è un programma genocidiario. Israele risponde al fuoco. Gaza spara su Israele, dopo lo spaventoso pogrom del 7 ottobre, Israele spara su Gaza. Lo stato di Israele è l'unico che durante le guerre avverte dove sta per bombardare, perdendo così l'effetto sorpresa, ma dando tempo ai civili, oltre che i miliziani nemici, di mettersi al sicuro. Se si difende da aggressioni rinunciando alla forza massimale per diminuire le perdite dei civili nemici, viene comunque tacciato di genocidio. Ai civili palestinesi però è vietato l'accesso ai rifugi antiaerei. Come nella fiaba di Pollicino, l'orco che vuole uccidere i bambini degli altri, uccide i suoi stessi bambini.

(La Verità, 28 gennaio 2025)

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Nel cosiddetto “Giorno della memoria”

Ieri è oggi
    Sento i miei passi
    sulla distesa bianca di neve
    che si perde nel grigio
    fra il cielo e la terra…
    Alberi brulli, lontano,
    baracche tetre che sussurrano
    dolori inenarrabili,
    vissuti e consumati nel tempo,
    cicatrici che restano e segnano profondamente il corpo e l’anima.
    Per non dimenticare…
    Il passato è sempre presente,
    un presente attuale,
    che rinnova l’angoscia.
    Uomini, donne, vecchi, giovani e bimbi,
    niente è cambiato.
    L’odio cieco e violento non impallidisce
    ma rinnova il suo vigore.
    Il male appare nel suo orrore più profondo,
    è tangibile e pesa come un macigno,
    insopportabile!
    Israele, il tuo dolore è il dolore di Dio 
    ed è anche il mio dolore, ma…
    … ”Il Dio Eterno è il tuo rifugio; e sotto di te stanno le braccia eterne.”
    L’odio umano è un puntino nell’universo
    a fronte dell’eterno amore del Signore per te!

Carmela Palma

(Notizie su Israele, 27 gennaio 2025)


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State lontani dal giorno della memoria
  • State lontani dal giorno della memoria, voi che gridate a squarciagola “from the River to the sea”.
  • State lontani dal giorno della memoria voi che avete inondato le piazze con slogan antisemiti.
  • State lontani dal giorno della memoria voi che fingete di ricordare gli ebrei morti ma non volete e non siete in grado di difendere quelli vivi.
  • State lontani dal giorno della memoria voi che dagli alti scranni delle istituzioni tentate di degiudaizzare questa giornata con il pretesto che “si vabè gli ebrei ma nei campi vi finirono tanti altri”.
  • State lontani dal giorno della memoria voi che inneggiate alla Resistenza italiana confondendola capziosamente con Hamas e il terrorismo vigliacco dei tagliagola, ben consapevoli della differenza totale e assoluta.
  • State lontani dal giorno della memoria pro pal che con la scusa del popolo palestinese non perdete occasione di dimostrare il vostro antisemitismo riscrivendo la storia.
  • State lontani dal giorno della memoria, ipocriti vigliacchi che amano gli ebrei solo quando sono morti ma negano al popolo Ebraico il diritto all’esistenza e alla sopravvivenza.
  • Tutti voi state lontani dal giorno della memoria perché questo giorno laicamente sacro non vi appartiene!
  • Questo giorno serve per ricordare la più immane tragedia dell’umanità in cui sei milioni di ebrei furono uccisi Senza colpa, per il solo fatto di essere ebrei.
  • Questo giorno ci ricorda che mai più è ora! E che tutti i giorni sono giorni della memoria per chi quella tragedia non la dimentica e per chi si batte perché non accada mai più!
Kishore Bombaci

(EDIPI, 27 gennaio 2025)

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Gaza, Hamas apre a Trump e svela quanti ostaggi sono vivi

La conferma di un alto funzionario del gruppo terrorista: Hamas non intende necessariamente governare la Striscia dopo che la guerra sarà finita

di Franco Lodige

Importanti novità dal Medio Oriente. È infatti arrivata l’apertura di Hamas a Donald Trump. L’alto funzionario del politburo del gruppo islamista Moussa Abu Marzouk ha spiegato ad al Arabiya che i miliziani non intendono necessariamente governare la Striscia di Gaza dopo che la guerra, iniziata con Israele il 7 ottobre 2023, sarà finita. Ma non solo. Abu Marzouk ha rimarcato che Hamas è consapevole che, in futuro, l’organismo di governo della Striscia avrà bisogno del sostegno sia regionale che internazionale, tra cui quello del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.
La leadership del gruppo terrorista è “aperta al dialogo con tutte le parti tranne Israele” quando si tratta di formulare un piano per il futuro controllo della Striscia di Gaza. In particolare, sarebbe più che disposto a negoziare la composizione del governo di Gaza con gli Usa, qui arrivano gli elogi al nuovo presidente. Abu Marzouk ha infatti evidenziato di ritenere che Trump “sia un presidente serio” alla luce dell’accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi che lui e il suo inviato in Medio Oriente Steve Witkoff hanno contribuito a finalizzare. Parole importanti, soprattutto alla luce delle recenti critiche nei confronti del tycoon per le recenti proposte secondo cui l’enclave dovrebbe essere sgomberata e la sua popolazione trasferita in Giordania ed Egitto.
Dopo diciotto anni il gruppo terrorista potrebbe lasciare il controllo della Striscia di Gaza. Hamas aveva preso il controllo del territorio nel 2007 a seguito di uno scontro armato con Fatah. Secondo fonti interpellate dalla Dpa, in questa fase sta cercando di ottenere dai Paesi che hanno mediato l’accordo (Qatar, Egitto e Stati Uniti) garanzie sui diritti dei suoi dirigenti. I terroristi interpretano ancora un ruolo da protagonista a Gaza, come testimoniato lo scorso sabato nel corso del rilascio del secondo gruppo di ostaggi quando decine di suoi miliziani a volto coperto, armati e in uniforme sono comparsi in una piazza nel centro di Gaza City. Israele su Hamas è stata netta: non può continuare a governare Gaza. Il governo di Netanyahu non ha ancora presentato un proprio piano per il futuro della Striscia, mentre a dicembre Hamas ha annunciato di aver accettato una proposta del Cairo di istituire un organismo palestinese per amministrare l’enclave. Non è chiaro se lo Stato ebraico accetterà questo piano.
Per quanto riguarda l’accordo con Israele, oggi Hamas ha consegnato allo Stato ebraico un elenco di 25 ostaggi vivi. Come confermato dalla Reuters, l’elenco con le informazioni sulle condizioni degli ostaggi sarebbe stato consegnato nella tarda serata di ieri. La lista non fornisce dettagli in merito allo status di ciascun individuo, ma include il numero complessivo dei prigionieri ancora in vita. Le autorità di Tel Aviv al momento non hanno confermato la morte di alcuni ostaggi, ma alcuni funzionari – in via confidenziale – hanno affermato che i numeri corrispondono alle informazioni di intelligence già in possesso di Israele.
Ricordiamo che ad oggi circa 33 ostaggi saranno rilasciati nella prima fase del cessate il fuoco, prevista per sei settimane. Tra questi rientrano tutte le donne, comprese le soldatesse, i bambini e gli uomini di età superiore ai 50 anni. Come previsto dall’accordo firmato dalle due fazioni, Israele libererà tra 990 e 1.650 prigionieri e detenuti palestinesi. Le condizioni degli ostaggi liberati nei giorni scorsi non sono buone. La conferma è arrivata da un medico militare: il loro stato di salute è precario e il processo di recupero sarà lungo. Il dottor Ami Benov ha detto ai giornalisti che le sette giovani donne soffrono di una “leggera fame” e di carenze vitaminiche. Inoltre, le cure ricevute sono state piuttosto scarse: “Non sono in buona salute. Non stanno bene fisicamente”. Stesso discorso per la salute mentale, definita dal medico “molto complicata”.

(Nicola Porro, 27 gennaio 2025)

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“Non ci siamo lasciate intimidire”: le prime dichiarazioni delle soldatesse israeliane

di Luca Spizzichino

Sabato scorso, dopo 477 giorni di prigionia a Gaza, quattro giovani soldatesse israeliane — Karina Ariev, Daniella Gilboa, Naama Levy e Liri Albag — sono finalmente tornate a casa. Durante il loro rilascio, avvenuto in una messa in scena organizzata da Hamas in una piazza di Gaza City, le giovani hanno trasformato un tentativo di propaganda in una vittoria morale. Le ragazze, con uniformi quasi militari e costrette a sfilare di fronte a una folla di militanti armati e civili, hanno affrontato la situazione con coraggio.
  “Abbiamo mostrato loro che non ci siamo lasciate intimidire”, ha raccontato una delle giovani ai familiari, come riportato da Kan. “Siamo più forti di loro.” Gli alti funzionari della sicurezza israeliana, che osservavano la scena da un centro di comando, temevano un possibile sfogo incontrollato durante l’evento, ma il comportamento sicuro delle soldatesse ha rovesciato il significato dell’episodio, trasformandolo in un simbolo di resilienza. Secondo quanto riportato da Channel 12, la loro compostezza “ha trasformato l’umiliazione in una vittoria”.
  Durante i lunghi mesi di prigionia, le quattro soldatesse hanno trovato conforto e forza l’una nell’altra. In una delle loro testimonianze, hanno raccontato di essere state spesso trasferite in diverse località, tra cui Gaza City, e di aver vissuto in condizioni estreme. Una di loro è stata rinchiusa per un lungo periodo in un tunnel buio e angusto, con difficoltà respiratorie. Altre hanno dovuto cucinare e pulire per i loro carcerieri, a volte senza ricevere cibo. Nonostante le difficoltà, le ragazze hanno cercato di mantenere una parvenza di normalità.
  Naama Levy, triatleta, si è allenata insieme a Doron Streinbrecher, un’altra ostaggio rilasciata successivamente, descrivendo questi momenti come un esercizio “per il corpo e per l’anima”. Alcune di loro hanno anche imparato l’arabo durante la prigionia. Liri Albag, descritta come la leader del gruppo, ha spesso negoziato con i carcerieri per conto delle altre. Durante la prigionia, hanno ascoltato notizie alla radio e visto in televisione i video delle proteste organizzate in Israele per la loro liberazione. Questi momenti hanno dato loro speranza e la consapevolezza che non erano state dimenticate.
  Le famiglie delle quattro giovani hanno accolto il loro ritorno con una gioia immensa, ma con il pensiero rivolto agli altri ostaggi ancora detenuti. Il padre di Liri, Eli Albag, ha dichiarato: “Il nostro cuore è con le famiglie di Agam Berger, Arbel Yehud, Shiri Bibas e tutti gli altri ostaggi. Non ci fermeremo finché non saranno tutti liberi.”
  Le dichiarazioni delle famiglie e degli amici mettono in evidenza non solo il sollievo per il ritorno delle giovani, ma anche il peso delle cicatrici, sia fisiche che psicologiche, che porteranno con sé. “Liri ha dimostrato una forza sovrumana e ha sopravvissuto all’inferno”, ha affermato la sua famiglia. “Siamo così orgogliosi della sua resistenza in condizioni impossibili.”
  Anche la famiglia di Karina Ariev ha espresso gratitudine: “La nostra Karina è un simbolo di coraggio e determinazione. Vogliamo ringraziare tutti coloro che ci hanno sostenuto in questo viaggio: le vostre preghiere e il vostro amore sono stati la nostra ancora.”

(Shalom, 26 gennaio 2025)
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Dunque secondo l'autore il comportamento delle soldatesse sarebbe un simbolo di vittoria resiliente, mentre l'obbligo a loro imposto da Hamas sarebbe teatro insignificante. Video
Non sarà che i termini simbolo e teatro debbano essere scambiati fra di loro?



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Israele: Netanyahu è atteso a Washington da Trump la prossima settimana

Il primo ministro israeliano dovrebbe recarsi alla Casa Bianca il 3 febbraio

Il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu si recherà alla Casa Bianca per incontrare il presidente degli Stati Uniti Donald Trump la settimana prossima. Lo ha riferito il sito d’informazione “Walla”, citando tre fonti israeliane e statunitensi, secondo cui il premier dovrebbe recarsi a Washington il 3 febbraio.
  Secondo il quotidiano israeliano “Ynet”, Trump utilizzerà il potenziale dell’accordo di normalizzazione delle relazioni con i sauditi e altre nazioni musulmane per spingere il primo ministro a non riprendere la guerra.
  Intanto, l’inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Steve Witkoff, è atteso mercoledì 29 gennaio in Israele, dove incontrerà il premier israeliano e il ministro per gli Affari strategici, Ron Dermer.Secondo “Ynet” le parti discuteranno del tema degli ostaggi, della situazione in Libano e della normalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita.

(Agenzia Nova, 27 gennaio 2025)

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Cosa c’è dietro la coreografia di Hamas?

di Ugo Volli

La coreografia del rilascio

FOTO
Com’era accaduto la settimana scorsa, anche il secondo rilascio delle ragazze israeliane sequestrate da Hamas è avvenuto secondo una minacciosa coreografia militare. Invece di essere scambiate direttamente fra le parti, al confine fra i due territori ostili, senza pubblico per evitare provocazioni, le giovani israeliane sono state consegnate alla Croce Rossa, che non aveva saputo fare nulla per tutelarle in un anno e tre mesi di prigionia. Sono state condotte nella piazza principale dei Gaza, dentro ai pick-up bianchi simili a quelli usati per il pogrom del 7 ottobre, filmate mentre ringraziavano in arabo i loro sequestratori (possiamo immaginare con che animo), costrette a sfilare in divisa militare. Intorno a loro erano schierati i terroristi, tutti in una lugubre uniforme nera con nastri verdi sulla fronte, armati di mitra, col volto coperto da passamontagna. Intorno, una folla festante e insieme e minacciosa per le ragazze. Si è vista una donna tirare ai terroristi petali di fiori e sopra alla riunione volteggiava un drone che lasciava cadere dolci. I rappresentanti della Croce Rossa e le ragazze sono fatti salire su un palco, decorato con bandiere palestinesi e con un’immagine della Cupola della Roccia. Dietro c’era un grande drappo con la bandiera palestinese (quella che certi sindaci e molte manifestazioni di sinistra espongono in segno di “pace”) e un telone con slogan sulla vittoria dei “combattenti della libertà” contro i “nazi sionisti”. Più in basso una scritta a caratteri cubitali in ebraico che afferma che “il sionismo perderà”. Alle rapite è stata messa in mano una borsa ricordo, contenete a quanto pare souvenir, volantini di propaganda e foto ricordo (!) della prigionia.

Una cerimonia militare, non un teatrino
  È facile definire questa scena una lugubre buffonata. Ma bisogna capirne il senso, perché la politica è fatta di cerimonie che spesso viste da fuori appaiono solo ridicole, ma sono piuttosto indizi pericolosi. Che c’è di più pagliaccesco del passo dell’oca nazista? Eppure tradiva una volontà di potenza così chiara, che fu poi imitata da molti, compresi i sovietici. Quel che vogliono dire i terroristi di Hamas facendo queste scene è innanzitutto che ci sono, che sono organizzati, armati ed equipaggiati, che godono del consenso della popolazione, che hanno ancora la disciplina di un esercito regolare e che rappresentano lo stato di Palestina. Possono fare patti alla pari con Israele. Sono anche in grado di punire i loro nemici e supposti traditori, come si vede dai filmati che hanno messo in giro in cui ammazzano, naturalmente senza alcuna formalità o processo, degli altri arabi che sospettano di aver collaborato con Israele.

Quel che dice Hamas
  Il messaggio più importante, conseguente a queste esibizioni, è che hanno vinto, contrariamente a quel che dice Israele. Hanno vinto perché nonostante tutte le distruzioni materiali e le perdite di uomini e armi, sono ancora lì, controllano il territorio, sono acclamati dagli “innocenti civili”. sono pronti a ricominciare. Israele bada a liberare i suoi rapiti, ragazze, neonati, anziani. Loro reclutano nuove truppe e nello scambio ottengono gli “ufficiali” esperti e disposti a tutto di cui hanno bisogno. Le armi, in un modo o nell’altro arriveranno.

Un messaggio per più pubblici
  Hamas parla innanzitutto ai suoi militanti e ai suoi sudditi di Gaza e poi ancora agli arabi di Giudea e Samaria e in generale alla piazza araba. Questo è il suo pubblico principale. A loro dice di essere forte, di non credere a quel che dice Israele, di sostenerli perché loro (non l’Autorità Palestinese) sono capaci di sconfiggere “gli ebrei”. Lo si vede, fra l’altro, per la predominanza dei colori nazionali (verde rosso bianco e nero) su quelli del gruppo (il verde islamico). Il secondo pubblico è in Israele, sono quei gruppi estremisti che non si fanno remore di usare il dramma degli ostaggi nel loro tentativo settario di far cadere il governo a tutti i costi. Parla a loro il messaggio in ebraico, ma anche il fatto di fare gli scambi di sabato, prima delle manifestazioni antigovernative che da sempre si svolgono di sabato sera. A loro Hamas propone, in perfetta malafede, un’alleanza per “fermare la guerra”. Ma che questa sia la premessa alla fine della guerra (alla condizione che Israele si ritiri da Gaza e dal corridoio Filadelfi) è una convinzione diffusa al di là degli estremisti di sinistra. Forse ci crede Trump, forse anche quei generali dello stato maggiore che si sono dimessi, come non avrebbero fatto se avessero pensato di dover lavorare per la ripresa dei combattimenti. Il terzo pubblico sono gli occidentali, in particolare la sinistra che ha tanto lavorato per aiutare Hamas, col pretesto che “a Gaza c’era il genocidio”. Ora non recitano più la fame e il genocidio, hanno cambiato film, dicono di essere vincitori. Ma non perderanno per questo l’appoggio di chi vede in loro “l’avanguardia della rivoluzione”: l’hanno mostrato le inchieste sociologiche che hanno rilevato un’esplosione dell’antisemitismo subito dopo il 7 ottobre, prima ancora della reazione israeliana: perché molti, più o meno consciamente, pensavano bene di appoggiare una “rivolta eroica”.

La risposta di Israele
  È fondato il messaggio di Hamas? Non avevano chiaramente perso la guerra? Sul piano militare hanno certamente subito gravi perdite, ma non sono stati distrutti anche grazie al freno americano alle azioni di Israele e a una strategia dello stato maggiore che per diminuire le perdite ha evitato di occupare stabilmente il territorio nemico. Fa parte della logica della guerra asimmetrica che gli irregolari, se sopravvivono anche decimati a una campagna militare, non hanno perso. Il gioco però non è chiuso. Se la guerra fra un mese riprenderà fino alla vittoria, come Netanyahu ha promesso, questo resterà solo come un tentativo velleitario di propaganda. Se l’Iran che è la testa della piovra terrorista sarà messo in condizione di non nuocere, Israele avrà vinto davvero e il Medio Oriente cambierà in maniera radicale. Se tutto ciò non accadrà e alla fine della prima fase dell’accordo Israele sarà costretto a procedere con le fasi successive e a ritirarsi da Gaza, bisognerà stare molto attenti, perché Hamas lavorerà senza sosta per anni in direzione di un nuovo 7 ottobre. I teatrini degli scambi servono soprattutto a minacciare questo: la ripresa delle guerra nei tempi e nei modi che troveranno opportuni.

(Shalom, 26 gennaio 2025)
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Anche se l'autore non lo dice, anzi sembra che si sforzi di non doverlo dire, dalle sue stesse parole si evince, a dispetto delle sue conclusioni vagamente ottimistiche, che a questo punto Israele ha perso. Chi ha difficoltà a riconoscerlo sono soprattutto i sostenitori del sionismo laico, perché le umilianti forche caudine sotto cui Hamas ha costretto Israele a passare sono come il logo che segna questa conclusione. Chi ha voluto la cessione di Gaza ai palestinesi? Il sionista laico Ariel Sharon, sostenuto da tutti i "realisti" laici desiderosi di vivere in pace con gli uomini, più che preoccuparsi delle intenzioni di Dio. E' nella speranza della pace che è stata fatta la geniale pensata di cedere liberamente il governo di una parte di Israele ai suoi nemici. Perché se nel mondo si parla di pace - avrà pensato qualcuno -, anche in questo Israele deve essere il primo. Faremo vedere a tutti come si fa la pace in questa zona. E sono usciti chiudendo il cancello dietro di loro, a segno di non voler rientrare mai più senza bussare. Hanno sbagliato i conti. E questo è il risultato. Per qualcuno il problema non era Hamas, ma quella cocciuta parte religiosa che si ostina a fare riferimenti a Dio anche in questioni importanti, quelle politiche, quelle di terre contese, non di cielo da soddisfare. Qualcuno riguardi le scene strazianti con cui il governo laico di Sharon ha costretto gli ebrei di Gaza a lasciare le loro terre per consegnarle ai loro nemici. Lì sta la causa prima di quello che adesso si è costretti a vedere.
Riportiamo allora, come richiamo al fatto che nelle sue scelte politiche Israele non può sbarazzarsi di Dio, un articolo su NsI del marzo 2005. M.C.


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Dichiarazione del Sinedrio concernente il Disimpegno

26 Adar 1 5760

Nel suo incontro del 28° Shvat 5765, il Sinedrio ha preso in considerazione l'iniziativa del Primo Ministro di Israele, le decisioni del governo e la legislazione emanata dalla Knesset riguardo al piano conosciuto come "Il disimpegno", che d'ora in poi nel presente documento sarà chiamato lo "sradicamento".
Il piano coinvolge lo sradicamento di comunità ebraiche dalla striscia di Gaza e dal nord della Samaria, la forzata espulsione di Ebrei dalle loro case e il volontario trasferimento di queste terre a una potenza straniera.
A seguito di un intenso studio effettuato sulle questioni halachic (autentica legge Ebraica) che sorgono dalla decisione del governo, il Sinedrio porta qui alla pubblica attenzione le sue conclusioni e decisioni.

  1. Il programma di sradicamento del Primo Ministro è in diretta contraddizione con la Torah di Israele.
  2. La decisione di eseguire lo sradicamento obbligherà un gran numero di Ebrei a trasgredire molti comandamenti della Torah. Questo si applica a molti e svariati comandamenti, che includono quelli riguardanti sia il rapporto tra l'uomo e D-o, sia il rapporto tra l'uomo e il suo simile; sia quelli riguardanti la nazione nel suo insieme, sia quelli che si applicano ad ogni singolo individuo.
  3. Il Governo di Israele e la Knesset, nella loro presente forma e struttura di potere, non costituiscono istituzioni che secondo la halacha hanno una qualsiasi autorità di prendere decisioni che contraddicono la Torah di Israele.
  4. I ministri del Governo che hanno giudicato iniquo questo piano di sradicamento sono stati rimossi dalle loro posizioni, e nello stesso modo anziani ufficiali delle forze di sicurezza che hanno espresso opinioni indipendenti su questo argomento sono stati espulsi.
  5. DI CONSEGUENZA, le decisioni di questo governo - che oltre tutto ha violato le promesse da lui fatte al suo elettorato - sono nulle e vuote. 
  6. PERCIO': a nessun Ebreo è permesso di cooperare con il programma di sradicamento, in qualsivoglia forma.
  7. Ogni Ebreo - compresi i soldati e i poliziotti - che appoggia lo sradicamento, sia direttamente che indirettamente, sia votando in suo favore, sia dando consigli o fornendo veicoli o materiali, e ovviamente ogni persona che attivamente partecipa allo sradicamento... così facendo, trasgredisce un gran numero di comandamenti della Torah.
  8. Lo sradicamento dei residenti della Striscia di Gaza e Samaria è un crimine e un'ingiustizia verso i residenti, e pone molte altre comunità - nei fatti, tutti i cittadini dello Stato d'Israele - in mortale pericolo.
  9. Ogni Ebreo che partecipa al piano o coopera con esso, attivamente o anche semplicemente restando silenzioso, trasgredisce il comandamento "Non restare indifferente davanti al sangue del tuo prossimo" (Levitico 19:17), e in futuro sarà giudicato da D-o per questo peccato.
  10. I leader e i loro agenti - inclusi soldati e poliziotti che sostengono lo sradicamento e vi partecipano - potranno essere obbligati a rendere conto, sulla loro personale responsabilità, di tutti i danni causati a coloro che sono colpiti e alle loro proprietà.
  11. Con questa dichiarazione, il Sinedrio, come anello di continuità della Torah ricevuta da Mosè al Sinai, esprime qui la posizione della Torah di Israele. E se, il Cielo non voglia, il presente governo metterà in atto questo o qualche altro programma di sradicamento, questa azione non ha valore. Il Paese d'Israele è terra santa, e tutte le sue regioni appartengono esclusivamente alla nazione di Israele, per sempre.
  12. Il Sinedrio, come rappresentante del popolo Ebraico attraverso la storia, dichiara qui che il popolo Ebraico - indipendentemente da questo o quel governo - non rinuncia, e non è autorizzato a farlo, a neppure un palmo della Terra d'Israele secondo i suoi confini biblici... perché è terra di D-o.
  13. Il comandamento "eredita e abita" (Deuteronomio 12:29) il Paese di Israele è obbligatorio per ogni governo di Israele. A questo riguardo, Israele ha ricevuto da D-o il comandamento di conquistare l'intera estensione della Terra d'Israele all'interno dei suoi confini biblici, inclusa la striscia di Gaza. 
  14. QUINDI: anche se (il Cielo non voglia) i residenti saranno forzatamente rimossi dalle loro case - quando il governo cambierà, e in Israele ci sarà un governo che si condurrà secondo la Torah, l'esercito d'Israele tornerà e riconquisterà quella striscia di terra per reinsediare il popolo d'Israele nel suo legittimo posto. Questo si applica non solo a quell'area, ma a tutta l'estensione della Terra d'Israele che è stata rubata e al presente è in mani straniere.
  15. Siamo pieni di fiducia nel D-o degli Eserciti di Israele, certi che il giuramento da Lui fatto al nostro patriarca Abraamo nel "Patto tra le due metà" sarà adempiuto esattamente come è stato stabilito, e, con l'aiuto di D-o, rapidamente - come è scritto: "In quel giorno il Sig-re fece un patto con Abramo, dicendo, alla tua discendenza darò questo paese, dal fiume d'Egitto al gran fiume, il fiume Eufrate..." (Genesi 15:18).

(The Temple Institute, 8 marzo 2005 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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27 gennaio 2025, il giorno della Memoria più triste

di Guido Salvini

Questo giorno della Memoria del 2025 è purtroppo diverso da tutti gli altri. Per la prima volta il Direttore del Museo della Brigata ebraica, la formazione che durante la campagna d’Italia ha sacrificato i suoi giovani per la libertà del nostro Paese, ha annunciato che simbolicamente non parteciperà alle manifestazioni del 27 gennaio per denunciare gli insulti contro le insegne della Brigata, le tensioni, gli incidenti che già in molte occasioni sono avvenute costringendo la Digos ogni volta ad intervenire.
  Anche Liliana Segre ha rinunziato a partecipare ad alcuni eventi. Proprio in questi giorni vi sono state a Milano 17 richieste di rinvio a giudizio, con l’accusa di diffamazione e istigazione all’odio razziale, per i discorsi di odio diffusi via Internet contro di lei.
  Tutto questo perché nell’ultimo anno anche l’Occidente è stato investito da un’ondata di antisemitismo senza precedenti. E, aggiungo per inciso, anche l’aggressione all’Ucraina non interessa più a nessuno
  Già poche settimane dopo il 7 ottobre la condanna per il massacro compiuto da Hamas si è trasformata in una condanna parallela e poi via via sempre più irrazionale sino a diventare esclusiva nei confronti della risposta di Israele. Si può anche convenire che nella reazione vi siano stati errori e anche eccessi, difficilmente in una guerra non ve ne sono, ve ne furono anche nei bombardamenti degli alleati del  1944-45 per liberare il nostro paese, anche la città di Cremona ne sa qualcosa. Ma la critica, che è una caratteristica fondante dell’Occidente, sconosciuta altrove, si è trasformata subito in una campagna di odio che è riuscita ad introdurre nel linguaggio pubblico il termine di genocidio.
  È difficile convincere chi forma le proprie opinioni su pregiudizi ideologici, ma non bisogna stancarsi di ripetere che non solo i morti del 7 ottobre ma anche i civili uccisi nella striscia di Gaza ricadono nella piena responsabilità di Hamas. Una organizzazione che ha continuato a combattere e a tendere agguati nascondendo i propri militanti tra i civili e utilizzando quartieri densamente abitati, scuole, ospedali, edifici dell’UNRWA, come sta emergendo anche dai racconti dei rapiti liberati, come nascondigli e basi per lanciare attacchi. Questo mentre le Convenzioni internazionali in materia di guerra impongono alle forze in campo, per essere legittime e non essere solo una banda di terroristi, di rendere chiaramente riconoscibili con divise i suoi uomini e i suoi mezzi e tenersi lontane da insediamenti civili. Ma, sono gli stessi capi di Hamas a proclamarlo, le vittime civili, quelli che a differenza dei militanti di Hamas non potevano ripararsi nei tunnel, erano un sacrificio necessario e anche cercato, un vantaggio perché la loro morte avrebbe dato linfa alle generazioni future contro il nemico sionista. Questa la verità, dolorosa soprattutto per noi che non siamo certo indifferenti ad aver visto tanti bambini morire e che viviamo in una società in cui la vita umana è un valore e non uno strumento
  Per il futuro non c’è da farsi molte illusioni. Quella che è in corso, lo scambio di prigionieri, è una tregua, è bene ricordarlo, non una pace per il semplice fatto che Hamas non ha certo cancellato dal suo statuto l’obiettivo finale e cioè distruggere Israele.
  Per molti anni ho avuto la fortuna, per così dire, di abitare a Milano in corso Magenta proprio dinanzi al civico 55 dove sul marciapiede ci sono le Pietre d’inciampo in ricordo dei nonni e del padre di Liliana Segre che furono lì prelevati, deportati ad Auschwitz e non tornarono più. Molti turisti, corso Magenta è la via che porta a Santa Maria delle Grazie e al Cenacolo, si fermano, leggono, fotografano le targhe. Qualcuno fatica a capire, sono scritte in italiano e mi è spesso capitato di avvicinarmi e di spiegare a qualcuno di loro il significato di quelle strane placche sul terreno. Lo faccio volentieri anche perché uno dei figli di Liliana è il mio amico di più lunga data, eravamo compagni di scuola sin dalle elementari.
  Al civico 55 di corso Magenta, comunque, lunedì ci porterò mio figlio.

(CremonaSera, 25 gennaio 2025)

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«Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato»

EBREI, cap. 1
  1. Iddio, dopo aver in molte volte e in molte maniere parlato anticamente ai padri per mezzo dei profeti,
  2. in questi ultimi giorni ha parlato a noi mediante il suo Figlio, che Egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale pure ha creato i mondi;
  3. il quale, essendo lo splendore della sua gloria e l'impronta della sua essenza e sostenendo tutte le cose con la parola della sua potenza, quando eebbe fatta la purificazione dei peccati, si pose a sedere alla destra della Maestà nei luoghi altissimi,
  4. diventato così di tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha ereditato è più eccellente del loro.
  5. Infatti, a quale degli angeli diss'Egli mai: Tu sei il mio Figlio, oggi ti ho generato? e di nuovo: Io gli sarò Padre ed egli mi sarà Figlio?
  6. E quando di nuovo introduce il Primogenito nel mondo, dice: Tutti gli angeli di Dio l'adorino!
  7. E mentre degli angeli dice: Dei suoi angeli Egli fa dei venti, e dei suoi ministri fiamme di fuoco,
  8. e del Figlio dice: Il tuo trono, o Dio, è nei secoli dei secoli, e lo scettro di rettitudine è lo scettro del tuo regno.
  9. Tu hai amata la giustizia e hai odiata l'iniquità; perciò Dio, l'Iddio tuo, ha unto te d'olio di letizia, a preferenza dei tuoi compagni.
  10. E ancora: Tu, Signore, nel principio, fondasti la terra, e i cieli sono opera delle tue mani.
  11. Essi periranno, ma tu dimori; invecchieranno tutti come un vestito,
  12. e li avvolgerai come un mantello, e saranno mutati; ma tu rimani lo stesso, e i tuoi anni non verranno meno.
  13. E a quale degli angeli diss'Egli mai: Siedi alla mia destra finché abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi?
  14. Non sono essi tutti spiriti ministratori, mandati a servire a pro di quelli che hanno da ereditare la salvezza?
    PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
dicembre 2024


(Notizie su Israele, 26 gennaio 2025)


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Libano: rinviato il ritiro di Israele. L’area non è ancora sicura

L'esercito israeliano si sta preparando alla possibilità di nuove ostilità con Hezbollah.

di Maurizia De Groot Vos

Venerdì il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che, come anticipato da RR, Israele non completerà il suo ritiro completo dal Libano meridionale entro il termine di 60 giorni previsto dall’accordo di cessate il fuoco con il gruppo terroristico Hezbollah.
Secondo i termini dell’accordo di tregua del 27 novembre, che ha posto fine ai combattimenti iniziati da Hezbollah, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) devono cedere tutte le loro posizioni nel sud del Libano alle Forze Armate Libanesi entro il 26 gennaio. Allo stesso tempo, Hezbollah dovrà ritirarsi a nord del fiume Litani, a circa 30 chilometri dal confine con Israele.
Nella prima conferma pubblica di tale ritardo, dopo settimane di speculazioni, l’ufficio di Netanyahu ha dichiarato in un comunicato che “il processo di ritiro dell’IDF è condizionato”, citando quelli che, a suo dire, sono gli obblighi del Libano e di Hezbollah nell’ambito dell’accordo, sebbene l’organizzazione terroristica sostenuta dall’Iran non sia parte dell’accordo firmato tra Gerusalemme e Beirut.
Netanyahu ha affermato che, poiché il Libano “non ha ancora pienamente rispettato” i suoi obblighi nell’ambito del cessate il fuoco, “il processo di ritiro graduale continuerà, in pieno coordinamento con gli Stati Uniti”. La scadenza originaria di 60 giorni era prevista per domenica 26 gennaio.
Il primo ministro ha affermato che i termini dell’accordo sono stati formulati “con l’intesa che il processo di ritiro può continuare oltre i 60 giorni” sebbene il testo dell’accordo specifichi che il processo di ritiro “non dovrebbe superare i 60 giorni”.
Nelle ultime settimane, tuttavia, Israele ha valutato che l’esercito libanese si è dispiegato troppo lentamente nella regione, ritardando di conseguenza il ritiro dell’IDF. I soldati israeliani continuano a trovare depositi di armi di Hezbollah nelle aree coperte dalla tregua e, secondo quanto riferito da ufficiali dell’esercito, in alcune località l’esercito libanese sta aiutando Hezbollah.

Giovedì il quotidiano israeliano Haaretz ha rivelato che gli Stati Uniti e la Francia stavano discutendo la richiesta di estensione con funzionari israeliani e libanesi. La fonte ha valutato che la Francia non vede alcun problema nel concedere la proroga, a patto che le altre parti siano d’accordo.
Nonostante un rapporto dei media ebraici suggerisca il contrario, venerdì l’amministrazione Trump ha chiesto una “breve e temporanea estensione” della scadenza dei 60 giorni, sostenendo la posizione di Israele.
“Il presidente Trump è impegnato a garantire che i cittadini israeliani possano tornare in sicurezza alle loro case nel nord di Israele, sostenendo al contempo il presidente Aoun e il nuovo governo libanese”, ha dichiarato in un comunicato il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, Brian Hughes. Tutte le parti condividono l’obiettivo di garantire che Hezbollah non abbia la capacità di minacciare il popolo libanese o i suoi vicini”. Per raggiungere questi obiettivi, è urgente una breve e temporanea estensione del cessate il fuoco”.
“Siamo lieti che l’IDF abbia iniziato il ritiro dalle regioni centrali e continuiamo a lavorare a stretto contatto con i nostri partner regionali per finalizzare l’estensione”, ha aggiunto.
L’IDF è attualmente dispiegato in diversi villaggi del Libano meridionale, soprattutto nel settore orientale. Nelle ultime settimane le Forze armate libanesi si sono dispiegate nei villaggi del settore occidentale, mentre l’IDF si è ritirato.
L’esercito israeliano si sta preparando alla possibilità di nuove ostilità con Hezbollah. Il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran ha avvertito giovedì che non accetterà che l’IDF rimanga nel Libano meridionale oltre il limite di 60 giorni.
Alcune ore dopo l’annuncio di Netanyahu, venerdì, l’IDF ha dichiarato che negli ultimi giorni ha effettuato attacchi nel sud del Libano per “rimuovere le minacce” e che le truppe hanno anche demolito depositi di armi e posti di osservazione di Hezbollah.
“L’IDF continua ad operare in conformità con le intese sul cessate il fuoco tra Israele e Libano”, ha dichiarato l’esercito. “L’IDF rimane schierato nel sud del Libano, continua a monitorare i tentativi di Hezbollah di tornare nel sud del Libano e opererà contro qualsiasi minaccia posta alle truppe dell’IDF e allo Stato di Israele”.

(Rights Reporter, 25 gennaio 2025)

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Ostaggi detenuti anche nell'ospedale Kamal Adwan

GAZA - Gli ostaggi israeliani nella Striscia di Gaza sarebbero stati trattenuti anche nell'ospedale Kamal Adwan. Diversi terroristi in custodia israeliana lo hanno confessato durante un interrogatorio, come ha riferito martedì l'emittente americana “Fox News”.
L'emittente ha chiesto una dichiarazione all'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). L'organizzazione ha sottolineato che le strutture sanitarie non dovrebbero essere attaccate e non dovrebbero essere usate per scopi militari. Non ha condannato esplicitamente Hamas, come ha fatto notare “Fox News”.

Ospedale come “rifugio sicuro”
  In altri interrogatori, i terroristi avevano descritto l'ospedale di Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, come un “rifugio sicuro” perché sapevano che Israele non avrebbe potuto attaccare direttamente l'ospedale. Avevano quindi distribuito lì granate e altre armi. Il direttore dell'ospedale, Achmad Kachlut, ha fatto dichiarazioni simili in un interrogatorio del dicembre 2023.
Israele aveva fatto irruzione nell'ospedale alla fine di dicembre. In precedenza aveva facilitato l'evacuazione di 350 pazienti e assistenti. Durante il raid, ha dichiarato di aver arrestato 250 terroristi di Hamas e della Jihad islamica palestinese.
Lo Stato ebraico è stato oggetto di critiche internazionali per il raid. Il consulente politico Richard Goldberg ha dichiarato a “Fox News” che tali critiche da parte delle organizzazioni internazionali sono ipocrite. A suo avviso, istituzioni come la Croce Rossa o l'OMS erano “direttamente a conoscenza” delle attività dei terroristi nell'ospedale. Questo le rende “complici”.
Richard Goldberg è consulente della “Foundation for the Defence of Democracies”. In precedenza è stato membro del Consiglio di sicurezza nazionale durante il primo mandato del presidente americano Donald Trump.

Ostaggi all'UNRWA
  Solo all'inizio di questa settimana i tre ostaggi liberati hanno riferito di essere stati temporaneamente nascosti nelle zone umanitarie delle Nazioni Unite. Le zone sono gestite dall'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA). A quanto pare, i terroristi sapevano che Israele non avrebbe attaccato lì.
Il 3 gennaio, l'UNRWA ha sottolineato di essere la “spina dorsale” delle operazioni umanitarie nella Striscia di Gaza. “Nonostante le condizioni difficili, le squadre dell'UNRWA assicurano il funzionamento di tutte le strutture delle Nazioni Unite”.
Il giornalista tedesco Jan Fleischhauer ritiene che anche il governo tedesco abbia un ruolo da svolgere alla luce di queste notizie. Tuttavia, nessuno sembra interessato al fatto che gli ostaggi siano tenuti nelle strutture dell'UNRWA, ha dichiarato al canale di notizie “Welt”. Fleischhauer si è espresso a favore della cancellazione del sostegno tedesco all'UNRWA. (df)

(Israelnetz, 24 gennaio 2025)

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Israele: ‘L'Unrwa lasci Gerusalemme entro il 30 gennaio’

L’ambasciatore israeliano presso l’Onu, Danny Danon, ha chiesto in una lettera inviata al segretario generale dell’Onu, António Guterres, la fine della presenza dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) a Gerusalemme prima della fine di gennaio.
“In conformità con la legge israeliana applicabile, inclusa la legislazione summenzionata, e in seguito alla risoluzione del suddetto accordo interinale, l’Unrwa è obbligata a cessare le sue operazioni a Gerusalemme e a evacuare tutti i locali in cui opera nella città entro il 30 gennaio 2025”, si legge nella lettera.

(ANSA, 25 gennaio 2025)

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L’ISIS a Napoli: voleva attaccare la sinagoga

di Sofia Tranchina

«Uccideteli ovunque li troviate», diceva a proposito degli ebrei Abu Huthaifa al Ansari – portavoce dell’ISIS – il 5 gennaio 2024. «Entrate nelle loro case e uccideteli con metodi diversi».
Dall’attacco del 7 ottobre, gli appelli delle fazioni più estreme dell’islam militante ad attaccare ebrei «senza distinzione tra soldati e civili» si sono fatti sempre più frequenti, attirando l’attenzione delle cellule dormienti dei Paesi occidentali.
In diretta proporzione, sono aumentati anche gli attacchi o i tentativi di attacco da parte dei cosiddetti lupi solitari in tutta Europa. In Italia, i servizi segreti e le forze dell’ordine gestiscono i rischi con estrema efficacia.
Così, mercoledì 22 gennaio, la Digos – in coordinazione con il Gruppo Antiterrorismo della Procura di Napoli – è arrivata all’arresto del trentaquattrenne marocchino Firaoun Mourad a San Giuseppe Vesuviano (comune di Napoli), segnalato dalla scorsa estate come potenziale terrorista con «progettualità violente contro la comunità ebraica» locale.
Seguito sia nella sua attività telematica che nei suoi spostamenti fisici da diversi mesi, Mourad è il bravissimo maestro di indottrinamento islamico (così lo chiamano nel gruppo whatsapp Tesori Coranici).
Specializzato nel diffondere la propaganda dell’autoproclamato Stato Islamico e apologia del terrorismo sulle piattaforme social, il suo target principale sono i bambini e i giovani ragazzi, nell’età e nelle condizioni più ricettive alle influenze esterne. «A me piace andare dai ragazzi giovani e piccoli, queste sono bellissime iniziative. Dobbiamo informare i ragazzi che siamo alla fine del mondo. Si devono svegliare. La resa dei conti si avvicina», ha scritto.
Secondo quanto emerso dalle indagini, Mourad ha aderito all’ISIS e ha condiviso materiale multimediale «ascrivibile al contesto – anche di addestramento – dell’organizzazione terroristica».
Secondo la ricostruzione, domenica 20 ottobre scorsa, quando la sinagoga di Napoli in via Cappella Vecchia era chiusa e la camionetta dei militari era lontana, Mourad avrebbe fatto un sopralluogo di 20 minuti dell’area, scelta come obiettivo per un attacco con cui avrebbe messo in atto le sue teorie. Ma non era solo: non sapeva di essere già entrato nei radar delle forze dell’ordine e di essere seguito.
Tornato a casa, ha pubblicato in una storia di Facebook (dove pubblicava anche istruzioni per l’autoaddestramento al combattimento e alla jihad) una foto del Golfo di Napoli accompagnata dall’inno autoproclamato dello Stato Islamico: nazione mia, l’alba è tua.
Mourad aveva di recente manifestato l’intento di procurarsi un coltellaccio, con il quale, si ritiene, volesse perpetrare l’attacco davanti alla sinagoga.
Così, quando ha manifestato l’intento di passare dalla teoria ai fatti – scoperto grazie a intercettamenti in cui fa riferimento a un ferro da utilizzare dopo aver fatto avvicinare la vittima – è scattato l’arresto: dovrà rispondere di associazione con finalità di terrorismo internazionale, o di eversione dell’ordine democratico.
La suoneria del suo cellulare è un nashid (canto islamico) che inneggia alla jihad, ed è stata resa pubblica l’intercettazione in cui spiega i suoi piani: come attirare la vittima e come tornare a casa insospettato. «Gli dirò: vieni con me. Lo farò tranquillizzare, dopodiché lo colpirò. Poi, non dirò nulla e tornerò a Napoli: chi mi conoscerà? Diranno di “uno barbuto”, e lo andranno a cercare a Chi l’ha visto?».
In un altro comune di Napoli, Acerra, nel 2019 è stato arrestato il jihadista Mourad Sadaoui, segnalato tre anni prima come combattente della jihad siro-irachena.
La presidente della Comunità di Napoli Lidia Shapira, tuttavia, ribadisce a Mosaico-Bet Magazine che la comunità di Napoli – pur restando ovviamente guardinga – si sente al sicuro e ben protetta. «Tutti noi stiamo vivendo sulla nostra pelle l’amarezza per questi tempi. La mistificazione colpevole delle notizie – volutamente distorte – da parte degli organi preposti alla divulgazione delle informazioni alimenta il clima di antisemitismo. Ma le forze dell’ordine fanno un lavoro eccezionale, e siamo ben vigilati. Inoltre, abbiamo una sicurezza indipendente guidata da Daniele Coppin, che è sempre in contatto con la Digos».
Ed è stato proprio Coppin ad esprimere – in un’intervista al Corriere della sera – preoccupazioni riguardo una possibile convergenza in Italia tra gruppi pro-pal più fanatici e la jihad islamica, come si vede alle manifestazioni «non per la pace o per la Palestina, ma contro Israele». Chiunque voglia esprimere solidarietà verso la Palestina, spiega Coppin, dovrebbe farlo anche nei momenti in cui Hamas si rende responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, come l’uccisione di avversari politici, di persone omosessuali e l’applicazione della sharia. Altrimenti, è solo un pretesto come un altro per criticare gli ebrei o lo Stato d’Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 24 gennaio 2025)

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Memoria – Comunità ebraica non va a Palazzo Marino. «No a chi distorce la storia»

Il 27 gennaio a Palazzo Marino la Comunità ebraica di Milano non ci sarà. Con una nota diffusa nelle scorse ore, la Comunità ha fatto sapere che non parteciperà all’incontro con alcune scuole organizzato in Sala Alessi dal Comune di Milano in collaborazione con l’Aned e l’Anpi. «Parteciperemo ad altre iniziative, ma non possiamo presenziare a un incontro a cui partecipa chi da mesi condanna Israele, mistificando quanto accade in Medio Oriente, diffondendo la falsa accusa di genocidio. Parlo delle posizioni espresse dall’Anpi in questi mesi», spiega a Pagine Ebraiche Walker Meghnagi, presidente degli ebrei milanesi. Per Meghnagi «le distorsioni su Israele hanno generato un’atmosfera pericolosa in quest’ultimo anno, alimentando l’antisemitismo».
  Nella nota, la Comunità milanese spiega di attribuire «un ruolo fondamentale e irrinunciabile alla sensibilizzazione delle nuove generazioni sul tema della Shoah e dell’antisemitismo, ma ritiene che non ci sia il clima adatto per partecipare a un’iniziativa di questo tipo». In particolare il dialogo con le giovani generazioni, si legge, «necessita condivisione e serenità, condizioni venute a mancare nell’evento dell’anno scorso così come in altre occasioni a causa di una eccessiva politicizzazione di alcune associazioni promotrici».
  Pur comprendendo la posizione della Comunità ebraica di Milano, Milo Hasbani, vicepresidente Ucei, sottolinea l’importanza dell’incontro per la partecipazione degli studenti. «I ragazzi e i loro professori vengono per sentire le testimonianze», spiega Hasbani. «È importante confrontarci con loro e mantenere un dialogo con l’amministrazione cittadina. Con la presidente del Consiglio comunale Elena Buscemi, che sarà presente, abbiamo un ottimo rapporto. Sono sicuro che ci sarà un forte intervento da parte degli organizzatori e della presidente nel caso di interventi “fuori luogo”».

(moked, 24 gennaio 2025)


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Shoah, ebrei in rivolta contro Anpi e pro-Pal: le Comunità svelano l’ipocrisia di certa sinistra

di Andrea Landretta

Il cortocircuito a sinistra è fortissimo in questo ultimo periodo: da quando la tensione tra Israele e Palestina è tornata ai massimi livelli, al di là delle posizioni ufficiali che comunque sono state spesso altalenanti, ambigue e reticenti, la sinistra – specialmente quella più radicale – ha preferito perorare la causa dei terroristi con l’alibi di sostenere il popolo palestinese. Cosa, quest’ultima, che non è un errore, se si lottasse comunque per garantire l’esistenza di Israele, condannando i terroristi di Hamas che la mettono continuamente in discussione. Gli estremisti (e non solo) di sinistra, invece, con i terroristi convolano spesso e volentieri a nozze, espongono le loro bandiere ai cortei di solito non autorizzati e ripetono gli slogan dei fondamentalisti, addobbati di kefiah, nel nome dell’Intifada.
  Eppure la sinistra era stata attentissima, fino a qualche anno fa, a festeggiare il Giorno della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, per ricordare i crimini nazi-fascisti e le deportazioni di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma dal 7 ottobre 2023, la sinistra ha scelto di non mascherarsi più, e quell’attenzione da sempre riposta sul 27 gennaio, si è adesso palesata tanto più come un alibi per aprirsi a una critica alle destre odierne, che con quei crimini non c’entrano nulla, hanno saputo storicizzare il loro passato e si schierano senza perplessità contro l’antisemitismo. Così la sinistra, in questo cortocircuito, è in affanno. Non riesce più a reggere l’ipocrita discrepanza tra non condannare mai completamente i terroristi e criticare i nazisti, che alla fine non volevano nulla di diverso da quello che oggi vorrebbe Hamas (il paragone tra Shoah e Gaza è un tormentone dei cortei pro-Pal).

Gli ebrei all’Anpi: “Basta rapporti ipocriti”
  E se ne sono accorte anche le stesse comunità ebraiche in giro per l’Italia, che pian piano si stano ritirando dagli eventi dedicati alla Memoria dell’Olocausto organizzati dall’universo progressista. La Comunità ebraica di Milano ha disertato il tradizionale incontro con gli studenti a cui doveva unirsi anche l’Anpi: “Noi soffriamo tutti i giorni per l’antisemitismo, quindi è inutile onorare una volta all’anno gli ebrei morti e non difendere gli ebrei vivi. Quelli dell’Anpi non possono farsi sentire un giorno all’anno ed essere proprio loro, che hanno paragonato la Shoah a quello che è successo a Gaza, a parlare di memoria. È inutile far finta di nulla” ha detto il presidente, Walker Meghnagi. “L’Anpi – ha continuato – non è mai venuto alla conferenza che abbiamo organizzato al Tempio maggiore di via Guastalla e non si è mai fatta sentire in questi due anni. Non andiamo a farci applaudire il Giorno della Memoria. Guardiamo anche cosa sta succedendo con gli insulti a Liliana Segre: gli studenti mandiamoli a vedere il film Liliana, parliamo della memoria e non di altro”. La richiesta è chiara: “Vediamoci subito dopo, parliamo, confrontiamoci e smettiamo di avere dei rapporti ipocriti”. Parere simile quello di Noemi Di Segni, presidente della Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: “Premesso che tutto quello che è avvenuto con le manifestazioni in questi mesi laceranti, con le manifestazioni di odio e ribaltamento e distorsione dei termini ci porterebbe a pensare di non partecipare a nulla, non possiamo lasciarci andare alla istintività. Da noi in Italia, rispetto ad altre nazioni, le istituzioni più alte promuovono e partecipano ad iniziative elevatissime, come quella del Quirinale con il Presidente Mattarella. La linea quindi è quella di partecipare a momenti alti e ci si accerta che forme e contenuti siano focalizzati sulla Giornata della Memoria della Shoah e non su altro”.

(La Voce del Patriota, 25 gennaio 2025)

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Un'antica paura porta a un patto con il diavolo

Vedere gli ostaggi che hanno sopportato 15 mesi di prigionia terroristica tornare finalmente a casa porta una gioia innegabile. Ma l'accordo che lo ha reso possibile solleva interrogativi inquietanti.

di David Shishkoff und Ryan Jones
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Palestinesi armati nella Striscia di Gaza

E' una ovvietà dire che il cessate il fuoco a Gaza e l'accordo sugli ostaggi con Hamas hanno provocato forti emozioni. Ma c'era da aspettarselo. Sono stati 15 mesi ricchi di emozioni e nessun aspetto è stato facile. Come ha detto il ministro degli Esteri Gideon Sa'ar, abbiamo solo una scelta tra opzioni negative e peggiori. Chi decide cosa è male e cosa è peggio? Questo è il nocciolo della questione. Ma la prima domanda è: perché, anche se vincono, gli israeliani finiscono per dare di più per avere di meno? Perché Hamas è chiaramente in vantaggio sulla carta in questo accordo? Le risposte sono due.

Vincitori e vinti
   Hamas è un nemico militarmente sconfitto, il suo territorio giace in rovina. In altri conflitti che si sono conclusi in questo modo, la parte vincitrice ha dettato le condizioni agli sconfitti. In queste situazioni, di solito non ci sono negoziati tra partner di dialogo alla pari. Data la situazione sul terreno, Israele dovrebbe ricevere molto più di Hamas in questo accordo, se Hamas riceve qualcosa.
Ma le pressioni internazionali stanno ribaltando l'equazione, come è accaduto in ogni conflitto armato vinto da Israele, e sulla carta Hamas ha “vinto”.
Verranno rilasciati molti più palestinesi che israeliani; l'esercito israeliano si ritirerà dalla maggior parte di Gaza nella prima fase, la comunità internazionale invierà massicciamente gli aiuti che tutti sanno essere rubati da Hamas, e alla fine Gaza sarà ricostruita dalla comunità internazionale, senza alcun costo per gli aggressori, mentre Israele non riceverà alcun risarcimento. Se i palestinesi stanno ora celebrando questo accordo come una “vittoria su Israele”, non hanno tutti i torti.
C'è chi sostiene che Hamas e i palestinesi hanno perso molto, molto più di Israele, e che non si può considerare una vera vittoria quando l'intera leadership del gruppo è stata liquidata, Gaza è in rovina e oltre 40.000 persone sono morte. Ma chi applica questa logica sta proiettando la propria sensibilità occidentale sulla situazione. Non capiscono che queste perdite sono altamente accettabili per i jihadisti. Anzi, vengono indossate come un distintivo d'onore.
La soglia di attenzione dell'Occidente è diventata breve. I jihadisti pianificano in decenni, persino in secoli. Gaza sarà ricostruita e nuovi leader sostituiranno quelli che sono stati eliminati. L'importante è che sia stata ottenuta una “vittoria” storica contro Israele, una vittoria che può servire da ispirazione per i decenni a venire. Si pensi che ancora oggi i jihadisti cantano "Khaybar, Khaybar, ya yahud ”, evocando una vittoria di molti secoli fa (628 d.C.) su una potente tribù ebraica nella penisola arabica.
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Alleati hanno invitato i rappresentanti del regime nazista al tavolo dei negoziati e hanno tenuto conto dei loro desideri? No. I nazisti non ebbero la possibilità di avanzare richieste. Le condizioni furono dettate loro. Ed è così che dovrebbe essere per Hamas oggi.

Grande forza o debolezza sfruttabile?
   La seconda ragione per cui Israele finisce sempre per dare di più ai suoi nemici sconfitti è che Israele dà valore alla vita sopra ogni cosa, il che rende le situazioni di ostaggio particolarmente dolorose.
La prigionia non è una novità nella storia di Israele. È menzionata più di 200 volte nelle Scritture ebraiche. È sempre stata traumatica. Il re Davide, ad esempio, ebbe un problema dopo che gli israeliti furono presi in ostaggio dagli Amaleciti sotto la sua sorveglianza: "Davide era molto angosciato, perché il popolo minacciava di lapidarlo, perché tutto il popolo aveva il cuore amaro, ognuno a causa dei suoi figli e delle sue figlie. Ma Davide si rafforzò nell'Eterno, il suo Dio” (1 Samuele 30). In seguito, l'Assiria, Babilonia e Roma fecero migliaia di prigionieri e coloro che furono condotti via non piansero solo sui “fiumi di Babilonia”.
Non sorprende quindi che tanti versetti trattino della prigionia e del desiderio di liberazione. Per citarne solo alcuni:

  • “Volgi la nostra prigionia, o Signore”. (Salmo 126)
  • “Tu hai fatto prigioniera la cattività”. (Salmo 68)
  • “... per fasciare il cuore spezzato, per proclamare la libertà ai prigionieri e l'apertura delle porte del carcere a coloro che sono legati...”. (Isaia 61)
  • “Ma se non ascolterete, l'anima mia piangerà in segreto a causa della vostra superbia; e il mio occhio piangerà perché il gregge del Signore è fatto prigioniero”. (Geremia 13)

La liberazione dalla cattività è un tema centrale dell'epopea storica divina, dall'Esodo fino al nostro anno 2025 e oltre. La prima liberazione, quando Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher sono stati riportati a casa, ha regalato a tutto Israele un momento di gioia sfrenata. Tutte le preoccupazioni e i dolori della guerra sono temporaneamente svaniti.
Nell'ebraismo, ogni vita è vista come un mondo intero, e ogni mondo vale la pena di rinunciare a tutto per preservarlo. È questa la più grande forza di Israele? O è una debolezza che può essere sfruttata? La verità è che è entrambe le cose.

Un pericoloso patto con il diavolo
   Le ingiuste pressioni internazionali, unite al desiderio prioritario di liberare i prigionieri a tutti i costi, fanno sì che Israele senta regolarmente di poter scegliere solo tra opzioni negative o addirittura peggiori. Questo spesso significa fare un patto con il diavolo. Ma questo è oltre ogni limite. Israele pensava di poter tenere sotto controllo Hamas in qualche modo. Ma il 7 ottobre 2023 si è dimostrato sbagliato.
I termini dell'attuale accordo consentono ad Hamas di recuperare e aumentare la sua popolarità come movimento che è sopravvissuto a 15 mesi di guerra contro l'esercito più potente della regione e ha strappato concessioni significative ad Israele. Hamas recluterà altri terroristi, i jihadisti palestinesi vedranno sempre più nella violenza il modo migliore per ottenere ciò che vogliono da Israele e altri ebrei moriranno. Forse non oggi, forse non domani, ma la scena è pronta. L'accordo attuale non contiene meccanismi sufficienti per evitare che questo diventi una realtà, proprio come tutti gli accordi precedenti.
Pagare un prezzo oggi per salvare delle vite vale le molte altre vite che saranno sacrificate in futuro? Non è una domanda facile, perché nessuno sa cosa accadrà domani. Pertanto, è conveniente concentrarsi solo su ciò che si sa e su ciò che si può fare oggi. Ma una delle lezioni del 7 ottobre è che tutto può accadere. Gli incubi più inimmaginabili possono diventare realtà. I disastri che i nostri massimi esperti ci avevano assicurato non sarebbero mai potuti accadere sono ora reali. Il 7 ottobre dovrebbe seppellire i vecchi concetti. Non possiamo più concentrarci solo su ciò che sappiamo ora. Dobbiamo pensare che il peggio può accadere e accadrà se non si fa nulla per evitarlo. E questo significa che dobbiamo prestare attenzione alle potenziali vittime future tanto quanto alle vittime di oggi.
Il riscatto dei prigionieri è una grande mitzvah. Stipulando questo accordo, il governo ha adempiuto a questa mitzvah. Ma il governo ha anche un contratto con i suoi cittadini, ovvero garantire la loro sicurezza. L'accordo che ha portato al rilascio di Gilad Shalit nel 2011 non ha rispettato il contratto con i suoi cittadini, poiché Israele ha rilasciato Yahya Sinwar, che ha pianificato e diretto l'attacco del 7 ottobre 2023, insieme a molte altre persone. Lo Stato di Israele può aver onorato il suo contratto con Shalit, ma ha violato il contratto delle 1.400 persone che hanno perso la vita o sono state rapite in quello Shabbat nero.
Se Israele non trova un modo per proteggere i suoi cittadini, la vita qui potrebbe diventare insopportabile. È su questo che Hamas conta.

(Israel Heute, 24 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Mossad e Shin Bet già al Cairo per discutere seconda fase della tregua con Hamas

di Sarah G. Frankl

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Il capo del Mossad David Barnea (a destra) e Ronen Bar (secondo da sinistra), capo dell'agenzia di sicurezza interna israeliana Shin Bet

Il direttore del Mossad David Barnea e il capo dello Shin Bet Ronen Bar si sono recati al Cairo per discutere le modalità della seconda fase dell’accordo di cessate il fuoco a Gaza.
Secondo Channel 12 , Barnea e Bar “non hanno atteso il 16° giorno della prima fase, come inizialmente previsto, per iniziare i negoziati per la fase successiva e si sono recati al Cairo mercoledì”.
Il canale ha aggiunto che i negoziati includeranno discussioni sulle “condizioni per il rilascio dei prigionieri palestinesi”, in particolare su quanti palestinesi saranno liberati in cambio di ogni prigioniero israeliano.
Ha affermato anche che “i piani riguardanti la governance di Gaza dopo Hamas e il futuro del territorio sono in fase di preparazione da mesi in coordinamento con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita”. Né Abu Dhabi né Riyadh hanno commentato queste affermazioni.
Nel frattempo, il quotidiano ebraico Israel Hayom ha riferito ieri sera che otto prigionieri palestinesi, tutti in possesso di cittadinanza israeliana e condannati all’ergastolo, saranno rilasciati nell’ambito della seconda fase della prima tappa dell’accordo.
Il giornale ha aggiunto che questi otto prigionieri sono stati detenuti tra il 2001 e il 2003 durante la Seconda Intifada. Cinque di loro sono affiliati ad Hamas, mentre i restanti tre hanno legami con Fatah.
Il rapporto ha evidenziato che tra i prigionieri ci sono due abitanti di Gerusalemme, Naseem Zaatari e Fahmi Mashahra. Circa 71 palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana o permessi di residenza sono stati reimpostati per essere rilasciati, ha aggiunto.
Lunedì Hamas ha annunciato in una nota che la seconda tranche di scambi di prigionieri con Israele, prevista dalla prima fase dell’accordo, avrà luogo come previsto sabato.

(Rights Reporter, 24 gennaio 2025)

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Hamas non molla Gaza: così l’intesa è a rischio. Israele, il pericolo si nasconde a Jenin

di Massimiliano Boccolini

L’ingente dispiegamento militare di Hamas ha sollevato interrogativi sul futuro dell’accordo con Israele. Se da un lato Gerusalemme insiste nel voler eliminare il movimento, dall’altro il gruppo islamico palestinese non vuole mollare il governo della Striscia. Le scene viste durante lo scambio di prigionieri, con i miliziani che controllavano la zona della consegna delle tre israeliane alle auto della Croce Rossa, hanno scatenato le polemiche. Gli analisti palestinesi del giornale panarabo “Asharq Al-Awsat” le considerano un potenziale pretesto per Israele per annullare l’accordo dopo la fine della prima fase, per poi tornare in guerra. E quindi auspicano maggiori sforzi da parte dei mediatori per dissuadere Hamas dalle ostentazioni che danneggiano il corso degli eventi.

Le reazioni
   Con uniformi pulite, auto nuove e armi in pugno, gli uomini armati che indossavano le insegne dell’ala militare di Hamas hanno vagato per la Striscia di Gaza all’inizio dell’attuazione dell’accordo di tregua domenica scorsa. Intanto una dichiarazione del ministero dell’Interno nella Striscia, che è gestito da elementi fedeli al movimento, annunciava l’inizio dello “schieramento dei miliziani nelle strade”, spingendo gli attivisti palestinesi sui social media a parlare di “una sconfitta per Israele e una conferma della forza e della sopravvivenza di Hamas nella Striscia”. In Israele il commentatore militare del Canale 14, Noam Amir, ha chiesto con rabbia: “Perché (quelle parate) non sono state bombardate dall’aria?”. Invece il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha minacciato di rovesciare il governo se non si tornerà a combattere “in un modo che ci porti a prendere il controllo dell’intera Striscia e a governarla”. L’analista Saeed Okasha, esperto di affari israeliani, descrive ciò che Hamas ha fatto come “una dimostrazione della sua consapevolezza che non governerà Gaza”. “Sta cercando di apparire forte e questo può causare una crisi se non viene preso in considerazione nella futura governance della Striscia, cosa che però minaccia l’accordo“. L’analista politico palestinese, Abdul Mahdi Mutawaa, ritiene che “Hamas ha ancora la mentalità del gioco d’azzardo che si è verificata il 7 ottobre” e che vuole inviare due messaggi a Israele e all’interno della Palestina: “Rimarrà al suo posto”.

(Il Riformista, 22 gennaio 2025)

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I tre ostaggi israeliani liberati erano tenuti in un edificio dell'Unrwa. Lo scandalo umanitario

Gli edifici presi di mira per scopi militari rappresentano la violazione del diritto internazionale umanitario. 

di Giulio Meotti

Prima un video del massacro del 7 ottobre che mostra un dipendente dell’agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi Unrwa che mette il corpo di un uomo israeliano nel retro di un suv. Si tratta di Faisal Ali Mussalem al Naami,  assistente sociale dell’Onu a Gaza. Poi Ayelet Samerano, la madre di Jonathan, 21 anni, rapito dal kibbutz Be’eri, che durante una protesta in Svizzera tiene una foto di Jonathan mentre urla “l’Unrwa ha rapito mio figlio!”. Un’inchiesta del New York Times rivela che un consulente scolastico dell’Unrwa di Khan Younis ha rapito una donna israeliana. Poi il corpo dell’ostaggio tedesco-israeliano Shani Louk viene trovato in un edificio dell’Unrwa.  Ora questa: “Gli ex ostaggi Romi, Emily e Doron sono stati tenuti nei rifugi delle Nazioni Unite a Gaza, che erano destinati ai civili”.
  Così un servizio trasmesso ieri dal canale televisivo israeliano 13, che afferma quanto segue: “Due giorni dopo essere stati liberati dopo 471 giorni di prigionia, Rumi Gonen, Emily Demari e Doron Steinbracher iniziano a raccontare cosa hanno vissuto, le condizioni della  prigionia, così come i luoghi in cui sono stati tenuti nella Striscia di Gaza dai terroristi di Hamas da quando sono stati rapiti il 7 ottobre. Le conversazioni con i rimpatriati mostrano che durante il loro periodo di prigionia sono stati nascosti  nei rifugi delle Nazioni Unite e nei campi destinati alla popolazione civile che le Nazioni Unite hanno istituito durante la guerra e che dovrebbero essere aree in cui le persone soggiornano e ricevono cibo e acqua”. Richard Goldberg della Fondazione per la difesa delle democrazie di Washington, ha affermato che la rivelazione significa che “dobbiamo smettere di pensare a Unrwa come a un semplice sostenitore di Hamas e iniziare a interiorizzare che l’agenzia è una facciata per Hamas”.
  Un prigioniero di ottant’anni, rilasciato nell’ambito della tregua del novembre 2023, aveva già affermato di essere stato tenuto nella soffitta di un dipendente delle Nazioni Unite. Un anno fa invece la scoperta che sotto la sede centrale dell’Unrwa a Gaza Hamas aveva nascosto il suo centro dati, completo di sala elettrica e alloggi per i terroristi che gestiscono i server dei computer. Israele aveva poi accusato dodici membri dello staff dell’agenzia delle Nazioni Unite di aver preso parte al massacro del 7 ottobre, spingendo poi la stessa Onu a licenziarli. Elise Stefanik, nuova ambasciatrice americana all’Onu, ieri ha detto che l’Unrwa è “antisemita”, lasciando intendere la fine dei finanziamenti da parte degli Stati Uniti. Il capo dell’Unrwa, lo svizzero Philippe Lazzarini, dichiara che “attaccare, prendere di mira o utilizzare edifici delle Nazioni Unite per scopi militari è una palese violazione del diritto internazionale umanitario”, ma tace su come da quindici mesi Hamas usa le stesse strutture, non solo per nascondere armi e missili, ma anche gli ostaggi. 
  Secondo un altro servizio esclusivo di Fox News andato in onda ieri e che si basa sull’intelligence israeliana, i terroristi di Hamas hanno confessato che ostaggi israeliani erano stati tenuti anche nell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza in momenti diversi durante il loro calvario. Anas Muhammad Faiz al Sharif, uno dei terroristi sotto custodia israeliana, parla dell’ospedale come “un rifugio sicuro perché l’esercito israeliano non può prenderlo di mira”. D’altro canto, il 24 ottobre 2023, il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres aveva praticamente giustificato gli attacchi di Hamas contro Israele affermando che “non sono avvenuti nel vuoto”. No, non sono avvenuti nel vuoto, sono avvenuti anche nelle strutture dell’Onu.

Il Foglio, 23 gennaio 2025)

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Vaerà. È la nostra capacità di scegliere che ci rende umani

di Ishai Richetti

Uno dei punti di cui i Chachamim discutono di più è la questione di come Hashem possa rimuovere il libero arbitrio del faraone. Quello di cui si discute però molto meno è della posizione del faraone prima che Hashem intervenga. All’inizio, ben prima che Hashem intervenga in qualsiasi modo con il faraone, la Torà ci racconta già della risposta personale del faraone stesso alla richiesta di Moshe e Aharon di consentire al popolo ebraico di andarsene. E in tutte queste conversazioni, scopriamo che la Torà descrive le risposte del faraone con riferimenti al suo lev, il suo cuore, ma specificamente con due diverse caratterizzazioni del suo cuore: “Vaychazek lev Par’ò” e “Vavchbad lev Par’ò“. Entrambe vogliono significare che il faraone si rifiutò di ascoltare. Se è così, per quale motivo la Torà usa due parole diverse per esprimere lo stesso concetto? Qual è la differenza tra questi due termini?
Rav Joseph B. Soloveitchik spiega che queste sono, in effetti, due risposte molto diverse. Chizuk implica il concetto di forza, vigore, fermezza. Nel nostro contesto, si riferisce al potere di resistere a qualcosa. Se riesco a resistere all’assalto del nemico, se riesco a essere abbastanza forte da non cedere, allora sono chazak, sono forte, e questo può valere sia per la forza fisica che per la forza di carattere. Kaved, tuttavia, è una descrizione molto diversa. Quando qualcosa è kaved, significa che è pesante. Kaved non implica vigore, fermezza o forza, ma piuttosto peso morto. Il fatto che qualcuno o qualcosa sia pesante non lo rende necessariamente forte. Si tratta, in effetti, di quella pesantezza che può appesantirci e renderci ancora più deboli. Cosa significa dunque quando leggiamo “vaychbad lev Par’ò” che il cuore del Faraone era pesante?
Questo termine appare anche in un’altra occasione, in Yechezkel, dove Hashem dice ad Am Yisrael: “Vaasirotì et lev haeven” Rimuoverò il tuo cuore di pietra e ti darò invece un lev bassar, un cuore di carne. Un lev even è un cuore insensibile, impermeabile, che non risponde alla chiamata della propria coscienza. Quando la Torà si riferisce al Faraone come a qualcuno con un lev kaved, significa che è semplicemente chiuso, che non risponde alle chiamate di Moshè e Aharon. In cosa consiste allora il chizuk halev di cui parla la Torà riferendosi al Faraone? Il rafforzamento del proprio cuore?
Questo termine significa che il cuore del faraone, a volte, diventava sensibilizzato, persino malleabile. C’erano momenti in cui il faraone si svegliava e si rendeva conto che forse avrebbe dovuto riconsiderare la posizione e la fermezza che si ostinava a mantenere. Dopo aver sperimentato la piaga di Barad, la grandine, il Faraone sembra avere un risveglio, una consapevolezza che doveva cambiare atteggiamento. Il faraone manda a chiamare Moshè e Aharon e dice loro: “Ho peccato. Hashem è giusto e io e la mia nazione siamo malvagi. Prega Moshè, liberaci da questa grandine e vi libererò come mi richiedete di fare” Eppure, non appena la grandine finisce, la Torà ci riferisce: “Il cuore del faraone divenne forte (Vaychezak lev Par’ò), e non mandò via il popolo“. Chizuk halev è un tipo di rifiuto particolare. È quando il faraone riesce a vedere la sfida morale. È sensibile al fatto che potrebbe essere diretto sulla strada sbagliata e dovrebbe tornare indietro, ma nonostante ciò si rinforza, rifiutandosi di cedere anche alla voce interiore che gli dice che sta facendo la scelta sbagliata. Ma allora perché rifiuta?
Rav Solovetchik sostiene che, almeno in parte, quello che muoveva il faraone erano ragioni economiche. L’intera economia egiziana dipendeva dal lavoro degli schiavi. Liberare gli ebrei avrebbe distrutto l’economia dell’Egitto. Quindi, mentre il faraone, a volte, riconosceva che Hashem era, in effetti, al comando, e che non aveva davvero alcuna possibilità di competere, la pressione per mantenere la sua posizione e sostenere l’economia del suo regno era eccessiva, e il faraone era costretto a rafforzarsi, per trincerarsi e rifiutarsi di lasciare andare gli ebrei.
Questa spiegazione porta alla luce un’altra idea che riguarda non solamente il cuore del faraone, ma anche nostri cuori. La Ghemarà nel Trattato di Berachot parla di una persona che è in pericolo e non ha tempo di recitare l’intera sezione centrale dell’Amidà. In considerazione di questo pericolo, quindi, gli viene detto di recitare una versione breve delle dodici berachot centrali, chiamata Havinenu. Havinenu è un paragrafo che contiene dodici frasi brevi, ciascuna delle quali fa riferimento a una delle dodici berachot che compongono la parte centrale dell’Amidà. Ad un certo punto di questa tefillà, troviamo la richiesta ad Hashem: “Mol et levavenu leyiratecha”, “rimuovi la copertura del nostro cuore così possiamo temerTi”, parte che è al posto della berachà “Hashivenu”, una tefillà relativa alla teshuvà. A prima vista, sembra una preghiera che chiede a Hashem di aiutarci a scegliere di essere persone timorate di D-o. E, in effetti, questa tefillà prende in prestito il linguaggio da un versetto nella Parsahà di Nitzavim: “Hashem circonciderà il tuo cuore e il cuore dei tuoi figli per amare Hashem con tutto il tuo cuore e la tua anima“. Questa idea sembra essere poco chiara: Come possiamo chiedere a Hashem di aiutarci a fare teshuvà? Ciò potrebbe significare toglierci la bechirà chofshit, il nostro libero arbitrio.
I Chachamim spiegano il significato di questo versetto in base alla stessa idea che abbiamo menzionato prima quando si parla del faraone. Cos’è un lev arel, un cuore coperto? È lo stesso di un lev even, un cuore di pietra. Se ho un lev even, un cuore di pietra, significa che mi sono precluso delle scelte. Sono così tanto appesantito da elementi diversi nella mia vita che non riesco nemmeno a considerare altre opzioni. Un lev even, quindi, non è un cuore che fa cattive scelte, ma un cuore che non fa scelte. Quando chiediamo ad Hashem di rimuovere l’orlat lev, la copertura del nostro cuore, non stiamo chiedendo a Hashem di fare delle scelte per noi, al posto nostro, ma Gli stiamo chiedendo di concederci il risveglio, l’opportunità, la sensibilità per aprirci e riconoscere le scelte giuste tra le opzioni che abbiamo di fronte. In quei momenti, potremmo ancora fare delle scelte sbagliate.
Il fatto che possiamo provare disagio di fronte al concetto che Hashem possa togliere il libero arbitrio al faraone, è qualcosa di positivo perché significa che ci rendiamo conto che è la nostra capacità di scegliere che ci rende umani. E, più di questo, è la nostra capacità di scegliere che ci consente di crescere. Ci sono momenti nella nostra vita in cui il potere di scelta e la libertà di crescere che deriva dalla scelta diventano più difficili da raggiungere. Ci abituiamo così tanto al modo in cui viviamo le nostre vite, al ritmo delle nostre giornate e delle nostre settimane, che iniziamo a perdere di vista quella libertà, le opportunità di crescita che sono davanti a noi. Lentamente nel tempo, senza nemmeno rendercene conto, i nostri cuori possono trasformarsi in un lev even, un cuore che diviene man mano meno sensibile alle scelte che ci si presentano ogni giorno. L’obiettivo, quindi, non è unicamente decidere di fare le scelte giuste. Il primo passo è iniziare a scoprire i nostri cuori, consentendo al nostro lev even di diventare un lev bassar, un cuore aperto e disposto a vedere e sentire le opportunità di crescita che ci si presentano spesso nella nostra vita. Il faraone era caratterizzato dal lev kaved, il lev even, la riluttanza a permettersi e a prendere piena consapevolezza delle scelte che esistevano di fronte a lui. È nostro compito, quindi, prenderne nota ed imparare a non imitare il comportamento del faraone. Viviamo le nostre vite spesso in modalità automatica, con il risultato di indurire il nostro cuore, di non essere in grado di distinguere le scelte che abbiamo di fronte, precludendoci il libero arbitrio. La tefillà che rivolgiamo ad Hashem di liberare il nostro cuore, è quindi la richiesta di aprirci gli occhi e di darci la possibilità di compiere le sceglie giuste. Possa Hashem esaudire le nostre tefillot liberando il nostro cuore dai pesi che, alla fine dei conti, finiscono per danneggiarci.

(Morashà, 24 gennaio 2025)
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Parashà della settimana: Va-erà (Apparve)

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Ondata di crimini antisemiti in Australia

Un possibile piano straniero dietro gli attacchi

Un’ombra inquietante si allunga sull’Australia, dove la polizia federale sta indagando su una possibile regia straniera dietro l’escalation di atti antisemiti che stanno scuotendo il Paese. La teoria, sempre più accreditata, è che vi siano «criminali pagati» per perpetrare questi attacchi, spingendo le autorità a considerare l’ipotesi di un sofisticato piano orchestrato.
L’episodio più recente, che ha colpito la periferia di Sydney, ha scatenato allarme e indignazione: come riporta il Jerusalem Post, un incendio doloso ha devastato un asilo nido ebraico, accompagnato da graffiti carichi di odio. Il primo ministro Anthony Albanese, visibilmente preoccupato, ha convocato un incontro di emergenza del gabinetto, dichiarando: «Alcuni di questi atti non sembrano avere motivazioni ideologiche, ma piuttosto economiche. Stiamo indagando sulle fonti di finanziamento».
Secondo le ricostruzioni, l’attacco è avvenuto nella tarda serata di lunedì. Poco distante da una sinagoga, i vandali sembrano aver mirato all’asilo ebraico, colpendolo con vernice spray e appiccando il fuoco. La polizia ha subito classificato l’accaduto come un crimine d’odio, e l’ Australian Jewish Association ha confermato su X che la vicinanza con il luogo di culto non era una coincidenza. Ryvchin, co-CEO dell’Executive Council of Australian Jewry, ha condiviso sui social una fotografia che mostrava parte di un inquietante slogan antisemita, collegato ad altri recenti episodi di vandalismo e incendi dolosi nella zona.
La settimana precedente, il 10 gennaio e l’11 gennaio due sinagoghe a Sydney (una in città e una nella periferia di Newton) erano state vandalizzata con graffiti riproducenti svastiche e messaggi inneggianti al nazismo: solo in questi giorni la polizia australiana ha arrestato due persone sospettate di essere gli autori di quelli a Newton. Mentre a dicembre era stata incendiata una sinagoga a Melbourne.

Il sospetto di finanziamenti stranieri
  Ma c’è un elemento che complica ulteriormente il quadro: il commissario Rhys Kershaw ha sollevato il sospetto che dietro questi atti si nascondano transazioni in criptovalute, un mezzo che rende difficile tracciare i finanziamenti e smascherare i mandanti. Al contempo, si indaga sulla radicalizzazione online di giovani coinvolti in questi crimini, evidenziando come l’odio si alimenti anche nel vasto e oscuro mondo digitale.
In risposta alla gravità della situazione, il governo australiano ha istituito un database nazionale per monitorare gli episodi di antisemitismo. La task force Evelight, attiva dallo scorso dicembre, ha già registrato oltre 166 segnalazioni, e solo a Sydney 35 persone sono state incriminate per crimini d’odio contro la comunità ebraica.
L’ondata di violenza ha ripercussioni anche sul piano internazionale. Il viceministro degli Esteri israeliano ha accusato il governo australiano di non reagire con sufficiente fermezza, ma il primo ministro Albanese ha respinto con decisione le critiche, ribadendo l’impegno del Governo nella protezione dei cittadini ebrei. «Questi atti rappresentano un attacco non solo a una comunità, ma all’intero Paese», ha dichiarato.
Nel frattempo, il Jewish Council of Australia ha lanciato un appello accorato per rafforzare il dialogo intercomunitario e promuovere una collaborazione più efficace, nella speranza di porre fine a questa preoccupante serie di attacchi.

(Bet Magazine Mosaico, 23 gennaio 2025)

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Disertiamo il Giorno della Memoria perché è una scommessa culturale perduta

Uno stanco rituale, esibizione di un'ipocrisia insopportabile in cui gli ebrei sono lasciati soli, con una cerimonia anemica. Quando i custodi della Memoria dimenticano tutto, bisogna protestare.

di Pierluigi Battista

Disertiamo il “Giorno della Memoria”, appuntamento simbolico che dal 7 ottobre del 2023 ha smarrito il suo significato, è diventato stanco rituale, ma soprattutto esibizione di un’ipocrisia insopportabile. Una triste parata di sepolcri imbiancati, oramai. Il suo impegno solenne, quando fu istituito nel 2000, doveva essere il “mai più”: mai più Auschwitz, mai più orrori contro gli ebrei, mai più persecuzioni antisemite, mai più caccia all’ebreo, mai più una ragazzina ebrea di nome Anna Frank raggiunta in una soffitta di Amsterdam, senza nessuno scopo militare nella grande carneficina della Seconda guerra mondiale
  Perché nemmeno un ebreo, un bambino ebreo, un vecchio ebreo poteva essere risparmiato dallo sterminio genocida. Oggi il “mai più” sta diventando, senza una reazione adeguata, senza un sussulto di vasti, troppo vasti settori della cultura democratica, “ancora una volta”: ancora una volta, di nuovo, caccia all’ebreo, persecuzioni, agguati, assalti alle sinagoghe in tutto il mondo occidentale dimentico di sé e demolito dal fanatismo antisionista (cioè antiebraico). 
  Disertiamo il Giorno della Memoria. Ad Amsterdam, la città di Anna Frank, hanno linciato gli ebrei strada per strada, albergo per albergo, con i taxi guidati da islamisti che coordinavano le aggressioni con le modalità del pogrom. E noi qui, a cominciare da chi il 27 gennaio chinerà il capo contrito per declamare un sempre più insincero “mai più”, a scambiare il linciaggio per un banale tafferuglio tra ultras di squadre rivali: uno sprofondare umiliante nella stupidità, un collasso intellettuale di dimensioni gigantesche. Cacciano gli studenti ebrei dalle Università, da Harvard fino a Torino, e le autorità restano silenziose e imbarazzate e magari ci toccherà sorbire il discorso sulla Memoria proprio dai rettori che hanno appena siglato il boicottaggio delle università israeliane sotto le minacce delle nuove guardie rosse dette pro. Pal. Hanno boicottato una nota manifestazione canora perché tra i partecipanti c’era un’ebrea israeliana che cantava con animo straziato le vittime del pogrom di Hamas, il pogrom che nelle piazze dell’occidente lodano come l’inizio della resistenza, della rivoluzione. Niente, neanche un bisbiglio, un sussurro, una debole perplessità. Niente: i custodi della Memoria ufficiale hanno dimenticato tutto. Lasciamoli soli con la loro ipocrisia, il 27 gennaio.
  Disertiamo il Giorno della Memoria perché è una scommessa culturale perduta. Pochi si opposero alla sua istituzione. Qualche dubbio da parte soprattutto liberale: c’era il rischio, dicevano, di una memoria di stato, di una ricerca storica che diventa subalterna all’ufficialità istituzionale. Questo rischio è stato corso, ma le previsioni pessimistiche sono state smentite. Qualche anno fa Elena Loewenthal, studiosa e traduttrice di Amos Oz, proclamava la sua contrarietà a una giornata della memoria che autorizza l’oblio negli altri 364 giorni dell’anno. Ma fino al 7 ottobre 2023, data in cui l’antisemitismo dell’occidente è stato sdoganato e ha di gran lunga surclassato quello sventolato dalle teste rasate e decerebrate, negazioniste e esplicitamente naziste, il ricordo della Shoah funzionava ancora come un freno, una remora, un confine. Oggi quel confine è cancellato, quel freno è saltato, quella remora è svanita. La Shoah è stata sconsacrata. Ha scritto Lia Levi, sbalordita, costernata: perché ci invitate nelle scuole, se poi quando riprende fiato l’odio per gli ebrei, vi dimenticate di noi? Nel cuore della cultura antifascista il nuovo antisemitismo, camuffato da antisionismo, dilaga senza argini. Una disfatta culturale inimmaginabile, fino al 6 ottobre 2023.
  In Israele, nel giorno in cui si ricordano le vittime della Shoah, quando suona la sirena, il cui sibilo dura per due lunghi minuti che sembrano interminabili, tutti si fermano, in un silenzio che sembra irreale. E’ così, perché quel ricordo ferisce ancora sulla carne viva dei superstiti e dei loro discendenti. Nel Giorno della Memoria, gli ebrei sono lasciati soli, omaggiati con una cerimonia sempre più anemica e svogliata. Ma nel profondo lasciati soli, circondati dalla diffidenza. Non conta se gli studenti ebrei hanno paura di mettere piede negli atenei, non conta che in Francia, in Belgio, in Svezia gli ebrei scappano da un’Europa che sentono sempre meno come la loro casa. E allora bisogna protestare, non accettare l’abbandono come fosse cosa normale. Disertiamo il Giorno della Memoria.

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Eurovision – Yuval Raphael a Basilea con i colori di Israele

La cantante 23enne è sopravvissuta alla strage del Nova Festival

FOTO
Yuval Raphael

Yuval Raphael ha ancora delle schegge conficcate nella testa e in una gamba. Il 7 ottobre si è salvata per miracolo, rimanendo per ore sepolta sotto i cadaveri mentre i terroristi a più riprese sparavano e facevano esplodere granate nel rifugio antimissile in cui si era nascosta. Stipate con lei c’erano una quarantina di persone, fuggite dal Nova Festival sotto attacco. Solo in undici sono uscite vive dal rifugio.
  «La musica è uno degli elementi più importanti del mio processo di guarigione», ha spiegato Raphael, originaria della città di Ra’anana, all’emittente pubblica Kan. A Basilea, dove si terrà a maggio il prossimo Eurovision, la giovane vuole raccontare la sua storia. «Ma non per cercare pietà. Voglio che sia una storia di forza di fronte a tutto questo, e di fronte ai fischi che sono sicura al 100% arriveranno dal pubblico».
  Una certezza dovuta all’esperienza dello scorso anno, quando all’Eurovision di Malmö, in Svezia, ad essere contestata era stata la cantante Eden Golan. Come nella scorsa, anche in questa edizione ci sono stati appelli al boicottaggio d’Israele e alla sua squalifica dalla competizione canora europea. L’Ebu, l’autorità responsabile della rassegna, ha però ribadito il diritto dello stato ebraico di partecipare.
  Raphael sarà dunque presente, con la sua difficile storia alle spalle. «Intrappolata e temendo per la mia vita, ho assistito a orrori indicibili: amici e sconosciuti venivano feriti e uccisi davanti ai miei occhi», ha raccontato. «Quando i corpi degli assassinati ci sono caduti addosso, ho capito che nascondermi sotto di loro era l’unico modo per sopravvivere all’incubo».

(moked, 23 gennaio 2025)

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La tregua tra Israele e Hezbollah verrà prorogata

Il termine è fissato per la prossima settimana ma Israele occupa ancora alcuni territori che non sono stati bonificati quindi la tregua verrà certamente prorogata

di Sarah G. Frankl

Secondo diverse fonti, l’accordo di cessate il fuoco che ha messo in pausa la guerra tra Israele e Hezbollah in Libano sarà probabilmente prorogato alla sua scadenza, la prossima settimana.
Secondo funzionari governativi libanesi, israeliani e francesi, è improbabile che il gruppo sostenuto dall’Iran e gli israeliani riprendano i combattimenti su vasta scala, nonostante abbiano bisogno di più tempo per attuare i termini originali della tregua, entrata in vigore a fine novembre.
L’accordo sostenuto da Francia e Stati Uniti, che ha fermato un conflitto che ha ucciso migliaia di persone e peggiorato le tensioni tra Iran e Israele, ha dato alle truppe israeliane 60 giorni per ritirarsi dai villaggi del Libano meridionale. Hezbollah è stato costretto a ritirarsi a nord del fiume Litani, con l’esercito libanese al suo posto.
Sebbene la tregua in Libano abbia sostanzialmente retto da novembre, Hezbollah e Israele si sono accusati a vicenda di aver violato i termini.
Le forze israeliane sono ancora in almeno metà dei villaggi che hanno occupato. Israele ha continuato a lanciare attacchi letali per contrastare quelli che descrive come tentativi di Hezbollah di riorganizzarsi o riarmarsi nel sud, e come rappresaglia per gli attacchi di mortaio.
Sono in corso trattative tra le parti per estendere la scadenza del 27 gennaio per garantire che il conflitto non riprenda. Diverse fonti qualificate hanno affermato che la tregua verrà prolungata per dare più tempo ai soldati libanesi di schierarsi e a Hezbollah di sgomberare a nord del Litani, a circa 30 chilometri dal confine.
Gli scontri tra Israele e Hezbollah hanno causato ingenti danni a entrambe le economie. Gli asset israeliani, tra cui lo shekel e i titoli di Stato, sono aumentati in modo significativo nel periodo precedente al cessate il fuoco, mentre i titoli in dollari in default del Libano sono aumentati da allora, un periodo in cui il paese ha anche eletto il suo primo presidente dal 2022. Il debito rimane in territorio di sofferenza.
“Vogliamo l’attuazione con successo dell’accordo di cessate il fuoco”, ha detto lunedì ai giornalisti il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar insieme ad Antonio Tajani, il suo omologo italiano, che contribuisce con le sue forze all’operazione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite nel Libano meridionale.
Saar ha affermato che presto altro territorio sarebbe stato ceduto all’esercito libanese, ma che un eventuale ritiro più ampio da parte di Israele sarebbe stato subordinato al fatto che Hezbollah avesse prima abbandonato il sud.
“Hanno violato l’accordo e abbiamo ancora terroristi di Hezbollah a sud del fiume Litani”, ha detto. “Faremo rispettare le misure quando vedremo violazioni dell’accordo e sosterremo la nostra richiesta di sicurezza”.
Il Libano ha ripetutamente affermato di essere impegnato nell’accordo di cessate il fuoco, sebbene abbia sottolineato che Israele deve ritirare le sue truppe. Il leader di Hezbollah Naim Qasem ha esortato lo stato libanese ad affrontare le ripetute violazioni israeliane.
All’inizio di questo mese, i legislatori libanesi hanno eletto il comandante dell’esercito Joseph Aoun come presidente del paese. Aoun era sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita e la sua vittoria è stata un ulteriore segno del declino dell’influenza sia di Hezbollah che dell’Iran nella politica libanese.
Tuttavia, anche se la tregua venisse prorogata, la continua presenza delle truppe israeliane in Libano potrebbe mettere sotto pressione Aoun.

(Rights Reporter, 23 gennaio 2025)

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La necessità di sradicare Hamas

di Giovanni Giacalone

L’obiettivo di sconfiggere e sradicare Hamas da Gaza non è stato raggiunto da Israele. Si tratta di unn dato di fatto questo purtroppo è un dato di fatto inequivocabile. La campagna militare è andata a rilento fin dall’inizio, con continue pause e pretese di “corridoi umanitari” come non si sono mai viste in nessun’altra guerra.
  Immaginiamoci l’assedio statunitense di Fallujah o Ramadi durante la seconda Guerra del Golfo con tanto di “corridoi umanitari” e viveri che finivano nelle mani di gruppi armati. Immaginiamoci l’esercito turco che attacca le postazioni del PKK e nel frattempo attua corridoi umanitari per la popolazione. Si sa che con Israele valgono regole diverse dal resto del mondo. 
  L’andamento della guerra aveva lasciato intendere fin dall’inizio che non ci fosse una grande convinzione di volere realmente sradicare Hamas da Gaza, a prescindere dal problema ostaggi. Forse non si voleva scontentare il generosissimo Qatar che ancora oggi continua a ospitare la leadership dell’organizzazione terrorista e che più che mediare ha tutelato Hamas dal rischio di estinzione?.
  L’IDF ha inferto dei colpi durissimi a Hamas, distruggendone i battaglioni, gli armamenti, decapitandone la leadership, catturando ed eliminando migliaia di terroristi. Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh sono stati tolti di mezzo e quest’ultimo a Teheran, con un’azione umiliante nei confronti del regime khomeinista.  
  I restanti leader dell’organizzazione terrorista palestinese come Musa Abou Marzouk, Khaled Meshal e Muhammad Sinwar, i primi due purtroppo ancora ospiti a Doha, plausibilmente vivranno il resto della loro vita nel terrore di essere bersagliati da Israele che ha recentemente riconfermato di potere colpire chiunque in qualsiasi luogo al mondo, inclusi quelli dove i terroristi si sentono più al sicuro, come al centro di Teheran o di Beirut. 
  Per quanto riguarda Hamas a Gaza, la sceneggiata con uomini armati e mascherati che scimmiottavano una parvenza di forza mentre sputavano addosso agli ostaggi rilasciati non ha fatto altro che metterne in evidenza la reale debolezza. Quei grandi “resistenti armati” fino a pochi minuti prima erano infatti nascosti nei tunnel e si facevano scudo con donne e bambini.  
  E’ chiaro, il problema propagandistico c’è, perché Hamas lo sa sfruttare molto bene ed è ben consapevole che a livello internazionale c’è una notevole predisposizione nell’abbracciare l’idea di Hamas come “resistenza palestinese”. Non a caso l’esperto di Islam radicale, Noor Dahri, direttore del think tank britannico Islamic Theology of CounterTerrorism, ha già messo in guardia mesi fa sul fatto che Hamas, da organizzazione terroristica, è diventata un’ideologia transnazionale diffusa anche in Occidente. Le manifestazioni nei campus statunitensi e britannici (curiosamente proprio quelli dove confluiscono ingenti finanziamenti dal Qatar) ne hanno dato ampia prova. 
  Un’ideologia che va tra l’altro a braccetto con l’estrema sinistra in nome della lotta al “colonialismo”, all’”imperialismo”, insomma, all’Occidente. 
  Avere assestato un duro colpo a Hamas non è però sufficiente, perché l’organizzazione terrorista palestinese ha messo in atto il peggior pogrom nei confronti degli ebrei dai tempi della Shoah e dunque andava eradicata ad ogni costo, anche perché i suoi leader hanno recentemente ribadito di volere ripetere un altro “7 ottobre”. 
  Chi ha remato contro per cercare di salvare Hamas sarà pienamente responsabile di ogni ulteriore morto causato da Hamas (israeliani e non, perché Hamas non fa distinzioni, a differenza di ciò che molti vorrebbero credere). 
  L’inviato per il Medio Oriente di Trump, Steven Witkoff, ha pressato Netanyahu ad accettare la tregua e il premier israeliano ha accettato. Ha fatto bene? Probabilmente no.  
  Witkoff doveva essere rispedito a Washington con un “grazie, ma non ci facciamo dire da voi cosa fare”. Netanyahu però non se l’è sentita e ha preferito mettere a rischio il proprio esecutivo, con conseguente uscita di Ben Gvir la cui presenza, seppure non essenziale per la tenuta del governo, comporterà dei problemi, oltre al danno d’immagine. 
  Alla base dello sbaglio nel negoziare un accordo con Hamas c’è un principio piuttosto semplice di “terrorismo e controterrorismo” il cui “padre” è Boaz Ganor, direttore dell’ International Institute for Counter Terrorism di Herzliya.  
  In sunto, un’organizzazione terrorista, per potere operare, si basa su “motivazione” e “capacità operativa”. Se queste due variabili sono ad un livello sufficiente da permettere ai terroristi di colpire, allora gli attacchi sono imminenti. In assenza di uno dei due fattori, non si potranno verificare attacchi. 
  Un’efficace campagna di controterrorismo riesce ad abbattere le capacità operative di un’organizzazione terrorista sotto il livello che l’abiliterebbe a poter colpire, rendendo così i terroristi incapaci di perpetrare attacchi. 
  Tuttavia, l’attività militare offensiva è una soluzione temporanea se utilizzata da sola. In una situazione del genere, lo Stato ha solo abbassato le capacità operative dell’organizzazione e non la sua motivazione; finché un’organizzazione ha ancora la motivazione per portare a termine un attacco, lavorerà duramente per riacquistare le capacità operative per perpetrare ritorsioni. Questo fenomeno è noto come “effetto boomerang”. 
  Nel caso attuale con Hamas, è plausibile che le capacità operative dell’organizzazione siano state disinnescate soltanto per un breve margine di tempo visto che, oltre all’elevata motivazione di vendetta da parte degli islamisti, ci sono attori esteri impazienti di ricominciare a finanziare e armare i terroristi. Come se non bastasse, l’essere riusciti a portare a casa un negoziato e l’attenzione mediatica riscossa da Hamas è vitale per la macchina propagandistica terroristica. 
  Non è detto che Hamas e i suoi sostenitori colpiscano in Israele; potrebbero farlo benissimo anche a livello globale in seguito all’internazionalizzazione della causa. 
  Ieri il Presidente statunitense Donald Trump si è detto poco fiducioso sul fatto che il l’accordo Hamas-Israele reggerà fino alla fine e forse c’è proprio da sperarlo. Magari auspicando che la prossima volta il nuovo presidente americano, in nome della cosiddetta “amicizia” nei confronti di Israele tenga a casa Witkoff ed eviti di ascoltare al-Thani. Una cosa è certa, Hamas dovrà essere sradicata per il bene di Israele, che piaccia o meno a Doha e a certi ambienti europei e statunitensi. 
   

(L'informale, 22 gennaio 2025)

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Perché Hamas pensa di aver vinto la guerra con Israele e i rischi del Muro di ferro

Dopo l’accordo i miliziani palestinesi hanno sfilato a Gaza: la liberazione dei 2mila prigionieri nelle carceri israeliane in fondo era l’obiettivo degli attentati del 7 ottobre. L’operazione Muro di ferro è stata lanciata in Cisgiordania dove ci sono nuclei di Hams ben armati.

ROMA – L’operazione Muro di ferro lanciata a Jenin da Israele contro i guerriglieri palestinesi e l’accoltellamento a Tel Aviv da parte di un terrorista poi ucciso, sono segnali preoccupanti dopo la tregua a Gaza.
Migliaia di persone hanno festeggiato l'accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza
Secondo Bernard Selwan Khouri analista del Center For Oriental Strategic Studies esiste realmente un altro pericolo dietro l'angolo che rischia di infiammare la già precaria situazione: "Ci sono nuclei di Hamas bene armati e agguerriti in alcune aree della Cisgiordania vicine ai campi profughi, difficili da tenere a bada e pronti a tutto. Non sono da sottovalutare, Israele lo sa e teme l'apertura di un altro fronte". E ancora: "Chi governerà a Gaza se la tregua avrà sviluppi è il grande interrogativo futuro – spiega Bernard Selwan Khouri – bisogna vedere quanto conterà la pressione di Paesi vicini ad Hamas come il Qatar che guida i negoziati. Hamas punta anche su elementi legati a Fatah, ma questo gruppo è un elemento troppo intransigente, poco incline ad una soluzione morbida per la gestione della Striscia. In campo c'è anche l'Egitto che pare voglia giocare la carta di un forza di interposizione internazionale stile Unifil".
Tutta La comunità internazionale e in buona parte anche Israele, si arrovellano infatti intorno alla grande domanda: cosa resta di Hamas e quale sarà il suo futuro sempre che l'accordo-ponte per la liberazione degli ostaggi regga fino alla fine? 
Partiamo dai numeri che arrivano da fonti sul campo ma comunque sempre difficili da controllare. Il 75% dei miliziani è stato ucciso dentro la carneficina delle circa 46mila vittime in gran parte civili. Resterebbero sul campo circa 10mila guerriglieri ancora bene armati che continuano a nascondersi come topi nel 40% degli impenetrabili tunnel rimasti agibili nel ventre di Gaza. Distrutti nella loro struttura i battaglioni, eliminati molti colonnelli, eppure il movimento non è del tutto battuto. Restano nuclei più agili, più addestrati alla guerriglia, ancora molto attivi. Infatti c'è da tenere presente un punto che nella logica occidentale appare di difficile comprensione. Per Hamas, nonostante Gaza sia in gran parte distrutta, la prevista liberazione di 2mila palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è una vittoria e, in fondo, era il vero obiettivo dell'aggressione del 7 ottobre col bilancio di 1200 vittime e oltre cento ostaggi.
E' il senso del martirio che tiene in piedi la forza dei guerriglieri ora guidati da Mohammed Sinwar, fratello di Yahya, il leader storico ucciso con una operazione chirurgica dall'intelligence di Tel Aviv. Ed è sempre il sentimento del sacrificio che consente ad Hamas, secondo fonti di Gaza, di reclutare giovani leve, anche giovanissimi, che sono figli e nipoti dei miliziani uccisi in questi mesi di guerra spietata. Diverse decine hanno già abbracciato la causa dei miliziani con la fascia verde sul capo. I morti per loro più che semplici vittime sono soprattutto martiri, in vista dell’obiettivo finale conta più la morte che la vita.
Si comprende dunque perché in questo scenario Hamas ha preteso nell'accordo siglato in Qatar di poter sfilare con le milizie tra le macerie di Gaza mentre sono stati consegnati i primi tre ostaggi. Tute mimetiche nuove e pulite, scarponi lucidi, mitra rivolti al cielo. La messinscena di una vittoria da celebrare perfettamente preparata. I miliziani volevano sfilare e manifestare con le armi pesanti, ma su questo punto nell'accordo è stato messo uno stop. Solo armi leggere con corteo di pick up. Mentre gli israeliani hanno dovuto accettare di tenere a terra droni ed elicotteri, che solitamente pattugliano Gaza dal cielo, per consentire ai guerriglieri di uscire dai nascondigli senza (forse) essere visti. E nello show, partecipato in modo preoccupante da migliaia di civili, gli uomini di Hamas hanno subito messo in campo una struttura assistenziale e di sicurezza, per quanto possibile, proprio per dimostrare alla popolazione stremata che "qui comandiamo ancora noi".
Spiega Marco Mancini, analista ex capo del controspinaggio italiano: "Hamas sta premendo sull'accordo per ottenere la ricostruzione di Gaza in esclusiva, nodo non ancora sciolto al tavolo. In questa prospettiva l'accordo per gli sviluppi futuri è ancora da chiarire sulla richiesta di libertà per Abdullah Al Barghouti, l'ingegnere degli esplosivi, e su Marwan Barghouti, autorevole membro di Fatah, che Hamas vorrebbe inserire nella futura possibile guida di Gaza accanto a Mohammed Sinwar. Abu Mazen, attuale presidente dell'Autorità nazionale palestinese, si candida a sua volta per la gestione di Gaza però con Marwan Barghouti fuori dai confini. Ma attenzione, Hamas non è finito con le nuove reclute è già pronto alla battaglia, mentre rivendica di aver ucciso 4mila soldati dell’Idf e distrutto 1500 tank, cifre che però Tel Aviv smentisce". L'America di Trump, i signori arabi del petrolio e la stessa Ue spingono ovviamente per il cambio di passo nella Striscia con il coinvolgimento dell'Autorità palestinese.

(Quotidiano Nazionale, 22 gennaio 2025)

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“Hamas resta al potere: per gli ostaggi pagheremo un prezzo molto alto”

Parla Kuperwasser

di Giulio Meotti

“Israele ha rinunciato a liberarsi dei terroristi in cambio dei rapiti. I nostri nemici invece hanno raggiunto molti dei loro obiettivi, assicurando la continuazione del loro governo a Gaza e il rilascio dei propri prigionieri”, dice l’ex direttore dell’unità di ricerca dell’intelligence militare di Tel Aviv
Questa guerra è un fallimento israeliano a Gaza. Hamas ha vinto. Non solo è riuscito a impedire a Israele di raggiungere i suoi obiettivi, ma ha anche raggiunto i propri: rimanere al potere”. Così Giora Eiland, ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano. Alcune “menti” dell’establishment di sicurezza di Gerusalemme esprimono scetticismo sull’accordo, mentre ieri il capo di stato maggiore Herzi Halevi ha annunciato le dimissioni, citando il fallimento del 7 ottobre. “L’accordo lascia Israele con emozioni contrastanti” dice al Foglio Yossi Kuperwasser, l’ex direttore dell’unità di ricerca dell’intelligence militare. “La gioia per il ritorno degli ostaggi è temperata dalla frustrazione per l’alto costo della sicurezza. Al contrario, Hamas e i suoi sostenitori nel mondo stanno festeggiando. Hanno raggiunto molti dei loro obiettivi, assicurando la continuazione del loro governo a Gaza e il rilascio dei prigionieri dalle carceri israeliane”.
Israele ha raggiunto metà dei suoi obiettivi di guerra: “Hamas ha subìto danni militari ma non politici e l’accordo non fornisce alcuna garanzia che Hamas non ricostruirà le sue capacità per riprendere gli attacchi contro Israele” prosegue Kuperwasser. “D’altro canto, Hamas ha raggiunto quasi tutti i suoi obiettivi di guerra, sebbene a un prezzo molto alto, molto più significativo di quanto inizialmente stimato, ma non tale da minare la sua capacità di rivendicare l’attacco del 7 ottobre come un successo”. La solidarietà familiare in Israele è fortissima: “Gli ostaggi li chiamiamo con il loro nome, Emily, Romy… Il prezzo della deterrenza non è stato accettato da tutti qui in Israele, siamo una democrazia molto solida e discutiamo. Strategicamente, il prezzo che abbiamo pagato è il risultato del disastro del 7 ottobre: perdere duecento persone catturate da Hamas. Non c’è alcuna garanzia nell’accordo che Hamas non si riarmerà e non resterà al potere a Gaza. Abbiamo inflitto un danno enorme a Hamas, ma non abbiamo occupato Gaza e rimosso Hamas dal potere. L’apparato di sicurezza era contrario, sarebbe stato troppo costoso per i soldati e per l’economia”.
Le immagini da Gaza testimoniano la sopravvivenza di Hamas. “E dalle immagini non vedi alcuna crisi umanitaria: la popolazione  celebra Hamas” dice Kuperwasser. “Per i palestinesi quello che è successo dimostra che Hamas ha ragione: vogliono distruggere Israele e liberare i loro prigionieri. Hamas nella loro mentalità ha compiuto un altro passo verso la fine di Israele e sono pronti a pagare un prezzo molto alto, anche la vita. Pensano di andare in Paradiso”. Anche la pressione dell’occidente ha avuto un ruolo nell’accordo: “Tutti sanno che le accuse di ‘genocidio’ erano false, ma hanno avuto un impatto molto forte. Noi israeliani sappiamo la verità, ma alcuni nostri ‘amici’ sono stati sopraffatti da questa propaganda e menzogne. Inoltre, dal mio periodo nell’esercito ricordo molto bene che quando discutevo con le mie controparti europee della necessità di combattere e sconfiggere i terroristi mi ripetevano le loro preoccupazioni sul numero di islamici che vivono in Europa”.
L’accordo ora sta eccitando l’islam radicale. “E probabilmente rafforzerà la posizione di Hamas tra l’opinione pubblica palestinese e  l’influenza dell’islam radicale in senso più ampio. Assisteremo a una maggiore radicalizzazione tra le comunità arabe e islamiche, incoraggiando potenzialmente tentativi a lungo termine di colpire entità israeliane, ebraiche e occidentali”.
L’islam radicale oggi ha tre grandi anime. “Alcune volte cooperano, altre si confrontano. C’è l’Iran che vuole diffondere la sua versione dell’islam, ma hanno perso la Siria, Hezbollah è ferito, lo stesso Iran ha subìto un attacco israeliano e si è dimostrato vulnerabile. Poi c’è il campo occupato da Isis e al Qaida, ultra radicali sunniti: hanno perso territori e potere dal 2015 e ora cercano di sopravvivere. Poi c’è un terzo campo che sta vincendo, l’islam radicale sunnita, molto pericoloso e sono i Fratelli musulmani, le fazioni oggi al potere a Damasco che si credono onnipotenti, Hamas, Erdogan e altri”.
  Donald Trump ha chiesto stabilità. “A Gaza temo Hamas che resta al potere, l’accordo ha garantito loro la fine della guerra e Hamas darà quella ‘stabilità’ che Trump ha chiesto, si riarmerà per un altro 7 ottobre” conclude Kuperwasser. “Hanno un’altra mentalità: non devono sottoporsi a elezioni ogni quattro anni, hanno tempo, pazienza e sono devoti alla causa: la distruzione d’Israele”.

Il Foglio, 22 gennaio 2025)

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«Impedire un 7 ottobre che parta dalla Cisgiordania»

La situazione in Medio Oriente continua a evolversi tra le tensioni in Cisgiordania, il futuro della Striscia di Gaza e le relazioni internazionali. Uno dei fronti sotto osservazione è l’area di Jenin, dove l’esercito ha avviato ieri una larga operazione anti-terrorismo denominata “Iron Wall”.
La Cisgiordania settentrionale, dove si trova Jenin, è stata descritta come «inondata di armi iraniane» da Yossi Amrosi, ex funzionario dello Shin Bet, in un’intervista alla Radio 103FM. Amrosi ha sottolineato che l’operazione “Iron Wall”, simile a missioni precedenti, riveste un’importanza strategica per prevenire attacchi terroristici in territorio israeliano. «Se Hamas in Cisgiordania avesse gli stessi strumenti di cui dispone a Gaza, tragedie come quella di Kfar Aza potrebbero ripetersi a Kfar Saba», ha avvertito Amrosi, alludendo all’attacco del 7 ottobre 2023 al kibbutz del sud d’Israele.
Secondo l’ex ufficiale dello Shin Bet, le tattiche militari impiegate a Gaza potrebbero essere adattate per le operazioni in Cisgiordania, inclusa l’evacuazione della popolazione da aree specifiche per condurre perquisizioni casa per casa fino a raggiungere ogni terrorista.
Parallelamente, la discussione sul “giorno dopo” a Gaza rimane al centro delle preoccupazioni israeliane e internazionali. Le recenti notizie su un possibile maggiore ruolo dell’Autorità nazionale palestinese nella gestione della Striscia hanno sollevato dibattiti. Secondo i media arabi, Israele avrebbe accettato, in incontri al Cairo, di consentire all’Anp di gestire il valico di Rafah con supervisione internazionale. L’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha smentito parzialmente queste ricostruzioni, sottolineando che l’Autorità guidata dal presidente Mahmoud Abbas ha attualmente un ruolo limitato e che il controllo del valico resta nelle mani di Tsahal e dello Shin Bet.
Il premier Netanyahu ha anche ribadito la sua opposizione a un ritorno dell’Anp a Gaza, accusandola di esaltare il terrorismo e di sostenere l’attacco del 7 ottobre. Tuttavia, alcuni membri dell’apparato di sicurezza israeliano considerano questa opzione il «male minore». Già nel 2024, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant aveva definito questa eventualità l’alternativa più praticabile per Israele.

Un accordo fra Gerusalemme e Riad?
  Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, sono tornate d’attualità le trattative per arrivare a una normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Il ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer ha negato che Israele abbia promesso, come parte di un accordo con Riad, di sostenere la creazione di uno Stato palestinese. «Non esiste alcuna promessa di questo tipo», ha dichiarato alla Knesset. Nelle stesse ore il presidente d’Israele, Isaac Herzog, ha sottolineato da Davos che il tema palestinese rimane centrale nei colloqui con i paesi arabi. Herzog, pur essendo un sostenitore della soluzione a due Stati, ha ammesso che l’attacco del 7 ottobre ha cambiato la sua visione. «Deve esserci un cambiamento nella politica palestinese», ha sottolineato il presidente israeliano.

(moked, 22 gennaio 2025)

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“Inizia l’era d’oro dell’America”

L’inaugurazione presidenziale di Donald Trump tra icone ebraiche e il saluto controverso di Elon Musk

di Pietro Baragiola

Lunedì 20 gennaio si è tenuto il 47° insediamento presidenziale nella storia degli Stati Uniti d’America.
Durante il suo discorso inaugurale il neopresidente Donald Trump ha annunciato l’inizio ‘dell’era d’oro dell’America’, affermandosi come un ‘costruttore di pace’ e citando il nuovo cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
“Sono lieto di dire che da ieri, un giorno prima del mio insediamento, i primi ostaggi in Medio Oriente sono tornati a casa dalle loro famiglie” ha affermato Trump, scatenando la standing ovation del pubblico. “Misureremo il nostro successo non solo dalle battaglie che vinceremo ma anche dalle guerre che concluderemo e, cosa forse più importante, da quelle in cui non entreremo mai”.
Diverse organizzazioni ebraiche si sono congratulate con il neopresidente e hanno dichiarato che non vedono l’ora di collaborare con lui nella lotta all’antisemitismo.
Secondo un sondaggio pubblicato dal Manhattan Institute, il 31% degli elettori ebrei ha sostenuto Trump nella sua rielezione, segnando il più alto livello di supporto ebraico per un candidato repubblicano dall’era Reagan.
Anche la cerimonia stessa è stata ricca di presenze ebraiche di spicco tra cui: Miriam Adelson, la miliardaria repubblicana sostenitrice della politica pro-Israele e donatrice di innumerevoli cause ebraiche; Ivanka Trump e Jared Kushner, la figlia e il genero ebrei di Trump fortemente coinvolti nella sua prima amministrazione; il CEO di Meta Mark Zuckerberg e il CEO di OpenAI Sam Altman.
“L’età dell’oro dell’America inizia proprio ora. Da questo giorno in poi, il nostro Paese rifiorirà e sarà rispettato in tutto il mondo” ha dichiarato Trump all’interno del Campidoglio, dove la cerimonia si è svolta al chiuso per la prima volta in decenni a causa delle basse temperature.

(Bet Magazine Mosaico, 22 gennaio 2025)

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Attentato a Tel Aviv, accoltellamento per mano di un terrorista marocchino

di Ludovica Iacovacci

Non c’è tregua che tenga sui vari fronti della guerra contro Israele. La sera di martedì 21 gennaio 2025, dopo tre giorni dal suo ingresso nel Paese, un marocchino ha compiuto un attentato terroristico contro israeliani a Tel Aviv. Almeno quattro persone sono state ferite nell’accoltellamento. Il terrorista è stato ucciso sul luogo dell’attentato.
Per compierlo, era arrivato in Israele il 18 gennaio come un semplice turista. L’aggressore era il cittadino marocchino di nome Abdell Aziz Kaddi, titolare di una carta verde degli Stati Uniti, secondo un documento d’identità trovato sul suo corpo.
Hamas ha rapidamente rivendicato l’attacco, salutando l’azione del “martire marocchino”. Seppur l’affiliazione del terrorista al gruppo palestinese al momento non ha potuto essere dimostrata, quest’ultimo aveva comunque pubblicato post sui social network, un anno fa, in cui glorificava le azioni di Hamas.
Il servizio di ambulanza di Magen David Adom ha detto che quattro persone sono state ferite nell’attacco a Nahalat Binyamin, a Tel Aviv. Le vittime includono due uomini di 24 e 28 anni in condizioni moderate e altri due di 24 e 59 anni in buone condizioni, ha detto il servizio medico. Uno dei feriti è un ufficiale di Tzahal che ha perso la mano nei combattimenti a Gaza e che è stato leggermente colpito mentre cercava di fermare il terrorista.
Un testimone oculare che si è trovato nell’area della sparatoria ha detto a Channel 12 News: “Abbiamo sentito uno sparo di arma da fuoco, abbiamo visto persone correre e poi siamo corsi in bagno. Siamo usciti per un momento per assicurarci che non fosse un rumore di una moto, abbiamo sentito un altro botto – e siamo corsi al rifugio vicino. Nel frattempo, abbiamo sentito molti veicoli”.
I testimoni oculari hanno detto ai media ebraici che il terrorista è arrivato su una moto guidata da un’altra persona che poi ha lasciato la scena. La polizia ha setacciato l’area circostante alla ricerca di possibili complici.
Il ministro dell’Interno Moshe Arbel ha detto che i funzionari dell’immigrazione avevano identificato il terrorista Kaddi come una minaccia quando è arrivato all’aeroporto Ben Gurion di Israele e hanno cercato di impedirgli l’ingresso. È stato consegnato ai funzionari della sicurezza per un interrogatorio. “All’ingresso del soggetto in Israele, è stato sottoposto a una valutazione della sicurezza che includeva il suo interrogatorio e controlli aggiuntivi, al termine dei quali è stato deciso che non c’erano informazioni che stabilissero motivi di sicurezza per impedire il suo ingresso in Israele “, ha detto lo Shin Bet, che sta compiendo un’indagine sull’incidente.
L’aggressore sembra aver pugnalato tre persone prima di correre in una strada adiacente, dove ha ferito una quarta persona. Le vittime sono state portate all’ospedale Ichilov della città.
Kaddi Abdell Aziz è volato da Casablanca, in Marocco, fino a New York nel 2022. Secondo quanto condiviso su Facebook, ha vinto una carta verde alla lotteria (ogni anno il “Diversity Immigrant Visa Program” rende disponibili gratuitamente un numero limitato di visti per immigrare permanentemente negli USA a persone che ne possiedano i requisiti). In precedenza, viveva a Zagora, nel sud-est del Marocco. Quando è arrivato negli Stati Uniti, ha vissuto a Brooklyn.
Un anno fa, il terrorista marocchino scriveva sul suo profilo Facebook: “Non c’è potere né forza, se non in Allah”, condividendo sostegno alla Striscia di Gaza e spiegando ciò che lui stesso avrebbe compiuto attentati in futuro. In riferimento a Gaza, scriveva: “Per quanto riguarda l’Islam, è quella religione che, se la combatti, diventa più forte, e se la lasci vivere, si espande. Coloro che sono stati più miscredenti e politeisti hanno cercato di fermarla, ma non sono riusciti. E i musulmani, all’epoca, non riuscivano nemmeno a difendersi. Ciò che sta accadendo ora potrebbe portare all’ingresso di un numero di martiri ancora più grande nell’Islam…”.
La sera di martedì 21 gennaio 2025, è stato compiuto il secondo accoltellamento terroristico in tre giorni nella metropoli israeliana di Tel Aviv. L’attacco infatti è arrivato 72 ore dopo che un uomo sulla trentina è stato gravemente ferito in un altro accoltellamento ad opera di un terrorista palestinese di nome Salah Yahye, di Tulkarem, in Giudea e Samaria, dove secondo fonti della Difesa risiedeva illegalmente.

(Bet Magazine Mosaico, 22 gennaio 2025)

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Le prime mosse di Trump verso Israele

di Ugo Volli

Un cambio politico importante
  L’insediamento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti non è stato solo un grande rito di continuità democratica, ma soprattutto una svolta politica di grandissima importanza per tutto il mondo e in particolare per Israele. L’amministrazione precedente aveva un atteggiamento ambiguo nei confronti dello Stato ebraico: ne voleva certamente la sopravvivenza ed è intervenuta in appoggio a Israele nei momenti più critici della guerra, come il primo periodo di shock e confusione o i bombardamenti iraniani; ma per ragioni “umanitarie” e anche di “equilibrio politico” non voleva che Israele ottenesse una vittoria decisiva. Fino all’ultimo si è temuto che Biden ripetesse il tradimento di Obama quando otto anni fa, dopo la sconfitta democratica alle elezioni presidenziali, lasciò passare senza veto una delibera del consiglio di sicurezza dell’Onu assai pericolosa per Israele. Non è accaduto, anche grazie all’accettazione del governo israeliano di un accordo di tregua che sostanzialmente è quello proposto dall’amministrazione Biden otto mesi fa.

Continuerà Trump la politica della prima presidenza?
  Ora la palla è passata a Trump, la cui prima presidenza è ricordata come quella che ha aiutato Israele forse meglio di ogni altra, con lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, che fu un’accettazione importantissima del diritto dello Stato ebraico alla sua Capitale, l’altro riconoscimento dell’annessione dell’altopiano del Golan e soprattutto gli “accordi di Abramo” che hanno ampliato molto i rapporti economici e politici fra Israele e gli Stati arabi, reggendo fra l’altro anche allo stress della guerra, anche meglio di quanto non sia accaduto con molti stati occidentali ed europei. Ora è naturale chiederci se questo aiuto andrà avanti e come. Trump ha designato diversi amici di Israele in posizioni chiave dell’amministrazione, ma ha lasciato posto anche a collaboratori legati al mondo arabo, come Steve Witkoff, inviato per il Medio Oriente e uomo chiave della tregua, che ha notoriamente forti legami di lavoro con il Qatar o Massad Boulos per il Libano. Il modo in cui il nuovo presidente prima della nomina ha condotto i negoziati per la tregua a Gaza (e prima ha sostenuto quella in Libano) mostrano che l’aiuto a Israele non è incondizionato e che egli conduce un suo gioco politico nell’interesse degli Usa, per come li intende lui, imponendo agli alleati di accettarlo e sostenerlo.

I rapporti con Netanyahu
  Un segnale in questo senso è stato anche il mancato invito di Trump al primo ministro Netanyahu alla cerimonia del suo insediamento, a differenza di quel che è accaduto con altre personalità di governi di centrodestra, come l’italiana Meloni e l’argentino Milei. Forse ha pesato l’offesa che Trump ha dichiarato con molta rabbia quattro anni fa quando Netanyahu si congratulò rapidamente con Biden per una vittoria elettorale che Trump contestava. Forse è stato un modo per metterlo a posto e segnalargli che deve conquistarsi il benvolere della nuova amministrazione. Netanyahu comunque ha inviato fra i primi un pubblico videomessaggio di congratulazioni al nuovo presidente e fra gli invitati alla cerimonia c’erano esponenti delle comunità ebraiche in Giudea e Samaria e parenti dei rapiti, che hanno anche avuto l’occasione preziosa di un breve incontro con Trump in questa densissima giornata. Si sa che sono in corso trattative per un incontro fra Trump e Netanyahu a breve termine.

Segnali politici non chiari
  Per quanto riguarda la politica americana sulla guerra, vi sono stati dei segnali abbastanza confusi. Si è letto che il presidente stava prendendo in considerazione l’ipotesi di far emigrare parte della popolazione in un paese terzo, forse addirittura l’Indonesia, durante il periodo di ricostruzione della Striscia. Il presidente ha anche dichiarato che Hamas non potrà partecipare all’amministrazione di Gaza dopo la fine della guerra, probabilmente neanche in associazione con l’Autorità Palestinese. Netanyahu ha affermato di aver avuto da Trump assicurazioni verbali di poter riprendere la guerra alla fine della prima fase dell’accordo se i negoziati fallissero e Hamas si riorganizzasse politicamente e militarmente, ma il presidente americano parla come se il conflitto fosse finito e se farlo ripartire fosse un insulto per lui. Trump ha anche dichiarato di voler sostenere ed estendere all’Arabia Saudita gli accordi di Abramo, ma non ha inserito nella sua nuova amministrazione chi li aveva sostenuti e negoziati come il genero Jared Kushner. È difficile leggere una politica chiara in queste dichiarazioni; del resto si sa che Trump fa della sua imprevedibilità una tattica diplomatica costante. Una risposta si potrà avere solo a fine febbraio, quando scadrà la prima fase della tregua. Sull’Iran, che è il tema più importante per il futuro Medio Oriente, la politica della nuova amministrazione non si è ancora chiarita

I primi decreti
  Per il momento vale la pena di considerare altri segnali che vengono dalla raffica di provvedimenti presidenziali che Trump ha adottato immediatamente dopo l’insediamento. Uno di questi riguarda gli abitanti degli insediamenti in Giudea e Samaria, che erano stati oggetto di sanzioni da parte di Biden: Trump le ha subito cancellate. Un altro riguarda l’UNRWA, per cui Trump ha ordinato la cancellazione di tutti i finanziamenti, nell’ambito di una revisione di tutti gli impegni di spesa internazionale degli Usa. C’è stato anche l’ordine di consegnare a Israele le armi che l’amministrazione Biden tratteneva come arma di ricatto per Israele. Tutti segnali positivi, che mostrano la disponibilità più volte dichiarata da Trump di permettere a Israele di difendersi con tutta la forza necessaria.

(Shalom, 21 gennaio 2025)

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I dubbi di Trump sulla tregua a Gaza

«Non sono fiducioso». Ad appena tre giorni dall’inizio della tregua a Gaza e il rilascio dei primi ostaggi, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha espresso il proprio scetticismo sulla tenuta dell’accordo fra Israele e Hamas. Nelle prime ore del suo secondo mandato, Trump ha firmato alcuni ordini esecutivi dallo Studio Ovale e risposto alle domande dei giornalisti. Una era su Gaza: se il presidente ha fiducia che l’accordo venga completato nelle sue tre fasi. «Questa non è la nostra guerra. È la loro guerra. Non sono fiducioso,» ha risposto Trump. «Ma penso che dall’altra parte siano molto indeboliti,» ha aggiunto, riferendosi a Hamas.
  La prima fase dell’intesa prevede una tregua di 42 giorni e la scarcerazione di centinaia di detenuti palestinesi in cambio della liberazione di 33 ostaggi israeliani. Tre rapite sono state liberate il 19 gennaio e altre quattro, secondo quanto dichiarato dal gruppo terroristico, dovrebbero essere rilasciate il prossimo 25 gennaio. Hamas non ha fatto nomi, ma indicato che si tratterà di quattro donne.
  Trump si è soffermato anche sulla situazione di Gaza, distrutta dai 15 mesi di guerra scatenata dalle stragi di Hamas. Il presidente ha descritto l’area come «un enorme sito di demolizione» che dovrà essere «ricostruito in modo diverso». Gaza, ha aggiunto, «è in una posizione fenomenale», sul Mar Mediterraneo, con un «clima straordinario,» e «lì si potrebbero realizzare cose incredibili, progetti fantastici». Alla domanda se intendesse contribuire alla ricostruzione dell’enclave palestinese, il presidente ha risposto: «Potrei».
  Rimanendo in Medio Oriente, Trump ha anche sostenuto che un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita potrebbe essere firmato «presto», ma non ha dato ulteriori dettagli a riguardo. Tra gli ordini esecutivi che ha firmato, uno ha cancellato le sanzioni contro dodici israeliani ritenuti dalla precedente amministrazione Biden una minaccia per «la pace, la sicurezza e la stabilità in Cisgiordania». Il provvedimento è arrivato nelle stesse ore in cui gruppi di estremisti israeliani hanno attaccato il villaggio palestinese di al-Funduq, in Cisgiordania, per protestare contro il cessate il fuoco a Gaza. Un’azione denunciata dall’esercito israeliano e stigmatizzata dal ministro della Difesa, Israel Katz. «Condanno fermamente qualsiasi attacco e violenza contro i palestinesi», ha affermato il ministro.

(moked, 21 gennaio 2025)

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È ora di finirla con l’abracadabra dei “due stati per due popoli”

Si mettano il cuore in pace i fautori della formula dei due stati. Quello palestinese non ci sarà mai

Avete mai sentito un palestinese parlare della formula “due stati per due popoli”? Magari qualcuno ce ne sarà in qualche meandro di Gaza o della Cisgiordania, ma a me non è mai capitato. Chiedono la nascita della Palestina, ma non usano mai quella formuletta tanto cara ai beoti occidentali.
Trovare un palestinese che chiede “due stati per due popoli” è come trovare un ago in un pagliaio, peggio, è come trovare un gruppo di opposizione palestinese ad Hamas, o alla Jihad Islamica o persino a Fatah. È impossibile, non ce ne sono. E se non esistono un motivo ci sarà.
Più facile, molto più facile, trovare chi vuole una Palestina “dal fiume al mare”. Ecco perché è sostanzialmente impossibile distruggere Hamas come aveva dichiarato Benjamin Netanyahu subito dopo il massacro del 7 ottobre. I palestinesi sono Hamas, tutti, con poche rare distinzioni sia a Gaza che in Cisgiordania.
Chi continua a chiedere “due stati per due popoli” o non ha capito niente dei palestinesi, oppure è in malafede e usa questa formula per intendere uno stato palestinese dal fiume al mare, cioè senza Israele.
In queste ultime ore ho letto decine di analisi sul cessate il fuoco tra Israele e Hamas entrato in vigore domenica mattina e che ha prodotto la liberazione di tre ostaggi. Quasi tutti convengono che questo cessate il fuoco sia un regalo ad Hamas.
Ran Baratz, che insegna dottrina militare al National Defense College dell’IDF e ha fondato Mida, una rivista online in lingua ebraica, sintetizza benissimo il pensiero diffuso in Israele:
«io e molti altri cittadini israeliani vediamo il costo in vite umane, il costo del finanziamento della guerra, che è enorme, il costo per le riserve [dell’IDF] – 100.000 persone che lasciano le loro attività, lasciano il loro lavoro – e non si ha un risultato decisivo. Dal nostro punto di vista, la realtà è ben lontana da ciò che vorremmo vedere».
Nei commenti e nelle analisi ho letto sconcerto e delusione, sebbene mitigati dalla prospettiva di recuperare gli ostaggi ancora vivi. Gli unici ottimisti sono i molti occidentali che in questo cessate il fuoco vedono la fine della guerra e l’inizio del tanto agognato percorso verso i due stati.
Quale percorso? Mentre Hamas si mostrava di nuovo al mondo ed esponeva le tre ragazze ostaggio come un trofeo, tutto attorno si poteva udire «morte a Israele» è canti di elogio per i terroristi e per il massacro del 7 ottobre.
Eccoli i vostri “innocenti palestinesi” che invece di maledire Hamas, unico responsabile della guerra, lo porta in trionfo. È con questi che Israele dovrebbe vivere fianco a fianco “in pace” in quel abracadabra dei “due stati per due popoli”?
E poi mancano fondamentalmente due cose: manca un popolo, quello arabo, e manca la volontà da ambo le parti di far nascere uno Stato palestinese. I palestinesi non lo vogliono perché ormai sono drogati dagli aiuti. Vivono di aiuti e vittimismo. Forse è per questo che hanno tutto questo tempo per odiare Israele. Gli israeliani non lo vogliono perché hanno capito che la formula “in pace uno a fianco all’altro” con i palestinesi non può funzionare.
E allora di cosa stanno parlando quelli che chiedono la pace? La pace con chi? Di cosa parlano quelli che chiedono due stati per due popoli che vivono in pace uno a fianco dell’altro? Del nulla. Parlano del nulla, di qualcosa di utopico.
Il mondo ha gestito decine di grandi migrazioni e gli arabi non vi hanno mai partecipato, nemmeno quando riguardava loro fratelli come in Siria o in Sudan. Bene, ora hanno la possibilità di redimersi e di dare qualcosa ai palestinesi che non siano missili e mitra. Il mondo arabo si prenda in carico i palestinesi e pensi a eliminare Hamas e tutto il marciume che contamina questa gente. Lo Stato palestinese non esisterà mai.

(Rights Reporter, 21 gennaio 2025)

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«L’Occidente che nega sé stesso genera il nuovo antisemitismo»

Intervista a Vittorio Robiati Bendau. L’intellettuale ebreo: «La cultura woke scardina le fondamenta liberali. Gaza è stata il via libera all'odio, che ha trovato nella sinistra israeliana un alleato ìnatteso»

di Carlo Cambi

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Vittorio Robiati Bendaud

«Sarà un libro destinato a fare rumore». Vittorio Robiati Bendaud emerge da un (troppo) lungo silenzio mettendo in ordine le carte del suo ultimo saggio. Si è ritirato in compagnia di api e cani. Siamo in epoca di genocidi presunti; probabilmente leggeremo di un genocidio vero, costante e silente. Resta una pietra miliare, quasi profetico se non fosse che parlare di profeti con Vittorio significa inerpicarsi lungo le impervie vie della teologia, il suo La stella e la mezzaluna: breve storia degli ebrei nei domini dell'Islam (Guerini editore) uscito già 7 anni fa, ma attualissimo. Vittorio è uno degli intellettuali ebrei italiani della nuova generazione: metà italiano, metà ebreo di Libia, è geneticamente costituito come ponte tra croce e stella; l'essere stato allievo prediletto del rabbino Giuseppe Laras, aver partecipato al dialogo fecondo tra Laras e il cardinale di Milano Carlo Maria Martini, e aver seguito per anni il tribunale rabbinico fa di lui l'uomo della preveggenza del mondo ebraico.

- Reggerà la tregua a Gaza? Gli ultraortodossi ce l'hanno con Netanyahu, anche se ci hanno detto che era Bibi a non volere l'accordo?
  «Se reggerà non so dirlo, ci sono molte volontà da tenere insieme. Però una cosa è chiarissima: chi voleva annientare Israele ha capito che era il momento giusto. Stavolta c'era davvero di mezzo la sopravvivenza, la dignità e la credibilità di Israele. Dunque la sinistra israeliana, non sapendo resistere alle pressioni esterne, ha dato l'idea che Bibi fosse contestato: Netanyahu è diventato il parafulmine. Egualmente oggi nella politica interna c'è chi teme di non riuscire a proteggersi. Perché la verità è che Gaza è stato il via libera all'odio antisemita che non si è mai sopito».

- Le piazze pro Pal sono in realtà piazze antiebraiche?
  «Con le piazze possiamo dire che è saltato il banco, l'antisemitismo ha mantenuto intatte le sue strutture. È una brace sempre accesa che ha covato sotto la cenere. Ora la cenere è stata soffiata via, dimostrando che sono cambiate le forme dell'antisemitismo ma non la sostanza. Una parte dell'opinione pubblica occidentale, i giovani sono aizzati dai maftre à penser e da una certa stampa che invocano l'antisionismo, ma in realtà è odio antiebraico. Chi lo fomenta sa di avere più sponde su cui lavorare. Sa anche che c'è un enorme disparità, anche numerica, tra chi sta con Israele e gli ebrei, e chi è contro, e Israele non è riuscito a invertire la narrazione mainstream. Gli antisemiti trovano un alleato inatteso nella sinistra israeliana che produce un'eterogenesi dei fini: vuole difendere Israele indebolendone il governo e finisce per alimentare l'antisemitismo attraverso l'antisionismo».

- Visto da Israele, questo rigurgito antisemita com'è?
  «Spero di sbagliarmi, ma mi pare che Israele sia un Paese avanti di 30 anni rispetto all'Europa sulla strada del decadimento. Parte consistente della popolazione israeliana è araba. Ma questo popolo musulmano non è un monolite, la maggioranza sa che le conviene vivere in Israele rispetto a qualsiasi Paese islamico vicino. Diverso è il discorso per gli ebrei che sono polarizzati. Potrei rappresentarlo con due città: Tel Aviv ultralaica, modernista; Gerusalemme, con scenari stupendi ma aspra, rocciosa, arroccata. Ci sono gli ultralaici e gli oltranzisti religiosi. Per tentare di governare una società così composta e contrastante servono quattro condizioni: una certa diffusa prosperità economica minima; l'ascensore sociale; una formazione scolastica di base di altissimo livello; un codice simbolico sociale condiviso, di identificazione e di riferimento, che mitighi anche gli istinti brutali del capitalismo. In Israele oggi, escluse alcune università di altissimo livello, il resto scarseggia. Ed è quello che sta capitando anche in Occidente, il che rende le nostre società liberali estremamente vulnerabili dai potentati economici esterni e, in particolare, da parte dell'islam, tanto in economia che in demografia. La cosa mirabile è che oggi Israele regge assai di più di quanto ci saremmo immaginati».

- Ma la soluzione può essere «due popoli due Stati»?
  «Ho visto una vignetta che rende ragione di questo luogo comune. Si rappresenta Macron che è incredulo di fronte all'ingovernabilità e alle rivolte delle banlieues con Netanyahu che lo guarda e ripete, circa Parigi: "Due popoli due Stati". Per fortuna in Italia c'è Giorgia Meloni, che si prodiga per fugare ciò che accade in Francia e altrove; con l'implosione della società si tiene distante dagli istinti retrivi e oppositivi delle destre feroci. Certo è che la soluzione non può essere né il cupio dissolvi delle sinistre, che vorrebbero sotto sotto cancellare Israele; né l'attrazione che le destre feroci hanno verso il dispotismo dei Paesi islamici; né quel pacifismo etereo propugnato in maniera serafica dalla Chiesa cattolica. Ed è tutto da vedere che effettivamente esista una soluzione decente e praticabile... Guardando alla Palestina, oggi esiste una realtà islamica locale che si definisce palestinese. Ma è complicato, perché se togli gli ebrei, che peraltro hanno caratteristiche diversissime gli uni dagli altri - dall'etiope al tedesco, passando per l'iracheno, il persiano e il marocchino-, pensando all'identità araba hai dei grandi polmoni storicamente e linguisticamente ben identificabili: quello nordafricano occidentale, il Maghrib; l'Egitto ex copto e islamizzato; quello del Levante, il Mashriq; la Penisola arabica. Gli arabi, storicamente, si identificavano in questo grande, e glorioso, popolo e in queste macroaree. In realtà, con il disfacimento dell'Impero ottomano - che era sì un impero islamico, ma non arabo, a cui gli arabi erano assoggettati - , sono stati disegnati degli Stati che sono qualcosa di nuovo in questa situazione. Ragionare di un'identità nazionale specifica in quel contesto non è semplice e, specie per il pubblico occidentale ignaro, veicola cortocircuiti e menzogne, perlopiù in chiave antisraeliana».

- Torniamo sull'antisemitismo: si sa che dalla Francia gli ebrei sono fuggiti. E in Italia? Cresce la preoccupazione dopo le intimidazioni?
  «Mah, mi chiedo quando non ci sia stato l'antisemitismo. Tuttavia, l'Italia per diverse ragioni - e parlo anche di quel sedime culturale cattolico tradizionale, che non è stato ancora divelto - è ancora indietro nella recrudescenza antisemita rispetto ad altri Paesi europei. Abbiamo anche un governo che ha persone intelligenti e coglie almeno parte del fenomeno, o quantomeno non lo nega. Tuttavia, dobbiamo analizzare alcune ragioni ulteriori di questo nuovo antisemitismo. Credo che risieda nel fatto che l'Occidente ha abbandonato sé stesso. La disgrazia della "cultura" woke; l'aver ormai assimilato, senza scandalo alcuno, che Dio sia davvero morto, in senso nietzschiano; la sfiducia nel diritto e nella scienza occidentali, come pure nelle riserve di senso bibliche e greche, sono elementi di disgregazione. Ci sono i sintomi della sclerotizzazione della società in una struttura piramidale classista, che piace alle destre estreme, perché definisce un ordine; ci sono nuove tentazioni eversivo totalitarie di una sinistra priva di nerbo, che si definisce progressista ma che vuole liquidare i principi liberali. Ci sono chimere rosa, green e da Image, con i loro manifesti politici e paraortodossie di risulta. C'è una Chiesa cattolica appassita, che cavalca e l'uno e l' altro, cercando di sopravvivere almeno come religione sociale funzionale a questo disastro, almeno finché dura: è il presente pontificato. Se salta il baluardo della difesa della libertà - quella libertà di cui ha parlato Meloni al suo insediamento, che è quella per cui si può anche morire e per cui si ha il dovere di difendersi -è tutto finito. Pensiamo alla cultura - si fa per dire - woke che tende a scardinare i fondamenti liberali e tutto ciò che l'ha preceduta: è l'anticamera di una nuova gerarchizzazione della società e dunque della schiavitù. Ma non dobbiamo perdere la speranza, paradossalmente forse anche nell'islam».

- Come nell'islam?
  «Moltissimi musulmani sono persone di intelligenza raffinata, e sanno perfettamente che loro hanno bisogno dell'Occidente, non solo in senso economico e strategico. Ma di un Occidente che fa il suo mestiere, e che non si cala le brache o accarezza, per narcisismo, attitudini politiche, culturali ed economiche suicidarie. La riprova ce l'abbiamo con il fatto che i cosiddetti patti di Abramo hanno tenuto e tengono, anche nella crisi di Gaza e nonostante questa. Se credo che il "genio" proprio dell'islam possa sovvertire le derive panislamiche e totalitarie o incanalarle altrimenti, l'altra speranza è di mettere in gioco noi, come fecero i Maccabei, le nostre residuali migliori energie e fonti di senso: grecità e Bibbia, con orgoglio e senza inibizioni».

- Ma il fine ultimo non è la umma islamica?
  «Sì, però i musulmani, anzi meglio gli arabi, sanno che anche la loro società può andare incontro a delle trasformazioni; sanno che oggi i paradisi fiscali sono loro (l'Occidente ha abdicato anche in questo); sanno che il genio islamico ha bisogno di un confronto e uno scambio con l'Occidente, che però deve ritrovarsi. Deve avere un'idea, un centro gravitazionale che si colloca in quell'idea complessa di libertà, erede della Grecia e poi della tradizione giudaico cristiana, che esige però un corrispettivo: il collante umano non si deve erodere appiattendosi sul liberismo economico, che pur resta gran cosa. Penso che i musulmani posti di fonte a questo Occidente possano semplicemente trovare conveniente venire a patti, ma anche apprezzare».

- Un'ultima osservazione: Papa Francesco pare andare più d'accordo con l'islam che con Israele. Sono tramontati i tempi in cui Wojtyla vi chiamava «fratelli maggiori»?
  «Il rapporto tra ebraismo e cattolicesimo è in profonda crisi, anche per lo sconquasso interno che attanaglia il cristianesimo. E poi non ci sono più i Giovanni Paolo II, i Benedetto XVI, o cardinali come Kasper, Martini o Biffi, diversissimi tra loro ma di indubbio spessore. Tuttavia, mi rendo conto della solitudine di questo Papa, in tempi duri, con faide interne, provato dall'età, con due miliardi di fedeli, almeno sulla carta, in crisi, e sfide culturali e religiose per cui nessuna diocesi occidentale è pronta. Da esterno penso questo: o il cristianesimo superstite sarà dialogico con l'ebraismo, o non sarà. E i nostri sono tempi in cui, a questo proposito, si sta rischiando il tutto per tutto. E forse quei cristiani tanto censori dell'ebraismo e di Israele, con vecchi e nuovi stilemi, sia teologici sia politici alla mano, non si sono resi ben conto di quanto rischiano circa la loro stessa esistenza nel prossimo e - ancor più - nel lungo futuro, incrinata da loro stessi»,

(La Verità, 20 gennaio 2025)

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“Hanno diffuso informazioni malevole, false e tendenziose”: Wikipedia annuncia il bando dei suoi redattori antisemiti

di Pietro Baragiola

Venerdì 17 gennaio la Anti-Defamation League (ADL) ha annunciato che diversi redattori anti-israeliani di Wikipedia saranno banditi dalla piattaforma online per via dei loro ripetuti tentativi di utilizzarla come mezzo per diffondere retorica antisemita e disinformazione sulla guerra tra Israele e Hamas.
  La decisione è stata stabilita dalla commissione arbitrale di Wikipedia che ha messo in atto una lunga indagine sugli articoli modificati dai suoi utenti e nei prossimi giorni procederà alla votazione finale.
  Gli utenti indagati che oggi rischiano il bando sono Iskandar323, Selfstudier, Nableezy, Levivh, Nishidani e Ivana. Quest’ultima in passato era stata nominata redattrice esperta di Wikipedia ma, in seguito alle sue dichiarazioni antisemite e al fatto di utilizzare come immagine profilo il triangolo rosso anti-Israele, era stata bandita temporaneamente dalla piattaforma. Oggi Ivana rischia il banno perenne.
  “Tutti questi individui hanno diffuso informazioni malevole, false e tendenziose sul sionismo e su Israele attraverso Wikipedia” ha affermato l’ADL in un comunicato rilasciato in questi giorni. “E siamo davvero lieti che la commissione arbitrale della piattaforma abbia preso provvedimenti disciplinari contro questi redattori.”

L’indagine di Wikipedia
  A partire dal 7 ottobre 2023 la commissione di Wikipedia ha registrato un gran numero di commenti antisemiti sulle pagine inglesi della propria piattaforma che tendono ad enfatizzare solo gli aspetti negativi d’Israele, basandosi su fonti filopalestinesi.
  Una delle questioni che ha scatenato maggiore scandalo è stata la modifica della definizione di ‘sionismo’ che oggi sul sito viene indicato come una nuova forma di colonialismo non lontano da quello messo in atto dagli europei nella loro conquista delle Americhe. Secondo quanto riportato da Wikipedia infatti ‘i sionisti volevano creare uno Stato Ebraico in Palestina con più terra, più ebrei e meno arabi palestinesi possibile’.
  Inizialmente, come spiegato dalla ricercatrice Shlomit Aharoni Lir al sito Ynetnews, ‘i tentativi di coinvolgere i comitati responsabili ad agire non hanno prodotto alcun risultato’, ma a dicembre 2024 il giornalista investigativo Ashley Rindsberg è riuscito a presentare un report dettagliato in cui illustra ben 850.000 informazioni scorrette su 10.000 articoli di Wikipedia riguardanti il conflitto in Medio Oriente.
  “Ogni giorno milioni di persone ricevono informazioni su Wikipedia che sono state prodotte in realtà da una campagna antisemita mirata e condotta da 40 redattori propalestinesi” ha dichiarato Rindsberg al sito Algemeiner, incolpando l’organizzazione Tech for Palestine di offrire sostegno a questi utenti nel rimodellare l’aspetto del conflitto a favore dei palestinesi.
  Le modifiche apportate variano da rapidi ritocchi (l’eliminazione dei legami tra la storia ebraica e la terra d’Israele) a grandi alterazioni come l’omissione delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre e, grazie al report di Rindsberg, hanno costituito prove sufficienti per spingere il comitato di Wikipedia a procedere con l’indagine e accusare gli utenti responsabili.

Il sostegno dell’ADL
  Fondata nel 1913, l’ADL è oggi la principale organizzazione al mondo dedita alla lotta all’antisemitismo. Secondo quanto riportato sul suo sito, la missione principale dell’associazione è quella di ‘fermare la diffamazione del popolo ebraico, proteggere la democrazia e garantire la giustizia e l’inclusività per tutti’.
  A giugno 2024 diversi redattori filopalestinesi di Wikipedia hanno votato per etichettare l’ADL come ‘generalmente inaffidabile’ sull’antisemitismo e sul tema del conflitto israelo-palestinese, inserendola in un elenco di fonti proibite.
  I responsabili dell’ADL hanno segnalato questa mossa come una campagna coordinata per infangare la credibilità dell’organizzazione, arrivando a modificarne la pagina su Wikipedia.
  “Vale la pena notare che molti dei principali istigatori della campagna contro l’ADL sono tra coloro che oggi stanno affrontando divieti tematici e il rischio di bandi perenni per il loro comportamento” ha affermato Jonathan Greenblatt, amministratore delegato e direttore dell’ADL. “È imperativo che Wikipedia inizi a lavorare immediatamente per rimediare ai numerosi problemi causati da questi redattori disonesti ma prolifici che hanno portato scompiglio sulla piattaforma, infierendo danni incalcolabili a centinaia di voci su Israele, sul massacro del 7 ottobre, sul sionismo e altri argomenti relativi all’antisemitismo.”
  Secondo il Jewish Journal anche due redattori pro-Israele rischiano di essere banditi dalla piattaforma per via dei loro comportamenti ma, nonostante ciò, l’ADL ha invitato il comitato a procedere con le votazioni e le eliminazioni di chiunque possa compromettere il racconto veritiero del conflitto in Medio Oriente.
  “La strada è ancora lunga e c’è molto da fare per garantire che Wikipedia sia all’altezza della sua politica di imparzialità promossa in tutto il mondo” ha concluso Greenblatt nel comunicato.

(Bet Magazine Mosaico, 21 gennaio 2025)

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A proposito di vigliacchi e masochisti

Quello che ieri probabilmente ha sorpreso molte persone sono  le folle di terroristi di Hamas armati e ripuliti. Improvvisamente, la Striscia di Gaza si è riempita di nuovo di terroristi in uniforme che non erano mai stati visti, o solo raramente, durante la guerra di Gaza. Ogni tanto si vedevano terroristi in abiti civili o in pigiama, con RPG e stivali di pelle. Negli ospedali, i “coraggiosi” terroristi si travestivano da infermieri o medici, altrimenti si nascondevano nei tunnel sotterranei. Poi ieri c'è stato lo scambio di ostaggi e improvvisamente si sono visti i terroristi armati fino ai denti, con fasce verdi e giubbotti. Ovunque ci fossero telecamere, si sono messi a gridare e a spingere la folla palestinese come se avessero tutto sotto controllo. E non solo questo, anche la cosiddetta popolazione civile ha applaudito i terroristi come se nulla fosse accaduto. Hamas è responsabile della catastrofe nella Striscia di Gaza e la popolazione civile fa il tifo per Hamas. A.W.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Riassumendo tutte le foto e i filmati di ieri sul comportamento dei palestinesi a Gaza, devo concludere che i palestinesi di Gaza sono masochisti. Persone che raggiungono la piena “soddisfazione sessuale” subendo umiliazioni, dolore e agonia perché glorificano i loro terroristi di Hamas come fossero eroi, e invece sono topi che si nascondono davanti ai soldati israeliani. Durante la guerra, Hamas ha rubato gli aiuti internazionali e li ha venduti alla popolazione povera per un sacco di soldi. Eppure la gente continua a ballare intorno ad Hamas. Ladri e altri criminali vengono colpiti ai piedi dai terroristi di Hamas come punizione - e i palestinesi continuano a ballare. Tutto è in rovina e i palestinesi vengono spostati da un luogo all'altro per mettersi al sicuro su richiesta di Israele. Anche nelle zone di sicurezza, i loro eroi si sono trincerati tra i civili, causando molti morti e feriti tra i palestinesi innocenti. Le loro vite sono miserabili e cosa fanno i palestinesi? Applaudono Hamas per la loro “vittoria”. Non sono forse masochisti? I terroristi palestinesi sono vigliacchi e i palestinesi sono masochisti.
Ora vedremo questo spettacolo di terroristi palestinesi che si vantano davanti alle telecamere e applaudono intorno a loro ogni sette giorni per le prossime sei settimane.
Hamas vuole guadagnare tempo per riprendersi militarmente, per riarmarsi con armi fatte in casa, soprattutto razzi, provenienti dalle officine contrabbandate nei tunnel, e per reclutare più giovani in caso di ripresa dei combattimenti. Dal punto di vista di Hamas, ogni giorno in cui non si combatte nella Striscia di Gaza diminuisce i successi militari di Israele. Inoltre, l'aumento degli aiuti umanitari per la Striscia di Gaza concordato nell'accordo di cessate il fuoco rafforza Hamas. 600 camion di aiuti umanitari che arrivano nella Striscia di Gaza ogni giorno durante i 42 giorni di cessate il fuoco permettono ad Hamas di immagazzinare cibo, acqua e carburante in più nel caso in cui i combattimenti si riaccendano e di guadagnare denaro extra vendendo i pacchi di aiuti sui mercati di Gaza.
Fonti vicine ad Hamas nella Striscia di Gaza affermano che la strategia di Hamas ora è quella di guadagnare tempo e cercare di trasformare il cessate il fuoco temporaneo in uno permanente.
Alti funzionari della sicurezza ritengono che Hamas stia scommettendo sul fatto che il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump non permetterà a Israele di riprendere i combattimenti, poiché è interessato alla calma per realizzare i suoi piani regionali. Hamas sarà quindi pronto a fare concessioni nella seconda fase dell'accordo, che dovrebbe iniziare il 16° giorno della prima fase, per guadagnare più tempo possibile. In questo modo, spera di aumentare la pressione interna delle famiglie dei rapiti sul governo israeliano e di costringere Israele a firmare un cessate il fuoco permanente che perpetui il dominio di Hamas nella Striscia di Gaza e fissi l'immagine di una sua vittoria, secondo cui Israele non ha raggiunto i suoi obiettivi di guerra e Hamas non si è sottomesso.
FOTO
I palestinesi tornano alle loro case a Rafah, dopo l'annuncio del cessate il fuoco tra Hamas e Israele il 19 gennaio 2025

Una tale vittoria rafforzerebbe ulteriormente la posizione di Hamas tra i palestinesi e lo posizionerebbe come una potenza regionale che non può essere ignorata in nessun piano politico che l'amministrazione Trump voglia portare avanti nella regione. Secondo fonti israeliane, Hamas cercherà di non dare a Israele un pretesto per una ripresa dei combattimenti nella Striscia di Gaza. Non escludono però che Hamas cerchi di nascondere gli ostaggi israeliani con il pretesto di non sapere che fine abbiano fatto, per avere spazio di negoziazione in caso di cessate il fuoco permanente nella Striscia di Gaza. E’ in questo modo che vogliono continuare a ricattare Israele.
In base all'accordo di cessate il fuoco, la libertà di azione di Israele è fortemente limitata e deve negoziare con Hamas l'attuazione della seconda fase dell'accordo senza riprendere le ostilità. Fonti della sicurezza affermano che probabilmente Hamas prolungherà i negoziati e sarà il più flessibile possibile per vincolare Israele, in modo da rendere impossibile la ripresa dei combattimenti. Ma da tutto questo dipende anche il futuro degli altri ostaggi e dei nostri soldati. Israele deve trovare un escamotage creativo per liberare anzitutto le sorelle e i fratelli israeliani dalla prigionia a Gaza e poi distruggere Hamas. Ma come? Questo è ciò che deve fare il governo di Sion.
Attaccare le infrastrutture militari di Hamas non è sufficiente, bisogna attaccare le capacità civili e di governo di Hamas per instaurare un governo militare israeliano temporaneo e, nel frattempo, preparare un altro governo alternativo in collaborazione con l'amministrazione Trump. Il dominio di Hamas non può essere rovesciato senza una piena occupazione militare dell'intera Striscia. Il problema principale sarà convincere l'amministrazione Trump a dare il via libera a Israele per farlo. Al momento, le possibilità che ciò accada sembrano molto scarse.
Nessun governo israeliano può convivere con la permanenza di Hamas a Gaza. L'esercito israeliano è in grado di schiacciare Hamas, ma questo dipende da una decisione politica. Senza di essa, Hamas si riarmerà e tornerà a rappresentare una minaccia militare per Israele. Sta già minacciando nuovi massacri, come dimostrano gli ultimi filmati dalla Striscia di Gaza.

(Israel Heute, 20 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Trump e l’arte del doppio ingraziamento: Intervista a Daniel Pipes

di Niram Ferretti

Ospite abituale de L’Informale, Daniel Pipes, uno dei più autorevoli analisti del Medio Oriente e presidente del Middle East Forum, ha risposto alle nostre domande sul recente accordo tra Israele e Hamas.

- L’accordo tra Hamas e Israele del 15 gennaio ti ha colto di sorpresa?
  Molto. In primo luogo, le ripetute affermazioni di vittoria del Primo Ministro Benjamin Netanyahu hanno chiarito la sua intenzione di distruggere Hamas, non di negoziare. In secondo luogo, la minaccia del Presidente eletto Donald Trump che “si scatenerà l’inferno in Medio Oriente” se gli ostaggi israeliani non saranno restituiti entro il 20 gennaio, sembrava essere rivolta solo ad Hamas. Con mia sorpresa, includeva anche Israele.

- Hai ha definito l’accordo “orribile”, perché?
  Perché premia la cattura di ostaggi. Centinaia di assassini saranno liberati e i gruppi jihadisti avranno nuovi incentivi a rapire altri ostaggi. Più in generale, rivela la debolezza occidentale e sostiene le ambizioni islamiste.

- Hai anche scritto che Netanyahu “teme Donald Trump” e hai ipotizzato che questo spiega la sua riluttante accettazione dell’accordo. Perché Netanyahu dovrebbe temere Trump?
  Netanyahu ha sperimentato sia il sostegno di Trump (si pensi agli Accordi di Abramo) sia la sua rabbia (per essersi congratulato con Joe Biden nel 2020 per la sua vittoria elettorale). Conoscendo la volatilità e l’incostanza di Trump, Netanyahu non deve irritare il presidente di ritorno. Nessun altro leader straniero ha su di sè una pressione paragonabile.

- A settembre, Trump ha dichiarato che l’emiro del Qatar “vuole fortemente la pace in Medio Oriente”. A novembre, il Jewish Insider ha esposto gli stretti legami con il Qatar di Steven Witkoff, la scelta di Trump per l’inviato in Medio Oriente. Cosa ne pensi?
  Il piccolo ma favolosamente ricco regime del Qatar ha perseguito brillantemente per trent’anni il vantaggio per se stesso e per la causa radicale islamica attraverso finanziamenti, diplomazia e pubbliche relazioni. Basta pensare ai programmi universitari degli Stati Uniti, al suo status di importante alleato non NATO e alla Coppa del Mondo del 2022. Ha anche lavorato duramente per raggiungere la cerchia ristretta di Trump, tra cui Steven Witkoff. Il trattamento rozzo e insolente di Witkoff nei confronti di Netanyahu, come riportato da Ha’aretz e dal Wall Street Journal, “sembra avere salvato Hamas”, scrive Daniel Greenfield. Aggiungo: consentendogli così di preparare un altro massacro.

- Sulla base del record della sua prima amministrazione, molti sostenitori di Israele hanno accolto con favore la rielezione di Donald Trump. Si tratta di un sollievo fuori luogo?
  Difficile dirlo. Trump è impegnato in una doppia piaggeria, dando sia ai suoi elettori filo-israeliani che a quelli islamisti ciò che più desiderano. L’ex governatore del New Jersey Chris Christie ha inventato questo trucco, ma finora in pochi hanno osato seguirlo. Sembra che Trump triangolarerà per ottenere il massimo possibile dei riconoscimenti da entrambe le parti della questione israeliana, cosa che non ha tentato di fare durante il suo primo mandato, indipendentemente dalle conseguenze. Non sono in grado di prevedere se i sostenitori di Israele saranno contenti tra quattro anni.

- A proposito del primo accordo Hamas-Israele del novembre 2023, hai detto a Informale che l’esito della guerra sarebbe stato probabilmente un “mezzo fallimento” per Israele . Sei ancora di questa opinione?
  Sì, questa si rivela una buona descrizione. Dal lato positivo, Israele ha avuto successo contro Hezbollah e l’Iran, portando al crollo del regime di Assad in Siria. Dal lato negativo, Hamas rimane in piedi, gli Houthi continuano ad attaccare e l’opinione pubblica mondiale è diventata nettamente negativa nei confronti di Israele e degli ebrei in generale.

- Netanyahu insiste sul fatto che i colpi inferti da Israele ad Hamas, Hezbollah e Iran, seguiti dalla caduta del regime di Assad, hanno cambiato il volto del Medio Oriente. È una millanteria?
  Questi risultati sono reali. Ma, come ho appena sottolineato, lo sviluppo negativo li bilancia, portando al mezzo fallimento.

- La vittoria in guerra significa che il nemico è sconfitto e rinuncia ai suoi obiettivi. Ma Hamas rimane a Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi nello Yemen e la Repubblica Islamica in Iran. Data la superiorità militare di Israele, è incapace o non è disposto a dare un colpo mortale ai suoi nemici?
  Israele deve sconfiggere Hezbollah, Houthi e Iran; una deterrenza robusta è sufficiente. Hamas è un’altra questione. Israele può sconfiggerlo, ma non ha la cognizione. Perché? Nel mio libro del 2024, Israel Victory: How Zionists Win Acceptance and Palestinians Get Liberated, sostengo che si tratta di un modello di conciliazione che risale alle origini stesse del sionismo negli anni ’80 dell’Ottocento e rimane notevolmente invariato nonostante le profonde differenze nelle circostanze.

(L'informale, 20 gennaio 2025)

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Liberare gli ostaggi, ma a quale prezzo? Il dibattito che lacera la società israeliana

di David Zebuloni

Ci è stato insegnato, sin dalla prima infanzia, che la vita non è altro che un bivio che ci costringe a scegliere sempre tra giusto e sbagliato. Tra bene e male. Tra corretto ed errato. Tra sacro e profano. Vero, ma solo in parte. Più passa il tempo e più mi rendo conto che, talvolta, la vita ci pone di fronte a un bivio nel quale dobbiamo assolutamente scegliere tra giusto e giusto. O meglio, tra più giusto e meno giusto. Oppure tra sbagliato e sbagliato. O meglio, tra più sbagliato e meno sbagliato. Ecco, è dal 7 ottobre che Israele viaggia tra i mondi non assolutistici del giusto e del giusto, nonché dello sbagliato e dello sbagliato. È da oltre un anno e quattro mesi che la guerra contro il terrorismo islamico mette a dura prova la capacità dello Stato ebraico di definire cosa sia favorevole e cosa invece sia sfavorevole alla sua stessa esistenza e sopravvivenza. Così, quando sono iniziati i negoziati a Doha a favore di una tregua a Gaza in cambio del rilascio di parte degli ostaggi, mi sono domandato per la prima volta cosa fosse più giusto per il bene d’Israele e di chi ci abita: sconfiggere definitamente il terrorismo, o riportare a casa gli innocenti tenuti in cattività? Un quesito che non ha tormentato solo me, ma l’intera società israeliana, ormai lacerata dal desiderio viscerale di riabbracciare i propri cari e, in egual modo, dal bisogno vitale di non coesistere più con un entità che predica la sua distruzione. La risposta, in realtà, è sempre stata una, chiara e scontata a tutti. Gli ostaggi sono la priorità. Riportarli a casa è la priorità assoluta d’Israele. Il quesito fonte di tanto tomento, infatti, è un altro: a quale prezzo? D’altronde, è un dato di fatto che gli ostaggi vadano riportati a casa. Non esiste alcun “se” a riguardo. La domanda è, come? In cambio di cosa? Un accordo con il diavolo che prevede l’uscita dell’IDF dalla striscia di Gaza, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che prevede l’annullamento di gran parte dei traguardi militari israeliani raggiunti a Gaza, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che in qualche modo vanifica il sacrificio dei giovani soldati caduti in combattimento contro i terroristi, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che prevede il rilascio immediato di migliaia di terroristi palestinesi dalle carceri israeliane, pronti e motivati a tornare ad uccidere in nome di Allah, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che non prevede la liberazione di tutti gli ostaggi, ma solo una piccola parte di loro, è un buon accordo? Un accordo con il diavolo che di fatto lascia il diavolo alla leadership di Gaza, è un buon accordo? Secondo l’antico principio ebraico che recita: “Chi salva una vita, salva un mondo intero”, la riposta è probabilmente affermativa. Sì, qualunque accordo che riporti indietro anche un solo ostaggio innocente, è un buon accordo. Tuttavia, ancora traumatizzati dalla strage compiuta da Hamas il 7 ottobre, gli israeliani non si accontentano più di antichi principi ebraici e pretendono oggi risposte concrete ai loro tanti quesiti assolutamente fondati. Così, un momento di indiscussa gioia, diventa anche un momento di preoccupazione, di paura, di rabbia, di terrore. Se un tempo, infatti, pensavo che sentimenti tanto contrapposti non potessero in alcun modo coesistere tra loro in armonia, oggi so con certezza che un cuore può tranquillamente contenere la stessa quantità di felicità e di tristezza contemporaneamente, senza collassare. Che un uomo può essere al contempo sia ottimista che pessimista, senza dover necessariamente scegliere tra il suo lato più fiducioso e quello più prudente. Oggi gli israeliani sanno che un accordo con Hamas, è un accordo sbagliato a prescindere. Non si illudono più di dover scegliere tra giusto e sbagliato. Sanno di dover scegliere tra sbagliato e sbagliato, ma si domandano comunque quale delle due opzioni sia meno sbagliata. Lo so, pongo tante domande e non fornisco alcuna riposta. Me ne rammarico. Tuttavia, non riuscendo a formulare un concetto più lucido di quanto io abbia già fatto, prendo in prestito le parole del collega giornalista israeliano Yair Sherki, che nel 2015 ha perso tragicamente il fratello Shalom in un attacco terroristico. Quando la scorsa notte Sherki ha scoperto che il terrorista palestinese responsabile dell’uccisione del fratello, sarebbe stato rilasciando in cambio delle tre ragazze ostaggio Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher, ha reagito dicendo: “Il pensiero che l’assassino di mio fratello possa respirare aria fresca e mangiarsi un kebab in Turchia, è per me incomprensibile. So che c’è un’ingiustizia intrinseca in tutta questa situazione, ma il fatto che il suo periodo di pena sia stato ridotto a tal punto da non fargli concludere nemmeno un decennio in carcere, è per me insopportabile. Nonostante ciò, c’è un fattore che non posso proprio ignorare. Mio fratello è morto, nulla lo riporterà indietro. Romi, invece, è ancora viva. La cosa giusta da fare è riportarla a casa”. Così, di fatto, è accaduto. Romi Gonen, ragazza simbolo di questa guerra grazie anche ai racconti della sua straordinaria mamma Meirav, che nell’ultimo anno ha girato il globo in lungo e in largo per sensibilizzare l’opinione pubblica circa la causa degli ostaggi, è stata liberata dopo 471 giorni di cattività nei tunnel del terrore di Hamas. Se un attimo prima del suo rilascio la popolazione era ancora spaccata in due, incapace di decidere se l’accordo fosse giusto o sbagliato, nessun israeliano è invece riuscito a trattenere le lacrime nell’istante in cui Romi ha riabbracciato la sua mamma Meirav. Nessuno. Probabilmente gli animi torneranno presto a rinfervorarsi e il trauma represso della strage prenderà di nuovo il sopravvento, ma nessuno dimenticherà l’istante indescrivibile in cui madre e figlia di si sono ricongiunte. Un istante che ha dato senso a tutto ciò che fino ad un attimo prima era ancora in preda al caos. Personalmente, esattamente un mese fa, anch’io ho avuto l’onore di conoscere Meirav Gonen. Era venuta a visitare la redazione del giornale per cui lavoro a Gerusalemme, e si era fermata a parlare della guerra in corso con me e con i miei colleghi per oltre un’ora. Ricordo di non aver avuto il coraggio di porle una domanda troppo brutale, troppo difficile da formulare a parole e pronunciare a voce alta. Così ho chiesto ad una collega più spavalda e sfacciata di me, di porgliela al posto mio. “Meirav, dopo tutto questo tempo, credi davvero che Romi sia ancora viva?”, le ha dunque domandato lei. “Certo che sì”, ha risposto Meirav senza esitare. “Una mamma sa se sua figlia è viva oppure no, e io sono assolutamente convinta che lei lo sia. Romi è viva, la sento dentro il mio utero che scalcia e vuole uscire fuori. E come so che la mia bambina è ancora viva, so anche che presto, prestissimo la riabbraccerò. Non ne ho alcun dubbio”. Aveva ragione Meirav. Il suo istinto di mamma sapeva già ciò che i massimi esperti di geopolitica ancora ignoravano. Romi è stata liberata. Insieme a lei, anche Emily e Doron. Ci sarà tempo per discutere le tante conseguenze di questo accordo. Per ora non ci resta altro che dire: bentornate a casa ragazze. Vi stavamo aspettando.

(Shalom, 20 gennaio 2025)
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Massimo rispetto per ogni penoso travaglio di coscienza. Mi sia concessa soltanto un'osservazione: in tutto l'articolo non compare mai un riferimento a Dio. In un paese come Israele, che nel suo stesso nome, oltre che in tutta la sua storia, porta questo riferimento, e che proprio per questo motivo sta ora soffrendo, non è un po' strano? Nella coscienza di un ebreo non sarebbe naturale aspettarsi il pensiero di Dio? M.C.

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Il grande assurdo del tornaconto personale di Netanyahu

Che le sue mani opportuniste grondino del sangue degli scudi umani di Hamas e degli ostaggi di Hamas fatti morire nei tunnel è un falso madornale. Il premier israeliano non fa ciò che fa per restare al potere, ma (come tutti i veri leader di tutti i tempi) cerca di restare al potere per fare quello che fa.

di Giuliano Ferrara

Questa idea che Netanyahu faccia quello che fa per tornaconto personale, per restare al potere, è diventata un incubo culturale, una specie di bizzarro refuso della mente da cui sono affetti così tanti nel mondo da far dubitare che esista ancora una comprensione elementare della politica e della storia, e del loro funzionamento. Incubo, perché il teorema è elementare, primitivo, sghembo. Non passerebbe un esame qualsiasi di logica matematica, fallisce nell’enunciato, nella dimostrazione, nell’ipotesi e nella tesi, e palesemente non raggiunge la condizione sufficiente né la condizione necessaria per il verificarsi di quanto predica. Insomma,è una sciocchezza spesso in bocca o nella penna di persone normalmente intelligenti, informate, anche colte, che si fanno trasportare vuoi dalla passione vuoi dalla faziosità vuoi dall’antipatia e lasciano che le loro parole strabordino nell’irrealtà. La conseguenza è il formarsi di un senso comune dell’assurdo che smentisce il buon senso, semplicemente. Infatti non è necessario un manuale di politologia, ma solo il buon senso, per smontare il carattere zoppicante, anzi monco, del teorema perverso che popola l’opinione corrente.
Procediamo con un minimo di ordine. Dunque. Netanyahu forma l’unica maggioranza possibile dopo quattro elezioni consecutive associando al suo Likud due piccoli partiti estremisti di estrema destra nazionalista, con risvolti anche peggiori del semplice nazionalismo. Non lo fa per esercitare la funzione di governo di un leader nazionale di Israele che ha la maggioranza relativa e deve comporre una maggioranza parlamentare assoluta, no, lo fa per tornaconto personale.
Netanyahu risponde al pogrom del 7 ottobre con una guerra per distruggere i nemici nichilisti e terroristi di Hamas, e lo fa nell’unico modo possibile, andando a snidarli nella loro fortezza che ha per scudo i civili. Lo fa per tornaconto personale.
Per oltre un anno deve prendere decisioni tremende, tragiche, l’essenza della politica in tempo di guerra, e di guerra esistenziale, deve fronteggiare cinque fronti aperti da una nazione fanatizzata e islamista, l’Iran, che è in fase prenucleare, la sua compagine guida il suo paese e il suo esercito su tutti questi confini del terrore. Tornaconto personale.
Resiste alle pressioni di veri e infidi alleati, ai tiepidi, agli ignavi, ai mandati di cattura, all’isolamento internazionale della causa israeliana nel tripudio delle anime belle umanitarie e pacifiste, all’ondata antisionista e antisemita, adotta lo schema di una breve tregua e negozia un primo scambio tra detenuti palestinesi e ostaggi israeliani ma rifiuta di lasciare incompiuto il disegno di indebolire gli ayatollah, di colpire il loro committente libanese che ha spopolato il nord di Israele a forza di razzi, la sua tenacia provoca il crollo di Assad e della pista siriana delle armi sciite, va a Rafah e i soldati di Tsahal uccidono il perpetratore in capo del pogrom, poi negozia un cessate il fuoco provvisorio e un nuovo scambio quando le condizioni militari e politiche sono giudicate mature. Cerca di ipotecare un futuro del Medio Oriente in cui la questione palestinese sia inscritta in un quadro di reciproco riconoscimento fra stati, gli accordi di Abramo come prosecuzione e allargamento della logica unica di pace che finora ha prevalso, quella degli accordi di Camp David fra Begin e Sadat, in funzione antiraniana e antinucleare e aspettando che i palestinesi si diano una classe dirigente che non sia corruzione o terrorismo e oscurantismo. Tornaconto personale. Ma vi rendete conto?
Capisco che la figura di Netanyahu non piaccia. Capisco che si pensi a leader meno decisionisti e meno spregiudicati di lui, come Ganz o Bennett. Capisco che il ritratto di Israele per molti risulti sfigurato dai partiti che spingono per ulteriori colonizzazioni e annessioni sotto un manto biblicista. Ma che un leader politico faccia ciò che ha fatto Netanyahu per tornaconto personale, e che le sue mani opportuniste grondino del sangue degli scudi umani di Hamas e degli ostaggi di Hamas fatti morire nei tunnel e nelle comuni abitazioni-carcere di Gaza, questo è semplicemente falso, è madornale, una torsione della mente politica e storica sesquipedale, enorme. Ovvio che il premier israeliano non fa ciò che fa per restare al potere, ma (come tutti i veri leader di tutti i tempi) cerca di restare al potere per fare quello che fa.

Il Foglio, 19 gennaio 2025)

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Buon compleanno Kfir!

FOTO
Kfir oggi compie 2 anni, eccolo qua che sorride. A noi. Al mondo. Alla vita. Strana vita la sua. È vero che non esistono due vite uguali, ognuna è unica, ma quella di Kfir lo è in modo purtroppo speciale. Il 18 gennaio del 2023, in Israele, Kfir nasceva insieme agli altri 237.000 bambini che, mediamente, nascono ogni giorno nel mondo. Ma qui non si tratta di medie, non si tratta di numeri, si tratta di Kfir. Di un volto, di un nome, di una storia. E la storia è questa: Kfir è il secondogenito di papà Yarden (34 anni) e di mamma Shiri (32), suo fratello Ariel ha 4 anni. Tutta la famiglia Bibas, di origine israelo-argentina/peruviana, nove mesi dopo la nascita di Kfir, il 7 ottobre 2023, è stata preso in ostaggio da Hamas. I nonni materni sono stati poi ritrovati uccisi. In questa foto, facile immaginare quando è stata scattata, Kfir sorride, come usano fare i bambini. E oggi è la sua festa, il suo secondo compleanno. Il mondo si dovrebbe fermare per festeggiare insieme a lui. Perché oggi è il momento della cura e la cura non è mai generale e astratta ma si rivolge sempre ad una persona precisa, di occhi, di carne e sangue. Se è vero che gli uomini diventano ciò che vedono, allora dovremmo fermarci e farci una domanda su cosa Kfir e le migliaia di bambini che in Israele, in Palestina, a Gaza e nel resto del mondo vivono in zone di guerra, stanno vedendo da molto, troppo tempo. A.M.

(Osservatore Romano, 18 gennaio 2025)


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Kfir, gli auguri di compleanno e l'innocenza

di Ernesto Galli della Loggia

Il corsivo del direttore dell’Osservatore romano, Andrea Monda, che ieri campeggiava sulla prima pagina del giornale aveva qualcosa di oscuramente inquietante
Non voglio certo mettere in dubbio - e come potremmo? - le buone intenzioni del direttore dell’Osservatore romano, Andrea Monda, ma il suo corsivo che ieri campeggiava sulla prima pagina del giornale aveva qualcosa di oscuramente inquietante e forse qualcosa di più. 
Sotto il titolo «Buon compleanno Kfir» campeggiava la foto di un grazioso bimbo paffuto di pochi mesi, Kfir Bibas appunto, rapito a nove mesi durante il pogrom di Hamas del 7 ottobre insieme alla mamma e al fratellino. I nonni invece «sono stati poi ritrovati uccisi», scrive Monda con distaccata genericità: in realtà, come sappiamo, sono stati entrambi selvaggiamente maciullati fino ad essere per lunghi giorni irriconoscibili (la verità, sosteneva qualcuno, è nei dettagli…).
Dicevo le buone intenzioni. Monda augura buon compleanno a Kfir – «oggi è la sua festa» scrive - perché forse (forse) il bimbetto è sul punto di essere rilasciato dai suoi carcerieri (ma questo nel testo è singolarmente omesso) e quindi aggiunge il direttore «oggi è il momento della cura e la cura non è mai generale e astratta ma si rivolge sempre ad una persona precisa, di occhi, di carne e di sangue». Che possa essere considerata «la sua festa» e «il momento della cura» la fine del calvario a cui è stato sottoposto per un anno e mezzo un essere umano di pochi mesi, rinchiuso per tutto questo tempo in qualche tunnel sotterraneo in condizioni che non è difficile immaginare mi pare qualcosa che ha del surreale e anche di vagamente ripugnante per un’ esibizione di umanitarismo che mal nasconde un retrogusto di oggettivo cinismo. E a nulla vale l’invito finale d’obbligo da parte di Monda a domandarci su «cosa Kfir e le migliaia di bambini che in Israele, in Palestina, a Gaza e nel resto del mondo vivono in zone di guerra, stanno vedendo da molto, da troppo tempo»: perché i bambini, è vero sono tutti eguali e tutti innocenti, caro Direttore, ma i loro genitori no. Ed è questo il vero problema.

(Corriere della Sera, 19 gennaio 2025)

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Quando inizia la Grande Tribolazione?

Quando parliamo dell'inizio della Tribolazione, è fondamentale concentrare la nostra attenzione sugli elementi centrali descritti in Apocalisse 4 e 5. Questi capitoli ci portano al cuore di una visione celeste, dove il trono divino è al centro della scena, rappresentando non solo il potere supremo di Dio ma anche l'inizio di un processo di consegna e compimento che ha una dimensione eterna. È una visione che parla sia ai tempi attuali, sia alla nostra esperienza di vita, offrendoci un'interpretazione che può guidarci a comprendere il significato profondo di questi eventi nella nostra quotidianità e nelle nostre scelte spirituali.

di Philipp Ottenburg

Innanzitutto, poniamoci una domanda fondamentale: cos'è la Grande Tribolazione? Nella Bibbia, questo periodo è spesso chiamato il Giorno del Signore, noto anche come la Tribolazione di Giacobbe. Questo termine viene utilizzato perché si tratta di un tempo di giudizio su Israele, che, secondo vari passaggi biblici, si estende anche al mondo intero. La Tribolazione rappresenta una fase di giudizio nel piano di salvezza di Dio e culmina con il ritorno di Cristo e l'instaurazione del Suo regno, in e con Israele.
  La Bibbia descrive questo periodo come Giorno delle Tenebre, Giorno dell'Ira, Giorno della Rovina e Giorno della Distruzione. Si preannuncia come un tempo di grande sofferenza, un momento terribile per l'umanità. Tuttavia, la Chiesa - il corpo di Cristo - non sarà coinvolta in questa prova. Come credenti, siamo stati sigillati con lo Spirito Santo, e condividiamo la morte e risurrezione di Cristo, essendo già spiritualmente «trasportati» nei luoghi celesti. Questo concetto è meravigliosamente approfondito nelle lettere di Paolo, in particolare nella lettera ai Romani.
  Nonostante ciò, la domanda che sorge per molti è se la Grande Tribolazione sia già iniziata, soprattutto di fronte ai molti eventi inquietanti che accadono nel mondo. Episodi come gli attacchi terroristici contro Israele, il caos climatico, e l'apparente smarrimento politico e morale suscitano timori.
  Quando l'umanità si allontana da Dio, il disordine sembra inevitabilmente crescere. Nonostante le promesse per la Chiesa, molti credenti si preoccupano, temendo di poter essere coinvolti o persino di ricevere il marchio dell'anticristo.
  Quindi, dove ci troviamo ora in questo contesto? Quando si parla dell'inizio della Grande Tribolazione, esistono diverse teorie. Alcuni sostengono che inizierà quando si rivelerà l'Anticristo; altri, quando egli instaurerà una pace apparente, forse in Medio Oriente. Altri ancora suggeriscono che l'inizio coinciderà con un controllo totale o con eventi catastrofici, come terremoti di grande entità, o con un caos globale.
  Queste interpretazioni riflettono la complessità e il mistero che circondano la Grande Tribolazione, un argomento che continua a suscitare domande e riflessioni tra i credenti di oggi.
  Molti dei nostri pensieri e interpretazioni su questa questione possono essere corretti, o corretti in una certa misura, ma potrebbero anche non esserlo. Tuttavia, quando osserviamo tutte queste ipotesi e linee di pensiero, vediamo che sono legate alla terra. Ma dov'è il vero segnale d'inizio della grande tribolazione? Quando o cosa inizia? Chi o cosa è cruciale? Di seguito vogliamo concentrarci su ciò che è veramente centrale in questa questione. Nonostante tutte le ambiguità che possano esistere, una cosa è molto chiara. E questo sarà un grande incoraggiamento per i credenti dopo l'epoca della chiesa, qualcosa che potrà renderli calmi e risoluti. È anche ciò che può darci la pace oggi, quando abbiamo domande aperte e in tutta la confusione. Il libro dell'Apocalisse descrive la grande tribolazione, questa fase di giudizio, a partire dal capitolo 6, e nel capitolo 19 Cristo ritorna visibilmente. Ma prima che inizino i giudizi della tribolazione, il tutto è introdotto da una visione preparatoria che comprende i capitoli 4 e 5. Ed è qui che vogliamo riprendere le domande poste. Sì, sto esagerando con questo, ma è importante se vogliamo classificare correttamente l'effettivo inizio della grande tribolazione.

Il trono celeste
  Quando accade qualcosa nella famiglia reale britannica, si scatena un'enorme ondata di attenzione mediatica. Ad esempio, circa 7 milioni di persone hanno seguito l'incoronazione di re Carlo al canale televisivo tedesco, mentre a livello globale si stima che 300 milioni abbiano assistito all'evento. Tuttavia, nonostante il clamore, la famiglia reale ha in realtà poco da dire e un'influenza limitata. Considerando questa attenzione, noi cristiani possiamo riflettere: dov'è la nostra passione per il vero trono, quello in cielo? Cosa proviamo leggendo il libro dell'Apocalisse e pensando all'incoronazione di Cristo? È in questo libro che Dio stesso svela al Suo popolo una visione della Sua sala del trono. Ci offre una prospettiva intima e profonda, ben oltre quanto re e presidenti condividano sui loro spazi di potere, come lo Studio Ovale o Buckingham Palace. Non abbiamo mai accesso diretto a questi luoghi, eppure qui Dio apre un varco per farci entrare nella Sua presenza. Immaginiamo se tutti i media trasmettessero questa visione, e se tutti noi la seguissimo con la stessa intensità!
  In Apocalisse 4:1-2, leggiamo:

    Dopo queste cose guardai e vidi una porta aperta nel cielo, e la prima voce, che mi aveva già parlato come uno squillo di tromba, mi disse: «Sali quassù e ti mostrerò le cose che devono avvenire in seguito». Subito fui rapito dallo Spirito. Ed ecco, un trono era posto nel cielo e sul trono c'era uno seduto.

Dopo aver scritto le lettere alle chiese, Giovanni vede una porta aperta in cielo e ascolta la voce di Cristo. Il Signore vuole mostrargli ciò che accadrà, un piano preciso e perfetto. Nulla è lasciato al caso nella visione di Dio, e nulla accade senza scopo o inaspettatamente. La sala del trono di Dio è un luogo di stabilità, ordine e sovranità assoluta, dove non vi sono né arbitrarietà né scatti d'ira incontrollata.
  Questo accesso alla visione divina ci invita a contemplare l'autorità e la maestosità di Dio e a domandarci se la nostra passione è allineata al Suo regno eterno.
  Giovanni riceve una visione preparatoria per la Grande Tribolazione imminente. Dio rivela tutto ciò che «deve accadere.» La parola «deve» è straordinaria in questo contesto: il piano divino si compie esattamente come è stato stabilito. Dio, nella Sua sovranità, guida ogni cosa, inclusi gli eventi che possono apparire dolorosi o devastanti. Questa visione riflette la natura di Dio, che rimane salda anche quando il mondo è in tumulto. In Apocalisse 4:2, leggiamo: «Subito fui nello spirito; ed ecco, c'era un trono nel cielo, e uno sedeva sul trono.» Quando guardiamo la situazione nel mondo, potremmo essere sopraffatti dalla paura e dalla confusione. In tempi di instabilità, come nei giorni dei giudici, sembra che ciascuno agisca secondo ciò che è giusto ai propri occhi. Questo genera incertezza, e molti si chiedono se la Grande Tribolazione non sia già cominciata. Ovunque volgiamo lo sguardo, vediamo il mondo frammentarsi, e l'assenza di una guida appare come un'anarchia.
  Ma quando distogliamo lo sguardo dalla terra e lo rivolgiamo al cielo, ritroviamo la calma. Vediamo che «Uno sedeva sul trono»: il trono è occupato. Il Dio vivente è lì, regna, e ci viene mostrato in una visione di splendore e maestosità:

    «Colui che stava seduto era simile nell'aspetto alla pietra di diaspro e di sardonico; e intorno al trono c'era un arcobaleno che, a vederlo, era simile allo smeraldo.» (Apocalisse 4:3).

Questo arcobaleno verde, come uno smeraldo, simboleggia la pace che segue il giudizio, ricordandoci la promessa fatta a Noè: la terra non sarà mai più distrutta da un diluvio.
  Giovanni utilizza immagini di pietre preziose per descrivere l'aspetto di Dio, un tentativo di comunicare l'ineffabile attraverso ciò che di più prezioso esiste sulla terra. Questi simboli di splendore e fuoco riflettono la santità di Dio, che è un «fuoco divorante» e un Dio giusto che non può ignorare il peccato. L'arcobaleno verde rappresenta i Suoi pensieri di pace, indicando che, anche in mezzo al caos, il trono celeste è un luogo di stabilità e ordine, avvolto dalla Sua promessa di pace.
  Giovanni vede anche i 24 anziani attorno al trono:

    «Attorno al trono c'erano ventiquattro troni su cui stavano seduti ventiquattro anziani vestiti di vesti bianche e con corone d'oro sul capo.» (Apocalisse 4:4).

I loro abiti bianchi rappresentano giustizia e purezza, mentre le corone d'oro indicano vittoria. Questi anziani sono esseri celesti, come sacerdoti attorno al trono di Dio, e assumono un ruolo di guida e autorità, assistendo gli eventi rivelati in Apocalisse. Ci ricordano i 24 ordini sacerdotali istituiti da Davide (1 Cronache 24:7-19), che potrebbero simboleggiare una riflessione della realtà celeste.
  Tutto ciò che riguarda Dio è organizzato in ogni dettaglio.
  In cielo c'è una gerarchia ordinata, popolata da esseri celesti competenti e vittoriosi. La parola tribolazione spesso evoca immagini di caos, ma presso Dio tutto è pianificato e stabilito secondo il Suo disegno. Nulla sfugge al Suo controllo, e persino ciò che appare caotico e temibile fa parte di un ordine divino che conduce alla pace eterna.
  Proseguendo nella lettura, vediamo che «Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni» (Apocalisse 4:5). Questi elementi simboleggiano il giudizio divino, con i lampi che rappresentano il giudizio improvviso e inaspettato. In Deuteronomio 32, il fulmine viene associato alla spada di Dio, mentre in diversi passaggi, il tuono rappresenta la Sua voce di giudizio (Salmo 77:19). Questa descrizione ci ricorda che Dio siede sul trono del giudizio.
  Davanti al trono, troviamo un mare di vetro come cristallo, simile a uno sgabello ai Suoi piedi. Questo mare di vetro potrebbe rappresentare il mondo delle nazioni disteso di fronte a Dio. Isaia 17:12 parla delle nazioni turbolente e infuriate come onde impetuose. Nella Bibbia, il mare è spesso simbolo dei popoli, spesso agitato e in tempesta. Tuttavia, qui appare come un mare di vetro, calmo e immobile. In Apocalisse 15:2- 4, troviamo un'immagine simile, dove le nazioni, purificate, si presentano come adoratrici davanti a Dio. Questo mare di vetro simboleggia la pace e la sottomissione davanti alla maestà divina, in contrasto con l'agitazione e il caos dei popoli.
  Il carattere «di vetro» del mare indica la visione cristallina di Dio, che vede ogni cosa senza ostacoli. Nulla è nascosto alla Sua vista. Se hai mai sperimentato l'ingiustizia, se sei stato frainteso o giudicato erroneamente, ricorda che Dio vede ogni cosa chiaramente. Egli conosce anche il bene che fai, anche quando passa inosservato agli occhi degli altri. Ed è proprio per questa chiarezza e giustizia divina che giunge il giudizio della tribolazione.
  Poi, incontriamo i quattro esseri viventi:

    «Davanti al trono inoltre c'era come un mare di vetro, simile al cristallo; in mezzo al trono e intorno al trono, quattro creature viventi, piene di occhi davanti e di dietro. La prima creatura vivente era simile a un leone, la seconda simile a un vitello, la terza aveva la faccia come d'uomo e la quarta era simile a un'aquila mentre vola.» (Apocalisse 4:6-7).

Nella Bibbia, il numero quattro rappresenta la completezza della creazione. Ci sono i quattro angoli della terra, i quattro venti, i quattro imperi principali di Daniele 2, e persino i quattro Vangeli che descrivono la vita di Gesù.
  Questi esseri viventi sono probabilmente angeli, forse cherubini. Il numero sei, come le loro ali, è anche associato all'umanità. I cherubini, spesso tradotti come «molti esseri», rappresentano la creazione disposta attorno al trono di Dio. La terra, rappresentata da queste creature, è costantemente sotto lo sguardo divino.
  Questi esseri sono coinvolti attivamente nelle visioni dei sigilli in Apocalisse 6, pregando e partecipando durante i giudizi. Essi incarnano il desiderio dell'intera creazione di liberarsi dal peso della corruzione e del peccato (Romani 8:22-23). In questo modo, essi simboleggiano la creazione che, purtroppo, gemendo, desidera essere purificata dal male e dalla sofferenza. Questo culmina in una gloriosa conclusione di adorazione e lode, descritta in Apocalisse 4.
  La presenza di questi esseri viventi ci ricorda che Dio non è indifferente al travaglio del mondo. Egli ascolta il gemito della Sua creazione e, attraverso i Suoi giudizi, guida ogni cosa verso la redenzione e il rinnovamento finale.
  In Apocalisse, vediamo la creazione lodare Dio e gli anziani sottomettersi alla Sua autorità. La grandezza di Dio suscita inevitabilmente adorazione. Gli anziani dichiarano:

    «Degno sei, o Signore, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza; poiché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà sono e sono state create!» (Apocalisse 4:11).

Questo versetto esprime chiaramente che ogni cosa esiste per volontà di Dio e trova in Lui il proprio scopo e sostentamento.
  L'intero capitolo 4 di Apocalisse sottolinea il concetto che il cielo governa. Questa verità è potente e visibile agli occhi di Giovanni, che riceve la visione in preparazione ai giudizi futuri. Nessuna forza terrena - né umana, né naturale, né accidentale - può influenzare il piano divino. Anche Nabucodonosor, simbolo biblico del potere arrogante delle nazioni, dovette ammettere, dopo aver subito umiliazione, che «il cielo governa» (Daniele 4:23). Solo allora gli fu restituito il regno. La grande tribolazione ha inizio in cielo, dove tutto è sotto il controllo di Dio, che regge ogni cosa.
  Questa verità è fonte di conforto anche per noi oggi. Dio tiene tutte le redini, non solo dell'universo ma anche delle nostre vite quotidiane. I fili di ogni cosa - persino delle nostre preoccupazioni e necessità personali - sono nelle Sue mani. Quando consideriamo la Sua sovranità, possiamo trovare incoraggiamento, sapendo che nulla è lasciato al caso.
  Proseguendo in Apocalisse 5:1-2, Giovanni osserva un momento significativo:

    « Vidi nella destra di colui che sedeva sul trono un libro scritto di dentro e di fuori, sigillato con sette sigilli. E vidi un angelo potente che gridava a gran voce: 'Chi è degno di aprire il libro e di sciogliere i sigilli?'»
Questo libro, o rotolo, è sigillato con sette sigilli, ed è fondamentale che venga aperto. L'immagine del rotolo sigillato ricorda un passaggio dell'Antico Testamento, precisamente in Geremia 32, dove il profeta riceve un atto di vendita sigillato come simbolo di diritto di proprietà sulla terra di Israele. Simbolicamente, questo rotolo rappresenta il diritto di Dio di reclamare e restaurare la Sua creazione, in particolare Israele. In Apocalisse, il rotolo nella mano destra di Dio rappresenta un atto di proprietà sulla terra. Questo diritto divino è messo in discussione dal peccato e dalla corruzione, ma Dio è pronto a ristabilire il Suo regno e a concludere la Sua storia gloriosa con Israele. L'apertura del rotolo significa l'inizio del giudizio e della restaurazione divina, non solo per Israele ma per l'intero mondo. Giovanni ci mostra che questo cambiamento politico e spirituale culmina nel riconoscimento della supremazia di Dio su tutte le nazioni.
  Il rotolo, quindi, è l'atto di proprietà di Dio, che verrà aperto per confermare il Suo diritto su tutto ciò che Egli ha creato. Mentre i sigilli vengono rotti, il piano di Dio si manifesta, conducendo l'umanità e la creazione intera verso il compimento della volontà divina.
  Molti vorrebbero estirpare Israele dalla mano di Dio, e questo intento emerge in modo drammatico durante la grande tribolazione. Nel libro dell'Apocalisse, Satana e i suoi seguaci contestano l'esistenza stessa di Israele. Qui, si cerca chi sia degno di iniziare il processo di liberazione: la fase di giudizio della grande tribolazione. Ed ecco che appare Gesù Cristo, vicino a Dio Padre, Colui che siede oggi alla Sua destra (Romani 8:31). Subito dopo la sua ascensione, Cristo prese il Suo posto alla destra di Dio, e Stefano, nel suo ultimo respiro, vide Cristo in piedi accanto al Padre. In Apocalisse, nel cercare il degno erede che porterà pace a Israele, uno dei 24 anziani indica il Vincitore: Cristo. Lo vediamo in piedi al centro della visione, e ancora una volta in connessione con Israele:

    «Poi vidi, in mezzo al trono e alle quattro creature viventi e in mezzo agli anziani, un Agnello in piedi, come immolato, e aveva sette corna e sette occhi, che sono i sette spiriti di Dio, mandati per tutta la terra.» (Apocalisse 5:6).

Immaginiamo il seguente scenario: un sommo sacerdote nel giorno dell'Espiazione, entrando nel Santuario con timore reverenziale, consapevole che un solo errore potrebbe essergli fatale. Cristo, invece, si avvicina a Dio con assoluta libertà e fiducia, prendendo il rotolo dalla mano destra del Padre. Questo gesto segna una consegna celeste: Dio non lascia mai andare il Suo popolo. Solo nelle mani di Suo Figlio, il Suo piano di giustizia è assicurato. Come afferma Gesù stesso:

    «Inoltre, il Padre non giudica nessuno, ma ha affidato tutto il giudizio al Figlio, affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato.» (Giovanni 5:22-23).

In Apocalisse 5:7, vediamo il Figlio prendere il libro dalle mani di Dio: il giudizio e la redenzione sono stati affidati a Lui. Quando Cristo riceve il rotolo, la grande tribolazione ha inizio. Il destino del mondo è quindi nelle mani del Vincitore - mani trafitte per amore del popolo, da cui è sgorgato il sangue per la redenzione. Non potrebbe esserci miglior custode per il trono e il giudizio.

L’esecuzione celeste
  In Apocalisse 5:6, Cristo appare in piedi tra le quattro creature viventi, tra gli anziani, al centro della sala del trono. Lui è il fulcro, il centro. E ora, rompe i sigilli. Con il primo sigillo si scatenano i quattro cavalieri dell'Apocalisse: «E vidi l'Agnello aprire uno dei sigilli e udii uno dei quattro esseri viventi dire, come con voce di tuono: 'Vieni e vedi.'» (Apocalisse 6:1). Cristo apre i sigilli e la tribolazione inizia.
  I cavalieri sono portatori di poteri specifici: il cavaliere bianco (Apocalisse 6:2) riceve una corona, simbolo di autorità, mentre al cavaliere rosso fuoco (v. 4) viene concesso il potere di togliere la pace dalla terra.
  Il cavaliere giallastro (v. 8) è autorizzato a portare morte attraverso guerra, carestia, pestilenza e bestie feroci. Ogni cavaliere riceve il permesso da Dio, e Cristo è Colui che apre i sigilli e ne scatena il potere.
  I profeti minori confermano questo giudizio divino: «Farò paura agli uomini, così che brancoleranno come ciechi» (Sofonia 1:17), e «Ahi, che giorno! Poiché il giorno del Signore è vicino, e verrà come una devastazione mandata dall'Onnipotente» (Gioele 1:15). È Dio, l'Onnipotente, che decreta l'inizio della grande tribolazione, solo quando Cristo apre il primo sigillo.

Conclusione
  Da questo possiamo trarre tre importanti conclusioni:
  Il trono celeste ci mostra che l'inizio della grande tribolazione si radica nella sovranità divina. Il cielo governa. La consegna celeste ci ricorda che la tribolazione inizia solo quando Cristo prende il rotolo dalle mani di Dio. La consumazione celeste si manifesta quando Cristo apre il primo sigillo. Queste tre fasi indicano che l'intero processo è stabilito e diretto dal cielo, da Colui che è degno di guidare la storia verso la Sua conclusione gloriosa.
  La Bibbia non ci rivela esattamente quando avrà inizio la grande tribolazione. Gli eventi di oggi sembrano avvicinarci a quel momento, ma quanto di essi sperimenteremo in anticipo è ancora un mistero. È rassicurante sapere che tutto è davvero nelle mani di Dio: Lui e Suo Figlio sono il fondamento e la misura di tutte le cose. Per questo, non dovremmo fissare il nostro sguardo sulla terra, sui governanti terreni o sul caos che ci circonda, ma dovremmo rivolgerci al Signore. Ricordiamoci di guardare verso il cielo, dove risiede la nostra speranza e la nostra vera guida.


(Chiamata di Mezzanotte, nov/dic 2024)



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L’accordo con Hamas è un disastro che fa il gioco del terrorismo

di Giovanni Giacalone

Per quanto riguarda la questione degli ostaggi, dispiace dirlo, ma non c’è da farsi illusioni. In primis non è dato sapere quanti siano ancora effettivamente in vita (pare che non lo sappiano bene nemmeno i terroristi) e in secondo luogo Hamas manderà gli eventuali rilasci per le lunghe in quanto sono l’unica leva che l’organizzazione terrorista ha nei confronti di Israele. Niente più ostaggi, niente più leva. Chissà se a quel punto Trump tornerà a ruggire
L’accordo siglato ieri tra Israele e Hamas, il quale prevede una tregua che durerà 42 giorni durante la quale verranno liberati 33 ostaggi tra i 98 ancora detenuti nella Striscia, e quindi la fine della guerra, con la restituzione degli ostaggi rimanenti e l’esito definitivo di Israele da Gaza (questo è quello che chiede Hamas, il prezzo del riscatto) appare come una resa o, come lo ha definito Michael Rubin “un disastro” .
È molto difficile, se non a prezzo di ottimismi funambolici, salutare questo accordo, al di là dell’ovvia soddisfazione per i famigliari degli ostaggi che verranno rilasciati, come un successo tattico. Per mesi, Netanyahu ha ostinatamente resistito alle pressioni dell’Amministrazione Biden, che fin da subito, ha cercato di obbligarlo a un cedimento che avrebbe solo avvantaggiato Hamas.
L’ingresso imminente di Trump alla Casa Bianca ha di colpo cambiato lo scenario. Cosa si siano detti esattamente Steve Witkoff, il nuovo emissario per il Medio Oriente incaricato da Trump e Netanyahu, lunedì scorso, non si sa, ma quello che è certo è che dopo questo incontro Netanyahu ha deciso che l’accordo con Hamas andava fatto.
Al netto delle dietrologie, è chiaro che Netanyahu si è reso disponibile a pagare il prezzo che finora si era rifiutato di pagare perché Witkoff deve avere avuto a suo vantaggio argomenti persuasivi. Il più favorevole per Israele è quello per cui, dopo il fiele arriverà il miele, e che Trump starà dalla parte di Israele senza ambiguità, quello meno piacevole è la costrizione a piegare il capo per gratificare l’ego del nuovo presidente il quale si è già intestato il successo dell’accordo. Può darsi che entrambi gli elementi si siano intersecati.
Ciò che è certo è che dopo un anno e tre mesi di guerra, Hamas può riprendere fiato, un Hamas che pur essendo stato fortemente ridimensionato non è stato sconfitto. La sconfitta del nemico si ottiene solo con la sua completa resa, e una resa di Hamas è al momento inesistente.
I bellicosi annunci di esponenti Repubblicani facenti parte della nuova amministrazione, che di Hamas va fatta tabula rasa, seguiti dalla dichiarazione dello stesso Trump, che a Gaza non ci dovranno più essere terroristi, restano allo stato attuale annunci. Cosa accadrà  esattamente una volta che Trump avrà assunto pieni poteri operativi non è dato saperlo. Quello che si può sperare, se si vuole farlo, è che dopo questo passo falso si riprenda la strada giusta che può essere solo una e una sola, la continuazione dell’operazione militare a Gaza e la sconfitta di Hamas, ovvero la sua completa resa.
La vittoria non prevede vie di mezzo, ombre, e se Hamas continuerà a permanere nella Striscia per Israele sarà una sconfitta. C’è da augurarsi che Trump lo comprenda chiaramente.

(L'informale, 18 gennaio 2025)

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L'IAF abbatte missile Houthi sparato dallo Yemen

Le sirene antiaeree suonano in tutto il centro di Israele.

di Charles Bybelezer

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Un grosso cilindro, identificato come parte di un missile balistico Houthi, conficcato nel tetto di un'abitazione privata nell'area di Gerusalemme

L'aviazione israeliana ha intercettato sabato mattina un missile lanciato dai terroristi Houthi nello Yemen, come ha confermato l'esercito.
L'attacco missilistico ha fatto scattare le sirene d'allarme in tutto il centro di Israele, anche a Tel Aviv e nella capitale Gerusalemme.
Le milizie terroristiche sostenute dall'Iran in Yemen e in Iraq hanno dichiarato giovedì che cesseranno i loro attacchi contro Israele in seguito all'accordo di cessate il fuoco con Hamas.
Mohammed Abdul Salam, portavoce degli Houthi, ha dichiarato che la “battaglia del gruppo [sta] giungendo alla sua conclusione con la dichiarazione di un cessate il fuoco a Gaza”.
La tregua tra Israele e Hamas entrerà in vigore alle 8:30 di domenica (0630 GMT), ha annunciato sabato il Ministero degli Esteri del Qatar.
Un missile balistico Houthi ha fatto scattare le sirene in tutto il centro di Israele martedì mattina presto, nel secondo attacco di questo tipo in poche ore.
Le sirene, che hanno suonato poco dopo le 3 del mattino, hanno spaventato milioni di residenti nelle regioni di Gush Dan, Judean Foothills (Shfela) e Sharon. Gli atterraggi e i decolli all'aeroporto internazionale Ben-Gurion sono stati brevemente sospesi.
Secondo la Polizia di Israele, i detriti dei missili hanno colpito case private a Moshav Mevo Beitar e Tzur Hadassah, nella zona di Gerusalemme. La polizia ha diffuso un'immagine di un grosso cilindro, identificato come parte del missile Houthi, conficcato nel tetto di una casa. Esperti di artificieri e altre forze di polizia sono stati dispiegati nei luoghi colpiti.
Dal massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, gli Houthi sostenuti dall'Iran hanno lanciato circa 40 missili terra-superficie e 320 UAV verso Israele, secondo l'IDF.
In risposta, l'IAF ha colpito più volte obiettivi Houthi in Yemen, tra cui il 10 gennaio.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha poi dichiarato che “proprio come avevamo promesso, gli Houthi stanno pagando, e continueranno a pagare, un prezzo pesante per la loro aggressione contro di noi”.

(JNS, 18 gennaio 2025)

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L’Autorità Nazionale Palestinese raggiunge un fragile accordo con i terroristi in Cisgiordania

In realtà sembra davvero poco probabile che il Battaglione Jenin consegni le armi alla ANP

di Sarah G. Frankl

Fonti arabe confermano che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha raggiunto un accordo con il Battaglione Jenin che dovrebbe porre fine a una situazione di stallo durata oltre un mese nella città della Cisgiordania settentrionale e nel campo profughi adiacente.
Dal mese scorso, l’Autorità Nazionale Palestinese ha avviato un’operazione antiterrorismo a Jenin, prendendo di mira il cosiddetto Battaglione Jenin, composto da agenti affiliati a gruppi terroristici quali Hamas e la Jihad islamica palestinese.
Ramallah ha accusato l’Iran di aver finanziato e armato il Battaglione Jenin e altre fazioni armate in Cisgiordania. Quindici palestinesi sarebbero stati uccisi durante l’operazione, tra cui sei membri delle forze di sicurezza dell’ANP, otto civili e un sospetto terrorista. Anche una manciata di membri del Battaglione Jenin è stata arrestata dalle forze dell’ANP.
Negli ultimi anni i gruppi armati hanno acquisito notevole importanza nella Cisgiordania settentrionale e l’Autorità Nazionale Palestinese ha perso in gran parte il controllo della zona.
L’ANP ha avviato la sua operazione antiterrorismo in vista del ritorno alla Casa Bianca del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump, nel tentativo di dimostrare la sua capacità di mantenere la stabilità in Cisgiordania.
All’inizio dell’operazione, il battaglione Jenin riuscì a rubare due veicoli appartenenti alle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, che successivamente intensificarono il raid nel campo profughi.
Mentre l’operazione proseguiva, le parti hanno condotto trattative volte a raggiungere una tregua in base alla quale i gruppi armati avrebbero consegnato le loro armi in cambio dell’immunità.
All’inizio di questa settimana si stava per raggiungere un accordo, ma i colloqui sono saltati dopo due attacchi aerei israeliani nel campo, martedì e mercoledì, in cui sono morte 12 persone, tra cui civili.
Le IDF avevano sospeso qualsiasi attacco o incursione a Jenin quando l’Autorità Nazionale Palestinese aveva iniziato il raid, ma questa settimana hanno posto fine a tale politica.
Una fonte palestinese ha ipotizzato che la decisione sia stata promossa da elementi di estrema destra nell’esercito e nel governo israeliani che non vogliono che l’Autorità Nazionale Palestinese abbia successo nel suo intento.
Secondo la stessa fonte gli attacchi potrebbero essere stati concepiti anche per affossare la tregua che si stava profilando, qualcosa che Ramallah ritiene potrebbe calmare significativamente le tensioni nella Cisgiordania settentrionale.
I colloqui sono ripresi giovedì e le parti sono riuscite a raggiungere un accordo venerdì sera, ha affermato la fonte.
L’accordo dovrebbe prevedere che i membri del battaglione Jenin consegnino le loro armi e che consentano all’Autorità Nazionale Palestinese di operare liberamente nel campo profughi.
Sono già stati segnalati veicoli dell’Autorità Nazionale Palestinese mentre entravano nel campo profughi con unità di artificieri per far detonare gli esplosivi che il Battaglione Jenin ha piazzato nell’area per danneggiare le forze israeliane e dell’Autorità Nazionale Palestinese.

(Rights Reporter, 18 gennaio 2025)

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La verità sulla tregua a Gaza, e il falso mito del tempo perduto

di Iuri Maria Prado

Se fosse soltanto segno di sciocchezza, e non anche di profonda malafede, si potrebbe lasciar lì a fare il suo povero lavoro l’argomento secondo cui l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza e per la liberazione degli ostaggi, se non fosse stato per l’opposizione di Israele, si sarebbe potuto raggiungere anche molti mesi fa. Ma siccome nemmeno questa volta e nemmeno su questo argomento si tratta di superficialità facilona, ma della disinformazione impegnata maliziosamente ad affastellare ragioni d’accusa contro lo Stato ebraico, colpevole prima della guerra e colpevole poi di non avervi posto fine quand’era possibile, occorre rimettere insieme i pezzi.
  A cominciare da quello grosso, vale a dire il Corridoio Filadelfia, cioè la linea che insiste sul confine meridionale della Striscia sempre attraversata, prima del presidio israeliano, dal fiume di armi che alimentava le capacità offensive di Hamas. Ebbene, diversamente rispetto allo schema odierno, le bozze di accordo dei mesi scorsi prevedevano un ritiro immediato e totale di Israele dal Corridoio.
  Come tutti ricordano, l’intransigenza di Benjamin Netanyahu su quel punto fece guadagnare a Israele la patente dell’entità guerrafondaia disposta a sacrificare tutto, a cominciare dalla vita degli ostaggi, in omaggio a uno stralunato attaccamento a un fungibile pezzaccio di terra e sabbia. Non era così, evidentemente, e anche i militari – certo non tutti – che suggerivano a Bibi di accettare non si sognavano neppure di considerare irrilevante quella concessione, ma ritenevano semmai che valesse la pena di accordarla perché l’esercito sarebbe poi stato in grado di riprendere il controllo dell’area se, come era probabile, si fosse nuovamente prestata alle manovre di Hamas e ai passati passaggi di armamenti. Ma non è, ovviamente, tutto. 
  Che le bozze di accordo dei mesi passati – peraltro frustrate in primo luogo dai tira e molla di Hamas, non certo dai capricci israeliani, a tacere del bel regalo di sei ostaggi giustiziati con un colpo alla nuca – non possano essere in nessun modo paragonate alle linee dell’accordo ora in chiusura è spiegato con qualche definitività guardando a ciò che in questi mesi è successo. Se pure si trattasse (come non si tratta) di identici contenuti negoziali, l’accordo non è lo stesso prima o dopo l’eliminazione di Ismail Haniyeh, non è lo stesso prima o dopo l’eliminazione di Yahya Sinwar, non è lo stesso prima o dopo l’eliminazione di Hassan Nasrallah, non è lo stesso prima o dopo lo smantellamento di Hezbollah, non è lo stesso prima o dopo la caduta del regime siriano. 
  Tutte le cose che magari ci sarebbero state anche dopo (facciamo finta di poterlo ipotizzare) ma che, non essendoci allora, facevano lo scenario platealmente diverso; e che, essendoci ora, lo immutano in modo tale da privare di qualsiasi senso certe improbabili divagazioni sul presunto tempo perduto. Ma sono divagazioni che non hanno nulla a che fare con l’intelligenza delle cose e, al solito, con un rispetto anche vago per la verità. Adempiono alla solita, inesausta missione mistificatrice ed esprimono il solito, inesausto pregiudizio.

(LINKIESTA, 18 gennaio 2025)

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“Gli ostaggi sono l’arma principale di Hamas”. Parla Benny Morris

di Giulio Meotti

“Se la tregua si trasformerà in una vittoria di Hamas dipende da cosa succederà nei prossimi mesi”. Così al Foglio Benny Morris, 76 anni, professore emerito di Storia alla Ben Gurion University in Israele e noto per la sua ricerca innovativa sul conflitto israelo-palestinese. “Al momento è una piccola vittoria di Hamas nel senso che Netanyahu aveva detto che la guerra sarebbe finita con la distruzione di Hamas e Hamas è ancora lì, ha più combattenti oggi che all’inizio della guerra perché in questo anno ha reclutato molto ed è ancora capace di attaccare Israele dentro Gaza e al confine. Ora dipende da cosa succederà, se Hamas emergerà ancora al potere a Gaza. La vittoria più grande è di Trump, che ha costretto Netanyahu alla tregua e a rinunciare alla fine di Hamas”.
Nel lungo termine, il Jihad ne esce rafforzato. “Ai jihadisti non interessa la vita umana, ovviamente non degli israeliani ma neanche degli arabi, per loro possono andare in paradiso. 15-17 mila civili palestinesi sono stati uccisi e la popolazione di Gaza per i prossimi anni vivrà nelle tende. Forse Hamas alla fine sarà meno popolare a Gaza, ma chi lo sa? I fanatici islamici hanno calcoli diversi dagli occidentali”.
Benny Morris liquida così le chiacchiere da Teheran sulla “resistenza palestinese”. “L’Iran ha perso: ha perso Hezbollah, ha perso Assad, ha quasi perso Gaza, ha perso le sue difese aeree e ora fa solo propaganda”.
Imputa al governo d’Israele un passo falso enorme rispetto alle dichiarazioni dell’ultimo anno. “Netanyahu con l’accordo si è rimangiato la promessa che Israele non si sarebbe ritirato dal corridoio di Filadelfi al confine egiziano, essenziale per fermare l’ingresso di missili e altro materiale bellico. Lo stesso vale per il corridoio di Netzarim, che taglia in due la Striscia di Gaza: se un milione di gazawi potranno tornare alle loro case a nord, questo significa che sarà irreversibile per Israele”.
I cento ostaggi di Hamas si sono rivelati l’arsenale più prezioso dei terroristi. “L’uccisione di 1.200 israeliani e 250 ostaggi catturati è stato un terribile colpo psicologico per Israele, a cui si sono aggiunti gli ostaggi per oltre un anno nelle mani di Hamas. Questo ha anche deciso le sorti della guerra, perché Israele non ha potuto bombardare i tunnel di Gaza né entrare al loro interno senza mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Quindi gli scudi umani sono stati la grande arma di Hamas. Inoltre, saranno rilasciati in totale 290 terroristi ergastolani e 1,687 altri prigionieri e detenuti in cambio degli ostaggi. Un grande successo per i fondamentalisti islamici. Nel 2011 per il solo Gilad Shalit hanno avuto oltre mille terroristi. E ora la misura è un soldato israeliano per cinquanta palestinesi. La società israeliana non è pronta a sacrificare questi ostaggi. Nella Seconda guerra mondiale i tedeschi rapirono il figlio di Stalin. E Stalin cosa fece? Disse loro: ‘Uccidetelo’. Israele non è fatto così. Siamo una società occidentale. Siamo una società basata sulla famiglia, una comunità, e poi le dimostrazioni fuori dalla casa di Netanyahu e dalla Knesset. Io penso che questa sia una debolezza, ma faccio parte di una minoranza. E’ una debolezza in guerra”.
Questa guerra ha dimostrato molte cose. “La prima è che Hamas il 7 ottobre ha capito che Israele non era forte come pensavano. Poi l’attacco ha riportato la questione palestinese al centro dell’agenda mondiale. Terzo, l’Iran ne esce indebolito e con lui i suoi proxy. E forse finirà con Israele che attacca le installazioni nucleari dell’Iran. Poi c’è la questione occidentale: l’attacco ha scatenato l’antisemitismo che è sempre stato latente. Da una parte l’odio per Netanyahu, dall’altra l’irrisolta questione palestinese, infine l’odio per gli ebrei. Non parlo di tutto l’occidente: Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno sostenuto militarmente Israele, ma sicuramente i campus”. E anche fra le opinioni pubbliche c’è differenza: “In America c’è ancora una maggioranza solida del pubblico che sta con Israele”.

Il Foglio, 17 gennaio 2025)

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Accordo raggiunto tra Israele e Hamas: i primi ostaggi verranno rilasciati lunedì

di Luca Spizzichino

Dopo un ritardo di 24 ore, la crisi dell’ultimo minuto che aveva messo a rischio l’accordo sul cessate il fuoco e sul rilascio degli ostaggi sembra essere stata risolta. L’Ufficio del Primo Ministro ha annunciato che il gabinetto si riunirà oggi per approvare l’intesa, seguito da un incontro governativo. Tuttavia, alcune fonti sostengono che l’accordo non sia ancora definitivo e che, contrariamente alle previsioni iniziali, il governo non si riunirà venerdì, bensì sabato sera.
  Questo slittamento posticipa l’inizio del cessate il fuoco e il primo rilascio degli ostaggi a lunedì, in concomitanza con l’insediamento del presidente eletto Donald Trump, che aveva indicato tale data come termine ultimo per il rilascio degli ostaggi. Secondo i termini dell’accordo, tre ostaggi saranno liberati il primo giorno, seguiti da altri quattro al settimo giorno. Il processo di approvazione include anche la pubblicazione della lista dei prigionieri palestinesi destinati al rilascio, seguita da un periodo per la presentazione di eventuali ricorsi all’Alta Corte. Poiché non è possibile presentare ricorsi nel fine settimana, il procedimento potrà iniziare solo sabato sera.
  Sul fronte interno, la coalizione di governo guidata da Benjamin Netanyahu è sotto pressione. Giovedì sera, il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha annunciato che lui e il suo intero partito si dimetteranno in segno di protesta contro l’accordo. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, pur opponendosi all’intesa, non ha ancora minacciato dimissioni immediate, ma ha chiesto che i combattimenti riprendano subito dopo la prima fase dell’accordo come condizione per restare nel governo. Il leader del partito Shas, Aryeh Deri, ha invece dichiarato che tutti gli ostacoli sono stati superati e che l’accordo sugli ostaggi è ormai in corso. Intervenendo alla conferenza annuale di Shas a Gerusalemme, ha riconosciuto le critiche all’accordo all’interno della coalizione: “Capisco l’opposizione, sento questo dolore. Non è facile rilasciare assassini, ma tutti sappiamo quanto sia importante il precetto del riscatto degli ostaggi”.
  Dietro le quinte, il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, e il suo team hanno lavorato a Doha per ore con i mediatori, analizzando ogni singolo nome dei prigionieri da liberare. L’obiettivo era evitare che nella lista fossero inclusi terroristi considerati inaccettabili dai servizi segreti israeliani, ovvero figure simboliche che potrebbero rafforzare Hamas o ispirare nuovi attacchi terroristici. Questo ha causato un ritardo nella delegazione israeliana a Doha, ma ha anche permesso di consolidare l’accordo. Omer Dostri, portavoce del primo ministro israeliano, ha spiegato che uno dei punti di contesa riguardava la presenza delle forze israeliane nel Corridoio di Philadelphi. Hamas aveva richiesto modifiche alla disposizione delle truppe lungo l’asse durante il cessate il fuoco, ma secondo un funzionario israeliano si trattava solo di un “braccio di ferro dell’ultimo minuto”, e l’accordo è ormai “irreversibile”.
  Anche il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha confermato che “ci sono ancora alcuni dettagli da risolvere, e stiamo lavorando intensamente su questo proprio ora”. Secondo un funzionario statunitense citato da Reuters, sia l’inviato di Biden per la regione, Brett McGurk, sia l’inviato di Trump, Steve Witkoff, si trovano ancora a Doha per definire gli ultimi dettagli dell’intesa.

(Shalom, 17 gennaio 2025)

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Gaza, ecco la lista dei 33 ostaggi che saranno liberati da Hamas

Nell’elenco di chi verrà rilasciato a cominciare da domenica pomeriggio c’è la famiglia Bibas. C’è anche Kfir, il bimbo che ha vissuto solo da sequestrato

di Nello Del Gatto

C’è anche tutta la famiglia Bibas nell’elenco dei 33 ostaggi che saranno liberati, presumibilmente a cominciare da domenica pomeriggio, nel giro di 42 giorni. Non si sa quanti e quali di questi siano vivi, probabilmente 23, o morti o in che condizioni si trovino o quali ostaggi usciranno per primi o l’ordine nel quale saranno fatti uscire.

Dubbi sulle sorti degli ostaggi
  La famiglia dai capelli rossi, è una di quelle più note. Furono rapiti dal Kibbutz Nir Oz. All’epoca, Kfir, il più piccolo dei due fratellini, aveva 9 mesi, Ariel 4. Durante l’attacco al loro kibbutz, furono uccisi circa 180 persone, tra le quali i genitori di Shiri, la madre dei due bambini. Kfir, che domani compirà due anni, ha trascorso la maggior parte della sua vita come ostaggio di Hamas. Se vivo. Si, perché a novembre di due anni fa Hamas disse che la mamma e i due bambini erano stati uccisi in un attacco israeliano.
Di loro c’è solo il video di quando furono rapiti, dove si vede la donna stringere al corpo i due piccoli dai capelli rossi, mentre vengono portati via dai miliziani di Hamas. Un altro video fu fatto circolare mesi dopo, che riprendeva da lontano una donna coperta e velata che sembrava recare due piccoli in grembo e qualcuno la identificò con Shiri. Yarden, il padre trentaquattrenne, è stato tenuto in luogo diverso dai suoi figli e da sua moglie, sin dall’inizio. Hamas diffuse un video a dicembre 2023 nel quale lui piangeva e accusa Netanyahu di aver bombardato i suoi figli, avendo saputo da Hamas che erano morti. Da allora, non ci sono conferme sulla vita né dei piccoli né dei genitori.
Nell’elenco degli ostaggi da liberare c’è anche Liri Albag, l’ultimo ostaggio di Hamas del quale si ha un video. In questo, diffuso dal gruppo di Gaza all’inizio di questo mese, la ragazza accusa di non essere una priorità per il governo e i soldati, il mondo di averla dimenticata, i militari di bombardare senza sosta mettendoli in pericolo, di stare giocando con il loro futuro e che l'esercito non sarà in grado di tirarli fuori vivi.
L’accordo prevede che i primi tre ostaggi vengano liberati domenica, quattro dopo sette giorni, tre ogni sette giorni fino all’ultima settimana quando saranno liberati tutti. L’elenco, che comprende anche cittadini con nazionalità americana, francese e russa, contempla 10 donne, due bambini, undici uomini ultracinquantenni, e altrettanti sotto i 50 anni. L’accordo prevede che siano liberati in questa prima fase donne, bambini, uomini sopra i cinquant’anni e civili malati o feriti. Per ogni ostaggio, dalle carceri israeliane usciranno una trentina di prigionieri, a seconda se l’ostaggio e vivo o morto; 50 se l’ostaggio è una donna soldato.
Tra gli ostaggi nella lista, anche i due ragazzi, Hisham al-Sayed e Avera Mengistu che, rispettivamente nel 2015 e nel 2014 entrarono a Gaza e da allora sono ostaggio di Hamas.
Ecco i nomi che compongono la lista:
1. Liri Albag
2. Itzhik Elgarat
3. Karina Ariev
4. Ohad Ben-Ami
5. Ariel Bibas
6. Yarden Bibas
7. Kfir Bibas
8. Shiri Silberman Bibas
9. Agam Berger
10. Romi Gonen
11. Danielle Gilboa
12. Emily Damari
13. Sagui Dekel-Chen
14. Yair Horn
15. Omer Wenkert
16. Alexander Troufanov
17. Arbel Yehud
18. Ohad Yahalomi
19. Eliya Cohen
20. Or Levy
21. Naama Levy
22. Oded Lifshitz
23. Gadi Moshe Moses
24. Avera Mengistu
25. Shlomo Mansur
26. Keith Siegel
27. Tsahi Idan
28. Ofer Calderon
29. Tal Shoham
30. Doron Steinbrecher
31. Omer Shem-Tov
32. Hisham Al Sayed
33. Eli Sharabi

(La Stampa, 17 gennaio 2025)

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«Hamas espellerà Israele alla prima occasione»

Un alto funzionario di Hamas ringrazia Turchia, Sudafrica, Algeria, Russia, Cina, Malesia, Indonesia, Belgio, Spagna e Irlanda per il loro sostegno.

di Akiva Van Koningsveld

FOTO
L'alto funzionario di Hamas Khalil al-Hayya pronuncia un discorso durante la     
preghiera del venerdì a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, il 12 giugno 2015

Nella sua prima dichiarazione pubblica dopo aver accettato l'accordo di cessate il fuoco con lo Stato ebraico, mercoledì sera, l'alto funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha riaffermato l'impegno dell'organizzazione terroristica per la distruzione di Israele.
Secondo al-Hayya, il gruppo terroristico è riuscito a vanificare gli “obiettivi dichiarati e nascosti” di Israele durante i negoziati.
“Oggi dimostriamo che l'occupazione non sconfiggerà mai il nostro popolo e la sua resistenza”, ha dichiarato in un discorso televisivo di 18 minuti da Doha.
Gerusalemme ha “messo al sicuro i suoi prigionieri solo attraverso un accordo con la resistenza per porre fine alla guerra e all'aggressione e attraverso un onorevole scambio di prigionieri”, ha affermato al-Hayya.
Al-Hayya ha descritto il massacro del 7 ottobre 2023, in cui 1.200 persone sono state uccise in Israele, come un risultato “miracoloso” e ha dichiarato che le atrocità “rimarranno una fonte di orgoglio per i palestinesi” che sarà “tramandata per generazioni”.
L'attacco terroristico “ha colpito il cuore del nemico e, se Allah vuole, porterà al ripristino di tutti i nostri diritti”, ha dichiarato il leader di Hamas.
I terroristi di Hamas “espelleranno l'occupazione dalla nostra terra e da Al Quds [Gerusalemme] il prima possibile”, ha promesso al-Hayya, aggiungendo: “Il nostro nemico non ci lascerà mai vivere un momento di debolezza”.
Al-Hayya ha pianto la morte dei leader di Hamas Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Saleh al-Arouri, “i leader martiri i cui corpi sono stati straziati in questa battaglia”, e ha ringraziato i gruppi terroristici palestinesi che hanno combattuto al loro fianco durante la guerra.
“Ricordiamo anche le posizioni penetranti di molti Paesi che ci hanno affiancato in vari campi”, ha detto il leader terrorista, elogiando il sostegno di Turchia, Sudafrica, Algeria, Russia, Cina, Malesia, Indonesia, Belgio, Spagna e Irlanda, oltre che dei ‘popoli liberi del mondo’.
“Ricordiamo anche gli sforzi dei fratelli della Repubblica islamica dell'Iran che hanno sostenuto la nostra resistenza e il nostro popolo, hanno preso parte alla battaglia e hanno colpito il cuore dei sionisti nelle due operazioni”, ha detto, riferendosi agli attacchi missilistici di Teheran contro lo Stato ebraico il 1° aprile e il 1° ottobre.
“Ringraziamo tutti coloro che ci hanno sostenuto con parole, penne, voci, immagini, marce, dimostrazioni, l'arma del boicottaggio, gli sforzi politici e diplomatici, le azioni legali e alzando la voce contro l'aggressione e l'oppressione”, ha aggiunto.
Il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato mercoledì che Israele e Hamas hanno accettato il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi.
“Questo epico accordo per il cessate il fuoco poteva nascere solo grazie alla nostra storica vittoria di novembre, che ha segnalato al mondo intero che la mia amministrazione cercherà la pace e negozierà accordi per garantire la sicurezza di tutti gli americani e dei nostri alleati”, ha dichiarato Trump in un post su Truth Social.
Al Jazeera ha riferito che le delegazioni di Hamas, su istruzioni di al-Hayya, hanno consegnato l'accordo formale del gruppo ai mediatori in Qatar e in Egitto.
Alla notizia dell'imminente cessate il fuoco, sono scoppiati festeggiamenti di massa a Gaza, in Giudea e Samaria, secondo quanto riportato dai media locali.
Terroristi armati di Hamas sono usciti dai tunnel per festeggiare, ha riferito RT. L'emittente statale russa ha pubblicato il filmato di un terrorista di Hamas che ha promesso di “rimanere sul terreno” dopo l'accordo di cessate il fuoco.
La Jihad islamica palestinese, il secondo gruppo terroristico della Striscia di Gaza dopo Hamas, ha accolto l'accordo come “onorevole”.
“Oggi, il nostro popolo e la sua resistenza hanno fatto rispettare un accordo onorevole per fermare l'aggressione”, ha dichiarato mercoledì la PIJ, giurando di ‘rimanere vigili per assicurare la piena attuazione di questo accordo’.
La Guida Suprema iraniana , l'ayatollah Ali Khamenei, ha affermato in un post sui social media in lingua ebraica che la “resistenza” sostenuta da Teheran ha costretto lo Stato ebraico a “ritirarsi”, aggiungendo: “Sarà scritto nei libri che c'era una plebaglia che una volta ha ucciso migliaia di bambini e donne a Gaza”.
Anche il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell'Iran ha salutato l'accordo come “una chiara vittoria e una grande vittoria per la Palestina e una sconfitta ancora più grande per il mostruoso regime sionista”.
Nella prima fase dell'accordo verranno rilasciati 33 dei 98 ostaggi detenuti da Hamas a Gaza. Secondo quanto riportato, l'accordo prevede lo scambio di nove prigionieri malati e feriti con 110 terroristi palestinesi che scontano l'ergastolo nelle carceri israeliane.
Inoltre, nella prima fase dell'accordo, le forze israeliane dovranno ridurre la loro presenza militare nel Corridoio di Filadelfia, lungo il confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto. Le forze israeliane inizieranno a ritirarsi dal corridoio il 42° giorno della prima fase, dopo la liberazione dell'ultimo ostaggio rilasciato in questa fase, e completeranno il ritiro entro il 50° giorno.

(Israel Heute, 17 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Per l'alto sostegno ricevuto per la vittoria su Israele, l'alto funzionario di Hamas elogia non solo i popoli a loro amici, ma anche "i popoli liberi", cioè quelli a trazione americana, quelli che chiedono a Israele di essere pronto a sacrificare la propria esistenza al fine di salvare la libertà dell'Occidente libero. Viva la libertà! M.C.

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Di Segni contro il Papa: ‘ha alimentato ostilità contro Israele’

Il rabbino capo Riccardo Di Segni critica le dichiarazioni sbilanciate del papa sul conflitto tra Hamas e lo Stato di Israele.

ROMA – “Questo è un momento nel quale sembra che la Chiesa, o almeno una sua parte, stia cedendo di nuovo alla tentazione di tagliare i ponti con l’ebraismo. La guerra che si è scatenata dal 7 ottobre del 2023 ha avuto tra le sue vittime collaterali il dialogo ebraico-cristiano”. E’ stato una lunga alzata di scudi, che ha preso di mira anche il Papa, l’intervento del rabbino di Roma Riccardo Di Segni all’incontro “Pellegrini di speranza” di questo pomeriggio alla Pontificia Università Lateranense per la 36/a Giornata per il dialogo tra cattolici ed ebrei. “Nel mondo si è sollevata un’ondata di ostilità anti-israeliana, in alcuni casi informalmente limitata alla critica del governo e del suo premier ma poi allargata al popolo ebraico, che nel frattempo si era stretto solidale con le sorti di Israele minacciato”, ha rilevato Di Segni, secondo cui “le accuse contro Israele hanno rinfocolato e fatto leva su sentimenti anti-ebraici mai sopiti”. Per il rabbino di Roma, “il vocabolario usato è stato funzionale alla demonizzazione e al ribaltamento del senso di colpa per il ‘genocidio’ con parole e concetti propri di una tradizione di ostilità millenaria: la crudeltà degli ebrei, la volontà di vendetta, l’attacco ai bambini ecc”.
  Di Segni ha sottolineato che “la tragedia in corso non coinvolge solo Gaza ma l’intera regione, e comporta un rischio epocale per Israele che non è stato compreso o è stato sottovalutato. E questi concetti e vocaboli accusatori di Israele anziché essere bilanciati con una visione obiettiva sono stati ripresi da una parte della Chiesa. Dalla base fino al vertice. E così ha fatto da cassa di risonanza e avallo morale alla condanna”. Nel suo ‘j’accuse’, il rabbino ha voluto allargare la prospettiva “a quanto succede nel mondo, non tanto lontano da noi. Cifre recenti: Sudan meridionale 400 mila morti; Yemen 400 mila morti; Siria almeno 400 mila; Tigray in Etiopia almeno 300 mila; 13 milioni di rifugiati e 24 milioni di profughi all’interno dei Paesi. E per quanto riguarda il numero dei cristiani in Medio Oriente che cala vertiginosamente, nel solo Iraq da un milione e mezzo a 250 mila”. Su tutta questa “lista incompleta degli orrori in corso”, Di Segni ha puntato il dito contro i “vertici della Chiesa cattolica” per quanto riguarda “le sue omissioni, distrazioni, basso profilo, citazioni generiche”, che stridono “con l’attenzione sistematica e quasi quotidiana delle parole di riprovazione e condanna nei confronti di Israele”. “Motivazione formale – ha aggiunto – la nobilissima e condivisibile compassione per i sofferenti e la condanna della crudeltà della guerra. Che però, quando è monolaterale e monotematica, è sospetta”. “Sappiamo che il Papa ogni giorno è al telefono con il parroco di Gaza – ha insistito Di Segni -: quante telefonate ha fatto in Sudan, Siria, Etiopia, Congo, Yemen, quante volte ne ha parlato? Non lo sappiamo. Però sappiamo che con l’appoggio mediatico della Chiesa o di una parte della Chiesa, autorevole peraltro, Israele nel senso originale del popolo ebraico e poi dello Stato che ha questo nome, è tornato sul banco degli imputati”.
  Nella sua sequela di critiche al Papa, Di Segni ha obiettato anche il fatto che “a proposito del conflitto israeliano-palestinese si è espresso parlando di ‘sproporzione’ riferendosi alla reazione israeliana. La vera sproporzione è un’altra. E’, a confronto con altri eventi ben più tragici, l’attenzione mediatica concentrata su quei fatti. La propaganda avvelenata e menzognera che fa presa sulle persone. E perché c’è questa sproporzione? Perché c’è di mezzo Israele. In America con amara ironia usano un gioco di parole: ‘No jews no news’, se non ci sono ebrei non c’è notizia. E perché? Perché malgrado gli ebrei siano una piccola minoranza dell’umanità sono spesso al centro di avvenimenti di eccezionale gravità e di un’attenzione eccessiva”. E “quello che stiamo vedendo negli ultimi mesi è la ripetizione di uno schema antico, costante: Israele rappresenta per molti un nervo scoperto che basta stimolare per evocare reazioni eccessive. E’ un enigma, un problema irrisolto, una realtà con la quale è difficile convivere in pace, un ostacolo all’equilibrio delle persone e della società. E non è un caso che questa difficoltà trovi espressione proprio nelle parole critiche del capo di milioni di fedeli”.

(ANSA, 17 gennaio 2025)

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Viaggio in Israele

Il Gruppo Sionistico Piemontese organizza un viaggio in Israele nei giorni

                                                        30 marzo - 6 aprile 2025

Per informazioni e prenotazioni:
segreamar@gmail.com

(Gruppo Sionistico Piemontese, 17 gennaio 2025)

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Shemòt. La salvezza è “nelle nostre mani”

di Ishai Richetti

La Parashà di Shemot ci avvia sulla strada della redenzione, una strada che trova alcune svolte inaspettate lungo il cammino. Il primo problema che incontriamo è l’incomprensione del processo. Il primo tentativo di Moshè di liberare gli ebrei fallisce. Peggio ancora, il Faraone decide che gli ebrei hanno troppo tempo libero, con l’effetto immediato che non viene più fornita loro la paglia di cui hanno bisogno per fabbricare i mattoni per costruire le città. Con le loro vite ancora più appesantite, i leader del popolo ebraico supplicano il Faraone, che respinge le loro richieste, quindi rivolgono la loro ira su Moshè e Aharon, colpevoli, secondo loro, di aver peggiorato le loro condizioni. Moshè, a sua volta, si lamenta con Hashem: “ “O mio Signore, perché hai portato del male a questo popolo? Perché mi hai mandato? Da quando sono andato dal Faraone per parlare in Tuo nome, lui ha trattato questo popolo peggio; e ancora Tu non hai liberato il tuo popolo”.” (Shemot 5;22-23). Attraverso questi pesukim sembra quindi emergere un Moshè dubbioso, o un Moshè al quale viene instillato un dubbio.
Analizzando questi pesukim, Ibn Ezra si chiede cosa stesse turbando Moshè, quando Hashem stesso gli aveva detto che il Faraone non avrebbe liberato subito il popolo ebraico se non dopo tutta una serie di miracoli: “ Eppure so che il re d’Egitto vi lascerà andare solo a causa di una potenza superiore (Shemot 3;19). Se Moshè sapeva che la redenzione non sarebbe arrivata al primo tentativo, perché si lamentava?La risposta è che Moshè era cosciente che il processo non sarebbe stato semplice. Quello che però si aspettava era che già dopo la prima volta, dopo il primo incontro con il Faraone, si sarebbe arrivati ad una riduzione della sofferenza degli ebrei, sofferenza che invece aumenta. Questo anche perché D-o stesso aveva detto a Moshè: “Ho osservato attentamente la miseria del Mio popolo in Egitto e ho ascoltato il grido che rivolgono i suoi sovrintendenti; ho visto le sue sofferenze” (Shemot 3;7), che aveva visto le afflizioni degli ebrei, era sceso, per così dire, per salvare gli ebrei dagli egiziani, Moshè non riusciva a capire perché Hashem avrebbe permesso che quei problemi si aggravassero. Non capiva perché lui, Moshè, fosse stato mandato senza alcuna risposta da dare agli ufficiali ebrei che lo avevano rimproverato. Ibn Ezra pensa che Moshè (anche forse solo perché questi fatti accadono presto nella sua carriera di leader) potrebbe non vedere in questa fase il piano divino completo, anche se buona parte di questo era stato condiviso con lui. Le vie di Hashem sono spesso penetrabili anche per i più grandi tra noi.
La seconda incomprensione è che Aharon non sarà sufficiente e che la richiesta di Moshè di essere affiancato da Aharon nel suo affrontare il Faraone costituisce per Moshè una sorta di vittoria di Pirro (Shemot 4:15: “ Tu gli parlerai e metterai le parole nella sua bocca. Io sarò con te e con lui mentre parlerete e dirò a entrambi cosa dovrete fare“). Dopo aver detto che Moshè avrebbe dovuto mettere, letteralmente, le parole nella bocca di Aharon, D-o aggiunge che sarà con la bocca di Mosè e Aharon, per istruirli su cosa fare. Lo Sforno pensa che le parole di Hashem mostrino l’inutilità delle proteste di Moshè. Questo è testimoniato dal fatto che sebbene D-o abbia esplicitamente riconosciuto la maggiore abilità oratoria di Aharon, questa necessita comunque dell’aiuto di Hashem affinché il Faraone rispondesse alle loro parole. Questa risposta di D-o è in realtà una risposta a Moshè: Se Io sono con te, non importa se ti reputi bravo o meno, potrai affrontare la situazione anche da solo.
Questo messaggio è rafforzato da un altro episodio. Dopo che Moshè è stato persuaso da D-o ad intraprendere la missione di condurre gli ebrei fuori dall’Egitto, gli viene comandato: “e prenderai in mano questo bastone con cui farai i miracoli” (Shemot 4:17). Moshè quindi procede a congedarsi da suo suocero e lascia Midian per il pericoloso viaggio in Egitto. In obbedienza al comando divino, leggiamo, “ e Moshè prese in mano il bastone di D-o” (Shemot 4:20). In quel momento, D-o si rivolge a Moshè e dice, quando tornerai in Egitto, assicurati di fare davanti al Faraone tutti i miracoli “ che ho messo nella tua mano” (Shemot 4:21). Perché, chiede Abarbanel, D-o non menziona il bastone come l’agente con cui i miracoli devono essere effettuati? Non aveva ordinato a Mosè di portarlo con sé? Sembra che D-o stia evitando di proposito di menzionare il bastone. Per quale motivo?
Lo stesso Abarbanel fornisce una risposta che è, nella sua intuizione psicologica, di un significato senza tempo. Moshè aveva una paura naturale di tornare in Egitto. Era considerato dal Faraone un ricercato, un nemico pubblico. Gli stessi ebrei non avevano una gran considerazione di lui. Quindi Moshè era probabilmente contento quando D-o gli comanda di prendere il “bastone di D-o”. Questo divenne per lui la garanzia della sua stessa sicurezza mentre si imbarcava in questa impresa altamente pericolosa. In quel preciso momento, D-o interviene facendogli notare come il bastone sia solo uno strumento che di per sé non ha alcun valore speciale. “ Guarda tutte le meraviglie che ho posto nella tua mano” – è lì che risiedono la capacità di grandezza, la sicurezza della missione e le redini del destino: “beyadekha”, nella tua mano. Il bastone è meramente uno strumento divino, sono Io che ho chiesto che tu lo porti con te. Ma nel momento in cui un uomo ripone la sua fede in un bastone, nega la fede in se stesso e indebolisce la sua fede in Me. Quando il bastone diventa una stampella per l’uomo, interrompe il dialogo di fede tra D-o e l’uomo stesso. L’interpretazione di Abarbanel di questo dialogo tra D-o e Moshè è significativa per tutti noi in ogni momento.
Nelle leggi sulla tefillà, lo Shulcĥan Arukh (Orach Chayim 94:8) insegna che durante la recitazione della Amidà è improprio appoggiarsi all’amud, ad un tavolo o ad un supporto. Nelle nostre relazioni con D-o, dobbiamo avvicinarci a Lui direttamente. Questa è una peculiarità dell’ebraismo. Dobbiamo stare in piedi sulle nostre gambe e prendere i nostri destini spirituali “beyadekha”, nelle nostre mani. Cercare un Rabbino o uno studioso come insegnante della Torà, significa usare correttamente il bastone di D-o. Ma guardare al Rabbino come qualcuno su cui appoggiarsi ed evitare così le proprie responsabilità religiose intime, personali, come un osservatore vicario dei propri obblighi religiosi, questo significa usare una stampella. Dobbiamo fare affidamento su D-o, non sul Suo bastone sul Creatore, non sulle Sue creature.
La Parashà di Shemot è piena di esempi positivi di persone che hanno preso decisioni importanti e fondamentali grazie alle capacità innate e peculiari che D-o ha messo “beyadecha”, nella loro mano. Le decisioni e le azioni di Miriam, di Yocheved, di Batya, sono atti straordinari che sono stati fondanti per il popolo ebraico.
Naturalmente nessuno ci chiede di essere leader del calibro di Moshè, Aharon, Miriam, Yocheved, Amram ed altri. Quello che ci viene insegnato è di imparare a riconoscere quelle che sono le nostre capacità, quello che è il nostro valore, quello che ci contraddistingue, e sviluppare queste capacità per la nostra crescita personale. Attraverso l’osservare le mitzvot, attraverso atti di “eroismo quotidiano”, atti di chesed, tzedakà e comportamenti corretti, D-o ci manda la berachà di poter effettuare cose straordinarie “beyadecha”, con le nostre mani, rendendoci capaci non solo di migliorare noi stessi e di influenzare chi ci sta intorno, ma anche di innescare un circolo virtuoso nel quale potremo stupirci e renderci conto di quante cose che noi consideriamo alla stregua di miracoli siamo in grado di fare, anche collaborando tra di noi, ma senza bisogno di ulteriori orpelli.

(Kolòt - Morashà, 17 gennaio 2025)
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Parashà della settimana: Shemot (Nomi)

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Roma – Gideon Sa’ar al Tempio spagnolo

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La notizia arrivata ieri dell’intesa raggiunta è stata salutata positivamente dal mondo ebraico internazionale e italiano. La presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei), Noemi Di Segni, ha auspicato che l’intesa possa rappresentare l’inizio di un processo di stabilizzazione per l’intera regione mediorientale. «In questi drammatici mesi in cui Israele è stata attaccata da più fronti non solo militarmente, ma anche da una terribile propaganda di distorsione mediatica, fatta di accuse infondate da parte delle principali organizzazioni internazionali e di decisioni della Corte internazionale di Giustizia, il contesto geopolitico risulta travolto e cambiato. La pace è una parola immensa ed è sempre nel nostro orizzonte; ed è evidente che la vera pace per il popolo palestinese dipende anzitutto dalla sua leadership», ha dichiarato Di Segni, impegnata ieri in un incontro con il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, assieme ai vertici della Comunità ebraica di Roma, tra cui il rabbino capo Riccardo Di Segni e il presidente Victor Fadlun. Accolto al Tempio spagnolo della capitale, il ministro ha visitato il Tempio Maggiore ed il Museo ebraico di Roma. Un’occasione per confrontarsi sui rapporti tra il mondo ebraico e Israele, l’antisemitismo e le minacce dell’odio esploso dopo il 7 ottobre.
«Qui nelle nostre comunità e città europee l’imperativo è la lucidità, dettata da un prudente equilibrio: basta a slogan unilaterali che invitano a eliminare Israele, basta a bandiere di un colore solo affisse su balconi anche istituzionali», ha affermato Di Segni. «Lanciamo quindi l’appello a cessare anche il fuoco della distorsione e dell’odio antisemita, a dismettere l’uso di parole come genocidio e crimini di guerra per situazioni assai differenti: parole di cui l’imperativo della Memoria impone di non abusare».

(moked, 16 gennaio 2025)

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Accordo a rischio: Israele accusa Hamas di creare una crisi

di Luca Spizzichino

Quella che fino a ieri sembrava essere una partita chiusa, si è incredibilmente riaperta. Sebbene Stati Uniti e Qatar, mediatori dell’intesa, abbiano dichiarato mercoledì sera che l’accordo fosse stato raggiunto, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha evitato commenti pubblici, affermando che si esprimerà solo quando i termini saranno definitivi e ha accusato, attraverso il suo Ufficio, Hamas di fare marcia indietro su alcuni punti, creando una “crisi” che impedisce la finalizzazione dell’accordo. In una dichiarazione ufficiale in inglese e in ebraico, il governo israeliano ha affermato: “Hamas sta rinnegando gli accordi e creando una crisi dell’ultimo minuto che sta impedendo la firma dell’intesa. Il gabinetto non si riunirà fino a quando i mediatori non notificheranno a Israele che Hamas ha accettato tutti gli elementi dell’accordo.” Il capo del Mossad, David Barnea, inviato a Doha sabato notte per i negoziati, nel frattempo si trova ancora nella capitale del Qatar.
  Alcune fonti riferiscono che il ritardo nella convocazione del gabinetto sarebbe dovuto anche ai tentativi di ottenere il sostegno del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, il quale ha minacciato di lasciare il governo insieme al ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir se la guerra dovesse terminare.
  Secondo l’ufficio del Primo Ministro tuttavia, il nodo principale del contendere riguarda l’identità dei prigionieri palestinesi che dovrebbero essere rilasciati. Israele accusa Hamas di voler “imporre l’identità di questi assassini”, in contrasto con gli accordi precedenti. Tuttavia, una copia trapelata dell’intesa, la cui autenticità è stata confermata da The Times of Israel, stabilisce che il rilascio dei prigionieri avverrà “in base a liste concordate da entrambe le parti.” Secondo l’intesa, la prima fase del cessate il fuoco durerà sei settimane e prevede la liberazione graduale di 33 ostaggi israeliani, compresi due detenuti a Gaza da anni. Durante questa fase, Israele si ritirerà gradualmente dalle zone densamente popolate della Striscia di Gaza, inclusa la zona del Corridoio di Netzarim, e si dispiegherà lungo un perimetro di 700 metri al confine con Gaza. Il valico di Rafah con l’Egitto verrà aperto per permettere ai civili e ai feriti di lasciare la Striscia dopo la liberazione di tutte le donne ostaggio. A partire dal 16° giorno, inizieranno i negoziati per la seconda fase dell’accordo, che prevederebbe il rilascio degli altri 65 ostaggi ancora in mano ad Hamas.
  Un membro di Hamas, Izzat el-Risheq, ha ribadito che il gruppo terroristico resta impegnato nel rispetto dell’accordo annunciato dai mediatori, tuttavia la situazione resta tesa e incerta, con Israele che attende una risposta definitiva da Hamas e dal Qatar prima di procedere con la ratifica dell’accordo.

(Shalom, 16 gennaio 2025)

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Trump e gli israeliani potrebbero rimpiangere l'accordo sugli ostaggi

Le minacce contro Hamas e i suoi alleati e le pressioni su Netanyahu hanno chiaramente svolto un ruolo decisivo. Tuttavia, la probabile rinascita di uno Stato terrorista creerà nuovi problemi all'alleanza.

di Jonathan S. Tobin

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Famiglie e sostenitori degli ostaggi nella Striscia di Gaza ascoltano l'accordo per il rilascio dei prigionieri fuori dalla base militare di Kirya a Tel Aviv il 15 gennaio 2025

GERUSALEMME - Per la maggior parte dei sostenitori di Israele, il 20 gennaio e l'inizio del secondo mandato del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump non sarebbero potuti arrivare abbastanza presto.
La debolezza del presidente Joe Biden e la sua politica di appeasement nei confronti dell'Iran, così come le sue politiche ambivalenti e i suoi rimproveri pubblici allo Stato ebraico, sono diventati una routine dopo gli attacchi terroristici guidati da Hamas nel sud di Israele del 7 ottobre 2023, che hanno ucciso 1.200 persone e ne hanno deportate 251 nella Striscia di Gaza. Le conseguenze di questo attacco hanno minato l'alleanza tra i due Paesi negli ultimi 15 mesi. I successi militari delle Forze di Difesa israeliane contro i terroristi di Hamas a Gaza e gli Hezbollah in Libano lo scorso anno sono stati il risultato della coraggiosa decisione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di rifiutare i terribili consigli di Biden e dei suoi team di politica estera e di sicurezza.
Ma sembra che la seconda amministrazione statunitense sotto Trump abbia già commesso il suo primo errore di politica estera prima del suo insediamento lunedì.
L'accordo appena annunciato per il rilascio degli ostaggi e il cessate il fuoco tra Israele e Hamas potrebbe essere in gran parte il risultato delle minacce di Trump contro i terroristi e i loro alleati, insieme alle pressioni esercitate su Netanyahu dal nuovo inviato americano per il Medio Oriente Steven Witkoff. Se Hamas non rinnegherà l'accordo all'ultimo minuto, contrariamente alla sua prassi precedente, l'ex e futuro presidente avrà ottenuto ciò che voleva.

Rispondere alle minacce
  Trump ha ripetutamente affermato di volere la liberazione degli ostaggi prima del suo insediamento e ha giurato che avrebbe “scatenato l'inferno” se ciò non fosse avvenuto. Si è trattato di un'allusione tanto ai finanziatori e ai sostenitori di Hamas, come il Qatar e l'Iran, quanto ai terroristi. Ma se le notizie sono vere, è stata anche la dura pressione esercitata da Witkoff su Netanyahu a costringere il primo ministro a fare concessioni sotto forma di condizioni favorevoli, come il ritiro di Israele da Gaza e il rilascio in massa dei terroristi imprigionati, tra cui molti con le mani sporche di sangue.
I critici di Netanyahu in patria e all'estero hanno frainteso la sua lodevole riluttanza a fare un accordo che avrebbe minato la sicurezza di Israele e portato a nuove atrocità come quella del 7 ottobre in futuro, come motivata da mere politiche di potere. Tuttavia, mentre esercitava pressioni su di lui, mentre Biden e il Segretario di Stato Antony Blinken esercitavano pressioni su di lui (e mentre sembra ricevere poco credito per ciò che ha ottenuto), Netanyahu ha dimostrato ancora una volta la sua disponibilità a pagare un prezzo elevato per ottenere il rilascio di almeno alcuni degli israeliani ancora detenuti da Hamas.
Hamas è sempre stato il principale ostacolo a un accordo sugli ostaggi. I suoi leader hanno ripetutamente ostacolato i negoziati, anche se Israele è stato disposto a fare gravi concessioni per liberare gli uomini, le donne e i bambini rapiti nell'orgia palestinese di omicidi di massa, torture, stupri e distruzione selvaggia che ha scatenato l'attuale guerra.
Nonostante le sofferenze che Hamas ha inflitto al suo stesso popolo, le sconfitte delle sue squadre del terrore e la morte dei suoi leader, il gruppo terroristico si rifiuta ostinatamente di porre fine ai combattimenti. Si aggrappa alle convinzioni che hanno portato alla decisione di violare il confine di Israele 15 mesi fa. Sono certi che gli Stati Uniti e una comunità internazionale ostile a Israele prima o poi costringeranno Gerusalemme a piegarsi alla loro volontà. E mentre non c'è leader al mondo più ostile a loro, o al loro obiettivo genocida di distruggere lo Stato ebraico, di Trump, sembra che abbia fatto proprio questo [cioè Trump ha costretto Gerusalemme a piegarsi alla volontà di Hamas, ndt].
. Al presidente eletto va riconosciuto il merito di aver parlato con una chiarezza morale sulla presa di ostaggi da parte di Hamas che pochi nell'amministrazione statunitense di Biden hanno espresso. Sebbene i suoi molti critici considerino Trump incapace di empatia, questo problema gli sta ovviamente a cuore. Il suo sostegno a Israele, che non ha eguali in nessun altro presidente americano, gli ha fatto guadagnare la fiducia degli israeliani.
Ma per quanto i cittadini israeliani e tutte le persone oneste del mondo si rallegrerebbero per il rilascio di anche uno solo degli ostaggi come risultato di questi negoziati, sembra che tutto ciò riguardi principalmente l'ottica in vista dell'insediamento di Trump e dell'inizio di un secondo mandato. Vuole che si ripeta il precedente del 1981, quando il Presidente Ronald Reagan entrò in carica annunciando il rilascio degli ostaggi americani detenuti dall'Iran. Vuole anche entrare in carica senza guerre in Medio Oriente, o almeno con un cessate il fuoco nella guerra di Gaza, per affermare di essere stato una forza di pace.
Questo desiderio non deve essere liquidato come una mera funzione del suo presunto isolazionismo. L'opposizione di Trump al coinvolgimento degli Stati Uniti in nuove guerre in Medio Oriente è sostenuta dalla stragrande maggioranza del popolo americano. È anche saggia, viste le disavventure dei suoi predecessori e i disastri che si sono verificati sotto la guida di Biden a causa della sua scarsa capacità di giudizio, del suo ostinato desiderio di ripetere gli errori di Barack Obama e del suo evidente declino mentale.
Ma spingere per questo accordo sugli ostaggi, come indicano i rapporti sui suoi termini, porterà quasi certamente a una ripresa del controllo di Hamas su Gaza. Questo non fa altro che mettere Gerusalemme e Washington di fronte a problemi futuri che metteranno alla prova sia il sostegno di Trump a Israele sia la sua lodevole preferenza per l'assenza di guerre.

Pesare moralmente l'accordo sugli ostaggi
  Non esiste un equilibrio morale coerente o oggettivo con cui i leader nazionali possano giudicare se le concessioni che stanno facendo per garantire il rilascio dei cittadini rapiti stiano facendo più male che bene. Inoltre, sono sottoposti a pressioni insopportabili da parte delle loro famiglie e dei loro sostenitori nella popolazione e nella stampa. Nel caso di Netanyahu, la situazione è aggravata dal fatto che i suoi avversari politici si sono ampiamente appropriati del movimento per il rilascio degli ostaggi.
Come ho potuto constatare personalmente, la retorica dei raduni settimanali nella “Piazza degli ostaggi”, di fronte al Museo d'Arte di Tel Aviv, è spesso suonata come se Netanyahu fosse il rapitore - e come se fosse l'unico responsabile della loro attuale condizione e non i terroristi che li hanno rapiti e si rifiutano di lasciarli andare.
Tuttavia, nessuno al di fuori di Israele ha il diritto di condannare Netanyahu per aver accettato un altro accordo così dannoso se questo porta al rilascio di almeno alcune persone.
Se da un lato dovremmo tutti rallegrarci per il loro rilascio, dall'altro nessuno - tantomeno Trump e la sua squadra di politica estera e di sicurezza - dovrebbe essere ingenuo riguardo alle conseguenze del prezzo che Israele sta pagando per garantirgli, presumibilmente, l'inaugurazione che desidera.

Il suo obiettivo non sarà raggiunto
  Innanzitutto, le condizioni imposte da Witkoff a Netanyahu, ad Hamas e ai loro alleati sono ben al di sotto di quanto richiesto da Trump. Non tutti gli ostaggi saranno rilasciati entro il 20 gennaio.
Nella prima fase dell'accordo, solo 23 degli ostaggi rimanenti, donne, bambini, anziani e malati gravi, saranno rilasciati in cambio di circa 1.000 terroristi palestinesi. Inoltre, Israele si ritirerà parzialmente dalla Striscia di Gaza, ma si impegna a facilitare l'ingresso di un maggior numero di forniture umanitarie nella Striscia, anche se è tutt'altro che chiaro che la maggior parte di esse non verrà rubata nuovamente da Hamas o da altri criminali palestinesi invece di andare alla popolazione civile. I circa 60 ostaggi rimanenti, che potrebbero o meno essere ancora vivi, saranno rilasciati solo se si riuscirà a negoziare un accordo di seconda fase per la fine definitiva dei combattimenti con i corpi degli altri ancora in possesso di Hamas, e saranno consegnati solo durante una teorica terza fase.
Quale prezzo chiederà Hamas per accettare una seconda o terza fase? Quasi certamente chiederà il ritorno allo status quo ante del 6 ottobre 2023, quando il gruppo islamista governava Gaza come uno Stato palestinese indipendente solo di nome.
Chiunque creda che questo non sarà accompagnato dal riarmo e dalla riorganizzazione delle forze armate dei terroristi, distrutte durante la guerra, sta sognando. E questo garantirà un futuro in cui gli israeliani dovranno abituarsi di nuovo a una costante pioggia di razzi e proiettili da Gaza, oltre che a una minaccia sempre presente di attacchi terroristici transfrontalieri. In altre parole, tutti i sacrifici di sangue e di fortuna che Israele ha fatto per garantire che Hamas non possa mai ripetere le atrocità del 7 ottobre sarebbero stati inutili.
Questo non sarebbe solo una tragedia per Israele. Metterebbe Trump in una posizione in cui, come Biden, dovrebbe scegliere tra un sostegno incondizionato agli inevitabili contrattacchi israeliani su Gaza per cercare di schiacciare nuovamente Hamas e una politica di pressioni su Gerusalemme per sopportare semplicemente il dolore del terrorismo.
Le dichiarazioni della squadra di Trump, come quella di Pete Hegseth, candidato alla carica di Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, sul sostegno agli sforzi israeliani per sradicare Hamas e altri terroristi sponsorizzati dall'Iran, sono incoraggianti. Ed è probabile che Witkoff abbia assicurato agli israeliani che Trump coprirà le loro spalle se l'intransigenza di Hamas dovesse far deragliare la seconda fase dell'accordo, come sembra probabile. Ma se il team di Trump crede in una politica che si oppone alla restituzione di Gaza ad Hamas (e non c'è motivo di dubitarne), perché Trump e Witkoff hanno spinto per un cessate il fuoco che porterà proprio a questo risultato? Israele e gli Stati Uniti non farebbero meglio a evitare qualsiasi cosa che possa rafforzare nuovamente Hamas?

Un errore alla Biden?
  Il 20 gennaio potrebbe effettivamente esserci un cessate il fuoco a Gaza. Tuttavia, Trump deve capire che il prezzo che chiede a Israele per il rilascio di pochi ostaggi darà ad Hamas e all'Iran una vittoria immeritata. Non si può negare che questo è il modo in cui i palestinesi e gran parte del mondo percepiranno l'accordo. Con ciò, Trump rende più che probabile un'altra serie di feroci combattimenti a Gaza, in cui moriranno altri israeliani e palestinesi. Questo sarà accompagnato da altre decisioni in cui il Presidente sarà costretto a scegliere tra l'impunità dell'Iran per il suo comportamento e un conflitto armato che potrebbe coinvolgere le forze statunitensi.
Questo è esattamente il tipo di errore che Biden ha commesso più volte, mentre Trump ha evitato errori strategici nel suo primo mandato.
Gli amici di Israele e coloro che sono profondamente turbati dall'aumento dell'antisemitismo americano durante la presidenza di Biden hanno molto da aspettarsi una volta che la nuova amministrazione statunitense prenderà il timone. E ci sono tutte le ragioni per credere che nel suo primo giorno in carica, Trump firmerà ordini esecutivi che inizieranno lo sforzo di porre fine al regno della discriminazione razziale in nome della diversità, dell'equità e dell'inclusione (DEI) e della guerra “progressista” all'Occidente, che è inestricabilmente legata all'odio per gli ebrei. Ma se inizierà il suo secondo mandato con un accordo che è un regalo ad Hamas e all'Iran, creerà nuovi problemi a se stesso perché sta commettendo un errore che gli americani e gli israeliani potrebbero dover pagare con il loro sangue.

(Israel Heute, 16 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Ventunesimo raduno di Evangelici d’Italia per Israele

Siamo lieti di annunciare il 21*raduno di Evangelici d’Italia per Israele (EDIPI), che si terrà nuovamente a Bologna presso la chiesa Gospel Forum dal 14-15 e 16 marzo 2025.

Obiettivi di EDIPI:

EDIPI si propone di:
• Promuovere una corretta informazione sul ruolo di Israele nel progetto di Dio.
• Sostenere la Chiesa Messianica in Israele.
• Favorire il dialogo e la cooperazione tra cristiani italiani e il popolo ebraico.

Servizi offerti da EDIPI:
• Organizzazione di convegni e seminari per approfondire la conoscenza di Israele e del suo significato biblico.
• Supporto alle comunità messianiche in Israele attraverso iniziative di preghiera e raccolte fondi.
• Creazione di reti di contatto tra chiese italiane e realtà israeliane per promuovere scambi culturali e spirituali.

Oratori principali:
• Israel Pochtar: Fondatore e pastore senior della congregazione Beit Hallel ad Ashdod, Israele. È noto per il suo impegno nell’evangelizzazione, nella fondazione di nuove congregazioni e nel sostegno ai bisognosi in Israele. Viaggia frequentemente all’estero per predicare sul significato di Israele negli ultimi tempi e per rafforzare i ponti tra le nazioni e la terra di Israele.  

• Mike Danna: Pastore con una lunga esperienza nel ministero pastorale e nell’insegnamento della Parola di Dio. Apostolo della comunità Gospel Forum Italia, è riconosciuto per la sua passione nel guidare le comunità verso una comprensione più profonda delle Scritture e per il suo impegno nel promuovere la crescita spirituale dei credenti.

• Davide Ravasio: Pastore dedicato al servizio della comunità cristiana, con particolare attenzione all’insegnamento biblico e alla cura pastorale. È apprezzato per la sua capacità di comunicare in modo chiaro e coinvolgente, incoraggiando i fedeli a vivere una vita conforme ai principi evangelici.

Collegamento straordinario durante il raduno con una grande amica di EDIPI: Fiamma Nirenstein
Inoltre anche questo anno avremo la partecipazione di: Keren Hayesod – United Israel Appeal

LOCANDINA

(EDIPI, 16 gennaio 2025)

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Tavola Rotonda su Israele e Medio Oriente

Si è tenuta ieri, a Roma, la tavola rotonda “Israel and the Middle East: New Prospects Under a Republican Administration”.

di Alexandro Ascoli

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Si è tenuta ieri a Roma, presso la sede del “Circolo degli Esteri”, la tavola rotonda su Israele e Medio Oriente sotto la nuova amministrazione Repubblicana, organizzata dal Think Tank romano “Trinità dei Monti”. Ospiti prestigiosi hanno animato la serata che è stata contraddistinta da interventi interessanti e non convenzionali, sia da parte dei relatori che del pubblico presente in sala, molto attento ed informato.
  Dopo la lettura dell’intervento di Niram Ferretti, giornalista e scrittore esperto del Medio Oriente, che non ha potuto essere presente, la discussione è proseguita con gli interventi degli illustri ospiti, a cominciare da Bepi Pezzulli Direttore della Ricerca di Italia Atlantica.

Bepi Pezzulli
  Pezzulli fa notare come l’ipotesi dei due stati stia progressivamente perdendo di attualità proprio a causa della mancanza, storica, di una vera definizione dello stato palestinese da parte araba. Mentre l’Idea di Stato, da parte Israeliana è sempre apparsa chiara nella sua fattispecie. Per gli stessi arabi il concetto di Stato Palestinese ha assunto, dagli inizi del ‘900 ad oggi, connotati via via diversi e mai definiti.
  Anche la tesi di un 7 Ottobre scoppiato per riportare il problema palestinese al centro dell’agenda internazionale e contro gli accordi di Abramo è una interpretazione che va vista alla luce dei motivi veri che hanno portato agli accordi. Motivi che risiedono nella convergenza di interessi, tra stati sunniti ed Israele, nella non proliferazione nucleare in Medio Oriente. Ipotesi chiaramente invisa all’Iran che pilota Hamas.
  L’esposizione di Pezzulli si allarga poi al Ruolo della Turchia, definito “Overrated” anche se ne riconosce l’efficace politica dalla “Mani Libere” che le permette di giocare la sua partita geopolitica contemporaneamente su più tavoli. In questo la nuova amministrazione Trump non attuerà una politica isolazionista ma di Balance of power tra i vari attori mondiali e locali.

Germano Dottori
  Secondo relatore della serata è stato Germano Dottori, membro del Comitato scientifico della prestigiosa rivista di geopolitica Limes. Dottori ci tiene a far notare come, secondo lui, il neoeletto presidente Trump abbia un particolare focus, quello di dedicarsi alle politiche interne e di delegare i problemi geopolitici agli alleati degli Stati Uniti. Individua il modello trumpiano in quello di un paleo conservatore alla Andrew Jackson piuttosto che in un Neocon, e quindi ritiene che la politica di Trump, nel Medio oriente sarà quella di delegare la gestione dell’area ad Israele. L’interesse di Trump, insomma, è quello di essere ricordato come il presidente che restituirà il benessere e la serenità alla middle class americana ed ai colletti blu del Midwest. Questo comporterà, per l’Europa e per tutti gli alleati americani nel mondo uno sforzo nel migliorare la propria autotutela, esattamente come Israele ha fatto negli ultimi venti anni.

Emanuel Segre Amar
  Una analisi assolutamente originale ci arriva, da Emanuel Segre Amar, presidente del Gruppo Sionistico Piemontese. Segre Amar, nato a Gerusalemme prima della fondazione dello Stato di Israele ci tiene, giustamente, a far notare come l’Idea di un Popolo Palestinese non affondi le radici nella storia ma risalga non più addietro del 1964 per un progetto geopolitico dell’URSS. Questa idea, dunque, si innesta su una realtà assolutamente differente nella quale, ancora oggi, vediamo gli abitanti arabi dei territori contesi riconoscersi maggiormente nel proprio gruppo tribale piuttosto che in una idea di stato. Da una realtà assolutamente analoga nascono gli Stati del Golfo Persico, emirati indipendenti che si riconoscono in una unità tribale che svolge il ruolo di Nazione. Segre Amar ipotizza dunque, per i palestinesi, un cambio di paradigma nei loro rapporti con Israele. Non più il confronto di due stati per cui l’unico fattore comune della parte araba è la contrapposizione religiosa, ma un confronto multilaterale tra Israele ed i vari emirati palestinesi.

Emanuele Ottolenghi
  A conclusione degli interventi si è collegato tramite piattaforma online Emanuele Ottolenghi, ricercatore indipendente su terrorismo e Medio Oriente il quale si pone in controtendenza rispetto a Bepi Pezzulli e, soprattutto, a Germano Dottori. Secondo Ottolenghi l’amministrazione Trump non sarà tanto affetta da Isolazionismo quanto da un forte interventismo in tutte le aree di crisi che possano determinare instabilità globale. Proprio per avere mano libera nel risolvere i problemi interni, gli USA condurranno una guerra senza quartiere a tutti gli “elementi di disturbo” nel panorama geopolitico internazionale, prima fra tutte Hamas.

Conclusioni
  Dopo un interessante giro di interventi del pubblico al quale i relatori hanno risposto in maniera approfondita, le conclusioni che si possono trarre sono abbastanza chiare. Il futuro del Medio Oriente sotto l’amministrazione Repubblicana non lascerà spazio alla variabilità ed alla incertezza. Gli Stati Uniti hanno bisogno di stabilire sicurezza e tranquillità nell’area per garantire gli scambi commerciali di loro interesse ed il predominio geostrategico.
  A questo scopo favoriranno la ricerca di una soluzione eliminando le schegge impazzite. A tal fine è interessante e degna di nota l’ipotesi di intraprendere rapporti di comunicazione direttamente con i gruppi tribali palestinesi anziché con entità sovranazionali che soffrono le ingerenze di potenze straniere come Iran o Turchia. Già in questi momenti all’Interno della Striscia di gaza, i gruppi tribali stanno riassumendo il loro ruolo storico di gestione del territorio e della popolazione. Con essi, e con quelli delle popolazioni arabe di Giudea e Samaria, pian piano sarà forse possibile instaurare rapporti analoghi a quelli che l’Ishuv aveva tra la fine dell’800 ed i primi del ‘900, di collaborazione e poi di fiducia tali da realizzare quel sogno di convivenza pacifica che l’invenzione di un popolo palestinese ha, fin ora impedito.
  Resterà da smantellare tutta una narrativa che ha riempito le menti, soprattutto in occidente, di studenti ed intellettuali, di una storia unitaria del popolo palestinese. Storia che non c’è mai stata. Su questa falsità storica si è imperniata prima una lotta ideologica che ha caratterizzato gli anni della guerra fredda, e poi “umanitaria”, che ha voluto identificare i palestinesi in un popolo discriminato etnicamente.
  Da questo punto di vista gli emirati locali potranno rispondere alla richiesta identitaria degli arabi di Giudea, Samaria e Gaza e, contemporaneamente, questa identità darà un senso nazionale alla fondazione di Stati autonomi ed indipendenti magari, un domani, federati in una Unione sul modello degli EAU.

(Il Repubblicano, 15 gennaio 2025)

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Il ministro degli Esteri israeliano Sa'ar: «I punti più difficili dell'accordo con Hamas? I terroristi da rilasciare e il ruolo delle truppe nella transizione»

Ricevuto ieri alla Farnesina dal suo collega Antonio Tajani, il ministro degli Esteri di Israele sostiene che Hamas faccia «male ai palestinesi».

di Maurizio Caprara

- Una volta raggiunto l’accordo tra Israele e Hamas, superata anche la prima fase del rilascio tra ostaggi israeliani e detenuti palestinesi, chi dovrebbe governare Gaza?
  «Non Hamas», è la risposta priva di sfumature di Gideon Sa’ar, ministro degli Esteri di Israele dopo essere stato giovane militare con compiti di intelligence, giornalista, vicepremier, parlamentare, più volte ministro e adesso presidente del Partito della Destra Unita. Ricevuto ieri alla Farnesina dal suo collega Antonio Tajani, in questa intervista l’alleato, in passato concorrente, che Benjamin Netanyahu ha fatto entrare nel suo governo in novembre, affronta risvolti del negoziato tenuto a interrompere la guerra cominciata il 7 ottobre 2023 con l’aggressione allo Stato ebraico e avanza una richiesta all’Italia apprezzandone molto la linea seguita finora.

- Quali possono essere altre possibili soluzioni per amministrare la Striscia? Fra i detenuti che rilascerete — tra i quali sono in tanti ad avere sulle spalle delitti atroci — non rientra Marwan Barghouti, condannato a più di un ergastolo per omicidi. È perché Hamas non lo vuole, essendo Barghouti di Al Fatah, o perché il governo israeliano non vuole che diventi il leader di una nuova stagione per i palestinesi?
  «Ciò che sul negoziato posso dire è che, senza fare nomi, ci sono alcuni simboli del terrore. E rilasciare simboli del terrore potrebbe incoraggiare il terrorismo. In ogni caso il nome che cita non è di uno in carcere per le sue personali aspirazioni politiche, bensì per aver assassinato israeliani e mandato a ucciderne. Alcuni in un ristorante di Tel Aviv vicino a dove abito».

- A governare Gaza potrebbe essere l’Autorità nazionale palestinese?
  «Non dobbiamo dettarlo noi. Abbiamo solo due condizioni: che quanti gestiranno la Striscia di Gaza non siano coinvolti in terrorismo e suoi incoraggiamenti né incitino contro Israele e gli ebrei».

- C’è chi dirà: dopo le migliaia di morti palestinesi che ci sono stati a Gaza non sarà facile trovare qualcuno estraneo a un approccio del genere.
  «Forse lei ha ragione. Ma era facile prima? Abbiamo cominciato noi l’attacco del 7 ottobre? Si puntava a eliminare Israele e per fortuna gli attacchi sui vari fronti non sono stati simultanei. La guerra di Gaza poteva finire tanto tempo fa. Abbiamo ancora lì 98 cittadini che sono stati rapiti mentre per lo più si trovavano a letto, in casa. Hanno rifiutato di rilasciarli. Se Hamas restasse al potere i tentativi di assassinare israeliani ed eliminare lo Stato d’Israele continuerebbero. È anche interesse palestinese che Hamas non regga Gaza in futuro. Si guardi al modo codardo nel quale conducono la guerra».

- Da sotto terra?
  «Dai tunnel che hanno scavato per se stessi, mentre i civili sono senza protezione. Avrebbero potuto fare il contrario: giù la gente da proteggere e loro su a combattere i nostri soldati».

- Quali sono stati gli ostacoli principali sulla via dell’accordo con Hamas?
  «Parlando in generale, perché non mi esprimo su contenuti del negoziato per non danneggiarlo, discussioni su quanti terroristi rilasciare per ogni ostaggio. Poi la presenza delle nostre forze armate nella Striscia durante l’applicazione dell’accordo che sarà graduale. Adesso si riassumono le cose che succederanno nella prima fase, la quale si suppone di 42 giorni. Le cose da realizzare nella seconda fase verranno discusse dopo».

- Alla stabilizzazione di Gaza quale contributo potrebbe dare l’Italia?
  «Sotto la guida del presidente del Consiglio Giorgia Meloni l’Italia è uno dei Paesi più stabili e influenti dell’Unione europea. Non è sempre stato così, come in Israele... (Sa’ar sorride riferendosi alla frequenza delle crisi di governo in entrambi i Paesi, ndr). Adesso notiamo tanti Stati dell’Ue non stabili e l’Italia, che invece lo è, ha un leader popolare, influente e apprezzato dentro e fuori il continente, in buone relazioni con il nuovo presidente degli Stati Uniti. Credo possa giocare un ruolo nello spostare l’Europa verso politiche più equilibrate e realistiche sul Medio Oriente».

- A quali misure pensa?
  «Per esempio alla posizione sull’Autorità nazionale palestinese che paga i terroristi e le loro famiglie per le uccisioni di ebrei, a seconda di quanti ne uccidono. Malgrado l’evitarlo fosse una richiesta dell’Ue, i finanziamenti europei all’Anp proseguono. Poiché conosco la posizione del governo italiano, potrebbe porre la questione sul tavolo europeo. Lo chiederà Donald Trump».

- Secondo l’agenzia di stampa iraniana Irna papa Francesco ha detto al presidente dell’Università delle Religioni e delle Denominazioni iraniana: «Anche noi non abbiamo problemi con gli ebrei, e il nostro solo problema è con Netanyahu, il quale indipendentemente da diritto internazionale e diritti umani ha creato crisi nella regione». Ne parlerà durante la sua visita a Roma?
  «Non avrò incontri in Vaticano. Non so se questo sia stato detto, se lo è ne sono rattristato. L’Iran non è un esempio di libertà religiosa o di tolleranza verso i cristiani e sono sicuro che il Papa ne è abbastanza consapevole. Perché si sa, e sono certo che lo sappia il Pontefice, che Israele è stata attaccata da ogni fronte: da Gaza, Libano, Yemen, Iran Iraq... Abbiamo soltanto risposto. Forse qualcuno ci può incolpare di averlo fatto meglio dei nostri nemici, ma nessuno può dire che Israele o Netanyahu abbiano cominciato questi conflitti».

(Corriere della Sera, 15 gennaio 2025)


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Visita del Ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar a Roma

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Questa mattina Edipi, rappresentato dalla socia Bonnie Rose, è stato invitato all’incontro con il Ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar presso il Cavaglieri Waldorf Astoria.
Un grazie di cuore a Bonnie Rose che ha rappresentato Edipi e ci ha fatto partecipe dell’incontro con un resoconto che potete leggere di seguito, accompagnato da alcune foto.
L’incontro di oggi è stato molto utile su tanti fronti. Il Ministro Sa’ar ci ha spiegato che gli incontri con le amministrazioni degli Stati Uniti, sia attuali che future, stanno andando avanti per giungere a un accordo sugli ostaggi questa settimana. Ha spiegato che il cambiamento di novembre scorso riguardo all’operare di Israele ha consentito la flessibilità per raggiungere un accordo. Non è una flessibilità illimitata, ma certamente una flessibilità per i loro interessi. Ha aggiunto che la trattativa attuale per il rilascio degli ostaggi non è una trattativa parziale ma graduale, in quanto intendono riavere indietro tutti gli ostaggi. Ha spiegato che ci vuole ancora tempo per pianificare la ricostruzione di Gaza e arrivare a una struttura di gestione e sicurezza. Il fatto che da questo accordo tanti terroristi saranno liberati rende la cosa molto complicata.
Una cosa interessante che il Ministro Sa’ar ha precisato è che, gli europei, sì condannano il massacro del 7 ottobre, ma tutto quello da esso generato cioè la risposta d’Israele, secondo loro è sbagliata accusando Israele di aver ucciso i palestinesi.
In conclusione ha detto che Israele è stato attaccato, non ha iniziato questa guerra. Israele e’ stato attaccato, ed è attaccato ancora oggi, da paesi che non sono nemmeno confinati come Yemen, Iran, Iraq.
Gaza è solo una parte della guerra. Il quadro completo è che c’è un tentativo di eliminare lo stato di Israele. Israele e’ stato attaccato militarmente, legalmente e diplomaticamente. Ma è stato in grado di reagire. Questo è potuto succedere anche grazie a tutti gli amici di Israele, come noi.

(EDIPI, 15 gennaio 2025)

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Il mistero irrisolto di Wallenberg, lo svedese che salvò migliaia di ebrei

Arrestato dai sovietici nel gennaio 1945 scomparve nel nulla. Proclamato nel 1963 Giusto tra le nazioni, a Budapest distribuiva lettere di protezione e garantiva ricovero nelle case extraterritoriali da lui acquistate e affittate.

di Marco Patricelli

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Raoul Wallenberg

Era impulsivo e doveva fare il diplomatico, era svedese ma si trovava in Ungheria dove spendeva soldi americani, era neutrale e si schierò apertamente dalla parte giusta durante la seconda guerra mondiale, era di fede luterana eppure rischiava la vita per salvare gli ebrei. Della sua fine si conosce con certezza solo che è morto, ma niente altro: si sa solo che sparì nel nulla da Budapest il 17 gennaio 1945, quando era in mani sovietiche. Quello di Raoul Gustaf Wallenberg è uno dei misteri irrisolti, e forse irrisolvibili, della seconda guerra mondiale. Eroe per scelta e non per caso, Giusto tra le nazioni dal 1963, si prodigò in ogni modo per impedire la deportazione e lo sterminio, e quando la sua immane opera in favore degli ebrei di Budapest sembrava avviata alla miglior conclusione possibile con la liberazione della città da parte dell’Armata Rossa, iniziò il suo calvario, inghiottito dal sistema repressivo e criminale stalinista.

In missione nella capitale ungherese con i dollari americani
  Tutto, nella breve vita di Wallenberg, indicava un‘altra strada. Era nato il 4 agosto 1912 nella residenza privata della ricca famiglia di imprenditori su un’isola presso Stoccolma. Il padre era morto di cancro prima che lui venisse alla luce, e la sua figura maschile di riferimento era stato il nonno Gustaf, già ambasciatore in Cina e Giappone, che volle per lui una formazione cosmopolita: universitaria di primo livello negli Stati Uniti dove si laureò in architettura all’Università del Michigan, e di esperienza con numerosi viaggi. La scomparsa del nonno, nel 1937, coincise con il rifiuto del capostipite Jacob di favorirlo nel mondo degli affari di famiglia, dirottandolo invece verso l’impiego in una piccola ditta di import-export nel centro di Stoccolma di proprietà dell’imprenditore ebreo Kalman Lauer.
  Fino al 1944 i venti della seconda guerra mondiale gli erano apparsi lontani rispetto alla Svezia neutrale; fino a quando cioè in agosto, a seguito di un casuale incontro nell’ascensore della ditta tra Lauer e l’americano Iver Olson, quest’ultimo gli chiese se aveva qualcuno che se la sentisse di recarsi in Ungheria per portare aiuto alla comunità ebraica a rischio di sterminio, lavorando a margine dell’attività della legazione svedese e utilizzando i fondi del War Refugees Board fondato da Franklin Delano Roosevelt. Lauer indicò Wallenberg che, pur privo di qualunque esperienza in ambito diplomatico e di missioni segrete, partì all’istante per l’Ungheria che raggiunse il 9 agosto, senza ulteriori istruzioni.

Fiero oppositore dei nazisti e sempre in prima linea per opporsi alla Shoah
  A Budapest concepì e realizzò con la collaborazione del primo segretario d'ambasciata Per Anger il piano di distribuire qualche centinaio di carte di protezione per ebrei che in qualche modo potevano essere riconducibili a legami con la Svezia, riuscendo a ottenere dalle autorità ungheresi e da quelle naziste che il lasciapassare fosse riconosciuto valido in attesa di trovare un mezzo di trasporto per lasciare il Paese. La condizione era che i titolari fossero rimasti in abitazioni acquistate o affittate da Wallenberg stesso, che provvide con i soldi americani e che contrassegnò dotandole di bandiera svedese. Dissero di lui che era diventato in breve il più grande proprietario immobiliare di Budapest. Inoltre forzò sempre verso l’alto quei numeri che gli ungheresi volevano invece molto bassi, con continui incrementi, che schizzarono da 4.500 a 33.000, opponendosi coraggiosamente ai rastrellamenti delle Croci Frecciate filonaziste e alle SS. Si muoveva ovunque fosse necessario con la sua auto, inventava lì per lì elenchi con nominativi “protetti”, cercò di salvare persino gli ebrei già incolonnati sulle rive del Danubio e lì giustiziati affinché i cadaveri fossero portati via dalle acque del fiume.

La bomba fatta esplodere dalle SS sotto la sua auto e l’incontro con Eichmann
  Incontrò Adolf Eichmann, il burocrate della Shoah, dopo che le SS avevano cercato di eliminarlo facendo saltare in aria la sua auto dove era stata posizionata una bomba esplosa senza che lui fosse a bordo, cercando di ottenere l’interruzione delle deportazioni; coinvolse altre rappresentanze diplomatiche di Stati neutrali nella rete di protezione, come Svizzera, Portogallo, Vaticano e Spagna, dove l’italiano Giorgio Perlasca faceva altrettanto, ma spacciandosi per console spagnolo. Wallenberg non aveva paura dei nazisti che affrontava a viso aperto, bluffando, blandendo, corrompendo e minacciando l’immancabile punizione alla fine della guerra ormai imminente. Probabilmente sapeva quel che diceva, e non è escluso che in segreto lo svedese lavorasse per l’OSS statunitense, di cui certamente Olson faceva parte e al quale inviava con regolarità rapporti da Budapest dove manteneva contatti con la resistenza.

Catturato dall’Armata Rossa e imprigionato a Mosca. Tante versioni sulla sua fine
  La città era sotto assedio sovietico e a gennaio Wallenberg attraversò il Danubio e sulla sponda di Pest cercò di entrare in contatto con i vertici dell’Armata Rossa. Il 13 gennaio venne condotto al quartier generale e l’indomani fu lui ad accompagnare un piccolo drappello di soldati nel quartiere dove si trovava il ghetto di protezione internazionale. A quel giorno risale anche l’ultimo contatto diretto con lui, grazie alla testimonianza di un amico al quale disse che si sarebbe recato a Debrecen al comando di zona per chiedere viveri e medicinali per gli ebrei. Non sarebbe più tornato indietro.
  Sappiamo che alla fine di gennaio era a Mosca, rinchiuso nel famigerato carcere della Lubjanka, e che era stato arrestato il 17 a Budapest, ma si ignorano le accuse mosse a suo carico. Giorgio Perlasca riuscirà a sottrarsi allo stesso destino, abbandonando avventurosamente la capitale ungherese. Le autorità svedesi chiesero il suo rilascio ma respinsero l’aiuto del presidente degli Stati Uniti Harry Truman.
  L’ambasciatore sovietico a Stoccolma rassicurò la sorella di Wallenberg che sarebbe stato presto rilasciato, e subito dopo il Cremlino negò che fosse mai stato sul territorio sovietico. Nel 1956 il vice ministro degli Esteri Andrej Gromyko annunciò a sorpresa che Wallenberg era morto nel 1947, e le cause del decesso erano contenute nella consueta formula dell’arresto cardiocircolatorio. Sulla fine di Wallenberg fioriranno testimonianze e rivelazioni di ogni genere, e addirittura Per Anger, che aveva collaborato con lui a Budapest, affermerà che nel 1989 era ancora vivo. Otto anni prima, caso del tutto eccezionale, gli Stati Uniti gli avevano conferito la cittadinanza onoraria grazie all’impegno di un deputato originario di Budapest che era stato da lui salvato. Ignoti, ancora oggi, dove, quando e come Wallenberg sia morto.

(AGI, 15 gennaio 2025)

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Antisemitismo – L’allarme di Adl: un italiano su quattro ha pregiudizi

di Adam Smulevich

Il 26 per cento dei cittadini italiani nutre sentimenti antisemiti. Un dato in aumento di otto punti percentuali rispetto al 2014, anno della prima rilevazione globale, quando si era attestato al 18%. Lo si apprende dal nuovo “Index” sull’odio antiebraico realizzato in oltre 100 paesi dall’Anti-Defamation League e commentato con Pagine Ebraiche dal direttore degli affari europei dell’Adl, Andrew Srulevitch. Per la rilevazione dei dati in Italia, l’organizzazione per i diritti umani si è appoggiata alla società Ipsos. L’istituto di ricerca ha chiesto a un campione di 500 persone rappresentativo della popolazione nazionale il proprio pensiero su undici stereotipi antiebraici. Più di un italiano su quattro ha detto di condividerne almeno sei, la soglia stabilita dall’Adl per qualificare un’attitudine come antisemita. Sono più di 58.000 le persone interpellate in tutto il mondo da Adl. Tra gli stereotipi sui quali è stato richiesto un giudizio “la lealtà ebraica” nei confronti di Israele, superiore rispetto al paese di residenza; “il potere ebraico” nel mondo della finanza; “Il controllo ebraico” del governo degli Stati Uniti d’America; “la responsabilità ebraica” dietro alla gran parte dei conflitti in corso nel pianeta.
  «Il 26% di antisemiti in Italia è un numero che allarma, tra i più alti nell’Europa occidentale», spiega Srulevitch. Il dato medio in questa parte di mondo si attesta infatti al 17%, nove punti sotto il dato italiano. In testa alla graduatoria dell’antisemitismo globale ci sono i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa con il 76% di sì ad almeno metà delle voci-paradigma di Adl. Seguono Asia (51%), Europa dell’Est (49%), Africa subsahariana (45%), Americhe (24%), Oceania (20%) e per l’appunto Europa occidentale. «L’antisemitismo è in crescita in tutto il mondo e fa un po’ impressione pensare che in Italia, se sei in fila al supermercato o in banca, una persona su quattro attorno a te è un antisemita», commenta Srulevitch. «È un fenomeno comunque globale, in crescita ovunque. Certo condizionato dai fronti di guerra del Medio Oriente, ma in larga parte indipendente da essi: nel 2014, per dire, non è che la situazione fosse così florida…». L’Adl non nasconde «una forte preoccupazione sui trend in atto, perché l’antisemitismo ha un impatto sulla vita delle persone e delle comunità ebraiche, sia che si esprima online che offline». L’impegno dei governi è fondamentale, ricorda il dirigente Adl. «E l’Italia in questo senso opera bene da tempo, anche attraverso un piano nazionale contro l’antisemitismo, un coordinatore come referente, l’adozione della definizione di antisemitismo dell’Ihra. Son tutti passaggi che l’Italia ha fatto, ma evidentemente non bastano…». C’è comunque anche un risvolto positivo da commentare: «Se è vero che il 26% degli italiani sembrano condizionati da una visione del mondo antisemita, è anche vero che sempre il 26 per cento ha detto di non condividere nemmeno una delle 11 voci indicate e un altro 26 per cento appena una o due».

(moked, 14 gennaio 2025)

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Israele - Importante scoperta archeologica: un monastero bizantino ed il suo mosaico a Kiryat Gat

di Elisabetta Cina

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In un’importante scoperta effettuata durante gli scavi archeologici per un nuovo quartiere a Kiryat Gat, nel sud di Israele, è venuto alla luce un monastero bizantino risalente all’epoca romana.
Questa area ha rivelato un complesso monastico di notevole valore, impreziosito da un pavimento mosaicato multicolore che porta con sé motivi geometrici e floreali, oltre a rappresentazioni di animali ed un’iscrizione in greco che cita un versetto biblico. Questa scoperta offre un’opportunità unica per esplorare la vita quotidiana della comunità dell’epoca, compresi elementi economici e culturali.
  Il vero fulcro della scoperta è il pavimento mosaicato, intriso di valore simbolico e artistico. Gli studiosi indicano una datazione che va dal V al VI secolo d.C. La complessità del mosaico non solo cattura l’attenzione per la sua bellezza, ma anche per il significato del messaggio centrale. L’iscrizione, che esprime benedizioni ai fedeli, recita: “Benedetto sarai quando entri e benedetto sarai quando esci.” Questo versetto benedice coloro che entrano nel monastero, suggerendo una ricerca di protezione e prosperità per i viaggiatori e i pellegrini che si avventurano nell’area.
  Il mosaico è caratterizzato da tessere disposte con minuzia, rappresentando una varietà di simboli e una palette cromatica ricca. Tra le immagini si possono riconoscere croci, leoni, colombe e anfore, alternati a motivi floreali e geometrici. Alcuni di questi elementi decorativi presentano anche un legame con il cristianesimo, testimoniando l’importanza di questo luogo di culto per la comunità che lo abitava. La qualità artistica e il complesso simbolismo del mosaico evidenziano l’influenza culturale e religiosa che caratterizzava la vita dei monaci dell’epoca.
  Il sito è composto da almeno dieci edifici, tra cui il monastero stesso, un magazzino e un torchio per la produzione di vino. Questi ritrovamenti sono fondamentali per comprendere l’organizzazione economica della comunità monastica. L’analisi approfondita degli scavi ha messo in luce la produzione vinicola come una delle principali attività economiche del monastero. Le vasche del torchio, decorate anch’esse con mosaici in pietra blu e bianca, confermano questo aspetto dell’economia locale.
  Gli archeologi hanno rinvenuto anche una varietà di altri reperti: ceramiche, monete, manufatti in marmo, oggetti in vetro e metallo. Questa abbondanza di reperti riflette non solo la vita quotidiana dell’epoca, ma anche il commercio e le relazioni sociali che si sviluppavano in questo crocevia commerciale, collegando l’entroterra con le regioni costiere. La posizione strategica del monastero ha sicuramente giocato un ruolo cruciale nel facilitare il commercio e l’interazione culturale tra le diverse comunità.
  Le autorità per le antichità di Israele hanno evidenziato l’importanza di questo rinvenimento, sottolineando la rilevanza storica della regione. Svetlana Talis, direttrice per la regione Sud, ha affermato che la scoperta mette in luce il valore storico dell’area e il ruolo di Kiryat Gat come punto di incontro culturale e commerciale nell’antichità. Ora, le operazioni successive riguardano il trasferimento e il restauro del mosaico, affinché possa essere visualizzato dal pubblico.
  Questa preziosa opera d’arte rappresenta uno dei mosaici più rari rinvenuti in Israele, e una volta completate le operazioni, sarà posizionata in un’area pubblica per permettere ai visitatori di apprezzarne la bellezza e di comprendere l’importanza storica. La visione di questo mosaico non sarà quindi solo un’esperienza estetica, ma anche un’opportunità per immergersi nella storia e nella cultura della regione.

(ArcheoMedia, 14 gennaio 2025)

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Israele e Hamas vicini a un accordo: nuovi dettagli sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi

di Luca Spizzichino

Fonti diplomatiche israeliane hanno confermato che Israele e Hamas sono nelle “fasi avanzate” delle negoziazioni per un cessate il fuoco che includerebbe il rilascio di alcuni degli ostaggi detenuti a Gaza dal 7 ottobre 2023. Nonostante i progressi nei colloqui mediati da Qatar ed Egitto, con la partecipazione delle amministrazioni statunitensi uscente e entrante, l’accordo non è ancora stato finalizzato, in attesa del responso da parte di Mohammed Sinwar, fratello di Yahya.
Secondo le autorità israeliane, l’avanzamento delle trattative è stato favorito dalla crisi dell’Asse iraniano in Medio Oriente, con il collasso del regime di Assad in Siria e la sconfitta di Hezbollah in Libano, fattori che hanno aumentato la pressione su Hamas. Inoltre, minacce e pressioni da parte del presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, avrebbero contribuito a portare il gruppo terroristico al tavolo delle trattative. Israele sta collaborando con entrambi i team diplomatici statunitensi, inclusi l’inviato di Biden, Brett McGurk, e l’ufficiale dell’amministrazione Trump, Steve Witkoff.
Il primo stadio dell’accordo prevede il rilascio di 33 ostaggi “umanitari”, tra cui bambini, donne, soldatesse, anziani e malati. Israele ritiene che la maggior parte di loro sia ancora in vita, sebbene non abbia conferme sulla loro condizione. Dopo 16 giorni dall’entrata in vigore dell’accordo, inizieranno le negoziazioni per la liberazione dei rimanenti ostaggi, tra cui uomini in età da servizio militare e soldati. Israele manterrà delle leve strategiche, come la detenzione di terroristi e il controllo di aree chiave nella Striscia di Gaza, per garantire il rilascio completo degli ostaggi. Israele poi ritirerà gradualmente le proprie truppe dalla maggior parte della Striscia di Gaza, in cambio del rilascio di un numero significativo di prigionieri palestinesi..
Israele ha smentito le notizie secondo cui il rilascio dei primi ostaggi avverrà solo una settimana dopo l’inizio del cessate il fuoco. Attualmente, si stima che 94 dei 251 ostaggi sequestrati da Hamas il 7 ottobre siano ancora a Gaza, inclusi almeno 34 cadaveri confermati dall’IDF.
Israele ha precisato che i terroristi responsabili di attacchi mortali non saranno rilasciati in Cisgiordania e che nessuno dei partecipanti al massacro del 7 ottobre sarà liberato. Fonti non confermate suggeriscono che tra 150 e 200 terroristi condannati potrebbero essere rilasciati e trasferiti a Gaza, Egitto, Turchia o Qatar. Inoltre, il governo israeliano ha ribadito che non restituirà il corpo di Yahya Sinwar, il leader di Hamas responsabile dell’attacco del 7 ottobre, ucciso dall’IDF a Rafah lo scorso ottobre.
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha espresso ottimismo: “Siamo sull’orlo di un accordo che potrebbe portare alla liberazione degli ostaggi, alla cessazione delle ostilità e a un significativo incremento dell’assistenza umanitaria ai palestinesi”. Le amministrazioni Biden e Trump stanno collaborando per assicurare la riuscita dell’intesa, con inviati speciali come Brett McGurk e Steve Witkoff impegnati nei negoziati.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu sta consultando i vertici della sicurezza per decidere quando portare l’accordo all’approvazione del governo. Tuttavia, i partiti di estrema destra minacciano di abbandonare la coalizione se l’accordo dovesse includere la liberazione di un numero elevato di prigionieri palestinesi.
Nel frattempo, Qatar ed Egitto continuano a mediare gli ultimi dettagli, con una nuova tornata di colloqui prevista a Doha il 16 gennaio. Le prossime ore saranno cruciali per definire il futuro della tregua e del rilascio degli ostaggi.

(Shalom, 14 gennaio 2025)

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L’azzardo di Netanyahu e le sue incognite

di Niram Ferretti

L’accordo ancora in fieri tra Israele e Hamas che dovrebbe essere finalizzato a breve salvo colpi di scena, pare abbia subito una accelerazione dopo la visita in Israele di Steve Witkoff, il nuovo inviato della imminente Amministrazione Trump per il Medio Oriente. Cosa si siano detti esattamente Netanyahu e Witkoff non si sa, ma è trapelato che l’incontro sia stato “teso”.
  Una cosa è certa, fattuale, dopo mesi di stallo e a soli sei giorni del giuramento di Donald Trump alla Casa Bianca che avverrà il 20 di gennaio, per la prima volta appare che l’accordo con Hamas che l’uscente Amministrazione Biden ha fortissimamente voluto ma mai ottenuto, giunga a destinazione e che Joe Biden potrà intestarselo come un successo personale.
  Sono note le minacce di Trump rivolte a Hamas, ovvero, che si gli ostaggi non verranno liberati prima del 20 gennaio, in Medio Oriente si scatenerà l’inferno. Al di là dell’abituale retorica tonitruante di Trump, è chiaro che il neo eletto presidente americano non voglia fare sconti alla formazione jihadista salafita. La domanda da porsi è, tuttavia, quanto conviene a Israele siglare un accordo in un momento in cui Hamas è allo stremo, Hezbollah è parzialmente neutralizzato, e lo sponsor di entrambi, l’Iran, si trova nella sua massima fragilità dal 1979 ad oggi?
  L’accordo che andrebbe in porto ricalca sostanzialmente l’impianto di quello proposto dall’Amministrazione Biden il maggio scorso, il quale prevedeva un periodo di 42 giorni suddiviso in due fasi durante le quali Hamas libererà 33 degli ostaggi detenuti nella striscia, tra cui le donne e i più bisognosi di cure in cambio di un numero elevato di detenuti palestinesi, inizialmente 1300, ma il numero è da considerarsi ancora ipotetico. Dopo sedici giorni, in cui prevarrà il cessate il fuoco, partirà la seconda fase che prevede sostanzialmente il futuro di Gaza, ovvero il futuro di Hamas e la decisione di Israele in merito. È questo l’aspetto più rilevante dell’intero accordo e che riguarda l’esito finale della guerra, ovvero due fattori essenziali, la presenza di Israele e il suo ruolo all’interno della Striscia e la presenza di Hamas e il suo.
  Ci sono fattori che si intersecano e che mutuamente si escludono. Netanyahu ha dichiarato innumerevoli volte, fin dall’inizio della guerra, che non può esserci vittoria se non verrà posto termine al dominio politico-militare di Hamas a Gaza, ma Hamas ha costantemente affermato che il rilascio di tutti gli ostaggi prigionieri a Gaza prevede il ritiro completo delle forze armate israeliane nell’enclave, e dunque, inevitabilmente la sua sussistenza.
  È del tutto impensabile che Hamas rilasci tutti gli ostaggi, essi rappresentano la sua assicurazione sulla vita, senza ottenere in cambio la garanzia della sua permanenza a Gaza e il continuare ad avere un ruolo politico nel suo futuro, tuttavia, se Israele, per ottenerne la loro liberazione dovesse acconsentire, avrà perso la guerra, consegnerebbe a se stesso una vittoria dimidiata che rapidamente Hamas si intesterebbe come un risultato della resistenza.
  Lo scenario futuro appare incerto e su esso pesa quello che l’Amministrazione Trump deciderà in merito.
  Il primo quadriennio di Trump lo ha visto graniticamente a fianco di Israele in chiara opposizione a quello dell’Amministrazione Biden, e ciò lascia ragionevolmente suppore che la postura della nuova amministrazione non cambi, ma è altresì indubbio che l’accelerazione che sta avendo la finalizzazione dell’accordo con Hamas sia condizionata dalla volontà di Trump di ottenere un risultato favorevole prima del suo ingresso alla Casa Bianca per sottrarne il merito a Biden e affermare che è stato dovuto al suo intervento.
  In questa prospettiva si comprende meglio la ragione per la quale Netanyahu ha deciso di portare a casa un accordo con Hamas, per accontentare l’umorale presidente americano, contando sul fatto che ci si trova ancora in una fase parziale, e che una volta che l’Amministrazione Trump sarà in piena carica, lo scenario cambierà e saprà convincere Trump che la sua esortazione a “finire il lavoro” significa che Hamas deve essere sconfitto completamente.
  Ci troveremmo dunque, per l’ennesima volta, al cospetto del tatticismo del premier israeliano, della sua consumata abilità a operare su più tavoli, a tenersi aperte varie prospettive, confidando che con Trump si instauri lo stesso sodalizio della sua prima presidenza.
  In altre parole, quello che appare come una resa, in realtà sarebbe un altro fondale di teatro da rimuovere appena possibile confidando sull’inattendibilità di Hamas, scommettendo sulla sua incapacità di rispettare i patti e sulla disponibilità di Trump a fare proseguire a Israele la guerra a Gaza a non cercare costantemente di frenarla come ha fatto l’Amministrazione Biden.
  Se Netanyahu avrà avuto ragione o torto lo si vedrà velocemente.

(L'informale, 14 gennaio 2025)

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I parenti degli ostaggi mettono in guardia da un accordo “pericoloso” con Hamas

Il Forum Tikva ha invitato i partiti di destra ad abbandonare il governo se il primo ministro accetterà un accordo che non garantisca il rilascio di tutti gli ostaggi.

di Canaan Lidor 

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Israeliani protestano a Gerusalemme contro l'attuale accordo sugli ostaggi con Hamas, definendolo una capitolazione

I parenti degli ostaggi detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza lunedì hanno invitato i politici di destra a lasciare il governo se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu accetterà un accordo con il gruppo terroristico che lascia in cattività alcuni israeliani rapiti.
A meno che l'accordo non includa tutti gli ostaggi, vivi e morti, incondizionatamente e subito, chiediamo ai partiti Sionismo Religioso e Otzma Yehudit, così come ai parlamentari del partito Likud alla Knesset, che finora hanno sostenuto solo un accordo completo, di annunciare immediatamente il loro ritiro dal governo”, ha scritto il Forum Tikva dei parenti degli ostaggi.
Qualsiasi accordo parziale con Hamas trasformerà gli ostaggi in beni [ancora più preziosi] e metterà a rischio la vita dei soldati e degli altri ostaggi”, ha continuato la dichiarazione.
Centinaia di oppositori al nascente accordo di cessate il fuoco hanno inscenato una manifestazione di protesta a Gerusalemme lunedì sera, bloccando l'accesso alla capitale per circa un'ora. Alcuni manifestanti portavano cartelli con scritto: “No a un accordo con il diavolo”.
Tra i manifestanti c'era il Ministro delle Missioni Nazionali Orit Strock, del partito del Sionismo Religioso, che insieme a Otzma Yehudit aveva precedentemente annunciato il suo rifiuto dei termini pubblicizzati dell'accordo.
Anche il Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi, un altro gruppo di parenti, ha scritto di essere alla ricerca di un accordo che garantisca il ritorno di tutti gli ostaggi. Tuttavia, questa dichiarazione non ha invitato il governo a rifiutare un accordo parziale. Il Forum delle famiglie ha criticato il governo più di Tikva, chiedendo maggiori concessioni per la restituzione degli ostaggi.
Le richieste di entrambi i gruppi hanno fatto seguito alle notizie di una svolta nei colloqui per il cessate il fuoco con Hamas. I termini finali dell'accordo non sono ancora stati annunciati ufficialmente, ma le notizie in merito, comprese quelle dell'emittente pubblica israeliana KAN di lunedì, parlano di un accordo in due fasi che inizierebbe con il rilascio di 33 dei circa 100 ostaggi che si ritiene siano nelle mani di Hamas durante una tregua di 42 giorni.
Israele rilascerebbe 1.300 terroristi e prigionieri palestinesi, tra cui centinaia di ergastolani. Tra i 33 ostaggi ci sarebbero donne soldato, donne e uomini di età superiore ai 50 anni, nonché ostaggi malati e feriti. Non si sa quanti dei 33 siano ancora vivi.
La seconda fase dell'accordo includerebbe il rilascio degli ostaggi rimanenti e colloqui per un cessate il fuoco permanente, ha detto Kan. Il rapporto non includeva una tempistica per la seconda fase.
Secondo il KAN, le forze israeliane si ritireranno dal Corridoio di Filadelfia - il confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto - alla fine della prima fase.
Prima dell'attacco a Israele del 7 ottobre 2023, Hamas ha contrabbandato centinaia di tonnellate di armi attraverso il corridoio, che Netanyahu ha dichiarato ad agosto sarebbe rimasto sotto il controllo israeliano.

(Israel Heute, 14 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Vietata agli ebrei”. L'avviso emesso dal Centro Wiesenthal in Germania

La comunità ebraica nel Württemberg mette in guardia gli ebrei che desiderano visitare Stoccarda: ci sono pericoli legati a manifestazioni anti-israeliane e pro Hamas.  Le partenze e le scuole che non ricordano la Shoah.

di Giulio Meotti

Questo l’annuncio pubblicato dalla comunità ebraica nel Württemberg, la regione tedesca in cui si trova Stoccarda. 

    “Cari membri della comunità!
    Se sei ebreo, evita Stoccarda, la città sede della Mercedes Benz e dell’autore dell’“Amico ritrovato” Fred Uhlman. Perché a Stoccarda ci sono zone vietate agli ebrei a causa del feroce attivismo pro Hamas e dell’antisemitismo fuori controllo. Il Simon Wiesenthal Center, che prende il nome dal leggendario cacciatore di nazisti, sta per emettere un avviso di viaggio per gli ebrei che desiderano visitare la città, perché l’intensa attività pro Hamas ha creato “zone vietate” per la comunità ebraica. Il Wiesenthal Center ha emesso un avviso di viaggio su Amsterdam in seguito ai violenti attacchi di novembre contro i tifosi di calcio israeliani alla vigilia della Kristallnacht
    Il comunicato della comunità ebraica fa riferimento a un elenco di zone di Stoccarda “interdette” agli ebrei. Il riconoscimento delle “no-go zone” nelle città europee non dovrebbe sorprendere gli osservatori più attenti. Dopotutto, a marzo dello scorso anno, Robin Simcox, il commissario anti estremismo dell’allora  governo conservatore britannico, ha affermato che Londra è diventata una “no-go zone per gli ebrei”  durante le marce del fine settimana organizzate a favore dei palestinesi (e di Hamas). “Non sorprende che così tanti ebrei britannici stiano partendo per Israele” scrive sull’ultimo numero dello Spectator Jake Wallis Simons, direttore del Jewish Chronicle inglese. “Con l’antisemitismo a livelli record, questo esodo non è affatto inaspettato. Prima del 7 ottobre, molti emigranti ebrei britannici in Israele avevano 55 anni o più, con figli adulti e nipoti e cercavano di godersi la pensione all’estero. L’attuale ondata riguarda principalmente giovani famiglie, professionisti e accademici, persone abbastanza osservanti da essere, nelle parole della Metropolitan Police, ‘apertamente ebree’”. Lo stesso in Francia. Da Libération: “Partenza per Israele: l’aliyah, l’immigrazione ebraica, non è mai stata così alta dal 2015”. 
    Il giornalista e autore di bestseller ebreo tedesco Henryk Broder ha attirato per la prima volta l’attenzione sullo scoppio dell’odio pubblico contro gli ebrei a Stoccarda nel suo articolo del 4 gennaio, intitolato “Stoccarda: aree vietate per gli ebrei”. Broder ha attaccato Michael Blume, incaricato di combattere l’odio antisemita nello stato tedesco sudoccidentale del Baden-Württemberg, dove si trova la città: “Se prendesse sul serio il suo lavoro, potrebbe avvolgersi in una bandiera israeliana e prendere parte alle manifestazioni e tenere in mano un cartello con la scritta: ‘Liberate gli ostaggi!’”

Quanto sono sicuri gli ebrei in Germania? Dopo l’attacco terroristico di Hamas contro Israele del 7 ottobre, la situazione per gli ebrei che vivono nella diaspora europea è crollata. “Mitte, Kreuzberg e Neukölln si sono trasformate in zone di battaglia visive e verbali in cui, in quanto ebreo, ti viene ricordato a ogni angolo che la tua vita è in pericolo”, ha descritto in modo impressionante l’autrice ebrea Mirna Funk  sulla Welt. “Ebrei e omosessuali non sono al sicuro a Berlino”. Questo è il titolo della Bild, che cita il capo della polizia di Berlino, Barbara Slowik, che a novembre ha consigliato a ebrei e omosessuali di prestare attenzione in alcune zone della capitale. A Bonn, la comunità ebraica ha consigliato di non indossare i simboli della fede per strada. Ma anche a Potsdam e Bochum. 
Intanto due scuole di Anderlecht, uno dei comuni di Bruxelles, hanno rifiutato di prendere parte alla cerimonia di posa delle “stolpersteine” (le pietre della memoria) per gli ebrei belgi assassinati durante l’Olocausto, affermando che “le scuole non desiderano imporre ai bambini alcuna discussione sull’Olocausto, date le attuali condizioni in medio oriente”
E vedendo le immagini dell’assalto alla sinagoga di Bologna (perché non hanno impedito che i cortei palestinesi si avvicinassero al sito ebraico come ha appena fatto la polizia a Londra?) non c’è da meravigliarsi se il Centro Wiesenthal dovesse emettere lo stesso avviso per la città sotto le due torri. La “no-go area” rossa, sazia e disperata.  

Il Foglio, 14 gennaio 2025)

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Gli ebrei chiedono più tutele contro l'antisemitismo o se ne andranno

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Rav Menachem Margolin

Il presidente dell'Associazione Ebraica Europea (Eja) ha invitato i governi europei a prendere provvedimenti forti contro l'aumento dell'antisemitismo che, a suo dire, sta spingendo migliaia di ebrei fuori dall'Europa.
Il rabbino Menachem Margolin ha dichiarato lunedì che circa 40.000 ebrei hanno già lasciato l'Europa negli ultimi anni e non hanno intenzione di tornare a causa dell'aumento dell'antisemitismo.

Un anno critico
  Descrivendo il 2025 come un "anno critico" per gli ebrei europei, Margolin ha avvertito che "se i governi europei non prenderanno sul serio le misure che chiediamo loro quest'anno, questo sarà l'inizio della fine della loro presenza in Europa".
Parlando prima di un vertice di due giorni organizzato dall'Eja a Cipro, Margolin ha affermato che l'antisemitismo in Europa è aumentato del 2.000% dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023. Le statistiche sono state compilate da organizzazioni che monitorano l'antisemitismo.

Antisemitismo in crescita in Europa
  Secondo un sondaggio condotto dall'Agenzia dell'Ue per i diritti fondamentali prima dell'inizio della guerra, il 96% degli ebrei ha subito forme di discriminazione in Europa tra gennaio e giugno 2023.
L'agenzia, con sede a Vienna, ha anche raccolto dati da 12 organizzazioni ebraiche dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Alcune di queste organizzazioni parlano di un aumento del 400% dell'antisemitismo.
Margolin ha attribuito questo problema alla miopia della classe politica che "finge che tutto vada bene" e "non capisce l'emergenza della lotta all'antisemitismo".

Margolin "Azioni forti e rapide" contro i manifestanti anti-Israele
  Margolin ha anche invitato i governi europei a passare dalle condanne verbali dei comportamenti antisemiti ad azioni efficaci che garantiscano la sicurezza degli ebrei.
Ha detto che le autorità dovrebbero stabilire un "codice di condotta" per garantire che le manifestazioni contro Israele non si trasformino in proteste antisemite. Margolin chiede anche punizioni "forti e rapide" per gli individui riconosciuti colpevoli di azioni antisemite.
Secondo Margolin, l'opposizione allo Stato ebraico è la ragione principale dell'antisemitismo in Europa, "nel momento in cui il governo è amichevole nei confronti di Israele e comprende il diritto di Israele a difendersi, l'odio contro gli ebrei scende di molto".

(euronews, 14 gennaio 2025)

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L’immaginaria carestia a Gaza

di Davide Cavaliere

Una delle novità del jihad giuridico e mediatico condotta contro Israele a partire del 7 ottobre 2023, è l’accusa secondo cui Israele starebbe provocando, «intenzionalmente», una carestia nella Striscia di Gaza bloccando gli aiuti umanitari, al fine di perseguire un piano «genocidario» a danno della popolazione arabo-palestinese. 
Questa calunnia si basa su un rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) pubblicato nel marzo del 2024, dove si paventava una carestia imminente poiché 1,84 milioni di gazawi, ossia la metà della popolazione, secondo le stime, stava sperimentando «alti livelli di insicurezza alimentare acuta». 
Il COGAT, l’unità dell’IDF responsabile del coordinamento degli aiuti umanitari a Gaza, ha subito criticato quel rapporto per «molteplici difetti fattuali e metodologici, alcuni dei quali gravi». Per esempio: l’IPC ha sottostimato la quantità di acqua disponibile per persona al giorno a Gaza come 1 litro invece di 20 litri; inoltre, non aveva dati aggiornati sulla popolazione e si è basato su quelli distorti forniti dal Ministero della Salute di Gaza, creato e gestito da Hamas, e ha ignorato le prove pubbliche sulla disponibilità di cibo in tutta Gaza, anche nel Nord.
Nel giugno del 2024, viene pubblicato un nuovo rapporto, dove si afferma che si è costituito uno scenario «in contrasto» con le previsioni catastrofiche fatte in riferimento al periodo «marzo-luglio 2024», al punto da scrivere che «le prove disponibili non indicano che sia in corso una carestia», sebbene per l’IPC tale rischio rimanga alto. 
Diversi mesi dopo, nell’ottobre del 2024, il medesimo ente ha rilasciato l’ennesimo report, dove nuovamente non si è parlato di «carestia in atto» a Gaza, bensì di «un’imminente e sostanziale probabilità di carestia», e si è aggiunto che tale documento «serve a richiamare immediatamente l’attenzione sulla necessità di agire urgentemente per alleviare questa catastrofe umanitaria nelle aree del nord della Striscia di Gaza».
Visti i precedenti è legittimo ritenere che l’IPC abbia nuovamente sottostimato la quantità di acqua e cibo disponibile agli arabi-palestinesi.  
Fin dall’inizio, dunque, l’IPC ha affermato che a Gaza non è in corso una carestia, ma solo che vi è pericolo che questa possa realizzarsi se, si legge ancora nel testo di ottobre, «tutti gli attori coinvolti direttamente nel conflitto o che possano influenzarne lo svolgimento» non prenderanno delle misure volte a prevenire tale possibilità.  
Sebbene nell’ultimo suo documento si parli di «tutti gli attori coinvolti», le raccomandazioni finali dell’IPC riguardano solo Israele, anche se questo non è nominato direttamente: si chiede, infatti, di «terminare l’assedio nel nord della Striscia di Gaza» e di «interrompere gli attacchi a strutture sanitarie e infrastrutture civili essenziali». Anche se, come ha chiarito il Wall Street Journal, «Israele non ha bisogno di essere sollecitato a fornire aiuti umanitari o ad agire con cautela». 
Nulla si dice in riferimento al fatto che Hamas ha vietato ai cittadini palestinesi, pena la morte, di collaborare con gli israeliani nella distribuzione dei beni; come non viene detto alcunché circa i furti degli aiuti umanitari destinati ai cittadini di Gaza compiuti da Hamas, di cui esistono numerose prove: abitanti della Striscia allontanati con la forza dai camion carichi di cibo e testimonianze di gazawi circa i latrocini messi in atto dai terroristi di Hamas. 
Anzi, come concludeva il rapporto del COGAT sopraccitato, l’IPC non menziona mai i notevoli sforzi compiuti da Israele «per migliorare la situazione umanitaria», oltreché lavorare «in modo proattivo con i partner per fornire aiuti adeguati alla popolazione e invita la comunità internazionale e le organizzazioni umanitarie a continuare a lavorare insieme per questo scopo». 
La ragione per cui a Gaza non è corso alcuna carestia è dovuta al fatto che, contrariamente a quanto affermano gli odiatori seriali di Israele, lo Stato ebraico ha facilitato l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia ben oltre i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale.  
In tal senso, la Quarta Convenzione di Ginevra, relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra, all’articolo 23, stabilisce che «Ciascuna Parte contraente accorderà il libero passaggio per qualsiasi invio di medicamenti e di materiale sanitario […] Essa autorizzerà pure il passaggio di qualunque invio di viveri indispensabili, di capi di vestiario e di ricostituenti riservati ai fanciulli d’età inferiore ai quindici anni, alle donne incinte o alle puerpere», tali invii sono «subordinati alla condizione che questa Parte sia sicura di non aver alcun serio motivo di temere che: gli invii possano essere sottratti alla loro destinazione; che il controllo possa non essere efficace; che il nemico possa trarne evidente vantaggio per i suoi sforzi militari o la sua economia, sostituendo con questi invii delle merci che avrebbe altrimenti dovuto fornire o produrre, oppure liberando delle materie, dei prodotti o dei servizi che avrebbe altrimenti dovuto destinare alla produzione di tali merci».
Israele ha spesso derogato all’articolo 23, permettendo l’ingresso di numerosi beni che sono stati, prevedibilmente, sequestrati da Hamas. Il COGAT, per di più, ha sovente permesso l’accesso di quantitativi di cibo superiori a quelli richiesti dalle Agenzie dell’ONU e dal World Food Program.  
In conclusione, si può affermare con certezza che a Gaza non è in corso alcuna carestia; che gli scenari elaborati dall’IPC nei mesi passati si sono rivelati eccessivamente pessimistici, pertanto anche le nuove proiezioni non sono da ritenersi affidabili; e che le azioni compiute da Israele per garantire sufficienti aiuti umanitari ai «palestinesi» confutano qualunque dichiarazione secondo cui si starebbe usando la fame come strumento di genocidio. 
Tra i filopalestinesi non ci sarà mai carestia di argomenti diffamatori contro Israele. 

(L'informale, 13 gennaio 2025)

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“J.K. Rowling ha salvato la civiltà occidentale”

Lode alla scrittrice che ha difeso le donne e iniziato la resistenza all’ossessione woke. L'articolo di Amy Hamm sul canadese National Post.

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"J.K. Rowling

"J.K. Rowling ha salvato la civiltà occidentale”,  scrive Amy Hamm sul canadese National Post. “Sì, una donna da sola. Rowling, miliardaria, famosa autrice di ‘Harry Potter’ e critica schietta dell’ideologia di genere, è probabilmente la più grande forza dietro un recente punto di svolta nelle guerre culturali dell’occidente. La nostra cultura è stata spinta sull’orlo di un’irreversibile presa di potere da parte di despoti deliranti di una sinistra radicalizzata  e ora, per fortuna, sembra che stia andando verso una relativa normalità. Non ci siamo ancora. E mentre alcuni paesi, tra cui il Canada, sono in ritardo, non si può negare che un cambiamento culturale sismico sia stato recentemente avvertito in tutto l’occidente. 
  Il genere, o più specificamente, l’ideologia di genere, che postula che il genere è socialmente costruito, come se ognuno di noi avesse una ‘identità di genere’ unica e personalizzata che esiste come un’essenza simile all’anima contenuta nei nostri corpi fisici, ma separata da essi, è diventata una religione di stato nei paesi occidentali nell’ultimo decennio. Il senso interiore e metafisico del genere è così unico e speciale che dobbiamo credere che esistano potenzialmente infinite varianti: in effetti, la Bbc una volta ha detto con orgoglio ai bambini che ne esistevano più di 100, tra cui ‘bi-gender’.
  Credi quello che vuoi della tua identità. Tutti noi meritiamo di essere trattati con dignità, indipendentemente dalle nostre convinzioni. E’ quando alle donne viene detto che devono obbedire, sia nei fatti che nella privacy delle loro menti, che le cose sono andate troppo oltre. La follia dell’ideologia di genere non può essere separata dalla follia generalizzata del moderno ‘progressismo’, che è, semplicemente, un identitarismo nouveau e di sinistra. E’ un’ossessione politicizzata e distruttiva per il genere, la razza e varie categorie che possono costituire la base della propria (spesso presunta e dubbia) oppressione. Il genere sembra essere l’ossessione principale di questo nuovo fanatismo, con la razza al secondo posto. Non c’è nulla che questo nuovo identitarismo non tocchi: cade come l’oscurità al tramonto. Ad esempio, ci viene detto che il cambiamento climatico è, di fatto, una questione razziale, tramite affermazioni secondo cui colpisce in modo sproporzionato le minoranze razziali. L’atletica, anziché riguardare, bè, l’atletica, è ora la ‘frontiera delle persone trans’. La fede nell’ideologia di genere fa perdere completamente il senno. Ed è questo il punto: i seguaci devono denunciare la realtà di base per dimostrare la loro fedeltà. Per dimostrare di non essere eretici malvagi. O altro. 
  Durante il periodo in cui la maggior parte delle persone era troppo terrorizzata dal parlarne, l’ideologia di genere ha preso il sopravvento sulle nostre istituzioni (culturali, governative e sanitarie), sui nostri luoghi di lavoro e persino sulle nostre vite personali. Poi è arrivata J.K. Rowling e ha detto: ‘Al diavolo tutto questo’. Rowling ha fatto tre cose, quando si è trattato di genere, e le ha fatte come la prima della sua (famosa, fantasticamente ricca) specie: si è rifiutata di ripetere le bugie istituzionalizzate dell’ideologia di genere; ha usato la sua influenza per intervenire negli abusi pubblici di donne non famose che hanno fatto lo stesso; e, cosa fondamentale, ha rifiutato la sua stessa cancellazione. Per essere onesti, non solo ha fatto queste cose, ma le fa ogni giorno; ripetutamente e a un coro di suoi nemici giurati autoidentificati che possono essere trovati a calpestare, urlare, piangere, chiedere il suo assassinio e scaldarsi vicino alla pira di mille edizioni tascabili di ‘Harry Potter’. Questi attacchi non sono un problema per Rowling, la cui sfacciataggine è senza pari: ‘Ricevo le stesse royalties che tu le legga o le bruci. Goditi i tuoi marshmallow!’ ha scherzato con uno di questi bruciatori di libri. 
  In un recente post X, Rowling ha chiarito che non si tirerà mai indietro. ‘Se esiste una collina migliore su cui morire rispetto ai diritti e alla sicurezza di donne e bambini, non l’ho mai trovata’, ha scritto. E’ la Rowling, dicono, a essere ossessionata da ciò che c’è tra le gambe di qualcuno; ma sono gli attivisti di genere che si riferiranno pubblicamente alle donne con nomi così grotteschi come ‘persone con una vagina’. Ti senti offeso? Disgustato? Bè, è solo perché sei ossessionato dai genitali! 
  Come siamo arrivati fin qui? Come ho detto, sembra che, nell’ultimo decennio, idee strane e irrazionali abbiano iniziato a insinuarsi nelle tematiche quotidiane della cultura occidentale. Ciò che una volta ti saresti aspettato di sentire mentre origliavi studenti universitari del primo anno riuniti per un inebriante club anarco-post-moderno, rovescia-il-patriarcato-anticapitalista, salva-il-pianeta, mangia-i-ricchi, potere-agli-oppressi è diventato qualcosa che avresti sentito nelle conversazioni quotidiane. Improvvisamente, i tuoi coetanei, amici e colleghi hanno iniziato a vomitare in modo odioso il linguaggio dell’attivismo indignato e del nouveau, tutti ostinatamente ossessionati dall’intersezionalità e dalle gerarchie di oppressione. Tutti, a quanto pare, volevano essere conosciuti come attivisti per la giustizia sociale. Tutto ciò che era sfumato è diventato bianco e nero. Bene e male. Le cose che eravamo soliti dire, senza pensarci, sono diventate proibite. La definizione di ‘odio’ è cresciuta esponenzialmente e di giorno in giorno. Nella nuova definizione di ‘odio’ era incluso qualsiasi rifiuto, non importa quanto premuroso e moderato, del mantra: ‘Le donne trans sono donne’. I paesi hanno iniziato a consacrare il concetto metafisico di ‘identità di genere’ nella legge. 
  Poi è arrivata Rowling. Tutto è iniziato con un tweet del dicembre 2019: ‘Vestiti come vuoi. Chiamati come vuoi. Dormi con qualsiasi adulto consenziente che tu voglia. Vivi la tua vita migliore in pace e sicurezza. Ma costringere le donne a lasciare il lavoro per aver affermato che il sesso è reale?’. La Rowling era una strega e doveva essere immediatamente bruciata in cima a una pila dei suoi libri. I giovani attori che la Rowling ha reso famosi e ricchi con i suoi film di Harry Potter, tra cui Emma Watson e Daniel Radcliffe, i piccoli mocciosi, si sono scatenati denunciando pubblicamente la donna a cui devono ogni loro successo. E la Rowling ha ricevuto innumerevoli minacce di violenza e morte, che continuano ancora oggi. Non si trattava più solo di ‘genere’, si trattava di fermare il declino accelerato dell’occidente. Era un enorme dito medio ai barbari che avevano già oltrepassato i nostri cancelli. Le persone che non hanno grandi somme di denaro (quasi tutti noi) diranno: ‘Se solo avessi i soldi e potessi finalmente dire cosa intendo veramente’. Ma ci stiamo dimenticando una cosa: ci sono molte persone che hanno quel tipo di denaro, soldi da non lavorare mai più, e quasi tutti non riescono a svegliarsi ogni mattina e a tenere testa a una folla di ipocriti e illusi seguaci del genere. Non c’è bisogno di essere un sensitivo per capire che ciò che sta accadendo nelle menti dei ricchi che non si fanno avanti è lo stesso fenomeno che si verifica nelle menti dei non ricchi che non si fanno avanti: una mancanza di coraggio. 
  Nell’aprile 2024 la Rowling ha risposto all’approvazione da parte del governo scozzese di una nuova legge sui ‘discorsi d’odio’ tentando il suo arresto e provocando la polizia scozzese a rinchiuderla. Alla fine di un lungo thread di X che evidenziava i crimini, gli scandali e gli abusi di numerosi uomini identificati come transgender, la Rowling ha scritto: ‘La libertà di parola e di credo sono finite in Scozia se la descrizione accurata del sesso biologico è considerata un crimine’. La polizia ha detto al pubblico che non avrebbe intrapreso alcuna azione contro di lei. La nuova legge, antitetica a qualsiasi democrazia occidentale, è stata di fatto neutralizzata dal coraggio di una donna. Questa è Rowling.
  L’occidente è molto malato in questo momento. Abbiamo vissuto sotto una sottomissione forzata alla folle e pericolosa nozione che nulla è più importante dell’‘identità’, comprese quelle autodichiarate e palesemente false, e che dobbiamo sovvertire la nostra cultura, le nostre istituzioni e persino la nostra sicurezza e le nostre vite in una dimostrazione di fedeltà. Non voglio immaginare dove saremmo, nel 2024, se la Rowling non avesse fatto ciò che ha fatto, per le donne e i bambini, per la libertà e per l’occidente. Se un giorno una persona singola riceverà il merito di aver salvato la civiltà occidentale, quella è la Rowling. La lotta non è finita, ma ci ha mostrato la strada”.

Il Foglio, 13 gennaio 2025)
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E' questa la "libertà" che anche giornali come Il Foglio vogliono veder protetta da Israele, assunto come baluardo dell'Occidente libero? E' questo il compito storico di Israele? Qualcosa non quadra nella linea di questo giornale. M.C.

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Attivista per la pace arrestata dopo aver fatto commenti favorevoli su Israele

KUWAIT CITY - La giornalista e sceneggiatrice kuwaitiana Fadscher al-Said è stata arrestata la scorsa settimana per un periodo iniziale di 21 giorni. È accusata di aver sostenuto la normalizzazione con Israele.
  Le autorità inquirenti stanno verificando se al-Said abbia violato la legge sul boicottaggio di Israele del 1964 e quindi abbia agito “contro gli interessi nazionali”. Lo riferisce il “Jerusalem Post” con riferimento al quotidiano kuwaitiano “Al-Qabs”. La legge vieta qualsiasi interazione con lo Stato ebraico e la promozione di relazioni.
  Prima dell'arresto, Al-Said aveva pubblicato sui social media un video in cui dava il benvenuto in Georgia a tre israeliani, definendoli “nostri cugini”.

A favore della pace con Israele
   La giornalista si è ripetutamente espressa a favore della pace con Israele almeno dal 2018. Ha anche rilasciato interviste ai media israeliani.
  Nel giugno 2023, il Libano le ha negato l'ingresso. Il motivo era il suo sostegno alla normalizzazione o le sue critiche alla milizia Hezbollah.
  Dopo l'incidente, ha dichiarato al sito web “Mena-Watch” che i Paesi arabi hanno cercato di fare la guerra contro Israele, ma non ci sono riusciti: “Vengo con un messaggio di pace e diffondo questo messaggio”. Questo richiede un linguaggio decente. Non si può dire: “Voi criminali, io voglio la pace con voi”.

(Israelnetz, 13 gennaio 2025)

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Il 2025 sarà l’anno della rivoluzione IA per l’istruzione israeliana

di Michelle Zarfati

Il ministro israeliano dell’Istruzione Yoav Kisch ha definito il 2025 come l’anno dell’intelligenza artificiale per rivoluzionare l’istruzione attraverso la tecnologia avanzata.
  L’iniziativa mira a migliorare l’insegnamento, l’apprendimento e la gestione della didattica dotando studenti ed educatori di conoscenze essenziali sull’IA e incorporando strumenti di intelligenza artificiale nei processi didattici e di valutazione. Il ministero ha sviluppato programmi di formazione per insegnanti specializzati e piani di lezione innovativi progettati per rendere l’IA accessibile sia agli studenti che agli insegnanti di tutte le materie e gruppi di età in tutta la società israeliana. Il ministero vede l’intelligenza artificiale come uno strumento che dà potere agli educatori e crea un’esperienza di apprendimento più personalizzata e su misura per le esigenze individuali degli studenti.
  Per garantire il successo del programma, il ministero ha collaborato con migliaia di esperti del settore high-tech israeliano e ha siglato collaborazioni con giganti tecnologici globali come Google, Microsoft, Apple e Intel. Le sessioni di formazione per gli insegnanti, che introdurranno gli strumenti di intelligenza artificiale e le loro applicazioni pratiche, sono già in corso. Come parte del programma, il Ministero dell’Istruzione ha ospitato un evento con Google il 7 gennaio intitolato “AI Connect for Education”. Migliaia di studenti, educatori e supervisori hanno partecipato, acquisendo esperienza pratica con strumenti di intelligenza artificiale generativa disponibili per l’uso in classe.
  “Siamo orgogliosi di guidare un’iniziativa globale rivoluzionaria: un intero anno accademico dedicato all’intelligenza artificiale nell’istruzione. Grazie a un’impressionante collaborazione con le principali aziende tecnologiche e al coinvolgimento di migliaia di mentori del settore high-tech, stiamo plasmando un modello innovativo che influenzerà il futuro dell’istruzione” ha detto il ministro dell’Istruzione Kisch, sottolineando il significato del programma.
  “Il nostro obiettivo è integrare la tecnologia avanzata con i valori educativi, fornire a ogni studente pari opportunità di eccellere nell’era digitale e rafforzare il vantaggio tecnologico d’ Israele per il bene del futuro dei nostri figli” ha concluso Kisch.
  “La collaborazione tra insegnanti, studenti e l’industria high-tech sottolinea il nostro impegno nel promuovere l’innovazione tecnologica preservando i valori educativi. Stiamo creando una connessione unica tra il sistema educativo e il settore tecnologico per guidare un cambiamento significativo e plasmare il futuro dell’istruzione in Israele” ha aggiunto Merav Zarbiv, direttore della divisione Innovazione e Tecnologia e leader del programma nazionale.

(Shalom, 13 gennaio 2025)
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Anche in questo caso, non si può che prendere atto della posizione di avanguardia tecnologica di Israele. Non tutte le avanguardie di Israele però sono in benedizione per l'umanità, basti pensare a quella sull'omosessualità (Tel Aviv sbandierata come capitale dei gay) o sui finti vaccini anti-covid (Israele come prima nazione vittoriosa sul contagio). Lo sbandierato entusiasmo per "un’iniziativa globale rivoluzionaria" da cui scaturirebbero i prodigiosi effetti della "rivoluzione IA" è fonte più di preoccupazione che di consolazione. M.C.

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Bologna – De Paz: Attacco antiebraico mentre al Comune sventola bandiera palestinese

di Adam Smulevich

«Non è forse corretto definirlo “attacco alla sinagoga”, perché la sinagoga si affaccia su un’altra strada, mentre in via de’ Gombruti affacciano gli uffici comunitari. Ma è stato senz’altro un attacco alla Comunità ebraica. Anzi, a tutto il mondo ebraico».
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Daniele De Paz vive ore frenetiche. Il telefono squilla molto spesso da quando sabato sera il corteo bolognese per Ramy Elgaml è transitato dalle parti della Comunità ebraica locale, di cui è presidente, vandalizzando l’area e lasciando delle scritte che inneggiavano a “Giustizia per Gaza libera”. «Non c’era nessuna ragione per passare di lì. Lo si è fatto di proposito, per lanciare un messaggio al mondo ebraico. Viene da chiedersi perché Bologna sia stata l’unica città italiana in cui le proteste abbiano preso di mira un soggetto come il nostro», riflette De Paz. Lui una risposta ce l’ha: «Questa è l’unica grande città in cui, all’esterno del palazzo comunale, sventola una bandiera palestinese; è una scelta che ho da tempo contestato al sindaco Matteo Lepore e di cui si deve assumere la responsabilità, perché evidentemente una correlazione tra le due cose c’è». De Paz precisa che non ci sono stati danni «né a cose né a persone». Ma la tensione è stata inevitabilmente alta, anche tra gli iscritti, «perché in strada c’è stata vera e propria guerriglia». Tante le reazioni di solidarietà. «Mi hanno telefonato dal governo. Ma anche dal mondo del Pd, il partito di Lepore. A tutti ho rivolto una richiesta: dateci una mano a organizzare al meglio il prossimo 27 gennaio, aiutateci a far capire che quella bandiera strumentalmente esposta in quella sede è un errore». Ad esprimere solidarietà anche l’arcivescovo Matteo Zuppi. Tra gli altri ha affermato che «non c’è giustificazione per qualsiasi violenza» e condannato «l’inaccettabile e mai estinto seme dell’antisemitismo», oltre agli atti «contro le forze dell’ordine».
  Domenica, in una nota congiunta, De Paz e la presidente Ucei Noemi Di Segni hanno ricordato che «la difesa dei luoghi ebraici e delle libertà religiose non è una concessione agli ebrei: è un problema che riguarda la democrazia italiana e sono gli italiani a dover respingere chi si pone fuori dal contesto democratico». A tal fine, aggiungevano, «non bastano espressioni di vicinanza del giorno dopo come quelle del sindaco di Bologna».

(moked, 13 gennaio 2025)


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Bologna: vandalizzata la sinagoga durante una protesta

De Paz: “Non passavano lì per caso”

di Nathan Greppi

Nel corso delle proteste scoppiate in seguito alla morte avvenuta a Milano di Ramy Elgaml, un gruppo di manifestanti ha vandalizzato la Sinagoga di Bologna. Su un muro, è stato fatto ad esempio un graffito con scritto “Giustizia per Gaza”. Mentre davanti al numero civico della comunità ebraica locale, sono state scagliate bombe carta, razzi e mattoni.
A parte la comunità ebraica, nel corso delle proteste nel capoluogo emiliano sono stati feriti dieci agenti di polizia, mentre diversi manifestanti si sono resi protagonisti di atti di vandalismo, oltre a lanci di bottiglie e fumogeni.
Immediate le reazioni di condanna da parte delle istituzioni: Il Sindaco di Bologna Matteo Lepore ha condannato l’accaduto, definendolo “un fatto di enorme gravità, non una manifestazione politica ma devastazione”. E il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha espresso “solidarietà alla comunità ebraica”.
Anche le istituzioni ebraiche hanno condannato le violenze: il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Victor Fadlun, ha definito il vandalismo contro la sinagoga un “episodio gravissimo, che non può essere derubricato a semplice minaccia e che si inserisce in un contesto di antisemitismo crescente che ci preoccupa”. Discorso simile per l’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia), che in un comunicato ha scritto: “È inaccettabile che, ancora oggi, i luoghi di culto ebraici siano bersaglio di violenza e odio. Questo episodio non è un caso isolato, ma l’ennesimo segnale allarmante di un antisemitismo in crescita nel nostro Paese, che non può essere ignorato né sottovalutato”.
Il presidente della comunità, Daniele De Paz, spiega a Mosaico che “questo episodio si inserisce in un contesto non certo sereno. In città c’è un clima piuttosto acceso sulle dinamiche del conflitto in Medio Oriente. Il fatto che oggi sui muri della comunità compaiano scritte di un certo tipo, definisce una volontà da parte dei manifestanti di passare nella via della comunità ebraica con un intento chiarissimo. Non passavano di lì per caso”.
Aggiunge che nell’ultimo periodo “vi è una relazione problematica tra la comunità ebraica e l’amministrazione comunale, che ha fatto di Bologna l’unica città in Italia che espone dalla finestra del municipio la bandiera palestinese. E questo nonostante i rapporti tra la comunità e il comune siano sempre stati ottimi”.
Questa non è la prima volta che, dopo il 7 ottobre, la Comunità Ebraica di Bologna viene presa di mira da atti vandalici: già nel novembre 2023, dal muro del Memoriale della Shoah di Bologna erano stati strappati i manifesti degli ostaggi israeliani.

La dichiarazione congiunta con la Presidente UCEI Noemi Di Segni
  La presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e il presidente della Comunità ebraica di Bologna Daniele De Paz hanno dichiarato:
“Chi, per far valere diritti altrui e contestare forme di razzismo, esercita violenza calpestando altri diritti, incendiando piazze e attaccando una sinagoga, si muove di fatto per destabilizzare legalità e democrazia.
Ogni forma di estremismo punta a mettere in discussione l’impegno per una convivenza civile che difendiamo ogni giorno. La difesa dei luoghi ebraici e delle libertà religiose non è una concessione agli ebrei: è un problema che riguarda la democrazia italiana e sono gli italiani a dover respingere chi si pone fuori dal contesto democratico.
Per tutelare l’ordine pubblico nella propria città e lo Stato di diritto non bastano espressioni di vicinanza del giorno dopo come quelle del Sindaco di Bologna, Matteo Lepore.
Serve una totale e sincera coerenza, che invochiamo da mesi e che invece è risultata mancante e sorda alle istanze delle Comunità ebraiche, dinanzi al crescente dilagare di odio antiebraico.
Questo precedente preoccupa molto anche in vista del 27 gennaio, Giorno della memoria, per quanto essa verrà calpestata e sostituita con esplicitazioni di odio, violenza e distorsione.
Alle forze dell’Ordine e agli agenti impegnati in prima persona la totale vicinanza e solidarietà di tutte le Comunità ebraiche in Italia”.

(Bet Magazine Mosaico, 12 gennaio 2025)

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Un ebreo messianico racconta. Intervista a Neriyah Arabov

Il presente articolo è tratto dal giornale ebraico-messianico in tedesco "Kol Hesed" (in ebraico “Voce della Grazia”).

di Kirill Swiderski

Kohl Hesed - Neriyah, tu sei docente in una scuola biblica, guida turistica israeliana certificata e leader di una congregazione messianica. L'elenco potrebbe continuare a lungo. Ma soprattutto sei un ebreo bukhariano. Partiamo da qui.
Neriyah Arabov - Gli ebrei di Bukhara [Uzbekistan] provengono dall'Asia centrale. Sono arrivati in questa regione intorno all'epoca di Saladino, nel XIII secolo d.C.. Siamo circa un milione al mondo. Io vengo dalla città di Samarcanda. Come tutti gli ebrei di Bukhara, andavo in sinagoga, celebravo tutte le feste e ho fatto bar mitzvah all'età di 13 anni.

- C differenza tra le sinagoghe di Bukhara e quelle ashkenazite?
  Gli ebrei di Bukhara sono un ramo degli ebrei sefarditi e di conseguenza ci sono delle piccole differenze nella tradizione religiosa ebraica.

- In quanto ebreo religioso, probabilmente conosci bene la tradizione ebraica...
  No, non sono religioso e non ho nemmeno il diritto di affermarlo, perché non sono un rabbino. L'ebraismo rabbinico ha trovato il suo “modo” di servire Dio. Solo un rabbino ha il diritto di interpretare il Tanakh e riflettere sulle tradizioni. Se non si appartiene a questo movimento, non si ha il diritto di pensare a Dio. Devi essere in grado di capire il Talmud, cioè devi avere una buona istruzione. Io andavo in sinagoga come tutti gli altri ebrei. Ma come alunno di una scuola sovietica, sono stato influenzato dalla propaganda atea e non credevo nell'esistenza di Dio. Credevo che noi ebrei ci saremmo preservati come nazione osservando le nostre tradizioni.

- Hai sperimentato l'antisemitismo?
  Sì, certo, era presente ovunque. Gli ebrei di Bukhara lo hanno vissuto come tutti gli altri ebrei. A casa parlavamo il farsi, ma il russo era la mia lingua principale. L'Asia centrale faceva parte della cultura sovietica, che includeva anche l'antisemitismo.

- Quindi la tua prima lingua è il farsi?
  No, non direi. La mia prima lingua è il russo, poi il farsi, l'ebraico, l'inglese... Mio figlio maggiore, che ha da poco terminato il servizio nelle Forze di Difesa israeliane, parla sette lingue... Presto andrà all'università. Sogna di diventare un diplomatico! Non so se ci riuscirà...

- Andrà tutto bene! Ora guardiamo alla tua famiglia. Tu sei padre di molti figli. Quanti figli avete?
  Abbiamo sette figli. Cinque sono naturali e due adottati. Le nostre figlie adottive sono cresciute e vivono in Canada. Vengono dall'Eritrea. Le abbiamo accolte malate ed emaciate quando la più grande aveva quattro anni e la più piccola due. Oggi queste ragazze africane parlano correntemente il russo e l'ebraico. Non avevano alcuna possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana perché Israele non concede la cittadinanza ai non ebrei. Abbiamo trovato un programma per loro in Canada e presto riceveranno la cittadinanza.

- Impressionante! Ora, come è possibile che un ebreo religioso che non credeva in Dio sia arrivato a credere in Yeshua?
  Quando i primi ebrei seguirono Yeshua 2000 anni fa, col tempo sorse una domanda: come possono i non ebrei seguire questo maestro ebreo? 2000 anni dopo sorge la domanda esattamente opposta: come possono gli ebrei credere in questo ebreo che morì di una morte ignominiosa sulla croce, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno? Per molti la sua risurrezione è un punto di svolta: credi tu che sia risorto dai morti? Perché se lo credi, hai un rapporto personale con il Creatore, ma se lo rifiuti, non puoi essere in relazione con Dio. Yeshua ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). Per noi ebrei, queste parole sono la prova diretta che Yeshua è il Maschiach promesso e il sacrificio gradito a Dio. Da 2000 anni non c'è più un tempio e al suo posto Dio ha permesso la costruzione di due moschee. In altre parole, noi ebrei dobbiamo riconoscere che non ci sarà mai un tempio, che non ci saranno mai sacrifici e che non ci sarà mai un sommo sacerdote, perché Yeshua è il nostro sacrificio, è il sommo sacerdote ed è la via per il Dio vivente.

- Come sei arrivato a questo?
  È stato un lungo viaggio. Quando ho sentito per la prima volta che Yeshua era il Mashiach promesso da Israele, ho fatto naturalmente del mio meglio per dimostrare il contrario. Ho fatto domande e allo stesso tempo ho letto prima il Tanakh e poi il Nuovo Testamento (Brit Chadashah), ho parlato con tutti i tipi di persone, compresi i rabbini, e alla fine sono stati i rabbini a convincermi che Yeshua è il Mashiach. Le loro argomentazioni erano molto emotive, ma non teologiche. Per esempio: “Come mai, in quanto ebreo, puoi tradire la fede dei tuoi padri?”. Molto più tardi, mi è capitato un fatto simile nella mia congregazione. Avevamo una coppia in visita che veniva dalla Russia. Un giorno mi hanno chiesto se potevano convertirsi all'ebraismo. Ho risposto che la fede in Yeshua è legata alla loro decisione. Dio ci ha creati liberi. Si sono convertiti e sono diventati coerenti ebrei ortodossi. Un giorno mi hanno chiesto: “Come hai potuto tu, ebreo di Bukhara, tradire la fede dei tuoi padri e credere in Yeshua?” Al che ho risposto: “E come avete potuto, voi russi, tradire la fede dei vostri padri e diventare ebrei?”.

- Come è avvenuta la svolta nella tua vita quando hai deciso di seguire Yeshua?
  È avvenuta in modo soprannaturale. È stato nel 1994, quando stavo pensando molto alla messianicità di Yeshua. Fui colpito da un sermone di un ebreo georgiano. Si trattava del tema di Yeshayahu (Isaia) 7. Parlava del re Ahaz, che dopo aver sentito il profeta dirgli: “Chiedi un segno al Signore”, decise di far la parte del religioso e rispose che non voleva tentare Dio. Questo fu il suo errore. Perché se Hashem ti propone di chiedergli un segno, devi farlo! Dopo tutto, Egli vuole rafforzare la tua fede. Quel giorno tornai a casa e chiesi al Signore un segno. E me l'ha dato! All'inizio pensai che fosse una coincidenza. Ma il Signore me lo mostrò di nuovo. Alla fine ho chiesto perdono a Dio per la mia incredulità e la mia prima richiesta è stata che la mia famiglia, quando avesse scoperto la mia nuova fede, non mi abbandonasse. Oggi ho un buon rapporto con tutti i miei parenti. Mio zio materno ha due figli maggiori che sono cantori anziani nella sinagoga bukhariana - persone molto rispettate nel loro ambiente religioso. Allo stesso tempo, il figlio più giovane è un omosessuale dichiarato. E se prima questionavo con i miei parenti religiosi, ora siamo buoni amici. Perché a confronto col loro fratello più giovane io appaio molto religioso!

- Ma sei religioso anche nell'aspetto: Indossi una kippah, una camicia bianca larga ...
  Sì, è il mio abbigliamento normale, mi sono sempre vestito così. Dio non è venuto a cambiare la nostra cultura, ma a cambiare il nostro cuore. È molto importante rimanere nella cultura in cui Dio ti ha chiamato. Prima di credere in Yeshua, portavo la kippah. Dopo essere diventato un credente, l'ho tolta. Ma dopo aver ricevuto un'educazione biblica, ho capito che è gradito a Dio che ognuno rimanga nella cultura in cui è stato chiamato, così ho rimesso la kippah. La kippah in sé non è importante, ma quello che conta è che la nostra vita testimoni che siamo figli di Dio.

- Grazie alla tua conversione e al tuo cambiamento di vita, è nata una famiglia meravigliosa e infine la congregazione messianica “Beit Yeshua” di Bat Yam. Parlaci della tua congregazione...
  Lasciate che vi dica prima qualcosa sui nomi dei miei figli, anche questo è interessante. Ho chiamato il mio primo figlio Baruch. E’ una figura biblica, uno scriba, che servì con il profeta Jemijahu (Geremia) e si chiamava Baruch ben Neriyah. Quando vivevo in Asia centrale, il mio strano nome Neriyah non mi piaceva. Ma quando sono arrivato in Israele, ho capito che nome meraviglioso mi avevano dato i miei genitori: “Luce di Yahweh”. Quando mia moglie era incinta, ho pensato che era Baruch. E così è stato. Poi abbiamo avuto una figlia, che abbiamo chiamato Sarah. Oggi studia al Moody Bible Institute di Chicago. Poi abbiamo avuto Cindy. Nel 2005 ho avuto un'insufficienza renale, ero in dialisi e aspettavo un rene da un donatore. Un giorno, una donna del Michigan, negli Stati Uniti, è arrivata in Israele e mi ha donato il suo rene. Esattamente un anno dopo questo evento, è nata la nostra successiva figlia, che abbiamo chiamato come la mia donatrice. Poi abbiamo avuto Jacob e infine è nato David. Pochi mesi dopo la nascita di Jacob, abbiamo accolto quelle due ragazze eritree. Vivevano in un centro per rifugiati e le condizioni erano terribili. Mia moglie Anna era andata lavorare lì come volontaria. Un giorno è arrivata lì e ha visto uno spettacolo terribile: una bambina, Suzy, che aveva meno di due anni, era sdraiata sul ciglio della strada dove passavano gli autobus. C'erano delle donne sedute lì vicino che non hanno reagito in alcun modo. Anna ha portato a casa la bambina e sua sorella. Le bambine avevano un aspetto molto brutto: pance e teste grandi e braccia e gambe molto magre. Anna ha deciso di portarle con sé  con l’intenzione di riportarle più tardi. Ma la sorte ha voluto che restassero con noi per i dieci anni successivi, fino all'emigrazione in Canada. Comunichiamo con loro quasi ogni giorno.

- Wow! Che Hashem vi benedica per la vostra generosità! Ora torniamo alla vostra comunità...
  Il rene che mi era stato trapiantato nel 2005 si è guastato nel 2011. E sono morto con quel rene. Miracolosamente sono stato rianimato. All'epoca pesavo solo 45 kg. Mentre mi stavo riprendendo da questa malattia, pensavo di essere sulla via dell'aldilà. Un giorno, i leader delle congregazioni messianiche di Israele (circa 100 persone) andarono a pregare nel deserto. Ricordo che erano le cinque del mattino. Ognuno andò al proprio posto, per pregare da solo. Il deserto del Negev è fatto di colline, quindi c'era posto per tutti. Anch'io trovai il mio angolo, cominciai a pregare e a leggere il Salmo 16, che conosco ancora a memoria in ebraico. Questo salmo dice: “Loderò il Signore, che mi consiglia; anche di notte le mie reni mi istruiscono” (Salmo 16:7). E ancora: “Perché non abbandonerai la mia anima allo Sceol; non permetterai che il tuo fedele veda la corruzione” (Salmo 16:10). All'improvviso ho sentito una voce, una voce chiara: “Che cosa vuoi?” e una forte folata di vento mi ha investito la schiena. Alle cinque del mattino c'è un silenzio assoluto nel deserto. Anche le mosche dormono. Ma c'era una folata di vento e una voce... Risposi: “Voglio essere guarito”. Sentii di nuovo la voce: “Vai!”. Camminai e arrivai a una collina. La voce disse: “Sali sulla collina”. La collina era argillosa e scivolosa. Con tutte le mie forze, mi sforzai di salire sulla collina. La voce disse di nuovo: “Salta!”. Ero a circa due metri di altezza. Saltai e non caddi. Poi la voce disse di nuovo: “Non mormorare. Vai a fondare una congregazione messianica nel luogo in cui vivi”. Il fatto è che noi andavamo in una congregazione a Tel Aviv. Ho raccontato la storia a mia moglie e ad altri amici. Tutti mi hanno sostenuto e nel gennaio 2012 ci siamo riuniti per la prima volta a Bat Yam. Ora siamo lì da dodici anni. Il gruppo è in costante crescita. Lavoriamo con i nuovi immigrati e, più recentemente, con i rifugiati di guerra ucraini. Forniamo innanzitutto aiuti umanitari: cibo e vestiti. Insegniamo l'ebraico, per il quale sono state istituite classi speciali. In origine avevamo due obiettivi: proclamare la Buona Novella e costruire una comunità messianica. Da ciò è scaturita la seguente idea: la cosa principale è predicare la Buona Novella. Come risultato di questa dichiarazione, è nata la congregazione messianica.

- In quale direzione religiosa si sta sviluppando la vostra congregazione? Ho visto sul canale YouTube della vostra congregazione che indossate un talit...
  La cosa più importante è essere un testimone della fede in Yeshua. Tutto il resto non è così importante. Un professore del nostro istituto biblico sostiene che il Nuovo Testamento ha influenzato il giudaismo molto più della vita dei credenti non ebrei. Per esempio, il Seder di Pasqua, che viene celebrato da tutti gli ebrei religiosi, probabilmente è entrato a far parte della tradizione ebraica grazie agli ebrei messianici. Allo stesso modo, i passi citati nei libri del Nuovo Testamento sono scomparsi dalla lettura settimanale della Haftara (profeti). Così se il capitolo 11 di 1 Corinzi dice agli uomini di non coprirsi il capo durante la preghiera e la profezia, l'ebraismo prescrive il contrario, cioè di coprirsi il capo, in netto contrasto con quanto scritto nel Nuovo Testamento.

- C'è una bella spiegazione che dice che siccome la Torah dichiara che il popolo d'Israele è un popolo di sacerdoti e i sacerdoti devono coprirsi il capo, allora tutto il popolo d'Israele del nostro tempo deve coprirsi il capo perché non ci sono più né sacerdoti né templi ...
  Non c'è alcuna conferma di questo nel Talmud. Esiste solo un racconto rabbinico del VI o VII secolo, secondo il quale un certo rabbino visse fino a 200 anni perché sua madre gli coprì il capo fin dalla nascita.

- Sì, se solo funzionasse così... Quanti credenti messianici ci sono oggi in Israele?
  Non abbastanza! Tom Hess, un noto predicatore che vive in Israele, tiene delle statistiche. Ma questo non è assolutamente biblico. La Bibbia insegna che non dobbiamo contare le persone, ma il denaro. Ogni ebreo che si recava al tempio doveva dare “Mahatzit Hashekel” - mezzo siclo. Se un ebreo non pagava il denaro, veniva escluso dalla comunità di Israele. Questo è il modo in cui veniva contata la popolazione ebraica ai tempi della Bibbia. Tuttavia, Tom ha contato circa 25.000 ebrei messianici in Israele. Il dottor Zuref ha detto che nel mondo ci sono circa un milione di ebrei messianici.

- Questi numeri sono impressionanti! E ora passiamo a un altro argomento: Qual è lo stato d'animo della società israeliana dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre?
  La nostra nazione è in lutto. A questo si aggiunge la divisione del popolo. Gli anarchici, sostenuti dalle autorità di sicurezza, stanno causando un vero e proprio caos: bloccano la principale arteria di Israele, l'autostrada di Tel Aviv, bruciano falò e così via. La maggioranza degli israeliani spera nel legittimo governo esistente. Il gruppo più importante è costituito dai sionisti religiosi che prestano servizio nell'esercito e attualmente con il numero dei loro soldati morti rappresentano un grande contributo. E tuttavia sono considerati estremisti dal governo. Ma sono proprio questi estremisti a guidare la causa. Finora il concetto del governo israeliano è stato quello di relazioni amichevoli con la popolazione araba di Israele. Si pensava che solo una piccola parte della popolazione araba si considerasse nemica di Israele. Ora, invece, si scopre che la maggioranza degli arabi è favorevole alle azioni di Hamas. Essi stessi, cioè circa il 90%, sono favorevoli alla cessazione dell'esistenza di Israele. E anche ora, dopo le morti  e la distruzione di case e infrastrutture, la maggior parte dei gazesi vuole che questa guerra continui. Sono pronti a sacrificarsi fino alla fine per uccidere il maggior numero possibile di ebrei. I razzi continuano a volare su Israele dalla Striscia di Gaza perché le persone che vivono lì sono ossessionate dall'idea di distruggere il maggior numero possibile di ebrei. Sanno che non c'è modo di distruggere Israele, ma almeno vogliono uccidere quanti più ebrei possibile. Noi, credenti in Yeshua, sappiamo chi c'è dietro tutto questo. Il nemico della razza umana continua a realizzare i suoi piani perché sa cosa sta per accadere. Allo stesso modo, usa la popolazione araba per i suoi scopi.

- Quali sono le vostre previsioni personali? Cosa riserva il futuro a Israele?
  Confesso che non seguo le notizie per non essere sopraffatto dai miei sentimenti. La nostra attenzione deve essere rivolta a Dio, non al suo nemico. Tutto ciò che ci distrae da Lui non gli appartiene. Cerchiamo di portare gioia alle persone e di predicare la speranza. La speranza c'è solo con Dio. La Parola di Dio ci avverte che un giorno il mondo intero entrerà in guerra contro il popolo ebraico. Come dice il profeta Zaccaria: “... Io farò di Gerusalemme una pietra gravosa per tutte le nazioni; chiunque la toccherà sarà distrutto e tutti i popoli della terra saranno radunati contro di essa” (Zaccaria 12:3). Ma anche qui troviamo la speranza: “E sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme effonderò uno spirito di grazia e di ravvedimento, e guarderanno a me che hanno trafitto. Piangeranno su di lui come si piange sul figlio unigenito e faranno cordoglio come si piange sul primogenito” (Zaccaria 12:10). Yeshua ci salverà certamente. Ma le persone rimaste in vita piangeranno quando vedranno le mani e i piedi trafitti del nostro Signore. Perché piangeranno quando la salvezza sarà arrivata all'improvviso? Perché si vergogneranno del fatto che ci siamo fissati sulle tradizioni, sulle feste e sull'osservanza dei comandamenti e abbiamo trascurato la cosa più importante: Non abbiamo visto il Messia vivente. Anche se è scritto: Kol berekh tikhrah veh kol lashon todeh (Ogni ginocchio si inchinerà e ogni lingua confesserà) che Yeshua è il Mashiach. Ecco perché abbiamo speranza. In questo momento è in corso una guerra. Non sappiamo come finirà. Ma il mondo intero chiede a gran voce la creazione di un altro stato arabo a spese di Israele, l'unico Stato ebraico. Non ci saranno ebrei in questo stato, mentre in Israele vivono due milioni di arabi che godono di pieni diritti civili hanno una propria rappresentanza in parlamento. Nell'ultimo governo c'era persino un arabo musulmano. E questa è un'ulteriore prova che questo mondo non è ancora governato da Dio.

- Sono pienamente d'accordo. L'antisemitismo ne è una prova evidente.
  L'ambasciatore dell'Unione Europea in Israele ha detto che l'UE ha criteri completamente diversi per Israele rispetto agli arabi palestinesi. Noi non dovremmo comportarci come loro. E Angelina Glick, una nota corrispondente in Israele, ha risposto con le seguenti parole: “Certo, voi vedete gli arabi come una specie di cosa o di animale. Perché non ci trattate allo stesso modo? In fondo, voi europei avete sempre guardato dall'alto in basso gli arabi e gli ebrei: è questa la vostra posizione storica. Perché non ci mettete sullo stesso piano? E ora volete creare uno stato che sia “judenrein”? Perché bisognerebbe farlo? Affinché gli ebrei possano vivere a Londra e a New York, ma non in Giudea e Samaria?

- Questo è il nostro pazzo mondo. Per concludere la nostra intervista: Cosa desideri per Israele?
  Credo nella salvezza di Israele perché è scritto nella parola di Dio. E guardiamo avanti con speranza. Guardare indietro, si sa, è pericoloso, difficile. La moglie di Lot lo fece e divenne una colonna di sale. Quindi guardiamo avanti, è lì che si trova il nostro futuro luminoso. Yeshua Ha Maschiach sarà re in Israele e il mondo intero riceverà la pace tanto attesa. Ecco perché il salmista dice: Shaalu shalom Yerushalayim (in italiano: Cercate la pace di Gerusalemme). Perché sarà vera pace quando il Re della Pace siederà sul suo trono a Gerusalemme e regnerà su Israele e sul mondo intero. Siamo in attesa del suo regno e preghiamo: “Venga il tuo regno!”

- Sì, questa è la caratteristica del nostro mondo. Tutto dipende da una piccola striscia sulla mappa geografica del mondo, dove nemmeno il nome del paese corrisponde. Quando Yeshua siederà a Gerusalemme, la Sua pace si diffonderà in tutto il mondo. Al contrario, se in Israele regna il caos, il mondo intero sprofonderà nel caos. Eppure la parola dell'Altissimo rimane vera per tutti i tempi.
  Mi stupisce che i miei antenati abbiano letto questa Torah migliaia di anni fa e che noi la leggiamo ancora oggi. La Torah ci dice che verrà un profeta come Moshe e che bisogna ascoltarlo. Moshe era governatore d'Israele, sommo sacerdote e profeta allo stesso tempo. Non c'è mai stata una persona in Israele che abbia unito tutte queste cariche. Solo il Mashiach Yeshua ha unito queste funzioni. Ecco perché la Torah dice che dobbiamo ascoltarlo. Per questo prego che il popolo di Israele ascolti Lui, il vero Mashiach di Israele.

- Grazie di cuore!

Il giornale Kol Hesed è stato fondato ed è diretto da Kirill Swiderski, missionario ebreo di origine russa che dal 1998 lavora presso l'organizzazione messianica “Beit Sar Shalom Evangeliumsdienst e.V.” - “Chosen People Ministries”. A Düsseldorf, dove ha vissuto diversi anni, ha fondato la congregazione messianica “Beit Hesed” ed è stato coinvolto nella fondazione di diverse congregazioni messianiche a Essen, Aquisgrana e Bonn. Dal 2008 lavora tra gli ebrei di Chicago (USA), soprattutto tra quelli di origine russa, dove sotto la sua guida è stata fondata la congregazione messianica “Beit Emet”. Da allora Kirill e la sua moglie Elena vivono lì con le loro tre figlie. La loro visione - sostengono nel giornale -  è quella di far conoscere il Vangelo del Messia di Israele e Salvatore del mondo, Yeshua, soprattutto tra gli ebrei.


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(Kol Hesed, Nr. 2/2024 (59) - trad. www.ilvangelo-israele.it)



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Nel 2024 Israele è stato vittima di oltre 18.000 attacchi terroristici

La Direzione nazionale della diplomazia pubblica presenta il suo rapporto di sintesi sul terrorismo contro Israele nel 2024: si sono verificati in totale 18.365 attacchi terroristici, in cui sono state uccise 134 persone e 1.277 sono rimaste ferite
Il rapporto riunisce tutte le informazioni e i dati delle forze di difesa israeliane, della polizia israeliana, dell’Agenzia per la sicurezza israeliana (ISA) e delle autorità di emergenza e salvataggio. Viene inviato a tutte le autorità ufficiali israeliane che svolgono la diplomazia pubblica e viene utilizzato come fonte ufficiale di dati nel campo della hasbara.
L’anno scorso Israele è stato attaccato su sette fronti: Iran, Libano, Siria, Gaza, Iraq, Yemen e dall'interno. Il numero degli attacchi terroristici nel 2024 è stato di 18.365, in cui sono state uccise 134 persone e 1.277 sono rimaste ferite.
Secondo il rapporto, nel 2024 sono stati lanciati e attraversati verso Israele circa 16.400 razzi, di cui circa 15.400 sono stati lanciati dal Libano e circa 700 da Gaza. L’ottobre 2024 ha visto il maggior numero di lanci di razzi contro Israele, con oltre 6.900.
399 veicoli aerei senza pilota ostili sono entrati nel territorio israeliano. Il fuoco di razzi e UAV ha causato molti danni: 71 persone sono morte, di cui 14 minori, e 892 persone sono rimaste ferite. Inoltre, hanno appiccato quasi 610 incendi, bruciando 92.417 acri di terreno della Nature and Parks Authority e più di 42.749 acri di pascolo.
Nel 2024 si sono verificati altri 1.900 episodi terroristici, tra cui lancio di pietre, bombe molotov, investimenti, sparatorie, accoltellamenti, aggressioni, ordigni esplosivi e lancio di oggetti. Luglio ha registrato il maggior numero di incidenti: 191 attacchi. Novembre è stato il mese più tranquillo, con 109 attacchi. Ottobre è stato il mese più violento, in cui sono state uccise 37 persone e 394 sono rimaste ferite.
Il tipo più comune di attacco terroristico è stato il lancio di pietre, con 1.248 incidenti. Aprile è stato il mese con il maggior numero di lanci di pietre, con 130 incidenti, e novembre è stato il mese più calmo, con 76 incidenti. Gli attacchi successivi più comuni sono stati lancio di oggetti, incendio doloso e incendio di pneumatici (162), lancio di bottiglie molotov (140), sparatorie (132) e ordigni esplosivi (89).

(Aurora Israel, 11 gennaio 2025)

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Oltre il silenzio: nuove indagini svelano la complicità delle Banche svizzere con il nazismo

di Marina Gersony

Alcune storie sembrano destinate a riaffiorare, come cicatrici che non smettono mai di fare male. La relazione tra le banche svizzere e il regime nazista è una di queste, una ferita che, nonostante il tempo, continua a sanguinare. Con ogni nuovo dettaglio che emerge getta un’ombra sulla tanto decantata neutralità della Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale.
In quegli anni oscuri, la Svizzera era vista come un rifugio, un faro di stabilità in un’Europa dilaniata dalla guerra. Per tanti ebrei europei, questo rappresentava una speranza: affidare i propri beni alle banche elvetiche sembrava l’unica via di uscita per preservare il proprio patrimonio o di ciò che restava. Ma, come si scopre oggi grazie a recenti indagini, quella fiducia fu spesso tradita, gettando una luce sinistra su un capitolo che la storia fatica ancora a digerire.
Le nuove inchieste rivelano che il coinvolgimento delle banche svizzere, in particolare il Credit Suisse con il regime nazista, era molto più profondo di quanto è già noto. La Svizzera pensava di aver fatto i conti con il suo passato di assistenza ai nazisti dopo che le strazianti indagini degli anni Novanta, quando furono denunciate queste complicità, si arrivò a un accordo di risarcimento di 1,25 miliardi di dollari per le vittime della Shoah. Tuttavia, le scoperte recenti dimostrano che quello che sapevamo finora era solo la superficie di una realtà ben più grave. Ed è solo la punta dell’iceberg.
Infatti, una volta “messa a posto la coscienza”, le banche svizzere non si limitarono a chiudere un occhio: in molti casi furono attivamente coinvolte nel riciclaggio di beni rubati, in particolare quelli sottratti agli ebrei in fuga. Questo non si limitò a un semplice passaggio di denaro o beni, ma si tradusse in una vera e propria collaborazione tacita con la macchina di guerra nazista, un’operazione che avrebbe continuato a lasciare cicatrici su memoria storica e giustizia per decenni.
Oggi, un’indagine condotta da una commissione del Senato degli Stati Uniti, ha scoperto che la banca d’investimento in difficoltà Credit Suisse – oggi sussidiaria della banca d’investimento UBS – ha nascosto informazioni durante precedenti indagini sui conti bancari controllati dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale.
Decine di migliaia di documenti scoperti durante un esame in corso, hanno fornito nuove prove dell’esistenza di titolari di conti collegati ai nazisti, ha affermato la Commissione Bilancio del Senato in una dichiarazione pubblicata sabato.
Neil Barofsky, l’investigatore a capo di questa indagine, ha affrontato ostacoli non indifferenti per portare alla luce queste verità scomode. Rimosso temporaneamente dal suo incarico e poi reintegrato, Barofsky ha scoperto una mole impressionante di documenti che testimoniano il coinvolgimento diretto delle banche. «Le nostre indagini hanno rivelato una negligenza che sfiora la complicità», ha dichiarato, sollevando interrogativi cruciali sulla responsabilità storica delle istituzioni finanziarie svizzere.
Dietro una parvenza di neutralità, le banche elvetiche avrebbero tratto profitto dalla disperazione degli ebrei, appropriandosi delle loro ricchezze con la complicità del regime nazista. Le scoperte di Barofsky non sono solo numeri e documenti polverosi. Intanto, l’indagine della commissione del Senato prosegue.
Come non ricordare, infine, come dietro ogni conto ci sia una storia di sofferenza e tradimento? Una delle più emblematiche riguarda la famiglia Stern, tra le più rispettate famiglie di banchieri di Francoforte. Dopo la guerra, gli eredi dei Stern lottarono per anni per recuperare i fondi bloccati in Svizzera. Le banche, con la loro fredda burocrazia, richiedevano certificati di morte impossibili da ottenere per chi era perito nei campi di concentramento.
Tra i documenti più significativi emersi negli anni c’è anche il “Rapporto Eizenstat”, un dossier stilato dagli Alleati nel 1946. Questo rapporto dipinge un quadro inquietante: le banche svizzere non solo erano a conoscenza dei fondi rubati agli ebrei e delle risorse sottratte nei territori occupati, ma avevano un ruolo chiave nel nasconderli per conto del regime nazista. Per decenni, questo rapporto è rimasto sepolto nell’oblio, quasi dimenticato, ma oggi rappresenta una delle prove più schiaccianti delle connessioni finanziarie tra la Svizzera e il Terzo Reich. E non è la prima volta che lo scandalo delle banche svizzere affiora con forza.
La letteratura, a sua volta, ha più volte esplorato la questione. Swiss Banks and Jewish Souls di Gregg J. Rickman, pubblicato nel 1999, denunciava con forza queste ingiustizie. Rickman descrive come un numero incalcolabile di ebrei europei avesse depositato i propri beni nelle banche svizzere, fidandosi di una neutralità che si è rivelata, in molti casi, una facciata. Il suo libro è una cronaca dettagliata delle indagini di un piccolo gruppo di persone – un senatore americano, il Congresso Mondiale Ebraico e alcuni sopravvissuti all’Olocausto – che riuscirono a smascherare decenni di insabbiamenti. Nonostante le difficoltà, questa coalizione eterogenea portò alla luce la verità, ottenendo almeno un minimo di giustizia per le vittime e i loro eredi, e contribuendo a ridefinire l’immagine della Svizzera nel mondo.

(Bet Magazine Mosaico, 10 gennaio 2025)

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Libano: in equilibrio con lo sguardo verso una fragile ricostruzione

di Gino Lattanza

La caratteristica politica ricorrente sul proscenio internazionale è quella che reitera fragilità statuale ed instabilità, elementi che determinano l’irraggiungibilità di qualsiasi tipo di equilibrio di potere endogeno ed esogeno. Il Libano ne è un esempio instabile e lampante.
L’attrito iniziato l’8 ottobre 2023 con le iniziative di Hezbollah a sostegno di Hamas è deflagrato in estate con l’incrementale aumento della risposta israeliana che ha condotto all’esplosione indotta dei cercapersone, all’annichilimento del Segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, all’inizio dell’invasione di terra a sud; un insieme di fattori che ha aggravato una strutturalità politica in via di definitivo disfacimento, appesantita da un conclamato default finanziario.
Le politiche adottate sono state disfunzionali per decenni, con un sistema bancario debole e nella grey list del GAFI1, un’economia priva di diversificazione, una crescita inesistente ed un’inflazione elevatissima esacerbata dalla svalutazione della lira ed una costante contrazione del PIL2. Anche Hezbollah, malgrado la struttura economica parallela ed i finanziamenti da Teheran3 sembra soffrire il protrarsi del conflitto4.
In questo contesto l’apparato militare statunitense nell’area, Corno d’Africa e Oman compresi, appare rafforzato sia per effetto degli attacchi israeliani alle forze filo iraniane, sia dalla dissoluzione del regime baatista siriano, sia dal revanscismo turco che ha condotto gli USA, interpreti di un potere navale preponderante anche nel Mediterraneo, fino a Kobane e coprendo i vuoti lasciati dalla Russia. Anche l’aeroporto di Beirut sembra essere ormai precluso alle proiezioni di Teheran, uno scalo simbolo dei nuovi spazi geopolitici apertisi, dopo la Siria, anche in Libano e delle possibilità di estensioni operative a lungo neanche ipotizzabili.
Dopo un vuoto pneumatico istituzionale di oltre 2 anni, il generale Joseph Aoun, candidato gradito a Tel Aviv, Parigi, Washington ed alla compagine mediorientale filo statunitense, è asceso al soglio presidenziale forte di un cartello di azionisti indispensabile per raggiungere gli obiettivi di supporto e ricostruzione.
Nel più vasto contesto del MENA, non si può escludere la possibilità che Riyadh riesca a trovare quadratura e formula politica che legittimino inedite liaison con lo Stato ebraico. Nel frattempo Teheran comincia ad avvertire un declino della propria influenza, connesso alla compromissione del corridoio siriano; un aspetto da non sottovalutare, laddove forzi una revisione della strategia deterrente persiana, ora più che mai indirizzabile al nucleare, fermo restando il prossimo avvento trumpiano e la (remota) possibilità di un accordo con l’Occidente, vista peraltro la prossima scadenza delle sanzioni delle NU.
Il problema libanese, caratterizzato dalla mancanza di novità politiche, è aggravato dal contrasto tra una società depressa ed un’élite ristretta che protegge i propri interessi grazie ad un’isteresi istituzionale alimentata ad arte e che ha acuito sulla querelle palestinese vulnerabilità irrisolte dal 1948 da aggiungersi alla politica di Hezbollah, fedele ad una propria dirittura avulsa ed autonoma da quella nazionale libanese. Comprensibile quindi che l’arco politico libanese, eccetto Hezbollah, abbia cercato di evitare l’allargamento del conflitto da Gaza al Libano uniformandosi agli altri governi regionali e vista anche una manifesta fragilità bellica specie laddove comparata con la potenza di Tsahal, con un sentito saluto alla solidarietà panaraba riguardo la Palestina. Il tutto considerando il fatto che Hezbollah, pur facendo parte della costellazione politica libanese, rimane militarmente autonomo e sopravanzato da Israele per numero e natura degli attacchi, come quello che ha condotto all’eliminazione di Saleh al-Arouri, leader di Hamas, alla periferia sud di Beirut, zona tradizionalmente sotto copertura securitaria del Partito di Dio.
Dopo uno stallo biennale e 12 tentativi falliti si è dunque giunti all’elezione di un militare, il comandante dell’esercito Joseph Aoun, maronita, che è riuscito a prevalere al secondo turno, pur a lungo ostacolato da Hezbollah, ora più mai fiaccato dai colpi dei Merkavà israeliani. Come militare, il quinto nella storia di Beirut eletto alla presidenza, Aoun, sostenuto dalla reputazione di incorruttibile integrità, ha raccolto un sentito consenso popolare, superando lo scoglio dell’articolo 49 della Costituzione5 e facendo seguito all’attuazione del cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah da rinnovare l’ormai prossimo 25 gennaio, un accordo su cui vigila l'esercito libanese. Punto di svolta per l’elezione, l’8 gennaio è avvenuto il ritiro dalla competizione elettorale dell’ex ministro dell’interno Suleiman Frangieh6, sostenuto da Hezbollah e dal Movimento Amal e che ha fornito, in chiave saudita, il proprio sostegno ad Aoun. Di fatto, il passo indietro di Frangieh, nell’evidenziare l’indebolimento di Hezbollah, ha riportato alla ribalta l’efficace pressione politica statunitense e l’auspicata apertura di credito (in tutti i sensi) di Riyadh.
Nel discorso di accettazione, Aoun ha inteso concentrarsi sulla ricostruzione del Paese7 ma, soprattutto, sulla (difficile) promessa di ricondurre tutte le armi, quelle di Hezbollah comprese, al controllo esclusivo dell’esercito, dunque sotto il mandato dello Stato. Altro nodo fondamentale, riuscire a ricevere un pacchetto di aiuti finanziari dal FMI.
Non c’è dubbio che i problemi inerenti all’efficienza bellica siano rilevanti ma, in chiave futura, è altrettanto importante che alla nuova dirigenza sia consentito riformare internamente il sistema politico in modo sia da evitare il ripetersi delle ingiustificate astensioni parlamentari al momento delle votazioni sia da poter rivedere un confessionalismo che non riesce ad essere garante di un’equanimità che impedisca esclusioni, un’esigenza adesso ancor più avvertita con la caduta della Siria. Aoun non ha dunque molto tempo, deve procedere con le consultazioni per la nomina del governo e deve garantire la tenuta del cessate il fuoco traguardando la ricostruzione dello Stato, tenendo conto che Hezbollah ha visto paralizzata la sua capacità di imporre la sua volontà malgrado lo sforzo profuso dal nuovo segretario generale, Na'im Qassem, evidentemente ignaro del fatto che il Partito di Dio poco abbia potuto contro le IDF.
Con l’arrivo di Trump, se Hezbollah imponesse boicottaggi sciiti del governo, si determinerebbe l’avvitamento di una crisi irrisolvibile di cui nessuno, ora, vuole essere responsabile, visto che nessun primo ministro sunnita vorrà perdere il sostegno per aver appoggiato Hezbollah, facendosi peraltro sostenere da FA principalmente cristiane. Se i ricchi stati del Golfo dovessero avvedersi di un rinnovato controllo sciita, come è ovvio attendersi, a Beirut non giungerebbe alcun aiuto.
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1 Gruppo di azione finanziaria internazionale
2 La responsabilità è di Hezbollah, che ha voluto il default come sfida alle istituzioni finanziarie mondiali. Il Libano ha illegalmente bloccato i conti correnti di tutti i cittadini in possesso di un deposito in valuta pregiata ma contemporaneamente non ha preso alcun provvedimento per impedire la fuga di capitali all’estero.
3 In Iran sembra sia in corso un dibattito sul denaro speso per la strategia regionale. Il religioso Mohammed Shariati Dehghan, è stato citato dal NYT per aver chiesto un nuovo approccio che dia priorità alla costruzione di alleanze con i paesi invece di sostenere i gruppi militanti e reindirizzare denaro e risorse al popolo iraniano. Appare dunque improbabile che gli iraniani intervengano per ricostruire le aree sciite del Libano.
4 Un articolo de L’Orient-Le Jour riporta come le filiali di al-Qard al-Hassan (il prestito benevolo), sorta di istituto di credito senza scopo di lucro e che ha erogato prestiti per circa 4,3 miliardi di dollari dal 1983, hanno subito danni per i bombardamenti di Tel Aviv, tanto da non rendere chiara l’effettiva consistenza delle sue riserve auree. Anche la Fondazione Martiri, che sostiene le famiglie dei caduti e che fornisce istruzione in aree sciite, è assorbita da ingenti problemi finanziari
5 Proibisce ai dipendenti governativi in servizio e ai membri delle FA di candidarsi alla presidenza a meno che non ottengano la maggioranza dei due terzi dei voti. Per Aoun è stato quindi necessario un minimo di 86 voti parlamentari e non solo una maggioranza semplice (65).
6 Elias al-Baysari, capo ad interim dell'agenzia di sicurezza generale libanese, si è ritirato poco dopo.
7 Stimata, secondo la Banca Mondiale, in non meno di 9 miliardi di dollari

(Difesa Online, 10 gennaio 2025)

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Sui morti a Gaza, Lancet si contraddice e gonfia i numeri più di Hamas

La versione ufficiale dei giornali, dell’Onu e di Hamas parla di 46mila vittime a Gaza, di cui “70 per cento donne e bambini”. In realtà più di uno studio serio ha spiegato che più della metà dei morti sono terroristi. Quando la famosa rivista medica raddoppiò quelli della guerra in Iraq.

di Giulio Meotti

Prima Gabriel Epstein, analista del Washington Institute for Near East Policy, aveva fatto notare che qualcosa non tornava. Aveva scoperto che le morti attribuite a “fonti mediatiche affidabili” erano costituite quasi interamente da donne e bambini. Delle 6.629 vittime attribuite dai media, 1.941 erano donne, 4.678 bambini e solo dieci uomini. Dei quasi undicimila decessi segnalati tra il 1° gennaio e il 31 marzo, i maschi adulti rappresentavano solo il 9 per cento delle vittime, anche se il rapporto tra i sessi di Gaza è vicino alla parità e più della metà dei suoi residenti sono adulti. 
Poi, un mese fa, era uscito un rapporto della britannica Henry Jackson Society che aveva denunciato che il numero di civili uccisi a Gaza è gonfiato per rappresentare Israele come se prendesse deliberatamente di mira civili innocenti. I ricercatori accusavano il “ministero della Sanità” di Gaza, citato come unica fonte dai giornali e sotto il controllo di Hamas, di manipolare i dati sulle vittime includendo morti naturali, non distinguendo tra civili e terroristi, classificando anche combattenti di sedici e diciassette anni fra i bambini, sovrastimando il numero delle donne. 
  La versione ufficiale dei giornali, dell’Onu e di Hamas parla di 46mila vittime a Gaza, di cui “70 per cento donne e bambini”. In realtà più di uno studio serio ha spiegato che più della metà dei morti sono terroristi e che il rapporto delle perdite è di un civile per ogni terrorista, molto più proporzionale che altre guerre simili in ambienti urbani e indicando uno sforzo notevole e riuscito per evitare inutili perdite di vite umane mentre si combatte un nemico spietato che si difende usando i civili come scudi umani).
  >Ma per Lancet, la famosa rivista medica fondata nel 1823 e diretta dall’attivista Richard Horton, i numeri di Hamas sono bassi, anzi bassissimi, e Israele ne fa molti di più, quasi il doppio. I morti di Gaza sarebbero 70mila. La cifra del “ministero della Sanità” di Hamas è di 45.885 al 7 gennaio. Ma la rivista inglese è in contraddizione persino con il suo clamoroso studio precedente. 
   A luglio, infatti, Lancet aveva lanciato un altro numero. La rivista ha pubblicato un articolo scritto dai tre medici (di cui almeno due hanno una documentata storia di prese di posizione a difesa del terrorismo, inclusa la giustificazione del linciaggio di due riservisti israeliani a Ramallah nell’ottobre 2000), in cui si affermano che “non è implausibile stimare fino a 186mila o anche più morti”. Titolo dell’articolo: “Contare i morti a Gaza, un compito difficile ma essenziale”. 
  Difficile davvero, contarli.Tre giorni dopo la pubblicazione, uno degli autori, il professor Martin McKee, ha ritrattato le cifre che aveva fornito nel pezzo, sostenendo che erano “puramente illustrative” e che “il nostro pezzo è stato ampiamente citato e interpretato erroneamente”.
Nel 2006, Lancet aveva pubblicato un “rapporto bomba” che stimava che le vittime della guerra in Iraq avevano superato i 650mila. Ci è voluto un po’ per accertarne non più di duecentomila. A dirlo erano anche i pacifisti stessi. Il loro progetto “Iraq Body Count”, che si occupa di monitorare il numero delle morti violente in Iraq e punto di riferimento di tutto il movimento arcobaleno, è fermo a 300mila morti, tra cui sono conteggiati i terroristi. 
Quintuplicare e raddoppiare il numero dei morti riportati da Hamas deve essere davvero un “compito difficile ma essenziale” per Lancet, anche se i capi del terrorismo non vanno certo per il sottile  e i morti civili li considerano “sacrifici necessari” nella guerra a Israele. 
   Attendiamo invece uno studio medico di Lancet sui cento ostaggi israeliani da un anno e tre mesi nelle gabbie di Hamas, quanto pesano, la loro condizione psicologica, gli stupri subiti, le torture, la privazione della luce e del sonno: ce ne sarebbe da scrivere per una rivista scientifica. 
   Ma sarà più facile aspettarsi per il 27 gennaio un altro rapporto di Lancet su “un milione di morti a Gaza”, giusto in tempo per commemorare il genocidio palestinese al posto della Shoah.

Il Foglio, 11 gennaio 2025)

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L’UNRWA collabora con Hamas e Jihad Islamica, gruppi terroristi che ne influenzano pesantemente le scelte politiche

Un rapporto UN Watch documenta gli incontri fra esponenti terroristi e alti dirigenti dell’agenzia Onu, compreso il Commissario generale Philippe Lazzarini, anche dopo il 7 ottobre.

Un dettagliato rapporto di UN Watch pubblicato lunedì rivela come le organizzazioni terroriste palestinesi, tra cui Hamas e Jihad Islamica, influenzino sistematicamente i processi decisionali dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per profughi palestinesi.
Questa influenza viene esercitata, fra l’altro, in continui incontri che vanno avanti da diversi anni tra rappresentanti delle organizzazioni terroristiche e alti funzionari dell’UNRWA, compreso lo stesso Commissario generale Philippe Lazzarini, che ricopre la carica dal 2020.
Il rapporto documenta come alti funzionari dell’Onu e dirigenti locali abbiano condotto incontri con organizzazioni terroristiche in Libano e Gaza, elogiando apertamente la “cooperazione” fra loro e trattandosi a vicenda come partner strategici.
Le organizzazioni terroristiche avanzano regolarmente le loro richieste all’UNRWA e influenzano pesantemente le decisioni politiche dell’agenzia.
L’inchiesta rivela inoltre che il Commissario dell’UNRWA, Philippe Lazzarini, e il suo staff internazionale dedicano risorse significative al mantenimento dei rapporti con Hamas e Jihad Islamica.
Sotto la loro supervisione, le organizzazioni terroristiche hanno ottenuto accesso a strutture dell’UNRWA, hanno diffuso propaganda rivolta ai bambini e hanno costruito infrastrutture militari a ridosso o sotto le installazioni dell’agenzia.
Un esempio significativo è quello del marzo 2019, quando il Commissario dell’UNRWA Philippe Lazzarini, all’epoca in servizio come inviato delle Nazioni Unite in Libano, incontrò l’alto esponente di Hamas, Hajj Izzat Mansour. Mansour, che dirige le operazioni di Hamas nel distretto orientale di Baalbek, in Libano, parlò di come ricoprire posti vacanti da insegnante con persone collegate alla sua organizzazione.
Nel marzo 2021 Lazzarini, a quel punto Commissario generale dell’UNRWA, durante una visita al campo palestinese di Ain al-Hilweh, presso Sidone, si intrattenne con un’organizzazione ombrello palestinese che supervisiona le cellule locali di Hamas, Fatah, Jihad Islamica, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina e altri gruppi.
Questi gruppi terroristi si opponevano all’implementazione di un database biometrico dei profughi (pensato per attuare una distribuzione più trasparente degli aiuti), verosimilmente allo scopo di preservare la loro capacità di manipolare i numeri dei beneficiari e gonfiare le richieste di aiuti.
Un incontro successivo, a Beirut nel dicembre 2021, vide la partecipazione di Lazzarini e Ali Ahmad Huwaidi. Huwaidi, un noto sostenitore di Hamas che cerca di espandere l’influenza dell’organizzazione all’interno dell’UNRWA, manifestò preoccupazione sulla stabilità finanziaria dell’agenzia sottolineando l’importanza di mantenere il sostegno dei donatori. Il rapporto rileva la minaccia appena velata di Huwaidi, secondo cui il ritiro di fondi dall’UNRWA avrebbe innescato uno “scontro militare che sarebbe costato ai donatori molto di più del mantenimento dei finanziamenti dell’agenzia”.
Verso la fine del 2023, appena due mesi dopo il massacro del 7 ottobre, Lazzarini incontrò l’alto esponente di Hamas Khaled Zuaiter nel campo palestinese di Ain el-Hilweh, in Libano. Durante il colloquio Zuaiter, che è a capo della presenza di Hamas a Ain el-Hilweh, presentò a Lazzarini un memorandum in cui chiedeva un aumento dei finanziamenti dell’UNRWA.
Il rapporto di UN Watch descrive in dettaglio come le organizzazioni terroristiche si siano opposte con successo a molteplici iniziative dell’UNRWA: non solo contro l’implementazione del database biometrico di cui si è detto, ma anche contro la proposta di un codice etico a sostegno dei diritti LGBTQ e contro la sospensione del personale colto in violazione della neutralità cui è tenuta l’agenzia dell’Onu (cioè, personale compromesso col terrorismo).
L’influenza delle organizzazioni terroriste arriva fino a bloccare in modo efficace le azioni dell’UNRWA mediante minacce sistematiche.
Più di recente, nel maggio 2024, Lazzarini si è recato a Beirut per affrontare le proteste scatenate contro la sede locale dell’UNRWA in seguito alla sospensione di Fathi al-Sharif, leader del sindacato degli insegnanti dell’UNRWA ma anche agente di Hamas. Durante la visita, Lazzarini ha incontrato rappresentanti di varie organizzazioni terroristiche, compresi attivisti Houthi dello Yemen che operano in Libano.
(Da: Israel HaYom, 7.1.25)

(israelnet.it, 8 gennaio 2025)

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“Avete legami con Hamas?”. E l’Unrwa si limita al no comment

di Iuri Maria Prado

L’altro giorno un portavoce dell’Unrwa – l’agenzia delle Nazioni Unite per il sussidio dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente – si è rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti su nuove denunce dei legami dell’ente con Hamas perché – testuale – i membri dello staff dell’Unrwa che potrebbero essere stati coinvolti in attività terroristiche sono “molto pochi”.
  Si noti, per apprezzare l’ineffabilità di quella giustificazione, che le accuse cui la dirigenza dell’Unrwa ritiene di essere legittimata a non rispondere riguardano contatti, rapporti, collaborazioni che esponenti di vertice dell’agenzia avrebbero intrattenuto, da buoni “pari”, con esponenti di vertice dell’organizzazione terroristica responsabile degli eccidi del 7 ottobre. Può, ovviamente, trattarsi di allegazioni infondate. Ma si tratterebbe di spiegare perché il capo dell’Unrwa in Libano teneva comizi con il capo delle relazioni Esteri di Hamas, assicurandogli che l’Unrwa “sta dalla vostra parte”.
  Si tratterebbe di spiegare perché il capo assoluto dell’Unrwa, lo svizzero Philippe Lazzarini, incontrasse regolarmente i capi del terrorismo palestinese felicitandosi per la “partnership” con loro. Si tratterebbe di spiegare perché il predecessore di Lazzarini, Pierre Krähenbül, tenesse, “in spirito di collaborazione”, incontri con i capi del Jihad Islamico e di Hamas ai quali raccomandava di non rendere pubbliche le conversazioni avute perché questo avrebbe pregiudicato la “credibilità” dell’Unrwa. Si tratterebbe di spiegare perché l’Unrwa, ancora l’estate scorsa, manteneva nei propri ranghi, a capo del sindacato degli insegnanti delle scuole delle Nazioni Unite in Libano, un signore di cui Hamas rivendicava l’affiliazione e di cui elogiava l’opera di “educatore del Jihad”.
  Sono solo alcuni esempi tra i tanti casi delle compromissioni denunciate. E, appunto, può anche darsi che siano tutte bufale (per quanto abbondantemente assistite da riscontri). Ma rispondere a queste allegazioni – anzi, non rispondere – argomentando, come ha fatto il portavoce dell’Unrwa, che dopotutto i casi accertati di infestazione terroristica dell’agenzia dell’Onu sono stati “pochi” è come dire che la compagnia di assicurazione risponde fino a un certo limite, poi basta.
  Solo che non si discute della vettura acciaccata nell’incidente stradale. Si discute di complicità con un’organizzazione terroristica genocidiaria, destinataria del fiume di miliardi con i quali ha costruito una rete di tunnel più lunga della metropolitana di New York e ha indottrinato intere generazioni alla bellezza del martirio. Il “no comment” non dovrebbe essere ammesso.

(Il Riformista, 11 gennaio 2025)

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Katz: “L’Idf appronti un piano per la completa sconfitta di Hamas”  

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha reso noto di aver ordinato alle Idf di presentargli un piano “per la completa sconfitta di Hamas a Gaza”, se non verrà raggiunto un accordo sugli ostaggi prima dell'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. "Se l'accordo sugli ostaggi non si concretizzerà entro l'insediamento del presidente Trump, ci sarà una sconfitta completa di Hamas a Gaza", ha detto Katz in una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio.
Non dobbiamo lasciarci trascinare in una guerra di logoramento che ci costerà caro e non porterà alla vittoria e alla completa sconfitta strategica di Hamas e alla fine della guerra a Gaza", ha aggiunto il ministro, sottolineando che "la questione del rilascio degli ostaggi è stata la massima priorità dell'apparato di difesa sin dal suo insediamento e che si deve fare tutto il possibile per riportarli a casa".
Il ministro della Difesa ha sottolineato che non dobbiamo lasciarci trascinare in una guerra di logoramento contro Hamas a Gaza, mentre gli ostaggi rimangono nei tunnel con le loro vite in pericolo e mentre soffrono gravemente", si legge nella dichiarazione.

(ANSA, 10 gennaio 2025)

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Il presidente israeliano discute con il suo omologo cipriota della situazione degli ostaggi a Gaza

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Isaac Herzog e Nikos Christodoulides

Il presidente Isaac Herzog ha avuto un incontro con il suo omologo cipriota Nikos Christodoulides nel quale hanno affrontato, tra l'altro, la situazione degli ostaggi tenuti prigionieri a Gaza nelle mani di organizzazioni terroristiche palestinesi.
Per Herzog questa è una “questione di massima priorità” e spera che i prigionieri tornino in Israele il prima possibile, ha detto Christodoulides.
Le forze di difesa israeliane (IDF) hanno riferito di aver recuperato martedì i corpi del beduino israeliano in ostaggio, Yosef AlZayadni, e di suo figlio Hamza, dopo averli trovati in un tunnel sotterraneo nella zona di Rafah, nel sud della Striscia.
Con questa scoperta, ora dei 251 rapiti durante il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, 94 rimangono nell'enclave, almeno 34 dei quali confermati morti da Israele.
"Grazie, Presidente, per la tua ferma amicizia e per la conversazione calorosa e produttiva che abbiamo avuto", ha scritto Herzog sul suo account X.
Allo stesso modo, il leader israeliano ha voluto ringraziare la sua controparte per la “partnership e cooperazione” condivisa da entrambi i paesi, che secondo lui sono “pilastri vitali di stabilità, sicurezza e speranza nella nostra regione”.
Cipro è uno dei paesi della zona alleati con Israele. Buoni rapporti tra i due paesi sono stati costruiti negli ultimi decenni, e soprattutto quando Benjamin Netanyahu ha visitato l’isola nel 2012, essendo il primo primo ministro israeliano a farlo.

(Aurora Israel, 10 gennaio 2025)

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Eletto il nuovo presidente del Libano. Una sconfitta di Hezbollah?

di Ugo Volli

Una novità importante nella politica libanese
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Joseph Aoun

Il Libano ha eletto il nuovo presidente. Si tratta di Joseph Aoun, il capo dell’esercito libanese che ha ottenuto alla seconda votazione di ieri 99 voti sui 128 votanti e dovrebbe restare in carica fino al 2031. Il posto era vacante da più di due anni: nell’ottobre del 2022 era scaduto il precedente presidente, Michel Aoun (non parente del nuovo eletto, nonostante lo stesso cognome) e il parlamento libanese, convocato numerose volte non era riuscito a eleggere il suo successore, a causa della pretesa di Hezbollah e dei suoi alleati (Amal) di imporre il loro candidato Sleiman Frangieh, non gradito alla maggioranza. La bizzarra costituzione del Libano, che rispecchia la divisione religiosa del paese, non solo richiede la maggioranza dei due terzi per l’elezione del presidente, ma impone che questo sia cristiano, mentre le altre due cariche più importanti (presidenza del Parlamento monocamerale e primo ministro) sono riservate invece a sciiti e sunniti. Inoltre non esiste un sostituto automatico quando il presidente si dimette o decade, come il vicepresidente negli Stati Uniti o il presidente del Senato in Italia, sicché da due anni in Libano non era possibile promulgare una legge, sottoscrivere un trattato internazionale, nominare un governo o indire elezioni, tutti atti che la costituzione riserva al presidente del paese.

Una sconfitta di Hezbollah?
  Se ora questa paralisi si conclude, il merito è della sconfitta di Hezbollah da parte di Israele, che l’ha indotto a ritirare la sua candidatura, anche se nell’elezione i gruppi sciiti hanno voluto sottolineare ancora la loro presenza e il loro potere con una manovra spregiudicata: alla prima votazione hanno messo nell’urna schede bianche, impedendo ad Aoun di raggiungere il quorum e poi invece alla seconda l’hanno votato permettendo l’elezione. In parallelo i cristiani maroniti, che al tempo della prima guerra del Libano (1982) furono alleati di Israele e oggi sono i meno ostili allo stato ebraico e nemici giurati di Hezbollah, hanno ritirato la candidatura del loro leader Samir Geagea.

Perché Aoun
  C’è una tradizione in Libano di capi dell’esercito che diventano presidenti: Aoun è il quarto ad aver seguito questo percorso. Era fortemente sostenuto dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti, che hanno pensato di poter aver influenza su di lui. Aoun fra l’altro ha anche condotto periodi di formazione militare in Usa. Durante i suoi anni da comandante via via più potente, Aoun non ha fatto dichiarazioni politiche, da capo di stato maggiore ha amministrato bene la macchina militare che è fortemente finanziata e armata dagli Usa, non si è mai scontrato con Hezbollah ma non l’ha neppure fatto partecipare alla guerra contro Israele e ora ha condotto con molta cautela (troppa secondo l’esercito israeliano) le operazioni di sostituzione dei terroristi con le truppe regolari al confine con la Galilea.

Il discorso del neopresidente
  Anche quel che ha detto Aoun dopo l’elezione è molto prudente. Le dichiarazioni più significative nel suo discorso sono state queste: “Mi impegno a garantire che l’esercito sarà l’unico organismo che porterà armi in Libano”. [Questo è un punto contro Hezbollah, essenziale per Israele] “Mi impegno a non concedere la cittadinanza ai palestinesi in Libano durante il mio mandato in modo da non danneggiare il loro diritto al ritorno [in apparenza contro Israele, in pratica conservando la discriminazione dei palestinesi sul mercato del lavoro e della politica, anche se molte famiglie risiedono da sessanta e perfino ottant’anni in Libano]. “Mi impegno a far sì che durante il mio mandato, lo Stato lavori per combattere il terrorismo e prevenire l’aggressione israeliana sulle terre libanesi.” [Anche qui un colpo al cerchio e uno alla botte] “Abbiamo l’opportunità di un dialogo serio con la Siria per risolvere problemi comuni.” [Aoun ha già mostrato di volersi accordare con il nuovo regime siriano impedendo ai reduci di Assad di entrare nel territorio libanese*]

L’interesse israeliano
  Essendo uno stato confinante e quello da cui è arrivata l’aggressione più pericolosa da parte di forze terroriste irregolari, Israele ha un evidente interesse alla regolarizzazione del panorama politico e militare del Libano, dunque non può che vedere bene un presidente forte, anche se le sue posizioni sono ambigue. Per questa ragione il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha fatto una dichiarazione cauta ma incoraggiante: “Mi congratulo con il Libano per aver eletto un nuovo presidente dopo una prolungata crisi politica. Spero che le elezioni contribuiscano a rafforzare la stabilità, un futuro migliore per il Libano e i suoi residenti e un buon vicinato”.

(Shalom, 10 gennaio 2025)


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Il parlamento libanese ha nominato Joseph Aoun nuovo presidente: come cambieranno i rapporti tra Libano e Israele?

di David Zebuloni

La notizia della nomina di Joseph Aoun come nuovo presidente del Libano, è stata accolta in Israele, secondo alcuni, con una gioia sproporzionata.”Rendo omaggio al Libano per la scelta del nuovo presidente dopo una lunga crisi politica. Spero che questa nomina contribuisca a rafforzare la stabilità e un futuro migliore per il Libano, per i suoi abitanti e per i suoi vicini”, ha scritto il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar sul suo account X. Tuttavia, svariati analisti e esperti israeliani ritengono che la nomina in questione non porterà reali benefici all’attuale tensione tra i due paesi.
“No, non c’è nessun impatto positivo immediato sulle relazioni tra Libano e Israele”, afferma Tal Be’eri, direttore presso Alma, un centro di ricerca ed educazione sulle sfide della sicurezza di Israele nel nord del paese, in un’intervista a Makor Rishon. “Non c’è dubbio sul fatto che l’elezione di Aoun, con il consenso di 99 membri del parlamento su 128, metta il Libano in una posizione migliore rispetto a quella in cui si trovava fino ad ora. Tuttavia, se parliamo concretamente, quello che interessa a Israele non è tanto il governo libanese, quanto Hezbollah”.
Secondo Be’eri, infatti, il nuovo presidente non ha l’autorità necessaria per permettere all’esercito libanese di reprimere le forze di Hezbollah sul territorio. E non è tutto: nel secondo girone elettorale che si è tenuto quest’oggi, i rappresentanti di Hezbollah hanno votato a favore di Joseph Aoun, e non contro di lui. “È stata una scelta di ripiego”, chiarisce il ricercatore. “Suleiman Frangieh, che Hezbollah ha inizialmente sostenuto, ha ritirato la sua candidatura proprio ieri. Così l’organizzazione terroristica ha capito che doveva sostenere il candidato che riscontrava maggior consenso, sostanzialmente per migliorare la sua immagine all’interno del paese dopo il duro colpo conferitogli da Israele”.
Secondo Be’eri, dunque, la scelta del nuovo presidente non avrà alcun impatto militare su Hezbollah. “Aoun è stato capo maggiore dell’esercito negli ultimi otto anni, e cosa ha fatto per impedire che Hezbollah crescesse e si rafforzasse? Nulla”, spiega il ricercatore. “Anzi, durante la sua cadenza Hezbollah si è preparato a conquistare la Galilea rafforzandosi notevolmente dal punto di vista militare. E cosa ha fatto l’esercito libanese per impedirlo? Proprio nulla. Se colleghiamo tutto ciò alla scelta di Aoun, capiamo che nulla cambierà al confine con Israele”.
Tuttavia, non si può ignorare ciò che il neoeletto Joseph Aoun ha dichiarato nel suo discorso d’insediamento, quando ha sottolineato che si impegnerà affinché l’esercito libanese sia il solo ad avere le armi nel paese. “Beh, in passato ha detto che non intendeva confrontarsi con Hezbollah. A mio avviso, tutte parole vuote”, ribadisce Be’eri. “Anche se Aoun dovesse impiegare tutte le sue forze per cercare di definire una politica militare contro Hezbollah, la sua autorità in merito è molto limitata”.
Simbolicamente e teoricamente, il presidente entrante Joseph Aoun presiede il Consiglio Supremo della Difesa e funge da comandante supremo dell’esercito e delle forze di sicurezza libanesi. Di fatto, però, il suo principale incarico consiste nell’aspetto tecnico-politico dell’approvazione del governo, e non in quello militare. Chi deciderà davvero il destino del paese e dell’intera regione, sarà ancora  una volta Hezbollah.
“Se dovesse esserci un ennesimo combattimento tra Israele e Hezbollah, Aoun non potrà fare nulla di concreto per intervenire”, conclude Tal Be’eri. “Certo, potrebbe provare a implorare Hezbollah di fermare la guerra, ma non oltre. E credi che Hezbollah ascolterà le sue suppliche? Probabilmente no, a meno che non serva esclusivamente i suoi interessi”.

(Bet Magazine Mosaico, 10 gennaio 2025)

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La forza di Israele è anche nei suoi eroi disarmati

di David Zebuloni

Il 7 ottobre 2023, il giorno della grande strage compiuta da Hamas e poi dimenticata dal mondo in tempi record, a fianco delle forze dell’ordine e di quelle militari israeliane, c’è stato un altro ente che ha contribuito alla salvezza dei cittadini invasi, feriti e traumatizzati. Le forze di primo soccorso MDA (Magen David Adom, il corrispettivo della Croce Rossa italiana) sono riuscite a fare la differenza durante gli attimi più duri e angoscianti di terrore, fungendo da ancora di salvezza alla quale migliaia di cittadini israeliani di sono aggrappati negli istanti infiniti di caos generale che hanno stravolto il paese.
  Prima ancora che qualcuno riuscisse a dare una risposta concreta alla strage inaspettata che stava avvenendo nei kibbutz, infatti, i paramedici di MDA erano già lì, pronti a evacuare, a soccorrere, a operare in condizioni disumane. Coraggiosi volontari e volontarie di ogni età che hanno perso la vita durante le battaglie a Be’eri, a Kfar Aza, al Nova Festival. Non solo per dovere professionale, ma anche per quello etico e morale: salvare quante più vite umane. Senza porre domande, senza esitare, senza indugiare nemmeno un istante.
  Tra le tante storie che meritano di essere raccontare al mondo, vi è quella straordinaria di Liat Smadja: tra i primi volontari del MDA a intervenire a seguito del vile attacco di Hamas. E la vicenda di Liat è inevitabilmente legata a quella di suo marito Oren e di suo figlio Omer.
  Oren Smadja è stato il primo campione olimpico israeliano di Judo.
  Il figlio Omer, invece, è caduto in combattimento a Gaza il 20 di giugno, combattendo contro i terroristi di Hamas. Così, alla giovane età di 25 anni, Omer dagli occhi celesti si è spento per sempre, lasciando un vuoto incolmabile nella vita dei coniugi Smadja. Il sacrificio del giovane soldato è stato riconosciuto dal Governo israeliano che, nella figura del Primo Ministro, è andato a fare visita ai familiari durante la veglia funebre. Poi, nel mese di settembre, con lo scopo di convertire la morte in vita, Liat e Oren hanno contribuito alla donazione di una nuova ambulanza MDA intitolata alla memoria di Omer. Grazie all'avanzato mezzo di soccorso, negli ultimi mesi è stato possibile salvare migliaia di vite umane e, come segno del destino, aiutare anche diverse mamme a partorire in totale sicurezza. Sì, se Omer non potrà più ridere, amare e vivere, lo faranno per lui i neonati venuti al mondo nell’ambulanza dedicata a suo nome.
  «Il 7 ottobre Omer è stato chiamato come riservista e, appena l’ho visto uscire di casa in divisa, ho avuto la strana sensazione che qualcosa di tragico stava per accadere», racconta Liat Smadja, ripercorrendo così i momenti cruciali dell’ultimo anno: dal lutto nazionale a quello personale. «Non potevo rimanere con le mani in mano, così ho deciso di indossare la mia uniforme MDA e correre alla stazione di primo soccorso. Lì ho capito che eravamo stati travolti da uno tsunami». Il ruolo di Liat era quello di informare le famiglie delle vittime del Nova Festival della morte dei loro cari; prima torturati poi e uccisi dai terroristi islamisti. Parlando con i genitori straziati che avevano appena perso i loro figli, tuttavia, non poteva certo immaginare che presto avrebbe ricevuto la medesima chiamata.
  «Sono di natura una persona estremamente ottimista, ma quando i rappresentanti dell’IDF si sono presentati alla porta di casa mia, ho immediatamente capito che Omer era morto», spiega.
  «Non hanno detto nulla. Mi hanno solamente abbracciato e abbiamo pianto insieme». Un mese dopo la caduta del figlio, Liat è tornata a svolgere il suo ruolo di volontaria a MDA. Il giorno in cui è stata inaugurata l’ambulanza a nome di Omer, Liat è stata la prima a operare al suo interno.
  «Una settimana dopo quel primo turno, mi hanno chiamato per raccontarmi che nell’ambulanza di mio figlio c'è stato il primo parto.
  Un bambino ha visto lì la luce e il paramedico lì presente si chiamava proprio Omer. Credo di aver pianto per due giorni», condivide ancora commossa.
  La storia di Liat, Oren e Omer è la storia del popolo israeliano, che da un anno e quattro mesi ormai cerca di ripristinare le sua esistenza interrotta, tramutando gli innumerevoli lutti in inni alla vita. Un impegno condiviso e supportato da MDA, la cui sede italiana operativa a Milano (MDA Italia) conta oggi 12 volontari e promuove raccolte fondi, convegni, conferenze, corsi di assistenza sanitaria nonché quello che è uno dei capisaldi dello statuto dell'organizzazione: la coscienza dell’assistenza al prossimo, soprattutto se svantaggiato, come nozione imprescindibile di una coesistenza civile.
  Da oltre novant'anni, infatti, la Croce Rossa israeliana garantisce alla variegata e complessa società israeliana soccorso e assistenza.
  All'interno dell’ambulanza, d'altronde, sono tutti uguali: giovani e vecchi, uomini e donne, ricchi e poveri, di destra e di sinistra, laici e ortodossi, ebrei, musulmani, cristiani, drusi e beduini. Israeliani e arabi. Ecco, tutti uguali. Tutti vulnerabili. Tutti uniti da un solo destino.

Libero, 10 gennaio 2025)

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"Dividere il Paese in cantoni". Il piano segreto di Israele per la nuova Siria

La stampa israeliana svela il piano del governo di Netanyahu per mettere in sicurezza le minoranze etniche siriane. Tel Aviv vorrebbe convocare una conferenza internazionale per discutere della proposta.

di Valerio Chiapparino

Tel Aviv intende dividere la Siria in diverse divisioni amministrative, cantoni, per garantire la sicurezza di tutti i gruppi etnici del Paese dilaniato da oltre 10 anni di guerra civile. Il progetto di Israele è stato al centro di incontri classificati svelati da fonti non identificate al quotidiano israeliano Hayom. I piani segreti sono in via di valutazione da parte del governo guidato dal premier Benjamin Netanyahu sin dalla presa al potere a Damasco, il mese scorso, degli islamisti filoturchi di Hayat Tahrir al-Sham.
Secondo quanto riportato in esclusiva da Hayom, l'idea di cantonizzare la Siria ha guadagnato trazione durante un meeting svoltosi due giorni fa alla presenza del ministro della Difesa Israel Katz. Durante l’incontro il ministro dell’Energia Eli Cohen ha proposto di convocare un vertice internazionale per discutere del piano. Non è chiaro se Netanyahu abbia dato il suo via libera all’iniziativa.
Nel corso della riunione segreta si è affrontato anche il tema dell’influenza della Turchia in Siria e di come lo Stato ebraico potrebbe contrastarla. Inoltre, avrebbe trovato spazio anche la valutazione del profilo del nuovo leader di Damasco Ahmed al-Sharaa che ha abbandonato il suo nom de guerre Abu Mohammed al-Jolani. L’ex qaedista viene osservato con sospetto dalle autorità di Tel Aviv preoccupate che al regime ostile destituito di Bashar al-Assad possa seguirne un altro non meno pericoloso.
Massima preminenza nel corso dell’incontro sarebbe stata riservata alla necessità di salvaguardare le minoranze druse e curde presenti in territorio siriano che potrebbero essere oggetto di futuri attacchi da parte degli islamisti sostenuti dalla Turchia. Infatti Ankara accusa i combattenti curdi in Siria - parte della coalizione supportata dagli Stati Uniti - di avere legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), oggetto di costanti campagne militari ordinate dal premier turco Recep Tayyip Erdogan.
Sono queste dunque le premesse che per il governo di Netanyahu rendono necessaria la convocazione di un vertice internazionale per discutere della possibile divisione in cantoni del territorio siriano e rafforzare così la stabilità della regione mediorientale. Per il ministro Cohen centrale rimane comunque la messa in sicurezza del confine settentrionale israeliano e la predisposizione di misure di difesa contro le minacce poste dalle organizzazioni ribelli. Il timore di Israele è che i nuovi signori della Siria possano decidere di infrangere gli accordi di cessate il fuoco firmati da Tel Aviv e Damasco all'epoca di Hafez al-Assad, fondatore della dinastia che ha retto il Paese dagli anni Settanta.
Funzionari della sicurezza israeliana fanno intanto sapere che l’Idf non intende mantenere una presenza permanente in Siria ma essa è necessaria per conservare la stabilità nell’area. Il riferimento è al monte Hermon e ad altri territori contesi sulle alture del Golan occupati dai militari dello Stato ebraico dopo la defenestrazione del regime siriano.
Hayom riporta che una conferenza internazionale chiamata a ridisegnare i confini e la struttura del Paese potrebbe permettere un ritiro dei soldati di Tel Aviv senza “compromettere la sicurezza degli interessinormal” israeliani. Uno scenario che però al momento viene ritenuto “distantenormal” dai funzionari del governo di Netanyahu.

(il Giornale, 9 gennaio 2025)

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Rav Weisz al Papa: basta distorsioni e pregiudizi

Le parole e le azioni di papa Francesco su Israele «non sono semplicemente deludenti, ma rappresentano un pericolo storico» per le comunità ebraiche, vista la loro portata globale nell’era digitale. È la dura denuncia del rabbino Eliezer Simcha Weisz, membro del Gran Rabbinato d’Israele, nei confronti del pontefice.
  Nella sua lettera aperta, datata 8 gennaio, rav Weisz accusa Bergoglio di aver «prestato l’autorità papale al moderno antisemitismo». In particolare, denuncia come, dal 7 ottobre in poi, il papa abbia adottato un approccio sbilanciato nel descrivere il conflitto, equiparando la democrazia israeliana a un’organizzazione terroristica come Hamas. «Avete ripetutamente tracciato una falsa equivalenza morale tra una nazione democratica che difende i propri cittadini e i terroristi che hanno perpetrato il più barbaro massacro di ebrei dopo la Shoah». Inoltre, sarebbe stato «deliberatamente ignorato» il fatto che Hamas opera all’interno di scuole, ospedali e luoghi di culto, sfruttando le vite di innocenti per i propri scopi terroristici.
  Il rappresentante del Gran Rabbinato d’Israele, ospite lo scorso anno del Vaticano per un’iniziativa sull’intelligenza artificiale, sottolinea il silenzio del pontefice sulla sistematica persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, a fronte di una rapida condanna delle azioni di Israele. «Mentre le comunità cristiane sono decimate in tutta la regione, voi riservate le vostre critiche amplificate digitalmente all’unica democrazia mediorientale in cui i cristiani praticano liberamente il loro culto». Questo silenzio viene percepito come una forma di indignazione selettiva, amplificata dai media globali, che contribuisce a una percezione distorta della realtà e rafforza narrazioni ostili verso lo stato ebraico.
  Weisz imputa a Francesco di promuovere, seppur indirettamente, una recrudescenza del pregiudizio contro gli ebrei a livello mondiale. «Attraverso il suo vasto pulpito digitale, la Chiesa è diventata un megafono globale per coloro che armano l’antisemitismo con la scusa di sostenere gli oppressi. La sua reimmaginazione di Gesù come simbolo palestinese della resistenza, trasmessa a miliardi di persone, non è solo storicamente inaccurata, ma è una distorsione deliberata che serve a delegittimare il legame degli ebrei con la nostra patria ancestrale. In un’epoca in cui le immagini e i messaggi fanno il giro del mondo in pochi secondi, raffigurare Gesù con la kefiah e i soldati israeliani come uomini di Erode non è solo cattiva teologia, ma un pericoloso incitamento con un impatto immediato e mondiale», scrive rav Weisz.
  Bergoglio viene criticato anche per il suo recente incontro con rappresentanti del regime iraniano, che apertamente invocano la distruzione di Israele. Secondo il rabbino israeliano, tali incontri rafforzano regimi che promuovono l’odio, trasformando la figura papale in un simbolo di legittimazione per narrative antiebraiche.
  Weisz conclude esortando papa Francesco a riconoscere l’enorme responsabilità morale derivante dalla sua influenza globale. Lo invita a cessare di propagare false narrazioni che alimentano l’odio e a lavorare per la pace e la comprensione, come auspicato dal Concilio Vaticano II. «Il mondo ha bisogno della vostra leadership morale ora più che mai, una leadership degna della vostra influenza senza precedenti. Il cammino da percorrere richiede l’adesione alla verità e alla giustizia, non l’amplificazione di antichi pregiudizi attraverso mezzi moderni».

(moked, 9 gennaio 2025)

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Il rotolo della Torah in una mano, la spada nell’altra: nuovi soldati Haredì in Tzahal

di Ludovica Iacovacci

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La spada e il rotolo della pergamena possono coesistere tra i palmi degli Haredì, la Torah e la difesa di Israele possono andare di pari passo per chi porta le peot. Tradizionalmente, gli Haredim sono stati esentati dal servizio militare in Israele, questione che ha creato e continua a creare tensioni tra le diverse sezioni della società israeliana. La comunità Haredì ha spesso dimostrato contrarietà al servizio di leva, argomentando che l’osservanza religiosa avrebbe dovuto essere la priorità. Le esigenze del conflitto in corso a Gaza, il desiderio di creare una società israeliana più unita nonché dissidi politici e sociali hanno riportato l’annosa questione al centro del dibattito pubblico israeliano.
La nuova Brigata Hahashmonaim ha cominciato a guadagnare attenzione per aver aperto le porte ai soldati Haredim come parte di un programma di reclutamento mirato. Domenica 5 gennaio, i primi 50 soldati Haredim sono stati arruolati per il servizio regolare e formeranno il nucleo della prima compagnia della brigata. Altri 100 uomini Haredim, più anziani, sono stati arruolati nella prima compagnia di riserva della brigata per iniziare i sei mesi di addestramento di fanteria, dopo di che diventeranno parte effettiva.
Tzahal ha detto che il reclutamento dei 150 soldati è stata una “pietra miliare significativa” nella creazione della Brigata Hahashmonaim, e “il processo di espansione [del numero di] membri della comunità Haredì nel servizio di Tzahal, soprattutto alla luce delle esigenze operative derivanti dalle esigenze della guerra”. Lo stile di vita Haredì sarà rispettato durante il loro servizio nell’esercito israeliano. Secondo un rapporto del quotidiano Israel Hayom, i soldati che prestano servizio nella nuova brigata saranno autorizzati a indossare “abiti del sabato” quando non sono in servizio (anziché uniformi militari), potranno partecipare alle preghiere e ci sarà un’ora obbligatoria di studio della Torah ogni giorno. Alle truppe è stato anche concesso di avere telefoni “kosher”, ovvero dispositivi su cui i social media e la maggior parte delle altre applicazioni sono bloccati. Difatti, il problema nell’arruolare gli Haredim non è esclusivamente il servizio militare in sé quanto l’ambiente dell’esercito, spesso incompatibile con uno stile di vita religioso. Il traguardo sarebbe raggiunto quando un giovane Haredì possa entrare in Tzahal e uscirne ancora Haredì.
Il vice capo di Stato maggiore, il colonnello Amir Baram, ha visitato la base della nuova brigata Haredì la scorsa settimana e ha acceso una candela di Hanukkah con il comandante della brigata, il maggiore generale Avinoam Emunah. Il colonnello Baram ha detto: “Grazie a voi, si è presentata una grande opportunità, un grande privilegio, per essere il primo a stabilire una brigata haredi nell’IDF. E intendiamo che sia haredi, in modo da mantenere il loro stile di vita haredi, affinché anche gli haredim che vengono reclutati se ne vadano come haredim. Non c’è contraddizione tra l’ebraismo devoto e haredi, e la guerra, il coraggio e la battaglia. Oggi, questo è un profondo bisogno operativo e sociale. Abbiamo preparato qui, nella nuova base della brigata, tutte le condizioni per mantenere allo stesso tempo un haredi e un quadro ebraico di combattimento. I ranghi devono essere ampliati”.
Domenica 5 gennaio, l’esercito israeliano ha detto che ulteriori membri della comunità Haredì sono stati arruolati in altre unità religiose. Quelle esistenti per i soldati Haredim includono il battaglione Netzah Yehuda nella brigata Kfir, la compagnia Tomer nel battaglione Rotem della brigata Givati, la compagnia Hetz nel 202° battaglione della brigata Paracadutisti e l’unità di difesa terrestre della base aerea Nevatim, così come numerosi altri ruoli non da combattimento.
È bene sottolineare che all’inizio della guerra in Gaza, la divisione Haredi “Tomer” della brigata Givati prese parte ai combattimenti all’interno della Striscia, oltre a combattere nella regione circostante il 7 ottobre stesso, affiancati anche dai comandanti della squadra nel battaglione Netzah Yehuda. La prima offensiva di terra in assoluto della brigata nel profondo territorio del nemico, insieme alla Brigata Paracadutisti, risale a gennaio 2024. Inoltre, soldati e ufficiali precedentemente di Netzah Yehuda e di altri battaglioni Haredim hanno preso parte ai combattimenti in diverse aree, tra cui Jabaliya nella Striscia di Gaza e parti della Giudea e della Samaria. Alcuni dei riservisti sono stati schierati per 90 giorni consecutivi in ruoli di combattimento. Ulteriori battaglioni comprendenti divisioni Haredim, tra cui più di 1.000 riservisti, hanno effettuato tutti gli incarichi di ricerca vicino al sito del festival Supernova e in tutta la regione di Gaza durante gli scontri. Molti altri soldati Haredim occupavano varie posizioni in unità diverse.
Modelli come divisioni e battaglioni sopracitati, con programmi specifici per soldati religiosi, dimostrano che un compromesso è possibile. Affinché ciò funzioni è necessario comprendere che il vero successo non è solo arruolare giovani Haredim, ma far sì che questi rimangano fedeli alla loro identità religiosa durante e dopo il servizio militare.
Secondo Times Of Israel, l’obiettivo generale di Tzahal negli ultimi quattro mesi era riuscire ad arruolare 1.300 soldati Haredim. Alla fine, ne sono stati arruolati poco più di 900. Nonostante le tensioni in corso e il basso tasso di arruolamento che rimane oggetto di dibattito politico, Tzahal ha visto un aumento dell’85% del numero di soldati Haredim che si uniscono all’esercito, rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti.
Mercoledì 8 gennaio The Jerusalem Post scrive che l’obiettivo dell’esercito è stato quello di aumentare il numero di arruolati Haredim di circa 3.000 unità quest’anno, per portare il numero totale a circa 4.800 all’anno. Dei 338 nuovi arruolati Haredim, 211 sono in unità di combattimento, mentre 127 sono in unità di supporto alle unità di combattimento. Queste reclute fanno parte della nuova Brigata Hahashmonaim, delle nuove unità di manutenzione nel Nord e di un secondo round di unità di guardia di frontiera Haredi. Più specificamente, 70 arruolati si sono uniti al battaglione Netzah Yehuda della Brigata Kfir, 19 si unirono alla compagnia Tomer nella Brigata Givati, 19 si unirono alla compagnia Hetz della Brigata Paracadutisti e 11 si unirono alla compagnia Negev nell’aeronautica, insieme ad altre unità.

Necessità di un compromesso
  Secondo il JPost, diverse personalità Haredim riconoscono la necessità di un compromesso. Recenti sondaggi indicano che una parte significativa della comunità Haredì ritiene che coloro che non sono impegnati nello studio della Torah a tempo pieno dovrebbero servire in qualche modo, sia nell’esercito che attraverso il servizio nazionale o civile. Ciò riflette un crescente riconoscimento da parte della comunità Haredì nel contribuire più direttamente alla sicurezza nazionale, nonostante le dichiarazioni di qualche vertice religioso. Concentrarsi sulle dinamiche sociali relative alla questione del servizio di leva degli Haredim, piuttosto che sulle esigenze meramente numeriche o logistiche, potrebbe portare a immedesimarsi nella posizione di ragazzi che sono schiacciati tra un modello di esercito lontano dal loro stile di vita e, spesso, da famiglie che non li guarderanno più con gli stessi occhi dopo aver abbracciato e difeso il sionismo.
Inoltre, addossare la mancanza di personale in Tzahal esclusivamente al settore Haredì significherebbe ignorare le altre significative parti della società israeliana che rifiutano di prestarsi al servizio militare. Secondo i dati dell’esercito del 2022 riportati da Israel Democracy Institute (IDI), anche se tutti i giovani israeliani sono tenuti a servire per un periodo obbligatorio nell’esercito, solo il 69% degli uomini ebrei e circa il 56% delle donne ebree si arruolano. Se i giovani arabi che non sono arruolati vengono aggiunti a questo calcolo, molto meno del 50% di ogni gruppo pertinente viene reclutato. Non è inusuale trovare casi di persone che fingono di essere malati o fingono di essere religiosi per poter continuare la propria vita, evitando il servizio militare, mentre i loro coetanei combattono.
Secondo gli ultimi dati riportati da The Jerusalem Post ben prima della guerra, “dei 4.500 casi che hanno ricevuto esenzioni, il 44,7% erano haredim, il 46,6% laici e un altro 8,7% religiosi sionisti”. Senza considerare la posizione degli arabo-israeliani esonerati dal servizio di leva e nella stragrande maggioranza dei casi auto-esonerati dal richiedere di parteciparvi, mentre gli stessi godono a pieno titolo dei diritti offerti dall’avere la cittadinanza israeliana. Alcuni di loro prediligono la casa al campo di battaglia e impugnano uno smartphone anziché un’arma, diventando rappresentati – soprattutto all’estero – della “difesa-social” di Israele. Seppur la questione dell’arruolamento degli Haredim soprattutto dopo la storica sentenza della Corte costituzionale risulti centrale, interrogarsi anche sul mancato servizio di leva da parte della società secolarizzata israeliana così come sulla passività della parte araba, potrebbe aiutare nel configurare al meglio il problema riguardo alla necessità di personale nell’esercito israeliano, soprattutto nei momenti di emergenza.

(Bet Magazine Mosaico, 9 gennaio 2025)

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“Noi di Hamas usiamo l'ospedale, così Israele non ci attaccherà”

di Giulio Meotti

Alla fine di dicembre, a Gaza Israele ha condotto un raid all’ospedale Kamal Adwan, dal nome di uno dei fondatori di Settembre Nero. Vi ha arrestato 240 terroristi, quindici dei quali avevano partecipato al massacro del 7 ottobre. All’interno hanno trovato granate, armi ed equipaggiamento militare. Settecento civili sono stati evacuati, nessuno è stato ucciso. Alcuni terroristi si sono spacciati per personale medico e pazienti. Altri hanno cercato di andarsene su barelle e ambulanze. Un centinaio tra pazienti e personale medico sono stati evacuati all’ospedale indonesiano di Gaza, al quale Israele ha consegnato carburante, generatori e attrezzature mediche. In un filmato girato da Hamas e diffuso da Israele, terroristi di Hamas sono stati poi ripresi mentre piazzavano esplosivi a 45 metri dall’ospedale indonesiano.
  Utilizzare un ospedale per scopi militari è un crimine di guerra. Ma nulla di tutto questo è uscito sui media. Non c’è stata protesta sulle strutture mediche trasformate in fronti di guerra. Invece, come sui morti a Gaza, i media hanno ripetuto a pappagallo la propaganda di Hamas e accusato Israele di aver “bruciato” l’ospedale. “Israele brucia l’ultimo ospedale funzionante nel nord di Gaza” (Nbc). “I soldati israeliani bruciano un ospedale a Gaza” (Ap). “L’ospedale del nord di Gaza brucia dopo che Israele ha rimosso pazienti e personale” (Newsweek). Anche l’Organizzazione mondiale della sanità ha sposato la linea di Hamas.
  Clamore intanto per l’arresto del direttore dell’ospedale, Hussam Abu Safiya, presentato come un santo che cerca di proteggere i suoi pazienti dall’aggressione israeliana con tanto di foto iconica che sale verso un tank israeliano. Il 9 ottobre 2023, due giorni dopo il pogrom, Safiya ha descritto l’evento sui social personale come un “atto di Allah”. Le fotografie lo hanno mostrato mentre incontrava alti funzionari di Hamas. Un anno prima, l’ex direttore dell’ospedale Kamal Adwan, Ahmad Kahlot, un membro di Hamas dal 2010, rivelò in un interrogatorio che il suo ospedale era stato trasformato in una struttura militare sotto il controllo di Hamas e che aveva persino ospitato un soldato israeliano rapito. Ora la viva voce di un terrorista di Hamas interrogato da Israele e che lavorava nell’ospedale mette fine alla propaganda. Ne parla anche il New York Times.
  “Mi chiamo Anas Muhammad Faiz al Sharif e lavoro all’ospedale Kamal Adwan come supervisore delle pulizie. Sono entrato nelle Forze Nukhba. Hamas usa l’ospedale Kamal Adwan perché sa che l’esercito israeliano non può colpirlo”. Il terrorista racconta che i suoi uomini trasportano armi dentro e fuori l’ospedale, partono dal centro medico di notte per operazioni e che l’ospedale è usato per distribuite granate e mortai, attaccare i blindati, tendere imboscate, rifornire i tunnel. “C’erano operativi di Hamas e della Jihad Islamica” continua al Sharif.
  Uno dei pilastri della propaganda antisemita è l’accusa per cui agli ebrei piace rapire bambini non ebrei per usare il loro sangue per fare il matzo, il pane non lievitato mangiato a Pasqua per commemorare l’Esodo dall’Egitto. Una leggenda tanto vera quanto è vero che gli anziani di Sion sono al comando della Casa Bianca. Ma una delle tante “voce sugli ebrei” che si è rivelata estremamente duratura e aggiornabile in nuove versioni. L’ultima è che a Gaza è in corso un “genocidio”. Non è fabbricata dalla polizia zarista, ma da molti media occidentali.  

Il Foglio, 9 gennaio 2025)

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L’ IDF recupera il corpo dell’ostaggio Youssef al-Ziyadne a Gaza. Si teme per la vita del figlio Hamza

di Ruben Caivano

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Un altro ostaggio è stato trovato senza vita nella Striscia di Gaza. L’IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha confermato di aver recuperato il corpo di Youssef al-Ziyadne, 53 anni, rapito il 7 ottobre 2023 durante l’attacco di Hamas nel sud di Israele. Il corpo è stati ritrovato in un tunnel sotterraneo a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, accanto ai resti di due terroristi di Hamas che li stavano presumibilmente sorvegliando. Nel tunnel sono stati rinvenuti anche alcuni reperti che potrebbero essere riconducibili alla morte del figlio di Youssef, Hamza al-Ziyadne, 22 anni, anche lui rapito durante l’attacco. Tuttavia, l’IDF ha precisato che il decesso di Hamza non è ancora stato confermato ufficialmente.
Youssef e Hamza al-Ziyadne vivevano nella città beduina di Rahat, nel Negev, e Youssef lavorava da 19 anni nel kibbutz Holit, vicino al confine con Gaza. Il 7 ottobre 2023, durante il pogrom di Hamas, Youssef è stato rapito insieme ai suoi tre figli: Hamza, Bilal e Aisha. Dopo più di 50 giorni di prigionia, Bilal e Aisha sono stati rilasciati il 30 novembre 2023, mentre Youssef e Hamza erano rimasti in prigionia e considerati vivi fino a martedì.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha espresso le sue condoglianze alla famiglia, dichiarando:
“Speravamo di riportare sani e salvi Youssef e Hamza, così come avevamo fatto con Bilal e Aisha. Purtroppo oggi dobbiamo affrontare una realtà dolorosa.”
“Ogni giorno aspettavamo notizie e speravamo che fossero vivi. Questa perdita è devastante per tutti noi” ha detto il fratello di Youssef, Ali Ziyadne, che ha raccontato il dolore della famiglia nel ricevere la notizia.
Dopo questa tragica scoperta, l’IDF continua ad operare nella Striscia di Gaza per garantire la sicurezza di Israele e recuperare gli ostaggi ancora detenuti da Hamas.

(Shalom, 9 gennaio 2025)

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Paura di Hamas e dichiarazioni antisemite

Anche 20 anni dopo la sua elezione a Presidente dell'Autorità palestinese, Abbas è aggrappato al potere. Eppure la sua carica non è stata legittimata dal 2009. 

di Elisabeth Hausen

Quando in una democrazia viene eletto un capo di Stato o un capo di governo, alla fine del mandato c'è una nuova elezione. A seconda delle modalità, il politico può ricandidarsi o meno. Ad esempio, dal 2000 il mandato del presidente israeliano è di sette anni, dopo i quali non può ricandidarsi. Prima di allora, il mandato era di cinque anni con due possibili mandati.
  Nell'Autorità Palestinese (AP), queste regole riconosciute a livello mondiale apparentemente non si applicano. Il suo presidente Mahmoud Abbas è stato eletto esattamente 20 anni fa - per quattro anni. Da allora, l'Autorità palestinese non ha mai tenuto un'elezione presidenziale. L'ormai 89enne leader di Fatah è quindi in carica illegalmente da 16 anni.
  L'AP cita l '“occupazione israeliana” come motivo principale. Tuttavia, un fattore molto più serio è il timore di Abbas di perdere il potere a favore del suo principale rivale politico, l'islamico radicale Hamas. I sondaggi degli ultimi anni hanno mostrato una tendenza corrispondente: se Abbas si candidasse contro il leader di Hamas in carica, perderebbe chiaramente le elezioni. Fatah potrebbe ottenere punti solo con il leader dell'“Intifada di Al-Aqsa”, Marwan Barghuti, che è in custodia israeliana per cinque capi d'accusa di omicidio.

In precedenza segretario generale dell'OLP e primo ministro
  Quando Abbas fu eletto il 9 gennaio 2005 come successore del leader palestinese Yasser Arafat, morto due mesi prima, non era nuovo alla politica. È stato uno dei fondatori di Fatah e dell'“Organizzazione per la liberazione della Palestina” (OLP). Come Segretario generale dell'OLP, firmò l'accordo di Oslo I con Israele nel 1993.
  Tre anni dopo, Arafat divenne il primo presidente della neonata AP. Sotto pressione internazionale, nel 2003 ha permesso con riluttanza la creazione della carica di Primo Ministro. La carica fu assegnata ad Abbas, noto anche come Abu Masen. Insieme all'allora Presidente degli Stati Uniti George W. Bush e al capo del governo israeliano Ariel Sharon, ha firmato la cosiddetta “Roadmap”, un piano di pace in più fasi, nessuna delle quali è stata ancora attuata.
  Abbas ricopre la sua attuale carica senza un vicepresidente; il parlamento è stato sciolto nel 2018. E cambia regolarmente il governo e il primo ministro. Si tratta di un gabinetto fittizio, poiché Abbas governa per decreto.

Dichiarazioni antisemite
  In qualità di presidente dell'AP, si distingue per le sue dichiarazioni anti-israeliane e talvolta antisemite, che suscitano critiche internazionali e vengono poi rapidamente dimenticate. Ad esempio, in un discorso del 2018, ha incolpato gli ebrei della Shoah. Ha ripetuto l 'accusa nell'agosto 2023.
  Un anno prima, in una conferenza stampa con il Cancelliere federale Olaf Scholz a Berlino, aveva affermato che Israele aveva commesso “50 Olocausti” contro i palestinesi. Nel maggio 2023, in occasione di un evento commemorativo delle Nazioni Unite, ha paragonato le dichiarazioni di Israele a quelle del Ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels.
  Né queste dichiarazioni né il suo lungo mandato impediscono agli attori internazionali e ai media di trattare Abbas come un legittimo rappresentante dei palestinesi. Neppure l'incapacità di risolvere il conflitto con Hamas e quindi di rimuovere un ostacolo sulla via della statualità lo ostacola.

Per la prima volta si discute di successione
  Al termine del suo 20° anno di mandato, Abu Masen ha discusso per la prima volta della sua possibile successione: In caso di vacanza, il presidente del Consiglio nazionale palestinese (PNC), Rauhi Fattuh, assumerebbe la carica ad interim fino all'elezione di un nuovo presidente, ha dichiarato a novembre.
  Tuttavia, al momento non sembra che Abbas si stia impegnando attivamente per spianare la strada a un successore, dimettendosi o organizzando un'elezione. Abbas è troppo attaccato al potere per farlo.

(Israelnetz, 9 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Iran: prime gravi crepe nel regime dopo la debacle in Siria

Uno dei generali più importanti dell'esercito iraniano (non IRGC) ammette pubblicamente che «la Siria è stato un brutto colpo per l'Iran» e attacca Assad, la Russia e persino le IRGC, il tutto mentre in Iran manca persino la benzina

di Farnaz Fassihi

Teheran, Iran, il generale iraniano di grado più alto in Siria ha contraddetto la linea ufficiale assunta dai leader di Teheran in merito alla caduta improvvisa del loro alleato Bashar al-Assad, affermando in un discorso straordinariamente schietto che l’Iran aveva subito una grave sconfitta ma che avrebbe comunque cercato di operare nel Paese.
Una registrazione audio del discorso, pronunciato la scorsa settimana dal Brig. Gen. Behrouz Esbati in una moschea di Teheran, è emersa pubblicamente lunedì sui media iraniani, ed è in netto contrasto con le dichiarazioni del presidente iraniano, del ministro degli esteri e di altri leader di spicco. Per settimane hanno minimizzato l’entità della perdita strategica dell’Iran in Siria il mese scorso, quando i ribelli hanno spazzato via Bashar al-Assad dal potere, e hanno affermato che l’Iran avrebbe rispettato qualsiasi risultato politico deciso dal popolo siriano.
“Non considero la perdita della Siria qualcosa di cui essere orgogliosi”, ha detto il generale Esbati secondo la registrazione audio del suo discorso, che Abdi Media, un sito di notizie con sede a Ginevra incentrato sull’Iran, ha pubblicato lunedì. “Siamo stati sconfitti, e sconfitti molto male, abbiamo subito un duro colpo ed è stato molto difficile”.
Il generale Esbati ha rivelato che i rapporti dell’Iran con Assad erano tesi da mesi, tanto da aver portato alla sua cacciata, affermando che il leader siriano aveva respinto le molteplici richieste delle milizie sostenute dall’Iran di aprire un fronte contro Israele dalla Siria, in seguito all’attacco guidato da Hamas del 7 ottobre 2023.
L’Iran ha presentato ad Assad piani militari completi su come utilizzare le risorse militari iraniane in Siria per attaccare Israele, ha affermato.
Il generale ha anche accusato la Russia, considerata un alleato di primo piano, di aver tratto in inganno l’Iran dicendogli che i jet russi stavano bombardando i ribelli siriani quando in realtà stavano sganciando bombe in campi aperti. Ha anche detto che l’anno scorso, quando Israele ha colpito obiettivi iraniani in Siria, la Russia aveva “spento i radar”, facilitando di fatto questi attacchi.
Per oltre un decennio, l’Iran ha sostenuto Assad inviando comandanti e truppe per aiutarlo a combattere contro i ribelli dell’opposizione e il gruppo terroristico dello Stato Islamico.
Sotto Assad, la Siria era il centro di comando regionale dell’Iran da cui forniva armi e denaro alla sua rete di milizie regionali, tra cui Hezbollah in Libano e i terroristi palestinesi in Cisgiordania . L’Iran controllava anche aeroporti, magazzini e gestiva basi di produzione di missili e droni in Siria.
La coalizione ribelle ha ormai preso il controllo di gran parte della Siria e sta cercando di formare un governo . Il generale Esbati ha affermato nel suo discorso che l’Iran cercherà modi per reclutare insorti in qualsiasi forma la nuova Siria assuma.
“Possiamo attivare tutte le reti con cui abbiamo lavorato negli anni”, ha detto. “Possiamo attivare gli strati sociali in cui i nostri ragazzi hanno vissuto per anni; possiamo essere attivi sui social media e possiamo formare cellule di resistenza”.
Ha aggiunto: “Ora possiamo operare lì come facciamo in altri ambiti internazionali, e abbiamo già iniziato”.
I commenti del generale hanno lasciato sbalorditi gli iraniani, sia per il loro contenuto non filtrato che per la statura dell’oratore. È un comandante di alto rango delle Forze armate iraniane, l’ombrello che include l’esercito e il Corpo delle guardie rivoluzionarie, con una storia di ruoli di rilievo tra cui comandante in capo della divisione informatica delle Forze armate.
In Siria, ha supervisionato le operazioni militari dell’Iran e ha collaborato strettamente con i ministri e gli ufficiali della difesa siriani e con i generali russi, superando persino il comandante in capo delle Forze Quds, il generale Ismail Ghaani, che supervisiona la rete di milizie regionali sostenute dall’Iran.
Mehdi Rahmati, un importante analista di Teheran ed esperto di Siria, ha dichiarato in un’intervista telefonica che il discorso del generale Esbati è stato significativo perché ha dimostrato che alcuni alti funzionari si stavano allontanando dalla propaganda governativa e si stavano rivolgendo direttamente all’opinione pubblica.
“Tutti parlano del discorso durante le riunioni e si chiedono perché abbia detto queste cose, soprattutto in un forum pubblico”, ha detto Rahmati. “Ha esposto molto chiaramente cosa è successo all’Iran e dove si trova ora. In un certo senso può essere un avvertimento per la politica interna”.
Il generale Esbati ha detto che la caduta del regime di Assad era inevitabile data la corruzione dilagante, l’oppressione politica e le difficoltà economiche che la gente ha dovuto affrontare, dalla mancanza di energia al carburante ai redditi vivibili. Ha detto che Assad aveva ignorato gli avvertimenti di riforma. Rahmati, l’analista, ha detto che il paragone con la situazione attuale dell’Iran era difficile da ignorare.
Nonostante le affermazioni del generale sull’attivazione delle reti, non è ancora chiaro cosa l’Iran possa realisticamente fare in Siria, data l’opposizione pubblica e politica che ha incontrato nel paese e le sfide dell’accesso via terra e via aria. Israele ha avvertito che avrebbe decimato qualsiasi sforzo iraniano che rilevasse sul terreno in Siria.
E mentre l’Iran ha esperienza di operazioni in Iraq dopo l’invasione statunitense del 2003 , seminando anche disordini, la geografia e il panorama politico della Siria sono molto diversi, presentando ulteriori sfide.
Un membro iraniano delle Guardie rivoluzionarie che ha trascorso anni in Iraq come stratega militare insieme a comandanti senior ha detto in un’intervista telefonica che i commenti del generale Esbati sul reclutamento di insorti da parte dell’Iran potrebbero essere più ambiziosi che pratici in questa fase. Ha detto che mentre il generale Esbati aveva ammesso una grave sconfitta, aveva anche cercato di sollevare il morale e pacificare i conservatori chiedendo che l’Iran agisse con più forza.
Il funzionario delle Guardie, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto che la politica dell’Iran non era ancora stata finalizzata, ma che era emerso un consenso negli incontri a cui aveva partecipato, dove si discuteva di strategia. Ha detto che l’Iran trarrebbe beneficio se la Siria precipitasse nel caos, perché l’Iran sapeva come prosperare e proteggere i propri interessi in un panorama turbolento.
In Iran, le Guardie Rivoluzionarie hanno l’autorità di stabilire la politica regionale e di ignorare il parere del Ministero degli Esteri.
Il leader supremo Ayatollah Ali Khamenei, che ha l’ultima parola sulle questioni chiave dello Stato, ha affermato in almeno due discorsi dalla caduta di Assad che la resistenza non era morta in Siria, aggiungendo che i giovani siriani avrebbero reclamato il loro paese dai ribelli al potere, che ha definito lacchè di Israele e degli Stati Uniti. Il presidente Masoud Pezeshkian e il ministro degli Esteri Abbas Araghchi sono stati più concilianti, affermando di essere favorevoli alla stabilità in Siria e ai legami diplomatici con il nuovo governo.
Le tensioni che circondano queste opinioni contrastanti sulla Siria hanno preoccupato abbastanza i funzionari da spingerli a intraprendere una campagna di controllo dei danni con il pubblico la scorsa settimana. Alti comandanti militari e opinionisti vicini al governo hanno tenuto discorsi e sessioni di domande e risposte con il pubblico nelle moschee e nei centri comunitari di diverse città.
Il discorso del generale Esbati, tenuto il 31 dicembre presso la moschea Valiasr nel centro di Teheran, era rivolto ai militari e ai fedeli della moschea, secondo un annuncio pubblico dell’evento intitolato “Risposte alle domande sul crollo della Siria”.
La sessione è iniziata con il generale Esbati che ha detto alla folla di aver lasciato la Siria sull’ultimo aereo militare diretto a Teheran la notte prima che Damasco cadesse nelle mani dei ribelli. Si è conclusa con lui che rispondeva alle domande dei membri del pubblico. Ha offerto la sua valutazione più seria sulla capacità militare dell’Iran nel combattere Israele e gli Stati Uniti.
Alla domanda se l’Iran avrebbe reagito all’uccisione da parte di Israele del leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha risposto che l’Iran lo ha già fatto, riferendosi a un bombardamento missilistico lo scorso autunno. Alla domanda se l’Iran avesse pianificato di effettuare un terzo round di attacchi diretti su Israele, ha detto che “la situazione” non poteva realisticamente gestire un altro attacco su Israele in questo momento.
Alla domanda sul perché l’Iran non avrebbe lanciato missili contro le basi militari statunitensi nella regione, ha risposto che ciò avrebbe provocato attacchi di rappresaglia più ampi da parte degli Stati Uniti contro l’Iran e i suoi alleati, aggiungendo che i missili regolari dell’Iran, non quelli avanzati, non sarebbero riusciti a penetrare i sistemi di difesa avanzati degli Stati Uniti.
Nonostante queste valutazioni, il generale Esbati ha affermato di voler rassicurare tutti di non preoccuparsi: l’Iran e i suoi alleati, ha affermato, hanno ancora la meglio sul campo nella regione.

(Rights Reporter, 9 gennaio 2025)

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Valerie Hamaty: l’araba cristiana che sta conquistandosi la rappresentanza di Israele all’Eurovision con un messaggio di unità

di Marina Gersony

Si chiama Valerie Hamaty ed è emersa come una delle voci più promettenti della scena musicale israeliana. Cresciuta a Giaffa, una delle città miste più significative di Israele, la sua storia è quella di una giovane donna che attraversa la complessità della propria identità, riflettendo le sfide e le speranze che contraddistinguono il Paese in questo periodo. La sua voce ha conquistato milioni di spettatori, ma ciò che rende la sua storia ancora più unica e interessante, è il fatto che lei è una cristiana araba, una figura più che rara in una competizione che unisce Israele e il suo pubblico internazionale.
  Come riporta il Times of Israel in un lungo articolo ricco di testimonianze e riflessioni, Hamaty ha catturato l’attenzione del pubblico israeliano con il suo talento, che l’ha portata ad essere una delle favorite dell’ultima edizione di “Rising Star” (HaKochav Haba), il talent show che da anni rappresenta una delle vetrine principali per l’Eurovision. Ma se la sua voce ha colpito, è la sua identità che ha sollevato non poche discussioni.

Un successo inaspettato
  La sua ascesa nella competizione è stata fulminante, grazie alla sua interpretazione di canzoni come “Shema” e “Hurricane”. La prima, è l’iconico brano israeliano che intreccia la preghiera dello Shema, simbolo di fede e identità nazionale ebraica, mentre “Hurricane” è lo struggente brano incentrato sulle tragedie causate dal conflitto israelo-palestinese con cui Eden Golan ha rappresentato Israele al contest nel 2024, diventato un inno di resistenza post-7 ottobre, il tragico evento che ha segnato profondamente Israele.
  Questi pezzi, che per molti sembrano rappresentare la “risposta” di Israele alla recente guerra con Gaza, hanno suscitato reazioni contrastanti, soprattutto considerando che Hamaty è l’unica concorrente araba di “Rising Star”. Ma dietro alla sua partecipazione si nascondono le sfide di una giovane donna che, pur essendo parte integrante della comunità araba, ha scelto di schierarsi pubblicamente con Israele, una scelta che ha messo alla prova le relazioni interetniche del Paese.

Una voce che unisce o divide?
  Di fatto il percorso di Valerie non è stato privo di polemiche. In un contesto di tensione politica e sociale, dove le divisioni tra ebrei e arabi israeliani sono forti, il suo sostegno pubblico a Israele durante la guerra a Gaza ha sollevato critiche. Mentre molti la celebrano per aver infranto le barriere culturali, ci sono altri che la accusano di tradire le proprie radici arabe.
  «Che un arabo possa rappresentare Israele su un palcoscenico internazionale è un’enorme fonte di orgoglio», ha dichiarato Zohurha Abonar, residente musulmana di Jaffa, la città natale di Valerie.
  Ma altre voci non sono d’accordo. «La mia generazione nella comunità musulmana non la sosterrà mai», ha affermato una giovane donna di un gruppo vicino alla cantante, che ha accusato Hamaty di essersi schierata dalla parte degli ebrei israeliani durante la guerra. La sua decisione di indossare una spilla gialla a sostegno degli ostaggi e il suo impegno nel visitare i soldati feriti e partecipare ai funerali delle vittime del massacro del 7 ottobre sono stati visti da alcuni come segnali di una condotta troppo «allineata» alla parte israeliana.

Il duetto con Daniel Wais e l’incontro con Shani Goren
  Il viaggio musicale di Valerie è stato segnato da momenti particolarmente emozionanti. Uno di questi è stato il duetto con Daniel Wais, figlio di una delle vittime dell’attacco di Hamas al Kibbutz Be’eri. I due hanno cantato “Hurricane”, brano – come già detto –che aveva un preciso significato politico, e hanno unito le loro voci in un messaggio di speranza e unità. La performance ha commosso molti, inclusi i familiari delle vittime, che hanno sostenuto Valerie, esortandola a «restare forte» di fronte alle critiche razziste.
  Un altro incontro che ha segnato profondamente Valerie è stato quello con Shani Goren, una delle israeliane rapite a Gaza, che dopo la sua liberazione ha chiesto alla cantante di cantare in arabo per aiutarla a superare il trauma. Valerie ha risposto a questa richiesta, dicendo che la musica ha un potere trasformativo: «Se l’arabo scatena la paura in alcuni, il canto la trasforma, raggiungendo i loro cuori in un modo diverso», ha affermato.

Un messaggio di inclusività per l’Eurovision
  Con la sua partecipazione all’Eurovision, Valerie rappresenterebbe una testimonianza viva del multiculturalismo israeliano, un Paese che da sempre cerca di bilanciare le sue identità diverse. Se dovesse vincere la selezione israeliana, ha già annunciato che canterebbe in inglese e in ebraico, sottolineando che la sua presenza come artista araba è già di per sé un messaggio di diversità. «L’obiettivo è entrare in contatto con gli europei, quindi l’inglese è necessario per fargli capire, e l’ebraico rappresenta Israele, la lingua ufficiale qui. Il fatto che io sia araba è già parte della storia», ha detto.
  Per alcuni, la sua candidatura sarebbe una grande opportunità per Israele di mostrare al mondo una faccia diversa, quella di un Paese che celebra la diversità e non le divisioni. Ma per altri, la sua identità araba potrebbe essere percepita come una sfida alle tradizioni israeliane. «Non è facile per alcuni sentire l’arabo in questo momento», ha dichiarato suo padre, Tony Hamaty, sottolineando che, sebbene possa comprendere il dispiacere di chi si sente turbato dalle lingue arabo-israeliane in tempo di guerra, la sua posizione è chiara: «Dobbiamo stare dalla parte dello Stato, siamo israeliani».

La musica come strumento di dialogo
  Cresciuta a Giaffa, città mista, Valerie ha imparato sin da piccola a navigare tra mondi diversi. Parla cinque lingue e ha iniziato la sua carriera musicale esibendosi in cerimonie pubbliche che celebravano le vittime di guerra israeliane, come nel caso del Memorial Day, un giorno che simbolicamente unisce tutti gli israeliani ma che di fatto è celebrato principalmente dalla popolazione ebraica. Questo suo impegno musicale, che l’ha portata anche a partecipare al viaggio della “March of the Living” ad Auschwitz, ha fatto di Valerie una figura di riferimento per molti giovani arabi israeliani, che vedono in lei un simbolo di integrazione e speranza.
  Oggi, mentre si prepara per il possibile debutto sull’Eurovision, Valerie è consapevole delle difficoltà che la sua musica può incontrare, ma è anche determinata. La sua storia non è solo quella di una cantante che cerca il successo, ma di una giovane donna che vuole dimostrare che la musica può superare le divisioni, che unire attraverso l’arte è possibile, anche in tempi difficili come quelli che Israele sta attraversando. Come ha detto suo padre, se Valerie dovesse vincere, «dimostrerà che il razzismo non ha l’ultima parola».
  In un Paese in cui le identità si intrecciano, Valerie Hamaty sta cercando di cambiare la narrativa. La sua musica non è solo intrattenimento, ma un invito a riflettere sulle potenzialità di un Israele che possa davvero essere il simbolo di una coesistenza tra popoli e culture diverse. Se riuscirà a vincere la selezione nazionale, il palco dell’Eurovision potrebbe essere l’occasione per mostrare al mondo che la diversità non è un ostacolo, ma una risorsa da celebrare.

(Bet Magazine Mosaico, 8 gennaio 2025)

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“Israele è il popolo che vuole vivere e non può essere distrutto”. Parla Michel Onfray

 "Qui si misura ciò che possiamo fare all’uomo. Ho sentito fisicamente che in Israele sta accadendo qualcosa di essenziale che riguarda il futuro della nostra civiltà”, dice il filosofo, che ha appena visitato i luoghi del pogrom del 7 ottobre.

di Giulio Meotti

“Caro Michel, sei un vero amico di Israele ed è per questo che ti stiamo conferendo questo premio”. Mentre gran parte della classe intellettuale europea ha scelto il campo di Hamas, Michel Onfray ha ricevuto in Israele un premio per il suo sostegno allo stato ebraico. Onfray ha appena visitato i siti del pogrom del 7 ottobre, dal kibbutz Kfar Aza a Netiv HaAsara, il moshav più vicino alla Striscia di Gaza. “Sono stato invitato a tenere due conferenze, una a Gerusalemme e l’altra a Tel Aviv” ci racconta Onfray. “E gli organizzatori mi hanno suggerito di approfittare del mio soggiorno per recarmi sui luoghi dei massacri e al confine tra Gaza e Israele, dove ho incontrato dei soldati. Traiamo sempre vantaggio dall’evitare le narrazioni dei media, in particolare francesi, compresi quelli del servizio pubblico massicciamente contrario a Israele, e dal farsi un’idea sul posto, per conto proprio, quando possibile”. 
  Molte le impressioni nel vedere la devastazione del pogrom di Hamas. “Questo è esattamente ciò che si prova passeggiando tra le ‘rovine’ di Oradour-sur-Glane. Qui si misura ciò che possiamo fare all’uomo. Camminando tra le rovine, passando davanti alle case bruciate, vedendo una macchia marrone di quella che era una traccia di sangue cancellata, ho pensato a questa frase di Pascal che mi ripeto tante volte: ‘Il cuore dell’uomo è vuoto e pieno di sporcizia’. Gli ebrei sono come una vedetta della storia, cosa insopportabile per il musulmano la cui narrazione è  parte di una sorta di ‘extraterritorialità’ storica”. Onfray è tornato con un sentimento sempre più forte dell’unicità di Israele. “ Questo popolo ha il senso della storia, della sua storia, della memoria, della sua memoria, dell’identità, della sua identità. Un popolo che vuole vivere e quindi non morire, e non c’è nulla che possiamo fare contro un popolo abitato da tale smania di vita. Una civiltà scompare  quando gli uomini che la costituiscono non la amano più, o addirittura  la odiano. Nemmeno il fuoco nucleare può distruggere il popolo ebraico che non si trova solo in terra di Israele, ma che vive ovunque sul pianeta”.
  Israele è solo in occidente. “Solo in questo occidente che, dal canto suo, odia se stesso e ha a cuore coloro che lo odiano. L’occidente che ama il nichilismo più di ogni altra cosa. Israele è la sua culla, ma sputa sulla sua culla. Ho sentito fisicamente che in Israele sta accadendo qualcosa di essenziale che riguarda il futuro della nostra civiltà”. Nel frattempo, un mostruoso antisemitismo divora l’Europa. “Ho appena finito un libro che non immaginavo quando l’ho iniziato e che mostra che la maggior parte dei filosofi di sinistra  sono stati antisemiti: Alain, Ricoeur, Sartre, De Beauvoir, Foucault, Deleuze, Genet, Garaudy, Serres, Nancy, Badiou! Gli estratti che ho trovato sono così schiaccianti che i detentori dei diritti di Sartre, De Beauvoir, Foucault e Genet, tutti autori Gallimard, hanno vietato la riproduzione dei testi incriminati”. Col 7 ottobre, Israele doveva essere difeso non solo dai suoi nemici in armi, ma anche da un pezzo d’occidente. “L’occidente pieno di odio narcisistico e nichilista verso se stesso. Stiamo assistendo alla fine di un mondo, quello giudaico-cristiano. L’islam fa la sua parte, mentre l’orizzonte insuperabile del crociato è la pinta di birra sorseggiata in terrazza con l’occhio incollato al cellulare”. 

Il Foglio, 8 gennaio 2025)

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Il KKL e la protezione della farfalla “Tomares Nesimachus” nelle colline di Gerusalemme

di Nicole Nahum

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In un’area delle colline di Gerusalemme, una nuova iniziativa ambientale sta suscitando crescente interesse: il KKL-JNF (Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund) ha inaugurato una campagna di piantumazione con l’obiettivo di proteggere la farfalla Tomares Nesimachus. Quest’ultima dipende infatti da una pianta specifica, l’Astragalusmacrocarpus, senza la quale non sarebbe in grado di completare il proprio ciclo vitale.
  Il progetto è partito quando i membri dell’Associazione degli appassionati di farfalle di Israele (BEIA) hanno individuato la specie nel Parco Begin, situato nelle Montagne di Gerusalemme. Con l’obiettivo di accrescere la popolazione di farfalle, sono stati raccolti i semi di Astragalusmacrocarpus, successivamente trasportati al vivaio di Eshtaol, dove sono stati coltivati con successo 60 nuovi esemplari. Il team di esperti, coordinato dal KKL-JNF, ha seguito attentamente il processo di germinazione e di crescita, creando così nuove opportunità per studi scientifici e per lo sviluppo dello stesso progetto.
  Le 60 piante sono state quindi reintrodotte nel loro habitat originario, il parco Begin, un’area che si sta rivelando cruciale per la sopravvivenza dell’insetto. Tra i partecipanti alla piantumazione, molti sono stati i volontari, tra cui membri di BEIA e altri appassionati di natura. L’iniziativa si inserisce in un programma più ampio di conservazione della biodiversità e offre un’importante opportunità per la protezione di una singola specie.
  Nurit Hibsher, responsabile del dipartimento forestale della regione centrale di KKL-JNF, ha sottolineato l’importanza di questo progetto per il mantenimento dell’equilibrio ecologico nelle colline di Giuda, un’area spesso minacciata dalla crescente urbanizzazione. “Proseguiremo con la raccolta dei semi dalle piante di Astragalusmacrocarpus recentemente piantate, per espandere ulteriormente la proliferazione della farfalla. Questo progetto dimostra come la collaborazione tra comunità locali, volontari e organizzazioni professionali possa essere fondamentale per la protezione dell’ambiente”, ha dichiarato Hibsher, dimostrando come piccoli ma significativi interventi possano fare la differenza per la salvaguardia del patrimonio naturale.

(Bet Magazine Mosaico, 8 gennaio 2025)

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La retorica mortale su Gaza colpisce anche i palestinesi

di Ugo Volli

A proposito di Israele circola sui giornali italiani una cattiva retorica, anzi una retorica mortale, perché alleata alla morte e ai propagandisti di morte. Essa è pericolosa non solo per Israele ma anche per i palestinesi e per l’Europa: va pazientemente smascherata con gli strumenti della ragione. In questa retorica si sparano numeri a casaccio (anzi sotto la dettatura dei propagandisti di Hamas), si usano parole a sproposito, come genocidio, si convocano immagini che permangono nell’immaginario collettivo europeo da un millennio, come quella degli ebrei che ammazzano bambini, per cui centinaia di comunità ebraiche sono state sterminate a partire dall’invenzione della “calunnia del sangue” (Norwich, Inghilterra, 1144), si gettano “maledizioni” sui governanti di Israele. E poi si attribuiscono ai nemici “viltà”, “bugie schifose”, “atroce”, “indegna inaccettabile violenza”, “bambini morti di freddo” (ma la temperatura a Gaza in questi giorni oscilla fra i 21 e i 12 gradi, impossibile congelare), si ripete ossessivamente un numero falso (20 mila bambini morti). Naturalmente senza fonti, senza documentazione, senza verifiche, perché la retorica dell’indignazione non sopporta i fatti, non accetta i ragionamenti, è solo urlo e improperio. Mi riferisco innanzitutto all’editoriale di Dino Giarrusso, pubblicato su questo giornale qualche giorno fa in risposta a un equilibrato intervento di Carlo Giovanardi. Ma purtroppo non si tratta affatto di un caso isolato.
  Partiamo da questo numero: 20 mila bambini sarebbero morti a Gaza. È una cifra completamente falsa, come vedremo, una pura speculazione propagandistica. Il “ministero della salute di Gaza”, un organismo di Hamas, sostiene che la guerra nella Striscia avrebbe prodotto 45 mila morti (su due milioni di abitanti). Se accettiamo questo numero, 20 mila bambini sarebbero quasi la metà delle vittime. Ma questa proporzione è impossibile: un esercito in combattimento se vuole sopravvivere deve sparare ai nemici armati, in questo caso le truppe ben addestrate di Hamas, non agli inermi o ai bambini. Ovviamente non c’è una sola testimonianza, anche da parte di Hamas, che l’esercito israeliano sia mai stato così folle da prendere come obiettivo i bambini.
  I dati di Hamas poi non sono affatto corretti. L’Onu a maggio scorso, quando Hamas parlava di 35 mila morti, comunicò che aveva potuto verificare solo 8 mila vittime. La più accurata e neutrale indagine recente su questi dati, quella della britannica Henry Jackson society (consultabile qui ) mostra che vi è una sistematica discrepanza fra i referti ospedalieri e le dichiarazioni di Hamas, anche perché in queste sono incluse molte identità ripetute e morti naturali, per esempio di cancro, che portano a ridimensionare il numero delle vittime di guerra di circa un terzo. Delle 30 mila vittime vere di questa guerra circa 17 mila sono truppe e militanti di Hamas, secondo i dati israeliani, i soli disponibili perché nei numeri palestinesi la categoria dei combattenti non figura. Restano circa 13 mila civili morti (uomini non militari, vecchi, donne e bambini). Come hanno riconosciuto tutti gli esperti militari, è una proporzione di vittime collaterali straordinariamente bassa per una guerra che si svolge in ambiente urbano, con Hamas che applica le tattiche della “guerra asimmetrica” nascondendosi fra i civili, nelle moschee, negli ospedali, nelle scuole, nelle centinaia di chilometri di tunnel scavati apposta sotto gli edifici, e sparando di lì alle spalle dei militari israeliani. Questa scarsità di non combattenti colpiti (si pensi che alla fine della II Guerra Mondiale nei bombardamenti alleati di Dresda morirono 135 mila civili e a Napoli 25 mila) è il risultato degli sforzi di Israele di non colpire i civili, per esempio dando notizia prima delle zone in cui avrebbe operato, con volantini dettagliati, messaggi telefonici, mappe pubblicate in rete che comprendono vie di fuga e zone sicure. Come è inedito il fatto che uno stato in guerra faccia passare per le sue linee rifornimenti (acqua, cibo, carburante, elettricità) per il territorio dominato dai propri nemici, regolarmente sequestrati dalle bande di Hamas.
  Certamente, si può e si deve dire, ogni vittima è di troppo, ogni guerra è male. Ma questa guerra Israele non l’ha voluta e non l’ha prevista. È stato colto di sorpresa non solo dall’atroce pogrom del 7 ottobre (ricordiamolo: 1.200 persone uccise, inclusi vecchi, bambini, donne; 250 rapiti di cui oltre 100 ancora in mano ai terroristi; episodi atroci di stupro, di persone bruciate vive, di bambini uccisi fra le braccia della madre), ma anche dai bombardamenti (a oggi circa 40 mila missili) che sono venuti e in parte vengono ancora da Gaza, dal Libano, dalla Siria, dall’Iraq, dallo Yemen e dall’Iran. È l’Iran che ha orchestrato questa aggressione, il cui scopo esplicito era ed è ancora la distruzione dello Stato ebraico e lo sterminio del suo popolo. Israele ha reagito lentamente, ma con determinazione, con l’obiettivo di eliminare una minaccia collettiva mortale, che si ripete appena ottant’anni dopo la Shoà. Terminare la guerra senza eliminare i movimenti terroristi che hanno lo scopo di distruggere Israele e senza liberare i rapiti sarebbe come finire la II guerra mondiale senza distruggere il nazismo. Per concludere la guerra a Gaza basterebbe che Hamas liberasse le persone che tiene sequestrate, consegnasse le armi e accettasse l’offerta di Israele di un salvacondotto per l’esilio. Non lo fa, anche se ha perso la battaglia sul campo, per fanatismo, per odio, ma anche perché conta ancora sulla mobilitazione di una parte dell’opinione pubblica europea e americana che ne ripete la propaganda. Chi aiuta Hamas oggi facendosi portavoce delle sue menzogne, chi parla di “genocidio” e di “20 mila bambini uccisi” non solo fa male a Israele ma anche agli abitanti di Gaza, perché prolunga la guerra. E all’Europa, perché aiuta chi vuole imitare qui il terrorismo di Hamas.

(L'identità, 8 gennaio 2025)

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La scomparsa di Jeudà Zegdun, “il rabbino dei giovani"

Maestro di Torah, divulgatore, uomo affabile. Molto amato dai giovani, che conquistava con il suo carattere gioviale.

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Rav Jeudà Zegdun

È scomparso in Israele all’età di 74 anni rav Jeudà Zegdun, già rabbino capo di Genova e Venezia. Allievo del rabbino capo di Torino Dario Disegni (1878-1967), Zegdun era nato in Libia nel 1950, si era trasferito a Torino negli anni Sessanta per studiare alla scuola rabbinica Margulies-Disegni. Nel 1976 aveva ottenuto la semikhah, l’ordinazione rabbinica. Il suo primo incarico era stato nel capoluogo ligure, dal 1976 al 1981. Poi, dopo un primo periodo israeliano, dal 1990 al 1992 aveva esercitato a Venezia. È stato autore di libri sulla Torah e sui midrashim, i racconti che aiutano a capire e interpretare i fatti biblici.
  «Lo ricordo giovanissimo, avrà avuto 13 anni. Faceva parte di un gruppo di ragazzi libici convocati dal rabbino Disegni. Veniva da un ambiente completamente diverso dal nostro, ma era pieno di buona volontà e riuscì ad adattarsi», racconta rav Luciano Caro, rabbino capo di Ferrara e suo insegnante di allora. «Zegdun era molto attivo nei movimenti giovanili: era un ragazzo che si legava alle persone e per questo, non soltanto a Torino ma in tutte le città dove ha operato, in tanti lo ricordando con simpatia». Rav Caro è rimasto in contatto anche dopo il suo ritorno in Israele. «Ci siamo sempre incontrati con grande affetto e simpatia. La notizia della sua morte mi addolora molto».
  «Tanti ricordi si sovrappongono», racconta rav Giuseppe Momigliano, attuale rabbino capo di Genova. «Abbiamo studiato insieme alla scuola rabbinica Margulies-Disegni: io ho iniziato nel periodo in cui lui stava concludendo e insieme abbiamo vissuto in un pensionato della scuola. Anni dopo, venendo a Genova, è capitato che “ereditassi” la Comunità di cui era stato il rav e ho potuto testimoniare quanto con la sua opera avesse conquistato i giovani, quanto con il suo modo di agire fosse stato capace di avvicinarli». Zegdun è stato anche autore di libri e divulgatore: «Oltre a un suo libro sul midrash, è da segnalare una raccolta di lezioni su Bereshit e Shemot della celebre educatrice Nechama Leibowitz: rav Zegdun ne era stato un allievo e, credo, il primo in Italia a diffondere il suo metodo di insegnamento», conclude rav Momigliano.
  Uno dei giovani “conquistati” da rav Zegdun è Ariel Dello Strologo, ex presidente della Comunità ebraica genovese e suo attuale rappresentante nel Consiglio Ucei. «È stata una fondamentale fiamma di entusiasmo. Se so qualcosa della mia identità ebraica è merito suo», sottolinea Dello Strologo. Zegdun «arrivò a Genova in un momento in cui mancava una figura stabile di rabbino e in cui la Comunità iniziava il suo calo demografico, pur disponendo ancora di istituzioni solide». L’approccio del neo rabbino «fu come una scossa, interpretando lui il ruolo con un approccio paragonabile a quello dei Chabad: quindi all’insegna di grande emotività e coinvolgimento; così facendo ha riportato in Comunità tanti giovani disinteressati, instradandone non pochi verso l’Aliyah, la migrazione in Israele». Uno dei canali educativi è stato il Benè Akiva, movimento giovanile religioso. «Ricordo attività divertenti e tante partite di pallone. Veniva con noi anche allo stadio, a vedere le partite del Genoa», racconta l’ex allievo. La fine del suo mandato a Genova fu turbolenta, spiega Dello Strologo. «Le sue attenzioni su temi che una parte della Comunità non voleva messi in discussione portò a uno scontro aperto, a un’infuocata assemblea con i giovani da una parte e i “vecchi” dall’altra. Ne scaturì una frattura irrimediabile».
  Rav Zegdun è stato il predecessore a Venezia del rabbino Roberto Della Rocca, direttore dell’area Educazione e Cultura Ucei. «Quando assunsi l’incarico», spiega, «mi resi subito conto di quanto avesse lasciato un’impronta profonda e viva nella Comunità». In particolare, afferma, «il suo impegno nello studio e la devota osservanza della Torah avevano influenzato alcuni ebrei veneziani, non abituati a un modello di rabbinato così dinamico e rigoglioso». Per Della Rocca, l’entusiasmo di Zegdun nel vivere l’ebraismo «era contagioso e trainante, al punto che per alcuni poteva apparire come un modello innovativo e, talvolta, destabilizzante». Il suo successore ricorda anche che durante il passaggio di consegne «fui particolarmente colpito nel constatare che il suo spirito non era cambiato rispetto a quando lo conobbi vent’anni prima nei campeggi del Benè Akiva». In tali occasioni Zegdun «ci raggiungeva come rav del movimento, offrendo sempre un contributo capace di unire calore umano e saggezza».

(moked, 8 gennaio 2025)

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“Gli ospedali sono per Hamas un rifugio, perché non possono essere colpiti dai militari”

La confessione di un terrorista operativo nell’ospedale Kamal Adwan a Gaza

“Credono che l’ospedale sia un rifugio sicuro per loro perché i militari non possono prenderlo di mira direttamente”; ‘Le armi sono state trasferite da e verso l’ospedale’.
Durante le attività della 162esima Divisione, dell’ISA e dell’Unità 504 lo scorso fine settimana nell’area dell’ospedale Kamal Adwan, nel nord della Striscia di Gaza, sono stati arrestati oltre 240 terroristi di Hamas e della Jihad islamica. Nel corso degli interrogatori, i terroristi hanno finora fornito sostanziali informazioni di intelligence che stanno aiutando le operazioni dell’IDF nell’area.
Il filmato dell’interrogatorio di Anas Muhammad Faiz Al-Sharif, un terrorista di Hamas fermato durante l’attività delle truppe nell’area dell’ospedale Kamal Adwan e portato per ulteriori indagini in territorio israeliano, è ora autorizzato alla pubblicazione. Il terrorista ha presentato il suo ruolo all’interno di Hamas e ha descritto nei dettagli come i suoi terroristi operano nell’area dell’ospedale, compreso il trasferimento di armi da e verso l’ospedale.
Una testimonianza, questa, di grande importanza, perché conferma – se mai ce ne fosse bisogno – quello che Israele sta cercando di provare al mondo dall’inizio della guerra, e cioè che Hamas utilizza gli ospedali (e le scuole) come basi per lanciare i propri attacchi, nonché come magazzini per le armi e rifugi per i propri terroristi.

(Shalom, 8 gennaio 2025)

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I drusi israeliani e il futuro incerto della Siria

Dopo la caduta di Assad, aumenta il numero di drusi che chiedono la cittadinanza israeliana.

di Amelie Botbol

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Il sindaco di Majdal Sham Dolan Abu Saleh, 19 dicembre 2024. foto di Amelie Botbol.

Le comunità druse sulle alture del Golan, passate sotto il controllo israeliano nel 1967, oscillano tra la speranza di ricongiungersi con i loro parenti dall'altra parte del confine e la paura di un futuro incerto dopo la caduta del regime di Assad.
Dolan Abu Saleh, sindaco della più grande delle quattro città, Majdal Shams, ha descritto la caduta del dittatore siriano Bashar Assad come “una gioia dell'umanità”.
“La maggior parte dei drusi del Golan era dalla parte del popolo siriano. Un piccolo numero era fedele al regime di Assad. Ma non c'è dubbio che della caduta di Assad, dittatore e assassino, si parlerà e si scriverà in futuro”, ha detto giovedì scorso.
Abu Saleh ha spiegato che Majdal Shams è una città di 12.000 persone altamente istruite, di cui quasi la metà ha la cittadinanza israeliana, e ha un enorme potenziale, soprattutto nel settore del turismo. Il sindaco sta cercando di trasformare la sua città in un centro sciistico e ricreativo di prima classe.
“La prima sfida è la questione della sicurezza derivante dalla guerra e dal brutale attacco terroristico di Hamas, che ha colpito non solo il sud ma l'intero Paese il 7 ottobre [2023]”, ha dichiarato Abu Saleh a JNS. “Per noi è iniziata quando [il proxy del terrore iraniano] Hezbollah si è unito alla lotta. Ci troviamo in un'area tri-frontaliera, ai confini di Israele con la Siria e il Libano”.
Nonostante la guerra tra Israele e Hezbollah, che ha portato a un cessate il fuoco con il Libano il 27 novembre, gli abitanti di Majdal Shams non hanno mai pensato di lasciare la loro città.
“Abbiamo sentito gli impatti [dei proiettili di Hezbollah] nelle aree aperte e il rumore delle rappresaglie [dell'IDF]. Ci sono stati incidenti di sicurezza e questo non è stato certo piacevole. Ma questa è la nostra mentalità: non lasceremo il nostro Paese. Siamo qui per restare”, dice Abu Saleh.

Un massacro di bambini fatto da Hezbollah
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Una vista di Majdal Shams, alle pendici meridionali del Monte Hermon

Riferendosi all'impatto di un razzo di Hezbollah su un campo di calcio a Majdal Shams il 27 luglio, che ha ucciso 12 bambini e ne ha feriti almeno altri 42, Abu Saleh ha detto che non c'è niente di peggio che vedere persone innocenti ferite.
“Ero lì pochi minuti dopo il lancio del missile. Vedendo i cadaveri e le parti dei corpi di bambini che conoscevo da diversi ambienti, mi sono sentito impotente”, ha detto. “I residenti erano sotto shock, soprattutto i genitori che si sono precipitati lì e hanno visto cose terribili. È una grande sfida. Dobbiamo ancora affrontare la paura e il trauma”.
Abu Saleh ha sottolineato la saggezza e la maturità con cui i residenti hanno reagito alla tragedia, anche quelli che sono stati colpiti direttamente.
“Tutti a Majdal Shams hanno parlato di pace. Hanno detto che non volevano che un'altra madre piangesse come ha pianto lei”, ha spiegato. “Ciò che ha aiutato la popolazione ad accettare questo disastro è la loro intelligenza. Sono molto orgoglioso dei residenti che hanno accettato con maturità, responsabilità e amore e senza desiderio di vendetta”.
Commentando il dispiegamento delle Forze di Difesa israeliane a est del confine con la Siria, Abu Saleh ha detto che questo creerà una cintura di sicurezza importante per le città del Golan.
“Se diventerà permanente dipende dal nuovo regime siriano, dalla direzione che prenderà e dall'agenda che porterà avanti. Se vediamo che c'è un potenziale di pace e sappiamo con certezza che non si verificherà un'altra catastrofe come quella del 7 ottobre, allora l'importanza del cuscinetto sarà riconsiderata”, ha detto. “Tuttavia, se ci rendiamo conto che i gruppi terroristici potrebbero prendere il sopravvento, non c'è dubbio che questo cuscinetto debba diventare permanente”.
Abu Saleh ha aggiunto: “Entrambe le parti hanno l'opportunità di portare avanti un'agenda per una Siria libera e democratica con rispetto per tutti e per relazioni economiche tra Israele e Siria”.
I drusi della vecchia generazione delle Alture del Golan hanno quasi tutti rifiutato la cittadinanza israeliana e mantenuto la propria identità di siriani che vivono sotto “occupazione”. Tuttavia, Abu Saleh ha notato che dalla caduta di Assad, un numero maggiore di drusi ha richiesto la cittadinanza israeliana.
“Lo Stato di Israele ha dimostrato di saper affrontare le minacce e di lottare per i suoi cittadini e residenti su molti fronti”, ha dichiarato. “La cintura di sicurezza ha ravvivato la discussione sulla creazione di uno Stato druso indipendente [in Siria]. La gente vuole essere sicura di avere la cittadinanza [israeliana], se c'è qualcosa di concreto. La maggior parte dei drusi non vuole un proprio Stato ed è fedele al Paese in cui vive”, ha aggiunto.

Il futuro di Siria e Israele
   Abu Saleh ritiene che la Siria “sarà divisa in due o tre territori. C'è la possibilità che la Siria sia unita, ma in pratica ci sono molte forze che perseguono la propria agenda. Penso che in alcuni luoghi ci saranno sunniti, in altri curdi e anche aree miste”.
Nabih al-Halabi, cantante, esperto di ambiente e specialista di servizi comunitari che vive stabilmente in Israele, ha detto di non essere mai stato in Siria e di non avere la cittadinanza siriana. “Tuttavia - ha aggiunto -, abbiamo mantenuto la parte siriana della nostra identità perché credevamo che un giorno ci sarebbe stata la pace e saremmo potuti tornare a essere siriani”.
Parlando con JNS nella città drusa di Buq'ata, a sud di Majdal Shams, al-Halabi ha detto: “Questo è il conflitto in cui viviamo: siamo in parte israeliani e in parte siriani. Credo che useremo questa esperienza per essere un ponte di pace tra le nostre due comunità”.
Per al-Halabi, la caduta di Assad avvicinerà i drusi del Golan alla Siria.
“Penso che questa sarà la nuova era della Siria. I siriani non accetteranno un'altra dittatura. C'è la speranza che la Siria sia stabile e diventi un regime democratico. Nei prossimi mesi ci saranno le elezioni e il messaggio al popolo israeliano sarà di pace”, ha detto.
“Per noi drusi delle alture del Golan, il messaggio sarà che dobbiamo prepararci a un riavvicinamento con i siriani”, ha proseguito. “Ho molti amici israeliani e abbiamo parlato di pranzare a Tel Aviv e cenare a Damasco”.

Una Siria unita?

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Il tenente colonnello Stéphane parla con i giornalisti presso il quartier generale (prima del 1967) dell'esercito siriano nel Golan, 19 dic 2024

Il tenente colonnello in pensione Stéphane Cohen, capo del dipartimento OSINT (Open Source Intelligence) presso il Data Analytics Centre dell'Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv, ritiene che unificare la Siria sarà una sfida.
“Per molti anni, diversi partiti hanno cercato di unificare la Siria, sia attraverso il baathismo che il nazionalismo siriano”, ha dichiarato Cohen al JNS. “Ci sono i curdi a est dell'Eufrate, gli alawiti sulla costa, i drusi a sud e la maggioranza sunnita che controlla Hama, Aleppo e parte di Damasco. Sarà difficile per [il leader dei ribelli Abu Mohammad] al-Julani unire i siriani in un unico Stato”.
Cohen ha sottolineato lo sviluppo del movimento politico di al-Julani, che è ancora ancorato all'islamismo sunnita ma si è riposizionato come forza modernizzatrice.
“Ci saranno elezioni in Siria e riusciranno a scrivere una nuova costituzione? E che aspetto avrà questa costituzione?”, ha chiesto.
Se il futuro governo non otterrà il controllo dell'intero territorio, c'è il rischio che gruppi come lo Stato Islamico e forse anche gruppi filo-iraniani riprendano forza.

(Israel Heute, 7 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Gaza: gli Emirati Arabi Uniti propongono un'amministrazione temporanea postbellica

Gli Emirati propongono una cogestione americano-emiratina di Gaza dopo la guerra, subordinata a una roadmap verso uno Stato palestinese.

Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) si sono detti pronti a partecipare all'amministrazione temporanea di Gaza insieme agli Stati Uniti, secondo un sondaggio Reuters condotto tra 12 diplomatici e funzionari occidentali. La proposta arriva mentre proseguono i negoziati tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco temporaneo e il rilascio parziale degli ostaggi.

Un alto funzionario emiratino ha dichiarato che tale partecipazione è subordinata a “una significativa riforma dell'Autorità Palestinese, al suo rafforzamento e alla creazione di una roadmap credibile verso uno Stato palestinese”. Queste condizioni, attualmente assenti, sono considerate “essenziali per il successo di qualsiasi piano postbellico per Gaza”.

Secondo fonti diplomatiche, l'amministrazione provvisoria proposta supervisionerebbe la governance, la sicurezza e la ricostruzione di Gaza fino al trasferimento dei poteri a un'Autorità palestinese riformata. Sebbene il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si opponga fermamente a questo piano, i diplomatici sottolineano che gli Emirati Arabi Uniti, grazie ai loro rapporti di pace con Israele, hanno “influenza” sul governo israeliano.

Gli Emirati hanno anche ventilato la possibilità di nominare un nuovo primo ministro palestinese, citando l'esempio di Salam Fayyad, ex leader dell'Autorità palestinese dal 2007 al 2013. Il piano emiratino prevede anche l'utilizzo di società di sicurezza private per formare una “forza di pace” a Gaza, una proposta che sta suscitando preoccupazione in Occidente.

Due ex funzionari israeliani hanno dichiarato a Reuters che, nonostante le critiche degli Emirati a Netanyahu durante la guerra, Israele vuole vedere gli Emirati coinvolti nell'amministrazione postbellica di Gaza. A differenza del Qatar, gli Emirati Arabi Uniti vedono Hamas e altre organizzazioni islamiste come “forze destabilizzanti” e sottolineano l'importanza della stabilità regionale per lo sviluppo economico.

(i24, 7 gennaio 2025)

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Ritrovato antico Mikvè risalente al Secondo Tempio di Gerusalemme

di Michelle Zarfati

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Un Mikvè (bagno rituale ebraico), intonacato datato al periodo del Secondo Tempio, è stato recentemente scoperto durante alcuni lavori di scavo vicino all’antico canale di drenaggio nella città di Davide, a circa 60 metri a sud del Monte del Tempio, a Gerusalemme.
  “La scoperta di questo piccolo Mikvè, apparentemente per uso privato, fornisce ulteriori prove che questa zona della città ospitava ricchi residenti ebrei. Un Mikvè privato era un lusso che non tutti potevano permettersi”, hanno spiegato in una dichiarazione gli archeologi Shlomo Greenberg, Riki Zlot Har-Tov e Peller Heber, che hanno guidato lo scavo per conto dell’Autorità israeliana per l’antichità.
  Il bagno rituale è stato trovato adiacente a quello che all’epoca era il canale di drenaggio centrale, che trasportava principalmente l’acqua piovana. La Città di Davide e l’Autorità per le Antichità d’Israele hanno notato che il bagno rituale offre un raro sguardo sulla vita quotidiana dei residenti di Gerusalemme alla vigilia della distruzione del Secondo Tempio. Il bagno, profondo circa due metri, presentava cinque gradini ed è stato scoperto sotto i resti di una casa, insieme ad alcuni pavimenti e detriti che sono crollati durante la distruzione. All’interno sono stati trovati anche vasi di pietra, caratteristici della popolazione ebraica e frammenti di ceramica risalenti al primo periodo romano.
  “Questo Mikvè è particolarmente raro perché è stato scoperto intatto ed è il secondo ad essere dissotterrato finora durante gli scavi della strada a gradini vicino al canale di drenaggio nella Città di Davide” hanno aggiunto i ricercatori.

(Shalom, 7 gennaio 2025)

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Bye Bye Germany. C'era una volta in Germania e quella storia vera dietro il film

Sam Garbarski firma un altro tassello nella ricostruzione dell'Olocausto con Bye Bye Germany, la storia di come gli ebrei tentarono di ripartire dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

di Ileana Dugato

MILANO - È una storia che conosciamo tutti, anche fin troppo bene. Sarebbe persino difficile fare un conteggio tra i film e i romanzi che raccontano di uno dei periodi più bui della Storia, la Shoah. Quello che però viene raccontato meno è quello che successe dopo, quando la Seconda Guerra Mondiale finì e tutti, ebrei in primis, dovettero fare i conti con quello che era accaduto. È quello che ha fatto il regista belga Sam Garbarski con il suo Bye Bye Germany, titolo alternativo: Es war einmal in Deutschland. La storia, che è tratta dai romanzi Die Teilachere Machloikes dello scrittore svizzero-tedesco Michel Bergmann, si concentra proprio sul periodo immediatamente dopo la fine del conflitto mondiale, nel 1946.
  È l'epopea del popolo ebraico che, sopravvissuto allo sterminio e ai campi di concentramento, deve riprendere in mano la propria vita e andare avanti. Ma come? Seguiamo allora la storia, a Francoforte, di un gruppo di famiglie che tentano di tornare a una parvenza di quotidianità. I figli, guidati da David (Moritz Bleibtreu), si danno da fare per ridare vita all'attività di famiglia, vendendo biancheria intima, per mettere da parte una cifra consistente di denaro. L'obiettivo, comune a quello della maggior parte degli ebrei in quel momento, era lasciare la Germania e mettersi in viaggio, fondamentalmente verso due direzioni opposte. C'era chi voleva raggiungere gli Stati Uniti, e da lì ricostruire da capo un futuro, e chi invece voleva tornare in Palestina, e ritrovare le proprie radici.
  E sono ispirate a fatti veramente accaduti anche le vicende della piccola banda di venditori di Francoforte che, tra stratagemmi e trovate fantasiose, tentato in tutti i modi di diventare dei maghi delle vendite, come quando convincono i clienti a comprare la loro biancheria facendola passare come stoffa raffinata da Parigi. La storia è tuttavia tremendamente emblema della realtà. Bergmann prima, e Garbarski poi, hanno posto l'accento su una versione che spesso viene dimenticata o lasciata in disparte. Una vicenda piccola come quella di una famiglia che sogna di andare Oltreoceano diventa così il simbolo di un popolo costretto ad abbandonare quella che fino a pochi anni prima avevano considerato una patria, dovendo anche fare i conti con i traumatici ricordi della carneficina che si era consumata su quel suolo e di cui essi stessi erano stati il bersaglio.
  Ma non solo. Perché con Bye Bye Germany- che troviamo oggi in streaming su Tim Vision e Prime Video - scopriamo anche che, in realtà, ci furono invece degli ebrei che, nonostante tutto, decisero di restare in Germania. Si trattava di poche migliaia, ma comunque si rifiutarono di partire e scelsero (inspiegabilmente? Questa è un'altra storia) di rimanere. Insomma, Michel Bergmann non ha raccontato la storia dell'Olocausto ma quella di una ripartenza, un termine che oggi conosciamo così bene e che eppure forse non abbiamo mai associato con quel periodo, o forse non ci abbiamo mai pensato. In ogni caso, come sempre, è bene ricordare. Sempre.

(msn, 7 gennaio 2025)

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Napoli – Via dalla guerra, una serata in pizzeria per 16 soldati

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Nella sinagoga di Napoli domenica c’erano in visita 16 soldati israeliani feriti nel conflitto, alcuni in modo grave. Ma non si è parlato di guerra.
«Dopo le esperienze che hanno passato, cercavano una giornata per distrarsi. E noi abbiamo fatto di tutto per farli stare bene», racconta Daniele Coppin, consigliere e portavoce della Comunità ebraica. I 16 soldati hanno scoperto Napoli in compagnia di una guida messa a disposizione dalla Comunità, hanno visitato sinagoga e locali comunitari, sono stati a cena insieme al rabbino Cesare Moscati e ai rappresentanti della Comunità in una pizzeria “kasherizzata” per l’occasione. Tutto, spiega Coppin, all’insegna «della massima spensieratezza».
  Un gruppo eterogeneo di ospiti, espressione delle tante anime del paese di cui indossano la divisa. Israele, ha affermato nel suo saluto il rabbino Moscati, è «democrazia vera per tutti: ebrei e musulmani, drusi, beduini e cristiani». Accompagnava il gruppo l’ex presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, che ha organizzato il loro arrivo in Italia.

(moked, 6 gennaio 2025)

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Odem, la scuola per gli agenti segreti israeliani del futuro

di Ruben Caivano

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Nascosta tra le colline delle alture del Golan, nella città di Katzrin, c’è una scuola superiore d’élite che istruisce i futuri leader delle agenzie di intelligence israeliane. Il programma “Odem”, il cui nome significa “rubino” in ebraico, identifica già dal nono anno gli studenti con il potenziale per entrare nel Mossad e nello Shin Bet, e li prepara attraverso un rigoroso percorso accademico e formativo.
  Ynet ha realizzato un approfondimento su questo particolare percorso di formazione, ascoltando anche le voci di alcuni dei suoi studenti.
  Gli studenti, chiamati per lettera in codice invece che con il loro nome completo, provengono da tutte le parti di Israele. Il programma Odem è stato creato per affrontare la crescente necessità di nuovi talenti del settore tecnologico per le principali unità di sicurezza del Paese. A gestire questa iniziativa senza precedenti sono il Ministero della Difesa, il Ministero dell’Istruzione, l’esercito israeliano (IDF), il Mossad e lo Shin Bet.
  Il percorso termina con il diploma e l’accesso al corso di ingegneria elettronica presso la prestigiosa università Technion di Haifa. Gli studenti partecipano inoltre a progetti avanzati in collaborazione con le forze di sicurezza israeliane, acquisendo un’esperienza unica che li prepara a sei anni di servizio militare, durante i quali ricopriranno ruoli chiave nello Shin Bet e nel Mossad.
  Odem si distingue anche per l’attenzione all’uguaglianza di genere e di provenienza. Attualmente, infatti, il 38% dei partecipanti sono donne e il 40% degli studenti proviene dalle regioni settentrionali e meridionali del Paese. L’obiettivo, come dichiarato dai responsabili del programma, è portare entrambe le cifre al 50%. Questa diversità è un fattore importante poiché offre opportunità anche a giovani talenti di aree periferiche spesso meno rappresentate nei percorsi d’élite.
  A., uno studente del 12° anno di Kiryat Shmona, ha raccontato come il programma abbia risposto perfettamente alle sue ambizioni. “Voglio svolgere un ruolo significativo in cui le mie competenze possano contribuire al mio Paese. Dopo il 7 ottobre, è chiaro quanto sia essenziale questo programma”, ha detto, riferendosi agli eventi recenti che hanno sottolineato la necessità di una sicurezza avanzata. “Nello Shin Bet e nel Mossad, raramente ricevi credito per le tue azioni e nessuno potrebbe mai sapere che sei stato tu ad agire. Per me, questa è la bellezza”.
  Anche S., una studentessa del 12° anno proveniente da una comunità al confine con Gaza e cresciuta in una zona soggetta a costanti minacce, ha trovato nell’educazione ricevuta un’opportunità per contribuire in modo concreto alla sicurezza di Israele. “Nella guerra attuale, il ruolo della tecnologia è primario. Ho sempre voluto capire il lavoro di coloro che sono nell’ombra. La mia ambizione è essere uno di loro, proteggendo gli altri in silenzio, assicurandomi che nessuno si renda conto delle minacce sventate”.
  Odem, dunque, non è soltanto un programma scolastico ed educativo, ma un modello innovativo che combina l’eccellenza accademica alla preparazione militare. In un Paese in cui la sicurezza è una priorità assoluta, questa iniziativa rappresenta un investimento strategico per il futuro.

(Shalom, 6 gennaio 2025)

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Israeliano sopravvissuto al 7 ottobre costretto a fuggire dal Brasile perché indagato in quanto ex soldato a Gaza

di Ludovica Iacovacci

Cresce sempre di più il rischio per i soldati israeliani di essere arrestati all’estero dopo aver prestato servizio a Gaza. Se un soldato di qualsiasi Paese del mondo lasciasse la propria patria per recarsi altrove (per farsi una vacanza, per andare a trovare dei parenti, per ricevere delle cure o per qualsivoglia ragione una persona si recasse in uno Stato straniero) difficilmente sarebbe costretto a lasciarlo perché indagato dalla magistratura locale in quanto appartenente ad un esercito regolare che sta combattendo una guerra. Quello che succede ai soldati di Israele però non è ciò che accade a tutti gli altri soldati del mondo, non rientra nella definizione di ordinario, di normale. Per i soldati israeliani è meglio non lasciare il proprio Paese: per loro non è così difficile essere indagati da una magistratura straniera.

• La vicenda
  Il 5 gennaio 2025, la giustizia brasiliana ha ordinato alla Polícia Federal (PF) di avviare un’inchiesta su un soldato israeliano che si trovava in Brasile. Il militare, combattente di Tzahal (l’esercito israeliano), è accusato di essere coinvolto in presunti crimini di guerra durante il conflitto tra Israele e Hamas a Gaza. La decisione è arrivata dopo le denunce da parte dell’organizzazione anti-israeliana Fondazione Hind Rajab (HRF), un gruppo filopalestinese di recente istituzione in Belgio, che accusa il soldato di aver partecipato a “massicce demolizioni di abitazioni civili a Gaza, nel mezzo di una campagna sistematica di distruzione”.
Il soldato israeliano coinvolto nella controversia è stato identificato come uno dei sopravvissuti all’attacco perpetrato dai terroristi di Hamas al Nova Festival, uno dei luoghi del massacro dell’organizzazione terroristica nel sud di Israele in cui i terroristi hanno ucciso circa 1.200 persone, per lo più civili, e hanno preso 251 ostaggi, dando inizio alla guerra in corso a Gaza.
Domenica 5 gennaio il Ministero degli Esteri israeliano ha detto che il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar aveva ordinato alla Sezione Consolare del ministero e all’ambasciata in Brasile di contattare il soldato e la sua famiglia, che “lo hanno accompagnato per la durata del suo soggiorno fino alla sua rapida e sicura partenza dal Brasile”. Il soldato è riuscito a lasciare il Paese. Ore prima, la sua famiglia aveva detto all’emittente pubblica Kan che non era stato arrestato e che stava ricevendo l’aiuto di cui aveva bisogno per andarsene. “Credo che troveranno la strada di casa sani e salvi, ma dobbiamo assicurarci che conoscano la verità sul soldato. Non è un sospettato; è un soldato che ha attraversato l’inferno”, ha detto il padre.
“Non può essere che i soldati dell’IDF – sia il servizio regolare che i riservisti – abbiano paura di fare un viaggio all’estero per paura di essere arrestati”, ha detto il leader dell’opposizione, Yair Lapid, che scrive come il soldato “è stato costretto a fuggire dal Brasile nel cuore della notte per evitare di essere arrestato per aver combattuto a Gaza”.
Fondazione Hind Rajab è una organizzazione che identifica i soldati israeliani attraverso i contenuti dei social media che pubblicano delle loro operazioni a Gaza. Dopodiché, l’organizzazione avvisa le forze dell’ordine locali quando i soldati viaggiano all’estero nel tentativo di farli arrestare. HRF ha anche chiesto l’arresto dei soldati israeliani in visita in Thailandia, Sri Lanka, Cile e altri Paesi, secondo il suo sito web, ma non c’è alcuna conferma che alcun soldato israeliano sia stato detenuto o arrestato a seguito dei casi per i quali ha sollevato l’attenzione.
Il presidente attuale del Brasile è Luiz  Inacio Lula Da Silva, tornato alla massima carica verdeoro in seguito delle elezioni del 2022, il quale riguardo al conflitto in corso a Gaza ha accusato Israele di “genocidio” affermando che le azioni dello Stato ebraico sono come quelle di Hitler.

(Bet Magazine Mosaico, 6 gennaio 2025)

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Dopo la Siria l’Iran teme di perdere influenza anche in Iraq

di Haamid B. al-Mu’tasim

L’Iran sta probabilmente adottando una serie di misure per prevenire l’instabilità in Iraq dopo la caduta del regime di Assad.
Il comandante della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniano (IRGC) Esmail Ghaani è arrivato a Baghdad il 5 gennaio per incontri segreti con alti funzionari iracheni e comandanti di milizia per discutere di “ristrutturazione”, ha riferito una fonte informata.
Ghaani incontrerà presumibilmente il primo ministro iracheno, i leader delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF) e il “comandante delle forze armate” iracheno.
Ghaani e l’IRGC molto probabilmente discuteranno anche della caduta del regime di Assad con questi leader iracheni chiave.
I numerosi elementi della milizia che si sono ritirati dalla Siria presumibilmente dovranno anche essere riorganizzati.
La Brigata delle Forze Speciali delle Forze di Terra dell’IRGC ha recentemente condotto esercitazioni militari nella provincia occidentale di Kermanshah e le Forze di Terra iraniane di Artesh hanno schierato diverse brigate nell’Iran occidentale per affrontare gruppi ostili volti a creare instabilità sul confine occidentale dell’Iran con l’Iraq, a dimostrazione della preoccupazione dell’Iran per la minaccia rappresentata dall’insicurezza in Iraq.
I media affiliati all’IRGC hanno pubblicato un editoriale che evidenzia alcune delle probabili preoccupazioni che l’Iran ha dopo la caduta della Siria.
L’editoriale sosteneva che l’insicurezza politica in Siria potrebbe essere trasportata in Iraq da terroristi che entrano nel paese con lo scopo di uccidere funzionari iracheni chiave per causare insicurezza e destabilizzare il paese.
Salman al Maliki di Tasnim ha affermato che altre potenze, come gli Stati Uniti e Israele, avrebbero cercato di sfruttare un vuoto di potere in Iraq per i propri interessi. L’Iran ritiene regolarmente gli Stati Uniti e Israele responsabili della formazione dello Stato islamico in Iraq e Siria (ISIS) e potrebbe concludere che gli attacchi dell’ISIS che prendono di mira ufficiali e funzionari militari iracheni sono incoraggiati dagli Stati Uniti e da Israele.
Maliki potrebbe anche riferirsi ad attacchi di rappresaglia israeliani o statunitensi contro obiettivi della milizia in risposta a futuri attacchi contro Israele o le basi statunitensi. Maliki ha esortato l’Iraq a creare un consiglio politico e militare congiunto per affrontare queste minacce alla sicurezza, condividere l’intelligence e rispondere al terrorismo nell’editoriale.
I media iraniani continuano ad alimentare il conflitto settario sul santuario sciita Sayyida Zeinab a Damasco.
Tabnak ha riferito che un comandante legato a HTS è entrato nel santuario Sayyida Zeinab a Damasco e ha ripetuto “frasi settarie e sarcastiche”. Tabnak ha affermato che il video provocatorio potrebbe indurre gli sciiti e gli alawiti in Siria a rispondere con “azioni dure”. Tabnak ha precedentemente affermato che i combattenti di HTS hanno minacciato la sicurezza del sacro santuario sciita.
Syrian Popular Resistance, che è un canale Telegran presumibilmente siriano che sposa narrazioni settarie, ha accusato il governo guidato da HTS di aver ucciso sei lavoratori del santuario di Sayyida Zeinab dopo che sei cadaveri sarebbero stati trovati il 5 gennaio.
Il canale non ha fornito prove delle morti o se le uccisioni fossero motivate da violenza settaria. Questa è anche la prima volta che il canale ha parlato di Sayyida Zeinab, il che è degno di nota dato che la maggior parte delle affermazioni sul santuario provengono dallo spazio informativo iraniano.

(Rights Reporter, 6 gennaio 2025)

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Svastiche e adesivi contro gli ebrei rovinano ancora la festa del derby

Scritte antisemite fatte girare dalle opposte tifoserie. Prima del match trovare mazze e bombe carta vicino allo stadio.

di Luca Monaco e Andrea Ossino

Tornano svastiche, adesivi e striscioni antisemiti. Il primo derby della capitale celebrato in notturna dopo sei anni coincide con il ritorno dei tifosi xenofobi. L’intera giornata pre-partita in realtà è stata scandita da diversi momenti di tensione. La polizia prima dell’incontro ha trovato un arsenale tra le fioriere di ponte Milvio, sponda biancoceleste, e anche vicino al River bar, punto di ritrovo dei romanisti sul lungotevere.
Decine di mazze da baseball, bastoni trasformate in lance con le lame fissate sull’estremità e coltelli erano nascosti nei pressi dell’Olimpico.
Che le due tifoserie volessero venire a contatto era già noto dall’ora di pranzo, quando due gruppi composti da un centinaio di tifosi ognuno hanno cercato di scontrarsi venendo bloccati dalla polizia. Un ragazzo è anche stato fermato mentre cercava di entrare allo stadio con un cacciavite. E poi una pioggia di petardi durata due ore: uno è anche esploso sotto una macchina elettrica andata in fiamme.
Il tutto all’ombra dei manifesti e degli adesivi antisemiti con la stella di David fatti girare dalle opposte tifoserie. Perché la notte prima della partita, sabato, uno striscione è stato esposto sul cavalcavia della Tangenziale est: «Laziale ebreo», corredato da due svastiche. Ieri circolavano tra i tifosi adesivi con il “Asr” al centro una stella di David e altri con i colori della Lazio . Insulti antisemiti.
Non sono i primi ma gli ultimi di una lunga serie di episodi analoghi. Lo scorso settembre gli ultrà giallorossi del “Gruppo Roma”, in occasione della partita contro l’Udinese, si sono dati appuntamento sul ponte Duca D’Aosta srotolando uno striscione con la scritta “Roma Marcia Ancora” e al centro una X. Un chiaro riferimento al fascismo e alla X Flottiglia MAS. La sera dello scorso 22 Luglio per i 97 anni della Roma, centinaia di tifosi hanno invaso le strade del centro. Un compleanno macchiato da alcuni ragazzi che sotto il balcone di Piazza Venezia hanno intonato un coro che richiama “Faccetta nera”, con tanto di saluti romani.

• Derby Roma-Lazio, il corteo degli ultras biancocelesti tra cori e lanci di petardi
  Anche dall’altra parte della curva è possibile assistere a scene simili. È di qualche mese fa infatti la decisione della procura di Roma di processare 7 tifosi laziali per i cori i durante il derby dello scorso 19 marzo. Sono accusati di istigazione a delinquere e di discriminazione razziale e religiosa. Secondo le accuse avrebbero intonato un coro che recitava: «In sinagoga vai a pregare, ti faremo sempre scappare, romanista vaff…».
Negli annali c’è anche l’ex difensore biancoceleste Stefan Radu che dopo aver appeso gli scarpini al chiodo è andato ad assistere al derby in curva Nord ed è stato fotografato con un polsino della manica sinistra della sua felpa che riportava la scritta SS Lazio, il nome della società, ma con le due S che riproducono il carattere delle SS di Adolf Hitler.
Ed era sempre un derby, nel 2023, quando un tifoso tedesco aveva indossato la maglia con la scritta “Hitlerson 88”, ovvero il simbolo utilizzato dai gruppi neonazisti come saluto ad Adolf Hitler. Il volto nero della tifoseria laziale era poi finito al centro di un’indagine della polizia. Il nostalgico tifoso era quindi stato identificato e denunciato. Il caso più eclatante è quello avvenuto l’ottobre del 2017, quando durante Lazio-Cagliari in curva erano stati affissi degli adesivi di Anna Frank con la maglia della Roma. Anche in quel caso la vicenda era finita in procura.

(la Repubblica, 6 gennaio 2025)

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Il Novy God degli ebrei di lingua russa

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Avete mai sentito parlare del Novy God? Gli ebrei di origine russa, a partire da quelli emigrati in Israele, lo conoscono bene. È la loro peculiare declinazione del Capodanno civile, ma è anche un modo «per far rivivere tradizioni che si stanno erodendo man mano che i collegamenti con il nostro passato post-sovietico si dissipano». Lo racconta la giornalista Yulia Karra, sul sito Israel21c.
  Il “rito” del Novy God si è ripetuto anche quest’anno, a cavallo tra le ultime ore del 2024 e le prime del 2025. Prima con la simultanea sintonizzazione, in varie case israeliane con questo retaggio familiare, su canali televisivi in lingua russa. E poi con l’intonazione di canzoni del Novy God dell’era sovietica. Quelle, scrive Karra, «che ci cantavano le nostre nonne». Con l’approssimarsi della mezzanotte arriva poi il momento del brindisi. In alto i calici di champagne ed è anche tradizione addentare un cracker spalmato di caviale. Cose «inimmaginabili» nell’Urss, si legge.
  Novy God ha varie analogie estetiche con il Natale, spiega la giornalista: un abete decorato, lucine e un personaggio dalla lunga barba «che somiglia sospettosamente a Babbo Natale». Non è però una festa cristiana, precisa Karra, anche se la sua origine è inevitabilmente connessa alla messa al bando del Natale decretata nel 1929 dal partito comunista, quando ogni festività religiosa fu accantonata dal regime per ragioni ideologiche. Col tempo Novy God divenne quindi in qualche modo un surrogato, prosciugato del significato originario e diffuso anche in ambienti non cristiani.
  Oggi, scrive Karra, la festa di Novy God è celebrata nei paesi post-sovietici e in tutta la diaspora innescata dal crollo dell’Urss. In Israele ciò avviene in molte abitazioni dove vivono persone della grande comunità di lingua russa locale, circa 1.2 milioni di individui in tutto, arrivati in larga parte con le ondate migratorie degli anni Novanta. La ricorrenza è familiare a circa «il 72% degli israeliani», si apprende da un recente sondaggio, per quanto la maggioranza di essi (il 54%) «non la percepisca come parte della cultura israeliana».

(moked, 5 gennaio 2025)

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Diario minimo (di un conflitto). Obiettori di (in)coscienza

di Luciano Assin

Una frattura pressoché insanabile si è formata all’interno del mondo religioso ebraico in Israele dopo il pogrom del 7 ottobre. Da una parte le “kippot srugot” vale a dire il settore religioso parallelo a quello laico che è presente in tutti i campi della società israeliana e riesce a conciliare lo studio della Torah con la vita quotidiana. Dalla parte opposta il settore Haredì, traducibile un po' superficialmente come ultra ortodosso, che pone invece lo studio delle Sacre Scritture come scopo principale autoescludendosi così in maniera considerevole dalle problematiche quotidiane della società israeliana. Prima fra tutte l’esonero totale dal servizio militare obbligatorio.
In un periodo come quello attuale nel quale il paese è in guerra da 15 mesi, già adesso è da considerarsi il conflitto più lungo in assoluto mai combattuto da Israele dal giorno della sua fondazione,  è sempre più evidente il distacco e l’isolazionismo dei “timorati di Dio” dal resto della società israeliana.
Uno dei punti più bassi di questa diatriba che accompagna il paese dal momento della sua nascita è stato toccato questa settimana dal deputato Itzhak Pindarus, capogruppo del partito haredì Yahadut haTorah il quale durante un convegno ha affermato: “Non posso guardarli negli occhi, ma vedo il prezzo che pagano allontanandosi dalla religione, e questa è la risposta perché io non mi trovo fra loro”.
È interessante sottolineare che le statistiche parlano di un buon 8% di haredim che abbandonano la retta via e abbandonano la religione senza per questo aver fatto un solo giorno di servizio militare.
Un’affermazione del genere, com’era prevedibile, ha scatenato reazioni indignate soprattutto in campo religioso. Il peso dell’attuale conflitto è sopportato principalmente dai membri della riserva, uomini e donne dai 21 ai 40 anni, che hanno combattuto mediamente per centinaia di giorni durante il 2024. Oltre a rischiare la vita quotidianamente i riservisti devono occuparsi delle proprie famiglie e del proprio lavoro, un’impresa pressoché impossibile in un paese dove il costo della vita è fra i più alti del mondo occidentale.
Il prezzo pagato in vite umane fino ad ora è tale che già è evidente che il numero dei nuovi arruolati non basterà a rimpiazzare le perdite, questo significa che verrà allungato sia il periodo di servizio obbligatorio sia l’età di uscita dalla riserva. Un peso ancora maggiore per quella parte del paese che contribuisce più di tutti allo sviluppo economico e tecnologico del paese.
È quindi inconcepibile come in un momento come questo tutta la leadership del mondo haredì si opponga in blocco a qualsiasi modifica dell’attuale status quo, che esonera di fatto tutti i giovani del settore. I principali rabbini hanno sottolineato l’intoccabilità di questo privilegio allargandolo anche a chi non studia nelle Yeshivot, adducendo il fatto che l’esercito è un cattivo maestro e porterebbe la gioventù ad uscire dal seminato. In pratica il loro stesso establishment ammette che più che la fede è l’indottrinamento quotidiano l’unico collante che li tiene uniti.
Dall’alto della loro arroganza gli ultra ortodossi dividono il mondo religioso in fedeli di serie A e serie B, autopromuovendosi come i più puri rappresentanti dell’ebraismo. Il malcontento all’interno delle kippot srugot ha ormai superato il limite di tolleranza, la percentuale di caduti è praticamente il doppio rispetto alla loro percentuale in seno alla popolazione, e il timore del varo di una legge che permetta di esentare definitivamente i giovani haredim potrebbe rappresentare la classica goccia che fa traboccare il vaso.
I deputati ultra ortodossi sanno che senza il loro appoggio il governo di Netanyahu è destinato a cadere, cosa assolutamente in contrasto col loro principale interesse: ricevere quanti più fondi statali per il mantenimento e il rafforzamento di tutte le strutture educative,  sociali e assistenziali create in questi decenni. In questo estenuante braccio di ferro si arriverà presumibilmente ad un compromesso che permetta ad entrambi i contendenti di salvare la faccia.
Per il momento le uniche armi, alquanto spuntate, in mano all’esercito e al governo per  arruolare questi improbabili obiettori di (in)coscienza sono sanzioni economiche e detentive, mai veramente attuate in passato. D’altra parte una famosa locuzione ebraica afferma: “senza pane non c’è Torah”. È tutta una questione di soldi.
Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di ognuno di noi.

(Bet Magazine Mosaico, 5 gennaio 2025)

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Con gli iraniani, contro Israele: Francesco oltre tutte le linee rosse

Se per il Papa il 7 ottobre è la data di un incidente della resistenza dei poveri alla quale è seguito un genocidio perpetrato dallo stato ebraico, affari suoi. Bisogna sperare che si levino voci persuasive a difendere il diritto della chiesa a proclamare: non in mio nome. [Il risalto in colore è originale]

di Giuliano Ferrara

Ammicca alla teoria infame del genocidio, e altre bassezze, si accoda agli aspiranti carcerieri del capo del governo di Israele, perché Netanyahu non rispetta i diritti umani, e fa tutto questo a colloquio con una autorità accademica iraniana, dicasi iraniana. Le linee rosse le ha passate tutte, e malamente. Consegnando alla conversazione con un bonzo del regime di Teheran questo giudizio corrivo ma tragicamente errato su Israele e chi la rappresenta, ha fatto di più, si è mostrato colluso con chi detesta e combatte i diritti umani con ferocia nel condannare quello stato dell’esodo che è nato quasi un secolo fa, per volontà internazionale e per attaccamento patriottico e sionista, dopo la Shoah e nel segno del “mai più”.
Il Papa dovrebbe essere al servizio della chiesa cattolica, quel popolo di Dio che un gesuita di rango, il cardinale Angelo Bea creato da Giovanni XXIII, riscattò dall’oscurantismo antigiudaico millenario con la Nostra Aetate, quando Paolo VI sorvegliava il decorso del Concilio Vaticano II, una svolta millenaria che Wojtyla e Ratzinger innalzarono a una visione teologica sinagogale, unitiva, di affratellamento, della relazione con i fratelli maggiori del cristianesimo; avendo sostituito la teologia e il pensiero cristiano con l’ideologia, pauperismo ed ecologismo, ha imbruttito e avvilito invece la chiesa, se ne sta servendo per promuovere i risvolti più conformisti della sua teo-rumba ispirata al feticcio del popolo, rendendola nel suo assetto gerarchico complice del sentimento comune e dominante, la lontananza quando non il disprezzo per il popolo di Israele e per il suo tragico e disperato tentativo di restare in vita nel suo focolare nazionale, che oggi porta all’isolamento delle vittime del 7 ottobre e a una nuova diaspora europea, a una dispersione nell’umiliazione e nella paura dei discendenti dei campi di Auschwitz e Treblinka. 
Quella di Francesco non è una chiesa povera. La chiesa è sempre stata teologicamente povera, anche quando era ricca e rinascimentale, principesca e meretrice. Ora nella visione e prassi di questo Papa è diventata un linguaggio povero, peccato antievangelico, che consulta per riprodurlo il dizionario basico delle convenzioni e della bêtise diffusa nel secolo, un’agenzia banalmente progressista che non conserva l’odore dell’incenso e consegna dignità degli ordini e della liturgia al diavolo del sentimento dominante per immergersi nel tanfo pastorale delle pecore. La martoriata chiesa cattolica, uscita da un lungo ciclo papale aureolato di intelligenza, penetrazione antropologica, cultura, tradizione vivente e alta dottrina, rischia di diventare una arrogante organizzazione di settatori e idolatri della sofferenza come chiave universale per aprire le porte dell’ingiustizia e del malvivere ecclesiale e politico.
Se nel mondo c’è, e c’è, eccome, penuria di bene, di solidarietà, di compassione, di affetto e rispetto per i più vulnerabili e per i diseredati, predicare dalla montagna, come fece quel giovane ebreo chiamato Gesù Cristo, vuol dire cominciare dalla filiazione abramitica e mosaica, da quella inaudita e inspiegabile sequela di dolore, di discriminazione, di isolamento, di sterminio e di pogrom che ha avuto il suo culmine contemporaneo nel 7 ottobre.
Se per il Papa quella è la data di un incidente della resistenza dei poveri alla quale è seguito un genocidio perpetrato da un esercito e da uno stato ebraico, affari suoi e della sua compromissione con la più ordinaria e volgare ignoranza dei fatti. Bisogna sperare che si levino voci persuasive a difendere il diritto della chiesa a proclamare: non in mio nome.

Il Foglio, 5 gennaio 2025)
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Ferrara difende la causa di Israele, e fa bene, ma il suo richiamo a "quel giovane ebreo chiamato Gesù Cristo" fa capire che lui non lo conosce. E di ciò che non si conosce sarebbe meglio non parlare. M.C.

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A Herzliya il Museo di Arte Contemporanea presenta cinque mostre per un’inedita storia del tessile in Israele

di Claudia De Benedetti

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Il Museo di Arte contemporanea di Herzliya dedica per la prima volta tutto il suo spazio espositivo a cinque mostre di opere tessili, offrendo prospettive storiche e contemporanee sul tessile e sulla tessitura in Israele dagli anni ’30 ad oggi. Le mostre occupano l’intero museo con le opere di 37 artisti affermati ed emergenti e testimoniano lo sviluppo del settore, che in passato era percepito più come un’arte applicata, decorativa o artigianale,riflettono il modo in cui i creatori tessili cercano di formulare un linguaggio personale e unico, facendo riferimento a identità, radici, genere e influenze culturali. Da oltre un decennio è in atto una rinascita di mostre sulla storia della tessitura, della produzione tessile e della fiber art nei musei d’arte e nelle biennali d’arte contemporanea; il Museo di Herzliya ha deciso perciò di proporre un suo approfondimento. Due sono le mostre collettive: “Structures”, dedicata alla tessitura in Israele, esamina le transizioni dal funzionalismo alla fiber art. “Eternal Spring” propone gli arazzi realizzati nel laboratorio di Itche Mambush a EinHod dal 1966 al 1985, basati su dipinti di importanti artisti del periodo. Le altre tre sono mostre personali: i modelli di tessuto distintivi di Siona Shimshi creati dagli anni ’60 agli anni ’80, i dipinti di Fatima Abu Roomi, che per anni si è concentrata sulla produzione di autoritratti meticolosi e scrupolosi che incorporano pezzi di tessuti, tappeti e ricami tradizionali, sono presentati in una mostra accanto a un tappeto ornamentale fatto di capelli di donne, che ha creato in collaborazione con un gruppo di donne di Nazareth. La mostra di Gur Inbar comprende opere in ceramica e tessuti che abbinano l’estetica contemporanea con quella storica.
  Fino al 1° maggio 2025 sarà possibile apprezzare la complessità dei processi che mettono in relazione design e creazione artistica, transizioni tra produzione artigianale e meccanica, sovrapposizioni tra arte e arte applicata collegamenti tra periodi storici e materiali diversi, transizioni tra figurativo e astratto e molto altro.
  Aya Lurie, direttore e curatore capo del Museo, ha spiegato: “nell’ultimo decennio, il nostro programma espositivo si è impegnato nell’esplorazione di questi problemi, con il desiderio di far scoprire definizioni, di fondere insieme discipline, di riesaminare in vari modi opere familiari e dimenticate della collezione del Museo e di creare giustapposizioni intergenerazionali che offrono incontri ravvicinati con artisti diversi, nuovi, noti e dimenticati, da Israele e dall’estero, da prospettive interpretative contemporanee”.

(Shalom, 5 gennaio 2025)

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La salvezza viene dai giudei

di Marcello Cicchese

Per secoli gli ebrei hanno vissuto in diaspora e tuttora vi si trovano, anche se una parte minoritaria di loro è raccolta nello Stato d’Israele. E’ poco sottolineato il fatto che, dopo la morte di Cristo, la prima diaspora ebraica è stata costituita da ebrei che avevano creduto in Gesù come Messia:

    “Vi fu in quel tempo una grande persecuzione contro la chiesa che era in Gerusalemme. Tutti furono dispersi per le regioni della Giudea e della Samaria, salvo gli apostoli. [...] Allora quelli che erano dispersi se ne andarono di luogo in luogo, portando il lieto messaggio della Parola” (Atti 8:1,4).

Si noti però che come chiesa qui non s’intende la mastodontica multinazionale religiosa dei nostri tempi, ma un gruppo minoritario all’interno del popolo ebraico, che le circostanze hanno spinto a svolgere un compito specifico di Israele: essere luce delle nazioni. Il “lieto messaggio della Parola” infatti è stato accolto, con sorpresa di tutti, anche dai gentili, e anzi in misura maggiore che dagli ebrei. Pochi anni dopo, come conseguenza della conquista di Gerusalemme da parte dei romani, la quasi totalità del popolo ebraico andò in diaspora. Essendo stato distrutto il Tempio, è venuto di conseguenza a mancare l’elemento fondamentale per adorare Dio in modo conforme alla legge data da Mosè. Gesù però l’aveva preannunciato. 
Un giorno una donna “palestinese”, appartenente a una popolazione ostile che abitava nella Samaria, una zona contesa chiamata oggi Cisgiordania, ricordò a Gesù che tra ebrei e samaritani esisteva un contrasto insanabile a proposito dell’adorazione: per gli uni si doveva adorare Dio sul monte Sion a Gerusalemme, per gli altri sul monte Garizim, nelle vicinanze dell’attuale Nablus. Risposta:

    “Gesù le disse: «Donna, credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre»” (Giovanni 4:21).

«Finalmente una parola chiara!» diranno con entusiasmo gli ecumenici. «Basta con queste dispute su luoghi e forme di adorazione, basta con la pretesa di possedere in proprio la verità! La verità è che ciascuno, ebreo, cristiano, musulmano o altro che sia, deve essere libero di seguire la propria strada che conduce a Dio, purché lo faccia con convinzione e serietà. Seguendo ciascuno la propria via, arriveremo tutti all’unico vero Dio!» 
Quelli che parlano e operano in questo modo hanno effettivamente una cosa in comune: che adorano tutti quello che non conoscono. Ciascuno dice di avere la luce e si muovono tutti nelle tenebre dell’ignoranza. Il discorso fra la donna palestinese e l’ebreo Gesù continua così:

    “Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai giudei. Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità” (Giovanni 4:22-24).

Gesù rimarca subito le linee di confine fra “noi” e “voi”, proprio sul tema dell’adorazione. E’ una questione che riguarda conoscenza, spirito e verità: tutte cose che Dio ha consegnato ai giudei, non ai gentili. Il fatto che sia Gesù stesso a dire che “la salvezza viene dai giudei” ha come conseguenza che chi nega o deforma la verità di questa affermazione non rifiuta soltanto i giudei, ma Gesù stesso.
Davanti alla frase “l’ora viene, anzi è già venuta”, qualcuno potrebbe essere indotto a interpretarla in senso evolutivo-emancipatorio: dall’Antico Testamento degli ebrei, materiale e primitivo, si sarebbe passati al Nuovo Testamento dei cristiani, più spirituale ed evoluto. Ma questa, ancora una volta, è una lettura con occhi pagani di un testo ebraico. In questo passo, come in molti altri passi della Bibbia, l’ora è un tempo fissato da Dio per il compiersi di un fatto che Egli aveva già in precedenza stabilito. Alcuni esempi:

    Gesù le disse: «Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta»” (Giovanni 2:4).
    Cercavano perciò di arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso, perché l’ora sua non era ancora venuta” (Giovanni 7:30).
    Venne la terza volta e disse loro: «Dormite pure, ormai, e riposatevi! Basta! L’ora è venuta: ecco, il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori” (Marco 14:41).
    Mentre ero ogni giorno con voi nel tempio, non mi avete mai messo le mani addosso; ma questa è l’ora vostra, questa è la potenza delle tenebre»” (Luca 22:53).
    Gesù rispose loro, dicendo: «L’ora è venuta, che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato” (Giovanni 12:23).
    “L’ora viene, anzi è venuta, che sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me” (Giovanni 16:32).

Le parole di Gesù alla samaritana non annunciano dunque un’evoluzione dall’ebraismo al cristianesimo, ma il sopraggiungere, all’interno del piano di Dio rivelato a Israele, di un tempo particolare che porta a compimento quello precedente e di conseguenza se ne diversifica, preparando quello successivo, che sempre per lo stesso motivo sarà diverso. Vivere il presente tra un passato originario ormai compiuto che si rammemora con costanza e un futuro preannunciato che si desidera con ansia, è un modo di intendere e vivere la storia squisitamente biblico. Per gli ebrei è abbastanza facile capirlo; per i cristiani gentili un po’ meno. 
Nella cena pasquale ebraica il passato emerge nel ricordo dell’uscita dal paese d’Egitto e il futuro si delinea nell’auspicio finale “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Nella cena del Signore celebrata dai cristiani evangelici vengono lette spesso le parole di presentazione dell’apostolo Paolo:

    “... ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Corinzi 11:26).

La partecipazione all’atto viene di solito vissuta come un dramma intimo da interiorizzare nel segreto della propria coscienza. E’ una spiritualità cattolicheggiante di tipo pagano che rischia di essere assorbita anche da chi, volendo essere anticattolico senza preoccuparsi di essere veramente biblico, alla fine è costretto a imitare inconsciamente la mentalità e gli atteggiamenti di chi vuole contrastare. Si sarebbe molto più vicini alla spiritualità biblica se si tenesse conto del contesto ebraico in cui Gesù ha istituito questo rito. Anzitutto, non molti notano che nel testo biblico non si usa mai l’espressione “bere il vino”. Lo fanno notare gli antialcolisti, secondo i quali non si tratterebbe di vino ma di succo d’uva. Ma non è questo il punto. Il punto saliente sta nel calice. Le parole di Paolo sono queste:

    “Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga». Perciò, chiunque mangerà il pane o berrà dal calice del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ora ciascuno esamini sé stesso, e così mangi del pane e beva dal calice;” (1 Corinzi 11:26-28).

A Paolo sarebbe stato più semplice dire “... ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo vino”, per ben tre volte invece usa l’espressione “bere dal calice”. Perché questo fatto non viene attentamente osservato e adeguatamente commentato? Perché si pretende di essere biblici e non si pone seria attenzione al linguaggio usato della Scrittura? Alcuni sono convinti di essere gli ultimi credenti fedeli alla Bibbia rimasti in circolazione, ma poi non mostrano di essere davvero attenti a quello che la Bibbia realmente dice. Si rimane in un atteggiamento di tipo cattolico quando ci si appella formalmente alla Bibbia non per sottomettersi davvero alla sua autorità, ma per fondare sul richiamo ad essa la propria autorità. 
Il riferimento al calice è importante anzitutto perché Gesù ha istituito la sua commemorazione durante quello che gli ebrei chiamano il seder di Pessach, una cena solenne in cui si ricorda l’uscita del popolo dall’Egitto. Durante la cena viene offerta ai presenti una successione di calici, ciascuno dei quali ha un nome. Nel suo ultimo seder pasquale, a un certo momento Gesù ha compiuto un atto particolare:

    “... dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi” (Luca 22:20).

A questo si riferisce l’apostolo Paolo quando ricorda ai Corinzi:

    “Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga»” (1 Corinzi 11:25-26).

Gesù ha detto “questo è il mio corpo”, ma non ha mai detto “questo è il mio sangue”. Ha detto invece: “questo calice è il nuovo patto nel mio sangue”: non è la stessa cosa. Il calice dirige l’attenzione sul nuovo patto, e il riferimento al sangue ne sottolinea l’importanza, perché se tutti i patti dovevano essere accompagnati da un segno esteriore, i patti particolarmente importanti dovevano essere siglati da versamento di sangue. L’importanza unica di questo nuovo patto sta appunto nel fatto che per siglarlo è stato necessario il versamento del sangue del Figlio di Dio. 
In che cosa consiste questo nuovo patto? Chi sono i contraenti? Uno di essi certamente è Dio, ma l’altro chi è? “Siamo noi”, ha risposto una volta un anziano di chiesa, intendendo naturalmente “noi veri cristiani nati di nuovo”. Che cosa dice invece la Bibbia?

    “Infatti Dio, biasimando il popolo, dice: «Ecco i giorni vengono, dice il Signore, che io concluderò con la casa d’Israele e con la casa di Giuda, un patto nuovo; non come il patto che feci con i loro padri nel giorno in cui li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto; perché essi non hanno perseverato nel mio patto, e io, a mia volta, non mi sono curato di loro, dice il Signore. Questo è il patto che farò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: io metterò le mie leggi nelle loro menti, le scriverò sui loro cuori; e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo. Nessuno istruirà più il proprio concittadino e nessuno il proprio fratello, dicendo: “Conosci il Signore!” Perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro. Perché avrò misericordia delle loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati»” (Ebrei 8:8-12).

L’autore qui cita quasi letteralmente un brano del profeta Geremia (31:31-34). Non si tratta dunque di una novità rispetto a Israele, ma di una successione temporale all’interno del piano salvifico promesso da Dio a Israele. Che questo patto, per sua specifica natura, sia in benedizione non solo agli ebrei ma anche ai gentili, corrisponde precisamente alla funzione di Israele di essere “luce delle nazioni”. L’apostolo Paolo parla di “calice della benedizione che noi benediciamo” (1 Corinzi, 10:16): il semplice fatto di bere da quel calice dovrebbe ricordare a chiunque vi partecipa che “la salvezza viene dai giudei”, e che su di lui scende la benedizione proveniente da un patto che Dio ha concluso “con la casa d’Israele e con la casa di Giuda”.

(da "Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo")



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Pensieri sullo Shabbat

Lettura settimanale - וַיִּגַּשׁ- Wa`Jigash - Si avvicinò ; Genesi 44:18 - 47:27 ; Ezechiele 37:15 - 28
I cinque libri di Mosè raccontano la storia del popolo d'Israele, dalla creazione del mondo alla redenzione nella Terra Promessa che Dio aveva promesso ad Abramo. Questi cinque libri sono suddivisi in letture settimanali. Venticinque anni fa, mio padre Ludwig Schneider scrisse il libro “Le chiavi della Torah”per accompagnare le 54 letture settimanali. Un filo messianico di sofferenza attraverso la Torah. La Torah ha 70 facce, si dice in ebraico. Le letture settimanali della Torah aprono i nostri occhi e i nostri cuori all'intera Parola di Dio, la Bibbia. La Torah getta luce sull'intero testo biblico, e così ogni volta scopriamo qualcosa di nuovo che ci fa riflettere e rende la Bibbia attuale e viva. Aviel Schneider

di Anat Schneider

«Sono nata a Gerusalemme nel 1966 e sono cresciuta in una casa ebraica tradizionale. Ho incontrato per la prima volta il mio futuro marito Aviel, caporedattore di Israel Heute, in Jaffa Street, nel centro di Gerusalemme. Avevamo entrambi 16 anni. Insieme abbiamo cresciuto tre ragazzi e una ragazza. Oggi viviamo in un moshav nelle magiche montagne della Giudea. Il mio amore e la mia fede nella Bibbia sono parte integrante di ciò che sono e di come vivo la mia vita. E vivo con grande apprezzamento e gioia per tutto ciò che la vita mi ha dato».
Insieme ad Aviel, Anat fa parte di Israel Heute dal 1990. Oltre alle sue numerose responsabilità, scrive regolarmente articoli sulla Bibbia, sulla fede e sul Dio di Israele.

Nella lettura settimanale “Si avvicinò”, Giuseppe compie un'azione insolita. Quando si rivela ai suoi fratelli, si rende conto che questo li scuoterà e susciterà in loro sentimenti di colpa per le circostanze della sua discesa in Egitto. Offre quindi una nuova interpretazione del passato e della storia della famiglia. Giuseppe disse ai suoi fratelli: “Avvicinatevi a me! E quando si avvicinarono, disse loro: Io sono Giuseppe, vostro fratello, che avete venduto in Egitto. E ora non vi affliggete e non vi arrabbiate perché mi avete venduto qui, perché Dio mi ha mandato davanti a voi per salvarvi la vita. Perché questo è il secondo anno di carestia nel paese e ci saranno altri cinque anni senza aratura né raccolto. Ma Dio mi ha mandato qui davanti a voi perché restiate sulla terra e vi tenga in vita per una grande salvezza. E ora, non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio, che mi ha reso padre del faraone e signore di tutta la sua casa e sovrano di tutto il paese d'Egitto”. Tra l'altro, questo è un meraviglioso parallelo tra Giuseppe e il Messia, secondo il quale Gesù un giorno si farà conoscere dal popolo d'Israele.
Questo resoconto degli eventi differisce fondamentalmente da quello che Giuseppe raccontò in prigione al custode del dono: “sono stato rapito dalla terra degli Ebrei e non ho fatto nulla qui per cui dovrei essere imprigionato”. Allora si trattava di una storia di rapimento e di ingiustizia. Ora Giuseppe racconta una storia di provvidenza divina e di redenzione. “Non siete stati voi”, dice ai suoi fratelli, ‘è stato Dio’. Siamo tutti parte di un grande piano. E anche se le cose sono iniziate male, poi sono finite bene. Quindi non biasimate voi stessi. E non abbiate paura del mio desiderio di vendetta. Non ho questo desiderio, perché capisco che tutti noi siamo stati messi nelle mani di un potere più grande di noi e della nostra capacità di comprensione”. Così Giuseppe rassicura i suoi fratelli.
Anni dopo, alla morte di Giacobbe, i fratelli temono che Giuseppe abbia aspettato questo momento per vendicarsi e si offrono a lui come schiavi. Anche allora Giuseppe li rassicura di nuovo: “Giuseppe disse loro: 'Non temete! Sono forse al posto di Dio? Voi avete pensato di fare del male contro di me, ma Dio ha pensato di fare del bene, come sta facendo in questo giorno, per conservare in vita molte persone’”. Giuseppe aiuta i suoi fratelli a “correggere” la loro memoria del passato.
In questo modo, contraddice uno dei presupposti fondamentali del tempo, che è asimmetrico. Solo il futuro può essere cambiato, non il passato. Ma questo assunto è davvero del tutto corretto? Giuseppe utilizza qui, per i suoi fratelli, un principio che ha già utilizzato per se stesso, ovvero che gli eventi del presente hanno cambiato la sua visione degli eventi del passato. Secondo questo principio, possiamo comprendere appieno ciò che ora ci sta accadendo soltanto nel futuro, se guardiamo indietro e comprendiamo il ruolo del tempo attuale nella catena completa degli eventi.
Non siamo quindi prigionieri del passato. Possono accaderci cose, forse non così drammatiche come quelle accadute a Giuseppe, ma comunque buone, che possono cambiare radicalmente il modo in cui vediamo e ricordiamo il nostro passato. Operando nel futuro, possiamo liberarci dalla sofferenza del passato. Nel mondo della terapia, posso dire che questo metodo viene utilizzato per riabilitare le persone che soffrono per il loro passato. Non cambia il passato, ma l'interpretazione che diamo a questi eventi quando vengono integrati nella nostra vita attuale.
Giuseppe lo fece per amore dei suoi fratelli, per amore del suo popolo Israele. Questa tecnica lo ha aiutato a rimanere saldo in una vita di alti e bassi estremi, e ora la usa per aiutare i suoi fratelli senza crollare sotto il peso della colpa.
Il popolo di Israele ha fatto propria questa idea nel corso del tempo e vi si è aggrappato attraverso le generazioni. In quasi tutte le generazioni della storia di Israele, le Scritture sono state reinterpretate alla luce delle esperienze attuali. Siamo un popolo che racconta storie e poi le racconta ancora e ancora, ogni volta con un'enfasi leggermente diversa, e così stabiliamo il collegamento tra allora e oggi rileggendo il passato alla luce del presente.
Permettendo al presente di cambiare il modo in cui comprendiamo il passato, riscattiamo la nostra storia e le permettiamo di agire come una forza benefica nella nostra vita. Scrivendo il prossimo capitolo della nostra vita, influenziamo i capitoli precedenti che sono già accaduti nella nostra vita. Ciò significa che, agendo nel futuro, possiamo guarire una parte significativa del dolore del passato.
Shabbat Shalom!

(Israel Heute, 3 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele in Somaliland contro gli Huthi

Gerusalemme aprirà basi navali nell'autoproclamato Stato del Corno d'Africa con cui colpire i ribelli yemeniti. In cambio offrirà investimenti e riconoscimento.

di Matteo Giusti 

Il cosiddetto «asse della resistenza» creato dall'Iran sta crollando pezzo dopo pezzo e Israele adesso ha deciso di colpire gli Huthi, l'ultima creatura iraniana ancora in grado di insidiare Tel Aviv. Lo Stato ebraico, dopo l'ennesimo lancio di droni e missili sul suo territorio, ha deciso di intensificare la pressione sullo Yemen, non ritenendo sufficienti i raid aerei che in questi mesi hanno ripetutamente colpito il Paese della penisola arabica. Gli Huthi hanno accresciuto la loro importanza strategica prendendo di fatto il controllo dello stretto di Bab el Mandeb, il braccio di mare che separa lo Yemen da Gibuti e da cui passa circa il 12% del commercio mondiale in direzione del Canale di Suez. Israele per fermare gli Huthi vorrebbe utilizzare la marina oltre che l'aviazione, ma per creare un blocco navale ha bisogno di una base in questa determinante area del globo. Una base navale permetterebbe anche ai caccia israeliani di essere molto più efficaci visto che dovrebbero percorrere un tragitto più breve e avrebbero a disposizione una rete infrastrutturale.
  Tel Aviv ha così deciso di puntare sul Somaliland, lo stato separatista somalo la cui indipendenza non è riconosciuta da Mogadiscio, ma che de facto è indipendente dal 1991. L'ex Somalia Britannica dispone di oltre 700 chilometri di coste e di un porto ampio e protetto come Berbera. Il Somaliland non ha riconoscimento internazionale, ma vanta una serie di accordi economici con diversi Paesi dell'area, soprattutto con gli Emirati Arabi Uniti che hanno una base operativa lungo le sue coste. Gli Emirati sono pronti ad investire mezzo miliardo per ammodernare il porto di Berbera e sono pronti a lavorare con Israele. I due stati condividono già una base di intelligence congiunta nell'isola yemenita di Socotra, all'imbocco del Mar Rosso e considerano gli Huthi un nemico comune, molto pericoloso per gli equilibri di questa area. Tel Aviv è già presente con una base nelle isole Dahlak, al largo delle coste dell'Eritrea, grazie ad un accordo ufficioso con il regime di Asmara, dove ha installato un commando di intelligence per monitorare la regione.
  Una seconda base israeliana si trova nella più alta montagna dell'Eritrea, da dove è possibile intercettare ogni comunicazione dagli stati confinanti. Oggi però Israele vuole una presenza navale che possa bloccare ogni azione degli Huthi e il Somaliland rappresenta l'occasione perfetta. In cambio l'autoproclamato Stato somalo otterrebbe un primo riconoscimento internazionale e corposi investimenti nel settore agricolo ed estrattivo. Questa mossa avrebbe già il benestare della nuova amministrazione Trump che per bocca di alcuni esponenti del partito repubblicano statunitense sarebbe pronta al riconoscimento internazionale del Somaliland in cambio del sostegno al progetto israeliano e in funzione anti russa e cinese. Pechino ha infatti una grande base militare nel confinante Gibuti, mentre Mosca ha il controllo del porto sudanese di Port Sudan, poco più a Nord. In questa direzione sembra andare anche il nuovo gabinetto del presidente del Somaliland che pochi giorni fa ha rinnovato il suo governo.
  Abdirahman Mohamed Abdullahi ha infatti nominato ministro degli Esteri Abdirahman Dahir Adan Bakal, un pragmatico uomo d'affari con forti legami negli Stati Uniti. Bakal non ha nascosto i suoi progetti diplomatici per il suo Paese. «Questo è un momento cruciale per il Somaliland e dobbiamo guadagnare il riconoscimento internazionale. Il precedente ministro degli Esteri ci aveva fatto tornare sotto la Somalia con la sua politica di riconciliazione, ma noi sappiamo chi siamo. Il mondo guarda al Mar Rosso e tanti Stati già lavorano con noi e conoscono le nostre potenzialità. Etiopia, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Israele, Stati Uniti sono pronti ad intensificare il rapporto con noi, l'Unione Africana non può continuare a ignorare la storia e accettare passivamente che la Somalia occupi il Somaliland». Un gioco di equilibri geopolitici che Israele potrebbe sfruttare per diventare una potenza militare a cavallo fra Asia ed Africa.

(La Verità, 4 gennaio 2025)

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Esodo ebraico

“La fuga degli ebrei dall’Europa. L’ondata antisemita dopo il 7 ottobre. In pochi anni scomparirà la metà delle comunità d’Europa”. 

di Giulio Meotti

ROMA - Con il 7 ottobre è andata in frantumi anche l’illusione di un mondo civile libero da odio e antisemitismo. Dal 7 ottobre, 35mila ebrei, molti dall’Europa, hanno scelto di andare a vivere in Israele e ieri il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, ha annunciato piani di accoglienza per una “alyah di massa”. Saar conosce i numeri. L’Agenzia Ebraica ha fissato l’obiettivo di portare trecentomila immigrati nei prossimi cinque anni e il suo presidente, l’ex generale Doron Almog, ha previsto un milione di immigrati nel prossimo futuro. “Il 57 per cento degli ebrei europei pensa di andarsene”. Questo è il dato appena uscito dalla conferenza del Combat Antisemitism Movement a Vienna, che riunisce i leader delle comunità europee. Il numero di incidenti antisemiti è aumentato del 400 per cento in alcune parti d’Europa. “Stiamo perdendo la battaglia”, ha affermato da Vienna Ariel Muzicant, presidente del Congresso ebraico europeo. “Tra qualche anno, il 50 per cento delle comunità potrebbe non esistere più”. Anche il rabbino capo sefardita inglese ha annunciato l’aliyah con la sua famiglia nel 2026. Dopo più di un decennio di servizio, il rabbino Joseph Dweck e Margalit si trasferiranno in Israele. Duemila ebrei francesi sono partiti per Israele nei primi dieci mesi del 2024.
  “Molto compromesso”, risponde lo storico Georges Bensoussan su Causeur alla domanda su come vede il futuro degli ebrei francesi. “Non perché l’apparato statale non stia facendo il suo lavoro. Lo fa e lo farà, ma fino al momento in cui la difesa degli ebrei non gli farà perdere il sostegno di una parte significativa della popolazione. Tuttavia, il cambiamento demografico c’è, qualunque sia il nome che gli diamo. Demograficamente la Francia del 2025 non è quella del 1975. In questa ‘nuova Francia’, il simbolo ebraico, confuso con lo stato d’Israele, sarà assimilato al mondo ‘ricco, dominante e bianco’, colpevole del grave peccato del ‘colonialismo’. Ci sono gli elementi perché gli ebrei francesi scivolino verso una progressiva invisibilità negli spazi pubblici. Fino alla partenza”.
  E se in Norvegia sono rimasti appena 1.300 ebrei, non si era mai vista una simile ondata di antisemitismo dal 1945. “Gli ebrei norvegesi hanno iniziato a fare l’aliyah in Israele”, scrive da Oslo Hanne Ramberg. “Orribile, perché il governo norvegese non protegge la minoranza, che deve emigrare per avere una vita sicura”.
  E i numeri delle partenze aumenteranno anche dall’Olanda, dove un tribunale dovrà ora stabilire se è legale “discutere di antisemitismo nel contesto della cultura musulmana”, dopo che un vice primo ministro, Mona Keijzer, è accusata di “incitamento all’intolleranza” per aver detto in tv: “Quello che si vede è che molti richiedenti asilo provengono da paesi di fede musulmana. Sappiamo che l’odio per gli ebrei lì è una parte della loro cultura”. Intanto Meir Villegas Henriquez, rabbino ortodosso di Rotterdam, in un videomessaggio registrato nella sua sinagoga ha detto: “Viviamo in una nuova realtà demografica che non può essere cambiata. Preparatevi a fare aliyah. Parlate con i vostri figli o nipoti e spiegate loro che qui non c’è futuro. Aiutateli a studiare l’ebraico, investite, fate tutti i passaggi necessari per rendere possibile il trasferimento in Israele”.
  “Per chi suonano le campane?”, ha chiesto l’ex ambasciatore israeliano Zvi Mazel in un paper per il Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs. Senza cambiamenti significativi, Muzicant prevede questo scenario per gli ebrei europei: “Passeremo da 1,5 milioni a 800 mila”.

Il Foglio, 4 gennaio 2025)

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Khamenei non vuole rinunciare alla Siria e chiama alla guerra settaria

La perdita della Siria è stato un colpo durissimo per il regime iraniano, così duro che Khamenei non attacca né gli Stati Uniti né Israele ma preferisce chiamare alla rivolta la "gioventù siriana”.

di Darya Nasifi

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Esmail Ghaani, capo della Forza Quds dopo l’uccisione di Soleimani

Il leader supremo iraniano Ali Khamenei ha tentato di giustificare i sacrifici dell’Iran in Siria evidenziando piuttosto la resilienza seppur in mezzo alle battute d’arresto. Lo ha fatto durante un discorso del 1° gennaio nel quale ha commemorato la morte dell’ex comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche Qassem Soleimani.
Khamenei ha elogiato la leadership di Soleimani che ha difeso gli interessi regionali dell’Iran. Khamenei ha affermato che i sacrifici dei “Difensori del Santuario” in Siria erano significativi ed essenziali, respingendo le affermazioni secondo cui i loro sforzi erano stati vani.
L’Iran si riferisce a tutto il personale iraniano e alleato che ha combattuto in Siria come “difensori dei santuari”.
Questo discorso ha adottato un tono notevolmente difensivo tentando di giustificare gli sforzi dell’Iran piuttosto che scagliarsi contro gli Stati Uniti per l’attacco che ha ucciso Soleimani.
Il discorso ha anche omesso riferimenti all’attuale comandante della Forza Quds dell’IRGC, il generale di brigata Esmail Ghaani, che alcuni in Iran ritengono responsabile del rapido sgretolamento del progetto iraniano in Siria e della sconfitta di Hezbollah e Hamas.
Questa è la seconda volta che Khamenei ha parlato pubblicamente di Soleimani evitando qualsiasi menzione di Ghaani.
Un anonimo funzionario iraniano ha affermato che molti funzionari in Iran hanno incolpato Ghaani per la caduta di Assad e chiedevano la sua rimozione dal ruolo di comandante della Forza Quds dell’IRGC.
Khamenei ha continuato a promuovere una linea dura sulla Siria, tuttavia, sottolineando che la gioventù siriana resisterà alla “occupazione straniera” in Siria, paragonando la “gioventù siriana” alle milizie irachene mobilitate da Soleimani a metà degli anni 2000 contro gli Stati Uniti.
Queste milizie, che continuano a operare in Iraq e oggi controllano molte istituzioni governative, hanno formato squadroni della morte per uccidere i sunniti e hanno contribuito alla guerra civile etno-settaria in Iraq che al Qaeda in Iraq ha lanciato a metà degli anni 2000.
Khamenei ha sottolineato che la gioventù siriana espellerà gli “occupanti stranieri”, che presumibilmente includono gli Stati Uniti, la Turchia e forse HTS. Khamenei aveva precedentemente sottolineato il ruolo della gioventù siriana in un discorso dell’11 dicembre 2024, paragonando nuovamente i loro sforzi alle milizie irachene.

(Rights Reporter, 4 gennaio 2025)

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Israele sta combattendo anche per i nostri valori

"Più che i nemici mortali in medio oriente, sono i cosiddetti amici in occidente e la ‘comunità internazionale’ che devono preoccupare gli israeliani". L'analisi di Mike Hume sul magazine inglese Spiked.

"E’ ormai chiaro che Israele può gestire i suoi nemici mortali in medio oriente. Sono invece i cosiddetti amici in occidente e la ‘comunità internazionale’ che devono preoccupare gli israeliani”. Così Mike Hume sul magazine inglese Spiked. “Nel 2024, Israele ha ottenuto notevoli successi militari su ogni fronte. Ha martellato i pogromisti di Hamas a Gaza, devastato i loro compagni terroristi islamici di Hezbollah in Libano e scosso il loro sponsor, la Repubblica islamica dell’Iran, fino alle sue radici tiranniche. Tutto ciò ha anche facilitato il crollo della brutale dittatura di Assad in Siria. Giunti alla fine dell’anno, nessuno può seriamente dubitare della dichiarazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu secondo cui ‘stiamo vincendo’. Inoltre, chiunque creda nella libertà dovrebbe sicuramente celebrare il successo dell’unica democrazia in stile occidentale in medio oriente come un colpo inferto dalla civiltà contro la barbarie. Al contrario, i tradizionali alleati occidentali di Israele hanno trascorso il 2024 ritirandosi dalla sua parte quasi con la stessa rapidità con cui Hamas e Hezbollah sono fuggiti di fronte a Israele. Per ogni progresso militare compiuto nell’ultimo anno, Israele è sembrato subire più battute d’arresto politiche sul campo di battaglia internazionale.
Alla fine del 2023, Israele è stato accusato di aver commesso un ‘genocidio’ a Gaza dinanzi alla Corte internazionale di giustizia, un’affermazione perversa avanzata dal Sudafrica, sostenuta da altri stati e recentemente approvata da Amnesty International. Peggio ancora, alla fine del 2024, la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto contro Netanyahu per presunti crimini contro l’umanità a Gaza, il primo leader di una democrazia di stampo occidentale a essere accusato di crimini di guerra. E peggio ancora, diversi stati occidentali, tra cui, vergognosamente, il governo laburista del Regno Unito, hanno dichiarato la loro volontà di eseguire il mandato e arrestarlo. Le Nazioni Unite sono arrivate vicine a espellere Israele, con enormi maggioranze anti israeliane in ogni voto nell’Assemblea generale, e ogni membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, tranne gli Stati Uniti, ha recentemente sostenuto la richiesta di un cessate il fuoco ‘immediato, incondizionato e permanente’ a Gaza. Ciò equivaleva a una richiesta quasi unanime a Israele di arrendersi ai suoi nemici. (…)
“L’abbandono di Israele è una farsa non solo per gli israeliani e gli ebrei in tutto il mondo costretti ad affrontare da soli un’ondata di antisemitismo, ma anche per l’occidente stesso. Gli israeliani stanno combattendo per i principi su cui sono state costruite le nostre società civili: democrazia, sovranità nazionale e libertà. Dovremmo sostenerli come prima linea nella guerra globale contro la barbarie e la schiavitù. Tuttavia, le élite della società occidentale hanno abbandonato quei principi fondamentali e ora temono e detestano gli israeliani che osano difenderli. Ecco perché dal 7 ottobre abbiamo assistito al consolidamento di un’alleanza anti israeliana empia in occidente, tra gli islamisti che odiano gli ebrei e progressisti di sinistra che odiano sé stessi. Fino al 2024, tutto ciò che è marcio nelle nostre società ha continuato a coagularsi attorno alle bandiere della crociata anti Israele.
“A suo eterno merito, Israele continua a ignorare i detrattori occidentali e a combattere. Eppure, mentre il vecchio ordine in medio oriente crolla, con le potenze occidentali che perdono il controllo sugli eventi, il futuro rimane incerto. E’ tempo, come ha detto il primo ministro israeliano Netanyahu all’Onu ostile qualche mese fa, di fare una scelta: lasceremo in eredità alle generazioni future la ‘benedizione’ di un medio oriente plasmato da Israele e dai suoi alleati pro democrazia, o la ‘maledizione’ di una regione dominata dagli islamisti, con tutte le implicazioni che ciò comporta in tutto il mondo? Nel 2024, l’occidente ha fatto le scelte sbagliate. Nel 2025, c’è ancora tempo per rimediare e sostenere gli israeliani che stanno combattendo per tutti noi”.

Il Foglio, 3 gennaio 2025 - trad. Giulio Meotti)

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Operazione Many Ways: distrutto dall’IDF un impianto missilistico iraniano segreto in Siria

di Luca Spizzichino

L’Aeronautica Militare Israeliana (IAF) ha rivelato giovedì i dettagli di una delle operazioni più audaci e complesse mai eseguite dalle forze speciali israeliane. Nel settembre scorso, 120 membri di unità speciali hanno fatto irruzione e distrutto un impianto sotterraneo iraniano per la produzione di missili in Siria.
  All’epoca, il regime di Bashar al-Assad era ancora al potere e Israele non aveva ancora dato il via alla sua massiccia campagna contro Hezbollah in Libano. Alcuni dettagli precedentemente riportati dai media stranieri sulla missione si sono rivelati inesatti o parzialmente errati. L’operazione, denominata internamente dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) “Operazione Many Ways”, mirava a distruggere un impianto utilizzato dalle forze iraniane per la produzione di missili di precisione destinati a Hezbollah e al regime siriano.
  Il sito, denominato militarmente “Deep Layer”, era stato scavato all’interno di una montagna presso il Centro di Studi e Ricerche Scientifiche (CERS o SSRC) nell’area di Masyaf, a ovest di Hama. Situato a oltre 200 km dal confine israeliano e a circa 45 km dalla costa siriana, il sito era considerato il “progetto di punta” dell’Iran per armare Hezbollah. L’Iran aveva iniziato a pianificare “Deep Layer” nel 2017, dopo un attacco aereo israeliano che aveva distrutto un impianto di produzione di motori per razzi a CERS. Questo sito forniva missili a Hezbollah, alcuni dei quali vennero poi usati per colpire Israele il 7 ottobre 2023, il giorno dopo l’invasione di Hamas nel sud del paese.
  Gli attacchi israeliani contro i convogli di armi diretti a Hezbollah spinsero l’Iran a cambiare strategia, costruendo un impianto sotterraneo a prova di bombardamento. La struttura, scavata tra il 2017 e il 2021, si trovava a una profondità compresa tra 70 e 130 metri, ed era progettata per produrre tra i 100 e i 300 missili all’anno, tra cui missili a lungo raggio fino a 300 km, missili guidati di precisione fino a 130 km e razzi a corto raggio tra i 40 e i 70 km. L’impianto aveva una forma a ferro di cavallo, con tre ingressi: uno per le materie prime, uno per l’uscita dei missili e un terzo per la logistica e gli uffici.
  L’idea di distruggere l’impianto era stata discussa per anni, ma è diventata concreta con l’inizio della guerra su più fronti. L’unità Shaldag è stata scelta per la missione e ha iniziato un addestramento intensivo due mesi prima dell’attacco. Durante la pianificazione, il principale problema era il superamento delle pesanti porte blindate del sito. Gli agenti di intelligence avevano scoperto la presenza di muletti all’interno della struttura, perciò alcuni soldati israeliani hanno ottenuto certificazioni per l’uso di questi mezzi, in modo da poterli sfruttare per aprire le porte dall’interno.
  La sera dell’8 settembre, 100 membri di Shaldag e 20 di Unit 669 sono decollati da una base israeliana a bordo di quattro elicotteri CH-53 “Yasur”. La missione era supportata da due elicotteri d’attacco, 21 caccia, cinque droni e 14 velivoli da ricognizione. Altri 30 velivoli erano in stand-by in Israele.
  Gli elicotteri hanno volato a bassa quota sopra il Mediterraneo prima di entrare in Siria. Nel frattempo, aerei da combattimento e navi israeliane hanno colpito diversi obiettivi per distrarre le forze siriane e confondere i radar. La zona di Masyaf aveva la seconda più alta concentrazione di difese aeree della Siria, seconda solo a Damasco, con numerosi radar e sistemi antiaerei. Una volta atterrati, i soldati hanno eliminato due guardie all’ingresso e hanno piazzato droni di sorveglianza per proteggere il perimetro. Dopo circa 50 minuti, un gruppo di soldati è riuscito a forzare una delle porte blindate e ha raggiunto gli ingressi principali. Grazie ai muletti presenti nell’impianto, sono riusciti ad aprire le altre porte. Mentre alcuni soldati piazzavano esplosivi su tutta la linea di produzione, altri hanno impedito l’avvicinamento di forze siriane. In tutto, sono stati utilizzati 49 ordigni dai caccia israeliani per neutralizzare eventuali minacce. Dopo due ore e mezza di operazione, tutti i commando si sono ritirati nella zona di atterraggio. Gli elicotteri sono tornati a prenderli e, mentre decollavano, gli specialisti hanno fatto esplodere le cariche, causando un’enorme deflagrazione paragonabile a una tonnellata di esplosivo. Secondo le testimonianze dei soldati, l’esplosione ha generato un effetto simile a un “piccolo terremoto”.
  Attualmente, il sito sotterraneo risulta inutilizzabile e le forze iraniane si sono ritirate dalla Siria dopo la caduta del regime di Assad. Israele considera questa operazione un successo strategico, avendo eliminato una minaccia chiave prima che potesse diventare pienamente operativa.

(Shalom, 3 gennaio 2025)

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Il Medio Oriente non è più quello di Qassem Suleimani

Il celebre generale iraniano fu ucciso cinque anni fa dagli Stati Uniti, e da allora la sua rete di alleanze è stata quasi del tutto distrutta.

Al funerale del generale iraniano Qassem Suleimani, ucciso da un drone statunitense il 3 gennaio del 2020, sua figlia Zeinab promise che il padre sarebbe stato vendicato dai suoi tre «zii onorari», alleati dell’Iran: il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh e il dittatore siriano Bashar al Assad. Nell’ultimo anno, però, dei tre «zii onorari» due sono stati uccisi da Israele (Nasrallah e Haniyeh) mentre Assad è stato rovesciato da una rivolta armata e ha lasciato il paese.
Nel corso dell’ultimo anno le più forti alleanze dell’Iran sono state indebolite e in alcuni casi smantellate. Queste alleanze erano definite “Asse della resistenza” ed erano la principale eredità politica di Suleimani, che quando fu ucciso era uno degli uomini più potenti del Medio Oriente. Fu Suleimani a ideare la strategia secondo cui l’Iran si sarebbe dovuto attorniare di stati e milizie fedeli, e fu lui il più efficace nel metterla in pratica, portando l’Iran in una posizione di notevole forza nella regione. Cinque anni dopo la sua morte, di tutto questo è rimasto molto poco.
Suleimani era il capo delle forze Quds, l’unità d’élite iraniana per le missioni all’estero, ma la sua influenza in Iran e in Medio Oriente andava molto oltre la sua carica ufficiale. Suleimani usò l’influenza e il potere delle forze Quds per cambiare i rapporti in Medio Oriente in favore dell’Iran, usando tutti i mezzi a sua disposizione: assassinando politici, fornendo armi e sostegno agli alleati e compiendo attentati terroristici.
L’intuizione principale di Suleimani fu quella di creare una forte rete di alleanze – l’Asse della resistenza, appunto – con due obiettivi principali: proteggere l’Iran dalle minacce esterne e mantenere una forte deterrenza contro Israele e gli Stati Uniti, i suoi principali nemici. I membri più importanti dell’Asse della resistenza erano Hezbollah in Libano; la Siria di Assad; alcune milizie sciite molto forti in Iraq; e gli Houthi, un gruppo armato che governa circa metà dello Yemen. Più di recente all’alleanza si era aggiunto Hamas, il gruppo radicale che governava la Striscia di Gaza prima dell’inizio della guerra.
Grazie a queste alleanze l’Iran poteva raggiungere facilmente i confini di Israele e il mar Mediterraneo (tramite il Libano e la Siria) e aveva una milizia alleata (gli Houthi) che controllava l’ingresso al mar Rosso, una delle principali vie commerciali del mondo. Suleimani era il perno di tutta questa rete di alleanze, ed era di fatto il capo della diplomazia militare iraniana in Medio Oriente. Nel 2008 Suleimani inviò un celebre messaggio al generale David Petraeus, allora comandante delle forze armate statunitensi in Iraq, in cui si leggeva:
«Generale Petraeus, dovrebbe sapere che io, Qassem Suleimani, controllo la politica dell’Iran per quanto riguarda l’Iraq, il Libano, Gaza e l’Afghanistan. Inoltre, l’ambasciatore a Baghdad è un membro delle forze Quds. Colui che lo va a sostituire è, anche lui, un membro delle forze Quds».
Suleimani fu ucciso nel 2020 in un attacco con droni mentre si trovava a Baghdad, in Iraq. L’attacco fu ordinato direttamente dall’allora presidente statunitense Donald Trump: inizialmente la decisione fu considerata un azzardo, che avrebbe potuto avere grosse conseguenze ed essere considerata dall’Iran come un «atto di guerra». In realtà la risposta iraniana fu tutto sommato moderata, e non provocò un duraturo aumento della violenza nella regione. L’uccisione di Suleimani non provocò nemmeno la crisi dell’Asse della resistenza, e l’Iran riuscì a mantenere stabili le sue alleanze.
Il momento di svolta è arrivato però il 7 ottobre del 2023, quando Hamas attaccò Israele che poi cominciò la guerra nella Striscia di Gaza. Inizialmente l’Iran, pur facendo proclami bellicosi contro Israele, aveva cercato di tenersi fuori dalla guerra. Anche Hezbollah, il suo alleato principale, aveva sì cominciato a bombardare il nord di Israele, ma non era intervenuto militarmente, come invece sperava la leadership di Hamas. Tuttavia Israele, tramite un progressivo allargamento dei fronti di guerra, ha sistematicamente colpito i membri dell’Asse della resistenza. Anzitutto Hamas, che dopo un anno e mezzo di guerra è debolissimo e non controlla più la Striscia di Gaza, anche se non è stato del tutto sconfitto.
Israele ha poi attaccato Hezbollah a partire dall’autunno del 2024, dapprima con un attacco su larga scala contro i suoi membri (l’esplosione di cercapersone e walkie talkie), poi uccidendo Nasrallah e altri importanti leader del gruppo; e infine con un’invasione di terra nel sud del Libano, che ne ha indebolito ulteriormente la struttura militare. Oggi Hezbollah è estremamente più debole di quanto non fosse soltanto pochi mesi fa. (Nelle operazioni militari che Israele sta conducendo da un oltre un anno nella Striscia di Gaza e in Libano sono state uccise anche decine di migliaia di civili).
Il crollo improvviso del regime di Assad in Siria è stato un colpo ulteriore per l’Iran. Anzitutto perché ha mostrato la debolezza del regime iraniano, che aveva impiegato ampi mezzi militari e speso decine di miliardi di dollari per sostenere Assad, inutilmente. In secondo luogo perché la perdita del proprio alleato in Siria è per l’Iran particolarmente grave: la Siria connetteva territorialmente l’Iran al Libano (quindi a Hezbollah) e da lì a Israele. Tramite la Siria l’Iran poteva far passare rifornimenti di armi e mezzi verso il Libano, che adesso saranno molto più difficili da controllare.
Alcuni analisti hanno sostenuto in questi giorni che l’Asse della resistenza, dopo questi colpi molto duri, sia di fatto smantellato, mentre altri sono molto più cauti. L’Iran può ancora contare sugli Houthi in Yemen e sulle milizie sciite in Iraq, e anche la situazione della Siria è ancora piuttosto instabile.
Altre analisi si sono concentrate sul fatto che, ora che l’Iran è più esposto e indebolito, potrebbe decidere di adottare politiche più estreme per garantire quella che ritiene sia la propria difesa da minacce esterne, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo di una bomba atomica.

(il Post, 3 gennaio 2025)

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Le celebrazioni dell’81° anniversario della deportazione politica del 4 gennaio 1944 a Roma

Un momento di raccoglimento per la città

di Andrea Di Veroli

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Il 3 gennaio 2025 si è tenutala cerimonia commemorativa in occasione dell’81° anniversario della deportazione politica dei prigionieri del carcere di Regina Coeli, avvenuta il 4 gennaio 1944, un lungo viaggio di nove giorni, attraverso l’Italia e la Germania, con una sosta nel Lager di Dachau, che si concluse nel Campo di Mauthausen, in Austria, il 13 gennaio 1944.
L’appuntamento è avvenuto presso il Cimitero Monumentale del Verano, davanti al Muro del Deportato, dove sono incisi i nomi a ricordo dei cittadini romani eliminati nei campi di sterminio nazisti.
La cerimonia ha visto la partecipazione di rappresentanti istituzionali e associazionistici. Tra questi la delegata del Sindaco Francesca Del Bello, Presidente del Municipio II; il Presidente romano dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati) e membro italiano del Comitato Internazionale di Auschwitz, Andrea Di Veroli; Isaac Tesciuba, Assessore al Patrimonio della Comunità Ebraica di Roma; l’Assessore alle politiche educative dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Livia Ottolenghi; altri rappresentanti di associazioni locali. Un momento di riflessione profonda, che riafferma l’importanza di non dimenticare questa pagina oscura della storia italiana.
Quella del 4 gennaio 1944 è una data che segna l’inizio di una tragedia. Più di 300 prigionieri politici, detenuti nel carcere romano di Regina Coeli, furono prelevati dalle autorità della Repubblica Sociale Italiana e deportati verso il campo di concentramento di Mauthausen. I prigionieri, che non avevano commesso alcun crimine, furono considerati “elementi indesiderabili” dalle forze di polizia fasciste e, insieme, intrapresero un viaggio che durò nove giorni, passando per il lager di Dachau, prima di arrivare a Mauthausen il 13 gennaio 1944.
Sebbene la deportazione del 4 gennaio 1944 rappresenta la categoria dei politici, vi sono i nomi di alcuni ebrei romani deportati che, pur dopo aver subito le atrocità delle leggi razziste, furono arrestati e deportati come prigionieri politici: Angelo Anticoli, Vittorio Astrologo, Davide Di Segni, Mario Limentani, Pacifico Moresco, Renato Pace, Angelo Salmoni, Eugenio Sonnino, Giovanni Spizzichino, Giovanni Vivanti, Giacomino Zarfati.
Mario Limentani, scomparso nel 2014, ricordava: “Eravamo solo 11 ebrei su 480 italiani” e di aver ricevuto una “stella” cucita sulla sua divisa: un triangolo rosso, simbolo dei prigionieri politici, e uno giallo, che indicava la sua appartenenza alla comunità ebraica e sopra “it” che significava italiano.
Tra gli altri deportati si ricordano personalità come Roberto Forti, esponente della Resistenza romana e fondatore dell’ANED; i fratelli Valenzano, nipoti di Pietro Badoglio. Altri prigionieri, come padre e figlio Collalti, sono ricordati per aver nascosto armi per la lotta partigiana.
Alberto Mieli, deportato a Mauthausen, racconta in una testimonianza di aver assistito alla violenta punizione che le SS inflissero ai Collalti. I due fratelli riuscirono a sopravvivere, ma morirono poco dopo aver fatto ritorno dal campo di concentramento.
Dal mattinale del 5 Gennaio 1944, inviato dalla Questura di Roma al Comando di Forze di Polizia e alla Direzione Generale Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, si legge:
Alle ore 20,40 di ieri dallo Scalo Tiburtino è partito treno numero 64155 diretto a Innsbruck con a bordo n. 292 individui, rastrellati tra elementi indesiderabili, i quali, ripartiti in dieci vetture, sono stati muniti di viveri per sette giorni. Il treno sarà scortato fino al Brennero da 20 Agenti di Pubblica Sicurezza ed a destinazione da un Maresciallo e 4 militari della Polizia Germanica. Durante le ultime 24 ore sono stati rastrellati dalla locale Questura, a scopo preventivo, n. 162 persone”.
Il 4 gennaio 1944, il treno che partì dallo Scalo Tiburtino a Roma, portava con sé 292 persone, rastrellate dalla Questura di Roma, tra cui anche molti uomini senza colpe. Come riportato nel mattinale del 5 gennaio 1944, il treno fu scortato fino al Brennero da agenti di pubblica sicurezza e, una volta oltrepassato il confine, dalla polizia tedesca.
È fondamentale tramandare la memoria di questi eventi alle nuove generazioni: l’auspicio è che molti più giovani venissero in questo luogo, troppo poco conosciuto. Questo anniversario è un’occasione importantissima per mantenere viva la memoria di un momento cruciale della nostra storia, affinché il sacrificio di quei prigionieri non venga mai dimenticato. Durante questa cerimonia è possibile riflettere su quanto sia fondamentale coltivare la memoria storica, affinché le tracce di quella tragedia non vadano perse nel tempo, e per contrastare l’oblio e l’indifferenza, che rischiano di diventare preoccupanti compagni di viaggio man mano che la distanza temporale cresce e l’età degli ultimi sopravvissuti si fa sempre più avanzata.
L’incontro di oggi, nel segno della memoria, unisce cittadini, istituzioni e comunità in un abbraccio collettivo di ricordo e impegno civile.
I nominativi riportati sul Muro del Deportato sono consultabili online sul sito a cura dell’ANED sezione di Roma all’indirizzo https://memoriadeportati.it/

(Shalom, 3 gennaio 2025)

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Vayiggàsh. Se lo vogliamo possiamo sempre cambiare il nostro futuro

di Ishai Richetti

Dopo la discesa della famiglia di Yaakov in Egitto, Yosef prepara una delegazione dei suoi fratelli per un colloquio con il re egiziano. Prima del colloquio, consiglia loro di specificare che sono pastori in modo che il faraone stabilisca la loro residenza separatamente nella regione di Goshen, “poiché tutti i pastori sono abominevoli per gli egiziani“. Questo comportamento solleva principalmente una domanda: Perché Yosef consiglia specificamente ai suoi fratelli di identificarsi con una professione che gli egiziani trovano ripugnante?
Alcuni Chachamim ritengono che Yosef stesse semplicemente cercando di garantire la possibilità per i i suoi fratelli di poter continuare a praticare una professione redditizia. L’Abravanel, ad esempio, sostiene che Yosef avrebbe potuto benissimo nominare i suoi fratelli e far sì che potessero assumere posizioni, autorità e potere nel sistema politico egiziano. Tuttavia, desidera evitare loro tale posizione di leadership in favore di un sostentamento semplice, umile e “sacro”. Secondo Rabbenu Bachya, la pastorizia era una professione intrinsecamente vantaggiosa con chiari benefici fisici e spirituali. Tramite la creazione di una serie di prodotti redditizi (carne, latte e lana) e con uno sforzo fisico relativamente basso, la pastorizia forniva anche l’opportunità di un isolamento periodico dalla civiltà egiziana e dalla sua influenza. Attraverso l’isolamento il pastore poteva trovare il tempo per l’autoesame e la crescita spirituale. Non a caso, commenta Rabbenu Bachya, molte grandi figure della storia ebraica, tra cui Moshe, Shmuel, Shaul e David, furono pastori ad un certo punto della loro vita.
Numerosi altri commentatori, tuttavia, vedono gli sforzi di Yosef sotto una luce totalmente diversa. Yosef, sostengono, istruisce deliberatamente i suoi fratelli a identificarsi con una professione che li allontanerà dalla società egiziana. Costretti a vivere separatamente, i membri della famiglia di Yosef e la loro progenie avranno maggiori possibilità di mantenere la propria identità senza influenze negative dall’esterno. Parafrasando le parole usate dal Netziv: “L’intento di Yosef era di garantire che la sua famiglia vivesse separata dagli egiziani. Sebbene [il piano di Yosef] avrebbe causato la degradazione di suo padre e dei suoi fratelli agli occhi del Faraone, tuttavia, valeva la pena sacrificare l’immagine del padre per garantire la preservazione della sacralità di Israele”. Rzv Shimshon Refael Hirsch aggiunge: “Il disgusto degli egiziani per la loro [dei fratelli] professione… fu il primo mezzo utile per preservare il nascente popolo d’Israele destinato com’era ad un percorso isolato attraverso i secoli… Ecco perché Yosef agì con lo scopo manifesto di ottenere una provincia separata in cui la sua famiglia si sarebbe stabilita”. Yosef, l’ebreo cosmopolita, il paradigma del successo in mezzo ad una cultura aliena, diventa l’architetto del primo ghetto del nostro popolo.
Perché Yosef, viceré di tutto l’Egitto, realizzato oltre misura in un mondo straniero, è così determinato a far sì che i membri della sua famiglia non seguano il suo percorso vincente? Cosa lo motiva a elaborare personalmente un piano per il loro isolamento? Forse è spinto dal riconoscimento del prezzo che ha dovuto pagare per il suo stesso successo. Gli anni trascorsi in Egitto hanno lasciato il segno. Quando incontra i suoi fratelli dopo la loro lunga separazione, la Torà riporta: “Yosef riconobbe i suoi fratelli, ma loro non riconobbero lui”. Yosef non è più riconoscibile come ebreo, nemmeno per la sua famiglia. Mosso da questa consapevolezza e consapevole della devastazione che avrebbe potuto succedere se, generazione dopo generazione di ebrei, avessero dovuto pagare il suo stesso prezzo, Yosef agisce per preservare l’identità della sua famiglia. Si potrebbe anche dire che forse Yosef è motivato dal dolore del suo isolamento personale di fronte alla sua ascesa al potere e cerca di risparmiare alla sua famiglia una delusione e una solitudine simili. Oppure , infine, forse questo ebreo cosmopolita capisce semplicemente che ciò che ha realizzato come individuo non può essere applicato alla sua famiglia nel suo insieme.
I talenti non sono uniformi. L’enorme successo di Yosef poteva essere eguagliato solo dai pochi che sarebbero stati in grado di mantenere l’equilibrio spirituale che lo aveva sostenuto durante la sua turbolenta odissea personale. In un modo o nell’altro, mentre Yosef orchestra la discesa della sua famiglia in Egitto, fa chiaramente tutto il possibile per garantire la loro separazione dagli egiziani. Come accadrà in tutta la storia ebraica, il delicato equilibrio raggiunto durante la vita di Avraham è in primo piano, decenni dopo, nei pensieri e nella pianificazione del suo pronipote. Yosef si rende conto che affinché i membri della sua famiglia mantengano il loro status di “stranieri e cittadini” per generazioni e di fronte a una cultura egiziana schiacciante, dovranno vivere in una specie di ghetto, separati.
I piani di Yosef vengono infine messi alla prova. Mentre il soggiorno in Egitto avrebbe dovuto essere considerato temporaneo dalla famiglia di Yaakov, la Torà testimonia che: “Israele si stabilì nella terra d’Egitto, nella regione di Goshen, e si assicurò un punto d’appoggio permanente e furono fecondi e si moltiplicarono notevolmente”. E, sebbene gli ebrei fossero destinati a rimanere a Goshen, il testo continua: “E i figli d’Israele furono fecondi, si moltiplicarono, aumentarono [in numero] e divennero forti… e la terra ne divenne piena”. Basandosi su una tradizione midrashica, il Netziv commenta: “Riempirono non solo la terra di Goshen che era stata loro assegnata appositamente, ma l’intera terra d’Egitto… Ovunque potessero acquistare una dimora, lì andavano gli Israeliti… Desideravano essere come gli Egiziani”. Da questa descrizione emerge una drammatica costante nella storia del popolo ebraico: Più gli ebrei cercano di essere come chi li circonda assimilando le abitudini della popolazione locale, più incorrono nell’inimicizia dei vicini e preparano il terreno per la loro stessa persecuzione. Vengono presto ridotti in schiavitù e respinti a Goshen.
Le sollecitazioni implicite di Yosef vengono ignorate dalle generazioni successive. I suoi sforzi, tuttavia, potrebbero aver salvato il suo popolo dall’oblio. Prima per scelta, poi per forza, gli Israeliti restano una popolazione separata all’interno dell’Egitto. All’interno del “ghetto” di Gosen restano identificabili e, quindi, redimibili quando giunge il momento dell’Esodo.
La Parashà di questa settimana testimonia uno dei momenti più toccanti della Torà, quando Yosef rivela la sua identità ai suoi fratelli. Questo incontro non è fondante solo per le emozioni che suscita, ma è importante soprattutto per il futuro del popolo ebraico. Dopo anni di dolore e separazione, le parole di Yosef risuonano con chiarezza e possiamo sempre attualizzarne lo scopo: “D-o mi ha mandato prima di voi per garantire la vostra sopravvivenza nella terra” (Bereshit 45:7).
Il riconoscimento da parte di Yosef tramite le parole che rivolge ai fratelli che anche i viaggi più difficili hanno uno scopo più alto ci ispira a trovare un significato nelle nostre stesse vite. Parafrasando quanto scritto da Rav Sacks: “Yosef, senza saperlo, è diventato il precursore di uno dei grandi movimenti in psicoterapia nel mondo moderno. Ha mostrato il potere della riformulazione. Non possiamo cambiare il passato. Ma cambiando il modo in cui pensiamo al passato, possiamo cambiare il futuro. Qualunque sia la situazione in cui ci troviamo, riformulandola possiamo cambiare la nostra intera risposta, dandoci la forza di sopravvivere, il coraggio di persistere e la resilienza per emergere, dall’altra parte dell’oscurità, alla luce di un giorno nuovo e migliore”.
Con tutte le dovute differenze, siamo chiamati, come Yosef, a mantenere la nostra identità e a plasmare il nostro futuro. Se non è possibile cambiare il passato, è infatti possibile modellare il nostro futuro e quello delle generazioni a venire con le risorse del presente e con le nostre capacità che ci rendono unici e contemporaneamente uniti nel perseguire la continuità ed il miracolo che costituisce il nostro Popolo. Per perseguire questo obiettivo è necessario partire dal nucleo, rappresentato dalle nostre famiglie, impostando una vista basata e centrata sull’osservare le mitzvot, sulla tzedakà e sugli atti di chesed. In questo modo potremo diventare, noi come Yosef, dei recipienti adatti a ricevere le berachot che quotidianamente D-o ci manda.

(Morashah, 3 gennaio 2025)
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Si può dare una diversa lettura della vita del biblico Giuseppe. Proponiamo di seguito un capitolo del libro "Leone di pietra, leone di Giuda" di Jacob Damkani, un ebreo nato e vivente in Israele che ha riconosciuto Gesù come Messia.


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Da Yosef a Giuseppe

di Jacob Damkani

Mi piaceva molto parlare di Yeshua a chiunque avesse voglia di ascoltare. Fu così che un giorno incontrai Yosef.
  Yosef proveniva da una famiglia completamente secolarizzata, e, come tutti i sabra, considerava il Tanach soltanto come un documento storico che descrive la storia antica d’Israele. Sapeva anche qualcosa sulla critica biblica e quindi non era disposto ad accettare quello che gli si diceva soltanto perché è  scritto. Gli piaceva controbattere ad alta voce su quasi tutto quello che gli dicevo, e sono sicuro che tutta la strada poteva ascoltare le nostre vivaci discussioni.
  «Lei non riuscirà a convincermi», gridava con foga, «che questo Gesù è menzionato nel Tanach! E’ soltanto un’invenzione dei cristiani che considerano il nostro “Vecchio Testamento” come un’allegoria cristiana. Il Tanach è un libro puramente ebraico, privo di ogni dottrina cristiana!»
  «Naturalmente è un libro ebraico», replicai io. «Ogni gentile che vuol essere salvato deve accettare questo libro ebraico e il Messia ebraico di cui parlano le profezie! Non le ho forse detto di non aver lasciato l’ebraismo e di non avere nemmeno la minima intenzione di farlo? Ho sempre creduto che non ci sia niente di più ridicolo dell’idea che un ebreo debba “convertirsi” al cristianesimo per credere nel Messia ebraico d’Israele! Al contrario, sono i gentili che devono adottare la Torah, un libro strettamente ebraico, se decidono di seguire Yeshua.»
  Evidentemente Yosef chiamava cristianesimo quello che aveva visto e sentito: abiti religiosi, croci e musica d’organo. Non conosceva Yeshua e il Nuovo Patto, attraverso il quale ebrei e gentili possono essere salvati.
  «Senta un po’», replicò, «non mi verrà a dire che quei cristiani che adorano gli idoli nelle loro pompose cattedrali al suono dell’organo sono in realtà ebrei che credono in una religione ebraica? Se veramente crede questo, allora bisogna dire che lei non ha la minima idea né dell’ebraismo né del cristianesimo. Il fossato che divide queste due religioni è talmente grande che nessun ponte si potrà mai fare tra le due!»
  «Su questo sono d’accordo con lei, Yosef. Queste due religioni non solo sono del tutto diverse, ma si odiano a vicenda con passione e si combattono a morte. Ogni religione è per sua natura ostile a tutte le altre, perché le considera rivali e si ritiene l’unica depositaria delle rivelazioni divine. Ma qui non si tratta né dell’ebraismo, né del cristianesimo. Yeshua non è sceso dal cielo in questo mondo e ha percorso il Suo cammino fino alla morte sulla croce per fondare una nuova religione che si rivoltasse contro la sua propria madre! Yeshua ha condannato tutti i rituali religiosi vuoti di intimo contenuto, sia ebrei che non ebrei. Egli ci ha insegnato che Dio è Spirito, e che i veri adoratori devono adorarlo in spirito e verità (Giovanni 4:23-24).»
  «Mi dica», interruppe Yosef cambiando discorso, «lei li porta i tefillin? osserva lo Shabbat? Che tipo di ebreo è lei, precisamente?»
  «Le risponderò alla maniera ebraica, con un’altra domanda: lei le fa queste cose? No, lei non le fa, e tuttavia si ritiene un ebreo, non è vero? Lei è ebreo perché è nato da una madre ebrea, giusto? Beh, anch’io. Capisce ora? Quello che ci fa essere ebrei o gentili non è né il rituale ebraico, né il patrimonio culturale che abbiamo ereditato per nascita. Noi siamo stati circoncisi l’ottavo giorno. Anche il Capo Rabbino è stato circonciso quando aveva otto giorni, prima che potesse osservare anche uno solo dei comandamenti. Nessuno ci ha chiesto se eravamo d’accordo con la circoncisione o se credevamo alla religione ebraica, vero?»
  «Lei sostiene che il Tanach, parla di Yeshua», disse Yosef cambiando un’altra volta discorso. «Saprebbe dirmi dove? Ma per favore, non cominci con Isaia 53.»
  «A dire il vero, volevo proprio parlare di questa importantissima profezia. Ma possiamo cominciare anche da un’altra parte. Probabilmente lei conosce la storia di Giuseppe, il figlio di Giacobbe e Rachele.»
  «Naturalmente! Giuseppe è una delle mie figure preferite. I miei genitori si chiamano Giacobbe e Rachele. Per questo mi hanno chiamato Yosef!»
  «Guardiamo allora la storia di Giuseppe. Credo che sentirà cose che la sbalordiranno,» dissi con aria di sfida.
  «Giacobbe amava Giuseppe più degli altri figli perché l’aveva avuto in tarda età da Rachele, la sua moglie preferita, e gli fece fare una preziosa veste variopinta. Giacobbe considerava Giuseppe più dei suoi fratelli maggiori, e questo suscitò in loro odio e invidia. Anche Yeshua fu chiamato “il figlio prediletto del Padre” ed è stato odiato dai suoi fratelli ebrei fino al giorno d’oggi.»
  «E’ soltanto una coincidenza», rise Yosef. «Non significa assolutamente niente.»
  «Aspetti, la storia non è finita», risposi sorridendo. 
  La curiosità di Yosef si era risvegliata e smise di controbattere. Questo mi diede modo di proseguire.
  «Giuseppe era conosciuto come un “sognatore”. Aveva dei sogni profetici attraverso i quali rivelava agli ebrei (i suoi fratelli) e ai gentili (il Faraone e i suoi servitori) quello che sarebbe accaduto nel futuro. Anche Yeshua fu un profeta che rivelò alla sua generazione quello che stava per accadere, e questo aumentò l’odio contro di lui.
  «Giacobbe, il padre di Giuseppe, lo mandò dai suoi fratelli perché desiderava la loro pace. Nonostante che Giuseppe sapesse che i suoi fratelli gli erano ostili, ubbidì a suo padre e osservò i suoi ordini. Il Nuovo Patto ci dice che Dio Padre ha mandato in questo mondo il Suo diletto Figlio Yeshua per salvare i Suoi fratelli, gli ebrei. Yeshua sapeva quali sarebbero state le conseguenze della Sua venuta: sarebbe stato consegnato nelle mani dei gentili e crocifisso. Ma Egli ubbidì al Suo Padre celeste, volontariamente e con amore.
  «I fratelli di Giuseppe colsero l’occasione e decisero di ucciderlo. Poi però cambiarono idea e lo vendettero per venti sicli d’argento ai gentili madianiti (Genesi 37:28). Anche i capi ebrei avevano pensato di uccidere Yeshua, e quando uno dei Suoi discepoli alla fine lo tradì per trenta denari, lo consegnarono ai Romani.
  «I fratelli di Giuseppe gli presero la veste, simbolo di autorità e dominio, e lo gettarono in una fossa. Anche Yeshua fu spogliato della Sua veste prima della Sua crocifissione, e poi fu deposto nella fossa di una tomba.»
  «Ehi, la cosa si fa interessante!» esclamò Yosef eccitato. «Non avevo mai considerato questa storia da questo punto di vista.»
  «Aspetti, il meglio deve ancora venire!» promisi. E continuai.
  «Subito dopo il suo arrivo in Egitto, Giuseppe fu sottoposto a una grande tentazione. La moglie di Potifar tentò di sedurlo, ma Giuseppe le resistette. Le Sacre Scritture ci riferiscono che all’inizio del Suo ministero pubblico Yeshua fu fortemente tentato da Satana, ma resistette con successo alla tentazione.
  «La moglie di Potifar s’infuriò con Giuseppe perché l’aveva respinta e lo accusò pubblicamente, nonostante che fosse innocente. Anche Yeshua era innocente e fu punito al nostro posto per dei peccati che non aveva commesso.
  «Giuseppe trascorse più di due anni in prigione prima che fosse riabilitato e innalzato dal Faraone al secondo posto del regno. Anche Yeshua ha passato due notti e tre giorni nella tomba prima di essere risuscitato da Dio e posto a sedere alla Sua destra, in gloria e potenza.
  «Giuseppe ottenne il secondo posto in Egitto, dopo il Faraone. Yeshua è stato nominato Re delle nazioni, e ora siede sul trono in cielo, alla destra di Dio, come è scritto:

    “Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi” (Salmo 110:1)

«Giuseppe fu  nominato “amministratore”, e in quanto tale distribuì il grano non solo agli Egiziani, ma a tutto il mondo che soffriva la fame. Yeshua, come “pane della vita” (Giovanni 6:48) sostiene tutto il mondo con la Sua grazia e il Suo misericordioso amore.
  «Spinti dalla grave carestia che in quel tempo regnava in Canann, i fratelli di Giuseppe scesero in Egitto a comprare del grano e si presentarono davanti a Giuseppe. Oggi i figli d’Israele soffrono di una fame spirituale, e quelli che si rivolgono a Yeshua ricevono da Lui il pane della vita.
  «Giuseppe riconobbe subito i suoi fratelli; loro invece non lo riconobbero. Yeshua conosce molto bene ciascuno dei Suoi fratelli ebrei, nonostante che un velo ricopra ancora i loro occhi e non permetta loro di riconoscerlo. 
  «Giuseppe finse di essere un Egiziano davanti ai suoi fratelli e parlò duramente con loro per mezzo di un interprete. Il popolo ebraico tratta ancora oggi Yeshua come se fosse un gentile. Rifiutano perfino di chiamarlo con il Suo nome ebraico e non lo riconoscono come loro fratello.
  «Giuseppe trattò molto duramente i suoi fratelli, fino a che non fu del tutto convinto che si erano profondamente pentiti. Yeshua sta ancora aspettando che i Suoi fratelli riconoscano il peccato commesso contro di Lui e smettano di incolparlo di tutte le loro disgrazie.
  «Giuseppe si fece riconoscere dai suoi fratelli e disse: “Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto” (Genesi 45:4). Anche Yeshua rivelerà presto ai Suoi fratelli la sua vera identità, dopo che avrà sparso su di loro lo spirito di grazia e di supplicazione. Allora guarderanno “a colui che essi hanno trafitto” (Zaccaria 12:10) e riconosceranno che hanno venduto ai gentili il loro fratello, loro carne e sangue.
  «Giuseppe disse ai suoi fratelli:

    Ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita... Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso (Genesi 45:5; 50:20).

«I figli d’Israele non avevano coscienza di quello che facevano quando consegnarono Yeshua ai romani per essere giustiziato. Ma sulla croce Yeshua gridò: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Luca 23:34). Dio fece una cosa meravigliosa: attraverso il rifiuto di Yeshua da parte degli ebrei portò la salvezza ai gentili.
  «Giuseppe invitò i suoi fratelli a venire a vivere nel paese di Goscen, a causa della carestia. Anche Yeshua riserva un posto nel Suo regno per il suo popolo, il popolo ebraico.»
  Yosef chiuse gli occhi e rifletté. Vedevo che era turbato. Rimase per un momento in silenzio, poi disse: «E’ davvero interessante! Ho letto molte volte la storia di Giuseppe, ma non avevo mai notato la straordinaria somiglianza tra la sua vita e quella di Yeshua. Mi è difficile adesso rigettare tutto come semplice coincidenza. Avrei potuto farlo se si fosse trattato soltanto di uno o due particolari, ma da come lei me l’ha presentata, ho l’impressione che tutta la storia di Giuseppe e i suoi fratelli rispecchi l’atteggiamento di Yeshua verso i suoi fratelli ebrei.»
  A questo punto entrò mia madre con un vassoio. Portava due bicchieri di tè caldo alla menta e un piatto di biscotti. La nostra conversazione ormai volgeva al termine. Chiacchierammo ancora qualche minuto poi Yosef se ne andò. Da allora non l’ho più visto.

(da "Leone di pietra, leone di Giuda")

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Gallant si dimette dalla Knesset

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Joav Gallant

GERUSALEMME - L'ex ministro della Difesa israeliano Joav Gallant ha annunciato mercoledì sera le sue dimissioni da membro della Knesset. Tuttavia, egli rimarrà fedele al Likud, ha sottolineato in un discorso. Il discorso è stato trasmesso in diretta televisiva.
  “Dopo 45 anni di servizio pubblico - di cui 35 nell'esercito israeliano e il resto alla Knesset - questa è solo una tappa di un viaggio più lungo che non è ancora terminato”, ha dichiarato Gallant, secondo quanto riportato dal Jerusalem Post. “Sia sul campo di battaglia che nel servizio pubblico, è importante fare delle pause, riflettere e concentrarsi sugli obiettivi necessari”.
  Il 5 novembre, il primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud) ha licenziato Gallant dal suo incarico di ministro della Difesa. Il suo compagno di partito Israel Katz è diventato il suo successore.

• Il servizio di leva per gli ultraortodossi come punto di scontro
   Gallant ha criticato la politica del personale di Netanyahu: nominando Katz, ha messo in pericolo la sicurezza del Paese. Questo perché egli sostiene una legge che offrirebbe esenzioni dal servizio militare a gran parte della comunità ultraortodossa. Lui stesso era stato licenziato perché non voleva capitolare sulla questione. La coscrizione degli Haredim era una “necessità militare”.
  Nel suo discorso, il 66enne ha rivendicato il successo nella distruzione delle capacità militari di Hamas, Hezbollah e Iran. Allo stesso tempo, si è assunto la responsabilità per le decisioni sbagliate prese prima del massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, scrive il quotidiano online Times of Israel.
  Gallant ha poi affermato che, come membro del Likud, continuerà a lottare per il percorso del movimento. Crede nei principi del partito. Ha definito la riforma giudiziaria prevista un “pericolo chiaro e immediato” per il Paese. Ha inoltre criticato il fallimento del governo nel riportare a casa gli ostaggi ancora presenti nella Striscia di Gaza.

• Primo rilascio nel 2023
   Dopo il discorso, Gallant ha presentato la sua lettera di dimissioni al presidente della Knesset Amir Ochana (Likud). Gli analisti ritengono ipotizzabile una sua candidatura alla presidenza del Likud, qualora venisse eletto. Non è ancora stato deciso chi lo sostituirà alla Knesset.
  Gallant è stato licenziato per la prima volta nel marzo 2023. All'epoca, aveva messo in guardia dai pericoli per la sicurezza che potevano derivare dalla divisione nazionale sulla riforma giudiziaria. Dopo le grandi proteste della popolazione, Netanyahu ha revocato la decisione.

• Netanyahu esce dal suo letto di malattia per votare
   Dal suo licenziamento definitivo, Gallant è stato assente a molte votazioni in Parlamento. Martedì sera è stata discussa un'importante legge secondaria sul bilancio. Diversi partner della coalizione sono contrari, compreso il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir (Forza ebraica).
  Netanyahu ha lasciato l'ospedale contro il parere dei medici, in modo che la legge potesse essere approvata. Si era sottoposto con successo a un'operazione alla prostata. Dopo il voto, è tornato in ospedale per un trattamento di follow-up. Il deputato del Likud Boas Bismuth, la cui madre è deceduta, ha interrotto il periodo di lutto per il voto.
  Il leader dell'opposizione Yair Lapid (Yesh Atid) ha invece espresso la sua approvazione per il discorso di addio di Gallant. Era “la semplice verità”, ha scritto sulla Piattaforma X.
  Benny Gantz (Campo di Stato), anch'egli ex ministro della Difesa, lo ha tuttavia esortato a revocare la decisione. Finché non ci saranno elezioni parlamentari, Gallant dovrebbe mostrare il coraggio che ha sempre dimostrato. Non dovrebbe contribuire all'approvazione della legge sul servizio militare per gli ultraortodossi in tempo di guerra. 

(Israelnetz, 2 gennaio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Aspettando Trump: quale sarà il piano per il Medio Oriente della nuova amministrazione?

La liberazione immediata degli ostaggi israeliani, il cessate il fuoco a Gaza, la ripresa dei colloqui con l’Arabia Saudita per l’estensione degli Accordi di Abramo, ai quali potrebbe agganciarsi anche il Qatar: la visione di Donald Trump è articolata e muscolare. Ne parliamo con il giornalista Andrea Morigi

di Davide Romano

Alla fine sarà ancora lui, The Donald, il prossimo inquilino della Casa Bianca. Di nuovo. Nel precedente mandato, prima dei quattro anni dell’amministrazione Biden, Trump aveva portato al tavolo dei negoziati gli Stati Arabi Sunniti e Israele, siglando gli Accordi di Abramo, e aveva spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Cosa realizzerà nel nuovo quadriennio? Davvero sarà in grado, come ha promesso, di risolvere i conflitti in corso?
  In vista del suo insediamento, il 20 gennaio, Bet Magazine/Mosaico ha sentito il giornalista Andrea Morigi, capo della redazione esteri del quotidiano Libero, per capire cosa aspettarsi. Curatore di diversi report sulla libertà di religione, ha pubblicato due libri sul Medio Oriente: Media e Oriente per Mursia e Multinazionali del terrore per Piemme.

- Il 20 gennaio si insedierà Trump alla Casa Bianca. Il suo programma per il Medio Oriente riprenderà da dove si era interrotto? Ripartirà dagli Accordi di Abramo per estenderli?
  Dopo quattro anni le condizioni sono cambiate, ma non necessariamente in peggio. L’obiettivo del riconoscimento reciproco fra Israele e alcuni Stati arabi apparentemente ha subito una battuta d’arresto dopo il 7 ottobre. Un obiettivo delle stragi e dei rapimenti compiuti da Hamas era proprio quello di impedire l’avvio di relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Stato ebraico. In questo la Repubblica Islamica dell’Iran ha giocato tutte le carte di cui disponeva. Ha utilizzato la sua influenza in Libano e a Gaza per stringere in una tenaglia il “nemico sionista”. Ha fallito. Anche perché la Giordania e l’Arabia Saudita hanno fornito copertura radar a Israele quando l’Iran ha lanciato droni e missili su Tel Aviv. Intanto sono anche cambiati alcuni attori sulla scena e/o si è ridimensionato il loro peso politico e strategico. La Siria, per anni principale canale di rifornimento di armi per Hezbollah, non è più una pedina di Teheran e nemmeno di Mosca. Se sia un segnale positivo per gli equilibri della regione, lo si vedrà. Si può registrare che Trump ha commentato con soddisfazione la caduta del regime canaglia di Assad. Forse nutre qualche speranza di coinvolgere anche gli jihadisti che hanno conquistato Damasco nel processo di normalizzazione del Medio Oriente.

- Quali sono le nomine chiave per capire la politica che Donald Trump farà, da neopresidente, nei confronti di Israele?
  Innanzitutto il segretario di Stato in pectore Marco Rubio, grande amico di Israele e non certo tenero verso gli ayatollah e i loro alleati. Ma non bisogna trascurare neanche l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff, che si è già recato in Qatar e Israele a dicembre, dove ha incontrato i rispettivi governanti – lo sceicco Mohammed bin Abdul-rahman Al Thani e il premier Benjamin Netanyahu – per far partire l’iniziativa diplomatica del presidente eletto degli Stati Uniti mirata a raggiungere un cessate il fuoco a Gaza e un accordo sul rilascio degli ostaggi prima del suo insediamento il 20 gennaio. Un nuovo inizio dopo quasi 14 mesi di diplomazia infruttuosa da parte dell’amministrazione Biden, se è vero che Doha ha ripreso il suo ruolo di mediatore chiave dopo essersi autosospesa. Si è parlato di volontà “senza precedenti” delle parti nei loro sforzi per raggiungere un’intesa. Inoltre vanno considerate in questo quadro l’annuncio della nomina come senior advisor presidenziale per il Medio Oriente e il mondo arabo dell’imprenditore libanese Massad Boulos, e l’anticipazione della nomina come ambasciatore a Parigi di Charles Kushner, padre di Jared Kushner (genero di Trump) che ha realizzato durante il primo mandato di Trump gli Accordi di Abramo.

- In cosa si vedrà la differenza tra la politica di Biden e quella di Trump nei confronti di Israele e dell’Iran?
  Mi pare che l’orientamento dell’elettorato Repubblicano e dei suoi rappresentanti politici sia diametralmente opposto a quello delle frange Propal e filo Bds (boicottaggio-disinvestimento-sanzioni contro Israele, ndr) che hanno condizionato le scelte della Casa Bianca negli ultimi quattro anni. Anche se il concreto sostegno economico e militare a Israele da parte degli Stati Uniti non è mai venuto meno, le dichiarazioni dei Democratici sono state spesso ambigue, in particolare sull’aspetto degli aiuti umanitari da fornire ai “civili” di Gaza. E l’ambiguità non è proprio una delle caratteristiche di Trump… il quale ha compiuto una sola azione bellica come comandante supremo delle Forze armate Usa: il 3 gennaio 2020, eliminando il generale Qassem Soleimani, comandante delle Guardie della Rivoluzione iraniane.

- Qualcuno sostiene che la sola notizia che Trump sarà Presidente ha già cambiato l’atteggiamento di tanti governi, in Medio Oriente e no. Può farci qualche esempio?
  Più che altro c’è chi approfitta del periodo transitorio fino al 20 gennaio, data dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, per sistemare le proprie partite nell’interregno. Ma in effetti ci sono tanti governi in Europa che non vedevano l’ora di alleggerire i bilanci pubblici dalle voci che facevano riferimento al sostegno all’Ucraina e paiono pronti ad accodarsi al nuovo corso americano. Numerosi e importanti assetti politici si trovano già in crisi di consenso: dalla Germania alla Spagna, passando per la Francia. Anche il Cremlino in fondo si rallegrerebbe se potesse terminare la propria aggressione militare all’Ucraina. Non saprei trovare un nesso causale fra l’approssimarsi di Trump alla Casa Bianca e l’abbandono da parte della Russia dell’avamposto siriano, ma non è certo un risultato di Biden, al quale Vladimir Putin non avrebbe mai concesso un vantaggio strategico. Comunque, le truppe nordcoreane sono arrivate alle porte dell’Europa e pare siano lì per restare. Rimangono aperti inoltre molti altri fronti in Africa, e incombono minacce come quella cinese su Taiwan.

- Il fatto che il presidente eletto abbia detto chiaramente che vuole la pace entro il giorno del suo insediamento il 20 gennaio, può avere messo fretta a Israele? E avere in qualche modo danneggiato la strategia di Gerusalemme che prevedeva una guerra da finire solo una volta distrutte Hamas e Hezbollah, e non prima?
  Innanzitutto la priorità è sempre stata liberare gli ostaggi prigionieri dei terroristi islamici palestinesi. Anche se ce ne fosse soltanto uno o una ancora a Gaza, non si potrebbe considerare risolta la situazione. E comunque il raggiungimento di una tregua al confine israelo-libanese non è di ostacolo all’autodifesa da parte di Gerusalemme che infatti interviene puntualmente con l’aviazione a colpire i terroristi di Hezbollah che sconfinano oltre il fiume Litani. D’altronde, se Israele non si fosse difeso militarmente, oggi avremmo ancora a che fare con terroristi del calibro di Yahya Sinwar e Hassan Nasrallah, per limitarsi ai più noti. E le prospettive di pace sarebbero minori.

- Cosa prevede che succederà nel fronte interno USA? Che cosa pensa che potrà fare Trump contro l’antisemitismo che ha invaso le università e tanta parte della cultura americana?
  Il problema interno agli Usa ha radici più profonde di quelle politiche. È un effetto della crisi dell’Occidente. Si riflette anche nella diffusione a livello accademico della cultura woke, che considera i “bianchi capitalisti” israeliani colonialisti sfruttatori dei “poveri proletari” palestinesi. E, quando si sbaglia la lettura della storia, poi inevitabilmente si finisce per sbagliare anche nella sfera delle decisioni politiche e di schieramento. Chiaramente gli atti di antisemitismo – che non possono essere tollerati o sottovalutati – nascono in un contesto mediatico, amplificato e forse anche generato dal web, che distorce anche il diritto alla libera espressione. Penso che in questo senso l’impegno dell’amministrazione degli Stati Uniti a favore del rispetto della libertà religiosa nel mondo, attraverso l’Uscirf (Commissione statunitense per la libertà religiosa internazionale, agenzia indipendente e bipartisan che monitora il diritto universale alla libertà di religione all’estero e che formula raccomandazioni politiche al Governo e al Congresso) e il Dipartimento di Stato possa essere ulteriormente ampliato e potenziato, per dimostrare che Israele figura fra i Paesi dove le condizioni delle minoranze confessionali sono migliori. Sarebbe una bella lezione da impartire anche ai tribunali internazionali, oltre che ai Paesi che vi fanno ricorso in modo strumentale.

(Bet Magazine Mosaico, 2 gennaio 2025)

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Anche i palestinesi bloccano Al Jazeera

L’Autorità Nazionale Palestinese ha sospeso le trasmissioni e le attività di Al Jazeera nella Cisgiordania.

L’agenzia di stampa ufficiale palestinese, Wafa, ha affermato mercoledì che la ANP ha accusato la rete di trasmettere “materiali incitanti” e “rapporti fuorvianti” che “provocano conflitti e interferiscono negli affari interni palestinesi”.
“La decisione include anche la sospensione temporanea di tutti i giornalisti e del personale ad essa associato, nonché dei canali sotto la sua egida, fino a quando il suo status legale non sarà rettificato, a causa della violazione da parte di Al Jazeera delle leggi e dei regolamenti in vigore in Palestina”, ha affermato l’agenzia di stampa palestinese.
Al Jazeera ha condannato la decisione dell’Autorità Palestinese di impedirle di operare in Cisgiordania, affermando che la decisione è “in linea” con azioni simili intraprese da Israele.
In un comunicato, l’emittente con sede in Qatar accusa l’autorità sostenuta dall’Occidente di cercare di “nascondere la verità sugli eventi nei territori occupati, in particolare su ciò che sta accadendo a Jenin e nei suoi campi”.
L’Autorità palestinese, che collabora con Israele in materia di sicurezza, il mese scorso ha lanciato una rara repressione dei gruppi terroristici palestinesi nel campo profughi urbano di Jenin.
L’AP ha annunciato ieri la sospensione delle attività di Al Jazeera, accusandola di incitamento e interferenza negli affari interni palestinesi. L’AP esercita un’autonomia limitata in alcune parti della Cisgiordania.
Israele ha bandito Al Jazeera l’anno scorso, accusandola di essere un portavoce del gruppo terroristico di Hamas durante la guerra in corso. Gli attacchi israeliani hanno ucciso o ferito diversi giornalisti di Al Jazeera a Gaza e Israele ha accusato alcuni di loro di essere agenti del terrorismo. L’anno scorso le forze israeliane hanno fatto irruzione nella sede di Al Jazeera in Cisgiordania, ma l’emittente ha continuato a operare nel territorio.
Al Jazeera nega le accuse e accusa Israele di cercare di mettere a tacere la sua copertura.

(Rights Reporter, 2 gennaio 2025)

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La comunità ebraica (Noemi Di Segni) sul Papa: 'Dopo le parole di Francesco su Israele difficile persino invitarlo in sinagoga'

di Luca Roberto

 “Le ultime dichiarazioni del Papa sul conflitto in medio oriente, le accuse a Israele, mettono a rischio il dialogo maturato negli ultimi 60 anni. Se prima del 7 ottobre sarebbe stato normale invitarlo in sinagoga, adesso la vedo molto difficile. Non è più una scelta scontata e ovvia”. La presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni lo dice con un po’ di sconforto, ma mai di rassegnazione. “L’apertura delle porte sante, l’ho rimarcato anche nel mio messaggio per il Giubileo, vuol dire anche aprire le porte al dialogo. Ma le parole e i significati attribuiti dal Papa sono stati rivolti agli atteggiamenti negativi, alla reazione di Israele, non sono stati un invito alla responsabilità della convivenza”, ragiona Di Segni in questo colloquio col Foglio. “E’ successo anche quando ha ricevuto le famiglie degli ostaggi di Hamas. C’è sempre stata una condanna nei confronti di Israele. E’ ovvio che a Gaza c’è un popolo che soffre. Ma soffre non solo perché c’è una guerra: quel popolo è vittima in primo luogo del terrorismo di Hamas”. Questa chiacchierata con la presidente Di Segni è l’occasione per tirare le somme dell’anno appena concluso. Ma anche per immaginare, con le tendenze in atto in Europa e nel nostro paese, cosa possa rappresentare il 2025. Solo pochi giorni fa la segretaria del Pd Elly Schlein e il leader M5s Giuseppe Conte sono tornati a chiedere lo stop all’invio di armi verso Israele. Il ricordo del 7 ottobre è oramai scomparso nella sinistra italiana. Che segnale è? “Queste critiche fanno capire due cose. Che queste pretese possono essere rivolte a Israele perché si riconosce che è una democrazia”, dice Di Segni. “Una cosa non scontata perché l’abbiamo visto anche nel caso della vostra giornalista Cecilia Sala, a cui rivolgo tutta la mia vicinanza e solidarietà e mi accodo alle richieste di liberazione: avere a che fare con regimi come l’Iran è difficile anche solo nell’attivazione di canali diplomatici”. In secondo luogo, prosegue ancora la presidente dell’Ucei, “queste prese di posizione denotano una miopia che ignora la complessità della situazione in medio oriente. E portano a leggerla solo con degli slogan. Io ritengo sia un bel problema perché non ci rendiamo conto che uno degli obiettivi del terrorismo islamico è infiltrarsi nelle nostre istituzioni europee e distruggerle dal di dentro”. Sul Foglio abbiamo raccontato il caso dell’assessore umbro alla Pace, Fabio Barcaioli, che ha condiviso sui social post in cui accusa “Israele stato terrorista”. Si dovrebbe dimettere? “Si tratta di una forma di irresponsabilità molto grave, che rende certe persone inadeguate a ricoprire un ruolo come quello dell’assessore che è molto importante per costruire iniziative per il bene della cittadinanza. E che invece diventano presidi strumentalizzati in cui esibire una certa propaganda d’odio. E’ un discorso che vale a suo modo anche per il sindaco di Bologna Lepore. E per tutte le figure istituzionali che insistono sull’automatismo del genocidio. Per fortuna non hanno ricevuto avalli istituzionali, ma anche il riemergere di manifestazioni neofasciste desta grande preoccupazione”.
  La presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Noemi Di Segni in questi giorni è a Gerusalemme. E la distanza tra quel che osserva in prima persona, vedendo sfilare silenziosamente i cortei funebri dei soldati rimasti uccisi, e quanto viene raccontato alle nostre latitudini è palese: “Nell’attacco all’ospedale di Gaza di qualche giorno fa sui giornali italiani si leggeva solo che erano morte 50 persone. Ma si ometteva completamente di dire che quell’ospedale era una base operativa di Hamas, con le armi nascoste tra i reparti, in corsia. Così come si è omesso di dire che il direttore dell’ospedale fosse anch’egli un terrorista”, argomenta Di Segni. “Noi occidentali abbiamo questa mentalità. Non sappiamo come sono fatti gli altri, conosciamo poco il medio oriente. Eppure non rinunciamo a prendere posizioni forti. Come stiamo vedendo anche adesso a proposito della situazione in Siria. E’ bastato vedere qualcuno in giacca e cravatta per crederlo rassicurante. Il vantaggio di Hamas, la ragione per cui sta vincendo la guerra mediatica, è che invece ci conosce bene, conosce le nostre debolezze, vi si insinua. E lo fa, pur di vincere questa guerra mediatica, sacrificando il proprio popolo, che viene usato come uno scudo. Qualcosa che i vari Conte e Schlein ignorano completamente perché non si fidano di Israele e in questo peccano di miopia”.
  Eppure tutto quel che è accaduto in Europa e in occidente dopo il 7 ottobre, non tira in ballo solo la politica, a destra e sinistra. Quanto si è visto nelle università, per esempio, è preoccupante anche per l’anno a venire. “Voglio proprio vedere se chiudendo i bilanci, qualora non tornassero i conti degli atenei, i vari rettori avranno ancora il coraggio di permettere le occupazioni che hanno deturpato le università in tutta Italia. Si è sacrificato troppo in nome del nulla”, dice ancora Di Segni. “Il guaio non sono solo le continue richieste di boicottaggio, per fortuna in larga parte respinte. Ma il freno che è stato posto nei confronti di Israele nelle tante iniziative culturali, mostre, dibattiti, conferenze, non solo a livello universitario. C’è una violenza che fa paura. Spesso mossa da cellule finanziate da non si sa bene chi. Ecco perché bisogna stare molto attenti. E saper distinguere la legittima pietà provata per le immagini provenienti da Gaza col vero e proprio antisemitismo, sempre più presente nella nostra società”.
  Gli auspici per il nuovo anno, dopo le scene di Amsterdam, dopo le intifade nei campus e le manifestazioni nelle piazze delle città italiane, insomma, sono molteplici. “Il primo è che l’Europa si occupi a livello prioritario della propria sicurezza, essendo capace di rispondere in maniera sempre più lucida e puntuale. Da questo punto di vista la nuova Alta commissaria alla politica estera Kallas ci ha già dato qualche rassicurazione, dopo le uscite tutt’altro che equilibrate dell’ex commissario Borrell. Il mondo sta cambiando rapidamente, così come rapidamente sono cambiate le logiche in medio oriente. L’Europa deve avere una capacità di guida geopolitica, superando anche le distorsioni che abbiamo visto da parte dell’Onu sul conflitto israelo-palestinese. Bisogna capire che la difesa della libertà d’Israele è anche la difesa della libertà dei popoli europei”, conclude Di Segni. “Ci auguriamo che il nuovo anno porti alla fine della guerra. Aspettiamo anche di capire quali saranno le prime mosse di Trump negli Stati Uniti. Sapendo però che tutto quello che sta succedendo qui da noi, con la messa in discussione della nostra convivenza civile, con quest’infiltrazione dell’islamismo radicale nei nostri valori di libertà e democrazia per cercare di abbatterli, non scomparirà da un giorno all’altro. Dovremo saperci fare i conti”.

Il Foglio, 2 gennaio 2025)

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Assassini del 7 ottobre: eliminato Abd al-Hadi Sabah, responsabile del massacro a Nir Oz

di Luca Spizzichino

Abd al-Hadi Sabah, vertice dei terroristi di Nukhba a Khan Yunis Ovest e uno dei principali responsabili dell’infiltrazione nel Kibbutz Nir Oz durante il massacro del 7 ottobre, è stato eliminato in un recente attacco con droni, hanno confermato l’esercito israeliano e lo Shin Bet.
  Sabah è stato un obiettivo chiave delle operazioni israeliane per il suo ruolo attivo nel coordinare e guidare attacchi contro le forze israeliane durante il conflitto in corso. L’IDF ha evidenziato che, prima dell’attacco, sono state adottate misure significative per ridurre il rischio di danni collaterali ai civili, utilizzando munizioni di precisione, intelligence accurata e sorveglianza aerea.
  “L’IDF e lo Shin Bet continueranno a operare contro tutti i terroristi che hanno partecipato al massacro del 7 ottobre.” ha affermato l’esercito in una nota. Anche il Kibbutz Nir Oz, che ha visto il rapimento e l’uccisione di decine di civili, ha commentato l’operazione: “L’eliminazione del comandante del plotone Nukhba che ha guidato l’invasione di Nir Oz rappresenta un piccolo passo verso la giustizia, ma la vera giustizia si avrà solo quando gli ostaggi torneranno a casa.”
  Sempre nella giornata di ieri è stato eliminato Anas Muhammad Saadi Masri, comandante del settore nord dell’unità missilistica della Jihad Islamica Palestinese. Masri era responsabile di numerosi attacchi missilistici contro civili israeliani e soldati dell’IDF, orchestrati dal nord di Gaza sin dall’inizio del conflitto. “Masri era una figura significativa, responsabile di operazioni terroristiche contro civili israeliani e forze di sicurezza, e dirigeva il lancio di razzi verso le comunità di confine israeliane.” hanno dichiarato fonti militari.

(Shalom, 1 gennaio 2025)

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Otto giorni, otto lumi – 1 gennaio 2025, l’ottavo lume

di Rav Adolfo Locci

Nelle Massime dei padri (Pirqè Avot 3:6) è riportato un insegnamento di Rabbì Chalaftà che afferma che, anche dove uno solo studia Torah, la Shekhinah è presente con lui. Questa massima insegna che laddove si studia con costanza Torah, si riceve il merito di avere la presenza della Shekhinah.
Non è forse così/koh/כ״ה, la Mia parola è come fuoco, detto dell’Eterno. Nel Talmud (Shabbat 138b) questo verso del profeta Geremia (23:29) è interpretato dai maestri come un riferimento alla Torah che è parola di Dio, che porta alla discesa della Shekhinah (così/koh/כ״ה).
Il Midrash sottolinea che nel pettorale del Sommo Sacerdote le pietre erano incastonate secondo l’ordine delle 12 tribù e la pietra di zaffiro (even sapir) corrispondeva a Issakhar. Lo Zohar insegna che il “ma‘aseh livnat hasapir/un lavorato in trasparente zaffiro” (Esodo 24:10) che Mosè vede ai piedi del Trono della Gloria è un’allusione alla Shekhinah. Siccome la tribù di Issakhar era il pilastro per lo studio della Torah, lo zaffiro è la pietra che la rappresentava nel pettorale del Sommo Sacerdote.
I giorni di Chanukkah sono per questo i più propizi per fare quelle azioni, ad esempio studiare di più i testi della Torah orale, che facciano posare la Shekhinah su Israele.

(moked, 1 gennaio 2025)

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La radice ebraica che la Chiesa non riesce più a sostenere

Il cristianesimo, uscito vincente dagli antichi Concili, risulta svuotato e profondamente insicuro, critico e scettico circa la propria tradizione, che ha sostituito con un generico pensiero woke

di Vittorio Robiati Bendaud

È finita un’era, quella dell’Europa cristiana, ossia quella della fede della maggioranza dei cristiani nel loro cristianesimo, persino tra gli esponenti dell’istituzione. La crisi profonda della dimensione simbolica (più che rilevante per una fede che si è sempre tradotta in arte – dalla pittura, all’architettura, alla musica) è evidente, visibile e udibile, da decenni.
In sintesi: siamo di fronte, almeno in ampia parte dell’Occidente ex-cristiano, a un cristianesimo sopravvissuto a se stesso e svuotatosi di sé. E se la Shoah per il cristianesimo è stata suicidaria, laddove i giusti cristiani – dai preti alle suore, dagli operai ai contadini – lo furono nonostante e contro i millenari insegnamenti antiebraici delle Chiese, l’appropriazione cristiana della Shoah assolve oggi non di rado a processi ambigui e finanche insidiosi.
Dopo la Shoah, successivamente alla nascita dello Stato di Israele e nel clima distensivo della laicità occidentale, con anche l’alveo del dialogo ebraico-cristiano, abbiamo dimenticato – o quantomeno sottostimato – l’immenso potere “costruttivo” dell’antisemitismo. Proprio perché dialoghiamo con cristiani (e musulmani), dobbiamo ricordarci -e ricordare loro!- del potere strutturante, come tale calamitico, dell’antisemitismo, che ha informato il simbolico mediterraneo e occidentale in ambito teologico, filosofico e politico. Anzi, ne è stato la condizione di possibilità e lo scheletro. E, se a qualsiasi musulmano o cristiano orientale onesto è ben chiara la forza aggregante dell’antisemitismo, specie nella sua odierna variante antisraeliana, perché ha permesso a molte società panarabe di definirsi e costruirsi in tal senso negli ultimi settant’anni, in Occidente ci sfuggono oggi il portato e la malia di questa forza pericolosa e omicida.
Oggi, ciò che rimane della cristianità è in cerca d’Autore. Il cristianesimo uscito vincente dagli antichi Concili risulta svuotato e profondamente insicuro, critico e scettico circa la propria tradizione che ha sostituito un generico pensiero woke moderato. Resta il problema dell’ebraismo e di quell’insostenibile radice ebraica. Ed è qui che scatta, ancora oggi, specie oggi, la forza strutturante del pensiero antiebraico, a suo modo fondativa.
E, se dopo la Shoah, non si poteva non parlare di Gesù ebreo, ecco l’accento marcato sul fatto che Gesù parlasse però (se ne colga il carattere avversativo!) la “lingua del popolo”, ossia l’aramaico, adagio che assolve a una vecchia doppia strategia: distanziare Gesù dall’ebraico, quindi dal suo popolo e dalla liturgia ebraica; evidenziare un presunto carattere pauperista, comunque oppositivo, laddove però il resto del popolo era, con ogni evidenza, comunque formato da ebrei. Con il distanziamento di Gesù dall’ebraismo e da Israele, eccolo allora farsi biondo e finanche “ariano”, come nei secoli passati, oppure oggi “palestinese”: il processo è il medesimo e rientra nella stessa logica. Un esempio? L’occultamento del valore religioso del digiuno nell’ebraismo e l’importanza per i cristiani di riscoprirne – addirittura! – il senso e la pratica dai musulmani, come proposto recentemente dal papa; da qui il mantra, presunto filo-femminista, secondo cui Islām e cristianesimo condividono la fede nella misericordia di Dio, che è cura materna, secondo la radice semitica r-h-m, da cui rahma, in arabo, tralasciando che esiste la stessa radice, con il medesimo significato, in ebraico, e che fu proprio nell’antica tradizione di Israele che si articolò questa dimensione simbolico-teologica.
Successivamente al 7 ottobre e ai vari eventi bellici, il vescovo Bonny, ordinario della diocesi di Anversa e impegnato ai massimi livelli nel dialogo ebraico-cristiano, ha ribadito che Gesù è “un giovane palestinese morto in croce” e che la lettura ebraica-israeliana dei testi sacri è distante da quella cristiana e con essa incompatibile. Siamo come agli esordi del cristianesimo, in salsa progressista cattolica contemporanea: de-ebraicizzazione di Gesù e incomprensione da parte di Israele delle sue stesse Scritture. Sulla stessa scia il cardinale Ravasi, che rilanciò la vexata quaestio, con un portato simbolico bimillenario di mistificazione e demonizzazione, della “legge del taglione”, anzi della presunta “logica di Lemech”, contestualmente alle azioni belliche israeliane. Perfino la Shoah, se cristianizzata e universalizzata, può essere scippata alle vittime e ai loro eredi, rivolgendogliela contro e accusandoli di genocidio o crimini di guerra.
Insomma: siamo in una fase di cristianesimo profondamente debilitato, in cerca di contenuti, che ha necessità di un punto gravitazionale per strutturarsi, specie in relazione all’avanzata islamica e a un Occidente disorientato. In pochissimo tempo il dialogo ebraico-cristiano è divenuto anticaglia, relitto e fonte di contraddizione. Forse, persino, un errore. Chi scrive crede (e spera) che il dialogo schietto e leale continuerà, ma in modalità carbonare, sottoforma di resistenza, mentre quello ufficiale, diplomatico e accademico è stato polverizzato e ridotto a imbelle ridicolaggine.

(Bet Magazine Mosaico, 1 gennaio 2025)

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Fratelli maggiori o fratelli-coltelli? La Chiesa, gli ebrei (e Israele) un insopportabile doppio standard

27 gennaio, Giorno della Memoria. Gli studi sui nuovi documenti d’archivio di Pio XII. La certezza definitiva che il papa sapeva. Le “anime tiepide” e la politica Vaticana durante la Shoah. I rapporti tra Chiesa cattolica ed Ebraismo? Al minimo. Un cammino accidentato, doloroso (per gli ebrei). E adesso? Battute d’arresto, passi indietro e una attualità sconcertante. Nel passato, le amare ragioni dell’oggi.

di Ugo Volli

Le manifestazioni di odio anti-israeliano che si sono succedute nella stampa e nelle città di mezzo mondo, durante l’ultimo anno, hanno fatto emergere un fondo antisemita che si credeva fosse stato definitivamente superato dal ricordo della Shoah. Questo ritorno di un atteggiamento pregiudiziale contro Israele e gli ebrei ha toccato in alcuni momenti anche i vertici della Chiesa, con cui pure negli ultimi decenni il mondo ebraico ha intrecciato un dialogo che sembrava capace di cancellare i vecchi pregiudizi.
Per questa ragione oggi è necessario ritornare a esaminare da vicino l’atteggiamento della Chiesa e dei politici cattolici nella prima metà del secolo scorso, non solo negli anni tremendi della Shoah, ma anche nel periodo in cui si accumularono le premesse che la resero possibile e nel periodo immediatamente successivo.
L’apertura dell’archivio delle carte del pontificato di Pio XII nel 2020 ha prodotto molte ricerche storiche che danno nuove informazioni su questo tema, dibattuto da decenni; da allora vi sono stati molti lavori storici, che permettono ormai di capire bene quel che è successo. Il primo a pubblicare novità rilevanti è stato lo storico ebreo americano David Kertzer (Un papa in guerra, Garzanti 2022); vi è stato poi un largo dibattito; di recente è uscito un altro libro molto significativo, Les âmes tiedes – Le Vatican face à la Shoah di Nina Valbosquet (La Decouverte, Paris, 2024 ancora non tradotto in italiano).
A partire dallo scandalo del Vicario. un’opera teatrale scritta dal drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth nel 1963 in cui si accusava direttamente Pio XII di essere stato il “papa di Hitler”, la questione del rapporto del mondo cristiano con il genocidio nazista è stata molto personalizzata sulla figura di questo papa. Tale focalizzazione è certamente giustificata dal fatto che la Chiesa cattolica ottant’anni fa, ancor più di oggi, era un organismo verticistico controllato in maniera assoluta dal papa regnante e Pacelli, dopo essere stato nunzio apostolico in Germania fra il 1917 e il 1929, durante gli anni cioè in cui si formò il partito nazista, e segretario di Stato (cioè ministro degli esteri del Vaticano) negli anni della sua affermazione (dal ‘29 al ‘39) regnò dal marzo del 1939 a ottobre del 1958, cioè per l’intero periodo del genocidio e per gli anni successivi.
I documenti emersi dagli archivi mostrano che ci fu certamente una linea politica precisa, decisa da lui, di “neutralità assoluta” rispetto al nazismo e dunque di sostanziale silenzio sulla Shoah, su cui aveva informazioni precise e aggiornate. Ma fanno vedere anche che queste scelte erano solo il vertice di un atteggiamento generale largamente condiviso della Chiesa, anzi delle chiese cristiane.
Per capire questo atteggiamento è necessario richiamare prima almeno sommariamente una storia lunga e complessa di rapporti fra cristianesimo ed ebraismo.

Un rapporto in quattro fasi
  Si possono distinguere quattro momenti. Nei primissimi anni dopo la predicazione evangelica, i cristiani erano ancora prevalentemente ebrei, un gruppo che scelse di non partecipare alla lotta disperata del popolo ebraico contro i Romani, scagionandoli dalla morte di Gesù da loro decisa ed eseguita, per attribuirne la colpa al popolo ebraico.
I Vangeli e gli altri documenti delle Scritture cristiane portano la traccia di questa separazione, che ebbe aspetti molto polemici da entrambe le parti.
La polemica cristiana contro gli ebrei non si placò nei secoli successivi e determinò conseguenze giuridiche a partire dal IV secolo, quando l’impero romano si cristianizzò.
In questa seconda fase si formò la politica fondamentale della Chiesa nei confronti degli ebrei: non sterminarli direttamente, dato che testimoniavano la verità del cristianesimo con il loro “Antico Testamento”, pur senza accettarla; tenerli invece in uno stato di soggezione, di miseria e di umiliazione estrema per punirli della loro “miscredenza” e incoraggiarne la conversione.
Le stragi però avvennero e divennero sempre più frequenti nella terza fase, a partire dalle crociate, insieme alle espulsioni, alla reclusione nei ghetti, alle distruzioni di intere comunità, ai roghi di libri e spesso di esseri umani, alle accuse grottesche di usare il sangue umano per la confezione del pane azzimo, di avvelenare i pozzi, di spargere le epidemie. Alcuni di questi crimini atroci non furono approvati dai vertici della Chiesa e dai sovrani cristiani, tanto erano inumani e pretestuosi. Ma il fondamento di questa incessante persecuzione era religioso ed essa fu sempre incoraggiata dalla predicazione di frati, vescovi, preti e da un’incessante opera di propaganda nelle Chiese, nelle opere d’arte, negli scritti. L’odio per gli ebrei fu diffuso anche dalle più grandi personalità religiose cattoliche e poi, dopo il Cinquecento, anche dai riformati, a partire da Martin Lutero.
La scia di sangue delle persecuzioni dell’antisemitismo religioso si spense progressivamente con la perdita del potere clericale, a partire dalla Rivoluzione francese. Ma l’impronta dell’odio per gli ebrei non sparì dalla cultura cristiana, anzi si approfondì con la quarta fase iniziata nell’Ottocento. La Chiesa ora rimproverava in particolare agli ebrei l’affermazione della modernità, del liberalismo, della libertà politica e religiosa, della massoneria, in seguito del socialismo e del “bolscevismo”, che percepiva come suoi nemici mortali.
La civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti fondata nel 1850 che fu da subito l’organo ufficioso della Santa Sede, condusse per decenni un’intensa campagna antiebraica su temi politico-sociali ancor più che religiosi, rimproverando agli ebrei tutti i mali del mondo moderno.

Due casi: Mortara e Dreyfus
  Due eventi clamorosi confermarono questa posizione. Il primo fu il “caso Mortara”, il sequestro nel 1858 da parte dei gendarmi vaticani di un bambino ebreo di Bologna, che una domestica licenziata asseriva di aver battezzato clandestinamente e che non fu riconsegnato alla famiglia nonostante una grande mobilitazione in tutt’Europa. Il secondo, ancora più aspro, fu il caso Dreyfus, la falsa accusa di tradimento a un ufficiale francese che aveva il torto di essere fra i primissimi ebrei arrivati allo Stato Maggiore. In entrambi i casi la stampa e la gerarchia cattolica si impegnarono con tutte le loro forze contro “le pretese degli ebrei”.
Nascevano nel frattempo, da una matrice clericale, numerosi movimenti esplicitamente antisemiti, per esempio in Francia l’Action française e in Austria il Partito Cristiano Sociale di Karl Luger, che divenne sindaco di Vienna e fu preso come modello per il suo antisemitismo non solo dai nazisti, ma anche dal padre fondatore della Democrazia Cristiana italiana Alcide De Gasperi, come racconta un libro recente dello storico milanese Augusto Sartorelli, (L’antisemitismo di Alcide De Gasperi tra Austria e Italia, edizioni Clinamen, 2024).
Questo è lo sfondo su cui va letto l’atteggiamento della Chiesa rispetto alla Shoah: un profondo e diffuso sospetto, venato di disprezzo, per gli ebrei, per le loro “colpe” teologiche (il “deicidio”) ma anche perché protagonisti della modernità che la Chiesa combatteva. La Chiesa non rifiutava un “antisemitismo moderato” (per “la difesa dell’interesse dei popoli” e della “religione”) ma era contraria al razzismo antisemita, che faceva dell’appartenenza al popolo ebraico una colpa genetica incancellabile. Pensava che il battesimo potesse lavare questa appartenenza e quindi si impegnò a difendere soprattutto quelli che chiamava “cattolici non ariani” (una definizione eufemistica di per sé razzista), cercando di sottrarli alla persecuzione nazista, peraltro spesso senza riuscirci. Il libro di Nina Valbosquet racconta molte di queste storie, per esempio quella dei 3000 visti concessi dal Brasile “per omaggio al papa” a ebrei convertiti, che poterono essere utilizzati solo in parte, per le resistenze burocratiche in Brasile e nei paesi di passaggio e per la decisione nazista di bloccare ogni uscita dalla Germania e dai paesi occupati a partire dall’ottobre del 1941. Quanto agli altri ebrei, rimasti tali, vi furono degli interventi cattolici di soccorso economico e in certi casi di rifugio, ma essi vennero prevalentemente dalla periferia dell’istituzione ecclesiastica, da singoli vescovi, conventi di frati e di suore, religiosi di buona volontà.
Il Vaticano accettò alcune proposte di donazione di fondi, soprattutto di provenienza americana, da distribuire ai perseguitati “senza discriminazione di appartenenza religiosa”, ma badò bene a non farsi coinvolgere troppo in queste iniziative e soprattutto di rispettare le norme stabilite dagli Stati antisemiti. Nei luoghi in cui aveva molta influenza, come la Slovacchia governata da un prete, Monsignor Tiso, o la Croazia degli ustascia su cui l’arcivescovo Viktor Stepinac aveva grande autorità, o anche l’Italia fascista, i documenti ora consultabili mostrano che il Vaticano non condannò la legislazione antiebraica o le deportazioni, ma chiese per via diplomatica che esse fossero applicate con clemenza; la sola opposizione esplicita, ma pur sempre assai prudente, riguardò lì come altrove i domini che la Chiesa considerava di sua esclusiva competenza, come i matrimoni misti e la loro prole o gli ebrei convertiti.
Sul piano delle prese di posizioni ufficiali e pubbliche, Pio XII mantenne il silenzio, evitando ogni intervento anche indiretto, salvo che in due occasioni: un discorso riservato al collegio cardinalizio del giugno del 1942 e il messaggio natalizio del 1942, in cui il papa, dopo una ventina di pagine di testo dedicato ai più vari problemi e avendo appena nominato caduti in guerra, loro vedove e orfani, popolazioni esiliate, vittime dei bombardamenti e altri danni bellici, faceva un accenno piuttosto vago: “Questo voto [di “non darsi riposo, finché … divenga legione la schiera di coloro, che … anelano al servizio della persona e della sua comunanza nobilitata in Dio”] l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”.
Il Vaticano, invitato a farlo, rifiutò categoricamente di sottoscrivere la dichiarazione interalleata del 17 dicembre 1942 di denuncia dello sterminio ebraico operato dai nazisti, formulata dai governi delle Nazioni Unite.
Si è sostenuto che il papa rifiutasse di intervenire non solo per la scelta esplicita di mantenere la neutralità della Santa Sede, esattamente “come nella prima guerra mondiale”, ma anche perché non aveva informazioni sufficienti sulla Shoah. I documenti fanno giustizia di questa scusa. In Vaticano arrivarono fin dal 1939 relazioni dettagliate, anche di fonti vescovili, sulla prima fase della “Shoah dei proiettili” in Polonia e in Ucraina e da allora non cessarono di giungere testimonianze e relazioni continue e ben accreditate di testimoni sulle diverse fasi del genocidio, insieme a numerose richieste di aiuto. Insomma, il Vaticano sapeva. Valbosquet ha notato che nelle carte si trovano spesso commenti che invitano a diffidare da questi appelli perché “si sa, gli ebrei esagerano sempre”.
Anche quando la persecuzione degli ebrei raggiunse le soglie del Vaticano, con il rastrellamento di Roma del 16 ottobre del 1943, non vi fu una presa di posizione pubblica del Papa, che è per ufficio anche il vescovo di Roma, ma solo cauti contatti verbali con l’ambasciatore tedesco, soprattutto allo scopo di ottenere il rilascio dei “cattolici non ariani”. Il papa continuò a non parlare contro i nazisti anche dopo la liberazione di Roma. In quel momento, quando sotto la spinta degli alleati il governo Badoglio stava decidendo di abolire le leggi razziste, il gesuita Pietro Tacchi Venturi, che era stato l’intermediario preferito del Vaticano col fascismo, fu mandato al ministero degli Interni allo scopo di difendere “una legge la quale, secondo i princìpi e la tradizione della Chiesa Cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate (quelle sui convertiti e sui matrimoni misti, ndr), ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”.
L’ultimo atto di questa storia fu la difficile disputa per recuperare i bambini ebrei rifugiati senza genitori in istituzioni cattoliche, che il Vaticano non voleva riconsegnare alle famiglie – salvo esservi obbligato dalla magistratura.
Com’è noto, ci volle il Concilio Vaticano II, la dichiarazione Nostra Aetate (approvata nel 1965, vent’anni dopo la caduta del nazismo) perché apparisse superato l’antigiudaismo cristiano. La prima visita di un papa in sinagoga che compì Giovanni Paolo II nel 1986 e il riconoscimento di Israele da parte della Santa Sede nel 1993 (ultima degli Stati europei) diedero l’impressione che l’“odio antico” fosse stato finalmente superato. Sembrava potersi aprire allora una fase straordinaria di dialogo e di amicizia.
Oggi queste realizzazioni non appaiono annullate, ma certamente congelate, bloccate da una volontà anti-israeliana che si esprime in molti gesti, dall’evocazione nell’ultimo libro del Papa di un possibile “genocidio” che potrebbe essere stato commesso da Israele a Gaza, alla presentazione solenne in Vaticano di un presepe in cui Gesù bambino appare avvolto in una kefiah, accreditando la falsità storica della propaganda palestinese. È difficile dire oggi se si tratti solo di una mossa politica o del riemergere di una tendenza quasi bimillenaria al rifiuto cristiano per gli ebrei. Ma certamente essa obbliga a ripensare a quel che la Chiesa ha fatto (e non ha fatto) durante la Shoah e a collocare quella fase, e l’attuale, nei tempi lunghi di un’inimicizia millenaria.

(Bet Magazine Mosaico, 1 gennaio 2025)

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Politica e sport: atleti israeliani esclusi dal World Bowls Tour

di Nicole Nahum

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Il confine tra politica e sport, già spesso sottile, si è ulteriormente ridotto nei giorni scorsi, con la decisione del World Bowls Tour (WBT), uno dei principali tornei nella famiglia delle bocce, di escludere tre atleti israeliani dai Campionati Mondiali Indoor di Norfolk, in programma per gennaio 2025. Daniel Alomin, Amnon Amar e Itai Rigbi non potranno partecipare a questo prestigioso evento, vittime di una crescente pressione politica scatenata dalle proteste contro un altro atleta israeliano, Shalom Ben-Ami, durante l’International Open di Scozia dello scorso novembre. Sebbene Ben-Ami non abbia partecipato alla competizione per motivi tecnici, le manifestazioni contro la sua presenza hanno messo sotto pressione gli organizzatori, portando alla decisione di escludere gli atleti israeliani da ulteriori eventi.
  Il WBT ha giustificato l’esclusione dei tre atleti israeliani come una necessità per preservare l’integrità e la serenità dell’evento. Gli organizzatori hanno spiegato che l’aumento delle proteste e le difficoltà nell’assicurare un ambiente sereno avevano reso impossibile garantire il buon svolgimento della competizione. “Il bowls è uno sport che unisce le persone”, hanno sottolineato, facendo leva sul valore di inclusività che contraddistingue questa disciplina. Tuttavia, questa decisione ben si allontana dai valori espressi ed è stata accolta con una reazione di sdegno da parte di molti osservatori e figure pubbliche, che hanno visto in essa un cedimento alle pressioni politiche.
  Il deputato britannico Rupert Lowe ha condannato aspramente questa esclusione, accusando gli organizzatori di “cedere alla follia” della protesta politica. “Lo sport dovrebbe essere unificante, e dovrebbe essere al di sopra della politica” – ha affermato Lowe – , promettendo di lottare contro quella che ha definito una “decisione scandalosa”. Le sue parole non sono state le sole a sollevare preoccupazioni: anche la Campagna contro l’Antisemitismo ha denunciato l’esclusione, accusando il WBT di assecondare una “folla anti-Israele” e di aver violato i principi fondamentali dello sport, che dovrebbe valutare gli atleti per le loro capacità e non per la loro nazionalità. “Lo sport non dovrebbe fare discriminazioni”, hanno dichiarato i rappresentanti dell’organizzazione, evidenziando la nascita di un possibile precedente pericoloso.
  Zvika Hadar, presidente della Professional Bowlers Association (PBA) Israel, ha messo in evidenza che Israele è stato uno dei membri fondatori del WBT, sottolineando che questa esclusione potrebbe avere conseguenze più ampie per il futuro. Hadar ha dichiarato che l’intera comunità del bowls in Israele è “molto arrabbiata” e preoccupata che questa decisione possa aprire la strada ad altre esclusioni. La sua denuncia è quella di una “civiltà sportiva” che sta crollando sotto il peso di pressioni politiche, dove l’esclusione di atleti da una competizione internazionale diventa una vittoria per chi cerca di strumentalizzare lo sport a fini ideologici.
  Se lo sport diventa il campo di battaglia per le tensioni geopolitiche, la sua capacità di unire e promuovere valori universali rischia di essere compromessa, aprendo la porta a pericolosi precedenti che potrebbero minare la sua stessa natura. In un contesto globale sempre più polarizzato, è fondamentale che il movimento sportivo riaffermi il suo impegno verso l’inclusività e l’equità, proteggendo gli atleti dalle strumentalizzazioni politiche e garantendo che lo sport rimanga un terreno di competizione giusta e rispettosa nei confronti di tutti.

(Shalom, 1 gennaio 2025)

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Ennesimo attacco degli Houthi contro Israele

di Anna Balestrieri

GERUSALEMME - Nella notte tra il 30 e il 31 dicembre 2024, i ribelli Houthi dello Yemen hanno lanciato un missile balistico diretto verso il centro di Israele. L’attacco ha attivato le sirene d’allarme in diverse città, inclusa Tel Aviv, costringendo i residenti a rifugiarsi nei bunker. Le forze di difesa israeliane (IDF) hanno intercettato con successo il missile, grazie al sistema avanzato di difesa Iron Dome, evitando vittime o danni materiali significativi.

• Contesto del conflitto
   Questo attacco si inserisce in una serie di aggressioni simili condotte dagli Houthi contro Israele. I ribelli, sostenuti dall’Iran, hanno dichiarato di voler continuare gli attacchi finché Israele non accetterà un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. In risposta alle azioni precedenti, Israele ha già condotto raid aerei mirati nello Yemen, colpendo infrastrutture considerate cruciali per le operazioni militari degli Houthi.

• La risposta israeliana
   Durante una riunione urgente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’ambasciatore israeliano ha avvertito che gli Houthi rischiano di subire lo stesso destino di Hamas e Hezbollah se continueranno le loro provocazioni. Israele ha sottolineato la sua politica di non tollerare attacchi contro i propri cittadini, riaffermando il diritto di difesa preventiva.

• Rischi di escalation
   Gli esperti avvertono che la situazione potrebbe degenerare rapidamente. L’Iran, principale sostenitore degli Houthi, potrebbe intensificare il suo coinvolgimento, portando a un’escalation che coinvolgerebbe l’intera regione. La comunità internazionale ha lanciato appelli alla moderazione, ma finora le prospettive di una soluzione diplomatica sembrano remote.
  L’attacco evidenzia ancora una volta la crescente complessità delle dinamiche di sicurezza in Medio Oriente e il ruolo delle alleanze regionali nel plasmare le tensioni.

(Bet Magazine Mosaico, 31 dicembre 2024)

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Il lungo anno della demonizzazione di Israele

di Niram Ferretti

Nel suo opus magnum, A Lethal obsession, Antisemitism from Antiquity to the Global Jihad, Robert Wistrich scriveva, “Contrariamente alla prognosi sionista, l’antisemitismo non si è dissolto o è significativamente diminuito, figuriamoci scomparso, dopo il venire in essere di Israele nel 1948. Al contrario, Israele è emerso gradualmente come la ‘nuova questione ebraica’”.
  Ciò che il grande storico inglese individuava con precisione ha, dopo il 7 ottobre 2023, raggiunto un apice mai sperimentato precedentemente. La reazione di Israele alla più grande tragedia collettiva dall’anno della sua fondazione, la guerra contro un gruppo jihadista tra i più brutali al mondo, reazione logica e totalmente giustificata, si è ben presto trasformata in una feroce, fanatica e parossistica demonizzazione.
  Con perversa e diabolica determinazione, la vittima è stata trasformata in colpevole e i colpevoli in vittime, la volontà genocida di Hamas, di cui il 7 ottobre ha rappresentato una anticipazione, è stata rimossa dalla scena per incolpare Israele stesso di genocidio, la reazione inevitabile di Israele alla micidiale e atroce aggressione subita è diventata vendetta, gli inevitabili morti civili, presenti in ogni guerra, sono diventati tutti omicidi intenzionali, e via di questo passo.
  Tutto ciò è avvenuto su un terreno a lungo arato, come sa chiunque abbia seguito da vicino le vicende di Israele dal 1967 ad oggi, anno della Guerra dei Sei Giorni che, nell’intenzione di Nasser, avrebbe dovuto essere guerra di sterminio e invece si rivelò una cocente disfatta araba. Da allora, e per quasi sessant’anni gli arabi, appoggiati dall’Unione Sovietica e poi, progressivamente, allargando il loro consenso nel campo della sinistra conquistata dalla propaganda russa che presentava Israele come un avamposto colonialista e i palestinesi arabi come un popolo espropriato e vittimizzato, hanno proseguito indefessamente l’opera di distruzione in effige dello Stato ebraico. Quest’opera, con l’aggiunta di un pericolo concreto di distruzione nucleare, ha trovato successivamente nell’Iran un solerte collaboratore.
  Ma non si tratta solo di questo, oggi, su Il Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia, ha illustrato magistralmente come l”Occidente ormai stanco di se stesso, delle sue radici, del suo passato, sia anche, inevitabilmente stanco anche degli ebrei, di ciò che essi hanno rappresentato per secoli per la cultura occidentale, e ritenga di avere ormai saldato il conto con l’orrore della Shoah, spostando la sua attenzione su altre vittime, che oggi sarebbero diventati gli arabi palestinesi, vittime proprio di coloro che per generazioni sono stati le vittime per eccellenza.
  Questo contesto, crea cortocircuiti micidiali, ripulse e avversioni e gli ebrei di nuovo, attraverso Israele, vengono riconosciuti colpevoli, colpevoli del loro Stato, colpevoli di averne permesso la nascita, colpevoli di immaginari genocidi dopo essere stati accusati per duemila anni di avere ucciso Cristo, e forse, presto, di nuovo, colpevoli di esistere.
  La guerra più lunga di Israele, una guerra ancora in corso, ha dunque scaturito l’eruzione maggiore di odio nei suoi confronti e di riflesso di odio per gli ebrei, dalla fine della Seconda guerra mondiale ai nostri giorni. L’unica risposta a questo odio, la quale, paradossalmente, lo fomenta, è quella che Israele può permettersi di esercitare attraverso quell’uso della forza che sempre l’Occidente passivo e non reattivo, ha deciso di ripudiare, cullandosi nell’illusione che la guerra sia una cosa del passato, inconcepibile con l’idea delle magnifiche sorti e progressive che esso ritiene di incarnare.
  Israele, il demonio Israele, è dunque tutto quello che l’Occidente non vuole più essere, avendo scelto di alimentarsi con i bizantinismi crepuscolari del wokismo, della gender theory, del fluidismo, dell’ecologismo palingenetico, ecc., trastulli tipici di una civiltà tracollante, e per il quale, uno Stato fortemente nazionalista che mantiene salda la propria identità difendendosi dalla violenza del suprematismo islamico, è una aberrazione
  Alla fine dei discorsi, tuttavia, solo portando a casa la vittoria, che si ottiene come si è sempre ottenuta, con la supremazia della forza, e ridisegnando un Medio Oriente purgato da forze omicide e realmente programmaticamente genocide, Israele può fare fronte all’offensiva micidiale di chi sperava e spera nella sua capitolazione, combattendo anche per quell’Occidente che lo ha generato e che, con l’eccezione degli Stati Uniti, lo ripudia.

(L'informale, 31 dicembre 2024)

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Anche il Colosseo si illumina con la luce della chanukkià

di Ioel Roccas

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L’accensione delle candele di Chanukkà a Roma non è una semplice ricorrenza. È un evento che vede impegnate diverse realtà cittadine. Dalla Comunità Ebraica di Roma al Comune passando per il Movimento Chabad Lubavitch.
  Anche quest’anno un luogo simbolo della storia di Roma si è accesa la sesta candela della Chanukkià, il Colosseo. Il candelabro è stato posizionato a ridosso dell’Arco di Tito, uno dei luoghi di memoria storica e testimone dell’avvio della Diaspora ebraica. Questo monumento, già testimone di uno dei momenti più tristi della storia ebraica, ha sentito riecheggiare le berachot che anticipano l’accensione, alla presenza di quasi 200 persone.
  Sono intervenuti Rav Hazan, Alessandra Sermoneta, vice presidente I Municipio, Riccardo Pacifici, Presidente European Jewish Association. L’accensione è stata dedicata alla memoria di Giorgio Lazar, scomparso un anno fa.
  Lo svolgimento dell’evento è stato reso possibile grazie alla collaborazione del I Municipio, del Parco del Colosseo e della Questura.
  Terminato l’evento Rav Menachem Lazar, organizzatore dell’accensione per il movimento Chabad, ha dichiarato: “Per il quarto anno la Chanukkià ha illuminato il Colosseo proprio sulla Via Sacra, dove 2000 anni fa ci fu la marcia della vittoria dell’imperatore Tito dopo aver distrutto il Bet Hamikdash a Gerusalemme. Suo padre Vespasiano coniò la moneta Judea Capta, per celebrare la sconfitta degli ebrei, ma oggi quello che rimane dei Romani sono le pietre, mentre il popolo eterno è ancora qui a celebrare Chanukkà”.
  Nel corso dei secoli la cultura ebraica è diventata parte della cultura di Roma, come la sua comunità. Festeggiare insieme è necessario, oggi più che mai, accompagnati dalla consapevolezza che gli ebrei sono parte viva e integrante della città di Roma.

(Shalom, 31 dicembre 2024)

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Una nuova minaccia per Israele?

Ecco perché l’Egitto ha acquistato armi avanzate del valore di 5 miliardi di dollari

di David Zebuloni

A partire dal 7 ottobre, ovvero dal giorno in cui il governo di Abdel Fattah al-Sisi è diventato il mediatore ultimativo tra Israele e Hamas, pare che gli Stati Uniti e l’Egitto abbiano rafforzato le loro relazioni diplomatiche più di quanto abbiano mai fatto prima. Il Cairo è presto diventato un fedele alleato di Washington, nonostante in passato lo stesso governo americano abbia criticato duramente la politica egiziana circa alcune questioni umanitarie cruciali come quella dei diritti umani.
Questa settimana, la loro alleanza sembra aver raggiunto un nuovo livello. Gli Stati Uniti hanno infatti annunciato un importante accordo per la vendita di equipaggiamenti militari all’Egitto del valore di oltre 5 miliardi di dollari. Un accordo privo di precedenti che include delle armi avanzate destinate alla manutenzione e al potenziamento di 555 carri armati Abrams M1A1 per un valore di 4.69 miliardi di dollari, 2.138 missili Hellfire per un valore di 630 milioni di dollari e munizioni di precisione il cui valore è stimato in 30 milioni di dollari.
Una domanda sorge dunque spontanea e sembra preoccupare l’intero Medio Oriente: perché l’Egitto ha bisogno di così tante armi? A quale guerra si sta preparando? “Si tratta di un evento insolito, ma non nuovo”, spiega Yoel Guzansky, ricercatore senior e capo del programma del Golfo presso l’Istituto per la Ricerca sulla Sicurezza Nazionale (INSS) e fellow senior al Middle East Institute di Washington, in un’intervista a Makor Rishon.
“Il potenziamento delle forze armate egiziane dovrebbe assolutamente preoccupare Israele”, continua il ricercatore. “Negli ultimi anni lo Stato ebraico ha come distolto lo sguardo da questo insolito fatto e non gli ha dato, almeno pubblicamente, l’attenzione che merita. Tuttavia, come ha detto questa settimana l’ex ambasciatore al Cairo, David Govrin, non c’è dubbio che l’Egitto stia violando l’accordo militare del trattato di pace”.
In un’intervista pubblicata su Ynet questa settimana, l’ambasciatore uscente ha per l’appunto affermato che l’Egitto ha recentemente inviato un numero di forze armate nel Sinai maggiore rispetto a quanto concordato con Israele. E non è tutto. “L’Egitto si sta armando notevolmente e Israele deve assolutamente prendere in considerazione le sue nuove e notevoli capacità militari”, ha detto Govrin. “Come abbiamo imparato il 7 ottobre, non possiamo più fare affidamento alle intenzioni dei nostri vicini, poiché potrebbero cambiare da un momento all’altro”.
Guzansky conferma l’avvertimento dell’ormai ex ambasciatore. “Penso che Israele sbagli a non affrontare la questione”, aggiunge. “Ciò che l’Egitto sta facendo è una vera e propria violazione degli accordi del protocollo di sicurezza tra i due paesi”. Un fenomeno, come già detto, che suscita grande preoccupazione, nonostante Israele mantenga dei solidi rapporti di pace con l’Egitto da quattro decenni.
Infatti, dal 1979 ad oggi, l’accordo di pace firmato dal presidente egiziano Anwar Sadat, dal primo ministro israeliano Menachem Begin e dal presidente statunitense Jimmy Carter nei giardini della Casa Bianca, non ha mai mostrato segni di cedimento. “Il Medio Oriente è sempre più instabile e la pace con l’Egitto rappresenta per Israele una grande risorsa. Una risorsa che va protetta”, osserva il ricercatore.
“Israele non vuole ulteriori nemici”, sottolinea. “Le minacce che le arrivano da ogni fronte sono decisamente sufficienti, dunque decide di affidarsi alla pace garantita dagli Stati Uniti, il principale patrocinatore di questo accordo, ma con quale garanzia? Nessuna. Pertanto, io credo che l’attuale accordo tra Israele ed Egitto vada messo in discussione a favore di un nuovo accordo, meno ambiguo, che confermi il sodalizio tra i due Stati”.
L’immagine sembra schiarirsi, ma una domanda rimane irrisolta: perché l’esercito egiziano ha bisogno di tante armi? Contro chi deve (o vuole) combattere? “Non contro Israele, mi auguro”, risponde Guzansky. “Alcuni ricercatori esperti sostengono che queste armi siano in realtà destinate al rafforzamento dell’immagine dell’esercito egiziano, e nulla di più”. In altre parole, le armi in questione non sono necessariamente destinate a fronteggiare una minaccia militare specifica, ma a mantenere solamente la propria posizione di potere.
“Nonostante l’Egitto non abbia dei nemici dichiarati, vi sono comunque alcune minacce che il paese deve affrontare”, afferma Guzansky. “C’è instabilità in Libia, ci sono gli etiopi che si ribellano all’attuale gestione delle risorse idriche, c’è la Turchia che sta rafforzando la sua presenza nel Mediterraneo. Ecco, forse dal punto di vista israeliano è difficile capirlo, ma è possibile che secondo la percezione egiziana  le armi americane servano a mantenere il loro status nella regione e rispondere ad eventuali guerre future”.
Come dice il proverbio: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. In un Medio Oriente che cambia a vista d’occhio, è certamente il caso che Israele tenga d’occhio anche l’allarmante fenomeno che vede coinvolto un paese amico. Amico, almeno per ora.

(Bet Magazine Mosaico, 30 dicembre 2024)

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Diario minimo (di un conflitto). Demografia milionaria

di Luciano Assin

Sta avvenendo un po' in sordina, vista la difficile situazione che sta affrontando il paese, ma il dato in questione è sicuramente uno dei pochi punti di luce dal 7 ottobre in poi. Israele ha oltrepassato l’asticella dei 10 milioni di abitanti, attualmente lo Stato ebraico ha più abitanti della Svizzera, l’Austria, l’Ungheria e la Bielorussia, diventando così un paese di medie dimensioni rispetto alla media europea. I numeri sono impressionanti, soprattutto se parliamo di un paese con uno stile di vita occidentale: dagli 872mila abitanti che aveva il paese nel 1948, anno della sua fondazione, Israele è cresciuto di milione in milione mediamente ogni 9 anni, dal 2006 la media si è accorciata ed ogni 5-6 anni il paese aggiunge un’altra tacca.
E non è soltanto una questione legata al settore religioso, che tradizionalmente fa più figli, come si potrebbe pensare a prima vista. Anche a Tel Aviv, città laica ed edonista per eccellenza, gli israeliani ci danno dentro e sfornano in media più di 2 figli per donna. Un altro dato notevole è la drastica diminuzione di natalità nel settore arabo, 2,91 per donna, praticamente la metà rispetto a 50 anni fa.
Al di là dei numeri questi dati forniscono una fotografia abbastanza fedele di quello che Israele prima della guerra: un paese ottimista, pieno di voglia di vivere e di energie positive con rosee prospettive per il suo futuro.
La guerra in corso ha sicuramente rimescolato le carte cambiando le priorità politiche e quotidiane, ma non penso che possa influenzare in maniera drastica la voglia di vivere degli israeliani e di conseguenza lo sviluppo demografico del paese.
La grossa sfida riguardo allo sviluppo demografico riguarda invece la gestione del territorio: il 40 percento della popolazione è concentrata a Tel Aviv e dintorni. La “collina della primavera” ha una densità di 8.673 abitanti per kmq, mille in più di quanto ne abbia Milano tanto per intenderci, e questo dato trasforma tutto il centro nevralgico del paese in una zona con un traffico perennemente congestionato sempre sull’orlo del collasso.
Il sogno visionario di Ben Gurion di far rifiorire il deserto si è avverato solo in parte, ed il deserto del Negev, che corrisponde ad oltre del 50% del paese dovrà obbligatoriamente diventare la nuova frontiera dove indirizzare le energie economiche e le risorse umane necessarie.
Come ho scritto in apertura, la notizia in questione è in definitiva un piccolo barlume di luce, ma visto che siamo nel bel mezzo della festività ebraica di Hannukà il seguente brano di una delle più popolari canzoni della “festa delle luci” è più che mai appropriato: “ognuno di noi è una piccola fiammella, ma tutti insieme siamo una grande luce”.
Bringthemhomenow. Mentre scrivo queste righe 100 ostaggi sono ancora in mano ai nazi islamisti di Hamas. Secondo le fonti israeliane circa la metà sono già morti. Tutto questo senza che la Croce Rossa Internazionale abbia avuto la possibilità di controllarne la loro situazione di salute in barba a qualsiasi regola umanitaria. Né Ginevra né le varie ONG umanitarie hanno avuto il coraggio etico e morale di ammettere la loro negligenza. Anche il fallimentare governo israeliano è complice di questa situazione.Ogni giorno che passa senza la loro liberazione è un giorno di troppo e la loro crudele ed inutile prigionia dovrebbe pesare sulla coscienza di ognuno di noi. 

(Bet Magazine Mosaico, 30 dicembre 2024)

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Nemico giurato di Israele

di David Elber

Ieri si è spento alla veneranda età di 100 anni l’ex presidente americano Jimmy Carter. Indubbiamente la sua fama – che gli è valsa anche un premio Nobel per la pace – è legata al trattato di pace che mediò tra Israele e l’Egitto di Sadat. Questo fu il primo accordo tra uno Stato arabo e lo Stato ebraico.
  Un risultato senza dubbi epocale che aprì la porta al trattato di pace con la Giordania, agli accordi di Oslo e ai più recenti accordi di Abramo. Tuttavia, se si analizzano più da vicino questi “accordi di pace” ci si accorge che hanno un unico filo comune: Israele è sempre stato l’unico soggetto ad avere fatto delle concessioni alla controparte di turno per arrivare all’accordo, nonostante sia sempre stato aggredito e vincente sul campo di battaglia. Unico caso al mondo. Questa prassi politica venne inaugurata da Jimmy Carter.
  A Camp David, nel 1978, fin dalla prime battute degli incontri bilaterali e trilaterali tra il premier israeliano Begin, il presidente egiziano Sadat e il presidente americano Carter, fu evidente che la posizione di Israele risultava essere di debolezza e ogni sua richiesta veniva vista dal presidente americano come una posizione “intransigente”. Ogni punto di maggior attrito e difficoltà veniva gestito da Carter, non come mediatore super partes, ma assecondando le posizioni egiziane come se fosse stato Israele ad aggredire l’Egitto e ad avere perso la guerra. In pratica, Israele, il vincitore delle guerre nonché l’aggredito dovette fare tutta una serie di concessioni territoriali e politiche, cosa che normalmente è richiesto allo sconfitto, in cambio del suo mero riconoscimento e di una pace di fatto imposta. Gli egiziani avevano anche chiesto delle riparazioni per danni di guerra, per una guerra che loro stessi avevano causato. Almeno su questo punto gli americani si opposero, fu l’unico risultato tangibile ottenuto da Begin. Da allora questa politica è diventata una costante: ad Israele venne affibbiato il ruolo del soggetto che nelle diverse trattative doveva cedere qualcosa in cambio di nulla. Oltre a questo, l’Amministrazione Carter si mise in luce per essere stata quella che inventò il mito degli “insediamenti che violano il diritto internazionale”. Tale tesi fu confezionata per il presidente Carter dal giurista Herbert Hansell e applicata unicamente a Israele e a nessun altro Stato del mondo. https://www.linformale.eu/allorigine-del-mito-dei-territori-occupati/Va, inoltre, ricordato che Carter fu il primo presidente USA che utilizzò il Consiglio di Sicurezza come strumento politico per delegittimare Israele con una serie di risoluzioni di forte condanna dello Stato ebraico.
  Il vistoso successo politico ottenuto non consentì a Carter di essere rieletto nel 1980. La presa di potere in Iran, nel 1979, da parte di Khomeini e la susseguente cattura degli ostaggi americani e la debolissima risposta dell’amministrazione americana fu fatale per la sua rielezione.
  La politica conciliatoria di Carter inaugurò la stagione “dell’appeasement” nei confronti dei peggiori dittatori del Medio Oriente, ereditata poi soprattutto dalle amministrazioni democratiche. Nel solco di questa politica si è mosso Barack Obama prima e Joe Biden successivamente.
  L’acredine di Carter nei confronti di Israele non è cessata con il suo ritiro dalla politica attiva. Anzi, nel corso dei decenni è aumentata fino a diventare un’autentica ossessione. L’acme lo raggiunse con la pubblicazione del suo libro “Palestine: Peace not Apartheid”, un coacervo di falsità, errori grossolani e infamanti calunnie rivolte allo Stato ebraico. Un autentico libello del sangue che ha inaugurato, assieme alla Conferenza di Durban del 2001, una furibonda delegittimazione di Israele la quale ha lastricato la strada per tutto l’insieme di accuse che formano oggi la sua demonizzazione.

(L'informale, 30 dicembre 2024)
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A integrazione di questa presentazione di Jimmy Carter, ripresentiamo in altra forma grafica un articolo di "Notizie su Israele" del 16 dicembre 2003.

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Il giorno in cui Jimmy Carter fu messo a tacere

Il testo che segue è il commovente resoconto, fatto da un testimone oculare, di un incontro avvenuto nel 1977 alla Casa Bianca tra Menachem Begin e Jimmy Carter. L’autore, Yehuda Avner, è stato ambasciatore di Israele nel Regno Unito e consigliere di quattro primi ministri israeliani, tra cui Menachem Begin. L'articolo è apparso la prima volta nel settembre scorso [2003] sul "Jerusalem Post", e nella presentazione che abbiamo letto su un altro sito si dice: “Come tutti i ministri israeliani da Ben Gurion a Shamir, e contrariamente a quelli che sono venuti dopo, Menachem Begin aveva fede, visione strategica, spina dorsale di fronte alle pressioni, e una politica ispirata a principi di lungo respiro invece che una tattica guidata da immediate e gratificanti convenienze". NsI

di Yehuda Avner

Jimmy Carter, il coltivatore di noccioline, dirigeva in modo austero la Casa Bianca. Coerente con le sue radicate convinzioni calviniste, si era immedesimato nel ruolo di cittadino-presidente. Aveva abolito il Saluto al Presidente, ridotto nettamente il budget per i ricevimenti, venduto lo yacht presidenziale, sfoltito la flotta di limousine, e, in generale, teneva lontano dal suo palazzo ogni tipo di frivolezze e pretenziosità. Si portava sempre da solo la borsa.
    Così, quando nel luglio 1977 accolse alla Casa Bianca il Primo Ministro Menachem Begin con una vistosa, regale cerimonia, con 19 colpi a salve di saluto, una sfilata di tutte le forze armate e una coreografica parata di pifferi della “Army Old Guard Fife” e di tamburi dei “Drum Corps” nella livrea bianca dell’Esercito Rivoluzionario, i media si chiesero a ragione se questa gentilezza era oro puro o semplice adulazione. L’ambasciatore americano Samuel Lewis pensava che ci fosse un po’ di entrambe le cose: “Il presidente è convinto che da Begin si otterrà qualcosa di più con il miele che con l’aceto”, disse.
    I colloqui infatti ebbero un discreto avvio. I due leader e i loro consiglieri si scambiarono i punti di vista su questioni cruciali come la pace israelo-araba, l’illegittima azione sovietica nel Corno d’Africa, la minaccia dell’OLP nel sud del Libano.
    Poi ci fu la pausa. Il presidente e il premier sorseggiavano il caffè in silenzio, studiandosi a vicenda come per tacito consenso, in preparazione di quello che sarebbe avvenuto dopo.
    E quello che avvenne dopo fu una presentazione estremamente dettagliata del credo del Likud sui diritti inalienabili del popolo ebraico su Eretz Israel.
    Essendo quello il primo summit tra un premier del Likud e un presidente americano, Menachem Begin era deciso a far sì che Jimmy Carter ascoltasse con le sue orecchie la voce di quello che lui rappresentava. Il Segretario di Stato, Cyrus Vance, una persona di solito molto tranquilla, cominciò ad agitarsi un po’ quando sentì dire che Israele non avrebbe rinunciato né alla Giudea, né alla Samaria, né alla striscia di Gaza. Obiettò che questo avrebbe vanificato tutti i piani di pace per la conferenza di Ginevra. E anche il presidente pensava la stessa cosa.
    Carter indossò la maschera dell’educazione e rimase immobile ad osservare i suoi appunti scritti in ordinata calligrafia, vincolato alla sua responsabilità di inquilino della Casa Bianca. Ma dalle sue mascelle serrate si poteva capire che tratteneva l’irritazione. Nel suo acuto accento georgiano dopo poco disse: “Signor Primo Ministro, la mia impressione è che la sua insistenza sui vostri diritti in Cisgiordania e a Gaza potrebbe essere interpretata come un indizio di mala fede. Potrebbe essere un’evidente manifestazione della vostra volontà di rendere permanente l’occupazione militare di quelle aree. Questo farebbe cadere ogni speranza di trattative. Sarebbe incompatibile con le mie responsabilità di Presidente degli Stati Uniti se non glielo dicessi nel modo più chiaro e schietto possibile. Signor Begin,” gridò con un’esasperazione che accendeva i suoi azzurri occhi di ghiaccio, “non ci può essere nessuna occupazione militare permanente di quei territori conquistati con la forza.”
    Noi funzionari israeliani, seduti attorno alla tavola delle conferenze nella Sala del Consiglio dove si teneva la riunione, ci scambiavamo sguardi con la coda dell’occhio. Ma Begin si era ben preparato a quell’incontro con il Presidente del post-Watergate e del rinnovamento morale: Carter, il predicatore con tendenza all’autogiustizia.
    Si appoggiò allo schienale, e con occhi ingannevolmente miti alzò lo sguardo sopra il capo del Presidente, fissando l’antico lampadario di bronzo che pendeva sulla grande tavola di quercia. Non stava per perdere le staffe. Sapeva che lui e il Presidente si muovevano su traiettorie differenti, e che il confronto sull’insediamento nella biblica Terra Promessa era senza sbocchi. Carter era un osso duro, come lui. Non si sarebbe piegato.
    Tuttavia, doveva fare qualcosa per persuadere quell’uomo pronto a giudicare, che pensava di avere il compito di raddrizzare le cose, quell’energico decisionista con la mente empirica di un ingegnere. Doveva cercare di convincerlo che lui voleva veramente e onestamente la pace, e che i territori non erano soltanto una questione di diritti storici, ma anche di sicurezza vitale.
    Così, quando tornò a posare lo sguardo su Carter il suo atteggiamento era grave e deciso.
    “Signor Presidente,” disse, “voglio dirle qualcosa di personale, non su di me, ma sulla mia generazione. Quello che lei ha udito poco fa riguardo ai diritti del popolo ebraico sulla Terra di Israele, a lei può sembrare accademico, teorico, perfino discutibile. Ma non alla mia generazione. Per la mia generazione di Ebrei, questi legami eterni sono verità irrefutabili e incontrovertibili, antiche come il tempo che è trascorso. Essi toccano il cuore stesso della nostra identità nazionale, perché noi siamo un’antica nazione che torna a casa. La nostra è come una generazione biblica di sofferenze e coraggio. Siamo la generazione della Distruzione e della Redenzione. Siamo la generazione che si è risollevata dall’abisso senza fondo dell’inferno.”
    La sua voce era magnetica, il suo tono profondo e pensoso, come se attingesse a generazioni di ricordi. L’ardore di quel linguaggio provocò l’intensa attenzione di tutta la tavola.
    “Eravamo un popolo senza speranza, signor Presidente. Siamo stati dissanguati, non una o due volte, ma per secoli e secoli, sempre di nuovo. Abbiamo perso un terzo del nostro popolo in una generazione: la mia. Un milione e mezzo di loro erano bambini: i nostri. Nessuno è venuto in nostro soccorso. Abbiamo sofferto e siamo morti da soli. Non abbiamo potuto fare niente. Ma adesso possiamo. Adesso possiamo difendere noi stessi.”
    Improvvisamente si alzò in piedi, con la faccia dura come l’acciaio.
    “Ho una carta,” disse con decisione. Un assistente aprì bruscamente una carta di un metro per due tra i due uomini. “Non c’è niente di speciale da dire su questa carta,” continuò Begin. “E’ una normale carta del nostro paese, che mostra la vecchia linea di armistizio che esisteva fino alla Guerra dei Sei Giorni, la cosiddetta Linea Verde.” Fece correre il dito lungo la vecchia frontiera che arrivava serpeggiando fino al centro del paese. “Come vede, i nostri cartografi militari hanno semplicemente indicato l’infinitesima misura di profondità difensiva che abbiamo avuto in questa guerra.”
    Si appoggiò sulla tavola e indicò la zona montagnosa colorata in marrone scuro che copriva il settore nord della carta. “I Siriani occupavano la cima di questi monti, signor Presidente. E noi eravamo in basso.” Il suo dito indicò le alture del Golan e si fermò poi sulla stretta striscia verde di sotto. “Questa è la valle di Hula. E’ larga appena 10 miglia. Dalla cima di queste montagne loro cannoneggiavano le nostre città e i nostri villaggi, giorno e notte.”
    Carter osservava, con la mano sotto il mento. L’indice del Primo Ministro si mosse verso sud, in direzione di Haifa. “La linea dell’armistizio è distante appena 20 miglia dalla nostra più grande città portuale”, disse. Poi arrivò a Netanya: “Qui il nostro paese si riduce ad un'esigua cintura larga meno di 10 miglia.”
    Il Presidente annuì. “Capisco,” disse.
    Begin però non era sicuro che lui capisse. Il suo dito tremava e la sua voce rimbombava: “Nove miglia, signor Presidente. Inconcepibile! Indifendibile!”
    Carter non fece alcun commento.
    Il dito di Begin si posò poi su Tel Aviv e cominciò a martellare la carta: “Qui vivono milioni di Ebrei, 12 miglia da un’indifendibile linea di armistizio. E qui, tra Haifa al nord e Ashkelon al sud” - il suo indice andava su e giù lungo la pianura costiera - “vivono i due terzi di tutta la nostra popolazione. E questa pianura costiera è così stretta che un’incursione di una colonna di carri armati potrebbe dividere in due il paese in pochi minuti. Perché chi tiene queste montagne” - e il suo dito picchiava sulle colline di Giudea e Samaria - “tiene in pugno la vena giugulare di Israele.”
    I suoi occhi scuri e attenti percorsero le facce impietrite dei potenti uomini che sedevano davanti a lui, e con la convinzione di uno che aveva dovuto lottare per ogni cosa che aveva ottenuto, dichiarò seccamente: “Signori, da queste linee non si torna indietro. Con un vicinato così crudele e spietato come il nostro, nessuna nazione può rendersi così vulnerabile e sopravvivere.”
    Carter si piegò in avanti per ispezionare meglio la carta, ma continuò a non dire niente. I suoi occhi erano indecifrabili come l’acqua.
    “Signor Presidente,” continuò Begin in un tono che non ammetteva repliche, “questa è la carta della nostra sicurezza nazionale, e uso questo termine senza enfasi e nel senso più letterale. E’ la carta della nostra sopravvivenza. La differenza tra il passato e il presente sta proprio qui: sopravvivenza. Oggi gli uomini del nostro popolo possono difendere le loro donne e i loro bambini. Nel passato non hanno potuto. Infatti, hanno dovuto consegnarli ai loro carnefici nazisti. Siamo stati terziati, signor Presidente.”
    Jimmy Carter alzò la testa: “Che significa questa parola, signor Primo Ministro?”
    “Terziati, non decimati. L’origine della parola ‘decimazione’ è uno su dieci. Quando una legione romana si rendeva colpevole di insubordinazione, uno su dieci veniva passato a fil di spada. Nel nostro caso è stato uno su tre: terziati!”
    Poi, con occhi umidi e voce risoluta, ostinata, pesando ogni parola, dichiarò: “Signori, io faccio un giuramento davanti a voi nel nome del Popolo Ebraico: QUESTO NON SUCCEDERÀ MAI PIÙ!” E si lasciò cadere sulla sedia.
    Strinse le labbra che cominciavano a tremare. Fissò la carta, lottando per trattenere le lacrime. Serrò i pugni e li premette così forte contro la tavola che le sue nocche diventarono bianche. Rimase lì, a capo chino, col cuore rotto, dignitoso.
    Un silenzio di tomba si fece nella sala. Afferrato dalla sua personale memoria dell’infernale Shoà, Begin guardava oltre Jimmy Carter, con uno strano riserbo negli occhi. Era come se il suo sguardo penetrasse quel ‘nato di nuovo’, quel Presidente battista del sud, partendo dall’interno di sé stesso, da quel profondo, intimo luogo ebraico di infinito lamento e eterna fede: un luogo di lunga, lunga memoria. Lì si era rifugiato, in compagnia di Mosè e dei Maccabei.
    Il Presidente Carter abbassò la testa e rimase in un atteggiamento di rispettoso, gelido silenzio. Gli altri guardavano altrove. Improvvisamente si fece udire il ticchettio dell’antico orologio sulla mensola di marmo del cammino. Un’eternità sembrava che passasse tra un tic e l’altro. Il silenzio pesava. Come un colpo di fulmine era arrivata la notizia della determinazione nazionale a non tornare mai più indietro da quelle linee.
    Gradualmente, con movimenti lenti il Primo Ministro si drizzò in tutta la sua altezza e la stanza riprese vita. Delicatamente Carter suggerì di fare una pausa, ma Begin disse che non era necessario. Aveva fatto il suo dovere.

(Jerusalem Post, 12 settembre 2003, con autorizzazione - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Abbiamo bisogno di furfanti politici, non di pappemolli

Vorrei innanzitutto chiarire una cosa: non idolatro i leader politici! Per una semplice ragione: sono persone come voi e me.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Nemmeno nella Bibbia Dio fa la storia esclusivamente con i santi - usa persone normali che hanno lati buoni e cattivi. Dio fa la storia con un popolo santo, come è detto: “Tu (Israele) sei un popolo santo per il tuo Dio, e il Signore ti ha scelto per essere il suo popolo tra tutti i popoli che sono sulla terra” (Deuteronomio 14).
Questo popolo oggi vive e lotta per sopravvivere nella sua patria. I suoi leader non sono persone perfette. Il Dio di Israele è santo. Ci sta davanti un periodo emozionante, in cui ci si aspetta molto da due leader dominanti ma anche controversi: Benjamin Netanyahu e il rieletto Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Se avessimo potuto votare alle elezioni americane, io e i miei tre figli avremmo - non spaventatevi - votato per Donald Trump. Perché? Ci sono ragioni molto pragmatiche dal punto di vista israeliano. Ne abbiamo discusso molto a casa. E sì, siamo ben consapevoli dei suoi aspetti negativi; non per niente ha dovuto subire molte critiche da parte dei media. Eppure noi, come la maggioranza del Paese, voteremmo per Trump. Perché viviamo in un mondo folle, dove per fare la differenza servono furfanti politici, non politici fifoni.
Anche il re Davide era un imbroglione politico dal punto di vista umano, ma era anche un uomo di Dio. Ora possiamo chiederci se tutto questo combacia. E se si applica anche ai nostri tempi. E questo è sempre un punto in cui si può cadere in trappola. Da un lato, si vedono i propri idoli politici - Netanyahu o Trump - come “uomini di Dio” che l'Onnipotente ha nominato al momento giusto. Ma allo stesso tempo si fa fatica a giustificare il loro comportamento. Entrambi sono accusati di molte cose che non sono giuste agli occhi di Dio. Ci sono due modi per risolvere la questione: O le accuse sono semplicemente false calunnie degli avversari politici o si accettano i politici così come sono. Personalmente, posso convivere con i loro difetti caratteriali e allo stesso tempo supporre che entrambi siano usati da Dio in nostra presenza e svolgano un incarico.
Per alcuni, Bibi è l'“unto di Dio”, un moderno Messia o Re Davide, un eroe senza rivali tra il popolo. Questa percezione non è diffusa solo in Israele, ma anche all'estero. In particolare tra gli evangelici negli Stati Uniti, Netanyahu è celebrato come un messaggero divino in terra. È vero che Bibi ha fatto molto per lo Stato di Israele, il che è innegabile. Ma questa fervente adorazione provoca naturalmente fastidio tra i suoi oppositori, che non sopportano il fatto che Bibi sia idealizzato come un messia o un messaggero divino nonostante i suoi intrighi politici e le sue decisioni controverse. Lo stesso vale per Donald Trump, e per questo motivo i suoi oppositori cercano il marcio sotto ogni tappeto. E lo stanno trovando. In qualità di caporedattore, scrivo di questo e parlo anche del lato controverso. Bisogna guardare a entrambi i lati. Non si tratta di disprezzo, ma di normale critica. Le figure chiave della Bibbia non sono forse criticate allo stesso modo?
Nel mezzo del selvaggio Oriente, circondato da nazioni arabe, ci vuole un mix speciale di astuzia strategica e azione decisiva per salvare il popolo dalla sconfitta. Qui il vento soffia semplicemente in modo diverso! In questo contesto, anche termini come “truffatore” e “messia” si fondono nella figura di Netanyahu. Gli unti erano i salvatori politici del loro tempo e spesso anche abili tattici o addirittura “truffatori”: menti astute e intelligenti che spesso avevano difetti caratteriali. In questo senso, Netanyahu, ma anche Trump in un certo senso, è un'incarnazione moderna di questa miscela storica di salvatore e intrigante - da una prospettiva israeliana.

(Israel Heute, 30 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Se l’autore voleva dimostrare che nella Bibbia Dio usa anche personaggi moralmente discutibili al fine di tirar fuori il suo popolo dai guai in cui così facilmente si caccia, poteva ricorrere a un esempio insuperabile: Sansone. E’ un personaggio a cui si dà poca attenzione, eppure la Bibbia vi dedica ben quattro capitoli (Giudici 14-17). Che sia stato uno strumento di Dio, è fuor di dubbio, ma molto di più: è stato prescelto da Dio prima ancora della sua nascita.  Non si conosce il nome di sua madre, si sa soltanto che era la moglie di un certo Manoha della tribù di Dan, ed era sterile, come le matriarche Sara, Rebecca e Rachele. Anche a questa anonima donna di Dan fu annunciata una nascita prodigiosa: L’angelo dell'Eterno apparve a questa donna, e le disse: “Ecco, tu sei sterile e non hai figli; ma concepirai e partorirai un figlio … e sarà lui che comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei” (Giudici 14:3,5). Quest’uomo prodigiosamente venuto al mondo, di cui la Bibbia dice che fu “giudice d’Israele” per venti anni, fu tutt’altro che un uomo moralmente irreprensibile. Pur facendo parte del santo popolo di Dio, andò a cercarsi un’impura prostituta a Gaza, provocando una tale quantità di guai da far sì che alla fine “l’Eterno si ritirò da lui”. Fu di sicuro un furfante, e purtroppo non un fine politico. Ma tuttavia Dio lo usò per “cominciare a liberare Israele” dalle mani dei suoi nemici. M.C.

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Bova Marina – Luce nell’antica sinagoga

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I resti della sinagoga di Bova Marina (RC), risalente al quarto secolo, ricordano l’antica storia e retaggio dell’ebraismo calabrese. La luce di Chanukkah è arrivata ieri anche in questi spazi, grazie a una iniziativa organizzata dal referente di sezione Roque Pugliese con il patrocinio tra gli altri di Ucei e Comunità ebraica di Napoli. Numerose le autorità istituzionali e religiose presenti. «L’Unione delle Comunità Ebraiche italiane è presente in Calabria con la Sezione di Palmi della Comunità ebraica di Napoli e grazie allo sforzo e alla passione di pochi fa rivivere una tradizione antica che non si è mai persa, ma è stata sradicata secoli or sono», ha dichiarato in un messaggio il vicepresidente Ucei Giulio Disegni, parlando della sinagoga di Bova Marina come di «un esempio di continuità e di consapevolezza di una diversità che è ricchezza e parte integrante di una società civile degna di questo nome». Secondo Disegni, inoltre, «il calore delle fiammelle unito al ricordo di quanto successo ai tempi dei Maccabei è un invito a stare insieme, a dialogare e a confrontarci, specie in un momento in cui sono stravolti certi valori e in cui è dilagante in tutto il mondo un’ondata di antisemitismo e di odio cui da tempo non si assisteva».

• L’accensione a Manduria
   La luce di Chanukkah è passata anche dalla cittadina di Manduria, in provincia di Taranto, dove varie persone si sono raccolte attorno a un candelabro in un’abitazione privata. Israeliani, francesi, uno svedese. Per Disegni, «è matura l’idea di dar vita a una sezione in Puglia, nell’area Taranto-Manduria».

(moked, 30 dicembre 2024)

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I sopravvissuti alla Shoah accendono la chanukkià davanti al Muro del Pianto

di Michelle Zarfati

Cento sopravvissuti alla Shoah hanno partecipato ad una toccante cerimonia di accensione delle candele di Chanukkà davanti al Muro Occidentale, a Gerusalemme. Lo ha condiviso la Claims Conference.
  Organizzato in collaborazione con la Western Hall Heritage Foundation, l’evento simboleggia speranza e resilienza durante un periodo di crescente antisemitismo globale.
  Tra i partecipanti presenti Greg Schneider, vicepresidente esecutivo della Claims Conference, il rabbino Shmuel Rabinovitch, il ministro dei Trasporti israeliano Miri Regev, il sindaco di Gerusalemme Moshe Leon e Ziona Koenig-Yair, vicepresidente dell’ufficio israeliano della Claims Conference. La cerimonia di quest’anno si è concentrata su “l’unione e la speranza”, riflettendo le conseguenze dell’attacco terroristico del 7 ottobre da parte di Hamas.
  Durante l’evento la sopravvissuta alla Shoah Miriam Greiber ha sottolineato la necessità di un’educazione continua alla Shoah e di una vigilanza sempre più urgente contro l’odio antiebraico. “L’antisemitismo persiste in diverse forme, a volte prendendo di mira gli ebrei e a volte gli israeliani. Il nostro dovere come sopravvissuti è condividere le nostre storie e educare le generazioni future, assicurando che le lezioni del passato non siano mai dimenticate”.
  “Accendere le candele di Chanukkà in questo luogo sacro con voi, sopravvissuti alla Shoah, ci ricorda a tutti la resilienza duratura del popolo ebraico. La vostra presenza qui è una testimonianza del trionfo della luce sull’oscurità e un’ispirazione per le generazioni a venire” ha detto Koenig-Yair.
  “I sopravvissuti alla Shoah sono una luce per il mondo, che brillano di speranza. Questi eroi, che hanno sopportato il peggio che il mondo poteva imporre loro, non solo sono sopravvissuti, ma hanno continuato a ricostruire le loro vite e a mostrare all’umanità il significato di forza e coraggio” ha detto Greg Schneider. “Il loro lavoro e il loro impegno per l’umanità ci ispirano e ci ricordano che la speranza è la luce che ci porta tutti fuori dall’oscurità. Per questo, li onoriamo oggi con questa celebrazione speciale e ogni giorno con la nostra gratitudine e adorazione”.
  La cerimonia fa parte della International Holocaust Survivors Night, un evento globale che ogni anno unisce sopravvissuti alla Shoah in 12 paesi. Nel programma sono stati presentati messaggi di personaggi importanti come Barbra Streisand, Arnold Schwarzenegger, Debra Messing e il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Una registrazione dell’evento sarà disponibile sul sito web della Claims Conference.
  La Claims Conference lavora per garantire un risarcimento materiale per i sopravvissuti alla Shoah in tutto il mondo. Dal suo inizio nel 1952, ha negoziato oltre 90 miliardi di dollari di indennità da parte del governo tedesco. Nel 2024, l’organizzazione ha distribuito più di 535 milioni di dollari in compensazione diretta a oltre 200.000 sopravvissuti e ha assegnato 888 milioni di dollari in sovvenzioni alle agenzie di servizi sociali che forniscono cure essenziali ai sopravvissuti che he hanno bisogno.

(Shalom, 29 dicembre 2024)

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La funzione della Torah

di Marcello Cicchese

DEUTERONOMIO, cap. 31
  1. L'Eterno disse a Mosè: “Ecco, il giorno della tua morte si avvicina; chiama Giosuè, e presentatevi nella tenda di convegno perché io gli dia i miei ordini”. Mosè e Giosuè dunque andarono e si presentarono nella tenda di convegno.
  2. L'Eterno apparve, nella tenda, in una colonna di nuvola; e la colonna di nuvola si fermò all'ingresso della tenda.
  3. E l'Eterno disse a Mosè: “Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri; e questo popolo si alzerà e si prostituirà, andando dietro agli dèi stranieri del paese nel quale va a stare; e mi abbandonerà e violerà il mio patto che io ho stabilito con lui.
  4. In quel giorno, l'ira mia si infiammerà contro di lui; e io li abbandonerò, nasconderò loro la mia faccia e saranno divorati, e cadranno loro addosso molti mali e molte angosce; perciò in quel giorno diranno: 'Questi mali non ci sono forse caduti addosso perché il nostro Dio non è in mezzo a noi?'.
  5. E io, in quel giorno, nasconderò del tutto la mia faccia a causa di tutto il male che avranno fatto, rivolgendosi ad altri dèi.
  6. Scrivetevi dunque questo cantico, e insegnatelo ai figli d'Israele; mettetelo loro in bocca, affinché questo cantico mi serva di testimonianza contro i figli d'Israele.
  7. Quando li avrò introdotti nel paese che promisi ai loro padri con giuramento, paese dove scorre il latte e il miele, ed essi avranno mangiato, si saranno saziati e ingrassati, e si saranno rivolti ad altri dèi per servirli, e avranno disprezzato me e violato il mio patto,
  8. e quando molti mali e molte angosce gli saranno piombati addosso, allora questo cantico alzerà la sua voce contro di loro, come una testimonianza; poiché esso non sarà dimenticato, e rimarrà sulle labbra dei loro posteri; poiché io conosco quali siano i pensieri che essi concepiscono, anche ora, prima che io li abbia introdotti nel paese che giurai di dare loro”.
  9. Così Mosè scrisse quel giorno questo cantico e lo insegnò ai figli d'Israele.
  10. Poi l'Eterno diede i suoi ordini a Giosuè, figlio di Nun, e gli disse: “Sii forte e coraggioso, poiché tu sei colui che introdurrà i figli d'Israele nel paese che giurai di dare loro; e io sarò con te”.
  11. E quando Mosè ebbe finito di scrivere in un libro tutte quante le parole di questa legge,
  12. diede quest'ordine ai Leviti che portavano l'arca del patto dell'Eterno:
  13. “Prendete questo libro della legge e mettetelo accanto all'arca del patto dell'Eterno, che è il vostro Dio; e là rimanga come testimonianza contro di te;
  14. perché io conosco il tuo spirito ribelle e la durezza del tuo collo. Ecco, oggi, mentre sono ancora vivente tra voi, siete stati ribelli contro l'Eterno; quanto più lo sarete dopo la mia morte!
  15. Radunate presso di me tutti gli anziani delle vostre tribù e i vostri ufficiali; io farò udire loro queste parole e prenderò come testimoni contro di loro il cielo e la terra.
  16. Poiché io so che, dopo la mia morte, voi certamente vi corromperete e lascerete la via che vi ho prescritto; e nei giorni che verranno la sventura vi colpirà, perché avrete fatto ciò che è male agli occhi dell'Eterno, provocandolo a indignazione con l'opera delle vostre mani”.
  17. Mosè dunque pronunciò dal principio alla fine le parole di un cantico, in presenza di tutta la comunità d'Israele.
Mosè sta per lasciare questo mondo e si preoccupa di portare a termine il compito affidatogli da Dio. Parla al popolo e a Giosuè, riuniti davanti a lui, invitandoli a non temere, perché Dio cammina davanti a loro e "non li lascerà e non li abbandonerà" (Deuteronomio 31:8). Essi quindi entreranno nel paese e ne prenderanno possesso. Fin qui non c'è alcun dubbio.
Poi scrive il libro della legge e lo consegna ai leviti e agli anziani d'Israele con l'ordine di leggerlo al popolo ogni sette anni, durante la festa delle capanne.
Dopo di che l'Eterno si rivolge direttamente a Mosè e gli dice di presentarsi a lui nella tenda di convegno, insieme a Giosuè. I due vanno e "l'Eterno apparve nella tenda, in una colonna di nuvola"; e "la colonna di nuvola si fermò all'ingresso della tenda", come per impedire che altri si avvicinassero.
Mosè, che aveva incoraggiato il popolo con le sue parole, in quella tenda ode parole che per lui non sono davvero incoraggianti: "Questo popolo ... si prostituirà ... e mi abbandonerà... e io li abbandonerò, nasconderò loro la mia faccia", comunica il Signore. E continua dicendo che a loro cadranno addosso tanti di quei mali che li spingeranno a chiedersi:
    "Questi mali non ci sono forse caduti addosso perché il nostro Dio non è in mezzo a noi?" (Deuteronomio 31:17).
Ed è proprio così. Non si tratta di inadempienza di severe regole di comportamento, ma di un rapporto d'amore che si è infranto. "Questo popolo mi abbandonerà... io li abbandonerò..." e la gravità della situazione è espressa da una sola frase: "il nostro Dio non è in mezzo a noi".
Nell'originario patto stabilito al Sinai, il Signore aveva un meraviglioso progetto d'amore con il suo popolo:
    "... all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, io v'incontrerò.... E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò loro Dio" (Esodo 29:42,45).
Dopo il fattaccio del vitello d'oro, il Signore aveva deciso di rompere tutto e sterminare il popolo, ma Mosè riuscì a farlo desistere. Tuttavia, il Signore, non essendo più vincolato da un patto ormai violato, aveva deciso di non mantenere più la promessa di "dimorare in mezzo ai figli di Israele"; e così, attraverso Mosè fece sapere al popolo: "... io non salirò in mezzo a te, perché sei un popolo di collo duro" (Esodo 33:3). Ancora una volta Mosè riuscì ad evitare che questo avvenisse e il Signore acconsentì a dimorare in mezzo al popolo nel santuario che in seguito sarebbe stato costruito.
Adesso però Mosè viene a sapere che un giorno la presenza di Dio in mezzo al popolo si interromperà. E questo si è avverato letteralmente nella storia d'Israele.
Nei capitoli 10 e 11 del libro del profeta Ezechiele si vede la "gloria dell'Eterno", quella che in seguito sarà chiamata la Shekhinah, abbandonare la "casa dell'Eterno" poco prima che il Tempio fosse distrutto dai Babilonesi. Lasciò il Tempio lentamente, in tre tappe, come se esitasse, come se fosse in attesa di un ravvedimento del popolo:
    "La gloria dell'Eterno s'alzò di sui cherubini, movendo verso la soglia della casa" (Ezechiele 10:4);
    "E la gloria dell'Eterno si partì di sulla soglia della casa, e si fermò sui cherubini. E i cherubini... si fermarono all'ingresso della porta orientale della casa dell'Eterno" (Ezechiele 10:18-19);
    "E la gloria dell'Eterno s'innalzò di mezzo alla città, e si fermò sul monte che è ad oriente della città" (Ezechiele 11:23).
Su quel monte, che è il monte degli ulivi, secondo una tradizione rabbinica la Shekhinah rimase tre anni e mezzo, poi sparì. In ogni caso, è certo che non tornò più, neanche dopo la ricostruzione del secondo Tempio.
Il suo ritorno però è già preannunciato, sempre nel libro di Ezechiele,:
    "Ed ecco, la gloria del Dio d'Israele veniva dal lato d'oriente.... E la gloria dell'Eterno entrò nella casa per la via della porta che guardava a oriente" (Ezechiele 43:2,5).
Adesso dunque a Mosè sono annunciati i guai che colpiranno il popolo perché l'Eterno cesserà di essere "in mezzo a loro". Il popolo perderà la presenza di Dio, perderà la terra, ma comunque, è vero, gli resterà la Torah. A che scopo? con quale funzione?
Mosè, che ai Leviti aveva ordinato di leggere periodicamente al popolo il libro della legge, adesso, dopo le tremende parole contro Israele udite nella tenda, aggiunge un ordine per i Leviti:
    "Prendete questo libro della legge e mettetelo accanto all'arca del patto dell'Eterno, vostro Dio; e lì rimanga come testimonio contro di te" (Deuteronomio 31:26).
Ecco dunque spiegata la funzione della Torah d'emergenza dopo la rottura del patto d'amore: essere testimone contro il popolo infedele e nello stesso tempo mantenerlo legato al suo Dio fino al compimento del predisposto progetto di redenzione. E' in questo senso che si può capire la frase di Gesù:
    "Non pensate ch'io sia venuto per abolire la legge; io sono venuto non per abolire, ma per portare a compimento." (Matteo 5:17).
Ma non c'è solo la legge ad essere indicata come testimone. Sulla bocca di Mosè il Signore mette un cantico, riportato nel capitolo successivo, accompagnandolo con una istruzione:
    "Scrivetevi dunque questo cantico, e insegnatelo ai figli d'Israele; mettetelo loro in bocca, affinché questo cantico mi serva di testimonio contro i figli d'Israele" (Deuteronomio 31:19).
E dopo tutte queste cose, alla fine della cerimonia di commiato, in un crescendo di indignazione Mosè chiama a testimoni anche il cielo e la terra, e conclude così quello che in altri ambienti sarebbe stato un solenne discorso di autocelebrazione del popolo che si appresta a compiere una gloriosa azione di conquista:
    "Radunate presso di me tutti gli anziani delle vostre tribù e i vostri ufficiali; io farò loro udire queste parole, e prenderò a testimoni contro di loro il cielo e la terra. Poiché io so che dopo la mia morte voi certamente vi corromperete e lascerete la via che vi ho prescritta; e la sventura v'incoglierà nei giorni a venire, perché avrete fatto ciò che è male agli occhi dell'Eterno, provocandolo a sdegno con l'opera delle vostre mani" (Deuteronomio 31:28-29).
Come si vede, dire che Israele è il popolo eletto non significa dire che è moralmente esemplare. Ma Dio lo sapeva fin dall'inizio, fin da quando decise di eleggerlo come suo popolo per i suoi scopi particolari. Qualcuno ha qualcosa da dire? Ne parli a Dio.

(da "Sta scritto")



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La guerra in Libano tra Israele e Hezbollah continua sottotraccia

di Sarah G. Frankl

Non se ne parla perché in questo periodo a fare notizia è la guerra contro gli Houthi e la situazione in Siria, ma la guerra in Libano tra Israele e Hezbollah continua, anche se sottotraccia. Ecco un breve riassunto delle ultime ore.
La 226a Brigata Paracadutisti delle IDF (146a Divisione) ha distrutto le infrastrutture e le armi di Hezbollah a Naqoura, nel Libano sud-occidentale, il 27 dicembre.
Le IDF hanno identificato e distrutto decine di depositi di armi contenenti razzi, IED, mortai e missili situati in edifici civili a Naqoura.
Hezbollah ha utilizzato questi siti per effettuare attacchi contro Israele. Le forze israeliane hanno anche localizzato e distrutto un numero imprecisato di lanciarazzi diretti verso il territorio israeliano durante un raid separato nella zona.
Le IDF hanno condotto diversi attacchi aerei il 27 dicembre prendendo di mira le infrastrutture di Hezbollah in diversi valichi di frontiera che consentono a Hezbollah di trasferire armi dalla Siria al Libano.
Il comandante dell’aeronautica militare delle IDF, il maggiore generale Tomer Bar, ha dichiarato che le IDF hanno colpito sette valichi di frontiera sul confine tra Libano e Siria che Hezbollah aveva precedentemente utilizzato per trasportare armi.
Bar ha affermato che Hezbollah sta “ancora una volta” cercando di stabilire rotte di contrabbando di armi attraverso questi valichi di frontiera. Le IDF hanno riferito di aver colpito le infrastrutture al valico di frontiera di Janta, che Hezbollah ha utilizzato per spostare armi e combattenti.
Le immagini geolocalizzate pubblicate su X (Twitter) hanno mostrato il risultato di due attacchi aerei israeliani vicino al villaggio di Qusayya, nel Libano orientale, il 27 dicembre.
Hezbollah sta affrontando molteplici priorità, tra cui la ricostruzione in Libano e la ricostituzione dell’organizzazione di Hezbollah, che potrebbe diminuire il sostegno al gruppo in alcuni ambienti.
I media con sede nel Regno Unito hanno riferito il 24 dicembre che il ritardo nel risarcimento di guerra ai non membri di Hezbollah e ai feriti nelle operazioni di Israele in Libano ha causato una crescente agitazione tra la base di sostegno di Hezbollah.
Hezbollah, che ha rapidamente ricostruito il Libano e fornito una rete di sicurezza sociale per i libanesi dopo la guerra del 2006, sta ora affrontando compiti di ricostruzione molto più difficili rispetto ad allora.
La guerra del 2006 è durata 34 giorni e ha distrutto solo aree relativamente limitate del Libano. Hezbollah ha anche subito solo 500 vittime nel 2006. La guerra del 7 ottobre in Libano è durata quasi 14 mesi, ha distrutto molti villaggi nel Libano meridionale e ha ucciso migliaia di combattenti di Hezbollah, danneggiando gravemente la struttura di comando e controllo militare del gruppo terrorista.
Un ingegnere affiliato alla società di costruzioni di Hezbollah Jihad al Bina ha dichiarato ai media di Hezbollah il 24 dicembre che il gruppo terrorista sta continuando il “restauro e la ricostruzione” degli edifici distrutti dalle operazioni di Israele in Libano. Questo processo di costruzione richiederà molto tempo e Jihad al Bina dovrà competere con le altre priorità di Hezbollah, tra cui l’acquisizione di nuove armi, la formazione di nuovi leader e la riorganizzazione dell’ala militare per finanziamenti e personale.
Un politico libanese sostenuto da Hezbollah ha affermato il 25 dicembre che Hezbollah ha ricostruito la sua leadership, le sue strutture militari e di sicurezza, ma anche se ciò fosse vero, i nuovi comandanti avranno presumibilmente bisogno di addestramento prima di poter operare allo stesso livello dei loro predecessori. Questi comandanti dovranno anche acquisire nuove armi per sostituire quelle catturate e distrutte dagli israeliani, mettendo ulteriormente a dura prova le risorse di Hezbollah.

(Rights Reporter, 28 dicembre 2024)

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Soldato ucciso a Gaza, sale a 823 il bilancio di guerra dell'IDF

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Il Maggiore Hod Shriebman, 27 anni, è stato ucciso in azione nella Striscia di Gaza, 27 dicembre 2024

Un soldato delle Forze di Difesa Israeliane è stato ucciso venerdì mentre combatteva contro i terroristi palestinesi nel nord della Striscia di Gaza, ha annunciato l'esercito.
Il nome dell'uomo ucciso è Maj. Hod Shriebman, 27 anni, dell'unità d'élite Multidomain, di Moshav Tzofit, vicino a Kfar Saba.
Mercoledì, un riservista dell'IDF è stato ucciso in un combattimento nella Striscia di Gaza centrale. È stato identificato come il capitano (res.) Amit Levi, 35 anni, di Shomria, un kibbutz religioso nel Negev settentrionale.
Due giorni prima, tre soldati israeliani sono stati uccisi in azione contro i terroristi di Hamas nel nord di Gaza. Si tratta del capitano Ilay Gavriel Atedgi, 22 anni, di Kiryat Motzkin, del sergente maggiore Netanel Pessach, 21 anni, di Elazar, e del sergente di prima classe (res.) Hillel Diener, 21 anni, di Talmon. Tutti e tre gli uomini prestavano servizio nel 92° battaglione di fanteria “Shimshon” della Brigata Kfir.
Il bilancio delle vittime tra le truppe israeliane dall'inizio dell'incursione di terra a Gaza, il 27 ottobre 2023, è di 391, e di 823 su tutti i fronti dal massacro guidato da Hamas il 7 ottobre 2023.
Inoltre, l'ispettore Arnon Zamora, membro dell'unità nazionale antiterrorismo Yamam della Polizia di frontiera israeliana, è stato ferito a morte durante una missione di salvataggio di ostaggi a Gaza a giugno, mentre l'appaltatore civile della difesa Liron Yitzhak è stato ferito a morte a maggio.

(JNS, 28 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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La Siria nelle mani della Fratellanza Musulmana

Il Qatar diventa un fattore influente sulla scena siriana insieme alla Turchia, con la quale guida l’asse dei “Fratelli Musulmani”, che si appresta a conquistare la Siria.

di Maurizia De Groot Vos

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I vertici della Fratellanza Musulmana l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani con Erdogan

Il Qatar ha svolto un ruolo importante nella guerra civile in Siria iniziata nel 2011 e ha costantemente sostenuto le organizzazioni di opposizione sunnite che hanno cercato di rovesciare il regime del presidente Bashar Assad, fino alla sua caduta definitiva l’8 dicembre di quest’anno.
Il ministro degli Esteri del Qatar, Mohammed Al Thani, è stato il primo a visitare Damasco il 23 dicembre dopo la caduta del regime di Assad e ha incontrato il leader ribelle Ahmad al-Shara’, noto anche come Abu Mohammed al Jolani.
Durante l’incontro è stata concordata una cooperazione strategica tra i due paesi e Al Tani ha espresso la sua disponibilità ad investimenti senza precedenti in Siria nei settori dell’energia, dei porti marittimi e degli aeroporti, e ha promesso di stare al fianco della nuova Siria.
Anche il Qatar ha riaperto la sua ambasciata a Damasco, per la prima volta in 13 anni. È stato il secondo paese a fare questo passo dopo la Turchia.
A differenza di altri paesi arabi, il Qatar si è opposto negli ultimi 13 anni al rinnovo delle relazioni diplomatiche con la Siria o agli incontri con i suoi rappresentanti e alla legittimazione di Assad. Ha fornito aiuti umanitari ai rifugiati in Siria e all’estero, ha riconosciuto le organizzazioni dell’opposizione siriana e le ha difese nell’arena delle Nazioni Unite.
Il Qatar è uno dei leader dell’asse globale dei “Fratelli Musulmani” insieme alla Turchia, quindi la sua nuova posizione nella Siria islamica non sorprende affatto. Uno dei compiti di questo asse è proteggere le masse sunnite nei paesi arabi dalla tirannia dei governanti arabi.
Funzionari del Qatar affermano che l’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, avrà un ruolo importante e strategico nella riabilitazione della nuova Siria e nell’influenzare la sua politica. Presto visiterà Damasco e incontrerà al-Shara’.
Il Qatar ha permesso alle organizzazioni ribelli siriane di presidiare l’edificio dell’ambasciata siriana nella sua capitale, Doha, e di issare lì la loro bandiera. Funzionari della sicurezza in Israele affermano che fornirà assistenza tecnica alla Siria, aiuterà finanziariamente a ricostruire le istituzioni statali e investirà anche nei giacimenti di petrolio e gas naturale.
La Siria si trova in una situazione economica difficile e ha bisogno del sostegno economico del Qatar e della Turchia. Con le sue ingenti somme di denaro, il Qatar acquista la sua influenza politica in Medio Oriente.
Il Qatar ora vuole raccogliere i frutti della resistenza di 13 anni contro Assad e riscuotere il prezzo dalla Siria. Il prezzo che richiede è quello di acquisire una maggiore influenza sul territorio siriano e di influenzare direttamente e potentemente il sistema decisionale del nuovo sovrano Ahmad al-Shara’.

(Rights Reporter, 28 dicembre 2024)

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Donna uccisa da un terrorista palestinese a Herzliya

di Michelle Zarfati

Una donna anziana è stata uccisa durante un attacco terroristico a Herzliya questa mattina. Le guardie di sicurezza hanno neutralizzato l’aggressore prima di arrestarlo. Nel frattempo, la donna è stata portata d’urgenza all’ospedale Ichilov di Tel Aviv. Tuttavia, nonostante gli sforzi, la donna è stata dichiarata morta all’arrivo.
  La polizia israeliana ha poi confermato che l’incidente è stato un attacco terroristico contro civili, dopo che gli agenti delle forze di sicurezza, insieme ai paramedici MDA (Maghen David Adom), sono arrivati sulla scena. Idan Shina e Elon Boaron, entrambi paramedici del MDA sono stati i primi ad arrivare per soccorrere la donna. Entrambi hanno rivelato alla stampa locale che quando le squadre sono arrivate sul luogo del delitto hanno trovato la donna sdraiata priva di sensi con importanti ferite da taglio. I paramedici hanno fermato l’emorragia, rianimando la donna. Secondo quanto riferito, l’incidente è avvenuto in via Kdoshei Hashoah di Herzliya
  “Il nostro team sul posto, ha curato con tutte le forze la signora che già era in condizioni critiche – ha detto il portavoce della MDA Zachi Heller – oltre a lei non ci sono state altre vittime. Il personale di sicurezza della zona ha notato subito quanto stava accadendo riuscendo a neutralizzare l’aggressore. Un’indagine iniziale ha già rivelato che il terrorista era un residente palestinese della città di Tulkarm, in Cisgiordania, che aveva precedentemente scontato una pena detentiva in Israele.
  Secondo i media israeliani, l’indagine, condotta insieme allo Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), sta lavorando per comprendere come l’uomo sia riuscito ad entrare in Israele. Il comandante della polizia distrettuale di Tel Aviv, il sovrintendente Haim Sargaroff, ha detto che le guardie di sicurezza sulla scena sono entrate in azione dopo aver sentito il terrorista gridare “Allahu Akbar”.

(Shalom, 27 dicembre 2024)

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Chanukkà, nel Nord d’Israele un candelabro realizzato con i resti dei razzi di Hezbollah

di Michael Soncin

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Un progetto del reparto artificieri della polizia israeliana ha portato alla creazione di una chanukkiah simbolica, nata dai resti delle schegge dei razzi e missili che hanno ucciso gli israeliani durante la guerra con Hezbollah.
Ogni sera all’accensione dei lumi, come riporta il Jerusalem Post, saranno presenti, oltre ai rappresentanti pubblici, i cittadini che hanno prestato il servizio durante la guerra e i famigliari delle vittime.
Il candelabro ad otto braccia, meglio conosciuto con il nome di chanukkiah, viaggerà durante la festività in tutto il nord di Israele, visitando le alture del Golan, Kiryat Shmona, Shfaram e un hotel a Rosh Pina che ospita gli sfollati del nord.
L’ultima tappa sarà sul monte Meron in occasione di un evento annuale, Zot Hanukkah, che richiama migliaia di visitatori.
Il progetto della polizia, chiamato Lighting the North, contiene i frammenti dei missili che hanno ucciso 12 ragazzini sul campo da calcio a Majdal Shams a luglio. Frammenti che hanno anche ucciso un insegnante a Shfaram e una coppia a Kiryat Shmona.
Durante la caduta dei razzi, gli esperti di bonifica delle bombe hanno lavorato instancabilmente assieme al resto della polizia per salvare vite. I resti sono stati raccolti dopo ogni incidente, radunando tutti i pezzi presso la Galilee Bomb Disposal Unit.

(Bet Magazine Mosaico, 27 dicembre 2024)

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Il nuovo governatore di Damasco vuole stabilire relazioni pacifiche con Israele

Il governatore ha anche invitato gli Stati Uniti a sostenere la Siria nello sviluppo di migliori relazioni con lo Stato ebraico

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Maher Marwan, nuovo governatore di Damasco,

Il nuovo governatore di Damasco, Maher Marwan, nominato dal leader dei ribelli Al-Jolani, ha espresso venerdì il desiderio di stabilire relazioni pacifiche con Israele. “Vogliamo la pace, non vogliamo essere avversari di Israele o di chiunque altro”, ha dichiarato in un'intervista alla radio pubblica statunitense NPR.
  Nell'intervista, Marwan ha adottato un tono conciliante nei confronti dello Stato ebraico, cercando di allentare le tensioni regionali. “È possibile che Israele abbia provato paura e quindi sia avanzato leggermente (nella zona cuscinetto) e abbia bombardato un po'. È una paura naturale. Non abbiamo paura di Israele e non abbiamo alcun problema con loro”, ha sottolineato, aggiungendo: ”Non abbiamo intenzione di intervenire in modo da minacciare la sicurezza di Israele. Qui ci sono persone che vogliono vivere in coesistenza e che vogliono la pace”.
  Il governatore ha anche invitato gli Stati Uniti a sostenere la Siria nello sviluppo di migliori relazioni con Israele. Secondo il rapporto, durante l'intervista non ha menzionato la questione palestinese o la guerra a Gaza.
  Queste dichiarazioni fanno eco a quelle rilasciate quindici giorni fa da Abu Mohammad Al-Jolani, leader del gruppo ribelle “Hayat Tahrir al-Sham”. Egli aveva suggerito che la nuova leadership siriana non intendeva entrare in conflitto con Israele nel prossimo futuro. “La situazione in Siria, stremata da anni di combattimenti, non consente l'ingresso in nuovi conflitti”, ha affermato, sottolineando che ‘la ricostruzione e la stabilità sono la priorità, piuttosto che impegnarsi in nuovi conflitti che porterebbero a maggiore distruzione’.
  Tuttavia, Al-Jolani ha chiesto un intervento diplomatico per fermare le violazioni della sovranità siriana, accusando Israele di fare affermazioni infondate sulle minacce ai confini.

(i24, 27 dicembre 2024)

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Israele sta pensando di aprire le porte dell'inferno per riportare a casa gli ostaggi

Sembra che Trump si stia concentrando sugli ostaggi e su una vittoria decisiva per porre fine alla guerra. Il modo in cui ciò avverrà non sembra preoccuparlo.

di Ariel Kahana

Dal 20 gennaio 2025, “sarà possibile adottare misure aggiuntive a Gaza”, affermano alti funzionari israeliani.
L'impressione prevalente in Israele è che al presidente eletto Donald Trump non interessi particolarmente quali misure Israele prenda nella Striscia di Gaza. Ha due obiettivi chiari: il rilascio degli ostaggi e una vittoria israeliana che ponga fine alla guerra. I metodi utilizzati per raggiungere questi obiettivi gli sembrano irrilevanti.
A Gerusalemme, così come nel quartier generale militare di Kirya a Tel Aviv, i preparativi per l'era Trump si svolgono in stretta segretezza. Quando arriverà quel momento e non sarà stato raggiunto alcun accordo, ci si aspetta che Israele ridefinisca le regole di ingaggio contro Hamas.
Molti degli strumenti limitati dall'amministrazione statunitense di Biden, così come le richieste specifiche a Israele, non saranno più applicabili.
Un alto funzionario israeliano ha espresso la speranza che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Maggiore Generale (in pensione) Nitzan Alon - capo della Divisione Soldati Scomparsi e Catturati della Direzione dell'Intelligence Militare - colgano l'opportunità di agire “in modo completamente anticonvenzionale”.
L'ufficiale ha sottolineato la necessità di rompere con l'attuale schema che vede l'organizzazione terroristica finanziarsi attraverso gli ostaggi o utilizzare i terroristi rilasciati da Israele per rimpinguare i propri ranghi.
Quali misure potrebbe adottare Israele che al momento sono fuori discussione?
Secondo la fonte, gli aiuti umanitari, che l'amministrazione statunitense guidata da Biden ha insistito a fornire a Gaza, non saranno più un problema per Trump. Una riduzione di questi aiuti o un controllo completo su ciò che arriva a Gaza potrebbe peggiorare la situazione per Hamas e aumentare la pressione sull'organizzazione per il rilascio degli ostaggi.
Un altro aspetto critico è quello degli armamenti. Trump ha promesso di rilasciare tutte le spedizioni di armi, attualmente ritardate da Biden, nel suo primo giorno in carica. Una volta che le bombe e le granate in ritardo arriveranno, le forze israeliane avranno i mezzi per espandere significativamente le loro operazioni.
Inoltre, il funzionario ha osservato che è improbabile che l'amministrazione statunitense sotto Trump si opponga ai trasferimenti di popolazione se ritenuti necessari da Israele per schiacciare Hamas o liberare gli ostaggi. I funzionari israeliani presumono che la nuova amministrazione statunitense non chiederà responsabilità, sulla falsariga di: “Fate quello che dovete fare. Non saremo noi a dirvi cosa fare”.
Dal 20 gennaio, Netanyahu non dovrà più legittimare misure come la consegna di carburante e di materiali a doppio uso a Gaza su pressione degli Stati Uniti. Al contrario, avrà il sostegno di Trump per interrompere completamente queste forniture. Potrebbero essere reintrodotte le misure drastiche dei primi giorni di guerra, come la limitazione delle forniture di elettricità e acqua.
Se nelle prossime settimane non si raggiungerà un accordo sugli ostaggi, Israele potrebbe intensificare approcci alternativi come incentivi finanziari o accordi di esilio. Mentre le Forze di Difesa israeliane e lo Shin Bet hanno finora perseguito con cautela questa strategia, sono stati distribuiti manifesti in tutta la Striscia di Gaza e i messaggi dettati da Hamas nei video della presa degli ostaggi indicano che l'offerta è arrivata a loro.
Tuttavia, sono possibili ulteriori e più sofisticati sforzi in questa direzione.
I funzionari israeliani ritengono che Hamas sia consapevole di ciò che potrebbe accadere il 20 gennaio e questa consapevolezza ha influenzato la sua recente disponibilità a negoziare. Tuttavia, la ricorrente intransigenza dell'organizzazione potrebbe non lasciare a Gerusalemme altra scelta se non quella di soddisfare le aspettative di Trump e dare ad Hamas l'inferno per riportare a casa gli ostaggi.

(Israel Heute, 27 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele supera i 10 milioni: un dinamismo demografico unico in Occidente

Un tasso di natalità in aumento e un'immigrazione sostenuta stanno spingendo il piccolo Stato ebraico nella schiera delle nazioni con una forte crescita demografica.

Israele ha appena superato la soglia simbolica dei 10 milioni di abitanti, confermando il suo status di eccezione demografica tra i Paesi sviluppati. Con un tasso di crescita annuale dell'1,9%, il Paese vanta una dinamica unica, trainata da un tasso di fertilità di 2,89 figli per donna - una cifra significativamente superiore a quella di altre nazioni occidentali. “Oggi non c'è Paese sviluppato al mondo che abbia anche solo due figli per donna, mentre qui sono quasi tre”, sottolinea il professor Sergio Della Pergola, esperto di demografia ebraica. Questa specificità si riscontra anche nelle aree più urbanizzate: “Tel-Aviv, città moderna e liberale a maggioranza laica, mantiene un tasso di due figli per donna. È più di qualsiasi altro Paese europeo”.
Questa crescita eccezionale si spiega anche con l'immigrazione: dal 1948, 3,46 milioni di persone si sono stabilite in Israele, il 47% delle quali dopo il 1990. I maggiori picchi di immigrazione sono stati registrati nel 1949 (240.000 persone) e nel 1990 (200.000).
La distribuzione geografica rimane squilibrata: la metropoli di Tel Aviv concentra il 40% della popolazione nazionale, con un tasso di crescita annuale dell'1,8%. Questa concentrazione pone grandi sfide in termini di infrastrutture e servizi pubblici.
Le proiezioni dell'Ufficio centrale di statistica prevedono una popolazione di 16 milioni di abitanti entro il 2050. Questa crescita sostenuta distingue Israele da altri Paesi occidentali che devono affrontare l'invecchiamento demografico. Secondo Della Pergola, questo dinamismo si basa su “cultura e nostalgia, ma anche su due fattori critici: risorse materiali e ottimismo”. Secondo Della Pergola, “con una popolazione di 10 milioni di abitanti, Israele sta uscendo definitivamente dalla categoria dei ‘piccoli Paesi’, avendo superato Austria, Svizzera, Ungheria e Bielorussia, e si sta avvicinando a Svezia, Portogallo, Repubblica Ceca e Belgio”.

(i24, 27 dicembre 2024)

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La leadership di Netanyahu e la sopravvivenza di Israele

Di fronte minacce esistenziali, il primo ministro israeliano ha mantenuto un fronte unito, nonostante le sfide personali e politiche.

di Fiamma Nirenstein

Nel corso della sua storia millenaria, il popolo ebraico ha sopportato persecuzioni incessanti, una realtà che ha forgiato una tradizione di resilienza e leadership. Da figure bibliche come Mosè - liberatore degli israeliti e legislatore la cui influenza ha plasmato la civiltà moderna - a eroi più moderni come Giuda Maccabeo, Tuvia Bielski, Mordecai Anielewicz e Hannah Senesh, la storia ebraica è segnata da individui che hanno guidato il loro popolo attraverso le avversità.
A questo elenco, la storia contemporanea aggiunge ora Benjamin Netanyahu, la cui leadership in un momento di crisi senza precedenti ha ripristinato la posizione di forza e di responsabilità di Israele sulla scena mondiale dopo gli attacchi terroristici guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023.
Gli attacchi di quel giorno - segnati da 1.200 brutali omicidi, dal ferimento di migliaia di persone e dal rapimento di 251 uomini, donne e bambini in una palese dimostrazione di odio genocida - hanno spinto Netanyahu a dichiarare una guerra che continua a ridisegnare la regione. Sfidando le richieste di un cessate il fuoco che avrebbe permesso a gruppi come Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano di riorganizzarsi, Netanyahu ha dimostrato una determinazione inflessibile nello smantellare l'infrastruttura islamista dell'odio e nel contrastare le ambizioni regionali iraniane. La sua leadership non solo ha preservato l'esistenza di Israele, ma ha anche inferto un colpo alle aspirazioni egemoniche dell'Iran, che minacciavano la stabilità globale.
Di fronte alle pressioni internazionali, comprese le critiche delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea e dell'amministrazione Biden, Netanyahu ha mantenuto un fronte israeliano unito, nonostante le sfide personali e politiche. Ha sopportato accuse di crimini di guerra, un incessante assalto dei media e procedimenti giudiziari in corso che richiedono la sua presenza per ore ogni settimana.
In tutto questo, il Primo Ministro si è concentrato sulla sua missione: assicurare il futuro di uno Stato ebraico libero.
Lo sforzo bellico gli ha richiesto decisioni controverse, come l'apertura di un fronte settentrionale contro Hezbollah e l'ordine di attacchi che hanno neutralizzato avversari di alto profilo come il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e il leader di Hamas Yahya Sinwar. Queste azioni, sebbene abbiano incontrato la resistenza sia dei critici interni che degli alleati internazionali, hanno spostato in modo decisivo l'equilibrio di potere nella regione.
Con il sostegno di Stati Uniti, Regno Unito e Arabia Saudita, Israele ha ridotto le spedizioni di armi iraniane attraverso la Siria, costringendo il suo dittatore di lunga data, Bashar Assad, a ritirarsi, interrompendo il flusso di armi verso Hezbollah.
La strategia di Netanyahu si estende anche ad affrontare minacce esistenziali come le ambizioni nucleari dell'Iran. I colloqui con l'ex presidente Donald Trump e altri alleati sottolineano la disponibilità di Israele ad agire con decisione contro questo pericolo incombente. La sua recente visita alle alture del Golan, dove una volta ha prestato servizio in un'unità militare d'élite, simboleggia il suo impegno duraturo per la sicurezza di Israele.
A 75 anni, il volto pallido e gli occhi stanchi di Netanyahu riflettono il peso delle sue responsabilità. Tuttavia, la sua determinazione evoca paragoni con Winston Churchill, un altro leader che, contro le probabilità schiaccianti, ha radunato la sua nazione in difesa della libertà.
Come l'inno nazionale di Israele, “Hatikvah” (“La speranza”), la leadership di Netanyahu incarna l'aspirazione duratura del popolo ebraico: vivere liberamente nella sua patria ancestrale.

(JNS, 26 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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In calce il giornale aggiunge: “Le opinioni e i fatti presentati in questo articolo sono dell'autore e né JNS né i suoi partner se ne assumono la responsabilità.”

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Realizzata una gigantesca chanukkià di palloncini nell’ospedale israeliano Schneider

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Sono venticinquemila i palloncini che compongono la più grande chanukkià del mondo. Questo enorme candelabro a 9 bracci di Chanukkà si trova nell’ospedale Schneider Children’s Medical Center di Petach Tikva ed è stato assemblato da 100 volontari e una squadra di operatori su corde. Il progetto è stato promosso dall’organizzazione Tikva Umarpe.
È il decimo anno consecutivo che lo Schneider ospita la chanukkià. Tuttavia, quest’anno, è stato aggiunto il “nastro giallo” per ricordare i 100 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. “In attesa del miracolo di Chanukkà”, ha scritto l’ospedale in un post su LinkedIn, esprimendo la speranza per il ritorno a casa dei rapiti.
La chanukkià brilla come un faro di resilienza e unità durante gli otto giorni della Festa ebraica delle Luci.

(Shalom, 27 dicembre 2024)

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Parashat Mikketz. Noi e Dio siamo coautori della storia umana

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Fu il primo vero tentativo di Josef di prendere in mano il proprio destino, e fallì. O almeno così sembrava. Consideriamo la storia fino a quel momento, come illustrata nella parashà della scorsa settimana. Quasi tutto ciò che accade nella vita di Giuseppe rientra in due categorie.
La prima categoria è quella delle cose che gli vengono fatte. Suo padre lo ama più degli altri figli. Gli regala una tunica riccamente ricamata. I suoi fratelli sono invidiosi e provano odio nei suoi confronti. Il padre lo manda a vedere come se la passano i fratelli che si occupano delle greggi lontane. Non li trova e deve affidarsi a uno sconosciuto che gli indichi la direzione giusta. I fratelli complottano per ucciderlo, gettarlo in una fossa e poi venderlo come schiavo. Viene portato in Egitto. Viene acquistato come schiavo da Potifar. Sua moglie lo trova attraente, tenta di sedurlo e, fallito il suo tentativo di seduzione, lo accusa ingiustamente di stupro e per questo viene imprigionato.
È straordinario. Giuseppe è ogni volta al centro dell’attenzione, e tuttavia è continuamente l’oggetto delle attività degli altri in modo passivo piuttosto che attivo.
Nella seconda categoria comincia ad agire. Gestisce la casa di Potifar in modo esemplare. Organizza una prigione. Interpreta il sogno del coppiere e del panettiere. In una sequenza unica di descrizioni, la Torà attribuisce le sue azioni e il loro successo a Dio.
Ecco Giuseppe in casa di Potifar: Dio era con Giuseppe e lui divenne un uomo che riusciva in ogni cosa. Presto lavorò nella casa del suo padrone. Il suo padrone si rese conto che Dio era con [Giuseppe] e che Lui gli concedeva il successo in tutto ciò che faceva. (Genesi 39:2-3)
Non appena [il padrone] lo mise a capo della sua casa e dei suoi beni, Dio benedisse l’Egiziano a causa di Giuseppe. La benedizione di Dio era in tutto ciò che [l’egiziano] aveva, sia in casa che in campagna. (Genesi 39:5)
Quando Giuseppe era in prigione, leggiamo:
Dio era con Giuseppe e gli mostrò benevolenza, facendogli incontrare il favore del direttore della prigione. Ben presto il guardiano mise tutti i prigionieri della prigione sotto la responsabilità di Giuseppe. [Giuseppe si occupò di tutto ciò che doveva essere fatto. Il direttore non dovette occuparsi di nulla di ciò che era sotto la cura di [Giuseppe]. Dio era con [Giuseppe], e Dio gli concesse il successo in tutto ciò che fece. (Genesi 39:21-23)
Ed ecco Giuseppe che interpreta i sogni: “Le interpretazioni non appartengono forse a Dio?”, rispose Giuseppe. “Se volete, raccontatemi [i vostri sogni]”. (Genesi 40:8)
Di nessun’altra figura nel Tanach si parla in modo così chiaro, coerente e ripetuto. Giuseppe sembra deciso, organizzato e vincente, e così appare agli altri. Ma, dice la Torà, non è lui ma è Dio il responsabile di ciò che ha fatto e del suo successo. Anche quando resiste alle avances della moglie di Potifar, esplicita che è Dio a rendere moralmente impossibile ciò che lei vuole: “Come potrei commettere un atto così immorale e peccare nei confronti del Signore?”. (Genesi 39:9)
L’unico atto chiaramente attribuito a lui si verifica proprio all’inizio della storia, quando porta un “cattivo rapporto” sui suoi fratelli, i figli delle ancelle Bilah e Zilpah anche loro mogli di suo padre. A parte questo, ogni svolta del suo destino in continuo cambiamento è il risultato dell’azione di qualcun altro, un altro essere umano, o di Dio.
È per questo motivo che non si può fare a meno di notare quando, alla fine della parashà precedente, Giuseppe prende in mano il suo destino. Dopo aver detto al coppiere che entro tre giorni sarebbe stato graziato dal Faraone e reintegrato nella sua posizione precedente, e non avendo alcun dubbio che ciò sarebbe accaduto, gli chiese di perorare la sua causa presso il Faraone e di assicurargli la libertà:  “Quando le cose ti andranno bene, ricordati che io ero con te. Fammi questo favore e parla di me al Faraone. Forse riuscirai a farmi uscire da questo posto”. (Genesi 40:14)
Che cosa accadde? “Il coppiere non si ricordò di Giuseppe. Si dimenticò di lui. (Genesi 40:23)”. Il raddoppio del verbo è potente. Non si ricordò. Si dimenticò. L’unica volta che Giuseppe cerca di essere l’autore della propria storia, fallisce. Il fallimento è decisivo.
La tradizione aggiunge un ultimo tocco al dramma. Conclude la parashà Vayeshev con queste parole, lasciandoci proprio nel momento in cui le sue speranze si infrangono. Riuscirà a diventare grande? I suoi sogni si realizzeranno? La domanda “Cosa succederà dopo?” è intensa e dobbiamo aspettare una settimana per scoprirlo.
Il tempo passa e, con la massima improbabilità (anche il Faraone fa dei sogni e nessuno dei suoi maghi o saggi è in grado di interpretarli – cosa strana, visto che l’interpretazione dei sogni era una specialità degli antichi egizi), apprendiamo la risposta. “Passarono due anni interi”.
Le parole con cui inizia la nostra parashà, Mikketz, sono la frase chiave. Ciò che Giuseppe voleva che accadesse, accadde. Lasciò la prigione. Fu liberato. Ma non prima che fossero trascorsi due anni interi.
Tra il tentativo e il risultato è intervenuto qualcosa. Questo è il significato del lasso di tempo. Giuseppe pianificò la sua liberazione e fu liberato, ma non perché l’avesse pianificato. Il suo stesso tentativo si è concluso con un fallimento. Il coppiere si dimenticò di lui. Ma Dio no. Non si è dimenticò di Giuseppe. È stato Dio, non Giuseppe, a determinare la sequenza di eventi – in particolare i sogni del Faraone – che hanno portato alla sua liberazione.
Ciò che vogliamo che accada, accade, ma non sempre quando ce lo aspettiamo, o nel modo in cui ce lo immaginiamo, o semplicemente come volevamo che accadesse. Dio è il co-autore del copione della nostra vita, e a volte – come in questo caso – ce lo ricorda facendoci aspettare e cogliendoci di sorpresa.
Questo è il paradosso della condizione umana così come viene intesa dall’ebraismo. Da un lato siamo liberi. Nessuna religione ha mai insistito con tanta enfasi sulla libertà e sulla responsabilità umana. Adamo ed Eva erano liberi di non peccare. Caino era libero di non uccidere Abele.
Ci scusiamo per i nostri fallimenti: non sono stato io, è stata colpa di qualcun altro, non potevo farci niente. Ma queste sono solo scuse. Non è così. Siamo liberi e abbiamo la nostra responsabilità.
Eppure, come disse Amleto: “C’è una divinità che modella i nostri fini e che li rovina come vogliamo”. Dio è intimamente coinvolto nella nostra vita.
Guardando indietro, alla mezza età o in quella avanzata, spesso possiamo scorgere, attraverso la nebbia del passato, che una storia stava prendendo forma, un destino che stava lentamente emergendo, guidato in parte da eventi al di fuori del nostro controllo. Non avremmo potuto prevedere che quell’incidente, quella malattia, quel fallimento, quell’incontro apparentemente casuale, anni fa, ci avrebbero portato in questa direzione. Eppure ora, con il senno di poi, può sembrare che fossimo una pedina degli scacchi mossa da una mano invisibile che sapeva esattamente dove voleva che fossimo.
Secondo Giuseppe, fu questa visione a distinguere i Farisei (gli artefici del cosiddetto giudaismo rabbinico) dai Sadducei e dagli Esseni. I Sadducei negavano il destino. Dicevano che Dio non interviene nella nostra vita. Gli Esseni attribuivano tutto al destino. Credevano che tutto ciò che facciamo fosse predestinato da Dio. I Farisei credevano sia nel destino che nel libero arbitrio. “Era bene che Dio si fondesse [tra la provvidenza divina e la scelta umana] e che la volontà dell’uomo, con le sue virtù e i suoi vizi, fosse ammessa nella sala del consiglio del destino” (Antichità, XVIII, 1, 3).
In nessun momento questo è più chiaro più che nella vita di Giuseppe raccontata in Bereshit, e in nessun altro luogo è più evidente che nella sequenza di eventi raccontati alla fine della parashà della scorsa settimana e all’inizio di questa. Senza le azioni di Giuseppe – la sua interpretazione del sogno del coppiere e la sua richiesta di libertà – egli non avrebbe lasciato la prigione. Ma senza l’intervento divino sotto forma di sogni del Faraone, non sarebbe nemmeno successo.
Questo è il paradossale gioco del destino e del libero arbitrio. Come disse Rabbi Akiva: “Tutto è previsto, ma la libertà di scelta è data” (Avot 3:15). Isaac Bashevis Singer (1904-1991 scrittore polacco) ha detto in modo arguto: “Dobbiamo credere nel libero arbitrio: non abbiamo scelta”. Noi e Dio siamo coautori della storia umana. Senza i nostri sforzi non possiamo ottenere nulla. Ma anche senza l’aiuto di Dio non possiamo ottenere nulla. L’ebraismo ha trovato un modo semplice per risolvere il paradosso. Per il male che facciamo, ci assumiamo la responsabilità. Per il bene che otteniamo, ringraziamo Dio. Giuseppe è il nostro mentore. Quando è costretto ad agire con durezza, piange. Ma quando racconta ai fratelli il suo successo, lo attribuisce a Dio. Anche noi dovremmo vivere così.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl

(Bet Magazine Mosaico, 27 dicembre 2024)
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Parashà della settimana: Mikets (Alla fine)

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Diario minimo (di un conflitto). Natale a Gerusalemme

di Luciano Assin

Non è la prima volta che giro all’interno della città vecchia della capitale israeliana durante periodi di tensione. Mi è successo nelle due Intifade, il giorno stesso della dichiarazione di Trump dove annunciò il trasferimento dell’ambasciata americana nella città santa, e in innumerevoli situazioni a ridosso di attentati vari. Ogni volta le sensazioni sono contrastanti: da un lato il fascino che la città emana sembra rimanere intatto nonostante tutte le traversie che la hanno accompagnata da millenni, dall’altro ti accorgi immediatamente dei piccoli cambiamenti che più di tante altre cose raccontano il quotidiano degli abitanti.
  Il negozio di souvenir tanto carino all’interno del quartiere musulmano è diventato un parrucchiere per uomini, il pittoresco negozio di spezie si è riciclato come minimarket, il ristorante trappola per turisti è chiuso in attesa di tempi migliori. Le strade sono vuote e gli abitanti fissi si riprendono pian piano i loro spazi. Quest’anno il Natale coincide con la festività ebraica di Hannukà, ma anche nel quartiere ebraico della città vecchia non si vede la solita animazione che dovrebbe regnare in questo periodo.
  Il Santo Sepolcro, forse il luogo più sacro della Cristianità, appare sotto una luce diversa. La chiesa è diventato un immenso cantiere in seguito ad una serie di nuovi scavi che dureranno almeno un paio di anni. Questo brulicare di operai, macchinari e addetti ai lavori stride in modo impressionante con l’assoluta mancanza di pellegrini. Le code sul Golgota o lungo l’edicola che sovrasta il Sepolcro sono inesistenti, ed i pochi fortunati presenti hanno il privilegio di potersi godere in piena solitudine i momenti di contemplazione e devozione che un simile luogo merita.
  L’Ospizio Austriaco, da sempre un angolo di Mitteleuropa avulso dal caos che lo circonda, continua placidamente a guardare dalla sua spettacolare terrazza i movimenti degli umani che si muovono indaffarati alla ricerca di risposte ai loro problemi quotidiani. Seduto all’interno del caffè Trieste, hai la fugace impressione di trovarti in un altro continente ed un’altra dimensione, ma dura soltanto il tempo di un caffè, una volta fuori ti ritrovi nuovamente avvolto dalle eterne contraddizioni di questa poliedrica e fantastica città. Parlando coi commercianti e con le persone che incontri per strada ti accorgi che i loro problemi sono in definitiva anche i tuoi, una convivenza è possibile, ma la sottile tensione che ti accompagna durante il tuo vagabondare nei vicoli della città ti ricorda quale sia il prezzo da pagare.
  Musulmani, ebrei, copti, armeni, francescani, greci ortodossi, etiopi e siriaci compongono lo sfondo sul quale sviluppare le tue meditazioni, con la sensazione di trovarsi in un limbo ovattato dove non potrai mai afferrare la realtà.

(Bet Magazine Mosaico, 25 dicembre 2024)


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Cosa vogliono gli Houthi da noi?

 Per molti nel Paese, gli Houthi sono una seccatura che sveglia Israele dal suo sonno con allarmi notturni.

di Aviel Schneider

FOTO
Tribù armate durante una manifestazione contro gli Stati Uniti e Israele, alla periferia di Sana'a, Yemen, 24 dicembre 2024

GERUSALEMME - “Gli Houthi si stanno preparando per un attacco israeliano straordinario”, riporta oggi il quotidiano saudita Al-Sharq Al-Awsat. “Dopo il lancio di razzi su Israele, gli Houthi hanno alzato il livello di allerta al massimo e hanno dispiegato le truppe per paura di un attacco. Gli Houthi hanno anche ordinato di evacuare i campi nel porto di Hodeidah in preparazione di un attacco israeliano”. Come parte della preparazione alla difesa, l'intelligence Houthi ha ordinato ai residenti di non fare telefonate o comunicare via social media su luoghi che sono stati colpiti da attacchi israeliani e americani. Inoltre, fonti locali hanno riferito al giornale saudita che gli Houthi sono anche preparati alla possibilità di una rivolta popolare contro di loro. Gli Houthi rappresentano solo il 30% dello Yemen e sono un problema non solo per Israele, ma anche per la loro stessa popolazione e per l'Arabia Saudita e gli Emirati.
Gli Houthi sono una milizia Zaidi il cui legame con gli eventi attuali è in realtà molto debole. Si tratta di un gruppo ai margini orientali della penisola arabica che si fa chiamare Ansar Allah”, che si traduce come Aiutanti di Dio”. Un'altra persona che vuole aiutare Dio. Non capisco questo nome, se devo aiutare Dio, allora posso fare a meno di questo Dio. Non ha senso, vero? Dall'inizio degli anni Duemila, gli Houthi hanno rafforzato la loro alleanza militare e ideologica con la Repubblica islamica dell'Iran e sono diventati un attore terroristico centrale nell'asse di resistenza iraniano, in quel momento ancora più forte contro l'Arabia Saudita. Israele è il nemico principale, seguito dai governi arabi che mantengono alleanze con l'Occidente, come Egitto e Arabia Saudita. Il crescente sostegno ha reso gli Houthi una minaccia per il governo yemenita. Il gruppo ha adottato uno slogan che chiede la distruzione degli Stati Uniti e di Israele: “Allah è grande! Morte agli Stati Uniti! Morte a Israele! Al diavolo gli ebrei! Vittoria all'Islam!” Da dove vengono? Gli Houthi sono una tribù araba Zaidi dello Yemen settentrionale, un gruppo sciita fedele all'imam Zaid ibn Ali, un nipote del nipote del Profeta, Husain, che si sollevò contro il dominio omayyade a Kufa nel 740 e morì nel corso del processo. Riconoscono i primi quattro imam, a differenza della maggior parte degli sciiti, ad esempio in Iran, che riconoscono tutti e dodici gli imam. Tuttavia, ritengono che un imam possa essere nominato in ogni generazione. Gli Zaiditi hanno governato per secoli la regione tra lo Yemen settentrionale e l'Arabia Saudita sudorientale, fino a quando hanno perso il loro dominio nel 1962. Nello stesso anno, l'ultimo re e imam dello Yemen settentrionale, Muhammad al-Badr, fu rovesciato da un colpo di Stato militare che mirava a stabilire una repubblica araba.
Il colpo di Stato era sostenuto da ufficiali egiziani e faceva parte di un più ampio movimento nazionalista arabo nella regione. Questo spiega, tra l'altro, gli attacchi alle navi nel Mar Rosso, che hanno colpito duramente l'Egitto dal punto di vista finanziario. L'obiettivo degli attacchi degli Houthi è una delle più importanti rotte commerciali mondiali, che collega l'Asia all'Europa attraverso il Canale di Suez egiziano. Dall'inizio della crisi, 2.000 navi hanno dovuto essere deviate intorno al Capo di Buona Speranza.
La rivolta degli Houthi in Yemen è iniziata nel 2004, principalmente come reazione all'emarginazione politica, economica e religiosa della loro comunità da parte del governo yemenita. Le tensioni tra gli Houthi e il governo yemenita si sono intensificate sotto il presidente Ali Abdullah Saleh, le cui politiche gli Houthi hanno percepito come discriminatorie. Il conflitto si è inasprito con le accuse al governo di voler sopprimere la fede Zaidi a favore dell'Islam sunnita. Gli Houthi si sentivano minacciati anche dalla crescente presenza di ideologie salafite saudite, diffuse dalle scuole religiose della regione.
La situazione è degenerata in una ribellione armata quando le forze governative hanno tentato di arrestare il leader Houthi Hussein Badreddin al-Houthi nel 2004, provocandone la morte. Questo fu l'inizio di una serie di conflitti in Yemen. La guerra è proseguita in più fasi e oggi il fratello Abdulmalik al-Houthi è a capo del movimento. Egli stesso è considerato una strana figura con la quale nessun politico internazionale si è mai incontrato di persona.
L'arsenale militare degli Houthi comprende droni con una portata fino a 1.300 chilometri, missili da crociera e missili a lungo raggio che possono volare fino a 3.000 chilometri. Queste armi dimostrano la loro notevole forza militare. Secondo le stime, gli Houthi hanno circa 300.000 combattenti, di cui circa 20.000 sono considerati combattenti addestrati. Sebbene gli Houthi controllino solo una parte dello Yemen, circa il 70% della popolazione del Paese si trova nella loro sfera di influenza. In quest'area si trovano anche porti strategicamente importanti, che danno agli Houthi accesso a gran parte della regione costiera del Mar Rosso.
Gli Zaidi, che includono gli Houthi, rappresentano circa il 35-45% della popolazione yemenita. Tuttavia, il numero esatto di Houthi all'interno di questo gruppo è difficile da determinare, poiché comprende sia combattenti militari che sostenitori civili. La loro presenza politica e militare si concentra principalmente nel nord-ovest dello Yemen, compresa la capitale Sanaa, che controllano dal 2014.
Cosa li lega all'Iran? Oltre alla vicinanza religiosa, in questo periodo gli Houthi hanno ricevuto sostegno finanziario, armi e munizioni da Teheran e hanno adottato lo slogan “Morte all'America, morte a Israele, maledizione agli ebrei, vittoria all'Islam”, simile agli slogan della Rivoluzione islamica in Iran. Questo slogan è solo una delle espressioni dell'antisemitismo della milizia, che ha portato molti degli ebrei rimasti in Yemen a lasciare il Paese. Nel marzo 2021, è stato riferito che le famiglie ebraiche rimaste sono state espulse dal Paese.
Perché odiano Israele e gli ebrei? Si può dire che tutto è iniziato con il ritorno del leader Hussein Badreddin al-Houthi all'inizio degli anni 2000 dall'Iran, dove era stato educato nelle istituzioni educative sciite del regime rivoluzionario. Le sue istanze chiaramente antisemite hanno avuto una grande influenza sulla tribù. Sebbene sia stato ucciso nel 2004, la sua influenza si fa sentire ancora oggi. All'epoca Hussein dichiarò di aver incluso gli ebrei nello slogan della milizia perché “sono loro a muovere questo mondo e a diffondere la corruzione”. Ha anche affermato che gli attacchi dell'11 settembre non erano un'iniziativa di Al-Qaeda, ma una “cospirazione ebraica”. In un'altra occasione, ha invitato i suoi seguaci a uccidere in massa gli ebrei. Questo antisemitismo è andato di pari passo con l'appello alla distruzione di Israele. Nei suoi sermoni e discorsi, gli ebrei vengono incolpati allo stesso tempo di capitalismo e comunismo e accusati della “falsificazione della cultura e della conoscenza”. A queste affermazioni unisce estratti di versetti coranici che mettono in guardia dagli ebrei.
Sono questi gli Houthi che in questi giorni ci svegliano spesso nel cuore della notte e lanciano qualche missile contro Israele. Ma è solo questione di tempo prima che anche gli zaiditi dello Yemen sentano il lungo braccio di Israele. E se gli Houthi invocano Allah e si considerano “aiutanti di Allah”, allora noi, Israele, non siamo “aiutanti di Dio” - ma Dio è “aiutante di Israele”.

(Israel Heute, 26 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


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Israele: “stessa fine di Hamas ed Hezbollah”

Netanyahu vuole azzerare anche gli Houthi

«Gli Houthi nello Yemen subiranno la stessa sorte degli altri nemici di Israele nella regione». È stato un segnale netto quello lanciato dal primo ministro Benjamin Netanyahu durante l’accensione di una candela di Hanukkah per i dipendenti del suo ufficio a Gerusalemme. «Anche gli Houthi impareranno ciò che hanno imparato Hamas, Hezbollah, il regime di Assad e altri, e anche se ci vorrà del tempo, questa lezione verrà appresa in tutto il Medio Oriente», ha promesso Netanyahu. Le sue parole giungono poche ore dopo che almeno un drone lanciato dai ribelli Houthi dello Yemen - sostenuti dall’Iran - è caduto in un’area aperta della città meridionale di Askhelon e che un missile balistico è stato intercettato prima di entrare in territorio israeliano, secondo l’Idf. «Oggi accendiamo la prima candela di Hanukkah per commemorare la vittoria dei Maccabei di allora e la vittoria dei Maccabei di oggi», ha ricordato Netanyahu. «Come abbiamo fatto allora, colpiamo gli oppressori e coloro che pensavano di tagliare il filo della nostra vita qui, e questo varrà per tutti», ha avvertito. Alla cerimonia ufficiale Netanyahu è stato affiancato da Ronen e Orna Neutra, genitori dell’ostaggio israeliano-americano ucciso, Omer Neutra.
  Nel frattempo un articolo del quotidiano Haaretz afferma che il capo del Mossad, David Barnea, ha fatto pressione sui leader del paese per far attaccare direttamente l’Iran per arginare gli attacchi degli Houthi dallo Yemen. Una linea più dura quella di Barnea, in contrasto con quella finora attuata dal premier Netanyahu e dal ministro della Difesa Israel Katz, che preferiscono continuare a colpire lo Yemen. L’articolo di Haaretz cita una fonte anonima a conoscenza di discussioni presumibilmente tenute per valutare la mancanza di risultati dei tre round di attacchi sullo Yemen, ma al momento non ci sono conferme indipendenti. Secondo il quotidiano, mentre Netanyahu e Katz sostengono i continui attacchi diretti contro gli Houthi da parte di Israele e dei suoi alleati, Barnea ritiene che sarebbe più efficace attaccare l’Iran, che finanzia e arma gli Houthi, un gruppo sciita che da tempo gode del sostegno di Teheran. Netanyahu, Katz e i leader militari hanno indicato che Israele è pronto a espandere i suoi attacchi contro gli Houthi, prendendo di mira anche i loro leader, che saranno colpiti come quelli di Hamas e Hezbollah.

(Il Tempo, 26 dicembre 2024)

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Itamar Ben Gvir visita la Spianata delle Moschee a Gerusalemme

Il ministro israeliano Ben Gvir visita il sito conteso di Gerusalemme, scatenando proteste da parte dell'Autorità Palestinese.

Il ministro israeliano di estrema destra Itamar Ben Gvir ha fatto visita questa mattina alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, suscitando numerose proteste, in particolare da parte dell'Autorità Nazionale Palestinese, che ha definito l'iniziativa 'una provocazione'.
"Stamattina sono salito sul luogo del nostro santuario per pregare per la sicurezza dei nostri soldati, per il rapido ritorno di tutti gli ostaggi a Gaza e per una vittoria totale, con l'aiuto di Dio", ha postato il ministro della Sicurezza Nazionale israeliana su X, pubblicando una sua foto sulla Spianata.
Da quando è entrato a far parte del governo alla fine del 2022, Itamar Ben Gvir ha visitato più volte questo sito conteso, situato nel settore della Città Santa occupato e annesso da Israele. Terzo luogo sacro dell'Islam, la Spianata delle Moschee è costruita sulle rovine del secondo tempio ebraico, distrutto nell'anno 70 dai Romani. Per gli ebrei è il Monte del Tempio, il luogo più sacro dell'ebraismo. Il luogo è al centro del conflitto israelo-palestinese ed è oggetto di tensioni ricorrenti.
In base allo status quo decretato dopo la conquista di Gerusalemme Est da parte di Israele nel 1967, i non musulmani possono visitare la spianata in orari specifici, senza fermarsi a pregare.
Il ministero degli Esteri dell'Autorità Nazionale Palestinese ha "condannato" la visita del ministro israeliano, definendo i suoi "rituali talmudici" presso la moschea di Al-Aqsa una "provocazione senza precedenti contro milioni di palestinesi e musulmani".
Anche la Giordania, alla quale è affidata l'amministrazione del sito, ha denunciato, attraverso il suo ministero degli Affari Esteri, "una visita provocatoria e inaccettabile" nonché una "violazione dello status quo storico e giuridico" della spianata delle Moschee. "Lo status quo del Monte del Tempio non è cambiato", ha affermato da parte sua l'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in una dichiarazione.

(ANSA, 26 dicembre 2024)

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La metastoria del miracolo di Chanukkà

di Rav Ariel Di Porto

In una lezione su Chanukkà rav Ezrà Bick nota un fatto interessante: nella nostra storia e nelle nostre festività abbiamo tanti elementi miracolosi, ma questi non rappresentano mai il centro delle nostre celebrazioni. Durante l’uscita degli ebrei dall’Egitto sono avvenuti molti miracoli, ma ciò che intendiamo ricordare è la liberazione dalla schiavitù, e non il miracolo stesso, e così per le altre festività. L’unica eccezione è rappresentata da Chanukkà, che sembra voler celebrare un miracolo, anche se per certi versi il miracolo non sarebbe stato necessario. I Maccabei infatti avrebbero potuto aspettare di produrre dell’olio puro o utilizzare dell’olio impuro per accendere la menorà, il candelabro del Santuario. Inoltre non ci sarebbe motivo di celebrare un miracolo del quale ormai, distrutto il Santuario, non vediamo più gli effetti. Rav Bick suggerisce che il miracolo dei lumi è il filtro attraverso il quale dovremmo comprendere gli eventi di Chanukkà. Tutte le feste intendono ricordare degli eventi storici pur comprendendo degli elementi miracolosi, ma Chanukkà presenta un aspetto unico. Ai tempi del secondo Tempio c’erano diversi eventi storici da ricordare, che erano custoditi in un antico testo, la Meghillat Ta’anit. Di tutte le date riportate in tale testo l’unica ad essere rimasta è Chanukkà. Ciò ci permette di comprendere che Chanukkà ha un significato metastorico, quello del rinnovamento. All’epoca la vita spirituale del popolo ebraico rischiava di scomparire del tutto. C’era un potere che stava mettendo fuori legge l’ebraismo in nome di una cultura universale che stava trasformando il mondo. Qualsiasi analisi razionale avrebbe condotto ad un’unica conclusione: non c’erano abbastanza risorse spirituali per continuare, per invertire il corso della storia. Una volta che una cosa è morta non è possibile rianimarla, se una fiamma è spenta non può essere riaccesa. Ma questo non fu quanto avvenne. Venne trovata una piccola ampolla, che non era sufficiente a proiettare il passato nel futuro. La filosofia greca insegna che l’effetto non può superare la causa, un giorno non basta per dedicare una casa a D. Ma l’olio dura fino a quando gli ebrei non riescono a individuare le risorse naturali. Cosa impariamo da qui? Che non siamo vincolati dalle circostanze attuali, possiamo superarle, creando quasi dal nulla. Basta che ci sia una scintilla di vita per ottenere una fiamma potente. Questa non è storia, è metastoria nel suo senso più profondo.

(Shalom, 25 dicembre 2024)


Equivalenza metapolitica
Il mondo sta a Israele      
come Israele sta al Messia


La storia della nascita di Gesù

La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo. Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente. Ma, mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
“Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi”.
E Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l'angelo del Signore gli aveva comandato; prese con sé sua moglie e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio, al quale pose nome Gesù.

(Vangelo di Matteo 1:18-25, 25 dicembre 2024)

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Israele alza il budget per la Difesa e vara la manovra formato guerra

La Knesset dice sì al disegno di legge che aumenta il disavanzo di 9 miliardi per permettere il finanziamento della spesa militare. Ora la manovra per il 2025 tocca quota 150 miliardi.

di Rino Moretti

Come previsto, il parlamento israeliano (Knesset) ha approvato l’estensione dello stato d’emergenza del Paese fino al 16 dicembre 2025, in conformità con le raccomandazioni del gabinetto di sicurezza. Lo stato d’emergenza consente al gabinetto di emanare regolamenti che scavalcano la legislazione della stessa Knesset. Il parlamento israeliano ha votato anche l’approvazione definitiva di un disegno di legge che aumenta il tetto del deficit del Paese al 7,7% del Pil (dal 6,6%) e amplia di 9 miliardi il bilancio 2024 per coprire le spese per la difesa.

Lo scorso 1 novembre, il governo israeliano aveva redatto un bilancio per il 2025 dedicato in gran parte a “sostenere le guerre che Israele sta conducendo su diversi fronti” e a “salvaguardare la tenuta dell’economia”, come aveva dichiararlo il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich. Il bilancio, era così stato portato a 607,4 miliardi di shekel (pari a 150 miliardi di euro) e comprende un pacchetto di 9 miliardi di shekel (2,2 miliardi di euro) per aiutare le migliaia di riservisti richiamati dall’esercito dall’inizio della guerra contro Hamas, nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre 2023.

Non è finita. Nel 2024 gli Stati Uniti hanno fornito inoltre 8,7 miliardi di dollari di aiuti militari in aggiunta agli stanziamenti annuali che Washington trasferisce a Israele sotto forma di prodotti statunitensi per la Difesa per un valore di 3,8 miliardi di dollari (importo stabilito dall’amministrazione Obama fino al 2028). Altre fonti riferiscono che dall’inizio del conflitto con l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023 gli Stati Uniti hanno trasferito oltre 167 miliardi di aiuti militari a Israele.

Tornando al bilancio dello Stato ebraico, esso prevede aumenti di tasse e tagli di spesa per cercare di controllare un deficit di bilancio oggi pari all’8,5% del Pil. Tuttavia, la spesa totale è stata fissata a 744 miliardi di shekel (182 miliardi di euro), di cui 161 miliardi (circa 40 miliardi di euro) saranno spesi per il servizio del debito.

(Formiche.net, 24 dicembre 2024)

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L’operazione israeliana che ha neutralizzato la Marina siriana

di Luca Spizzichino

La missione condotta dall’INS Herev, una nave missilistica classe Sa’ar 4.5, ha segnato un capitolo storico per la Marina israeliana. “L’operazione è stata straordinaria, e l’attacco resterà nella storia,” ha dichiarato il tenente colonnello Tomer, comandante della nave, ripercorrendo i momenti salienti dell’azione che ha distrutto il cuore della flotta siriana.
  Quando l’INS Herev ha lasciato il porto di Haifa, i soldati erano convinti di partecipare a un’esercitazione. “La segretezza è stata tale che nemmeno i membri dell’equipaggio sapevano quale fosse la missione,” ha raccontato Tomer. Una volta in mare aperto, ha svelato loro l’obiettivo: addentrarsi nelle acque siriane per distruggere la flotta di motovedette missilistiche della Marina siriana. “All’inizio erano increduli, ma si sono subito messi all’opera con determinazione”.
  Il piano è stato comunicato al comandante Tomer tramite una linea riservata mentre era in viaggio verso la base. “Quando ho ricevuto le istruzioni, sono rimasto sorpreso. Non pensavo che una missione del genere sarebbe avvenuta durante il nostro turno,” ha ammesso. L’ordine era chiaro: partire immediatamente. Entro la sera, la nave era pronta e in rotta verso nord, lungo la costa libanese, con destinazione Latakia, sede principale della Marina siriana.
  La missione non è stata priva di difficoltà. “Abbiamo dovuto gestire operazioni difensive e offensive contemporaneamente”, ha raccontato il comandante. “Mentre ci preparavamo per un attacco, poteva sopraggiungere un UAV nemico, e dovevamo intercettarlo senza interrompere le altre attività. È stata una prova di professionalità e coordinazione impeccabili da parte dell’equipaggio”. Dopo aver completato l’eliminazione delle batterie antiaeree, la nave si è ritirata momentaneamente in acque internazionali. L’attacco a Latakia, inizialmente previsto per la notte, è stato posticipato di 24 ore per massimizzare l’efficacia dell’operazione.
  Quando è arrivato il momento, l’INS Herev ha colpito con precisione chirurgica 15 motovedette missilistiche siriane, che costituivano la spina dorsale della Marina nemica. “Ogni bersaglio è stato distrutto in pochi minuti. Le imbarcazioni sono affondate e sono state rese inutilizzabili” ha confermato Tomer. “La missione si è conclusa davvero solo al nostro rientro a Haifa, dove siamo stati accolti dal comandante della Marina, il viceammiraglio David Saar Salama, che ha ringraziato personalmente ogni membro dell’equipaggio”.

(Shalom, 24 dicembre 2024)

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Israele rivendica per la prima volta la responsabilità della morte di Haniyeh in Iran

Il ministro della Difesa Israel Katz ha riconosciuto per la prima volta che dietro la morte di Ismail Haniyeh, capo dell'ufficio politico dell'organizzazione terroristica islamica palestinese Hamas, morto il 31 luglio in un attentato a Teheran, c'è il governo di Gerusalemme.
“Paralizzeremo gravemente gli Houthi, danneggeremo le loro infrastrutture strategiche e abbatteremo i loro leader, proprio come abbiamo fatto con Haniyeh, (Yahya) Sinwar e (Hassan) Nasrallah, a Teheran,  Gaza e Libano, lo faremo a Hodeidah e Sana (Yemen)” ha detto il ministro della Difesa.
L'eliminazione di Haniyeh è stata attribuita fin dal primo momento a Israele dal gruppo terroristico Hamas e dal regime iraniano.
Tuttavia, le autorità israeliane, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu, avevano evitato di confermare o negare il loro coinvolgimento nell’attacco che ha provocato la morte di qualcuno considerato uno dei principali autori dei massicci attacchi di Hamas contro Israele il 7 settembre 2023.
Haniyeh, il defunto leader del gruppo terroristico islamico palestinese, si era recato occasionalmente a Teheran per partecipare alla cerimonia di insediamento del presidente iraniano Masud Pezeshkian quando fu eliminato.
Nel frattempo, Nasrallah e il generale di brigata del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane, Abbas Nilforushan, sono stati uccisi nei bombardamenti israeliani a Beirut il 27 settembre.
L’Iran ha risposto a queste due morti lanciando circa 200 missili balistici contro Israele il 1° ottobre.
Dal canto suo, Sinwar, citato anche da Katz - durante un incontro con le Forze di difesa israeliane (IDF) - e considerato da Gerusalemme la mente dei massacri del 7 ottobre 2023, è stato ucciso il 17 ottobre di quest'anno in un attentato nella Striscia di Gaza.
I terroristi Houthi dello Yemen, da parte loro, hanno attaccato il commercio marittimo nel Mar Rosso e nel Mar Arabico nell'ultimo anno in "solidarietà" con le organizzazioni estremiste islamiche nella Striscia di Gaza nel contesto della guerra con lo Stato ebraico.
Inoltre, hanno lanciato continuamente missili e droni contro il territorio israeliano, al quale il Paese ebraico ha risposto con attacchi a porti e impianti energetici.
Gli scontri tra Israele e i terroristi Houthi dello Yemen si sono intensificati nell'ultima settimana e il governo di Gerusalemme ha ribadito in più occasioni che risponderà “con la forza” a questi attacchi.

(Autora Israel, 24 dicembre 2024)

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In Australia, l’odio per gli ebrei e Israele raggiunge nuove vette

di Nathan Greppi

Quando, il 16 aprile 2024, sei persone sono state uccise a coltellate a Sydney, sui social si è diffusa una bufala secondo la quale l’aggressore fosse uno studente ebreo di nome Benjamin Cohen, ripresa anche dall’emittente televisiva australiana 7News. In breve tempo però è emerso che il vero assalitore era un quarantenne di nome Joel Cauchi, ma nel frattempo l’accusa contro Cohen è stata rimbalzata su decine di migliaia di post e sdoganata anche da una grossa emittente, la quale in seguito si è scusata pubblicamente per la disinformazione veicolata. L’autore della bufala, Simeon Boikov, era un individuo che da circa un anno viveva presso il consolato russo a Sydney, e che ha chiesto asilo politico in Russia per evitare un mandato di arresto per aggressione.
  Questo è solo uno dei tanti esempi che si possono fare della crescente intolleranza nei confronti degli ebrei e degli israeliani in Australia, aumentata esponenzialmente dopo il 7 ottobre e il successivo scoppio della guerra tra Israele e Hamas. Un odio che talvolta ha visto gli ebrei australiani, la cui popolazione nel 2023 ammontava a circa 117.000 persone, venire accusati per crimini che non hanno mai commesso: è successo nel novembre 2023 a Caulfield, un sobborgo di Melbourne, dove un locale di hamburger gestito da un palestinese è stato vittima di un incendio doloso. Siccome il locale si trova a breve distanza dalla zona ebraica di Melbourne, in un primo momento in molti hanno incolpato gli ebrei per l’accaduto; ciò ha portato ad una manifestazione violenta di attivisti filopalestinesi nel quartiere ebraico. Fino a che nel gennaio 2024, le autorità hanno arrestato i veri colpevoli, due giovani che non sono ebrei e non c’entrano nulla con la comunità ebraica.

Violenza e discriminazione
  Questo non è stato l’unico episodio di antisemitismo avvenuto a Melbourne nell’ultimo anno: nel novembre 2023, dei manifestanti filopalestinesi hanno protestato davanti ad un albergo per impedire l’accesso ai familiari delle vittime del 7 ottobre e degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, di ritorno da un evento di sensibilizzazione organizzato dalla comunità ebraica locale. Mentre il 6 dicembre 2024, un incendio doloso ha colpito la sinagoga Adass Israel di Melbourne.
  Espressioni d’odio e di ostilità si sono verificate anche in altre città australiane: il 9 ottobre 2023, appena due giorni dopo i massacri compiuti da Hamas in Israele, manifestanti pro-Palestina si sono radunati presso l’Opera House di Sydney e hanno intonato cori antisemiti come “gas the Jews”. Nella stessa città, nell’ottobre 2024 una panetteria ebraica è stata vandalizzata con dei graffiti, proprio durante Yom Kippur. E a Lakemba, un sobborgo nella zona ovest di Sydney, l’8 ottobre 2023, il giorno dopo i massacri, lo sceicco Ibrahim Daoud ha guidato una manifestazione per celebrare le violenze del 7 ottobre, da lui definito “un giorno di coraggio, resistenza, orgoglio e vittoria”.
  In altri casi, a subire dei torti sono stati dei singoli individui: lo sa bene Jay Lazarus, parrucchiere ebreo residente a Perth, che prima del 7 ottobre si è messo d’accordo con una coppia lesbica della regione del Queensland per donare il proprio sperma affinché potessero avere un figlio; proprio nel settembre 2023, le due parti avevano raggiunto un accordo. Ma dopo l’inizio della guerra, come ha raccontato il parrucchiere nel gennaio successivo sul suo profilo Instagram, Lazarus ha ricevuto un messaggio dalle due donne che gli hanno spiegato di essere rimaste scosse da quello che stava succedendo in Medio Oriente, e che “non siamo in grado di gestire parti della tua identità in questo rapporto di donazione”, nel senso che non potevano accettare lo sperma di un donatore ebreo.

L’odio nelle università
  Come nel resto del mondo, anche in Australia le università sono diventate il fulcro dell’ostilità contro Israele e gli ebrei: l’ha sperimentato in prima persona Milette Shamir, vicepresidente dell’Università di Tel Aviv, la quale è giunta in Australia nel marzo 2024 per un evento accademico all’Università di Sydney, dove tuttavia è stata accolta da una folla di manifestanti filopalestinesi che hanno cercato di cacciarla via, e che sono rimasti barricati a lungo nella stessa stanza assieme a lei e al suo staff.
  Spesso, dietro queste proteste si nascondono realtà ambigue: nel giugno 2024, il giornale The Australian Jewish News ha rivelato che dietro l’organizzazione degli accampamenti e delle proteste filopalestinesi all’Università di Sydney vi erano membri di Hizb ut-Tahrir, un movimento islamista radicale classificato come organizzazione terroristica da numerosi paesi, e che si pone come obiettivo l’imposizione della Sharia e la restaurazione di un califfato islamico.
  In alcuni casi, ci sono stati studenti che hanno fatto saluti nazisti apposta per provocare i loro compagni di corso ebrei: è successo durante il raduno annuale tenutosi online dell’ANUSA (Australian National University Students Association), quando gli studenti ebrei hanno chiesto conto all’associazione per un accampamento propal nel campus di Canberra del quale sarebbero stati tra gli organizzatori. In tale occasione, uno studente avrebbe fatto saluti nazisti e si sarebbe messo un dito sotto il naso per imitare i baffi di Hitler.
  In generale, si sono notati degli avanzamenti del BDS nel paese: a metà luglio, la National Tertiary Education Union (NTEU), sindacato australiano che rappresenta i lavoratori nel settore dell’istruzione terziaria, ha tenuto un incontro per prendere in considerazione l’adesione al boicottaggio accademico e culturale d’Israele. Pur condannando gli attacchi compiuti da Hamas il 7 ottobre, hanno criticato pesantemente la risposta militare israeliana, e hanno anche chiesto al governo australiano di interrompere gli scambi commerciali e militari con Israele e di riconoscere lo Stato di Palestina.
  Già da prima del 7 ottobre, non mancavano gli episodi preoccupanti negli atenei australiani: nel settembre 2022 Habibah Jaghoori, studente dell’Università di Adelaide, è stato espulso dall’associazione studentesca YouX in seguito alle proteste dell’AUJS (Australasian Union of Jewish Students), associazione giovanile che rappresenta gli studenti ebrei in Australia e Nuova Zelanda. Il motivo è dovuto al fatto che dopo aver scritto un articolo sul giornale studentesco On Dit in cui diceva “Morte a Israele” e “Gloria all’Intifada”, Jaghoori ha iniziato a minacciare pubblicamente gli studenti ebrei ad Adelaide. Un mese prima, il consiglio studentesco dell’Università di Melbourne ha votato a favore dell’adesione al BDS contro Israele.

Dati e statistiche
  Secondo un documento pubblicato dall’ Executive Council of Australian Jewry (ECAJ), principale istituzione ebraica del paese, tra l’ottobre 2023 e il settembre 2024 gli episodi di odio antiebraico in Australia sono aumentati del 316%. Tra i principali perpetratori, sono stati indicati estremisti sia di destra che di sinistra, oltre ad una considerevole componente di cittadini arabi e musulmani.
  Julie Nathan, autrice della ricerca sull’antisemitismo in Australia per conto dell’ECAJ, ha dichiarato: “Se si pensava che il razzismo antiebraico appartenesse al passato e fosse stato sconfitto, gli ultimi 12 mesi hanno dimostrato che è stato cinicamente riattivato e alimentato per scopi politici”. Ha aggiunto che gli “attacchi fisici, verbali e di altro tipo nei confronti di individui, famiglie e comunità ebraiche continueranno a peggiorare, a meno che i governi, la polizia e altre istituzioni non mostrino un po’ di spina dorsale e intraprendano azioni decise per fermare la crescente marea di atti d’odio contro la comunità ebraica, costringendo i responsabili a rispondere delle loro azioni”.

(Bet Magazine Mosaico, 24 dicembre 2024)

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Israele attende Trump per sconfiggere gli Houthi

Hamas sta trattando, Hezbollah è impegnato nella tregua, il nuovo regime di Damasco non vuole scontri, le milizie filo-iraniane in Iraq si accordano con il governo locale per cessare gli attacchi contro Israele. Tra i diversi nemici dello stato ebraico, solo il gruppo ribelle Houthi non vuole arretrare. I suoi attacchi sull’area di Tel Aviv si sono intensificati. In meno di una settimana i missili Houthi hanno prima distrutto una scuola, senza causare vittime, e poi colpito un parco, provocando 16 feriti e costringendo, nel cuore della notte, centinaia di migliaia di persone a correre ai rifugi.
  «Come abbiamo agito con forza contro i terroristi dell’asse del male sostenuto dall’Iran, così agiremo contro gli Houthi: con forza, determinazione e precisione», ha promesso il premier Benjamin Netanyahu. Il gruppo ribelle yemenita è «ora al centro della nostra attenzione», ha confermato una fonte militare al quotidiano Maariv. Secondo altri media israeliani, nel mirino di Gerusalemme non ci sono gli Houthi, ma chi li sostiene: il regime di Teheran.
  Per Ron Ben-Yishai, storica firma di Yedioth Ahronot, muovere contro l’Iran non fermerà gli attacchi dallo Yemen. Il regime «si limita a supportare i ribelli, fornendo missili e droni contrabbandati via mare», spiega Ben-Yishai, decano dei corrispondenti di guerra israeliani. Attaccare l’Iran, dunque, non fermerà il gruppo yemenita, che agisce principalmente per consolidare il proprio status nel paese e nel mondo arabo, sostenendo con i missili la causa palestinese. Gli Houthi hanno anche dimostrato la loro capacità di influenzare la navigazione commerciale nel Mar Rosso e nel Canale di Suez, rafforzando la propria posizione di attore in grado di destabilizzare l’economia globale.
  Per fermarli, sostiene Ben-Yishai, Israele dovrà seguire la strategia già applicata contro Hezbollah: colpire la leadership del gruppo e distruggerne i missili balistici, i droni, le basi di lancio e gli impianti di produzione di armi. Tuttavia, a causa della distanza geografica e delle difficoltà di intelligence, lo stato ebraico non può pensare di agire da solo. «Tsahal necessita della piena collaborazione degli Stati Uniti, che operano nel Mar Arabico e nel Mar Rosso, per condurre un’operazione efficace e duratura». L’amministrazione del presidente Joe Biden ha colpito ripetutamente in Yemen, ma ha evitato operazioni massicce. A gennaio, con la presidenza di Donald Trump le strategie potrebbero cambiare. «Dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, Stati Uniti e Israele», scrive Ben-Yishai, potrebbero avviare «un’azione congiunta che riporti gli Houthi alle loro precedenti dimensioni» di piccolo gruppo di ribelli «e impedisca loro di diventare un fattore di disturbo dell’ordine globale e dell’economia internazionale».

(moked, 23 dicembre 2024)

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“Se non li rilasciate, scatenerò l’inferno”: qual è la vera strategia di Donald Trump per liberare gli ostaggi israeliani?

di David Zebuloni

Il neoeletto presidente americano Donald Trump ha toccato i cuori del popolo israeliano all’inizio di questo mese quando ha pubblicato un post sulla rete sociale da lui fondata “TRUTH”, in cui ha scritto: “Tutti parlano degli ostaggi israeliani detenuti in modo violento e disumano, ma nessuno agisce. Se gli ostaggi non verranno rilasciati prima del 20 gennaio 2025, la data in cui assumerò con orgoglio il mio incarico di Presidente degli Stati Uniti, ci sarà un vero e proprio inferno in Medio Oriente, anche per quelli che sono responsabili di queste atrocità contro l’umanità”. Questa settimana, in seguito a una lunga conversazione telefonica tenuta con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il neo presidente americano ha ribadito il medesimo concetto dichiarando questa volta che “Se gli ostaggi israeliani non verranno liberati, Hamas farà una brutta fine”.
Ecco, dopo un anno di lotta politica, sociale e militare per riportare alle loro famiglie i cento ostaggi israeliani ancora tenuti in cattività nei tunnel del terrore a Gaza, Donald Trump ha riportato in primo piano una questione dolorosa e urgente che non ha mai davvero ricevuto le giuste attenzioni mediatiche sul piano globale. Tuttavia, in molti si domandano cosa si nasconda dietro alla minaccia del neo eletto. Le dichiarazioni di Trump sono sostenute da un’effettiva e concreta strategia diplomatica e militare o la loro unica strategia è quella di creare un effetto deterrente con la sola forza della parola?
“Nel caso di Trump, tutto inizia con un tweet e poi si sviluppa la strategia,” spiega Rotem Oreg, esperto di politica americana e direttore dell’associazione LIBRAEL, in un’intervista a Makor Rishon. “È chiaro a tutti che gli americani non attaccheranno nella Striscia di Gaza per conto di Israele. Se qualcuno ha una qualche fantasia che ciò possa accadere, è meglio che si ricreda subito. Tuttavia, il governo americano può senza dubbio creare una pressione tale da favorire i negoziati a favore del rilascio degli ostaggi”. Per quanto riguarda i diversi scenari possibili, Oreg afferma che “Trump potrebbe dare a Israele più libertà d’azione o il pieno supporto per un’azione israeliana mirata a colpire Hamas come non è stato fatto fino ad ora”.
Non è la prima volta che il presidente eletto solleva pubblicamente la questione degli ostaggi israeliani nell’ultimo anno. Anche durante la sua campagna elettorale, Trump ha chiesto ripetutamente il loro rilascio immediato. Tuttavia, le sue ultime dichiarazioni sembrano essere molto più incisive delle precedenti. “Esiste un processo che mira a far capire a Trump che ha l’opportunità di fare la storia,” spiega Oreg. “Quando ho incontrato i consiglieri dei principali membri del nuovo governo, mi è stato detto che l’obiettivo del neo presidente è quello di riuscire lì dove Biden ha fallito. Trump non agisce per ideali, ma per il semplice desiderio di passare alla Storia. Di vincere i suoi predecessori e riuscire a fare ciò che loro non hanno fatto. Pertanto, più gli verrà detto che il suo operato per il rilascio degli ostaggi è nobile e importante, e più lui si sentirà gratificato e continuerà nella sua missione”.
Minacce da una parte, realtà dall’altra: come influirà davvero il tweet del neo presidente americano sull’organizzazione terroristica a Gaza? “Penso che Hamas non si faccia molto influenzare dalle minacce americane, poiché ha già incassato abbastanza colpi,” risponde Rotem Oreg. “Più una persona è debole e meno ha da perdere. Questo vale anche per un’organizzazione terroristica come Hamas. I grandi regimi come quello iraniano, per esempio, sono generalmente più sensibili alle minacce americane perché hanno molto più da perdere”.
Una notizia non incoraggiante per chi credeva che le parole del presidente americano potessero cambiare il destino del Medio Oriente. “Hamas sta perdendo la sua legittimità anche nei paesi arabi che l’hanno supportata finora, e questo gioca molto più a nostro favore rispetto al tweet di Trump,” conclude l’esperto, nuovamente speranzoso. “Non a caso nell’ultimo mese sono stati pubblicati molti più video degli ostaggi di quando sia stato fatto fino ad ora. Hamas vuole fare pressione su Israele per tornare a negoziare. Hamas è esausto e probabilmente vuole finire questa guerra”.

(Bet Magazine Mosaico, 23 dicembre 2024)

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"Pager Plot": il piano del Mossad contro Hezbollah svelato a '60 Minutes'

di Luca Spizzichino

Due ex agenti del Mossad hanno rivelato i dettagli dietro una delle più audaci operazioni israeliane, il “Pager Plot”, durante un’intervista trasmessa domenica sera su 60 Minutes. L’operazione, eseguita il 17 settembre 2024, ha visto la vendita a Hezbollah di migliaia di cercapersone manomessi e successivamente fatti esplodere dal Mossad, causando caos e gravi perdite per l’organizzazione terroristica.
  L’operazione affonda le sue radici oltre dieci anni fa, quando il Mossad iniziò a introdurre dispositivi manipolati tra le fila di Hezbollah. Come raccontato da “Michael”, un ex ufficiale operativo del Mossad, inizialmente vennero utilizzati walkie-talkie. “Un walkie-talkie era un’arma, al pari di un proiettile o di un missile,” ha dichiarato Michael. All’interno della batteria era nascosto un ordigno esplosivo fabbricato in Israele. “La tecnologia era così sofisticata che il dispositivo sembrava completamente normale agli occhi degli acquirenti”.
  Negli anni successivi, il Mossad creò un sistema complesso di società di copertura per infiltrarsi nel mercato e vendere questi dispositivi senza destare sospetti. “Abbiamo creato un mondo fittizio” – ha spiegato Michael. “Siamo registi, produttori e attori principali; il mondo è il nostro palcoscenico”. Con il tempo, il Mossad si accorse che Hezbollah utilizzava ancora largamente cercapersone per comunicazioni critiche, poiché considerati dispositivi semplici e difficili da intercettare. Nel 2022, l’organizzazione si concentrò quindi su questi apparecchi, modificandoli per includere esplosivi e garantendo che rimanessero completamente funzionali. Abbiamo testato ogni dispositivo con attenzione, assicurandoci che l’esplosione colpisse solo il portatore, evitando danni collaterali” ha spiegato “Gabriel”, un altro ex agente coinvolto nell’operazione.
  Per rendere i cercapersone più appetibili, il Mossad lanciò una campagna di marketing con video pubblicitari falsi su YouTube che promuovevano i dispositivi come “robusti, resistenti alla polvere e impermeabili”. Nonostante lo scetticismo iniziale dei superiori, che ritenevano il design troppo ingombrante, gli agenti riuscirono a convincerli dell’efficacia del piano.
  Il 17 settembre 2024, alle 15:30, il Mossad ha attivato da remoto i cercapersone esplosivi distribuiti in Libano. Le vittime hanno ricevuto un messaggio criptato che le invitava a premere due pulsanti per attivare una presunta funzionalità del dispositivo, innescando invece l’esplosione. Tuttavia, come spiegato da Gabriel, anche senza premere i pulsanti i dispositivi sarebbero esplosi. “Il giorno dopo, la gente aveva paura persino di accendere i condizionatori d’aria, temendo che potessero esplodere” ha ricordato Michael. Il Mossad ha poi riattivato i walkie-talkie manipolati, dormienti da oltre un decennio. Alcuni di questi sono esplosi durante i funerali delle vittime dei cercapersone, amplificando l’impatto psicologico dell’operazione. Complessivamente, l’azione ha ferito circa 3.000 membri di Hezbollah, ne ha uccisi 30 e ha lasciato l’organizzazione nel caos.
  Nonostante il successo strategico, l’operazione ha sollevato domande sull’etica di queste azioni. Alla domanda della giornalista Lesley Stahl su come questa operazione influenzasse la reputazione morale di Israele, Gabriel ha risposto: “Prima difendi il tuo popolo, poi pensi alla reputazione”. Tuttavia, per molti l’operazione è stata definita un capolavoro di guerra psicologica. “Non possiamo usare di nuovo i cercapersone, ma ora Hezbollah dovrà continuare a indovinare quale sarà la nostra prossima mossa” ha concluso Michael. “Abbiamo dimostrato che possiamo colpire ovunque e in qualsiasi momento” ha dichiarato Gabriel. “E ora, il nemico vive nella paura di ciò che potrebbe accadere domani”.

(Shalom, 23 dicembre 2024)

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In Occidente nessuno chiederà scusa agli ucraini

di Maurizio Belpietro

Chiederanno scusa agli ucraini? Ammetteranno di averli illusi, di averli mandati a morire, di averli trascinati in una guerra che li ha resi orfani, invalidi, poveri, precipitandoli in un orrore che non avrà fine neppure quando cesserà il tuono dei cannoni? Riconosceranno di aver raccontato loro un'infinità di menzogne? Se lo chiedeva ieri, su La Stampa, Domenico Quirico, uno dei pochi inviati che le guerre le ha viste davvero e dunque non fa il tifo per l'odore del sangue e della polvere da sparo. «L'impossibilità di vincere in Ucraina riporta l'Occidente alla realtà dei fatti» era il titolo del suo articolo. «La Nato non può sopperire alla carenza di uomini di Kiev. Dobbiamo scusarci con gli ucraini caduti» era il succo del discorso. Già, dopo tre anni di guerra, centinaia di migliaia di morti, forse un milione di feriti, la guerra ci riporta impietosamente alla realtà. Kiev ha esaurito il materiale umano. Non i missili, non i carri armati e nemmeno i droni, che abbiamo generosamente donato: semplicemente non ci sono più soldati da mandare in trincea a morire per l'Occidente. Decine di migliaia di giovani in età da divisa si sono dati alla macchia, preferendo l'onta della diserzione al freddo della bara. Nessuno sa esattamente quanti siano i morti, quanti gli invalidi e i fuggiaschi, però da mesi un fatto è certo: le trincee sono rimaste sguarnite e delle truppe mandate in tutta fretta e con gran entusiasmo nel Kursk per dare scacco a Putin nessuno conosce il destino. Dimenticati, come dimenticati sono stati tutti gli altri. E le promesse? Tutte quelle belle parole per assicurare che l'Ucraina non sarebbe mai stata lasciata sola? Perse nel vento. Ora è tempo di realismo. Per di più, fra meno di un mese, alla Casa Bianca arriverà Trump e ci penserà lui. Della ritirata si potrà sempre incolpare lui. La scusa per l'abbandono di Zelensky e dei suoi martiri è già pronta e assolve tutti i guerrafondai di casa nostra. I quali hanno indossato l'elmetto e imbracciato il moschetto rimanendo nel salotto di casa loro, gonfiando il petto negli studi televisivi.
  Era già tutto scritto. Lo so, ha poco senso di fronte alla tragedia di centinaia di migliaia di morti rivendicare di aver avuto ragione. Ma gran parte delle argomentazioni che oggi spingono governanti e commentatori a sostenere che non si può continuare così, che serve una pace o quantomeno una tregua, erano note fin dall'inizio. Mentre qualche ragionierino alla Fubini raccontava che mancava poco e poi, grazie alle sanzioni, la Russia sarebbe stata costretta a capitolare, noi spiegavamo che i numeri purtroppo erano dalla parte di Putin. Non quelli delle banche e delle industrie, ma i numeri dei soldati. La guerra non è una battaglia navale che si gioca a tavolino. Servono gli uomini e a meno di non schierare truppe occidentali i numeri erano impietosamente a favore della Russia. Si sono illusi di spazzare via Putin con un colpo di Stato, poi con una malattia, ma a tre anni di distanza il potere dello zar del Cremlino appare intatto. Anzi, paradossalmente lo abbiamo rafforzato, perché anche se con la sua operazione speciale non ha ricondotto l'Ucraina sotto di sé, ha resistito a quella che Quirico considera la più grande alleanza militare ed economica dell'Occidente, tenendo la Crimea, conquistando tutto il Donbass e dando a Kiev un colpo da cui non si riprenderà per anni. Altro che piegare la Russia. Da questa guerra esce in ginocchio l'Europa. Politicamente ed economicamente. La Germania è avvitata in una crisi spaventosa che rischia di trascinare nel vortice anche l'Italia. La Francia non sta meglio. A tre anni dall'invasione russa e dopo decine di bellicose dichiarazioni si torna al punto di domanda di Quirico. Chiederanno mai scusa agli ucraini i governanti che giuravano di essere pronti a difendere la libertà? Ammetteranno di aver scritto stupidaggini i soldatini dalla penna facile? Domanderanno perdono agli ucraini, ma anche agli europei, per averli trascinati alla sconfitta?

(La Verità, 23 dicembre 2024)
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«Ammetteranno di aver scritto stupidaggini i soldatini dalla penna facile?» No, non lo faranno mai. Come nel caso del covid. Stupidaggini. Pure e semplici stupidaggini allineate una dopo l’altra, che nel tentativo di sorreggersi a vicenda aumentavano sempre di volume e diventavano via via più imbarazzanti. Fino allo schianto definitivo. Definitivo? No, forse no, perché anche la stupidità sembra avere la capacita di risollevarsi sempre dalle ceneri e ripresentarsi in nuova veste più consona all'ambiente. Varrà la pena allora di seguire attentamente gli articoli che si presenteranno in questi giorni e sulle grandi testate e su quelle pensose (alcune anche favorevoli a Israele) per “spiegare” quello che oggi sta avvenendo intorno all’Ucraina. Sarà la rivincita dei “putiniani”? No, sarà il ridicolo che ricadrà su coloro che hanno inventato questo nome per una inesistente categoria di esseri umani. E come riflessione sull'Occidente in versione American Way of Life riproponiamo un articolo scritto all'inizio di questa storia, insieme al relativo commento. M.C.


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Il suicidio dell’Europa, le armi e il suo silenzio 

di Donatella Di Cesare

La parola Occidente, in questi giorni così spesso evocata, ha un significato articolato nelle diverse epoche. Non indica un sistema di valori, una forma politica, un modo di vivere. Occidente è l'orizzonte a cui guardavano i greci: la costa italiana, il continente europeo, una futura epoca nella storia del mondo. Nel periodo tra le due guerre mondiali i filosofi hanno pensato il destino dell'Occidente non come un tramonto, bensì come un passaggio: nel buio della notte europea non c'era solo morte e distruzione, ma anche la possibilità di salvezza. L'Occidente era l'Europa, l'Europa era l'Occidente. In questa prospettiva, che oggi - con un giusto accento critico - si direbbe eurocentrica, ciò che era oltre l'Atlantico, Inghilterra compresa, non era occidentale. 
   Dopo il 1945, il baricentro della Storia passa dal continente europeo a quello americano. Anche la parola "Occidente" cambia significato designando l'American Way of Life, lo stile di vita americano e tutto ciò che, tra valori e disvalori, porta con sé. L'Europa si uniforma, più o meno a malincuore. Se non altro per non perdere il nesso con l'Occidente di cui è stata sempre il cardine. 
   Quel che avviene in questi gravissimi giorni, dietro il millantato nuovo scontro di civiltà, è un'autocancellazione dell'Europa, che rinuncia a se stessa, alla propria memoria, ai propri compiti. Il 2022 segna l'ulteriore, definitivo spostamento, l'apertura di una faglia nella storia del Vecchio continente. L'Europa tace, sovrastata dai tamburi di guerra dell'Occidente atlantico, a cui sembra del tutto abdicare. L'algida figura di Ursula von der Leyen, questa singolare, inquietante comparsa, che spunta di tanto in tanto per annunciare "nuove sanzioni alla Russia", compendia bene in sé un'Europa cerea e spenta, incapace di far fronte a una crisi annunciata. Possibile che dal 2014 non si sia operato per evitare il peggio? Possibile che tra dicembre e febbraio non esistesse un margine per impedire l'invasione? Possibile vietarsi l'autorità di mediare per la pace? Si tratta di una vera e propria catena di errori politici imperdonabili, di cui i cittadini europei dovranno nel futuro prossimo chiedere conto a chi ora ha ruoli decisionali. Come se non bastasse, il silenzio fatale dell'Europa è squarciato dalle sguaiate provocazioni di Boris Johnson, il promotore della Brexit, e dalle temerarie parole di Joe Biden, forse uno dei peggiori presidenti americani. 
   Il suicidio dell'Europa è sotto gli occhi di tutti. Ed è ciò che ci angoscia e ci preoccupa. Perché riguarda il futuro nostro e quello delle nuove generazioni. D'un tratto non si parla più di Next Generation Eu - nessun cenno a educazione, cultura, ricerca. All'ordine del giorno sono solo le armi. C'è chi applaude a questo, inneggiando a una fantomatica "compattezza" dell'Europa. Quale compattezza? Quella di un'Europa bellicistica, armi in pugno? Per di più ogni Paese per sé, con la Germania in testa? Non è questa certo l'Europa a cui aspiravamo. In molti abbiamo confidato nelle capacità dell'Unione, che aveva resistito alle spinte delle destre sovraniste e che sembrava uscire dalla pandemia più consapevole e soprattutto più solidale. Mai avremmo immaginato questa deriva. La faglia che si è aperta nel vecchio continente, in cui rischia di precipitare il sogno degli europeisti, è anche la rottura del legame che i due Paesi storicamente più significativi, la Germania e Italia, hanno intessuto con la Russia. Chi si accontenta di ripetere il refrain "c'è un aggressore e un aggredito", ciò che tutti riconosciamo, non si interroga sulle cause e non guarda agli effetti di questa guerra. C'è una Russia europea oltre che europeista. Nella sua storia la Russia è stata sempre combattuta tra la tentazione di avvicinarsi al modello occidentale e il desiderio di volgersi invece a Est con una ostinata slavofilia, testimoniata, peraltro, nell'opera di Dostoevskij. Durante la Rivoluzione bolscevica prevalse l'apertura per via dell'internazionalismo. Se Stalin cambiò rotta, la fine dell'impero sovietico segnò il vero punto di svolta. In quella situazione caotica andò emergendo la corrente nazionalistica che aveva covato sotto la cenere. Putin è il portato sia di questo nazionalismo, fomentato anche dal pensatore dei sovranisti Aleksandr Gel'evi Dugin, sia di una frustrata occidentalizzazione. Ma a chi gioverà una Russia isolata, ripiegata su di sé, rinviata a orizzonti asiatici? 
   In un'immagine suggestiva che ricorre in Nietzsche, in Valéry, in Derrida, l'Europa appare un piccolo promontorio, un capo, una penisola del continente asiatico. Nessuno ha mai potuto stabilire dove sia il suo confine a Est. Ma certo ha sempre avuto il ruolo di testa, di cervello di un grande corpo. È stata il lume, la perla preziosa. Ci chiediamo dove sia finita. 

(il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2022)
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“Mai avremmo immaginato questa deriva”, dice l’autrice che, come molti altri, non aveva capito che l’ardore antisovranista non andava a favore di un’immaginaria Europa, ma serviva a colpire residui di sovranità nazionale a favore di un globalismo finanziario internazionale mercificato, corrotto e disgregatore non solo delle unità nazionali, ma di ogni aggregazione sociale, storica, familiare che abbia radici culturali e quindi sia di ostacolo all’espansione di questo nuovo flagello mondiale che, come Attila, “dove passa lui non cresce più neanche un filo d’erba”. Il nostro mediocre capo di governo è una semplice pedina di questo gioco; il suo grado di autonomia decisionale è pari a quello dei commessi in un grande magazzino. Rinfocola la guerra invitando la nazione a parteciparvi e lo dice in mezzo all’applauso allucinante dei parlamentari. Se da Vicenza, per esempio, dovessero partire armi per combattere i russi, nessuno si sorprenda se poi per impedirlo Putin ci invia qualche missile a domicilio. La guerra è guerra. E noi siamo con gli ucraini senza se e senza ma, come dice il nostro capo-regia di governo, quindi se muoiono loro, gli ucraini, bisognerà pur far vedere in qualche modo che siamo pronti a morire anche noi. E i parlamentari lo faranno? Certamente, lo faranno al grido di “Viva la Nato!” M.C.

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Il tessuto lacerato

Le parole pronunciate oggi dal papa al termine dell’Angelus, riferite alla guerra a Gaza, per lui esempio di “crudeltà”, dove, oltre a essere il teatro del bombardamento di scuole e di ospedali, i bambini verrebbero mitragliati, allarga sempre di più il varco tra questo pontificato e il mondo ebraico, già apertosi dopo altre esternazioni analoghe.
  Qui il livello di gravità è ulteriore. Senza mai menzionarlo, l’esercito israeliano è accusato di uccidere intenzionalmente i bambini e di bombardare altrettanto intenzionalmente gli ospedali e le scuole, e di farlo con crudeltà, cioè con una volontà malvagia.
  Che gli ospedali e le scuole colpite vengano usate da Hamas come postazioni e rifugi, che sotto praticamente ogni abitazione della Striscia ci sia un tunnel che serve ai jihadisti per spostarsi, non interessa, ciò che deve essere esibito è la distruzione degli ospedali e delle scuole, a evidenziare una particolare spietatezza da parte di Israele. Ora siamo giunti ai bambini mitragliati.
  Dopo essersi riferito agli israeliani citando il “cattivo sangue” e alla loro tendenza dominatrice, dopo avere scritto che a Gaza occorre investigare se è in corso un genocidio, dopo averli definiti “aggressori” come i russi, si è fatto un altro passo.
  Non sappiamo quale sarà il prossimo. Tutto è possibile, quello che però sappiamo è che il papa con le sue affermazioni intrise di stereotipi antigiudaici e fragorosamente false sta lacerando, giorno dopo giorno, la lenta e faticosa tessitura del dialogo interreligioso ebraico-cristiano in corso da sessanta anni a questa parte.

(L'informale, 22 dicembre 2024)
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La replica d’Israele a papa Francesco

“Pizzaballa può entrare a Gaza, il papa nega la crudeltà di Hamas”.

di Michelle Zarfati

“Contrariamente alle false accuse pubblicate oggi sui media, la richiesta di entrare a Gaza del Patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, è stata accolta, come già avvenuto in passato e secondo le sue preferenze”. Lo ha scritto in una nota l’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede, smentendo quindi quanto detto da Papa Francesco ieri nel discorso annuale rivolto ai cardinali avuto luogo alla Curia, in cui il pontefice aveva sostenuto che al Patriarca era stato negato l’accesso a Gaza a causa dei bombardamenti israeliani. “Ieri il Patriarca non lo hanno lasciato entrare a Gaza e ieri sono stati bombardati bambini: questa è crudeltà, questa non è guerra, voglio dirlo perché tocca il cuore” aveva sostenuto ieri Papa Francesco, tornando nuovamente a muovere accuse contro Israele e la guerra in Medio Oriente contro Hamas.
  Dopo questa risposta, il governo israeliano ha accusato il pontefice di “non riconoscere la crudeltà di Hamas”. “La crudeltà è quando i terroristi si nascondono dietro i bambini mentre cercano di uccidere i bambini israeliani; la crudeltà è quando i terroristi prendono in ostaggio 100 persone per 442 giorni, tra cui un neonato e dei bambini, e abusano di loro”, afferma il Ministero degli Esteri israeliano in una dichiarazione. “Purtroppo il Papa ha scelto di ignorare tutto questo, così come il fatto che le azioni di Israele hanno preso di mira i terroristi che hanno usato i bambini come scudi umani”.
  “Le dichiarazioni del Papa sono particolarmente deludenti perché sono scollegate dal contesto reale e fattuale della lotta di Israele contro il terrorismo jihadista, una guerra su più fronti che gli è stata imposta a partire dal 7 ottobre – prosegue la nota – La morte di una persona innocente in una guerra è una tragedia. Israele compie sforzi straordinari per impedire danni agli innocenti, mentre Hamas compie sforzi straordinari per aumentare i danni ai civili palestinesi. La colpa dovrebbe essere rivolta solo ai terroristi, non alla democrazia che si difende da loro. Basta con i doppi standard e con l’isolamento dello Stato ebraico e del suo popolo” aggiunge il Ministero degli Esteri israeliano.

(Shalom, 22 dicembre 2024)

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Media – La guerra per immagini che la Jihad sta vincendo

Orli Peter, la neuropsicologa che ha fondato la Israel Healing Initiative – associazione dedita a curare i traumi con un approccio innovativo basato sulla neurostimolazione – è sbalordita di fronte al rebranding del leader jihadista siriano Mohamed al-Jolani, che, dopo aver conquistato Damasco all’inizio del mese, è stato descritto come “rivoluzionario in blazer” dalla CNN, e apprezzato su altre testate per i suoi valori di “tolleranza” e “pluralismo”, mentre il Council on American-Islamic Relations ha presentato la sua marcia su Damasco come una vittoria per la “giustizia e la libertà”.
  In un articolo pubblicato da The Jewish Chronicle, la neuropsicologa si chiede come sia possibile che i media non riescano a vedere ciò che hanno davanti agli occhi, anche se un recente report della Henry Jackson Society ha mostrato come i media abbiano abbracciato su larga scala i pregiudizi anti-Israele. Un portavoce della Jihad islamica palestinese, Tarek Abu Shaluf, ha spiegato come gli sia stato insegnato a creare false narrazioni sulla guerra di Gaza proprio per fare appello ai valori umanitari occidentali: «I media internazionali sono diversi da quelli arabi. Si concentrano su questioni umanitarie. Non parliamo loro con il linguaggio della violenza, della distruzione e della vendetta». In tutto il Medio Oriente vengono orchestrate operazioni ben studiate, che, spiega Peter, dimostrano eccezionali capacità di empatia cognitiva, usata per manipolare le nostre emozioni.
  L’empatia cognitiva è la capacità di comprendere e modellare accuratamente i pensieri, i sentimenti e i valori degli altri. In un certo senso, scrive, è come entrare nell’algoritmo di un’altra persona per capire come pensa e come si sente, e riuscire così a prevederne le reazioni. L’empatia cognitiva si costruisce, mentre l’empatia emotiva è involontaria. L’empatia cognitiva viene usata per manipolare l’empatia emotiva degli occidentali: i militanti hanno imparato a presentare la loro causa come allineata con i valori umanitari occidentali, curando attentamente una immagine di campioni di libertà e giustizia. Una dinamica radicata nelle relazioni di potere asimmetriche in cui i gruppi più deboli spesso sviluppano una comprensione di chi è più potente. Gli occidentali pertanto, si legge nell’articolo, non hanno che una comprensione vaga, incompleta e distorta del funzionamento dei militanti. Molti occidentali, in particolare quelli che vivono liberi da guerre o violenze, come pure molti degli studenti che protestano nei campus universitari negli Stati Uniti e non solo, simpatizzano con i militanti in quanto “vittime”. Quello stesso portavoce della Jihad islamica palestinese ha ammesso che quando un razzo ha colpito l’ospedale arabo di Al-Ahli a Gaza nell’ottobre 2023, i terroristi sapevano che si trattava di uno dei loro, ma hanno descritto le morti come un disastro umanitario causato “dall’occupazione”.
  Scrive Orli Peter: «Dopo il 7 ottobre ho visto come questa guerra psicologica jihadista ha un impatto sul recupero dal trauma (…) Questa propaganda è stata interiorizzata dagli ebrei, che provano “vergogna” per la posizione di “occupanti”, e i giovani sono particolarmente sensibili a questo e più propensi a simpatizzare con Hamas». L’empatia del dolore è una reazione emotiva viscerale alla sofferenza: il cervello umano è predisposto a rispondere all’immagine di un bambino sofferente, più che alle statistiche su milioni di persone, e sono immagini che influenzano il funzionamento del nostro cervello, spingendolo all’empatia emotiva. Hamas e i suoi simpatizzanti sono abilissimi a sfruttare questi meccanismi inondando i media con immagini reali o manipolate di bambini morti, presentati sempre come vittime palestinesi di Israele. I leader hanno dichiarato apertamente che un numero maggiore di morti va a vantaggio della loro causa. Aumentare le vittime civili istruendo i gazawi a ignorare gli avvisi di evacuazione israeliani o impedendo fisicamente le evacuazioni è una specifica strategia. Ai media occidentali vengono inviate immagini della sofferenza dei gazawi, mentre i video GoPro di torture e omicidi arrivano ai militanti, per dare loro energie nuove. La nostra empatia diventa uno strumento di manipolazione, l’unica possibilità che abbiamo, conclude Peter, è affinare le nostre competenze cognitive per resistere alla propaganda, ancorando le nostre risposte emotive a una comprensione più attenta e accurata dei fatti. Allo stesso modo, l’immagine dei rivoluzionari “in giacca e cravatta” favorevoli alla pace deve essere esaminata nel contesto più ampio della violenza e della manipolazione estremista. Con attenzione. Con consapevolezza.

(moked, 22 dicembre 2024)

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Per fede Abramo partì... senza sapere dove andava

di Marcello Cicchese

All'età di centoventisette anni, Sara muore. Il marito naturalmente per un certo tempo la piange, poi è costretto a porsi un'ovvia domanda: dove posso seppellirla? Il problema si pone, perché lui in quel paese non possiede nemmeno un centimetro quadrato di terra (Genesi 23:1-4). Deve richiederla, e per questo si rivolge a un certo Efron, a cui però dice che non vuole favori, non vuole niente in dono: chiede di poter comprare la terra necessaria. Dopo le solite cerimonie mediorientali, la terra gli viene venduta. E a caro prezzo.
In tutto questo però c'è una stranezza: ad Abramo, quando ancora si trovava tra Bethel e Ai, Dio aveva fatto una precisa promessa. Gli aveva detto:
    "Alza ora gli occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre" (Genesi 13:14-15).
Dunque Abramo avrebbe dovuto essere il proprietario di tutta quella terra, e invece adesso si trova lì come "straniero e avventizio" (come un extracomunitario, diremmo noi oggi) ed è costretto a chiedere cortesemente agli abitanti della zona di cedergli un po' di terreno, non per viverci, ma almeno per poterci morire come proprietario. "Dio non mantiene le promesse", avrebbe potuto dire Abramo, come fanno oggi tanti cittadini quando parlano delle loro autorità (non senza qualche ragione). Qualcuno potrebbe spiegare la cosa con un discorso spirituale: Abramo è il vero proprietario perché è in comunione con Dio, che è proprietario di tutto. Altri potrebbero fare un discorso storico: la terra apparterrà un giorno al popolo che discende da Abramo, quindi in potenza appartiene già a lui. Certo, si potrebbero fare simili dotti discorsi, che però non sembrano consoni a quello stile ebraico di provenienza biblica che non gradisce le fumose astrazioni e predilige il linguaggio concreto delle cose.

Promessa non mantenuta?
  Parlando di quel concretissimo paese in cui Abramo si trovava, Dio gli dice: "lo lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre"; quindi non solo alla discendenza, ma anche ad Abramo stesso, personalmente. Ma Abramo nella sua vita non vide compiersi tutto questo. Si deve spersonalizzare la cosa e cercare in essa un senso spirituale o storico-politico? Il Signore aveva detto ad Abramo: "Àlzati, percorri il paese quant'è lungo e quant'è largo, perché io lo darò a te" (Genesi 13:17). E' difficile spiritualizzare o storicizzare una frase secca, concreta e precisa come questa.
Abramo ubbidì all'ordine di Dio: si alzò, levò le tende e cominciò a percorrere in direzione sud la terra che gli era stata destinata. Finché arrivò "alle querce di Mamre, che sono a Hebron" (Genesi 13:18). Lì si fermò, "edificò un altare all'Eterno", e qualche anno dopo edificò una tomba per lui e sua moglie sull'unico pezzo di terra che era diventato di sua proprietà, dopo averlo pagato a peso d'oro. "Ma dov'è la promessa di Dio?" Avrebbe potuto chiedersi Abramo. E comprensibilmente avrebbe potuto piantare tutto e finire i suoi giorni arrabbiato con quel Dio che l'aveva deluso.
Sta scritto invece che "Abramo spirò in prospera vecchiaia, attempato e sazio di giorni, e fu riunito al suo popolo" (Genesi 25:8).

Importanza della terra
  Prima ancora di tentare una spiegazione, si deve osservare che in tutta la storia del patto di Dio con Abramo la terra gioca una parte fondamentale. La cosa viene ripetuta più volte:
    "In quel giorno l'Eterno fece un patto con Abramo, dicendo: 'Io do alla tua discendenza questo paese, dal fiume d'Egitto al gran fiume, il fiume Eufrate" (Genesi 15:18).
E più avanti, in modo ancora più solenne:
    "Stabilirò il mio patto fra me e te e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione; sarà un patto perenne per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. A te e alla tua discendenza dopo di te darò il paese dove abiti come straniero: tutto il paese di Canaan, in possesso perenne; e sarò loro Dio" (Genesi 17:7-8).
Questo versetto è importantissimo, anzitutto perché collega per ben due volte la persona fisica di Abramo con la sua discendenza; in secondo luogo perché si parla di possesso perenne del paese, mettendolo in collegamento con il patto perenne tra Dio ed Abramo. Se cade il possesso perenne della terra da parte della discendenza etnica di Abramo, cade anche tutto il resto del patto di Dio con Abramo, compresa la parte che riguarda la giustizia per fede promessa alla discendenza spirituale, cioè a coloro che saranno giustificati per una fede simile alla sua.

Dio non è un Dio di morti
  La promessa apparentemente non mantenuta dal Signore e il tranquillo atteggiamento di Abramo possono trovare una spiegazione nel capitolo 15 della Genesi. Nell'oscurità profonda e spaventosa di quella notte, quando Abramo vide un fuoco divino passare in mezzo agli animali divisi e ricevette la notizia che i suoi i discendenti sarebbero vissuti per quattrocento anni come stranieri in un paese non loro; e dopo che il Signore l'ebbe personalmente rassicurato dicendogli che lui comunque avrebbe finito i suoi giorni in prospera vecchiaia, ebbe la certezza che il piano di Dio si sarebbe sicuramente compiuto, ma in un passaggio attraverso la morte che avrebbe portato alla risurrezione.
Si sa che la questione della risurrezione non è trattata in modo chiaro ed esaustivo nell'Antico Testamento, ma si sa anche che nell'ebraismo il tema non è mai stato abbandonato.
Nei Vangeli si vedono due gruppi in contrasto fra di loro su questo argomento: i farisei, che credevano nella risurrezione dai morti, contro i sadducei, che non vi credevano, perché secondo loro nella Torah propriamente detta, cioè nei cinque libri di Mosè, non vi sarebbe alcun riferimento in proposito. I sadducei sottoposero la questione anche a Gesù, pensando di metterlo in imbarazzo con una storiella ironica. In questo caso Gesù si schierò apertamente dalla parte dei farisei. E poiché i sadducei si attenevano soltanto all'autorità dei libri di Mosè, Gesù citò un passo contenuto proprio in un libro di Mosè:
    "Quanto poi ai morti e alla loro risurrezione, non avete letto nel libro di Mosè, nel passo del pruno, come Dio gli parlò dicendo: 'Io sono il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe'? Egli non è Dio di morti, ma di viventi. Voi errate grandemente" (Marco 12:26-27).
Se Abramo, Isacco e Giacobbe fossero morti per sempre, allora Dio, che vive per sempre, sarebbe per sempre un Dio di morti. Così risponde Gesù, e ragionando in questo modo conferma ancora una volta di essere un vero ebreo, anche nel modo di argomentare.

La speranza di Abramo
  La fede di Abramo si espresse dunque anche nella forma della speranza, perché credette che la morte, anche la sua morte personale, non avrebbe potuto impedire il compiersi delle promesse di Dio.
"Or la fede è certezza di cose che si sperano e dimostrazione di cose che non si vedono" (Ebrei 11:1), dice l'autore della lettera agli Ebrei. E continua facendo più volte riferimento a testimoni dell'Antico Testamento:
    "Per fede Abramo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa, perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio" (Ebr. 11:8-10).
    "Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito. Eppure Dio gli aveva detto: 'È in Isacco che ti sarà data una discendenza'. Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione" (Ebr. 11:17-19).
(da "Sta scritto")



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Israele bombarda lo Yemen per mandare un messaggio a Iran e Arabia Saudita

di Andrea Muratore

Le bombe e i missili cadono su Sana’a, capitale dello Yemen, e sul porto di Hodeida ma i destinatari si chiamano Iran e Arabia Saudita: i raid di Israele sul Paese della penisola arabica nella notte tra il 18 e il 19 dicembre hanno rilanciato l’azione di Tel Aviv nel quadrante mediorientale e parlano sia a Teheran, rivale strategico numero uno dello Stato Ebraico, che a Riad, con cui il governo di Benjamin Netanyahu cerca un dialogo.

Perché Israele attacca lo Yemen
  I caccia F-16 hanno penetrato le linee dei ribelli yemeniti colpendo terminal energetici, batterie anti-aeree, depositi di armi, rilanciando il settimo fronte di guerra di Tel Aviv dal 7 ottobre 2023 a oggi: a Gaza, dove nonostante i colloqui la guerra non si ferma, e al Libano interessato da un precario cessate il fuoco, si aggiungono la Cisgiordania, in cui spingono i coloni sostenuti dal governo, la Siria, colpita dai caccia dopo la caduta di Bashar al-Assad e sostanzialmente demilitarizzata da Tel Aviv e i tre Paesi su cui Israele ha compiuto raid: Iraq, Iran e, appunto, Yemen.
  Qual è l’obiettivo di Israele? Enfatizzare la presenza della minaccia degli Houthi nel Mar Rosso contro il commercio globale come pivot attorno a cui costruire una nuova alleanza nel Medio Oriente, superando le contingenze negative imposte per la diplomazia dello Stato Ebraico dalle conseguenze della guerra di Gaza.
  Obiettivo di fondo: sperare che il riavvicinamento Tel Aviv-Riad possa emergere sulla scia della messa a terra di manovre anti-Houthi che spingano i sauditi a riconsiderare il loro impegno a ridurre il coinvolgimento nello scenario regionale e ripensare il riavvicinamento all’Iran. Una strategia che parla anche agli Stati Uniti, i quali da un anno bombardano gli Houthi e non hanno mancato di rafforzare la loro presenza in Medio Oriente dopo la fine del regime siriano, ufficialmente per contrastare possibili riprese dello Stato Islamico.

Obiettivo massima pressione?
  In prospettiva, l’obiettivo ideale di Tel Aviv sarebbe vedere se è possibile plasmare quell’asse Israele-Usa-Arabia Saudita per contenere la proiezione iraniana nella regione e spingere alle porte della Repubblica Islamica il contenimento. La via che Netanyahu vuole seguire passa per l’offensiva contro gli alleati di Teheran e l’attesa per nuove mosse contro il Paese degli ayatollah da parte dell’amministrazione Usa entrante di Donald Trump.
  L’idea che il Trump 2.0 possa avversare nettamente l’Iran è altamente plausibile, e Netanyahu spinge per colpire le forze legate alla Repubblica Islamica ovunque, magari per spingere Teheran a una reazione eccessiva, soprattutto sul programma nucleare, che dia il là a un attacco diretto. Ad oggi tiene solo l’apparente pace iraniano-saudita, mentre Netanyahu lavora per la distensione col Paese di Mohammad bin Salman ora che i colloqui sono ripresi a 14 mesi dal massacro del 7 ottobre. Trump riprenderà il filo degli Accordi di Abramo? Per vederli realizzati, va ricordato, serve un obiettivo comune. Nel 2019-2020 fu l’ostilità contro l’Iran. Ora, va capito se casa Saud sarà della partita prima di dare per ripreso il filo interrotto della politica americana e israeliana in Medio Oriente.
  Dacci ancora un minuto del tuo tempo!
  Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

(Inside Over, 21 dicembre 2024)

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Siria, Israele e Turchia nel dopo-Assad: rischio di uno scontro che non conviene a nessuno

Alleati degli Stati Uniti e principali beneficiari, a livello strategico, della fine dell'era Assad in Siria, Turchia e Israele sono in rotta di collisione. In Siria e non solo, scrive il Wall Street Journal dei due Paesi che hanno una storia di relazioni difficili e a dir poco tese. Gestire questa rivalità diventerà probabilmente, secondo il giornale, una delle priorità dell'Amministrazione Trump, che si insedierà tra un mese. "I funzionari turchi vogliono che la nuova Siria sia un successo in modo che la Turchia possa controllarla e pensano che gli israeliani potrebbero semplicemente rovinare tutto", è l'opinione di Gönül Tol, direttore del programma Turchia del Middle East Institute.
  Molti nella leadership israeliana non sono convinti delle garanzie offerte da Ahmed al-Sharaa (Abu Mohammed al Jawlani) e i funzionari israeliani si sono detti allarmati dal fatto che un nuovo asse di islamisti sunniti, guidato dalla Turchia, possa diventare nel tempo un pericolo grave quanto l'"asse della resistenza" sciita guidato dall'Iran, soprattutto alla luce del sostegno pubblico da parte del leader turco Recep Tayyip Erodgan a nemici giurati di Israele, come Hamas. Lo stesso Erdogan che non ha esitato a definire il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, il "macellaio di Gaza". Mentre negli ultimi giorni la Turchia ha più volte chiesto a Israele di ritirare le truppe dalle aree siriane nella zona delle Alture del Golan e ha accusato Israele di sabotare la transizione nel dopo-Assad.
  Mentre prende forma la Siria del dopo-Assad, osserva il Wsj, la Turchia emerge come potenza di gran lunga dominante a Damasco, portando Erdogan "più vicino che mai" al coronamento della sua ambizione di una sfera di influenza che si estende fino a Libia e Somalia. "Le relazioni con la Turchia sono sicuramente in un brutto momento, ma c'è sempre la possibilità di un ulteriore deterioramento – ha commentato Yuli Edelstein, presidente della Commissione Affari esteri e Difesa del Parlamento israeliano – In questa fase non si tratta di minacce a vicenda, ma la situazione potrebbe evolvere in scontri per quanto riguarda la Siria, scontri con proxy ispirati e armati dalla Turchia". La minaccia potenziale della Siria non è immediata, è convinto, ma nel medio periodo i gruppi islamisti nel sud della Siria potrebbero costituire un pericolo le comunità israeliane. "Ci sono ancora canali di comunicazione tra i due Paesi e la Turchia è sempre un alleato degli Stati Uniti, quindi le questioni possono essere appianate", ha invece osservato Eyal Zisser, docente di storia contemporanea del Medio Oriente dell'Università di Tel Aviv, certo che per Israele sia di gran lunga migliore la prospettiva di una Siria controllata dalla Turchia rispetto all'Iran. Anche ad Ömer Önhon, analista con un passato da ambasciatore turco a Damasco, sembra esagerato parlare di imminente scontro tra Turchia e Israele in Siria. "La Turchia è contraria alle politiche del governo Netanyahu – ha affermato – e se cambieranno le politiche le relazioni potranno tornare alla normalità".
  A parte il Qatar (alleato di Ankara), altri partner americani nella regione, come l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e la Giordania, avrebbero le loro remore sulla nuova influenza turca. Si teme una rinascita dell'Islam politico, a partire da Damasco. A lungo le politiche della Turchia hanno irritato le Amministrazioni americane. "La Turchia è stata per molto tempo uno stato canaglia all'interno dell'alleanza occidentale", ha commentato Jonathan Schanzer, alla guida della Foundation for the Defense of Democracies, think tank di Washington. Per Shalom Lipner, oggi all'Atlantic Council ma in passato consigliere di diversi premier israeliani, "Hts al posto di guida a Damasco, sotto la protezione turca, solleva la possibilità sconfortante per Israele di islamisti ostili lungo il confine nordorientale, una situazione che potrebbe diventare ancor più difficile se i curdi venissero respinti, lasciando posto alla rinascita dell'Is".
  Intanto in Siria continua l'offensiva dell'Esercito nazionale siriano, sostenuto da Ankara, contro i curdi siriani nelle regioni nel nordest del Paese arabo dove si trovano basi militari Usa. Tra i combattenti ci sono curdi del sudest della Turchia e Ankara considera il Pkk "organizzazione terroristica". "Quanto sta accadendo in questo momento è che un Paese Nato sostiene un'organizzazione terroristica che opera contro un altro Paese Nato", è l'accusa di Mehmet Șahin, deputato dell'Akp di Erdogan. Per Berdan Oztürk, del partito filocurdo Dem, Washington deve sostenere il curdi siriani in nome della battaglia comune degli anni passati contro l'Is. Così Ankara è saltata su tutte le furie quando il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa'ar, ha affermato che Israele dovrebbe considerare i curdi come "alleati naturali". Ma è irrealistico immaginare un sostegno materiale ai combattenti curdi siriani da parte di Israele, secondo l'ex diplomatico turco Aydın Selcen. "Significherebbe che Israele ha perso la testa se decidesse di andare alla ricerca di guai con la Turchia in Siria – ha commentato – Negli ultimi sviluppi Ankara è la vincitrice, Israele è il vincitore. E non vedo la possibilità di un conflitto aperto tra Israele e Turchia. Semplicemente, non ha senso".

(Adnkronos, 21 dicembre 2024)

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Due adolescenti condannate per attacchi antisemiti a Londra

di Michelle Zarfati

Due ragazze adolescenti di 14 e 15 anni sono state condannate per una serie di attacchi antisemiti a Londra. Ad aggravare la loro posizione l’ultimo dei loro attacchi, che, secondo quanto riportato dal The Guardian, avrebbe lasciato una donna senza conoscenza per qualche ora. Le adolescenti, che non possono essere nominate a causa della loro età, hanno preso di mira i membri della comunità ebraica di Stamford Hill in quattro incidenti separati, avvenuti nell’arco di mezz’ora, tutti nel dicembre 2023, come dichiarato dal Crown Prosecution Service (CPS).
  Il CPS ha rivelato che la coppia è apparsa mercoledì alla corte dei magistrati di Stratford, dove è stato imposto loro un ordine di riabilitazione giovanile per 18 mesi. Le due ragazze sono state inoltre poste sotto coprifuoco con un tag elettronico per tre mesi. Il CPS ha poi spiegato di aver chiesto con successo una sentenza più severa in quanto la maggior parte degli attacchi da parte delle due giovani sono stati “motivati dall’odio”. I pubblici ministeri hanno raccontato che, durante il primo incidente, le adolescenti avrebbero chiesto soldi a una donna su St Ann’s Road. Durante la richiesta una delle due ha cercato di colpire la vittima, che è poi riuscita a fuggire. Durante la stessa giornata, circa dieci minuti dopo la coppia ha chiesto soldi a una ragazzina di 12 anni vicino a Holmdale Terrace. Nel giro di cinque minuti, le due hanno iniziato a molestare un gruppo di quattro ragazze di 11 anni, gridando loro frasi antisemite e chiedendo ancora soldi. Secondo il CPS il gruppo è stato poi inseguito e una delle ragazzine è stata afferrata per un braccio violentemente.
  Nell’ultimo incidente, avvenuto mezz’ora dopo il primo, le adolescenti hanno aggredito una donna su Rostrevor Avenue. Le imputate si sono avvicinate alla vittima e le hanno chiesto se avesse dei soldi in tasca. Quando la donna ha cercato di allontanarsi da loro, è stata colpita alla schiena. Il CPS ha aggiunto che le due hanno afferrato il telefono della vittima prima di schiaffeggiarla, toglierle la parrucca, gettarla a terra per prenderla a calci. La donna ha perso brevemente conoscenza e ha riportato “lividi significativi”.
  Le ragazze sono state entrambe giudicate colpevoli di tentata rapina, molestie aggravate dalla religione e lesioni personali durante il processo. “Le prove in questo caso hanno dimostrato che le due adolescenti hanno preso di mira la maggior parte delle vittime solo perché ebree” ha spiegato Jagjeet Saund, del CPS. “Le testimonianze chiave hanno dimostrato che le imputate hanno schernito le vittime, usando un linguaggio antisemita, rendendo chiaramente ovvio che questi attacchi erano crimini d’odio. Evidenziando questo modello di reato, abbiamo chiesto con successo al tribunale di aumentare la pena emessa oggi contro gli imputati – si legge nella nota del CPS – All’udienza di oggi, abbiamo utilizzato una dichiarazione per dimostrare ulteriormente l’impatto che questa dimostrazione di odio può avere sulla comunità locale, causando traumi e paura in tutta la società. Non c’è posto per tale intolleranza e odio, e il Crown Prosecution Service continuerà a lavorare a stretto contatto con la polizia per garantire che coloro che diffondono odio, pregiudizio e ostilità siano perseguiti”.

(Bet Magazine Mosaico, 20 dicembre 2024)

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Il turpe can can anti-israeliano e i risultati sul terreno

La guerra a Gaza, iniziata con l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele il 7 ottobre 2023, ci ha consegnato due fenomeni interconnessi e paralleli: la più feroce propaganda contro Israele di cui si abbia memoria e il più copioso rigurgito di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi.
Era tutto, a guardare bene, ampiamente prevedibile, dopotutto la propaganda contro lo Stato ebraico è cominciata subito dopo la guerra dei Sei Giorni e ha avuto nell’ONU, fin da allora, una delle sue agenzie principali, quando propose la Risoluzione 242 che i russi e gli arabi cercarono di modificare per obbligare Israele a Israele ritirarsi da tutti i territori conquistati, ovvero anche da Gaza e dalla Cisgiordania che gli erano stati assegnati dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922.
Da allora è stato un crescendo senza sosta, un macinare di risoluzioni avverse sotto regia sovietica con il concorso arabo e degli Stati nell’orbita sovietica, (la Russia è stata il grande laboratorio dove si è costruito tutto l’armamentario lessicale contro Israele in uso ancora oggi, Stato “razzista”, “nazista” “genocida”, dove si pratica l’apartheid), per continuare con lena piena anche dopo il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione del Moloch sovietico.
Per quanto concerne l’antisemitismo, va detto che non ha mai abbandonato la scena da duemila anni a questa parte, con alti e bassi, ed è sempre cresciuto tutte le volte che Israele ha dovuto entrare in guerra, perché ciò che proprio agli ebrei non si riesce a perdonare è che sappiano combattere e vincere le guerre, soprattutto nel mondo islamico, dove per secoli erano considerati succubi, dhimmi, e lì, in quel ruolo, dovevano restare per sempre, come fossili.
Acme del processo propagandistico e suo maggiore successo è stata l’invenzione della Palestina, regione popolata da un popolo antichissimo, quello palestinese appunto, anche quando la geografia era ripartita tra Giudea, Samaria e Galilea, regioni dove predicava Gesù, a cui, al posto del talit è stato poi fatta indossare la kefiah in quel processo di appropriazione culturale che ha espropriato gli ebrei anche del Muro Occidentale, rinominato dall’UNESCO in onore del Burak, il mitico quadrupede alato con cui Maometto sarebbe volato a Gerusalemme mai citata nel Corano. Dalla Palestina è disceso per filiazione uno Stato palestinese, senza confini, capitale e moneta, ma accolto all’ONU in virtù di osservatore e oggi riconosciuto virtualmente da Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia.
Si tratta di capolavori, a cui si è aggiunto il vertice odierno, l’accusa di genocidio che Israele avrebbe compiuto a Gaza dove secondo la rivista Lancet, già prodiga in passato di accuse a Israele, non sarebbero morti quarantaduemila civili (nessun miliziano jihadista) ma addirittura centosessantaseimila, in attesa di nuove cifre più cospicue che, a questo punto, presto supereranno i cinquecentomila morti della guerra siriana, anche se nessuno ha mai accusato Assad di genocidio o ha emesso nei suoi confronti mandati di arresto come è successo a Netanyahu.
Si potrebbe continuare ma ci fermeremo qui, lo spazio non basterebbe. Nonostante questo e altro, c’è da dire che Israele la guerra la sta vincendo, non l’ha ancora vinta ma è sulla buona strada, con Hamas a pezzi a Gaza, Hezbollah assai malconcio e privo della parte più consistente del suo quadro dirigente, Assad fuggito in Russia e l’Iran, grande sponsor che guarda affranto il crollo dell'”asse della resistenza” e il volatizzarsi in fumo dei miliardi di dollari spesi per sostenerlo.
C’è da aggiungere che a breve Donald Trump tornerà alla Casa Bianca e Netanyahu e il suo governo ne usciranno rafforzati. Malgrado il turpe cancan anti-israeliano, non sono buoni giorni per gli antisemiti e gli odiatori di Israele.

(L'informale, 20 dicembre 2024)

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7 ottobre – Engelmayer porta le sue cartoline a Torino

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Un uomo assorto cammina per Torino. Passeggia per le vie, sullo sfondo la Mole antonelliana, il Monte dei Cappuccini. Ma il suo pensiero è rivolto altrove: agli ostaggi da 441 giorni prigionieri di Hamas a Gaza. «Io sono a Torino, ma gli ostaggi sono ancora lì. E questo è sempre il mio primo pensiero. Da un anno disegno i loro volti, le loro storie. È una forma di attivismo che non mi abbandona mai, non importa la città in cui sono. Del resto non importa cosa facciamo noi nella nostra quotidianità, la costante è che loro sono ancora prigionieri», afferma a Pagine Ebraiche Zeev Engelmayer. I lettori di questo giornale lo conoscono: il numero di settembre portava in copertina una sua opera, assieme a una lunga intervista. Ora è in Italia per presentare di persona le sue cartoline quotidiane. L’appuntamento era al centro sociale della Comunità ebraica di Torino. «Ho presentato la mia storia di illustratore e di attivista con il personaggio umoristico di Shoshke (una donna sua alter ego), ma soprattutto il mio impegno dopo il 7 ottobre».
Dopo le stragi e i rapimenti di Hamas, Engelmayer ha iniziato a disegnare gli ostaggi. «Ha un tratto completamente diverso dagli altri. Attraverso l’uso di colori e un disegno apparentemente ingenuo riesce a dare un senso di ottimismo anche in questa situazione drammatica», sottolinea il gallerista Ermanno Tedeschi, promotore insieme all’Adei Wizo di Torino dell’incontro con Engelmayer. A portare l’illustratore in Italia per la terza volta è stata l’addetta culturale dell’ambasciata d’Israele, Maya Katzir. «In Israele tutti lo conoscono. Le sue cartoline per gli ostaggi sono ovunque: dalle fermate degli autobus alle manifestazioni dei famigliari dei rapiti».
Al pubblico torinese l’illustratore ha regalato alcune delle sue opere. «È stato un gesto spontaneo», racconta Engelmayer. «Non mi aspettavo di trovare anche qui dei legami così forti con Israele e con la situazione degli ostaggi. Per noi è la quotidianità, siamo immersi in queste storie e sappiamo chi sono Naama Levy, Liri Albag, Matan Zangauker. Ho trovato anche qui a Torino molta consapevolezza e solidarietà».
Nel corso della serata torinese sono state raccolte donazioni per la campagna “Ritorno a Sderot”, in favore della città del sud di Israele duramente colpita il 7 ottobre. d.r.

(moked, 20 dicembre 2024)

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Distrutti 7 km di tunnel a Gaza. Da Stoccolma stop all’Unrwa

A distanza di oltre un anno dall’inizio della guerra a Gaza, Tsahal è ancora impegnata nella distruzione dei tunnel di Hamas. Negli ultimi giorni l’unità Yahalom, corpo d’élite del genio militare israeliano, ha identificato e distrutto tre tunnel. Oltre sette chilometri di reticoli, in cui i soldati hanno trovato attrezzature delle Israel Defence Forces rubate dai terroristi durante l’assalto del 7 ottobre, oltre ad armi e mappe delle comunità israeliane a ridosso del confine con Gaza.
  Nell’enclave palestinese Tsahal continua dunque la sua operazione per smantellare l’infrastruttura di Hamas e degli altri gruppi terroristici. Nel mentre attende come tutto il paese aggiornamenti sulle trattative per una tregua. Dopo le parole di ottimismo del ministro della Difesa Israel Katz, il negoziato è nuovamente rallentato. La firma descritta giorni fa come imminente, ma ora alcuni media arabi parlano di settimane. Resta la speranza, a cui si affida anche il segretario di stato Usa Antony Blinken. Intervistato dall’americana MSNBC, Blinken ha ribadito l’impegno di Washington per arrivare a un cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi. 100 persone, di cui almeno 34 non più in vita, prigioniere da quattordici mesi di Hamas. «Dobbiamo riportarle a casa», ha sottolineato Blinken. Secondo il capo della diplomazia Usa la fine della guerra a Gaza è nell’interesse di Israele, così come evitare un’occupazione prolungata dell’enclave palestinese. «Se finiscono per occupare Gaza, dovranno affrontare un’insurrezione per anni. Non è nel loro interesse». Il futuro di Gaza, ha aggiunto, non deve prevedere Hamas. «È necessario un piano coerente per il futuro».
  Intanto dalla Svezia arriva la notizia che il governo di Stoccolma smetterà di finanziare l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per l’assistenza ai rifugiati palestinesi, accusata da Israele e da altri Paesi di collusione con Hamas. Gli aiuti alla popolazione civile di Gaza verranno allo stesso tempo raddoppiati, ha dichiarato il ministro svedese per la cooperazione Benjamin Dousa. «I fondi andranno a diversi organi Onu che si occupano di distribuire medicine, cibo e altri generi di prima necessità».

(moked, 20 dicembre 2024)

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Erdogan sta per invadere il nord della Siria ma critica Israele per il Golan

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha fatto capire che la Turchia potrebbe intervenire nel nord della Siria per eliminare quelle che, a suo dire, sono minacce alla sua sicurezza poste dai gruppi curdi siriani. Tuttavia, anche se medita un’invasione, Erdogan sostiene che gli Stati Uniti e le potenze occidentali hanno la “responsabilità di impedire a Israele” di operare in territorio siriano.
A differenza della Turchia, i cui proxy controllano ampie zone della Siria settentrionale, l’IDF è entrato in una zona cuscinetto tra la Siria e la parte delle Alture del Golan annessa a Israele solo questo mese, affermando di farlo temporaneamente, fino a quando non sarà istituito un nuovo regime che possa garantire il rispetto dell’accordo di disimpegno del 1974 che ha formato la zona demilitarizzata.
La dichiarazione di Erdogan a un gruppo di giornalisti arriva anche in mezzo a notizie di combattimenti tra combattenti sostenuti dalla Turchia e le Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda sostenute dagli Stati Uniti nel nord della Siria, vicino alla città di confine di Kobani e alla diga di Tishrin sul fiume Eufrate.
“Dimostreremo che è giunto il momento di neutralizzare le organizzazioni terroristiche presenti in Siria”, ha dichiarato Erdogan, secondo una trascrizione delle sue osservazioni. “Lo faremo per prevenire qualsiasi ulteriore minaccia proveniente dal sud dei nostri confini”.
La Turchia considera l’SDF un’organizzazione terroristica perché la sua componente principale è un gruppo allineato con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, o PKK, che è vietato in Turchia. All’inizio della settimana, l’SDF ha dichiarato che gli sforzi di mediazione guidati dagli Stati Uniti non sono riusciti a raggiungere una tregua permanente nel nord della Siria.
“La fine della strada per le organizzazioni terroristiche è vicina”, ha dichiarato Erdogan. “Non c’è spazio per i terroristi nel futuro della regione. La vita dell’organizzazione terroristica del PKK e delle sue estensioni si è esaurita”.
Erdogan afferma che mettendo in sicurezza la zona di confine con la Siria, la Turchia impedirà al PKK di reclutare combattenti.
Il leader turco, nel frattempo, accoglie con favore il fatto che molti Paesi stiano stabilendo contatti con i nuovi leader siriani, affermando che si tratta di “un segno di fiducia” nella nuova amministrazione. Ha dichiarato che la Turchia assisterà il Paese nella creazione di nuove “strutture statali”.
Erdogan aggiunge che il Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan si recherà presto in Siria.

(Rights Reporter, 20 dicembre 2024)

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Il caso Le Monde: polemiche e accuse di schieramento ideologico tra filo-palestinismo e critica a Israele. Redazione spaccata

di Marina Gersony

Si respira un’aria pesante nella nuova sede avveniristica del quotidiano Le Monde, un edificio di vetro e acciaio nelle immediate vicinanze della stazione. Nonostante l’architettura trasparente e l’open-space, dove anche gli amministratori condividono le scrivanie con i giornalisti, il clima di collaborazione sembra un lontano miraggio. «La gente ha paura», confessa un redattore sotto anonimato, dando voce al malcontento che da mesi serpeggia tra le scrivanie di tra i giornali più importanti in Francia e non solo.
  Secondo una minuziosa inchiesta condotta da Le Figaro e riservata ai suoi abbonati, il disagio è palpabile e riguarda principalmente il trattamento editoriale del conflitto israelo-palestinese. Tra i temi caldi spiccano il controverso “muro di Gaza” e le polemiche attorno a Benjamin Barthe, vicecaporedattore della sezione internazionale, la cui vita privata e scelte professionali stanno alimentando divisioni profonde nella redazione. Barthe è sposato con Muzna Shihabi, un’attivista palestinese le cui posizioni politiche esplicite sollevano dubbi sull’imparzialità del giornale.

• IL “MURO DI GAZA” E LA QUESTIONE DELL’OMERTÀ
  Ma qual è il punto? All’interno degli spazi comuni della redazione di Le Monde, un angolo è stato ribattezzato “il muro di Gaza”. Qui campeggiano immagini di bambini palestinesi, articoli di denuncia e slogan come “Stop al genocidio” e “Non lasciate che vi dicano che tutto è iniziato il 7 ottobre 2023”. Secondo le testimonianze raccolte da Le Figaro, il muro sarebbe un simbolo della presa di posizione pro-palestinese di una parte della redazione. Un altro disegno, che rappresenta la Statua della Libertà con un drappo insanguinato, reca la scritta “Libertà di uccidere”. La narrazione offerta da questi materiali è giudicata da alcuni redattori come troppo unilaterale e ideologica.
  «Passare davanti a quel muro ogni giorno mi disturba profondamente», ammette turbata una giornalista, aggiungendo che la complessità del conflitto israelo-palestinese richiederebbe una rappresentazione più equilibrata. Tuttavia, il dibattito interno sembra soffocato: «C’è un clima di omertà; chi critica rischia di essere isolato», è il commento di chi denuncia il trattamento riservato a Israele sul quotidiano. Ma oltre al clima teso che sembra regnare all’interno della redazione, è tutta la linea editoriale ad aver suscitato reazioni sia all’interno che tra i lettori.

• LE ACCUSE CONTRO BARTHE E SUA MOGLIE
  Il caso di Benjamin Barthe rappresenta un altro nodo cruciale. Ex corrispondente in Medio Oriente, Barthe è stato accusato di aver adottato una linea editoriale favorevole ai palestinesi, influenzata, secondo alcuni, dall’attivismo della moglie. Muzna Shihabi non ha mai nascosto le sue opinioni: sui social media utilizza spesso hashtag come #FreePalestine e ha espresso solidarietà per figure controverse come Ismaïl Haniyeh, leader di Hamas. Una delle sue dichiarazioni più discusse recita: «Che Dio distrugga il regime sionista».
  Questi legami hanno alimentato un acceso dibattito sulla deontologia e sull’imparzialità di Barthe. Sebbene il comitato etico di Le Monde abbia descritto le critiche come una «campagna di intimidazione», il malcontento interno cresce. Alcuni redattori ritengono che la presenza di Barthe nella sezione internazionale comprometta la credibilità del giornale.
  Nel frattempo, sui social la questione suscita clamore. Come riporta Le Journal du Dimanche (chiamato anche Le JDD),  l’ex redattrice capo di i24News, Noémie Halioua, condanna un «muro in cui convivono odio anti-israeliano, antisemitismo e deliri complottisti». Il giurista Étienne Dujardin paragona a sua volta quel muro al «muro dei cretini» presente nella magistratura e afferma che «il giornale Le Monde è in totale deriva».

• LE MONDE, NESSUN PASSO INDIETRO
  «Deriva anti-israeliana: la risposta sconcertante di Le Monde dopo le rivelazioni di Le Figaro», titola Le JDD che ha ottenuto un comunicato dal CDR (Comitato di Redazione), dal quale non emerge alcuna autocritica o messa in discussione delle posizioni del giornale. Il CDR respinge con fermezza le rivelazioni del quotidiano concorrente, definendo l’inchiesta basata su «interpretazioni errate e fatti distorti». Rivolgendosi all’intera redazione, il Consiglio sottolinea che all’interno del giornale esistono «spazi di confronto e dialogo», nei quali vengono regolarmente discussi temi importanti, spesso con dibattiti accesi durante le riunioni editoriali. Il comunicato esprime inoltre disapprovazione per il fatto che alcuni membri della redazione abbiano scelto di manifestare il proprio dissenso pubblicamente, anziché discuterne nelle sedi interne appropriate. Viene anche condannata la diffusione di immagini degli uffici di una persona estranea al ruolo di giornalista, considerata una grave violazione durante questa vicenda.

• RADICI STORICHE DEL CONFLITTO INTERNO
  Per comprendere la crisi attuale, è utile guardare al passato di Le Monde. Fondato nel 1944 da Hubert Beuve-Méry, il giornale ha sempre cercato di mantenere una reputazione di rigore e imparzialità. Tuttavia, le sue posizioni editoriali hanno spesso rispecchiato un certo impegno politico, soprattutto durante momenti storici critici come la decolonizzazione e il conflitto in Algeria. Questa tradizione di attivismo si intreccia oggi con le dinamiche interne di una redazione che deve confrontarsi con il peso delle opinioni personali e delle pressioni esterne.
  La crescente polarizzazione sociale ha spinto molti giornalisti a rivendicare maggiore libertà espressiva, talvolta a scapito di un approccio neutrale. Questo è evidente non solo nel caso di Barthe, ma anche in altre figure di spicco della redazione, che utilizzano i social media per esprimere opinioni forti, spesso divergenti dalla linea ufficiale del giornale. Il rischio, secondo alcuni osservatori a commento della questione, è che questa frammentazione comprometta la coesione e l’autorevolezza della testata.

• UNA CRISI CHE RIFLETTE IL PANORAMA MEDIATICO
  Il caso di Le Monde non è isolato, ma si inserisce in un contesto più ampio di polarizzazione del giornalismo francese e probabilmente non solo. Negli ultimi anni, molte testate hanno abbandonato la pretesa di neutralità per abbracciare narrative più esplicite, spesso in linea con la sensibilità del proprio pubblico. Tuttavia, quando un giornale come Le Monde, che ha costruito la sua reputazione su rigore e imparzialità, appare schierato, le reazioni sono inevitabilmente più forti.
  L’inchiesta di Le Figaro ha messo in luce una frattura profonda: da un lato, chi difende una linea editoriale più empatica verso i palestinesi, dall’altro, chi chiede un approccio più bilanciato. Nel mezzo, una redazione divisa e un pubblico sempre più critico. «Abbiamo ricevuto centinaia di disdette dopo le prime pagine del 7 e 8 ottobre», rivela una fonte interna, riferendosi alle edizioni pubblicate all’indomani degli attacchi di Hamas contro Israele.

• LE SFIDE DEL GIORNALISMO CONTEMPORANEO
  Il dibattito su Le Monde solleva interrogativi più ampi sul ruolo dei media in una società sempre più polarizzata. Possono i giornali mantenere una neutralità autentica o devono inevitabilmente prendere posizione? Qual è il confine tra legittima sensibilità personale e il rispetto dei principi deontologici?
  In questo contesto, la figura del giornalista si trova sotto pressione. Non è più sufficiente riportare i fatti; oggi, ai professionisti dell’informazione viene richiesto di decodificare una realtà complessa e, talvolta, di orientare il dibattito pubblico. Questa evoluzione ha portato a una tensione crescente tra l’esigenza di preservare la credibilità delle testate e la necessità di attirare un pubblico sempre più segmentato.
  In un mondo in cui le verità assolute sono sempre più rare, la sfida non è solo raccontare i fatti, ma farlo in modo che tutti possano sentirsi rappresentati. La posta in gioco non è solo la credibilità di un giornale, ma il futuro del giornalismo stesso.

(Bet Magazine Mosaico, 20 dicembre 2024)

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Amichai Chikli al Papa: “Chiarisca le sue dichiarazioni su Israele. Accuse di genocidio infondate e pericolose”

di Luca Spizzichino

In una lettera aperta indirizzata a Papa Francesco, il Ministro israeliano della Diaspora e contro l’antisemitismo, Amichai Chikli, ha espresso profonda preoccupazione per alcune recenti dichiarazioni e gesti del Pontefice. Chikli ha esortato il Papa a chiarire la sua posizione riguardo alle accuse di genocidio rivolte a Israele e a riflettere sulle implicazioni delle narrazioni che rischiano di distorcere la storia e il legame millenario tra il popolo ebraico e la Terra d’Israele.
  Chikli apre la sua lettera ricordando che Betlemme, città natale di Gesù, è un luogo profondamente legato alla storia ebraica. “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode”, scrive, citando il Vangelo secondo Matteo. Il ministro sottolinea che Betlemme è anche il luogo in cui Rachele, una delle matriarche ebraiche, morì dando alla luce Beniamino. Rievocando il passato, Chikli menziona la rivolta di Bar Kochba (132-135 d.C.) contro l’Impero Romano, un momento cruciale nella storia del popolo ebraico. “Lo storico romano Dione Cassio descrive come 985 villaggi ebraici furono distrutti, e 580 mila uomini persero la vita in battaglia”, scrive Chikli, evidenziando come l’imperatore Adriano cercò di cancellare ogni traccia del legame tra gli ebrei e la loro terra, rinominando la Giudea in “Syria Palaestina” e Gerusalemme in “Aelia Capitolina”.
  Il cuore della lettera è però dedicato alle recenti dichiarazioni di Papa Francesco, che, secondo Chikli, rischiano di alimentare narrazioni pericolose. “Lei ha affermato che le accuse di genocidio a Gaza dovrebbero essere ‘esaminate attentamente’”, scrive il ministro, aggiungendo: “In quanto popolo che ha perso sei milioni di suoi figli nell’Olocausto, siamo particolarmente sensibili alla banalizzazione del termine ‘genocidio’, che si avvicina pericolosamente alla negazione dell’Olocausto”. Chikli denuncia anche il ruolo di organizzazioni come Amnesty International, che nel suo rapporto avrebbe falsamente affermato che Israele ha lanciato un attacco non provocato contro Gaza il 7 ottobre 2023. “In quella terribile giornata, Israele non ha attaccato Gaza. È stato invece oggetto di un’aggressione senza precedenti da parte di Hamas”, chiarisce il ministro, elencando le atrocità commesse durante l’attacco, tra cui massacri, stupri e rapimenti di civili innocenti.
  Rivolgendosi direttamente al Papa, Chikli ricorda l’importanza di combattere la disinformazione e di preservare la verità storica. “Il silenzio del Vaticano durante i giorni bui della Shoah è ancora assordante”, scrive, sottolineando che è necessario evitare che la storia si ripeta. Chikli conclude la sua lettera con un appello a Papa Francesco affinché chiarisca la sua posizione e rafforzi il dialogo tra il Vaticano e il popolo ebraico: “Sappiamo che lei è un caro amico del popolo ebraico. Apprezziamo i suoi sforzi e desideriamo approfondire il rapporto tra il Vaticano e lo Stato di Israele, così come tra il popolo cristiano e quello ebraico”.
  Il 2025 segnerà il 60° anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, un documento fondamentale che ha trasformato il rapporto tra cristiani ed ebrei. Chikli auspica che questo anniversario possa rappresentare un’occasione per rinnovare l’impegno verso la verità e il rispetto reciproco. “Verità e D-o sono una cosa sola”, conclude Chikli, affidando al Pontefice la responsabilità di utilizzare la sua influenza per promuovere giustizia e riconciliazione.

(Shalom, 20 dicembre 2024)

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Israele – Sondaggio rivela nuovo senso di appartenenza della minoranza araba

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L’ingresso della moschea El Jazzar ad Acri, città nel nord d’Israele

Un nuovo sondaggio dell’Università di Tel Aviv rivela un dato imprevisto: il 57,8% degli arabi israeliani – musulmani, drusi e cristiani inclusi – ritiene che la guerra in corso abbia contribuito a creare un «senso di condivisione del destino» con la comunità ebraica. Il risultato, parte di un’indagine del Centro Moshe Dayan, segna un importante cambiamento rispetto al passato. Nel giugno 2024, il 51,6% degli intervistati esprimeva un’opinione simile, mentre a novembre 2023, subito dopo gli attacchi del 7 ottobre, il 69,8% riteneva che la guerra avesse danneggiato la solidarietà tra le due comunità.
  La guerra a Gaza sembra aver stimolato una nuova riflessione sulla soluzione al conflitto israelo-palestinese. Quasi la metà degli arabi israeliani (49,7%) oggi considera la soluzione dei due Stati, basata sui confini del 1967, l’opzione più realistica, in netto aumento rispetto al 17,2% del 2023. Parallelamente, diminuisce il pessimismo: solo il 27,1% crede che non ci siano soluzioni politiche in vista, contro il 55,6% dello scorso anno.
  «Prima degli eventi di ottobre 2023, la maggioranza degli arabi israeliani riteneva che non ci fosse alcuna soluzione politica praticabile,» afferma il rapporto. «Oggi, la prospettiva dei due Stati è vista come l’alternativa più realistica».

• LA CRIMINALITÀ PRIMA PREOCCUPAZIONE
  Nonostante il rinnovato interesse per le questioni politiche, è la violenza criminale a dominare le preoccupazioni della comunità araba israeliana. Il 66,5% degli intervistati la identifica come la sfida più urgente, superando altre priorità come il conflitto israelo-palestinese (10,9%) o la povertà (4,9%). «La crescente violenza, alimentata da decenni di negligenza governativa e dal proliferare di gruppi criminali organizzati, ha lasciato molte comunità arabe in una situazione di insicurezza», denunciano gli autori dell’indagine. Il 65,8% degli intervistati dichiara di sentirsi poco sicuro nella propria vita quotidiana.

• SENTIRSI ISRAELIANI
  Sul piano identitario, l’appartenenza alla cittadinanza israeliana si consolida: il 33,9% degli arabi israeliani la indica come componente dominante della propria identità, seguita dall’affiliazione religiosa (29,2%) e dall’identità araba (26,9%). Solo il 9% considera l’identità palestinese il fulcro della propria appartenenza.
  L’inclusione di partiti arabi nel governo israeliano gode oggi di un ampio sostegno: il 71,8% degli intervistati è favorevole a questa opzione, e quasi la metà (47,8%) sostiene la partecipazione politica dei partiti arabi a prescindere dall’orientamento della coalizione. Il cambiamento è attribuito all’esperienza del partito Ra’am, che ha sostenuto la coalizione Bennett-Lapid del 2021, stabilendo un precedente per la politica araba israeliana.

• NO A HAMAS
  Sul piano regionale, oltre la metà degli arabi israeliani (53,4%) vede un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita come un’opportunità positiva, anche senza una risoluzione preliminare del conflitto con i palestinesi. Solo una minoranza (6,7%) sostiene che Hamas debba continuare a governare Gaza, mentre altre opzioni – tra cui il coinvolgimento dell’Autorità Palestinese o di entità multinazionali – raccolgono molto consenso.
  Per Arik Rudnitzky, responsabile della ricerca, «gli arabi israeliani stanno inviando un messaggio chiaro alle autorità e alla maggioranza ebraica. Sono pronti a collaborare per ricostruire la società israeliana finita questa guerra». d.r.

(moked, 19 dicembre 2024)

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Houthi distruggono scuola, Tsahal colpisce Sana’a

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La scuola distrutta di Ramat Gan

Una scuola elementare di Ramat Gan, a est di Tel Aviv, non c’è più. È stata completamente distrutta dai frammenti di un missile sparato dallo Yemen e intercettato dal sistema di difesa a lungo raggio Arrow. È il secondo attacco degli Houthi in pochi giorni, il primo a creare gravi danni. Fortunatamente, dichiarano le autorità, non ci sono feriti. «L’incidente è avvenuto nel cuore della notte», spiega a Kan il sindaco di Ramat Gan Carmel Shama. La scuola era deserta e anche l’area vicina. L’edificio è completamente collassato, sarà demolito e ricostruito. «Il servizio di sostegno psicologico accompagnerà gli studenti e il personale educativo della scuola. Questa è un’esperienza difficile», ammette Shama. Alcuni studenti sono stati subito trasferiti in altri istituti, mentre per altri è stata attivata la didattica a distanza. «Troveremo per tutti una sistemazione», promette il ministro dell’Istruzione Yoav Kish. Secondo il ministro a distruggere la scuola è stata «la testata di un missile sparato dallo Yemen». Si tratterebbe quindi di un colpo diretto. Secondo altre ricostruzioni i danni sono stati causati dall’intercettazione del missile. Tsahal sta verificando la dinamica dell’incidente.
  Qualsiasi sia la causa del danno, Tsahal ha risposto nella notte all’attacco Houthi, colpendo la città portuale di Hodeida e, per la prima volta, la capitale Sana’a. L’obiettivo della missione, hanno spiegato fonti militari ai media locali, era paralizzare il sistema portuale controllato dai ribelli sostenuti dall’Iran. Dopo le stragi del 7 ottobre, gli Houthi hanno spalleggiato i terroristi di Hamas nella guerra con Israele. Oltre ai missili, in questi mesi hanno lanciato diversi droni kamikaze, uccidendo a Tel Aviv una persona. Israele ha reagito, colpendo per tre volte obiettivi strategici del gruppo in Yemen. «Avverto i leader dell’organizzazione terroristica Houthi: la lunga mano di Israele raggiungerà anche voi. Colpiremo duramente e non permetteremo attacchi e minacce contro il nostro stato», ha dichiarato il ministro della Difesa Israel Katz. Secondo il portavoce militare, il contrammiraglio Daniel Hagari, i caccia israeliani nella notte hanno anche «danneggiato il trasferimento di armi iraniane nella regione».
(moked, 19 dicembre 2024)

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Perché Israele attacca lo Yemen e allarga il fronte del conflitto

Dopo aver sconfitto Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e contribuito al crollo del regime siriano, Israele si occupa dei ribelli Houthi con un’operazione senza precedenti.

di Massimiliano Boccolini

L’offensiva israeliana iniziata con i massacri del 7 ottobre 2023 registra oggi una nuova fase che porta l’esercito israeliano a operare a migliaia di chilometri di distanza dal proprio Paese. Dopo aver annientato le forze di Hamas a Gaza, di Hezbollah in Libano e consentito il crollo del regime di Bashar al-Assad in Siria è la volta dello Yemen. Nonostante questi successi militari del premier Benjamin Netanyahu infatti i ribelli Houthi, proxy yemenita del regime iraniano, hanno proseguito in queste settimane con il lancio di droni e missili, per lo più intercettati, contro lo Stato ebraico.
L’ultimo però, quello lanciato nella notte, è il primo che ha provocato ingenti danni ed ha dato il via ad un’operazione aerea israeliana senza precedenti in Yemen. I detriti frutto dell’intercettazione di un missile balistico Houthi lanciato dallo Yemen verso il centro di Israele questa mattina hanno causato ingenti danni a una scuola a Ramat Gan. Secondo l’esercito israeliano, il missile balistico è stato intercettato dal sistema di difesa aerea a lungo raggio Arrow e le sirene sono suonate nel centro di Israele a causa del timore di caduta di schegge. Un edificio in una scuola a Ramat Gan è crollato apparentemente a causa di un grosso pezzo di detriti che ha colpito la zona.
Non è la prima volta che l’aviazione israeliana conduce attacchi contro obiettivi Houthi. Si tratta infatti del terzo raid sul Paese arabo ma è il primo a prendere di mira le infrastrutture civili e militari del nord dello Yemen controllato dagli uomini di Teheran.
Secondo l’analista e attivista per i diritti umani yemenita, Tawfiq al Hamidi, “bombardando Tel Aviv, gli Houthi cercano di rafforzare il loro ruolo nel conflitto regionale e di presentarsi come una parte influente dell’asse della resistenza, soprattutto alla luce dei colpi ricevuti dagli alleati dell’Iran nella regione, Hezbollah e Assad in Siria”. I ribelli yemeniti vogliono inoltre, secondo quanto ha spiegato l’esperto a “Formiche“, “aiutare anche l’Iran rispetto alle trattative sul suo programma nucleare. Israele, da parte sua, cerca di scoraggiare e dimostrare il proprio potere prendendo di mira direttamente gli Houthi. L’obiettivo dei raid è quello di inviare un chiaro messaggio che qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale subirà una dura risposta, come i leader israeliani hanno annunciato più di una volta, e che rientra nella strategia di Israele di indebolire l’influenza iraniana nello Yemen, oltre a creare uno stato psicologico di ansia a livello popolare e tra il gruppo Houthi alla luce degli sviluppi nella regione, in particolare in Siria”.
In definitiva, secondo al Hamidi, questa escalation “minaccia di trascinare la regione in un confronto regionale più ampio, in cui gli interessi regionali e internazionali si intrecciano in un panorama complesso. È necessario intensificare gli sforzi diplomatici per contenere le violenze ed evitare che la situazione peggiori, ma i rischi sul terreno indicano la possibilità di un rapido deterioramento degli aspetti politici, militari e umanitari se la situazione non verrà messa sotto controllo al più presto possibile”.
Sono nove le persone che sono state uccise negli attacchi israeliani sullo Yemen avvenuti nella notte secondo i media yemeniti. “Al Masirah Tv”, il principale canale televisivo di informazione gestito dal movimento che controlla gran parte del paese, parla di sette persone uccise in un attacco al porto di Salif e il resto in due attacchi all’impianto petrolifero di Ras Issa, entrambi situati nella provincia occidentale di Hodeidah.
Gli attacchi hanno anche preso di mira due centrali elettriche centrali a sud e a nord della capitale, Sanaa, aggiunge. In una dichiarazione, l’esercito israeliano afferma di aver “condotto attacchi precisi su obiettivi militari Houthi nello Yemen, inclusi porti e infrastrutture energetiche a Sanaa. Gli attacchi aerei israeliani notturni nello Yemen erano mirati a paralizzare tutti e tre i porti utilizzati dagli Houthi sostenuti dall’Iran sulla costa del paese. Tutti i rimorchiatori utilizzati per portare le navi nei porti sono stati colpiti nell’attacco israeliano. Nel precedente attacco di Israele al porto di Hodeidah, le gru utilizzate per scaricare le spedizioni sono state colpite. Ora, Israele ritiene che tutte le attività nei porti controllati dagli Houthi siano paralizzate.
L’aeronautica militare israeliana si è preparata per diverse settimane agli attacchi notturni in Yemen. Secondo l’esercito, decine di aerei dell’aeronautica militare israeliana hanno partecipato agli attacchi in Yemen durante la notte, tra cui caccia da combattimento e aerei spia, a circa 2.000 chilometri da Israele. Gli “obiettivi militari” degli Houthi sono stati colpiti al porto di Hodeidah, che Israele ha già colpito due volte in precedenza, e per la prima volta, nella capitale Sanaa, afferma l’IDF.
Gli attacchi aerei dell’aeronautica militare israeliana contro obiettivi Houthi nello Yemen durante la notte sono stati effettuati in due ondate. Quattordici caccia da combattimento dell’IAF, insieme a rifornitori e aerei spia, sono stati coinvolti negli attacchi, che erano stati pianificati dall’esercito per diverse settimane in risposta agli attacchi del gruppo sostenuto dall’Iran contro Israele. I caccia da combattimento dell’IAF erano già in rotta verso lo Yemen quando gli Houthi hanno lanciato un missile balistico su Israele intorno alle 2:35 del mattino. L’attacco è stato programmato per la notte a causa di varie preoccupazioni operative e sforzi per migliorare l’intelligence sugli obiettivi. Alle 3:15 del mattino è stata effettuata la prima ondata di attacchi lungo la costa dello Yemen, colpendo i porti di Hodeidah Ras Isa e Salif. Otto rimorchiatori utilizzati per portare le navi nei porti sono stati distrutti negli attacchi. Una seconda ondata di attacchi aerei alle 4:30 del mattino ha colpito due centrali elettriche nella capitale Sanaa. In totale, decine di munizioni sono state sganciate dall’IAF sui cinque obiettivi. Gli Houthi hanno lanciato oltre 200 missili e 170 droni contro Israele nell’ultimo anno. Secondo l’IDF, la stragrande maggioranza non ha raggiunto Israele o è stata intercettata dall’esercito e dai suoi alleati nella regione.
Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha lanciato un avvertimento ai leader Houthi: “Il lungo braccio di Israele vi raggiungerà”, afferma in una dichiarazione. “Chiunque sollevi una mano, verrà mozzata. Chiunque colpisca [noi], verrà colpito più volte”. Nel frattempo, il portavoce capo dell’IDF Daniel Hagari ha affermato che tra gli obiettivi colpiti negli “attacchi precisi” c’erano “porti e infrastrutture energetiche” nella capitale Sanaa controllata dai ribelli che gli Houthi hanno sfruttato per “le loro azioni militari”. “Con i loro attacchi alle navi mercantili internazionali e alle rotte nel Mar Rosso e in altri luoghi, gli Houthi sono diventati una minaccia globale. Chi c’è dietro gli Houthi? L’Iran”, afferma in una dichiarazione video in lingua inglese, mentre giura che l’esercito “agirà contro chiunque in Medio Oriente” minacci Israele.
Da Teheran invece arriva la condanna come “flagrante violazione” agli attacchi israeliani. Il portavoce del ministero degli Esteri Esmaeil Baqaei ha affermato che i raid sono stati “una flagrante violazione dei principi e delle norme del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite”.
Dal canto loro, i ribelli yemeniti Houthi continueranno ad attaccare Israele fino a quando non ci sarà una tregua a Gaza. Il leader del gruppo yemenita Ansar Allah (Houthi), Muhammad Ali Al-Houthi, ha dichiarato: “Gli attacchi del nemico israelo-americano contro obiettivi civili sono crimini di guerra terroristici”. Commentando i raid aerei israeliani della notte al-Houthi ha aggiunto che i crimini “terroristici” di Israele e dell’America non dissuaderanno lo Yemen dall’adempiere al proprio dovere di sostenere Gaza. Il membro dell’Ufficio Politico del Movimento Ansar Allah (Houthi), Muhammad Al-Bukhaiti, ha affermato invece che il “bombardamento delle strutture civili nello Yemen rivela la verità dell’ipocrisia dell’Occidente”. Al-Bukhaiti ha aggiunto, in un tweet sul sito X, che le “nostre operazioni militari a sostegno di Gaza continueranno e che incontreremo un’escalation con un’escalation finché i crimini di genocidio a Gaza non saranno fermati e cibo, medicine e carburante non potranno entrare nel territorio della Striscia”.
Al momento non si registrano reazioni da parte del governo legittimo yemenita. Una fonte dell’esecutivo contatta ad Aden da “Formiche” ha spiegato però di ritenere sempre sbagliati questo tipo di azioni che colpisce anche i civili yemeniti. In particolare ci si chiede come mai “Israele applichi una tattica diversa in Yemen rispetto a quanto fatto con Hamas a Gaza o con Hezbollah in Libano e Siria. In Yemen invece di colpire con raid mirati i vertici degli Houthi, Israele colpisce le infrastrutture civili oltre che militari mettendo in ginocchio la già fragile situazione del Paese”.

(Formiche.net, 19 dicembre 2024)

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Arriva “Lasso”, il nuovo software dell’IDF

di Olga Flori

L’ultima invenzione tecnologica israeliana è un software militare creato dall’IDF, chiamato “Lasso”. Progettato per supportare l’esercito nel monitoraggio in tempo reale delle operazioni, questo programma consentirà all’IDF anche di analizzare le azioni sul campo e le tattiche nemiche, ottimizzando le strategie attraverso l’apprendimento dalle azioni militari precedenti. Il software è stato pensato soprattutto come uno strumento in più per aiutare i comandanti ad imparare dall’esperienza accumulata.
Lasso raccoglie i dati trasmessi dalle reti militari, monitorando in particolare i movimenti delle truppe e il rilevamento delle forze nemiche. Il software ha integrato piattaforme già esistenti e in uso presso l’IDF, come Digital Ground Army, che consente di localizzare le posizioni dei nemici e di tracciare in tempo reale, su una mappa, la dislocazione dei soldati israeliani.
Il Capitano Bar Donald, product manager della divisione tecnologica dell’IDF, ha dichiarato al Jerusalem Post che “gli sviluppatori non comprendono sempre le sfide operative. Raccogliamo feedback dai soldati per individuare i loro bisogni, perfezionare le funzionalità ed aggiornare il sistema”. Secondo Donald, l’obiettivo è garantire all’IDF di mantenere uno stato di apprendimento continuo: Lasso, analizzando le operazioni dell’IDF e le tattiche nemiche, potrà contribuire ad un costante miglioramento delle capacità operative dei militari dello Stato ebraico.

(Bet Magazine Mosaico, 19 dicembre 2024)

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La Svizzera vota per mettere al bando Hezbollah

di Ludovica Iacovacci

La Svizzera mette al bando Hezbollah. Martedì 17 dicembre il parlamento elvetico ha votato per vietare l’organizzazione terroristica libanese, segnando una rara mossa da parte di un Paese neutrale che tradizionalmente segue una politica di promozione del dialogo e della mediazione internazionale. Hezbollah è considerata una minaccia troppo pericolosa per lasciare indifferente perfino la Svizzera.
La misura è stata approvata dalla Camera bassa dopo aver ricevuto il consenso della Camera alta la scorsa settimana. I sostenitori del divieto hanno affermato che l’organizzazione terroristica libanese rappresenta una minaccia per la sicurezza internazionale e che la Svizzera deve proibirla per prendere posizione contro il terrorismo.
Il governo svizzero si è opposto al divieto dopo che il Consiglio federale ha dichiarato che il gruppo terroristico non poteva essere messo al bando poiché la legge vigente richiede sanzioni o un divieto da parte delle Nazioni Unite affinché tale misura possa essere applicata.
Il ministro della Giustizia Beat Jans, durante il dibattito parlamentare, ha affermato: “Se ora la Svizzera si muove per vietare tali organizzazioni con leggi speciali, dobbiamo chiederci dove e come vengono tracciati i confini” ma non ha convinto la maggioranza. La messa al bando è stata approvata dalla Camera bassa con 126 voti a favore, 20 contrari e 41 astensioni.
 Il comitato per la politica di sicurezza, che ha proposto la misura, ha sostenuto che il ruolo di mediazione della Svizzera rimarrà intatto grazie a una disposizione specifica sui colloqui di pace e sugli aiuti umanitari.
La scorsa settimana, il parlamento svizzero ha dichiarato fuorilegge Hamas a causa dell’attacco terroristico del gruppo terroristico palestinese del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele, in cui sono state uccise circa 1.200 persone, per lo più civili, e 251 sono state prese in ostaggio. Il governo, che ha redatto il disegno di legge per mettere al bando Hamas, ha affermato di averlo fatto in linea con la pratica di proscrivere le organizzazioni caso per caso solo “per ragioni estremamente serie”.
Il giorno dopo il massacro del 7 ottobre perpetrato dai terroristi di Hamas, Hezbollah ha iniziato a lanciare attacchi transfrontalieri contro Israele dal Libano. L’organizzazione terroristica libanese ha scagliato razzi e droni contro comunità di confine e avamposti militari, costringendo circa 60.000 israeliani ad abbandonare le loro case nel nord del Paese.
In precedenza la Svizzera aveva messo al bando solo al-Qaeda e lo Stato islamico, che figurano nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dalle Nazioni Unite. Negli ultimi anni, anche altri Paesi del mondo hanno inserito Hezbollah nella lista nera. Nel marzo del 2019, il governo britannico ha designato Hezbollah come organizzazione terroristica. Nel novembre del 2020, la Slovenia si è unita alla lista degli Stati non indifferenti. Sempre quell’anno, la Germania ha emesso un ordine federale che metteva fuori legge Hezbollah nel Paese e ha anche adottato misure esecutive ai sensi delle disposizioni dell’ordine. Nel 2021, il Consiglio regionale della Liguria in Italia ha designato Hezbollah nella sua interezza come organizzazione terroristica.

(Bet Magazine Mosaico, 19 dicembre 2024)

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Il governo non riconosce lo Stato di Palestina, per Provenzano (Pd) è un “affronto” mentre Hamas nel futuro di Gaza non lo è…

di Iuri Maria Prado

È giusto che il governo italiano sia chiamato a rendere conto del proprio atteggiamento rispetto alla guerra di Gaza, vale a dire la guerra scatenata delle migliaia di miliziani e civili palestinesi che, il 7 ottobre dell’anno scorso, hanno sterminato 1200 israeliani e ne hanno rapiti altri duecentocinquanta, parte dei quali giustiziati un po’ alla volta e gli altri – non si sa quanti ancora in vita – tenuti per quattordici mesi nei tunnel costruiti con i soldi della cooperazione internazionale. Dunque anche i soldi dei cittadini italiani.
  Ma in politica internazionale la “faccia” dell’Italia non coincide esclusivamente con quella del governo: giusto come il profilo statunitense nel mondo non è solo quello di Joe Biden, secondo cui i responsabili di Hamas pagheranno per i loro crimini, ma anche quello del senatore Bernie Sanders che fa propria la propaganda palestinese sull’uso della fame come strumento di guerra; giusto come il Regno Unito non si mostra all’opinione pubblica internazionale solo con gli esercizi equilibristici del primo ministro Keir Starmer, ma anche con la retorica antisemita di Jeremy Corbyn che chiama “amici” i macellai di Hezbollah; giusto come la Francia non è solo i tira e molla dell’abile presidente Macron, ma anche la postura indecente di Jean-Luc Mélenchon, orgoglioso di condividere il palco dei comizi con la filo-terrorista Rima Hassan, quella degli israeliani che addestrano i cani allo stupro dei palestinesi. Insomma – e potremmo continuare con gli esempi – nelle questioni di politica estera è il Paese tutto, non il governo soltanto, a dover rendere conto di sé stesso in faccia al mondo.

• PROVENZANO E “L’AFFRONTO”
  Ora, l’opposizione del nostro Paese fa benissimo a incalzare il governo sui punti critici per cui si segnalerebbe l’azione esecutiva italiana, ma non si sa quanto essa sia consapevole di dover a propria volta rendere conto del proprio operato: che non è necessariamente buono solo perché opposto a un andazzo di maggioranza in ipotesi cattivo. L’altro giorno, alla Camera, in occasione delle comunicazioni della presidente del Consiglio in vista del prossimo Consiglio europeo, l’Onorevole Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Partito Democratico, ha addebitato alla maggioranza di governo di essersi resa responsabile di un “affronto” nei confronti dell’Autorità Palestinese per non aver riconosciuto il cosiddetto Stato di Palestina. Ancora, Provenzano ha rinfacciato al governo non si sa bene quale irriguardoso atteggiamento nei confronti della Corte Penale Internazionale, sollecitata da un discusso prosecutor a emettere i noti ordini di arresto nei confronti di Bibi Netanyahu e dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant.
  Nei pressi di Montecitorio e nelle trattorie della stupenda campagna romana la cosa non risuona in nessun modo, ma altrove – cioè appunto dove queste faccende hanno un peso – una mozione come quella del Partito Democratico, che chiedeva il riconoscimento dello Stato di Palestina senza neppure un accenno all’esigenza prioritaria, e cioè al fatto che i macellai di Hamas non potessero neppure pensare di poter far parte di un qualsiasi futuro di Gaza, ecco, diciamo che presso alcuni una mozione come quella suonava assai male. Suonava anche peggio quando – assicurando “pieno sostegno al segretario generale dell’Onu a fronte di pericolosi tentativi di delegittimazione” – si lasciava andare al vellicamento delle trippe del signore, Antonio Guterres, capace di spiegare che il 7 ottobre non viene dal nulla e dotato del coraggio di chiamare “colleghi” gli assassini dell’Unrwa embedded in Hamas.
  Queste cose contano – these things matter – oltre i confini del Grande Raccordo Anulare. Così come conta porsi quale soggetto politico che in relazione neppure a una sentenza, ma a un ordine di arresto, pretende che l’Italia si esibisca nel girotondo all’Aia agitando le manette da applicare al duo genocida. Fa fatica di suo a essere una cosa seria, quel presunto processo: se diventa la Mani Pulite dal fiume al mare, coi parlamenti che chiedono ai giudici di farli sognare, non onoriamo il diritto ma ciò che ne è cupo e plebeo simulacro. Dio solo sa quanto l’Italia potrebbe fare meglio, sulla guerra di Gaza. C’è caso che sia istigata a fare peggio.

(Il Riformista, 19 dicembre 2024)

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Al Jolani: no ad attacchi dal nostro territorio

La Siria «non verrà utilizzata» come base per attacchi contro Israele o qualsiasi altro stato. Lo ha promesso Abu Mohammad al Jolani, il capo della coalizione islamista che ha preso il potere a Damasco, in un’intervista al britannico Times. Allo stesso tempo il leader siriano ha sottolineato che Gerusalemme deve porre fine agli attacchi aerei in Siria e ritirarsi dal territorio occupato nel Golan siriano dopo la caduta di Bashar al-Assad. «La giustificazione di Israele era la presenza di Hezbollah e delle milizie iraniane, e quella giustificazione è venuta meno», ha sostenuto al Jolani.
  Nell’intervista il leader ha spiegato di non volere «conflitti con Israele o con altre nazioni» e ribadito il concetto che la Siria ora non ha bisogno di guerre, ma di pace».
  Guardando al futuro della Siria, il leader sunnita ha posto l’accento sulla necessità di ricostruire il paese: «La priorità ora deve essere la costruzione di uno stato forte e la creazione di istituzioni pubbliche al servizio di tutti i siriani». Ha inoltre rivelato che potrebbe candidarsi alla presidenza, a condizione di ricevere un sostegno sufficiente. Alla comunità internazionale al Jolani chiede intanto di rimuovere le sanzioni imposte alla Siria per colpire Bashar Assad, ormai fuggito in Russia. Per l’Ue risponde l’alto rappresentante agli Esteri, Kaja Kallas. Dobbiamo «iniziare a riflettere su una possibile revisione del nostro regime di sanzioni, al fine di sostenere il percorso della Siria verso la ripresa mantenendo al contempo la nostra influenza», ha affermato Kallas.
  Secondo l’esperta israeliana di Siria Carmit Valensi, anche Israele dovrebbe valutare possibili aiuti a Damasco e cercare di dialogare con attori ritenuti affidabili. L’esempio sono le forze ribelli dispiegate nell’area vicino al confine con lo stato ebraico. «Si tratta dell’Esercito siriano libero e delle forze druse, che hanno avuto un atteggiamento positivo nei confronti di Israele in passato e con cui ci sono già state collaborazioni», scrive l’analista sul sito dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv. Per Valensi Gerusalemme potrebbe dare l’ok a una missione simile a quella portata avanti tra il 2016 e il 2018, intitolata “Buon vicinato”. All’epoca furono forniti aiuti medici e cibo ai siriani durante la guerra civile. «I meccanismi necessari a mettere in piedi l’operazione e alcuni dei contatti chiave sono ancora disponibili, il che significa che Israele non dovrebbe partire da zero». Oltre a impegnarsi con i vari attori in Siria, Israele, ribadisce Valensi, «dovrebbe mantenere una presenza militare deterrente lungo il confine e continuare a impegnarsi per bloccare la presenza iraniana nell’area». Azioni già intraprese da Tsahal in queste settimane.

(moked, 18 dicembre 2024)

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Chi sarà il prossimo a cadere?

La rivoluzione in Siria si ripercuote sul Medio Oriente, in particolare sul Libano, sulla Giordania e sull'Autorità Palestinese nel cuore biblico della Giudea e della Samaria. Anche l'Egitto è preoccupato - un effetto domino che preoccupa Israele.

di Aviel Schneider

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Un combattente dell'opposizione calpesta la statua decapitata di Hafez al-Assad all'aeroporto militare di Damasco, il 12 dicembre 2024

GERUSALEMME - La caduta del regime siriano di Assad e la sconfitta dei suoi alleati sciiti, Hezbollah e Iran, rappresentano senza dubbio un successo significativo per Israele. Tuttavia, se questo dovesse portare a ulteriori rivoluzioni negli Stati arabi vicini, si tratterebbe di uno scenario deleterio per Israele. In Medio Oriente, tali circostanze vengono sfruttate rapidamente. Non esiste un vuoto di potere e non appena un regime cade nel mondo arabo, l'effetto si diffonde spesso ad altri governi. Uno sguardo al passato lo dimostra: La Primavera araba del 2011 è iniziata in Tunisia e si è diffusa in altri Stati arabi. Ha portato alla caduta di diversi governanti, tra cui il presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali, il presidente egiziano Hosni Mubarak e il governatore libico Muammar Gheddafi. Come persona che segue molti canali sunniti e sciiti su Telegram, so che i gruppi terroristici in Medio Oriente stanno già sognando una nuova ondata di rivoluzione.
La più grande preoccupazione di Israele al momento è la stabilità della Giordania. Non è un caso che il capo del servizio di sicurezza israeliano Shin Bet, Ronen Bar, e il capo del servizio di intelligence militare Aman, il maggior generale Schlomi Binder, abbiano visitato la Giordania la scorsa settimana. La questione è stata discussa anche l'altro ieri in una riunione speciale del Gabinetto del Comando centrale. Secondo gli esperti di sicurezza israeliani, la Giordania osserva con grande preoccupazione gli sviluppi nel sud della Siria. L'esercito giordano ha aumentato il livello di allerta al confine con la Siria per timore che civili siriani o gruppi jihadisti possano tentare di infiltrarsi nel Paese. L'ampio smantellamento di Hezbollah ha innescato un drammatico effetto domino che sta ispirando gruppi terroristici armati anche nei territori biblici di Giudea e Samaria - uno sviluppo che ricorda le dinamiche della Primavera araba.
In risposta all'attacco dei ribelli sunniti di quindici giorni fa, la Giordania ha chiuso il valico di frontiera di Jaber. Questo confina con il valico siriano di Nassib, controllato dai ribelli jihadisti. Rapporti sui canali Telegram siriani e giordani descrivono condizioni caotiche al confine tra Siria e Giordania, soprattutto nei pressi della città di Daraa, epicentro delle proteste del 2011 che hanno dato inizio alla guerra civile siriana.

• DI COSA HANNO PAURA GIORDANIA E ISRAELE?
  Un nuovo regime jihadista sunnita in Siria potrebbe allearsi con i Fratelli Musulmani in Giordania e mettere in pericolo il regno hashemita di re Abdullah. Nonostante la relativa stabilità del regno, c'è qualcosa che ribolle sotto la superficie: la maggioranza palestinese e i gruppi islamisti ostili a Israele potrebbero vedere gli sviluppi in Siria come un modello e tentare di provocare un cambiamento di regime anche in Giordania. Un crollo della Giordania avrebbe un impatto diretto sui 300 chilometri di confine orientale di Israele, una sfida immensa per la sicurezza.
I gruppi terroristici sunniti sono profondamente coinvolti nel contrabbando di armi e della droga Captagon dalle regioni siriane di Daraa e As-Suwayda verso la Giordania. L'esercito giordano sta conducendo da anni una feroce battaglia contro questi contrabbandieri. Re Abdullah teme che i gruppi di contrabbandieri, insieme ai Fratelli Musulmani radicali, possano mettere la popolazione palestinese contro di lui.
“Il regime giordano è fondamentalmente diverso da quello siriano. È liberale e gode di legittimità nel Paese. In Giordania non ci sono prigioni segrete come la famigerata prigione di Sednaya in Siria”, spiega a Jediot Achronot il professor Ronen Yitzchak, responsabile degli studi sul Medio Oriente presso il Collegio accademico della Galilea occidentale. Il sistema giordano si basa piuttosto su una politica di inclusione.
Parallelamente alle tensioni sul confine giordano-siriano, la scorsa settimana l'Autorità palestinese (AP), in coordinamento con l'esercito israeliano e lo Shin Bet, ha lanciato un'operazione militare su larga scala contro i gruppi terroristici nei campi profughi della Samaria settentrionale. L'operazione, denominata “Difesa della Patria”, segna un cambiamento di strategia: per la prima volta, le forze di sicurezza palestinesi entrano nei campi profughi di Jenin e Tulkarem per arrestare i terroristi. Due terroristi armati sono stati uccisi durante un'operazione a Jenin, cosa che ha fatto infuriare parte della popolazione palestinese ma ha anche sottolineato la forza di Israele nella regione.
Il leader palestinese Mahmoud Abbas, che in precedenza aveva esitato ad agire in prima persona contro il terrorismo nei campi profughi, si trova sempre più sotto pressione. La sua posizione esitante ha favorito la creazione di nuove strutture terroristiche da parte di Hamas e della Jihad islamica, sostenute da risorse iraniane. Israele sta ora sollecitando Abbas a riprendere il controllo dei territori, anche per evitare un potenziale effetto domino come in Siria. Tuttavia, le autorità di sicurezza israeliane si stanno preparando a intervenire militarmente se il controllo dell'Autorità palestinese a Ramallah dovesse vacillare. Ambienti governativi di alto livello sottolineano che Israele non permetterà ad Hamas di prendere il controllo dei territori palestinesi, come è successo nella Striscia di Gaza nel 2007.
Anche l'Egitto potrebbe essere interessato dagli sviluppi: una vittoria dei jihadisti sunniti sul regime sciita di Assad potrebbe essere percepita come un trionfo ideologico e scatenare una nuova ondata di terrore. I Fratelli Musulmani in Egitto potrebbero trarne ispirazione per riprendere la loro lotta. Gruppi radicali come Wilayat Sinai potrebbero riprendere forza, mentre le tensioni sociali ed economiche potrebbero destabilizzare ulteriormente il regime di Al-Sisi.
Israele deve monitorare attentamente l'impatto del cambio di potere in Siria sull'intera regione. Se il successo dei jihadisti sunniti dovesse alimentare le loro ambizioni, potrebbero essere presi di mira la Giordania, l'Egitto e persino aree della Giudea e della Samaria. Israele ha il compito urgente di prepararsi a questi sviluppi.

(Israel Heute, 18 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Il nostro è un luogo di ritrovo dove la gente si sente ispirata”

Cafe Otef, la catena di food store dei sopravvissuti al 7 ottobre, si espande in Israele

di Pietro Baragiola

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Fondata dall’imprenditore culinario Tamir Barelko, Cafe Otef è una catena di food store israeliani lanciata da e per i sopravvissuti del 7 ottobre.
Il nome “Otef” (“busta” in italiano) si riferisce alla regione di Israele al confine con Gaza che è stata colpita duramente dai terroristi di Hamas.
La catena è gestita interamente da sfollati provenienti dalle comunità del sud del Paese e offre un’ampia gamma di prodotti provenienti proprio da quelle aree: formaggi di Be’eri, miele del kibbutz Erez, marmellate, creme, muesli e torte, oltre a numerosi articoli di marca come magliette e grembiuli.
La prima filiale è stata aperta agli inizi del 2024 nel quartiere Sarona a Tel Aviv e il suo personale era composto da residenti di Netiv HaAsara.
Presto, però il locale ha avuto un così grande successo da permettere l’apertura di una seconda filiale, oggi situata nel quartiere di tendenza Florentin e gestita dall’israeliana Reut Karp.

• REUT E DVIR KARP

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Ritratto di Dvir, ucciso il 7 ottobre al kibbutz Re'im

FOTO 2
Il poster con i messaggi inviati il 7 ottobre dagli abitanti del sud

Jewish Telegraphic Agency, Reut ha raccontato che ‘quando tutti pensavano di morire per la pandemia’ aveva esortato il marito Dvir, chocolatier, a scrivere le sue ricette e, nonostante l’iniziale resistenza, alla fine lui ha acconsentito.
Durante la strage del 7 ottobre, Dvir è stato ucciso nel kibbutz Re’im davanti ai loro figli, all’epoca di 10 e 8 anni, e Reut ha sentito subito la profonda responsabilità di preservare il ricordo del marito in ogni modo possibile.
Oggi i cioccolatini preparati con le ricette di Dvir sono il pezzo forte della sua filiale del Cafe Otef e Reut è convinta che suo marito sarebbe fiero di lei.
“Probabilmente direbbe solo che ho esagerato” ha affermato la proprietaria del locale, spiegando di aver creato un nuovo logo per i cioccolatini ispirandosi al rinomato brand Cartier. “Negli ultimi sei mesi ho detto tante volte ‘grazie’ a Dio per questo locale che mi spinge ad alzarmi dal letto e a dare un senso alle mie giornate. È bello sapere che anche i miei collaboratori la pensano come me”.
Il locale è diventato presto un luogo di ritrovo per tutti coloro che sono stati direttamente colpiti dagli eventi del 7 ottobre: che siano sopravvissuti al Nova Music Festival, genitori in lutto o molti altri, Cafe Otef offre loro uno spazio per raccontare le proprie storie e affrontarle insieme.
“Vogliono sentire un senso di connessione” ha affermato Reut, la cui filiale è stata battezzata Cafe Otef-Re’im per rendere omaggio al proprio kibbutz dove 80 terroristi hanno ucciso sette residenti (tra cui Dvir) e ne hanno rapiti altri QUATTRO.

• IL CAFE OTEF-RE’IM
  Posizionato nell’area centrale di Tel Aviv, Cafe Otef-Re’im è diventato un punto d’incontro naturale per gli sfollati provenienti dal nord e sud di Israele, che hanno creato tra loro un senso di cameratismo all’interno del locale.
Reut nel corso della sua intervista ha raccontato di come una donna del kibbutz Manara, oggi ritenuto ‘una Chernobyl israeliana’ per la quantità di frammenti di razzi e detriti sparsi a terra, si sia recata nel suo store qualche settimana fa solo per abbracciarla.
“Quel contatto è stato come un caricatore umano per me” ha affermato Reut. “Ho capito che avevo fatto la scelta giusta nel prendere in gestione questo posto.”
L’anemone coronaria, il fiore nazionale israeliano onnipresente nella regione di Re’im, è ovunque anche nel locale di Reut: ricamato sulle uniformi del personale, stampato sulle tazze da asporto ed esposto sugli oggetti in ceramica in vendita.
Sulla parete principale è appeso un poster creato da Adi Drimer, un insegnante d’arte di Re’im che ha raccolto insieme i messaggi disperati inviati nel gruppo WhatsApp del kibbutz durante la strage del 7 ottobre.
Tra i frammenti di testo presenti c’è anche un messaggio di Reut in cui implorava gli altri membri del kibbutz di salvare i suoi figli: “Urgente! Urgente! Daria e Levi sono soli. Mio marito Dvir è stato ucciso.”
“È importante ricordare che non è nostra intenzione far sprofondare gli ospiti nel nostro dolore” ha spiegato Reut alla Jewish Telegraphic Agency. “Questo è innanzitutto un luogo di ritrovo, quando la gente ci vede andare avanti, si sente ispirata.”
Tra i dipendenti di Reut c’è anche il 20enne Ziv Hai, che si è trasferito a Tel Aviv dopo che ha dovuto abbandonare il suo kibbutz al confine con l’Egitto.
“Mi sento come se avessi lasciato un pezzo di me stesso a Sufa e qui a Tel Aviv sto cercando di ricostruirmi. Il locale mi dà un posto dove posso sentirmi a mio agio. Posso raccontare una barzelletta scurrile e tutti qui – perché anche loro vengono dal sud – la capiscono” ha raccontato Hai alla Jewish Telegraphic Agency.
Oggi circa 100 dei 450 residenti di Re’im sono tornati a casa, tra cui molti dipendenti di Reut, ma non tutti sono lieti di questa notizia.
“Molti nostri clienti hanno sentimenti contrastanti sulla nostra partenza. Da un lato sono felici che torniamo a casa, ma dall’altro vogliono che restiamo perché la nostra presenza qui ha dato un volto al 7 ottobre” ha spiegato la proprietaria del locale, fiera dell’impatto che sta portando con il suo lavoro.
Oggi il fondatore di Cafe Otef, Barelko, ha grandi progetti per espandere sempre più i suoi store in Israele e, già nelle prossime settimane, aprirà due nuove filiali: Cafe Otef-Sderot e Cafe Otef-Kiryat Shmona.
L’obiettivo è quello di introdurre l’utilizzo di food truck in varie località del Paese e coinvolgere il più possibile i numerosi soldati rimasti invalidi a causa del conflitto in Medio Oriente, per aiutarli a reintegrarsi nelle loro comunità.

(Bet Magazine Mosaico, 18 dicembre 2024)

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La Columbia University assegna un corso sul sionismo al professore che ha lodato il 7 ottobre

“La Columbia ha perso non solo la sua bussola morale, ma anche quella intellettuale”, dice un professore dimissionario

La Columbia University sta affrontando una nuova controversia dopo aver assegnato un corso sullo “sviluppo del sionismo” a Joseph Massad, un accademico giordano che il 7 ottobre ha approvato pubblicamente le azioni di Hamas. La decisione ha provocato scosse nella comunità accademica e non solo.
In un articolo pubblicato sul sito web “Electronic Intifada” il giorno successivo agli attacchi, Massad ha definito “straordinarie” le azioni di Hamas, descrivendo con ammirazione “i combattenti della resistenza palestinese che assaltano le barriere israeliane”. Ha anche descritto gli israeliani come “occupanti brutali”.
La polemica ha già avuto ripercussioni concrete. Il professor Lawrence Rosenblatt, specialista in relazioni internazionali, si è dimesso dal suo incarico per protesta. Nella sua lettera di dimissioni, ha dichiarato che “la Columbia ha perso non solo la sua bussola morale, ma anche la sua bussola intellettuale”, sottolineando l'incompatibilità tra la missione educativa dell'università e l’attribuzione di un corso a qualcuno “che sostiene lo sterminio di un popolo”.
Le critiche vanno oltre l'università. Il rappresentante democratico Richie Torres ha messo pubblicamente in dubbio la pertinenza dei finanziamenti pubblici per un insegnamento che, a suo dire, “glorifica l'uccisione, lo stupro e il rapimento di ebrei e israeliani”. Il movimento StopAntisemitism ha ironizzato sulla situazione chiedendo se “Kim Jong-un avrebbe tenuto un corso sulla democrazia”.
Questa polemica si inserisce in un contesto più ampio di tensione nei campus americani, dove la Columbia è già stata teatro di numerosi incidenti antisemiti dopo il 7 ottobre.

(i24, 18 dicembre 2024)

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Rinvenute prove di riti di culto risalenti a 35.000 anni fa

Una roccia con guscio di tartaruga nella Grotta di Manot testimonia le riunioni religiose. Probabilmente esistevano già nelle culture preistoriche.

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I numeri indicano grandi gruppi di stalagmiti nella grotta.

MANOT - I ricercatori hanno trovato prove di incontri religiosi risalenti a 35.000 anni fa in un sito archeologico nella Grotta di Manot, nella Galilea settentrionale di Israele. Si tratta del primo ritrovamento di questo tipo nel Levante e di uno dei primi a livello mondiale. Lo ha riferito la scorsa settimana la rivista scientifica PNAS nell'articolo “Early human collective practices and symbolism in the early Upper Palaeolithic of Southwest Asia”. Gli autori sono gli scienziati Omry Barsilai, Ofer Marder, José-Miguel Tejero e Israel Herschkovitz.
Una roccia con incisioni geometriche che ricordano il guscio di una tartaruga costituisce il fulcro del ritrovamento. È stata “deliberatamente collocata in una nicchia nella parte più profonda e buia della grotta”, ha spiegato Barsilai. “Il disegno del guscio di tartaruga indica che potrebbe trattarsi di un totem o di una figura mitologica o spirituale”.
L'archeologo ha aggiunto che la particolare posizione della roccia depone a favore di un oggetto di culto: è lontana dall'ingresso della grotta, dove si svolgeva la vita quotidiana.
Altri elementi nella grotta testimoniano attività come la preghiera, il canto e la danza: l'acustica naturale della grotta serviva alla comunità. Resti di cenere nell'area intorno alla roccia del guscio di tartaruga indicano l'uso del fuoco per l'illuminazione.

• UNA MIGLIORE COMPRENSIONE DELLE POPOLAZIONI PREISTORICHE
   La scoperta “arricchisce la nostra comprensione delle popolazioni preistoriche, del loro mondo simbolico e della natura dei rituali di culto che univano le antiche comunità”, afferma il quotidiano online “Times of Israel”. Si tratta di una “svolta nella nostra comprensione della società umana, che rivela il ruolo centrale dei rituali e dei simboli nella formazione dell'identità collettiva e nel rafforzamento dei legami sociali”.
I ricercatori dell'Autorità israeliana per le antichità e dell'Università Ben-Gurion di Be'er Sheva hanno scoperto la Grotta di Manot nel 2008, considerata una testimonianza di culture preistoriche.

(Israelnetz, 18 dicembre 2024)

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Le pressioni di Trump e i progressi nei negoziati per il rilascio degli ostaggi

Attesa una svolta per Chanukkah

di Luca Spizzichino 

Il Presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato lunedì di essere attivamente impegnato per garantire il rilascio degli ostaggi ancora detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza. “Stiamo cercando di aiutare con grande impegno per riportare a casa gli ostaggi”, ha detto Trump durante una conferenza stampa al suo resort Mar-a-Lago a Palm Beach, Florida.
  Trump ha confermato inoltre di aver avuto una “chiamata di aggiornamento” con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante il fine settimana, senza però entrare nei dettagli. “Abbiamo avuto una conversazione molto positiva, abbiamo discusso di ciò che accadrà e sarò pienamente disponibile dal 20 gennaio. Vedremo” ha dichiarato. Il Presidente eletto ha aggiunto che, se gli ostaggi non saranno rilasciati entro il giorno del suo insediamento, “scoppierà l’inferno”.
  Secondo fonti israeliane e arabe citate dal Times of Israel, i negoziati mediati dal Qatar e dall’Egitto avrebbero registrato significativi progressi negli ultimi giorni, anche se restano ostacoli da superare. L’obiettivo è garantire il rilascio iniziale degli ostaggi più vulnerabili, tra cui donne, anziani e malati, in cambio di un cessate il fuoco di sei settimane.
  Netanyahu, in un comunicato ufficiale, ha ribadito il suo impegno a “massimizzare il numero di ostaggi vivi che verranno liberati in qualsiasi possibile quadro di accordo”. Il premier israeliano lunedì ha incontrato Adam Boehler, inviato speciale per gli affari legati agli ostaggi nominato da Trump, insieme ad alti funzionari israeliani. Il Ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha dichiarato che Israele è “più vicino a un accordo per il rilascio degli ostaggi rispetto all’ultima volta”. Durante una riunione della Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, Katz ha sottolineato che Hamas ha mostrato una nuova flessibilità. “È una questione morale e la missione più importante che abbiamo davanti,” ha affermato.
  Il Segretario di Stato Antony Blinken ha chiesto alla Turchia di esercitare pressioni su Hamas per accettare un accordo. Il portavoce Matthew Miller ha sottolineato che le discussioni sono vicine a una conclusione, ma ha avvertito che negoziati simili in passato sono falliti all’ultimo momento. Trump ha inoltre inviato i suoi inviati Steve Witkoff e Massad Boulos nella regione per incontri con i leader di Arabia Saudita e Qatar. Parallelamente, una delegazione israeliana è attualmente a Doha per proseguire i negoziati.
  Il principale ostacolo resta la durata del cessate il fuoco. Israele insiste per avere il diritto di riprendere le operazioni militari dopo la prima fase dell’accordo, mentre Hamas richiede un ritiro definitivo delle forze israeliane. Secondo i negoziatori, l’accordo potrebbe essere concluso entro Chanukkah, ma l’attuazione richiederebbe un periodo più lungo. Le famiglie degli ostaggi hanno espresso speranza e preoccupazione durante una manifestazione presso il parlamento israeliano. Hadassah Lazar, sorella di Shlomo Mansour, prigioniero a Gaza, ha dichiarato: “Spero e credo che ci sarà un miracolo di Chanukkah. Esigiamo che tutti gli ostaggi tornino insieme in un unico accordo, senza lasciare nessuno indietro”.

(Shalom, 17 dicembre 2024)

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"Se vincessero i nemici il prossimo bersaglio sarebbe l’Occidente"

Intervista a Jonathan Peled, nuovo Ambasciatore di Israele in Italia

di Maurizio Caprara

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L'ambasciatore Jonathan Peled

«Sulle prospettive per il Medio Oriente sono prudentemente ottimista. Sulle relazioni tra Israele e Italia assolutamente ottimista», dice il nuovo ambasciatore dello Stato ebraico a Roma. Jonathan Peled, 63 anni, è stato mandato a rappresentare il Paese governato dal conservatore Benjamin Netanyahu dopo aver ricoperto, tra l’altro, la carica di consigliere politico aggiunto di Shimon Peres quando lo statista di formazione laburista era ministro degli Esteri. A differenza del candidato originario per la sede di Roma Benny Kashriel, al quale non è stato dato il gradimento perché molto legato agli insediamenti in Cisgiordania, Peled è un diplomatico di carriera. Già maggiore dell’Aeronautica, abitava in un kibbutz della Galilea a soli 36 chilometri dal Monte Hermon sul cui versante siriano, due domeniche fa, soldati israeliani hanno innalzato una bandiera con la stella di Davide. Peled ha presentato le credenziali al Quirinale il 5 dicembre e questa è la sua prima intervista nel nuovo incarico.

- Lei rappresenta uno Stato alle prese con una guerra a Gaza e una in Libano mentre in una nazione confinante, la Siria, è crollato un regime nemico e ci si interroga su come governeranno i ribelli islamici che ne hanno preso il posto. Per il 2025 cosa ha nella sua agenda uno che fa il suo lavoro?
  «Dobbiamo riportare le relazioni tra Israele e Italia a prima delle stragi compiute da Hamas il 7 ottobre 2023, mentre si era concentrati su nuove tecnologie, spazio, energia, acqua. Apprezziamo molto la posizione avuta dal governo italiano dal 7 ottobre e la forte amicizia tra i rispettivi popoli. Adesso c’è da riprendere un forte flusso di scambi accademici, commerciali, tecnologici, politici. Per fine ottobre 2023 era previsto un incontro da noi tra i due governi. Non fu possibile tenerlo. Speriamo si possa nel 2025».

- La Corte penale internazionale ha chiesto l’arresto di Netanyahu per crimini di guerra. Se il suo primo ministro venisse a Roma lei si aspetta che in Italia sarebbe catturato?
  «Al momento non ci sono inviti sul tavolo. È una domanda ipotetica che andrebbe posta alle autorità italiane».

- Israele il 7 ottobre 2023 è stato attaccato con ferocia, ma nella continuazione della guerra di Gaza la sua immagine è stata percepita negativamente in settori di larga parte dell’Occidente. Per invertire la tendenza suo avviso quali azioni servirebbero?
  «Innanzitutto si dovrebbe distinguere tra il diritto di Israele all’autodifesa, la guerra che il Paese combatte per l’Occidente e anche per l’Italia, e la sua leadership politica. Non è un segreto che la nostra è una democrazia molto autocritica. Parti di Israele criticano il governo, tuttavia nessuno mette in dubbio che Israele stia facendo ciò che deve fare a Gaza e su un totale di sette fronti, dagli attacchi degli Houthi dallo Yemen a quelli di milizie irachene. Questa guerra la stiamo vincendo, però se non la vincessimo il prossimo nemico di chi ci attacca sarebbe l’Occidente».

- Anche se i numeri di vittime forniti da Hamas sono difficili da verificare, a Gaza i palestinesi morti sono tanti.
  «Proviamo rimpianto per ogni morte di innocenti. La popolazione civile non viene colpita intenzionalmente. Facciamo il nostro massimo per ridurre al minimo le vittime civili anche quando questi sono usati come scudi umani. La guerra è tragica e in guerra viene uccisa gente, sebbene incolpevole. Poi ci sono disinformazione, incitamento all’odio. Noi stiamo combattendo una guerra asimmetrica. Nessuna altra democrazia viene aggredita ai suoi confini da soggetti non statali, come Hamas e Hezbollah, che possono nascondersi tra la popolazione, non rispettare nostri valori, norme, prigionieri e civili né obblighi di moderazione o della Convenzione di Ginevra».

- L’Italia ha un migliaio di militari nella Forza di interposizione delle Nazioni Unite in Libano, Unifil. Come potrebbe contribuire al consolidamento del cessate il fuoco o al mantenimento degli accordi di pace in Medio Oriente una volta raggiunti?
  «L’Italia sta ricoprendo un ruolo costruttivo, ne può avere ancora dal “giorno dopo”. Sia come parte di Unifil, sia come membro di un comitato di coordinamento, sia nello sviluppo delle forze armate libanesi».

- E Unifil, che negli ultimi anni ha potuto soltanto misurare l’espansione degli arsenali di Hezbollah, rimarrebbe com’è?
  «Più che la quantità di personale da impiegare, il problema è che cosa deve fare, e questo non spetta a Israele stabilirlo. Certo, dovrebbe cambiare le sue regole di ingaggio e avere compiti più efficaci».

- Ambasciatore, nei canali diplomatici quali spiegazioni ha dato dei colpi sugli italiani partiti da unità israeliane in Libano?
  «Abbiamo reso molto chiaro che si è trattato di incidenti, e non di atti intenzionali. Non dimentichiamo che Hezbollah si nascondeva dietro le postazioni di Unifil».

- Lei prevede che nel 2025 si occuperà di Iran?
  «Dobbiamo essere sicuri che non disponga di armi nucleari e agiremo affinché le sue “guardie rivoluzionarie” vengano sanzionate per gli attacchi all’estero. Unione Europea e Italia, per noi, su questo sono importanti».

(Corriere della Sera, 17 dicembre 2024)

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La Turchia sta per invadere il Kurdistan siriano

Tutto lascia pensare che la Turchia stia per dare il via ad una invasione su larga scala del Kurdistan siriano.

Fonti di alto livello statunitensi affermano che la Turchia e i miliziani suoi alleati stanno accumulando forze lungo il confine con la Siria, suscitando il sospetto che Ankara si stia preparando per un’incursione su larga scala nel territorio detenuto dai curdi siriani sostenuti dagli americani.
Le forze includono combattenti della milizia, commando in uniforme turca e artiglieria in gran numero che si concentrano vicino a Kobani, una città a maggioranza curda in Siria al confine settentrionale con la Turchia. Un’operazione transfrontaliera turca potrebbe essere imminente, ha detto uno dei funzionari statunitensi.
Il rafforzamento, iniziato dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad all’inizio di dicembre, sembra simile alle mosse militari turche in vista dell’invasione del 2019 del nord-est della Siria. “Siamo concentrati su questo aspetto e stiamo facendo pressione per la moderazione”, ha detto un altro funzionario statunitense.
Ilham Ahmed, un funzionario dell’amministrazione civile dei curdi siriani, lunedì ha detto al presidente eletto Donald Trump che un’operazione militare turca sembrava probabile, invitandolo a fare pressione sul presidente turco Recep Tayyip Erdogan affinché non invii truppe oltre il confine.
L’obiettivo della Turchia è quello di “stabilire un controllo de facto sulla nostra terra prima che lei entri in carica, costringendola a impegnarsi con loro come dominatori del nostro territorio”, ha scritto Ahmed a Trump in una lettera visionata dalla stampa. “Se la Turchia procederà con la sua invasione, le conseguenze saranno catastrofiche”.
La minaccia della Turchia ha lasciato le Forze Democratiche Siriane a guida curda, che si uniscono alle truppe statunitensi nel nord-est della Siria per cacciare i resti dello Stato Islamico, in una posizione vulnerabile settimane prima che l’amministrazione Biden lasci il suo incarico. Il Segretario di Stato Antony Blinken si è recato in Turchia la scorsa settimana per discutere del futuro della Siria con Erdogan e ottenere garanzie che Ankara avrebbe ridotto le operazioni contro i combattenti curdi.
Ma secondo un portavoce delle Forze Democratiche Siriane i colloqui per il cessate il fuoco tra i curdi siriani e i ribelli sostenuti dalla Turchia a Kobani, mediati dagli Stati Uniti, sono crollati lunedì senza un accordo. L’SDF sta ora assistendo a “significativi assembramenti militari” a est e a ovest della città, ha detto il portavoce.
“Dall’altra parte del confine, possiamo già vedere le forze turche che si stanno ammassando e i nostri civili vivono nel costante timore di morte e distruzione imminenti”, ha scritto Ahmed a Trump.
L’estromissione del leader siriano Assad da parte dei gruppi ribelli guidati da Hayat Tahrir al-Sham, precedentemente affiliato ad al-Qaeda, ha lasciato il futuro del Paese in uno stato di incertezza e ha dato il via a nuovi combattimenti tra i curdi siriani e i gruppi ribelli sostenuti dalla Turchia.
La caduta di Assad ha portato a un’intensificazione delle operazioni turche contro l’SDF, che Ankara considera un’estensione del vietato Partito dei Lavoratori del Kurdistan.
Lunedì Trump ha insinuato che la Turchia ha orchestrato la conquista della Siria da parte di Hayat Tahrir al-Sham, dicendo ai giornalisti nella sua residenza in Florida che “la Turchia ha fatto una presa di potere non amichevole senza perdere molte vite”.
Ahmed ha avvertito Trump che un’invasione turca provocherebbe lo sfollamento di oltre 200.000 civili curdi nella sola Kobani e di molte comunità cristiane.
Durante il suo primo mandato, Trump ha parzialmente ritirato le truppe statunitensi dal nord-est della Siria, aprendo la strada a un’invasione turca su larga scala che ha ucciso e sfollato centinaia di migliaia di siriani. L’amministrazione Trump ha infine contribuito a mediare un cessate il fuoco in cambio della cessione da parte dei curdi di chilometri di territorio di confine ai turchi.
Anche se Trump subentrerà al presidente Biden solo il 20 gennaio, Ahmed ha esortato il presidente eletto a usare il suo “approccio unico alla diplomazia” per convincere Erdogan a fermare qualsiasi operazione pianificata. Ha fatto riferimento a un precedente incontro con Trump, ricordando che l’allora presidente aveva promesso che “gli Stati Uniti non avrebbero abbandonato i curdi”.
“Crediamo che lei abbia il potere di impedire questa catastrofe. Il Presidente Erdogan l’ha già ascoltata in passato e confidiamo che ascolterà di nuovo il suo appello”, ha scritto Ahmed. “La sua leadership decisiva può fermare questa invasione e preservare la dignità e la sicurezza di coloro che sono stati solidi alleati nella lotta per la pace e la sicurezza”.

(Rights Reporter, 17 dicembre 2024)

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Uno sguardo all'interno dell'Unità 504

Potete immaginare l’interrogatorio di un terrorista?

di David Shishkoff 

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Sorveglianza in una prigione nel sud di Israele ai terroristi di Hamas catturati il 7 ottobre e durante l'operazione dell'IDF a Gaza

GERUSALEMME - Nell'ultima settimana di novembre 2024, il Corpo di Intelligence delle Forze di Difesa Israeliane ha fornito una panoramica su una delle sue unità.
L'Unità 504 del Corpo di Intelligence è responsabile della ricognizione "umana" (in contrapposizione alla ricognizione tecnologica). Uno dei loro compiti è l'interrogatorio dei prigionieri di guerra. Sono stati molto impegnati dal 7 ottobre. Quando le forze israeliane hanno posto fine al massacro, hanno catturato migliaia di terroristi di Gaza. Nei mesi seguenti l'Unità 504 ha interrogato più di 2.500 terroristi, ottenendo decine di migliaia di "informazioni" sulle posizioni nemiche e identificando migliaia di obiettivi per gli attacchi delle forze israeliane.
Molti di questi terroristi avevano informazioni che potevano fare la differenza tra la vita e la morte per i soldati israeliani che penetravano nella zona grigia di Gaza, fatta di tunnel nascosti e trappole esplosive. Le informazioni potevano essere, ad esempio, la posizione di un tunnel, una casa con una trappola esplosiva o il luogo in cui sono conservati i razzi.
Gli inquisitori dell'Unità 504 sono stati chiamati urgentemente in servizio attivo dopo il 7 ottobre per cercare di ottenere queste informazioni cruciali dai terroristi catturati. Gli inquisitori parlano tutti correntemente l'arabo. Molti di loro hanno superato l'età normale per il servizio di riserva nelle Forze di Difesa israeliane e tuttavia sono rimasti volentieri in servizio dopo il 7 ottobre. Gli interrogatori possono durare molte ore e continuare per giorni mentre l'inquisitore guarda il terrorista negli occhi. Gli esperti del 504 paragonano gli interrogatori a una partita di poker in cui nessuna delle due parti sa esattamente quali "carte" (conoscenze) ha in mano l'altra.
Uno degli inquisitori, il Capitano "A", è sposato e padre di sei figli. Dice: "Paragono un interrogatorio a una partita di poker. Due persone siedono lì, ognuna ha delle carte e ognuna cerca di scoprire cosa ha l'altra. Tutti cercano di imbrogliare, di bluffare - e il vostro compito di interrogane  è capire se la persona che avete di fronte sta mentendo o no. Se quello che sta dicendo è vero o no. Più informazioni portate in un interrogatorio, più forti sono le vostre carte e più probabilità avete di avere successo. Se riesco a far capire che il gioco è finito e che solo un idiota continuerebbe a giocare, ho vinto".
"I terroristi della Jihad islamica a Gaza sono stati sottoposti a interrogazione. Uno di loro ha insistito sul fatto di non essere collegato ad alcuna attività militare. A un certo punto gli ho detto: "Se ti dico il nome del tuo comandante diretto, dirai che la partita è finita?". Mi ha guardato e ha detto: "Sì". Gli ho detto il nome del suo comandante diretto, Abdullah. Mi chiese: "Qual è il suo [di Abdullah] cognome?". Gli ho detto il cognome del comandante. Dopo di che, era pronto a "parlare" perché aveva capito che uno degli altri prigionieri era crollato e ci aveva raccontato tutto".
Gli inquisitori delle Forze di Difesa israeliane iniziano a interrogare i terroristi islamici il prima possibile dopo la cattura, con il chiaro scopo di salvare la vita dei soldati che stanno per entrare in quartieri di Gaza minati o con trappole esplosive. A volte le informazioni appena ottenute da un terrorista catturato sono state immediatamente trasmesse alle truppe da combattimento, salvando vite umane e aiutandole a evitare l'ingresso in aree minate o con tunnel nascosti.
Gli esperti della 504 raccontano il fenomeno surreale di interrogare un prigioniero che solo poco tempo prima ha commesso i peggiori e immaginabili omicidi e stupri. Eppure, devono passare dubito alla prioritaria necessità di capire quali altre informazioni questo mostruoso individuo possa avere che domani potrebbero ancora diminuire il pericolo per un soldato delle Forze di Difesa israeliane. Gli esperti della 504 riferiscono che i terroristi ammettono apertamente tutti i crimini commessi, spesso con orgoglio e mai con vero rimorso. Il massimo che esprimono è che sono dispiaciuti che le loro azioni abbiano portato distruzione al loro stesso popolo e imprigionamento a loro stessi. Tuttavia, nessuno di loro si pente delle azioni commesse dicendo che sono moralmente sbagliate.
Alla domanda su come mantenere la distanza emotiva durante un interrogatorio, un inquisitore ha risposto: "Non hai scelta. Se qualcuno si siede con te durante un interrogatorio e dice: 'Ho messo tre ebrei contro il muro e gli ho sparato al cuore uno dopo l'altro', e subito, senza fermarsi, ti chiede: 'Posso avere un bicchiere d'acqua?", allora puoi rispondergli, se serve all'interrogatorio: "Come preferisci l'acqua, fredda o a temperatura ambiente?". Il mio obiettivo è ottenere le informazioni che conosce alla fine della giornata. Se mi lascio trasportare dalle emozioni, non posso raggiungere il mio obiettivo".
Anche durante i mesi necessari per interrogare i terroristi originali del 7 ottobre, nuovi terroristi sono stati catturati e/o si sono arresi.Spesso il tempo è fondamentale quando gli inquisitori cercano la "chiave" per aprire la bocca del prigioniero e ottenere informazioni. Diventa una gara di abilità contro abilità. Gli inquisitori devono essere in grado di distaccarsi dalle emozioni che provano quando sentono un terrorista raccontare con orgoglio le sue imprese omicide. L'investigatore deve pensare con freddezza e creare una sorta di "piattaforma" psicologica sulla quale il terrorista rivela le informazioni che conosce al suo nemico israeliano.
Il ruolo dei soldati combattenti come eroi negli scontri a fuoco diretti era già noto. Ora le Forze di Difesa israeliane hanno dato uno sguardo a un altro tipo di eroe e a un altro aspetto di questa lunga guerra. Gli uomini dell'Unità 504 stanno servendo Israele perché sono disposti a impegnarsi in una conversazione lunga e prolungata e in una lotta psicologica con un nemico vile. La loro disponibilità a esporsi alla cattiveria, settimana dopo settimana, come parte della guerra di intelligence, salva delle vite di soldati israeliani.
Alla domanda sulla differenza tra i terroristi di Hamas e i civili di Gaza, un inquisitore ha risposto che la resistenza violenta a Israele è una parte così radicata della vita a Gaza che si trova in quasi tutte le famiglie, i quartieri e i principali gruppi tribali.
"La si vede [a Gaza] da nord a sud. Tutti sono coinvolti, non se ne vergognano e fa parte della loro vita. Se non è lui, è suo fratello, e se non è suo fratello, è il cugino".
Ai bambini di Gaza viene chiesto di tenere il coltello e macellare la capra durante la festa musulmana del sacrificio. Nella cultura gazana, la morte e l'odio sono trattati in modo molto diverso dalla cultura israeliana.
Un inquisitore ha detto: "Credo che il nostro modo di pensare e il nostro desiderio di vita sia diverso dal loro. Sono cresciuti in modo diverso e allevano i loro figli in modo diverso. L'omicidio non è estraneo a loro, fa parte della loro vita. All'inizio siamo rimasti molto sorpresi dal numero di persone apparentemente "non coinvolte" che sono entrate in territorio israeliano il 7 ottobre. È comprensibile che un terrorista di Hamas, addestrato per anni, invada un Paese nemico. Ma ci sono stati anche civili che sono entrati in gran numero e hanno preso parte ad atti di omicidio e saccheggio. Questo fa pensare a qualcos'altro".
Altri inquisitori hanno espresso un parere leggermente diverso, sottolineando che alcuni civili di Gaza temono Hamas più delle forze israeliane. Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, dove siano tutti i civili innocenti di Gaza che ci si potrebbe aspettare che cambino schieramento se odiano così tanto Hamas.
Alcuni degli inquisitori conoscono molto bene il Corano e usano questa conoscenza per creare un'intesa con i terroristi che conoscono bene il libro sacro musulmano.
Onore all'Unità 504! un altro gruppo di coraggiosi soldati delle Forze di Difesa israeliane.

(Israel Heute, 17 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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In Canada, l’antisemitismo ha raggiunto livelli record

Gli ebrei sono le vittime principali dei crimini d’odio nel paese nord-americano. Un esempio? Gli spari contro la vetrina del ristorante Falafel Yoni a Montréal, dopo che i filopalestinesi avevano chiesto di boicottarlo. Intervista a Ron East, direttore di TheJ.Ca.

di Nathan Greppi

All’inizio di dicembre, durante una conferenza stampa organizzata a Toronto dalla Jewish Medical Association of Ontario (JMAO), il dottor Sam Silver ha raccontato: “Lavoro con studenti di medicina brillanti, compassionevoli e che si impegnano per diventare il futuro del settore sanitario in Canada. Eppure, stanno navigando in un ambiente ostile in cui la loro identità ebraica li rende vittime di odio ed esclusione. Non si può andare avanti così”.
  Questa testimonianza è giunta dopo che un sondaggio commissionato dalla JMAO ha rivelato che in seguito ai massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre 2023, l’80 per cento degli ebrei canadesi che lavorano in ambito medico ha dovuto affrontare l’antisemitismo sul luogo di lavoro. Prima del 7 ottobre, la percentuale di medici ebrei che aveva avuto esperienze di antisemitismo sul lavoro era solo dell’1 per cento.

• LE STATISTICHE
  Più in generale, il Canada ha visto crescere considerevolmente l’antisemitismo dall’inizio della guerra in corso: secondo l’ultimo rapporto annuale, uscito nel maggio 2024, dell’organizzazione ebraica B’nai Brith Canada, in tutto il 2023 si sono registrati 5.791 episodi di antisemitismo nel paese nordamericano, che ospita la quarta più grande comunità ebraica al mondo (398.000 persone nel 2023, dietro solo a Israele, Stati Uniti e Francia). Questi episodi erano più del doppio rispetto ai 2.769 del 2022 e ai 2.799 del 2021. In termini percentuali, l’aumento degli episodi di antisemitismo risultava essere all’incirca del 109 per cento.
  In tale occasione, il principale quotidiano canadese, The Globe and Mail, ha pubblicato un editoriale in cui ha denunciato ciò che stava accadendo dopo il 7 ottobre. Tra i crimini d’odio elencati nell’articolo, figuravano un attacco a un ristorante ebraico di Toronto, colpi di arma da fuoco sparati contro una scuola ebraica di Montréal, un atto di vandalismo contro una libreria Indigo, perché il fondatore della catena è ebreo, e la vandalizzazione di abitazioni private con immagini e scritte antisemite.
  Pur rappresentando appena l’1 per cento di tutta la popolazione canadese, gli ebrei subiscono molte più manifestazioni di ostilità rispetto ad altri gruppi: a Toronto, secondo i dati resi pubblici dalla polizia locale, dopo il 7 ottobre gli ebrei sono stati vittime del 57 per cento dei crimini d’odio. E nel corso di tutto il 2023, gli ebrei hanno subito il 78 per cento di tutti i crimini d’odio su base religiosa avvenuti nella stessa città.
  Le cose non vanno meglio nella regione francofona del Québec: secondo il settimanale francese Le Point, nelle settimane immediatamente successive ai massacri perpetrati da Hamas, 132 crimini d’odio hanno avuto come bersaglio la comunità ebraica di Montréal. Per fare degli esempi, ci sono stati degli spari contro la vetrina di un ristorante di cucina israeliana, il Falafel Yoni. Il ristorante era in un elenco di attività commerciali da boicottare pubblicato dai filopalestinesi.

• UN PAESE CAMBIATO
  «Prima del 7 ottobre, il Canada era un posto dove ebrei, israeliani e sionisti potevano camminare tranquillamente per strada, nei campus e in altri spazi pubblici senza temerne le ripercussioni -, racconta a Bet Magazine Mosaico il giornalista israelo-canadese Ron East, direttore del giornale TheJ.Ca. – Certo, c’erano già delle manifestazioni, ad esempio durante l’Al Quds Day, ma niente che potesse seriamente minacciare la sicurezza della comunità ebraica. Quando è avvenuto il 7 ottobre, sembrava che qualcuno avesse aperto i cancelli e fatto uscire allo scoperto tutti gli antisemiti. Da quel momento, un paese che fino ad allora era stato assai pacifico, dove gli ebrei sentivano di poter crescere i loro figli, è diventato un luogo dove temi per la tua sicurezza quasi ogni giorno».
  A dispetto di questi fatti, non sono mancati casi di ebrei di estrema sinistra filopalestinesi che si sono prestati a fare da “foglia di fico” agli odiatori: a dicembre, un gruppo di manifestanti è entrato nella sede del Parlamento canadese ad Ottawa per chiedere un embargo sulla vendita di armi ed equipaggiamenti militari a Israele. Tra le sigle che hanno preso parte alla manifestazione, figurava l’organizzazione antisraeliana Independent Jewish Voices Canada. Se gli attivisti propal possono arrivare ad entrare in Parlamento, per quelli filoisraeliani spesso le cose possono mettersi male quando si espongono pubblicamente: East racconta che «CJPME (Canadians for Justice and Peace in the Middle East), una lobby filopalestinese molto influente, ha contattato tutti i nostri sponsor e coloro con i quali TheJ.Ca ha accordi pubblicitari, e ha fatto molta pressione su di loro affinché interrompessero le loro pubblicità sul mio giornale. Hanno anche contattato i media che mi intervistavano per cercare di convincerli a smettere di offrirmi uno spazio».
  In taluni casi, dietro le manifestazioni si nascondono finanziamenti di dubbia provenienza: nel gennaio 2024, in seguito a una manifestazione filopalestinese nella città di Victoria, è emerso che una delle ONG che la organizzavano, Plenty Collective, pagava le persone per andare a manifestare, senza tuttavia specificare nel dettaglio da dove arrivassero quei soldi.
  Mondo accademico
  Come nel resto dell’Occidente, questa ondata non ha risparmiato le università, che al contrario si sono rivelate tra i principali incubatori dell’odio: per fare un esempio, a settembre gruppi pro-Palestina hanno fissato delle teste di maiale sui cancelli dell’Università della Columbia Britannica, assieme a uno striscione che recitava “maiali fuori dal campus”, in riferimento ad ebrei e filoisraeliani. E all’inizio di quest’anno, gli stessi collettivi proPal hanno condotto una campagna per espellere dal campus l’organizzazione ebraica Hillel.
  Episodi analoghi si sono verificati anche in altri atenei: a marzo, gli studenti ebrei che frequentavano la Concordia University di Montréal hanno raccontato alla rivista ebraica americana Algemeiner di essere stati costretti a cavarsela da soli quando i loro compagni di classe antisionisti li hanno aggrediti e molestati. Su tutti, spicca un episodio avvenuto il 12 marzo, quando degli studenti ebrei si sono ritrovati intrappolati nella sede Hillel dell’ateneo, mentre membri del gruppo Supporting Palestinian Human Rights (SPHR) sbattevano contro le finestre e le porte. Quando gli agenti di sicurezza del campus sono arrivati sulla scena, si sono rifiutati di punire i delinquenti e hanno accusato gli studenti ebrei di aver istigato l’incidente, solo perché avevano filmato ciò che era accaduto.
  Sempre a Montréal, a inizio dicembre il governo del Québec ha annunciato di aver avviato una indagine su due college dove sono stati denunciati degli episodi di molestie e di istigazione all’odio nei confronti degli studenti ebrei all’interno dei campus. Mentre all’Università del Manitoba, a Winnipeg, a maggio un laureando in medicina ha tenuto un discorso in cui accusava Israele di prendere di mira deliberatamente medici e ospedali a Gaza.
  La situazione che si è venuta a creare è stata denunciata dal medico Lior Bibas, co-fondatore dell’Association des médecins juifs du Québec (AMJQ), che a novembre ha twittato: “Sono un ebreo del Québec e canadese di prima generazione, e guardo la mia città natale, Montréal, precipitare nel caos, con la legge e l’ordine apparentemente abbandonati per placare gli odiosi codardi mascherati”.

(Bet Magazine Mosaico, 17 dicembre 2024)

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Gaza, anche Israele conferma che l’accordo sulla tregua è più vicino

Katz: “Sarà temporaneo, sanno che la guerra non è finita”

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Parlando al Comitato per gli Affari Esteri e la Difesa, il ministro Israel Katz ha confermato che l'intesa è sempre più vicina

Per la prima volta dall’inizio del conflitto a Gaza, tutte le parti sembrano guardare nella stessa direzione, quella di un cessate il fuoco di medio-lungo termine. Il primo passo pubblico è stato compiuto dagli Stati Uniti, con la scarcerazione anticipata di Mofid Abdul Qadir Meshaal, fratellastro del più noto ex leader politico di Hamas, Khaled Meshaal. Il giorno dopo era stata Hamas, tramite un suo funzionario, ad aprire a una tregua “entro il 2024”, sollevando però dubbi sulla disponibilità di Israele. E lunedì è arrivata anche la risposta di Tel Aviv per bocca di una delle figure più radicali del governo Netanyahu, il ministro della Difesa Israel Katz. A porte chiuse, ad alcuni deputati della Knesset l’esponente dell’esecutivo ha assicurato che il governo è più vicino che mai a un accordo per la liberazione degli ostaggi a Gaza.
Quali siano, nello specifico, i termini dell’intesa che appare sempre più imminente non è ancora chiaro. Di sicuro questa prevederà un cessate il fuoco a medio-lungo termine, la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e la contestuale scarcerazione di centinaia di prigionieri palestinesi dai penitenziari israeliani. “Siamo più vicini che mai a raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri”, sempre che il primo ministro israeliano “Netanyahu non ostacoli l’accordo”, ha ribadito un leader di Hamas in anonimato al giornale saudita Asharq News. La fonte ha spiegato che il partito armato palestinese ha presentato una proposta di accordo mostrando una “grande flessibilità” per arrivare a una “fine graduale della guerra e a un ritiro graduale delle forze israeliane in base a una tempistica condivisa e alle garanzie dei mediatori internazionali”.
Da Tel Aviv è arrivata poi la conferma, con le dichiarazioni di Katz, che le contrattazioni hanno imboccato la strada giusta. I commenti del ministro al Comitato per gli Affari Esteri e la Difesa della Knesset sono stati fatti a porte chiuse, ma le sue osservazioni sono state riprese dalla stampa ebraica. “Israele è più vicina che mai a un altro accordo sugli ostaggi”, ha dichiarato sottolineando che meno se ne parla e meglio è. Il ministro prevede che l’intesa sarà sostenuta dalla maggior parte della coalizione e non dovrebbe incontrare ostacoli interni. Katz sembra inoltre indicare che questo non includerà una sospensione a tempo indeterminato delle ostilità, come richiesto da Hamas: “C’è flessibilità dall’altra parte. Hanno capito che non metteremo fine alla guerra”.

(il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2024)

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Perché Israele vuole chiudere la sua ambasciata in Irlanda

Il governo irlandese è uno dei più filopalestinesi in Europa, a quello di Netanyahu questa cosa piace molto poco

Domenica il governo israeliano di destra guidato da Benjamin Netanyahu ha annunciato che intende chiudere l’ambasciata israeliana in Irlanda, a Dublino, per via di alcune posizioni che giudica “anti-israeliane” del governo irlandese, guidato da una coalizione che va dal centrodestra ai Verdi.
È una decisione che non ha precedenti nella storia contemporanea: finora Israele non aveva mai chiuso una propria ambasciata in un paese europeo. In un certo senso però era nell’aria. L’Irlanda è uno dei paesi più filo-palestinesi nell’Unione Europea, e i suoi governi – a prescindere dalla composizione – criticano da tempo le azioni del governo di Netanyahu, come l’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania e più di recente l’invasione della Striscia di Gaza. La decisione di Israele peraltro è arrivata cinque giorni dopo che l’Irlanda aveva annunciato di volersi unire alla causa per genocidio avanzata dal Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia.
Per contro, il governo israeliano sta adottando una politica estera sempre più aggressiva nei confronti dei paesi che percepisce come alleati poco affidabili. Netanyahu critica sempre più duramente i leader stranieri che avanzano dubbi sulla condotta israeliana nell’invasione della Striscia di Gaza e del Libano. Finora però alle sue dichiarazioni non erano seguite implicazioni particolarmente concrete.
I rapporti fra Irlanda e Israele sono sempre stati piuttosto difficili. In Irlanda esiste una simpatia trasversale per la causa palestinese, considerata una campagna anti-coloniale simile a quella che gli irlandesi condussero per secoli contro l’Impero britannico. Nel 1980 l’Irlanda diventò il primo stato dell’allora Comunità Economica Europea (l’antenato dell’Unione Europea) a chiedere la nascita di uno stato indipendente palestinese. Negli anni più recenti la comunità di residenti di religione musulmana si è molto allargata, quasi raddoppiando dal 2011 a oggi.
In un sondaggio realizzato a febbraio è emerso che il 79 per cento degli irlandesi ritiene che Israele stia compiendo un genocidio nella Striscia di Gaza (in Italia, che pure ha percentuali superiori a vari paesi dell’Europa occidentale, lo crede il 49 per cento, secondo un sondaggio di aprile).
Dall’inizio dell’invasione della Striscia di Gaza peraltro il governo irlandese aveva intensificato le sue critiche, ma aveva anche preso alcuni provvedimenti ufficiali.
A maggio aveva formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina insieme a Norvegia e Spagna: in quel caso il governo di Netanyahu aveva richiamato brevemente l’ambasciatore israeliano in Irlanda. A ottobre aveva annunciato una norma per impedire l’importazione in Irlanda di merce prodotta nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Pochi giorni fa, come detto, è arrivata la notizia che l’Irlanda si sarebbe unita alla causa per genocidio alla Corte internazionale di giustizia.
Più nello specifico l’Irlanda chiederà alla Corte di ampliare la sua interpretazione di ciò che rientra nella definizione di genocidio, su cui ormai da anni sono in corso dibattiti e discussioni accademiche che hanno ripreso forza dopo l’invasione della Striscia di Gaza.
Un funzionario israeliano ha detto all’Irish Times che al momento il governo non prevede di chiudere ulteriori ambasciate in altri paesi europei. Non è chiaro se le cose cambieranno in futuro, anche perché il ministro degli Esteri israeliano è cambiato da poco. A inizio novembre, nell’ambito di un rimpasto interno al governo, il politico conservatore Gideon Sa’ar aveva lasciato il proprio incarico di ministro dell’Interno ed era diventato ministro degli Esteri sostituendo Israel Katz, uno degli storici leader del partito di Netanyahu.

(il Post, 16 dicembre 2024)

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Israele: pilota ‘disegna’ in cielo un nastro per la liberazione degli ostaggi

di Luca Spizzichino

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Questa mattina, nei cieli di Israele, il simbolo della lotta per la liberazione degli ostaggi israeliani ha catturato l’attenzione e l’emozione di tutto il Paese. Un pilota, o forse più di uno, ha “disegnato” delle strisce che richiamano i nastri simbolici, visibili dal nord al sud dello Stato ebraico.
  Resta ancora incerto se si tratti di semplici scie di condensazione o di un sistema di fumogeni appositamente installato a bordo dell’aereo. Anche l’identità del pilota rimane sconosciuta, alimentando il mistero intorno a questo gesto. Tuttavia, il messaggio trasmesso è stato potente e capace di unire gli israeliani sotto un cielo che per qualche ora si è fatto voce delle loro speranze.
  Le immagini delle strisce luminose nel cielo hanno rapidamente invaso i social media, accompagnate da commenti carichi di emozione. Tra le fotografie più toccanti, spicca quella scattata al confine con Gaza, che ritrae il simbolo stagliarsi nel cielo sopra il memoriale dedicato alle osservatrici uccise il 7 ottobre.
  In molti hanno interpretato il gesto come un segno di speranza. “Anche il cielo vuole che gli ostaggi tornino a casa”, ha scritto un utente. “Che sia un segno che siamo vicini a una soluzione”, ha commentato un altro, riferendosi alle delicate trattative per il rilascio degli ostaggi, ancora avvolte dal massimo riserbo.
  Un gesto semplice, ma carico di significato, che ha unito per un attimo tutto il Paese sotto uno stesso cielo.

(Shalom, 16 dicembre 2024)

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Perché il successo dell'Università israeliana Technion ha radici tedesche

Il Technion di Haifa ha iniziato ad insegnare un secolo fa. La storia dell'università è molto tedesca all'inizio e allo stesso tempo ha un nucleo sionista. I suoi successi sono impressionanti.

di Sandro Serafin

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L'edificio del primo centro tecnico in Israele è stato progettato da un architetto prussiano

Quest'anno l'università tecnica israeliana può vantare cento anni di insegnamento: Il Technion di Haifa ha iniziato la sua attività alla fine del 1924. Da allora, ha prodotto innumerevoli scienziati che hanno contribuito a plasmare l'economia e le innovazioni israeliane, alcuni dei quali hanno vinto il Premio Nobel.
Le prime idee per un istituto di questo tipo sono emerse all'inizio del XX secolo. Nel 1902, Martin Buber, Chaim Weizmann e Berthold Feiwel pubblicarono un memorandum intitolato “Un'università ebraica”. La loro analisi: in molti Paesi gli ebrei erano discriminati ed esclusi dall'istruzione superiore, con conseguenze intellettuali, economiche e sociali nefaste che “non possono essere descritte o anche solo immaginate per il futuro”.
La soluzione è stata individuata nella fondazione di una “università ebraica”. Il modo migliore per farlo è in Palestina, poiché non c'è dubbio che l'esistenza di un'università palestinese “aumenterebbe e consoliderebbe notevolmente la fiducia nella possibilità di creare una patria”. I tre visionari presentarono la loro idea al Congresso sionista.

• SIONISTI E NON SIONISTI
   Tuttavia, inizialmente non furono i sionisti a portare avanti in pratica il progetto  con il sostegno finanziario di ebrei facoltosi, ma fu soprattutto l'“Hilfsverein der Deutschen Juden”, che si distanziava dal sionismo. Si occupava dello “sviluppo dei compagni di fede”, soprattutto nell'Europa orientale e in Palestina. Gestiva diverse scuole in quello che all'epoca era ancora territorio ottomano.
Anche Paul Nathan, uno dei fondatori, accolse l'idea di un'università tecnica. Egli vedeva un grande potenziale di sviluppo soprattutto in Oriente: questa regione poteva ancora essere “conquistata dalla tecnologia moderna quasi all'infinito”. Secondo l'Hilfsverein, ciò non avrebbe giovato solo agli ebrei stessi, ma anche alla “patria ottomana”. L'enfasi sulla “patria ottomana” non era una prospettiva molto sionista.
La sede migliore per il Technikum - questo era inizialmente il nome tedesco del Technion - era stata individuata da Paul Nathan in Haifa. Questa città mediterranea nel nord della Palestina era da preferire perché Haifa “ha un grande futuro grazie alla sua posizione sul mare e al suo collegamento ferroviario con Damasco”.

• UN PRUSSIANO PROGETTÒ L'EDIFICIO
   Alcuni abitanti di Gerusalemme si opposero senza successo a questa scelta: Nel 1908, la società acquistò un terreno sul versante inferiore del monte Carmelo. La prima pietra dell'edificio centrale fu posata nel 1912. L'architetto incaricato fu l'ebreo prussiano Alexander Baerwald, che aveva progettato anche la ristrutturazione della Staatsbibliothek Unter den Linden.
L’influenza tedesca nei primi anni del Technikum è stata immensa, come ha dimostrato in particolare Se'ev Sadmon in uno studio esaustivo. Secondo questo studio, le attrezzature per le officine e i laboratori furono inizialmente ordinate esclusivamente ad aziende tedesche. Dal 1909 due professori della Königliche Technische Hochschule di Berlino-Charlottenburg erano a capo di un comitato scientifico consultivo.
Quando fu aperto il centro tecnico, quattro dei sette docenti delle materie principali provenivano dalla Germania. A volte il progetto ha attirato l'attenzione del governo tedesco. James Simon, presidente dell'organizzazione di aiuti con buoni contatti nella politica tedesca, una volta spiegò che lui stesso aveva promesso volentieri al Kaiser di “trasformare il centro tecnico in un'istituzione tedesca”.

• BEN-JEHUDA MINACCIAVA SPARGIMENTI DI SANGUE
   Negli anni Dieci, il progetto si arenò a causa di due eventi imprevisti. Il primo aveva uno sfondo interno ebraico interno: nel 1913, le tensioni latenti tra sionisti e non sionisti sul Technikum scoppiarono apertamente. Il motivo fu una decisione del Consiglio di amministrazione, secondo la quale nessuna lingua ufficiale di insegnamento era considerata obbligatoria.
Per quanto riguarda l'ebraico moderno, una delle forme più alte di espressione del sionismo, si affermava soltanto che avrebbe dovuto ricevere “la cura più accurata”. Paul Nathan dell'Hilfsverein spiegò la scelta con considerazioni pratiche: Mancavano libri di testo, insegnanti e parole in ebraico.
La decisione suscitò indignazione non solo tra i sionisti in Palestina, ma in tutto il mondo: ed è passata alla storia come la “guerra delle lingue”. In Palestina furono organizzate manifestazioni di protesta e scioperi in molti luoghi. Elieser Ben-Jehuda, ideatore della nuova lingua ebraica, minacciò in una lettera a Nathan dicendo che l'apertura “non avrebbe avuto luogo senza lo spargimento di sangue ebraico”. Si sentivano “violati e derubati dell'unico santuario che speravano presto di possedere”.

• “L’EBRAICIZZAZIONE DEL TECHNIKUM
   Per i sionisti si trattava anche della loro emancipazione dalla diaspora: “Vogliamo tollerare che gli assimilazionisti dell'Europa occidentale agitino una scure sulle nostre tenere piantagioni?”, si indignava il giornale di Gerusalemme “HaCherut”. Il Consiglio di amministrazione fu infine costretto a rivedere la sua decisione e ad assegnare all'ebraico un ruolo maggiore. Il giornale sionista “Die Welt ‘ definì questa decisione ’l'ebraicizzazione del Technikum”.
Oltre alla “guerra delle lingue”, anche lo scoppio della Prima Guerra Mondiale causò dei ritardi. A volte, il centro tecnico servì come campo per i militari tedeschi, turchi e poi britannici. In questo periodo si è perso l'inventario. Infine, si sviluppò un lungo tira e molla che si concluse con l'acquisto dell'istituzione da parte dell'Organizzazione Sionista Mondiale nel 1920. Nell'inverno del 1924/25 iniziò finalmente l'attività didattica.
Un anno prima, Max Hecker, il primo presidente dell'università, aveva riassunto il nucleo del progetto da una prospettiva sionista: il Technikum porta con sé “una sana forza di contrasto contro il pericolo dell'intellettualismo unilaterale”e “svolge un ruolo essenziale nella creazione della nuova generazione ebraica verso la quale sono rivolte le nostre speranze”. In altre parole: d’ora in poi, il “nuovo ebreo” deve essere costruito qui, diverso dal vecchio “ebreo della diaspora”.

• 15 NUOVE AZIENDE OGNI ANNO
   Qualche anno dopo, i primi 17 studenti si laurearono in ingegneria e architettura. Uno di loro era una donna. Da allora, il Technion è cresciuto enormemente. Con il cambiare dei tempi, è cambiata anche l'università: sono state istituite, tra l'altro, le facoltà di ingegneria aerospaziale e di ingegneria elettrica. Negli anni '30 e '40, il Technion ha beneficiato dell'ammissione di molti ebrei europei che si sono rifugiati in Palestina per sfuggire al regime nazista.
Nel corso degli anni, l'università si è anche trasferita in una nuova sede su un versante del Carmelo. Secondo l'università, “Technion City” copre ora un'area di 1,2 chilometri quadrati. All'inizio di quest'anno, studiavano qui circa 15.000 studenti in 18 facoltà (da biologia e chimica a scienze informatiche, architettura e ingegneria). L'università conta oggi un totale di circa 100.000 ex-alunni.
“Ogni anno vengono fondate al Technion 15 nuove aziende ”, ha spiegato il presidente dell'università Uri Sivan al quotidiano ‘Israel Hajom’ a febbraio: ‘La maggior parte delle infrastrutture civili di oggi in tutto Israele - strade, ferrovie, acqua, desalinizzazione, agricoltura - è opera di laureati e membri del Technion’, ha aggiunto. Un esempio concreto: circa l'80% degli ingegneri che lavorano al sistema di difesa missilistica Iron Dome, oggi famoso a livello internazionale, sono laureati del Technion.

(Israelnetz, 16 dicembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L’antisemitismo online è dilagante: come combatterlo

di Nathan Greppi

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Una conferenza del Foa
Già prima dei fatti del 7 ottobre, internet e i social erano diventati negli ultimi decenni i principali veicoli dell’antisemitismo. Ma dopo quel giorno, i livelli di odio e aggressività nei confronti degli ebrei e Israele hanno raggiunto dei livelli record, destando non poche preoccupazioni tra gli addetti ai lavori.
  Per capire come si sta evolvendo la situazione e come può essere affrontata, abbiamo parlato con Dina Maharshak, direttrice del Content Team del FOA (Fighting Online Antisemitism), tra le principali organizzazioni specializzate nel contrasto dei crimini d’odio antiebraici che si verificano nel mondo digitale.

- Su quali piattaforme social sono più diffusi i contenuti antisemiti e antisraeliani?
  Sono diffusi soprattutto sulle principali piattaforme come X (ex-Twitter), Facebook, Instagram, TikTok e YouTube, così come su spazi meno regolamentati come Telegram, VKontakte e Gab. Il FOA ha identificato X come l’hotspot principale per i contenuti antisemiti nel 2023, rappresentando il 40% di tutti i contenuti segnalati, seguito da Facebook (8,5%), Instagram (6,5%), TikTok (2%) e YouTube (2,5%). Queste piattaforme sono diventate dei focolai per la diffusione di narrazioni nocive, soprattutto dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha triplicato l’antisemitismo online rispetto al 2022.

- Quali sono stati i cambiamenti più significativi avvenuti dopo il 7 ottobre e durante la guerra in corso?
  Dopo il 7 ottobre, il brutale attacco di Hamas e la successiva guerra, c’è stata un ’impennata di incidenti antisemiti a livello globale, con le comunità ebraiche della diaspora che hanno ricevuto sempre più minacce. Questa crisi ha rimarcato l ‘unità globale tra il popolo ebraico dentro e fuori da Israele, e l’impatto significativo che gli eventi in Israele esercitano sugli ebrei di tutto il mondo.
  Anche l’antisemitismo online si è intensificato. Le piattaforme dei social media si sono inondate di disinformazione, teorie del complotto e discorsi di odio contro il popolo ebraico e Israele, tra cui la negazione della Shoah e la glorificazione della violenza contro gli ebrei.

- Può farci qualche esempio?
  Tra i principali cambiamenti, spiccano: l ’amplificazione di hashtag e slogan antisemiti, come #FromTheRiverToTheSea, che molti ritengono essere un appello allo sradicamento di Israele; l’aumento delle molestie nei confronti degli utenti e delle comunità ebraiche su piattaforme come X, Instagram e TikTok, con episodi di trolling e minacce di morte coordinate; la glorificazione del terrorismo di Hamas da parte di alcuni utenti e influencer, assieme alla giustificazioni della violenza contro i civili; teorie del complotto antisemite, che ad esempio incolpano gli ebrei per la guerra; shadowbanning degli account pro-Israele, in cui gli utenti hanno segnalato che i loro post a sostegno di Israele o che condannavano l’antisemitismo venivano soppressi, mentre i contenuti antisemiti rimanevano visibili.
  Il monitoraggio da parte del FOA ha dimostrato come le lacune nella moderazione dei contenuti abbiano permesso a narrazioni dannose di prosperare incontrollate. Ad esempio, alcuni contenuti antisemiti sono stati mascherati da retorica “antisionista”, rendendone più difficile l’identificazione e la rimozione da parte degli algoritmi. Ciò è stato successivamente esaminato da Meta, che ha classificato alcuni casi dell’uso della parola “sionista” o delle sue abbreviazioni come incitamento all’odio.

- Che tipo di strategie mette in atto il FOA per combattere l’antisemitismo online?
    Il FOA impiega una strategia su più fronti per combattere l’antisemitismo online, combinando innovazione tecnologica, iniziative didattiche, il coinvolgimento della comunità e progetti di advocacy su scala globale. Questo approccio garantisce non solo l’individuazione e la rimozione di contenuti pericolosi, ma anche la responsabilizzazione degli individui e delle istituzioni per combattere attivamente l’odio online.
  Monitoriamo rigorosamente l’antisemitismo online utilizzando metodologie allineate con la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). Il FOA aggrega i dati in report mensili e annuali suddivisi per piattaforma, tipo di contenuto e regione. Inoltre, è stato sviluppato un algoritmo basato sull’intelligenza artificiale per migliorare il rilevamento di contenuti antisemiti, che in questo modo vengono identificati e classificati automaticamente in base a parole chiave, immagini e modelli mirati.
  Lo status del FOA come “Trusted Flagger” sulle principali piattaforme come Facebook, X, TikTok e YouTube garantisce che i contenuti da esso segnalati abbiano la priorità per la revisione e la rimozione. Questo status, assieme alle partnership di FOA con giganti della tecnologia come Google e la sua appartenenza all’International Network Against Cyber Hate (INACH), nel 2023 ha portato ad un tasso medio di rimozione dei contenuti d’odio del 41% sui principali social.

- Svolgete anche attività educative rivolte ai giovani, per contrastare l’odio in rete?
  Il FOA riconosce che la lotta all’antisemitismo richiede non solo la rimozione di contenuti nocivi, ma anche l’educazione per cambiare gli atteggiamenti degli utenti. L’organizzazione offre, tra le altre cose, workshop e sessioni di formazione per attivisti, educatori e comunità ebraiche di tutto il mondo per aiutarli a identificare, segnalare e contrastare efficacemente i contenuti antisemiti.
  A ciò si aggiungono le partnership con università, scuole superiori e organizzazioni comunitarie per fornire ai giovani gli strumenti per riconoscere e opporsi all’antisemitismo. In Israele, il programma del FOA, accreditato dal Ministero dell’Istruzione, educa studenti di diverse origini religiose ed etniche su argomenti come la negazione della Shoah, l’antisemitismo sui social media e il razzismo. Inoltre, organizziamo iniziative su scala globale per coinvolgere i giovani, tra cui corsi online e opportunità di volontariato. I nostri volontari sono in grado di lavorare in otto lingue, e grazie a queste conoscenze monitorano gli spazi online alla ricerca di contenuti antisemiti, ne chiedono la rimozione e partecipano ad attività educative e di advocacy.

- Presentate mai i risultati del vostro lavoro alle istituzioni internazionali (ONU, UE, ecc.)?
    Oltre a collaborare con il governo israeliano, il FOA presenta i risultati del suo lavoro a istituzioni internazionali come l’INACH, l’IHRA, la Commissione europea e diverse ONG.

- Cosa possono fare le comunità ebraiche per combattere l’odio online?
    Le comunità ebraiche possono adottare diverse misure proattive per combattere l’antisemitismo online. Innanzitutto, occorre imparare a identificare l’antisemitismo, anche quando è mascherato da antisionismo, per poi condividere le conoscenze e fare rete per creare consapevolezza su come l’incitamento all’odio si diffonde online e sul suo impatto.
  Poi, occorre imparare ad utilizzare gli strumenti di segnalazione sulle piattaforme social per segnalare i contenuti antisemiti. Inoltre, bisogna saper costruire una resilienza digitale: rafforzare le misure di sicurezza online, proteggere gli account sui social media ed evitare la condivisione eccessiva di informazioni personali per prevenire il doxing, che consiste nell’esporre pubblicamente online le informazioni di qualcuno rendendolo un bersaglio.

(Bet Magazine Mosaico, 16 dicembre 2024)

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