E avverrà che tutti quelli che saranno rimasti di tutte le nazioni venute contro Gerusalemme, saliranno di anno in anno a prostrarsi davanti al Re, all'Eterno degli eserciti, e a celebrare la festa delle Capanne.
Zaccaria 14:16

Attualità



Notizie
Nome:     
Cognome:
Email:      
Cerca  



נַחֲמ֥וּ נַחֲמ֥ו עַמִּ֑י
Comfort my peopole

Inizio e Attualità
Presentazione
Approfondimenti
Notizie archiviate
Notiziari 2001-2011
Selezione in PDF
Articoli vari
Testimonianze
Riflessioni
Testi audio
Libri
Questionario
Scrivici

  



















Predicazioni
Dio con noi
    MATTEO 1
  1. Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
  2. E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
  3. Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
  4. Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  5. Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
  6. Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
    SALMO 145

  1. Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
  2. Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
  3. L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
  4. Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
  5. Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
    GENESI 2
  1. L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
  2. gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
    ISAIA 53
  1. Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
    GIOVANNI 20
  1. Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
  2. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
    PROVERBI 8
  1. Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
  2. quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
  3. quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
  4. io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
  5. mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
    GENESI 2
  1. E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
    GIOVANNI 3
  1. Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
    1 CORINZI 15
  1. Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
    GENESI 3
  1. E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
    ISAIA 7
  1. Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
    GIOVANNI 12
  1. “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
    ESODO 3
  1. E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; 
  2. e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
    ESODO 29
  1. Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
  2. E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
    GIOVANNI 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.

Marcello Cicchese
febbraio 2024

Una grande gioia

ATTI 2

  1. Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
  2. Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
  3. E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
  4. E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
  5. e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
  6. E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
  7. lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.

ATTI 4

  1. E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
  2. E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
  3. Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
  4. e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.

LUCA 2

  1. Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
  2. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.

MATTEO 2

  1. Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.

ATTI 8

  1. Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
  2. E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
  3. Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
  4. E vi fu grande gioia in quella città.

ATTI 13

  1. Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
  2. Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
  3. E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
  4. E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
  5. Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
  6. Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
  7. E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

ROMANI 15

  1. Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
  2. affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
  3. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
  4. poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
  5. mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
  6. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
  7. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
  8. E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
  9. Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.


    Marcello Cicchese
    maggio 2016

L'interesse di Cristo
FILIPPESI, cap. 1

  1. Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, 
  2. per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. 
  3. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 
  4. sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.

FILIPPESI, cap. 2

  1. Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 
  2. rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento
  3. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 
  4. cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 
  5. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 
  6. il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 
  7. ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 
  8. trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 
  9. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 
  10. affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 
  11. e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
  12. Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; 
  13. infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo. 
  14. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute
  15. perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, 
  16. tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. 
  17. Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; 
  18. e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.


Marcello Cicchese
novembre 2006

Salmo 92
Salmo 92
    Canto per il giorno del sabato.
  1. Buona cosa è celebrare l'Eterno,
    e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
  2. proclamare la mattina la tua benignità,
    e la tua fedeltà ogni notte,
  3. sul decacordo e sul saltèro,
    con l'accordo solenne dell'arpa!
  4. Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
    io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
  5. Come son grandi le tue opere, o Eterno!
    I tuoi pensieri sono immensamente profondi.

  6. L'uomo insensato non conosce
    e il pazzo non intende questo:
  7. che gli empi germoglian come l'erba
    e gli operatori d'iniquità fioriscono, per esser distrutti in perpetuo.
  8. Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
  9. Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
    ecco, i tuoi nemici periranno,
    tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.

  10. Ma tu mi dai la forza del bufalo;
    io son unto d'olio fresco.
  11. L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
    le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi
    che si levano contro di me.
  12. Il giusto fiorirà come la palma,
    crescerà come il cedro sul Libano.
  13. Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
    fioriranno nei cortili del nostro Dio.
  14. Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
    saranno pieni di vigore e verdeggianti,
  15. per annunziare che l'Eterno è giusto;
    egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.

Marcello Cicchese
gennaio 2017

Saggezza che viene da Dio
PROVERBI 2
  1. Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti,
  2. prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all'intelligenza;
  3. sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all'intelligenza,
  4. se la cerchi come l'argento e ti dai a scavarla come un tesoro,
  5. allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio.
  6. Il Signore infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l'intelligenza.
  7. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell'integrità,
  8. allo scopo di proteggere i sentieri della giustizia e di custodire la via dei suoi fedeli.
  9. Allora comprenderai la giustizia, l'equità, la rettitudine, tutte le vie del bene.
  10. Perché la saggezza ti entrerà nel cuore, la scienza sarà la delizia dell'anima tua,
  11. la riflessione veglierà su di te, l'intelligenza ti proteggerà;
  12. essa ti scamperà così dalla via malvagia, dalla gente che parla di cose perverse,
  13. da quelli che lasciano i sentieri della rettitudine per camminare nelle vie delle tenebre,
  14. che godono a fare il male e si compiacciono delle perversità del malvagio,
  15. i cui sentieri sono contorti e percorrono vie tortuose.
  16. Ti salverà dalla donna adultera, dalla infedele che usa parole seducenti,
  17. che ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio.
  18. Infatti la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti.
  19. Nessuno di quelli che vanno da lei ne ritorna, nessuno riprende i sentieri della vita.
  20. Così camminerai per la via dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti.
  21. Gli uomini retti infatti abiteranno la terra, quelli che sono integri vi rimarranno;
  22. ma gli empi saranno sterminati dalla terra, gli sleali ne saranno estirpati.

Marcello Cicchese
aprile 2009

Sovranità e grazia di Dio
ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Preghiera sacerdotale 1

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.


Marcello Cicchese
agosto 2017

Preghiera sacerdotale 2

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.


Marcello Cicchese
ottobre 2017

Un sabato sacro
ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

Marcello Cicchese
maggio 2017

Benedizione a domicilio?
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
  4. Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
  5. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
  6. Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
  7. Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
  8. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.

MARCO 10
  1. Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
  2. Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
  3. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
  4. Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
  5. Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
  6. Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
  7. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
  8. I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
  9. È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
  10. Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
  11. Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
  12. Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
  13. Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
  14. il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
  15. Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

PROVERBI 10
  1. Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.

Marcello Cicchese
giugno 2006


Salmo 56
Salmo 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.

Marcello Cicchese
agosto 2016

Una lampada al piede
Salmo 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Il peggiore dei profeti
MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'

Marcello Cicchese
febbraio 2015

Salmo 27
Salmo 27
  1. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?
    Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
  2. Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
  3. Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
  4. Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
  5. Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
  6. E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.

  7. O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
  8. Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
    Io cerco il tuo volto, o Signore.
  9. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
  10. Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
  11. O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
  12. Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
  13. Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
  14. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!

Marcello Cicchese
dicembre 2007

Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015



Spettatori e giocatori italiani applaudono l'inno israeliano durante la partita Italia-Israele

Prima della partita è stata organizzata una manifestazione anti-israeliana a Udine, dove si svolgeva l'incontro, ma non ha avuto l'impatto desiderato.

Un inaspettato momento di solidarietà si è verificato durante la partita tra Israele e Italia di lunedì sera. Mentre veniva suonato l'inno nazionale israeliano, l'“Hatikvah”, gran parte del pubblico italiano si è alzato in piedi e ha applaudito, in risposta ai fischi provenienti dagli spalti. Il gesto più significativo è stato quello di tre giocatori della squadra italiana: Federico Dimarco, Giacomo Raspadori e Matteo Retegui, che sono stati ripresi mentre applaudivano durante l'inno israeliano. La scena è stata ripresa e ampiamente condivisa sui social network.
  “Israele sta attraversando un anno molto difficile, ottenendo di tanto in tanto un toccante sostegno da tutto il mondo, e stasera (lunedì) è stato uno di quei momenti”, ha commentato un giornalista sportivo locale. Gli applausi del pubblico e dei giocatori italiani sono arrivati in risposta ai fischi di disapprovazione che si sono sentiti in alcuni settori dello stadio.
  Prima dell'incontro era stata organizzata una manifestazione anti-israeliana a Udine, dove si svolgeva la partita, ma non ha raggiunto le dimensioni previste. Nonostante l'annunciato coinvolgimento di 43 organizzazioni, in Piazza Repubblica si sono radunate solo circa 400 persone, tra cui 250 manifestanti attivi.
  La manifestazione, composta principalmente da comunisti italiani e da una minoranza di musulmani, non ha suscitato l'entusiasmo sperato. Un osservatore ha osservato: “Il pubblico non era molto entusiasta quando qualcuno trasmetteva canzoni indipendentiste palestinesi con gli altoparlanti”.

(i24, 15 ottobre 2024)

........................................................


In attesa dello scontro con l’Iran, la montatura propagandistica intorno a Unifil

di Ugo Volli

• UNA NUOVA FASE
 La guerra multifronte che Israele è costretto ad affrontare da più di un anno per la propria sopravvivenza sta entrando in una quarta fase e questo rende la situazione molto complessa, dando talvolta anche l’impressione di una difficoltà militare e di decisione. Bisogna ricapitolare i fatti, per capire meglio. In un primo momento dopo il 7 ottobre, le forze armate israeliane dovettero eliminare gli invasori che avevano fatto strage e riorganizzarsi per la conquista terrestre di Gaza, un’ipotesi strategica che non era stata prevista dai piani dello Stato Maggiore.

• LA CONQUISTA DI GAZA
 Dopo tre settimane, il 28 ottobre, inizia la seconda fase dell’operazione di terra, che procede da nord a sud piuttosto lentamente, sia per la difficoltà dei combattimenti in un terreno fittamente urbanizzato dove i terroristi sono annidati in fortificazioni sotterranee, spesso collocate sotto ospedali, moschee, scuole, edifici dell’UNRWA, sia per la resistenza americana che blocca per esempio per un paio di mesi la fase finale e decisiva della conquista di Rafah e del corridoio “Filadelfia” al confine dell’Egitto. La campagna non si propone di occupare tutto il territorio, ma di distruggere le forze organizzate del nemico. Questo scopo è conseguito circa un mese e mezzo fa: anche se i terroristi detengono ancora un centinaio di israeliani rapiti e il loro capo Yahya Sinwar è ancora libero e in vita, la guerra a Gaza non deve contrastare più forze organizzate, ma piccole unità di guerriglia e non richiede più l’impiego permanente di grandi reparti israeliani.

• LA GUERRA CON HEZBOLLAH
 Si può aprire così la terza fase della guerra, quella che riguarda Hezbollah, il quale era entrato in combattimento con Israele già l’8 ottobre, bombardando le città e le basi del nord di Israele. A partire da un mese fa, le forze armate israeliane avevano raggruppato e allenato unità sufficienti per fare i conti con questa minaccia, molto più grave di Hamas per il numero delle sue truppe, l’armamento missilistico sofisticato e anche per la natura del terreno montagnoso del Libano meridionale. Israele l’ha fatto con una serie di colpi audaci e imprevisti: la decimazione dei quadri con i cercapersone esplosivi, i bombardamenti che sono riusciti ad eliminare il loro leader Nasrallah e buona parte della dirigenza militare oltre a molti depositi di armi e missili, l’ingresso di forze dei terra nella zona controllata da Hezbollah oltreconfine, eseguito non nella forma di un’invasione tradizionale che mira alla capitale, com’era accaduto nelle due precedenti guerre del Libano, ma di operazioni aereo-terrestri mirate di antiguerriglia e di distruzione delle istallazioni. Il successo è stato grande e inaspettato, probabilmente distruggendo due terzi del potenziale militare dell’organizzazione terroristica. Ma non bisogna farsi illusioni, quel che resta è grande abbastanza per creare gravi danni; la distruzione dei comandi e delle capacità di comunicazione interna dei reparti militari è stata in qualche modo rimediata, grazie anche all’intervento del grande burattinaio del terrorismo contro Israele, l’Iran. Così è accaduto che siano ripresi con energia i bombardamenti contro il nord di Israele e che vi sia stato anche un grave danno, quando un drone ha colpito l’altro ieri il refettorio di una base militare israeliana, provocando quattro morti e circa sessanta feriti.

• LA QUARTA FASE: LO SCONTRO DIRETTO CON L’IRAN
 Nel frattempo, l’Iran è di nuovo intervenuto direttamente in guerra, due settimane fa, con un bombardamento massiccio di Israele, il secondo dopo quello di aprile. Questo però, a differenza del primo, ha provocato danni diffusi ed è convinzione generale che Israele non darà una risposta quasi solo simbolica come avvenne l’altra volta, ma potrà attaccare luoghi molto sensibili: le istallazioni nucleari, quelle petrolifere o in generale quelle militari. Sugli obiettivi dell’attacco c’è stato un dibattito interno al governo israeliano ma soprattutto una trattativa con l’amministrazione Biden, che come sempre ha cercato di frenare l’azione israeliana. Israele però non può prescinderne, sia per ragioni politiche e diplomatiche generali, sia per il bisogno di rifornimenti di armi e munizioni, sia perché nella fase offensiva e poi nella difesa dall’inevitabile controreazione iraniana combattere senza gli Usa sarebbe molto difficile. Un accordo ormai sembra raggiunto e si aspetta solo il momento in cui avverrà lo scontro diretto e probabilmente molto pesante e continuo con l’Iran: la fase decisiva della guerra.

• UNIFIL
 È in questo momento di sospensione che è emerso, non a caso per opera di nemici europei di Israele come Spagna e Irlanda, la questione Unifil: un’operazione di disturbo e propaganda analoga a quella che nella seconda fase era stato il finto scandalo dell’ospedale Al-Ahli al-Arabi che i sostenitori di Hamas avevano preteso Israele avesse bombardato il 18 ottobre 2023 – e invece era stato un loro missile caduto prematuramente. In realtà la questione è semplice. Unifil ha basi sparse nel territorio dei combattimenti fra Israele e Hezbollah nel Libano meridionale. È una forza internazionale messa lì per accertarsi che fosse rispettata la risoluzione Onu con cui si era conclusa la seconda guerra del Libano, in particolare il ritiro di tutte le forze armate che non fossero l’esercito libanese (in sostanza Hezbollah) a nord del fiume Litani, una dozzina di chilometri al nord della frontiera. Non l’ha mai fatto. C’è chi dice che la colpa è delle regole di ingaggio che le impediscono di intervenire direttamente; il suo compito sarebbe osservare e riferire. Ma neanche questo ha mai fatto: Israele ha documentato abbondantemente che le istallazioni terroristiche (tunnel di attacco, lanciamissili, depositi di armi, fortificazioni) sorgono proprio accanto alle basi Unifil e probabilmente si scoprirà che sono anche al loro interno o nei loro sotterranei. Ma Unifil non ha neppure mai denunciato e documentato dettagliatamente queste violazioni. Si è fatta anche vessare, rapinare e sparare addosso da Hezbollah senza reagire né protestare. È servita come istanza di trattative per risolvere piccoli incidenti fra Israele e Libano, ma non si capisce perché ci sia bisogno di 10.000 soldati per questo compito.

• GLI INCIDENTI
 Dopo che è scoppiata la guerra, Israele ha chiesto che i militari Onu si ritirassero per non colpirli. Non l’hanno fatto, proteggendo di fatto i terroristi annidati vicino e hanno anche rifiutato di spegnere alcuni impianti di osservazione televisiva e di illuminazione che erano sfruttati da Hezbollah. Vi è stato qualche incidente minore, quando i bombardamenti israeliani hanno colpito questi impianti o schegge di proiettili indirizzati ai terroristi hanno ferito un paio di soldati Unifil. Ma si tratta di episodi militarmente di poca portata, non certo di “aggressioni” israeliane dirette, che avrebbero avuto ben altro costo di vite. Tutta la questione Unifil è una montatura propagandistica contro Israele. In attesa della quarta fase della guerra, quella decisiva con l’Iran, che si aprirà fra qualche giorno, o fra qualche ora.

(Shalom, 15 ottobre 2024)

........................................................


Guterres è più disarmante della risoluzione 1701 e delle azioni di Unifil su Hezbollah

di Giulio Meotti

Quando dalle zone in teoria sotto controllo di Unifil domenica sera Hezbollah ha lanciato un drone suicida contro una base militare israeliana a Binyamina, vicino Haifa, uccidendo quattro soldati israeliani, Guterres non ha fiatato.
  L’attacco missilistico iraniano su Israele non ha lasciato indifferente Guterres. Ha espresso preoccupazione per l’escalation e chiesto un cessate il fuoco, ma ha “dimenticato” di dire che l’Iran è l’aggressore e Israele l’aggredito.
  Una persona che si informasse tramite le dichiarazioni di Guterres si convincerebbe che gli ebrei sono l’origine della guerra, che Israele è l’asse del male e l’Iran è una nazione amante della pace che sostiene la legittima lotta dei palestinesi. “Israele sta conducendo una crudele campagna militare”, ha detto Guterres sul Libano. Non si è preoccupato di citare l’organizzazione terroristica che da un anno lancia missili su Israele dalle vicinanze delle basi Onu.
  A proposito delle esplosioni dei cercapersone di Hezbollah, Guterres aveva chiesto di “non trasformare gli oggetti civili in armi”. Di Hezbollah che trasforma i Caschi blu in scudi umani, non una parola. Il segretario dell’Onu non è riuscito a dire “Hezbollah” neanche quando a luglio lanciarono un missile sul campo da calcio di Majdal Shams, nel Golan israeliano, uccidendo dodici bambini.
  Le dichiarazioni rilasciate dal segretario sono ormai più prevedibili degli attacchi di Hezbollah. Guterres ha detto di essere “profondamente preoccupato per l’aumento degli scambi di fuoco attraverso la Blue Line. Queste azioni minacciano la stabilità regionale”. Il segretario ha chiesto “un’immediata deescalation e di attuare la risoluzione 1701”.
  La dichiarazione è stata più disarmante delle azioni dell’Onu contro Hezbollah. La risoluzione 1701, raggiunta alla fine della Seconda guerra del Libano, imponeva che l’area a sud del fiume Litani (vicino al confine con Israele) fosse “libera da personale armato diverso da quelli del governo del Libano”.
  Il segretario ha un vecchio debole per la Repubblica islamica, piangendone con bandiere a mezz’asta il defunto presidente Raisi, dandole un posto nel Consiglio per i diritti umani e consentendole di essere eletta nel Comitato Onu per il disarmo e la sicurezza. Il profilo Twitter/X di Guterres è in silenzio radio sulla raffica di missili di Hezbollah da un anno.
  Ma Guterres ha affermato che i missili iraniani sono stati lanciati verso “Israele e i territori palestinesi occupati”, togliendo persino a Israele il diritto di essere una vittima. I missili iraniani erano diretti verso gli israeliani e se alcuni sono caduti a Gerico, uccidendo un palestinese, non erano i palestinesi a essere attaccati. Guterres, che è stato candidato al premio Nobel per la Pace, ha cercato di sembrare l’adulto responsabile: “Questi attacchi, paradossalmente, non fanno nulla per sostenere la lotta del popolo palestinese o alleviare le sue sofferenze”. Ecco una delle strane logiche di Guterres, l’ultima persona al mondo che sembra credere ancora che i palestinesi interessino agli iraniani: la violenza contro Israele non aiuta i palestinesi. Come se la guerra contro Israele fosse buona se aiuta i palestinesi.
  E’ un miracolo che Guterres non sia stato scoperto come nuovo segretario di Hezbollah. Nel frattempo, da una settimana è persona non grata in Israele, primo segretario generale a non potervi mettere piede. E forse con un certo orgoglio.

Il Foglio, 15 ottobre 2024)


*


Impasse Unifil: regole da rifare? L'Onu non è in grado di riscriverle

Per rivedere gìì obiettivi del contingente affinché possa fronteggiare Hezbollah servirebbe l'ok (impossibile) del Consiglio di sicurezza. L'alternativa resta il ritiro. Ue: «Grave preoccupazione». Borrell: «Troppo lenti»

di Stefano Piazza

Nel giorno della diffusione di una serie di video che mostrano un tunnel sotterraneo di Hezbollah a circa 150 metri dalle torrette dalla base Unifil - oggetto degli scontri degli scorsi giorni- è sempre più evidente che la missione dell'Onu non è stata in grado di ottemperare alla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, adottata l'n agosto 2006. Questo tunnel è uno dei tre che le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno mostrato ad alcuni giornalisti negli scorsi giorni. «Così si costruisce un avamposto d'attacco operativo. Ed è quello che abbiamo trovato qui, a soli 300 metri dalla postazione delle Nazioni unite», ha detto un comandante israeliano che accompagnava i giornalisti. Poi l'ufficiale delle Idfha affermato: «Sono tunnel militari che Hezbollah ha costruito qualche anno fa e dove ha portato molte armi come missili anticarro, fucili, equipaggiamento da combattimento personale e infrastrutture militari per attaccare Israele e attraversare il confine. Un'altra cosa che voglio sottolineare è che siamo molto vicini alla base Onu, è a meno di 200 metri da noi». La risoluzione 1701 è stata elaborata con l'obiettivo di prevenire un nuovo conflitto e di tenere Hezbollah lontano dal confine tra Israele e Libano. Il testo della risoluzione richiede la cessazione totale delle ostilità, il rilascio immediato dei soldati israeliani rapiti (mai avvenuto), e il dispiegamento di 15.000 uomini delle truppe internazionali delle Nazioni unite, incaricate di monitorare il confine tra Libano e Israele insieme all'esercito libanese. Al 20 giugno 2023 le forze Unifil presenti nel Libano meridionale ammontavano a 9.516 unità. Abbiamo chiesto al generale Antonio Li Gobbi che nella sua lunga carriera ha partecipato a missioni dell'Onu in Siria e in Israele e della Nato, in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, solo per citarne alcune, un'opinione sulla missione dell'Onu in Libano e sui recenti avvenimenti: «Credo che questa situazione fosse ampiamente prevedibile, forse si sono chiusi gli occhi finora e ora ci si stupisce di qualcosa di cui forse non ci si dovrebbe stupire. Il problema riguardo alla missione Unifil è che, come altre missioni Onu, può funzionare solo a patto che operi tra entità statuali che siano consenzienti e che siano in grado di esercitare un controllo effettivo su tutte parti in causa (e né Libano né Israele controllano gli Hezbollah eterodiretti da Teheran). Ogni volta che si è pensato di poter ampliare il ruolo militare dell'Onu, come ad esempio in Congo nel 1964, si è assistito a un fallimento, perché in campo c'erano anche milizie non statuali, come ora c'è Hezbollah in Libano. C'è un'incapacità strutturale dell'Onu nel gestire operazioni militari, come avvenuto anche in Somalia, dove anche noi italiani abbiamo pagato un tributo di sangue, e ancora peggio in Bosnia, dove non si può dimenticare la vergogna di Srebrenica, e dove poi è dovuta subentrare la Nato con ben diverso mandato, diverse regole d'ingaggio e soprattutto diversa credibilità politica».
  Per tornare alla risoluzione 1701, la missione Unifil - nonostante le ripetute promesse di mantenere la stabilità lungo il confine tra Israele e Libano - non ha mai impedito a Hezbollah di rafforzare la sua presenza nell'area, dispiegando forze, tra cui l'unità d'élite Radwan che ha aumentato la pressione sull'Unifil, ostacolandone di continuo le operazioni. Il gruppo libanese ha installato migliaia di razzi e dispiegato miliziani addestrati all'uso che si sono serviti di organizzazioni civili come copertura per le loro attività nel sud del Libano. Tra le violazioni più gravi c'è la costruzione di un tunnel sotto il confine per facilitare l'infiltrazione di militanti in Israele e ha lanciato operazioni terroristiche e provocazioni dal mese di ottobre 2022. Durante il recente conflitto a Gaza, gli attacchi di Hezbollah si sono intensificati, con centinaia di razzi e missili anticarro diretti contro il territorio israeliano. Secondo le stime delle Idf, nel corso dell'ultimo mese circa 25 razzi e missili sono stati lanciati contro le comunità israeliane e le forze di difesa da postazioni terroristiche di Hezbollah, situate nei pressi delle basi
  Unifil nel sud del Libano, sfruttando la loro vicinanza alle truppe delle Nazioni Unite. Uno di questi attacchi ha causato la morte di due soldati israeliani. Evidente che si tratti di un gigantesco problema politico così come è chiaro che nessuno vuole dar ragione a Benjamin Netanyahu (da tempo ha chiesto all'Onu «di ritirare i peacekeeper dalle zone dei combattimenti») e uno tra tutti è certamente il ministro della Difesa Guido Crosetto che ha affermato: «L'Italia e l'Onu non prendono ordini da Israele». Detto questo, il problema resta sul tavolo: e allora come se ne esce? Il ministro degli Esteri Antonio Tajani che ieri era a Berlino, ad una domanda alla stampa italiana sulla modifica delle regole di ingaggio del contingente Unifil in Libano nel caso in cui lo scopo fosse il disarmo dei terroristi ha risposto: «E’ ovvio che, se l'obiettivo è quello da parte delle Nazioni unite, le attuali regole di ingaggio non vanno bene perché non hanno neanche l'armamento adatto per imporre delle decisioni di questo tipo. Sono le Nazioni unite che devono scegliere». Anche l'Unione europea ha espresso «grave preoccupazione per la recente escalation lungo la Linea Blu» e condannato «tutti gli attacchi contro le missioni Onu», esprimendo «particolare preoccupazione per gli attacchi delle forze di difesa israeliane contro le forze Unifil, che hanno causato il ferimento di diversi peace-keeper». Il tutto dopo 4 giorni, suscitando le ire dell'Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, che ha affermato: «Ci è voluto troppo tempo per dire qualcosa più che evidente, ossia che è inaccettabile attaccare l'Unifil: avrei voluto che gli Stati membri raggiungessero un'intesa più velocemente». Ma queste dichiarazioni non cambiano il fatto che per cambiare le regole d'ingaggio debba intervenire il Consiglio di sicurezza. Ma questo è praticamente impossibile, dato che si tratta di organismo pachidermico, perennemente ostaggio dei veti incrociati (qui ci sarebbero Russia e Cina). Il cambio delle regole di ingaggio semplicemente non avverrà mai.

(La Verità, 15 ottobre 2024)


*


Unifil non ha impedito il riarmo di Hezbollah

Ecco perchè ha fallito

di Stefano Parisi

L’UNIFIL ha fallito la sua missione. L’ONU ha fallito. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la risoluzione 1701 del 2006, istituiva un’area al sud del Libano “priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell’esercito libanese e delle forze UNIFIL”, tra la Linea Blu e il fiume Litani. La stessa risoluzione imponeva un embargo alla vendita di armi in Libano, che non fossero autorizzate dall’esercito regolare libanese. Il Consiglio di Sicurezza ordinava, con quella risoluzione, il disarmo di Hezbollah. Per questo impegnava il Governo del Libano e UNIFIL. Per effetto della risoluzione 1701 Israele si ritirò da quell’area.
  Hezbollah, invece, da allora ha moltiplicato esponenzialmente la propria forza militare rivolta contro Israele e ha perseverato nel lancio dei missili. Ha collocato le sue postazioni vicino alle basi operative dei contingenti UNIFIL. Ha costruito basi di lancio, ha potenziato capacità offensiva ricevendo aiuti economici e militari dall’Iran. Hezbollah è un’organizzazione terroristica e criminale. Finanzia la sua attività, oltre che con i soldi della Repubblica Islamica dell’Iran, con il traffico di droga e con il riciclaggio di denaro. In questi 18 anni ha preso in mano il governo del Libano. Ne ha causato il fallimento economico e sociale. Dall’8 di ottobre lancia missili su Israele in sostegno all’azione di Hamas. Più di 9000 missili lanciati che hanno costretto 65.000 israeliani a evacuare abbandonando le proprie case.
  L’Iran arma Hezbollah, fornisce alla Russia i droni nella guerra contro l’Ucraina, fa esercitazioni nel Golfo di Oman con Cina e Russia, ha sostenuto, con Hezbollah, i delitti di Bashar al-Assad in Siria, e presiede dal 2023 la Commissione Disarmo e Sicurezza Internazionale dell’ONU. L’Iran sottomette le donne e le condanna a morte se non si adeguano alla sharia, perseguita gli omosessuali e all’ONU presiede il Forum sociale della Commissione per i Diritti Umani. L’ONU ha lasciato che Hezbollah si riarmasse, è stata in silenzio davanti alle aggressioni a Israele, non ha mosso un dito per fermarle. Ha lasciato i contingenti UNIFIL privi di una reale forza di interposizione, in un’area ad altissimo rischio.
  Israele, dopo 10 mesi di attacchi missilistici e di minacce avanzate da una organizzazione terroristica che ha come obiettivo la distruzione di Israele e la creazione al suo posto di uno Stato Islamico, deve proteggere la popolazione e distruggere la capacità offensiva di Hezbollah. Lo deve fare per garantire la sicurezza dei propri cittadini e la sua sopravvivenza. Lo deve fare per garantire la nostra libertà. Qualunque leadership democratica occidentale reagirebbe con analoga determinazione a un simile attacco.
  Oggi il Governo italiano non può ritirare unilateralmente il proprio contingente dal Libano, ma può porre con forza, in Europa e al Palazzo di Vetro, la questione del fallimento di UNIFIL, il suo ruolo, il suo mandato e la sua collocazione. Lo deve fare per non legittimare Hezbollah e, soprattutto, per quando questa crisi finirà e il Libano dovrà essere ricostruito, finalmente libero da Hezbollah.

(Setteottobre, 15 ottobre 2024)

........................................................


Volli: “A Torino il rettore sta con i pro Pal e nega il diritto allo studio”

ROMA - “I corsi universitari sono valutati in crediti formativi rispetto alle ore. E i calendari delle lezioni già di per sé sono stretti, serrati. E’ chiaro che se un anno accademico comincia con un’occupazione è molto probabile che saltino lezioni e quindi i corrispondenti crediti. Ma così gli occupanti non sacrificano solo il loro diritto allo studio, bensì quello di tutti gli studenti”. Il filosofo e semiologo Ugo Volli ha insegnato per decenni all’Università di Torino. Ora che è in pensione non nasconde tutto il suo sconforto per lo stato in cui si trova l’ateneo che per anni è stato casa sua. Dal 7 ottobre i collettivi pro Pal sono tornati a occupare alcuni spazi di Palazzo nuovo, dopo l’occupazione protrattasi per settimane la scorsa primavera. Tanto che una quarantina di docenti ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al rettore Stefano Geuna per chiedere di ripristinare quanto prima la didattica: “Vogliamo fare lezione”, recitava il loro messaggio. “Ho la sensazione che il rettore e il Senato accademico, un po’ per ideologia generale e un po’ per aderenza ai temi anti-israeliani, non vogliano intervenire in maniera fattiva. Anzi, finiscono per appoggiare questi che sono veri e propri atti di prepotenza da parte degli occupanti, che rappresentano una minoranza degli studenti e delle sigle universitarie”, spiega Volli al Foglio. Eppure non sempre l’atteggiamento dell’università di Torino è stato coerente. “Ci sono stati precedenti in cui agli studenti per esempio è stato impedito di manifestare per l’Armenia, dopo la guerra dello scorso anno. C’è quasi la sensazione che la maggioranza che governa attualmente il paese non debba trovare spazio all’interno delle università”, ragiona ancora il filosofo. “E’ in questo cosa c’è di democratico? Assolutamente nulla. Anzi, è una forma di fascismo, con una forma di complicità da parte dei vertici delle università”.
  Secondo Volli, a più di un anno dal 7 ottobre i segnali che giungono dai campus, con le nuove ondate di odio antisemita, sono preoccupanti. “Mentre all’inizio una qualche forma di solidarietà la si era registrata, questa vicinanza con l’andare avanti è scomparsa. Pensavo sinceramente di non poter capire quel che è successo ai miei genitori, quando vennero allontanati dalle scuole e dalle università all’epoca delle leggi razziali. E invece quello a cui stiamo assistendo oggi è un consolidarsi dell’indifferenza di massa alla distruzione di uno stato democratico e nell’attribuzione di tutto il peggio a chi condivide una qualche appartenenza etnico-religiosa, come il popolo ebraico”. Il filosofo del linguaggio la violenza verbale l’ha provata sulla sua pelle: “A me è successo che mettessero un manifesto con nome e cognome sulla mia porta, come forma di intimidazione. Ecco perché a un anno dal 7 ottobre il segnale più preoccupante non sono nemmeno queste derive pro Pal, che sono appannaggio solo di alcuni studenti, non certo la maggioranza. E nemmeno le liste di proscrizione come quella dei ‘sionisti d’Italia’ stilata dai nuovi comunisti in cui sono finito anch’io. Il vero problema è l’indifferenza generale”.

Il Foglio, 15 ottobre 2024)

........................................................


Israele: cosa sappiamo dell’attacco di droni che ha ucciso quattro soldati

Domenica sera quattro soldati dell’IDF sono stati uccisi e altri 58 sono stati feriti da un attacco di droni di Hezbollah contro una base militare vicino a Binyamina, nel centro-nord di Israele.
L’attacco è stato rivendicato da Hezbollah, che ha dichiarato di aver preso di mira una base di addestramento appartenente alla Brigata Golani dell’IDF con uno “sciame di droni”.
Il gruppo terroristico libanese ha rivendicato l’attacco mortale come prova della sua capacità di colpire Israele, anche se l’esercito continua a portare avanti le operazioni di terra contro Hezbollah nel sud del Libano.
L’impatto del drone è avvenuto poco prima delle 19:00, ha dichiarato l’IDF. I media ebraici hanno riferito che ha colpito una sala da pranzo all’interno della base.
I nomi dei quattro soldati uccisi nell’attacco non sono stati immediatamente autorizzati per la pubblicazione. Altri sette soldati sono stati gravemente feriti, secondo l’IDF, e altri 14 hanno riportato ferite moderate.
In una dichiarazione rilasciata poco dopo la mezzanotte, il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha affermato che le circostanze dell’incidente sono in corso di esame, poiché il drone non ha fatto scattare alcuna sirena di allarme in Israele.
“L’IDF ha il pieno controllo operativo sull’incidente”, ha detto Hagari, invitando il pubblico ad astenersi dal diffondere voci sull’attacco mentre i fatti sono ancora in corso di accertamento. “Indagheremo su come un UAV possa fare breccia senza preavviso e colpire una base”, ha detto. Ha aggiunto che Israele ha affrontato la minaccia rappresentata dagli UAV “fin dall’inizio della guerra”.
“Siamo tenuti a fornire una protezione migliore”, ha detto. “Indagheremo su questo incidente, impareremo da esso e miglioreremo”.
Una prima indagine sull’attacco ha indicato che due droni lanciati da Hezbollah sono entrati nello spazio aereo israeliano dal mare. Entrambi erano droni “Mirsad”, conosciuti in Iran come Ababil-T. Il modello è il principale drone suicida di Hezbollah.
Secondo l’Alma Center, un istituto di ricerca israeliano che si occupa delle sfide della sicurezza nel nord del Paese, il drone ha “un raggio d’azione di 120 chilometri, una velocità massima di 370 chilometri all’ora, la capacità di trasportare fino a 40 chilogrammi di esplosivo e la capacità di volare ad altitudini fino a 3.000 metri”.
Entrambi sono stati tracciati dai radar israeliani e uno è stato abbattuto al largo della costa a nord di Haifa. Le sirene hanno suonato nella zona occidentale della Galilea.
Aerei ed elicotteri dell’IAF hanno inseguito il secondo drone, ma è uscito dai radar e le forze israeliane ne hanno perso le tracce, probabilmente perché volava molto vicino al suolo. Non è suonata alcuna sirena perché si è ipotizzato che si fosse schiantato o fosse stato intercettato una volta scomparso.
Il servizio di ambulanze Magen David Adom ha dichiarato di essersi coordinato con le squadre mediche dell’IDF per fornire ai feriti le cure sul luogo dell’attacco prima di trasferirli negli ospedali del Paese.
La maggior parte delle ferite sono state causate da schegge, anche se il servizio di ambulanze ha detto di aver trattato anche nove persone per ansia acuta.
Le riprese della scena hanno mostrato una fila di ambulanze e un elicottero che arrivavano per evacuare i feriti.
La maggior parte dei feriti è stata portata al Centro medico Hillel Yaffe di Hadera per essere curata, mentre altri sono stati evacuati all’ospedale Sheba di Ramat Gan, all’ospedale Ramban di Haifa e al Centro medico Rabin di Petah Tikva.
L’attacco di domenica ha fatto seguito all’incidente di venerdì sera, quando un drone proveniente dal Libano ha colpito una casa di riposo nella città centrale di Herzliya. In quell’attacco non ci sono stati feriti.
In totale, l’esercito ha dichiarato che domenica più di 115 proiettili sono stati sparati da Hezbollah in territorio israeliano, oltre ai droni, attivando periodicamente le sirene nell’area di Haifa e in tutta la Galilea.
Non sono stati riportati feriti in nessuno di questi attacchi.
Dopo l’attacco dei droni di domenica sera, Hezbollah ha minacciato Israele di compiere altri attacchi se la sua offensiva in Libano fosse continuata.
Hezbollah “promette al nemico che ciò di cui è stato testimone oggi nel sud di Haifa non è nulla in confronto a ciò che lo attende se deciderà di continuare la sua aggressione contro il nostro… popolo”, ha dichiarato.
Ha affermato di aver condotto un’operazione “complessa” lanciando decine di missili verso Nahariya e San Giovanni d’Acri, a nord di Haifa, “con l’obiettivo di tenere impegnati i sistemi di difesa israeliani”.
I lanci di missili hanno permesso ai droni di “superare i radar di difesa israeliani senza essere rilevati”, ha affermato il gruppo terroristico, aggiungendo che un drone è poi “esploso nella stanza dove erano presenti decine di ufficiali e soldati del nemico israeliano”.
Nonostante l’attacco del drone, il Comando del fronte interno ha annunciato domenica sera di aver allentato le sue istruzioni per alcune parti del nord di Israele.
Il Golan meridionale è passato da un “livello di attività limitato” a un “livello di attività parziale”.
Più a sud, l’area di Afula, il Monte Tabor, la catena montuosa di Gilboa, la Valle di Beit Shean, Megiddo e Yokneam sono passate a un “livello di attività completo con una limitazione di raduni e servizi fino a 2.000 persone”, ha dichiarato l’esercito.
Anche la regione di Wadi Ara, dove è stato colpito il drone di Hezbollah, ha ricevuto l’autorizzazione a tornare al livello di piena attività.
Non è chiaro come l’attacco del drone possa influire sulle nuove linee guida.

• GALLANT PROMETTE CHE IL CONFINE SETTENTRIONALE RIMARRÀ LIBERO DA HEZBOLLAH
 Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha promesso domenica che Israele non permetterà mai a Hezbollah di ristabilire la sua presenza lungo il confine con il Libano, mentre visitava l’area domenica.
“Si tratta di obiettivi militari che contengono tunnel sotterranei e depositi di armi”, ha detto dei villaggi libanesi vicini. “Le nostre truppe hanno trovato centinaia di RPG, munizioni e missili anticarro. L’IDF sta attualmente distruggendo queste armi sopra e sotto il terreno”.
Ha detto di aver “istruito l’IDF a tutti i livelli per assicurare la distruzione di [infrastrutture di attacco] e per assicurare che i terroristi non possano tornare in questi luoghi”.
“Questo è essenziale per garantire la sicurezza delle comunità settentrionali di Israele”, ha detto, secondo il suo ufficio, aggiungendo che le operazioni continueranno fino a quando gli obiettivi di Israele non saranno raggiunti.

(Rights Reporter, 14 ottobre 2024)

........................................................


Il piano di Netanyahu per il “giorno dopo”

La determinazione dell'amministrazione Biden a far sopravvivere Hamas e quindi a vincere la guerra è alimentata dal desiderio dei suoi alti funzionari di trovare un “equilibrio tra Israele e Iran”.

di Caroline Glick

Quasi subito dopo l'invasione palestinese di Israele guidata da Hamas, il 7 ottobre dello scorso anno, l'amministrazione Biden-Harris ha chiesto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu di presentare il suo piano per il “giorno dopo” a Gaza. Netanyahu ha insistito sul fatto che il “day after” avrebbe dovuto attendere la vittoria della guerra.
Ma con il passare del tempo, Netanyahu ha iniziato a spiegare i contorni dei suoi piani per il dopoguerra. Questi includevano la de-Hamasificazione di Gaza e il controllo militare israeliano permanente sulla Striscia di Gaza. Poiché l'odio genocida per gli ebrei e l'obiettivo dell'annientamento di Israele sono condivisi da Hamas e dall'Autorità palestinese sostenuta dagli Stati Uniti, Netanyahu ha insistito sul fatto che l'Autorità palestinese non può succedere ad Hamas nell'amministrazione della Striscia di Gaza.
Il governo Biden-Harris non era d'accordo con i piani di Netanyahu. Ma dato che per la stragrande maggioranza degli israeliani erano sensati, e dato che l'80% degli americani ha ripetutamente dichiarato ai sondaggisti di sostenere una vittoria israeliana, piuttosto che opporsi a Netanyahu, l'amministrazione ha mantenuto una posizione esteriore di sostegno a Israele. Allo stesso tempo, ha usato la formidabile influenza degli Stati Uniti su Israele per impedire o bloccare la realizzazione di operazioni che avrebbero alterato in modo permanente e fondamentale la realtà strategica sul terreno e consentito l'attuazione dei piani di Netanyahu del “giorno dopo”.
La richiesta del governo di un piano “del giorno dopo” non era una richiesta di un piano vero e proprio. L'amministrazione ha chiesto un impegno israeliano a non usare la guerra per alterare in modo sostanziale le condizioni strategiche sul terreno il 6 ottobre 2023. Gli Stati Uniti volevano che queste condizioni, che hanno permesso ad Hamas di costruire il suo esercito genocida, rimanessero in vigore anche dopo la fine della guerra. E volevano che Netanyahu accettasse questa condizione che, se accettata, avrebbe bloccato ogni prospettiva di vittoria israeliana.
Dal punto di vista del governo [americano, ndt], l'unico piano accettabile per il “giorno dopo” sarebbe stato quello che riporta l'equilibrio strategico al punto in cui era il 6 ottobre. Gaza sarebbe stato uno Stato palestinese quasi indipendente. Gli Stati Uniti avrebbero sfruttato lo slancio della pressione internazionale e l'umiliazione israeliana per costringere Israele ad accettare la creazione di uno Stato palestinese a Gaza, in Giudea, Samaria e Gerusalemme, in linea con gli obiettivi che sia il vicepresidente Kamala Harris che il presidente Joe Biden e i loro consiglieri hanno ripetutamente delineato.
Per questo motivo, gli Stati Uniti si sono opposti all'operazione di terra di Israele a Gaza, hanno sostenuto l'Egitto nell'impedire alla popolazione di Gaza di fuggire da Gaza e cercare rifugio in Egitto o in Paesi terzi, si sono opposti alla presa di controllo di Rafah e del confine con Gaza da parte di Israele, ha ritardato la consegna di armi offensive, tra cui fucili d'assalto, proiettili per carri armati e artiglieria e bombe per l'aviazione, per costringere Israele ad assumere una posizione difensiva, e ha ripetutamente cercato di costringere Israele ad accettare accordi con Hamas per il rilascio di ostaggi che avrebbero accelerato la sua sconfitta strategica nella guerra. Per questo motivo, il governo statunitense ha iniziato a sanzionare i cittadini israeliani che ritiene stiano ostacolando il suo obiettivo di creare uno Stato palestinese a Gaza, Giudea e Samaria. Allo stesso modo, l'amministrazione statunitense ha facilitato la sopravvivenza di Hamas al potere attraverso le sue costanti e incessanti pressioni su Israele affinché permettesse l'ingresso di grandi quantità di merci a Gaza con il pretesto degli “aiuti umanitari”.
La prospettiva di uno schiacciamento israeliano di Hamas e di una presa di controllo permanente di Gaza renderebbe Israele “troppo forte”, secondo le parole del Segretario di Stato di Barack Obama, John Kerry. E un Israele “troppo forte” sarebbe un Israele non disposto a “fare la pace”.
La determinazione dell'amministrazione statunitense a far sopravvivere Hamas e quindi a vincere la guerra non si basa solo sul sostegno dei suoi alti funzionari alla statualità palestinese. È anche guidata dal suo obiettivo generale di creare un “equilibrio tra Israele” e l'Iran. Questo obiettivo, anch'esso lasciato in eredità alla squadra Biden-Harris da Obama e dal suo team, vede gli sforzi dell'Iran per costruire un arsenale nucleare come giustificati alla luce delle presunte capacità nucleari di Israele. Allo stesso modo, l'ascesa dell'Iran come potenza regionale attraverso i suoi eserciti del terrore che circondano Israele e gli Stati arabi sunniti è auspicabile perché crea un “equilibrio di potere”.
Poiché Hamas è un membro dell'asse del terrore iraniano, il rifiuto dell'amministrazione statunitense dell'obiettivo di Israele di sconfiggere Hamas e di cambiare radicalmente il funzionamento di Gaza è coerente con il suo obiettivo strategico generale di preservare l'equilibrio strategico iraniano che esisteva il 6 ottobre nella regione.
Già nei primi giorni di mandato, Obama e i suoi colleghi hanno dovuto affrontare una sfida complicata. L'opinione pubblica americana era contraria al loro obiettivo strategico, così come gli alleati dell'America. Per superare questo ostacolo, il team di Obama ha sviluppato una politica su più fronti, basata sul fare una cosa e fingere il contrario. Ad esempio, il governo statunitense ha permesso all'Iran di sviluppare armi nucleari negoziando un accordo che ha etichettato come Trattato di non proliferazione nucleare.
Israele, invece, è stato dipinto come un guerrafondaio. Poiché Netanyahu era il più feroce oppositore dei regali nucleari di Obama all'Iran, il team di Obama ha sviluppato una strategia completa per minare gli sforzi di Netanyahu di bloccare le ambizioni nucleari dell'Iran.  Gli Stati Uniti hanno di fatto messo le forze armate israeliane in una scatola, rifornendole di sistemi di difesa e costringendole a firmare un accordo di aiuti militari che ha paralizzato l'industria bellica israeliana per toglierle l'indipendenza strategica. Se Israele acquistava tutte le sue bombe dagli Stati Uniti, ogni operazione offensiva doveva essere autorizzata dagli Stati Uniti. Lo stesso valeva per le piattaforme aeree, le munizioni per carri armati e artiglieria e i fucili d'assalto.
Il governo statunitense ha minato completamente il potere di Netanyahu coltivando gli ex e gli attuali capi della sicurezza affinché considerassero loro - e non Netanyahu - come “gli adulti al comando” e li informassero di tutti i piani di Netanyahu per intraprendere azioni offensive contro l'Iran. A tal fine, nel 2012, il capo del Mossad Meir Dagan ha informato la sua controparte della CIA del piano di Netanyahu di attaccare le strutture nucleari iraniane, e il governo statunitense ha rapidamente bloccato tali piani.
Biden e Harris hanno proseguito le politiche di Obama sia nei confronti dei palestinesi e dell'Iran, sia per quanto riguarda l'indebolimento politico e strategico di Netanyahu e di Israele subito dopo il suo insediamento.
Questo ci riporta alla questione del “giorno dopo”.
Per quanto riguarda il Libano, lungi dal sostenere gli sforzi di Israele per distruggere Hezbollah, il più grande e letale esercito terroristico iraniano, l'amministrazione ha passato l'ultimo anno a impedire a Israele di passare all'offensiva contro Hezbollah. Sebbene Biden abbia pubblicamente appoggiato la decapitazione da parte di Israele dei vertici di Hezbollah, tra cui Hassan Nasrallah, l'amministrazione si è detta incredula per il fatto che Israele abbia ucciso Nasrallah. Il 10 ottobre, Harris ha ribadito che l'amministrazione statunitense cercava un cessate il fuoco immediato e una de-escalation sia in Libano che a Gaza. Questo significa a sua volta che Harris e Biden vogliono salvare Hezbollah - come Hamas - dalla sconfitta, perché vogliono tornare all'equilibrio strategico del 6 ottobre 2023, che vedeva l'Iran come egemone regionale emergente a pochi passi da un arsenale nucleare.
Per quanto riguarda l'Iran stesso, dall'attacco missilistico del regime di Teheran contro Israele il 1° ottobre 2024, il governo statunitense ha lavorato febbrilmente per impedire a Israele di colpire obiettivi strategici in un contrattacco contro l'Iran. Funzionari del governo statunitense hanno ripetutamente lasciato intendere che Israele sta cercando di attirare gli Stati Uniti in una guerra in Medio Oriente. La scorsa settimana, il direttore della CIA William Burns e altri alti funzionari del governo statunitense hanno sottolineato in una serie di dichiarazioni che non c'è alcuna prova che l'Iran stia cercando di dotarsi di un arsenale nucleare. Uno sguardo alle prime pagine iraniane e ai dibattiti parlamentari, inondati di appelli alla costruzione di armi nucleari, smaschera queste affermazioni come fraudolente e manipolative.
Nonostante l'ampia strategia di camera d'eco dell'amministrazione statunitense, che inonda i media di insinuazioni anti-Netanyahu, messaggi demoralizzanti sulla debolezza israeliana e afferma che Israele sta cercando di trascinare gli Stati Uniti in una guerra non necessaria, il messaggio dell'amministrazione statunitense sta raggiungendo i suoi limiti.
Lo straordinario successo di Israele nel distruggere la leadership di Hezbollah e gran parte del suo massiccio arsenale di armi ha aumentato il sostegno americano alla vittoria israeliana. Mentre solo pochi mesi fa gli “esperti” deridevano la promessa di Netanyahu che Israele avrebbe ottenuto una “vittoria assoluta” in questa guerra, ora esperti come Richard Dearlove, ex capo dell'agenzia di intelligence britannica MI6, affermano che Israele è sulla buona strada per ottenere proprio questo risultato.
E così arriviamo al piano di Netanyahu per il giorno dopo. Respinto da Biden-Harris, Netanyahu ha aspettato fino a dopo la svolta israeliana nella guerra per presentare all'amministrazione statunitense la sua effettiva visione strategica per un Medio Oriente postbellico. L'ha delineata in due messaggi video in lingua inglese, prima al popolo iraniano e poi a quello libanese.
In entrambi i video ha descritto come l'Iran e gli Hezbollah abbiano distrutto rispettivamente l'Iran e il Libano. Israele, ha detto ai libanesi, ha indebolito gli Hezbollah al punto che il popolo libanese ha potuto sollevarsi contro di loro.
Abbiamo indebolito le capacità di Hezbollah; abbiamo eliminato migliaia di terroristi, tra cui lo stesso Nasrallah, il suo successore e il successore del suo successore”, ha detto. Oggi Hezbollah è più debole di quanto non sia stato per molti, molti anni.
“Ora voi, popolo libanese, siete a un bivio importante. Avete una scelta. Potete riprendervi il vostro Paese”.
Agli iraniani ha detto: “Una cosa è certa: ai tiranni iraniani non interessa il vostro futuro. Ma a voi sì”.
Ha detto al popolo iraniano che l'Iran sarà liberato dal regime “molto prima di quanto si pensi” e ha presentato loro una visione di pace dopo la sua caduta.
“I nostri due Paesi, Israele e Iran, vivranno in pace. Quando arriverà quel giorno, la rete del terrore che il regime ha costruito nei cinque continenti sarà fallita e smantellata. L'Iran prospererà come mai prima d'ora”.
La visione di Netanyahu è l'opposto di quella di Obama-Biden-Harris. E l'opinione pubblica americana la sostiene. Questo fatto limita la capacità dell'amministrazione statunitense di bloccare i piani di Israele riguardo alla tanto decantata rappresaglia dopo l'attacco missilistico iraniano del 1° ottobre.
Gli sforzi del team Biden-Harris per impedire a Israele di attaccare le installazioni nucleari o petrolifere iraniane comportano il noto mix di messaggi contraddittori e di sovversione politica e strategica che abbiamo visto da parte delle amministrazioni democratiche statunitensi dal 2009. Da un lato, gli Stati Uniti sostengono Israele. Dall'altro, il governo statunitense ha inondato i media con le sue affermazioni secondo cui Israele è troppo debole per intraprendere un'azione efficace, che i suoi sforzi mirano a trascinare gli Stati Uniti in guerra e che l'Iran non rappresenta una minaccia per nessuno. In questo contesto, il direttore della CIA Burns e altri alti funzionari hanno affermato la scorsa settimana che l'Iran non vuole nemmeno le armi nucleari. I titoli dei giornali e i dibattiti parlamentari iraniani, che invitano tutti il regime a costruire armi nucleari, smascherano immediatamente l'assurdità delle affermazioni dell'amministrazione statunitense.
Tuttavia, gli inaspettati e demoralizzanti ritardi di Israele nell'effettuare il suo attacco di rappresaglia contro l'Iran fanno temere che l'amministrazione statunitense stia riuscendo a impedire a Israele di intraprendere un'azione strategicamente significativa contro il regime. Se così fosse, lo slancio guadagnato da Israele grazie alle sue impressionanti operazioni di intelligence e agli attacchi aerei contro Hezbollah verrebbe annullato. Riemergerà la convinzione che Israele non ha le carte in regola per vincere la guerra.
La prospettiva che Netanyahu si dimetta ora è preoccupante, ma poco probabile. Lo slancio di Israele è troppo forte. Gli iraniani e i libanesi, forti del successo di Israele, si stanno già allineando al suo messaggio. I continui appelli dell'amministrazione statunitense a un cessate il fuoco immediato e alla moderazione strategica di Israele sembrano irrazionali e fuori dal contatto con l'americano medio e con gli alleati statunitensi.
Anche se non è ancora chiaro come andranno le cose, è evidente che l'Iran non è stata l'unica parte i cui obiettivi strategici sono stati minati dal fatto che Israele ha preso il sopravvento in questa guerra. Anche la visione dell'establishment della politica estera di Obama, Biden e Harris, incentrata sull'Iran, è andata in frantumi.

(Israel Heute, 14 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Questa è la Guerra del 7 ottobre

Vi spiego perché non può avere nessun altro nome

di Nissim Louk*

Negli ultimi giorni è tornato alla ribalta il tema di come chiamare la guerra in corso.
Molti, tra cui parecchi parenti degli ostaggi, si arrabbiano all’idea che ci si occupi di una questione apparentemente così marginale mentre più di cento uomini, donne e bambini stanno lentamente marcendo nelle prigioni di morte di Hamas.
Hanno ragione, ovviamente. Ci sono questioni ben più urgenti che dovrebbero essere gli unici argomenti di discussione, in primo luogo il salvataggio degli ostaggi e la sconfitta del nemico, e certamente non questioni apparentemente esoteriche come il nome da dare a questa guerra lunga e straziante.
Eppure, le parole hanno grande importanza e le narrazioni plasmano la realtà.
Il nome della guerra inquadra la storia che c’è dietro, la spiega, innanzitutto a noi stessi e, non meno importante, al resto del mondo.
La prima tappa è smettere di chiamare questa guerra – forse la peggiore che abbiamo mai conosciuto e il cui esito deciderà il nostro futuro in questo luogo – col nome ufficiale di “Spade di Ferro”: questo nome non significa nulla per nessuno (lunedì scorso il primo ministro Benjamin Netanyahu ha proposto di chiamarla “guerra della rinascita” ndr).
Questa guerra può avere un solo nome. E dobbiamo batterci, sì, batterci per farla chiamare con quel nome, in tutto il mondo, e non solo da noi. Ma prima di tutto da noi.
Questa guerra è la guerra del 7 ottobre.
Non può avere nessun altro nome. Come mai? Perché il 7 ottobre, una data che sarà per sempre incisa nella storia del popolo ebraico e del sionismo, è ciò che ha causato questa guerra. La guerra è scoppiata a causa di ciò che ci hanno fatto in quello Shabbat di devastazione.
E la nostra legittimazione per avviare una guerra di annientamento contro Hamas deriva da ciò che Hamas ha fatto il 7 ottobre.
In nessuna parte del mondo la chiamano la guerra delle Spade di Ferro. La chiamano la Guerra di Gaza. E da molto tempo la sua storia non è più ciò che è accaduto il 7 ottobre, ma ciò che è accaduto dopo.
La storia che è accaduta dopo, come tutti sappiamo, è una conseguenza, una storia parziale che – come minimo – non ci rende giustizia.
I nomi delle guerre sono importanti. Nell’ottobre 1973 siamo riusciti a sconfiggere i paesi arabi non solo sui campi di battaglia, ma nella battaglia per la percezione di quel conflitto. Ancora oggi gli arabi la chiamano la Guerra di Ottobre, ma ovunque nel resto del mondo, specie in Occidente, tutti la chiamano la Guerra dello Yom Kippur.
E queste poche parole riescono a raccontare la vera storia: un attacco a sorpresa, combinato e pianificato per essere lanciato contro Israele nel giorno più sacro dell’anno del calendario ebraico, un giorno di digiuno, quando lo stato di allerta è al minimo.
Anche il 7 ottobre ci ha preso di sorpresa. Ma la sorpresa dell’ottobre 2023 è di gran lunga peggiore della sorpresa dell’ottobre 1973.
Il 7 ottobre ci hanno massacrati, violentati, bruciati insieme alle nostre mogli e ai nostri figli. Il 7 ottobre ci ha aperto le porte dell’inferno e da allora stiamo lottando per la nostra sopravvivenza in questa parte del mondo.
Non lo dimenticheremo mai. Ma devo darvi una notizia: è passato un anno e il mondo ha già dimenticato.
Questa è la Guerra del 7 ottobre. Non può e non deve avere nessun altro nome.
- * Padre di Shani Louk, rapita e assassinata il 7 ottobre
(da Haaretz, 13.10.24)

(israelnet.it, 14 ottobre 2024)

........................................................


La camminata silenziosa raccontata per immagini

Servizio di Daniele Toscano e Luca Spizzichino

In centinaia, come ogni anno, si sono riuniti per un momento profondamente simbolico: la camminata silenziosa per ricordare il rastrellamento del 16 ottobre 1943 degli ebrei di Roma. A leggere i nomi dei deportati nelle strade del quartiere ebraico sono stati i giovani, che hanno guidato il corteo, organizzato come ogni anno da Elvira Di Cave, Daniel Di Porto, Elio Limentani in occasione della data simbolo della Shoah per gli ebrei di Roma. Un momento intimo di ricordo e riflessione per la comunità.

(Shalom, 13 ottobre 2024)

........................................................


Israele e Corea del Sud, una relazione tra alti e bassi

di Nathan Greppi

Quando si ragiona sul conflitto in corso tra Israele da una parte e l’Iran e i suoi proxy dall’altra, spesso ci si dimentica che esso va inquadrato in un contesto più ampio su scala globale, i cui attori spesso sono lontani dal Medio Oriente. Un esempio importante in tal senso riguarda le due Coree: infatti, così come Israele deve da sempre difendersi da vicini ostili, così anche la Corea del Sud si ritrova costantemente minacciata dalla Corea del Nord.
 Se il regime comunista di Pyongyang sta intensificando la sua cooperazione militare con l’Iran dopo aver già fornito armi a Hamas, allo stesso modo le relazioni tra Seoul e Gerusalemme si sono intensificate sempre di più a partire dal 1962, quando i due paesi hanno instaurato per la prima volta relazioni diplomatiche ufficiali, arrivando a firmare nel 2022 un trattato di libero scambio. Mentre nel giugno di quest’anno, il governo sudcoreano ha stipulato un accordo con la piattaforma d’investimenti israeliana OurCrowd, per investire 80 milioni di dollari nel settore high-tech.
 Per capire qual è lo stato attuale dei rapporti tra Israele e la Corea del Sud, abbiamo intervistato Myung Hyung-ju, presidente e fondatrice di KRM News, agenzia di stampa con sede a Gerusalemme che riporta notizie e approfondimenti su Israele in lingua coreana. Recentemente è venuta a Roma per una sfilata di abiti tradizionali coreani, gli Hanbok, che celebra i 140 anni delle relazioni diplomatiche italo-coreane.

- Quali erano i rapporti tra le due nazioni prima del 7 ottobre?
 Da un lato c’era molta cooperazione e ammirazione reciproca, soprattutto nel settore high-tech dove entrambi i paesi sono tra i più all’avanguardia a livello mondiale. Tuttavia, dall’altro lato il Ministero degli Esteri sudcoreano vuole mantenere buoni rapporti anche con i paesi arabi, e per questo la Corea del Sud non si sbilancia mai a favore d’Israele all’ONU.

- Che cosa è cambiato invece dopo i massacri e i rapimenti di Hamas?
 Subito dopo le atrocità del 7 ottobre, il paese ha mostrato una forte solidarietà nei confronti d’Israele. Ma tutto questo ha iniziato a cambiare tra novembre e dicembre 2023; da quel momento in poi, la propaganda dell’ONU e di altri enti internazionali in cui Israele viene accusato di genocidio ha iniziato ad esercitare una forte influenza anche in Corea.
 Questo è il motivo per cui, siccome le notizie che come agenzia di stampa inviavamo alle principali emittenti coreane non bastavano, ho creato anche un mio canale YouTube per raccontare quello che succede davvero in Israele.

- Come sono schierati i politici e l’opinione pubblica sudcoreana in merito al conflitto?
 La nostra impressione è che in questo momento, in Corea circa il 60% della popolazione provi maggiori simpatie per i palestinesi. Per quanto riguarda i media, quelli mainstream riportano le notizie esattamente come la CNN e la BBC. Lascio immaginare che cosa significhi ciò.

- Intervistata nel 2018 dall’agenzia di stampa “The Media Line”, lei ha spiegato che la minoranza cristiana in Corea del Sud è più vicina a Israele rispetto alla media della popolazione.
 È così. In Corea del Sud, tra il 20% e il 30% circa della popolazione è composta da protestanti e cattolici, contro un 60% circa che non pratica alcuna religione e il resto che è prevalentemente buddista; e i cristiani sono quelli che si sentono più vicini a Israele. Mentre più in generale, la maggior parte dei coreani sentono parlare di Israele principalmente per l’innovazione e l’high-tech, che fanno un’impressione positiva.
 Il Soon Lee, artista e co-curatrice della sfilata di Hanbok che si tiene a Roma, è un membro della Chiesa Evangelica in Corea, e sta esponendo le sue opere in varie località anche per portare la propria solidarietà al popolo ebraico. I cristiani in Corea viaggiano molto per turismo in Israele, che per loro è la Terra Santa.

- La Corea del Nord è da sempre alleata dei palestinesi e dell’Iran. Quanto incide questo fattore sulle relazioni tra Israele e la Corea del Sud?
 In generale, tutti coloro che in Corea lavorano nei settori della difesa e dell’innovazione sanno quanto è importante la collaborazione con Israele. Il Ministero della Difesa, in particolare, ha sempre visto grandi opportunità nella cooperazione militare con Israele, a prescindere dalle minacce rappresentate dalla Corea del Nord, dalla Cina o dalla Russia. Purtroppo, questa cooperazione è sempre più minacciata a causa dei mutamenti nell’opinione pubblica.

- A giugno, l’Università Nazionale di Seoul ha inaugurato un centro studi dedicato a Israele, nonostante le proteste filopalestinesi contro questa decisione. In generale, quanto sono diffusi i boicottaggi antisraeliani negli atenei sudcoreani?
 Per il momento la situazione non è preoccupante come negli Stati Uniti. Coloro che in Corea del Sud portano avanti il BDS e le manifestazioni filopalestinesi fanno parte di un gruppo di estrema sinistra, che ha anche chiesto al governo di non vendere più armi a Israele. Si tratta di una frangia assai minoritaria, che non rappresenta la maggioranza del paese, ma riesce a fare molto rumore anche grazie alla copertura che gli offrono i media. Per questo, temiamo che nel lungo periodo potrebbero esercitare un’influenza negativa sull’opinione pubblica.
 Anche per questo motivo, la comunità cristiana si sta facendo sentire molto più che in passato. Essendo molto filoisraeliani, i cristiani in Corea da silenziosi che erano hanno alzato la voce sempre di più dopo il 7 ottobre, organizzando conferenze su Israele e il sionismo e manifestazioni per chiedere la liberazione degli ostaggi.

- Qualora dovesse scoppiare una crisi tra le due Coree, come dovrebbe reagire Israele?
 Sarebbe terribile se ciò dovesse accadere. In ogni caso, se già la Corea del Sud ha stipulato un accordo comune sulla difesa con gli Stati Uniti e il Giappone, credo che anche Israele saprebbe fornirgli un considerevole aiuto, soprattutto negli ambiti dell’intelligence, dell’esercito e dell’aviazione.

(Bet Magazine Mosaico, 13 ottobre 2024)

........................................................



«Un profeta come me»

di Marcello Cicchese

Quando si comincia a parlare di previsioni di fatti futuri qualcuno sorride, e in parte è comprensibile perché di “profeti” strampalati se ne incontrano dappertutto e in continuazione. Ma ci sono anche casi che dovrebbero far riflettere. Nel 1938 il regime nazista era all’apice del suo successo. Nel novembre di quell’anno ci fu la notte dei cristalli. Un cristiano evangelico che fino a quel momento era stato un moderato, ma convinto sostenitore del nazismo, cambiò radicalmente opinione. Da quel momento fu sicuro che il suo paese sarebbe andato incontro alla rovina. Non era un esperto di politica internazionale, ma un semplice credente che conosceva la Bibbia. Si ricordò di una frase del profeta Zaccaria:

    “... così parla l’Eterno degli eserciti: «E’ per rivendicare la sua gloria che egli mi ha mandato verso le nazioni che hanno fatto di voi la loro preda; perché chi tocca voi, tocca la pupilla dell’occhio suo»” (Zaccaria 2:8).

Il suo paese andò incontro alla rovina, come aveva previsto sulla base della Scrittura
  Si può dare un altro esempio, ricevuto di persona attraverso una testimonianza. Durante l’ultima guerra un’anziana signora tedesca, convinta cristiana evangelica, sentì che davanti a casa sua un gruppo di ragazzi stava gridando: “Morte agli ebrei” e altre frasi simili. Uscì fuori e disse: «Smettetela, perché tanto noi tedeschi perderemo la guerra e gli ebrei avranno il loro Stato». Quanti uomini politici avrebbero osato fare una simile previsione del futuro? Non ci furono conseguenze probabilmente perché nessuno sporse denuncia in considerazione dell’avanzata età della donna.
  L’elemento primario della questione ebraica non è l’ebreo come individuo e neppure il popolo come aggregato multiforme di singoli, ma il concetto di nazione ebraica. L’atto giuridico costitutivo di questa nazione si trova nella promessa fatta da Dio ad Abramo: “Io farò di te una grande nazione” (Genesi 12:2), che più volte è stata ripetuta ed espressa nella forma giuridica di un patto:

    “Quando Abramo fu d’età di novantanove anni, l’Eterno gli apparve e gli disse: «Io sono l’Iddio onnipotente; cammina alla mia presenza, e sii integro; e io fermerò il mio patto fra me e te, e ti moltiplicherò enormemente»” (Genesi 17:1-2).

Quando si fa riferimento a quello che fonda l’unità politica di una nazione e ne stabilisce le regole di comportamento si parla di “patto sociale”. Questo semplice fatto evidenzia che per fissare i fondamenti di una comunità umana vivibile è necessario l’uso adeguato della parola, perché il semplice riferimento allo stato di natura non garantisce niente. O meglio, garantisce soltanto l’anarchia e il dominio del più forte. Non a caso si parla di legge della giungla. 
  L’elemento unitario della nazione ebraica si trova dunque nella parola rivolta da Dio ad Abramo, comprendente anche le promesse per la sua discendenza. Ogni volta che il popolo trascura questo elemento unitario proveniente dall’Alto, la sua unità scompare e gli ebrei si disperdono in tutte le direzioni. Proprio questa è la situazione che osserva Leon Pinsker (1821-1891) nel suo libro Autoemancipazione quando esclama:

    “Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga”.

E’ interessante osservare che un intellettuale laico come Pinsker ricorre, per descrivere lo stato del suo popolo, a una pregnante immagine biblica. Il profeta Isaia, guardando da un punto di vista profetico posto nel futuro, descrive una scena simile come se appartenesse al passato:

    “Noi tutti eravamo smarriti come pecore, ognuno di noi seguiva la propria via” (Isaia 53:6).

Non è forse questa, ancora oggi e nonostante l’esistenza del nucleo unitario dello Stato d’Israele, la situazione degli ebrei nel mondo? Ciascuno segue la sua propria via. Questo semplice fatto dovrebbe far capire quanto sia irrealistica l’idea di immaginare un “complotto giudaico” per arrivare a dominare il mondo. Quando mai gli ebrei riuscirebbero a mettersi tutti d’accordo!
  Le parole di Pinsker sopra riportate esprimono il bisogno di protezione che ha il gregge. Ma se il gregge è “disperso su tutta la faccia della terra”, come potrà essere protetto? E inoltre, perché si continua a chiamarlo gregge se da secoli non esiste più perché le pecore si sono disperse in tutte le nazioni del mondo? Come mai le pecore non sono ancora riuscite a trovare una soluzione ai loro problemi esistenziali nei diversi paesi in cui hanno vissuto? Ancora una volta è Pinsker che risponde:

    “La pace sarà tanto più difficile da ottenere in quanto, a quel che sembra, non siamo capaci di fonderci con le altre nazioni se non in misura limitatissima.”

Le pecore disperse non sono riuscite ad amalgamarsi con quelle di altri greggi, hanno continuato a sentirsi e ad essere considerate diverse. Sono quindi esposte al pericolo: hanno bisogno di protezione. Ma per essere protetti ci vuole unità; e per ottenere unità ci vuole una persona. Pinsker avverte la necessità di qualcuno come Mosè:

    “Uniti, in file serrate, compimmo una volta un esodo ordinato dall'Egitto, per sottrarci alla vergognosa schiavitù e per conquistare una patria! Ora erriamo fuggiaschi ed esuli, sotto il giogo nemico, con la morte nel cuore, senza un Mosè che ci guidi, senza una Terra Promessa che dobbiamo conquistare col nostro valore.”
    “Ci manca una guida geniale quale fu Mosè. La storia non elargisce di continuo al popolo condottieri simili. Ma la limpida coscienza di ciò che più ci abbisogna, cioè la coscienza della necessità assoluta di una patria, farà sorgere fra noi alcuni amici del popolo, energici, fervidi, nobili, che assumeranno insieme la direzione del loro popolo e riusciranno forse, non meno di quell'unico e singolo genio, a redimerci dalla miseria e dalla persecuzione.”

Anche in questo si può dire che Pinsker sia stato profetico. Dalla distruzione del Tempio in poi non è più sorto un “unico e singolo genio” come Mosè, ma con l’apparizione sulla scena del sionismo sono sorti “alcuni amici del popolo, energici, fervidi, nobili” che hanno reso possibile la ricostituzione di una certa unità nazionale.
  L’auspicio della venuta di una guida come Mosè assume una sembianza biblica se si considera che Mosè stesso nella Torà ha preannunciato la venuta di uno come lui. Nel suo discorso al popolo, prima che questi passasse il Giordano per entrare nella Terra promessa, Mosè aveva detto:

    “L'Eterno, il tuo Dio, susciterà per te un profeta come me, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli; a lui darete ascolto” (Deuteronomio 18:15).

Sta scritto dunque nella Bibbia che un giorno arriverà un profeta come Mosè, ma sta scritto anche che Dio si aspetta che il popolo lo ascolti. 
  Anche il desiderio di trovare qualcuno che raccolga il gregge ha risonanze bibliche. Fin dall’inizio Dio aveva pensato a una persona che avrebbe svolto questo compito, ben sapendo che il suo popolo sarebbe stato temporaneamente disperso. Quella persona è il “Servo dell’Eterno” di cui parla il profeta Isaia:

    “Ed ora parla l'Eterno che m'ha formato fin dal seno materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, e per raccogliere intorno a lui Israele” (Isaia 49:5).

Ma anche qui, affinché il programma di Dio vada avanti, occorre che Israele sia disposto a collaborare. 

• LA PIETRA DI SCANDALO
  Il profeta come Mosè del libro del Deuteronomio e il Servo dell’Eterno del profeta Isaia 53 sono due figure bibliche che corrispondono ad un’unica persona: il Messia. Ma chi è il Messia? E’ una persona, un sistema politico, una metafora linguistica? E’ già venuto? Deve ancora venire? Sulle risposte a queste domande le strade si dividono. E’ chiaro - ma non è inutile sottolinearlo con decisione - che dirsi cristiani significa confessare che il Messia è già venuto in Israele una prima volta nella persona di Gesù, come attestato negli scritti del Nuovo Testamento.
  Si sa bene che per molti questo è uno scandalo e una pietra d’inciampo. Certo, sarebbe auspicabile che a causa di questo argomento non volino pietre in direzione di chi ci crede, né si accendano roghi destinati a chi non ci crede, ma non è bene che per ragioni di buona educazione ecumenica ci si accordi nel non parlarne affatto. Il problema esiste, resta scottante, è centrale: non deve dunque essere evitato.
  In forma molto schematica si può dire che:

  • la soluzione dei problemi del mondo è collegata alla soluzione della questione ebraica;
  • il nocciolo della questione ebraica sta nel concetto di nazione ebraica;
  • la nazione ebraica ha il suo centro unificante nella persona del Messia.

Non ha senso quindi sperare di risolvere alla radice i problemi del mondo trascurando la persona del Messia, e, viceversa, non si può riflettere in modo approfondito sulla persona del Messia senza essere indotti a prendere seriamente in considerazione i problemi del mondo.
  E’ vero che esiste un cristianesimo spiritualizzante ed edonistico che sembra interessarsi di Gesù soltanto per la possibilità che offre di strappare anime dalle fiamme dell’inferno e mandarle a godere in paradiso, ma è un Gesù ritagliato artificiosamente dai testi biblici per fa emergere soltanto alcuni aspetti prediletti della sua figura, a scapito di tanti altri che restano colpevolmente trascurati, soprattutto quelli che hanno a che fare con Israele. Tenendo conto che la parola “eresia” proviene da un termine greco che significa “scelta”, si può dire che anche in questo caso si tratta di una vera e propria eresia.
  Si considerino allora i quattro Vangeli. Molti, anche tra gli atei, li trovano interessanti; i moralisti vi ricavano storielle istruttive, i credenti esempi edificanti, i teologi dottrine complicate. Ma leggendoli attentamente ci si accorge che i quattro Vangeli hanno un unico oggetto di interesse: la persona di Gesù. Sono stati scritti per rispondere a una precisa domanda: “Chi è Gesù?” E al lettore pongono a loro volta una precisa domanda: “E tu, chi dici che sia Gesù?” Dalla risposta a queste due domande dipendono tutte le dottrine e tutti gli insegnamenti pratici che se ne possono trarre. Non ha senso tirar fuori, qua e là, dai racconti evangelici, spunti di attualizzazione pratica senza prima prendere posizione sulla persona di Gesù. E non è possibile comprendere pienamente la persona di Gesù se non la si colloca nel suo contesto ebraico. Non è lecito, per esempio, fare del sermone sul monte (Matteo, capp. 5-7) un modello universale di condotta morale senza tener conto della persona che l’ha pronunciato e dell’ambiente storico e religioso in cui i fatti sono avvenuti. 
  Gesù stesso ha espresso la necessità di una precisa presa di posizione a suo riguardo in un serio e grave colloquio avuto con i suoi discepoli verso la fine del suo ministero:

    “Poi Gesù, giunto nei dintorni di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?» Essi risposero: «Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti».” (Matteo 16:13-14)

Le risposte, come si vede, sono tutte positive, ma nessuna di queste è quella giusta. Gesù allora interpella direttamente i discepoli:

    “Ed egli disse loro: «E voi, chi dite che io sia?»” (Matteo 16:15).

Chiede dunque una precisa presa di posizione.

    “Simon Pietro rispose: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».” (Matteo 16:16).

Questa, e solo questa, è la risposta giusta. Tutte le altre sono sbagliate, anche se le intenzioni di chi le ha date erano buone. Gesù è il Cristo, cioè il Messia, il Figlio di Dio di cui si parla nelle Scritture. Pietro riceve conferma dell’esattezza della sua risposta:

    “Gesù, replicando, disse: «Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli.” (Matteo 16:17).

Gesù non dice: «Bravo, Pietro! Risposta esatta!» E tanto meno promette un premio, come nei quiz televisivi. Quella confessione non è opera umana: a Pietro Gesù dice «Beato», cioè benedetto, toccato dalla grazia della rivelazione di Dio. 
  Sulla base di quella confessione Gesù promette che fonderà la sua chiesa. L’istituzione politico-religiosa che è sorta in seguito sfruttando illegittimamente le parole di Gesù è stata, e sostanzialmente è ancora, antigiudaica. E’ inevitabile, perché pretende di occupare un posto che Dio ha riservato soltanto a Israele. Pietro, il preteso primo papa, non solo era ebreo, ma la confessione su cui Gesù ha promesso di fondare la sua chiesa poteva essere fatta soltanto da un ebreo. Un pagano, potente o colto che fosse stato, non avrebbe mai potuto dire a Gesù “Tu sei il Messia” per il semplice fatto che non sapeva neppure che cosa fosse il Messia. 

(da "Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo")



........................................................


L’inutilità dell’Unifil

di David Elber

Per prima cosa va puntualizzato che Israele, da diversi giorni, ha chiesto l’allontanamento dell’inutile contingente ONU per evitare che i suoi membri potessero rimanere coinvolti negli scontri a fuoco. Inoltre, prima dell’azione militare ha chiesto ai militari vicini alle postazioni di osservazione di mettersi in sicurezza visto che si rifiutavano per mere ragioni politiche di allontanarsi dagli obiettivi dell’azione militare. È evidente che queste precauzioni hanno salvaguardato l’incolumità dei soldati dell’UNIFIL che non erano in nessun modo l’obiettivo dell’azione medesima.
  Il filo conduttore che lega il 9 ottobre 1982, anno dell’attentato al Tempio Centrale di Roma, che causò la morte di Stefano Gaj Taché e il ferimento di quaranta persone, perpetrato da un commando di terroristi palestinesi di Fatah, e il 7 ottobre 2023, quando tremila miliziani di Hamas hanno fatto irruzione in Israele trucidando milleduecento cittadini e rapendone duecentoquaranta è sempre lo stesso, l’odio per gli ebrei.
  Nel 1982, quando venne commesso l’attentato, Israele stava combattendo la prima guerra del Libano, che, dopo cinque mesi, si sarebbe conclusa con la cacciata di Arafat e dell’OLP dal Paese dei cedri. Anche allora, esattamente come oggi, Israele veniva accusato di genocidio.
  Dopo quarantadue anni tutto si ripete, ma su scala maggiore.
  L’antisionismo è stato ormai sdoganato come la forma legittima di antisemitismo, quella che si può esibire in pubblico, e che anche alcuni ebrei impugnano: frange ultraortodosse per le quali Israele è nato nella colpa di essere uno Stato laico, e quelli di estrema sinistra che ripudiano su basi ideologiche ogni forma di nazionalismo, di statualità etnicamente forte, salvo quella islamica.
  L’attentato alla sinagoga di Roma del 1982, luogo ebraico, ha fatto da apristrada ad altri attacchi e attentati che, nel corso del tempo si sono succeduti nei confronti di istituzioni ebraiche e di persone fisiche, come quello clamoroso del 1994 a Buenos Aires all’Asociación Mutual Israelita Argentina, riconducibile a Hezbollah, che costò la vita a ottantacinque persone e il ferimento di trecento.
  Considerare gli ebrei un corpo estraneo in Medio Oriente, là dove ha avuto origine l’ebraismo, è ancora più eclatante che averli considerati per secoli un corpo estraneo all’interno delle società cristiane in cui vivevano. Si tratta in entrambi i casi di antisemitismo, e nessun sofisma, nessuna speciosa circonvoluzione del pensiero potrà scalfire questa evidenza.
  Gli assassini del piccolo Stefano e i carnefici di Hamas sono uniti da una stessa convinzione profondamente radicata, che Israele non abbia alcuna legittimità, nessun diritto all’esistenza, esattamente come, ottanta anni fa, Adolf Hitler, su scala ben maggiore, considerava gli ebrei un morbo che appestava il mondo.

(L'informale, 12 ottobre 2024)

........................................................


L’ayatollah d’Occidente

Non è un pazzo irrazionale. Khamenei ci legge, studia e sa parlare la lingua che seduce le democrazie. Ha dichiarato una “guerra cognitiva” per reclutare adepti nel nuovo anti imperialismo degli imbecilli.

di Giulio Meotti

Lo scorso weekend, Ali Khamenei ha tenuto un sermone di quaranta minuti fuori da una moschea a Teheran giustificando il pogrom del 7 ottobre. Per quaranta lunghissimi minuti, Khamenei si è visto trasmettere in diretta dalla Bbc, la tv pubblica inglese, mentre aveva con sé un fucile. “Si potrebbe, a fatica, capire la Bbc che intervista Khamenei”, ha scritto Bernard-Henri Lévy. “Ma trasmettere un discorso di 45 minuti che elogia il 7 ottobre e sostiene la distruzione di Israele non è niente di meno che glorificare il terrorismo. Avreste, nel 1939, trasmesso servilmente le parole di Hitler?”.
 Khamenei non è Hitler, ma il più o meno inconfessabile beniamino di un pezzo d’occidente che vede in Iran, Cina, Russia, Hezbollah, Hamas e Venezuela un nuovo asse del bene contro quello del male, composto da occidente, America e Israele. “La questione non è solo politica, ma metafisica” scrive su Le Point Franz-Olivier Giesbert, a lungo direttore della redazione dell’Obs, del Figaro e di altri giornali francesi. “Per quale aberrazione mentale il loro odio di sé o la loro pulsione di morte li porta a proclamare un’intifada in pieno centro a Parigi o a travestirsi da fedayn, coperti di kefiah, di veli, per sostenere la ‘resistenza’ guidata dal ‘grande leader iraniano’, come dice seriamente Dominique de Villepin? Da qui la demonizzazione quasi paranoica di Israele per riportare alla luce, sulle sue macerie, una grande Palestina, ‘dal mare al Giordano’. Questo è l’obiettivo dichiarato dei mullah e dei loro mercenari. Sulla stessa linea, i cavalieri dell’Apocalisse della nostra ‘quinta colonna’ non muovono mai la minima critica contro l’Iran, il loro migliore alleato”.
 I sondaggi mostrano un consenso in occidente per il progetto di Khamenei più ampio che in Iran. “I giovani britannici sono sempre più a favore di Hamas dopo il massacro del 7 ottobre”, secondo un nuovo sondaggio di YouGov uscito questa settimana. Il 16 per cento ritiene che il massacro sia “giustificato”, come ha detto Khamenei sulla Bbc. Oltre un quarto, il 28 per cento, dei britannici “molto di sinistra”. Un sondaggio Harvard-Harris ha rilevato che il 51 per cento degli americani tra i 18 e i 24 anni ha affermato di sostenere “l’abolizione di Israele e la sua consegna ad Hamas”. Khamenei è l’ayatollah d’occidente a capo dell’“anti imperialismo degli imbecilli”.
 Quando la moschea sciita di Roma tiene una serata di preghiera per Hassan Nasrallah, l’ordine arriva da Khamenei. Quando la Svezia è inondata da centinaia di migliaia di messaggi sui social contro l’“islamofobia” e il rogo del Corano, l’ordine arriva sempre da Khamenei. Quando la McGill University, in Canada, è travolta da un’ondata di manifestanti pro Gaza e sui social è un putiferio di proteste, l’ordine arriva da Khamenei. Intanto a Roma sventolano le bandiere di Hezbollah e dell’Iran e i ragazzi romani portano cartelli dove si legge: “7 ottobre non è terrorismo, ma resistenza”. E i gruppi filopalestinesi della Columbia University ora esprimono solidarietà con l’attacco missilistico dell’Iran allo stato ebraico, definendolo una “mossa coraggiosa”.
 La prima pagina del numero del 2 maggio 2024 del settimanale Khat-e-Hizbullah, portavoce di Khamenei, presentava una foto delle proteste nei campus americani con il titolo: “Una fiamma nel cuore dell’oscurità: rivolta degli studenti americani contro il genocidio del popolo di Gaza”. Khamenei afferma che la guerra è ora una guerra cognitiva: “L’influenza della stampa è più potente di un missile, un drone, un aereo da guerra e le armi in generale. I media influenzano la mente e i cuori, e chi controlla i media riesce a raggiungere i suoi obiettivi”.
 Khamenei continua intanto a usare i social per dire al mondo che “i sionisti sono come i nazisti”, un refrain ormai entrato di petto nella cultura occidentale. Khamenei manipola anche il termine “razzismo”, il passepartout della coscienza occidentale. Come ha detto lui stesso, “il regime sionista è un esempio di razzismo”.
 Quando Teheran minacciò di distruggere Israele “tumore canceroso”, il Premio Nobel per la letteratura, il tedesco Günter Grass, prese carta e penna per difendere gli ayatollah iraniani, dicendo che era Gerusalemme che minacciava Teheran, non il contrario. Poi, distribuita su X (Twitter), arriva la lettera di Khamenei agli studenti americani, in cui il leader compiace la sinistra usando il gergo woke e la da’wa, la sensibilizzazione islamica. Khamenei ha condannato l’“islamofobia” nella sua prima lettera ai giovani occidentali dopo l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi. “L’élite sionista globale… possiede la maggior parte delle corporazioni mediatiche statunitensi ed europee o le influenza attraverso finanziamenti e corruzione”, scrive Khamenei. Musica per le orecchie degli antisemiti.
 “Il leader iraniano sta facendo ciò che faceva l’Unione sovietica”, scrive Michael Totten sul World Affairs Journal. “Entrambi hanno usato il linguaggio occidentale dei diritti umani come armi contro l’occidente. Ehi, forse il leader iraniano è uno di noi! Forse tutto ciò che dice il nostro governo è una bugia!”.
 Khamenei ha attaccato la “brutalità della polizia americana”, dopo l’uccisione di George Floyd nel 2020. Ha twittato: “Se hai la pelle scura e cammini negli Stati Uniti, non puoi essere sicuro di restare vivo nei prossimi minuti”. Non male per un regime che sfregia con il rasoio le ragazze che rifiutano il velo. In un tweet sempre rivolto alla sinistra americana, Khamenei ha processato il passato degli Stati Uniti. La schiavitù, ha detto Khamenei, “è uno degli eventi tragici della storia. Un tempo salpavano le navi nell’Oceano Atlantico e gettavano l’ancora sulle coste dell’Africa occidentale, in Gambia e altri paesi del continente”.
 Intanto la sua autobiografia, “Cella numero 14”, riferimento alla prigione in cui la Guida suprema ha trascorso tre anni al tempo dello Shah, è stata tradotta in inglese, spagnolo, portoghese, cinese, urdu e altre lingue, nonché è presentata nelle capitali della “resistenza antioccidentale”, a cominciare da Caracas, dove il chavismo è diventato la Mecca degli antagonisti occidentali (va da sé che Chávez era un habitué a Teheran).
 Khamenei, oltre al Papa vicario di Cristo, è l’unica figura mondiale che reclama un legame con Dio (ayatollah significa “segno di Allah”). Nato a Mashhad nel 1939, il padre studioso religioso, Khamenei studiò a Qom dal 1958 al 1964 e, mentre era lì, si unì al movimento di Khomeini, di cui è diventato erede nel 1989. L’anno in cui i popoli dietro la cortina di ferro insorgevano contro il dominio sovietico e il Muro di Berlino cadeva, dall’Iran l’ayatollah decideva di mettersi alla testa della grande resistenza contro l’occidente. Oggi il filosofo iraniano Daryush Shayegan dice che la caduta della Repubblica islamica assesterà un colpo fatale all’islam politico, rimasto bloccato al 1989.
 Non importa che l’Iran di Khamenei detenga il record mondiale di condanne a morte, che impicchi in piazza i dissidenti e gli omosessuali, che faccia strame delle donne libere, che censuri la cultura, che spenda un miliardo di dollari all’anno per finanziare gruppi terroristici e che svetti in altri record poco liberal. Khamenei attacca la democrazia liberale, il capitalismo e l’occidente coinvolti “in un inevitabile declino a lungo termine”. Vede l’occidente come “islamofobo”. E’ un fanatico, ma non è irrazionale. Nessun altro marja (ayatollah anziano) o faqih (giurista islamico) ha un passato così cosmopolita. Khamenei conosce le corde che deve pizzicare per suonare lo spartito occidentale. Come quando attacca il “soft power” coniato da Joseph Nye.
 Il sedici per cento e la metà dei giovani inglesi e americani ritiene che il massacro del 7 ottobre sia “giustificato”
 L’ayatollah iraniano ha scritto: “La stampa ha un’influenza più potente di un missile, i media influenzano menti e cuori” Cita Sartre per il suo sostegno alla rivoluzione di Castro a Cuba, se la prende con la “società aperta” di Karl Popper, secondo lui “obsoleta” La sua ossessione patologica verso
 Israele e gli ebrei, che risale agli anni Sessanta, sta facendo breccia in tanti occidentali.
 Khamenei parla spesso dei romanzi occidentali. Ha elogiato il russo Mikhail Sholokhov e gli piacciono Honoré de Balzac e Victor Hugo. Come disse ad alcuni funzionari della rete televisiva statale iraniana nel 2004, “secondo me, ‘I miserabili’ di Victor Hugo è il miglior romanzo mai stato scritto nella storia. Ho letto ‘La Divina Commedia’. Ma Hugo è un miracolo nel mondo della scrittura… Un libro di sociologia, un libro di storia, un libro di critica, un libro divino, un libro di amore e sentimento”.
 Khamenei ha detto che i romanzi gli hanno dato una visione delle realtà più profonda della vita in occidente. “Leggete i romanzi di alcuni autori di sinistra, come Howard Fast”, ha consigliato a un pubblico di scrittori e artisti nel 1996. Fast è lo scrittore americano comunista vincitore del Premio Stalin. “Leggete il famoso libro ‘Furore’, scritto da John Steinbeck… e vedete cosa dice sulla situazione della sinistra”, continua Khamenei.
 E’ anche un fan della “Capanna dello zio Tom”, che raccomandò nel marzo 2002 ad alti dirigenti statali: “Non è questo il governo che ha massacrato gli abitanti nativi originari della terra d’America? Non è stato questo sistema e i suoi agenti che hanno sequestrato milioni di africani dalle loro case e li hanno portati via come schiavi e hanno rapito i loro giovani figli e figlie per farli diventare schiavi e hanno inflitto loro per lunghi anni le tragedie più gravi? Oggi, una delle opere d’arte più tragiche è ‘La capanna dello zio Tom’. Questo libro è ancora vivo dopo quasi duecento anni”.
 L’ayatollah sa usare il registro woke quando serve. Conosce l’occidente, anche se vi ha messo piede soltanto una volta nel 1987, quando Khamenei fece il suo unico viaggio fino a oggi negli Stati Uniti, per partecipare come presidente dell’Iran a una sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel suo discorso disse agli americani: “Siete colpevoli di sostegno alla dittatura Pahlavi, con tutti i crimini che ha commesso contro il nostro popolo”. Khamenei ha diversi famigliari in Gran Bretagna e Francia, tra cui suo nipote, Mahmoud Moradkhani, mentre una sorella di Khamenei, Badri, lo ha accusato di aver costruito un “califfato dispotico”.
 L’ayatollah ha descritto la cultura occidentale come “una combinazione di cose belle e brutte”, dicendo ai giovani iraniani: “Nessuno può dire che la cultura occidentale sia completamente brutta”. Cita Sartre per il suo sostegno alla rivoluzione di Castro a Cuba, Fanon e altri intellettuali della sinistra europea. Se la prende con la “società aperta” di Karl Popper, diventata “obsoleta”.
 Come Khomeini nell’esilio parigino, Khamenei ha coltivato rapporti con intellettuali occidentali rinnegati, come il comunista prima cattolico e poi islamico Roger Garaudy, negazionista, oltre a ospitare sul sito khamenei.ir interviste a leader della sinistra radicale come George Galloway. Basta leggere “Dossier Iran” (Neri Pozza), che raccoglie gli scritti da Teheran di Michel Foucault, per capire la fascinazione di tanti intellettuali europei per le Guide supreme iraniane.
 E dell’appeasement occidentale, Khamenei si fa beffe. Un anno fa il presidente svizzero Alain Berset, in occasione della festa nazionale iraniana, che si celebra l’11 febbraio e commemora la cacciata dello Shah e l’instaurazione della Repubblica islamica, ha inviato “un telegramma di congratulazioni.” “Il presidente federale augura all’Iran e ai suoi cittadini un futuro felice e di successo”, recita il testo di Berset.
 La sua ossessione patologica verso Israele e gli ebrei fa breccia in tanti occidentali. Le radici del suo antisemitismo si trovano nella biografia della sua città natale, Mashhad. Nei salotti islamici che Khamenei frequentava al tempo, le correnti marxiste ritraevano Israele come strumento dell’imperialismo occidentale; contemporaneamente, Khomeini attaccava l’“influenza ebraica” nella corte reale Pahlevi.
 Nel maggio del 1963 il giovane Khamenei ricevette una lettera di Khomeini, da consegnare alle autorità religiose a Mashhad. Il messaggio diceva: “Preparatevi per la lotta contro il sionismo”. Khamenei attacca “l’opposizione degli ebrei al Profeta”, “l’avidità degli ebrei” e “la magia nera dei rabbini”. Il 5 agosto 1980, Khamenei tiene uno dei suoi più famosi sermoni. “La nazione iraniana è l’avanguardia della lotta per la liberazione della Palestina… La rivoluzione iraniana ha raggiunto la vittoria entro i confini, ma fino a quando una piaga contagiosa, un tumore sporco chiamato stato di Israele, usurpa le terre islamiche, non possiamo sentire la vittoria”. Khamenei aggiunge che “se ogni membro della grande comunità islamica di un miliardo di fedeli getta un secchio d’acqua contro Israele, Israele sarà annegato dal diluvio e sarà sepolto”.
 E così l’ayatollah che pensa di essere il rappresentante di Allah sulla terra ha finito per essere venerato non solo a Teheran, ma anche a Sciences Po, alla Columbia e nelle scuole di giornalismo. Spinto dall’odio per l’entità sionista, il capitalismo liberale e l’occidente, Khamenei lancia missili progressisti e “decolonialisti”, più simbolici che altro e che hanno ucciso relativamente poche persone, mentre Benjamin Netanyahu è un ebreo pericoloso con un ego sproporzionato, “mascolinità tossica” al suo peggio. Il genio diplomatico di Khamenei gli ha permesso di costituire un “asse del bene” capace di resistere all’“asse del male” guidato dagli americani. L’ayatollah ovviamente ha il suo lato oscuro (nessuno è perfetto), come sulla questione del gender. Tuttavia, guardiamo avanti.
 Anche se Khamenei cadrà, il figlio Mojtaba ne prenderà il posto e la luce dell’islam non si spegnerà. Inshallah!

Il Foglio, 12 ottobre 2024)

........................................................


Adesso Israele deve infuriarsi davvero con l’Iran

Il mondo che dovrebbe essere libero è prigioniero di un'industria di menzogne in cui l'asse del male che semina distruzione, terrore e devastazione viene visto come giusto, e Israele come il problema.

di Ben-Dror Yemini

È passato un anno dal feroce massacro. È passato un anno dallo stupro del nostro popolo. Un anno di razzi. Un anno di missili. Un anno di sofferenze. Un anno di sfollati nel nostro paese. Un anno di cortei anti-israeliani. Un anno di retorica antisemita.
Un anno in cui la vera guerra è in realtà contro l’Iran. Un anno in cui la maggior parte del mondo libero dimostra, giorno dopo giorno, di non essere libero.
L’asse del male iraniano ha attaccato Israele da Gaza, dal Libano, dallo Yemen, dall’Iraq, dall’Iran e dalla Siria, e una parte significativa del mondo si è allineata con le forze oscurantiste e assassine.
Un anno in cui persino leader di paesi che dovrebbero guidare il mondo libero, che dovrebbero opporsi all’asse del male, stanno imponendo embarghi sulle armi per Israele.
Il mondo libero è impazzito. È intrappolato da un’industria di menzogne in cui l’asse del male, che impone distruzione, terrore e devastazione, viene visto come giusto, e Israele come il problema.
Non più. Stiamo raggiungendo il momento della decisione, perché nessun contrattacco su Hamas o Hezbollah potrà servire senza colpire l’Iran, la testa del serpente.
Ora tocca a Israele infuriarsi. Deve infuriarsi non solo per il proprio bene, ma per il bene del mondo libero. Perché se l’asse del male uscirà indenne da questo terribile scontro, Israele non sarà l’unico a pagarne il prezzo. Decine di milioni di persone in Medio Oriente continueranno a soffrire. E i paesi del mondo libero pagheranno un prezzo altissimo. Sta già accadendo. Le strade di Londra, Parigi, New York e Madrid traboccano di manifestanti che sostengono l’asse del male.
Innumerevoli docenti, la maggior parte dei docenti, stanno dalla parte dell’asse del male. Giustificano il massacro. Accusano Israele di colonialismo. Accusano Israele di genocidio. Mentono senza sosta.
Sanno, certamente dovrebbero sapere, che i capi di Hamas e Hezbollah dichiarano apertamente che il loro obiettivo è l’annientamento degli ebrei e la conquista di tutto il mondo libero per instituire un califfato islamico. Ma si rifiutano di ascoltare. Per anni hanno fatto il lavaggio del cervello ai loro studenti. Ora quegli studenti si identificano con l’ideologia di Bin Laden e Nasrallah, l’ideologia assassina di Yahya Sinwar e Ali Khamenei. Hanno trasformato i campus in avamposti dell’asse del male.
Questa follia deve finire. Perché decine di milioni, tra cui sei milioni di ebrei, hanno già pagato a caro prezzo la follia del male assoluto. Non più.
Questa volta, la situazione è persino peggiore. La follia non viene solo dall’asse del male. La follia è favorita dal mondo che dovrebbe essere libero.
Questa follia non avrà fine se Israele continuerà a giocare secondo le regole che gli sono imposte, né se soccomberà alle pressioni del mondo libero che è più preoccupato per il prezzo del petrolio che per le minacce alla sopravvivenza dello stato ebraico.
Perché secondo le regole del gioco, il presidente del regime iraniano può recarsi all’Onu ed essere ricevuto con tutti gli onori, mentre incombe un mandato di arresto sul primo ministro e sul ministro della difesa di Israele.
Questa assurdità non può continuare. Israele deve infuriarsi.
Si può discutere se l’accordo nucleare del 2015 con l’Iran fosse la mossa giusta e se sia stato un errore la sua cancellazione nel 2017 da parte di Trump. Solo una cosa è chiara. Con o senza un accordo, l’Iran non ha cambiato nemmeno di un millimetro la sua ideologia assassina. Ha finanziato il terrorismo di Hezbollah, Hamas e Houthi prima dell’accordo, ha continuato a farlo dopo l’accordo e non ha smesso di farlo dopo la cancellazione dell’accordo.
Israele si è trattenuto mentre Hezbollah e Hamas ricevevano sempre più razzi e missili. Israele si è trattenuto per un anno mentre Hezbollah, senza alcuna provocazione da parte israeliana, lanciava ogni mese un migliaio di razzi, missili e droni. Ci sono stati morti e feriti. Migliaia di case sono state distrutte. Migliaia di ettari di terreni agricoli, foreste e riserve naturali sono stati bruciati. Decine di migliaia di israeliani sono diventati profughi. Nessun paese al mondo si sarebbe trattenuto. Ma Israele si è trattenuto.
Non può continuare. Israele deve infuriarsi.
I cortei a sostegno dell’asse del male hanno esibito costantemente lo slogan “con ogni mezzo necessario” per giustificare il massacro di Hamas.
E allora, che diventi lo slogan anche di Israele. Israele deve distruggere le strutture militari e nucleari dell’Iran. Con ogni mezzo necessario, con o senza gli Stati Uniti. Perché abbiamo a che fare con un regime folle. Un regime del genere non deve mai possedere armi di distruzione di massa. Perché se questo regime non viene eliminato, se acquisisce quelle armi, se ottiene le armi nucleari, distruggerà Israele. Commetterà un genocidio su milioni di persone.
I prezzi del petrolio saliranno? Che salgano. Le nostre vite sono più importanti.
Il Medio Oriente ha bisogno di pace e riabilitazione. Ma non arriveranno finché gli ayatollah comanderanno in Iran. Decine di milioni di iraniani, libanesi, iracheni, yemeniti e palestinesi sono le prime vittime del regime iraniano, che porta ovunque distruzione, fame, devastazione e spargimenti di sangue.
Non è chiaro se gli Stati Uniti possono permettersi di abbandonarli al loro destino. È chiaro che Israele non può abbandonare se stesso.
Un’azione di Israele, da solo, potrebbe comportare un prezzo elevato. Ma qualsiasi prezzo, oggi, sarà inferiore al prezzo che Israele pagherebbe in futuro. Anche se è solo, Israele deve agire. Con ogni mezzo necessario.

(Da: YnetNews, 8.10.24)
____________________

"Il mondo che dovrebbe essere libero è prigioniero di un'industria di menzogne". Questa è la realtà. E' vano sperare che l'odio antiebraico in forma di ferocia possa essere contrastato dall'odio antiebraico forma di menzogna. Le due forme di odio tenderanno a trasformarsi in un unico odio diabolico contro Dio, che ha scelto Israele. E la menzogna, a lungo termine, è più efficace della ferocia. M.C.

(israele.net, 11 ottobre 2024)

........................................................


Riconciliazione dopo il 7 ottobre

Yom Kippur: dopo la tragedia del 7 ottobre, il Giorno dell'Espiazione è segnato dalla responsabilità, dall'esame di coscienza e dalla ricerca di unità nazionale.

di Aviel Schneider

FOTO
Persone che pregano per il perdono (Selichot) al Muro Occidentale, la mattina presto del 10 ottobre 2024, prima del Giorno dell'Espiazione

GERUSALEMME - Il biblico Giorno dell'Espiazione, Yom Kippur, assumerà quest'anno un significato ulteriore dopo la tragedia del 7 ottobre. Oltre alle consuete preghiere di questo giorno, dobbiamo porci altre domande. Dove abbiamo fallito? Chi abbiamo deluso? Quanto siamo stati arroganti? Chi abbiamo abbandonato e dimenticato? Abbiamo gridato abbastanza, dove ci siamo interrogati troppo poco? Cosa e chi abbiamo trascurato? Perché non siamo rimasti uniti? 
L'anno passato è stato il peggiore nei 76 anni di storia dello Stato di Israele. Il mio desiderio per quest'anno è una riconciliazione come quella tra Esaù e Giacobbe. “Esaù gli corse incontro, abbracciò Giacobbe, gli cadde sul collo e lo baciò, e piansero”.Solo uniti in questo modo possiamo sconfiggere i nostri nemici in battaglia con l'aiuto e la grazia di Dio.
L'assunzione di responsabilità per le nostre cattive intenzioni o per la nostra indifferenza è uno degli elementi più importanti del Giorno dell'Espiazione biblico. "Perché in questo giorno si farà per voi l'espiazione per purificarvi; da tutti i vostri peccati sarete purificati davanti al Signore ” (Deuteronomio 16:30). È un giorno in cui non dobbiamo puntare il dito verso l'esterno. È un giorno in cui riconoscere che ognuno di noi ha partecipato alla catastrofe di un anno fa, compresi i nostri leader tra il popolo. Ognuno deve accettare con umiltà e coraggio la propria responsabilità per consentire la guarigione e la riconciliazione tra il popolo.
Dal 1973, lo Yom Kippur si è radicato nella coscienza israeliana non solo come giorno di introspezione personale, come è stato per secoli, ma anche come giorno di responsabilità nazionale. Nel corso della storia, è stato un giorno in cui il popolo di Israele ha digiunato, pregato e si è chiesto: “Come abbiamo peccato, imbrogliato, rubato, parlato male e dato consigli sbagliati?”. Tutti noi ci poniamo questa domanda ogni anno. Cosa vogliamo migliorare l'anno prossimo? La guerra dello Yom Kippur ha aggiunto un ulteriore livello a questa riflessione.
E ora, nello Yom Kippur dopo il 7 ottobre, portiamo una nuova, dolorosa confessione di responsabilità per una catastrofe che è stata peggiore della guerra di Yom Kippur. Quest'anno dobbiamo porci ulteriori domande:

  • Dove e perché abbiamo fallito come società?
  • Perché ci siamo meritati questo come società?
  • Come è potuto accadere che il 7 ottobre siamo stati così terribilmente sorpresi?
  • Arroganza?
  • Fallimento totale?
  • Tradimento o cosa?
  • La responsabilità è solo del governo e dell'apparato di sicurezza o dell'intera società del Paese?
  • Cosa ci siamo persi quella mattina di Shabbat?

Non conosco nessuno nel Paese che possa dare una risposta chiara. Assumersi la responsabilità delle nostre cattive intenzioni o della nostra indifferenza è una delle regole fondamentali della riconciliazione reciproca, ma anche con Dio. L'autoesame, sia a livello individuale che sociale, porta con sé accuse, ma indica anche la via dell'espiazione e di un nuovo inizio. Yom Kippur non è il giorno in cui la colpa deve essere scaricata sugli altri. È il giorno in cui tutti riconosciamo che ognuno di noi ha un ruolo nella catastrofe. Siamo tutti delusi dai nostri leader, chi più chi meno. Alcuni incolpano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu da solo per il fallimento, altri incolpano l'intero apparato di sicurezza, che per decenni si è impantanato in concetti sbagliati. Ma la leadership israeliana è un riflesso della società.
E un'altra cosa: è importante non solo battersi il petto, ma anche darsi una pacca sulla spalla e ricordare quanto di buono abbiamo fatto quest'anno, quanto abbiamo amato, quanto abbiamo scelto la vita, quanto siamo stati pronti a qualsiasi compito, quanto abbiamo pianto, quanto ci siamo impegnati. Abbiamo pensato a tutti, abbiamo abbracciato i nostri cari, abbiamo purificato i nostri cuori, abbiamo distinto tra il bene e il male, abbiamo sofferto, ci siamo assunti le nostre responsabilità, abbiamo compiuto i nostri doveri, siamo stati disperati e ci siamo rialzati, abbiamo perdonato con coraggio, abbiamo liberato alcuni ostaggi, abbiamo gridato per coloro che sono ancora nel bisogno e in prigionia, abbiamo mantenuto la speranza nonostante tutto, abbiamo considerato i nostri simili, abbiamo continuato a servire e non ci siamo arresi. Soffriamo e combattiamo perché amiamo e viviamo la vita. Ma dobbiamo farlo insieme, nell'amore, come scrive il salmista (133):
“Ecco, quanto è bello e quanto è piacevole quando i fratelli sono insieme nell'unità!”. Perché lì il Signore ha promesso la benedizione, la vita per sempre”.

(Israel Heute, 11 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
____________________

Proprio in questi giorni mi è venuto fatto di pensare a Esaù e Giacobbe in riferimento alla situazione interna di Israele. Più precisamente, ho visto Esaù come immagine degli ebrei laici e Giacobbe degli ebrei ortodossi. Esaù era un uomo di mondo, pragmatico, buona forchetta, intraprendente cacciatore che si procurava il cibo con le proprie mani, capace di dimenticare il contrasto col pio fratello perché in fondo si trattava “soltanto” di questioni religiose. Umanamente Esaù è una persona simpatica, agli occhi di coloro che si disinteressano di Dio. Alle stesse persone può invece risultare meno simpatica la figura di Giacobbe, che nell’analogia rappresenta gli ebrei ortodossi, così poco simpatici nei loro strani e fastidiosi riferimenti a Dio. Nel caso dei due fratelli però l’Eterno si è espresso in modo molto netto: “Esaù non era forse fratello di Giacobbe?” dice l'Eterno; “eppure io ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù” (Malachia 1:1-2). Punto. Attenzione dunque, nel caso attuale, a non ricercare una umana riconciliazione fatta “alle spalle di Dio”. M.C.

........................................................


Crisi sanitaria, l’iniziativa per portare medici israeliani a Borgosesia

di David Fiorentini

“Abbiamo bisogno di curarci. Ci sono 60 mila persone, in questo territorio, che ne hanno il sacrosanto diritto”. Così ha esordito Fabrizio Bonaccio, sindaco del piccolo comune piemontese di Borgosesia, lanciando un appello a nome di tutta la valle, per sottolineare l’urgenza di garantire un’assistenza sanitaria adeguata ai suoi cittadini.
  Dopo numerosi concorsi andati deserti, l’ospedale locale di Santi Pietro e Paolo si trova oggi a fronteggiare una grave carenza di personale sanitario. La risposta a questa crisi potrebbe arrivare da una direzione inaspettata: Israele.
  Tramite l’associazione “Baita” (ente del terzo settore, senza scopo di lucro), l’amministrazione ha proposto di portare in Italia 65 medici e infermieri israeliani, disposti a cambiare il proprio stile di vita e abbracciare la campagna piemontese.
  Il progetto, che sembrava inizialmente solo un’idea, ha già riscosso parole di sostegno da parte della direttrice generale dell’ASL di Vercelli Eva Colombo: “Si tratta di una soluzione perseguibile e apprezzata. Ho chiesto all’associazione di formare il personale sulla lingua italiana, che è imprescindibile. Credo che ci sia uno spiraglio per attuare questa proposta nel 2025”. La lingua, infatti, rappresenta uno degli ostacoli principali, ma non insormontabili, per l’integrazione dei nuovi medici e infermieri.
   Nel frattempo, 39 professionisti sanitari sono già stati segnalati e l’iter per la loro assunzione è in fase avanzata. Come spiega il presidente dell’associazione Baita Ugo Luzzati, esiste un bando regionale che permette di assumere medici stranieri per un anno, durante cui potranno lavorare e avviare il processo di riconoscimento delle loro qualifiche e specializzazioni.
  “Stiamo raccogliendo i documenti che consegneremo all’ambasciata italiana in Israele. Saranno necessarie lettere da parte delle istituzioni per confermare il progetto e snellire le pratiche”, ha affermato fiducioso Luzzati.
   Nel frattempo, in attesa di un riscontro formale dell’ASL, la collaborazione tra Borgosesia e l’associazione Baita oltre a risolvere l’emergenza sanitaria locale, potrebbe anche rappresentare un modello di integrazione innovativa in ambito sanitario. Di fronte alla carenza diffusa di personale medico in tutta Italia, questa iniziativa potrebbe aprire la strada a nuove forme di cooperazione internazionale per garantire cure di qualità ai cittadini.

(Shalom, 11 ottobre 2024)

........................................................


Il giorno dell'espiazione

LEVITICO 23
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. «Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno dell'espiazione. Ci sarà per voi una santa convocazione; umilierete le anime vostre e offrirete all'Eterno un sacrificio fatto col fuoco.
  3. In questo giorno non farete alcun lavoro, perché è il giorno dell'espiazione, per fare espiazione per voi davanti all'Eterno, il vostro Dio.
  4. Poiché ogni persona che in questo giorno non si umilia, sarà sterminata di mezzo al suo popolo.
  5. E ogni persona che in questo giorno farà un qualsiasi lavoro, io, questa persona, la distruggerò di mezzo al suo popolo.
  6. Non farete alcun lavoro. È una legge perpetua per tutte le vostre generazioni, in tutti i luoghi dove abiterete.
  7. Sarà per voi un sabato di riposo, in cui umilierete le anime vostre; il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, celebrerete il vostro sabato».

*


Kippur – Rav Roberto Della Rocca: Un popolo, un digiuno, un destino

di Rav Roberto Della Rocca

È noto che il giorno di Kippùr, assieme al Seder di Pesach, resta la tradizione più sentita presso il popolo ebraico. Il paradosso è che anche quella grande percentuale di ebrei che si dichiarano “laici” vive un particolare rapporto con il Kippùr, che costituisce, invece, la festa più “religiosa” e meno storicizzabile del calendario ebraico. C’è chi legge in questo fenomeno una sorta di scorciatoia che gli ebrei intravedono nel digiuno di Kippùr dove in un unico giorno si vorrebbe assolvere ai propri doveri ebraici; quell’una tantum, del tutto fuori dall’ordinario, con cui i cosiddetti Kippùr Juden, “gli ebrei del Kippùr”, cercherebbero di compensare un impegno che dovrebbe essere continuo e quotidiano. C’è comunque chi privilegia l’aspetto materiale, direi folkloristico del Kippùr. Si digiuna pensando al cibo che ci attende la sera, ma pur sempre si digiuna. C’è poi chi vive nell’osservanza del Kippùr una dimensione familiare, sociale, comunitaria, anche nel profondo: giorno di confessione collettiva, di presa di coscienza, di riconciliazione.
  Credo però che nell’essenza di questo giorno straordinario ci sia invece una paradossale verità e cioè che gli ebrei siano nella loro essenza molto più intrisi di Torà di quanto vogliano ammettere. C’è una frase dello Zohar, il testo base della Qabalà, che è sconvolgente per chi l’accetta nel suo pieno significato esistenziale: «Israel, kudshà berich hu, vehorayità, had hu», «il popolo di Israele, il Santo Benedetto Egli Sia e la Torà sono un’unica e identica cosa». Nel giorno di Kippùr gli ebrei si riuniscono nei batè hakeneset per rinnovare questo patto affinché ogni singolo ebreo accetti su di se la missione che il destino ci ha affidato.
  In questo Kippùr 5785, caratterizzato dall’angoscia e dalla trepidazione per le sorti dello Stato d’Israele e del popolo ebraico tutto, siamo chiamati ancora di più di altre volte alle nostre responsabilità. Una guerra per la sopravvivenza, per Israele, non è mai una guerra che riguarda solo i soldati, perché da sempre si tratta di difendere l’incolumità fisica e spirituale del nostro popolo, consapevoli di essere testimoni di una storia unica e di un destino unico. E questa difesa è uno dei precetti della Torà che riguarda, con le debite differenze, i soldati come ogni singolo ebreo.

(moked, 11 ottobre 2024)


*


Kol nidrè: il mistero di “voti e giuramenti” annullati a Kippur

Un viaggio nel testo più intrigante della liturgia ebraica

di Massimo Giuliani

La solenne proclamazione di scioglimento e annullamento di voti e giuramenti, nota come Kol nidrè [“Tutti i voti”], che apre i riti serotini del giorno austero e solenne di Yom Kippur – quando digiuno e preghiere concludono i dieci yamìm noraìm, “i giorni terribili”, iniziati a capodanno – è forse il testo più misterioso di tutta la liturgia ebraica. Cantato con struggente melodia in aramaico da ashkenaziti e sefarditi e in ebraico dagli ebrei italiani [Kol nedarim], questo testo, per ragioni all’apparenza soltanto legal-halakhiche (ma c’è ben altro, come spiegherò), intende dichiarare sciolto e annullato per tutta l’assemblea di Israele ogni tipo di giuramento o di voto autoimposti. Esso è introdotto con parole estremamente solenni e impegnative: “Con il consenso del Cielo e con il consenso di quest’assemblea, davanti al tribunale di lassù e davanti al tribunale di quaggiù, ci è dato il permesso di pregare insieme ai trasgressori…”.
Si noti dunque che l’assemblea non è composta solo da santi e giusti, ma anche da peccatori: Israele è uno e uno solo dinanzi al Cielo. Poi, per tre volte consecutive e affiancato da uno o più rotoli della Torà estratti dall’aron, il chazan canta/proclama via via con voce sempre più forte il Kol nidrè: “Tutti i voti, le proibizioni, i giuramenti, le consacrazioni, le restrizioni, le interdizioni e ogni equivalente espressione di voto – da questo Kippur al prossimo Kippur – siano sciolti, assolti, rimossi, cancellati, annullati, resi vuoti e non effettivi né validi…” e per tre volte la formula si chiude cantando i due versetti del perdono, richiesto e ottenuto, presi dalla Torà: Bemidbar/Nm 14,19-20. Solo dopo può cominciare la preghiera vera e propria del giorno dell’espiazione.
Da dove viene questo testo e tale prassi, diffusisi in tutto il mondo ebraico? Cosa significano e che storia hanno queste solenni parole che inaugurano il giorno più intenso della religiosità ebraica (nell’unico rito in cui è prescritta una keri‘à totale ossia una prostrazione al suolo)? Anzitutto, esso è attestato già in epoca tardo-talmudica, ossia nei responsa dei gheomim babilonesi, e con tutta probabilità l’origine storico-geografica è quella. In età moderna venne riletto come fosse una formula segreta usata dai marrani iberici per confermare la loro lealtà ebraica… ma in quel caso i voti e i giuramenti non erano certamente auto-imposti ma forzati, estorti con una minaccia di morte e/o di esilio. La formula, in realtà, è assai più antica e il suo significato ben più esteso. Vi è anzitutto il senso spirituale custodito dalla formulazione halakhica: il Kol nidrè ripulisce mente, cuore e mano da vincoli auto-imposti – dunque non da contratti o impegni sanciti verso terzi – magari per ripicche o puntigli d’orgoglio personale, permettendo così un processo completo di teshuvà. Aiuta, in altre parole, il cammino di catarsi ed elevazione spirituale che è lo scopo della mortificazione (digiuno e astinenza sessuale) del giorno di Kippur. Del resto, Torà e halakhà rabbinica sono sempre stati contrari alla prassi di fare voti: si pensi alle norme sul nazireato (cfr. Bemidbar/Nm 6). Chi fa voti non solo li deve mantenere ma, impegnando il Cielo, deve pure espiare per averli fatti (quando v’era il Tempio, doveva recarvisi per offrire un sacrificio e donare la sua chioma).
Nel Novecento vi è stato un filosofo-teologo ebreo che ha avanzato un daver acher, un’altra spiegazione molto suggestiva. Si tratta di Jacob Taubes (Vienna 1923-Berlino 1987), secondo il quale il Kol nidrè allude a, e intende includere (nel kol), fatti e parole narrati in Shemot/Es 32-34 e Bemidbar/Nm 14-15, dove leggiamo che HaQadosh Barukh Hu fece voto di distruggere il suo popolo e propose a Mosè di cercarsi un nuovo Israele. Come è noto dalla Torà, Mosè rifiutò; anzi, chiedendo perdono, come abbiamo ricordato sopra, fu causa dell’annullamento del voto divino teso ad annientare Israele. L’annullamento di quel voto fu la causa della salvezza del popolo ebraico che pure aveva trasgredito la fiducia divina compiendo un grave atto di idolatria (il vitello d’oro). Proprio ciò che si celebra a Kippur: la teshuvà e il perdono divino, il ritrarsi della Sua ira e il prevalere della Sua misericordia, l’essere – ancora – iscritti nel libro della vita come popolo di Israele. Dunque il primo voto da sciogliere, secondo Taubes, è quello divino contro Israele, perché Israele continui a vivere. Il pathos, la serietà e la solennità di Kippur (rimarcato dall’uso ashkenazita di indossare nel giorno di Kippur una tunica bianca, il qittel, sotto il tallit, il manto della preghiera) sono del tutto giustificati.
Cosa dicono gli storici a riguardo del Kol nidrè? Verso la metà del XIX secolo fu fatta, nelle aree urbane dell’antico regno babilonese, una curiosa scoperta archeologica: nei pavimenti delle case fu rinvenuto del vasellame capovolto verso il basso e sul quale vi erano delle iscrizioni, anche in più alfabeti (tra cui l’aramaico), di formule di scongiuri ed esorcismi, con valore apotropaico, con la funzione cioè di tener lontani gli spiriti maligni e le forze del male dalla casa. Si riteneva infatti che tali forze e spiriti salissero dal basso e le iscrizioni sulle terracotte rovesciate e interrate dovevano magicamente bloccarli. Ora, gli ebrei di Babilonia condividevano, almeno in parte, queste credenze e il Kol nidrè potrebbe appartenere a questo genere di formulari giuridico-religiosi tesi a preservarsi dalle forze maligne. Così la pensava il famoso orientalista e semitista americano Cyrus Herzl Gordon (Philadelphia 1908-2001): “Il nucleo del Kol Nidrè è radicato nel Talmud babilonese e il suo scopo è dare alla comunità un nuovo inizio, annullando le forze del male attirate da parole [voti e giuramenti] di natura distruttiva (anche se pronunciate senza premeditazione). Non v’è ragione di imbarazzo se questa è l’origine storica, né servono interpretazioni artificiali…”.
Forse anche l’interpretazione di Jacob Taubes suonerà artificiale, ma resta il fatto che da secoli la liturgia ebraica di Kippur invoca il perdono divino e lo ottiene nella consapevolezza che nessuno può vincolare o forzare la volontà divina, ma solo impetrarla (Yehi ratzon milfanekha, lo abbiamo ripetuto più volte a Rosh hashanà) e intercedere, come fece Mosè dopo gli eventi tragici del vitello d’oro. Il Kol nidrè ricorda, alla fin fine, che le trasgressioni individuali contaminano la comunità/la società, sempre un misto di giusti e ingiusti, così come, di contro, i meriti individuali la elevano. Non è solo una verità religiosa; è anche una verità laica, etica e politica, la cui cogenza non abbisogna di dimostrazioni. La proclamazione, all’inizio di Kippur, dell’annullamento di parole fuori controllo, di improvvidi giuramenti (a se stessi) e di impegni (autoimposti) che impediscono la fiducia, significa davvero lasciarsi alle spalle il passato “con le sue maledizioni” e aprirsi al futuro “con le sue benedizioni”.
Chatimà tovà a chi legge.

(JoiMag, 15 settembre 2021)
........................................................


Israele sul caso UNIFIL: “Avevamo chiesto loro di spostarsi, sono vicini a basi Hezbollah”

di Luca Spizzichino

Israele ha avviato un’indagine sull’incidente che ha coinvolto il contingente UNIFIL nel sud del Libano, confermando il proprio impegno a fare tutto il possibile per evitare di colpire le forze ONU e i civili non coinvolti nel conflitto. Lo ha affermato con un comunicato l’Ambasciata d’Israele in Italia, che ha espresso apprezzamento per il contributo delle forze di pace UNIFIL, in particolare per il contingente italiano, riconoscendo il loro impegno nel prevenire un’escalation nella regione.
  L’Ambasciata ha inoltre sottolineato che Hezbollah sta cercando di nascondersi vicino alle basi UNIFIL, e che Israele ha già scoperto tunnel e depositi di armi nelle vicinanze di queste aree. La nota afferma che le forze israeliane, nel corso delle operazioni, hanno ripetutamente chiesto all’UNIFIL di spostarsi più a nord per evitare di essere coinvolte nei combattimenti, ma queste richieste non sono state accolte.
  L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Danny Danon, durante una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha ribadito l’impegno di Israele nel “distruggere l’infrastruttura di Hezbollah” nei pressi della Linea Blu. Ha inoltre esortato nuovamente l’UNIFIL a ritirarsi di almeno 5 chilometri a nord per evitare ulteriori rischi. “La nostra raccomandazione è che l’UNIFIL si sposti per evitare di essere coinvolta nei combattimenti, in una situazione resa estremamente volatile dalle continue aggressioni di Hezbollah”, ha dichiarato Danon.
  Ieri un carro armato Merkava delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) ha colpito una torre di osservazione presso il quartier generale UNIFIL a Naqura, ferendo lievemente due peacekeeper indonesiani. Sono state inoltre colpite le basi 1-31 e 1-32A, dove sono presenti truppe italiane, costrette a rifugiarsi in bunker. Tuttavia, fonti israeliane hanno chiarito che non si trattava di un attacco diretto alle forze UNIFIL, ma di un’azione mirata contro una torretta di osservazione equipaggiata con telecamere, situata vicino a un’area sotto il controllo di Hezbollah.
  Secondo il portavoce dell’IDF, l’area è una “zona di guerra aperta”, dove Hezbollah ha costruito bunker sotterranei e altre infrastrutture militari. L’esercito israeliano ha ribadito di aver chiesto più volte il ritiro del contingente UNIFIL da determinate zone strategiche, per facilitare le operazioni contro Hezbollah. Tuttavia, l’UNIFIL ha scelto di rimanere nelle proprie postazioni. Andrea Tenenti, portavoce dell’UNIFIL, ha infatti dichiarato: “Siamo qui perché ce lo ha chiesto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e continueremo a fare il nostro lavoro finché le condizioni lo permetteranno”.

(Shalom, 11 ottobre 2024)


*


Il «chiarimento» dell'ldf: «Avevamo avvertito di rimanere in spazi protetti»

di Stefano Piazza

«Non esiste la giustificazione di dire che le forze armate israeliane avevano avvisato l'Unifil che alcune delle basi dovevano essere lasciate. Ho detto all'ambasciatore di riferire al governo israeliano che le Nazioni Unite e l'Italia non possono prendere ordini dal governo israeliano».
  Le durissime frasi del ministro della Difesa Guido Crosetto, ritenute «spropositate» dalle gerarchie militari israeliane, sono una delle possibili chiavi delle ragioni dell'episodio di ieri.
  L' ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon, dopo che le forze israeliane hanno aperto il fuoco su diverse posizioni Onu ferendo due caschi blu, ha ribadito la richiesta già esplicitata lo scorso 5 ottobre:
  «Israele è concentrato sulla lotta contro Hezbollah e raccomanda che la forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite (Unifil) nel Libano meridionale si sposti verso Nord. La nostra raccomandazione è che l'Unifil si sposti di 5 km a Nord per evitare pericoli mentre i combattimenti si intensifìcano e mentre la situazione lungo la Linea Blu rimane instabile a causa dell'aggressione di Hezbollah. Israele non ha alcun desiderio di stare in Libano, ma farà ciò che è necessario per costringere Hezbollah ad allontanarsi dal suo confine settentrionale in modo che 70.000 residenti possano tornare alle loro case nel nord di Israele». A questo, secondo quanto risulta alla Verità, fa riferimento il ministro della Difesa italiano quando parla di «ordini» irricevibili.
  In serata, l'Idf ha spiegato sui social: «Stamattina (ieri, ndr), le truppe dell'Idf hanno operato nell'area di Naqura, accanto a una base Unifil. Di conseguenza, l'Idf ha ordinato alle forze Onu nell'area di rimanere in spazi protetti, dopodiché ha aperto il fuoco nell'area». Le forze israeliane aggiungono che «Hezbollah opera all'interno e in prossimità di aree civili nel Libano meridionale, comprese le aree vicine alle postazioni Unifil»,
  Quanto avvenuto al quartier generale dell'Unifil in Libano arriva nelle ore che potrebbero precedere l'attacco israeliano all'Iran. Mentre scriviamo, il Gabinetto di guerra sta per riunirsi e dovrebbe autorizzare il premier israeliano e il ministro della Difesa, Yoav Gallant, a prendere una decisione sulla risposta
  di Israele all'attacco missilistico di Teheran della settimana scorsa. In sostanza, Netanyahu e il ministro avranno l'autorità di decidere dove, come e, soprattutto, quando ci sarà l'attacco.
  Il capo delle operazioni di pace delle Nazioni Unite, Jean Pierre Lacroix, citato da Ap, ha affermato che le forze di peacekeeping resteranno nelle loro posizioni, nonostante la già citata richiesta di Israele: «La forza Onu è l'unico canale di comunicazione tra le parti e sta anche lavorando con i partner per fare il possibile per proteggere la popolazione».
  Che i rapporti tra Israele e tutto ciò che inizi con «Un» (Nazioni Unite) siano disastrosi lo abbiamo visto in questo ultimo anno, ma da mesi tra le Idf e l'Unifil regna la sfiducia, eccezion fatta per i soldati italiani, ritenuti «seri e affidabili», al contrario di altri, ad esempio quelli irlandesi, con i quali non sono mancate tensioni. Ci conferma il nostro interlocutore: «Il loro lavoro era di smilitarizzare Hezbollah e impedire che fosse presente nel Libano del Sud, come da risoluzioni Onu. Invece hanno permesso a Hezbollah di bombardare Israele per un anno, costruire tunnel e basi di lancio. Inutili come tutto ciò che è marchiato "Un"».
  Nelle scorse settimane, le Idf avevano rilevato che alcuni militanti di Hezbollah, per sfuggire ai combattimenti, si sarebbero addirittura nascosti nei pressi della base Unifil, il che non ha fatto che aumentare la tensione. La zona dove si trova la base dell'Unifil è stata scenario di violenti scontri tra l'Idf e Hezbollah: secondo quanto riportato dall'Irish Times, alcuni di questi conflitti si sono verificati a meno di 2 chilometri dall'avamposto irlandese, e forse tutto ciò accaduto potrebbe non essere stato del tutto casuale.

(La Verità, 11 ottobre 2024)


*


Crosetto: «Non ci facciamo dare ordini da Israele». Ma da Hezbollah sì

Ci sembra di capire che l'Italia e UNIFIL non prendano ordini da Israele ma solo da Teheran

di Franco Londei

Premetto che qualsiasi sia stato il motivo della provocazione dell’IDF verso UNIFIL (provocazione, non attacco che è altra cosa), a mio modesto parere è stata una decisione sbagliata a livello diplomatico anche se a livello militare avrà avuto le sue ragioni.
Ciò premesso, ieri abbiamo sentito tutti tuonare il Ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, contro la provocazione israeliana nei confronti di UNIFIL. Il “gigante”, nel ricostruire tutta la storia in cui si inserisce la richiesta israeliana rivolta a UNIFIL di spostarsi di qualche Km a nord per la loro sicurezza, ha detto che «l’Italia non si fa dare ordini da Israele».
Bene, mi sembra giusto, come mi sembra giusto che il Ministro della difesa italiano si faccia valere a livello internazionale. Ma mi sorge un dubbio. Come mai questo atteggiamento così “marziale” non è mai stato tenuto nei confronti di Hezbollah? Eppure UNIFIL sono decenni che si sottomette agli ordini del gruppo terrorista libanese legato all’Iran.
Il compiti di UNIFIL dettati dalla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e ben esposto sul sito del Ministero della Difesa Italiano erano (e sarebbero), tra le altre cose:

  • accompagnare e sostenere le Lebanese Armed Forces (LAF) nel loro rischieramento nel Sud del paese, comprendendo la Blue Line (fallito)
  • assistere le LAF nel progredire verso la stabilizzazione delle aree (fallito):
  • pieno rispetto della Blue Line (fallito);
  • prevenire la ripresa delle ostilità, mantenendo tra la Blue Line e il fiume Litani una area cuscinetto libera da personale armato, assetti ed armamenti che non siano quelli del Governo libanese e di UNIFIL (fallito);
  • mettere in atto i rilevanti provvedimenti degli accordi di TAIF, e della Risoluzione 1559 (2004) e 1680 (2006), che impongono il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano;
  • nessuna arma o autorità che non sia dello Stato libanese (fallito);
  • nessuna forza straniera in Libano senza il consenso del Governo (fallito);
  • nessun commercio o rifornimento di armi e connessi materiali al Libano tranne quelli autorizzati dal Governo (fallito);

Bene, tutte queste cose UNIFIL non le ha mai fatte, non perché non le volesse fare, ma perché Hezbollah gli ha impedito di farle ordinando a UNIFIL di stare alla larga dagli affari di Hezbollah e di Teheran.
Quindi UNIFIL e di conseguenza l’Italia, prende ordini da Hezbollah e da Teheran quando si tratta di trasformare il sud del Libano in una santabarbara puntata su Israele, ma non prende ordini da Israele quando si tratta di salvaguardare la sicurezza dei militari UNIFIL? È questo che ci sta dicendo il Ministro Crosetto?
Concludo con alcuni dati usciti proprio ieri. Dana Polk, ricercatrice presso l’Alma Center, ha calcolato che da quando Hezbollah ha iniziato a combattere contro Israele al confine settentrionale l’8 ottobre 2023 fino al primo ottobre 2024, inizio della manovra di terra in Libano, sono stati effettuati 3.235 attacchi contro Israele. Dov’era UNIFIL? Eppure avrebbe dovuto impedire che tutto questo avvenisse. Su oltre tremila attacchi non è successo nemmeno una volta perché Teheran e i suoi scagnozzi avevano ordinato a UNIFIL di stare alla larga.
Quindi, Ministro Crosetto, le chiedo: non crede che se l’Italia non debba prendere ordini da Israele altrettanto non lo debba fare da Teheran? Perché Hezbollah è Teheran.

(Rights Reporter, 11 ottobre 2024)


*


Le 4 telecamere e la torretta: perché Israele ha sparato sull’Unifil

di Michael Sfaradi

Siddhartha Gautama, Buddha, disse: “Tre cose non possono essere nascoste a lungo: il sole, la luna e la verità”. Purtroppo però, e questo lo aggiungo io, quest’ultima, soprattutto quando riguarda Israele e gli ebrei in generale, non viene quasi mai ascoltata.
  Questo però non significa che non vada detta, anzi, al contrario, deve essere ben specificata in modo che rimanga qualche documento per memoria storica. La speranza, in fondo si vive di speranza, è che il futuro possa essere abitato da popolazioni che non permettono alla vulgata, alla propaganda e alle mezze verità, che sono mezze bugie, di diventare sacre e inviolabili. La speranza, in fondo si vive di speranza, è che il futuro possa essere abitato da popolazioni che non permettono lavaggi del cervello dalla politica e dall’informazione malata, di esempi ce ne sono così tanti che elencarli tutti è oggettivamente impossibile.
  La speranza, in fondo si vive di speranza, è che chi siede in posti importanti, mi riferisco soprattutto ai politici, conosca le regole basilari della diplomazia, ragioni con il cervello e non con la pancia e anteponga la verità all’ideologia. Perché, comunque la si pensi, la verità è sacra, mentre l’ideologia ha sempre molti punti d’ombra, troppi. La notizia rimbalzata su tutti i giornali e telegiornali è stata che un carro armato israeliano ha sparato contro le truppe dell’UNIFIL in Libano e che due caschi blu sono rimasti leggermente feriti. Calma, mettiamo ordine, altrimenti all’interno di questo tam-tam non ci si capisce nulla, il che è proprio quello che in molti vogliono. Sono tanti i particolari da mettere in luce per cui è meglio essere quanto più sintetici possibile.
  L’UNIFIL è formata da militari provenienti da vari paesi che rispondono alle Nazioni Unite, per farla più semplice, sono militari che alcuni eserciti prestano all’ONU al fine di far rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in zone difficili del mondo. Pertanto l’UNIFIL risponde alle direttive ONU ed è sotto la responsabilità del palazzo di vetro a prescindere dalla nazionalità dei militari impegnati. Inoltre, è necessario sottolinearlo, attualmente il comando è della Spagna e i due militari leggermente feriti sono indonesiani. Pertanto, almeno per quello che si sa al momento, non ci sono italiani feriti.
  Non appena sono state battute queste poche parole è subito sembrato, Massimo Decimo Meridio docet, che si fosse scatenato l’inferno con il ministro Guido Crosetto che, come l’Orlando Furioso, convocava l’ambasciatore israeliano per consultazioni, rispondeva ai giornalisti e in televisione lanciava accuse di crimini contro l’umanità. Il ministro della Difesa Crosetto dovrebbe sapere che esistono delle regole in diplomazia che vanno rispettate anche nei momenti più difficili, soprattutto nei momenti più difficili, e queste regole prevedono che per cortesia diplomatica un ambasciatore viene convocato dal ministro degli Esteri, solo in casi davvero eccezionali dalla Presidenza del Consiglio. Questo secondo caso è estremamente raro.
  Secondo errore è che attualmente la carica di ambasciatore dello Stato di Israele in Italia è vacante, il vecchio ambasciatore non è più accreditato e quello nuovo deve ancora presentare le credenziali al Presidente della Repubblica. Pertanto la convocazione sarebbe dovuta arrivare al Console Generale attualmente facente funzioni. Se Crosetto fosse stato il ministro degli Esteri sarebbe stato al corrente di questo particolare non di poco conto.
  Veniamo al fatto e come si è svolto. A essere colpita non è stata direttamente una base UNIFIL presidiata da soldati italiani, ma una torretta, un punto di avvistamento sulla quale erano state montate quattro telecamere basculanti. È necessario sottolineare che fino a quando il comando era in mano agli italiani i contatti fra l’IDF e l’UNIFIL erano continui, ma da quando c’è stato il passaggio di consegne a favore degli spagnoli tutto questo si è ridotto al minimo sindacale, anzi, sotto il minimo sindacale. In quella che è una zona di guerra aperta, il comando dell’esercito israeliano aveva contattato nelle ultime dodici ore, e per quattro volte, le linee di comando UNIFIL chiedendo la rimozione di quelle telecamere perché la zona a ridosso interno dell’area è presidiata dai terroristi di Hezbollah e non sussistevano garanzie sufficienti a escludere possibili connessioni alle immagini riprese dalla torretta.
  Hackerare delle telecamere è relativamente semplice e quelle montate sulla torretta dell’UNIFIL avrebbero potuto dare, e sicuramente l’hanno dato altrimenti non ci sarebbe stata la reazione israeliana, informazioni ai terroristi di Hezbollah sui movimenti delle truppe IDF che avanzano in Libano alla ricerca di armi e dei lanciatori di missili che da più di un anno tormentano le città del nord Israele. Per quattro volte la richiesta è caduta nel vuoto. Un portavoce dell’UNIFIL ha dichiarato alla stampa che la forza multinazionale ha respinto la richiesta israeliana di evacuare le postazioni lungo il confine tra Israele e Libano.
  “Siamo lì perché il Consiglio di sicurezza ci ha chiesto di esserci. Quindi resteremo finché la situazione non diventerà impossibile per noi operare”, ha detto alla Reuters il portavoce dell’UNIFIL Andrea Tenenti. Bisogna ricordare che l‘UNIFIL è stata creata per supervisionare il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale dopo la fine del conflitto del 1978 e che L’ONU ha ampliato questa missione con la risoluzione 1701 che è seguita alla guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah. Questo ha consentito ai peacekeeper di dispiegarsi lungo il confine israeliano per aiutare l’esercito libanese a estendere la sua autorità nel sud del paese per la prima volta in decenni. La risoluzione 1701 chiede che il Libano meridionale sia libero da gruppi armati diversi dalle Forze armate libanesi.
  Pertanto ciò che ha detto alla Reuters il portavoce dell’UNIFIL è vero solo in linea di principio, perché di fatto l’UNIFIL, cioè l’ONU, non ha fatto nulla in venti anni per impedire la presenza armata di terroristi, di conseguenza non ha rispettato il suo mandato e le migliaia di missili di fabbricazione iraniana lanciati da Hetzbollah verso Israele sono la prova palese dell’inutilità della loro presenza in loco, inutilità che in più casi ha rasentato il danneggiamento lo sputtanamento internazionale. Negli ultimi 20 anni l’UNIFIL non ha visto i terroristi girare armati in zone dove non dovevano essere e non ha fatto nulla per allontanarli, l’UNIFIL non ha visto l’arrivo dall’Iran di migliaia di missili finiti nelle mani di Hezbollah e si è finta sorpresa quando quegli stessi missili hanno incominciato a volare verso il nord di Israele.
  Ora, francamente, UNIFIL non ha mai fatto il suo lavoro, non ha mai fatto rispettare il mandato, per 20 anni è stata le tre scimmie in una, non ha visto, non ha sentito e, soprattutto non ha mai parlato delle situazioni che si svolgevano davanti agli occhi chiusi degli osservatori internazionali e poi, magicamente, ritrova la vista e proprio mentre c’è una guerra in corso monta delle telecamere per vedere bene, allora gli occhi li hanno, sul lato israeliano. Si rifiuta di toglierle e quando vengono levate con la forza, dopo quattro avvertimenti in dodici ore, ritrova anche la parola per protestare contro Israele quando per Hezbollah in venti anni ha regnato il silenzio assoluto.
  Insomma, Israele è riuscita a far ritrovare la vista e la parola ai ciechi e ai muti, è proprio vero che viviamo nella terra dei miracoli.

(nicolaporro, 11 ottobre 2024)

........................................................


Sinwar avrebbe comunicato di nuovo e chiesto l'immunità

Il leader di Hamas ha chiesto ai mediatori in Qatar l'immunità come parte di un accordo per liberare gli ostaggi rimasti.

FOTO
Yahya Sinwar incontra il Maggiore Generale Abbas Kamel, capo dell'intelligence egiziana (secondo da sin.) a Gaza City, maggio 2021

Il leader di Hamas Yahya Sinwar avrebbe rinnovato questa settimana i contatti con i mediatori del Qatar per esplorare le possibilità di ottenere l'immunità come parte di un accordo di cessate il fuoco in cambio della liberazione degli ostaggi, ha riferito martedì il canale d'informazione israeliano Channel 12. La risposta dei mediatori qatarioti è stata di non ottenere l'immunità.
La risposta dei mediatori del Qatar a Sinwar è stata di non concentrarsi su se stesso ma sugli ostaggi, che sono la questione più urgente. Israele non ha ancora risposto alla richiesta di Sinwar, ha riferito il sito di notizie.
Analogamente, Ynet ha riferito in agosto che Sinwar voleva essere protetto da un possibile attentato israeliano. “Sinwar insiste per avere garanzie sulla sua sicurezza e sulla sua vita”, ha dichiarato un alto funzionario egiziano.
Secondo Channel 12, due minacce del Qatar hanno indotto Sinwar a porre fine al suo lungo silenzio.
In primo luogo, lo Stato del Golfo ricco di petrolio ha avvertito che non avrebbe finanziato la ricostruzione della Striscia di Gaza dopo la guerra. In secondo luogo, ha minacciato di sequestrare o congelare i conti bancari dei principali membri di Hamas in Qatar.
Venerdì, il New York Times ha riferito che Sinwar sta cercando una guerra regionale più ampia e non è interessato a un cessate il fuoco con Gerusalemme.
La mente del massacro del 7 ottobre, che si ritiene si nasconda nei tunnel della Striscia di Gaza, non crede di sopravvivere alla guerra e nelle ultime settimane ha indurito la sua posizione.
“Nelle ultime settimane Hamas non ha mostrato alcun interesse per i colloqui, riferiscono i funzionari statunitensi. Sospettano che Sinwar stia diventando sempre più rassegnato mentre le forze israeliane lo inseguono e dicono che si stanno avvicinando”, ha riportato il Times.
Israele aveva messo in dubbio che Sinwar fosse ancora vivo e i funzionari statunitensi e israeliani avevano riconosciuto che non c'era traccia di lui da mesi.
Nel corso della guerra, iniziata il 7 ottobre 2023, ci sono stati altri periodi in cui Sinwar non è stato raggiungibile.
Hamas detiene ancora 101 ostaggi, tra cui 97 dei 251 sequestrati durante l'assalto al Negev nord-occidentale di poco più di un anno fa, che ha ucciso 1.200 persone e ne ha ferite migliaia.
I rappresentanti del Qatar coinvolti nei negoziati tra Israele e Hamas hanno riferito ai parenti degli ostaggi che Sinwar si sta circondando di prigionieri.
Il generale di brigata dell'IDF (in pensione) Gal Hirsch, commissario del governo israeliano per i cittadini scomparsi e rapiti, ha dichiarato lunedì che Gerusalemme “non lascerà nulla di intentato” per liberare gli ostaggi rimasti.
“Gli sforzi di negoziazione e i passi relativi ai negoziati sono costantemente in corso”, ha dichiarato in occasione del World Counterterrorism Summit presso l'Università Reichman di Herzliya.
“Il problema è il tempo che ci vuole. In ogni valutazione della situazione e in ogni discussione nel gabinetto, sottolineiamo la situazione degli ostaggi e il ticchettio del tempo”, ha continuato Hirsch.(JNS)

(Israel Heute, 10 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Roma - Il ricordo del 9 ottobre. Fadlun: Filo rosso con il presente

All’esterno del Tempio Maggiore di Roma una lapide ricorda che il 9 ottobre del 1982, al termine della preghiera, proprio qui «mani assassine per odio antisemita» uccisero il piccolo Stefano Gaj Taché, di due anni appena, e ferirono altre 40 persone (alcune di loro per giorni in bilico tra la vita e la morte). «Mani assassine» di terroristi palestinesi, in un filo rosso che unisce il 9 ottobre di 42 anni fa al 7 di ottobre dello scorso anno. In entrambi i casi era Shemini Atzeret: festa gioiosa e solenne, profanata dalla medesima volontà annientatrice.
  L’ha sottolineato il presidente della Comunità ebraica romana Victor Fadlun, soffermandosi con i giornalisti al termine della breve commemorazione che si è tenuta come ogni anno davanti alla lapide nel giorno dell’anniversario. Due le corone deposte: una a nome della Comunità insieme all’Ucei, l’altra del Comune. Il rabbino capo Riccardo Di Segni ha letto un salmo. E poi la cerimonia si è sciolta, senza interventi, in un commosso silenzio. In raccoglimento hanno sostato tra gli altri la presidente Ucei Noemi Di Segni; l’assessore comunale alla Cultura, Miguel Gotor; Daniela Gaj e Joseph Taché, i genitori di Stefano; Gadiel, il fratello, tra i feriti più gravi, già intervenuto domenica sera in una partecipata veglia in sinagoga.
  «Il 9 ottobre del 1982», ha detto Fadlun ai giornalisti, «fu compiuto un attacco inaspettato, la cui violenza e il cui orrore hanno segnato la nostra comunità». Al dolore per la ferita ancora aperta, anche perché «giustizia non è stata fatta», si è aggiunto il trauma del 7 ottobre. C’è un legame, ha affermato, «ed è il profondo e vergognoso antisemitismo: si sono colpite delle persone perché ebree; questa non è politica, ma barbarie». L’anniversario è stato commentato anche dalla presidente Ucei Noemi Di Segni in una nota. «Il clima di profonda tensione, minacce e distorsione mediatica diffusa» c’era allora e c’è oggi, denuncia Di Segni. «Pensare di poterli tenere a bada e che siano marginali è solo un’illusione».

(moked, 10 ottobre 2024)

........................................................


Il filo rosso dell’antisemitismo

Il filo conduttore che lega il 9 ottobre 1982, anno dell’attentato al Tempio Centrale di Roma, che causò la morte di Stefano Gaj Taché e il ferimento di quaranta persone, perpetrato da un commando di terroristi palestinesi di Fatah, e il 7 ottobre 2023, quando tremila miliziani di Hamas hanno fatto irruzione in Israele trucidando milleduecento cittadini e rapendone duecentoquaranta è sempre lo stesso, l’odio per gli ebrei.
  Nel 1982, quando venne commesso l’attentato, Israele stava combattendo la prima guerra del Libano, che, dopo cinque mesi, si sarebbe conclusa con la cacciata di Arafat e dell’OLP dal Paese dei cedri. Anche allora, esattamente come oggi, Israele veniva accusato di genocidio.
  Dopo quarantadue anni tutto si ripete, ma su scala maggiore.
  L’antisionismo è stato ormai sdoganato come la forma legittima di antisemitismo, quella che si può esibire in pubblico, e che anche alcuni ebrei impugnano: frange ultraortodosse per le quali Israele è nato nella colpa di essere uno Stato laico, e quelli di estrema sinistra che ripudiano su basi ideologiche ogni forma di nazionalismo, di statualità etnicamente forte, salvo quella islamica.
  L’attentato alla sinagoga di Roma del 1982, luogo ebraico, ha fatto da apristrada ad altri attacchi e attentati che, nel corso del tempo si sono succeduti nei confronti di istituzioni ebraiche e di persone fisiche, come quello clamoroso del 1994 a Buenos Aires all’Asociación Mutual Israelita Argentina, riconducibile a Hezbollah, che costò la vita a ottantacinque persone e il ferimento di trecento.
  Considerare gli ebrei un corpo estraneo in Medio Oriente, là dove ha avuto origine l’ebraismo, è ancora più eclatante che averli considerati per secoli un corpo estraneo all’interno delle società cristiane in cui vivevano. Si tratta in entrambi i casi di antisemitismo, e nessun sofisma, nessuna speciosa circonvoluzione del pensiero potrà scalfire questa evidenza.
  Gli assassini del piccolo Stefano e i carnefici di Hamas sono uniti da una stessa convinzione profondamente radicata, che Israele non abbia alcuna legittimità, nessun diritto all’esistenza, esattamente come, ottanta anni fa, Adolf Hitler, su scala ben maggiore, considerava gli ebrei un morbo che appestava il mondo.

(L'informale, 9 ottobre 2024)

........................................................


Come osi, Greta Thunberg. Bollata come 'incline alla violenza' per le marce su Gaza

Non più attivista climatica bensì odiatrice di Israele, Greta Thunberg ha cambiato pelle passando nel giro di pochissimo da adolescente portata in palmo di mano dai potenti della Terra a propagatrice della narrativa di Hamas in giro per l'Europa: in Germania la polizia l'ha definita "antisemita" e "incline alla violenza".

di Giulio Meotti

FOTO
Greta Thunberg con la kefia al collo

A sedici anni, Greta Thunberg è diventata l’adolescente più famosa del mondo, ha incontrato capi di stato e di governo ed è stata nominata “Persona dell’anno” dalla rivista Time. Politici e celebrità la vedevano come l’autorità morale di “How dare you?”. La polizia tedesca ora ha classificato Thunberg come “incline alla violenza” in seguito al suo coinvolgimento in diverse manifestazioni pro Palestina. Lo ha deciso la polizia di Dortmund. Alexander Throm, portavoce della Cdu, sulla Bild si spinge a dire che sarebbe “non solo appropriato, ma persino necessario che il ministro dell’Interno emetta un divieto di ingresso per questa antisemita in futuro”. Oggi non c’è più il clima nella sua agenda: Greta si agita quasi esclusivamente contro Israele e sfila persino con gli islamisti a Neukölln, il quartiere berlinese dove una pasticceria ha distribuito dolci arabi per festeggiare il 7 ottobre e alla Rathaus, il municipio in Karl Marx Strasse, per tre settimane hanno issato la bandiera di Israele, ma di sera la toglievano per evitare che la dessero alle fiamme. 
 Una foto scattata a Berlino mostra quanto Greta si sia radicalizzata. Nell’anniversario del massacro del 7 ottobre, Greta ha posato per i selfie con gli odiatori degli ebrei. Si era recata a Berlino per prendere parte a una delle più grandi manifestazioni anti israeliane in Europa. I partecipanti alla marcia hanno attaccato gli agenti di polizia e gridato slogan vietati. Ora circola una foto in particolare in cui Greta posa con “Abdallahxbln”, come si fa chiamare su Instagram, e ripreso con il dito alzato degli islamisti. L’appello alla marcia dell’odio a cui ha partecipato Greta glorifica il terrorismo palestinese come “resistenza” e chiede la liberazione “totale”, ovvero la fine di Israele. La foto di Greta è stata condivisa dall’attivista anti israeliano Salah Said, che nel tempo libero si mobilita contro lo stato ebraico online e per le strade. E diffonde canali che flirtano con Hamas.
 Sono finiti i giorni in cui Greta aveva il mondo ai suoi piedi. Politici e artisti, giornalisti e rappresentanti della chiesa pendevano dalle labbra della figlia minorenne di una buona famiglia di Stoccolma. E la sua trasformazione in predicatrice itinerante contro Israele dovrebbe far riflettere la sua vecchia claque. Jean-Claude Juncker la accolse a Bruxelles con un baciamano. Ovviamente, Thunberg ha ancora schiere di fan. Ma la cerchia dei sostenitori è cambiata. Ora incita al boicottaggio, si mostra sui social con il simbolo antisemita della piovra (l’ha poi cancellato), a Rotterdam condivide il palco con una odiatrice di Israele, manifesta insieme agli odiatori di Israele a Lipsia e a Malmö si mescola alla folla che urla “Sinwar (capo di Hamas) non ti lasceremo morire”.
 In Olanda, Greta ha invitato a parlare una ragazza filo Hamas. Un uomo allora è saltato sul palco e, afferrando il microfono, ha detto con una certa rettitudine: “Sono venuto per una manifestazione sul clima, non per una visione politica”. Thunberg ha ripreso il microfono e iniziato a cantare: “Nessuna giustizia climatica nei territori occupati”. Non ci voleva uno scienziato per capire che questi slogan non hanno assolutamente senso. Eppure, Franz Jung, vescovo cattolico di Würzburg, l’ha paragonata a David, eroe e re d’Israele, mentre a Heiner Koch, vescovo cattolico di Berlino, Thunberg ha ricordato “l’ingresso di Gesù a Gerusalemme”. Oggi Fridays for Future disconosce Greta.
 Un declino autoimposto, quello di Thunberg. Qualche settimana fa, Greta era davanti all’Università di Copenaghen per chiedere la fine dei rapporti accademici con Israele e di un laboratorio danese-israeliano che si occupa di tecnologie green per l’ambiente. Non soltanto è Israele che fa arrivare l’acqua a Gaza. Non soltanto Israele è leader mondiale dell’utilizzo delle acque reflue. Non soltanto entro il 2030 un terzo di tutta l’energia israeliana arriverà da fonti rinnovabili. Israele è l’unico paese al mondo che oggi ha più alberi di un secolo fa. Ma tutto questo non sembra importare molto ai verdi “dal fiume al mare”.

(Il Foglio, 10 ottobre 2024)

........................................................


"Voglio andare in paradiso, all’inferno ci sono già stata"

Addio a Lily Ebert, superstite della Shoah diventata influencer a cento anni

di David Zebuloni

FOTO
Lily Ebert con il pronipote Dov Forman

Lily Ebert, una delle figure di maggior spicco dell’ebraismo britannico, è venuta a mancare la mattina del 9 di ottobre all’età di 100 anni, circondata dalla sua numerosa famiglia: tre figli, dieci nipoti e trentotto pronipoti. Lily è nata in Ungheria nel dicembre del 1923 e nel mese di luglio del 1944, quando aveva 20 anni, è stata deportata con la sua famiglia nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
Sua madre Nina, suo fratello minore Bela e sua sorella minore Berta sono stati immediatamente mandati nelle camere a gas, mentre lei e le sue sorelle Rena e Piri sono state scelte per il lavoro forzato. Così, sopravvissero all’inferno. Dopo la liberazione dai campi, Ebert si è trasferita in Svizzera per ricostruire la sua vita. All’inizio degli anni Cinquanta ha deciso di lasciare tutto e partire di nuovo, questa volta per migrare nel neo Stato ebraico. In Israele Lily ha trovato l’amore, si è sposata e ha dato alla luce tre figli. Nel 1967 lei e la sua famiglia si sono trasferiti definitivamente a Londra, dove abitano ancora oggi.
In questa terza fase della sua vita, dopo essere diventata mamma e nonna, Lily ha iniziato la sua missione di sopravvissuta. È stata membro fondatore del Centro per i sopravvissuti alla Shoah in Gran Bretagna e ha portato la sua testimonianza in decine e decine di scuole in tutto il paese. Ebert ha deciso di condividere la sua storia soprattutto con i più giovani, convinta che solo loro potessero garantirle un futuro di pace.
Lily è dunque diventata una figura conosciuta e molto amata all’interno dalla Comunità ebraica locale, ma solo nel 2021, nel pieno del Covid, alla veneranda età di 97 anni, il suo nome è diventato noto a tutti i giovani del mondo.
È accaduto quando il suo giovane e intraprendente pronipote Dov Forman ha deciso di condividere la sua storia in rete. Nel pieno del lockdown, i due hanno cominciato a caricare dei filmati commoventi nei quali la bisnonna, seduta sulla sua soffice poltrona in salotto, raccontava la sua storia di sopravvissuta.
Così è successo. Contro ogni previsione. Senza alcun preavviso. È successo e basta. Lily Ebert è diventata un vero e proprio fenomeno social. C’è chi direbbe: un’influencer. Con milioni di follower sparsi in tutto il mondo, Lily è diventata una vera celebrità. Ma non solo. Per molti è diventata una fonte di ispirazione. Un modello da cui attingere forza, coraggio, speranza. Fede.
“Questo digiuno mi è familiare, perché ho digiunato durante tutto il periodo della mia prigionia nei campi”, ha spiegato la sopravvissuta in un filmato che ha condiviso lo scorso Yom Kippur. “Ricordo di aver detto a Dio che anche nel luogo più buio del mondo, non avrei mai rinunciato alla sua luce”.
E non è tutto: il successo su Instagram e Tiktok ha presto varcato lo schermo del cellulare ed è diventato un libro biografico scritto proprio dal giovane Forman. Mi chiamo Lily Ebert e sono sopravvissuta ad Auschwitz (edito in Italia da Newton Compton Editori), è presto stato tradotto in molte lingue ed è diventato un bestseller in tutto il mondo. Il libro è stato anche promosso da Re Carlo, che ne ha scritto la prefazione. Lo stesso Re Carlo che un anno fa ha assegnato a Lily l’importante decorazione civile dell’Ordine dell’Impero Britannico, in una toccante cerimonia tenutasi al Castello di Windsor.
“Ho il cuore infranto”, ha scritto Dov Forman quando ha annunciato la scomparsa della sua amata bisnonna. “La storia di Lily ha toccato milioni di persone in tutto mondo, insegnandoci cosa sia la resilienza e la fede. Lily non si è mai chiesta ‘Perché è proprio a me?’. Al contrario, ha investito tutte le sue forze per ricostruire la sua vita, sempre con il sorriso. Nonna Lily era la regina della nostra famiglia, ed era il mio eroe”.
Dal 2021 a oggi, la sopravvissuta ad Auschwitz ha condiviso sul web centinaia di filmati indimenticabili. Filmati commoventi ed esilaranti nei quali parlava, pregava, cantava e ballava. Uno in particolare mi ha sempre toccato. “Quando compirò 120 anni e lascerò questo mondo, incontrerò Dio, gli mostrerò il numero che i nazisti mi hanno tatuato e gli chiederò di lasciarmi entrare in paradiso, perché all’inferno ci sono già stata”, ha detto Lily mostrando il marchio sbiadito sul braccio. Parole che oggi assumono un significato profondo, terribile, dolce e struggente.
Possa il ricordo di Lily Ebert esserci di benedizione. E possa la sua anima in paradiso continuare a illuminare questo mondo sempre più incline al buio.

(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2024)

........................................................


Cinquant’anni senza Oskar Schindler. Daniel Vogelmann: Sono nato grazie a lui

di Adam Smulevich

Quando il 9 ottobre del 1974 si concluse la sua vita, il nome di Oskar Schindler non era ancora noto alla masse. Sarebbero trascorsi poco meno di vent’anni perché ciò accadesse, grazie al film-capolavoro di Steven Spielberg (Schindler’s List) che rese omaggio alla traiettoria del cinico imprenditore filo-nazista trasformatosi in salvatore di ebrei a Shoah in corso. Tra gli oltre mille prigionieri delle SS che beneficiarono della sua “lista” e soprattutto del suo coraggio c’era anche il tipografo Schulim Vogelmann, nato in Galizia nel 1903, residente a Firenze dal 1922, anche lui morto nel 1974.
  «L’unico italiano tra gli ebrei di Schindler», sottolinea il figlio Daniel, poeta e fondatore della casa editrice Giuntina, nato a Firenze nel 1948. A cinquant’anni esatti dalla morte di Schindler «si accavallano oggi sensazioni profonde», racconta Vogelmann. «Se sono nato è stato grazie a lui e in tanti altri nel mondo si trovano nella mia condizione. Ce ne fossero state di più di persone come lui, a quel tempo, forse la Shoah non avrebbe avuto l’impatto che conosciamo».
  Proclamato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, Schindler è sepolto in un cimitero cattolico di Gerusalemme, sul Monte Sion, appena fuori dalle mura della Città Vecchia. «Non credo ci siano altri ex nazisti nella sua condizione», afferma Vogelmann. Inevitabile un pensiero alla scena conclusiva di Schindler’s List, quando alcuni ebrei salvati dall’industriale, affiancati dagli attori, depositano un sasso sulla sua tomba come è uso nella tradizione ebraica. Oltre a quello, sono tanti altri i momenti della pellicola di Spielberg impressi nella memoria (e nel cuore) del figlio del tipografo italo-galiziano, «salvatosi anche per la padronanza di tante lingue, che come noto era decisiva in campo di sterminio». In particolare il discorso che l’industriale rivolge ai “suoi” ebrei, nel momento in cui prende congedo da loro con i liberatori alle porte. «È una scena potente e mi fa impressione pensare che mio padre fosse lì, quel giorno, ad ascoltarlo», dice Vogelmann. «Con quali sensazioni posso solo immaginarlo». Non c’era solo la gioia della liberazione. Al loro arrivo al campo di sterminio, i nazisti avevano trucidato la moglie Annetta Disegni e la loro figlioletta Sissel, di otto anni. Vogelmann si sarebbe poi sposato in seconde nozze con Albana Mondolfi e dalla loro unione, sarebbe nato Daniel.
  Ad illuminare la vita dell’imprenditore “Giusto” è arrivato da poco anche un libro: Oskar Schindler. Vita del nazista che salvò gli ebrei di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, pubblicato da Edizioni Terra Santa. Il libro ha tra gli altri un pregio, osserva Vogelmann: «Far risaltare il ruolo di Emilie Schindler, la moglie di Oskar, che fu accanto al marito nell’opera di salvataggio».

(moked, 9 ottobre 2024)

........................................................


Netanyahu minaccia il Libano di devastazioni come nella Striscia di Gaza

L’8 ottobre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha minacciato la popolazione libanese di devastazioni paragonabili a quelle della Striscia di Gaza se non si libererà di Hezbollah, mentre Israele ha intensificato la sua offensiva di terra nel sud del Libano.
Il giorno precedente, nel primo anniversario dell’attacco di Hamas in territorio israeliano del 7 ottobre 2023, Netanyahu aveva promesso di continuare a combattere fino alla completa distruzione di Hamas e Hezbollah, gruppi sostenuti dall’Iran.
“Liberate il vostro paese da Hezbollah”, ha dichiarato l’8 ottobre in un videomessaggio rivolto alla popolazione libanese, minacciando in caso contrario “distruzione e sofferenza come a Gaza”, dove l’esercito israeliano sta portando avanti da un anno un’offensiva militare.

(ANSA, 9 ottobre 2024)

........................................................


A un anno dal conflitto cresce il dissenso tra i palestinesi di Gaza

«Abbiamo perso tutto, per cosa»? È il grido pieno di rabbia tra i residenti di Gaza, sempre più frustrati nei confronti di Hamas mentre il conflitto sembra non avere tregua. Dopo mesi di devastazione e isolamento, molti palestinesi iniziano a sentirsi abbandonati dai propri leader. Per troppi mesi la paura ha impedito a molti di loro di esprimere apertamente le proprie opinioni, ma ora, la consapevolezza della dura realtà sta emergendo.
Le scelte fatte da Hamas e Fatah, senza il coinvolgimento della popolazione, hanno avuto conseguenze sconvolgenti, aggravando la situazione e peggiorando la vita quotidiana rispetto al passato, lasciando Gaza in una situazione sempre più critica.
In un articolo di Reuters, si narra la storia di Samira, una madre di due figli che sospira ricordando con nostalgia la vita che aveva come insegnante di arabo, con una casa confortevole e una routine quotidiana. Ora, dopo l’attacco di Hamas a Israele avvenuto un anno fa, Gaza è caduta in un incubo di sofferenza e caos.
«Nonostante tutte le difficoltà la nostra vita andava bene. Avevamo un lavoro, una casa e una comunità», confida Samira, che ha preferito non rivelare il suo cognome per paura di ritorsioni.
La voce della donna si unisce così a un numero crescente di residenti che si chiedono se il prezzo pagato per l’assalto di Hamas del 7 ottobre sia stato eccessivo e molti si chiedono il senso di quanto accaduto rimpiangendo il passato. L’offensiva dell’IDF che ha fatto seguito all’attentato ha raso al suolo Gaza, uccidendo decine di migliaia di persone e costringendo più di un milione di palestinesi a fuggire dalle proprie abitazioni lasciando averi.
Samira descrive Israele come «il nostro principale nemico, la fonte di tutti i nostri mali», ma non risparmia critiche al leader di Hamas, Yahya Sinwar, accusato di aver fatto un grave errore di calcolo. Sinwar, alla guida del movimento dal 2017, è ora il bersaglio di una caccia all’uomo. Fonti vicine a lui lo descrivono come un leader determinato, ma cauto, capace di comprendere le difficoltà quotidiane della popolazione. Tuttavia, un articolo pubblicato da Israele.net suggerisce che Sinwar potrebbe essere più interessato a rafforzare la potenza militare di Hamas che a preoccuparsi del benessere degli abitanti di Gaza.
Un documento, visionato dal quotidiano tedesco Bild, trovato nel suo computer, indica tattiche per manipolare l’opinione pubblica mondiale, incolpare Israele e utilizzare la tortura psicologica sulle famiglie degli ostaggi.  «Cosa stava pensando? Non si aspettava che Israele avrebbe distrutto Gaza?», si chiede ancora Samira.
In conversazioni con numerosi residenti di Gaza, emerge una situazione complessa: alcuni considerano Hamas un eroe per l’attacco del 7 ottobre, quando i militanti palestinesi hanno organizzato un raid senza precedenti in Israele, ma altri avvertono che le conseguenze delle azioni del gruppo hanno portato a una devastazione inaccettabile.
Sinwar, 62 anni, non è stato visto in pubblico dal raid, in cui sono morte circa 1.200 persone e altre 251 sono state rapite. Vive per lo più nell’ombra, nascosto nella rete di tunnel sotto Gaza, persuaso che la lotta armata e la violenza sia l’unico modo per ottenere uno Stato palestinese. Hamas sostiene che l’attacco del 7 ottobre, il più mortale nella storia di Israele, rappresenti una svolta nella lotta per la nazionalità palestinese, che negli ultimi anni è stata trascurata.
Tuttavia, i dati sono devastanti. Un recente sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) a Ramallah e finanziato da donatori occidentali, ha mostrato per la prima volta che la maggioranza degli abitanti di Gaza si era opposta alla decisione di Hamas di attaccare. Il 57% delle persone intervistate ha dichiarato che l’offensiva era errata, in netto calo rispetto al 39% di coloro che la consideravano giusta lo scorso giugno.
Nonostante le repressioni di dissenso che Hamas ha spesso attuato, si sono verificate alcune rare manifestazioni pubbliche di malcontento. Ahmed Youssef Saleh, ex funzionario di Hamas, ha sollevato interrogativi su Facebook, chiedendo se qualcuno avesse considerato le conseguenze prima di lanciare un attacco che avrebbe portato a un’invasione israeliana. Dall’agosto scorso, i segnali di dissenso sono di fatto aumentati.
Ameen Abed, un attivista che ha criticato l’attacco del 7 ottobre, è stato picchiato da uomini mascherati e ha dovuto essere ricoverato. Suo padre ha usato un megafono per accusare Hamas dell’attacco nel campo profughi di Jabalia. In risposta, Sami Abu Zuhri, un alto funzionario di Hamas, ha minimizzato tali critiche, definendole «osservazioni limitate» che derivano dal dolore della popolazione. «Non avevamo altra scelta che lanciare questa grande battaglia, a prescindere dal costo, perché la causa palestinese stava per finire a causa della crescente aggressione e dei crimini israeliani contro il nostro popolo e i nostri luoghi sacri», ha affermato.
Il dissenso emerge come un elemento cruciale per Hamas, che cerca di mantenere la sua influenza a Gaza anche dopo la guerra, nonostante le affermazioni di Israele e degli Stati Uniti che il gruppo non potrà avere alcun ruolo nel governo della Striscia.
Ashraf Abouelhoul, caporedattore del quotidiano egiziano Al-Ahram, osserva che la situazione interna di Gaza cambierà se la popolazione si renderà conto che la vita è diventata insostenibile. Tuttavia, l’Iran potrebbe voler mantenere un ruolo per Hamas nel contesto di un conflitto regionale più ampio.
I palestinesi attribuiscono a Israele la loro miseria economica e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, vedendo l’attacco del 7 ottobre come una risposta all’occupazione di lunga data, piuttosto che a specifiche azioni israeliane. Mahmoud, un giovane sfollato di Gaza City, critica le Nazioni Unite e le potenze occidentali per non aver sostenuto le aspirazioni palestinesi a uno Stato. Le prospettive per una soluzione a due Stati appaiono sempre più distanti. Un recente sondaggio ha mostrato  comunque un calo nel supporto per Hamas, con più abitanti di Gaza che preferiscono l’Autorità Nazionale Palestinese al governo di Hamas dopo la guerra. Khalil Shikaki, direttore del PSR, afferma che «per la prima volta, più abitanti di Gaza desiderano che l’Autorità Nazionale Palestinese, e non Hamas, governi la Striscia dopo la guerra». Anche in Cisgiordania, il consenso per l’attacco è diminuito, nonostante quasi due terzi degli intervistati credano ancora nella sua giustezza. Tuttavia, la vera misura del supporto per Hamas a Gaza non potrà essere valutata fino alla fine del conflitto.

(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2024)

........................................................


Genocidio palestinese e altri miti fantastici  

A quelli che manifestano e gridano al «genocidio palestinese» basterebbero poche ore di studio per vedere quanta falsità e ipocrisia, quanta ignoranza e quanto vero antisemitismo si nascondono dietro a quella frase

di Franco Londei

Oggi parliamo di genocidio palestinese perché ho sentito alcuni manifestanti pro-pal che hanno partecipato alle varie manifestazioni di questi giorni parlare di «genocidio palestinese da parte di Israele che dura da 70 anni» e mi sono allarmato come si allarmerebbe qualsiasi buon cittadino. Così mi sono informato.
Partendo dal presupposto che per «palestinese» ho preso in considerazione la popolazione araba per lo più di origine giordana ed egiziana migrata nella regione geografica situata tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, che comprende anche il Mar Morto e parti del deserto del Negev, mi sono andato a guardare l’evoluzione numerica dei palestinesi dalla nascita di Israele ad oggi in questa area geografica.
Allora, alla nascita di Israele i palestinesi presenti in quel territorio erano 1,2 milioni. Oggi nel territorio che comprende la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, Israele e Gerusalemme est i palestinesi sono attorno ai 5,5 milioni. A questi vanno aggiunti 438.000 palestinesi che abitano in Siria, 422.000 che abitano in Libano e circa 13.000 che abitano in Iraq. Circa due milioni sono i palestinesi in Giordania, tornati alle origini e quindi in parte naturalizzati.
Facendo due conti ad oggi la popolazione palestinese è di 8.373.000 contro il 1,2 milioni che erano nel 1948. Anche togliendo i due milioni che sono tornati in Giordania, si parla sempre di 6.373.000 palestinesi.
Giusto per essere chiari, secondo il vocabolario Treccani per genocidio si intende la «sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa». È la prima volta nella storia che c’è un genocidio alla rovescia, cioè che una popolazione invece di essere distrutta cresce e si moltiplica.
Dato che c’ero mi sono andato a vedere anche un po’ di storia di quei palestinesi che vivono ai margini del territorio che ho preso in considerazione. Così scopro che in Siria prima della guerra civile ne vivevano 560.000 e che quindi ne mancano all’appello 122.000. Approfondisco e scopro che buona parte di questi sono stati eliminati dai russi in complicità con Hezbollah in quanto ritenevano i palestinesi complici di Al Nusra. Però non mi pare di aver sentito niente dai pro-pal, tanto meno ho sentito parlare di «genocidio palestinese» in Siria.
E che dire dei palestinesi che vivono in Libano? Ho scoperto che sono sottoposti a diverse restrizioni. Per esempio sono esclusi da molte professioni regolamentate, come medicina, ingegneria e legge. Possono lavorare solo in settori specifici e spesso in condizioni precarie. Non hanno accesso ai servizi sociali. Non hanno gli stessi diritti civili dei cittadini libanesi e sono spesso soggetti a discriminazioni. Eppure non ho mai sentito parlare di apartheid in Libano ai danni dei palestinesi. Nondimeno mi appare evidente.
Persino nella patria d’origine, la Giordania, quelli non naturalizzati vivono ai margini della società e non godono di molti servizi civili, non possono andare a scuola o lavorare ovunque. Se poi provengono dalla Striscia di Gaza gli è impossibile ottenere la cittadinanza giordana. E anche qui non ho mai sentito parlare di apartheid giordana nei confronti dei palestinesi.
Dunque, mi è bastata qualche ora di tempo per raccogliere queste informazioni, facilmente fruibili sul web. Non capisco quindi come mai questi cosiddetti «pro-pal» urlano al genocidio palestinese da parte di Israele. Non capisco come fanno a urlare «Palestina libera dal fiume al mare». Mi viene il dubbio che non sappiano né quale sia il fiume, né quale sia il mare. Ma soprattutto mi viene il dubbio che non sappiano proprio niente dei palestinesi.
Infatti non ho visto manifestazioni per i palestinesi massacrati in Siria (e in Iraq), per i diritti di quelli in Libano o in Giordania. Non ho visto nemmeno manifestazioni contro Assad o Hezbollah che pure ne hanno massacrati oltre 100.000.
E allora, non è che il problema è Israele? Non è che tutte queste manifestazioni contro il cosiddetto «genocidio palestinese» altro non sono che manifestazioni finalizzate a prendere di mira Israele e gli ebrei? Che mirano a istigare odio? I numeri sono questi. Implacabili.

(Rights Reporter, 9 ottobre 2024)

........................................................


Gli Stati Uniti bloccano i beni di Mohammad Hannoun, accusato di essere il principale finanziatore di Hamas in Europa

di Luca Spizzichino

FOTO
Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha recentemente inserito Mohammad Hannoun nella lista delle Specially Designated Nationals (SDN), bloccando i suoi beni e impedendogli di effettuare transazioni finanziarie con individui o entità americane. Hannoun, considerato uno dei principali leader in Europa della rete di finanziamento occulto di Hamas, si è spesso presentato come un attivista umanitario impegnato nella raccolta di fondi per Gaza. Tuttavia, le indagini rivelano che dietro queste attività si celano operazioni volte a sostenere il braccio militare del gruppo terroristico palestinese.
  Non è la prima volta che l’architetto palestinese si trova al centro di inchieste per sospetto finanziamento al terrorismo. Nel luglio 2023, le autorità italiane si sono mosse dopo segnalazioni ricevute dai servizi di intelligence israeliani dello Shin Bet, in merito a circa un milione di euro distribuiti tra Italia, Germania e Stati Uniti.
  Secondo quanto denunciato dal giornalista Massimiliano Coccia su Linkiesta lo scorso dicembre, Hannoun utilizza associazioni di copertura come l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (Abspp), attraverso le quali vengono raccolti fondi destinati al finanziamento di operazioni terroristiche. Con l’arresto nei Paesi Bassi di Abu Rashid per finanziamento illecito al terrorismo, Hannoun ha guadagnato ulteriore rilievo nel network di associazioni europee che forniscono risorse a Hamas.
  L’inserimento di Hannoun nella lista SDN segue la chiusura di conti bancari a lui collegati da parte di istituti come Unicredit e Poste Italiane, sospettati di essere utilizzati per transazioni legate al finanziamento del terrorismo. Al momento, l’unico conto ancora aperto a nome dell’associazione è quello presso Crédit Agricole, ma, secondo Coccia, è solo questione di giorni prima che la banca francese prenda provvedimenti in linea con gli altri istituti di credito.
  “La decisione di sanzionare e congelare i beni di Mohammad Hannoun e delle associazioni pro-Hamas legate alla sua rete è una notizia significativa per chi, come me, ha scritto e raccontato fin dal 2020 la rete associativa criminale di finanziamento di Hamas in Europa e in Italia”, ha dichiarato Coccia a Shalom. Il giornalista de Linkiesta ha però sottolineato che ora spetta alla magistratura italiana verificare le attività criminali di queste organizzazioni. “Il problema di avere strutture para-terroristiche sul nostro territorio, mascherate da associazioni benefiche, non riguarda solo Israele e gli ebrei in Italia e nel mondo, ma rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale e la tenuta democratica dello Stato”, ha aggiunto.
  Hannoun, oltre a essere un nodo centrale della rete di finanziamento, resta anche una figura organizzativa di rilievo nei cortei pro-palestinesi a cui stiamo assistendo negli ultimi giorni, sollevando ulteriori preoccupazioni sull’ordine pubblico e la sicurezza nel Paese.

(Shalom, 9 ottobre 2024)
*


Cacciato dall'Italia l'imam filo-Hamas
 
  di Pietro Senaldi

L'imam Zulfiqar Khan, pakistano, predicava a Bologna l'odio islamico contro Israele. Espulso dall'Italia dopo le segnalazioni di due deputati di FdI: Sara Kelany e Marco Lisei. La predicazione di Zulfikar si era fatta ancora più violenta dopo il 7 Ottobre.
 «Coloro che si schierano con Israele e gli Stati Uniti faranno una brutta fine». E poi: «Perpetrate la jihad contro gli ebrei, questi bugiardi e assassini». E ancora: «Il re di Giordania è un infedele perché ha difeso gli impuri sionisti di Israele». E di più: «Stiamo aspettando il castigo per gli infedeli, viene da parte di Allah con le mani di Hamas e Hezbollah, perché Hamas non è un’organizzazione terrorista ma difende il proprio territorio». Infine la confessione: «Se qualcuno mi dice che sono un estremista islamico io rispondo di sì, perché estremismo significa seguire i fondamenti della religione. È tempo di risvegliare le menti delle genti». Queste erano le parole dei sermoni dell’imam Zulfiqar Khan, pakistano istigatore di odio in servizio delirante presso il centro islamico Iqraa, in quel di Bologna.

• RETE DI ESPULSIONI
 Odio, guerra, distruzione, antisemitismo: ecco l’insegnamento del sacerdote del terrore, espulso ieri dopo le segnalazioni degli onorevoli Sara Kelany e Marco Lisei, entrambi di Fratelli d’Italia, che con un’interrogazione parlamentare hanno svelato questo profeta di sventura e spacciatore di lutti. La predicazione di Zulfikar si era fatta ancora più violenta dopo la mattanza da parte di Hamas del 7 ottobre 2023 di quasi mille e duecento cittadini israeliani, prelevati nelle loro case o al rave party Supernova, immensa festa musicale di ragazzi nel deserto. Tanto che il Viminale, riferendosi a lui, parla di «crescente fanatismo ideologico» ed «esaltazione del martirio».
  L’iman, che era solito esortare i propri fedeli a «non pagare le tasse perché le risorse devono restare nella comunità islamica», ne aveva per tutti, anche per gli omosessuali, definiti «persone che Allah castigherà con una punizione molto forte».
  Si tratta della novantaquattresima espulsione per terrorismo dal 7 ottobre 2023 a oggi.
  «Dopo lo scoppio della guerra, l’allerta è stata alzata di molto - rivelano fonti del ministero dell’Interno, - ma l’Italia è in una situazione di relativa sicurezza». In particolare, quella di Zulfikar Khan segue di appena due giorni la segnalazione al nostro Paese da parte dei servizi segreti americani di Mohammed Hannoun e della sua associazione nella lista di quanti organizzano qui da noi attività umanitarie, che altro non sono se non una copertura per raccogliere fondi da inviare ad Hamas a Gaza.
  Dal 22 ottobre 2022, data di insediamento del governo, sono invece 164 i soggetti espulsi dallo Stato per ragioni di sicurezza, tutti segnalati per terrorismo, radicalizzazione, rischio di attentati. Il problema principale, in termini di minaccia islamica, è dato dalle moschee abusive, dove si predica in arabo per nascondere gli inviti alla guerra santa e il sentimento anti-semita e anti-occidentale.

• RISCHIO MODERATO
 Gli esperti però rivelano che la presenza in Italia di fanatici islamici pronti a tutto è molto calata negli ultimi dieci anni.
  Merito anche delle intese firmate dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, con le comunità musulmane per avere prediche in italiano e per delle scuole di formazione degli imam, altrimenti improvvisati. La svolta dell’accordo fu riuscire a convincere anche l’Ucoii, la siglia meno moderata della comunità islamica.
  Ma l’abbassamento dei livelli di rischio rispetto a una decina d’anni fa è legata anche al fatto che il marchio Hamas, fuori dalla Palestina, emoziona più l’estrema (e anche quella un po’ moderata) sinistra nostrana che non i musulmani.
  La sigla infatti, a differenza dell’Isis, che era stato capace di rappresentare un simbolo per tutto l’islam in armi contro l’Occidente, viene per lo più interpretata come legata a una problematica politica locale, non a una questione religiosa e identitaria. Segno che la popolazione palestinese è vissuta da chi dice di volerla difendere come uno strumento di guerra contro Israele piuttosto che come un fine. Ne è riprova il fatto che la comunità palestinese si è sfilata dal corteo pro-Pal di sabato scorso a Roma, dove i manifestanti che dicevano di scendere in piazza per la pace hanno ferito trenta agenti delle forze dell’ordine.

• ANTISEMITISMO
 Malgrado Hamas in Italia possa contare su tanti estimatori ma poche truppe effettive, le autorità ricordano che è invece in aumento vertiginoso l’antisemitismo in Italia, e questo a causa della copertura politica che un’ampia parte del campo largo dà alle manifestazioni di facinorosi anti-israeliani. Nel solo ultimo anno, dall’eccidio del 7 ottobre 2023 a oggi, c’è stato un incremento del 400% delle azioni antisemite nel nostro Paese, che ormai sono una novantina al mese.
  È un allarme che è destinato a crescere e a durare nel tempo, perché l’odio razziale verso il popolo ebraico dilaga nelle giovani generazioni, presso le quali il credito della Shoah si è esaurito. Purtroppo, la difesa della causa di Israele ha subito in Italia ormai una divaricazione politica: il centrodestra schierato con Gerusalemme, il centrosinistra invece freddo, con una partecipazione non sentita, stanca, di prammatica, doveristica, al ricordo nelle sinagoghe del pogrom subito un anno fa dagli ebrei in casa loro.

Libero, 9 ottobre 2024)

........................................................


Naftali Bennett chiede a Israele di colpire il programma nucleare iraniano

Si tratta di un'opportunità unica in cui abbiamo sia la legittimità che la capacità di danneggiare gravemente il regime iraniano e il suo programma nucleare.

L’ex primo ministro Naftali Bennett chiede a Israele di colpire il programma nucleare iraniano che, a suo dire, “getta un’ombra oscura sul nostro futuro”, in mezzo a indiscrezioni che obiettivi militari o di intelligence iraniani, ma non le centrali atomiche, potrebbero essere colpiti in risposta all’attacco missilistico balistico di Teheran della scorsa settimana.
“Per la prima volta, abbiamo la possibilità di agire contro l’Iran senza temere una reazione terribile e intollerabile”, ha dichiarato Bennett in una dichiarazione video, riferendosi alla debolezza dei proxy di Teheran, i gruppi terroristici Hezbollah e Hamas.
“Il regime iraniano terrorista e omicida è esposto e vulnerabile per la prima volta”, ha dichiarato.
“Questa è una finestra di opportunità unica in cui abbiamo sia la legittimità che la capacità di danneggiare gravemente il regime iraniano e il suo programma nucleare”, afferma Bennett.
Proprio questa mattina, il New York Times ha riportato che Israele non aveva un vero e proprio piano per attaccare il programma nucleare iraniano fino a quando Bennett non è diventato primo ministro nel 2021, essendosi invece concentrato su Hezbollah.
Bennett ha rapidamente “ordinato nuove esercitazioni per simulare i voli a lunga distanza verso l’Iran e ha investito nuove risorse nei preparativi”, secondo il quotidiano.

(Rights Reporter, 8 ottobre 2024)

........................................................


7 ottobre 2023-7 ottobre 2024. Il fratello di due prigionieri: “La liberazione degli ostaggi porterà il cessate il fuoco”

di Nathan Greppi

“Sono figlio di Doron e Talia, che si sono salvati dal massacro di Kfar Aza. Io sono fratello maggiore di Idan, e anche lui si è salvato. Sono fratello di Ziv e Gali, che il 7 di ottobre sono stati presi in ostaggio dai terroristi di Hamas e portati a Gaza”. È cominciata così la testimonianza di Liran Berman, i cui fratelli, i gemelli Ziv e Gali, sono stati rapiti il 7 ottobre nel Kibbutz Kfar Aza e sono tuttora nelle mani di Hamas.
  “Ziv e Gali sono i miei fratelli minori, e sono la luce della nostra casa”, ha spiegato Liran Berman. “E non è casuale che lavorino proprio nel mondo delle illuminazioni musicali. Da quando sono nati, Ziv e Gali sono sempre stati amici del cuore: tifosi della stessa squadra di calcio, amanti della stessa musica, sono i migliori nipoti per i propri nonni. Sono i figli migliori dei nostri genitori. Sono i miei fratelli migliori, e gli zii migliori per i miei figli”.
  “Il 7 ottobre, in tutta Israele ci siamo svegliati alle 6:29 con le sirene che suonavano in tutto il paese.  Pensavamo che fosse il solito attacco missilistico, a cui abbiamo fatto l’abitudine. Man mano che passavano le ore, dalla mattina presto, abbiamo cominciato a capire che era molto più grande di quello che pensavamo. Abbiamo capito che i terroristi si sono infiltrati in molte città al confine con Gaza”.
  “L’ultimo contatto che abbiamo avuto con i miei fratelli”, ha raccontato, “è stato alle 10 del mattino. Più tardi, poi, abbiamo scoperto che questa è stata l’ora in cui sono stati portati a Gaza. I miei genitori sono stati portati in salvo, intorno a mezzanotte dello stesso sabato, e mio fratello Idan, invece, è stato messo in salvo solo l’indomani. E da quando ho capito che sono stati presi in ostaggio, la mia missione è quella di riportare a casa tutti gli ostaggi”.
  Ha infine dichiarato: “Gli ostaggi vivi devono tornare a casa, e anche quelli che non sono più vivi e che sono tenuti in ostaggio devono tornare a casa per ricevere una degna sepoltura”. Ha concluso dicendo: “Non sono io qui l’eroe, il protagonista, ma sono i miei fratelli minori, e insieme a loro gli altri ostaggi che da più di un anno vengono tenuti nei tunnel di Hamas. Sono loro i veri eroi di questa storia, e loro vanno riportati a casa. A voi voglio dire che non ci fermeremo finché tutti gli ostaggi non torneranno a casa, fino a quando mia madre non potrà riabbracciare e baciare Gali e Ziv, fino a quando i miei figli non potranno di nuovo giocare con loro, e finché io non potrò riabbracciarli nuovamente. E a voi tutti, chiedo di cambiare terminologia: la liberazione degli ostaggi porterà il cessate il fuoco”.

• Spizzichino (Ugei): “Preoccupa la normalizzazione dell’antisemitismo mascherato da antisionismo nelle università”
 “L’anno passato è stato segnato da eventi che hanno profondamente scosso la nostra comunità in modi che non avremmo mai potuto immaginare”, ha dichiarato sul palco Luca Spizzichino, presidente dell’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia). “Il 7 ottobre ha ferito profondamente l’intero popolo ebraico. La brutalità di quel giorno ha scosso ciascuno di noi e ha risvegliato un odio antico, che ha trovato terreno fertile ed è tornato a manifestarsi con forza e pericolosità, persino nelle università italiane”.
  Ha continuato spiegando che “quello che oggi ci preoccupa di più non è solo la violenza fisica, ma la normalizzazione di questo odio, che si infiltra nei luoghi di formazione e cultura, nelle aule che dovrebbero essere spazi di tolleranza e libertà. È proprio qui che affrontiamo la forma più insidiosa di antisemitismo, che si mimetizza tra le aule e le discussioni. L’antisemitismo, oggi, si presenta con un volto più subdolo, quello dell’antisionismo, che ci rende bersagli, che ci isola”.
  “In questi mesi, ci siamo sentiti esposti, vulnerabili, persino soli. Ma non ci siamo arresi, e non lo faremo ora. Siamo consapevoli delle minacce, come quella di una nuova ‘intifada universitaria’, ma non ci lasceremo intimidire. Non permetteremo che l’odio prevalga nei luoghi dove dovremmo sentirci liberi di studiare e crescere. Abbiamo fatto, stiamo facendo, e continueremo a fare tutto il necessario affinché ogni studente ebreo si senta protetto e al sicuro”.
  Spizzichino ha spiegato che “fortunatamente non siamo soli. Negli ultimi mesi, abbiamo trovato preziosi alleati lungo il cammino. Il dialogo ha aperto nuove porte, e ci ha permesso di costruire ponti. Il sostegno che abbiamo ricevuto, specialmente grazie all’adesione di tante associazioni studentesche al Manifesto Nazionale per il Diritto allo Studio, è stato cruciale. Questo manifesto non è solo una dichiarazione, ma un impegno concreto per garantire che ogni studente, indipendentemente dalle proprie origini, possa studiare in un ambiente sicuro e libero da discriminazioni. Ora è il momento di farlo applicare”.
  Ha concluso dicendo che “in questo senso, noi giovani ebrei italiani abbiamo la responsabilità di essere protagonisti del nostro futuro. Continueremo a far sentire la nostra voce, a rivendicare il rispetto dei nostri diritti, sia nelle università che nella società in generale. Siamo consapevoli che le sfide saranno difficili, ma non perderemo mai la speranza. Con il coraggio che ci ha sempre contraddistinto, continueremo a lottare per un futuro fondato sul rispetto, la libertà e la sicurezza. L’Unione Giovani Ebrei d’Italia è qui e abbiamo bisogno di tutti vuoi per costruire un futuro migliore”.

• Il coro finale
 La serata si è poi conclusa con il coro Kol haShomrim insieme ai ragazzi dei movimenti giovanili Hashomer Hatzair e Benè Akiva, che hanno intonato la canzone israeliana HaBaita, e gli inni italiano e israeliano.

(Bet Magazine Mosaico, 8 ottobre 2024)

........................................................


Commemorazioni del 7 ottobre – Roma

Sabato 6 Ottobre – Partecipazione alla lettura dei nomi degli ostaggi nella piazzetta al fianco della Sinagoga
La serata di sabato si è svolta con la lettura dei nomi degli ostaggi da parte di noi 5 (Bonnie Rose, Stefania Perciballi, Edda Fogarollo, Claudia Condemi ) e due giovani.
Presenti in piazzetta al fianco della Sinagoga, un buon numero di ebrei che stavano uscendo, dopo la Commemorazione, dal Tempio, e che incuriositi si sono fermati a vedere e a partecipare a quello che stavamo facendo.
È stato un momento emozionante, dopo la lettura dei nomi, liberare i 101 palloncini gialli al cielo in segno di partecipazione alla sofferenza degli ostaggi.
Ho avuto anche il piacere di incontrare il giornalista Monteleone,oltre a complimentarmi con lui ho condiviso quello che stiamo facendo per Israele. Persona molto educata, simpatica e disponibile a cui ho regalato il nostro libro “Questa terra è la mia terra”
La serata si è conclusa con i ringraziamenti da parte della Comunità Ebraica di Roma per la partecipazione degli evangelici. Grazie anche alla sorella Bonnie Rose che si è resa disponibile all’organizzazione…....

(EDIPI, 8 ottobre 2024)

........................................................


Gli errori e le responsabilità del 7 ottobre

di Ugo Volli

Dopo ogni guerra, Israele ha sempre istituito delle commissioni di inchiesta per individuare gli errori commessi, i loro responsabili e imparare da ciò che era accaduto; lo farà certamente anche questa volta: un’inchiesta è ancor più necessaria, perché un anno fa Israele si è fatto prendere di sorpresa e impreparato dall’assalto terrorista, pagando un costo altissimo per questo. Lo stesso primo ministro Bibi Netanyahu, in un’intervista al TIME, ha riconosciuto la responsabilità, scusandosi, dicendo di essere profondamente dispiaciuto per quanto avvenuto.
  Senza anticipare i risultati dell’inchiesta e le reazioni dell’elettorato israeliano, bisogna prendere atto che ci sono stati errori e responsabilità. Parlarne non vuol dire naturalmente ignorare il fatto fondamentale di questa guerra: che Israele l’ha subita e non certo voluta, che la responsabilità morale e politica di tutte le morti e le distruzioni anche di quelle degli arabi di Gaza, ricade su chi ha deciso un anno fa di invadere Israele, sterminare, violentare e rapire i suoi cittadini inermi, di bombardare per mesi le città israeliane: Hamas, gli altri gruppi terroristici, gli arabi non inquadrati (“civili innocenti”) che hanno invaso le comunità di confine; e poi Hezbollah, gli Houti e innanzitutto l’Iran.
  Ma il fatto che la colpa sia dei terroristi aggressori non cancella la responsabilità di chi in Israele aveva il compito di prevenirle. Senza parlare della conduzione vera e propria della guerra, ma ragionando schematicamente all’indietro dal 7 ottobre, si devono distinguere diversi livelli di responsabilità. Il più vicino ai fatti è la disorganizzazione tattica che impedì una reazione efficace all’attacco terrorista: in seguito a un allarme nella notte fra il 6 e il 7, in una veloce riunione telematica prima dell’alba, cui partecipò anche il capo di stato maggiore Herzi Halevi si decise che non c’era urgenza, si poteva attendere il giorno dopo, senza avvertire i politici e mettere in allarme i militari al confine. Questi erano pochi, in parte non armati (il personale di osservazione elettronica), non in posizione di combattimento. Furono facilmente sopraffatti dalle migliaia di terroristi. Non c’erano riserve pronte e, a parte l’azione eroica di qualche singolo, la reazione israeliana venne solo dopo molte ore e in maniera piuttosto confusa.
  Facendo un passo indietro, questa impreparazione è conseguenza di un’erronea valutazione della “deterrenza” che, lo Stato Maggiore riteneva, Israele aveva ottenuto nei confronti di Hamas con le operazioni precedenti. Molte segnalazioni provenienti dai militari che seguivano le attività dei terroristi, furono ignorate o addirittura represse dai dirigenti del servizio di informazione militare (Haman) e da quello civile (Shin Bet). La barriera di sicurezza intorno a Gaza era progettata per dare l’allarme su incursioni di piccoli gruppi e non per resistere a un’offensiva organizzata di massa giudicata impossibile. Anche i numerosi preparativi mascherati da manifestazioni di massa non suscitarono il giusto allarme per la pretesa deterrenza, che suggerì anche di tagliare le forze di fanteria e dei carristi a favore dell’aviazione (la cosiddetta “riforma Gantz”). Vi sono poi due livelli contestuali. Uno è quello delle manifestazioni contro la riforma giudiziaria, con i numerosi casi di rifiuto del servizio, soprattutto nell’aeronautica e nei servizi elettronici, che certamente diedero ai terroristi il senso di affrontare uno stato diviso e indebolito. Ancora più indietro vi è la politica, adottata da tutti i governi fino dal colpo di stato del 2007 di non cercare di eliminare Hamas da Gaza, sia perché si temeva che il vuoto di potere sarebbe stato più pericoloso, sia per dividere il fronte palestinista.
  Per tutti questi livelli e per la conduzione successiva della guerra la commissione di inchiesta dovrà assegnare responsabilità precise e personali, al di là delle dimissioni che sono state già preannunciate o presentate. È probabile che quando arriverà la pace vi sia un ricambio profondo. nei vertici politici e militari di Israele.

(Shalom, 8 ottobre 2024)

........................................................


Popolazione israeliana vicina ai 10 milioni

GERUSALEMME - Nelle prossime settimane la popolazione israeliana dovrebbe superare il traguardo dei 10 milioni di abitanti. Lo ha annunciato un portavoce dell'Ufficio centrale di statistica al quotidiano online “Times of Israel”. Il motivo della pubblicazione delle statistiche è stato il capodanno ebraico, Rosh HaShanah.
  Secondo le statistiche, in Israele attualmente vivono 9.999.000 persone. Di queste, 7,6 milioni sono ebrei e 2 milioni sono arabi musulmani. Ci sono anche cristiani non arabi e altre minoranze etniche. Gli ebrei rappresentano circa il 79% della popolazione totale, gli arabi circa il 21%.
  Negli ultimi dodici mesi, la popolazione è aumentata di 118.000 persone. Sono nati 183.000 bambini, mentre sono morte 55.000 persone. Nonostante l'aumento, la tendenza della popolazione nel 2024 è cambiata: Il tasso di crescita è sceso dall'1,6% all'1,2%. Mentre nel 2023 sono immigrate in Israele 46.000 persone, quest'anno la cifra è stata di 33.000 persone.

• La guerra ha un impatto limitato sulla migrazione
 Negli anni precedenti, ogni anno emigravano da Israele in media 16.000 persone. Sebbene per la prima volta l'Ufficio centrale abbia contato più emigranti che immigrati, ciò è dovuto principalmente a un nuovo metodo di conteggio, ha dichiarato il portavoce. Mentre negli anni precedenti venivano contate come emigranti le persone che lasciavano il Paese per più di un anno, il nuovo metodo include anche le persone che hanno lasciato Israele solo per pochi mesi. Il risultato è un numero molto più elevato di emigranti.
  Complessivamente, la guerra di Gaza non ha avuto un grande impatto sui dati migratori, ha spiegato il portavoce. Il calo del numero di immigrati negli ultimi dodici mesi potrebbe avere anche altre cause oltre alla guerra. È anche difficile determinare le ragioni esatte dell'emigrazione. Il leggero aumento dei decessi, invece, può essere attribuito alla guerra: Solo nel primo attacco terroristico di Hamas sono morte circa 1.200 persone.

(Israelnetz, 8 ottobre 2024)

........................................................


Il leader dei palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, nella blacklist degli USA: “è di Hamas”

di Giovanni Giacalone

Il leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, e l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), di cui è a capo, sono state inserite nella “blacklist” del Dipartimento del Tesoro statunitense e dunque sottoposti a sanzioni. 
Secondo quanto reso noto da Washington in data 7 ottobre 2024, Hannoun è indicato come membro di Hamas in Italia e accusato di aver inviato più di 4 milioni di dollari nell’arco di dieci anni all’ala militare dell’organizzazione terrorista palestinese utilizzando proprio l’ABSPP. 
Nel comunicato del Dipartimento del Tesoro si legge: 

    “Mohammad Hannoun (Hannoun) è un membro di Hamas con sede in Italia che ha fondato la Charity Association of Solidarity with the Palestinian People, o Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), un ente di beneficenza fittizio situato in Italia che apparentemente raccoglie fondi per scopi umanitari, ma in realtà aiuta a finanziare l’ala militare di Hamas. Come dirigente dell’ABSPP, Hannoun ha inviato denaro a organizzazioni controllate da Hamas almeno dal 2018. Ha sollecitato finanziamenti per Hamas con alti funzionari di Hamas e ha inviato almeno 4 milioni di dollari ad Hamas in un periodo di 10 anni”.
E ancora:  
    “Hannoun e ABSPP sono stati designati per aver materialmente assistito, sponsorizzato o fornito supporto finanziario, materiale o tecnologico, oppure beni o servizi a sostegno di Hamas”. 
Il soggetto in questione è stato più volte indicato dai media come uno degli uomini di Hamas in Europa e ci sono foto che lo ritraggono assieme a Khaled Meeshal e al defunto Ismail Haniyeh, l’ex leader di Hamas, eliminato a Teheran lo scorso luglio. 
L’ABSPP aveva già riscontrato diversi problemi, come già illustrato a suo tempo dal Sussidiario: nel 2021, dopo diverse segnalazioni all’Antiriciclaggio, l’Unicredit sospese l’operatività sui conti dell’associazione per una serie di anomalie; dalla mancata iscrizione al registro dell’Agenzia delle Entrate alla massiccia movimentazione di contante, in alcuni casi a soggetti iscritti nelle black list dei database europei. Nel dicembre 2023 anche Poste Italiane chiudeva unilateralmente il proprio rapporto. Subito dopo erano PayPal ed altri operatori tra cui Visa, Mastercard e American Express a bloccare le transazioni intestate a Hannoun e alla sua associazione. 
Le autorità israeliane avevano anche chiesto a quelle italiane di provvedere con il sequestro dei fondi di Hannoun in quanto indicati come ricompensa per le famiglie dei kamikaze. 
In seguito alla chiusura dei conti bancari, Hannoun aveva richiesto ai suoi sostenitori di consegnare direttamente denaro contante presso le rispettive sedi della sua associazione tant’è che una troupe dell’Inkiesta si era recata presso la sede romana a Centocelle per testare il nuovo “metodo Hannoun” e aveva lasciato un’offerta senza ricevuta, senza controllo. 
Evidentemente però tramite contanti non è stato possibile raccogliere grosse somme e allora ecco arrivare la nuova iniziativa di Hannoun presentata presso la parrocchia romana di San Lorenzo di Lucina e con un nuovo IBAN, quello di Modestino Preziosi, indicato dal palestinese su Facebook come “testimonial ed il garante del Convoglio Umanitario della Pace per Gaza”. 
Il Giornale e OFCS Report avevano anche esposto i rapporti di Hannoun con politici italiani come Manlio Di Stefano, Matteo Orfini, Alessandro Di Battista e Laura Boldrini. Hannoun era anche stato invitato a parlare in Parlamento. 
Per quanto riguarda l’eccidio del 7 ottobre, è bene rammentare che, soltanto tre giorni dopo, il 10 ottobre, Hannoun aveva dichiarato ai microfoni di Rai3 che l’attacco di Hamas era “legittima difesa” e a gennaio 2024 aveva anche glorificato su Facebook Yahya Ayyash e Saleh al-Arouri, due terroristi di Hamas morti. 
Ecco la traduzione del post: 
    “In questo giorno è avvenuto il vigliacco assassinio; Misericordia ai martiri; Il leggendario ingegnere martire, che segnò una svolta nella storia della resistenza palestinese; Yahya Ayyash Abu Al-Baraa. La Palestina oggi ha un disperato bisogno del vostro spirito patriottico e della vendetta per lo spirito del martire Sheikh Saleh Abu Muhammad. I martiri non muoiono”.
Nel marzo del 2024, durante una manifestazione in stazione Centrale a Milano, aveva affermato:
    “Concludo, con un applauso al popolo giordano, ai ribelli in Giordania che hanno obbligato il sistema di chiudere l’ambasciata israeliana. Invitiamo tutti i popoli arabi di fare lo stesso per cacciare via tutte le ambasciate israeliane, di chiudere e di trasformarle in centri per la resistenza. Un applauso alla resistenza dello Yemen, un applauso alla resistenza del Libano, dell’Iraq…”.
L’esternazione era stata ripresa anche in un filmato pubblicato su Facebook da Epal Media Center e sul profilo dello stesso Hannoun. 
In quell’occasione Hannoun aveva attaccato anche la senatrice Liliana Segre: “…abbiamo parlato qualche settimana fa della senatrice Segre che dubita, non si può chiamare genocidio perché c’è un’esclusiva riservata alla lobby, ai criminali che sono solo loro hanno subito un genocidio…” 
Il 13 ottobre 2023, Hannoun aveva utilizzato il pulpito del Centro Islamico di Genova per attaccare i paesi che sostengono Israele: “Abbiamo visto l’atteggiamento dei nostri governi italiano, europeo, americano e di alcuni paesi arabi che si sono schierati a favore di Israele, che hanno cominciato a piangere per le vittime, che hanno raccontato anche la menzogna per incoraggiare, a paragonare Hamas alla pari con l’Isis” … Tutto questo, per attaccare la “resistenza palestinese”. 
Il video è poi scomparso dalla pagina Facebook del Centro Islamico di Genova e dall’account di Hannoun pochi giorni dopo, ma oggigiorno è possibile salvare tutto ciò che viene pubblicato sul web. 
A questo punto non si può far altro che domandarsi come mai Hannoun possa operare indisturbato in territorio italiano nonostante tutto ciò che sta emergendo. 

(L'informale, 8 ottobre 2024)

........................................................


Sette Ottobre
    Israele,
    un gioiello incastonato nel mondo
    che il nemico brama per se’!
    Demoni l’hanno violato,
    vituperato, denigrato…
    Quanto odio dall’intera umanità’!!!
    Con il cuore straziato e lacerato,gli occhi
    piangono lacrime di dolore costantemente
    da troppo tempo ormai.
    La vita scorre con l’ansia,
    il sole sorge e tramonta
    ma la mente è sempre avvolta nel buio.
    Tunnel e morte, violenza e odio,
    piazze e grida urlate:
    “dal fiume al mare!”
    La gioia di Gerusalemme, però’,
    non si esaurisce col livore antisemita,
    il popolo di ISRAELE vive,
    soffre e gioisce, cade e si rialza, mille e
    mille volte ancora… sempre!!!
    “Ma quelli che sperano nell’Eterno
    acquistano nuove forze,
    s’innalzano con ali come aquile,
    corrono e non si stancano,
    camminano e non si affaticano!”
    ISAIA 40:31
Carmela Palma

(Notizie su Israele, 7 ottobre 2024)

........................................................


7 ottobre

di Niram Ferretti

Un anno fa oggi, Hamas entrava in Israele perpetrando il maggiore eccidio di ebrei post Shoah. Coglieva Israele di sorpresa, provocando un trauma che ancora oggi è vivo e mettendo in luce, nel giro di pochissimo tempo, una realtà nota da tempo, ma mai così evidente; che agli ebrei, a cui si è perdonato attraverso una lunga e travagliata storia di essere ebrei, non è mai stato perdonato il Paese che hanno creato.
  Il 7 ottobre ha messo a nudo, rapidamente, la cattiva coscienza dell’Occidente, la sua stucchevole ipocrisia, ha fatto cadere con un tonfo tutta la insopportabile retorica delle giornate della Memoria, riassunte nella formula stantia “Mai più!”. E’ stato il colpo di grazia dato all’idea che il genocidio perpetrato dai nazisti ottanta anni fa fosse da archiviare come un orrore irripetibile, irriproducibile, quando tremila jihadisti di Hamas, nel giro di poche ore hanno massacrato milleduecento ebrei (e tra loro anche pochi non ebrei), che sarebbero diventati idealmente tutti gli ebrei israeliani se non fossero stati fermati.
  “Genocidio”, parola ben precisa, coniata da Raphael Lemkin giurista polacco ebreo per descrivere lo sterminio programmatico del suo popolo da parte dei nazisti, e ritorto oggi contro gli stessi ebrei vittime designate da altri potenziali perpetratori di genocidi, per trasformarli nei colpevoli, una volta che hanno reagito iniziando a bombardare Gaza. E qui, qui, si manifesta uno dei più consolidati tropi antisemiti, quello per il quale se gli ebrei vengono uccisi è colpa loro e se reagiscono contro chi ha cercato di ucciderli, sono colpevoli due volte.
  La colpevolezza ebraica, ontologica per Hitler, è soprattutto oggi, dopo il 7 ottobre, la colpevolezza di Israele, ontologica anch’essa, che per essere dissociata dall’antisemitismo diventa antisionismo, ovvero l’antisemitismo à la page, quello sdoganabile, così come “sionista”, da parola designante tutti quegli ebrei che volevano autodeterminare il loro futuro sottraendolo all’arbitrio degli altri, è diventato, nelle menti deragliate degli odiatori una sorta di marchio di Caino, emblema di sopraffazione e usurpazione.
  Tuttavia il 7 ottobre è anche qualcos’altro, è l’incudine su cui battere il martello del proprio riconoscersi a fianco di Israele, delle sue ragioni, della sua volontà di resistere e combattere l’oscurantismo feroce del radicalismo islamico. È stato ed è la prova del nove che permette di riconoscere coloro i quali lo giustificano, lo appoggiano, o lo obliano, chinandosi affranti sulle vittime civili di Gaza come se non ce ne fossero mai state altre, e molto più copiose, e molto molto meno piante, accusando Israele di stragismo e di barbarie, di uccidere preferibilmente donne e bambini.
  Siamo qui, dopo un anno, con Israele costretto a combattere una guerra su più fronti, che non ha cercato, non ha voluto, come tutte le altre guerre precedenti di cui è stato vittima, mentre a Gaza, in condizioni disumane sono detenuti, non si sa quanti di loro ancora vivi, più di cento ostaggi, ad assistere al più virulento rigurgito di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale, ad ascoltare chi, Francia in testa, la Francia che già tradì Israele nel 1967, bloccando la fornitura di armi che gli aveva destinato, chiedere che non gli vengano più mandate armi.
  “La solitudine di Israele”, così si intitola l’ultimo libro di Bernard-Henri Lévy, ovvero il suo isolamento, il recinto, o ghetto di appestato, di paria, che gli è stato in buona parte costruito intorno, la solitudine che ottanta anni fa costò la vita a sei milioni di ebrei, ma che oggi, nonostante il prezzo alto da pagare, non farà piegare a Israele la testa, non permetterà a chi ne vuole la scomparsa, che questa avvenga.
  Il 7 ottobre è stato ed è per Israele, che oggi lo commemora, giorno atroce e di orrore puro, giorno di disfatta, ma, come sempre nella storia ebraica anche pungolo a rialzarsi, ad afferrare di nuovo il proprio destino, a non delegarlo ad altri, a combattere per affermarlo, per mantenerlo saldo.

(L'informale, 7 ottobre 2024)

........................................................


7 ottobre: tutti i numeri di un anno di guerra

17.000 terroristi sono stati uccisi a Gaza, almeno 800 in Libano; trovati 4.700 tunnel nella Striscia; colpite 11.000 postazioni di Hezbollah

di Sarah G. Frankl

Nel giorno in cui cade il primo anniversario del massacro del 7 ottobre, le forze di difesa israeliane (IDF) diffondono i numeri ufficiali di un anno di guerra che comprendono le operazioni dell’esercito e dell’aeronautica nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Libano.
Secondo i dati diffusi questa mattina circa 17.000 terroristi di Hamas e membri di altri gruppi terroristici sono stati uccisi dall’IDF nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra.
In base alle informazioni diffuse l’esercito ha ucciso otto comandanti di brigata di Hamas e quelli di grado equivalente, oltre a più di 30 comandanti di battaglione. Sono stati uccisi anche più di 165 comandanti di compagnia di Hamas e operativi con un grado simile.
Dall’inizio della guerra sono stati colpiti circa 40.300 obiettivi nella Striscia di Gaza e le truppe hanno individuato circa 4.700 tunnel.
Il giorno dopo l’assalto di Hamas, il gruppo terroristico libanese Hezbollah ha iniziato ad attaccare lungo il confine settentrionale di Israele, affermando di agire a sostegno di Gaza.
I combattimenti si sono intensificati nel corso dei mesi, fino a sfociare, il mese scorso, in una nuova offensiva israeliana contro il gruppo terroristico, con l’uccisione di tutti i suoi vertici e il lancio di un’operazione di terra nel sud del Libano.
In Libano, l’IDF ha dichiarato di aver ucciso più di 800 terroristi operativi, per lo più membri di Hezbollah, sostenuti dall’Iran. Il numero comprendeva 90 comandanti di Hezbollah.
Secondo i dati dell’IDF, quasi 11.000 postazioni di Hezbollah sono state colpite dall’esercito.
Dall’inizio della guerra, oltre 26.000 razzi, missili e droni sono stati lanciati contro Israele da più fronti.
I numeri includono 13.200 missili lanciati da Gaza – almeno 5.000 solo il 7 ottobre – 12.400 dal Libano, circa 60 dalla Siria, 180 dallo Yemen e 400 dall’Iran – questi ultimi in due attacchi diretti a Israele il 13 aprile e il 1° ottobre.
L’IDF non ha specificato quanti droni e missili siano stati lanciati dall’Iraq contro Israele durante la guerra.
Le cifre non includono i razzi – che secondo Israele sarebbero centinaia – lanciati da gruppi terroristici gazani che hanno fatto cilecca e sono atterrati nella Striscia, così come quelli lanciati da Hezbollah che sono atterrati in Libano.
L’IDF ha dichiarato che l’Unità 504 della Direzione dell’Intelligence Militare ha interrogato circa 7.000 sospetti palestinesi nella Striscia di Gaza, molti dei quali sono stati arrestati e portati in Israele per ulteriori interrogatori. Molti sono stati anche riportati a Gaza dopo l’interrogatorio.
Un totale di 728 soldati, riservisti e agenti di sicurezza locali sono stati uccisi e altri 4.576 sono stati feriti nella guerra dal 7 ottobre. Di questi, 346 sono stati uccisi e 2.299 sono stati feriti durante l’offensiva di terra a Gaza.
L’IDF elenca anche 56 soldati uccisi a causa del fuoco amico a Gaza e di altri incidenti militari.
Dal 7 ottobre, in Cisgiordania, l’IDF ha dichiarato che le truppe hanno arrestato più di 5.250 palestinesi ricercati, tra cui più di 2.050 affiliati ad Hamas. Inoltre, circa 690 uomini armati, rivoltosi che si sono scontrati con le truppe o terroristi che stavano compiendo attacchi sono stati uccisi dalle truppe in Cisgiordania.
L’IDF ha dichiarato che sono stati effettuati 150 raid a livello di brigata in Cisgiordania e sono state demolite 30 case di palestinesi accusati di terrorismo.

(Rights Reporter, 7 ottobre 2024)

........................................................


7/10/24 – Un anno di guerra: I dati dell’IDF

Un anno di guerra: I dati dell’IDF mostrano 728 soldati uccisi, e oltre 26.000 razzi lanciati contro Israele
Secondo l’esercito, sono 17.000 terroristi uccisi a Gaza, almeno 800 in Libano; 4.700 tunnel trovati nella Striscia; 11.000 postazioni Hezbollah colpite
Mentre il Paese segna un anno dall’inizio della guerra, il 7 ottobre 2023, l’ IDF ha pubblicato i nuovi dati sulle operazioni nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e in Libano, dal numero di razzi lanciati contro Israele al numero di siti colpiti dall’aviazione israeliana.
Secondo i dati, circa 17.000 agenti di Hamas e membri di altri gruppi terroristici sono stati uccisi dall’IDF nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra, oltre a circa 1.000 terroristi all’interno di Israele il 7 ottobre, quando uomini armati si sono scatenati nelle comunità del sud massacrando circa 1.200 persone, per lo più civili, e rapendone 251 a Gaza.
Israele ha risposto con una campagna militare per rovesciare il regime di Hamas nella Striscia di Gaza, distruggere il gruppo terroristico e liberare gli ostaggi.
Il ministero della Sanità gestito da Hamas ha dichiarato che oltre 41.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, anche se la cifra non può essere verificata in modo indipendente e si ritiene che includa sia i civili che i membri di Hamas uccisi a Gaza.
I dati dell’IDF dicono che l’esercito ha eliminato otto comandanti di brigata di Hamas e quelli di grado equivalente, oltre a più di 30 comandanti di battaglione. Secondo i dati, sono stati uccisi anche più di 165 comandanti di compagnie di Hamas e operatori di grado equivalente. Dall’inizio della guerra sono stati colpiti circa 40.300 obiettivi nella Striscia di Gaza e le truppe hanno localizzato circa 4.700 tunnel, ha dichiarato l’IDF.
Il giorno dopo l’assalto di Hamas, il gruppo terroristico libanese Hezbollah ha iniziato ad attaccare lungo il confine settentrionale di Israele, affermando di agire a sostegno di Gaza. Gli scontri si sono intensificati nel corso dei mesi, fino a sfociare il mese scorso in una nuova offensiva israeliana contro il gruppo terroristico, con l’uccisione di tutti i suoi vertici e il lancio di un’operazione di terra nel sud del Libano.
In Libano, l’IDF ha dichiarato di aver ucciso più di 800 agenti terroristici, per lo più membri degli Hezbollah sostenuti dall’Iran. Il numero comprende 90 comandanti di Hezbollah, secondo l’IDF. Secondo i dati dell’IDF, quasi 11.000 postazioni di Hezbollah sono state colpite dall’esercito.
Dall’inizio della guerra, oltre 26.000 razzi, missili e droni sono stati lanciati contro Israele da più fronti.
I numeri includono 13.200 proiettili lanciati da Gaza – almeno 5.000 solo il 7 ottobre – 12.400 dal Libano, circa 60 dalla Siria, 180 dallo Yemen e 400 dall’Iran – questi ultimi in due attacchi diretti a Israele il 13 aprile e il 1° ottobre. L’IDF non ha specificato quanti droni e missili siano stati lanciati dall’Iraq contro Israele durante la guerra.
Le cifre non includono i razzi – che secondo Israele sarebbero almeno centinaia – lanciati da gruppi terroristici gazani che hanno fatto cilecca e sono atterrati nella Striscia, così come quelli lanciati da Hezbollah che sono atterrati brevemente in Libano. L’IDF ha dichiarato che l’Unità 504 della Direzione dell’Intelligence Militare ha interrogato circa 7.000 sospetti palestinesi nella Striscia di Gaza, molti dei quali sono stati arrestati e portati in Israele per ulteriori interrogatori. Molti sono stati anche riportati a Gaza dopo l’interrogatorio.
Un totale di 728 soldati, riservisti e agenti di sicurezza locali sono stati uccisi e altri 4.576 sono stati feriti nella guerra dal 7 ottobre – l’ultima domenica. Di questi, 346 sono stati uccisi e 2.299 sono stati feriti durante l’offensiva di terra a Gaza.
L’IDF elenca anche 56 soldati uccisi a causa del fuoco amico a Gaza e di altri incidenti militari. Dal 7 ottobre, in Cisgiordania, l’IDF ha dichiarato che le truppe hanno arrestato più di 5.250 palestinesi ricercati, tra cui più di 2.050 affiliati ad Hamas. Inoltre, circa 690 uomini armati, rivoltosi che si sono scontrati con le truppe o terroristi che hanno compiuto attacchi sono stati uccisi dalle truppe in Cisgiordania, ha dichiarato l’IDF.
L’IDF ha dichiarato che sono stati effettuati 150 raid a livello di brigata in Cisgiordania e sono state demolite 30 case di palestinesi accusati di terrorismo.

(Israele360, 7 ottobre 2024)

........................................................


ROMA – 7 ottobre, 9 ottobre: il ricordo che unisce

di Adam Smulevich

FOTO
Il cittadino italiano Victor Green, 33 anni, è la settima vittima dell’attentato terroristico di Jaffa. «Il legame tra Italia e Israele passa purtroppo anche da questo», ha dichiarato Jonathan Peled, il neoambasciatore dello Stato ebraico a Roma, intervenendo in un Tempio Maggiore gremito per il ricordo di due tragici eventi: il pogrom del 7 ottobre, a un anno dalla carneficina; l’attentato palestinese alla sinagoga del 9 ottobre 1982. C’è un legame, ricordava la Comunità ebraica nel dare appuntamento alla commemorazione. E non soltanto perché in entrambi casi era Shemini Atzeret, festa gioiosa trasformatasi in tragedia. Ma perché permane la stessa, esistenziale, minaccia del terrorismo. «Israele non voleva questa guerra», ha detto l’ambasciatore, al suo primo intervento pubblico dall’insediamento. «Ma non possiamo permetterci di perderla, e per questo la vinceremo. Faremo di tutto per riportare a casa i nostri fratelli e sorelle a Gaza, continueremo a lottare contro l’estremismo, la minaccia dell’Iran, l’antisemitismo in Italia e nel mondo. Ce la faremo, tutti insieme». Unità: un concetto evocato in apertura anche da Gadiel Gaj Taché, fratello del piccolo Stefano vittima a due anni del terrorismo palestinese, gravemente ferito a sua volta nell’attacco al Tempio.
FOTO
Palloncini gialli, all’esterno del Tempio,
per chiedere la liberazione degli ostaggi

«Avevamo bisogno di stare tra di noi, di compattarci», il messaggio con cui ha aperto il suo intervento. Per poi aggiungere: «Oggi è caduta ogni maschera dei cosiddetti “pacifinti”; la formula “due popoli, due stati” è sempre stata una barzelletta, non perché non la vogliamo noi, ma perché non è mai stata voluta dai palestinesi». Parafrasando Primo Levi, il rabbino capo Riccardo Di Segni ha mosso un’accusa verso chi, «al sicuro nelle proprie tiepide case, pensa di insegnare la morale a chi rischia la vita». È chiaro l’intento di tanti manifestanti anti-Israele, ha proseguito il rav con amaro sarcasmo: «Vogliono distruggere Israele: non sono antisemiti, però vogliono uccidere altri sei milioni di ebrei». Victor Fadlun, il presidente della Comunità ebraica, si è domandato «come facciano ragazzi di scuole e università a essere così sciocchi», non capendo «il mondo omofobico e illiberale» per il quale scendono in piazza. «Pasolini li detestava questi ragazzi». Israele, in ogni caso, «vincerà, perché non è isolato». Per Fadlun lo si è visto «con tanti arabi sunniti in festa dopo l’uccisione di Nasrallah» e con le parole di vicinanza all’alleato della Casa Bianca. Ha concluso la serata, condotta dal giornalista David Parenzo e con interventi dei gruppi giovanili e testimonianze registrate da Israele, una riflessione di Eitan Della Rocca: «Si è concluso un anno di dure prove. Dobbiamo essere consapevoli che Hashem è con noi, che continua a instradarci verso una speranza».

(moked, 7 ottobre 2024)

........................................................


Lunedì 7 ottobre, a un anno dal Pogrom, un evento aperto alla cittadinanza alla Sinagoga Centrale di Milano

La Comunità ebraica di Milano, insieme alle Istituzioni ebraiche milanesi, vi aspetta lunedì 7 ottobre ore 18.30, Sinagoga Centrale di via Guastalla.
Un anno dal Pogrom il dramma dei Rapiti e la nuova ondata di antisemitismo.

Presentazione a cura di Giuliano Ferrara

Ne parliamo con Ilaria Borletti Buitoni, Daniele Capezzone, Klaus Davi, Mattia Feltri, Luciano Fontana, Giulio Meotti, Iuri Maria Prado, Alessandro Sallusti, Pietro Senaldi e Rayhane Tabrizi. Modera Paolo Salom

Saluti Istituzionali
rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo Comunità ebraica di Milano
Walker Meghnagi, Presidente Comunità ebraica di Milano
Milo Hasbani,Vice Presidente Unione Comunità ebraiche Italiane
Onorevole Lorenzo Guerini, presidente Copasir
Ignazio La Russa, presidente del Senato

Con la partecipazione di (attivista iraniana)
Con la testimonianza di Liran Berman, fratello dei gemelli Ziv e Gali, rapiti dai terroristi di Hamas e ancora nelle loro mani e i familiari di Shila Ayalon, uccisa al Nova Festival
Con la partecipazione del coro Kol haShomrim e dei movimenti giovanili Bnei Akiva e Hashomer Hatzair

(Shalom, 7 ottobre 2024)

........................................................


Israele uccide il palestinese che nel 2000 aveva linciato soldati israeliani

Aziz Salha, uno degli assassini dei riservisti israeliani Vadim Norzhic e Yosef Avrahami, è stato rilasciato nell'ambito dello scambio Gilad Shalit nel 2011.

FOTO
Aziz Salha alza le mani insanguinate presso la stazione di polizia dell'Autorità Palestinese di al-Bireh

Aziz Salha, uno dei partecipanti all'assassinio di due riservisti delle Forze di Difesa israeliane a Ramallah nel 2000, alza le mani insanguinate presso la stazione di polizia dell'Autorità  Palestinese di al-Bireh. Foto: Palestinian Media Watch.
Aziz Salha, che ha raggiunto la notorietà  mondiale per un video in cui mostra di aver linciato 12 ottobre 2000 due soldati israeliani nella città  gemella di Ramallah, al-Bireh, il , è stato ucciso in un attacco delle forze israeliane nella Striscia di Gaza giovedì.
Le immagini di Salha in piedi alla finestra della stazione di polizia dell'Autorità  Palestinese a el-Bireh nei primi giorni della Seconda Intifada, agitando le mani insanguinate di fronte a una folla palestinese, sono impresse nella coscienza collettiva israeliana e per molti rimangono una conseguenza diretta degli accordi di Oslo.
Vadim Norzhic, 33 anni, autista di camion di Or Akiva, immigrato in Israele da Irkutsk dieci anni prima, e il sergente maggiore (ris.) Yosef Avrahami, 38 anni, venditore di giocattoli di Petach Tikvah, sono stati trascinati dal loro veicolo e picchiati e pugnalati a morte, per poi essere mutilati, dopo essere entrati accidentalmente nella città  di Ramallah, controllata dall'Autorità  Palestinese, sulle colline della Giudea, a circa 10 km a nord di Gerusalemme.
Sasha, 43 anni, è stato arrestato un anno dopo, ma era tra i 1.027 terroristi palestinesi rilasciati dalle carceri israeliane nell'ambito dell'accordo del 2011 per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit dalla prigionia di Hamas a Gaza.
Salha è stato preso di mira in un attacco aereo a Deir al-Balah, nel centro di Gaza, ha detto l'esercito.
"Negli ultimi anni è stato coinvolto nella direzione di attività  terroristiche in Giudea e Samaria e ha continuato a svolgere attività  terroristiche negli ultimi giorni", hanno dichiarato le Forze di difesa israeliane.

(Israel Heute, 6 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Il Mossad spiava Hezbollah con i walkie-talkie esplosivi dal 2015

I cercapersone costruiti in Israele mentre i walkie-talkie con all'interno l'esplosivo sono stati fatti avere a Hezbollah addirittura nel 2015 consentendo agli israeliani di intercettare per anni tutte le comunicazioni dei terroristi

di Sarah G. Frankl

Il Washington Post approfondisce dettagli inediti sulla presunta operazione israeliana che il mese scorso ha fatto esplodere cercapersone e walkie-talkie usati dal gruppo terroristico libanese Hezbollah, ferendo migliaia di persone e dando il via a una operazione che ha inflitto a Hezbollah colpi immensi, tra cui l’uccisione del suo leader Hassan Nasrallah.
Il rapporto – che cita funzionari della sicurezza israeliani, arabi e americani, politici e diplomatici, nonché fonti vicine a Hezbollah – afferma che i cercapersone sono stati prodotti in Israele e concepiti dall’agenzia di spionaggio Mossad, compresa una caratteristica che ha fatto sì che molti agenti di Hezbollah usassero i dispositivi con entrambe le mani quando esplodevano, rendendoli incapaci di combattere.
Dopo che il 12 settembre i funzionari del Mossad hanno rivelato la funzionalità ai funzionari eletti e l’operazione è stata infine approvata dal gabinetto del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, migliaia di agenti di Hezbollah hanno ricevuto un messaggio che li informava di aver ricevuto un messaggio criptato che richiedeva la pressione di due pulsanti, costringendoli in pratica a usare entrambe le mani e a rimanere feriti a entrambe le mani quando le esplosioni avvenivano mentre premevano i pulsanti.
Il rapporto rivela anche che i walkie-talkie con trappola esplosiva – che sono stati fatti esplodere un giorno dopo – erano stati usati da Hezbollah dal 2015, fornendo a Israele un accesso continuo in tempo reale alle comunicazioni del gruppo terroristico per molti anni, prima che i dispositivi fossero armati in modo più letterale.
I minuscoli esplosivi nei cercapersone e nei walkie-talkie erano nascosti in modo tale che smontando il dispositivo – o anche passandolo ai raggi X – non si potesse rivelare il pericolo agli inconsapevoli membri di Hezbollah, che hanno prontamente abbracciato i gadget progettati e prodotti da Israele, riporta il Post.
Aggiunge che la proposta di vendita che ha convinto Hezbollah ad acquistare i cercapersone AR924 a batteria grande all’inizio di quest’anno è stata fatta da una donna non identificata che lavorava con una ditta di Taiwan e che non era a conoscenza del complotto israeliano.

(Rights Reporter, 6 ottobre 2024)

........................................................


La stella e la lancia: Israele e il Sudafrica, un rapporto travagliato

di Nathan Greppi

Quando era un avvocato, Nelson Mandela aveva forti legami con la comunità ebraica in Sudafrica: uno studio legale gestito da ebrei gli offrì degli incarichi quando nessun altro l’avrebbe fatto, e una fetta consistente degli attivisti bianchi contro l’apartheid erano ebrei.
  Inoltre, pur avendo avuto stretti rapporti con l’OLP di Yasser Arafat, una volta Mandela disse che “come movimento, riconosciamo la legittimità del nazionalismo palestinese così come riconosciamo la legittimità del sionismo come nazionalismo ebraico. Insistiamo sul diritto dello Stato d’Israele ad esistere entro confini sicuri, ma con uguale vigore sosteniamo il diritto palestinese all’autodeterminazione nazionale”.
  Decenni dopo l’ANC (African National Congress), che fu il partito di Mandela, sembra aver rinunciato a questo pragmatismo. In seguito al 7 ottobre, dopo aver fatto chiudere l’Ambasciata israeliana in Sudafrica, il governo guidato da Cyril Ramaphosa ha cercato di far condannare per genocidio Israele presso la Corte Penale Internazionale.
  Tuttavia, a causa dei problemi socioeconomici che dilaniano nel paese, le elezioni sudafricane tenutesi a giugno hanno visto l’ANC perdere la maggioranza assoluta dei seggi per la prima volta dalla fine dell’apartheid, costringendo Ramaphosa a formare un governo di coalizione con altri partiti. Alcuni di questi, come il partito di centro Alleanza Democratica e quello di destra Freedom Front Plus, hanno espresso posizioni filoisraeliane.
  Per capire se ciò porterà a dei cambiamenti anche nei rapporti tra Pretoria e Gerusalemme, e come sta vivendo la situazione dopo il 7 ottobre la comunità ebraica sudafricana, abbiamo parlato con Howard Feldman: imprenditore, editorialista e scrittore, collabora con il settimanale South African Jewish Report, il sito di notizie News24 e l’emittente radiofonica Chai FM 101.9. Suoi articoli sono apparsi anche sul Jerusalem Post e il Times of Israel.

- Come ci può descrivere la reazione del Sudafrica ai fatti del 7 ottobre?
  Innanzitutto, occorre fare una distinzione tra l’ANC e il popolo sudafricano. Tra il 7 e l’8 ottobre 2023, la reazione dell’African National Congress è stata orribile; si sono mostrati fin da subito vicini alla causa palestinese, senza mai mostrare alcuna empatia nei confronti della comunità ebraica né chiedere agli ebrei sudafricani come si sentivano in quel momento.
  Questo atteggiamento è proseguito anche in seguito, fino alla campagna elettorale. Durante l’ultima manifestazione dell’ANC in vista delle elezioni, tenutasi al Soccer City Stadium di Soweto, sventolavano più bandiere palestinesi che bandiere sudafricane. Avresti potuto scambiarla per una manifestazione palestinese.
  Hanno voluto rimarcare fin da subito il loro allineamento non solo con i palestinesi, ma anche con Hamas. Prima ancora che Israele iniziasse la sua risposta militare al 7 ottobre, è venuto fuori che l’allora Ministro degli Esteri sudafricano, Naledi Pandor, aveva fatto una telefonata ai vertici di Hamas. In un primo momento il suo staff ha cercato di negare, ma quando è risultato evidente, si è giustificata dicendo che voleva solo offrire loro sostegno umanitario. Peccato che l’avesse fatto quando l’operazione militare israeliana non era ancora iniziata, e non ha mai pensato di offrire aiuto agli israeliani sfollati dai villaggi al confine con Gaza.

- Come viene vissuta questa situazione all’interno della comunità ebraica?
  A causa di questo tradimento a sangue freddo da parte del governo, i rapporti tra il presidente Cyril Ramaphosa e la comunità ebraica sudafricana sono andati distrutti, e non credo che si potranno mai riparare. Non potrà mai essere perdonato il modo in cui si è comportato.
  Anziché essere equidistanti ed equilibrati, quelli del governo hanno cercato di cavalcare quello che ritenevano essere un ampio sostegno popolare in quella direzione, che invece li ha penalizzati nelle urne. E questo mi porta alla distinzione tra il governo e il popolo del Sudafrica; questi ha molto a cuore concetti come libertà di espressione, libertà di culto, antirazzismo e uguaglianza di genere. Ciò è probabilmente dovuto al nostro triste passato legato al regime dell’apartheid, che ha fatto capire ai sudafricani che cos’è l’oppressione.
  Per questo, da parte della popolazione non si vedono quelle manifestazioni d’odio contro Israele che vediamo altrove. Ci sono state delle manifestazioni pubbliche, ma non ci sono la violenza e l’antisemitismo che vediamo in altre parti del mondo. Non si vedono attacchi contro sinagoghe e scuole ebraiche.

- Che cosa ha spinto l’ANC, dopo il 7 ottobre, a mettere in atto una politica tanto ostile nei confronti d’Israele?
  Bisogna capire che l’ANC si è sempre identificato con la causa palestinese. Tuttavia, in passato questa posizione era molto più ponderata; lo stesso Nelson Mandela riconosceva che Israele aveva bisogno di sicurezza, e allo stesso tempo che dovesse essere riconosciuto il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. Un atteggiamento condiviso anche da molti ebrei sudafricani, convinti che due Stati debbano convivere fianco a fianco.
  Purtroppo, vuoi per i suoi stretti rapporti con l’Iran e Hamas o per altri motivi, il governo si è spostato su posizioni molto più sbilanciate. Oggi non hanno più credibilità, il che è un peccato; potendo telefonare a quelli di Hamas, l’ANC avrebbe potuto giocare un ruolo positivo come mediatore, anche contribuendo ai negoziati per la liberazione degli ostaggi.

- Come opinionista che si occupa di ebraismo e Israele, che riscontro riceve in Sudafrica?
  Personalmente, io mi esprimo molto pubblicamente a favore d’Israele, e per questo ricevo diversi attacchi online. Ma fortunatamente, ciò non si è mai tradotto in minacce fisiche.
  Più in generale, gli ebrei non rischiano particolarmente di essere attaccati per le strade del Sudafrica. Al contrario, camminando nella periferia di Johannesburg, si possono vedere poster e nastri gialli appesi sugli alberi per chiedere la liberazione degli ostaggi israeliani. Quando dei visitatori stranieri vengono in Sudafrica, dicono che nei loro paesi questi verrebbero rimossi. Ma a Johannesburg, ciò non avviene.

- Dopo le elezioni di giugno, sono stati inclusi nel nuovo governo sudafricano anche partiti con posizioni filoisraeliane. È cambiato qualcosa da allora?
  Direi di sì. Oggi l’ANC deve mostrarsi più cauto, anche se non può fare marcia indietro su tutto ciò che ha fatto in passato. Il messaggio ricevuto alle elezioni è che ha molte sfide da affrontare in casa, e che il governo deve pensare più a risolvere i problemi interni che a un conflitto lontano migliaia di chilometri.
  Come organizzazione, l’ANC è un fallimento, e molti sudafricani sentono che li ha abbandonati. Durante il suo discorso inaugurale per il nuovo governo, Ramaphosa ha dichiarato di aver recepito questo messaggio, e che si concentreranno sul risolvere i problemi interni del Sudafrica. Se ci riusciranno o meno, questo non lo so, anche perché alla fine quelli dell’ANC rimangono sempre gli stessi.

- Il Sudafrica è un paese multietnico, dove convivono culture diverse. Tra queste, ci sono delle differenze per quanto riguarda la diffusione dell’antisemitismo e dell’antisionismo?
  In generale, l’antisemitismo è poco presente in tutti i gruppi. Piuttosto, a Città del Capo è molto forte la comunità musulmana, e anche se la maggior parte dei musulmani sudafricani non sono antisemiti, alcuni di loro si sono radicalizzati. Oggi, buona parte dell’antisemitismo in Sudafrica proviene da gruppi di estrema sinistra.

- Quando devono tutelare la propria sicurezza, le comunità ebraiche ricevono qualche aiuto da parte delle autorità?
  Lo Stato non fornisce alcuna protezione ufficiale ai luoghi ebraici. Se si presentano rischi evidenti, la comunità ebraica ne discute con l’intelligence, ma per il resto, deve badare a sé stessa con il proprio servizio di sicurezza.

- Alla luce della situazione nel paese, come vede il futuro dell’ebraismo sudafricano?
  Il futuro dell’ebraismo sudafricano è intrinsecamente legato al futuro del Sudafrica. Credo che gli ebrei sudafricani decideranno di restare solo se il paese tornerà a prosperare. In altre parole, più che l’aspetto religioso contano l’accesso ad un buon sistema sanitario, le prospettive di carriera lavorativa, l’istruzione e la sicurezza; cose che preoccupano tutti i sudafricani, non solo gli ebrei.

(Bet Magazine Mosaico, 6 ottobre 2024)

........................................................


Guerriglia al corteo propal di Roma

Feriti, bandiere di Hezbollah e slogan che inneggiano al 7 ottobre

di Elisabetta Fiorito

È finita come purtroppo era prevedibile la manifestazione propalestinese e filo Hamas non autorizzata. Appena cinquemila i partecipanti ma la guerriglia si scatena comunque a corteo finito, verso le 17.30, in piazzale Ostiense. Alcuni incappucciati iniziano a tirare sassi, bottiglie, bombe carta e persino un palo stradale divelto dall’asfalto contro le camionette della polizia. Le forze dell’ordine reagiscono spruzzando gli idranti sulla folla. Almeno tre ragazzi vengono feriti durante gli scontri, tra loro anche una ragazza. Un fotografo viene colpito alla testa dopo essere stato bastonato da alcuni manifestanti incappucciati. Un altro è stato ferito a una mano, colpita da un sasso.
  È l’epilogo di un pomeriggio che ha visto ancora una volta come protagonista l’antisemitismo mascherato da antisionismo tra urla e bandiere. “L’Italia fermi la vendita e l’invio di armi a Israele”, “Finisca immediatamente il genocidio a Gaza”, “Il 7 ottobre è iniziata la rivoluzione”, “Resistenza fino alla vittoria”, “Palestina immortale, Israele criminale”, “Free Palestine” con l’immagine che include tutto il territorio israeliano sono alcuni degli slogan. Inquietanti quelli dei Giovani palestinesi con “Viva il 7 ottobre” e che per i prossimi giorni annunciano “L’intifada studentesca” nelle scuole e nelle università di tutta Italia al grido di: “Se non cambierà intifada pure qua”. Una vera e propria minaccia per la nostra democrazia e per chi non ricorda che, a parte il terrorismo interno, i palestinesi sono gli unici ad aver fatto vittime sul nostro territorio come il piccolo Stefano Gai Taché nell’attentato alla Sinagoga del 1982.
  Ma la ciliegina sulla torta è la presenza della bandiera di Hezbollah, il vessillo giallo spunta nello spezzone dei militanti libanesi, e riporta un versetto del corano: “E colui che sceglie per alleati Allah e il Suo Messaggero e i credenti, in verità è il partito di Dio, Hezbollah, che avrà la vittoria”con raffigurata la mano che stringe un fucile d’assalto stilizzato.
  Nel corso della giornata, in una Piramide blindata, sono state controllate 1.600 persone e 19 portate in Questura. “Ci fermano per garantire la guerra”, dal megafono, uno dei rappresentati, dell’Unione democratica arabo palestinese. E alcune persone sono state fermate dopo gli scontri. Il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha manifestato apprezzamento per “l’operato delle forze di polizia che, come sempre, hanno dimostrato grande professionalità ed equilibrio garantendo l’ordine pubblico in una giornata complessa, in cui non sono mancate gravi intemperanze da parte di chi è sceso in piazza anche utilizzando armi improprie e bombe-carta per aggredire gli agenti e causare danneggiamenti”.
  È una manifestazione “esplicitamente pro- Hamas non pro-Palestina – dice il giornalista Pierluigi Battista – nel senso che il 7 ottobre 2023 viene considerato un atto di resistenza. Non è pro Stato palestinese è contro l’esistenza dello Stato d’Israele”. “Una vergogna le bandiere Hezbollah”, dichiara Maurizio Gasparri di Forza Italia, mentre per Daniela Santanché di Fratelli d’Italia “a preoccupare è l’antisemitismo”.
  Resta l’amarezza per un rituale stanco che continua a minacciare la nostra democrazia. Una manifestazione vietata che si tiene comunque, che vuole soltanto la cancellazione d’Israele inneggiando ad Hamas e Hezbollah, due organizzazioni che non soltanto negano la libera manifestazione del pensiero ma ogni forma di dissenso e che sotto le loro dittature non sarebbe finita con qualche fermo, ma con la condanna a morte dei partecipanti al corteo.

(Shalom, 5 ottobre 2024)

........................................................





Chi ha ucciso Gesù?

di Marcello Cicchese

La risposta a questa domanda è di fondamentale importanza. Per secoli agli ebrei è stato imputato il tremendo crimine del “deicidio”, con tutte le conseguenze che ne sono seguite. Cerchiamo allora di capire il senso dei testi biblici che parlano dell’uccisione di Gesù.
  La domanda: “Chi ha ucciso Gesù?” non è così chiara come sembra. Si potrebbe rispondere che Gesù è stato materialmente ucciso dai soldati romani che lo hanno inchiodato sulla croce. Questo è vero, ma non risponde al senso della domanda. Si sa bene che quando avviene un omicidio non basta scoprire chi l’ha commesso materialmente, perché può essere ancora più importante scoprire chi l’ha voluto e commissionato.
  Rispondere alla domanda “Chi ha ucciso Gesù?” significa allora arrivare a stabilire chi ne porta la responsabilità ultima e quindi anche, se si tratta di crimine, la colpa.
  Risaliamo allora la trafila delle responsabilità, cominciando dal basso.
  E’ certo che chi ha legato Gesù alla croce e l’ha inchiodato al legno provocandone la morte fisica sono stati dei soldati romani. E’ un’osservazione che può sembrare ovvia e banale, ma ha la sua importanza. Gesù non è stato pugnalato nell’ombra da un sicario giudeo, non è stato linciato da folle ebraiche inferocite; le mani che l’hanno colpito appartenevano a pagani. I soldati romani certamente eseguivano degli ordini, e tuttavia teoricamente avrebbero potuto opporre obiezione di coscienza, se fossero stati convinti che l’azione era ingiusta. Questo avrebbe potuto scagionarli sul piano morale personale, ma certamente non avrebbe impedito l’esecuzione. Sarebbero stati passati per le armi e Gesù sarebbe stato ugualmente inchiodato sulla croce.
  Risalendo la scala gerarchica si arriva a Pilato, che in quel momento rappresentava l’autorità imperiale romana. «Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?» (Giovanni 19:10), dice Pilato a Gesù, sorpreso dal suo silenzio. E aveva ragione: sul piano politico a lui spettava il compito di decidere la sorte di Gesù, e quindi lui ne porta la responsabilità davanti agli uomini. Certamente non poteva sapere che Gesù è il Figlio di Dio e tanto meno poteva capire la sua pretesa di essere, secondo l’accusa dei suoi nemici, il re dei giudei. E quando gli chiede: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù risponde: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (Giovanni 18:37). «Che cos’è verità?» replica lo scettico governatore romano. Pilato, nella sua ignoranza di gentile, ovviamente non poteva capire il senso profondo delle parole di Gesù, ma certamente poteva capire, e di fatto l’aveva capito, che le accuse contro Gesù non erano vere. «Io non trovo colpa in lui» (Giovanni 18:38), ammette infatti pubblicamente. Per motivi di giustizia dunque avrebbe dovuto liberarlo, cosa che invece non ha fatto, e in questo modo «ha soffocato la verità con l’ingiustizia» (Romani 1:18).
  E’ chiaro allora che sul piano strettamente politico umano, la responsabilità ultima dell’uccisione di Gesù ricade sul rappresentante dell’Impero romano a Gerusalemme. Chi non vuol far intervenire Dio in questi fatti, non può che arrivare a questa conclusione.
  Chi invece fa intervenire Dio deve prendere in considerazione quello che dice la Scrittura, senza lasciarsi fuorviare da preferenze personali. L’apostolo Pietro nella sua prima predicazione a Gerusalemme dopo l’ascensione al cielo di Gesù pronuncia parole pesanti:

    "Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso" (Atti 2:36).

E’ chiaro allora, dirà qualcuno: a uccidere Gesù sono stati gli ebrei, che ne portano la colpa e ne devono subire le conseguenze.
  Due cose però si devono osservare: l’ebreo Pietro non dice: “I romani hanno crocifisso Gesù”, e neppure: “Noi ebrei abbiamo ucciso Gesù”. Dice: “Voi l’avete crocifisso”. Chi sono questi voi? Nel primo discorso Pietro si rivolge agli “uomini di Giudea” (Atti 2:14) e agli “uomini d’Israele” (Atti 2:22), e nel suo secondo discorso si rivolge ai “capi del popolo e anziani” dicendo:

    "... sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele che questo è stato fatto nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, che voi avete crocifisso, e che Dio ha risuscitato dai morti..." (Atti 4:8)

Quando Pietro si rivolge a tutta la casa d’Israele o a tutto il popolo d’Israele, lo fa per annunciare che quel Gesù che è stato crocifisso è il Signore e il Messia d’Israele  (Atti 2:36), e che soltanto nel suo nome è possibile essere salvati (Atti 4:12). A tutto il popolo viene annunciato il perdono dei peccati e la salvezza proprio attraverso quel Gesù che i capi del popolo, con il consenso di molti, avevano consegnato nelle mani dei gentili:

    "Uomini d’Israele, ascoltate queste parole! Gesù il Nazareno, uomo che Dio ha accreditato fra di voi mediante opere potenti, prodigi e segni che Dio fece per mezzo di lui, tra di voi, come voi stessi ben sapete, quest’uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto” (Atti 2:22-24).

Pietro si comporta dunque come un profeta che dall’interno di Israele annuncia il peccato che i capi e una parte del popolo hanno commesso rifiutando il Messia mandato da Dio. Ma, esattamente come hanno sempre fatto tutti i profeti, annuncia anche che nonostante e anzi  attraverso la disubbidienza di gran parte del popolo, Dio continuerà a compiere la sua opera a favore d’Israele.
  Pietro dice ai suoi fratelli israeliti: “... voi, per mano d’iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste”. I romani indirettamente vengono coinvolti e indicati come iniqui, ma è indubbio che Pietro attribuisce ai suoi capi una maggiore responsabilità. E questo è vero, se si esce dal semplice piano politico umano e si fa intervenire Dio, con la sua volontà, le sue rivelazioni e le sue promesse. Pietro presenta Gesù come Messia: è chiaro allora che soltanto gli ebrei potevano rifiutare il Messia, non certo i romani, che non sapevano nemmeno che cosa fosse il Messia. Dal momento che soltanto Israele è a conoscenza dei piani di Dio, è naturale dire che se Gesù è il Messia, come Pietro pubblicamente annuncia, soltanto gli ebrei possono essere ritenuti responsabili di aver consegnato nelle mani dei gentili quel Messia che aspettavano come liberatore dalla schiavitù dei gentili. Pilato ha colpa nell’esecuzione di Gesù, anzi l’unica colpa se ci si arresta al piano politico, ma se si accetta il fatto che Gesù è il Messia, è chiaro che sul popolo di Dio di quel tempo grava una maggiore responsabilità. Questo è attestato dalle parole esplicite di Gesù, che davanti a Pilato afferma: “... chi mi ha dato nelle tue mani ha maggior colpa” (Giovanni 19:11).
  Ma esaminiamo il contesto in cui viene pronunciata questa frase. Quando Gesù si trova davanti a Pilato è già stato condannato a morte dal Sinedrio. Al governatore romano arriva tra le mani una grana che avrebbe volentieri evitato. Ha capito benissimo che i capi dei sacerdoti glielo hanno consegnato per invidia (Marco 15:10), e in cuor suo spera di poter avere dall’ebreo che gli sta di fronte qualche valido argomento che gli consenta di respingere come manifestamente infondate le accuse avanzate. Ma tra queste ce n’è una per lui molto strana: Gesù è accusato dai suoi connazionali di essersi fatto Figlio di Dio. Pilato allora interroga su questo punto quello strano ebreo. Ma questi non gli risponde. Il governatore romano si sente snobbato, come se non valesse nemmeno la pena di rispondergli. E infatti è così: che cosa può capire un funzionario romano su un argomento come “il Figlio di Dio”. In che modo avrebbe potuto venirgli in aiuto? Poteva forse essere lui a confermare l’autodichiarazione di Gesù? Pilato allora ricorda all’imputato che chi comanda è lui, non quel Sinedrio ebraico che lo ha condannato e che lui certamente disprezza. Se vuol essere aiutato, Gesù deve rinnegare quell’autorità religiosa e appellarsi alla vera autorità mondiale di quel tempo: Roma, che in quel momento lui rappresenta. Gesù allora informa il governatore romano che l’autorità ultima non ce l’ha lui, ma Dio, che ha scelto Israele, con il quale un giorno regnerà sul mondo intero. Il Sinedrio che lo ha consegnato nelle sue mani ha maggior colpa (Giovanni 19:11) perché ha maggiore autorità. Gesù rifiuta dunque di lasciarsi difendere dai gentili contro i suoi connazionali ebrei. Dal momento che il Sinedrio lo ha rifiutato come Figlio di Dio, Pilato non può fare assolutamente nulla, perché nel piano di Dio lui è un’autorità inferiore. Pilato quindi è colpevole, davanti agli uomini e davanti a Dio, dell’uccisione di Gesù, ma non ne porta la responsabilità ultima, perché in ogni caso non avrebbe potuto fare niente per evitarla, per il semplice fatto che è un peccatore, rappresentante storico di tutti i gentili che soffocano la verità con l’ingiustizia (Romani 1:18).
  Per trovare la responsabilità ultima dell’uccisione di Gesù bisogna allora salire ancora più in alto nella scala delle autorità. Superato Pilato, rappresentante del potere di Roma, si arriva al Sinedrio ebraico, la più alta autorità del popolo d’Israele. E’ lui che ha ucciso Gesù? La risposta sarebbe affermativa, se si potesse dimostrare che una sua decisione diversa avrebbe potuto evitare quella morte. Ma non è così. Il popolo d’Israele, rappresentato dai suoi capi di quel momento, ha certamente respinto il suo Messia e lo ha consegnato nelle mani dei gentili, e così facendo si è comportato come tante altre volte nel passato: ha disubbidito, ribellandosi al suo Dio. Ma era inevitabile che, in conseguenza di questo fatto, Gesù dovesse morire? Davanti ad una ribellione così grave del suo popolo, Dio avrebbe potuto prendere la palla al balzo e fare quello che tanti dicono che poi abbia fatto: rigettare definitivamente Israele, additarlo al disprezzo universale e passare ad altri le benedizioni promesse. Gesù avrebbe potuto manifestare pubblicamente la sua autorità, chiedere al Padre una legione di angeli, distruggere i suoi nemici ebrei e mettersi a capo di un’altra entità politica fatta di gentili ragionevoli e disponibili che lo avessero accolto. Ma tutto questo Gesù non l’ha fatto perché sapeva che la sua morte avrebbe dovuto servire ad espiare i peccati della nazione e portare salvezza a Israele e a tutto il mondo.
  Chi dunque ha voluto la morte di Gesù? Chi ne porta la responsabilità ultima davanti a Dio? Non sono i soldati perché sopra di loro c’era Pilato; non è Pilato perché sopra di lui c’era il Sinedrio; non è il Sinedrio perché sopra di lui c’era Dio stesso, nella persona del Figlio che volenterosamente si sottomette al Padre.

    "Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio»" (Giovanni 10:17-18).

La generazione degli israeliti di quel tempo porta indubbiamente la responsabilità di avere respinto il Messia, ma l’uccisione di Gesù non ne è una necessaria conseguenza, perché non era nelle possibilità di nessun uomo di togliere la vita al Principe della vita. Dio avrebbe potuto fulminare all’istante tutti quelli che minacciavano il suo prediletto Figlio. Se non l’ha fatto, se ha preso un’altra decisione, la responsabilità ultima è sua. E Dio se la prende, perché proprio questa era la sua volontà d’amore, decisa prima ancora della fondazione del mondo: offrire al popolo d’Israele anzitutto, e poi a tutte le genti, la possibilità di essere perdonati dei propri peccati e riconciliati con Lui. A nessuno, assolutamente a nessuno, Dio rimprovererà mai di avergli ucciso il Figlio. La morte di Gesù è stata fermamente voluta dal Padre, il quale ama il Figlio, riconoscendo in Lui la disponibilità a ubbidire alla sua volontà. Il Figlio ama il Padre, e manifesta il suo amore nella disponibilità a deporre liberamente la sua vita senza esservi costretto da nessun uomo. L’amore tra Padre e Figlio, espresso dolorosamente sulla croce, si espande in seguito, e si compie pienamente, in un amore redentivo per tutti gli uomini. Nell’intimo colloquio che precede la sua morte in croce, Gesù si rivolge al Padre con queste parole:

    "Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l’amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro»" (Giovanni 17:25-26).

(da "La superbia dei Gentili")



........................................................


La rifondazione di Israele

A un anno dal 7 ottobre, gli israeliani guardano in faccia il trauma e ritrovano l’unità. Il sionismo, l’esercito, l’estrema destra, la convivenza con i palestinesi. Ritratto di un paese che non vuole più sbagliare.

di Micol Flammini

TEL AVIV - Il giallo non è più un colore, è un richiamo. Ottobre non è più un mese, è un lamento. Israele si volta indietro, vede che si avvicina un nuovo 7 ottobre, si guarda allo specchio e non si riconosce più. Tutto il giallo che c’è per le strade confonde e ricorda, è il colore degli ostaggi. Non c’è iniziativa che non si sia tinta di giallo: qualsiasi cosa faccia questo paese, lo fa ricordando che ci sono degli israeliani dall’altra parte del confine, a sud, in un tunnel di Hamas, forse morti, probabilmente moribondi, sicuramente irriconoscibili. Allora sono gialle le spille che le persone portano al bavero e mettono anche soltanto per andare a fare la spesa; sono gialli i menù dei ristoranti, perché la vita sociale è tornata, ma bisogna ricordare; sono gialli i nastri legati agli specchietti delle macchine, gialli i volantini di protesta, gialli i cartelloni delle rassegne cinematografiche. Giallo è il colore dell’incompletezza. Poi è tornato ottobre, il mese delle guerre, il mese del pentimento, il mese del danno. Ottobre ricorda che è trascorso un anno, che in tanti hanno percepito come infinito e porta a una domanda necessaria: quanto è cambiato Israele? Tanto, troppo, non abbastanza. Al Kikar Hatufim, la piazza degli ostaggi, chi si lascia rivolgere la domanda è comunque d’accordo su un punto: il paese non è più uguale a se stesso. Il Capodanno ebraico che ha ammantato la città di un’aria di festa e di sonno è finito, ma per tutti la preghiera di Rosh Hashanà che comincia con la frase “Finisca l’anno con le sue maledizioni. Cominci l’anno con le sue benedizioni” in questo ottobre, che torna e porta in dote un anniversario luttuoso, ha avuto un significato completamente diverso, inaspettato. “Ci ho pensato tutta la notte – dice al Foglio Yuval Elbashan, scrittore, avvocato e attivista – se devo comparare lo scorso Capodanno con questo, lo scorso Rosh Hashanà con questo, beh, preferisco essere qui adesso, in questo momento, con tutte le trasformazioni”. Israele è nuovo, doloroso, ma diverso: “Non siamo più ciechi – riprende Elbashan – ora vediamo con chiarezza chi siamo, vediamo gli amici e i nemici, i torti e le ragioni”. Non sono parole semplici per lo scrittore, impegnato per una vita nel processo di pace; ferreo sostenitore della convivenza con i palestinesi.
  “Ho dimenticato quello che mia nonna non aveva mai dimenticato, le davo della razzista, credevo che fosse troppo traumatizzata dall’Olocausto e dalla guerra di Indipendenza per capire cosa fosse giusto. Io andavo a Ramallah per cercare una soluzione, ero impegnato in quella che oggi chiamo l’industria della pace e avevo dimenticato che se il mio impegno, da sionista, era quello di essere disposto a rinunciare a parte del territorio dello stato di Israele, l’altra parte invece non vuole l’esistenza dello stato di Israele”. Lo scorso anno, prima del 7 ottobre, Elbashan era fermo nella sua convinzione di un processo di pace che portasse alla collaborazione tra i due popoli, credeva che fosse giusto, da israeliano, impegnarsi per i diritti della parte palestinese e oggi, con la voce seria, monocorde, si guarda indietro e dice: “Aveva ragione mia nonna: non c’è convivenza”. Lo scrittore è ancora convinto che la soluzione sia due stati per due popoli, ma quei due popoli non saranno mai amici, saranno territori separati, divisi, impenetrabili: “Sono ancora dell’idea che è necessario cedere parte del territorio ai palestinesi, ma non ci saranno lavoratori che si spostano da Ramallah per andare a lavorare a Tel Aviv, non ci sarà un confine poroso, non si andrà da una parte all’altra, saranno due mondi chiusi, incomunicabili”. L’idea della convivenza è sempre meno presente, anche chi per anni, come Yuval, aveva pensato che fosse l’unica strada giusta da percorrere, adesso è sempre più convinto che la soluzione sia smettere di condividere qualsiasi cosa e questo ha anche un effetto politico. Michael Milshtein, esperto di gruppi terroristi e di sicurezza, ne fa una riflessione logica: “Gli elementi più estremisti del governo attuale, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, sostengono la creazione di un Grande Israele, dal fiume al mare, Eretz Yisrael Hashlema. La pancia di un paese traumatizzato può mostrarsi interessata ai loro discorsi, ma la verità è che gli israeliani non hanno intenzione di vivere in un unico stato con i palestinesi, quindi non approvano il loro progetto. Anzi quello che chiedono ora è: come possiamo separarci?”. Gli israeliani sono diventati ossessionati dal progettare, dal domani, chiedono risposte, racconta Milshtein. Non sono un popolo impaurito, sono un popolo che sa di poter contare sulla propria resilienza, su un senso intimo e spontaneo di comunità che in questo anno è venuto su con naturalezza, che si rende conto di quanto l’esercito, dopo il più grande dei fallimenti, abbia ottenuto risultati importanti: “La domanda adesso è: dove andiamo? – dice Milshtein – Israele sta vivendo la sua guerra più difficile, l’esercito è diventato più grande, ha cambiato il modo di ragionare: un tempo era cauto, evitava lo scontro, adesso si è fatto più aggressivo, ma mancano le priorità. Dal mio punto di vista la priorità è l’Iran, dobbiamo concentrarci su quello. Tsahal ha dimostrato di poter reggere su più fronti, ma manca una strategia”. E il problema, secondo Milshtein, è ancora una volta politico: “A guidarci c’è la stessa classe dirigente che ha commesso gli errori che hanno portato al 7 ottobre. Non c’è stata una commissione di inchiesta per stabilire non soltanto le responsabilità, ma anche per studiare nel dettaglio cosa è stato sbagliato. Queste sono le premesse per tornare a sbagliare di nuovo”. Anche Elbashan ne fa un discorso politico, è un avvocato e nella sua carriera ha insegnato anche a Ben-Gvir, dice di non capire quale sia il segreto del suo successo, ma confessa: “L’ho conosciuto che era un giovane radicale di destra, ero convinto sarebbe cambiato, invece no. Anche io ero un giovane radicale di sinistra, poi sono cambiato. Rimanere agli estremi è da immaturi”. Immaturo e deludente, secondo Elbashan, è anche l’atteggiamento di tutti coloro che non hanno chiesto scusa agli israeliani: “Il premier Netanyahu, l’esercito, i politici, gli ex premier”. Gli israeliani, invece, si sono ritrovati più uniti e consapevoli, “c’è una minoranza estremista che urla molto, l’abbiamo lasciata urlare, non lo permetteremo più. Siamo noi la maggioranza e ci faremo sentire”, dice lo scrittore. La politica è percepita come un impedimento, la società si è ritrovata ferita, ma più vicina: “Crediamo in noi stessi”, conclude Milshtein.
  Elbashan ha sempre pensato che la sua israelianità fosse definita dal numero identificativo ricevuto una volta entrato nell’esercito da ragazzo. Ha trascorso una vita a sentirsi più israeliano che ebreo, dal 7 ottobre, ha capito di essere ebreo: “Non sono religioso, non vado in sinagoga, non indosso la kippah. Ho spesso ascoltato gli ultraortodossi andare in giro per strada a predicare la fratellanza fra tutti noi e non mi sono mai sentito loro fratello. Ora sì, sento un legame, come in ogni famiglia vedi le differenze, ma il senso di intimità rimane”. Molti israeliani hanno un timore che non provavano da tempo, hanno paura per la fine di Israele, uno stato che non è soltanto una casa, un progetto, un sogno, “rappresenta tutto quello che sei – spiega Elbashan – diversamente dagli ebrei della diaspora, sono cresciuto con l’idea che l’unico modo di essere, sia essere sionista. Così ho cresciuto i miei figli. Non so come essere ebreo senza essere sionista. Non so essere, senza essere sionista”. Yuval lo mette in parole, ma questo è un senso diffuso, un nuovo “essere o non essere” che gli israeliani si sono ripetuti per un anno. Il sionismo si è rafforzato, “lo vedi – conclude Yuval – calcolando le tante morti dei soldati a Gaza o in Libano – hanno tutti una vita, una famiglia, un lavoro. Vanno a combattere perché non possono esistere senza essere qui”. Elbashan spiega: “Un anno fa rifiutavo, come molti israeliani, l’idea di dover vivere con la spada. Ora so, come molti israeliani, che è meglio vivere con la spada che intrappolato in un’illusione”.

Il Foglio, 5 ottobre 2024)

........................................................


Come è dilagato l’antisemitismo dall’eccidio del 7 ottobre

di Giovanni Giacalone

Il 7 ottobre 2023 Hamas perpetrava il più grande eccidio nei confronti degli ebrei dai tempi della Shoah; un massacro pianificato e attuato contro uomini, donne, bambini, anziani e persino neonati. Stupri, decapitazioni, mutilazioni, omicidi a sangue freddo, sequestri. Scene di un’atrocità tale da impressionare persino militari di lunga esperienza giunti in soccorso della popolazione nel sud di Israele. 
Nonostante ciò, molti si sono rallegrati e hanno festeggiato l’eccidio, definendolo “resistenza”, oppure lo hanno giustificato come azione difensiva; un esempio, il leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, soltanto tre giorni dopo il massacro, durante una manifestazione palestinese in centro a Milano, definiva l’eccidio “legittima difesa”; dichiarazione fatta ai microfoni dell’emittente televisiva italiana Rai 3. 
L’esternazione di Hannoun non è altro che una delle tante espressioni di odio nei confronti di Israele che si sono moltiplicate in tutto l’Occidente immediatamente dopo l’eccidio e ben prima che l’IDF iniziasse le operazioni di terra a Gaza. Per costoro, Israele non doveva nemmeno reagire; Israele non dovrebbe nemmeno esistere, come del resto evidenzia uno degli slogan più in voga alle manifestazioni “pro-pal”, ovvero “From the river to the sea, Palestine will be free” (Dal fiume al mare la Palestina sarà libera), incitamento alla distruzione dello Stato ebraico. 
Ci si nasconde dietro l’antisionismo, ma questa maschera non regge più. Come illustrato dal World Jewish Congress, l’antisionismo non è altro che una forma di antisemitismo in quanto negazione del diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione nella sua patria ancestrale; è la negazione degli storici legami del popolo ebraico con la terra di Israele, ignorandone le prove storiche e archeologiche.  Chiunque sostenga l’autodeterminazione ebraica e l’esistenza dello Stato di Israele è automaticamente un “sionista”, quindi “un nemico”, preparando di conseguenza il terreno per azioni violente contro gli ebrei in Israele e nella diaspora. 
Quel miscuglio di antisemitismo e antisionismo è emerso un po’ ovunque nelle manifestazioni pro-pal in Occidente, dal Canada all’Australia, dagli Stati Uniti all’Europa. I campus universitari sono diventati roccaforti dell’odio contro Israele mentre nelle piazze non si sono soltanto sentiti slogan, ma in alcuni casi si è anche passati alla violenza nei confronti degli ebrei. Alla University of Pittsburgh, due studenti ebrei venivano riconosciuti per via delle kippot che avevano in testa e aggrediti da teppisti filopalestinesi.  
In Gran Bretagna, appena dopo un mese dall’eccidio del 7 ottobre, il presidente dell’Unione degli Studenti ebrei, Edward Isaacs, denunciava un picco senza precedenti di aggressioni nei confronti di studenti ebrei. Il Community Security Trust (CST) ha infatti registrato 67 incidenti antisemiti dal 7 ottobre al 3 novembre 2023 in ben 29 campus, rispetto ai 12 registrati nello stesso periodo del 2022, come riportato dalla BBC, emittente certamente non filoisraeliana.  
La stessa CST ha registrato 5.583 casi di antisemitismo dal 7 ottobre 2023 al 30 settembre 2024, con un incremento del 204% rispetto ai 1.830 segnalati l’anno precedente. Si tratta tra l’altro dei dati più alti da quando il centro ha iniziato la propria attività nel 1984. 
In Francia, i dati del Ministero dell’Interno e dell’organismo di controllo del Servizio di protezione della comunità ebraica hanno mostrato che nel 2023 sono stati segnalati 1.676 atti antisemiti, rispetto ai 436 dell’anno precedente. 
Nel vicino Belgio, un ente pubblico indipendente che combatte la discriminazione ha dichiarato di avere ricevuto 91 segnalazioni tra il 7 ottobre e il 7 dicembre dello scorso anno, rispetto alle 57 segnalazioni dell’intero 2022. 
In Italia, i dati raccolti da OSCAD (Osservatorio sicurezza Contro gli Atti Discriminatori) registrati dal 7 ottobre 2023 al 30 giugno 2024 indicano 406 casi di antisemitismo”. Dato successivamente aumentato a 456 in seguito a nuovi episodi. 
Queste sono solo le cifre ufficiali, ma possiamo tranquillamente supporre che non tutti gli episodi di denigrazione, sputi, intimidazione e insulti vengano registrati o segnalati. 
Nel Vecchio Continente si sono visti imam glorificare Hamas e diffondere propaganda antisemita, manifestanti con le bandiere nere, con quelle di Hezbollah, invocazioni alla distruzione di Israele, ma si è anche incorso in situazioni assurde, come a Londra, dove i manifestanti pro-Israele venivano confinati in un’area recintata mentre poco più avanti sfilava un corteo di islamisti, estremisti di sinistra e odiatori dello Stato ebraico. Per quale motivo ai primi veniva vietato il corteo? 
Che dire poi dell’episodio capitato a Gideon Falter, attivista del “Campaign Against Antisemitism”, minacciato di arresto da un agente della Met Police nei pressi di una manifestazione filopalestinese perché accusato di “apparenza apertamente ebraica” in quanto con la kippah in testa. All’aeroporto di Heathrow, alcuni passeggeri provenienti da Israele su un volo El Al venivano invece importunati dalle guardie doganali. 
In Italia, a Milano, nella giornata del 27 gennaio, Giorno della Memoria, lo studente italiano Mihael Melnic esponeva dalla finestra del proprio appartamento un cartello con scritto “Free Gaza from Hamas” mentre in strada era in corso l’ennesima manifestazione propalestinese, stavolta non autorizzata. Oltre agli insulti e alle minacce ricevute dai manifestanti, il ragazzo riceveva poco dopo la visita di due agenti di polizia che dopo essersi introdotti all’interno dell’appartamento, lo identificavano con modalità intimidatorie e cercavano, senza successo, di sequestrargli il cartello. Melnic successivamente rilasciava un’intervista al Times of Israel per raccontare l’accaduto.  
A Padova, la studentessa israeliana Jasmine Kolodro veniva invece convocata in questura per un avvertimento dopo aver esposto in strada la bandiera israeliana nei pressi di una manifestazione filopalestinese.  
Episodi inquietanti se si considera anche la dichiarazione del 1° ottobre 2024 del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, secondo cui l’antisemitismo è presente sia nel giornalismo che negli apparati di sicurezza. 
Una situazione che è degenerata anche in Spagna, dove la comunità ebraica si è detta molto preoccupata e gli studenti universitari ebrei hanno paura di andare a lezione. 
In realtà, il dilagare dell’antisemitismo dal 7 ottobre 2023 in poi non è altro che l’evoluzione di un “seme” malato, già ampiamente presente e diffuso in tutto l’Occidente e che aspettava soltanto un input per manifestarsi in tutta la sua “potenza”. 
Gli attentati ai musei e alle scuole ebraiche in Belgio e Francia durante la cosiddetta fase dell’ISIS ne erano un chiaro segnale. Oppure l’assalto a una sinagoga parigina nel 2014, con tanto di commento “è finita la pacchia” espresso dal coordinatore del CAIM e convertito all’Islam, Davide Piccardo, attualmente direttore editoriale del sito islamista in lingua italiana “La Luce News”.  
In Francia, imam come Mohamed Tataiat, Hassan Iquioussen, Mahjoub Mahjoubi sono finiti più volte nell’occhio del ciclone per la diffusione di narrativa antisemita e sono poi stati espulsi.  
In Italia la situazione risulta drammatica; la linea del “lasciare sfogare” messa in atto dal governo Meloni ha portato a liste di proscrizione, all’incitamento a segnare le case di “ebrei e sionisti”, alle parate con cartelli raffiguranti “agenti sionisti”, all’imbrattamento di una scuola elementare ebraica, alle prediche filo-Hamas e antisemite nelle moschee, alla pubblicazione di vignette antisemite, come illustrato dall’Osservatorio Antisemitismo. Come se non bastasse, il centro islamico sciita “Imam Mahdi” di Roma ha annunciato per il 3 ottobre la commemorazione di Hassan Nasrallah. La situazione è purtroppo in costante sviluppo ed un aggravamento della faccenda è più che plausibile, senza un intervento, seppure tardivo, delle autorità. 
Finché si continuerà a differenziare tra “antisemitismo” e “antisionismo” invece di riconoscere quest’ultimo come espressione del primo. Finchè si continuerà a volere vedere la situazione in corso come una guerra tra parti equivalenti invece che per ciò che realmente è, ovvero una lotta tra uno Stato sovrano, Israele, e un regime terrorista con base a Teheran che utilizza i propri proxy per colpire indiscriminatamente lo Stato ebraico e i suoi cittadini, non si potrà affrontare la questione con la necessaria onestà intellettuale. 
E’ bene inoltre ricordare che il regime iraniano opprime e perseguita la propria popolazione ma anche quella libanese, utilizzando quel corpo estraneo noto come Hezbollah che, fino a poco tempo fa, disponeva di un esercito più potente di quello libanese. Tutto ciò nel silenzio internazionale, perché le voci si levano soltanto quando Israele si difende. Ebbene sì, anche tutto questo può essere inteso come antisemitismo. 

(L'informale, 5 ottobre 2024)

........................................................


L’anniversario del pogrom antiebraico del 7 ottobre

Lettera al Foglio dell'ex direttore dell'ANPI. Risalto aggiunto.

di Roberto Cenati Fra pochi giorni ricorre l’anniversario del pogrom antiebraico del 7 ottobre, data in cui si è registrato contro Israele, da parte di Hamas, l’attacco più grave nella sua storia dopo la Shoah. I terroristi di Hamas si sono resi responsabili dell’uccisione a sangue freddo di 1.200 cittadini inermi, di violenze di ogni tipo, del rapimento di 250 cittadini israeliani tenuti in ostaggio e del più terribile stupro di massa dei nostri tempi, a danno delle ragazze israeliane. La guerra nella Striscia di Gaza sembra aver fatto dimenticare le responsabilità di Hamas, che non si è mai preoccupata del benessere della popolazione palestinese. Basti vedere come i finanziamenti arrivati in tutti questi anni a Gaza sono serviti a Hamas per costruire i suoi quartieri generali e chilometri di gallerie sotto alle infrastrutture civili, sotto ospedali, moschee, scuole, facendosi scudo dei civili palestinesi, durante i bombardamenti israeliani. Il governo israeliano si prefigge l’annientamento di Hamas che nel suo statuto prevede la distruzione di Israele e l’eliminazione degli ebrei, ma non ha come obiettivo la distruzione fisica sistematica e totale del popolo palestinese, né le altre misure prefigurate nel termine genocidio, termine ideato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin che sfuggì ai nazisti rifugiandosi prima in Svezia e poi negli Stati Uniti. Sdoganare un termine del genere fa sì che il passaggio successivo sia equiparare la tragedia della Shoah, che costituisce l’orribile paradigma della categoria di genocidio, a quello che sta facendo Israele. Ma sono situazioni incomparabili. E’ inaccettabile usare la logica della “vittima che diventa carnefice”, perché non fa altro che alimentare la deriva antisemita che, anche in Italia, sta crescendo in misura molto preoccupante. Così come è sbagliato pronunciare lo slogan “dal fiume al mare, Palestina libera”, slogan che viene scandito nelle manifestazioni palestinesi che percorrono da mesi, ogni sabato, le vie di Milano, perché dà per scontata la non esistenza di Israele, negando l’obiettivo di due popoli in due stati, per il quale la diplomazia internazionale sta lavorando. Ci eravamo illusi che dopo la Shoah tutto fosse superato. Ma non è stato così. Immediatamente dopo il 7 ottobre, prima ancora della reazione israeliana, abbiamo registrato un aumento esponenziale dell’antisemitismo. Oggi più che mai assistiamo a un ritorno di elementi antichi. E nonostante abbia cambiato nome nel tempo – da antigiudaismo come odio di stampo religioso ad antisemitismo come ostilità antiebraica di stampo razzista a cui si accompagna la negazione o la relativizzazione della Shoah, l’odio antiebraico presenta aspetti mai sopiti. Altro dato evidente è rappresentato dal fatto che tutte le persecuzioni e i massacri a cui sono stati assoggettati gli ebrei non hanno mai suscitato empatia, simpatia o reazioni nelle persone a loro vicine. L’indifferenza, di cui parla sempre Liliana Segre parlando delle leggi antiebraiche del 1938 e della Shoah, è in realtà una storia antichissima. Siamo di fronte a un clamoroso fallimento educativo, nonostante le numerose iniziative che ogni anno si svolgono nella ricorrenza del Giorno della memoria. Occorre rilanciare lo studio, la riflessione sotto il profilo culturale e storico soprattutto verso le giovani generazioni. E’ per me particolarmente doloroso constatare la disinformazione e la violenza degli attacchi rivolti a Israele. Manca una riflessione approfondita, sul piano storico e culturale, sul ruolo e l’importanza di uno stato democratico come Israele nell’area mediorientale. Israele costituisce per tutti noi un fondamentale presidio di libertà e democrazia. Spero sempre che i cittadini israeliani rapiti il 7 ottobre e ancora in ostaggio nelle mani dei terroristi di Hamas possano tornare nelle loro case.

Il Foglio, 5 ottobre 2024)

........................................................


Tre Nobel perfetti

Guterres, Unrwa e l’Aia candidati al blasone della pace nell’anniversario del 7/10

di Giulio Meotti

ROMA - Il segretario generale delle Nazioni Unite, l’agenzia Unrwa e la Corte dell’Aia si contendono il Nobel per la Pace. António Guterres, sotto il cui mandato è scoppiata la guerra in Ucraina e in medio oriente, è stato nominato insieme a un’organizzazione i cui dipendenti sono stati coinvolti nel 7 ottobre. Anche la Corte dell’Aia, dove pende il caso per “genocidio” contro Israele, è tra i candidati per il blasone.
  Secondo Reuters, esperti vicini al processo di scelta del Nobel le due organizzazioni e il diplomatico sono i favoriti nella corsa al premio.
  Da quando Guterres ha assunto l’incarico, la Russia ha invaso l’Ucraina e il medio oriente è entrato in uno stato di conflitto senza precedenti. In Israele, Guterres da questa settimana è “persona non grata”, in seguito al suo rifiuto di condannare l’aggressione iraniana a Israele e di nominare Hamas anche quando ha ucciso a sangue freddo sei ostaggi israeliani nei tunnel sotto Rafah.
  Tuttavia, la nomina dell’Unrwa è ancora più problematica di quella del segretario generale. Durante l’ultimo anno di combattimenti a Gaza, la portata dell’infiltrazione di Hamas nell’agenzia delle Nazioni Unite è ripetutamente venuta alla luce. L’organizzazione stessa ha ammesso che alcuni dei suoi dipendenti, tra cui figure di alto livello, hanno partecipato ai massacri del 7 ottobre e al rapimento di civili israeliani, licenziandoli ad agosto. Le scuole e i sistemi di approvvigionamento dell’organizzazione sono stati requisiti da Hamas e il gruppo ha persino creato una base di computer e server sotto la sede centrale dell’Unrwa a Gaza City. Nei giorni scorsi è emerso che anche il capo di Hamas in Libano era un dipendente di Unrwa. Ma per Henrik Urdal, direttore del Peace Research Institute Oslo, “l’Unrwa sta svolgendo un lavoro estremamente importante per i civili palestinesi”.
  Il settimanale Le Point ha chiesto un commento a Noëlle Lenoir, ex ministro francese degli Affari europei: “Guterres è un antisionista dichiarato, si è schierato con la causa palestinese e non esita nella situazione attuale a presentarsi con regimi tra i più lesivi dei diritti umani. Ha ricevuto in pompa magna il ministro degli Esteri della Repubblica islamica dell’Iran. E’ stato lui che, personalmente, ha accettato che i talebani tornassero al tavolo degli stati membri, e senza donne. E’ ormai dimostrato che gli uomini dell’Unrwa sono stati complici, se non autori, di atti di terrorismo di Hamas. Per me, lungi dal meritare un Nobel per la Pace, è chiaro che Unrwa potrebbe essere considerata complice, o almeno coinvolta, nelle attività terroristiche a Gaza. E queste sono le stesse persone che sarebbero le favorite per un Nobel per la Pace? Perché non il leader supremo iraniano Khamenei!”.
  Forse per festeggiare la “pace” nell’anniversario del 7 ottobre, tutti e tre meriterebbero di salire ex aequo su quel palco a Oslo e condividere il blasone. Ma perché non in quattro?
  Ci sarebbe infatti anche UN Women, l’organismo delle Nazioni Unite per le donne. Ci ha messo soltanto sei mesi a nominare gli stupri di Hamas di donne fatte a pieces, altro che peace.

Il Foglio, 5 ottobre 2024)

........................................................


Israele bombarda il bunker di Hashem Safieddine, successore di Nasrallah

Continua la caccia alla leadership di Hezbollah. Preso di mira il bunker dove i leader superstiti, compreso il successore di Nasrallah, tenevano una riunione. Non si sa niente di chi c'è sotto l'immensa voragine

Israele ha bombardato una riunione dei vertici di Hezbollah intorno alla mezzanotte di giovedì, una riunione alla quale partecipava Hashem Safieddine, il presunto successore di Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah eliminato in un attacco aereo in Libano la scorsa settimana.
Secondo fonti di intelligence israeliana, Israele ha colpito un bunker sotterraneo appartenente a Hezbollah vicino a Beirut, la capitale libanese.
L’attacco è un chiaro segno che Israele non ha abbandonato la sua campagna per eliminare la leadership del gruppo sostenuto dall’Iran, quasi una settimana dopo l’uccisione di Nasrallah.
Safieddine, cugino di Nasrallah, ha 50 anni, è stato a lungo uno dei principali esponenti di Hezbollah ed è stato considerato un candidato a diventare il nuovo segretario generale del gruppo. Funzionari israeliani avevano precedentemente dichiarato che Safieddine era uno dei pochi alti dirigenti di Hezbollah non presenti sul luogo del pesante bombardamento israeliano di venerdì scorso vicino a Beirut che ha ucciso Nasrallah.
Non è stato immediatamente chiaro se Safieddine fosse presente nel bunker colpito venerdì notte.
L’esercito israeliano non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento sull’attacco, ma ha emesso un ordine di evacuazione per il quartiere di Burj al-Barajneh, nel sud di Beirut, nella tarda serata di giovedì. Poco dopo, intorno a mezzanotte, una serie di enormi esplosioni ha scosso i Dahiya, i quartieri densamente popolati a sud di Beirut dove Nasrallah è stato ucciso e dove Hezbollah detiene il potere.
Le onde d’urto hanno attraversato la capitale libanese, facendo tremare gli edifici; sono state avvertite ad almeno 15 miglia di distanza. Secondo l’agenzia di stampa statale libanese, si è trattato di uno dei più pesanti bombardamenti nell’area dall’inizio della guerra, lo scorso ottobre.

• CHI È HASHEM SAFIEDDINE?
  Nato all’inizio degli anni ’60 nel sud del Libano, Safieddine è stato uno dei primi membri di Hezbollah dopo la formazione del gruppo musulmano sciita negli anni ’80, sotto la guida iraniana, durante la lunga guerra civile libanese.
Ha scalato rapidamente i ranghi del gruppo al fianco di Nasrallah, ricoprendo molti ruoli e servendo come leader politico, spirituale e culturale, oltre a guidare le attività militari del gruppo.
Safieddine ha forti legami con Teheran, formatisi durante i suoi studi religiosi nella città iraniana di Qom. Come Nasrallah, ha studiato in Iran prima di tornare in Libano per lavorare per Hezbollah.
Chierico, Safieddine è stato designato terrorista dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita nel maggio 2017 per il suo ruolo di leadership in Hezbollah. All’epoca, il Dipartimento di Stato lo definì “un alto dirigente” del Consiglio esecutivo di Hezbollah, che supervisiona le attività politiche, organizzative, sociali ed educative del gruppo.

• QUALI ALTRI LEADER DI HEZBOLLAH HA PRESO DI MIRA ISRAELE?
  L’attacco contro Safieddine è stato l’ultimo di una serie di attacchi israeliani in Libano volti a uccidere i leader di Hezbollah.
Giovedì, un attacco israeliano ha preso di mira il comandante di Hezbollah Rashid Shafti, il funzionario del gruppo responsabile delle telecomunicazioni e della divisione informatica a Beirut, secondo due funzionari israeliani. Shafti aveva perso le dita nell’ondata di attacchi con esplosioni elettroniche compiuti da Israele questo mese, hanno aggiunto.
Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato giovedì di aver ucciso anche Mahmoud Yusef Anisi, un funzionario di Hezbollah coinvolto nella catena di produzione di missili di precisione del gruppo in Libano.
Nell’attacco che ha ucciso Nasrallah la settimana scorsa, sono stati uccisi anche diversi leader del gruppo, tra cui Ali Karaki, comandante supremo di Hezbollah nel sud del Libano.
Ibrahim Aqeel, che supervisionava le operazioni militari di Hezbollah e aveva fondato l’unità d’élite del gruppo, è stato ucciso il 20 settembre.

(Rights Reporter, 4 ottobre 2024)

........................................................


Come la partecipazione di Hezbollah alla guerra in Siria ha aiutato il Mossad

Dopo la guerra del 2006, l'Unità 8200 e l'intelligence militare israeliana hanno raccolto un'enorme quantità di informazioni su Hezbollah.

Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è sopravvissuto a tre tentativi di assassinio durante la guerra libanese del 2006. Tuttavia, non è sopravvissuto al violento attacco al quartier generale di Hezbollah nel quartiere meridionale di Beirut, dove è stato ucciso insieme a diversi leader di Hezbollah, tra cui il comandante della regione meridionale, Ali Karaki. Cosa è cambiato in questa guerra rispetto alla precedente?
  Secondo il Financial Times, Israele ha intensificato le sue attività di intelligence dopo la guerra del 2006, modificando il suo metodo di monitoraggio delle attività di Hezbollah.Leader attuali e passati hanno dichiarato al giornale che l'attuale forza di Israele deriva dalla profondità e dalla qualità dell'intelligence su cui il Paese fa affidamento.Dopo la guerra del 2006, l'Unità 8200 e l'intelligence militare israeliana hanno raccolto un'enorme quantità di informazioni su Hezbollah. Un ex ufficiale dell'intelligence militare israeliana ha spiegato che ciò ha richiesto un cambiamento fondamentale nella percezione di Hezbollah.
  Il ritiro israeliano dalla zona di sicurezza nel 2000, considerato una vittoria da Hezbollah, è stato accompagnato anche da una significativa perdita di capacità di raccolta di informazioni. In compenso, l'intelligence militare "Aman" ha ampliato la sua concezione di Hezbollah al di là del singolo ramo militare, enfatizzando le sue ambizioni politiche e le sue crescenti relazioni con l'Iran e il regime di Bachar al-Assad in Siria.
  Il coinvolgimento di Hezbollah nella guerra civile siriana a partire dal 2012 ha offerto a Israele nuove opportunità. I servizi segreti israeliani hanno pubblicato un "tableau de renseignement" che descrive nel dettaglio l'organizzazione e i suoi membri.
  La guerra in Siria ha anche creato una miniera di dati, molti dei quali accessibili al pubblico, a beneficio dei servizi di intelligence israeliani e dei loro algoritmi. Le "foto dei martiri" dei combattenti Hezbollah uccisi in Siria, erano piene di piccoli dettagli.
  Un ex politico libanese di alto livello di Beirut ha dichiarato che l'infiltrazione di Hezbollah da parte dei servizi segreti israeliani e americani è stata "il prezzo del loro sostegno ad Assad". E ha aggiunto: "Hanno dovuto nascondersi in Siria", dove il gruppo segreto ha dovuto mantenere contatti e scambiare informazioni con i corrotti servizi segreti siriani o con i servizi segreti russi, che erano sotto la costante sorveglianza degli americani.

(i24, 4 ottobre 2024)

........................................................


Il segreto della storica e misconosciuta popolarità di Netanyahu

La percezione internazionale del primo ministro è fortemente influenzata dalla copertura mediatica in Israele. Ma il pubblico israeliano non gli crede.

di Caroline Glick

È stato strano sentire Martha MacCallum di Fox News parlare di "impopolarità" del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Israele. MacCallum è una giornalista che non usa mezzi termini. Come fa a non sapere che Netanyahu è il primo ministro più popolare che Israele abbia avuto da molto tempo a questa parte?
  "Direct Polls" è l'organizzazione di sondaggi più accurata in Israele. È stato l'unico a prevedere correttamente le elezioni della Knesset del 2022 che hanno riportato Netanyahu e il suo blocco religioso di destra al potere. L'anno scorso, Direct Polls ha raggiunto un risultato che prima era considerato impossibile: ha condotto sondaggi costantemente accurati su elezioni locali molto più piccole.
  La popolarità di Netanyahu è scesa immediatamente dopo l'invasione di Hamas del 7 ottobre e l'uccisione di 1.200 israeliani. Tuttavia, è risalita alla fine di novembre. Dopo che il presidente del partito Resistenza per Israele, Benny Gantz, ha lasciato il governo Netanyahu a giugno, la popolarità di Netanyahu è aumentata costantemente nei sondaggi diretti ed era in vantaggio a due cifre su Gantz e sul presidente del partito di opposizione Yesh Atid, Yair Lapid. Negli ultimi mesi, il divario tra Netanyahu e il suo rivale è cresciuto costantemente.
  Domenica, due giorni dopo che Israele aveva tolto di mezzo il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, Direct Polls ha pubblicato i risultati del suo ultimo sondaggio per Channel 14, mostrando che i partiti che compongono la coalizione di governo di Netanyahu detengono la maggioranza assoluta dei seggi alla Knesset per la prima volta dal 7 ottobre. Se le elezioni si tenessero oggi, il governo verrebbe rieletto.
  La popolarità di Netanyahu ha raggiunto proporzioni epiche nella polarizzata giungla politica israeliana, superando la popolarità combinata dei suoi due principali rivali. In un confronto diretto, è in vantaggio su Gantz con il 52% a 25% e su Lapid con il 54% a 24%.
  Ogni volta che Netanyahu scende in strada o che il suo convoglio passa davanti ai pedoni, questi gridano il loro sostegno e si accalcano per farsi un selfie con lui. Come ha notato il sociologo israeliano Avishai Ben Haim, Netanyahu è l'unico primo ministro dai tempi di Menachem Begin i cui sostenitori pregano attivamente per lui.
  Nonostante la popolarità schiacciante di Netanyahu, la copertura mediatica in Israele e nel resto del mondo è rimasta al punto in cui si trovava subito dopo il 7 ottobre. Il mantra standard è quello che MacCallum ha ripetuto martedì sera. Il messaggio di fondo è che Netanyahu sta prolungando la guerra per evitare le elezioni.
  A parte il fatto che questa affermazione è completamente falsa, essa oscura il significato di ciò che Netanyahu sta facendo. Se riduciamo la guerra a una questione politica, possiamo ignorare la sua importanza strategica. E se ignoriamo l'importanza strategica della guerra, possiamo anche eludere la questione dei sondaggi che mostrano come l'opinione pubblica si stia radunando dietro Netanyahu in un modo che nessun leader israeliano ha mai avuto nella memoria recente. E se ignoriamo i sondaggi, possiamo anche ignorare le ragioni della storica popolarità di Netanyahu.
  Ma capire la sua popolarità è fondamentale per comprendere non solo le realtà politiche di Israele, ma anche le forze trainanti dietro gli eventi.

• LE RAGIONI DELLA POPOLARITÀ DI NETANYAHU
  La popolarità di Netanyahu ha due radici. La prima è il riconoscimento pubblico che Israele sta lottando per la propria sopravvivenza. La seconda è l'ostilità dell'amministrazione Biden-Harris.
  Il 7 ottobre è stato un evento terribile. Non si è trattato solo di un massiccio attacco terroristico. Per gli israeliani è stato uno sguardo al futuro se Israele non vincerà la guerra. Ha mostrato agli israeliani che siamo in un gioco a somma zero con l'Iran e i suoi proxy terroristici. Non c'è accordo con Hamas, Hezbollah o il regime iraniano. O vincono loro e Israele viene distrutto, oppure Israele vince e loro vengono distrutti come entità militari e politiche. Non c'è una via di mezzo, non c'è una situazione vantaggiosa per tutti.
  Sebbene l'amministrazione Biden-Harris abbia espresso solidarietà con Israele dal 7 ottobre, il giorno delle atrocità di Hamas non ha cambiato gli obiettivi politici dell'amministrazione. Sia prima che dopo il 7 ottobre, l'amministrazione Biden-Harris aveva due obiettivi in Medio Oriente: raggiungere un accordo nucleare con l'Iran attraverso un'acquiescenza strategica e creare uno Stato palestinese a Gerusalemme, Giudea, Samaria e Gaza.
  Entrambi gli obiettivi sono rifiutati dalla stragrande maggioranza degli israeliani, che vedono sia uno Stato palestinese sia un Iran dotato di armi nucleari come una minaccia esistenziale per il Paese. Dato il sostegno emotivo che gli israeliani hanno ricevuto dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e dai suoi consiglieri dopo il 7 ottobre, gli israeliani si aspettavano giustamente che abbandonassero la loro politica anti-israeliana.
  Ma il governo non ha fatto nulla del genere. Invece, pochi giorni dopo il 7 ottobre, l'amministrazione Biden-Harris ha sbloccato 6 miliardi di dollari in conti iraniani e ha trasferito il denaro a Teheran. Nonostante le numerose prove, l'amministrazione ha negato che l'Iran fosse coinvolto nella pianificazione e nell'autorizzazione dell'invasione terroristica di Hamas. E ha ignorato il fatto che più del 75% dei palestinesi ha appoggiato il massacro di quel giorno e che nessun funzionario dell'Autorità Palestinese ha condannato le atrocità.
  Lungi dallo schierarsi al fianco di Israele, il governo ha iniziato a smentire Israele già l'8 ottobre, insinuando che fosse sul punto di commettere crimini di guerra, insistendo sul fatto che Israele deve combattere in conformità con le "leggi di guerra", come se ci fosse qualche ragione per credere che ciò non fosse evidente.
  Appena un mese dopo l'inizio dell'offensiva di terra di Israele a Gaza, il governo ha iniziato ad autorizzare con riluttanza armi offensive che andavano da fucili d'assalto e munizioni a carri armati, proiettili d'artiglieria e bombe per gli aerei da combattimento. Le uniche armi fornite in modo continuativo erano i missili Iron Dome.
  Dal punto di vista del governo, Israele aveva il diritto all'autodifesa, ma non alla vittoria. A tal fine, il governo ha cercato di controllare le operazioni militari di Israele e di minimizzare la loro importanza strategica. Gli israeliani si resero conto che un pareggio equivaleva a una sconfitta.
  Gantz, Lapid e il ministro della Difesa Yoav Galant erano pronti ad accettare la posizione del governo. Era in linea con decenni di pratica militare. Inoltre, il governo li ha elogiati per aver accettato i suoi dettami. I media che odiano Netanyahu hanno usato i loro flirt con la Casa Bianca e il Pentagono per dipingerli come statisti e Netanyahu come un egocentrico isolato che continuava a lottare solo per evitare nuove elezioni.
  Ma l'opinione pubblica non ci ha creduto. Lungi dal considerare Netanyahu un egocentrico, lo vedeva come l'unica speranza di evitare la distruzione nazionale. Anche nella prima fase della guerra, Netanyahu si è distinto come l'unico leader che il pubblico vedeva: Israele ha di fronte nemici che vogliono uccidere ogni ebreo che incontrano, e se non li sconfiggiamo noi, loro lo faranno.
  Netanyahu è stato l'unico a promettere pubblicamente e ripetutamente che non avrebbe permesso che i soldati caduti in Israele cadessero invano e che non avrebbe abbandonato i suoi sforzi bellici. Quando le pressioni degli Stati Uniti sono diventate più forti e aggressive, è stato anche l'unico a non vacillare.
  Al rifiuto di Netanyahu di accontentarsi di qualcosa di meno della vittoria, il governo ha risposto interferendo apertamente nella politica israeliana, con il chiaro obiettivo di neutralizzarlo all'interno del suo governo o di estrometterlo dal potere. Per raggiungere il primo obiettivo, Biden, il Segretario di Stato americano Anthony Blinken e i loro subordinati hanno sfruttato l'appello dell'opinione pubblica all'unità nazionale per costringere Netanyahu a concedere a Gantz un effettivo potere di veto sulle operazioni militari, inserendolo nel gabinetto di guerra. Da questa posizione, Gantz è stato in grado di indebolire sistematicamente le operazioni militari israeliane in accordo con le richieste degli Stati Uniti. Il governo ha giocato un ruolo importante anche nella decisione di Gantz di lasciare il governo a giugno. L'idea era che, dopo le dimissioni di Gantz, Gallant avrebbe convinto quattro membri del Likud della Knesset a lasciare il governo con lui e a formare una coalizione alternativa con la sinistra. Alla fine, però, Gallant non è riuscito a realizzare questo piano. In assenza di Gantz, Netanyahu si è rapidamente impegnato ad aumentare l'aggressività e l'efficacia dello sforzo bellico di Israele a Gaza. L'opinione pubblica ha sostenuto fortemente le mosse di Netanyahu. La possibilità che i deputati del Likud si unissero all'opposizione era svanita.La relazione simbiotica che il governo Biden-Harris ha mantenuto con la sinistra israeliana non ha indebolito Netanyahu dal punto di vista politico, come i media e i suoi alleati politici di sinistra avevano ipotizzato. È stato invece il contrario. Poiché l'opinione pubblica era d'accordo con Netanyahu sul fatto che si trattava di una guerra per la sopravvivenza nazionale, il sostegno a Netanyahu è cresciuto man mano che l'opinione pubblica apprendeva dell'opposizione del governo a una vittoria israeliana. Anche politici come Galant, Lapid e Gantz, che si dice abbiano buoni rapporti con l'amministrazione Biden, sono stati visti con sospetto.
  A risollevare gli indici di popolarità di Netanyahu da un impressionante 40 a uno stratosferico 50+ (per gli standard israeliani) è stato il suo viaggio a Washington alla fine di luglio. Gli israeliani considerano l'alleanza tra Stati Uniti e Israele una necessità strategica. Se da un lato approvano il rifiuto di Netanyahu di piegarsi alle pressioni americane, dall'altro temono che i media abbiano ragione ad accusarlo di distruggere le relazioni tra Stati Uniti e Israele.
  La risposta entusiasta che Netanyahu ha ricevuto dai membri di entrambi i partiti quando ha tenuto il suo discorso alle due Camere del Congresso e i suoi incontri di successo con Biden, il vicepresidente Kamala Harris e l'ex presidente Donald Trump hanno dimostrato al pubblico israeliano che la ricerca della vittoria da parte di Netanyahu non ha in alcun modo diminuito il sostegno degli Stati Uniti a Israele. È stato dopo questa visita che Netanyahu ha ricevuto il maggior incoraggiamento.

• LO SCOPO DEL MITO DELL'IMPOPOLARITÀ DI NETANYAHU
  Questo ci riporta al persistente mito mediatico dell'impopolarità di Netanyahu. La copertura internazionale di Netanyahu è fortemente influenzata da quella dei media israeliani. Con la notevole eccezione di Channel 14, la stampa e i media elettronici israeliani sono stati protagonisti degli sforzi di lunga data della sinistra per demonizzare il primo ministro al fine di estrometterlo dal potere. A tal fine, la copertura è stata disfattista e demoralizzante fin dall'inizio della guerra. Ad esempio, i corrispondenti e i commentatori di Channel 12 hanno reagito all'annuncio dell'IDF del 27 settembre che Nasrallah era stato ucciso con facce tristi e una delusione appena celata. Al contrario, il pubblico era eccitato e motivato dalla notizia.
  Insistendo sul fatto che Netanyahu è impopolare e che la sua impopolarità rafforza la sua determinazione a vincere la guerra, i media diffondono una narrazione che ignora le implicazioni strategiche della fine della guerra senza sconfiggere Hamas, Hezbollah o l'Iran.
  Ma il pubblico non ci crede. Netanyahu è sostenuto perché insiste nel combattere per la vittoria a tutti i costi e poi si attiene ostinatamente alla sua promessa. In questo modo, Netanyahu ha riconquistato la fiducia del pubblico. E ora che la sua determinazione porta a vittorie giorno dopo giorno, l'inflessibile determinazione di Netanyahu aumenta la sua popolarità e fa apparire il governo, l'opposizione e i media sempre più ridicoli e irrilevanti agli occhi dell'opinione pubblica israeliana.

(Israel Heute, 4 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


L’esempio di Begin e il carpe diem di Netanyahu

di Niram Ferretti

Quando, nel 1981, Menachem Begin diede via all’Operazione Opera, il cui obiettivo fu la distruzione del reattore nucleare che Saddam Hussen stava ultimando a Osirak in Iraq, le reazioni degli Stati Uniti e non solo furono oltraggiate, si parlò di abuso, di terrorismo di Stato, di violazione della legge internazionale, esattamente quello che è accaduto recentemente dopo le azioni preventive contro Hezbollah. Con l’Operazione Opera si inaugurò la cosiddetta “dottrina Begin”, riassumibile semplicemente con, “Noi vi colpiamo prima che ci colpiate voi”.
  Sono passati 43 anni, e Israele si trova ancora nella necessità di colpire prima che il nemico possa avere la forza di colpirlo. Dopo il traumatico fallimento dell’intelligence che ha causato il 7 ottobre, si è deciso di intervenire al sud del Libano per evitare un altro 7 ottobre, colpendo pesantemente Hezbollah, decapitandone i vertici, e ora, a seguito del secondo attacco missilistico dell’Iran su Israele, Israele è pronto a rispondere contro il principale agente di destabilizzazione regionale, il suo nemico principale.
  Per più di un decennio, Benjamin Netanyahu ha messo in guardia il mondo sul pericolo iraniano, massimamente potenziato dalla sua capacità di dotarsi di armamenti nucleari, possibilità che, con il passare del tempo, è diventata una realtà sempre più concreta e una minaccia per la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico.
  Nel 2015 Netanyahu volò a Washington, dove, al Congresso, tenne un memorabile discorso intervallato da numerose standing ovation, durante il quale mise in guarda dal rischio che comportava l’accordo che l’Amministrazione Obama si apprestava a siglare con Teheran allo scopo di frenare il programma nucleare iraniano. Netanyahu sapeva che quell’accordo era fallato, che l’Iran avrebbe trovato il modo di aggirarne le clausole, che di fatto gli si lasciava la possibilità di raggiungere il suo scopo, non subito, ma a gradi. Obama stava solo “buying time”, acquistando tempo, ma Israele non aveva bisogno di un accordo che spostasse più avanti la minaccia, se accordo doveva esserci, ce ne voleva uno molto più rigoroso e coartante.
  Dopo quasi dieci anni, l’Iran non ha mai smesso di lavorare al nucleare da impiegare a scopo militare, è stato solo frenato da operazioni di sabotaggio israeliane, uccisioni mirate di addetti al suo programma, attacchi cyber, ma si tratta di azioni non risolutive, non come fu l’Operazione Opera.
  Colpire e distruggere i siti nucleari iraniani, incavati nella roccia in profondità rappresenta una sfida molto più complessa di quella che dovette affrontare Begin nel 1981, distruggendo un solo reattore ben visibile nel deserto, ma non ci sono strade alternative per debellare la minaccia. Adesso, dopo il 7 ottobre, dopo due attacchi missilistici dell’Iran, è arrivata l’ora, l’onda è alta, ed è necessario cavalcarla prima che si abbassi e forse non si ripresenti più.
  Ci si chiede se Israele possa agire senza il supporto logistico statunitense, i pareri sono contrastanti, ma una cosa è certa, l’Amministrazione Biden, dove sono incardinati nei posti chiave gli uomini di Obama, e retta da un presidente che è ormai nelle condizioni di essere solo un passacarte, non vuole che i siti nucleari vengano colpiti, non vuole che l’Iran, con cui ha continuato imperterrita la politica di pacificazione voluta da Obama, venga messo in grave difficoltà.
  Fin dall’inizio della guerra scoppiata a Gaza, a seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, l’Amministrazione Biden ha cercato costantemente di commissariarla, di indirizzare Israele lungo i binari della propria agenda politica che non solo non è quella dello Stato ebraico, ma è in evidente contrasto con la sua.
  Netanyahu è stato abilissimo nel gestire la situazione, concedendo e ritirando, aprendo e chiudendo, facendo in modo che gli americani ottenessero in buona parte quello che chiedevano, ma, allo stesso tempo, continuando sulla linea che si era dato, smantellare Hamas a Gaza, linea che sta proseguendo infaticabilmente.
  Il problema urgente, tuttavia, non è Hamas, ormai ridotto alla residualità dopo un anno di combattimenti, ma è l’Iran, il suo puparo. Netanyahu è giunto ora, alla vigilia dell'anniversario del 7 ottobre, al punto cruciale della sua carriera, a uno snodo che potrebbe farlo passare alla storia come colui che ha messo Israele in sicurezza dopo il grande fallimento precedente, di cui non si può negare anche la sua responsabilità.
  Quarantatre anni fa Menachem Begin fece prevalere la sicurezza di Israele sopra ogni altra considerazione, annichilendo le velleità atomiche dell’Iraq, oggi è il testimone è passato a Netanyahu. Saprà seguirne l’esempio fino in fondo?

(L'informale, 3 ottobre 2024)

........................................................


Parashà di Haazìnu: Dove si accenna a Moses Mendelssohn nella Torà?

di Donato Grosser

In varie fonti si racconta che Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) aveva un talmìd (discepolo) di nome Abner, che abbandonò l’osservanza della mizvòt e abbracciò la religione locale credendo così di poter migliorare il suo standard di vita. Successivamente, quando il Nachmanide lo incontrò, Abner gli chiese se era vero che nella cantica di Haazìnu vi sono accenni sui nomi e sulle vicende delle persone in questo mondo.
    Il Nachmanide rispose che confermava quanto aveva detto. Infatti, in questa parashà il Nachmanide insegna che la cantica di Haazìnu contiene una promessa esplicita della futura redenzione del popolo d’Israele contro le affermazioni dei miscredenti. Egli cita il Midràsh Sifrì nel quale i Maestri affermano che la cantica di Haazìnu contiene il presente, il passato e il futuro.
    Abner gli chiese quindi di dirgli dove vi era un accenno al suo nome nella cantica di Haazìnu. Il Nachmanide rispose che si trova nel versetto dove è scritto: “… li disperderò, farò cessare il loro ricordo dall’umanità”(Devarìm, 32:26). Il Nachmanide mostrò ad Abner che in ognuna di queste quattro parole le terze lettere del testo ebraico (זכרם מאנוש אשביתה אפאיהם) Alef, Bet, Nun e Resh, componevano il nome Abner. Questo fu sufficiente per scioccare Abner che si pentì di quello che aveva fatto.
    R. Aharon Shurin (Lituania,1913-2012, Brooklyn) in Keshet Aharon su questa parashà, scrive che una storia simile, viene raccontata nell’opera Mekòr Barùkh di r. Barukh Halevi Epstein (Belarus, 1860-1941). In quest’opera egli offre un ritratto della sua famiglia e delle personalità di spicco della generazione precedente. Tra gli altri egli descrive i difetti fatali di Moses Mendelssohn nella sua negazione dell’identità nazionale ebraica nella diaspora. Per Mendelssohn gli ebrei erano una religione, ma la loro nazionalità era quella del paese in cui vivevano. Questa opinione era distruttiva al punto che nessuno dei suoi discendenti rimase ebreo. Fino ad oggi Mendelssohn è considerato un facilitatore dell’assimilazione degli ebrei in Germania.
    Nell’introduzione alla sua traduzione e al commento della Torà in tedesco, Mendelssohn si lamentò del fatto che un suo assistente, r. Shlomo Dubna, fosse improvvisamente sparito, senza dare notizia di se o un motivo per la sua sparizione. R. Epstein scrive che il motivo per la sparizione di r. Dubna, fu il suo incontro ad Amburgo con r. Raphael Hakohen Susskind (Lituania, 1722-1803, Altona) rabbino capo delle comunità ebraiche di Altona, Amburgo e Waldsbeck. R. Susskind cercò in ogni modo, ma senza successo, di bloccare il progetto della traduzione della Torà in tedesco di Mendelssohn.
    R. Epstein racconta che quando r. Dubna arrivò ad Amburgo per promuovere l’opera del Mendelssohn, venne a visitare r. Susskind. R. Dubna si lamentò con r. Susskind del fatto che tanti rabbini erano contrari al progetto del Mendelssohn. R. Susskind rispose citando la frase dei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 3:13) dove è scritto: “Chi ha la benevolenza degli uomini, ha certo anche quella dell’Onnipresente; mentre chi non è amato dagli uomini, non è amato nemmeno dall’Onnipresente” (traduzione di Joseph Colombo).
    I due continuarono nella loro conversazione nel corso della quale vennero a parlare del Nachmanide che scrisse che nella Torà vi è un accenno di ogni israelita e di ogni grande evento in Israele. R. Susskind disse a r. Dubna che quello che aveva scritto il Nachmanide era pura verità. R. Dubna chiese quindi a r. Susskind dov’era l’accenno nella Torà a Mendelssohn e alla sua opera. R. Susskind rispose che il versetto della Torà era nella parashà di Emòr (Vaykrà, 22:25) dove è scritto: “Sono guasti e difettosi”. R. Susskind fece notare a r. Dubna che le iniziali di queste parole sono uguali a quelle del nome con cui veniva chiamato Mendelssohn, Moshè Ben Menachem Berlin: בם מום בהם משחתם – Mem, Bet, Mem, Bet. E fu così che r. Dubna non tornò a Berlino e non si fece più vivo con Mendelssohn.

(Shalom, 2 ottobre 2024)
____________________

Parashà della settimana: Haazinu (Porgete orecchio)

........................................................


Israele all’ONU: “è finito il tempo della de-escalation”

Scontro al Consiglio di Sicurezza dell'ONU

di Sarah G. Frankl

L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, ha detto che “il tempo dei vuoti appelli alla de-escalation è finito”.
Partecipando alla riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha aggiunto che “il vero volto dell’Iran è quello del terrore, della morte e del caos”.
“Non è più una questione di parole”, ha detto. “L’Iran è un pericolo reale e presente per il mondo e, se non verrà fermato, la prossima ondata di missili non sarà diretta solo contro Israele”.
Danon ha definito la raffica di missili iraniani che martedì l’Iran ha lanciato contro Israele “un attacco a sangue freddo contro 10 milioni di civili” e “un atto di aggressione senza precedenti”.
Egli sottolinea che Israele non si fermerà finché tutti gli ostaggi presi da Hamas e da altri terroristi non saranno tornati in Israele.
“Che il mondo capisca: Israele si difenderà e lo farà con giustizia e forza”, ha dichiarato.
Parlando prima di Danon, l’ambasciatore iraniano ha affermato che l’Iran ha dovuto lanciare una raffica di missili contro Israele per “ristabilire l’equilibrio” dopo una recente serie di importanti attacchi israeliani contro i suoi proxy regionali.
Amir Saeid Iravani descrive l’attacco missilistico come “una risposta necessaria e proporzionata ai continui atti terroristici aggressivi di Israele negli ultimi due mesi”.
Sostiene che l’Iran ha “costantemente perseguito la pace e la stabilità” e che Israele vede la moderazione iraniana “non come un gesto di buona volontà ma come una debolezza da sfruttare”.
“Ogni atto di moderazione da parte dell’Iran ha solo incoraggiato Israele a commettere maggiori crimini e più atti di aggressione”, afferma Iravani. “Di conseguenza, la risposta dell’Iran era necessaria per ripristinare l’equilibrio e la deterrenza”.
L’ambasciatore libanese alle Nazioni Unite ha dichiarato che il suo governo rifiuta i combattimenti tra Israele e Hezbollah.
Hadi Hachem afferma che il governo libanese vuole l’applicazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto porre fine all’ultima guerra tra Israele e Hezbollah nel 2006. Essa chiedeva il disarmo di tutti i gruppi armati, compresi gli Hezbollah, e il dispiegamento delle forze libanesi al confine meridionale con Israele. Nulla di tutto ciò è avvenuto.
L’ambasciatore libanese afferma che la piena attuazione della risoluzione è l’unica soluzione alla guerra in corso e alla “barbara aggressione” di Israele. Egli afferma che il Libano sta aprendo l’arruolamento di 1.500 nuovi soldati per rafforzare la presenza dell’esercito nazionale nel sud.
“Il Libano oggi è bloccato tra la macchina di distruzione israeliana e le ambizioni di altri nella regione”, afferma Hachem, alludendo al sostegno dell’Iran a Hezbollah.

(Rights Reporter, 3 ottobre 2024)

........................................................


Colpiamo subito l'Iran

di Naftali Bennett

Israele ha ora la sua più grande opportunità in 50 anni di cambiare il volto del Medio Oriente. La leadership iraniana, fino a ieri famosa per la sua bravura nel giocare sulla scacchiera politica internazionale, stavolta ha commesso un terribile errore.
  Dobbiamo agire ORA per distruggere il programma nucleare dell'Iran, le sue centrali energetiche e per paralizzare mortalmente questo regime terroristico. Agire ora per colpire la testa della piovra del terrore, che nella sua codardia ha mandato avanti i suoi tentacoli (Hamas, Hezbollah, gli Houthi, ecc.) per assassinarci, mentre gli Ayatollah sedevano al sicuro nei loro palazzi a Teheran. I tentacoli della piovra sono temporaneamente paralizzati, ora tocca alla testa. Dobbiamo rimuovere questa terribile minaccia sul futuro dei nostri figli.
  Possiamo concedere al popolo iraniano l'opportunità di sollevarsi e scrollarsi di dosso il regime che tiranneggia le sue donne e le sue figlie. Abbiamo un buon motivo. Abbiamo gli strumenti. Ora che Hezbollah e Hamas sono paralizzati, l'Iran si ritrova allo scoperto.
  In quest'ultimo anno terribile, i tentacoli iraniani hanno assassinato le nostre famiglie.
  Hanno violentato le nostre figlie. Rapito i nostri piccoli. Saccheggiato le nostre città. Bruciato i nostri campi. Sparato contro le nostre navi. Terrorizzato i bambini a Kiryat Shmona, Kfar Aza e Sderot. Hanno svuotato intere regioni della nostra terra. Ci hanno umiliati.
  Ma ora è il momento. Una nazione di leoni ha ritrovato la sua unità e ha dimostrato la sua forza nell'ultimo anno. Ha desiderato un cambiamento, un'azione, per così tanto tempo. Ci sono momenti in cui la storia bussa alla nostra porta e quella porta dobbiamo aprirla.
  Questa opportunità non deve essere persa.

Libero, 3 ottobre 2024)

........................................................


Iran – L’attivista anti-regime: ayatollah fragili, Khamenei solleva fumo

di Adam Smulevich

«Se reagite sarà la fine», ha tuonato la guida suprema dell’Iran Ali Khamenei rivolgendosi a Israele al termine dell’attacco missilistico delle scorse ore. Parole che non impressionano Rayhane Tabrizi, attivista iraniana tra le più esposte in Italia nella denuncia dei crimini del regime degli ayatollah e più volte in piazza anche al fianco dello Stato ebraico, per difendere il suo diritto a esistere. «Il regime ha bisogno di sollevare un po’ di fumo, di fare del circo. Ma non è in alcun modo in grado di entrare in una guerra “vera” contro Israele, ne verrebbe sconfitto», sostiene l’attivista, che vive a Milano ed è parte del movimento internazionale Donna, vita, libertà. Interpellata da Pagine Ebraiche, Tabrizi sostiene che la teocrazia iraniana sia in un momento di particolare debolezza, evidente sotto vari aspetti, perché è «senza l’appoggio di gran parte del popolo e con forti scissioni anche all’interno della sua struttura di potere». Secondo vari osservatori lo si è visto anche in quest’ultima circostanza, con il presidente Masoud Pezeshkian apparentemente informato dell’attacco soltanto pochi istanti prima del via. Così almeno riferisce il New York Times, citando fonti israeliane.
  Negli scorsi giorni il primo ministro di Gerusalemme, Benjamin Netanyahu, ha diffuso un video in cui afferma che «quando l’Iran sarà finalmente libero, tutto sarà diverso», precisando che «quel momento arriverà molto prima di quanto la gente pensi». Il pensiero di Tabrizi è che «l’Iran debba liberarsi da solo: non è Netanyahu che viene a salvare noi, siamo noi che dobbiamo salvare noi stessi». In ogni caso, gli avvenimenti di questo turbolento periodo «possono essere usati come una leva per procedere in quella direzione, la fine del regime». Forse i tempi non sono ancora maturi. Ma, a detta di Tabrizi, potrebbero essere ora più vicini. L’attivista è coinvolta in queste settimane in molte iniziative pubbliche. È in definizione ad esempio una tre giorni di sit-in davanti alla sede del Parlamento europeo a Milano, per protestare contro le condanne a morte ed esecuzioni inflitte dal regime. Anche sotto il “moderato” Pezeshkian, il boia resta sempre a pieno servizio.

(moked, 3 ottobre 2024)

........................................................


La pacificazione ad ogni costo, la più grande minaccia per la pace

di Davide Cavaliere

Adesso, dopo aver adottato questa politica scellerata, il team di Biden si rivela sempre più preoccupato dalla possibilità che l’Iran decida di approfittare del periodo di circa 90 giorni tra le elezioni del 4 novembre e l’insediamento del prossimo presidente americano, il 20 gennaio 2025, per violare le restrizioni internazionali e accelerare la costruzione di un’arma nucleare con cui colpire Israele.
  Per quasi un anno, l’Iran è rimasto a guardare mentre Israele conduceva la sua guerra a Gaza. Per un regime che trae gran parte della sua legittimità dall’antisionismo, questo è diventato un momento critico. L’inazione del leader supremo Ali Khamenei ha minato la sua posizione tra i giovani conservatori religiosi che sostengono il suo regime.
  La situazione ha raggiunto il punto di ebollizione dopo l’assassinio da parte di Israele del leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in Libano. Sui canali Telegram, i giovani conservatori hanno espresso indignazione, condannando il regime iraniano per aver permesso che ciò accadesse. Alcuni incolpano il presidente riformista Masoud Pezeshkian, ma molti ritengono responsabili le politiche delle precedenti amministrazioni. Alcuni utenti hanno anche notato che Khamenei, non il presidente, è il comandante in capo dell’Iran. La critica più significativa è arrivata durante una trasmissione in diretta sulla TV di Stato. Dopo la conferma della morte di
  Nasrallah, un giovane giornalista scosso, che trasmetteva da Beirut, si è lanciato in un monologo. Ha condannato il regime iraniano per anni di inazione contro gli Stati Uniti e Israele. In particolare, ha osservato che “abbiamo avvertito per anni” che tale passività avrebbe portato a conseguenze disastrose, in particolare “colpendo il capo della resistenza”. Ha concluso, “Signor Repubblica islamica, svegliati!”
  Le due eccezioni dell’Iran a questa passività sono stati gli attacchi diretti contro Israele, una volta ad aprile e di nuovo oggi. Questi attacchi sono stati dei fallimenti, ma Khamenei è riuscito a salvare la faccia ad aprile dopo che il presidente Joe Biden ha fatto pressione su Israele affinché limitasse la sua risposta a un attacco minore a un sistema radar. Khamenei ha potuto quindi vantarsi di aver attaccato Israele impunemente. Come ho scritto all’epoca, questo avrebbe reso inevitabile un altro attacco iraniano.
  I giovani conservatori lavorano per il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) e vengono inviati in Iraq e Siria per combattere. Partecipano ai servizi religiosi e alle manifestazioni pubbliche. Il loro impegno ideologico consente al regime di affidare loro compiti chiave e di offrirgli privilegi speciali in cambio. Alcuni lavorano anche come giornalisti per promuovere la propaganda del regime. Il regime li usa per spiare la popolazione, in particolare tra i giovani nei campus universitari. Ancora più importante, reprimono le proteste anti-regime.
  La rappresaglia quasi certa di Israele questa volta probabilmente scoraggerà futuri attacchi umiliando Khamenei di fronte alla sua base. Ancora più importante, questo imbarazzo potrebbe spingere i giovani conservatori a riconsiderare la loro lealtà nei suoi confronti.
  In altre parole, l’Iran si è dimostrato incapace di danneggiare seriamente Israele. Se Israele neutralizzasse con successo siti militari chiave all’interno dell’Iran, Khamenei avrebbe fallito il suo mandato.
  Il prodotto interno lordo dell’Iran è paragonabile a quello del Bangladesh. A differenza di Israele, non riceve alcun aiuto militare e soffre di un apparato militare corrotto che spreca il suo bilancio della difesa. Le sue milizie per procura in Siria e Iraq sono mercenari, non combattenti ideologici, e quindi inefficaci contro un nemico formidabile come Israele o gli Stati Uniti. Lo stato è illegittimo agli occhi della maggior parte degli iraniani. L’Iran non possiede nessuno degli attributi di una potenza regionale e ha agito come tale solo perché non è stato sfidato.
  Khamenei ha a lungo spaventato i giovani conservatori parlando del “nemico”; nei suoi discorsi, spesso menziona “il nemico” decine di volte. Allo stesso tempo, ha galvanizzato questa base mettendo l’Iran a capo dell’“asse della resistenza”. Lo smantellamento di questa resistenza da parte di Israele, combinato con la sua probabile umiliazione delle difese aeree iraniane, lo delegittimerà ulteriormente. Ciò potrebbe portare a una instabilità interna.
  Khamenei è vecchio e malato. I giovani conservatori potrebbero iniziare a cercare un successore che possa combattere in America e Israele, in attesa della morte di Khamenei. Oppure il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie potrebbe prendere in considerazione un colpo di stato per stabilire una dittatura militare. Sono possibili anche tentativi di assassinio o di abdicazione forzata.
  Israele ha danneggiato l’immagine di Khamenei. Se Israele impone un pesante pedaggio all’Iran per l’aggressione odierna, non farà altro che accelerare l’inevitabile cambiamento in Iran. La domanda è quale forma assumerà quel cambiamento.
  Gli Stati Uniti dovrebbero anticipare questo cambiamento e prepararsi a influenzarlo positivamente. Devono impedire l’ascesa di un altro leader supremo sullo stampo di Khamenei o di una dittatura militare gestita dall’IRGC. Invece, gli Stati Uniti dovrebbero sfruttare le divisioni interne dell’Iran e perseguire un cambio di regime per ottenere un risultato ottimale.

(L'informale, 3 ottobre 2024)

........................................................


Aperto un centro traumatologico per i sopravvissuti al massacro

In Thailandia è stato aperto un nuovo centro traumatologico. Il suo scopo è quello di sostenere le persone che soffrono di problemi psicologici dopo gli eventi del 7 ottobre.

FOTO
Il centro si trova sull'isola thailandese di Ka Pha Ngan

BANGKOK - Un'organizzazione israeliana no-profit ha aperto un centro traumatologico in Thailandia per i sopravvissuti agli attacchi terroristici di Hamas che desiderano lasciare Israele. Lo riferisce il sito di notizie "Algemeiner".
  Gli amici di una vittima della strage del 7 ottobre, David Newman, hanno fondato l'organizzazione chiamata "Let’s Do Something“. Insieme volevano contribuire a raccogliere attrezzature e aiuti umanitari per le persone colpite dagli attacchi terroristici. Finora l'organizzazione ha investito e fornito l'equivalente di circa 360.000 euro in aiuti militari e umanitari.
  L'ultima iniziativa di "Let’s Do Something" è un centro traumatologico chiamato "David's Circle" per le persone che hanno sofferto di problemi psicologici come il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) dopo gli eventi del 7 ottobre. È stato creato in collaborazione con la terapeuta e specialista israeliana di traumi Jael Schoschani-Rom e l'assistente sociale Segev Ben-Schalom. Hanno scelto come location l'isola tailandese di Ko Pha Ngan.

• L’ultima iniziativa in Thailandia
   La Thailandia è una delle destinazioni preferite dai turisti israeliani. Secondo le statistiche, più di 100.000 israeliani vi si sono recati dal 7 ottobre. Il centro traumatologico ha lo scopo di aiutare queste persone.
  "Dopo il 7 ottobre, mi sono dedicato a lavorare con i sopravvissuti di Nova", ha detto Shoshani-Rom, riferendosi al festival musicale di Re'im. "È diventato chiaro che per molti, compresi i sopravvissuti delle comunità del sud e i soldati, ogni giorno sembra ancora il 7 ottobre 2023. In Israele non si può sfuggire al ricordo di quel giorno. Molte persone sono costrette ad andarsene, in India, in Europa o in Thailandia. Ma il trauma li segue e sono a rischio di gravi crisi psicologiche". Per questo motivo è stato fondato il "Circolo di David".
  "Israele è un piccolo Paese in cui quasi tutti conoscono qualcuno che è stato colpito dagli eventi del 7 ottobre, sia che si trovasse alla Nova, che sia stato colpito dall'attacco, che sia stato in contatto con le famiglie degli ostaggi, che abbia combattuto a Gaza o che abbia perso una persona cara", ha spiegato Baruch Apisdorf, il direttore principale di Let's Do Something. "Oltre 17.000 israeliani si recano in Thailandia ogni mese. Molti di loro portano il peso di un grave trauma e stanno affrontando una crisi di salute mentale. 'David's Circle' è qui per fornire la pace e il sostegno di cui hanno disperatamente bisogno".
  "Let's Do Something." comprende otto fondatori. Erano tutti amici intimi di Newman. Oggi gestiscono l'organizzazione a tempo pieno.
  L'obiettivo della nuova iniziativa è di assistere in futuro circa 150 persone al mese nel nuovo centro traumatologico, ha dichiarato David Gani, cofondatore di "Let's Do Something". Il "Circolo di David" ha tenuto la sua prima riunione il 18 settembre; una seconda riunione è prevista per il 7 ottobre.

(Israelnetz, 3 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Due consigli per essere iscritti nel libro della vita

Riportiamo senza commenti un articolo che compare oggi su “Shalom” nella rubrica “Idee - Pensiero ebraico”. NsI

di Roberto Colombo 28-09-2022

Dichiarò Rabbì Keruspedài: disse Rabbì Yochanàn che vi sono tre libri aperti a Rosh Hashanà: uno per i veri malvagi, uno per i veri giusti e uno per coloro che si trovano in una fase intermedia. I veri giusti sono subito iscritti nel libro della vita, i veri malvagi in quello della morte e per coloro che si trovano in una fase intermedia si attende per la trascrizione da Rosh Hashanà a yom Kippùr…
(T.B. Rosh Hashana 16b)

Molti Maestri si sono soffermati su questa Mishnà. La vita o la morte decisa per l’uomo in base al suo comportamento non è sempre da intendere come esistenza terrena. Vi sono malvagi che vivono per molto tempo e persone rette e oneste che muoiono in giovane età. Per i Tosafòt, i dotti commentatori del Talmùd, si tratta qui della vita oltre la morte, della serenità o dell’inquietudine decisa per l’anima nel mondo dell’aldilà. Per altri Maestri la Mishnà tratta della resurrezione che sarà permessa solo ai meritevoli dopo l’arrivo del Mashìach. Rosh ha shanà e Yom Kippùr, in cui si deciderà il nostro futuro, sono alle porte e il tempo che ci è rimasto per modificare in bene il nostro avvenire è ormai limitato. Nella Tefillà chiediamo a Dio ogni sera dopo la lettura dello Shemà Israèl di darci dei consigli per poter cambiare il nostro futuro. Questi suggerimenti ci vengono dati dai nostri Maestri. Qui ne riporteremo soltanto due, scritti cinquant’anni fa dal grande Maestro Rabbì Chaiìm Shemuèlevic’ (1902 – 1979) nel suo fondamentale libro Sichòt Mussàr. Facciamone tesoro.

---

• TalmùRosh Hashanà 17A: attenti allo specchio
Disse Rabbà: a chiunque sa passare oltre ai propri diritti il cielo perdona tutti i peccati commessi perché è detto: Egli sopporta il peccato, perdona la trasgressione (Michà 7, 18). Sopporta il peccato e perdona la trasgressione sembra un’inutile ripetizione perciò si deve intendere: Di quale persona il Signore sopporta il peccato? Di colui che sa perdonare le trasgressioni che altri hanno commesso verso di lui. 
Spesso, o sempre, giudichiamo gli altri per mancanze commesse verso i nostri confronti e attendiamo una giusta rivalsa ai diritti personali violati ingiustamente. Non è facile perdonare, cancellare un torto e guardare oltre, cercando di ricostruire rapporti personali ormai guastati. Perché, dunque, Dio non dovrebbe giudicare anche noi con lo stesso metro? Perché scusare, dimenticare e assolvere dalle offese chi a sua volta non sa discolpare, obliare o passare oltre ad un torto ricevuto provando a ricostruire legami ormai lesi? Il termine “Cielo” si traduce in ebraico Shamàim, che a sua volta è composto dalle due parole Sham-Màim – lì vi è acqua. L’acqua è uno specchio dove si riflette l’immagine, un volto che sempre nasconde anche il nostro carattere. Ciò che si decide in alto e dall’alto viene mandato è sempre anche il riflesso del nostro comportamento e dei nostri rapporti verso gli altri e verso noi stessi. La traccia lasciata in noi dalla maldicenza subita, dall’ingiustizia e dalle offese non può mai essere cancellata con facilità. L’unico modo è quello di ritrovare una forma di umiltà, la forza di guardarci dentro e di scoprire quante volte anche noi stessi abbiamo ingiuriato e diffamato gli altri e il Creatore. Ecco il primo consiglio: si impari a perdonare se si vuol essere perdonati da Dio e iscritti nel libro della vita.

• Talmùd Sanhedrìn 92a: non è sempre un bene aprire una finestra
Disse Rabbì Zeirà: Si insegna che se una casa è buia non si devono aprire le finestre per vedere i difetti nascosti nelle mura.
Un Cohèn, un Sacerdote giunto a valutare se le pareti di una casa colpite da strane chiazze mandate dal Signore dovevano essere demolite (Lev. 34), non poteva aprire le finestre per far entrare la luce e valutare l’entità del danno. I Maestri così imparano che il buio, la discrezione e la riservatezza nascondono i difetti e salvano dalla distruzione. Amiamo spesso farci notare per le nostre belle azioni e per le belle frasi spesso pronunciate solo per circostanza. Ma apparire non è un bene perché ciò illumina spesso anche le nostre mancanze. Racconta il Talmùd:
Accadde che un giorno Rabbàn Yoḥanàn ben Zakkài… vide una povera donna che stava raccogliendo orzo tra lo sterco degli animali. Quando lo guardò, la donna si avvolse tra i capelli, poiché non aveva nient’altro con cui coprirsi, e si fermò davanti a lui. Lei gli disse: “Mio Maestro, dammi del sostentamento”. Le rispose: “Figlia mia, chi sei?” Gli disse: “Sono la figlia di Nakdimòn ben Guryòn”. Il Maestro replicò: “Figlia mia, i molti soldi di tuo padre, dove son finiti?”. Gli disse: “… Mio padre non faceva Tzedakà e per questo non mantenne intatti i suoi averi e perse tutto ciò che aveva”.
Si chiede la Ghemarà: Nakdimòn ben Guryòn non dava denaro in elemosina?! Non è forse insegnato: Dissero di Nakdimòn ben Guryòn che quando usciva di casa indossava dei lunghi manti di seta nei quali nascondeva del denaro che i poveri venivano a prendere da dietro e faceva ciò per poter dare del denaro senza causare loro vergogna? Sì, ma egli agiva così solo affinché si parlasse di lui in modo onorevole. (T.B. Ketubàt 66b, 67a)
Non vi è onore più grande della modestia, dell’agire in bene senza farsi notare ed apparire. È il buio della riservatezza e della semplicità che mantiene veramente intatta la nostra casa. L’agire per farsi notare produce solo macerie. Ecco il secondo consiglio per avere una vera vita ebraica. Si faccia del bene di nascosto per aprire una finestra verso il futuro.
Possa tutto Israele avere il merito di essere iscritto nel libro della vita. Amèn.

(Shalom, 3 ottobre 2024)

........................................................


Il fallimento dell’attacco iraniano e le sue conseguenze

di Ugo Volli

• MISSILI FUORI BERSAGLIO
  L’attacco con cui l’Iran si riprometteva di raddrizzare la situazione pericolante del suo ”Asse della resistenza” e di “punire” lo smantellamento di Hezbollah e l’eliminazione del suo leader Nasrallah, è miseramente fallito. I 180 missili balistici, sparati in due ondate sul centro di Israele, e gli sciami di droni usati per coprirne la traiettoria, sono stati quasi tutti abbattuti dalla contraerea israeliana, con l’aiuto, questa volta abbastanza secondario, degli americani. Vi sono stati dei danni ad alcune case, ma i loro abitanti si erano protetti nei rifugi come raccomandato dai comandi militari. Diversi proiettili sono finiti in mare, su campi disabitati e nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese, dove c’è stata la sola uccisione: un palestinese colpito a Gerico, per l’ironia della sorte proveniente da Gaza. Le uniche vittime israeliane di ieri sera sono state provocate purtroppo da un attacco terroristico vecchio stile, effettuato a Giaffa, l’antica città portuale vicino a Tel Aviv, da una coppia di terroristi palestinesi con armi automatiche.

• LE RAGIONI DEL FALLIMENTO
  Il risultato insomma non è diverso da quello ottenuto dagli ayatollah l’aprile scorso, per vendicare il colpo israeliano su una riunione terrorista in un edificio accanto alla loro ambasciata di Damasco, dove era rimasto ucciso Mohammad Reza Zahedi, il capo della milizia dei pasdaran per il Medio Oriente. Anche allora la sola persona colpita era stata una bambina beduina nel Negev e l’attacco aveva fatto solo molto fracasso e pochissimi danni veri. È difficile dire se questo fallimento derivi dall’incapacità delle forze missilistiche iraniane, da una sottovalutazione della capacità di autodifesa israeliana o da una scelta di fare un attacco solo dimostrativo, come alcuni sostengono, per segnalare che l’Iran non vuole una guerra vera. In ogni caso si tratta di una certificazione di impotenza che non resterà senza conseguenze in un ambiente che non perdona la debolezza, come il Medio Oriente. Dopo aver visto distrutta la forza militare di Hamas a Gaza e fortemente indebolita quella di Hezbollah, mentre le forze di terra israeliane avanzano in Libano e quelle aeree continuano a smantellarvi i depositi di armi e missili, non solo la reazione di Hezbollah è stata finora molto più debole di quel che si temeva, ma anche l’attacco iraniano non ha funzionato. Non bisogna farsi troppe illusioni, perché l’Iran è un grande Paese con una popolazione dieci volte più grande di quella di Israele e un’industria militare che oggi è la principale fonte di armamenti per la Russia. Ma sembra chiaro che non solo questa battaglia, ma l’intera strategia di logorare e distruggere Israele per mezzo dei gruppi terroristi, sia fallimentare.

• ISRAELE PUÒ RISPONDERE
  “L’Iran ha fatto un grave errore e ne pagherà le conseguenze”, ha dichiarato il primo ministro Netanyahu alla fine del gabinetto di guerra convocato per valutare la situazione alla fine dell’attacco. L’errore sta non solo nel fallimento dell’attacco, ma nell’attacco stesso. Israele a questo punto ha l’occasione perfettamente giustificata sul piano politico e legale di colpire non i tentacoli, ma la testa stessa della piovra terrorista, il centro di comando di tutti i fronti aperti contro lo Stato ebraico. Ad aprile la risposta di Israele all’attacco dell’Iran fu solo un segnale: il bombardamento delle installazioni antiaeree di un impianto nucleare ben dentro il territorio dell’Iran significava che Israele poteva penetrare fino ai siti militari meglio difesi e che per il momento si asteneva dal colpirli, anche per le pressioni americane. Ora queste pressioni perché Israele non reagisca probabilmente si stanno ripetendo con la stessa intensità, ma la situazione politica negli Usa e anche quella strategica in Medio Oriente sono assai diverse. Israele ha sconfitto Hamas, anche se restano notevoli focolai terroristi; ha ridimensionato la maggiore fonte di deterrenza dell’Iran, cioè l’armamento di Hezbollah, così vicino allo stato ebraico e così abbondante da creare serie preoccupazioni; ha anche dimostrato di poter bloccare gli attacchi missilistici dallo Yemen e dall’Iran. In America le elezioni si avvicinano, l’amministrazione Biden e la candidata Harris si sentono più vincolati al giudizio di un elettorato che continua a essere notevolmente pro-Israele e dunque non possono seguire le spinte anti-israeliane che pure sono potenti nel partito democratico.

• I POSSIBILI OBIETTIVI
  Che succederà ora? Se Israele si sentirà libero di rispondere all’aggressione degli ayatollah, senza doversi limitare di nuovo ad atti simbolici, cercherà però anche di non mettersi contro il popolo persiano, che considera amico e insofferente della dittatura clericale. Dovrà dunque escludere rappresaglie sulle città e sulle installazioni civili. Ci sono quattro gruppi di obiettivi possibili. Il primo e il più importante sono le installazioni del programma nucleare. L’Iran è vicinissimo alla bomba atomica e se riuscisse a realizzarla questo cambierebbe drasticamente in peggio tutta la situazione strategica del Medio Oriente e forse del mondo. Anche qualche giorno fa all’Onu Netanyahu ha ribadito l’impegno di impedirlo. Il secondo obiettivo sono invece gli impianti portuali da cui l’Iran deve far passare il proprio petrolio, che è la principale fonte di finanziamento per il regime. Sono istallazioni ben note e fragili: oleodotti, depositi di carburante, raffinerie, pozzi. Il terzo obiettivo potrebbero essere gli impianti militari e in particolare quelli missilistici. E il quarto i luoghi del potere e le residenze dei principali dirigenti, che Israele potrebbe colpire come ha fatto a Beirut e Damasco. Naturalmente non possiamo sapere quando e dove Israele colpirà. Ma è chiaro che questa è la partita decisiva di questa guerra, che potrebbe cambiare in meglio tutto il Medio Oriente, eliminando la minaccia terroristica, favorendo finalmente un cambio di regime in Iran e una pace fra Israele e il mondo arabo.

(Shalom, 2 ottobre 2024)

........................................................


Tensione alle stelle in Medio Oriente: il cuore di Israele sotto attacco

Il Medio Oriente è di nuovo sull’orlo del baratro. La tensione è alle stelle, catalizzando l’attenzione mondiale in un drammatico crescendo di violenza. Nelle ultime ore, l’incubo è diventato realtà: missili balistici lanciati dall’Iran,  razzi dal Libano e dalla Siria hanno squarciato il cielo di Israele, colpendo duramente il centro del Paese.
  Le esplosioni hanno causato la morte di un uomo a Jerico, un palestinese profugo da Gaza, e il ferimento di almeno due persone, e l’impatto psicologico è devastante: migliaia di cittadini terrorizzati sono stati costretti a fuggire nei rifugi antiaerei, mentre l’allarme risuona senza tregua.
  Tel Aviv, cuore pulsante della nazione, è ora teatro di sparatorie in vari punti della città. Il suono dei colpi riecheggia ovunque, gettando la popolazione nel panico. Il terrore corre sottile, nessuno può prevedere cosa accadrà nelle prossime ore.
  L’intera regione è in bilico, mentre il mondo osserva impotente una crisi che rischia di sfuggire definitivamente al controllo. Ai residenti è stato chiesto di non allontanarsi dalle aree sicure, mentre l’IDF ha chiarito che le misure restrittive resteranno in vigore per fronteggiare l’attacco coordinato da Hezbollah e Iran.

• COLPITA L’AUTOSTRADA FUORI TEL AVIV
  Uno degli episodi più preoccupanti, come riferisce il Times of Israel, è stato il lancio di un razzo che, martedì, ha centrato un’importante autostrada appena fuori Tel Aviv. Due persone sono rimaste ferite e subito sono state imposte nuove misure di sicurezza. L’esercito, nel frattempo, si prepara per un’ulteriore intensificazione degli scontri con Hezbollah, soprattutto dopo un’incursione terrestre nel sud del Libano avvenuta durante la notte.

• ISRAELE LANCIA AVVERTIMENTI AI CIVILI
  Le sirene d’allarme hanno risuonato in tutta Israele, dalla Galilea settentrionale fino a Gerusalemme e Tel Aviv. L’esercito ha invitato i civili libanesi a evacuare l’area a sud del fiume Litani, mentre si preparano nuovi schieramenti di truppe lungo il confine. Questa mossa, probabilmente, segna l’ingresso in una nuova fase del conflitto, già segnato da settimane di pesanti attacchi contro le postazioni di Hezbollah in Libano. Il lancio di razzi, avvenuto a metà mattinata di martedì, rappresenta la prima ondata di attacchi diretti al centro di Israele da quando è stata annunciata l’operazione di terra. Mentre il nord di Israele è stato bersagliato da numerosi missili, si è registrato anche un tentativo fallito di attacco con droni su Tel Aviv, rivendicato dai ribelli Houthi dello Yemen, alleati di Hezbollah e dell’Iran.

• CHIUSI SCUOLE, SPIAGGE E LUOGHI PUBBLICI
  In risposta agli attacchi, l’IDF ha annunciato una serie di nuove restrizioni: chiuse scuole e luoghi di lavoro senza accesso ai rifugi, interdette le spiagge e limitati gli assembramenti. Non più di 30 persone possono radunarsi all’aperto, mentre al chiuso il limite è stato fissato a 300. Le misure interessano tutto il nord e il centro del Paese, inclusa Tel Aviv, Gerusalemme, la regione costiera di Sharon, l’area del Carmelo vicino a Haifa, Wadi Ara e la Cisgiordania settentrionale.

• RAZZI SU TEL AVIV, FERITO UN CONDUCENTE DI AUTOBUS
  Uno dei razzi, lanciato dal Libano, ha colpito la trafficata Route 6, vicino alla città di Kafr Qassem. L’esplosione ha lasciato un cratere sulla strada e frammenti del razzo hanno perforato un autobus di passaggio. Il conducente, un uomo di 54 anni, è stato ferito alla testa ed è stato trasportato in ospedale in condizioni moderate, come riportato dal servizio di soccorso Magen David Adom. Altri passeggeri sono stati trattati per lo shock, mentre un secondo automobilista è stato ferito in modo lieve.
  Hezbollah ha rivendicato il lancio dei missili, affermando di aver colpito la base militare di Glilot, vicino a Herzliya, sede di importanti strutture dell’Intelligence israeliana.

• IL FUTURO INCERTO
  Mohammed Afifi, portavoce di Hezbollah, ha definito gli attacchi contro Tel Aviv «solo l’inizio». Le difese israeliane hanno respinto molti dei razzi, ma la tensione resta palpabile. Le sirene di allarme continuano a suonare e il Paese è in stato di massima allerta.
  Mentre Israele si prepara a fronteggiare ulteriori attacchi, l’ombra di un conflitto ancora più ampio sembra avvicinarsi, portando con sé una sensazione di incertezza per il futuro della regione.

(Bet Magazine Mosaico, 2 ottobre 2024)

........................................................


Gerusalemme, festa di matrimonio in un rifugio: anche la Città Santa si scopre vulnerabile

di Michele Gravino

GERUSALEMME — Una cerimonia così Kristirae e Shawn Gibson, arrivati dal Colorado per sposarsi nel cuore di Gerusalemme, proprio non se la aspettavano. Cattolici praticanti, profondamente attratti dalle radici della loro religione e per questo da anni appassionati di ebraismo, avevano scelto di sposarsi nella Città Santa per consacrare la passione comune, oltre al loro amore. Ma di dover scendere nel rifugio dell’hotel dove si teneva la cerimonia insieme a tutti gli invitati non lo avevano messo in conto. «Volevamo venire qui già un anno fa, poi c’è stato il 7 ottobre», raccontano nei loro abiti da cerimonia mentre sulle teste si sentono i rumori dell’Iron dome che intercetta i missili su Gerusalemme. «Si vede proprio che doveva essere indimenticabile», dicono.
  Come gli sposi americani Kristirae e Shawn, nove milioni di israeliani sono stati colti di sorpresa dall’intensità dell’attacco iraniano su Israele ieri sera. Moltissimi, come loro, sono corsi nei rifugi. Altri hanno scelto di non farlo: e di restare alle finestre a guardare la pioggia di missili e le scie lasciate in cielo dai proiettili che li intercettavano. Per quanto Israele fosse stato avvisato, la paura è arrivata improvvisa. Ad aprile, durate il primo attacco iraniano, i missili iraniani ci avevano messo nove ore ad arrivare: questa volta ne sono passate meno di due dalle prime avvisaglie di attacco alle esplosioni.
  La sorpresa è stata forte soprattutto a Gerusalemme che, avendo una popolazione per il 30 per cento araba, di solito non è nel mirino di attacchi missilistici. Che qualcosa ci fosse da aspettarsi si era capito quando l’ambasciata Usa aveva mandato a casa i suoi impiegati invitandoli a non uscire, ma a prevalere era stato lo scetticismo. «Da quella parte. Ma vedrà che non serve» era stata la risposta del portiere dell’hotel quando, all’arrivo delle prime notizie, avevamo chiesto dove si trovasse il rifugio. E’ servito invece, a Kristirae e Shawn, ai loro invitati e a dozzine di altre persone che erano nella stessa struttura. Lacrime e tensione, soprattutto fra chi era arrivato dall’estero, sono durate meno di un’ora: il tempo delle intercettazioni. La danza improvvisata degli sposi ha migliorato l’atmosfera: ma i sorrisi sono tornati solo quando l’allarme è cessato e la sposa ha invitato tutte le compagne di avventura a unirsi al tradizionale momento del lancio del bouquet.
  A Tel Aviv l’allarme è scattato prima ancora che a Gerusalemme: che la città fosse a rischio era stato detto da giorni e ieri i residenti erano stati avvisati di non uscire e stare vicino ai rifugi. Così ha fatto Sarah, che abita in centro, in un palazzo di una zona che era popolare ma ora è diventata di moda: che, proprio perché vecchio e costruito senza grandi mezzi, non ha un rifugio. «Avevamo già le scarpe ai piedi e siamo corsi nell’hotel di fronte con i bambini: come facciamo da un anno a questa parte ogni volta che suonano le sirene». Spesso, spessissimo, nell’ottobre del 2023, quando l’avevamo conosciuta fra una corsa e all’altra nel sotterraneo: molto meno negli ultimi tempi, con l’eccezione di aprile. «Questa notte dormiamo vestiti», ci dice al telefono.
  A Tel Aviv la tensione è alta: il comitato che riunisce le famiglie degli ostaggi portati a Gaza il 7 ottobre sin da ieri mattina, prima ancora che arrivassero le istruzioni dell’esercito che proibivano i raduni, aveva annullato le manifestazioni previste nel fine settimana per ricordare la strage di un anno fa. Al momento sono in dubbio anche quelle previste nei kibbutz del Sud.
  Diversa atmosfera a Ramallah e nei Territori occupati, dove pure sono atterrati dozzine di missili: più che la paura qui ha prevalso la gioia. «Allah U Akbar», è stato il grido che è risuonato a Ramallah quando si sono sentite le sirene suonare negli insediamenti che circondano la città. La gente non è scappata nei rifugi, perché nei Territori palestinesi di rifugi non ce ne sono, se non negli insediamenti.
  A Gerico un palestinese è rimasto ucciso dalle schegge di un missile. Ma le immagini sui social mostrano la festa attorno ai pezzi degli ordigni iraniani. Lo stesso giubilo c’è stato a Gaza: i video condivisi sui Social media mostrano i bambini inneggiare di fronte alle sirene che suonavano oltre il confine e alla pioggia di missili che teneva impegnata l’Iron Dome.

(la Repubblica, 2 ottobre 2024)

........................................................


La base di Khamenei potrebbe abbandonarlo

di Shay Khatiri

Per quasi un anno, l’Iran è rimasto a guardare mentre Israele conduceva la sua guerra a Gaza. Per un regime che trae gran parte della sua legittimità dall’antisionismo, questo è diventato un momento critico. L’inazione del leader supremo Ali Khamenei ha minato la sua posizione tra i giovani conservatori religiosi che sostengono il suo regime.
  La situazione ha raggiunto il punto di ebollizione dopo l’assassinio da parte di Israele del leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, in Libano. Sui canali Telegram, i giovani conservatori hanno espresso indignazione, condannando il regime iraniano per aver permesso che ciò accadesse. Alcuni incolpano il presidente riformista Masoud Pezeshkian, ma molti ritengono responsabili le politiche delle precedenti amministrazioni. Alcuni utenti hanno anche notato che Khamenei, non il presidente, è il comandante in capo dell'Iran. La critica più significativa è arrivata durante una trasmissione in diretta sulla TV di Stato. Dopo la conferma della morte di Nasrallah, un giovane giornalista scosso, che trasmetteva da Beirut, si è lanciato in un monologo. Ha condannato il regime iraniano per anni di inazione contro gli Stati Uniti e Israele. In particolare, ha osservato che “abbiamo avvertito per anni” che tale passività avrebbe portato a conseguenze disastrose, in particolare “colpendo il capo della resistenza”. Ha concluso, “Signor Repubblica islamica, svegliati!”
  Le due eccezioni dell’Iran a questa passività sono stati gli attacchi diretti contro Israele, una volta ad aprile e di nuovo oggi. Questi attacchi sono stati dei fallimenti, ma Khamenei è riuscito a salvare la faccia ad aprile dopo che il presidente Joe Biden ha fatto pressione su Israele affinché limitasse la sua risposta a un attacco minore a un sistema radar. Khamenei ha potuto quindi vantarsi di aver attaccato Israele impunemente. Come ho scritto all’epoca, questo avrebbe reso inevitabile un altro attacco iraniano.
  I giovani conservatori lavorano per il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) e vengono inviati in Iraq e Siria per combattere. Partecipano ai servizi religiosi e alle manifestazioni pubbliche. Il loro impegno ideologico consente al regime di affidare loro compiti chiave e di offrirgli privilegi speciali in cambio. Alcuni lavorano anche come giornalisti per promuovere la propaganda del regime. Il regime li usa per spiare la popolazione, in particolare tra i giovani nei campus universitari. Ancora più importante, reprimono le proteste anti-regime.
  La rappresaglia quasi certa di Israele questa volta probabilmente scoraggerà futuri attacchi umiliando Khamenei di fronte alla sua base. Ancora più importante, questo imbarazzo potrebbe spingere i giovani conservatori a riconsiderare la loro lealtà nei suoi confronti.
  In altre parole, l’Iran si è dimostrato incapace di danneggiare seriamente Israele. Se Israele neutralizzasse con successo siti militari chiave all’interno dell’Iran, Khamenei avrebbe fallito il suo mandato.
  Il prodotto interno lordo dell’Iran è paragonabile a quello del Bangladesh. A differenza di Israele, non riceve alcun aiuto militare e soffre di un apparato militare corrotto che spreca il suo bilancio della difesa. Le sue milizie per procura in Siria e Iraq sono mercenari, non combattenti ideologici, e quindi inefficaci contro un nemico formidabile come Israele o gli Stati Uniti. Lo stato è illegittimo agli occhi della maggior parte degli iraniani. L’Iran non possiede nessuno degli attributi di una potenza regionale e ha agito come tale solo perché non è stato sfidato.
  Khamenei ha a lungo spaventato i giovani conservatori parlando del “nemico”; nei suoi discorsi, spesso menziona “il nemico” decine di volte. Allo stesso tempo, ha galvanizzato questa base mettendo l’Iran a capo dell’“asse della resistenza”. Lo smantellamento di questa resistenza da parte di Israele, combinato con la sua probabile umiliazione delle difese aeree iraniane, lo delegittimerà ulteriormente. Ciò potrebbe portare a una instabilità interna.
  Khamenei è vecchio e malato. I giovani conservatori potrebbero iniziare a cercare un successore che possa combattere in America e Israele, in attesa della morte di Khamenei. Oppure il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie potrebbe prendere in considerazione un colpo di stato per stabilire una dittatura militare. Sono possibili anche tentativi di assassinio o  di abdicazione forzata.
  Israele ha danneggiato l’immagine di Khamenei. Se Israele impone un pesante pedaggio all’Iran per l’aggressione odierna, non farà altro che accelerare l’inevitabile cambiamento in Iran. La domanda è quale forma assumerà quel cambiamento.
  Gli Stati Uniti dovrebbero anticipare questo cambiamento e prepararsi a influenzarlo positivamente. Devono impedire l’ascesa di un altro leader supremo sullo stampo di Khamenei o di una dittatura militare gestita dall’IRGC. Invece, gli Stati Uniti dovrebbero sfruttare le divisioni interne dell’Iran e perseguire un cambio di regime per ottenere un risultato ottimale.

(L'informale, 2 ottobre 2024 - trad. Niram Ferretti)

........................................................


Bernard-Henri Lévy: «Criminale manifestare a favore di Hamas»

Il filosofo francese parla del suo nuovo saggio «La solitudine di Israele»

di Francesco Mannoni

Bernard-Henri Lévy, filosofo, giornalista, attivista e regista francese che abbiamo incontrato a Pordenonelegge è duro, preciso e inflessibile nel difendere Israele: «Israele, contro Hamas sta combattendo una guerra che riguarda il mondo intero. Una guerra che va contro ogni forma di totalitarismo, di islamismo e terrorismo, come quando ha lottato contro l’Isis e Al Qaeda. Ma questa volta Israele ha il diritto di difendersi. L’esserci fatti sorprendere da Hamas, è la nostra colpa morale. Israele ha l’obbligo di vincere questa guerra che significa riportare a casa gli ostaggi e distruggere le infrastrutture militari di Hamas».
  Questi concetti li espone anche nel suo ultimo libro, «Solitudine di Israele» (La Nave di Teseo, pag. 174, euro 17), nel ribadire che Israele ha subito un attacco terroristico almeno altrettanto impressionante di quello degli Stati Uniti l’11 settembre 2001 o degli attentati francesi al Bataclan, nella sede di «Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher. E aggiunge: «Non solo Israele deve difendersi, ma è necessario che vinca. Se non vince, Hamas resterebbe al potere a Gaza e i palestinesi sotto il tacco di Hamas che diventerebbe il campione del mondo arabo e del mondo musulmano: avrebbe una sorta di aureola del vincitore, e Israele andrebbe incontro ad altri 7 ottobre. Prima o poi potrebbero esserci problemi all’interno di Israele, ma per il momento è fondamentale vincere la guerra e portare a casa gli ostaggi».

- Israele con questa guerra di cui lei auspica la vittoria sta perdendo il consenso mondiale, perché da perseguitato starebbe diventando persecutore. Non sarebbe stato meglio dare una patria alla Palestina?
  «Ci sono due elementi in questa domanda che bisogna spiegare bene. Innanzi tutto Israele, gli ebrei, sono sempre stati perseguitati. Quando si è vittima di un attacco dell’ampiezza e della crudeltà del 7 ottobre, e quando i terroristi dicono: “il nostro obiettivo è ricominciare”; oppure quando affermano: “lo scopo finale è avere la Palestina libera dal mare al fiume, e la scomparsa totale di Israele”, non credo ci siano molte possibilità di dialogo. E se le persone che dicono queste cose hanno alleati potenti, come Hezbollah, l’Iran e la Russia, un Paese piccolo come Israele - un milionesimo del pianeta -, di fronte alla volontà distruttiva di tutte queste forze, forse è difficile affermare che è un persecutore. Ma la patria dei palestinesi è il nodo più difficile da sbrogliare. Auspico uno stato palestinese da cinquant’anni e ho militato per questo scopo per tutta la mia vita. Ho fatto parte del gruppo che ha partecipato all’elaborazione del Piano di Ginevra -credo sia uno dei migliori – perciò non dica a me che ci vuole una patria per i palestinesi: ne sono persuaso. Però ora è il momento peggiore per dichiarare questo Stato: sarebbe un errore enorme».

- Perché?
  «Hamas sarà al potere, finché gli abitanti della Cisgiordania penseranno che i suoi uomini sono degli abili e valorosi combattenti, e per questo la questione dello Stato Palestinese, non può essere posta ora. Se domani l’Italia, la Francia e la Norvegia dicessero finora abbiamo commesso un errore, avremmo dovuto ascoltare i militanti dei diritti dell’uomo e dei diritti dei popoli, ecco qua lo Stato palestinese, sa quale sarebbe la conclusione in tutto il mondo? Tutti penserebbero: quando si chiedono le cose con metodi pacifici non funziona; quando si negozia e si dialoga non funziona; invece quando si prendono degli ostaggi e si trucidano migliaia di persone innocenti o quando si prende un intero popolo in ostaggio, allora così funziona. È questo il messaggio che vogliamo inviare? Vogliamo dire questo ai terroristi del mondo intero? Vedrebbe come cambierebbe la situazione del pianeta dopo. Una patria per i palestinesi è da molto tempo che avremmo dovuto dargliela, e quando Hamas sarà eliminato con tutti quelli che gli somigliano e lo sostengono si potrà parlare di uno Stato palestinese, ma non ora. Oggi, questa possibilità non si dovrebbe nemmeno nominare».

- Ma che diciamo agli studenti che protestano pro Palestina?
  «Bisogna fare una distinzione. Ci sono gli studenti che manifestano contro il governo israeliano, e ci sono gli studenti che manifestano a favore di Hamas: sono due cose completamente diverse. La prima è perfettamente legittima, la seconda, manifestare pro Hamas, è criminale. È stata dichiarata una guerra contro Israele minacciata di distruzione, e si tratta di una guerra totale. Al momento c’è una sola possibilità accettabile per Israele e per i Palestinesi: la capitolazione di Hamas come si è fatto con Al Qaeda e con Isis».

- Il blocco di Gaza che impedisce di rifornire di viveri oltre un milione e mezzo di sfollati che vivono in condizioni drammatiche ritenute dal sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’Onu un «flagello per la nostra coscienza collettiva», non è un po’ inumano?
  «Sono andato di persona a Gaza due o tre volte e posso dire che venivano bloccate solo le merci che servivano per la fabbricazione di armi. In secondo luogo il mercato è sempre stato chiaro: basta coi razzi, basta col blocco; niente razzi, niente blocco. Il giorno in cui Hamas smetterà di inviare razzi su Israele, allora non ci sarà più nessun blocco. La fonte di quello che è successo il 7 ottobre, non è l’humus, non è il contesto: è una ideologia. Siamo vicini ad una forma di nazismo che si chiama islamismo radicale che non risale al momento del blocco. Hamas (che è un ramo della fratellanza musulmana, un movimento nato un secolo fa in Egitto, e si colloca ideologicamente all’interno del fondamentalismo islamico), ha sempre detto fin dalle origini che loro non hanno mai accettato lo Stato di Israele. È proprio un fattore ideologico. Può esserci o non esserci un blocco, Gaza può essere liberata o occupata dagli israeliani, e non cambierebbe niente. L’ideologia di Hamas e della fratellanza musulmana resta un elemento essenziale: Israele non deve esistere».

- Perché Netanyahu non viene fermato visto che non tutti in Israele vogliono la guerra?
  «Israele è una democrazia. Ci sono milioni di persone che vogliono che Netanyahu vada via perché vuole salvare solo se stesso: sono speculazioni, un’idea di complotto. Il dibattito in Israele riguarda la politica nazionale domestica portata avanti da Netanyahu e in particolare sui suoi progetti prima della guerra, e non c’è alcun dibattito sulla necessità di distruggere Hamas. Ho avuto l’immenso onore di essere scelto dalle famiglie degli ostaggi, per il discorso settimanale che viene tenuto ogni sabato nella piazza degli ostaggi. Ho visto i famigliari degli ostaggi, li ho ascoltati, alcuni di loro sono amici: però per quanto riguarda la distruzione di Hamas e di hezbollah, in Israele non c’è alcun dissenso. In realtà c’è un dibattito strategico: dobbiamo recuperare gli ostaggi prima e distruggere Hamas dopo o dobbiamo agire contemporaneamente. Questo è il dibattito in corso in Israele. Personalmente sono per la liberazione degli ostaggi. Mi piacerebbe che si potesse fare prima una cosa prima e dopo l’altra, ma non credo sia possibile. Ritengo che gli uomini di Hamas siano dei mostri ma non totalmente stupidi. Non li vedo liberare gli ostaggi ed essere battuti».

- Nell’eventuale post-Hamas, come pensa reagirebbe il popolo palestinese?
  «Credo che il popolo palestinese si risveglierebbe e capirebbe di essere stato condotto in un vicolo cieco. Sarebbe un po’ come i tedeschi dopo il 1945. Un intero popolo che era stato stregato, si risveglia e finalmente capisce che non c’è alcuna altra soluzione se non quella del dialogo, dell’accettazione dell’altro e della condivisione della terra. Quel giorno, tutto sarà possibile».

- Il nuovo presidente americano saprà porre fine alla guerre in Israele e in Ucraina?
  «I due candidati non dicono la stessa cosa. Uno non è pro Ucraina, ed è Trump. Sono reduce da una visita negli Stati Uniti, dove ho fatto un giro di presentazioni. Ho ascoltato e ho capito che fra i due candidati ci sono differenze immense, tuttavia non credo che potrà esserci un’intesa amichevole apprezzabile in Medio Oriente. In Ucraina penso possa andare diversamente: è un fronte in cui si gioca la pace mondiale».

(Gazzetta di Parma, 2 ottobre 2024)

........................................................


La svolta della guerra: è iniziata l’operazione di terra in Libano

di Ugo Volli

• L’ATTACCO DI TERRA
  La notte scorsa è partita la tanto attesa operazione di terra delle forze armate israeliane in Libano, partendo dal “dito” di Kiryat Shmona e Metula, alle pendici occidentali del Monte Hermon. Con un forte appoggio di artiglieria e la copertura dell’aviazione, le truppe della divisione 98 hanno attaccato finora 21 villaggi, roccaforti di Hezbollah e già abbandonati dalla popolazione civile. Come ha dichiarato un comunicato dello stato maggiore, “in conformità con la decisione dei vertici politici, le forze armate di Israele hanno avviato poche ore fa un’operazione di terra mirata e delimitata nel sud del Libano contro obiettivi terroristici e infrastrutture dell’organizzazione terroristica di Hezbollah, in una serie di villaggi vicino al confine, che rappresentano un pericolo immediato e una vera minaccia per i villaggi israeliani al confine settentrionale. I reparti operano secondo un piano elaborato dallo Stato Maggiore Generale e dal Comando Nord, per il quale si sono addestrati e preparati negli ultimi mesi. Le forze di terra sono accompagnate nell’attacco dall’aviazione e dall’artiglieria, che attaccano obiettivi militari nella zona in coordinamento con i combattenti delle forze di terra. L’operazione Frecce del Nord continua contemporaneamente ai combattimenti a Gaza e in altri fronti.”

• LA REAZIONE AMERICANA
  Il punto chiave e politicamente delicato in questo comunicato è la qualificazione dell’attacco come “mirato e delimitato”. A queste condizioni Israele ha ottenuto l’appoggio degli Stati Uniti, fondamentale per prevenire una reazione iraniana. C’è stato infatti un comunicato importante dalla Casa Bianca, in cui si dice che le azioni mirate di Israele in Libano fanno parte del suo diritto a difendersi: “Comprendiamo che gli israeliani effettueranno azioni limitate per distruggere le infrastrutture di Hezbollah che potrebbero minacciare i cittadini israeliani. Ciò rientra nel diritto di Israele di proteggere i suoi cittadini e di consentire loro di tornare sani e salvi alle loro case. Sosteniamo il diritto di Israele di difendersi contro Hezbollah e altri affiliati iraniani.”

• LE RAGIONI DELL’OPERAZIONE
  Ci si può chiedere se l’attacco alle postazioni terroristiche del Libano meridionale fosse necessario dopo la distruzione del vertice di Hezbollah realizzata negli ultimi dieci giorni. La risposta è sì, che a Hezbollah rimangono decine di migliaia di truppe e molte armi avanzate, in particolare missili di precisione. Anche se Israele ha bloccato i rifornimenti all’organizzazione terroristica che potevano arrivare per via aerea dall’Iran e per via di terra dalla Siria, la capacità potenziale del gruppo terroristico di attaccare Israele è ancora alta. Era importante approfittare del suo stato di shock e di disorganizzazione, conseguente ai colpi subiti in questi giorni, per distruggere le istallazioni e i depositi militari ancora esistenti e non raggiungibili dall’aviazione perché nascosti in tunnel sotterranei e anche per eliminare le truppe accumulate da Hamas al confine israeliano. L’operazione mira, insomma, a smantellare la potenza militare di Hezbollah e a garantire la possibilità del ritorno a casa per le decina di migliaia di israeliani fatti sfollare in questi mesi dai bombardamenti di Hezbollah.

• GLI ALTRI TEATRI DI GUERRA
  Contemporaneamente all’operazione di terra, la notte scorsa vi sono stati anche intensi bombardamenti nella periferia meridionale di Beirut contro depositi di armi sotto edifici residenziali, bombardamenti anche a Tiro e Sidone sulla costa meridionale del Libano, e diversi attacchi aerei a Damasco contro capi di Hezbollah, delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran e di altre organizzazioni terroristiche. Durante il giorno sono anche continuate le azioni a Gaza, dove c’è stato un attentato di Hamas che ha ferito gravemente un soldato israeliano, ma è stata catturata l’ennesima scuola trasformata in deposito d’armi e centro d’attacco. Finora le reazioni da parte dell’asse terrorista sono state scarse. Dopo la decina di missili abbattuti ieri nell’area di Haifa, i mezzi israeliani hanno abbattuto un drone, forse sparato dagli Houti, che puntava nella zona di Tel Aviv.

• CORAGGIO
  Non c’è dubbio che questa operazione, insieme ai colpi decisivi inferti a Hezbollah nelle scorse due settimane, possa costituire la svolta della guerra. Israele è tornato all’offensiva anche al nord, non si limita più a ricambiare i colpi, ma opera strategicamente per la vittoria. C’è voluto molto coraggio per superare i timori e i freni che venivano dall’amministrazione americana, per non parlare dell’ostilità del resto del mondo: ancora ieri notte Josep Borrell, ministro degli Esteri dell’Unione Europea per fortuna in scadenza, ha dichiarato che l’UE vuole rafforzare l’esercito libanese come elemento di stabilità della regione. Peccato che l’esercito libanese, al primo annuncio dell’operazione israeliana, si sia immediatamente ritirato, dopo non aver fatto nulla contro Hezbollah da decenni. E c’è voluto molto coraggio per intraprendere questa operazione, perché già nel 2006, durante la seconda guerra del Libano, l’esercito israeliano ha avuto molte difficoltà nelle strette valli di montagna del Libano meridionale e ora esse sono ancora più difficili, densamente fortificate da Hezbollah. Proprio per questo l’operazione, che i terroristi aspettavano e sfidavano da tempo, è stata attuata solo dopo lo smantellamento della catena di comando e di comunicazione.

• IL FUTURO
  Israele non ha ambizioni sul Libano. Se tutto andrà bene, ci vorranno alcune settimane per ripulire a fondo la zona di confine, che era già interdetta a Hezbollah dalla risoluzione 1701 dell’Onu. È possibile che le forze israeliane debbano andare oltre i villaggi di confine, fino al fiume Litani, per stabilire una zona libera dal terrorismo. Difficile però che arrivino a Beirut, come è difficile che si fermino a presidiare la zona liberata. Più facilmente si riserveranno il diritto di entrare a smantellare ogni nuovo insediamento terrorista. La situazione potrebbe complicarsi se l’Iran cercasse di intervenire direttamente per salvare qualcosa del suo strumento militare imperialista più importante, com’era Hezbollah. Ma non sembra probabile. Israele ha dichiarato e mostrato coi fatti di essere in grado di raggiungere le istallazioni atomiche e i terminali petroliferi da cui gli ayatollah traggono buona parte dei loro fondi. E non è detto che nelle circostanze opportune non possa farlo autonomamente. Netanyahu si è rivolto ieri, con un messaggio poco prima dell’operazione, al popolo iraniano, dicendo che non vi è odio fra Israele e gente della Persia e che, se gli iraniani si libereranno dalla cricca di fanatici che li governa, potrà sorgere un tempo di amicizia e di prosperità. Anche questo è un coraggioso programma d’azione.

(Shalom, 1 ottobre 2024)

........................................................


Dopo 24 anni Israele onora la sua promessa

24 anni dopo il ritiro dal Libano, Israele sta tornando. Con un'offensiva di terra contro le posizioni di Hezbollah nel sud del Libano, l'IDF vuole ripristinare la sicurezza nel nord.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Quando 24 anni fa, nel giugno 2000, Israele lasciò la zona di sicurezza del Libano meridionale, molti politici di spicco, tra cui l'allora primo ministro israeliano Ehud Barak, promisero di invadere nuovamente il Libano o di "raderlo al suolo" al primo attacco missilistico proveniente dal Libano.
Gli attacchi contro Israele cominciarono nelle prime settimane successive e non accadde nulla. Come promemoria, 950 soldati israeliani sono morti in Libano dall'invasione del giugno 1982, di cui oltre 600 nella guerra del Libano. Quello è stato il mio tempo e la mia guerra come giovane soldato in Libano. Ora Israele e i nostri figli devono tornare e probabilmente riprendere la zona cuscinetto fino al fiume Litani. Se il governo e l'esercito libanese non sono in grado di onorare la loro promessa e di assicurare la calma nel sud, come avevano promesso a Israele, anche sei anni dopo la seconda guerra del Libano con la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, allora nessuno dovrebbe sorprendersi che Israele sia tornato in Libano oggi. Meglio tardi che mai. Ma Israele deve stare molto attento a non sprecare questo slancio militare. Il Libano è più pericoloso della Striscia di Gaza.
L'operazione di terra contro gli obiettivi terroristici di Hezbollah nel sud del Libano è iniziata ufficialmente nelle prime ore di questa mattina. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha autorizzato l'operazione ieri sera e diverse unità speciali hanno iniziato a operare nel sud del Libano durante la notte. Le forze di terra dell'IDF, supportate dall'aviazione e dall'artiglieria, stanno attaccando obiettivi militari nella regione in un'operazione coordinata con le forze di terra. Prima dell'inizio dell'operazione, l'esercito ha invitato gli abitanti dei villaggi libanesi vicini al confine con Israele ad evacuare. Chiunque si trovi nell'area è considerato un terrorista di Hezbollah. Già ieri l'esercito libanese si era ritirato da alcune posizioni lungo il confine meridionale, a circa cinque chilometri dal confine libanese-israeliano, su richiesta delle truppe UNIFIL.
Fonti della sicurezza israeliana spiegano che la tempistica dell'operazione mira a capitalizzare lo slancio dei successi ottenuti contro Hezbollah in Libano nelle ultime due settimane per distruggere le strutture operative di Hezbollah lungo la barriera di confine con Israele. Queste includono tunnel e postazioni d'attacco che facevano parte del piano di Hezbollah per infiltrarsi in alcune aree della Galilea e catturare le comunità israeliane e le basi dell'IDF - in modo simile all'attacco di Hamas alle comunità israeliane di confine intorno a Gaza il 7 ottobre dello scorso anno. Questa è la minaccia immediata per le comunità del nord che deve essere eliminata in modo che le decine di migliaia di israeliani evacuati possano tornare in sicurezza alle loro case.
Un'altra minaccia per le comunità al confine è il lancio di missili anticarro da parte di Hezbollah verso le case delle città israeliane dal confine, per il quale l'IDF deve trovare una soluzione in tempi brevi. Secondo le stime dell'esercito, l'operazione durerà diverse settimane e, a seconda dell'evoluzione della situazione, potrebbe essere estesa all'area del fiume Litani per eliminare ulteriori infrastrutture terroristiche e combattenti nascosti di Hezbollah.
Negli ambienti politici si vocifera che Israele attualmente preferisca un'operazione limitata e temporanea a causa delle pressioni internazionali, senza rimanere in modo permanente nel Libano meridionale. Parallelamente alle attività militari, si stanno intensificando gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo politico nel Libano meridionale, che dovrebbe consentire il ritiro delle truppe dell'IDF al termine della loro missione.
Gli ambienti della sicurezza ipotizzano anche che l'esercito alla fine dovrà cambiare i suoi piani e preparare l'istituzione di una zona di sicurezza permanente nel sud del Libano per impedire il ritorno dei terroristi di Hezbollah al confine. L'esercito israeliano era già stato presente nella zona di sicurezza del Libano meridionale per 18 anni, fino al suo ritiro nel 2000, quando tutti i principali politici del Paese assicurarono che le truppe israeliane sarebbero rientrate non appena il primo razzo fosse stato sparato di nuovo contro Israele. Ciò avvenne nei primi mesi successivi e non accadde nulla. Oggi, 24 anni dopo, Israele sta onorando la sua promessa.Il governo statunitense respinge l'invasione del Libano meridionale da parte dell'IDF e chiede a Israele di ritirarsi e di raggiungere un cessate il fuoco in Libano e nella Striscia di Gaza per consentire lo scambio di ostaggi. La pressione internazionale su Israele aumenterà nei prossimi giorni. I libanesi stanno già segnalando la loro disponibilità a raggiungere un accordo politico. Il presidente del parlamento libanese Nabih Berri, vicino a Hezbollah, ha dichiarato questa mattina al quotidiano Asharq Al-Awsat che il Libano è impegnato a rispettare gli accordi raggiunti dal mediatore statunitense Amos Hochstein su un processo politico che porti a un cessate il fuoco con Israele e all'attuazione della Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite.
I negoziati sono importanti, ma solo durante i combattimenti e non durante il cessate il fuoco. Oggi, dopo quasi 25 anni in cui le milizie terroristiche sciite hanno tenuto in ostaggio l'intero Libano dal punto di vista politico e sociale, questo è un sollievo per gli altri gruppi etnici del Libano, come i cristiani, i sunniti e i drusi. Se il Libano vuole davvero iniziare una nuova era e liberarsi delle milizie terroristiche sciite, deve lavorare dietro le quinte con Israele per creare una nuova speranza per entrambi i Paesi.

(Israel Heute, 1 ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Il messaggio di Herzog: Siamo un popolo forte

FOTO
Si avvicina l’anniversario del 7 ottobre e la terra in Israele «trema ancora». «Le nostre ferite non possono ancora guarire completamente perché sono ancora aperte. Perché gli ostaggi vengono ancora torturati, giustiziati e muoiono in prigionia. Perché decine di migliaia di famiglie non possono ancora tornare a casa. In molti sensi, tutti noi stiamo ancora vivendo le conseguenze del 7 ottobre», afferma il presidente d’Israele Isaac Herzog in un messaggio inviato alla vigilia del nuovo anno ebraico alle comunità ebraiche della Diaspora per ricordare l’anniversario delle stragi di Hamas.
  La minaccia di Hamas, di Hezbollah e del loro principale finanziatore, l’Iran, assieme all’ondata di antisemitismo nel mondo fanno ancora parte del presente, sottolinea Herzog.
  In questo momento di fragilità, di dolore e lutto, «dobbiamo ricordarci chi siamo: Un popolo con la forza di continuare a resistere sempre e comunque contro l’odio». Quest’anno «ci ha costretti a tornare alle verità fondamentali del nostro essere popolo. Ci ha costretti a riconnetterci gli uni con gli altri e a riprendere il cammino di responsabilità collettiva e di giustizia sociale che sono la nostra eredità spirituale».
  Per affrontare gli effetti del 7 ottobre sono nate migliaia di iniziative di solidarietà in Israele e nella Diaspora, ricorda Herzog. «Inoltre non abbiamo abbandonato il nostro profondo desiderio e la nostra aspirazione alla pace con i nostri vicini. E continuiamo a mantenere questo obiettivo, anche se insistiamo sul fatto che noi ebrei meritiamo di sentirci al sicuro e di essere al sicuro, indipendentemente dal luogo in cui viviamo». Per il presidente israeliano ad essere d’ispirazione devono essere «il coraggio e la bellezza di tutti coloro che abbiamo perso» in questo anno difficile. In loro memoria «non smetteremo di credere che un mondo migliore sia possibile».
  A chiusura del suo messaggio, Herzog recita una preghiera in ebraico: «Adonai Oz Lamo Yiten. Adonai Yivarech Et Amo, BaShalom». «Che Dio dia forza a tutto il Suo popolo. Che Dio benedica il Suo popolo con la pace».

(moked, 1 ottobre 2024)

........................................................


Tirare dritto

di Davide Cavaliere

Tutti coloro che condannano le azioni dello Stato ebraico volte a contrastare la minaccia rappresentata dall’antisemitismo apocalittico di Hezbollah e Hamas, considerano Israele un progetto criminale e «coloniale». Quando si nutre un odio intenso e irrazionale per una nazione, ma per galateo e convenienza non si può chiederne direttamente la cancellazione dalle mappe, allora si invita quella nazione ad abbassare le armi, a diminuire le difese e a non reagire alle «provocazioni» – anche se si tratta di «provocazioni» mortali.
No, non siamo ancora alla vittoria totale, quella che Benjamin Netanyahu ha promesso a Israele a seguito dell’eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas, c’è ancora molto lavoro da fare, ma il fatto evidente, incontrovertibile è il cambio di marcia.
Nel giro di poche settimane, dopo un lungo, quasi interminabile anno in cui il paese è stato sottoposto a un assedio senza precedenti con sette fronti militari aperti, più un ottavo, non meno temibile e insidioso, come ha sottolineato qui David Elber il ruggito di Israele si sente forte e chiaro.
La decimazione del vertice di Hezbollah con l’eliminazione a sorpresa del lord of terror Hassan Nasrallah, il massiccio bombardamento dei suoi arsenali che continua e continuerà, a cui è seguita ieri l’incursione aerea in Yemen per mettere in ginocchio la linea di rifornimento degli Houti, ha messo Teheran con le spalle al muro, ha pietrificato l’anziano Khamenei, il quale, pateticamente, invoca l’unità inesistente del mondo musulmano contro “l’entità sionista” (e quanto sia unito si è visto con festeggiamenti in Iran e in Siria per la morte di Nasrallah e l’ancora più eloquente silenzio tombale proveniente dal mondo arabo sunnita con in testa a tutti l’Arabia Saudita).
Sì, c’è ancora della strada to finish the job, come esortava tempo fa Donald Trump e più recentemente ha esortato suo genero Jared Kushner, uno degli artefici degli Accordi di Abramo. A Gaza sono ancora prigionieri 117 ostaggi, non si sa quanti di loro vivi, Yayha Sinwar non è stato eliminato, e Hezbollah è tuttora operativo, ma, come un pugile barcollante sul ring prima del ko, l’asse del terrore guidato da Teheran non è in grado di rispondere.
Proprio in un momento come questo, quando il vento soffia in poppa, bisogna evitare di cingersi frettolosamente il capo con l’alloro, e fingere, per scaramanzia, di essere solo all’inizio del cammino anche se in realtà si è molto avanti. Intanto, Benjamin Netanyahu, l’uomo dalle molte vite, che i suoi nemici sparsi ovunque davano per spacciato, incassa l’ingresso nel governo del vecchio e aspro rivale Gideon Sa’ar, fortificandolo e allontanando lo spettro di elezioni anticipate che una opposizione irresponsabile appoggiata da Washington ha cercato insistentemente di provocare in questi mesi.

(L'informale, 30 settembre 2024)

........................................................


Sa’ar entra nel governo, Bibi meno ricattabile da destra

Appena rientrato da New York, dopo il suo intervento all’Onu e con in mano il successo dell’eliminazione del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiamato l’ex rivale Gideon Sa’ar. I due hanno concluso un accordo che allarga la maggioranza (da 64 a 68 seggi in parlamento) e permette a Netanyahu di consolidare la sua posizione. Ora il premier sarà meno condizionato dalle pressioni del ministro della Pubblica sicurezza, Itamar Ben-Gvir, e dal peso dei suoi sei seggi alla Knesset. «Apprezzo il fatto che Gideon Sa’ar abbia risposto alla mia richiesta e abbia accettato di entrare nel governo. Questa mossa contribuisce all’unità tra di noi e alla nostra unità di fronte ai nemici», ha dichiarato il premier.
  Per Sa’ar e il suo partito Nuova Speranza si tratta di una seconda volta. Avevano già fatto parte del governo di unità nazionale nato dopo il 7 ottobre. A marzo però Sa’ar aveva dato le sue dimissioni, contestando alcune scelte sulla gestione del conflitto. Ora rientra con una posizione più influente: farà parte del gabinetto di sicurezza di Netanyahu, l’organo in cui si decidono le strategie contro Hamas e Hezbollah. Per il momento Sa’ar sarà ministro senza portafoglio. Sperava di sostituire alla Difesa Yoav Gallant, ma l’opzione è sfumata la settimana scorsa. Quando i media locali hanno rivelato il possibile siluramento di Gallant, l’opinione pubblica ha contestato la scelta e Sa’ar ha fatto un passo indietro. Il cambio però, scrive l’emittente Kan, potrebbe avvenire più avanti visto lo scontro aperto tra l’attuale ministro della Difesa e il premier.
  «Non ha senso continuare a stare all’opposizione, dove sulla questione della guerra la maggior parte delle posizioni sono diverse, persino lontane dalle mie. In questo momento, è mio dovere cercare di contribuire al tavolo dove si prendono le decisioni», ha dichiarato Sa’ar, definendo la sua decisione di unirsi al governo come «patriottica». Sa’ar è tra i contrari a un accordo con Hamas per lo scambio degli ostaggi in cambio di un cessate il fuoco. Per questo il suo ingresso nel governo è stato commentato con preoccupazione dal Forum delle famiglie degli ostaggi, che vorrebbe al più presto un’intesa per poter riportare a casa i 101 rapiti ancora prigionieri a Gaza.
  Oltre alle decisioni sul conflitto, il voto di Sa’ar e degli altri tre parlamentari di Nuova Speranza potrebbe incidere in futuro su altri due punti: la controversa riforma della giustizia, al momento congelata, e la legge per la coscrizione degli studenti delle scuole religiose. Su quest’ultima si giocherà la tenuta dell’intera coalizione, vista la contrarietà dei partiti religiosi. Senza i loro 14 seggi, Netanyahu non ha la maggioranza.

(moked, 30 settembre 2024)

........................................................


Un altro miracolo compiuto da Israele

La guerra non è finita, ma a quasi un anno dall'attentato del 7 ottobre 2023, il popolo di Israele sta rinnovando la propria storia.

di Fiamma Nirenstein

Il prossimo 7 ottobre non sarà un anniversario di sole lacrime, di pura contrizione anche se la memoria è cocente. Il popolo d'Israele vive! E non era affatto scontato. Tutta la sua storia è fatta di miracoli: per salvarlo dal faraone si deve aprire il mare; dall'Inquisizione, dai pogrom, dalle altre aggressioni genocide; l'uscita è sempre incredibile e gli ebrei ne sono usciti fedeli a se stessi e alla tradizione Torah, e al ritorno a Gerusalemme, finché l'hanno realizzato. Il 1948 fu una guerra combattuta da reduci dei campi di concentramento eppure abbiamo vinto tutti gli eserciti arabi uniti nell'odio che ci marciarono addosso; e più avanti nel '67, nel '73... Tutte guerre vinte per un pelo, colpi di fantasia miracolosi, leader con idee salvifiche. Oggi nessuno avrebbe puntato un euro sull'idea che si potesse eliminare Nasrallah e tutta la sua gerarchia, pietrificando l'Iran cui abbiamo ridotto a pezzi anche l'altro proxy favorito, Hamas. E adesso abbiamo bombardato a 2mila chilometri di distanza l'altro suo incaricato speciale, gli Houthi, distruggendogli l'aeroporto da cui riceve armi e aiuti. Khamenei è nascosto sotto terra, gli sciiti iracheni e siriani aspettano il loro turno, le cinque capitali controllate da Teheran tremano. È una misura di giustizia come ha detto Biden, Israele se l'è costruita col suo stile impossibile, difendendo i suoi fra mille divieti e senza paura di fantasticare. Solo così si difende uno Stato giovane, attaccato da ogni parte. La guerra non è finita, Hezbollah aveva 100mila uomini: Netanyahu sa che la deve portare fino in fondo, nonostante la pressioni internazionali. Adesso ha capito che la sua stessa esistenza è a rischio se non ci sarà un «nuovo Medioriente». Strano, era il modo in cui Shimon Peres chiamava quello che doveva nascere da un accordo che si è rivelato fallimentare: per stabilire la pace che Israele ama più di se stesso, ha capito che anche la guerra deve essere vera, fino in fondo, altrimenti vince e ti uccide chi non la vuole. Questa è la lezione del nostro tempo per tutti.
  Il popolo ebraico è il capofila di una pagina di storia in cui il mondo libero deve combattere al suo fianco, per la sopravvivenza. Per ora ha eliminato le due formazioni terroriste più pericolose del mondo: Hamas e Hezbollah. E sfida l'Iran. Vorrei sentire gli applausi, prego.

(il Giornale, 30 settembre 2024)
____________________

"Il popolo ebraico è il capofila di una pagina di storia in cui il mondo libero deve combattere al suo fianco, per la sopravvivenza", afferma in tono lirico l'autrice aspettandosi gli applausi. Ancora una volta questa giornalista si fa prendere dall'entusiasmo e immagina un Israele "capofila" di popoli in un programma di salvezza del mondo da qualche cosa. In questo caso si tratta della sopravvivenza del "mondo libero". Qualche anno fa il mondo sarebbe stato salvato dal mortale pericolo del Covid tramite "il miracolo della vaccinazione" che sarebbe avvenuto per il ruolo di leader mondiale assunto da Israele nella trattazione dei vaccini 8 (ved.). Israele farebbe bene a guardarsi da certe autocelebrazioni. M.C.

........................................................


Gli errori di valutazione di Hassan Nasrallah

La guerra di Hezbollah gli si è ritorta contro, ampie zone del Sud sono distrutte e centinaia di migliaia di sciiti sono sulla strada o sostanzialmente rifugiati nel loro Paese

di Yaroslav Trofimov

Settimane dopo l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre, il leader del gruppo terrorista libanese Hezbollah ha tenuto un discorso fragoroso per spiegare perché i suoi uomini si stavano unendo alla lotta contro il “nemico sionista”.
Israele «trema e trema per la paura, più debole di una tela di ragno», ha detto Hassan Nasrallah. A differenza dei precedenti conflitti con lo Stato ebraico, questa guerra «è storica e decisiva» e tutti i movimenti di resistenza sostenuti dall’Iran, dal Libano alla Siria, all’Iraq e allo Yemen, hanno il dovere di partecipare.
Oggi Nasrallah è morto, così come gran parte dei vertici di Hezbollah. Il resto dell’organizzazione è stato decimato da una serie di colpi che hanno messo in luce una sorprendente penetrazione dell’intelligence israeliana.
In retrospettiva, questo è stato il risultato di due errori strategici commessi da Nasrallah: sottovalutare grossolanamente Israele, il suo nemico, e sopravvalutare le capacità del suo patrono, l’Iran, e della sua rete di gruppi terroristi alleati nella regione.
Hezbollah possiede un vasto arsenale di missili e razzi, compresi missili balistici a guida di precisione. L’obiettivo era quello di scoraggiare un’escalation israeliana. Finora le sue armi non hanno inflitto danni significativi a Israele.
Migliaia di persone sono state uccise in Libano dal 16 settembre, secondo il ministero della Sanità libanese, durante la campagna israeliana per porre fine agli attacchi di Hezbollah che hanno costretto decine di migliaia di persone a lasciare le loro case nel nord di Israele. Dal 19 settembre, nessun israeliano è morto a causa degli attacchi di Hezbollah.
«Abbiamo visto una cosa molto importante negli attuali scontri: Sebbene Hezbollah si comporti come un esercito, non è all’altezza di Israele in termini di potenza di fuoco, di potenza aerea, di intelligence e di tecnologia», ha dichiarato Fouad Siniora, un critico del gruppo sostenuto dall’Iran che era primo ministro del Libano quando Hezbollah e Israele hanno combattuto una guerra nel 2006.
L’Iran, nel frattempo, ha dimostrato che il suo concetto di “unità dei fronti” è a senso unico: i suoi alleati nella regione dovrebbero versare sangue per il regime iraniano, ma senza alcuna reciprocità da parte di Teheran. «L’Iran è pronto a combattere fino all’ultimo libanese», ha detto Siniora.
Mentre Hezbollah è diventato vittima della sua stessa arroganza, Israele rischia ora di cadere in una trappola simile, soprattutto se lancia un’invasione di terra del Libano e tenta di ridisegnare la composizione politica del Libano. L’invasione del Libano nel 1982, che mirava a questo scopo, ha portato alla creazione di Hezbollah e a un’occupazione prolungata che si è conclusa con il ritiro unilaterale di Israele dal Libano meridionale nel 2000. Israele ha eliminato il predecessore di Nasrallah, Abbas Musawi, nel 1992.
Nonostante la morte di Nasrallah e di molti alti comandanti, Hezbollah conserva ancora migliaia di combattenti ben addestrati e un grande arsenale che potrebbe usare per infliggere perdite significative sul terreno preparato nelle sue roccaforti del Libano meridionale.
«Hezbollah non può che aspettare che Israele inizi a operare sul terreno nel sud del Libano, perché quel momento potrebbe diventare per loro una svolta, un punto di svolta che gli permetterebbe di risorgere dalle ceneri e di riconquistare ancora una volta il sostegno della società libanese in generale», ha ammonito Ksenia Svetlova, ex legislatore israeliano e senior fellow non residente presso l’Atlantic Council.
Mentre i comandanti israeliani sono consapevoli dei pericoli dei combattimenti a terra – e ricordano le perdite della campagna del 2006 – il problema politico è che l’obiettivo dichiarato di Israele – il ritorno di circa 60.000 israeliani sfollati dagli attacchi di Hezbollah dalle aree lungo il confine – è difficile da raggiungere con la sola potenza aerea. Nonostante i recenti colpi, Hezbollah si rifiuta di fermare il fuoco transfrontaliero senza che Israele accetti anche un cessate il fuoco con Hamas a Gaza. «Non possono farlo, sarebbe una sconfitta umiliante per loro», ha dichiarato Eyal Zisser, specialista della regione e vice rettore dell’Università di Tel Aviv.
Il drammatico indebolimento di Hezbollah crea una sfida particolare per l’Iran, che ha fatto affidamento sui missili e sui razzi del gruppo libanese come deterrente contro qualsiasi potenziale attacco israeliano al proprio programma nucleare.
«È una trasformazione per la regione, perché Hezbollah non è solo un altro proxy dell’Iran. Fa parte della dottrina difensiva dell’Iran e del suo principale strumento di deterrenza contro Israele», ha detto Michael Horowitz, responsabile dell’intelligence della società di consulenza Le Beck International. «Questo mette l’Iran in una posizione molto difficile, perché Hezbollah è stato costruito per difendere l’Iran, ma ora l’Iran si trova di fronte al dilemma di dover potenzialmente difendere Hezbollah».
I calcoli dell’Iran – a meno di due mesi dall’eliminazione da parte di Israele del leader di Hamas Ismail Haniyeh in una foresteria governativa – sono ulteriormente complicati dall’incertezza sull’esatta penetrazione di Israele nel proprio apparato di sicurezza. L’Iran, che è sottoposto a sanzioni occidentali, deve procurarsi gran parte delle sue attrezzature e dei suoi componenti attraverso loschi intermediari. Secondo gli analisti militari, Israele, che si è infiltrato nella catena di approvvigionamento di Hezbollah per riempire di esplosivo i suoi walkie-talkie e i suoi cercapersone, potrebbe aver interferito in modo analogo con le reti di comunicazione o le armi iraniane.
Con il nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, che sta tentando una “offensiva di fascino” in Occidente e un possibile ritorno ai negoziati nucleari che allevierebbero le sanzioni sulla martoriata economia iraniana, è probabile che Teheran si astenga da azioni dirette a favore di Hezbollah, ha detto Vali Nasr, professore alla Johns Hopkins University School of Advanced International Studies ed ex consulente senior del Dipartimento di Stato.
«Lo stato d’animo di Teheran è sempre stato quello di non abboccare all’amo. Sanno che Israele vuole la guerra ora, perché ha un vantaggio militare e di intelligence, perché c’è un vuoto politico negli Stati Uniti e perché la Marina statunitense è seduta nel Mediterraneo», ha detto Nasr. «L’Iran non è pronto in questo momento perché non è il momento giusto. Ma ci sarà il momento giusto».
L’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha ucciso quasi 1.200 israeliani e ha portato all’invasione di Gaza che ha causato decine di migliaia di morti palestinesi, è stato un umiliante fallimento di intelligence per Israele. Eppure, uno dei motivi per cui Israele non ha tenuto d’occhio Gaza è stato proprio perché, fin dal 2006, i servizi militari e di intelligence israeliani si sono concentrati su quella che consideravano una guerra inevitabile con Hezbollah. La sequenza di attacchi di settembre ha mostrato quanto profondamente Hezbollah fosse stato infiltrato e ha contribuito a ripristinare la reputazione offuscata dell’intelligence israeliana.
«Questi attacchi sono enormemente devastanti per Hezbollah dal punto di vista pubblico e operativo, ovviamente. Ma non è chiaro che cosa emergerà da questa nuova situazione», ha dichiarato Andrew Tabler, ex funzionario della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato che si occupa di Medio Oriente e che ora è senior fellow presso il Washington Institute for Near Eastern Policy. «Cambia davvero la situazione strategica? Non è detto».
Hezbollah, naturalmente, non è scomparso e il movimento conserva migliaia di combattenti e una parte significativa del suo arsenale. «Le capacità della resistenza sono ancora intatte, nonostante la battuta d’arresto ricevuta dagli israeliani. Se questa follia non si ferma, Israele potrebbe avere un brusco risveglio», ha avvertito Kamel Wazne, analista politico di Beirut.
Ma ciò che Hezbollah ha chiaramente perso all’interno del Libano è l’aura di invincibilità che gli ha permesso di controllare essenzialmente lo Stato libanese. Il Paese è senza presidente dall’ottobre 2022 a causa dell’ostruzionismo di Hezbollah e dei suoi alleati che hanno impedito al Parlamento di tenere una votazione.
Hezbollah sta ora rischiando la sua posizione con la sua base all’interno della comunità sciita libanese, soprattutto perché i residenti delle aree a maggioranza sciita nel sud e nella Valle della Bekaa stanno fuggendo dalle loro case a causa degli attacchi aerei israeliani.
«La guerra di Hezbollah gli si è ritorta contro, ampie zone del Sud sono distrutte e centinaia di migliaia di sciiti sono sulla strada o sostanzialmente rifugiati nel loro Paese. Come fa Hezbollah a garantire di non perdere queste persone?», ha detto l’analista politico libanese Michael Young. «L’altro problema è che, a livello interno, Hezbollah è isolato quando si tratta di aprire un secondo fronte con Israele. In molte comunità, ora c’è una certa dose di schadenfreude nei confronti di ciò che sta accadendo».

(Rights Reporter, 30 settembre 2024)

........................................................


Michael Di Porto: “L’orgoglio di essere ebreo, sionista e senza paura”

di Michelle Zarfati 

A volte un gesto, anche piccolo, può far rumore. O musica, come in questo caso. Come è riuscito a fare Michael Di Porto, ventiquattrenne pieno di passioni che sabato ha intonato davanti al Colosseo la melodia di “Am Israel Chai”. Un canto di speranza, in un periodo buio e pieno di insicurezze, eseguito da un giovane ebreo senza paura. Con indosso una maglia con la scritta “Bring Them Home”, riferito agli ostaggi rapiti da Hamas, Michael nel cuore della Capitale ha fatto sentire la sua voce, e idealmente quella di tanti giovani che come lui, non hanno paura. Shalom ha intervistato Michael, che ha rivelato molto di sé, delle sue passioni ma soprattutto della sua identità ebraica.

- Cosa ti ha spinto a fare questo gesto?
  In realtà è nato tutto in modo abbastanza casuale. Ero lì semplicemente per cantare in strada un paio d’ore, ma quando ho visto il nastro giallo degli ostaggi proiettato sul Colosseo mi è venuta una gran voglia di cogliere l’occasione di fare qualcosa di unico. Ho messo subito una story su Instagram per segnalare quanto stesse accadendo, ed ho ricevuto risposta dal mio amico Benedetto Sacerdoti, Rappresentante per l’Italia del Forum delle famiglie degli ostaggi. Lui mi ha portato la maglietta con scritto “Bring Them Home”, e assieme abbiamo girato il video pubblicato ed un altro paio di backstage che usciranno prossimamente.

- Come è nata la tua passione per il canto?
  Non ho un momento preciso, la passione per il canto me la porto dietro da quando sono nato, con alti e bassi ovviamente. Non è però soltanto qualcosa di mio, ma un amore che mi è stato trasmesso dalla mia stessa famiglia. Con il canto mi diverto e riesco a coinvolgere le persone intorno a me. Inoltre, ultimamente, ho scoperto che con il busking (arte di strada) posso unire il dovere al piacere, dato che riesco a guadagnare 
  discretamente per gli standard di un semplice studente.

- E lo fai regolarmente nella tua vita?
  Ad oggi studio economia in magistrale, ma in triennale mi sono laureato in fisica ed ho passato l’ultimo anno e mezzo a fare diverse esperienze che mi sono servite per chiarirmi cosa volessi davvero dalla vita. Ho viaggiato, ho lavorato e ho passato un periodo in un moshav in Israele al confine con l’Egitto in cui ho svolto del volontariato.

- Cosa volevi comunicare questo gesto?
  Ho voluto dare voce al mio orgoglio, l’orgoglio di essere ebreo, sionista, e soprattutto di non avere paura. Sappiamo tutti che il nostro popolo sta vivendo un momento molto difficile. La situazione degli ostaggi spesso viene dimenticata dal mondo ed anche questa è stata una delle motivazioni che mi ha portato a fare questo gesto, ma come già anticipato non è l’unica. Oggi, nuovamente, non è facile essere ebrei. Il mondo è di fatto riuscito di nuovo ad odiarci: nessuno si dice antisemita, ma poi in moltissimi fanno la distinzione tra gli ebrei buoni (i pochissimi antisionisti) e gli ebrei cattivi (la stragrande maggioranza degli ebrei sionisti). Questi atteggiamenti, puramente antisemiti, rendono problematico anche soltanto comunicare agli altri la nostra identità ebraica. Dietro alla parola sionisti, coscientemente o meno, pregiudizi vecchi e nuovi vengono a galla. Per come la vedo io, il pregiudizio è legato all’ignoranza. I meccanismi dell’antisemitismo e la mancanza di conoscenza sono difficili da combattere, ma se questo è il risultato, vuol dire che necessariamente dobbiamo fare di più.

- Quindi la tua mission, attraverso la tua arte, è far conoscere la verità?
  Io la verità non ce l’ho in tasca, e non pretendo di imporre a nessuno quello che io posso pensare. Ma allo stesso tempo quello che vedo è che le persone hanno il bisogno e la necessità di confrontarsi con un ebreo. Un ragazzo che oggi dice che i “sionisti” occupano terre altrui è un ragazzo che probabilmente non ha mai parlato con un ebreo in vita sua, e che di sicuro non ha la minima idea di chi siano gli ebrei. Ed è su questo che noi dobbiamo concentrare i nostri sforzi. Al contrario, capita spesso che abbiamo l’atteggiamento opposto, invece di farci conoscere ci chiudiamo nel tentativo di proteggerci. Ci sono validissime ragioni storiche per cui abbiamo spesso questo atteggiamento; ma se pensiamo che il non ebreo non potrà mai capirci, e che arginare in modo significativo i pregiudizi ed i meccanismi dell’antisemitismo sia impossibile, allora perché siamo ancora in Italia? Andiamo direttamente tutti in Israele! Io non ho voglia di vivere in un Paese in cui comunicare agli altri una cosa normalissima, come la mia identità ebraica, sia un problema. Non ho voglia di essere costantemente non compreso dal prossimo. Non ho voglia di essere straniero in casa mia, quando tra l’altro gli ebrei hanno contribuito in modo significativo alla nascita e allo sviluppo dell’Italia. Ed anche chiudendoci tutti in Israele non credo che il problema dell’antisemitismo si risolverà. Abbiamo buoni rapporti con le istituzioni e tutto ciò è importantissimo, ma a cosa serve se poi buona parte delle persone comuni ci odia? Di fatto non abbiamo scelta, se non comunicare tutti i giorni ed in modo efficace agli altri chi siamo; soprattutto perché dall’altra parte sono invece bravissimi a farlo. Certo li aiuta il numero, ma dobbiamo allora trovare modi alternativi per avere una buona risonanza mediatica. Questo mio gesto è stato proprio un tentativo di parlare agli altri, di far vedere con orgoglio la mia identità ebraica e sionista, e anche di far vedere che un ebreo è una persona qualunque, come un semplice cantante di strada. È pericoloso? Si. Ma non abbiamo altra scelta. Dobbiamo manifestare, farci sentire e conoscere, discutere tra noi e con gli altri. Questa è e deve essere la nostra battaglia, soprattutto quando i nostri fratelli e le nostre sorelle in Israele stanno combattendo una guerra vera. Vorrei rifare flash mob come questi in futuro, e se con me ci fossero 10 ,20, 30 persone si potrebbe riuscire a veicolare il messaggio con ancora più forza. Sono finiti i tempi in cui dobbiamo nasconderci o avere paura, dunque: Am Israel Chai.

(Shalom, 30 settembre 2024)

........................................................


I comunisti in piazza esaltano Nasrallah e attaccano gli ebrei

La politica tace. Le reazioni ebraiche

Comunisti che fanno un minuto di silenzio per Nasrallah, defunto capo di un movimento terroristico e islamista, mafioso, implicato nel narcotraffico, proxy dell’IRAN che impicca i gay e uccide le donne che non indossano bene il velo: sono più stupidi e ridicoli che pericolosi, almeno si spera. Perché i loro obiettivi sono gli ebrei italiani, con nomi e cognomi, presi di mira come “agenti sionisti”. Tra questi anche la Senatrice Liliana Segre.
  Intanto a Londra i Libanesi ringraziano Israele per aver eliminato il leader di Hetzbollah che avvelena il Paese dei Cedri da troppi anni. Video clicca QUI
  Contro gli esponenti di questa frangia del movimento ProPal in piazza a Milano sabato28 settembre  sono intervenuti Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano, e Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica.
  “Quanto messo in piazza a Milano sabato 28/9 dai ‘manifestanti’ ProPal è di una gravità eccezionale. – ha detto Meghnagi – Questo purtroppo a dimostrazione di come oramai non ci sia più alcun limite che possa considerarsi insuperabile nella sua inaccettabilità. Si è creata una spirale di cieco odio antisemita e appelli genocidi ormai equiparabili a quelli di matrice nazi-fascista degli anni ’30 e 40’ dello scorso secolo. È una involuzione totale e assoluta delle sensibilità, morale e del progresso educativo e culturale che le società civili Occidentali avevano messo in atto dopo la Seconda guerra mondiale. È un ritorno ad un ‘medioevo’ che si pensava sorpassato e sublimato, ma che constatiamo con profonda angoscia e sgomento essere riemerso dai tempi bui della Storia.
  Ulteriore motivo di grossa preoccupazione è il continuo spingersi sempre più oltre nel calpestare e oltraggiare i canoni che definiscono e caratterizzano le società libere e democratiche senza che queste reagiscano subendo passivamente questi oltraggi. Questo non può che portare ad un ulteriore involuzione accompagnata da un alzamento del tiro da parte di questi gruppi. Siamo a un passo dalla caccia all’ebreo e da atti di aperta violenza nei confronti di istituzioni ebraiche religiose e non e dei loro rappresentanti.
  In virtù di quanto sopra, ma anche dell’imminenza dell’anniversario del 7/10 ritengo necessari i seguenti miei appelli al Governo e alle forze dell’opposizione:
  • Al Governo, a cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti per la comprensione ed appoggio che non ci hanno mai fatto mancare, affinché siano prese delle misure preventive e, nel caso queste venissero disattese, anche di contrasto nel caso questo tipo di “manifestazioni” dovessero realizzarsi nelle nostre piazze;
  • Ai partiti di opposizione affinché anche loro prendano le distanze dalla galassia da cui si generano queste manifestazioni e di attivarsi in maniera fattiva ad un contenimento delle loro modalità e contenuti espressi”.
  Così si è espresso il presidente della Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi, mentre Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica, ha detto:  “Siamo stufi di questa ennesima manifestazione di odio con annesse minacce personali perfino alla senatrice Liliana Segre. Mi domando come sia possibile che questo governo intervenga su tutto (dai Rave Party a chi manifesta in maniera nonviolenta nelle carceri), ma lasci liberi questi manifestanti di attaccare chi ha già pagato un prezzo incalcolabile nella propria vita ad Auschwitz. Questa gente è così spietata (alcuni di loro anche pregiudicati) da sostenere esplicitamente una organizzazione terrorista e mafiosa come Hezbollah, dedita secondo la DIA anche al narcotraffico e al riciclaggio.
  Sarebbe ora di fermare queste continue minacce in stile mafioso rivolte da diversi manifestanti Propal a cittadini italiani che non la pensano come loro”.
  Anche Roberto Cenati, già Presidente ANPI provinciale di Milano, ha voluto esprimere solidarietà alla Senatrice Segre, e non solo, con queste parole: “Esprimo la mia profonda solidarietà a Liliana Segre per il vergognoso e infame cartello esposto nel corso della manifestazione propal che ha percorso oggi le vie di Milano. Concordo pienamente con le dichiarazioni di Liliana Segre che ha definito una bestemmia sostenere che Israele sta commettendo un genocidio. La mia solidarietà va anche a Riccardo Pacifici esponente della Comunità Ebraica di Roma”.
  Ma a nessuno viene in mente  che esiste nel Codice Penale (art. 414) italiano il reato di apologia di terrorismo? Non abbiamo più avvocati e giuristi che intraprendano  un'azione legale contro gli organizzatori di queste manifestazioni?
  Intanto siamo allo sbando più totale nelle reazioni all’uccisione di Nasrallah, la politica italiana è in stato di confusione se persino il Ministro degli esteri Tajani arriva a chiedere che Israele garantisca la  sicurezza dei  militari italiani dell’Unifil. Ma non dovevano essere loro a garantire la sicurezza di Israele, del suo confine Nord impedendo le incursioni missilistiche di Hetzbollah dal Libano? Compito fallito miseramente.
  Nasrallah è stato eliminato sabato in un bombardamento contro il quartiere generale di Hetzbollah a Beirut, con bombe capaci di sfondare i bunker dove era in corso una riunione generale. L’organizzazione terroristica ha perso tutta la sua catena di comando. 

(Bet Magazine Mosaico, 29 settembre 2024)

........................................................


Medio Oriente: 'Nasrallah ucciso da Israele con una bomba Usa', Safieddine è il nuovo leader di Hezbollah

Recuperato il corpo dell'ex capo del gruppo sciita, annullati i funerali. Primo attacco in centro a Beirut, altri 105 i morti in Libano. Truppe americane in allerta. Biden: una guerra su larga scala va evitata, parlerò con Netanyahu

di Silvana Logozzo

TEL AVIV - La bomba che Israele ha usato per uccidere l'ex leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, a Beirut la scorsa settimana era un'arma guidata di fabbricazione americana: lo ha rivelato alla Nbc il senatore democratico Mark Kelly, presidente della sottocommissione Aereonautica del Senato per le forze armate Usa. Secondo Kelly, Israele ha utilizzato una Mark 84 da 900 kg.
Israele ha effettuato in nottata un attacco aereo nei pressi dell'incrocio di Kola nel centro di Beirut. Lo riferisce il Guardian precisando che è la prima volta che Israele colpisce Beirut fuori dai sobborghi meridionali dall'inizio della guerra. Il rumore dell'esplosione è stato udito in tutta la città. L'incrocio di Kola è un punto di riferimento popolare a Beirut, dove taxi e bus si riuniscono per raccogliere i passeggeri. Le prime immagini del raid mostrano due piani di un condominio completamente distrutti. Fino ad ora Israele aveva limitato i suoi attacchi sulla capitale del Libano ai suoi sobborghi meridionali.  Una fonte della sicurezza libanese ha reso noto che almeno due persone sono morte nel raid. Secondo questa fonte, "sono state uccise nell'attacco israeliano con un drone che ha preso di mira un appartamento appartenente alla Jamaa Islamiya. Questo gruppo islamista libanese sostiene Hezbollah nelle sue operazioni condotte nel nord di Israele.
Il Consiglio della Shura di Hezbollah, l'organismo decisionale centrale del gruppo sciita libanese, ha scelto Hashem Safieddine per sostituire Hassan Nasrallah come leader di Hezbollah. Lo scrive Haaretz e Al Arabya. Safieddine proviene da Deir Qanoun al-Nahr, un villaggio nel Libano meridionale, nato in una prominente famiglia sciita nota per aver prodotto influenti chierici e parlamentari. È cugino di Nasrallah e ha legami familiari con Qassem Soleimani, l'ex comandante della Forza Quds dell'Iran che è stato ucciso in un attacco aereo statunitense in Iraq nel 2020. 
I funerali di Hassan Nasrallah, previsti per domani sono stati intanto annullati.
Il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha ordinato all'esercito Usa di rafforzare la propria presenza in Medio Oriente con capacità di supporto aereo "difensive" e ha messo altre forze armate in uno stato di prontezza elevata. Austin "ha aumentato la prontezza di ulteriori forze statunitensi da schierare, elevando la nostra preparazione a rispondere a varie contingenze", ha detto il Pentagono.  "Austin ha chiarito che se l'Iran, i suoi partner o i suoi alleati dovessero usare questo momento per colpire il personale o gli interessi americani nella regione, gli Stati Uniti adotteranno tutte le misure necessarie per difendere il nostro popolo".
L'esercito israeliano ha effettuato oggi violenti raid contro le roccaforti di Hezbollah in Libano in cui sono morte almeno 105 persone. A tracciare il nuovo bilancio delle vittime è stato in serata il ministero della Salute libanese. I feriti sono 359. 

IL REPORT DELLA GIORNATA
"Chi vuol fare del male allo Stato ebraico pagherà un caro prezzo". Le parole ripetute da tempo dal premier israeliano, dal suo ministro della Difesa e dal capo dell'esercito, sono diventate realtà: nella notte tra sabato e domenica gli aerei con la stella di David (Iaf) hanno colpito duramente 'l'anello di fuoco', la strategia architettata per soffocare lo Stato ebraico dal generale iraniano Soleimani, ucciso dagli Usa nel 2020. Un piano sposato soprattutto da Hassan Nasrallah e perseguito dalle milizie in Libano, Siria, Iraq, Cisgiordania, Gaza e Yemen.
Domenica la reazione contro gli Houthi, attesa da giorni, dopo che nel mese di settembre hanno sparato missili balistici terra-terra e droni. L'esercito (Idf) ha inflitto un nuovo, possente colpo agli alleati di Teheran nello Yemen: decine di aerei hanno volato fino a 1.800 chilometri di distanza dal confine israeliano per colpire i porti di Hodeidah e Ras Issa, usati per il rifornimento di armi e petrolio. L'Iaf ha confermato di aver lanciato raid contro i siti utilizzati dal gruppo per scopi militari nel principale porto sul Mar Rosso e nel vicino terminal di Ras Issa. Quattro morti e feriti secondo le autorità locali. Preso di mira anche l'aeroporto internazionale di Hodeidah, dove i cargo degli ayatollah fanno arrivare carichi di armi. Gli stessi con cui gli Houthi da quasi un anno attaccano le navi commerciali in transito.
Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha sottolineato che "nessun posto è troppo lontano per Israele". E questo è il secondo attacco in Yemen, dopo che il 20 luglio, rispondendo a un drone lanciato su Tel Aviv, che aveva provocato una vittima, Tsahal aveva bombardato lo scalo portuale di Hodeidah che aveva provocato un incendio colossale. La rappresaglia di Benyamin Netanyahu nella giornata è continuata in Libano dove, dal 17 di questo mese, praticamente l'intera leadership di Hezbollah è stata 'eliminata'. L'Idf ha annunciato che nell'attacco di venerdì al quartier generale di Beirut del gruppo fondamentalista libanese oltre al leader del partito di Dio sono stati uccisi anche 20 comandanti, tra cui Ali Karaki, comandante del fronte meridionale, Ibrahim Hussein Jazini, capo della sicurezza personale di Nasrallah, il consigliere Samir Tawfiq Deeb, Abd al-Amir Muhammad Sablini, responsabile del rafforzamento delle forze militari, Ali Nayef Ayoub, capo della potenza di fuoco di Hezbollah. L'Idf ha pubblicato una mappa dell'area bombardata dove a soli 53 metri c'era una scuola gestita dalle Nazioni Unite. I media libanesi invece hanno mostrato il video con il recupero del cadavere di Nasrallah, 'intatto', tirato fuori dal cratere lasciato dalle bombe anti bunker dell'Idf. Non solo: nella notte tra sabato e domenica i caccia israeliani hanno di nuovo preso di mira la roccaforte sciita uccidendo Nabil Kawak, comandante dell'unità di sicurezza dei miliziani e membro del Consiglio centrale esecutivo. I piloti dell'Iaf hanno poi puntato il mirino sulla Siria, a Homs, dove hanno centrato, secondo il Centro di monitoraggio dei diritti umani, un veicolo con milizie irachene filo-iraniane.
Sul fronte di Gaza un nuovo raid ha distrutto con missili di precisione un centro di comando di Hamas in una ex scuola nel nord della Striscia. Intanto il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è tornato a mettere in guardia dalle "conseguenze pericolose" degli attacchi in Libano. E ha aggiunto: "Il regime israeliano non troverà mai pace e tranquillità". Alle minacce di Teheran hanno risposto indirettamente gli Usa con la loro posizione: "Il sostegno alla sicurezza di Israele è incrollabile e questo non cambierà", ha detto il portavoce della sicurezza nazionale John Kirby, ribadendo il diritto dell'alleato a difendersi "da attacchi quotidiani". "Biden e Netanyahu si conoscono da 40 anni, non sono d'accordo mai su nulla ma su una cosa concordano: la sicurezza di Israele", ha aggiunto. Intanto funzionari statunitensi hanno dichiarato ad Abc News che operazioni "su scala ridotta " dell'Idf in territorio libanese "potrebbero essere iniziate al confine con il Libano, o potrebbero essere sul punto di iniziare" per eliminare le posizioni di Hezbollah. Israele tuttavia sembra non aver preso ancora nessuna decisione su una eventuale invasione di terra. Ma se dovesse decidere di muovere le suo truppe oltreconfine, secondo gli Usa "la portata sarà probabilmente limitata". 

(ANSA, 30 settembre 2024)

........................................................


”Continuate a colpirli”: l'ex prodigio del calcio iraniano Ali Karimi sfida il regime e sostiene Israele

Le sue dichiarazioni pro-israeliane manifestano le profonde divisioni all'interno della società iraniana.

FOTO
Ali Karimi
Ali Karimi, leggenda del calcio iraniano, ha pubblicato un messaggio sui social network incoraggiando Israele a continuare i suoi attacchi in Libano. Questo tweet, pubblicato il 18 settembre 2024, segna una nuova tappa nell'impegno politico di Karimi contro il regime islamico di Téhéran.
  “Continua a colpire Bibi, stai facendo un ottimo lavoro... spero che questo possa essere un rimedio per i cuori degli iraniani e dell’Iran”, ha scritto Karimi in persiano, accompagnando il suo messaggio con gli hashtag "#ÀVotreServiceNetanyahu" e "#BibiBut".
  Non è la prima volta che l'ex centrocampista prende posizione contro la Repubblica islamica dell'Iran. Nell'aprile dello scorso anno, durante l'attacco iraniano a Israele, Karimi aveva già colpito l'opinione pubblica pubblicando un'immagine dei drappi israeliani e iraniani con il messaggio: "Noi siamo l'Iran, non siamo la Repubblica islamica".
  La posizione di Karimi avviene in un contesto di crescenti tensioni tra Israele e Hezbollah libanese, sostenuto dall'Iran. Le sue dichiarazioni filo-israeliane, rare per una personalità iraniana della sua importanza, portano in luce le profonde divisioni all'interno della società iraniana e la forte contestazione del regime in corso. Ali Karimi, soprannominato il "Maradona asiatico" per le sue prodezze sul campo, ora usa la sua notorietà come arma politica. Il suo esplicito sostegno a Israele e la sua opposizione al governo iraniano ne fanno una figura di dissidenza, che riflette le aspirazioni di una parte della gioventù iraniana in cerca di cambiamento.

(i24, 29 settembre 2024)

........................................................


Hassan Nassrallah (1960-2024), fine di un terrorista

Hassan Nassrallah non c’è più. Il segretario generale di Hezbollah, la temibile milizia sciita libanese armata dall’Iran, è rimasto ucciso in uno dei bombardamenti israeliani di venerdì scorso su Dahieh, il sobborgo meridionale di Beirut, considerato una delle roccaforti del gruppo. Turbante nero degli autoproclamati discendenti del profeta Maometto, Nasrallah era assurto alla guida della milizia nel 1992 dopo che Israele aveva eliminato il suo predecessore Abbas al-Musawi. Immutate le consegne: muovere guerre e distruggere lo stato ebraico in linea con la visione iraniana di un Medio Oriente senza “l’entità sionista” e in cui il mondo sunnita si inchini agli sciiti. Ecco perché sotto la guida di Nasrallah, Hezbollah ha partecipato attivamente alla guerra civile in Siria sostenendo il presidente Bashar Assad, anche lui burattino dell’Iran, nel reprimere le proteste della maggioranza sunnita, massacrandola. Come riportato da tanti blogger indipendenti, nel mondo arabo sunnita l’eliminazione del feroce leader sciita è stata festeggiata nelle piazze. Pur vivendo quasi sempre nascosto, fra bunker e luoghi protetti per sfuggire al Mossad, Nasrallah è stato capace anche di rafforzare il coté politico di Hezbollah, facendo della milizia un partito libanese di primo piano capace di condizionare ogni scelta strategica del governo di Beirut e di eliminare con la forza chi si opponesse alla strategia sciita. È il caso questo come dell’ex premier libanese Rafiq Hariri rimasto ucciso il 14 febbraio del 2005 assieme ad altre 21 persone nell’esplosione della sua auto e di quelle della sua scorta sul lungomare di Beirut: per la sua morte tre hezbollah saranno condannati all’ergastolo nel 2022 (17 anni dopo).
  Gli obiettivi di Hezbollah non sono solo Israele – l’ultimo conflitto aperto risale al 2006, sei anni dopo il ritiro israeliano dal sud del Libano – e i sunniti ma anche gli ebrei in tutto il mondo. Era il 18 luglio del 2012 quando un attentatore suicida di Hezbollah uccise sei persone (cinque turisti israeliani e un bulgaro) ferendone altre 32 a Burgas, località balneare sul Mar Nero, in Bulgaria. Ed era il 18 luglio del 1994 quando 85 persone rimasero uccise e oltre 300 ferite per l’esplosione di un camioncino nei pressi degli uffici dell’Associazione Mutualità Israelita Argentina (AMIA) a Buenos Aires. Le indagini puntarono all’Iran quale mandante e a Hezbollah quale esecutore della strage. Il governo argentino ha catalogato Hezbollah come gruppo terrorista nel 2019. Il governo Usa lo aveva già fatto nel 1997. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito la morte di Nasrallah “una misura di giustizia per le sue numerose vittime tra cui migliaia di civili americani, israeliani e libanesi”. dan.mos.

(moked, 29 settembre 2024)

........................................................


Israele elimina Nasrallah. Chi era e come è stato ucciso il “padrone” del Libano e leader di Hezbollah

di Ugo Volli

• IL BOMBARDAMENTO
  È confermato. Israele ha liquidato venerdì sera il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah con un pesantissimo bombardamento sul quartier generale del gruppo a Dahiyeh, nella periferia sud di Beirut. Con lui sono stati uccisi alcuni altri importanti dirigenti del gruppo terrorista fra cui il numero tre di Hezbollah Ali Karki, che era sfuggito a un bombardamento due giorni prima e il generale di brigata iraniano Abbas Nilfrushan, vicecomandante dei pasdaran e plenipotenziario dell’Iran in Libano e Siria. È il colpo più importante che Israele abbia inferto all’asse terrorista nell’intera guerra, ben maggiore dell’eliminazione del presidente del politburo di Hamas Haniyeh il 31 luglio scorso a Teheran, o delle altre numerose eliminazioni di capi terroristi di questi mesi. Nasrallah era infatti il più importante alleato dell’Iran, il più fidato e sperimentato, il vero padrone del Libano.

• LA DISARTICOLAZIONE DI HEZBOLLAH
  Inoltre la sua eliminazione segue immediatamente a una serie di atti di guerra con cui Israele ha disarticolato completamente il vertice della più pericolosa organizzazione terroristica che deve affrontare. Prima, la mattina del 17 settembre in Libano e in Siria, migliaia di cercapersone in dotazione ai quadri di Hezbollah sono esplosi nel giro di pochissimo tempo; il giorno dopo l’azione è stata ripetuta con le radio portatili. Complessivamente sono morte molte decine di comandanti di Hamas e in migliaia sono stati messi fuori combattimento, perlopiù definitivamente. Poi, il 21 settembre, c’è stata l’eliminazione del capo di stato maggiore di Hezbollah, Ibrahim Aqil e di altri quattordici comandanti della forza d’élite del movimento, le “brigate Radwan”. Dopo sono venuti alcuni altri attacchi a capi militari di Hezbollah e ai suoi depositi di missili e di esplosivi, ma soprattutto è stata la volta di Nasrallah. I bombardamenti sono continuati mirando ad altre armi, in particolare i razzi antinave che avevano creato seri problemi alla marina israeliana già nel 2006, i depositi di droni e di missili guidati a lunga gittata.

• CHI ERA NASRALLAH
  In questa serie molto concentrata ed efficace di attacchi, che ha almeno dimezzato l’armamento di Hezbollah, distrutto completamente il suo comando militare e i suoi sistemi di comunicazione, l’uccisione di Nasrallah ha un alto valore simbolico, ma anche un grande effetto pratico. Nasrallah aveva preso il comando di Hezbollah nel 1992, l’aveva trasformato da piccolo gruppo terrorista nel padrone del Libano e nella principale forza fra quelle alimentate e dirette dall’Iran, capace di intervenire in maniera decisiva nella guerra civile siriana e di costituire una minaccia serissima per Israele, coi suoi 80 mila uomini inquadrati e più di centomila missili. Era insieme il capo politico e militare indiscusso del gruppo, la sua guida religiosa, il principale interlocutore della “guida suprema” del mondo sciita, Alì Khamenei.

• UNA SCONFITTA DELL’IRAN
  La durissima sconfitta di questi giorni mette a rischio l’intera strategia imperialistica dell’Iran. Dopo la distruzione delle forze armate di Hamas, che ormai può continuare a combattere Israele solo in forma di piccoli gruppi di guerriglia. La disarticolazione di Hezbollah distrugge decenni di investimenti economici e militari. Vi sono ancora risorse militari del gruppo libanese, migliaia di armi, missili e infrastrutture, che possono permettere al gruppo di infliggere ancora danni e costringere Israele a fare quel che Hezbollah si era preparato a fronteggiare come prima reazione, cioè un’operazione di terra. Ma soprattutto se le forze armate israeliane saranno lasciate operare senza essere bloccate da tregue imposte dagli americani, la capacità bellica del gruppo terrorista continuerà a diminuire. Tanto più che l’Iran ha commentato la morte dicendo che Hezbollah sta comunque vincendo, che Israele è troppo piccolo per minacciarla, insomma rifiutando di impegnarsi direttamente nella guerra. Tanto che quando Israele sabato mattina ha intimato all’aeroporto di Beirut di non lasciare atterrare un aereo di rifornimenti iraniani, questo ha invertito immediatamente la rotta e Iran Air ha annunciato di rinunciare a ogni collegamento col Libano.

• ISRAELE COLPISCE DA SOLO
  Vale la pena di sottolineare due aspetti significativi dell’operazione “nuova forza” con cui Israele ha eliminato Nasrallah. La prima è che gli americani hanno dichiarato ufficialmente di non essere stati informati in precedenza e di non aver fornito intelligence a Israele. Non hanno dato neanche le molto richieste bombe antibunker con cui l’aviazione israeliana ha raggiunto il capo terrorista in un sotterraneo blindato sotto case di abitazione, secondo il solito stratagemma terrorista di usare i civili come scudi umani. Dunque Israele ha fatto tutto da sé, ha usato bombe di sua costruzione e informazioni procurate solo dal Mossad, com’è accaduto del resto anche negli altri attacchi dei giorni scorsi. C’è stato insomma un gesto di forte indipendenza. Israele probabilmente avrebbe potuto eliminare Nasrallah molte volte, avendo informazioni su tutti i movimenti della leadership di Hezbollah, come si è visto nei giorni scorsi. Ma ha deciso di farlo in questo momento nonostante le pressioni provenienti da Usa, Francia e altri Paesi, perché ritiene di dover passare ora all’offensiva, per non essere bloccato in una guerra di logoramento.

• IL DISCORSO DI NETANYAHU
  Il secondo aspetto importante è che il bombardamento è avvenuto subito dopo il grande discorso all’assemblea generale dell’Onu pronunciato da Netanyahu, che aveva autorizzato il colpo prima di iniziare a parlare, forse direttamente dalla sede dell’Onu. Il discorso, come pure la discussione intorno a una tregua di 21 giorni promossa dall’amministrazione Biden, è servito dunque come copertura, per tener tranquillo Nasrallah quando gli aerei che l’avrebbero ucciso erano già in volo. Ma è stato anche un intervento alto e significativo, in cui Netanyahu ha chiarito a chi lo stava a sentire (pochi nell’aula dell’Onu abbandonata dai Paesi arabi, ma probabilmente molti nei ministeri degli stati coinvolti). Netanyahu, visibilmente emozionato tanto da commettere un paio di lapsus per lui inconsueti e prontamente corretti, ha quasi anticipato il colpo su Nasrallah, dichiarando a proposito di Hezbollah che “il troppo è troppo” e che “badate signori, noi stiamo vincendo”; ha riaffermato due volte enfaticamente la missione di liberare gli ostaggi (senza mai citare un cessate il fuoco) e poi quella di riportare gli israeliani sfollati a casa; ha motivato duramente la sua totale sfiducia nell’autorità palestinese, ha sostenuto con forza che Israele non combatte solo per sé ma per molti Paesi nel Medio Oriente e nel mondo, ha soprattutto confermato la propria visione della pace come frutto della vittoria di Israele e dell’accordo con gli arabi moderati, innanzitutto i sauditi: un programma politico del tutto diverso da quello dell’amministrazione Biden e dell’Unione Europea, ma che è stato certamente molto rafforzato dalla distruzione della forza dei movimenti terroristi e in particolare dell’eliminazione di Nasrallah. In una situazione normale, questa sarebbe la base dell’accordo che porrebbe fine alla guerra. Non è detto che sia così, perché ammettere la sconfitta sarebbe la fine dei movimenti terroristi e forse anche per la dirigenza iraniana. Bisogna prepararsi ad altri mesi di guerra, a colpi di coda con attacchi missilistici e terroristici. Ma la direzione della pace, come ha spiegato Netanyahu, è quella che usa la forza e l’autodifesa, non certo l’accondiscendenza all’aggressione che vorrebbero i democratici Usa e l’Europa.

(Shalom, 29 settembre 2024)

........................................................


Il ministero della Salute getta la spugna sulle sanzioni ai non vaccinati

Le sanzioni non sono mai state abolite: solo sospese. Così il dicastero della Salute invia a una renitente un atto con cui, «in autotutela», annulla anche per il futuro qualunque richiesta di soldi. Dopo anni vince il buonsenso.

di Francesco Carraro 

Lo Stato italiano prende finalmente atto che la furibonda stagione degli obblighi vaccinali contro il Covid-19 ha rappresentato qualcosa di molto vicino a una persecuzione illegittima e a un «abuso di potere». Una convinzione che già è condivisa da milioni di italiani, ma che da oggi ha il supporto - anzi, addirittura la «certificazione» - dello Stato medesimo. 
  Lo dimostra la vicenda che andiamo a raccontarvi, per certi versi surreale, ai limiti del grottesco, ma anche consolante giacché rappresenta una sorta di pubblica abiura rispetto a una delle tante, troppe, degenerazioni dell'assolutismo vaccinale (di Stato) dell'era pandemica. 
  Protagonista della storia è un avvocato padovano, Elisa Pavanello, la quale - alla pari di moltissimi altri connazionali - ricevette, nel marzo 2022, una lettera del ministero della Salute e dell'Agenzia della riscossione. Con la medesima la si rendeva edotta di essere destinataria di un procedimento sanzionatorio in quanto renitente alla leva della vaccinazione coatta (introdotta dal governo Draghi nei confronti dei soggetti over 50). Nella missiva, si contestava alla legale patavina il fatto di non aver iniziato il ciclo vaccinale alla data del primo febbraio 2022 e le si intimava di adempiere entro dieci giorni, dando altrimenti prova della sussistenza di un valido motivo che giustificasse l'inottemperanza alle prescrizioni di legge. L'avvocato rispondeva, nei termini previsti, con una articolata missiva con cui si protestava tutta una serie di violazioni e irregolarità della ingiunzione ricevuta. 
  Per tutta risposta, nel febbraio del 2023, il ministero della Salute e l'Agenzia della 
  riscossione notificavano all'avvocato un avviso di addebito con il quale le irrogavano la sanzione amministrativa di 100 euro da pagare entro 60 giorni. L'avvocato proponeva ricorso avanti al giudice di Pace di Padova che, con sentenza del 13 luglio 2023, annullava l'avviso di addebito poiché, per effetto del dl 162 in vigore dal 31 dicembre 2022 - dalla stessa data e fino a giugno 2023 - dovevano intendersi sospese tutte le attività di irrogazione di sanzioni per soggetti inadempienti all'obbligo vaccinale. La sentenza, decorsi i termini per l'appello, passava in giudicato e, a questo punto, la diretta interessata pensava che la controversia potesse considerarsi conclusa. Ma invece non lo era del tutto perché la stessa riceveva, in data 18 settembre 2024, una comunicazione letteralmente (e per due volte) incredibile da parte del ministero della Salute. 
  Con tale informativa, il ministero comunica all'avvocato l'annullamento d'ufficio, in autotutela, dello stesso avviso di addebito che era già stato annullato, come visto, dal giudice di Pace. Il che già rappresenta un «non senso» sul piano giuridico. Ma veniamo alla motivazione del provvedimento ove si legge testualmente: «In seguito all'acquisizione di ulteriori informazioni da cui risulta insussistenza dell'inadempienza dell'obbligo vaccinale di cui all'art. 4 quater del decreto legge 44 del 2021, è disposto annullamento d'ufficio ai sensi di art. 21 nonies comma 1 della legge 241 del 1990». Ebbene, la norma da ultimo citata dal ministero è quella che consente alla pubblica amministrazione l'annullamento d'ufficio di atti viziati da violazione di legge o eccesso di potere. Ci troviamo, quindi, in presenza di una sostanziale ammissione (da parte dei vertici dello Stato) della illegittimità delle sanzioni. Infatti, il ministero non motiva l'annullamento facendo riferimento alla sentenza, ma alla «insussistenza dell'inadempienza dell'obbligo vaccinale». 
  Ma è un altro l'aspetto più succoso della vicenda che ci fa comprendere il peso e il valore specifico di un atto amministrativo che, in prima battuta, potrebbe sembrare inutile. Sempre nella missiva del 18 settembre 2024, si specifica pure che l'annullamento è dettato «in considerazione dell'interesse pubblico ad evitare un contenzioso e conseguente dispendio di risorse umane e finanziarie». Insomma, lo Stato non vuole buttare i soldi dei contribuenti in una battaglia persa. Tanto da aggiungere un solenne impegno: «Il procedimento sanzionatorio di cui trattasi non avrà alcun seguito e non sarà necessario, da parte dell'interessato, effettuare alcun pagamento». 
  A questo punto, bisogna guardare alle date: la sospensione del recupero delle sanzioni in questione risulta, ad oggi, prorogata fino al 31 dicembre 2024. Ergo, se non intervenisse la proroga di tale sospensione, in linea di principio nulla vieterebbe allo Stato di ricominciare, l'anno venturo, un'attività di recupero nei confronti della ricorrente (la quale si è vista annullare l'avviso di addebito solo perché la sanzione era, medio tempore, sospesa). E nulla impedirebbe di procedere con consimili attività nei confronti di cittadini che versino in una situazione analoga. Ma il ministero ha invece, e a tutti gli effetti, con la menzionata comunicazione, dichiarato di abdicare definitivamente a tale possibilità, quantomeno nei confronti della protagonista del caso in esame. Ci troviamo di fronte a un atto di resa dello Stato o, come minimo, di ammissione che gli obblighi di legge nei confronti degli over 50 sono, se non illegittimi tout court, quantomeno iniqui e destinati a sfociare in processi inutili e costosi per le casse pubbliche. 
  Possiamo concludere affermando che nel caso qui segnalato - ma ciò vale anche tutte le decine di migliaia di situazioni identiche pendenti in tutta Italia - lo Stato non solo non può (per il momento, in base a una sospensione ex lege), ma soprattutto non vuole procedere a recupero coattivo. E ciò per quella ragione non solo di forma (giuridica), ma anche di sostanza (politica) che è stata denunciata innumerevoli volte su queste pagine ed è compendiabile in sette parole: violazione di legge ed eccesso di potere. Più precisamente: violazione di legge costituzionale e intollerabile abuso di potere sulla base di presupposti (anche scientifici) rivelatisi, come noto, inesistenti. Che ora la Repubblica, attraverso il suo ministero di riferimento per materia, lo abbia nesso nero su bianco, lascia ben sperare per il futuro.

(La Verità, 29 settembre 2024)

........................................................



Maledirò chi ti diminuirà

Anche l’articolo che segue è presente da tempo sulle pagine del nostro sito, ma lo riproponiamo ora in questa forma come invito a riflettere sulla maledizione che si sta abbattendo su movimenti come Hamas e Hezbollah che maledicono Israele dichiarando apertamente, nelle parole e nei fatti, la loro intenzione di cancellare Israele come nazione dalla faccia della terra (Salmo 83). Chi si indigna per i morti e i danni provocati da Israele per difendere il suo concreto esistere (e non soltanto l’ideologico “diritto all’esistenza”) si pone di fatto dalla parte di coloro che agiscono per cancellarne l’esistenza. Stiano attenti coloro che anche soltanto a parole “diminuiscono” Israele ai loro occhi definendolo con ingiuste parole di disprezzo. La maledizione di Dio è una cosa tremendamente seria. E prima o poi colpisce.

di Marcello Cicchese
    L'Eterno disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò. Io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno, e maledirò quelli che ti malediranno. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12:1-3).
Questi tre versetti della Genesi possono essere considerati l'incipit di tutto il programma di redenzione di Dio. Soffermiamoci in particolare sulla frase:
    "Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò quelli che ti malediranno".
Nell'originale ebraico, per indicare la benedizione in questo testo si usa sempre lo stesso verbo: ברך (barach), mentre per indicare la maledizione sono usati verbi diversi: il maledirò di Dio viene espresso con il verbo ארר (arar) mentre il malediranno degli uomini viene reso con il verbo קלל (qalal).

La cosa merita attenzione. Riportiamo allora i primi versetti della Bibbia in cui compare il verbo "arar".
    Genesi 3:14 - Allora Dio il Signore disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita.
    Genesi 3:17 - Ad Adamo disse: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall'albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita.
    Genesi 4:11 - Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano.
Come si vede, sono tre devastanti maledizioni con cui Dio colpisce, nell'ordine, il serpente, la terra e l'omicida.

Riportiamo poi i primi due versetti della Bibbia in cui compare il verbo "qalal".
    Genesi 8:8 - Poi mandò fuori la colomba per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
    Genesi 8:11 - E la colomba tornò da lui verso sera; ed ecco, aveva nel becco una foglia fresca d'ulivo. Così Noè capì che le acque erano diminuite sopra la terra.
Il verbo "qalal" qui viene tradotto con l'italiano diminuire, che in questo contesto non ha alcun sinistro significato morale ma indica soltanto l'abbassamento del livello dell'acqua.
In senso morale invece il verbo viene usato poco più avanti per rappresentare l'atteggiamento di Agar verso Sara dopo il concepimento di Ismaele:
    Genesi 16:4 - Egli [Abramo] andò da Agar, che rimase incinta; e quando si accorse di essere incinta, guardò con disprezzo la sua padrona.
L'espressione "guardò con disprezzo la sua padrona" vuol rendere il senso di una traduzione che letteralmente sarebbe "fu diminuita ai suoi occhi la sua padrona". La serva in un certo senso "diminuì" la sua padrona perché cominciò a guardarla dall'alto in basso. Le parti si erano invertite: prima la padrona stava in alto e lei in basso, adesso la padrona sta in basso e lei sta in alto. E tutto questo senza che nulla sia cambiato nei fatti, ma soltanto "ai suoi occhi". La fertile serva egiziana cominciò a guardare la sterile padrona ebrea con disprezzo, o forse soltanto con compatimento, che è la stessa cosa in forma diversa.
   E' chiaro che con femminile intuito Sara non ci mise molto a capirlo. Conosciamo il seguito della storia: Sara va dal marito e gli dice che da quando Agar si è accorta di essere incinta, "io sono diminuita ai suoi occhi". E poiché la cosa non è sopportabile, invoca il giudizio dell'Eterno. Cosa che poi avviene, come si trova scritto nel seguito del racconto.
   Il testo in questione di Genesi 12 potrebbe allora essere tradotto così, rispettando la figura retorica del chiasmo usata nell'originale:
    Benedirò quelli che ti benediranno, e quelli che ti diminuiranno io maledirò.
Applicando queste parole al popolo d'Israele, discendenza etnica di Abramo, se ne deduce che per cadere sotto la tremenda maledizione di Dio (arar) non è necessario essere antisemiti militanti: è sufficiente diminuire (qalal) Israele ai propri occhi. Basta tenere nei confronti di Israele un atteggiamento simile a quello di Agar verso Sara: un intimo senso di superiorità, un latente disprezzo che può assumere forma di compatimento quando le cose gli vanno troppo male, un'avversione inespressa che emerge soltanto in occasioni particolarmente vistose, un disinteresse totale che si trasforma in antipatia quando viene disturbato e provoca lo sbuffo: "ma sempre questi ebrei, proprio non se ne può più!"
   Nella maggior parte dei casi la maledizione di Dio non è percepita come tale, anche perché può avere diverse gradazioni di intensità e di tempi che la rendono irriconoscibile agli occhi di chi non è attento alle vie di Dio. Ma è tremendamente reale, perché Dio è una Persona seria: quello che dice, lo fa. Non è come i nostri governanti.
   Le cose non cambiano in ambienti genericamente cristiani. "Diminuire" Israele ai propri occhi con una varietà di argomenti che si presentano come biblici è un fatto che avviene con naturalezza anche tra evangelici, ed esprime quella superbia da cui l'apostolo Paolo (Romani 11:13-32) vuole mettere in guardia i gentili che per grazia di Dio arrivano a credere nel Messia d'Israele come loro Signore e Salvatore. E se la superbia non è riconosciuta come tale, allora non si è più in grado di riconoscere che i tanti problemi che affliggono singoli e comunità possono essere aggravati dalla mancanza di una benedizione che avrebbe dovuto esserci, ma non c'è.

Formato PDF

(Notizie su Israele)




........................................................


Nasrallah è morto! Finalmente!

L'esercito israeliano ha annunciato ufficialmente la morte del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah oggi, Shabbat. E questo viene festeggiato in Israele - anche noi abbiamo brindato con un bicchiere di vino a tavola di Shabbat ieri sera, Le'Chaim!

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Poco dopo che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha terminato il suo discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, la situazione è esplosa a Beirut. Nessuno dei media mondiali si è concentrato sul discorso e sulla retorica di Netanyahu alle nazioni. Tutto era concentrato sulla roccaforte del terrorismo sciita di Dahieh a Beirut. L'area sotto la quale il centro di comando della milizia del terrore sciita si era trincerato in bunker sotterranei sembrava essere stata colpita da un meteorite. Poi è stata diffusa la foto che mostrava Netanyahu al telefono da qualche parte nell'edificio delle Nazioni Unite in territorio americano, dando il via libera al bombardamento di Hassan Nasrallah. Già durante il suo discorso alle nazioni, nella sua testa fluttuava il pensiero che in pochi minuti o ore Hassan Nasrallah sarebbe scomparso da questa terra e sarebbe stato mandato all'inferno. È possibile che a causa di ciò scoppi una guerra su più fronti. L'Iran vede anche quello che è successo ad Hamas ed Hezbollah dal 7 ottobre. È troppo presto per negoziare con il nemico. Solo quando imploreranno di negoziare, non prima. Fino ad allora, Israele deve continuare a colpire. Infine, l'apparato di sicurezza israeliano sta operando come il popolo voleva fin dall'inizio. Non reagire, colpire.
Poche settimane dopo l'attacco del 7 ottobre nel sud del Paese, il leader di Hezbollah Nasrallah dichiarò nel suo primo discorso pubblico che l'attacco dimostrava che Israele era "più debole di una tela di ragno". La ragnatela è elastica, è sopravvissuta a quasi dodici sanguinosi mesi di guerra e ha dato una bella lezione a Hamas e Hezbollah. Solo insieme possiamo vincere. E i nostri nemici fantasticano che Israele sia debole come una ragnatela a causa della divisione della società israeliana. Non è l'entità sionista che scomparirà presto, come Nasrallah ha spesso sottolineato nei suoi discorsi. Sembra che lui e tutto il suo gruppo dirigente siano scomparsi una volta per tutte.
Nel suo discorso alle nazioni, Netanyahu ha ricordato al mondo ciò che aveva detto l'anno scorso davanti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, pochi giorni prima del 7 ottobre. "L'anno scorso ho detto che oggi ci troviamo di fronte alla stessa decisione che Mosè prese migliaia di anni fa. Egli disse allora che i nostri passi determineranno se lasceremo una benedizione o una maledizione per le generazioni future - e questa è la scelta che abbiamo di fronte oggi. La maledizione dell'Iran o la benedizione di una storica riconciliazione tra arabi ed ebrei. Dopo questo discorso, la benedizione sembrava più vicina che mai - ma poi è arrivata la maledizione del 7 ottobre".
Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, non è un leader qualsiasi di un'organizzazione terroristica e la sua eliminazione non è paragonabile all'uccisione di un membro di spicco del braccio militare di Hamas o di Hezbollah. La sua morte è un enorme terremoto in Medio Oriente e nell'intero mondo del terrore, la cui portata è attualmente difficile da valutare. Per Hezbollah si tratta di una perdita senza precedenti, in quanto la figura più importante dell'organizzazione dalla sua fondazione è scomparsa. È una perdita senza precedenti anche per l'Iran, che vede scomparire il suo agente più importante al di fuori dei confini iraniani. Ed è un duro colpo per tutte le organizzazioni terroristiche, che fino a ieri vedevano in Nasrallah l'uomo in grado di sconfiggere Israele e ridurlo a una "ragnatela".
In Occidente, i politici si grattano la testa e pensano che Israele sia impazzito. Josep Borrell, ministro degli Esteri dell'Unione Europea, ha dichiarato dopo gli attacchi israeliani a Dahieh, Beirut: "Stiamo esercitando tutte le pressioni diplomatiche per ottenere un cessate il fuoco, ma sembra che nessuno possa fermare Netanyahu". È vero, Israele sta impazzendo. Qui da noi si dice: "Il padrone di casa sta impazzendo". Finalmente. Ma non è Netanyahu che deve essere fermato, Israele deve essere fermato. Ma Israele non vuole e non può fermarsi ora. Finalmente Netanyahu sta reagendo come la stragrande maggioranza del popolo aveva immaginato. Il nemico va battuto senza pietà. I governi occidentali non capiscono quale favore abbia fatto Israele all'Occidente combattendo le milizie terroristiche islamiche come Hezbollah e Hamas.
Ciò che il governo statunitense a Washington teme è che la guerra di Israele in Medio Oriente rovini le prossime elezioni di Kamala Harris e dei Democratici. Tutto il resto è secondario. Il fatto che 70.000 israeliani siano stati sfollati dal nord per un anno non è affatto un problema per i governi occidentali. Credono ancora che la diplomazia possa risolvere tutto. È sbagliato. La guerra è uno strumento di diplomazia e Israele deve continuarla. Negoziati durante la guerra, non durante il cessate il fuoco. È inutile. Può andare bene ai francesi e all'UE e aiutare Hezbollah e Hamas, ma non Israele.
L'Occidente e l'UE non capiscono nemmeno la differenza tra Israele e Hezbollah, tra il bene e il male, tra la benedizione e la maledizione. A volte è meglio tacere che dire sciocchezze, e non bisogna essere invidiosi di chi ha il coraggio di combattere il terrore islamico. In Libano e in Siria, musulmani, sunniti, ma anche cristiani e drusi stanno festeggiando l'eliminazione di Nasrallah in Libano da parte di Israele. Lo abbiamo mostrato sul nostro canale Telegram per tutta la notte.
Nasrallah era più di un terrorista. È stato un pioniere della politica, del terrorismo e del legame tra i due. A soli 32 anni è stato inaspettatamente nominato Segretario Generale della milizia terroristica, succedendo ad Abbas al-Musawi, anch'egli ucciso da Israele nel 1992. In breve tempo divenne un astro nascente nei cieli del terrorismo internazionale, ma anche sulla mappa politica dell'intero mondo arabo e musulmano, in particolare del Libano. Hezbollah ha distrutto l'armonia in Libano e ha fatto sprofondare il Paese dei Cedri in un abisso politico ed economico negli ultimi 30 anni, proprio come aveva fatto l'OLP sotto il suo leader Yasser Arafat negli anni '70 fino all'invasione israeliana del 1982. Per fermare gli attacchi missilistici, allora erano razzi Katyusha, e cacciare l'OLP dal Libano. Lo stesso scenario si è ora ripetuto.
Per molti versi, Nasrallah è riuscito a cambiare la regione, soprattutto il volto del Libano. Sotto la sua guida, Hezbollah si è trasformato da una piccola milizia isolata in un impero militare con influenza sulle forze in Siria, ma anche in Yemen e in Iraq.
La guerra civile siriana del 2011 ha spinto Nasrallah a prendere una decisione drammatica: ha inviato truppe per salvare Bashar al-Assad. I suoi combattenti hanno combattuto su tutti i fronti, sia contro i jihadisti dell'IS che contro l'opposizione moderata siriana. Hezbollah ha iniziato a operare anche in Yemen, Iraq, Bahrein e in tutto il mondo. Sotto Nasrallah, Hezbollah è diventato uno dei più grandi cartelli della droga al mondo e ha istituito il cosiddetto narco-terrorismo, ovvero il traffico di droga per finanziare attacchi terroristici. Nasrallah ha diffuso tra molti musulmani di tutto il mondo l'idea che Israele fosse debole come una tela di ragno. Ma l'arroganza di Nasrallah è diventata la sua trappola. Nell'ultimo anno ha commesso un errore dopo l'altro e non ha saputo leggere correttamente la mappa politica. L'errore più grave è stata la sua solidarietà con Hamas e la decisione di attaccare Israele l'8 ottobre 2023. Nasrallah era convinto che Israele fosse troppo debole e diviso per osare lanciare un attacco massiccio contro Hezbollah. Ora sta pagando il prezzo della sua arroganza.
In conclusione, ci troviamo davvero di fronte a tempi drammatici ed emozionanti, ma Israele non ha altra scelta che eliminare o almeno ridurre drasticamente la minaccia terroristica e missilistica a sud e a nord una volta per tutte. Un attacco ripetuto dell'Iran stesso contro Israele è possibile, ma non inevitabile. Israele sa che potrebbe scoppiare una guerra. Il problema più grande è l'Occidente, che vuole impedire a Israele di farlo e minaccia di imporre un embargo sulle armi. Anche se l'Occidente non è d'accordo con la guerra di Israele al terrorismo e all'Iran, non dovrebbe almeno impedire a Israele di distruggere le milizie terroristiche. Dopo tutto, questo è nell'interesse di tutte le persone che vogliono vivere in libertà. Ma se non si sa scegliere tra Israele e Hezbollah, non si sa scegliere tra benedizione e maledizione. Netzach Israel lo Jeschaker - L'eternità di Israele non mente!

(Israel Heute, 28 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


La fine del capo terrorista che trasformò una banda di terroristi libanesi in una potenza jihadista al servizio dell’Iran

Nasrallah convinse innumerevoli musulmani di tutto il mondo che Israele fosse debole “come una ragnatela” e potesse essere facilmente sconfitto: una tracotanza che gli si è ritorta contro

Hassan Nasrallah non era un capo terrorista come un altro e la sua eliminazione potrebbe avere ripercussioni in tutto il Medio Oriente, di cui al momento non è possibile stimare la portata.
  L’uscita di scena di Nasrallah rappresenta una perdita senza precedenti per Hezbollah e una perdita senza precedenti per l’Iran, in quanto era la sua risorsa più preziosa al di fuori dei suoi confini.
  Nasrallah era molto più di un terrorista. Si era fatto strada nella politica ed era riuscito a collegarla al suo terrorismo.
  Divenne il capo di Hezbollah a soli 32 anni, dopo che nel 1992 Israele aveva eliminato Abbas Musawi (che deteneva ostaggi israeliani), e divenne rapidamente un astro nascente del terrorismo globale, ma anche della politica nel mondo arabo e musulmano.
  Nasrallah è riuscito a cambiare il Libano e l’intera regione, trasformando Hezbollah da una banda di terroristi in un impero militare con forze in Siria, Iraq e Yemen.
  Rimuovendo molti membri veterani del suo gruppo terroristico, spianò la strada per diventare parte della politica libanese. Hezbollah si presentò per la prima volta alle elezioni nell’agosto del 1992 e ottenne otto seggi nel parlamento di Beirut, diventando così un partito politico “legittimo” pur continuando a essere una milizia armata.
  Dopo quelle elezioni, Hezbollah divenne la principale organizzazione sciita e la più grande fazione religiosa del Libano. Nasrallah guadagnò popolarità anche perché, a differenza di altri politici libanesi, non appariva alla ricerca di ricchezza e vantaggi personali.
  Hezbollah crebbe in forza a tal punto che il Libano non è stato più in grado di nominare un presidente o un primo ministro senza l’approvazione del gruppo. Persino il capo di stato maggiore libanese, tradizionalmente un membro della comunità cristiana, non poteva essere nominato senza il consenso di Nasrallah.
  Il ritiro di Israele dal Libano meridionale nel 2000 e la seconda guerra in Libano del 2006 trasformarono Nasrallah in una figura mitica, ammirata non solo tra i musulmani sciiti. Era visto, in particolare agli occhi dell’Iran, come colui che era in grado di sconfiggere Israele.
  Il Consiglio musulmano che doveva decidere le politiche del gruppo jihadista non era altro che un gruppo di fedeli fan, molti dei quali erano parenti e amici intimi.
  Nasrallah ha anche fondato dei mass-media per veicolare il messaggio del gruppo terroristico e guadagnare consensi. Ha sempre cercato di presentarsi come un patriota libanese, sebbene fosse innanzitutto un braccio armato rigorosamente fedele al regime iraniano, facendo del Libano un prolungamento dell’Iran.
  I suoi nemici venivano rapidamente eliminati, incluso l’ex primo ministro libanese Rafiq al-Hariri, assassinato nel 2005 dalla Siria con l’aiuto di agenti di Hezbollah.
  Quando scoppiò la guerra civile siriana nel 2011, Nasrallah inviò ingenti forze per supportare la feroce repressione del regime del dittatore alawita Assad. Le sue truppe hanno combattuto a fianco delle forze governative su tutti i fronti, sia contro l’opposizione siriana che contro l’ISIS (sunnita). Poi ha inviato truppe in Yemen, Iraq e Bahrein.
  Sotto Nasrallah, per finanziare il proprio terrorismo, Hezbollah è diventato anche un impero del narcotraffico, portando alla nascita del termine narcoterrorismo.
  Ma l’ossessione principale di Nasrallah è sempre stata la distruzione dello stato ebraico. Fu lui ad instillare nella testa di innumerevoli musulmani di tutto il mondo l’idea che Israele fosse debole “come una ragnatela” e potesse essere facilmente sconfitto.
  Questa tracotanza gli si è ritorta contro. Ha commesso errori, in particolare con la decisione di legarsi a Hamas nella guerra scatenata il 7 ottobre contro Israele e di avviare sin dal giorno successivo una serie ininterrotta di attacchi.
  Credeva – erroneamente – che Israele fosse ormai troppo debole per attaccare le sue forze in Libano in modo significativo: una convinzione che ha pagato con la vita, dopo aver procurato danni e sofferenze al Libano.
  Non sarà facile per l’Iran sostituire una figura carismatica e centralista, da lungo tempo a capo del gruppo terrorista Hezbollah, del Libano e del terrorismo jihadista globale.

(YnetNews, israele.net, 28 settembre 2024)

........................................................


“Il popolo d’Israele vive ora, domani, per sempre”: il discorso di Netanyahu all’ONU

Il discorso che il Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha tenuto all’ONU. 

“Signor Presidente, signore e signori, non avevo intenzione di venire qui quest’anno. Il mio Paese è in guerra, sta lottando per la sua sopravvivenza, ma dopo aver ascoltato le bugie e le diffamazioni rivolte al mio Paese da molti degli oratori su questo podio, ho deciso di venire qui e di mettere le cose in chiaro. Ho deciso di venire qui per parlare a nome del mio popolo.
Per parlare per il mio paese, per parlare per la verità. Ed ecco la verità: Israele cerca la pace. Israele anela alla pace. Israele ha fatto la pace e farà di nuovo la pace. Eppure affrontiamo nemici selvaggi che cercano il nostro annientamento, e dobbiamo difenderci da loro. Questi assassini selvaggi, i nostri nemici, non cercano solo di distruggerci, ma cercano di distruggere la nostra civiltà comune e riportarci tutti a un’epoca oscura di tirannia e di terrore. Quando ho parlato qui l’anno scorso, ho detto che ci troviamo di fronte alla stessa scelta senza tempo che Mosè pose di fronte al popolo di Israele migliaia di anni fa quando stavamo per entrare nella Terra Promessa. Mosè ci disse che le nostre azioni avrebbero determinato se avremmo lasciato in eredità alle generazioni future una benedizione o una maledizione. Ed è questa la scelta che ci troviamo di fronte oggi: la maledizione dell’aggressione incessante dell’Iran o la benedizione di una riconciliazione storica tra arabi ed ebrei. Nei giorni successivi a quel discorso, la benedizione di cui parlavo è diventata più nitida.
Un accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele sembrava più vicino che mai. Ma poi è arrivata la maledizione del 7 ottobre. Migliaia di terroristi di Hamas sostenuti dall’Iran e provenienti da Gaza hanno fatto irruzione in Israele a bordo di pick-up e motociclette e hanno commesso atrocità inimmaginabili. Hanno brutalmente assassinato 1.200 persone. Hanno violentato e mutilato donne. Hanno decapitato uomini. Hanno bruciato vivi bambini. Hanno bruciato vive intere famiglie: neonati, bambini, genitori, nonni, in scene che ricordano l’Olocausto nazista. Hamas ha rapito 251 persone da decine di paesi diversi, trascinandole nelle segrete di Gaza. Israele ha riportato a casa 154 di questi ostaggi, tra cui 117 che sono tornati vivi. Voglio assicurarvi che non ci fermeremo finché anche gli ostaggi rimasti non saranno riportati a casa, e alcuni dei loro familiari sono qui con noi oggi. Vi chiedo di alzarvi in piedi.
Con noi c’è Eli Shtivi, il cui figlio Idan è stato rapito dal festival musicale Nova. Quello è stato il suo crimine: un festival musicale. E questi mostri assassini lo hanno preso. Koby Samerano, il cui figlio Jonathan è stato assassinato e il suo cadavere è stato portato nelle segrete, nei tunnel del terrore di Gaza: un cadavere tenuto in ostaggio. Salem Alatrash, il cui fratello Mohammad, un coraggioso soldato arabo israeliano, è stato assassinato. Anche il suo corpo è stato portato a Gaza. E così è stato per il corpo della figlia di Ifat Haiman, Inbar, che è stata brutalmente assassinata durante quello stesso festival musicale. Con noi c’è Sharon Sharabi, il cui fratello Yossi è stato assassinato, e che prega per il fratello maggiore Eli, che è ancora tenuto in ostaggio a Gaza. E con noi c’è anche Yizhar Lifshitz del Kibbutz Nir Oz, un kibbutz che è stato spazzato via dai terroristi. Fortunatamente, siamo riusciti a liberare sua madre, Yocheved, ma suo padre, Oded, sta ancora languendo nell’inferno terroristico sotterraneo di Hamas. Vi prometto ancora una volta che riporteremo a casa i vostri cari. Non risparmieremo questo sforzo finché questa sacra missione non sarà compiuta.
Signore e signori, la maledizione del 7 ottobre è iniziata quando Hamas ha invaso Israele da Gaza, ma non è finita lì. Israele è stato presto costretto a difendersi su altri sei fronti di guerra organizzati dall’Iran.
L’8 ottobre, Hezbollah ci ha attaccato dal Libano. Da allora, ha lanciato oltre 8.000 razzi contro le nostre città e i nostri paesi, contro i nostri civili, contro i nostri bambini. Due settimane dopo, gli Houthi sostenuti dall’Iran nello Yemen hanno lanciato droni e missili contro Israele, il primo di 250 attacchi di questo tipo, tra cui uno ieri diretto a Tel Aviv. Anche le milizie sciite iraniane in Siria e Iraq hanno preso di mira Israele decine di volte nell’ultimo anno. Alimentati dall’Iran, i terroristi palestinesi in Giudea e Samaria hanno perpetrato decine di attacchi lì e in tutto Israele. E lo scorso aprile, per la prima volta in assoluto, l’Iran ha attaccato direttamente Israele dal suo stesso territorio lanciando contro 300 droni, missili da crociera e missili balistici. Ho un messaggio per i tiranni di Teheran: se ci colpite, vi colpiremo. Non c’è posto, non c’è luogo in Iran che il lungo braccio di Israele non possa raggiungere. E questo vale per tutto il Medio Oriente. Lungi dall’essere agnelli condotti al macello, i soldati di Israele hanno reagito con incredibile coraggio e con sacrificio eroico. E ho un altro messaggio per questa assemblea e per il mondo fuori da questa sala: stiamo vincendo.
Signore e signori, mentre Israele si difende dall’Iran in questa guerra su sette fronti, le linee che separano la benedizione dalla maledizione non potrebbero essere più chiare. Questa è la mappa che ho presentato qui l’anno scorso. È una mappa di una benedizione. Mostra Israele e i suoi partner arabi che formano un ponte di terra che collega Asia ed Europa. Tra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo, attraverso questo ponte, poseremo linee ferroviarie, condotte energetiche e cavi in fibra ottica, e questo gioverà a 2 miliardi di persone. Ora guardate questa seconda mappa. È la mappa di una maledizione. È una mappa di un arco di terrore che l’Iran ha creato e imposto dall’Oceano Indiano al Mediterraneo. L’arco maligno dell’Iran ha bloccato le vie marittime internazionali. Interrompe il commercio, distrugge le nazioni dall’interno e infligge miseria a milioni di persone. Da un lato, una luminosa benedizione: un futuro di speranza. Dall’altro, un oscuro futuro di disperazione. E se pensate che questa mappa oscura sia solo una maledizione per Israele, allora dovreste ricredervi. Ecco perché finanzia reti terroristiche in cinque continenti. Ecco perché costruisce missili balistici per testate nucleari per minacciare il mondo intero. Per troppo tempo, il mondo ha placato l’Iran. Ha chiuso un occhio sulla sua repressione interna. Ha chiuso un occhio sulla sua aggressione esterna. Bene, questa pacificazione deve terminare. E deve terminare adesso.
Le nazioni del mondo dovrebbero sostenere il coraggioso popolo iraniano che vuole liberarsi di questo regime malvagio. I governi responsabili non dovrebbero solo sostenere Israele nel respingere l’aggressione iraniana, ma dovrebbero unirsi a Israele. Dovrebbero unirsi a Israele nel fermare il programma di armi nucleari dell’Iran. In questo organismo e nel Consiglio di sicurezza, avremo una deliberazione tra qualche mese. E invito il Consiglio di sicurezza a ripristinare le sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro l’Iran perché dobbiamo fare tutti ciò che è in nostro potere per garantire che l’Iran non ottenga mai armi nucleari. Per decenni, ho messo in guardia il mondo contro il programma nucleare iraniano. Le nostre azioni hanno ritardato questo programma di forse un decennio, ma non l’abbiamo fermato. L’abbiamo ritardato, ma non l’abbiamo fermato. L’Iran ora cerca di trasformare il suo programma nucleare in un’arma. Per il bene della pace e della sicurezza di tutti i vostri paesi non dobbiamo permettere che ciò accada, e vi assicuro che Israele farà tutto ciò che è in suo potere per assicurarsi che ciò non accada.
Quindi, signore e signori, la domanda che ci si pone è semplice: quale di queste due mappe che vi ho mostrato plasmerà il nostro futuro? Saranno le benedizioni di pace e prosperità per Israele, i nostri partner arabi e il resto del mondo? O sarà la maledizione con cui l’Iran e i suoi delegati spargono carneficina e caos ovunque? Israele ha già fatto la sua scelta. Abbiamo deciso di promuovere la benedizione. Stiamo costruendo una partnership per la pace con i nostri vicini arabi mentre combattiamo le forze del terrore che minacciano quella pace.
Per quasi un anno, i coraggiosi uomini e donne dell’IDF hanno sistematicamente annientato l’esercito terroristico di Hamas che un tempo governava Gaza. Il 7 ottobre, il giorno di quell’invasione in Israele, quell’esercito terroristico contava quasi 40.000 terroristi. Era armato con più di 15.000 razzi. Aveva 350 miglia di tunnel terroristici, una rete sotterranea più grande della metropolitana di New York, che usavano per scatenare il caos sopra e sotto terra. Un anno dopo, l’IDF ha ucciso o catturato più della metà di questi terroristi, distrutto oltre il 90% del loro arsenale di razzi ed eliminato i segmenti chiave della loro rete di tunnel terroristici. In operazioni militari misurate, abbiamo distrutto quasi tutti i battaglioni terroristici di Hamas, 23 su 24. Ora, per completare la nostra vittoria, ci concentriamo sul ripulire le capacità residuali di combattimento di Hamas. Stiamo eliminando i comandanti terroristi di alto rango e distruggendo le infrastrutture terroristiche rimanenti. Ma nel frattempo restiamo concentrati sulla nostra sacra missione: riportare a casa i nostri ostaggi, e non ci fermeremo finché questa missione non sarà portata a termine.
Ora, signore e signori, anche con la capacità militare notevolmente ridotta di Hamas, i terroristi esercitano ancora un certo potere di governo a Gaza rubando il cibo che noi permettiamo alle agenzie umanitarie di portare a Gaza. Hamas ruba il cibo, e poi alza i prezzi. Si nutre la pancia, e poi riempie le sue casse con i soldi che estorce alla sua stessa gente. Vendono il cibo rubato a prezzi esorbitanti, ed è così che restano al potere. Bene, anche questo deve finire, e stiamo lavorando per porvi termine, e la ragione è semplice: perché se Hamas resta al potere, si riorganizzerà, si riarmerà e attaccherà Israele ancora e ancora e ancora, come ha giurato di fare. Quindi, Hamas deve andarsene.
Immaginate, per coloro che dicono che Hamas deve restare, deve far parte di una Gaza postbellica: immaginate, in una situazione postbellica dopo la Seconda guerra mondiale, avere permesso ai nazisti sconfitti nel 1945 di ricostruire la Germania? È inconcepibile. È ridicolo. Non è successo allora e non succederà ora.
Ecco perché Israele rifiuterà qualsiasi ruolo per Hamas in una Gaza post-bellica. Non cerchiamo di ricollocare insediamenti a Gaza. Ciò che cerchiamo è una Gaza smilitarizzata e de-radicalizzata. Solo allora potremo garantire che questo round di combattimenti sarà l’ultimo round. Siamo pronti a collaborare con partner regionali e di altro tipo per sostenere un’amministrazione civile locale a Gaza, impegnata nella coesistenza pacifica. Quanto agli ostaggi, ho un messaggio per i rapitori di Hamas: lasciateli andare. Lasciateli andare. Tutti quanti. Quelli vivi oggi devono essere restituiti vivi, e i resti di coloro che avete brutalmente ucciso devono essere restituiti alle loro famiglie. Quelle famiglie qui con noi oggi e altre in Israele meritano di avere un luogo di riposo per i loro cari. Un luogo dove possano piangere e ricordarli.
Signore e signori, questa guerra può finire adesso. Tutto ciò che deve accadere è che Hamas si arrenda, deponga le armi e rilasci tutti gli ostaggi. Ma se non lo faranno, combatteremo finché non otterremo la vittoria. Vittoria totale. Non c’è sostituto per essa. Israele deve anche sconfiggere Hezbollah in Libano. Hezbollah è l’organizzazione terroristica per eccellenza nel mondo odierno. Ha tentacoli che abbracciano tutti i continenti. Ha assassinato più americani e più francesi di qualsiasi altro gruppo, eccetto Bin Laden. Ha assassinato i cittadini di molti paesi rappresentati in questa sala. E ha attaccato Israele in modo feroce negli ultimi 20 anni. L’anno scorso, senza alcuna provocazione, un giorno dopo l’eccidio di Hamas del 7 ottobre, Hezbollah ha iniziato ad attaccare Israele, costringendo più di 60.000 israeliani al nostro confine settentrionale ad abbandonare le loro case, diventando rifugiati nella loro stessa terra. Hezbollah ha trasformato città vivaci nel nord di Israele in città fantasma. Quindi voglio che pensiate a questo in termini equivalenti in merito agli Stati Uniti. Immaginate se i terroristi trasformassero El Paso e San Diego in città fantasma. Poi chiedetevi: per quanto tempo il governo americano tollererebbe una cosa del genere? Un giorno, una settimana, un mese? Dubito che lo tollererebbero anche solo per un giorno, eppure Israele ha tollerato questa situazione intollerabile da quasi un anno. Bene, sono venuto qui oggi per dire basta. Non ci fermeremo finché i nostri cittadini non potranno tornare sani e salvi alle loro case. Non accetteremo un esercito terroristico appollaiato sul nostro confine settentrionale, in grado di perpetrare un altro eccidio in stile 7 ottobre. Per 18 anni, Hezbollah si è rifiutato sfacciatamente di implementare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che richiede di spostare le sue forze lontano dai nostri confini. Invece, Hezbollah si è spostato fino al nostro confine. Hanno segretamente scavato tunnel del terrore per infiltrarsi nelle nostre comunità e hanno sparato indiscriminatamente migliaia di razzi nelle nostre città e nei nostri villaggi. Non lanciano questi razzi e missili da siti militari, fanno anche questo, ma li lanciano dopo averli piazzati nelle scuole, negli ospedali, nei condomini e nelle case private dei cittadini del Libano. Mettono in pericolo la loro stessa gente, mettono un missile in ogni cucina, un razzo in ogni garage. Ho detto al popolo del Libano questa settimana: uscite dalla trappola mortale in cui vi ha cacciato Hezbollah. Non lasciate che Nasrallah trascini il Libano nell’abisso. Non siamo in guerra con voi. Siamo in guerra con Hezbollah, che ha sequestrato il vostro paese e minaccia di distruggere il nostro. Finché Hezbollah sceglierà la via della guerra, Israele non avrà scelta. E Israele ha tutto il diritto di rimuovere questa minaccia e di riportare i nostri cittadini alle loro case in sicurezza, ed è esattamente ciò che stiamo facendo. Proprio questa settimana, l’IDF ha distrutto grandi percentuali di razzi di Hezbollah, che sono stati costruiti con i finanziamenti dell’Iran per tre decenni. Abbiamo eliminato comandanti militari di alto rango che non solo hanno versato sangue israeliano, ma anche americano e francese. E poi abbiamo eliminato i loro sostituti. E poi i sostituti dei loro sostituti. E continueremo a degradare Hezbollah finché tutti i nostri obiettivi non saranno raggiunti.
Signore e signori, ci impegniamo a rimuovere la maledizione del terrorismo che minaccia tutte le società civili. Ma per realizzare davvero la benedizione di un nuovo Medio Oriente, dobbiamo continuare il percorso che abbiamo spianato con gli Accordi di Abramo quattro anni fa. Soprattutto, questo significa raggiungere uno storico accordo di pace tra Israele e l’Arabia Saudita. E dopo avere visto le benedizioni che abbiamo già portato con gli Accordi di Abramo, i milioni di israeliani che hanno già volato avanti e indietro attraverso la penisola arabica sopra i cieli dell’Arabia Saudita verso i paesi del Golfo, il commercio, il turismo, le joint venture, la pace, vi dico, quali benedizioni porterebbe una tale pace con l’Arabia Saudita. Sarebbe una manna per la sicurezza e l’economia dei nostri due Paesi. Incrementerebbe il commercio e il turismo in tutta la regione. Aiuterebbe a trasformare il Medio Oriente in un colosso globale. I nostri due Paesi potrebbero cooperare su energia, acqua, agricoltura, intelligenza artificiale e molti, molti altri campi. Una tale pace, ne sono certo, sarebbe un vero perno della storia. Inaugurerebbe una riconciliazione storica tra il mondo arabo e Israele, tra l’Islam e l’ebraismo, tra la Mecca e Gerusalemme.
Mentre Israele è impegnato a raggiungere una simile pace, l’Iran e i suoi rappresentanti terroristici sono impegnati a mandarla a monte. Ecco perché uno dei modi migliori per sventare i nefandi disegni dell’Iran è raggiungere la pace. Una pace simile costituirebbe il fondamento per un’alleanza abramitica ancora più ampia, e tale alleanza includerebbe gli Stati Uniti, gli attuali partner arabi di Israele per la pace, l’Arabia Saudita e altri che scelgono la benedizione della pace. Ciò promuoverebbe la sicurezza e la prosperità in tutto il Medio Oriente e porterebbe enormi benefici al resto del mondo. Con il supporto e la leadership americana, credo che questa visione possa materializzarsi molto prima di quanto la gente pensi. E come Primo Ministro di Israele, farò tutto ciò che è in mio potere per realizzarla. Questa è un’opportunità che noi e il mondo non dovremmo lasciarci sfuggire.
Signore e signori, Israele ha fatto la sua scelta. Vogliamo andare avanti verso un’era luminosa di prosperità e pace. Anche l’Iran e i suoi delegati hanno fatto la loro scelta. Vogliono tornare a un’era oscura di terrore e guerra. E ora ho una domanda, e la pongo a voi: quale scelta farete? La vostra nazione starà dalla parte di Israele? Starà dalla parte della democrazia e della pace? O starà dalla parte dell’Iran, una dittatura brutale che soggioga il suo stesso popolo ed esporta il terrorismo in tutto il mondo?
In questa battaglia tra il bene e il male, non ci devono essere equivoci. Quando ti schieri con Israele, ti schieri per i tuoi valori e i tuoi interessi. Sì, ci stiamo difendendo, ma stiamo anche difendendovi da un nemico comune che, attraverso la violenza e il terrore, cerca di distruggere il nostro stile di vita. Quindi non ci dovrebbe essere confusione su questo, ma sfortunatamente, ce n’è molta in molti paesi e in questa stessa sala, come ho appena sentito.
Il bene è rappresentato come male e il male è rappresentato come bene.
Vediamo questa confusione morale quando Israele viene falsamente accusato di genocidio quando ci difendiamo dai nemici che cercano di commettere un genocidio contro di noi. Lo vediamo anche quando Israele viene accusato in modo assurdo dal Procuratore della CPI di avere deliberatamente fatto morire di fame i palestinesi a Gaza.
Che assurdità. Aiutiamo a portare 700.000 tonnellate di cibo a Gaza. Sono più di 3.000 calorie al giorno per ogni uomo, donna e bambino a Gaza. Vediamo questa confusione morale quando Israele viene falsamente accusato di prendere deliberatamente di mira i civili. Non vogliamo vedere morire una sola persona innocente. È sempre una tragedia. Ed è per questo che facciamo così tanto per ridurre al minimo le vittime civili, anche se i nostri nemici usano i civili come scudi umani. E nessun esercito ha fatto ciò che Israele sta facendo per ridurre al minimo le vittime civili. Lanciamo volantini. Inviamo messaggi di testo. Facciamo milioni di telefonate per assicurarci che i civili palestinesi si mettano al sicuro. Non risparmiamo alcuno sforzo in questa nobile ricerca.
Assistiamo a un’altra profonda confusione morale quando gli autodefiniti progressisti marciano contro la democrazia di Israele. Non si rendono conto che sostengono i delinquenti sostenuti dall’Iran a Teheran e a Gaza, i delinquenti che hanno sparato ai manifestanti, ucciso le donne perché non si coprivano i capelli e impiccato i gay nelle piazze pubbliche? Alcuni progressisti. Secondo il direttore dell’intelligence nazionale degli Stati Uniti, l’Iran finanzia e alimenta molti dei dimostranti contro Israele, chissà, forse alcuni dei dimostranti o persino molti dei manifestanti fuori da questo edificio ora? Signore e signori, il re Salomone, che regnò nella nostra capitale eterna, Gerusalemme, 3.000 anni fa, proclamò qualcosa che è familiare a tutti voi. Disse: Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Bene, in un’epoca di viaggi spaziali, fisica quantistica e intelligenza artificiale, alcuni direbbero che è un’affermazione discutibile. Ma una cosa è innegabile: non c’è sicuramente nulla di nuovo alle Nazioni Unite.
Fidatevi di me. Ho parlato per la prima volta da questo podio come ambasciatore di Israele all’ONU nel 1984. Esattamente 40 anni fa. E nel mio discorso inaugurale qui, mi espressi contro una proposta di espellere Israele da questo organismo. Quattro decenni dopo, mi ritrovo a difendere Israele da quella stessa assurda proposta.
E chi guida la carica questa volta? Non Hamas, ma Abbas. Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas. Questo è l’uomo che afferma di volere la pace con Israele, ma si rifiuta ancora di condannare l’orribile eccidio del 7 ottobre. Sta ancora pagando centinaia di milioni ai terroristi che hanno assassinato israeliani e americani.
Si chiama Pay for Slay. Più uccidi, più vieni pagato.
E continua a condurre una guerra diplomatica incessante contro il diritto di Israele a esistere e contro il diritto di Israele a difendersi. E, a proposito, sono la stessa cosa, perché se non puoi difenderti, non puoi esistere. Non nel nostro quartiere, di certo. E forse non nel vostro. In piedi su questo podio 40 anni fa, ho detto ai promotori di quella scandalosa risoluzione per espellere Israele: Signori, lasciate il vostro fanatismo fuori dalla porta. Oggi, dico al Presidente Abbas e a tutti voi che sosterreste vergognosamente quella risoluzione: lasciate il vostro fanatismo fuori dalla porta.
L’individuazione dell’unico e solo Stato ebraico continua a essere una macchia morale per le Nazioni Unite. Ha reso questa istituzione un tempo rispettata spregevole agli occhi delle persone perbene ovunque. Ma per i palestinesi, questa casa delle tenebre delle Nazioni Unite è il tribunale di casa. Sanno che in questa palude di bile antisemita, c’è una maggioranza automatica disposta a demonizzare lo Stato ebraico per qualsiasi cosa. In questa società anti-Israele della terra piatta, qualsiasi falsa accusa, qualsiasi accusa stravagante può radunare una maggioranza. Nell’ultimo decennio, sono state approvate più risoluzioni contro Israele in questa sala, nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che contro il mondo intero messo insieme. In realtà, più del doppio. Dal 2014, questo organismo ha condannato Israele 174 volte. Ha condannato tutti gli altri paesi del mondo 73 volte. Sono più di 100 condanne in più per lo Stato ebraico. Che ipocrisia. Che doppi standard. Che buffonata. Quindi, tutti i discorsi che avete sentito oggi, tutta l’ostilità rivolta a Israele quest’anno, non riguarda Gaza; riguarda Israele. Si è sempre trattato di Israele, della stessa esistenza di Israele. E vi dico, finché Israele, finché lo Stato ebraico, non sarà trattato come le altre nazioni, finché questa palude antisemita non sarà prosciugata, l’ONU sarà vista dalle persone imparziali ovunque come niente più che una farsa sprezzante. E dato l’antisemitismo all’ONU, non dovrebbe sorprendere nessuno che il procuratore della CPI, uno degli organi affiliati all’ONU, stia considerando di emettere mandati di arresto contro di me e il ministro della difesa israeliano, i leader democraticamente eletti dello Stato democratico di Israele. La fretta del procuratore della CPI nel giudicare, il suo rifiuto di trattare Israele con le sue corti indipendenti come vengono trattate le altre democrazie, è difficile da spiegare con qualcosa di diverso dal puro antisemitismo.
Signore e signori, i veri criminali di guerra non sono in Israele. Sono in Iran. Sono a Gaza, in Siria, in Libano, in Yemen. Quelli di voi che stanno con questi criminali di guerra, quelli di voi che stanno con il male contro il bene, con la maledizione contro la benedizione, quelli di voi che lo fanno dovrebbero vergognarsi di se stessi. Ma ho un messaggio per voi: Israele vincerà questa battaglia. Vinceremo questa battaglia perché non abbiamo scelta. Dopo generazioni in cui il nostro popolo è stato massacrato, massacrato senza pietà, e nessuno ha mosso un dito in nostra difesa, ora abbiamo uno Stato, ora abbiamo un esercito coraggioso, un esercito di incomparabile coraggio, e ci stiamo difendendo.
Come dice il libro di Samuele nella Bibbia:
“נֵ֣צַח יִשְׂרָאֵ֔ל לֹ֥א יְשַׁקֵּ֖ר”
“L’eternità di Israele non vacillerà”.
Nel viaggio epico del popolo ebraico dall’antichità, nella nostra odissea attraverso la tempesta e i rivolgimenti dei tempi moderni, quella promessa antica è sempre stata mantenuta e rimarrà vera per sempre.
Per citare un verso di un grande poeta: Israele non se ne andrà dolcemente in quella buona notte. Non avremo mai bisogno di infuriarci contro la morte della luce perché la torcia di Israele brillerà per sempre.
Al popolo d’Israele e ai soldati d’Israele dico: siate forti e coraggiosi.
“חִזְק֣וּ וְאִמְצ֔וּ אַל־תִּֽירְא֥וּ וְאַל־תַּעַרְצ֖וּ מִפְּנֵיהֶ֑ם כִּ֣י ה’ אֱלֹקיךָ ה֚וּא הַהֹלֵ֣ךְ עִמָּ֔ךְ לֹ֥א יַרְפְּךָ֖ וְלֹ֥א יַעַזְבֶֽךּ”
עם ישראל חי
Il popolo d’Israele vive ora, domani, per sempre”.

(L'informale, 27 settembre 2024 - trad. Niram Ferretti)

........................................................


Il 7 ottobre e la grande rimozione

È possibile una lettura religiosa degli avvenimenti?

di Rav Riccardo Di Segni

È successo a tutti in questi mesi. Stiamo seduti davanti alla televisione accesa e sentiamo l’ennesima notizia o commento pieni di odio e disinformazione contro Israele. Possiamo reagire con la rabbia, con l’insulto diretto a chi parla, scrivere su Facebook, protestare con il direttore di testata, o rinchiuderci nell’apatia. Tutte reazioni comprensibili. Ma questo basta? Siamo sicuri che il nostro essere ebrei non ci richieda anche qualcos’altro, su un piano differente?
  La tragedia del 7 ottobre e la guerra che ne è derivata hanno determinato reazioni in tutto il mondo e soprattutto nella comunità ebraica. Nella maggioranza dei casi si è trattato e continua ad essere un coinvolgimento politico con un’intensa partecipazione emozionale, quale che sia la posizione che si assume, dal sostegno totale e incondizionato alla critica. C’è un aspetto della reazione che, a confronto con gli altri prevalenti, è passato sotto tono, quasi relegato per molti alla sfera privata o di piccoli gruppi: la dimensione spirituale, o meglio religiosa. È la domanda, davanti a tutto quello che è successo e continua a succedere, se vi sia un senso, un messaggio dall’alto, una sollecitazione a interrogare le coscienze, una spiegazione nelle fonti antiche, una guida per uscirne fuori. Se ascoltiamo una notizia terribile dai fronti aperti ai confini di Israele reagiamo con il dispiacere, l’orrore; se sentiamo un commento polemico antiisraeliano in un blog televisivo o in un qualsiasi canale mediatico ci arrabbiamo, proviamo a rispondere, protestare, manifestare, esprimere solidarietà. Ma il più delle volte non ci poniamo la domanda: perché succede questo? Perché proprio a noi come popolo ebraico è riservato questo nuovo spargimento di sangue e questa campagna di demonizzazione? Che senso ha, alla luce della nostra storia e alla luce di ciò in cui ha creduto il popolo ebraico da millenni?
  Vi sono diversi motivi per spiegare questa elusione della domanda. Il primo è il nostro modo di pensare che è sostanzialmente “laico”, portato a spiegare le vicende umane prima di tutto secondo una dinamica sociale e politica, che chiaramente non deve mancare, ma non è detto che debba essere esclusiva. Il secondo motivo è che la ricerca di un senso più profondo è impegnativa, sia perché è difficile trovare risposte esaurienti, sia perché spesso la risposta coinvolge le responsabilità di ogni persona che da spettatore coinvolto e arrabbiato si potrebbe trasformare in una sorta di indagato.
  Per dirla in termini molto semplificati, in tutta la Bibbia, e poi nella letteratura successiva, corre un pensiero uniforme: se il popolo ebraico soffre è perché le sofferenze sono un campanello di allarme che ne denuncia comportamenti scorretti e richiama a correggere le proprie azioni.
  Un intero periodo dell’anno, il suo inizio, il mese di Tishrì, è dedicato a questo tema. E quest’anno il 7 ottobre cade proprio in mezzo agli Yamim Noraim, tra Rosh hashanà e Kippùr. Ascoltiamo il suono dello shofàr, che come spiega Rambàm in questi giorni ha soprattutto il ruolo di una sveglia: state dormendo, svegliatevi, prendete coscienza. E il ruolo dello shofàr in questi giorni è simile a quello che svolgono determinati accadimenti nella vita. Sta suonando un campanello, da mesi.
  In questo periodo ciascuno è invitato a riflettere sul suo comportamento, a riparare le azioni sbagliate, e a tornare indietro (è il significato letterale della parola teshuvà). Quale possa essere il comportamento scorretto di un singolo individuo, davanti al lungo elenco di precetti da rispettare, può essere facile dirlo. Le cose si complicano quando ci si chiede quale sia il comportamento scorretto di un intero popolo. E ancora di più si complicano quando si confrontano i comportamenti sbagliati del singolo o del gruppo con gli eventi negativi che li colpiscono; spesso ai nostri occhi c’è una sproporzione inspiegabile. Tutto questo rende difficili i ragionamenti, e discutibili le conclusioni. Si pensi ad esempio che malgrado vi siano state tante interpretazioni autorevoli sulla Shoah, dal punto di vista filosofico e religioso, nessuna appare convincente fino in fondo. E le domande prevalgono sulle risposte, che qualche volta rischiano di essere banali e divisive.
  Lo stesso rischio si può correre tentando di interpretare religiosamente il 7 ottobre, come ha fatto qualcuno accusando e denunciando certi comportamenti della società israeliana. Una società della quale si apprezzano le virtù ma che non è certo una società ideale, attraversata come è da polarizzazioni, fratture e profonde incomprensioni.
  Il 7 ottobre ha rafforzato in molti ebrei l’identità ebraica, il sentirsi popolo minacciato. Questo per molti ebrei lontani è già un inizio di teshuvà. Dubito però che abbia risvegliato una teshuvà più forte, singolare e collettiva. Non è facile declinare in termini attuali le rampogne dei profeti della Bibbia. Non è facile, e forse è impossibile, spiegare in termini religiosi perché certe cose sono successe e stanno succedendo, ma l’incapacità di dare una risposta non ci sottrae dal dovere di esaminare noi stessi e provare a migliorarci. Il senso diretto e immediato nel messaggio antico è che non dobbiamo solo dolerci o arrabbiarci o reagire politicamente, non siamo solo delle vittime reali o potenziali, siamo persone dotate di coscienza che ogni giorno la devono sottoporre ad esame, e che devono capire cosa va fatto sul piano personale e collettivo per migliorare noi e la società.

(Shalom, 27 settembre 2024)
____________________

È possibile una lettura religiosa degli avvenimenti? E’ doverosa direi, se per “religiosa” s’intende “in rapporto con Dio”. Se per molti la cosa non è possibile, dipende da loro, che pensano di poter interpretare i fatti riguardanti Israele senza far riferimento a Dio. Una difficoltà interna del mondo ebraico potrebbe essere il fatto che il tema centrale della loro riflessione ruota intorno alla Torà e non alla figura del Messia. Al centro della riflessione sulla Torà c’è il Dio che istruisce, mentre al centro della riflessione sul Messia c’è il Dio che agisce, che nella sua azione ha come oggetto primario la persona del Messia. Come primo frutto dell’agire di Dio nel mondo c’è proprio la presenza stessa di Israele come popolo e nazione. Come è possibile allora interpretare gli avvenimenti intorno a Israele prescindendo dalla volontà di Dio per Israele? Che senso ha interrogarmi su quello che devo pensare e fare io, se non mi chiedo che cosa ha fatto, sta facendo e si propone di fare Dio? M.C.

........................................................


Il Muro del Pianto viene pulito per Rosh HaShanah

Tra pochi giorni, tutto Israele festeggerà Rosh Hashanah, il capodanno ebraico. Le celebrazioni iniziano la sera del 2 ottobre e terminano venerdì 4 ottobre.

In preparazione alla festa, decine di migliaia di piccoli pezzi di carta sono stati rimossi dal Muro del Pianto, come ogni anno. Il rabbino del Muro del Pianto e dei luoghi sacri, Rabbi Shmuel Rabinowitz, ha personalmente supervisionato e portato a termine l'azione. Si tratta principalmente di preghiere e petizioni, piccoli pezzi di carta che le persone di oltre 100 Paesi inseriscono personalmente nelle fessure o inviano dall'estero via e-mail o lettera ad alcuni servizi, che poi depositano i foglietti di preghiera tra le pietre del cosiddetto Muro Occidentale. In media, ogni mese arrivano circa 3.000 richieste di preghiera dall'estero. La maggior parte dei biglietti stranieri proviene da Stati Uniti, Brasile, Canada e Colombia.
  Negli ultimi sei mesi si è registrato un aumento significativo del numero di biglietti di preghiera inviati al Muro Occidentale. La situazione del Paese spinge molti residenti a lasciare una preghiera al Muro del Pianto. La maggior parte delle preghiere sono per il recupero di soldati feriti o di ostaggi rapiti. "Quest'anno biglietti sono pieni di lacrime di famiglie in lutto, famiglie rapite, soldati feriti, cittadini evacuati, famiglie di soldati e altro ancora", ha detto il rabbino.
  Il rabbino Rabinowitz ha augurato, in occasione dell'azione di pulizia: "Che un anno con le sue maledizioni finisca, un anno con le sue benedizioni inizi - la pace in Israele e l'unità tra noi è la preoccupazione di tutti noi".
  I biglietti di preghiera vengono rimossi ogni anno secondo le linee guida della halacha. Vengono utilizzati guanti e utensili di legno monouso. L'operazione deve essere effettuata regolarmente per fare spazio ai nuovi biglietti di preghiera dei fedeli e dei visitatori che si recheranno al Muro del Pianto in futuro. I biglietti stessi vengono raccolti in speciali sacchetti Geniza e cerimoniosamente sepolti insieme ai libri sacri consumati. Questa usanza è stata documentata 300 anni fa. Di tanto in tanto, durante gli scavi nelle vicinanze, vengono ritrovati pezzi di carta sepolti di epoche passate.
  Alla fine, si è pregato per il ritorno a casa dei rapiti e dei dispersi, per la pace dei soldati e delle forze di sicurezza dell'IDF, per la guarigione dei feriti, per la pace e la sicurezza in Israele e per le migliaia di visitatori e credenti le cui preghiere sono raccolte qui.

(Israel Heute, 27 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Riflessioni sulla “chirurgia” israeliana contro Hezbollah

di Giovanni Giacalone

Le operazioni militari dell’esercito israeliano in Libano hanno messo in ginocchio Hezbollah, decimandone non soltanto l’arsenale missilistico, ma anche la catena di comando e controllo al punto che soltanto due comandanti, Ali Karaki e Abu Ali Rida, sarebbero ancora in vita. Sul primo si era tra l’altro inizialmente pensato fosse morto in un raid. Rimane poi il leader supremo, Hassan Nasrallah, nascosto nel suo bunker.
  Inoltre, l’utilizzo dei beeper esplosivi per colpire i terroristi di Hezbollah, una tattica mai usata prima da nessuno e che rimarrà nella storia, ha suscitato stupore ma anche forti critiche.
  Ovviamente Israele è finita per l’ennesima volta al centro di accuse provenienti da più parti e la narrativa è sempre la stessa: gli attacchi dell’IDF non sono chirurgici e causano vittime civili; le operazioni israeliane non sono di contro-terrorismo ma si tratta invece di un’aggressione nei confronti del Libano; Hezbollah non era in grado di mettere in atto un attacco in stile 7 ottobre e per finire, Israele bombarda le abitazioni dei civili libanesi.
  E’ bene dunque chiarire una volta per tutte questi punti visto che tali accuse presentano una natura faziosa e di parte, ben lontana dalla realtà dei fatti.
  In primis, la natura chirurgica degli attacchi e la morte dei civili. Quando il 2 gennaio del 2024 a Beirut venne eliminato Saleh al-Arouri, il missile dell’IDF colpì il pavimento dell’abitazione dove era nascosto il soggetto in questione, raggiungendo l’obiettivo ed evitando di far collassare l’edificio. La stessa tattica venne utilizzata anche per l’eliminazione di Ibrahim Muhammad Qabisi, nel popoloso quartiere di Dahieh, a sud di Beirut.
  Nel caso di Ibrahim Aquil, il missile raggiunse il piano seminterrato e ciò causò l’involontario collasso delle fondamenta dell’adiacente edificio. Diverse invece le dinamiche nel caso della tentata uccisione di Ali Karaki visto che veniva colpito il piano sbagliato, errore che permetteva al comandante di Hezbollah di sopravvivere all’attacco.
  E’ dunque possibile affermare che attacchi di questo tipo non sono chirurgici? Ci sono forse altre forze armate che sono riuscite a fare di meglio in altri conflitti?
  I missili hanno tra l’altro un costo non indifferente ed anche la raccolta delle informazioni, lavoro di anni, ha un forte valore. Non è dunque interesse di Israele sprecarli.
  Per quanto riguarda la popolazione libanese, l’IDF invia ripetuti messaggi ai civili utilizzando sms, messaggi audio, comunicati radio, avvisandoli di allontanarsi da tutti quegli edifici civili dove Hezbollah nasconde e spara contro Israele. La medesima strategia è tra l’altro stata utilizzata a Gaza.
  Sul tema della detonazione dei beepers in possesso dei terroristi di Hezbollah, bisogna veramente arrampicarsi sugli specchi per affermare che non è di natura chirurgica. E’ chiaro che se i terroristi si nascondono in mezzo alla popolazione, c’è sempre il rischio che qualche civile si faccia male, ma questa è una responsabilità che riguarda Hezbollah, certamente non Israele. Tanto più che l’eliminazione di terroristi salva vite, sia israeliane e sia libanesi.
  Altra accusa mossa contro Israele è quella di aver aggredito uno Stato sovrano, il Libano, presentando la cosa come operazione di contro-terrorismo.
  Anche questa è una semplificazione errata che mostra una non comprensione del fenomeno in corso. Hezbollah è infatti una vera e propria struttura di tipo militare dedita al terrorismo e che ha preso il controllo del Libano. Trattasi di un vero e proprio esercito, più potente di quello libanese e facente capo a un partito politico, oltre che un proxy iraniano e un suo strumento di destabilizzazione regionale.
  Quella in atto è una vera e propria guerra tra l’esercito israeliano e una struttura militare che occupa il suolo libanese con l’obiettivo di aggredire Israele.
  Sulla questione delle abitazioni civili colpite dall’IDF nel sud del Libano, anche in questo caso la responsabilità ricade su Hezbollah che le utilizza per nascondere missili, armi e per lanciare attacchi contro Israele. Una tattica ben nota e già vista anche a Gaza ad opera di Hamas. L’immagine del missile cruise posizionato all’interno di un’abitazione civile e pronto per essere lanciato dalla finestra ha fatto il giro del mondo, mostrando la reale natura terroristica di Hezbollah.
  E’ inoltre utile ricordare che Hezbollah è da mesi che bersaglia i centri abitati del nord di Israele. Più di 60,000 cittadini israeliani sono attualmente sfollati e aspettano di poter rientrare nelle proprie abitazioni. La situazione è diventata insostenibile e Israele ha il diritto e il dovere di garantire ai propri cittadini la normalità. Questo non può avvenire senza un intervento forte nei confronti della minaccia, ovvero Hezbollah.
  Bisogna poi aggiungere che le stesse preoccupazioni di molti enti internazionali non sono state riscontrate nei confronti dei civili israeliani bersagliati da Hezbollah.
  In ultimo, si è addirittura letto che Hezbollah non era in grado di mettere in atto un attacco in stile 7 ottobre, nonostante le superiori capacità militari ed operative rispetto a Hamas. Già di per sé tale affermazione è contraddittoria per sua natura, visto che maggiori capacità e strumenti a disposizione permettono una maggior scelta tattica.
  Il presidente israeliano, Israel Herzog, ha reso noto che i comandanti di Hezbollah (eliminati in un raid aereo) si erano riuniti a Beirut per pianificare proprio un attacco in stile 7 ottobre nel nord di Israele, a ridosso del confine con il Libano.
  Anche il sito statunitense Al-Monitor ha citato una fonte vicina a Hezbollah, la quale ha affermato che tale incontro era stato organizzato per pianificare un’invasione su vasta scala della Galilea settentrionale.
  Questa, che piaccia o no, è la situazione reale sul campo, priva di teorie quanto meno faziose che non tengono conto dei fatti concreti.

(L'informale, 27 settembre 2024)

........................................................


Parashà di Nitzavìm-Vayèlekh: Vi sono diversi tipi di ‘Avodà Zarà

di Donato Grosser

In questa parashà Moshè avvertì il popolo di non pensare che qualcuno possa evitare la punizione divina se servirà “gli dei falsi e bugiardi”. Moshè disse: “Non vi sia tra di voi un uomo o una donna o una famiglia o una tribù il cui cuore si distolga [dall’accettare il patto] dell’Eterno nostro Dio, per andare a servire gli dei di altre nazioni; non vi sia tra di voi una radice che produca veleno e assenzio. E non avvenga che qualcuno, dopo aver udito le parole di questo giuramento, si lusinghi in cuor suo dicendo: Avrò pace, anche se camminerò secondo l’ostinazione del mio cuore […]. L’Eterno non lo vorrà perdonare […] (Devarìm, 29: 17-19).
  R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p. 371-2) si sofferma sulle parole “Avrò pace, anche se camminerò secondo l’ostinazione del mio cuore”. R. Elyashiv scrive: Sembra impossibile capire come una persona possa pensare di darsi all’idolatria e di non essere soggetto a nessuna punizione divina. Perché quindi è necessario che venga scritto che “L’Eterno non lo vorrà perdonare”?.
  Per rispondere a questa domanda r. Elyashiv cita i Maestri nel trattato ‘Avodà Zarà (Sull’idolatria, culti estranei, 14b) dove è raccontato che il nostro patriarca Avraham scrisse un trattato sull’idolatria di quattrocento capitoli. Possibile che una trattato su questo argomento comprendesse tanti capitoli? Bisogna capire quindi che vi sono molti tipi e manifestazioni di ‘Avodà Zarà. Per esempio, nel trattato talmudico di Sotà (Sulla donna traviata, 4b) i Maestri affermano che una persona arrogante assomiglia a chi si dedica all’idolatria. Nel trattato di Ketubòt (Sui contratti matrimoniali, 68a), è detto che chi ignora il suo dovere di fare beneficenza assomiglia a chi “adora le stelle” e così via. Questi sono quindi alcuni degli argomenti che erano compresi nel trattato del patriarca Avraham.
  In verità le persone arroganti, coloro che ignorano la beneficienza, o anche che si adirano facilmente non pensano affatto di commettere delle trasgressioni che hanno a che fare con l’idolatria.
  Al contrario, sono lontanissimi dal commettere questa trasgressione. Queste persone frequentano regolarmente il bet ha–kenèsset (la sinagoga), indossano i tefillìn (filatteri) e si comportano in modo regolare. Con tutto ciò la Torà testimonia che nel fondo di queste persone esiste un seme di ‘Avodà Zarà o, nel linguaggio della Torà, “una radice che produce veleno e assenzio”.
  Poiché questa persona pensa “camminerò secondo l’ostinazione del mio cuore”, egli ritiene di essere a posto e non si rende conto affatto del suo peccato. E così il Signore non lo potrà perdonare. Anche il profeta Geremia (2:35) espresse questo concetto quando disse: “Ecco, Io entrerò in giudizio con te, perché hai detto: Non ho peccato”.
  R. Elyashiv conclude che non è possibile tornare sulla via retta senza la Torà. Per questo motivo i nostri Maestri nella quinta benedizione della ‘amidà (la tefillà, preghiera, che comprende diciotto benedizioni), le parole “fai sì che possiamo tornare alla Tua Torà” precedono le parole “e fai sì che possiamo tornare con totale pentimento alla Tua presenza”.
  R. Joseph Pacifici in Hearòt ve-He’aròt (p. 231) commenta che Moshè sapeva che in quel momento non vi era tra il popolo nessuno che adorava gli idoli, ma temeva che ci fosse qualche “radice” di opinioni false (“veleno e assenzio”) dalla quale sarebbe potuta scaturire l’idolatria. R. Pacifici aggiunge che se non si sradicano le opinioni false dalla radice, ne può venire fuori l’idolatria e sottolinea quindi che lo studio della Torà fatto nel modo giusto impianta nell’uomo opinioni consone con la Torà.

(Shalom, 27 settembre 2024)
____________________

Parashà della settimana: Nitzavim
........................................................


Netanyahu smentisce le notizie di un imminente cessate il fuoco con Hezbollah

"La notizia di un cessate il fuoco è falsa. Si tratta di una proposta americano-francese alla quale il primo ministro non ha nemmeno risposto", ha dichiarato l'ufficio del primo ministro israeliano.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu giovedì ha smentito le notizie secondo cui Israele starebbe per concludere un cessate il fuoco con Hezbollah in Libano.
"La notizia di un cessate il fuoco è falsa. Si tratta di una proposta americano-francese alla quale il Primo Ministro non ha nemmeno risposto", ha dichiarato il suo ufficio mentre Netanyahu si recava a New York per parlare all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite venerdì.
"Anche la notizia di un presunto ordine di moderare i combattimenti nel nord è falsa", ha proseguito il comunicato. "Il Primo Ministro ha dato istruzioni all'IDF di continuare a combattere con piena forza e secondo i piani che gli sono stati presentati", ha dichiarato il suo ufficio.
Anche le operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza continueranno "fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi di guerra", ha aggiunto il comunicato.
Pochi minuti dopo, il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X: "Non ci sarà alcun cessate il fuoco nel nord. Continueremo la lotta contro l'organizzazione terroristica Hezbollah con tutte le nostre forze fino alla vittoria e al ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case".
Le dichiarazioni arrivano dopo che i membri della coalizione di Netanyahu hanno respinto la proposta statunitense-francese di un cessate il fuoco di 21 giorni.
"La campagna nel nord può terminare solo con uno scenario: lo smantellamento di Hezbollah e l'eliminazione della sua capacità di danneggiare i residenti del nord", ha dichiarato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, un membro chiave della coalizione di governo.
Gli Stati Uniti, l'Australia, il Canada, l'Unione Europea, la Francia, la Germania, l'Italia, il Giappone, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar hanno chiesto congiuntamente, mercoledì sera, un "immediato cessate il fuoco di 21 giorni al confine tra Libano e Israele per creare lo spazio per una soluzione diplomatica".
In precedenza, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il Presidente francese Emmanuel Macron avevano dichiarato che era "tempo di una soluzione al confine israelo-libanese che garantisca la sicurezza in modo che i civili possano tornare alle loro case".
Nessuna delle due dichiarazioni faceva riferimento a Hezbollah.

(Israel Heute, 26 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Israele: “Hezbollah responsabile di un duplice crimine di guerra”

di Olga Flori

Nelle ultime 24 ore Israele ha attaccato 1600 obiettivi terroristici in Libano, avvertendo prima con telefonate, comunicazioni radiofoniche, siti internet e sms i civili di evacuare alcune zone del Paese interessate dalle operazioni militari. Sono queste le ultime informazioni fornite dal portavoce del governo israeliano, David Mencer che, nel corso di una conferenza stampa, martedì 24 settembre, ha accusato l’organizzazione terroristica di Hezbollah di un “doppio crimine di guerra”: «Hezbollah sta mettendo in pericolo i cittadini libanesi usandoli come scudi umani per nascondere le loro armi e per portare avanti attacchi contro Israele».
   «Preferiremo sempre una soluzione diplomatica» ha ribadito Mencer «ma per 11 mesi e mezzo Hezbollah l’ha rifiutata e il governo libanese non è stato in grado di fare pressioni sull’organizzazione terroristica». Mencer ha spiegato che «l’Iran ha creato un anello di organizzazioni terroristiche [intorno ad Israele] da Hezbollah in Libano, Huthi in Yemen e altre milizie. Riceviamo missili anche dall’Iraq. Siamo in alta allerta».
   A Shalom il portavoce del governo israeliano ha risposto sull’eventuale impatto dell’escalation militare in Libano sui colloqui per un cessate il fuoco, considerando che Hezbollah ha affermato che i suoi attacchi sono direttamente collegati alle operazioni militari a Gaza. Mencer ha spiegato che «la preoccupazione di Hezbollah di lanciare missili verso Israele per sostenere la causa palestinese non ha senso. Da oltre 76 anni molti palestinesi dentro al Libano non hanno mai ottenuto la cittadinanza. […] Si tratta di un odio patologico contro Israele». Le negoziazioni con Hamas, secondo quanto riferito dal portavoce israeliano, stanno proseguendo sulla base delle linee previste dagli Stati Uniti per prevedere il ritorno degli ostaggi e per raggiungere gli altri obiettivi della guerra.
   Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che le azioni militari israeliane sono dirette contro l’organizzazione terroristica di Hezbollah e non contro il popolo libanese. Operazioni che hanno l’obiettivo di prevenire la minaccia di Hezbollah (eliminando leader di Hezbollah, i missili e le armi del gruppo), secondo quanto ribadito in data odierna nel corso della conferenza stampa. Mencer ha anche sottolineato che «alcuni dei leader di Hezbollah che abbiamo eliminato hanno sangue americano sulle loro mani e di 250 marine US degli anni ’80, oltre che di soldati francesi».
   Dal giorno successivo al massacro del 7 ottobre, Hezbollah ha attaccato Israele con missili, droni ed oltre 9100 razzi, ferendo oltre 345 israeliani ed uccidendo 48 persone tra cui 12 bambini drusi israeliani su un campo da calcio. L’organizzazione terroristica ha colpito città del nord, abitazioni civili, kibbutzim e bestiame. Sono oltre 63mila gli israeliani evacuati dal nord del paese per motivi di sicurezza. «Non è una realtà sostenibile» ha spiegato Mencer.

(Shalom, 26 settembre 2024)

........................................................


Il tacito consenso islamico

E' un po' come se, sotto sotto, approvino la guerra di Israele contro il terrorismo islamico

Se c’è una cosa che appare roboante in merito alle guerre di Israele contro Hamas e contro Hezbollah, è il tacito consenso islamico all’annientamento dei terroristi palestinesi e dei terroristi al soldo di Teheran.
Il silenzio dei regimi islamici, in particolare di quelli arabi, non stupisce più di tanto. Al di là del lato formale e delle condanne di circostanza, il rapporto tra Israele e gli Stati Arabi non è mutato nemmeno dopo la distruzione di Gaza. Gli Accordi di Abramo non ne hanno minimamente risentito.
Meno che meno stupisce il silenzio arabo sull’attacco di Israele a Hezbollah. Persino Bashar Assad non è andato oltre le denunce di circostanza, forse perché stanco di vedersi bombardato per colpa dell’Iran e di Hezbollah.
Se qualche voce si è alzata è per chiedere di tener fuori il popolo libanese. Almeno fino a quando sarà possibile dato che Hezbollah, esattamente come Hamas, usa le abitazioni civili, le scuole e gli ospedali come rifugio o, peggio, come base di lancio per gli attacchi.
Scudi umani. Secondo Ynet, dieci anni fa, Hezbollah lanciò un’iniziativa segreta per offrire incentivi finanziari alle famiglie sciite nel Libano meridionale se avessero assegnato una stanza della loro casa a un lanciamissili a lungo raggio. Il missile, con una testata pesante, sarebbe stato pronto per essere lanciato da quella stanza. La stanza avrebbe avuto un tetto rimovibile, consentendo di sparare rapidamente.
Ynet ha aggiunto che Hezbollah ha scelto specificamente le famiglie povere sciite che avevano bisogno di un reddito extra. A quanto si dice, Hezbollah ha acquistato appezzamenti di terreno e ci ha costruito case residenziali, offrendole a un prezzo ridotto o gratuitamente se le famiglie erano disposte a immagazzinare missili.
L’Iran, chiaramente incapace (o timorosa) di dare il via a una iniziativa bellica in aiuto di Hezbollah, che pure lo ha chiesto, alle Nazioni Unite ha provato a mettere insieme il mondo islamico contro Israele. Non ha funzionato, o ha funzionato poco. Anzi, la mossa ha mostrato la tigre di carta che si nasconde dietro la facciata da bullo degli Ayatollah.
Gli arabi sono stanchi dei palestinesi. Miliardi e miliardi di dollari in aiuto di uno Stato che non nascerà mai, con leader corrotti o votati unicamente alla Jihad. Un popolo che non ha storia, di cui non si sapeva niente prima degli anni 70 quando è stato inventato come arma contro Israele. Un’arma che agli arabi adesso non serve più, ma che fa comodo all’Iran e a tutto il mondo antisemita che ogni giorno brama una strage da usare contro Israele.
L’unico caso che in parte si discosta dagli Stati arabi è quello del Qatar, che con Al Jazeera diffonde propaganda pro-Hamas e pro-Hezbollah a grandi mani e che, come maggiore finanziatore del terrorismo islamico, da ISIS fino ad Hamas, non gradisce particolarmente che Israele gli rompa i giocattoli.
Noi abbiamo chiesto diverse volte e in diverse occasioni ad Al Jazeera e ai loro giornalisti come spiegavano il sostanziale silenzio degli arabi sulle guerre di Israele e come mai gli Accordi di Abramo non ne avessero risentito. Ma non abbiamo mai avuto risposta. Troppo piccoli noi, troppo bugiardi loro.
Diciamolo chiaramente, il silenzio islamico assomiglia tantissimo ad un tacito consenso. La vita nei paesi arabi scorre senza scossoni, senza grandi proteste contro Israele. Anzi, le proteste contro Israele sono vietate in diversi stati arabi, compresa l’Arabia Saudita. Paradossalmente ci sono più proteste contro Israele in Occidente di quante ce ne siano nel mondo islamico. Magari se qualcuno lo facesse notare anche ai nostri tromboni non sarebbe male.

(Rights Reporter, 26 settembre 2024)

........................................................


La BBC vieta di chiamare quelli di Hamas “terroristi”

di Nathan Greppi

Yariv Mozer, regista israeliano del documentario We Will Dance Again, incentrato sul massacro avvenuto al Supernova Music Festival, ha raccontato in una recente intervista rilasciata a The Hollywood Reporter di aver dovuto evitare di descrivere Hamas come un’organizzazione terroristica se voleva che andasse in onda sulla BBC. Il film, trasmesso dall’emittente pubblica britannica mercoledì 25 settembre e commissionato dalla BBC Storyville, contiene filmati inediti del massacro di Hamas avvenuto al festival musicale il 7 ottobre 2023.
  Mozer ha dichiarato a The Hollywood Reporter che questa era una concessione che ha dovuto fare affinché il film ricevesse la giusta copertura nel Regno Unito: “Era un prezzo che ero disposto a pagare affinché il pubblico britannico potesse vedere queste atrocità e decidere da sé se si tratta o meno di un’organizzazione terroristica”, ha detto.
  Successivamente, il documentario verrà proiettato anche in Spagna e in Australia. Mentre negli Stati Uniti, è stato acquisito dalla piattaforma streaming Paramount+. Mozer ha raccontato di aver offerto We Will Dance Again a più piattaforme di streaming negli Stati Uniti; tuttavia, secondo quanto riferito, non erano disposti a riprenderlo a causa delle loro preoccupazioni in merito alla situazione politica attuale. “Il film non è politico – ha affermato Mozer -. È raccontato attraverso gli occhi dei sopravvissuti e quelli di Hamas. C’è la verità su quello che è successo”.

• FILMATI ATROCI
  Per quanto riguarda il contenuto del documentario, e l’utilizzo di filmati pieni di violenza, Mozer ha detto che voleva conservarne il più possibile, per poter mostrare quale fosse la portata dell’attacco e la brutalità con la quale Hamas ha colpito persone che non potevano difendersi. “Un brutale movimento fondamentalista sta cercando ossessivamente di distruggere i valori della società occidentale. Si trattava di giovani ad un festival musicale che celebrava la vita, l’amore e la pace: molto ingenui e di spirito libero. E hanno incontrato le persone peggiori, che amano la morte”.
  Il documentario fa una ricostruzione minuziosa: partendo dal momento precedente all’attacco, iniziato alle 6:30 di sabato 7 ottobre, descrive gli eventi utilizzando testimonianze, video, telecamere a circuito chiuso, filmati GoPro dal live streaming di Hamas e filmati di telefoni e dashcam. Il filmato copre le oltre sei ore in cui le persone hanno cercato di nascondersi o fuggire dai terroristi.

• L’OPERATO DELLA BBC
  Intervistato da Israel Hayom, Asserson ha spiegato la sua teoria in merito alle ragioni dietro alla mancanza di obiettività da parte dell’emittente: “Sulla carta, la BBC si impegna rigorosamente ad essere oggettiva e imparziale, ma la sua direzione non ha regole effettive per assicurarsi che sia rispettato questo impegno. Noi ora possiamo dimostrare, attraverso le ricerche che abbiamo condotto, quanti intervistati sono vicini ai palestinesi e quanti a Israele, quanti contenuti mostrano empatia verso Hamas, ma l’azienda stessa non ne ha idea. Non possiede dati, non controlla le proprie produzioni, e in tal modo si permette di aggirare i suoi stessi standard”.
  “La seconda ragione -, ha continuato Asserson – è che attaccare Israele è diventato lo sport di riferimento per gruppi di sinistra che si definiscono ‘progressisti’. Nel corso degli anni, questa tendenza è peggiorata. I giornalisti della BBC hanno adottato classici preconcetti di sinistra per quel che concerne Israele, e così loro, compresi quelli più estremi, sentono che la direzione non li supervisiona e lascia mano libera per mettere in atto delle manipolazioni, e persino per creare notizie false anziché riportare quelle vere. La BBC è stata presa in ostaggio da persone che fanno pienamente parte di questa propensione all’odio contro Israele”.

(Bet Magazine Mosaico, 26 settembre 2024)

........................................................


ROMA – I volti di Israele, la testimonianza di rav Ascoli ‍‍

Misurare cosa è cambiato nella società israeliana dopo il 7 ottobre è uno degli obiettivi del ciclo di incontri “I tanti volti di Israele”, promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dal Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma.
Stasera alle 20.45 porterà una sua testimonianza al Pitigliani l’ingegnere e rabbino Michael Ascoli, già docente al Collegio Rabbinico Italiano e assistente del rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni. Dal 2010 rav Ascoli vive a Haifa, dove svolge la professione di project manager. Apriranno l’incontro i saluti della presidente Ucei Noemi Di Segni e del presidente del Pitigliani Daniel Coen. L’ospite sarà poi intervistato da Raffaele Genah, ex capo sede Rai per il Medioriente.
Nel numero di ottobre di Pagine Ebraiche in arrivo nelle case, rav Ascoli affronta uno dei dilemmi che attraversano la società israeliana di questi tempi: «Riportare a casa gli ostaggi o garantire la sicurezza nazionale?».

(moked, 26 settembre 2024)

........................................................


Antisemitismo incandescente

di Niram Ferretti

Nel teatro metafisico e apocalittico di Hezbollah, il Partito di Dio, nato nel 1982 a seguito dell’operazione israeliana del Libano del sud contro l’OLP, non è solo Israele a rappresentare il male assoluto ma lo sono gli ebrei in quanto tali. L’antisemitismo è una componente persistente della formazione radicale musulmana sciita, mano longa dell’Iran in Medioriente.
  Nel 2002, Hassan Nasrallah il segretario generale del partito, disse al giornalista americano Jeffrey Goldberg: “Se cercassimo nell'intero mondo delle persone più vigliacche, disprezzabili, deboli e senza nerbo nella psiche, mente, ideologia e religione, non troveremmo nessuno come gli ebrei. Noti, non sto dicendo gli israeliani ma gli ebrei”. Lo stesso Nasrallah che, sempre nel 2002, dichiarò al Daily Star di Beirut, “Se gli ebrei si radunassero in Israele, ci risparmierebbero la fatica di cercarli in giro per il mondo”.
  Come ha scritto Robert S. Wistrich, nel suo opus magnum, A lethal obsession, Antisemitism from Antiquity to the Global Jihad, “Hezbollah considera chiaramente il suo conflitto con Israele come una lotta per la vita o la morte. Questa lotta è simultaneamente storica, sociale e culturale, con le sue radici in una battaglia lunga tredici secoli tra l’ebraismo e l’Islam”.
  La guida spirituale di Hezbollah, il suo chierico più influente, lo sceicco Muhammad Husayn Fadallah, spiegava come il sionismo null’altro fosse se non la maschera del “giudaismo politico” e che il suo nucleo portante fosse da trovarsi nella continua e invincibile aggressione degli ebrei per i musulmani radicata nel rigetto ebraico di Allah. Tutto ciò non ha mai impedito che in Occidente, Hezbollah trovasse ammiratori, anche tra file ebraiche di estrema sinistra.
  Nel 2009 l’attivista antiisraeliano, ex professore universitario e politologo statunitense Norman Finkelstein, pupillo di Noam Chomsky, imbastiva una apologia di Hezbollah davanti a una giornalista libanese palesemente spiazzata da ciò che il suo ospite stava dicendo, ovvero che l’antagonismo di Hezbollah a Israele andrebbe inteso come una lotta per non soccombere alla “schiavitù” inevitabile che verrebbe imposta al Libano da parte di Israele e degli Stati Uniti, dipinti come stati guerrafondai e imperialisti interessati ad estendere il proprio dominio sulla regione. L’anno dopo sarebbe stato il turno del suo mentore Noam Chomsky che si recò in Libano per incontrare l’allora capo spirituale di Hezbollah, Mohammad Hussein Fadlallah, (dopo avere già incontrato nel 2006 Nasrallah) grande sostenitore della distruzione di Israele e degli attacchi terroristici contro civili inermi, il quale definì “eroico” il massacro alla yeshiva Mercaz HaRav avvenuto nel 2008 in cui vennero massacrati otto studenti religiosi ebrei.
  In Europa c’è chi andava con Hezbollah a braccetto per le strade di Beirut, come l’ex Ministro degli Esteri Massimo D’Alema, il quale, nel 2006, si accompagnava con un deputato del partito perché Hezbollah era “un interlocutore necessario per la pace”. Il ragionamento allora svolto fu il seguente:
  “Hezbollah mi sembra difficilmente liquidabile come un gruppetto terroristico essendo un movimento di natura assai complessa. Hezbollah è innanzitutto un partito politico che gode di un vasto consenso democratico, di una robusta rappresentanza parlamentare e che fa parte del governo di quel Paese che le Nazioni Unite dicono che dobbiamo sostenere”.
  Sicuramente, per i distratti, non per gli appassionati della malafede il consultare cosa pensa specificamente l’Unione Europea di Hezbollah, potrebbe essere utile, laddove il Regolamento d’esecuzione (UE) 2018/468 del Consiglio del 21 marzo 2018 che attua l’Articolo 2, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2580/2001 relativo a misure restrittive specifiche, contro determinate persone ed entità, destinate a combattere il terrorismo, e che abroga il regolamento di esecuzione (UE) 2017/1420, continua ad inserire fra gli organismi terroristici l’«Ala militare di Hezbollah» («Hizballah Military Wing») [alias «Hezbollah Military Wing», alias «Hizbullah Military Wing», alias «Hizbollah Military Wing», alias «Hezballah Military Wing», alias «Hisbollah Military Wing», alias «Hizbùllah Military Wing», alias «Hizb Allah Military Wing», alias «Consiglio della Jihad» (e tutte le unità che dipendono da essa, compresa l’Organizzazione per la sicurezza esterna)].
  La visione del mondo di Hezbollah è quella rigorosamente islamica incarnata dalla teocrazia sciita iraniana per la quale Israele è uno stato da annichilire e gli Stati Uniti sono il Grande Satana. Gli appartenenti al gruppo non hanno mai fatto mistero del loro antisionismo radicale forgiato sull’incudine del loro antisemitismo: un insieme di antigiudaismo coranico abbinato all’antisemitismo cospirazionista originato da “I Protocolli dei Savi di Sion”, l’Urtext di tutti gli antisemiti del Novecento, Hitler in testa.
  Dobbiamo a Muhammad Husayn Fadlallah, la dovuta chiarezza sull’argomento, “Gli ebrei desiderano minare o obliterare l’Islam e l’identità culturale araba in modo da incrementare il loro dominio economico e politico”, una frase  che sembra uscita direttamente dai Protocolli. D’altronde, per ribadire meglio il concetto, nel 2008, l’emittente televisiva dell’organizzazione islamica, Al Manar mise in onda un programma il cui fulcro era la cospirazione ebraica per dominare il mondo a cui veniva aggiunta una variante moderna dei libelli medioevali antiebraici, la responsabilità diretta degli ebrei nella diffusione dell’AIDS.
  Il gemellaggio tra Hezbollah e Hamas, al di là delle differenze denominative, (lo sciismo per il primo, il sunnismo per il secondo) non può essere più stretto, l’antisemitismo virulento, lo stesso che ha motivato l’eccidio del 7 ottobre scorso.
  Nel gennaio 2010, il Segretario di Stato Hillary Clinton avviò delle trattative con i talebani. “Non fai pace con i tuoi amici. Devi essere disposto a impegnarti con i tuoi nemici”, spiegò. Fu un duro colpo per il governo afghano eletto e una scarica di adrenalina per gli talebani insorti . Per la Clinton, però, si trattò solo di realismo. Non importava quanto potessero essere detestabili i talebani, erano una realtà. Gli Stati Uniti non potevano né sconfiggere il gruppo né farli scomparire.
  Gli stessi atteggiamenti verso i gruppi terroristici permeano ampiamente, non solo Washington, ma anche l’Europa e le Nazioni Unite. Dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, un attacco che ha causato la morte in un singolo giorno di più ebrei dall’ epoca dell’Olocausto, i diplomatici hanno scrollato le spalle e hanno sollecitato la negoziazione. Dopo tutto, Hamas controllava Gaza. Era una realtà impossibile da invertire. Usare la forza militare per sradicarlo sarebbe equivalso a pugnalare la gelatina. La maggioranza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite era dello stesso avviso, premiando il terrorismo palestinese nel concedere l’adesione allo Stato di Palestina.
  La stessa valutazione vale per Hezbollah. Il 20 settembre 2024, un orientalista britannico ha affermato che “gli interessi dell’Iran, di Hezbollah e, a lungo termine, di Israele, non risiedono in una guerra con obiettivi massimalisti, ma in uno stato di coesistenza che, per quanto deplorevole e cinico possa essere, include tutto tranne la guerra”.
  Ci sono tre fattori che governano tali atteggiamenti. Il primo è l’eredità delle frequenti rotazioni di diplomatici e funzionari internazionali. Il saccheggio di Kabul da parte dei talebani nel 1996 o la presa del potere da parte di Hamas a Gaza poco più di un decennio dopo possono essere stati scioccanti nella loro brutalità, ma le rotazioni diplomatiche ogni anno o due li hanno normalizzati. Per quanto riguarda i diplomatici, i talebani rappresentavano la cultura pashtun e lo hanno sempre fatto, ed era normale che i terroristi controllassero il Ministero della Salute di Gaza.
  Il secondo è l’assenza di consapevolezza storica e di visione strategica. L’islamismo è semplicemente l’ultimo “ismo” ad avere invaso il Medio Oriente. Il nazionalismo arabo del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser è scomparso con il tempo e così faranno anche le visioni islamiste dell’ayatollah Ruhollah Khomeini o di Recep Tayyip Erdoğan. Né è corretto supporre che sia impossibile sconfiggere l’ideologia. Il gruppo Baader Meinhof è scomparso molto prima della fine dell’Unione Sovietica. Ciò è vero anche quando il gruppo ideologico controlla il territorio. Né l’Occidente né le Nazioni Unite sono scese a compromessi con i Khmer Rossi mentre trasformavano la Cambogia in campi di sterminio. Il gruppo è scomparso dopo l’invasione del Vietnam allo scopo di porre fine al terrore. La forza militare ha ampiamente sconfitto il califfato dello Stato islamico, anche se la Turchia di Erdoğan cerca di tenerlo in vita.
  Il terzo è la condiscendenza, se non il razzismo e l’antisemitismo. Gli Stati Uniti e l’Europa possono avere uno standard di tolleranza per quanto riguarda il terrorismo ai loro confini, ma i diplomatici che dominano il Foreign Office insinuano che Israele e gli arabi vivano secondo standard inferiori.
  L’operazione “Sotto la cintola” di Israele del 17 settembre 2024 o, come l’ha definita Michael Doran dell’Hudson Institute, “l’Operazione Grim Beeper”, è stata brillante dal punto di vista tattico e strategico. Ha preso di mira Hezbollah in modo preciso e ha neutralizzato il gruppo con effetti devastanti. Gli attacchi successivi di Israele contro le radio e gli scontri faccia a faccia hanno lasciato Hezbollah nel caos. Mai nei 42 anni da quando la Repubblica islamica dell’Iran ha formato il gruppo esso è stato così vicino a un colpo definitivo. È tempo che Israele sferri questo colpo.
  Guidando nel Libano meridionale nel 2020, ho incontrato membri attuali ed ex di Hezbollah nel loro territorio. Seduti in una sala da tè appena fuori Nabitiyeh, in Libano, i membri di Hezbollah, tra cui un uomo che aveva trascorso anni in una prigione israeliana, hanno detto che ne avevano abbastanza. Israele esisteva, Hezbollah era più una mafia che un movimento di liberazione e volevano solo la normalità. Quella “pressione massima” ha prosciugato le risorse di Hezbollah e ha solo accelerato tali conclusioni. Molti hanno maledetto l’Iran e hanno visto il commercio di confine con Israele prima del 2000 come un periodo d’oro per il Libano meridionale.
  Quando Israele invase per la prima volta il Libano nel 1982, gli sciiti libanesi li acclamarono mentre gli israeliani cacciavano l’Organizzazione per la liberazione della Palestina dalle loro città e dai loro villaggi. La luna di miele fu breve, poiché Israele si trattenne oltre il suo benvenuto e il corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche e la Siria cercarono separatamente di riempire il vuoto con gruppi fedeli a Teheran o Damasco ma ostili a Israele. L’Iran vinse la guerra civile intra-sciita del Libano entro il 1986, ma 38 anni dopo, gli sciiti libanesi ne hanno avuto abbastanza.
  Gli Antony Blinken, i Jake Sullivan, i Jeremy Corbyn e i David Lammy potrebbero cercare di preservare lo status quo, ma Israele non dovrebbe farlo. Eliminare Hezbollah e ripristinare la piena sovranità del Libano cambierebbe il paradigma strategico e cambierebbe la convinzione diplomatica prevalente che sia necessario parlare con i terroristi piuttosto che elaborare strategie preordinate alla loro sconfitta.

(L'informale, 25 settembre 2024)

........................................................


I nemici di Israele aiutano Israele contro altri nemici

È così semplice. Quello che sta accadendo ora in Libano è esattamente questo.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Negli ultimi giorni e settimane, Israele ha dimostrato ai suoi nemici di avere tutte le informazioni segrete necessarie per uccidere uno ad uno l'intera leadership di Hezbollah. Questo perché la milizia terroristica sciita ha abbastanza nemici in Libano che stanno generosamente aiutando Israele a sbarazzarsi della piaga di Hezbollah in Libano - cristiani, drusi e sunniti. Ma Israele sa anche come usare i suoi nemici in Siria per attaccare altri nemici. La stragrande maggioranza dei siriani è sunnita e l'Iran è diventato sempre più potente nel Paese dallo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011. Questo era importante e necessario per il regime di Assad, ma ora l'Iran e gli sciiti in Siria sono diventati troppo potenti e questo crea sfiducia e inimicizia. Una brillante opportunità per Israele.
Nell'ultimo anno, questi gruppi hanno ripetutamente sottolineato nei media libanesi che loro e il Libano non vogliono una guerra con Israele. Ieri abbiamo mostrato un video sul canale Telegram che mostra come i cristiani libanesi non accolgano gli sfollati del Libano meridionale e gli scontri nel quartiere residenziale di Ain al-Rummaneh, un sobborgo cristiano di Beirut.
Il motivo: i residenti cristiani del sobborgo si rifiutano di accogliere nel loro quartiere gli sciiti di Nasrallah fuggiti dal sud del Libano.
Alla fine di luglio, il leader di Hamas Ismail Haniye è stato ucciso nel cuore di Teheran, pochi giorni dopo l'eliminazione del numero due della milizia terroristica sciita Hezbollah, Fuad Shukr, nel cuore di Beirut. Poi, improvvisamente, migliaia di cercapersone sono esplosi nelle tasche dei terroristi Hezbollah in Libano e in Siria. L'aviazione israeliana ha poi immediatamente bombardato i depositi di armi e razzi nel sud del Libano. Israele ha anche tutti i dettagli e i luoghi in cui Hezbollah li nasconde. So da varie fonti a Gerusalemme che i drusi e i cristiani, ma anche i sunniti in Libano, sostengono Israele nella guerra contro gli sciiti e Hezbollah. È stato così anche nella prima guerra del Libano, nel 1982, quando cristiani e drusi hanno inizialmente operato con Israele contro i terroristi palestinesi dell'OLP in Libano, finché tutto è andato storto.
Non è un segreto che la milizia terroristica sciita stia subendo pesanti colpi da Israele in questi giorni e sembra che Hassan Nasrallah si aspetti un aiuto urgente dall'Iran. Ma finora il regime degli ayatollah non ha mai preso le difese delle sue milizie in Libano.
Questo potrebbe essere il motivo per cui il presidente iraniano Massud Peseshkian ha dichiarato ieri che l'Iran non vuole la guerra. "È Israele che vuole trascinare l'Iran in una guerra su larga scala in Medio Oriente e tendere trappole a Teheran affinché si unisca a tale guerra". Peseshkian, che si è recato a New York per partecipare all'annuale Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato: "Non vogliamo essere la causa dell'instabilità in Medio Oriente, perché le conseguenze sarebbero irreversibili. Non vogliamo la guerra, vogliamo vivere in pace, mentre è Israele che vuole provocare una guerra totale". Ha sottolineato che l'Iran è consapevole che in una guerra non ci sono vincitori. "In una guerra e in un conflitto tutti perdono, ci inganniamo se crediamo che qualcuno possa uscire vincitore da una guerra regionale", ha detto il presidente iraniano. "Sappiamo meglio di chiunque altro che una guerra in Medio Oriente non porterà benefici a nessuno nel mondo. Non vogliamo la guerra".
Finora l'Iran non ha reagito all'uccisione di Ismail Haniye. Israele ha anche dimostrato all'Iran di avere un'intelligence precisa che opera in profondità tra i ranghi delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Ora si ipotizza che anche il Presidente iraniano Ebrahimm Raisi, destituito a maggio, sia stato un obiettivo dell'intelligence israeliana, dopo che è stata diffusa una sua foto che mostra un cercapersone accanto a lui.
Ammettere pubblicamente una cosa del genere sarebbe motivo di imbarazzo per il regime degli ayatollah. È possibile che Israele sia riuscito a dimostrare all'Iran che non vale la pena di mettersi contro Israele? Dopo tutto, l'attacco missilistico iraniano contro Israele a metà aprile è fallito. In seguito si è persino scoperto che la metà dei missili era un'arma difettosa. Forse l'Iran si sta rendendo conto di non essere attrezzato per una guerra con Israele? Le cose potrebbero cambiare, perché è in gioco anche l'onore. Gli sciiti e l'Iran possono rendersi ridicoli di fronte ai loro vicini sunniti, come già avviene sui social network e sui media.
Israele opera con astuzia dietro le linee nemiche. "Fai la guerra con l'astuzia, e la salvezza è dove ci sono molti consiglieri", disse il saggio re Salomone, e questo è stato il motto del servizio segreto israeliano Mossad, oltre che dell'esercito, da allora.
All'inizio di aprile, tre giorni dopo che Israele aveva deliberatamente ucciso il comandante iraniano dell'unità Quds, Mohammad Reza Zahadi, in un edificio vicino al consolato iraniano a Damasco, è stato citato un alto funzionario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale a Teheran. Egli ha dichiarato che le forze di sicurezza hanno presentato al Consiglio un rapporto in cui sospettano che funzionari del governo siriano siano coinvolti nell'uccisione di alti comandanti iraniani. Secondo questa fonte mediatica araba, le informazioni segrete delle autorità di sicurezza siriane avrebbero permesso a Israele di compiere le uccisioni. Due mesi prima, fonti iraniane avevano dichiarato alla Reuters che "le autorità di sicurezza iraniane sospettano che attori siriani abbiano fornito a Israele informazioni precise che hanno portato all'uccisione di alcuni alti comandanti delle Quds".
Il mese scorso, il capo di Stato Maggiore siriano Abdul Karim Mohammad Ibrahim ha visitato segretamente Teheran per rafforzare i legami con l'Iran, all'insaputa del presidente siriano Bashar al-Assad. Lo ha riferito l'emittente televisiva saudita Al-Hadath in agosto. Secondo il rapporto, il Capo di Stato Maggiore siriano ha autorizzato operazioni contro Israele dalla Siria senza informare il suo capo Assad, compreso il lancio di droni contro Israele dalla Siria. Queste decisioni hanno portato Israele ad attaccare posizioni siriane e non iraniane. Inoltre, il Capo di Stato Maggiore siriano avrebbe autorizzato la consegna di armi dall'esercito siriano a Hezbollah. "Il Capo di Stato Maggiore siriano sta mettendo a rischio la stabilità della Siria e danneggiando le sue strutture vitali", sostiene il giornale saudita.
Secondo il rapporto, la guerra ha modificato la presenza dell'asse iraniano in Siria. Gli sciiti, iraniani, hanno iniziato a mescolarsi con la popolazione siriana, abusando di loro come scudi umani e mettendoli così in pericolo. Inoltre, risorse civili e apparentemente legittime dello Stato vengono utilizzate per scopi terroristici. La forte presenza iraniana in Siria è evidente anche nel settore civile. Negli ultimi anni, e soprattutto negli ultimi mesi, le attività religiose a Damasco sono aumentate, soprattutto nei luoghi sacri sunniti. Le fonti riferiscono che la presenza iraniana sta diventando sempre più dominante sia nel settore civile che nelle basi dell'esercito siriano.
All'ombra dell'escalation regionale, nei giorni scorsi alcuni rappresentanti del regime di Assad hanno inviato messaggi all'Iran, affermando che la Siria non vuole essere coinvolta in una guerra regionale in Medio Oriente. Questo è stato riportato dal Wall Street Journal. Secondo il rapporto, che si basa sulle dichiarazioni di un consigliere del governo siriano e di un alto funzionario della sicurezza europea, Damasco ha dichiarato di non voler essere coinvolta in una guerra in questo momento a causa della grave crisi economica del Paese e delle sanzioni internazionali contro il regime siriano.
Israele sta sfruttando la situazione in Siria per i propri scopi e sa come colpire gli altri nemici in modo feroce e intenso in questo momento. Israele sta facendo lo stesso in Libano e sta collaborando con i nemici delle milizie terroristiche sciite in Libano contro Hezbollah. Questo spiega il successo delle eliminazioni e dei bombardamenti di depositi di armi e razzi in Libano e in Siria. Israele è in avanzata e non deve fermarsi. Perché i nemici di Israele capiscono solo il potere e altro potere - non la pietà.

(Israel Heute, 25 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


“Cari amici di Israele”

Editoriale di “Nachrichten aus Israel”

di Fredi Winkler

HAIFA - Israele ha giurato di trovare e liquidare tutti i responsabili delle atrocità del 7 ottobre di un anno fa, proprio come fece con gli assassini degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, anche se ci sono voluti 20 anni perché l'ultimo venisse catturato.
Israele conosce abbastanza bene i responsabili, poiché gli stessi membri di Hamas hanno filmato le loro atrocità per potersene vantare in seguito. E la maggior parte di questo materiale cinematografico è finito nelle mani degli israeliani.
Con la liquidazione di Ismail Haniyeh a Teheran, è stato raggiunto un leader di Hamas di altissimo livello. L'attacco contro di lui è stato un colpo da maestro dell'intelligence israeliana, che ha dimostrato come questi efferati assassini non saranno al sicuro da nessuna parte.
L'Iran non poteva credere a quello che era successo. Uno dei suoi più importanti alleati nella lotta contro Israele era stato fatto fuori da Israele nel bel mezzo di Teheran. Le voci più assurde giravano su come Israele fosse riuscito a uccidere Ismail Haniyeh, che era un ospite d'onore sotto la protezione del regime degli ayatollah.
L'Iran non aveva altra scelta che vendicare questa umiliazione. Ma la domanda è: vale la pena di rischiare una grande guerra per questo? Sebbene Ismail Haniyeh sia stato un alleato nella lotta contro il nemico sionista, non era uno sciita come gli iraniani, ma "solo un sunnita". Ma quando si tratta di combattere il nemico sionista, anche le differenze religiose altrimenti rivali nell'Islam scompaiono.
Le dichiarazioni del presidente turco Recep Tayyip Erdogan sono estremamente preoccupanti in questo contesto. Ha minacciato Israele di invaderlo. Questa dichiarazione è una minaccia oltraggiosa, ma Israele deve prenderla sul serio.
Inoltre, Erdogan ha dichiarato una giornata di lutto nazionale per Ismail Haniyeh, durante la quale la bandiera turca è stata esposta a mezz'asta.
Sebbene Turchia e Iran appartengano a campi religiosi diversi all'interno dell'Islam, si stanno avvicinando sempre di più. Ciò che li unisce sempre più è l'opposizione a Israele. Questo crescente avvicinamento ideologico tra Iran e Turchia è un serio motivo di preoccupazione per Israele.
Tuttavia, quattro Stati arabi non hanno condannato l'eliminazione dell'assassino di massa Ismail Haniyeh: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Mauritania e Marocco. Questo dimostra che il mondo arabo e islamico non è così unito come potrebbe sembrare dall'esterno.
Quando la Turchia minaccia di invadere la terra d'Israele, Dio dice: "Nel giorno in cui Gog entrerà nella terra d'Israele, dice il Signore Dio, la mia ira salirà nelle mie narici" (Ezechiele 38:18). Ciò che significa è descritto nei versetti 19 e 20, e poi nel versetto 21 si dice: "E chiamerò la spada contro di lui su tutti i miei monti, dichiara il Signore DIO, e la spada dell'uno sarà contro l'altro".
Il mondo islamico può apparire minaccioso ed esteriormente unificato, ma grazie a Dio ci sono molte crepe. Ci sono anche coloro che vogliono semplicemente pace e tranquillità e che sono contrari alle sciabolate dell'Iran.
Grazie alla Parola di Dio - come in Ezechiele 38, dove possiamo vedere che il Signore stesso combatterà contro i nemici - un caloroso saluto dall'Israele minacciata.

(Nachrichten aus Israel, ottobre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Israele: nozze last minute a pochi chilometri dal confine con il Libano

FOTO
Tanti invitati per un matrimonio programmato da tempo in una location di Haifa. Un desiderio di una giovane coppia di israeliani, Aviram Afota e Shani Vaknin, che l’incessante lancio di missili da parte di Hezbollah ha però dissolto, costringendoli ad annullare il lieto evento.
Tuttavia, Aviram e Shani non hanno perso la speranza e sono riusciti a ripianificare le nozze in una sinagoga a Nahariya, nel nord d’Israele, a circa 10 chilometri dal confine con il Libano. Un matrimonio last minute: poche ore per trovare un truccatore, un event designer, un DJ e un catering e alla fine gli sposi sono stati raggiunti anche da 70 persone, tra familiari e amici. “Queste non saranno nozze tristi perché coloro che devono essere qui, ora sono proprio accanto a noi. – ha detto lo sposo, come riporta Ynet – Certamente, sarebbe stato più gioioso essere in una sala con tutti i nostri amici e la famiglia intera, ma festeggeremo con loro più avanti. La chuppah di oggi è il nostro modo di rispondere a Hezbollah, proprio qui a Nahariya”.
La coppia ha anche auspicato il ritorno degli ostaggi israeliani e la sicurezza dei soldati dell’IDF.
Il padre e il fratello maggiore di Shani fanno parte della squadra di allerta locale del moshav di Shomera, mentre un altro fratello, tornato di recente da Gaza, presta servizio come comandante di plotone nella Brigata Golani. “Stiamo attraversando un momento difficile, ma siamo qui e ringraziamo Dio perché stasera possiamo stare sotto la chuppah e perché nostra figlia sta iniziando la sua vita matrimoniale in Israele. – ha detto la madre di Shani, Ayelet Chen Vaknin. Questa è la nostra forza, la forza del popolo di Israele: siamo qui contro Nasrallah e Hezbollah. – e ha aggiunto – Non ci toglieranno la gioia. Prego per il ritorno di tutti gli ostaggi sani e salvi e che i nostri soldati tornino presto a casa”.

(Shalom, 25 settembre 2024)

........................................................


Gli sciacalli della guerra

Agghiacciante la spasmodica ricerca di bambini tra le vittime dei bombardamenti israeliani, fino quasi ad augurarselo pur di sparare il "titolone".

di Sarah G. Frankl

Ieri sera ho avuto modo di vedere praticamente in diretta una chat privata tra una fonte libanese e alcuni giornalisti che mi dicono essere italiani e inglesi.
  Il libanese avvisava che c’erano morti e feriti tra i civili ma ai giornalisti interessava solo sapere se tra le vittime c’erano bambini e quanti erano. Una cosa incredibile. Tutti lì a sbavare, quasi a sperare che ci fossero bambini tra le vittime così da poter sparare il titolone.
  Noi di RR ci eravamo già accorti su Twitter che, oltre ai video e immagini fake (fatti malissimo) c’era questo interesse quasi morboso per sapere se tra le vittime civili, ammesso che si possa distinguere tra miliziani e civili, ci fossero bambini.
  Ai giornalisti (chiamiamoli così giusto per dar loro una collocazione) non interessava affatto quello che il libanese aveva da dire, tra l’altro non lesinava attacchi a Hezbollah, no, a loro interessava esclusivamente sapere se tra le vittime ci fossero bambini o, in seconda battuta, donne.
  Se nella realtà non si ripete del tutto lo schema di Gaza, grazie al fatto che il Ministero della salute libanese è certamente più attendibile di Hamas, nel mondo virtuale girano numeri e resoconti destituiti di ogni fondamento. Addirittura video e immagini risalenti alla guerra in Siria che mostrano distruzioni assolutamente non compatibili con la situazione in Libano.
  Quello di questi “giornalisti” è uno sciacallaggio sulle vittime innocenti – come ce ne sono in tutte le guerre – che lascia francamente inorriditi. Questa maniacale ricerca di bambini vittime di bombardamenti, anzi, questo schifoso “quasi augurarsi” che vi siano bambini tra le vittime, è agghiacciante.

(Rights Reporter, 25 settembre 2024)

........................................................


Angelica Calò Livne: Mi dispiace per i libanesi ma dobbiamo reagire

La chat del kibbutz Sasa trilla a ciclo continuo. L’invito, reiterato a ogni ora, è a tenere pronto un bagaglio in caso di evacuazione urgente. E in ogni caso a riempire il mamad, la stanza blindata, con tutto il necessario. Perché la situazione da molto complicata potrebbe presto farsi critica.
«Potremmo dover lasciare il kibbutz in ogni momento», racconta l’educatrice italo-israeliana Angelica Edna Calò Livne da Sasa. Il Libano ed Hezbollah sono appena oltre il confine e la pioggia di razzi e missili è la cifra quotidiana del vivere da queste parti. Nelle ultime ore il contesto è ulteriormente peggiorato e un ordigno sparato da Hezbollah ha avuto come conseguenza il divampare di un ampio incendio «partendo dal nostro frutteto». Per fortuna, aggiunge la donna, «mio marito Yehuda, che è il responsabile della sicurezza qui a Sasa, è riuscito ad attrezzare un camion che ci permette di affrontare scenari del genere senza dover attendere l’arrivo dei pompieri». L’incendio è stato domato, ma due kibbutznik del gruppo della sicurezza «sono stati comunque ricoverati in ospedale».

(moked, 24 settembre 2024)

........................................................


Una vittoria israeliana su Hezbollah cambierebbe il paradigma strategico

di Michael Rubin

Nel gennaio 2010, il Segretario di Stato Hillary Clinton avviò delle trattative con i talebani. “Non fai pace con i tuoi amici. Devi essere disposto a impegnarti con i tuoi nemici”, spiegò. Fu un duro colpo per il governo afghano eletto e una scarica di adrenalina per i talebani insorti . Per la Clinton, però, si trattò solo di realismo. Non importava quanto potessero essere detestabili i talebani, erano una realtà. Gli Stati Uniti non potevano né sconfiggere il gruppo né farli scomparire.
  Gli stessi atteggiamenti verso i gruppi terroristici permeano ampiamente, non solo Washington, ma anche l’Europa e le Nazioni Unite. Dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, un attacco che ha causato la morte in un singolo giorno di più ebrei dall’epoca dell’Olocausto, i diplomatici hanno scrollato le spalle e hanno sollecitato la negoziazione. Dopo tutto, Hamas controllava Gaza. Era una realtà impossibile da invertire. Usare la forza militare per sradicarlo sarebbe equivalso a pugnalare la gelatina. La maggioranza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite era dello stesso avviso, premiando il terrorismo palestinese nel concedere l’adesione allo Stato di Palestina.
  La stessa valutazione vale per Hezbollah. Il 20 settembre 2024, un orientalista britannico ha affermato che “gli interessi dell’Iran, di Hezbollah e, a lungo termine, di Israele, non risiedono in una guerra con obiettivi massimalisti, ma in uno stato di coesistenza che, per quanto deplorevole e cinico possa essere, include tutto tranne la guerra”.
  Ci sono tre fattori che governano tali atteggiamenti. Il primo è l’eredità delle frequenti rotazioni di diplomatici e funzionari internazionali. Il saccheggio di Kabul da parte dei talebani nel 1996 o la presa del potere da parte di Hamas a Gaza poco più di un decennio dopo possono essere stati scioccanti nella loro brutalità, ma le rotazioni diplomatiche ogni anno o due li hanno normalizzati. Per quanto riguarda i diplomatici, i talebani rappresentavano la cultura pashtun e lo hanno sempre fatto, ed era normale che i terroristi controllassero il Ministero della Salute di Gaza.
  Il secondo è l’assenza di consapevolezza storica e di visione strategica. L’islamismo è semplicemente l’ultimo “ismo” ad avere invaso il Medio Oriente. Il nazionalismo arabo del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser è scomparso con il tempo e così faranno anche le visioni islamiste dell’ayatollah Ruhollah Khomeini o di Recep Tayyip Erdoğan. Né è corretto supporre che sia impossibile sconfiggere l’ideologia. Il gruppo Baader Meinhof è scomparso molto prima della fine dell’Unione Sovietica. Ciò è vero anche quando il gruppo ideologico controlla il territorio. Né l’Occidente né le Nazioni Unite sono scese a compromessi con i Khmer Rossi mentre trasformavano la Cambogia in campi di sterminio. Il gruppo è scomparso dopo l’invasione del Vietnam allo scopo di porre fine al terrore. La forza militare ha ampiamente sconfitto il califfato dello Stato islamico, anche se la Turchia di Erdoğan cerca di tenerlo in vita.
  Il terzo è la condiscendenza, se non il razzismo e l’antisemitismo. Gli Stati Uniti e l’Europa possono avere uno standard di tolleranza per quanto riguarda il terrorismo ai loro confini, ma i diplomatici che dominano il Foreign Office insinuano che Israele e gli arabi vivano secondo standard inferiori.
  L’operazione “Sotto la cintola” di Israele del 17 settembre 2024 o, come l’ha definita Michael Doran dell’Hudson Institute, “l’Operazione Grim Beeper”, è stata brillante dal punto di vista tattico e strategico. Ha preso di mira Hezbollah in modo preciso e ha neutralizzato il gruppo con effetti devastanti. Gli attacchi successivi di Israele contro le radio e gli scontri faccia a faccia hanno lasciato Hezbollah nel caos. Mai nei 42 anni da quando la Repubblica islamica dell’Iran ha formato il gruppo esso è stato così vicino a un colpo definitivo. È tempo che Israele sferri questo colpo.
  Guidando nel Libano meridionale nel 2020, ho incontrato membri attuali ed ex di Hezbollah nel loro territorio. Seduti in una sala da tè appena fuori Nabitiyeh, in Libano, i membri di Hezbollah, tra cui un uomo che aveva trascorso anni in una prigione israeliana, hanno detto che ne avevano abbastanza. Israele esisteva, Hezbollah era più una mafia che un movimento di liberazione e volevano solo la normalità. Quella “pressione massima” ha prosciugato le risorse di Hezbollah e ha solo accelerato tali conclusioni. Molti hanno maledetto l’Iran e hanno visto il commercio di confine con Israele prima del 2000 come un periodo d’oro per il Libano meridionale.
  Quando Israele invase per la prima volta il Libano nel 1982, gli sciiti libanesi li acclamarono mentre gli israeliani cacciavano l’Organizzazione per la liberazione della Palestina dalle loro città e dai loro villaggi. La luna di miele fu breve, poiché Israele si trattenne oltre il suo benvenuto e il corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche e la Siria cercarono separatamente di riempire il vuoto con gruppi fedeli a Teheran o Damasco ma ostili a Israele. L’Iran vinse la guerra civile intra-sciita del Libano entro il 1986, ma 38 anni dopo, gli sciiti libanesi ne hanno avuto abbastanza.
  Gli Antony Blinken, i Jake Sullivan, i Jeremy Corbyn e i David Lammy potrebbero cercare di preservare lo status quo, ma Israele non dovrebbe farlo. Eliminare Hezbollah e ripristinare la piena sovranità del Libano cambierebbe il paradigma strategico e cambierebbe la convinzione diplomatica prevalente che sia necessario parlare con i terroristi piuttosto che elaborare strategie preordinate alla loro sconfitta.

(L'informale, 24 settembre 2024)

........................................................


Con “Frecce del Nord” inizia la seconda fase della guerra

di Ugo Volli

• L’AGGRESSIONE DI HEZBOLLAH
   Ha un nome la nuova operazione delle forze armate di Israele in Libano: “Frecce del Nord”. In realtà non è un’operazione isolata, ma l’inizio di una nuova fase della guerra che è iniziata a Gaza il 7 ottobre dell’anno scorso e al nord il giorno dopo, l’8 ottobre, quando Hezbollah, senza alcuna provocazione, iniziò a bombardare Israele coi suoi missili. All’inizio erano singoli razzi anticarro (RPG) sparati da armi a spalla, poi i bombardamenti aumentarono di intensità e di qualità, con missili sulle istallazioni militari e anche sui kibbutzim, i villaggi e le cittadine della Galilea, fino a lanci più penetranti che arrivarono anche su località maggiori come Tzfat. Dall’8 ottobre Hezbollah ha sparato più di 8.800 missili, ferendo 325 persone e uccidendone 48. Particolarmente efferato fu il bombardamento diretto, cioè mirato di un campo sportivo del villaggio druso di Majdal Shams che il 26 luglio scorso uccise dodici ragazzini morti mentre giocavano a calcio. Oltre 63.000 civili israeliani sono stati costretti ad abbandonare le loro case in seguito ai bombardamenti.

• LA RISPOSTA PUNTUALE DELLA PRIMA FASE
   La tattica dell’esercito israeliano è stata in questi mesi quella delle risposte puntuali: ogni volta che c’era un bombardamento, Israele sparava a sua volta contro la fonte del fuoco, usando l’artiglieria e gli aerei, con l’intento di distruggere il pericolo. Vi sono stati anche numerosi abbattimenti mirati di comandanti terroristi di grado più o meno alto. Ma non sembrava possibile intervenire sulla minaccia complessiva del nord, perché la massa dell’esercito era impegnata a Gaza e perché la forza di Hezbollah è molto superiore a quella di Hamas: all’inizio della guerra si stimava che i terroristi libanesi avessero nei loro depositi fra 100 e 150 mila missili, di cui un numero notevole di lunga gettata e con guida elettronica che ne assicurava la precisione e molte migliaia di droni, tutti forniti dall’Iran. Inoltre Hezbollah ha parecchie decina di migliaia di militari inquadrati in reparti ben armati e addestrati, veterani di campagne importanti nella guerra civile siriana. Il terreno montuoso con valli molto strette e il controllo totale del territorio, su cui sono stati scavati numerosi bunker e tunnel offensivi, rendono difficile un’offensiva di terra, in particolare la manovra dei carri armati, come si era già visto nella seconda guerra del Libano del 2006. Vi era inoltre una forte pressione americana ed europea, in particolare della Francia, perché non si “estendesse” la guerra al Libano – come se quel che faceva Hezbollah non fosse già una guerra terroristica. Israele ha comunque sempre dichiarato di non poter sopportare i bombardamenti sul proprio territorio e lo svuotamento della popolazione del nord, tanto da aver inserito recentemente fra gli scopi ufficiali della guerra in corso la possibilità per loro di tornare indisturbati alle loro case.

• LA NUOVA STRATEGIA
   Dopo averlo molto annunciato e aver ripetutamente ammonito Hezbollah a cessare la sua aggressione e a obbedire alla risoluzione dell’Onu del 2006 che imponeva non vi fossero forze armate in Libano fra il confine con Israele e il fiume Litani, 15 chilometri circa più al nord, salvo l’esercito regolare libanese e il corpo internazionale Unifil dell’Onu, Israele ha cambiato strategia ed è passato all’offensiva. Non però come tutti credevano e Hezbollah pure aveva pensato, facendo entrare immediatamente una forza di terra oltre il confine, in modo da ripulire la zona da cui prevalentemente agiscono i terroristi, esponendosi però alle trappole da loro predisposte. È stata un’operazione diversa, più complessa ed efficace. Prima, martedì e mercoledì scorso, vi è stata l’esplosione dei cercapersone e delle radio detenute dai quadri dell’organizzazione, con il doppio risultato di mettere fuori combattimento alcune migliaia di terroristi, in sostanza tutti i capi intermedi, disarticolandone il quadro di comando, e di disabilitare l’infrastruttura di comunicazione, che per un esercito moderno è come il sistema nervoso- Poi venerdì c’è stato il bombardamento di un edificio di Deyah, il quartiere fortezza di Hezbollah a Beirut, che ha colpito una riunione dei massimi comandanti dell’organizzazione, eliminandoli tutti e sconvolgendo ulteriormente la sua catena di comando con la distruzione di tutto lo stato maggiore terrorista. Infine negli ultimi due giorni è partita una campagna sistematica di distruzione dei luoghi dove Hezbollah schiera e conserva i suoi missili e i loro lanciatori, tanto al confine con Israele quanto più al nord, nella lunga valle della Beka. Sono stati colpiti finora quasi duemila obiettivi, a quanto pare, dimezzando gli strumenti offensivi del gruppo. Hezbollah è riuscito a sparare alcuni missili, anche a lunga gettata, ma non è stato in grado finora di provocare gravi danni: evidentemente le difficoltà interne di comunicazione, l’eliminazione dei comandanti, lo stato di shock dell’organizzazione è tale da rendere difficile una sua offensiva anche coi materiali che le restano. L’esercito israeliano del resto continua a colpire i missili e i depositi di armi che spesso sono nascosti dentro villaggi e case civili (dopo aver invitato insistentemente e con molti mezzi la popolazione civile a evacuarli).

• COME ANDRÀ AVANTI?
   È difficile dire come proseguirà “Frecce del Nord”. L’obiettivo minimo israeliano è costringere Hezbollah a ritirarsi dietro il fiume Litani, obbedendo alla risoluzione dell’Onu, e a abbandonare l’aggressione. Per questo potrebbero bastare in teoria i bombardamenti aerei. Ma è possibile che ciò non accada e che un’azione di terra si riveli necessaria per distruggere molto più a fondo il gruppo terrorista, sul modello di Gaza. L’incognita è l’Iran, grande protettore e in sostanza mandante di Hezbollah come di Hamas. Visto che i suoi calcoli strategici di sconfiggere lo stato ebraico col logorio di una guerra multifronte non funzionano, gli ayatollah accetteranno la sconfitta e indurranno i loro satelliti a cercare una via d’uscita, salvando almeno parte della loro organizzazione, o li getteranno completamente nella mischia, rischiando la loro distruzione totale? O addirittura, come si vociferava ieri, l’Iran entrerà direttamente in guerra? Su questo punto c’è dissenso, a quanto dicono i media, fra il nuovo presidente iraniano Masoud Pezeshkian, più disponibile a una de-escalation e la Guida Suprema Khatami che sarebbe più propenso a una guerra totale. Quel che è certo è che devono fare i conti con un Israele tutt’altro che esaurito e senza risorse, che conosce il fronte settentrionale molto meglio di quel che sapeva di Hamas un anno fa e ha pianificato da molto tempo la possibilità di uno scontro diretto con l’Iran, addestrandosi anche a distruggere il suo apparato nucleare. Tutti questo avviene in un momento in cui gli Stati Uniti sono ormai a meno di due mesi dalle elezioni e i candidati devono misurare bene il loro atteggiamento di fronte a un elettorato che è in grande maggioranza schierato dalla parte di Israele. Questo potrebbe essere un momento di svolta nella guerra.

(Shalom, 24 settembre 2024)

........................................................


L'aviazione israeliana colpisce 1.300 obiettivi in Libano mentre Hezbollah bombarda il nord di Israele

L'esercito invita i civili nel sud del Libano a lasciare le case utilizzate dall'organizzazione terroristica sostenuta dall'Iran.

di Joshua Marks

GERUSALEMME - Per tutta la giornata di lunedì, i caccia dell'aviazione israeliana hanno effettuato massicci attacchi aerei su obiettivi di Hezbollah in Libano per impedire all'esercito del terrore sostenuto dall'Iran di lanciare razzi oltre il confine.
La sera di lunedì, l'IAF aveva attaccato più di 1.300 obiettivi di Hezbollah in Libano.
Oltre a un precedente aggiornamento, l'esercito ha pubblicato un video in cui il tenente generale Herzi Halevi autorizza gli attacchi dalla sala di comando sotterranea del quartier generale delle Israel Defence Forces a Tel Aviv.
Il portavoce dell'IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha avvertito che gli attacchi dell'IAF continueranno nel prossimo futuro e ha criticato il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah. Ha accusato il capo del terrorismo di "trascinare il Libano e l'intera regione in un'escalation".
Sulla possibilità di manovre di terra in Libano, ha dichiarato: "Faremo tutto il necessario per riportare gli abitanti [del nord di Israele] nelle loro case. Abbiamo piani dettagliati che abbiamo presentato alla leadership politica".
Lunedì mattina, Hagari ha avvertito i civili libanesi lungo il confine che Hezbollah stava usando le loro case come nascondigli di armi e che dovevano essere evacuati immediatamente per la loro sicurezza.
Durante la conferenza stampa, ha anche annunciato che i terroristi hanno recentemente tentato di lanciare un missile da crociera da una casa civile, ma sono stati sventati, e ha presentato la documentazione dell'attacco preventivo.
Il missile da crociera era un modello DR-3 con un raggio di volo di 200 km (124 miglia) e una testata fino a 300 kg (661 libbre), ha dichiarato l'IDF.
"Ho registrato un messaggio chiaro per tutti i residenti del Libano meridionale - nelle ultime ore abbiamo rilevato l'intenzione di attaccare Israele e colpiremo presto", ha detto Hagari.
"Per più di 20 anni, Hezbollah ha piazzato armi nelle case e le ha armate, trasformando il Libano meridionale in una zona di combattimento. Noi monitoriamo queste attività, localizziamo le armi e le distruggiamo con attacchi precisi. Vi invitiamo ad allontanarvi immediatamente da queste case per la vostra sicurezza. Hezbollah vi sta mettendo in pericolo", ha detto Hagari.
L'IDF ha inviato messaggi di testo ai residenti del Libano meridionale invitandoli a stare lontani dagli edifici di Hezbollah. Il video messaggio di Hagari era sottotitolato in arabo: "Chiunque si trovi vicino o nelle case in cui Hezbollah nasconde armi è pregato di andarsene immediatamente".
Gerusalemme ha intensificato la sua retorica e gli attacchi contro Hezbollah da quando ha recentemente aggiunto come obiettivo ufficiale di guerra il ritorno dei suoi residenti nel nord. Più di 60.000 israeliani rimangono sfollati all'interno del Paese dopo quasi un anno di attacchi quasi quotidiani di razzi, missili e droni da parte di Hezbollah a sostegno di Hamas nella Striscia di Gaza.
I media libanesi affiliati a Hezbollah hanno riferito di vittime degli attacchi israeliani, che sono penetrati in profondità nel territorio libanese nella Valle della Bekaa.
Nel frattempo, nella zona di Safed, nell'Alta Galilea israeliana, è stato lanciato un allarme razzi, con numerose esplosioni e decine di intercettazioni. È stata segnalata anche una raffica importante nella Bassa Galilea.
Il gruppo medico di emergenza Magen David Adom ha dichiarato che due israeliani hanno riportato ferite minori quando un razzo ha colpito nella zona del Golani Junction, nella Bassa Galilea, tra Tiberiade e Nazareth. I due uomini, di 25 e 59 anni, sono stati portati al Centro medico di Poria (Baruch Padeh Medical Centre) vicino a Tiberiade per essere curati.
A Giv'at Avni, situata sul Mar di Galilea, è scoppiato un incendio dopo che un razzo di Hezbollah ha colpito direttamente una casa, hanno riferito i media locali. I residenti si erano barricati nel loro rifugio e ne sono usciti illesi dopo gli attacchi.
Dopo l'attacco dell'IAF a Beirut, lunedì sera, le sirene di allarme aereo hanno suonato in tutto il nord di Israele, mettendo in guardia da un nuovo lancio di razzi e missili.
Il Magen David Adom ha dichiarato che i suoi paramedici hanno evacuato un uomo di 23 anni in condizioni moderate al Centro medico Rambam di Haifa dopo che era stato colpito alla testa da frammenti di razzi nell'Alta Galilea.Il leader dell'opposizione israeliana Yair Lapid ha accolto con favore gli attacchi dell'IAF in Libano in una dichiarazione.
"Sostengo l'aviazione, l'IDF e le forze di sicurezza nella loro operazione in Libano. I tempi sono maturi. Siate forti e coraggiosi e agite - non abbiate paura e non disperate finché tutti i residenti del nord non torneranno sani e salvi nelle loro case", ha twittato il presidente del partito Yesh Atid.

(Israel Heute, 24 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Iran: una tigre di carta ammutolita dalla decimazione di Hezbollah

Il Presidente iraniano appena arrivato a New York dice senza mezzi termini che l'Iran "è disposta a deporre le armi se lo farà anche Israele". Una presa di coscienza non si sa quanto gradita ai Guardiani della Rivoluzione e all'Ayatollah Khamenei

di Franco Londei

Una vera pioggia di fuoco si è abbattuta su Hezbollah  e per il momento la tanto temuta risposta dell’Iran a sostegno dei terroristi libanesi o come ritorsione per l’eliminazione di Ismail Haniyeh avvenuta proprio in casa degli Ayatollah, non si è vista.  
Anzi, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian si è affrettato a dire che «Vogliamo vivere in pace, non vogliamo la guerra».
«Siamo disposti a mettere da parte tutte le nostre armi a condizione che Israele sia disposto a fare lo stesso», ha affermato al suo arrivo a New York dove parteciperà all’Assemblea Generale dell’ONU.
Poi ha aggiunto che Israele vuole trascinare il Medio Oriente in una guerra in piena regola provocando l’Iran a unirsi al conflitto che dura da quasi un anno tra Israele e Hezbollah sostenuto da Teheran in Libano.
Il fatto di accusare Israele di “provocazione”, usanza assai diffusa tra gli antisemiti, è una sorta di capovolgimento della realtà a cui purtroppo siamo abituati. Hezbollah ha iniziato a lanciare missili dall’8 ottobre, cioè dal giorno dopo del massacro del 7 ottobre e solo un sito antisemita come la BBC può tirar fuori un rapporto secondo il quale nello scambio tra Israele e Hezbollah lo Stato Ebraico avrebbe attaccato i terroristi con un numero di attacchi 4/5 volte superiore a quello dei terroristi.
Tuttavia è molto indicativo il fatto che il Presidente iraniano abbia lanciato un messaggio di de-escalation, anche se poi il Ministero degli Esteri di Teheran si è affrettato a rilasciare una dichiarazione in cui smentisce le dichiarazioni riportate dal presidente. Perché è indicativo? Perché gli iraniani temono più il rischio che la guerra arrivi in casa loro di quanto abbiano sete di vendetta. Se infatti provassero a lanciare un nuovo attacco contro Israele, nel volgere di pochissimo tempo l’IDF colpirebbe direttamente obiettivi in Iran. E la situazione interna all’Iran potrebbe portare ad una implosione del regime.
Non solo, esattamente come Hezbollah, l’Iran ha tantissimi missili ma pochi lanciatori per i missili balistici, circa 250 in tutto. Una volta lanciata la prima salva i lanciatori verrebbero immediatamente individuati e distrutti. È già successo in Libano. Gli iraniani lo hanno visto e sanno che succederà anche in Iran.
Come hanno visto cosa è in grado di fare il Mossad che in due giorni ha tolto di mezzo il 10% dei miliziani di Hezbollah, decimato i vertici del gruppo terrorista e messo nel panico tutto il resto, lasciati quasi senza mezzi di comunicazione.
La capacità di infiltrazione del Mossad, dimostrata anche ieri con l’attacco mirato contro Ali Karaki, il comandante in capo di Hezbollah, e contro quello che rimaneva dei vertici operativi terroristici, rende nervosi i Guardiani della Rivoluzione (IRGC) che, come dimostra anche l’eliminazione di Ismail Haniyeh, sanno di essere stati infiltrati ma non sanno come né a che livello. Il dubbio che una sorpresa come quella dei cercapersone esplosivi capitata a Hezbollah, possa capitare anche a loro, magari in forma più grande, sconsiglia qualsiasi azione.
L’IDF e l’intelligence israeliane hanno calcolato tutto. Sanno che l’Iran non può lanciare «migliaia di missili» come i catastrofisti e gli anti-israeliani (spesso la stessa persona) vanno dicendo. Non perché non hanno i missili, non hanno i lanciatori e quelli che hanno sono facilmente individuabili.
La lezione che sta subendo Hezbollah è molto più grande di quello che si possa vedere dall’esterno. È la decimazione del gruppo terrorista sia a livello fisico, a partire dai vertici, che a livello militare.
A Teheran guardano impotenti l’umiliazione del loro proxy più potente.
Attenti, non sto dicendo che Hezbollah non è ancora pericoloso. Sarebbe un errore imperdonabile crederlo. Anche questa mattina hanno lanciato centinaia di missili. Tuttavia è innegabile che in poco più di una settimana ha subito un colpo che se non è mortale poco ci manca.
E adesso l’Iran è di fronte al dilemma più grande che gli Ayatollah si siano mai trovati ad affrontare: supportare Hezbollah con un attacco a Israele, oppure rimanere fermi aspettando che lo Stato Ebraico ritenga di aver raggiunto il suo obiettivo e si fermi. Nel primo caso sanno che sarebbe probabilmente la loro fine. Nel secondo dimostrerebbero di essere una tigre di carta e perderebbero ogni forma di deterrenza verso i nemici regionali, gli Stati Arabi.  

(Rights Reporter, 24 settembre 2024)

........................................................


USA: allarmante aumento dei crimini d'odio antiebraico nel 2023

L'FBI ha pubblicato lunedì le statistiche che rivelano un aumento del 63% dei crimini d'odio contro gli ebrei negli Stati Uniti nel 2023. Il numero di episodi segnalati è passato dai 1.122 del 2022 ai 1.832 dell'anno successivo, raggiungendo il livello più alto mai registrato.
Secondo i dati, gli incidenti antisemiti hanno rappresentato il 15% di tutti i crimini d'odio nel 2023 e il 68% dei crimini d'odio basati sulla religione, anche se gli ebrei rappresentano solo il 2% circa della popolazione statunitense.
Il rapporto dell'FBI mostra anche un aumento del 34% degli incidenti anti-arabi, con 123 casi documentati, il numero più alto da quando l'agenzia ha iniziato a tracciare questi dati nel 2015. Gli incidenti anti-musulmani hanno registrato un aumento del 49% nel 2023, raggiungendo un totale di 236, il più alto dal 2017.
Jonathan Greenblatt, amministratore delegato dell'Anti-Defamation League (ADL), ha reagito ai dati dichiarando: "In un momento in cui la comunità ebraica sta ancora soffrendo per il forte aumento dell'antisemitismo in seguito al massacro di Hamas in Israele del 7 ottobre, il numero record di episodi di crimini d'odio antisemiti è purtroppo del tutto coerente con l'esperienza della comunità ebraica e con il monitoraggio dell'ADL".
Ted Deutch, amministratore delegato dell'American Jewish Committee (AJC), ha aggiunto: "Mentre la comunità ebraica si sta ancora riprendendo dallo shock del brutale attacco di Hamas agli israeliani del 7 ottobre, ci troviamo contemporaneamente di fronte a un aumento scioccante della violenza antisemita. I 1.832 crimini antisemiti denunciati - uno sconcertante aumento del 63% rispetto allo scorso anno - hanno avuto un grave impatto sullo stile di vita di molti ebrei americani".
Greenblatt ha sottolineato l'importanza di una raccolta completa di dati per combattere efficacemente questa recrudescenza della violenza d'odio: "I dati guidano la politica, e senza una comprensione completa del problema, non possiamo affrontare efficacemente questo significativo aumento della violenza d'odio".
Deutch ha concluso esprimendo la sua preoccupazione: "La parte peggiore di questa nuova realtà è che i giovani ebrei sono sempre più il bersaglio di questo aumento dell'odio antisemita, secondo il rapporto 2023 dell'AJC sullo Stato dell'Antisemitismo in America. È inaccettabile che negli Stati Uniti, tra tutti i luoghi, ci siano in media quasi cinque crimini di odio antisemita al giorno".

(i24, 24 settembre 2024)

........................................................


La lettera testamento di Daniel Mimon Toaff: Il bene del nostro popolo la mia bussola

Lettera scritta dal capitano Daniel Mimon Toaff prima di entrare a Gaza, poche settimane dopo il 7 ottobre.

FOTO
Daniel Mimon Toaff
«Comincerò dicendo che ricordo che da bambino, nonno e nonna mi dicevano sempre che quando sarei cresciuto non ci sarebbero più state guerre e non sarebbe servito l’esercito. Ho capito molto presto che non era vero, perché ho imparato cosa sono il popolo di Israele, la terra di Israele e lo Stato di Israele, che in ogni generazione si alzano contro di noi per annientarci, e il Santo, benedetto Egli sia, ci salva.
Noi ci troviamo in un momento storico, un momento che sarà ricordato per le generazioni, e noi qui abbiamo il privilegio di partecipare a questa storia. Un altro capitolo nella storia del popolo ebraico. Ogni capitolo nella storia del popolo ebraico inizia sempre da una cosa: le nostre lotte interne, quando osiamo pensare che anche chi la pensa diversamente da me sia inutile, rotto, non parte del popolo, e scollegato da noi.
Ogni volta che giungono le nostre crisi interne, ne deriva una catastrofe nazionale, come quella che è appena accaduta a noi: neonati sgozzati, intere famiglie distrutte, e noi siamo rimasti qui con le uniformi dell’IDF per difendere il nostro popolo, e abbiamo fallito. Bisogna dire la verità.
Ora tocca a noi, è il nostro turno di portare il peso, di assumere la responsabilità per il popolo. Come Abramo, Isacco e Giacobbe, ciascuno con la sua prova, Mosè che portò il popolo nella terra, Giosuè ben Nun nella conquista della terra, Davide, Salomone e i re di Israele, Ester e Mardocheo, i Maccabei, i membri delle organizzazioni clandestine, i partigiani, gli ebrei che affrontarono le sofferenze della Shoah, i soldati dell’IDF di tutte le generazioni: tutti presero la responsabilità per il loro popolo. Ora tocca a noi.
Un mese e mezzo fa era Rosh Hashanah, i Dieci Giorni di Penitenza e Yom Kippur. Tutti noi abbiamo pregato per il bene collettivo, e personalmente, la cosa su cui mi concentro sempre di più è il “Libro della Vita”. Non si tratta di vivere un altro anno o non morire, ma di avere una vita significativa, di fare del bene per il popolo di Israele e la terra di Israele. Io mi concentro sempre su questo e prego che la nostra vita sia dedicata a fare del bene per il popolo e la terra, una vita in cui rendiamo il mondo un posto migliore, e rendiamo il nostro popolo migliore. Questo è lo scopo della vita, e ora sono giunto a questo momento, e ho avuto il privilegio di fare questa cosa e di vivere questa vita: una vita di collettività e di fare del bene per il popolo di Israele con tutto il mio essere.
Grazie per un’educazione straordinaria, senza compromessi, con valori eterni di un popolo eterno che vincerà sempre. Ai miei cari fratelli, vi amo tutti. Ho imparato da ciascuno di voi, sono sempre orgoglioso di raccontare ciò che fate. Siete il mio orgoglio, anche se a volte mi comporto come un bambino sciocco, sappiate che vi amo sempre e sono orgoglioso di voi.
Grazie a mamma e papà, che per tutta la vita mi avete dato ciò di cui avevo bisogno, ma non mi avete mai permesso di montarmi la testa e pensare di essere il centro del mondo. Tutta la mia vita vedo come vi preoccupate di fare il bene ovunque vi troviate, sia mamma che lavora giorno e notte, sempre preoccupata per i problemi del nostro popolo nei luoghi in cui si trova, e come non rimane mai indifferente e pretende che giustizia e verità prevalgano. E sia papà che lavora sempre per il popolo, per la sicurezza del nostro popolo, e ne trae una soddisfazione ispiratrice. Siete la fonte della mia vita.
L’uomo è il riflesso del suo ambiente, e l’ambiente in cui sono cresciuto è questo: un ambiente di donazione infinita e di fare per il bene comune, non guardando solo a me stesso. Vi amo e vi chiedo, mentre io sono lì a combattere contro il male e a riportare il bene al popolo di Israele, che voi siate qui a casa, continuando a fare del bene per il nostro popolo. Non fermatevi mai. Tenete sempre la testa alta e il petto in fuori, perché siete riusciti a crescere una generazione fedele e devota al popolo di Israele, alla terra di Israele e alla Torah di Israele. Guardate che impero avete cresciuto: ogni figlio, con la sua unicità, contribuisce al popolo di Israele. Questa è la prova del successo di genitori eccellenti. Tutti dovrebbero invidiarvi per quanto siete riusciti a fare.
“E concedimi di crescere figli e nipoti saggi e intelligenti, amanti del Signore, timorati di Dio, che siano veramente un seme santo attaccato al Signore. Che illuminino il mondo con buone azioni e in ogni lavoro di servizio al Creatore.” [Preghiera istituita da Rav Levi Itzchak di Berditchev, recitata dai genitori ogni Motzei Shabbat. N.d.r.]
Questo è ciò che avete fatto e in cui siete riusciti, e io prego di riuscire come voi. Ci vediamo presto, e vi chiedo di mantenere sempre il sorriso, non importa cosa accada, e di continuare a fare per il popolo e la terra. Vi amo senza fine».

(moked, 24 settembre 2024)

........................................................


Israele: nuova grande ondata di attacchi contro Hezbollah

di Sarah G. Frankl

L’IDF ha annunciato di aver lanciato una nuova ondata di attacchi aerei contro obiettivi di Hezbollah nel Libano meridionale.
Anche i media libanesi riferiscono di pesanti attacchi in diverse zone del sud del Paese.
Gli attacchi sono avvenuti dopo che l’IDF avevano avvertito che avrebbero preso di mira le armi di Hezbollah conservate nelle case dei civili e avevano dichiarato di aver individuato agenti di Hezbollah che si preparavano a lanciare attacchi missilistici contro Israele.
Questa mattina i civili libanesi erano stati avvertiti con messaggi e telefonate da un numero libanese di lasciare le loro case nel caso in cui ospitassero armi di Hezbollah. Lo stesso numero li avvertiva di stare ad almeno 1.000 metri dalle postazioni di Hezbollah.
Secondo Ynet, dieci anni fa, Hezbollah lanciò un’iniziativa segreta per offrire incentivi finanziari alle famiglie sciite nel Libano meridionale se avessero assegnato una stanza della loro casa a un lanciamissili a lungo raggio. Il missile, con una testata pesante, sarebbe stato pronto per essere lanciato da quella stanza. La stanza avrebbe avuto un tetto rimovibile, consentendo di sparare rapidamente.
Ynet ha aggiunto che Hezbollah ha scelto specificamente le famiglie povere sciite che avevano bisogno di un reddito extra. A quanto si dice, Hezbollah ha acquistato appezzamenti di terreno e ci ha costruito case residenziali, offrendole a un prezzo ridotto o gratuitamente se le famiglie erano disposte a immagazzinare missili.

(Rights Reporter, 23 settembre 2024)

........................................................


Cresce la tensione in Medio Oriente, tra l’escalation nel nord di Israele e il mistero della scomparsa di Sinwar

di Luca Spizzichino

Il conflitto tra Israele e Hezbollah, in parallelo alla guerra contro Hamas a Gaza, si sta intensificando giorno dopo giorno. Negli ultimi giorni, lo scontro tra Israele e il gruppo terroristico sciita libanese ha assunto proporzioni preoccupanti, caratterizzate da pesanti bombardamenti e attacchi mirati dell’esercito israeliano, mentre Hezbollah ha intensificato il lancio di missili verso il territorio israeliano. Nel frattempo circolano voci sulle sorti del capo di Hamas, Yahya Sinwar, che si presume sia stato colpito in uno dei recenti bombardamenti nella Striscia di Gaza.

• Attacchi missilistici di Hezbollah contro il nord di Israele
   Nelle ultime ore, Hezbollah ha intensificato i suoi attacchi missilistici contro Israele, con un’ondata di oltre 85 razzi che ha colpito l’area di Haifa nelle ultime ore. L’attacco ha provocato il ferimento di tre persone e, tragicamente, ha causato la morte indiretta di un adolescente, vittima di un incidente d’auto mentre cercava rifugio durante le sirene d’allarme. Questo episodio rappresenta uno degli attacchi più pesanti da parte del gruppo, evidenziando la crescente aggressività della campagna condotta da Hezbollah contro Israele.

• Raid aerei israeliani contro le installazioni militari e i vertici di Hezbollah
   Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Non permetteremo a Hezbollah di continuare ad attaccare i nostri cittadini impunemente. La nostra risposta sarà feroce e mirata”. Nelle ultime ore, infatti, Israele ha ulteriormente intensificato la sua risposta militare con un massiccio bombardamento contro Hezbollah.
   Più di 300 attacchi sono stati lanciati dalle IDF in una serie di raid mirati che hanno colpito lanciarazzi, depositi di armi e posizioni strategiche del gruppo terrorista. La portata e l’intensità delle operazioni non hanno precedenti, con attacchi concentrati soprattutto nelle aree da cui Hezbollah lancia missili contro Israele. Prima di avviare queste operazioni, l’IDF ha inviati degli avvertimenti ai civili libanesi affinché evacuassero le aree controllate da Hezbollah, sottolineando che chiunque si trovasse nelle vicinanze dei siti colpiti sarebbe stato considerato a rischio. “Non stiamo mirando ai civili libanesi, ma Hezbollah si nasconde tra di loro e usa i loro villaggi come basi operative”, ha dichiarato il portavoce dell’IDF. Il capo di Stato maggiore dell’IDF, Herzi Halevi, ha confermato che queste operazioni continueranno fino a quando Hezbollah non cesserà i suoi attacchi contro il nord di Israele.
   Uno degli attacchi più significativi, tuttavia, è avvenuto venerdì a sud di Beirut, in una delle roccaforti di Hezbollah. L’aviazione israeliana ha colpito un edificio in cui erano presenti due alti comandanti di Hezbollah e altri 14 membri della Forza d’élite Radwan di Hezbollah. Questa operazione ha colpito duramente l’organizzazione, che stava pianificando possibili incursioni contro Israele. Il presidente israeliano Isaac Herzog in un’intervista a Sky News ha parlato del raid, che ha prevenuto un attacco su larga scala simile a quello compiuto da Hamas il 7 ottobre. “Le informazioni di intelligence indicavano che i vertici di Hezbollah stavano pianificando un’invasione coordinata nelle nostre comunità settentrionali, – ha affermato Herzog – Abbiamo impedito una catastrofe”. L’IDF ha confermato che i comandanti uccisi stavano discutendo un’offensiva simile.

• La possibile morte del capo di Hamas, Yahya Sinwar
   Parallelamente al conflitto al nord, vi sono crescenti speculazioni sulla sorte del leader di Hamas, Yahya Sinwar. Secondo fonti israeliane, Sinwar potrebbe essere “irraggiungibile” o addirittura morto, a seguito di un attacco aereo israeliano. “Siamo in fase di verifica, ma le probabilità che Sinwar sia stato colpito sono alte”, ha riferito un funzionario della sicurezza israeliana. Il portavoce di Hamas ha evitato di commentare queste notizie; tuttavia, l’IDF continua a monitorare la situazione con attenzione.

• Un conflitto sempre più complesso
   L’intensificarsi del conflitto tra Israele e Hezbollah, in parallelo alla guerra contro Hamas, sta creando un contesto sempre più complesso, in primis per lo Stato ebraico, dove il timore di un conflitto esteso rimane alto, con il nord del Paese che rappresenta un fronte particolarmente vulnerabile. Hezbollah ha promesso di continuare i suoi attacchi, e il segretario generale del gruppo, Hassan Nasrallah, ha dichiarato in un recente discorso: “Israele non riuscirà a riportare i suoi cittadini al nord finché continua a colpire Gaza e il Libano. Non smetteremo di combattere finché l’aggressione contro il nostro popolo non cesserà.” Le forze israeliane si stanno preparando a fronteggiare e rispondere a nuove minacce. “Non esiteremo a continuare le nostre operazioni contro Hezbollah, e saremo inflessibili nel difendere i nostri cittadini”, ha affermato il ministro della Difesa Yoav Gallant.



(Shalom, 23 settembre 2024)

........................................................


Escalation del conflitto: oltre 100 razzi di Hezbollah verso Israele

di Anna Balestrieri

L’esercito israeliano ha riferito che Hezbollah ha lanciato oltre 100 razzi verso il nord di Israele, colpendo aree civili e attivando sirene di allarme. Gli ospedali nel nord del paese hanno trasferito le loro operazioni in strutture sotterranee protette.
In risposta, l’aviazione israeliana ha effettuato una serie di attacchi aerei contro obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano, intensificando ulteriormente le tensioni.

- HEZBOLLAH COLPISCE COMPLESSI INDUSTRIALI ISRAELIANI
  Hezbollah ha rivendicato un attacco contro complessi industriali della compagnia di difesa israeliana Rafael, vicino a Haifa, come “risposta iniziale” agli attacchi recenti in Libano. Le ostilità tra Israele e Hezbollah si sono intensificate, con bombardamenti reciproci tra il sud del Libano e il nord di Israele.
Le autorità libanesi hanno confermato la morte di almeno una persona e il ferimento di altre nell’ultimo attacco israeliano.

- DICHIARAZIONI DEL PREMIER BENJAMIN NETANYAHU
  Domenica, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito la strategia di Israele di intensificare gli attacchi contro Hezbollah, affermando che il paese avrebbe intrapreso “qualsiasi azione necessaria” per ridurre la minaccia rappresentata dalla milizia libanese, nonostante i timori di un possibile conflitto regionale più ampio.
Le sue dichiarazioni sono arrivate poche ore dopo che Hezbollah ha lanciato più di 100 razzi, missili e droni contro il territorio israeliano, in risposta a una serie di attacchi mortali contro il gruppo in Libano, tra cui esplosioni di dispositivi di comunicazione e attacchi aerei contro alti comandanti. Netanyahu ha lasciato intendere, senza entrare nei dettagli, che Israele aveva inflitto a Hezbollah “una serie di colpi” inaspettati. “Se Hezbollah non ha compreso il messaggio, vi prometto che lo comprenderà”, ha affermato in una dichiarazione registrata, sottolineando la determinazione di Israele a riportare gli israeliani sfollati nelle loro case nel nord del paese.
Nonostante non abbia menzionato direttamente ’attacco notturno di Hezbollah, il quale ha fatto scattare sirene antiaeree in numerose città del nord di Israele, Netanyahu ha indicato la volontà di continuare le azioni militari. Hezbollah ha rivendicato di aver colpito basi militari israeliane, tra cui una vicino a Haifa. L’attacco è stato il più profondo nel territorio israeliano da quando il gruppo ha iniziato a lanciare attacchi l'8 ottobre, ma le forze israeliane hanno dichiarato di aver intercettato la maggior parte dei missili con i sistemi di difesa aerea. Tuttavia, la vita in molte città del nord, tra cui una a nord di Haifa, è stata pesantemente disturbata, con nuove restrizioni sugli assembramenti pubblici imposte in aree come le Alture del Golan e la Galilea.
L’offensiva aerea di Hezbollah sembrava essere stata calibrata con attenzione, evitando un colpo diretto su una grande città come Tel Aviv, probabilmente per evitare una risposta ancora più dura da parte di Israele.

- SITUAZIONE IN LIBANO
  In Libano, la tensione è aumentata a seguito delle esplosioni di cercapersone e walkie-talkie, attribuite a Israele, e a un raid aereo nel quartiere Dahieh di Beirut. L Hezbollah ha confermato la morte di Ibrahim Aqil,  capo delle operazioni e comandante della Forza Radwan dell’organizzazione terroristica Hezbollah, ricercato dagli Stati Uniti per il suo ruolo negli attentati del 1983 a Beirut, che causarono oltre 350 vittime.
Oltre ad Aqil, nell’attacco sono stati eliminati altri 15 terroristi di Hezbollah, tra cui alti comandanti della catena di comando della Forza Radwan, che secondo l’esercito israeliano, erano responsabili della pianificazione, dell’avanzamento e dell’esecuzione di centinaia di operazioni terroristiche contro Israele, compresa la pianificazione del piano omicida di Hezbollah di razziare le comunità della Galilea.
Tra i terroristi eliminati c’era Abu Hassan Samir, che era a capo dell’unità di addestramento della Forza Radwan. Ha ricoperto varie posizioni all’interno dell’organizzazione terroristica ed è stato comandante della Forza Radwan per un decennio, fino all’inizio del 2024. È stato uno dei pianificatori e leader del piano d’attacco “Conquista della Galilea” ed è stato coinvolto nell’avanzamento del radicamento di Hezbollah nel sud del Libano, cercando di migliorare le capacità di combattimento terrestre dell’organizzazione. Nel corso degli anni e durante i primi mesi di guerra, ha pianificato ed eseguito numerosi attacchi e infiltrazioni in territorio israeliano. Gli altri comandanti: Samer Abdul-Halim Halawi – Comandante della zona costiera; Abbas Sami Maslamani – Comandante dell’area di Qana; Abdullah Abbas Hajazi – Comandante dell’area della cresta di Ramim; Muhammed Ahmad Reda – Comandante dell’area di Al-Khiam; Hassan Hussein Madi – Comandante dell’area di Monte Dov.
Inoltre, sono stati eliminati alti funzionari dell’organizzazione e del quartier generale della Forza Radwan: Hassan Yussef Abad Alssatar, responsabile delle operazioni della Forza Radwan. Ha guidato e portato avanti tutte le operazioni di fuoco della Forza Radwan;  Hussein Ahmad Dahraj – Capo di Stato Maggiore della Forza Radwan. Era coinvolto nel trasferimento di armi e nel rafforzamento dell’organizzazione.

- DICHIARAZIONI DEL PRESIDENTE ISAAC HERZOG
  In un’intervista con Trevor Phillips di Sky News, il presidente israeliano Isaac Herzog ha affermato che Israele non vuole una guerra con il Libano, ma ha accusato le forze iraniane e Hezbollah di essere la causa dell’attuale conflitto.
Herzog ha dichiarato: “Israele sta lottando per il suo benessere, la sua esistenza e i suoi cittadini”. Ha poi aggiunto che Hezbollah, che ha definito un “organizzazione terroristica”, sta usando il Libano come base per attacchi contro Israele, con il sostegno dell’Iran.

- L'IRAQ, UN ALTRO FRONTE
  Domenica, l’esercito israeliano ha dichiarato di aver intercettato il fuoco proveniente dall’Iraq, dove un altro gruppo sostenuto dall’Iran ha affermato di aver lanciato droni contro Israele.
In un’intervista rilasciata a New York, prima dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha accusato Israele di aver creato “un vero inferno a Gaza”. Citato dalla giornalista di Haaretz, Allison Kaplan Sommer, Araghchi ha affermato che “i crimini del regime sionista in Libano, seppur mossi dalla frustrazione, non rimarranno senza risposta”.

- L'IDF ANNUNCIA MODIFICHE ALLE LINEE GUIDA DIFENSIVE NEL NORD
  Da questa mattina, sono stati apportati aggiornamenti significativi alle linee guida difensive dell’Israeli Home Front Command, a seguito di una valutazione della situazione condotta dalle Forze di difesa israeliane (IDF). Queste modifiche, entrate in vigore alle 06:00, hanno un impatto su diverse regioni settentrionali, tra cui le alture del Golan settentrionali e meridionali, la Galilea, la baia di Haifa e le valli.
L’IDF ha chiarito che queste linee guida sono fondamentali per la sicurezza dei civili in queste aree. “Le istruzioni pubblicate sui canali ufficiali dell’Home Front Command devono essere seguite”, ha sottolineato l’IDF, esortando ulteriormente i cittadini a fare riferimento al National Emergency Portal e all’app dell’Home Front Command per le informazioni più aggiornate.
Oltre alle misure difensive riviste, l’IDF Northern Command ha emesso linee guida specifiche per le comunità lungo la linea di scontro, in particolare nelle alture del Golan settentrionali e meridionali. Mentre le comunità di Emek Hayarden sono esentate da queste nuove misure, quelle situate lungo la linea di scontro sono invitate ad attenersi scrupolosamente alle istruzioni aggiornate.
Nel frattempo, mentre aumentano le tensioni al confine settentrionale di Israele, l’IDF ha intensificato le sue operazioni nel Libano meridionale. Nel corso della giornata appena trascorsa, l’aeronautica militare israeliana (IAF), sotto la direzione della Direzione dell’intelligence dell’IDF, ha lanciato una vasta serie di attacchi, prendendo di mira l’infrastruttura terroristica di Hezbollah. “L’IDF ha colpito circa 290 obiettivi, tra cui migliaia di lanciarazzi, insieme ad altre infrastrutture terroristiche in più aree nel Libano meridionale”, ha riferito l’IDF.
Solo nelle ultime ore, “l’IDF ha colpito circa 110 obiettivi terroristici di Hezbollah”, continuando la sua campagna per indebolire le capacità operative di Hezbollah. L’IDF ha ribadito il suo impegno per questi attacchi in corso, affermando: “L’IDF continuerà a operare per smantellare e degradare le capacità e le infrastrutture terroristiche di Hezbollah”.
Con l’evolvere della situazione, si invitano i cittadini a tenersi informati attraverso i canali ufficiali dell’Home Front Command e ad attenersi scrupolosamente alle linee guida aggiornate per la loro sicurezza.

(Bet Magazine Mosaico, 22 settembre 2024)

........................................................


La tattica di Israele: lasciare Hezbollah senza lanciatori

Se non puoi eliminare l'arsenale di Hezbollah, lo rendi inutilizzabile.

di Sarah G. Frankl

Nella notte appena trascorsa Hezbollah ha lanciato un centinaio di missili verso Israele mentre l’aviazione israeliana ha colpito decine di lanciarazzi con i loro equipaggi.
  La tattica dell’esercito israeliano sembra quella di colpire i lanciatori in modo che ad Hezbollah rimangano i missili ma non la possibilità di lanciarli.
  Nelle ultime settimane, a partire dalla vasta azione preventiva fino alle ultime grandi ondate di attacchi successive alle operazioni del Mossad in Libano che hanno distrutto centinaia di lanciatori, l’IDF e l’IAF si sono concentrati in modo sistematico sulla distruzione della capacità di Hezbollah di lanciare missili.
  In sostanza, non potendo eliminare tutti i missili stessi (si dice 150.000) eliminano i mezzi per lanciarli.
  Il discorso vale anche per i missili balistici, difficilmente non individuabili prima del lancio visto che i lanciatori sono enormi e vengono caricati su camion. Negli attacchi preventivi della notte tra il 24 e il 25 agosto ne sono stati distrutti centinaia tra cui molti lanciatori per Fateh-110, cioè per i missili tra i più pericolosi in dotazione a Hezbollah.
  Rimane il pericolo rappresentato dai droni di produzione iraniana. Anche questa mattina l’IDF ne ha abbattuto uno partito dall’Iraq, da dove hanno lanciato anche due missili balistici abbattuti dai sistemi di difesa israeliani fuori dallo spazio aereo di Israele. Presto toccherà anche a loro.

(Rights Reporter, 22 settembre 2024)

........................................................


“La nuova caccia all’ebreo”: l’antisemitismo che cambia nel libro di Pierluigi Battista

di Michelle Zarfati 

Tante cose sono cambiate dopo il 7 ottobre. Ma ciò che più ha caratterizzato gli accadimenti legati al pogrom messo in atto da Hamas è un risveglio, pericoloso e senza precedenti, di odio antiebraico. È un antisemitismo dal volto nuovo che si è insidiato nelle menti dell’Occidente, un’ondata di odio che si è trasformata in una vera nuova caccia all’ebreo quella di cui parla nel suo libro – edito da Liberilibri – Pierluigi Battista. Shalom ha intervistato l’autore su come oggi la Shoah sia stata “desacralizzata” e su come l’odio contro l’ebreo agisca ormai indisturbato nella società odierna.

- Il tuo libro si chiama “La nuova caccia all’ebreo”: in cosa differisce questa “caccia all’ebreo” rispetto ai fenomeni del passato?
   Per nuova caccia all’ebreo non ci si riferisce soltanto a quel fenomeno, ormai noto, della persecuzione verso gli ebrei, ma piuttosto a come questo antisemitismo dilagante abbia delle motivazioni profondamente diverse, diciamo aggiornate, rispetto al passato. Nessuno oggi potrebbe avanzare l’idea di un antisemitismo di tipo biologico, come il nazismo classico, oppure additare agli ebrei la morte di Gesù, come faceva l’antisemitismo di matrice cristiana. Questo antisemitismo odierno è esploso con la totale sovrapposizione di antisemitismo e antisionismo. L’odio verso Israele ha trascinato l’odio verso gli ebrei, per cui non si protesta per la politica sbagliata del governo israeliano – cosa anche legittima – ma si mette in discussione l’esistenza d’Israele. Basti pensare all’ormai famoso slogan “from the river to the sea”. Lo suggerisce la frase stessa, il problema è semplicemente l’esistenza dello Stato ebraico. Israele è diventato il nemico: lo Stato usurpatore e gli ebrei di conseguenza, a causa del loro rapporto con Israele, devono esser presi di mira. E da qui l’assalto alle sinagoghe, l’interdire l’entrata nelle università agli studenti ebrei – in Italia come in Francia – come è accaduto in un tempio della cultura come Sciences Po. Ormai la distinzione è completamente devastata. Gli ebrei sono diventati i nuovi oppressori, e lo sono per l’esistenza stessa dello Stato d’Israele. Questo è un fenomeno nuovo e sconvolgente, assolutamente non arginato dalla cultura democratica. Ormai tutto accade nella totale indifferenza e omertà.

- Dopo il 7 ottobre possiamo asserire che il lavoro sulla memoria abbia fallito
   L’Italia è un paese in cui il Giorno della Memoria viene insultata Liliana Segre ed è proprio questo a cui faccio riferimento quando parlo di una “nuova caccia all’ebreo”, un fenomeno che si nutre di odio mettendo in atto una totale sovrapposizione di antisemitismo e antisionismo. Tutto questo compone un quadro agghiacciante in cui gli ebrei vengono inesorabilmente lasciati soli. Proprio all’inizio del secondo capitolo del mio libro racconto di una studentessa torinese che nell’aprile del 2024 ha rilasciato a La Repubblica un’intervista. Lei racconta della sua paura ad andare in giro per Torino, al dover nascondere, assieme ai suoi amici, i simboli ebraici, all’aver paura di entrare nelle università o di dire il proprio cognome. La vera follia è come la classe parlamentare possa permettere che una cittadina italiana possa sentirsi così perseguitata alla luce del sole. Che senso ha allora far le cerimonie del 27 gennaio? L’ebreo che si difende non è più simpatico e viene messo ai margini. Non è più un problema di memoria, il mai più è diventato una formula ridicola e vuota. Ormai la nostra cultura si nutre della memoria ma si gira dall’altra parte mentre si dà la caccia all’ebreo, questo è ciò che dovrebbe preoccupare: questa specie di pellicola di indifferenza. Tutto ciò accade perché è stata “sconsacrata” la Shoah, che era una sorta di argine morale in passato. Gli ebrei sono soli a causa di questo antisemitismo culturale, ed è forse a causa di ciò che viene insegnato nelle università, ovvero che il mondo si divide in oppressi e oppressori, e in questa ottica gli oppressi hanno il diritto di ribellarsi. Così, il 7 ottobre è diventato un atto di resistenza. Stuprare le donne ebree, massacrare i bambini ebrei nei kibbutzim e uccidere centinaia di ragazzi in un rave diviene improvvisamente sinonimo di resistenza da parte di gente che non vuole, come vorrei io, due popoli due stati – e, come diceva Marco Pannella, due Stati democratici – questa gente vorrebbe solo pura Jihad, desidererebbe semplicemente la cancellazione d’Israele dalla faccia della terra, non esiste niente di più, nessuna rivendicazione nazionalista. Non c’è la volontà di uno Stato palestinese ma la volontà della fine totale degli ebrei.

- Bernard-Henri Lévy in una recente intervista sul suo libro ha affermato che se Israele perdesse sarebbe peggio della Shoah, è d’accordo?
   Proviamo ad immaginare un mondo senza Israele per gli ebrei di tutto il globo, non solo quelli della diaspora o gli israeliani stessi. Immaginiamo: 8 milioni d’israeliani che fine farebbero? Tornerebbero in Polonia? Non sarebbe possibile, specialmente perché dall’altra parte non esiste la possibilità di una coesistenza pacifica.

- Tu sei stato il primo ad intervistare Gadiel Gaj Taché: riconosci qualcosa in comune con quel 9 ottobre?
   In realtà è tutto molto peggio, anche del clima che si respirava nel 1982. Non dobbiamo più guardare al passato, non è quella la chiave, non è più come allora, ma il quadro è ancora più agghiacciante. Questa è una cosa sta avvenendo ora: una donna in Francia viene stuprata perché ebrea, ora; le sinagoghe vengono prese d’assalto perché sono il luogo di culto degli ebrei, ora; non c’entra più il passato, si tratta invece di vecchi pregiudizi dentro a un contesto culturale nuovo e diverso, che non dovrebbe essere ignorato.

(Shalom, 22 settembre 2024)

........................................................


Hollywood – Lauren Bacall fra successo e antisemitismo

Per quanto sullo schermo sia ricordata come un personaggio audace e spavaldo, Lauren Bacall ha trascorso buona parte della sua carriera cercando di schivare l’antisemitismo di Hollywood. Morta nel 2014, l’attrice era nata nel Bronx come Betty Joan Perske, per poi adottare una versione modificata del nome della madre, Natalie Weinstein-Bacal. Nel 2014, subito dopo la sua morte, il Forward ricordava come nel suo libro di memorie, By Myself and Then Some, Bacall raccontò di essere stata licenziata, subito dopo aver informato un collega di essere ebrea: «L’antisemitismo del mondo intero fu particolarmente scioccante, e opposto all’atmosfera calorosamente accogliente data dall’insieme delle radici ebraiche e rumene». L’attrice si dichiarava felice delle sue radici, e della sua identità, cui non avrebbe mai neppure pensato di rinunciare, ma quando arrivò a Hollywood, grazie a un contratto con il regista Howard Hawks, non gli disse di essere ebrea perché – disse al New York Times nel 1996 – «lui era antisemita e mi spaventava a morte… Mi rendeva così nervosa che non dissi nulla. Sono stata vigliacca, devo dirlo».
  Nel 1979, dopo essersi innamorata di Humphrey Bogart, affrontò l’argomento raccontando un vecchio episodio a People Magazine: «Una volta un cadetto di West Point mi aveva chiesto di uscire ed era saltato fuori l’argomento religione. Non mi richiamò mai, e io ero sicura che fosse perché ero ebrea… Così, quando mi sono innamorata di Bogie, ho capito che dovevo assolutamente mettere le cose in chiaro, lui era l’ultimo uomo al mondo a cui avrebbe dato fastidio». Quando nel 1944 uscì To Have and Have Not, i pubblicitari parlarono di una «figlia di genitori che hanno origini americane da diverse generazioni» rimuovendo il fatto che sua madre era passata per Ellis Island, come tanti altri immigrati ebrei.
  Del suo ebraismo era consapevole solo una cerchia ristretta, a Hollywood, e – scriveva Benjamin Ivry – «forse la Yiddishkeit della Bacall si riflette meglio nei suoi saldi principi etici, e nella sua propensione ad abbracciare un punto di vista minoritario, se lo riteneva giusto. Come ha detto a Larry King nel 2005, era antirepubblicana e liberale. Riteneva che essere liberali fosse la scelta migliore che si possa fare: quando si è liberali si è accoglienti con tutti». Una diva che ha spesso optato per personaggi fuori dagli schemi, scegliendo parti pensanti, complesse, e che non cercò mai di ingraziarsi il potere. Anche quando Shimon Peres fu nominato primo ministro in Israele, la Bacall tenne una linea di discrezione: era suo cugino dal lato paterno, i Perske, che lei aveva evitato per decenni, e in seguito si recò a trovare Peres in Israele per una visita di cortesia, forse come gesto di riconciliazione. L’epitome di una donna indipendente, e forte.

(moked, 22 settembre 2024)

........................................................





«Io farò di te una grande nazione»

di Marcello Cicchese

La difficoltà che hanno molti cristiani ad inserire correttamente il popolo d’Israele nella loro comprensione del Vangelo dipende dal fatto che gran parte dell’insegnamento ricevuto è centrato sulla salvezza individuale e sulla santificazione personale. Al centro dell’interesse ci sono io, la mia felicità eterna e il mio benessere temporale. La dimensione sociale e storica dell’opera di salvezza di Dio non è tenuta in considerazione perché non interessa, dal momento che non corrisponde a quella richiesta di felicità individuale che è la ragione di vita di quasi tutti, ivi compresi molti cristiani.
  Quanto agli ebrei invece, si può dire che se non si fanno riferimenti al loro popolo e alla loro storia, non esistono. Tutti i tentativi di presentare - in modo di solito dispregiativo - i caratteri antropologici tipici dell’individuo ebreo si sono rivelati vani. Il singolo ebreo non ha niente di particolare, né nel bene, né nel male. Gli ebrei esistono nella loro specificità in quanto sono un popolo, e il popolo esiste in quanto ha una storia. Ed è una storia che non si è arrestata nel passato, ma inaspettatamente continua ancora nel presente e, secondo la convinzione di molti ebrei e non ebrei, e, soprattutto, secondo quanto sta scritto nella Bibbia, continuerà ancora nel futuro. La storia di Israele come popolo e nazione ha a che fare direttamente con la volontà di Dio. Chi trascura o interpreta in modo distorto questa volontà, sia egli ebreo o non ebreo, si pone in rotta di collisione con Dio stesso.
  Per salvare il mondo Dio prese la decisione di scendere nell’umanità, senza naturalmente perdere la sua divinità, nella persona del suo Figlio. Ma dopo il diluvio la società universale umana si era suddivisa in tante sottosocietà che Dio stesso aveva chiamato “nazioni”. Prima ancora di scegliere una donna in cui far scendere il suo Spirito Santo, Dio avrebbe dunque dovuto scegliere la nazione a cui questa donna avrebbe dovuto appartenere. Ma, se così si può dire, tra le nazioni che si erano sparse sulla terra dopo il diluvio Dio non ne trovò alcuna. Decise allora di formarsene una sua propria, di “generarla” come si genera un figlio.
  Il modo in cui avvenne questo particolare parto è di importanza fondamentale per la comprensione della successiva opera di salvezza compiuta da Dio nella storia. Dio chiamò un uomo ad uscire dalla sua nazione, a rompere i legami affettivi con il suo paese e i suoi familiari, e a recarsi in un paese a lui sconosciuto.

    “Il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò»” (Genesi 12:1).

Fu dunque un ordine, con aspetti indubbiamente laceranti e spaventosi, ma accompagnato da una precisa promessa:

    “Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».” (Genesi 12:2-3).

Per creare una nuova nazione Dio avrebbe potuto procedere in molti modi. Avrebbe potuto, per esempio, scegliere tra le varie nazioni un certo numero di persone particolarmente dotate, insegnare loro una nuova lingua, stabilire una gerarchia di autorità, consegnare una legislazione per regolare i rapporti fra di loro. In questo modo sarebbe stato esaltato l’aspetto sociale della nazione, la struttura comunitaria a cui tutti i singoli cittadini avrebbero dovuto conformarsi. Nel continuo gioco tra individuo e società si pone sempre di nuovo la domanda: quale dei due termini ha la priorità? E’ il singolo che deve essere pronto a sacrificare il proprio interesse personale per il bene comune, o è la società che deve mettersi al servizio dei singoli per offrire a ciascun membro le maggiori possibilità di sviluppo e il massimo conforto? Nell’attuale società occidentale è chiaramente vero il secondo caso. Ma non è sempre stato così. La Germania nazista offre un esempio recente di società in cui era stato inculcato e accettato il principio secondo cui “il singolo è nulla, la nazione è tutto”. L’attuazione di un principio simile porta inevitabilmente alla costruzione di un idolo, che prima o poi richiede il compimento di sacrifici umani, come sempre è avvenuto nella storia.
  Dio invece comincia sempre dall’individuo. Il Dio che si rivela nella Bibbia non è un brillante organizzatore di esseri a lui sottoposti, ma è innanzitutto un Dio che parla. E quando decide di parlare agli uomini non raduna intorno a Sé le folle per arringarle come fanno i tribuni, ma sceglie tra tutti un particolare interlocutore, un uomo fatto a sua immagine e somiglianza, gli rivolge la parola e gli affida un messaggio che contiene due tipi di ingredienti: ordini e promesse. Nel suo rapporto con gli uomini Dio fa sempre precedere la parola all’azione. Dio parla all’uomo che ha scelto, aspetta la sua risposta, e in conformità di questa risposta agisce, manifestando la sua sovranità e la sua fedeltà. Da quel momento l’interlocutore a cui Dio si è rivolto diventa il rappresentante della società che nasce da questo rapporto tra Dio e l’uomo. Prima di Abraamo, questo era già avvenuto nel rapporto di Dio con Adamo e con Noè. Adamo è diventato il rappresentante di tutta l’umanità peccatrice, e Noè è diventato il rappresentante di tutta l’umanità che, pur essendo peccatrice, si trova sotto la paziente misericordia di Dio che tollera la presenza del peccato in vista dell’opera di salvezza che ha progettato fin dall’eternità.   
  Anche Abraamo è stato scelto da Dio come interlocutore, ma, al contrario di Adamo e Noè, non diventerà il rappresentante di tutta l’umanità. Attraverso il segno della circoncisione Abraamo diventerà rappresentante storico della nazione d’Israele e, spiritualmente, di tutti coloro che credono nella Parola salvifica di Dio.
  Anche ad Abraamo Dio diede ordini e promesse. Il primo ordine era di lasciare la nazione in cui era nato e cresciuto, e che era diventata parte della sua identità. La prima promessa, che sembra quasi la contropartita dell’ordine, fu espressa con queste parole: “Io farò di te una grande nazione”. Ad Abraamo Dio dunque non disse: “Io ti inserirò in un’altra nazione più adatta che ho già preparata per te”, ma gli promise che da lui sarebbe nata una nuova, grande nazione. E’ nella relazione verbale tra Dio e Abraamo che fu concepita la nazione d’Israele.
  La nazione però non nacque subito. Abraamo non conobbe il calore di una comunità nazionale in cui condividere con i suoi simili gioie e dolori. Con lui Dio aveva fatto un patto solenne contenente grandiosi promesse che parlavano di nazione e di terra, ma nella sua vita terrena non vide compiersi le parole di quel patto. E tuttavia è scritto che “credette al Signore, che gli contò questo come giustizia” (Genesi 15:6).

    “Per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa, perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio. Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare. Tutti costoro sono morti nella fede, senza ricevere le cose promesse, ma le hanno vedute e salutate da lontano, confessando di essere forestieri e pellegrini sulla terra.” (Ebrei 11:8-13).

La nazione d’Israele, il popolo eletto di Dio, nacque dunque come conseguenza della fede ubbidiente di un singolo uomo. Dio aveva proposto ad Abraamo un patto che aveva come unica clausola l’ubbidienza a un ordine: “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò”. E la risposta fu che “Abramo partì, come il Signore gli aveva detto” (Genesi 12:4). Da quel momento Dio si considerò impegnato a mantenere tutte le promesse contenute nel patto che aveva fatto con Abraamo.
  Continuando nell’immagine della nascita della nazione d’Israele come parto, si può dire che il tempo dei patriarchi, da Abraamo fino a Giuseppe, corrisponde al concepimento, il periodo dei quattrocento anni trascorsi nella “casa di schiavitù” (Esodo 20:2) dell’Egitto, alla gravidanza, e l’uscita traumatica per mano di Mosè dal paese del Faraone, al momento del parto vero e proprio, preceduto dalle doglie delle dieci piaghe. Il ventre che conteneva il futuro popolo d’Israele apparteneva dunque a un popolo pagano, e poiché il suo capo, il Faraone, sembrava deciso a impedire la nascita del “figlio di Dio”, intervenne direttamente il Signore,:

    “Tu dirai al faraone: “Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito, e io ti dico: «Lascia andare mio figlio, perché mi serva; se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito»” ( Esodo 4:22-23).

Sorge subito la domanda: perché questa preferenza? La venuta al mondo di questa nuova nazione significa forse che Dio voleva salvare soltanto gli israeliti e condannare tutti gli altri? Sono interrogativi che si pongono coloro che sanno ragionare soltanto in termini di salvezza individuale e non percepiscono gli aspetti storici dell’opera di Dio. Dicendo: “Io farò di te una grande nazione” , Dio costituisce Abraamo come capostipite e rappresentante della nazione storica d’Israele; e dicendo: “… in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”, Dio manifesta, attraverso la scelta di Abraamo e della sua progenie, di voler compiere un’opera di salvezza universale. Questo però non significa che un giorno tutte le differenze tra le nazioni saranno annullate: se Dio parla di famiglie della terra, vuol dire che il suo proposito non è di far diventare tutti una grande famiglia. Le differenze tra famiglie rimarranno, ma il punto di riferimento delle nazioni (non dei singoli) davanti a Dio, e il metro di giudizio con cui saranno valutate, sarà Israele, il popolo che Dio “si è formato” (2 Samuele 7:23, Isaia 43:21). Le nazioni sono sorte come conseguenza di un’azione di giudizio di Dio contro un peccato “sociale” degli uomini, cioè contro il loro tentativo di crearsi una società che fosse a loro propria gloria e potesse fare a meno di Dio, ma nel momento stesso in cui furono stabilite era già presente nella mente di Dio il progetto di una nazione che aveva deciso di creare non come espressione di giudizio, ma come volontà di grazia: Israele.
  Prima di morire Mosè rivolse al suo popolo queste parole:

    “Ricòrdati dei giorni antichi, considera gli anni delle età passate, interroga tuo padre ed egli te lo farà conoscere, i tuoi vecchi ed essi te lo diranno. Quando l’Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d’Israele. Poiché la parte del Signore è il suo popolo, Giacobbe è la porzione della sua eredità.” (Deuteronomio 32:7-9).

Dopo l’esperienza della torre di Babele, Dio dunque fissò i confini dei popoli, cioè permise a ciascuno di loro di attribuirsi una parte di terra da considerare come loro eredità. Ma nel fare questo pensò anche alla porzione della sua eredità: Giacobbe. La Bibbia non dice in quale senso Dio tenne conto del numero dei figli d’Israele, ma in ogni caso è chiaro che dal momento in cui la nazione d’Israele venne al mondo, uscendo dalla casa di schiavitù d’Egitto, le altre nazioni sono state destinate a tener conto del popolo che il Signore ha scelto come “sua parte”. E un giorno dovranno anche risponderne, perché prima ancora che fosse annunciata la benedizione in Abraamo per tutte le genti, Dio aveva avvertito:

    “Benedirò chi ti benedirà e maledirò chi ti maledirà” (Genesi 12:3).

Nella storia di Abraamo, come del resto in tutta la Bibbia, sono presenti aspetti individuali e aspetti sociali che bisogna sapere distinguere e ben collegare fra di loro. La fede con cui Abraamo ubbidisce alla Parola di Dio è certamente un fatto individuale:

    “Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare». E soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che gli contò questo come giustizia.” (Genesi 15:5-6).

E’ scritto che Abraamo credette al Signore, ed è questa la prima volta che nella Bibbia si usa il verbo credere. Dio “gli contò questo come giustizia” (Genesi 15:6): Abraamo dunque fu giustificato per fede, e questa fu la prima e più importante forma in cui Dio lo benedisse. Il Signore però aveva anche promesso: … in te saranno benedette tutte le famiglie della terra; questo significa che con Abraamo sono destinati ad essere benedetti, e quindi giustificati, tutti coloro che crederanno in Dio con una fede personale simile alla sua.

    “Così Abraamo «credette a Dio, e ciò gli fu messo in conto di giustizia»; sappiate pure che coloro che sono dalla fede sono figli di Abraamo. E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato le nazioni mediante la fede, diede prima ad Abraamo una buona notizia: «Tutte le nazioni saranno benedette in te». Perciò coloro che si fondano sulla fede sono benedetti col fedele Abraamo.” (Galati 3:6-9).
    “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo diventato maledizione per noi (poiché sta scritto: «Maledetto chiunque è appeso al legno»), affinché la benedizione di Abraamo pervenisse ai gentili in Cristo Gesù, perché noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede.” (Galati 3:13-14).

La fede personale di Abraamo gli ha permesso di ricevere per grazia la giustizia che viene da Dio e lo ha fatto diventare il padre spirituale di tutti coloro che credono con una fede simile alla sua. La benedizione che in Abraamo giunge a tutte le famiglie della terra è la possibilità individuale di ricevere per grazia mediante la fede il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo promesso a Israele (Ezechiele 36:26-27), ma destinato, dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù, a spandersi su tutti coloro che avrebbero creduto alla predicazione del Vangelo (Atti 10:44-47). Per ricevere questa benedizione non ha alcuna importanza l’essere circonciso o incirconciso, perché Abraamo fu giustificato quando era ancora incirconciso.

    “Che diremo dunque che il nostro antenato Abraamo abbia ottenuto secondo la carne? Poiché se Abraamo fosse stato giustificato per le opere, egli avrebbe di che vantarsi; ma non davanti a Dio; infatti, che dice la Scrittura? «Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia». Ora a chi opera, il salario non è messo in conto come grazia, ma come debito; mentre a chi non opera ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede è messa in conto come giustizia. Così pure Davide proclama la beatitudine dell’uomo al quale Dio mette in conto la giustizia senza opere, dicendo: «Beati quelli le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti. Beato l’uomo al quale il Signore non addebita affatto il peccato». Questa beatitudine è soltanto per i circoncisi o anche per gl’incirconcisi? Infatti diciamo che la fede fu messa in conto ad Abraamo come giustizia. In quale circostanza dunque gli fu messa in conto? Quando era circonciso, o quando era incirconciso? Non quando era circonciso, ma quando era incirconciso; poi ricevette il segno della circoncisione, quale sigillo della giustizia ottenuta per la fede che aveva quando era incirconciso, affinché fosse padre di tutti gl’incirconcisi che credono, in modo che anche a loro fosse messa in conto la giustizia; e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo sono circoncisi ma seguono anche le orme della fede del nostro padre Abraamo quand’era ancora incirconciso. Infatti la promessa di essere erede del mondo non fu fatta ad Abraamo o alla sua discendenza in base alla legge, ma in base alla giustizia che viene dalla fede. Perché, se diventano eredi quelli che si fondano sulla legge, la fede è resa vana e la promessa è annullata; poiché la legge produce ira; ma dove non c’è legge, non c’è neppure trasgressione. Perciò l’eredità è per fede, affinché sia per grazia; in modo che la promessa sia sicura per tutta la discendenza; non soltanto per quella che è sotto la legge, ma anche per quella che discende dalla fede d’Abraamo. Egli è padre di noi tutti (com’è scritto: «Io ti ho costituito padre di molte nazioni») davanti a colui nel quale credette, Dio, che fa rivivere i morti, e chiama all’esistenza le cose che non sono. Egli, sperando contro speranza, credette, per diventare padre di molte nazioni, secondo quello che gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza». (Romani 4:1-18).

La promessa fatta ad Abraamo di essere erede del mondo ha carattere universale, perché l’ingresso personale nel nuovo mondo riconciliato con Dio e da Lui benedetto non avviene sulla base dell’appartenenza a una particolare nazione o dell’osservanza di una legge morale, ma sulla base della fede personale nella Parola rivolta da Dio agli uomini nelle varie epoche della storia. E’ chiaro allora che per l’apostolo Paolo la Parola che Dio rivolgeva agli uomini al suo tempo, e rivolge ancora oggi, è l’invito a ravvedersi e a credere in Gesù come Figlio di Dio, Messia d’Israele, Signore e Salvatore di tutti gli uomini. Dio ha chiamato Abraamo padre di molte nazioni perché sapeva che in tutte le parti del mondo il patriarca avrebbe avuto dei figli spirituali, cioè delle persone a cui la fede sarebbe stata imputata come giustizia.
  Ma ad Abraamo Dio aveva anche promesso di diventare una grande nazione, e questa nazione è Israele, un ben preciso popolo storico, diverso dagli altri non per le qualità peculiari dei suoi membri, ma per la scelta fatta da Dio in vista di un incarico che è chiamato a svolgere tra le nazioni. E’ vero che il compito principale del popolo eletto era quello di “generare” ed accogliere, dal punto di vista umano, il “Salvatore del mondo” (Giovanni 4:42), ma il suo incarico non si esaurisce in questo puro fatto genetico. Se così fosse, effettivamente dopo la venuta di Gesù su questa terra e il suo ritorno al Padre in cielo, la presenza nel mondo del popolo d’Israele non avrebbe più alcun senso. Ma non è così. Dire che “La salvezza viene dai Giudei” (Giovanni 4:22) non significa soltanto – come qualcuno ha detto – che Gesù è nato ebreo. Il significato di quella dichiarazione è molto più profondo e ricco di implicazioni: in quelle parole è contenuto l’ammonimento che chiunque riceve individualmente il perdono dei peccati è tenuto a ricordarsi che la salvezza ottenuta per grazia non gli piove in testa direttamente dal cielo, ma gli arriva attraverso un percorso storico che ha nel popolo d’Israele un passaggio ineliminabile. La sua salvezza individuale è conseguenza di un patto che Dio ha fatto “con la casa d’Israele e con la casa di Giuda” (Geremia 31:31), cioè con una realtà sociale che ha un posto unico e insostituibile nell’opera di “riconciliazione del mondo” (Romani 11:5) con Dio.
  Quando la chiesa locale si riunisce per celebrare la Cena del Signore istituita da Gesù, molto spesso si leggono queste parole dell’apostolo Paolo:

    “Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga».” (1Corinzi 11:23-26).

Si tratta certamente di un memoriale, non di un sacrificio. I credenti riuniti ricordano Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra, esaltandolo come Colui “che ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Apocalisse 1:5). Spesso però si dimentica che il vino simboleggiante il “sangue dell’aspersione che parla meglio del sangue d’Abele” (Ebrei 12:24) è contenuto in un calice che rappresenta il “nuovo patto con la casa d’Israele e con la casa di Giuda” (Geremia 31:31). Il memoriale di Gesù è dunque sempre, anche, un memoriale d’Israele, affinché si ricordi che la persona di Gesù è inscindibile dal suo popolo. Chi ha stabilito un rapporto individuale con Dio tramite Gesù deve sapere che nello stesso tempo ha stabilito un rapporto sociale con Israele. Che lo sappia o no, che lo voglia o no.
  Dio è amore, su questo tutti sono d’accordo. Purtroppo però di solito si parte dal presupposto umano di sapere che cos’è l’amore e questa conoscenza dovrebbe gettare luce sulla persona di Dio. E’ vero il contrario. Soltanto la conoscenza di Dio può far capire che cos’è l’amore, e a questa conoscenza non si può arrivare per riflessione o esperienza, ma soltanto per rivelazione. Dio è amore, ma manifesta la sua natura sempre attraverso la parola e nella forma di un patto. L’amore di Dio non è mai semplice effusione di sentimenti affettuosi o prestazione di servizi pratici: Dio parla, si rivolge all’uomo con ordini e promesse, vincolandosi a lui con la sua parola ed esigendo da lui fiducia ubbidiente.  Questa forma di rapporto amorevole tra Dio e l’uomo nella Bibbia si chiama patto. E da Abramo in poi Dio ha stipulato i suoi patti d’amore sempre e soltanto con il popolo d’Israele. Parlando dei suoi parenti secondo la carne, l’apostolo Paolo si esprime con queste parole:

    “… gli Israeliti, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!” (Romani 9:4-5).

E rivolgendosi ai gentili dice invece:

    “Perciò, ricordatevi che un tempo voi, Gentili di nascita, chiamati i non circoncisi da quelli che si dicono i circoncisi, perché tali sono nella carne per mano d'uomo, voi, dico, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele ed estranei ai patti della promessa, non avendo speranza, ed essendo senza Dio nel mondo” (Efesini 2:11-12).

Il nuovo patto annunciato da Gesù nell’ultima cena è certamente quello con la casa d’Israele e con la casa di Giuda promesso dal profeta Geremia, ed è nuovo rispetto al patto di Dio con Mosè, non rispetto al patto con Abraamo, di cui invece è un’articolazione, una precisazione e un compimento. Questo viene chiaramente espresso in un famoso cantico del Vangelo di Luca:

    “Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetizzò, dicendo: «Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo, e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo, come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti; uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita. E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, perché andrai davanti al Signore per preparare le sue vie, per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati, grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio; per i quali l’Aurora dall’alto ci visiterà per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace»” (Luca 1:67-79).

Come nel caso della liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto, la venuta del Messia è vista come un intervento di Dio in favore del suo popolo, perché Dio “si ricorda” del suo patto con Abraamo ( Esodo 2:24, Luca 1:72).
  Ma come si devono intendere le parole di Zaccaria quando dice, sotto l’impulso dello Spirito Santo, che il Dio d’Israele ha visitato e riscattato il suo popolo? In un commentario esegetico pratico della casa editrice Claudiana viene data la seguente spiegazione:

    «Le vedute di Zaccaria intorno a questo avere «Iddio ha visitato e riscattato il suo popolo» dovevano essere molto indistinte e imperfette. E’ probabile che partecipasse alle idee prevalenti tra i suoi compatrioti intorno al regno terreno del Messia, e alla liberazione dai loro nemici con la spada e con la lancia; ma nel mentre le parole messegli in bocca dallo Spirito di Dio, avrebbero potuto naturalmente risvegliare tali immagini terrene nella mente d’un Giudeo dominato da siffatti pregiudizi, erano egualmente adatte ad esprimere i concetti più spirituali della redenzione che è in Cristo Gesù. Tale è il senso che noi dobbiamo dare al linguaggio di Zaccaria, sebbene possa darsi che egli non comprendesse appieno il significato delle parole che gli dettava lo Spirito Santo.»

Chi sono i nemici da cui Dio promette di liberare il popolo? Lo stesso commentario risponde in questo modo:

    «Che Zaccaria avesse, come pensano alcuni, o non avesse, in vista nemici temporali, quali erano stati in passato i Macedoni sotto Antioco, ed erano ai suoi giorni i Romani, è certo che lo Spirito d’ispirazione ci insegna in questi versetti che la principale benedizione contemplata nel patto con Abraamo non era il potere o lo splendore temporale dei suoi discendenti secondo la carne, ma, come si è detto, la liberazione della sua progenie da tutti i nemici spirituali; la salvazione dal peccato e dalla sua potenza.»

Queste parole, scritte nei primi anni del secolo scorso, prima delle due guerre mondiali e dell’orrore dell’Olocausto, sono un esempio eloquente di quella “superbia dei gentili” che costituisce il tema del presente libro. I “compatrioti” di Zaccaria avrebbero avuto il torto, non solo secondo l’autore del commentario, ma anche secondo l’opinione “cristiana” più diffusa nei secoli, di aspettarsi un regno messianico “terreno”, mentre non avevano capito che il regno che avrebbe instaurato il Messia era di natura “spirituale”. E questo perché la mente dei giudei era “dominata da siffatti pregiudizi”. Zaccaria dunque non avrebbe nemmeno capito quello che diceva, perché i concetti espressi nel suo cantico erano prettamente spirituali, cosa che gliene rendeva difficile una piena comprensione, dal momento che la sua mente di giudeo era piena di immagini terrene. Anche i nemici, naturalmente, erano spirituali e non temporali, e lui non l’aveva capito.
  Non a tutti forse appare chiara la gravità delle conseguenze teologiche e politiche di una simile “spiritualizzazione” del messaggio evangelico. Nel sinistro linguaggio dei nazisti questa operazione potrebbe essere chiamata “Entjudung” (degiudaizzazione), perché secondo alcuni una caratteristica tipica degli ebrei è proprio quella di essere un popolo materialista, attaccato alla terra, privo di autentici interessi spirituali superiori.

    «No, l’ebreo non possiede nessuna forza creativa, poiché egli è privo di quell’idealismo senza il quale non è possibile uno sviluppo dell’umanità verso l’alto.»
    «… dalla sua natura fondamentale l’ebreo non poteva trarre istituzioni religiose, ché gli manca completamente ogni forma di idealismo, e perciò ogni fede nell’aldilà.»

Sono considerazioni espresse da Adolf Hitler nel suo “Mein Kampf”.
  La prima domanda da porre a chi rimprovera agli ebrei il loro materialismo è questa: da quali passi della Sacra Scrittura gli ebrei del tempo di Gesù avrebbero dovuto capire che il regno messianico era di natura puramente spirituale? In realtà, i profeti dell’Antico Testamento parlano sempre di un regno anche politico, in cui il Messia governerà come Re d’Israele su un popolo liberato dalla mano dei suoi nemici. Parlando della Gerusalemme dei tempi messianici, il profeta Isaia si esprime così:

    “«Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te! Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli; ma su di te sorge il Signore e la sua gloria appare su di te. Le nazioni cammineranno alla tua luce, i re allo splendore della tua aurora. Alza gli occhi e guàrdati attorno; tutti si radunano e vengono da te; i tuoi figli giungono da lontano, arrivano le tue figlie, portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, il tuo cuore palpiterà forte e si allargherà, poiché l’abbondanza del mare si volgerà verso di te, la ricchezza delle nazioni verrà da te. Una moltitudine di cammelli ti coprirà, dromedari di Madian e di Efa; quelli di Seba verranno tutti, portando oro e incenso, e proclamando le lodi del Signore. Tutte le greggi di Chedar si raduneranno presso di te, i montoni di Nebaiot saranno al tuo servizio; saliranno sul mio altare come offerta gradita, e io onorerò la mia casa gloriosa. Chi mai sono costoro che volano come una nuvola, come colombi verso le loro colombaie? Sono le isole che spereranno in me e avranno alla loro testa le navi di Tarsis, per ricondurre i tuoi figli da lontano con argento e con oro, per onorare il nome del Signore, tuo Dio, del Santo d’Israele, che ti avrà glorificata. I figli dello straniero ricostruiranno le tue mura, i loro re saranno al tuo servizio; poiché io ti ho colpita nel mio sdegno, ma nella mia benevolenza ho avuto pietà di te. Le tue porte saranno sempre aperte; non saranno chiuse né giorno né notte, per lasciar entrare in te la ricchezza delle nazioni e i loro re in corteo. Poiché la nazione e il regno che non vorranno servirti, periranno; quelle nazioni saranno completamente distrutte. La gloria del Libano verrà a te, il cipresso, il platano e il larice verranno assieme per ornare il luogo del mio santuario, e io renderò glorioso il luogo dove posano i miei piedi. I figli di quelli che ti avranno oppressa verranno da te, abbassandosi; tutti quelli che ti avranno disprezzata si prostreranno fino alla pianta dei tuoi piedi e ti chiameranno la città del Signore, la Sion del Santo d’Israele. Invece di essere abbandonata, odiata, al punto che anima viva più non passava da te, io farò di te il vanto dei secoli, la gioia di tutte le epoche. Tu popperai il latte delle nazioni, popperai al seno dei re, e riconoscerai che io, il Signore, sono il tuo salvatore, io, il Potente di Giacobbe, sono il tuo redentore. Invece di rame, farò affluire oro; invece di ferro, farò affluire argento; invece di legno, rame; invece di pietre, ferro; io ti darò per magistrato la pace, per governatore la giustizia. Non si udrà più parlare di violenza nel tuo paese, di devastazione e di rovina entro i tuoi confini; ma chiamerai le tue mura: Salvezza, e le tue porte: Lode” (Isaia 60:1-18).

Questo è soltanto uno dei moltissimi passi profetici che parlano di un regno messianico di natura anche politica. Chi vuole “spiritualizzarli” fa violenza al testo e non prende in seria considerazione la Scrittura.
  Anche per quanto riguarda i nemici di Israele, non è assolutamente possibile spiritualizzare tutti i passi che evocano “il giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Celebrando il Messia come uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano, Zaccaria poteva avere in mente un passo come questo:

    “«Ma tu, Israele, mio servo, Giacobbe che io ho scelto, discendenza di Abraamo, l’amico mio, tu che ho preso dalle estremità della terra, che ho chiamato dalle parti più remote di essa, a cui ho detto: «Tu sei il mio servo, ti ho scelto e non ti ho rigettato, tu, non temere, perché io sono con te; non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio; io ti fortifico, io ti soccorro, io ti sostengo con la destra della mia giustizia. Ecco, tutti quelli che si sono infiammati contro di te saranno svergognati e confusi; i tuoi avversari saranno ridotti a nulla e periranno; tu li cercherai e non li troverai più. Quelli che litigavano con te, quelli che ti facevano guerra, saranno come nulla, come cosa che più non è; perché io, il Signore, il tuo Dio, fortifico la tua mano destra e ti dico: Non temere, io ti aiuto!” (Isaia 41:8-13).

Quello che gli ebrei del tempo di Gesù, ivi compresi i suoi discepoli, non avevano capito, perché non avevano voluto capire, non era il carattere “spirituale” del regno, ma il fatto che il Messia avrebbe dovuto soffrire prima di entrare nella gloria del suo regno. Questo però era stato chiaramente preannunciato dai profeti (Luca 24:25-26). La difficoltà di comprensione per gli ebrei di allora e di oggi non sta dunque nella “spiritualità” del regno, ma nello scandalo della croce.

(da "La superbia dei Gentili")



........................................................


Israele colpisce Hezbollah, Netanyahu: “Obiettivi chiari”

Usa: “Serve diplomazia”

Non solo cercapersone e walkie talkie esplosivi. Il raid in Libano con l'uccisione del numero due di Hezbollah a Beirut ha reso ancora una volta "chiari" gli obiettivi di Israele mentre "le nostre azioni parlano da sole".
 A dirlo è stato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dopo il raid di ieri, un attacco aereo ''mirato'', il terzo condotto dalle Forze di difesa israeliane (Idf) a Beirut dall'inizio della guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza lo scorso 7 ottobre. Obiettivo principale dell'attacco, il comandante di Hezbollah Ibrahim Aqil, ricercato dagli Stati Uniti per il suo coinvolgimento negli attentati all'ambasciata americana e alla caserma dei marines americani a Beirut nel 1983. Aqil, precisa il Times of Israel, era membro del Consiglio della Jihad, massimo organismo militare di Hezbollah. Era ricercato anche per aver diretto la presa di ostaggi tedeschi ed americani in Libano negli anni Ottanta. Sulla sua testa pendeva una taglia di 7 milioni di dollari posta dal dipartimento di Stato americano. L'Idf, che ha poi confermato l'avvenuta uccisione del comandante di Hezbollah, descrive Aqil come il capo delle operazioni militari del gruppo sciita, comandante in carica della forza di élite Radwan, a capo di un piano di invasione della Galilea.
 Assieme ad Aqil, secondo l'esercito, sono stati uccisi i vertici dello schieramento operativo di Hezbollah e la leadership della Forza Radwan. "Aqil e i comandanti che sono stati eliminati erano tra gli architetti del 'piano per l'occupazione della Galilea', in cui Hezbollah progettava di fare incursioni in territorio israeliano, occupare le comunità della Galilea, assassinare e uccidere innocenti, in modo simile a quello che l'organizzazione terroristica di Hamas ha compiuto nel massacro del 7 ottobre", afferma l'Idf nella dichiarazione.
 Le Forze di difesa israeliane non vogliono tuttavia allargare l'escalation nella regione, ha assicurato il portavoce Daniel Hagari in un briefing con i giornalisti. "Non puntiamo a un'ampia escalation nella regione. Stiamo operando in linea con gli obiettivi definiti della guerra e continueremo a farlo”, ha dichiarato. Il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha intanto parlato per telefono con il ministro della Difesa israeliano ed ha ribadito "la sua preoccupazione" per l'escalation delle tensioni tra Israele e Hezbollah, ha reso noto il Pentagono. Il ministro ha anche sottolineato come gli Stati Uniti credano nell'"importanza di raggiungere una soluzione diplomatica che consenta ai residenti di tornare in sicurezza nelle loro case dalle due parti del confine".
 Il Pentagono teme intanto per l'avvio di una operazione militare di terra delle forze israeliane nel sud del Libano nel prossimo futuro, scrive il Wall Street Journal. Ne ha parlato nei giorni scorsi il segretario della difesa e l'attacco ai dispositivi di comunicazione di Hezbollah dà sostanza a tali timori. Se Austin e il dipartimento di Stato hanno insistito nel sollecitare Israele a dare più tempo alla diplomazia, gli Stati Uniti temono che la situazione possa andare fuori controllo.

(ANSA, 21 settembre 2024)

........................................................


La piaga contemporanea degli antisemiti riciclatisi esperti di antisemitismo

di Iuri Maria Prado

Fertilizzato dal sangue del 7 ottobre, il campo degli esperti ha prodotto l’ultima categoria: gli esperti di antisemitismo. Sono quelli che ti spiegano che cos’è, come si manifesta, in che cosa risiede. Ma sono quelli che, soprattutto, ti spiegano che cosa non è antisemita. Non è la critica a Israele. Non è la protesta contro il governo israeliano. Non è la denuncia dei crimini sionisti a Gaza. Non è l’antisionismo.
  Tutte cose, queste, in modo notorio intimamente connesse all’incendio delle sinagoghe, alla devastazione dei cimiteri ebraici, alle sassate ai bambini con la kippah, alle stelle disegnate sulle case degli ebrei, ai rabbini bastonati per strada, alla caccia all’ebreo nelle università: vale a dire i fatti che, sottoposti agli esperti di antisemitismo, sono da questi giudicati con l’opportuno richiamo alla legittimità di quegli altri oggetti e modi di contestazione. Cioè, appunto, la critica a Israele, la protesta contro il governo israeliano, la denuncia del genocidio, l’antisionismo (e un po’ anche il ritiro dei ghiacciai: che lo zampino magari non degli ebrei, ma dei sionisti sì, deve esserci anche nel cambio climatico).
  Magari è venuto il tempo di insinuare che gli esperti di antisemitismo non sono quelli. Sono altri. Magari è il tempo di dire che gli esperti di antisemitismo sono coloro che lo subiscono. Gli esperti di antisemitismo sono quelli che ne hanno fatto esperienza. Gli esperti di antisemitismo sono coloro che lo subiscono e ne fanno esperienza da duemila anni. Gli esperti di antisemitismo sono coloro che, dopo averlo subito e averne fatto esperienza per duemila anni, si sentono spiegare, due mila anni dopo, ciò che è davvero antisemitismo e ciò che, palesemente, non lo è, signori miei. 
  Gli esperti di antisemitismo sono coloro ai quali si spiega, da parte degli altri esperti di antisemitismo, che quando una sinagoga è incendiata, quando un cimitero ebraico è devastato, quando un bambino con la kippah è preso a sassate, quando fioriscono le stelle gialle sulle case degli ebrei, quando i rabbini sono bastonati per strada, quando nelle università ci si esercita nella caccia all’ebreo, occorre ricordare che l’antisionismo non è antisemitismo, che criticare Israele non è antisemita e che Israele commette crimini a Gaza. Gli esperti di antisemitismo sono coloro ai quali si spiega, da parte degli altri esperti di antisemitismo, che l’antisemitismo, a guardare bene, di norma non c’è. E a guardare meglio, quando proprio lo si trova, si vede che non viene dal nulla.

(LINKIESTA, 21 settembre 2024)

........................................................


Cresce la tensione tra Israele e Hezbollah: cosa sta succedendo?

di Luca Spizzichino

Negli ultimi giorni, il conflitto tra Israele e Hezbollah si è intensificato drammaticamente, con un’escalation di attacchi su entrambe le parti del confine tra Libano e Israele.
  Ieri l’aviazione israeliana ha lanciato decine di raid contro obiettivi nel sud del Libano, colpendo oltre 100 rampe di lancio di razzi pronte per essere utilizzate. Secondo l’esercito israeliano, le rampe, appartenenti a Hezbollah, contenevano circa 1000 tubi di lancio, posizionati per sferrare attacchi immediati contro il territorio israeliano. Inoltre, sono stati distrutti diversi edifici e depositi di armi di Hezbollah in varie località del sud del Libano. “L’IDF continuerà a danneggiare le capacità terroristiche e l’infrastruttura militare dell’organizzazione terroristica Hezbollah”, ha dichiarato un portavoce dell’IDF.
  I bombardamenti sono arrivati in risposta a un pesante lancio di razzi contro le comunità israeliane del nord e si inserisce in un contesto di preparazione per un potenziale conflitto su vasta scala con Hezbollah. “Non abbiamo mai visto una tale intensità di attacchi dal Libano dall’inizio di questo conflitto”, ha affermato David Azoulay, sindaco di Metula, una delle città più colpite. Il Ministro della Difesa Yoav Gallant ha commentato la situazione durante un incontro con i vertici militari. “Le nostre operazioni militari continueranno. L’obiettivo è garantire la sicurezza dei residenti del nord e riportarli nelle loro case in sicurezza. Col passare del tempo, Hezbollah pagherà un prezzo sempre più alto”.
  Sul fronte libanese, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha promesso vendetta contro Israele. Tra martedì e mercoledì, delle esplosioni coordinate hanno distrutto migliaia di dispositivi di comunicazione utilizzati dai membri del gruppo. Gli attacchi, attribuiti a Israele sebbene non rivendicati ufficialmente, hanno causato decine di vittime e feriti, colpendo duramente le unità d’élite di Hezbollah. “Questa è stata una perdita enorme e senza precedenti nella storia della nostra resistenza”, ha ammesso Nasrallah in un discorso televisivo. “Israele ha superato ogni limite con questi attacchi, che costituiscono crimini di guerra e una vera dichiarazione di guerra. Ma non ci fermeremo. Continueremo i nostri attacchi finché l’occupazione non terminerà e l’aggressione a Gaza non cesserà” ha ribadito.
  Mentre le autorità israeliane continuano a monitorare attentamente la situazione, il rischio di una guerra su più fronti è concreto. Gli alti comandi dell’esercito hanno presentato nuove strategie al governo per affrontare il peggioramento del conflitto.

(Shalom, 20 settembre 2024)

........................................................


“Probabilmente l’intera leadership di Hezbollah è danneggiata”.

Un ex funzionario della difesa afferma che l'attacco ai cercapersone si aggiunge ad altri attacchi volti a “indebolire” il gruppo terroristico in vista di futuri sviluppi.

di Yaakov Lappin 

In un discorso televisivo giovedì, il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah ha riconosciuto che la sua organizzazione ha subito un colpo senza precedenti al suo personale e alla sua sicurezza. Nasrallah e altri leader di Hezbollah hanno giurato di reagire.
Lo storico attacco ha colpito duramente l'infrastruttura operativa di Hezbollah, strappando migliaia di comandanti dal campo di battaglia, centinaia dei quali in modo grave, e distruggendo gran parte della loro capacità di comunicare con le forze sul campo, dato che i cercapersone erano stati pensati come un sostituto più sicuro degli smartphone, che il gruppo considerava troppo vulnerabili allo spionaggio.
Si ritiene che i danni alla struttura di comando, all'infrastruttura di comunicazione e al morale di Hezbollah siano stati significativi e abbiano influito sulla capacità dell'organizzazione di operare con fiducia.

• HEZBOLLAH IN GINOCCHIO
 Secondo Eyal Pinko, ricercatore presso il Centro Begin-Sadat per gli studi strategici dell'Università Bar-Ilan ed ex ufficiale della marina israeliana che ha lavorato anche in un'organizzazione di intelligence, l'attacco ha colpito fino a 3.000 terroristi in “meno di un secondo”.
"Se si considerano le persone che indossavano questi cercapersone, probabilmente si trattava di comandanti di alto rango e oltre. Comandanti di battaglione e oltre. Quello che probabilmente sta accadendo ora con Hezbollah è che l'intera struttura di comando, diciamo dal grado di tenente colonnello nell'esercito regolare fino ai generali, due o tre generali, sono completamente feriti o alcuni di loro sono già morti. Ci vorranno alcuni giorni perché si riprendano e capiscano cosa è successo.
L'attacco a sorpresa ha messo in ginocchio Hezbollah, ha aggiunto, anche se l'opposizione dell'organizzazione in Libano non ha ancora alcuna possibilità di contrastare i militanti armati del gruppo islamista, stimati in quasi 100.000 (comprese le forze di riserva).
“Ci vorrebbe un esercito enorme per affrontarli”, afferma Pinko. Tuttavia, i circa 3.000 militanti feriti significavano che un numero enorme di comandanti di alto livello non era operativo - con ogni probabilità “tutti i comandanti di alto livello sono stati feriti”, ha stimato.
Anche i militanti di Hezbollah in Siria sono stati feriti dalle esplosioni dei cercapersone.
Il 9 settembre, secondo i media internazionali, le forze speciali e gli aerei israeliani hanno attaccato una fabbrica di missili dell'IRGC ad Hama, nella Siria occidentale, dove vengono prodotti missili di precisione per Hezbollah. Questo attacco, ha detto Pinko, ha colpito la capacità del gruppo “di ottenere kit che rendono le loro bombe più precise - il programma di miglioramento della precisione dei missili”. Tutti questi passaggi sembrano indebolire l'obiettivo prima che venga effettivamente attaccato”, ha affermato.
Il 31 luglio, l'aviazione israeliana ha ucciso il secondo in comando di Hezbollah, Fuad Shukr, considerato il capo di stato maggiore “militare” dell'organizzazione, infliggendo un ulteriore colpo.
Pinko ha dichiarato che questo e altri attacchi simili hanno rivelato “un'intelligence molto precisa, molto accurata, molto buona e sorprendente”.
Mentre la copertura mediatica internazionale si è concentrata sull'attacco con il cercapersone, è stata prestata meno attenzione alle modalità di attivazione degli esplosivi in esso contenuti.

• CODICE MALIGNO
 Barak Gonen, docente presso il Jerusalem College of Technology ed ex ufficiale di sicurezza informatica delle Forze di Difesa israeliane, ha dichiarato a JNS che in teoria “per eseguire un codice maligno su un dispositivo remoto è necessario caricare il codice sul dispositivo prima dell'esecuzione, il che è un compito immenso se fatto da remoto”.
E ha aggiunto: “Presumo che tutti i moderni servizi di intelligence impieghino esperti in grado di attaccare i dispositivi da remoto. Ma in questo caso, man mano che vengono rivelati i dettagli, diventa sempre più chiaro che i dispositivi sono stati 'trattati' prima di essere passati a Hezbollah. Per un aggressore è molto più facile attaccare un dispositivo quando lo ha in mano, perché può modificare il codice in esecuzione sul dispositivo. L'aggressore avrebbe solo bisogno di un'immagine del nuovo codice e potrebbe masterizzarlo nel dispositivo nello stesso modo in cui lo fanno la fabbrica o i tecnici dei telefoni cellulari”.

(Israel Heute, 20 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Scienziati israeliani e italiani identificano le debolezze delle cellule tumorali

Una ricerca innovativa identifica i punti deboli delle cellule tumorali aneuploidi, aprendo la strada a nuove terapie mirate.

Con un'importante scoperta, scienziati israeliani e italiani hanno identificato vulnerabilità cruciali nelle cellule tumorali che potrebbero portare a trattamenti innovativi. Ricercatori dell'Università di Tel Aviv e dell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano hanno scoperto, in due recenti studi, specifiche debolezze nelle cellule tumorali aneuploidi, caratterizzate da un numero anomalo di cromosomi.
L'aneuploidia, una condizione in cui le cellule si discostano dalle normali 23 coppie di cromosomi, è una caratteristica comune a molti tumori. Queste anomalie creano fattori di stress unici per le cellule tumorali, che i ricercatori ritengono possano essere presi di mira per ottenere trattamenti più efficaci.
Gli studi, guidati dal professor Uri Ben-David e dalla dottoranda Johanna Zerbib a Tel Aviv, insieme al professor Stefano Santaguida e alla dottoranda Marica Rosaria Ippolito a Milano, hanno rilevato due principali punti deboli nelle cellule aneuploidi: la loro dipendenza dai meccanismi di riparazione del DNA e la loro difficoltà a gestire la produzione di proteine in eccesso. I risultati sono stati pubblicati su Cancer Discovery e Nature Communications.
“Una parte significativa delle cellule tumorali è aneuploide e questa caratteristica le distingue dalle cellule sane”, ha spiegato Ben-David. “Il nostro lavoro si concentra sulle vulnerabilità delle cellule aneuploidi, con l'obiettivo di promuovere nuove strategie per eliminare i tumori cancerosi”.
Sulla base di ricerche precedenti, il team ha indotto l'aneuploidia in colture di cellule umane geneticamente identiche, consentendo di isolare gli effetti specifici di un numero anomalo di cromosomi. Attraverso il sequenziamento del DNA e dell'RNA, la misurazione dei livelli proteici e lo screening CRISPR, hanno identificato che la via MAPK (mitogen-activated protein kinase) svolge un ruolo chiave nella riparazione del DNA nelle cellule aneuploidi.
La ricerca ha dimostrato che l'interruzione della via MAPK rende queste cellule tumorali più sensibili alla chemioterapia, che agisce causando danni al DNA. Questa scoperta potrebbe consentire ai medici di trattare il cancro con dosi inferiori di chemioterapia, riducendo gli effetti collaterali dannosi.
Un'altra vulnerabilità significativa identificata è stata la sovrapproduzione di RNA e proteine nelle cellule aneuploidi, risultato del loro numero anomalo di cromosomi. Le cellule cercano di degradare questo materiale in eccesso, rendendole particolarmente sensibili ai farmaci che inibiscono la degradazione delle proteine. I ricercatori hanno scoperto che le cellule aneuploidi sono più sensibili a questi farmaci, aprendo potenzialmente la strada alla riproposizione dei trattamenti esistenti per colpire i tumori altamente aneuploidi.
Questa ricerca innovativa offre nuove speranze per terapie antitumorali più efficaci e mirate, sfruttando le debolezze specifiche delle cellule tumorali aneuploidi.

(Israfan, 20 settembre 2024)

........................................................


Perché è necessario un attacco in Iran

di David Elber

Dopo quasi un anno dall’eccidio palestinese del 7 ottobre e dalla conseguente guerra che Israele è costretto a combattere su due fronti, Gaza e Libano, è opportuno che l’establishment di Israele cambi strategia. Da una guerra di logoramento su due fronti imposta dall’Iran, Israele deve prendere l’iniziativa e attaccare la fonte del problema: l’Iran.
  Per prima cosa è opportuno chiarire la natura di un possibile attacco militare. Israele è in guerra con l’Iran perché l’Iran ha attaccato Israele tramite le organizzazioni terroristiche che finanzia, addestra e arma: Hamas, Jihad Islamica, Hezbollah e Houti. Inoltre l’Iran ha attaccato militarmente Israele con droni e missili balistici (14 aprile). In pratica l’Iran sta attuando una guerra di logoramento nei confronti di Israele che lo Stato ebraico non può sostenere all’infinito, mentre l’Iran finanzia questa guerra con i proventi del petrolio. Per molti aspetti, all’Iran, questo logoramento non costa nulla in termini di perdite economiche, militari e di infrastrutture. Tutti i terroristi uccisi sono facilmente rimpiazzabili con altri. Ad esempio, è notizia di questi giorni che diverse centinaia di terroristi Houti sono giunti nel sud della Siria per prendere parte ad un eventuale scontro armato in Libano o per attaccare Israele dal Golan o per infiltrarsi in Israele (per attaccare le comunità ebraiche in Samaria o in Giudea) tramite il porosissimo e mal controllato confine sul Giordano. Per tutte queste ragioni un attacco in Iran deve avere due obiettivi precisi: la distruzione del programma nucleare e la distruzione delle infrastrutture petrolifere che finanziano e alimentano la guerra in corso contro lo Stato ebraico. È doveroso mettere subito in luce che tale azione militare è estremamente complessa, rischiosa e dagli esiti incerti. Ma bisogna tentarla per non doverlo fare in futuro, quando sarà ancora più difficile soprattutto quando il regime iraniano sarà dotato di armi nucleari (il vero scopo del suo programma nucleare).
  Israele ha già dimostrato di avere la capacità aerea di colpire a grande distanza (il 20 luglio quando ha attaccato il porto yemenita di Hodeidah che si trova ad una distanza maggiore rispetto l’Iran). Inoltre, Israele dispone di una flotta di sottomarini con enormi capacità offensive, soprattutto, quelli di classe Dolphin, tecnologicamente avanzatissimi, dotati di missili da crociera e balistici. Questi sottomarini sono in grado di avvicinarsi alle coste iraniane (se necessario) per distruggere le infrastrutture petrolifere senza essere individuati dall’Iran.
  Un attacco all’Iran provocherebbe sicuramente una reazione militare iraniana e soprattutto una reazione politico-diplomatica capeggiata dalla Russia e dalla Cina, ma questo non deve essere un deterrente decisivo per fermare l’azione militare di Israele, per vari motivi che illustreremo.
  Per prima cosa, una reazione militare iraniana può essere contenuta da Israele, come già dimostrato il 14 aprile scorso, e questo ha portato alla rinuncia iraniana, ad agosto, di vendicare l’eliminazione di Hanyeh a Teheran.
  In merito ad una reazione di Russia e Cina, esse sono già apertamente e sempre schierate contro Israele in tutti i forum internazionali ad iniziare dall’ONU. Intrattengono già una forte collaborazione militare, nucleare ed economica con gli Ayatollah. Quindi da punto di vista politico e diplomatico la situazione per Israele non può peggiorare rispetto alla sua configurazione attuale. Presumere un coinvolgimento militare di Cina e Russia a fianco dell’Iran è altamente improbabile: la Russia è impantanata in Ucraina e in Siria non ha mai contrastato le centinaia di raid israeliani. La Cina non ha interesse a scatenare una guerra contro Israele, cosa, tra l’altro, estremamente difficile per i cinesi che non hanno truppe in Medio Oriente né basi militari. Sicuramente sono molto più interessati a partecipare a ricostruire le infrastrutture che eventualmente saranno distrutte e mettere così un piede in Medio Oriente come stanno facendo, da anni, in Africa e in America del Sud. L’unica vera incognita è rappresentata dagli Stati Uniti.
  Con gli USA si possono aprire due scenari completamente diversi in base a chi vincerà le prossime elezioni presidenziali il 5 novembre. Nel caso, malaugurato, che vincesse il partito democratico, l’appoggio ad Israele sarebbe limitatissimo. A una fase iniziale di forte opposizione a un'azione militare, seguirebbe molto probabilmente un appoggio diplomatico obtorto collo in sede ONU per evitare le condanne più dure che si scatenerebbero al Consiglio di Sicurezza. Militarmente non fornirebbero nessun tipo di aiuto rendendo il blitz di Israele molto più difficoltoso. Ben diverso sarebbe lo scenario se vincessero i repubblicani. Con Trump al timone, è auspicabile e più probabile un grande appoggio militare oltre che diplomatico e politico. Con Trump alla presidenza può divenire plausibile un coinvolgimento indiretto anche dell’Arabia Saudita (il vero antagonista dell’Iran) sotto forma di concessione dello spazio aereo per compiere il blitz, ma soprattutto un coinvolgimento saudita per il dopo attacco.
  Se l’Iran non fosse in grado di produrre petrolio per un lungo periodo, questo porterebbe ad un aumento vertiginoso delle sue quotazioni che potrebbe causare una crisi economica mondiale. Ma se l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti aumentassero la loro produzione per compensare quella mancante dell’Iran i mercati si stabilizzerebbero in poco tempo. Dopo una fiammata iniziale sopra i 100$ al barile le quotazioni scenderebbero con i mercati rassicurati dalla maggiore produzione di petrolio di Arabia Saudita, USA e altri paesi del Golfo. Oggi l’Iran produce circa 3.5 milioni di barili al giorno che equivalgono a circa il 4% della produzione mondiale. Quota ampiamente recuperabile con una maggiore produzione saudita e americana. Perché questo accada è necessaria una intesa politica non semplice ma possibile con Trump già artefice degli Accordi di Abramo.
  Un simile scenario è sicuramente un grande azzardo ma è l’unico che possa garantire una certa sicurezza a Israele nei prossimi anni, altrimenti assisteremo a una interminabile serie di piccole guerre che porteranno lo Stato ebraico al collasso. In fin dei conti cosa ha Israele che possa interessare all’Arabia Saudita? La forza militare e la determinazione di sconfiggere l’unico avversario pericoloso per i sauditi: l’Iran.
  Se invece che attaccare l’Iran, Israele decidesse di attaccare Hezbollah, si troverebbe a combattere una sanguinosissima guerra campale che produrrebbe un uguale sdegno mondiale con le immancabili condanne di ONU, UE, “amici” e nemici vari. Dal punto di vista politico e diplomatico con cambierebbe nulla. Ma questa guerra non sarebbe risolutiva: per l’Iran anche Hezbollah – e tutto il Libano – sarebbero sacrificabili. Questo perché molti terroristi libanesi riparerebbero in Siria e da lì tutto ricomincerebbe da capo: attacchi dal suolo siriano da parte di Hezbollah, milizie sciite siriane e irachene oltre agli Houti (già arrivati in Siria) e altri ancora. Cosa dovrebbe fare Israele nel momento in cui dalla Siria si ripetesse lo stillicidio di missili e razzi quotidiani che ora proviene dal Libano? È pensabile che Israele invada anche la Siria? No, non è ipotizzabile, ma anche se di dovesse verificare questo caso, inizierebbe un lancio di razzi dall’Iraq, altro Sato controllato dall’Iran, a questo punto cosa potrebbe fare Israele? L’unica cosa da fare è non cadere nella trappola iraniana di una infinita guerra di logoramento e colpire direttamente la fonte del terrorismo di tutta l’area, fonte ben nutrita e fatta crescere dalle amministrazioni Obama e Biden. Gli errori incalcolabili di Obama/Biden sono ormai un fatto compiuto, ora è necessario eliminare il pericolo iraniano prima che si doti di armi nucleari perché a quel punto non ci saranno rimedi.
  In conclusione, o la comunità internazionale decide di fare cessare l’aggressione iraniana con mezzi sanzionatori/militari (assai probabile) oppure Israele dovrà prendere l’iniziativa militare per la sua stessa sopravvivenza.

(L'informale, 20 settembre 2024)

........................................................


Nasrallah denuncia “l’atto di guerra” di Israele, ma è vulnerabile

Le minacce del leader di Hezbollah che si ritrova con la rete dei miliziani e delle comunicazioni molto danneggiata Il percorso dei cercapersone.

di Priscilla Ruggiero

ROMA - Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha parlato ieri, il primo discorso dopo che, per due giorni di fila, migliaia di suoi miliziani sono stati feriti – molti gravemente – e uccisi – una quarantina – in seguito all’esplosione di cercapersone e walkie-talkie in dotazione per le comunicazioni interne al gruppo. Questo attacco senza precedenti attribuito a Israele vìola “tutte le norme e le regole” esistenti, ha detto Nasrallah, “è un atto di guerra” che supera “limiti e linee rosse”: “il nemico” riceverà “una giusta punizione, che se l’aspetti o no”. Mentre il leader del Partito di Dio compariva sugli schermi e pronunciava questo suo discorso minaccioso, forse il più duro dal 7 ottobre, i jet israeliani volavano a bassa quota sopra Beirut.
  Nasrallah si è riferito alle esplosioni simultanee dei device in tutto il Libano e in Siria definendolo “il massacro di martedì e mercoledì”, un’azione “disumana e senza morale” oltre che senza precedenti, con l’obiettivo di “uccidere quattromila persone in un minuto”: un colpo ben assestato, “in termini di sicurezza e in termini umani”, che però non fermerà il sostegno dato a Gaza, il fronte libanese continuerà a essere operativo e la punizione arriverà al momento giusto.
  Molti commentatori hanno sottolineato il tono duro e severo del leader di Hezbollah, simile a quello che aveva avuto all’inizio di agosto dopo che il suo numero due era stato ucciso a Beirut e il leader di Hamas, Ismail Haniyeh era stato ucciso a Teheran: allora aveva detto che la guerra sarebbe cambiata, “entra in una nuova fase”, “questa non è più una guerra di sostegno” a Hamas e a Gaza “ma una guerra aperta in Libano e in Iran”. Le linee rosse sono state nuovamente superate, ma se il tono minaccioso di Nasrallah è certamente più concreto di quanto fosse in passato – prima dell’estate e degli omicidi mirati si era rivelato ben più cauto rispetto alle attese – questo è anche un momento di grande vulnerabilità per Hezbollah: il controspionaggio del gruppo non è riuscito a intercettare l’operazione degli scorsi giorni (stava per farlo, secondo le ricostruzioni, ed è anche per questo che Israele ha deciso di accelerare il suo piano), centinaia di suoi miliziani sono in ospedale, molti sono morti e la sua rete di comunicazione è stata devastata. Per quanto Nasrallah si sia premurato di specificare che, grazie alla bontà divina, molti device erano spenti e quindi non sono esplosi, il danno è enorme, in termini umani e di operatività, ma anche di immagine: la più importante e potente milizia armata della Repubblica islamica dell’Iran è stata dilaniata da migliaia di aggeggi minuscoli manomessi senza che nessuno se ne accorgesse. Lo sconvolgimento attraversa tutta la rete del cosiddetto “Asse della resistenza” genera insicurezza e condiziona le decisioni future sulla reazione (foss’anche solo la catena delle comunicazioni).
  Nasrallah ha detto che è in corso un’indagine interna per capire come sia stato possibile il “massacro”: in realtà se lo sta chiedendo tutto il mondo. Se sulla manomissione dei dispositivi si è stabilito che è stata inserita una piccola quantità di un esplosivo molto potente, ancora resta da capire il dove, il chi e il quando. Il New York Times ha fornito qualche dettaglio significativo: i funzionari dell’intelligence israeliana avrebbero visto nella richiesta di Nasrallah di non utilizzare più i telefoni cellulari e investire nei cercapersone un’opportunità, e ancora prima che decidesse di ampliarne l’utilizzo, “Israele aveva messo in atto un piano per fondare una società fittizia che si sarebbe spacciata per produttrice internazionale di cercapersone”. Sin dalle prime ore dell’esplosione dei cercapersone le indagini si sono così concentrate sul percorso della manomissione dei device, e si è presto raggiunta una conclusione: poiché i dispositivi elettronici sono diventati più complessi e le catene di fornitura globali più contorte, è ormai impossibile proteggere la moderna catena di fornitura di prodotti elettronici da un avversario determinato e sofisticato. E non è così difficile pensare a delle infiltrazioni nella catena con la cooperazione di un produttore.
  Il marchio sui pager era dell’azienda taiwanese Gold Apollo, uno dei principali produttori di cercapersone al mondo, ma il presidente Hsu Ching-Kuang ha subito precisato di essere completamente estraneo alla vicenda e di aver soltanto concesso i diritti di produzione con il proprio marchio a un’azienda europea, l’ungherese Bac Consulting. Ai media, Hsu ha raccontato come ci fossero anche stati dei pagamenti “strani” da parte di Bac da un conto mediorientale. L’attenzione si è così spostata su Budapest, su un ufficio deserto, un sito web chiuso e una misteriosa unica proprietaria e responsabile, Cristiana Barsony- Arcidiacono. La ceo ha però affermato di essere soltanto un’intermediaria, e anche il governo ungherese ha precisato che l’azienda non ha alcun sito produttivo in Ungheria. Secondo il New York Times, la Bac sarebbe soltanto una delle società fittizie aperte dall’intelligence israeliana per vendere i cercapersone manomessi – sarebbero almeno altre due le società fantasma – che accettavano sì clienti “ordinari”, ma l’unico che contava davvero era solo Hezbollah. E’ infine emersa una pista bulgara, con i media ungheresi che hanno individuato un’altra azienda con sede a Sofia, Norta Global Ltd., con un proprietario norvegese e un altro sito web bloccato. I walkie-talkie esplosi mercoledì avevano invece un marchio giapponese, della società Icom, con sede a Osaka, che ha affermato come gli apparecchi esplosi siano stati esportati in medio oriente dal 2004 al 2014, quindi ormai fuori produzione con quelli in circolazione quasi tutti contraffatti. Eppure secondo fonti della sicurezza libanese, i walkie-talkie sarebbero stati acquistati da Hezbollah circa cinque mesi fa, nello stesso periodo in cui sono stati acquistati anche i cercapersone.

Il Foglio, 20 settembre 2024)

........................................................


Come hanno fatto i cercapersone di Hezbollah a diventare bombe?

di Christiaan Hetzner

Due giorni consecutivi di esplosioni che hanno colpito chirurgicamente i militanti di Hezbollah in tutto il Libano hanno mostrato quella che sembra essere un’elaborata e sofisticata infiltrazione, da parte di Israele, nella catena di rifornimento che equipaggia il suo nemico.
  Martedì scorso, migliaia di cercapersone imbottiti di esplosivo sono scoppiati contemporaneamente, prima che un numero imprecisato di radio ricetrasmittenti venisse fatto esplodere appena 24 ore dopo.
  Si stima che gli attacchi coordinati contro Hezbollah, organizzazione paramilitare sciita sostenuto dall’Iran, abbiano ucciso più di due dozzine di persone e ne abbiano ferite gravemente altre decine. Gli esperti stanno ancora cercando di mettere insieme le prove nella speranza di spiegare come sia stata compiuta questa ‘straordinaria’ impresa. Ma una cosa è chiara: Israele in questo modo ha ridotto drasticamente la capacità di Hezbollah di colpire le posizioni dell’IDF nel nord del Paese.
  “In due ondate di attacchi, ciascuna di pochi minuti, Hezbollah ha perso migliaia di militanti pronti a combattere e le sue capacità di comando e controllo”, ha scritto Avi Melamed, ex funzionario dell’intelligence israeliana, in un commento a Fortune. Tra i morti ci sono anche due bambini e più di 2.800 persone sono rimaste ferite, molte delle quali potrebbero essere innocenti. “Questa è stata un’operazione brillante in termini di intelligence ed esecuzione, davvero su scala globale”, ha dichiarato il generale di brigata israeliano Amir Avivi, citato da Bloomberg. “Da molti anni dico che siamo bravi nelle missioni e pessimi nelle guerre”.

• Chi ha prodotto i cercapersone esplosivi?
  I cercapersone esplosi martedì erano un modello venduto con il marchio Gold Apollo. Hsu Ching-kuang, fondatore e presidente dell’azienda taiwanese, ha tuttavia dichiarato di aver autorizzato una società ungherese chiamata BAC Consulting a progettare e produrre il cercapersone in questione utilizzando il suo marchio.
  “Lo hanno progettato loro stessi”, ha dichiarato nei commenti citati dall’Associated Press. Gold Apollo ha semplicemente riscosso un compenso per aver concesso loro l’uso del marchio della sua azienda, secondo quanto dichiarato. Quando l’emittente pubblica tedesca DW ha cercato l’azienda al suo indirizzo di Budapest, le tracce si sono raffreddate. Tutto ciò che ha trovato per confermare la sua esistenza è stata una pagina di carta con il suo nome stampato. Ciò suggerisce che si tratta di una società di comodo per fornire copertura.

• Gli alleati di Israele potrebbero aver intercettato dispositivi in viaggio
  L’amministratore delegato dell’azienda, Cristiana Bársony-Arcidiacono, ha inoltre smentito qualsiasi coinvolgimento diretto nella loro produzione. “Non produco i cercapersone. Sono solo l’intermediario”, ha dichiarato a NBC News. Non ha detto però chi fosse responsabile della loro produzione né ha risposto a una richiesta di commento di Fortune. È possibile che sia stata un’azienda israeliana a produrre i cercapersone, ma potrebbe anche trattarsi di un’azienda legata a Hezbollah che desidera semplicemente rimanere nell’ombra. L’analista militare Elijah Magnier, da Bruxelles, ha suggerito un’altra possibilità: Israele è stato probabilmente avvisato da servizi segreti amici in Medio Oriente che hanno assicurato che i cercapersone sarebbero stati bloccati durante il viaggio prima di raggiungere Hezbollah.  In questo modo, gli agenti israeliani avrebbero avuto il tempo e l’accesso ai dispositivi per impiantare manualmente l’esplosivo in migliaia di cercapersone, probabilmente nascosto direttamente nelle loro batterie agli ioni di litio.
  “Avevano tutto il tempo del mondo”, ha dichiarato l’analista ad Al Jazeera.

• Le radio potrebbero essere state acquistate sul mercato nero
  Come siano stati compromessi esattamente i walkie-talkie al momento rimane un mistero. Le prove visive suggeriscono che i dispositivi erano radio ricetrasmittenti vendute dall’azienda giapponese Icom, uno dei principali produttori. Tuttavia, l’azienda ha dichiarato di aver interrotto la produzione del modello in questione, l’IC-V82, circa dieci anni fa. Inoltre, Icom non fornisce più batterie di ricambio.
  Gli agenti di Hezbollah avrebbero potuto procurarsi le radio portatili da qualsiasi fonte, senza affidarsi a documenti scritti che potessero essere rintracciati: per un’organizzazione indicata come terrorista dalla maggior parte dei governi occidentali, sarebbe sensato coprire le proprie tracce.Gli IC-V82 potrebbero anche non essere originali, ma copie a basso costo provenienti dal mercato nero, impossibili da rintracciare.
  “Non è stato applicato un sigillo con ologramma per distinguere i prodotti contraffatti, quindi non è possibile confermare se il prodotto sia stato spedito dalla nostra azienda”, ha dichiarato Icom alla BBC. Con così tanti dettagli non chiari, potrebbero passare settimane, mesi, o addirittura anni, prima che si possa fare luce sugli eventi di questa settimana.

• Storia dei dispositivi di comunicazione con trappola esplosiva
  Il governo israeliano non ha confermato né smentito la propria responsabilità e l’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu non ha risposto a una richiesta di commento di Fortune.
  Ma i servizi segreti del Paese hanno dimostrato più volte in passato la capacità di colpire chirurgicamente gli agenti nemici. Yahya Ayyash, una figura di spicco dell’ala militare di Hamas, è stato assassinato nel 1996 dopo l’esplosione del suo telefono cellulare proprio con una trappola esplosiva. L’impiego di questa tecnica su così larga scala, tuttavia, sembra senza precedenti. “Si può intervenire su un singolo dispositivo a distanza, e anche in questo caso non si può essere sicuri che prenda fuoco o che esploda davvero”, ha dichiarato al Financial Times un anonimo ex funzionario dell’antiterrorismo israeliano. “Farlo a centinaia di dispositivi contemporaneamente? Sarebbe una sofisticazione incredibile”.
  L’operazione arriva poco dopo l’assassinio mirato di Ismail Haniyeh a Teheran, dove la figura di spicco di Hamas era stata ospite personale del leader iraniano Ayatollah Ali Khamenei, e pochi giorni prima dell’anniversario dell’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas che ha ucciso circa 1.200 israeliani.
  Il prezzo del “Brent” europeo del Mare del Nord, il parametro di riferimento del greggio globale, è balzato dell’1,3% a 73,70 dollari al barile, in seguito al ritorno dei timori di un’escalation in Medio Oriente.

• Probabile paralisi dell’efficacia militare di Hezbollah
  Se dietro l’attacco ci fosse il governo israeliano, come si ritiene da più parti, si può dire che sarebbe riuscito a compromettere le infrastrutture critiche di Hezbollah.  Eliminando in un colpo solo gran parte delle loro possibilità di comunicazione, si paralizza la loro capacità di rispondere efficacemente a un attacco israeliano, mentre l’attenzione si sposta dalla lotta contro Hamas a Gaza al nord del Paese e a Hezbollah. “La perdita delle capacità di comunicazione wireless di Hezbollah compromette gravemente la sua flessibilità, connettività e manovrabilità”, ha dichiarato Melamed a Fortune. Inoltre, qualsiasi macchina alimentata da una batteria agli ioni di litio potrebbe potenzialmente essere una bomba a orologeria in miniatura e, pertanto, è ora sospetta. Setacciare le loro forniture per individuare i punti deboli distoglie l’attenzione dal campo di battaglia. “I componenti di Hezbollah ora esamineranno a fondo tutto ciò che può fungere da dispositivo di comunicazione”, ha dichiarato Fabian Hinz, analista militare dell’Istituto Internazionale per gli Studi Strategici, in un’intervista rilasciata giovedì all’emittente televisiva tedesca ZDF. “E sarà un compito immane”.

(Fortune Italia, 20 settembre 2024)

........................................................


“Il 7 ottobre ha cambiato il mondo. Non solo per gli ebrei, ma per l’umanità”

 Il soldato Maayan Mulla ospite della Comunità ebraica di Milano

di Pietro Baragiola e Ludovica Iacovacci

Martedì 17 settembre la Scuola Comunità Ebraica di Milano ha ospitato Ritorno alla vita di un eroe da oltre il mare, la conferenza del riservista Maayan Mulla, rimasto ferito a Gaza durante un’imboscata dei terroristi di Hamas.
  Comandante del battaglione di ingegneria dell’esercito israeliano con 14 anni di esperienza nell’IDF, il 39enne Mulla è stato tra i primi soldati israeliani a varcare la Striscia di Gaza il 27 ottobre.
  “Sono rimasto scioccato nel vedere che ogni casa ha al suo interno decine di armi e bombe” ha affermato Maayan, raccontando la sua esperienza diretta al pubblico riunito nella Sala Segre.
  Lo scorso dicembre, durante l’assalto all’ ospedale Kamal Adwan, il comandante e il suo team sono caduti in una trappola tesa dai terroristi di Hamas. Due soldati sono morti sul colpo e cinque sono rimasti gravemente feriti.
  “Io sono stato portato d’urgenza in ospedale con l’elicottero. Il mio corpo era pieno di schegge e sono rimasto sotto osservazione per diversi mesi” ha spiegato Maayan che, una volta dimesso, ha deciso di raccontare la sua vicenda in tutto il mondo. “La mia vita quel giorno è cambiata per sempre ma non mi guardo indietro per autocommiserarmi, bensì per ricordarmi che sono vivo e che posso ancora dare il mio contributo”

• LA CARRIERA DI MAAYAN MULLA
  Dopo il liceo, tutti i ragazzi israeliani sono tenuti alla leva obbligatoria ma il giovane Maayan, nonostante fosse felice di prendere servizio nell’esercito, è stato subito respinto perché era considerato ‘un cattivo ragazzo e un pessimo studente’.
  “Ciononostante ho continuato a lottare per questa opportunità e, dopo diversi tentativi, hanno lasciato che mi arruolassi” ha spiegato Mulla, orgoglioso della sua tenacia.
  Le parole di sua madre sul ‘ non abbandonare mai un obiettivo’ hanno guidato il soldato per tutta la sua carriera, spingendolo sempre verso nuovi e straordinari traguardi: Maayan è diventato presto ufficiale dell’IDF, poi comandante di battaglione, poi è tornato all’università conseguendo a pieni voti la laurea in legge e ha persino completato per ben 5 volte la nota competizione agonistica Iron Man.
  Nel 2017 Mulla si è trasferito a Nuova Delhi, in India, dove è diventato CEO della Watergen, l’azienda che si impegna nel combattere la carenza di acqua pulita nel mondo attraverso un processo che la ricava dall’atmosfera.
  “Per molti il 6 ottobre è stato un venerdì come un altro, ma per me è stata una delle giornate migliori della mia carriera: avevo appena finito di programmare i miei futuri viaggi di lavoro a Dubai, Londra e in Grecia e avevamo raddoppiato il nostro KPI rispetto alle previsioni di quell’anno fiscale” ha raccontato Maayan.
  La mattina del 7 ottobre però, dopo aver appreso al telegiornale la notizia del brutale attacco di Hamas, la vita di Mulla è cambiata per sempre.
  “Ho chiamato mia moglie, Rachel, e l’ho informata che sarei subito partito” ha proseguito Maayan. “Israele era la nostra casa e sapevamo entrambi che mi ero impegnato a difenderla anche per garantire la sicurezza dei nostri figli Barry, Noah e Nativ.”
  Appena arrivato in Israele, Mulla ha fatto visita a suo fratello, rimasto ferito durante gli scontri con i miliziani di Hamas. Qui ha incontrato anche i suoi genitori che, sorpresi nel vederlo di nuovo a casa, hanno cercato in tutti i modi di fermarlo dal tornare nell’esercito, ma senza successo.
  Dieci giorni dopo, quando Israele ha lanciato ufficialmente la sua operazione di terra, Maayan è stato tra i primi soldati ad entrare nella Striscia di Gaza: “avevo un team di quasi 700 persone quando sono entrato a Gaza il 27 ottobre, e lì sono rimasto fino al fatidico 12 dicembre”.

• L’IMBOSCATA
  Il 12 dicembre 2023, il sesto giorno di Hanukkah, Maayan e i suoi soldati sono stati mandati ad eseguire un’operazione nel campo profughi di Jabalia, nel nord di Gaza.
  Il loro compito era far saltare gli edifici dei terroristi di Hamas nascosti nell’area ma, all’insaputa dell’IDF, il territorio in cui sono entrati era un’imboscata.
  Alle 2.30 del pomeriggio un RPG ha colpito la squadra di Maayan, uccidendo due soldati e ferendone altri 5.
  “Mi ricordo ancora che, quando l’esplosione mi ha sbalzato indietro, mi sembrava come se un camion mi avesse schiacciato contro un muro” ha spiegato Maayan. “Ho controllato subito se tutti gli arti c’erano ancora e, non vedendo parti mancanti, ho pensato di stare bene. Non sospettavo minimamente di essere gravemente ferito.”
  Durante la presentazione di martedì, l’ex comandante ha mostrato un video di 3 minuti e mezzo registrato dall’elmetto del suo commilitone David, in cui si vede il momento dell’esplosione e come Maayan abbia prestato assistenza al suo compagno tra il caos e il fuoco nemico.
  “Sono solo 3 minuti e mezzo ma il combattimento è durato 24 minuti. Le altre tre persone rimaste ferite nell’esplosione costituivano il nostro intero team medico perciò non c’era nessuno ad aiutarci ed io ho cercato di tenere unita la mia squadra, gestendo la situazione al meglio delle mie capacità” ha affermato Mulla. “L’unica cosa importante in quel momento era la missione: non avrei permesso che nessuno dei miei soldati venisse rapito.”
  Ci sono voluti 14 minuti prima che i membri del suo team riuscissero a ricevere i primi soccorsi.

• LE FERITE DEL COMANDANTE
  Quando la squadra di soccorso ha raggiunto Mulla, si è accorta subito che il comandante aveva più di 140 schegge conficcate nel corpo, dal piede destro fino al collo.
  “Avevo perso 3 litri di sangue. Riportavo danni ai nervi delle gambe e un buco nello stomaco causato dalle schegge” ha spiegato Maayan che è stato caricato subito sull’elicottero dell’equipe medica.
  Qui ha incontrato la dottoressa Roni Sharon, sua amica di lunga data, che non aveva idea che lui fosse a Gaza.
  “Maayan, cosa ci fai qui?” ha gridato la dottoressa e, capendo subito la gravità della situazione, nei 14 minuti di volo verso l’ospedale ha effettuato un intervento d’urgenza per rimuovere le schegge dalle costole di Mulla, salvandogli la vita.
  “L’arrivo all’ Ospedale di Sheba è stato come un film. Il mio corpo era lì ma la mia mente era a Gaza e continuavo a pensare che sarei tornato presto” ha raccontato l’ex comandante. “Cercavo di convincere tutti che stavo bene, ma negli occhi dei dottori capivo che non sarebbe stato così.”
  Maayan si è sottoposto a più di 7 interventi chirurgici, 5 dei quali alle gambe, ed ha dovuto affrontare un lungo e faticoso processo di riabilitazione in Israele, lontano dalla sua famiglia in India.
  È stato su una sedia a rotelle per 5 mesi e mezzo e le ferite gli hanno fatto perdere l’80% dell’udito dall’orecchio destro.
  Un recupero “completo” potrebbe richiedere almeno 5 anni, ma Maayan sa che non tornerà più come prima.
  “Cosa avrei potuto fare? Portare la mia famiglia in Israele? I miei figli non sapevano studiare in ebraico nonostante fosse la loro lingua madre. E cosa avrei fatto con la mia azienda?” sono queste le domande che Maayan si è posto in ospedale. “Era una situazione difficile ma sapevo che non dovevo caderne vittima. Anzi dovevo lottare per renderla migliore!”
  Mulla ha concluso l’incontro spiegando come il vedere volontari che arrivavano da ogni parte del mondo per aiutare i feriti israeliani in ospedale gli ha aperto gli occhi sulla vera forza della comunità ebraica: “non dobbiamo mai smettere di aiutarci e darci speranza l’un l’altro. Questa non è solo la guerra d’Israele bensì la guerra dell’intera comunità ebraica mondiale. È la guerra per far sì che ciò che è successo il 7 ottobre non riaccada mai più.”

• L’INTERVISTA A MOSAICO
  - Maayan, lei era in India il 7 ottobre, quando ha deciso di tornare in Israele per arruolarsi in Tzahal. Quali sono le ragioni che l’hanno mossa a compiere questo gesto?
  “Quello che so è che abbiamo solo un Paese ed è Israele, lo Stato delle Comunità ebraiche del mondo. Noi abbiamo un impegno verso questo Paese e nei confronti della Comunità. A seguito del 7 ottobre ho pensato che ognuno dovesse fare quanto poteva. Un’ora dopo che ho capito cosa stesse accadendo, ovvero verso le 8 e mezza israeliane, ho realizzato che se non fossi andato in Israele non me lo sarei mai perdonato”.

- Poi le è successo qualcosa tra le strade imprevedibili di Gaza. Potrebbe riassumerlo?
  “Sono andato in Israele volontariamente, nessuno mi ha chiamato. Io ho servito l’esercito per 14 anni dopodiché ho deciso di lasciare il militare per iniziare una nuova vita. A seguito del 7 ottobre ho scelto di tornare. Non mi importava cosa mi assegnassero da fare, perché avrei fatto di tutto per aiutare: soldato regolare, autista, qualunque posizione. Ho ricevuto tre missioni differenti. Inizialmente sono stato incaricato di pulire e seppellire i corpi, dopo 10 giorni mi hanno nominato leader di un’operazione speciale da condurre a Gaza, successivamente mi hanno dato una nuova posizione come Comandante del Battaglione degli Ingegneri perché ero cresciuto in quell’unità. Il 27 ottobre siamo entrati a Gaza, di venerdì notte. A Jabalia, il 12 dicembre, alle 14:30 del pomeriggio, abbiamo condotto un’operazione speciale, critica, nel campo di rifugiati: dovevamo far saltare in aria alcuni edifici relativi ai terroristi responsabili del 7 ottobre. Sapevamo al cento per cento che loro erano dentro l’edificio e che erano gli artefici dei disastri nei kibbutzim, avevamo le evidenze, ma le posizioni degli edifici rendevano molto difficile l’entrata. Sulla strada, appena alcuni metri prima di entrare negli edifici, Hamas ci ha teso un’imboscata. Uno dei miei è morto sul campo. Quella domenica aveva festeggiato il suo compleanno ebraico, aveva 20 anni.
  A causa dei combattimenti sono rimaste ferite sei persone, tre in maniera molto grave, altre tre in maniera meno grave. Io ero uno di quelli più gravemente feriti, ma inizialmente non l’avevo capito. Quando sei il comandante di un’unità pensi agli obiettivi della missione, non ti interessa del tuo corpo, non senti il dolore, sei unicamente concentrato nel finire quello che devi fare. Mi sono ritrovato a gestire tutto il combattimento ed ero l’unico comandante lì, provvedendo per il supporto medico perché le tre persone ferite mediamente erano la nostra squadra di medici. È stato un grande scontro, per 70 minuti nessuno si è potuto avvicinare perché volavano proiettili dappertutto. Ho cercato di dare il primo soccorso medico assolutamente necessario per la sopravvivenza dei feriti più gravi. Quando una squadra di soccorso è riuscita a raggiungerci, un dottore mi si è avvicinato e mi ha detto che ero pieno di sangue. In quel momento mi sono guardato e avevo una scheggia molto grande tra le costole che è entrata nella prima linea di protezione del fianco. Ho perso più di due litri e mezzo di sangue e quando mi hanno salvato mi hanno portato all’ospedale: avevo più di 100 schegge, gravi danni ai nervi, all’elevatore, il mio balbettio è esploso, il braccio destro si è danneggiato, ho perso l’udito all’orecchio destro, ho avuto un danno celebrale al cervello e ho ancora un centinaio di schegge nel corpo. È qualcosa che resterà con me per sempre. Sono già stato operato undici volte e ricoverato per circa 247 giorni e ne ho ancora da fare”

- Secondo lei, prima di entrare in Gaza e tutt’ora, è cambiata l’opinione della società israeliana nei confronti dell’esercito rispetto a quanto successo?
  “Io non credo che ci sia stato un cambiamento nel capire cosa succeda, posso dire che questa è la mia quarta guerra, sono stato già in Libano nel 2006 e già a Gaza. L’apprezzamento e l’aspettativa dei soldati dopo il 7 ottobre è sempre stata in crescendo. Controllare la mentalità dei soldati affinché agissero come tali è stata una delle sfide più impegnative. Quello che abbiamo visto il 7 ottobre è qualcosa che un essere umano non dovrebbe vedere mai. Quando si pensa a tutta la barbarie con cui hanno agito, quello che verrebbe istintivamente da fare è ripagarli. Il fatto che non abbiamo perso il controllo è qualcosa che mi rende molto fiero sia nei confronti dei nostri soldati sia delle Comunità ebraiche. Abbiamo fatto tutto ciò che ci si aspetta da un soldato, non da terroristi. Questo è il modo in cui abbiamo agito in Gaza ed è così che le persone parlano dei nostri soldati fuori.
  Non è tutto un arcobaleno, c’è una guerra con delle sfide da affrontare ma alla fine ci chiederemo cosa abbiamo fatto e dovremmo rimanere focalizzati sulle missioni, senza distrazioni e lasciando fuori le emozioni. Nella mia unità c’erano 700 soldati sotto di me, tra loro c’era chi aveva perso la famiglia, i fratelli, gli amici; loro hanno fatto ciò che c’era bisogno da fare e questo è qualcosa di incredibile. La stragrande maggioranza delle persone, quando c’è un pericolo, scappa. Noi abbiamo visto il pericolo e ci siamo andati dentro. Questo è un approccio totalmente diverso ed è qualcosa legato alla nostra Comunità ebraica mondiale, di cui, dopo tanti anni vissuti all’estero, ho capito l’importanza e la sua connessione con Israele. Siamo tutti uniti, come un grande puzzle; se manca un piccolo pezzo, il puzzle non è completo. Oggi la nostra sfida più grande è connettere Israele con gli altri Paesi. È difficile da gestire, perché il mondo è stanco della guerra e la sua continuazione è qualcosa che gli altri fanno difficoltà ad accettare, ma bisogna trovare una soluzione affinché i politici degli altri Stati supportino Israele: questa è la missione principale delle comunità ebraiche nel mondo. Se presentiamo le nostre comunità in un buon modo, andrà bene”.

- Collegandomi a questo, come pensa che nel resto del mondo, per esempio nel Paese nel quale viveva, vedano Israele e le Comunità ebraiche?
  “Non sono un politico e non voglio entrare in questioni politiche ma posso dire di aver capito che il governo di Israele ha un gran lavoro da fare nel connettersi alle opinioni pubbliche degli altri Stati. Per esempio, in India noi abbiamo supporto: loro capiscono perfettamente la situazione. Nei Paesi occidentali, come in Europa o negli Stati Uniti, la guerra stanca, quindi Israele ha una finestra di due, tre, quattro mesi per concluderla, ma sfortunatamente è impossibile risolvere la questione in termini così rapidi. Se si vuole ripulire il territorio, questa operazione richiede molto tempo. A Gaza ci sono ancora degli ostaggi e non si ha qualcuno con cui contrattare, perché dall’altra parte c’è un’organizzazione terroristica che non ha standard, loro fanno quello che vogliono. Questa è la sfida più grande.
  Se vogliamo finire la guerra – come infatti vogliamo – abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile degli altri Paesi, affinché facciano pressione su questa organizzazione terroristica. La maggioranza delle persone crede che questa guerra sia dello Stato d’Israele: non è la realtà. Il 7 ottobre ha cambiato il mondo. Non solo per gli ebrei, per l’umanità. Se un’organizzazione terroristica supera l’ISIS, questa è la chiave di ogni cellula terroristica per agire contro cristiani, indù, o qualsiasi altra persona. Noi, persone che viviamo sulla Terra, non possiamo aiutare e supportare tali organizzazioni. Questo conflitto è iniziato in Israele ma è la guerra di tutte le comunità ebraiche del globo e di tutto il mondo contro persone che compiono azioni di questo genere. Uccidere bambini, una donna incinta, è inaccettabile come essere umani. Secondo me l’unico modo per finire la guerra in una buona maniera è mettere da parte le agende politiche e restare insieme. Quando siamo insieme, nessuno può entrare dentro; quando siamo divisi, c’è una fessura nella quale insidiarsi. “Basta terrore” dovrebbe essere il messaggio che unisce l’Europa. Guardiamo cosa succede in Francia, nel Regno Unito… i governi non sanno cosa fare. Non importa se si è a destra, sinistra, o al centro, la questione è facile: si tollerano azioni di questo tipo? Sì o no? Se si risponde affermativamente, allora non si merita di essere qui. È molto semplice”.

(Bet Magazine Mosaico, 20 settembre 2024)

........................................................


Onustan e Nasrallah

Le Nazioni Unite sembrano diventate la Farnesina di Hamas e Hezbollah

di Giulio Meotti

ROMA - A volte sembra che il segretario generale dell’Onu per i suoi comunicati tragga spunto da “1984” di George Orwell. Come quando disse che il 7 ottobre non era avvenuto “dal nulla”. Insomma, Israele se l’è un po’ cercata. A proposito delle esplosioni ai danni di Hezbollah a Beirut, Antonio Guterres ieri ha chiesto di “non trasformare gli oggetti civili in armi”. Non sta bene far detonare cercapersone e walkie talkie in tasca ai terroristi sciiti libanesi. Va da sé che il segretario generale non si è chiesto perché anche l’ambasciatore iraniano a Beirut, Mojtaba Amani, aveva un cercapersone di Hezbollah. All’Onu non sta bene porsi certe domande.
 E così molti occidentali sono troppo impegnati a criticare il malvagio Israele per chiedersi perché un alto funzionario iraniano si trovasse così vicino a un cercapersone di Hezbollah. Sappiamo tutti perché. Né Guterres ha mai chiesto a Hamas di non “trasformare gli oggetti civili in armi”, come invece ha fatto ogni giorno dal 7 ottobre e con ogni risorsa civile di Gaza: scuole, case, uffici dell’Onu, moschee, impianti per acqua e luce, ospedali, ambulanze. Guterres non riesce proprio a dire “Hezbollah”, neanche quando a fine luglio tirarono un missile sul campo da calcio di Majdal Shams, nel Golan, uccidendo dodici bambini. Nel comunicato del segretario non c’è traccia di chi ha lanciato il missile. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, ieri ha ripostato su X un video di Edward Said, intellettuale palestinese della Columbia University, in cui il famoso orientalista spiegava che il terrorismo in medio oriente è stato introdotto dai “sionisti”. Caspita. Ma Orwell non è una prerogativa del Palazzo di vetro. Ieri il Lemkin Institute, che prende il nome da Raphael Lemkin, il giurista ebreo che coniò il termine “genocidio” in risposta alla Shoah, condanna “l’attacco israeliano al popolo libanese”. Popolo libanese? Forse voleva dire milizia armata illegale?
 Intanto all’Onu si approvava una risoluzione (a cui si sono opposti soltanto Stati Uniti, poche isole dalle Fiji a Papua e alcuni stati europei dell’Est) che impone un embargo su Israele e gli ordina di lasciare tutte le terre prese nella guerra del 1967 entro dodici mesi. Il testo non si sforza neanche di citare Hamas, il 7 ottobre o gli ostaggi. Perché l’Italia si è astenuta? Una coalizione di avvocati che combattono l’antisemitismo, nota come International Legal Forum, commenta che la risoluzione ha segnato il posto dell’Onu come “braccio diplomatico di Hamas”.
 Martedì, prima del voto, l’ambasciatrice statunitense all’Onu Linda Thomas-Greenfield ha detto al plenum che la risoluzione “si rifiuta di affrontare la realtà che Israele, uno stato membro delle Nazioni Unite, ha semplicemente il diritto di proteggere e difendere il suo popolo da atti di terrore e violenza. Nonostante il fatto che Hamas abbia appena sconvolto i negoziati del cessate il fuoco assassinando brutalmente sei ostaggi e nonostante il fatto che Hamas continui a usare i civili come scudi umani a Gaza, questa risoluzione non include alcuna misura per fare pressione su Hamas”.
 Invece l’Onu di pressione su Israele ne mette molta. Dal 2015, l’Assemblea generale ha approvato 141 risoluzioni di condanna di Israele, che è più del doppio del numero di risoluzioni di condanna rivolte a tutti gli altri paesi messi insieme. E il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato 104 risoluzioni contro Israele, rispetto alle 99 contro altri paesi. E oggi si riunisce anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu, su richiesta dell’Algeria, per discutere delle esplosioni a Beirut. E Guterres ormai non fa più neanche finta di citare la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite. Fu sottoscritta nel 2006 e prevedeva che nel raggio di trenta chilometri dal confine con Israele non fossero schierate milizie non regolari. Quindi, secondo la 1701, i terroristi di Hezbollah non dovrebbero essere dove si trovano, con o senza walkie talkie. E nonostante la risoluzione, nel 2008, i miliziani sciiti hanno creato una loro unità chiamata “Radwan”, con la missione di stare proprio al confine, pronta a infiltrarsi nel territorio israeliano. Ma così va. Quando Israele bombarda è colpevole di “genocidio”. Quando Israele compie strike chirurgici contro un’organizzazione designata come terroristica da Stati Uniti e Unione europea, è colpevole di “terrorismo di stato”. Quando Israele esiste, è colpevole di “colonialismo”. Il “partito di Dio” ha davvero tanti amici in occidente.

Il Foglio, 20 settembre 2024)

........................................................


L’offerta a Hamas: tutti gli ostaggi contro salvacondotto

Il rilascio di tutti gli ostaggi in una sola volta in cambio della fine dei combattimenti e di un passaggio sicuro fuori dalla Striscia di Gaza per il leader di Hamas Yahya Sinwar e i suoi uomini. Sono alcuni dei termini dell’ultima proposta di Israele per arrivare a un accordo con Hamas. Il piano, scrivono i media locali, è stato presentato all’amministrazione Usa la scorsa settimana da Gal Hirsch (nell’immagine), responsabile israeliano dell’accordo sugli ostaggi. Se il gruppo terroristico palestinese dovesse dimostrarsi interessato, spiega l’emittente Kan, allora la proposta verrebbe formalizzata dal governo di Gerusalemme. L’iniziativa di Hirsch prevede il rilascio di prigionieri palestinesi incarcerati in Israele, la smilitarizzazione della Striscia e un nuovo sistema di governance per l’enclave. «Un accordo in una sola fase che includa tutti i 101 ostaggi è l’aspirazione di tutti i cittadini d’Israele», ha commentato il Forum delle famiglie degli ostaggi, sostenendo la nuova trattativa israeliana.
  Sul terreno intanto l’attenzione militare è sempre più rivolta al nord. In 48 ore Hezbollah ha perso diversi suoi uomini a causa dell’esplosione, attribuita all’intelligence israeliana, di cercapersone, radio e walkie-talkie. I terroristi libanesi hanno giurato vendetta e attaccato ancora una volta il nord d’Israele. Otto le persone rimaste ferite dai missili anticarro del movimento sostenuto dall’Iran. «Il centro di gravità si sta spostando a nord. Stiamo dirottando forze, risorse ed energie in questa direzione», ha ribadito il ministro della Difesa Yoav Gallant. L’obiettivo, ha aggiunto, «è chiaro e semplice: riportare i residenti delle città del nord alle loro case in modo sicuro». Da quasi un anno l’area è bersaglio di Hamas e decine di migliaia di persone sono state evacuate. Il prossimo passo potrebbe essere una operazione nel sud del Libano. «La regola è che ogni volta che agiamo, le due fasi successive sono pronte», ha avvertito il capo dell’esercito Herzl Halevi. In ogni nuova fase «il prezzo pagato da Hezbollah aumenterà», ha aggiunto.
  Oltre ai fronti di guerra, Gerusalemme deve affrontare anche quello diplomatico. Una nuova risoluzione dell’Assemblea generale Onu punta il dito contro lo stato ebraico. Il provvedimento chiede di «porre fine senza indugio alla sua presenza illegale» nei «Territori palestinesi occupati» entro 12 mesi, ritirando tutti i soldati e i civili israeliani dall’area. Si chiede inoltre un embargo sulle armi inviate a Israele dai diversi paesi. «La risoluzione dell’Onu guidata dai palestinesi, che chiede mosse unilaterali contro Israele, non porrà fine al conflitto, ma che rafforzerà un’Autorità Palestinese già radicalizzata», ha commentato il ministero degli Esteri israeliano.

(moked, 19 settembre 2024)

........................................................


Israele colpisce ancora Hezbollah: la strategia dell’eliminazione mirata

di Ugo Volli

• UN COLPO STRAORDINARIO – E RADDOPPIATO
   È difficile pensare a una storia di spionaggio e di azione meglio congegnata. Dopo il colpo ai cercapersone, il personale di Hezbollah è stato colpito di nuovo ieri da una serie di esplosioni alle radio personali (i cosiddetti walkie talkie) e ha subito altre centinaia di feriti di cui molti gravi e una decina di morti. Il responsabile dell’azione, naturalmente, è Israele, che però non l’ha rivendicata e non l’ha neppure negata, come accade regolarmente nel caso di azioni sensibili, per esempio per l’eliminazione del capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuta a Damasco il 4 agosto. Il risultato è una doppia crisi molto grave del nemico dello Stato ebraico più attivo in questo momento: da un lato la maggioranza dei quadri di Hezbollah sono feriti e messi nell’impossibilità di nuocere; dall’altro è disabilitato completamente il sistema di comunicazione che è ciò che tiene insieme e rende operativi gli eserciti moderni. Hanno un bel dire i nemici di Israele, come il senatore americano Sanders o la deputata Ocasio-Cortez, o la vicepremier belga Petra De Sutter che l’azione andrebbe punita perché non rientrerebbe nelle consuete tattiche della guerra. In realtà non vi è mai stata un’eliminazione più mirata. Solo i terroristi inquadrati da Hamas (e i loro più stretti alleati, come l’ambasciatore iraniano) avevano i mezzi di comunicazione che sono esplosi; e fra essi solo i più responsabili, quelli che svolgono un ruolo di comando. È un colpo di grandissima efficacia e selettività che rientra perfettamente nella dura guerra che Hezbollah conduce contro Israele senza provocazione dal 7 ottobre dell’anno scorso.

• PASSARE ALLA BASSA TECNOLOGIA
   La storia di questa azione deve far riflettere. In generale i terroristi conoscono l’abilità digitale di Israele, in particolare per quanto riguarda il web, i computer e gli smartphone. Cercano dunque di usarli il meno possibile. A quanto si dice, il più ricercato di tutti, il capo di Hamas Sinwar, dall’inizio della guerra non usa nessun mezzo tecnologico e comunica solo con biglietti scritti, quel che nel gergo mafioso si chiamano pizzini. Anche Hezbollah ha deciso all’inizio della guerra di usare le tecnologie meno avanzate per gestire il coordinamento e la comunicazione interna, scegliendo come canale informativo e veicolo degli ordini non dei telefoni cellulari, ma i vecchi cercapersone, che si usavano negli anni Ottanta. Sono dispositivi che ricevono solo brevi messaggi di testo, non voce né dati né immagini, e che per lo più sono passivi, cioè non possono trasmettere ma solo ricevere; non sono nella rete, ma prendono i dati da onde radio su una frequenza personalizzata. Quindi sono difficilmente intercettabili, e sembravano molto sicuri per i terroristi.

• LA TRAPPOLA
   Di conseguenza Hezbollah, all’inizio della guerra o forse anche prima, ne ha ordinati 5.000 (abbastanza per tutti i suoi quadri), molto resistenti ed efficaci, alla Gold Apollo, un’azienda di Taiwan. Peccato che questa avesse ceduto i business e il marchio a un’altra azienda, la BAC Consulting KFT, una compagnia che ha sede in Ungheria e che da un paio d’anni gestisce gli ordini per alcune aree geografiche, fra cui il Medio Oriente. Questa però è solo un “intermediario commerciale senza nessun impianto di fabbricazione in Ungheria”, dice il portavoce del governo ungherese Zoltan Kovacs sui social, affermando quindi che non gli risulta che i cercapersone siano stati prodotti in Ungheria. Non si sa dunque chi abbia prodotto gli apparecchi: probabilmente forse una società creata dai servizi israeliani, che comunque hanno avuto fisicamente in mano le macchine per qualche tempo. Il che conferma che Israele ha il modo di conoscere anche le decisioni organizzative più riservate dei terroristi, come quelle che riguardano i sistemi di comunicazione.

• LE ESPLOSIONI
   Qualcuno legato ai servizi israeliani, infatti, ha inserito all’interno dei dispositivi vicino alla batteria una piccola quantità (fra i 20 e i 50 grammi, il peso di un piccolo tuorlo d’uovo) di alto esplosivo. I “pager” sono stati consegnati cinque mesi fa e distribuiti immediatamente. Al momento buono, con una chiamata contenente un apposito comando software che ha raggiunto tutte le macchine, i cercapersone sono stati indotti a sovraccaricarsi, sfruttando al massimo e riscaldando così la batteria, che ha fatto esplodere l’esplosivo ed essa stessa si è incendiata producendo una pericolosissima fiammata. Chi stava leggendo il messaggio inserito nel dispositivo ha perso la vista e le mani, chi lo teneva in tasca ci ha rimesso le parti basse del ventre. Lo stesso è accaduto quando dopo l’esplosione dei cercapersone Hezbollah ha ordinato di passare a dispositivi ancora più primitivi, i walkie talkie che consentono solo una comunicazione bidirezionale vocale di qualche chilometro. Anch’essi erano stati consegnati alcuni mesi fa ed erano stati minati e al momento buono sono esplosi, provocando altri numerosi feriti e morti.

• CHE SUCCEDE ADESSO?
   Hezbollah ha minacciato rappresaglie sanguinose, ma al momento è disorganizzato. Questo sarebbe il momento di attaccarlo, e infatti si dice che tutta l’operazione fosse stata concepita in vista dello scontro sul terreno con i terroristi libanesi, ma Israele si sarebbe accorto che intorno ai cercapersone incominciavano a girare dei sospetti nell’organizzazione di Hezbollah e dunque avrebbe deciso di procedere ora prima che l’esplosivo fosse trovato. Ma, a quanto pare, c’è un veto dell’amministrazione democratica, che non vuole la vittoria di Israele e neppure troppi combattimenti fino alle elezioni. E Israele, di fronte alle minacce americane di togliere l’appoggio militare e quello diplomatico all’Onu, è costretto a cedere. Deve quindi aspettare che sia Hezbollah, quando se la sentirà, a provocare lo scontro di terra. Per ora Israele ha dimostrato ancora una volta di avere risorse di intelligence e audacia operativa senza pari al mondo.

(Shalom, 19 settembre 2024)

........................................................


Israele: attacco di Hezbollah nell’Alta Galilea. Diversi feriti. Jet in azione

Durante la notte, i caccia israeliani hanno colpito gli edifici utilizzati da Hezbollah a Chihine, Taybeh, Blida, Mays al-Jabal Aitaroun e Kafr Kila, nel Libano meridionale. Anche un deposito di armi di Hezbollah è stato colpito da un drone a Khiam.
  In mattinata almeno due missili anticarro sono stati lanciati da Hezbollah verso l’Alta Galilea, nei pressi di Menara, ferendo diverse persone.
  Secondo quanto riferito, i feriti sono stati curati sul posto prima di essere trasportati in ospedale. L’IDF ha risposto al fuoco con tiri d’artiglieria e droni che hanno colpito la zona di Ramim Ridge.
  Hezbollah ha promesso una “sanguinosa vendetta” attribuendo a Israele la colpa per le esplosioni dei cercapersone prima e delle radio ricetrasmittenti poi che negli ultimi due giorni hanno provocato la morte di decine di terroristi e il ferimento di almeno 4.000 miliziani di Hezbollah.

(Rights Reporter, 19 settembre 2024)

........................................................


“Dal Front Populaire al Nouveau Front Populiste”, il webinar di UAII

di Anna Balestrieri

L’Unione delle Associazioni Italia Israele presieduta da Celeste Vichi ha ospitato su zoom il 17 settembre Dal Front Populaire al Nouveau Front Populiste”, un’analisi incisiva sulle due ultime elezioni in Francia e sull’evoluzione politica del paese. L’incontro, continuum ed aggiornamento del precedente webinar del 29 maggio, ha visto la partecipazione della professoressa Sophie Nezri, esperta di letteratura italiana e studi ebraici, e di Francesco Domenico Vitale, dottorando in storia contemporanea. La discussione ha offerto uno sguardo approfondito sugli sviluppi politici, sociali e culturali che stanno plasmando il panorama francese.

• LA FRANCIA E IL NUOVO ANTISEMITISMO
   La professoressa Sophie Nezri ha analizzato in modo approfondito la condizione della comunità ebraica in Francia, evidenziando una preoccupante crescita dell’antisemitismo nel paese. La fuga di oltre 4000 ebrei francesi verso Israele, nonostante la situazione di guerra nel paese dal 7 ottobre 2023, dimostra come il clima di ostilità locale sia diventato insostenibile. Aggressioni quotidiane, discriminazioni e minacce nelle università francesi sono ormai parte della realtà per molti giovani ebrei, e l’antisemitismo sembra alimentarsi da diversi fronti: da una parte l’estrema sinistra rappresentata dal partito La France Insoumise, dall’altra l’estrema destra del Rassemblement National, entrambe forze che cercano consensi elettorali su basi ideologiche contrapposte, ma con un pericoloso elemento in comune: la strumentalizzazione delle tensioni religiose e sociali.
   Il partito France Insoumise, con il suo leader Jean-Luc Mélenchon, trova una vasta base di sostegno non solo negli intellettuali di sinistra, ma anche tra i sei milioni di musulmani in Francia, una comunità in crescente tensione con la popolazione ebraica. Questo schieramento politico ha contribuito ad un clima di intolleranza che sta spingendo sempre più ebrei a cercare rifugio all’estero. A ciò si contrappone il Rassemblement National, unico partito che ha difeso pubblicamente Israele dopo i fatti del 7 ottobre, pur rimanendo ancorato a un elettorato legato al ceto popolare che spesso manifesta sentimenti nazionalisti e xenofobi.

• LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ E IL “PROBLEMA DI CIVILTÀ”
   La Francia vive un momento di crisi identitaria profonda, descritto dalla professoressa Nezri come un “problema di civiltà”. Alcuni quartieri, ad esempio nella città multietnica di Marsiglia, vedono una crescente islamizzazione, con negozi in cui le donne non possono entrare senza velo. La stessa Nezri ha denunciato la situazione precaria in cui si trova come donna ebrea, costretta a confrontarsi con una crescente ostilità. La polarizzazione politica si riflette anche nelle elezioni, dove il declino dei partiti tradizionali ha permesso l’ascesa di formazioni populiste di destra e sinistra.

• IL FUTURO POLITICO DELLA FRANCIA
   Durante la conferenza, Vitale ha sollevato interrogativi cruciali sulle prospettive politiche del paese, chiedendosi quale sarà il destino della Francia nel prossimo futuro. Con  la recente nomina di Michel Barnier, il più anziano primo ministro del paese, ci si chiede se il governo riuscirà a formare una maggioranza solida. La risposta, secondo Nezri, è incerta, soprattutto in un contesto in cui gli arabi, descritti come i “nuovi dannati della terra”, stanno diventando la nuova classe proletaria.
   La Fête de l’Humanité, paragonata da Nezri alla festa dell’Unità in Italia, è un esempio della crescente propaganda anti-israeliana che sta prendendo piede in Francia.
   La conferenza ha offerto una visione complessa e inquietante del futuro della Francia, definita come un laboratorio del nostro futuro europeo. La crescente tensione tra la comunità ebraica e quella musulmana, l’emergere di movimenti populisti e il declino dei partiti tradizionali sono solo alcuni dei segnali di una crisi politica e sociale che richiede un’attenta riflessione.

(Bet Magazine Mosaico, 19 settembre 2024)

........................................................


“Non ho mai visto una macchina diffamatoria così ben oliata"

La moglie di Gideon Saar denuncia la violenza scatenata dalle voci sulla nomina del marito. “Ho persino pensato di venire in studio per assumermi la responsabilità del 7 ottobre, della cattiva gestione della guerra, della mancata restituzione degli ostaggi - perché questa settimana sono stata accusata di tutto questo”.

Mentre si rincorrono le voci sulla nomina di Gideon Saar a Ministro della Difesa, sua moglie, Geula Even-Saar, ha parlato giovedì a Radio 103FM della settimana che ha appena vissuto: “Non ho mai visto nulla di simile. Una macchina della calunnia ben oliata, un sacco di soldi investiti, un tentativo grossolano di estorcere e minacciare un funzionario eletto e la sua famiglia”.
  In un'intervista con Nissim Mishal, ha dichiarato ironicamente: “Ho persino pensato di venire in studio per assumermi la responsabilità del 7 ottobre, del fallimento, del massacro, della cattiva gestione della guerra, del mancato ritorno degli ostaggi - perché sono stata accusata di tutto questo questa settimana”.
  “Personalmente ricevo migliaia di sms e telefonate minatorie, rivolte anche ai miei figli e alle figlie maggiori di Gideon, migliaia ogni giorno. Messaggi come 'Il sangue degli ostaggi è sulle tue mani, moglie di un assassino, dovresti vergognarti, certi atti sono imperdonabili, sei una traditrice, se Gideon sarà nominato ministro della Difesa sarai punita per sempre' - questi sono solo esempi”.
  Ha continuato: “Sono abituata alle campagne diffamatorie, ma non ho mai visto nulla di simile. Si tratta di una macchina ben rodata, con molti soldi investiti, e soprattutto di un palese tentativo di fare pressione su un funzionario eletto e sulla sua famiglia. Non è solo di cattivo gusto. Sono una persona coraggiosa. Le persone stanno vivendo tragedie reali. Non sono una vittima e non c'è bisogno di dispiacersi per me. Ma queste non sono persone che scrivono con il cuore, è un sistema orchestrato”.
  “Non sono il portavoce di Gideon Saar, ma è forse l'unico uomo, oltre a Netanyahu, che ha esperienza in un gabinetto di governo quando si tratta di decisioni sulla sicurezza. Cosa hanno fatto le persone esperte a ottobre? Come sono state abbandonate le persone della periferia? Non ditemi che se Gideon fosse stato il capo di gabinetto sarebbe stato diverso. C'erano persone esperte nello staff, eppure siamo sopravvissuti a ottobre. Continuerò a ricevere messaggi, ma questo è il mio messaggio: non importa quanta pressione facciate su di me, non mi costringerà a fare pressione su di lui. Non riuscirete a ricattare un politico attraverso di me”.

(i24, 19 settembre 2024)

........................................................


Bernard-Henri Lévy: “Se Israele perde è peggio dell’Olocausto. L’accordo di pace ci sarà, ma senza Hamas”

Le esplosioni che a macchia d’olio si allargano da Beirut, proiettando sulla regione l’ombra di una pericolosa escalation, non sorprendono Bernard-Henri Lévy, il cui ultimo libro, “Solitudine di Israele” (La nave di Teseo), racconta il piano inclinatosi vertiginosamente dopo il 7 ottobre e l’inevitabilità per lo Stato ebraico di affrontare a «una guerra esistenziale». Il celebre filosofo francese è in partenza da New York diretto in Italia dove, da Pordenone a Milano, ripeterà la sua convinzione, il suo incubo: «Israele deve vincere o sarà peggio dell’Olocausto».

- Il Libano è ammutolito, Hezbollah minaccia vendetta, Tsahal sposta le truppe al nord. Può Israele permettersi un’altra guerra e quanto conta invece la volontà del premier Benjamin Netanyahu di sopravvivere politicamente?
   «È in corso una guerra dichiarata da altri contro Israele, un Paese sotto attacco su più fronti. C’è Hezbollah, ci sono le milizie in Siria e gli houthi nel mar Rosso, c’è l’Iran e c’è Hamas. Combattere questa guerra è nell’interesse di Israele».

- Non ci sono grandi dubbi sulla paternità della sbalorditiva operazione libanese. Come spiega invece il fallimento d’intelligence del 7 ottobre? Israele aveva con arroganza rimosso i palestinesi al punto di trascurare i segnali?
   «Non è questione di arroganza ma di cosa sia possibile prendere in considerazione e cosa no. Il pogrom del 7 ottobre è un evento impensabile, imprevedibile, imparabile. Pur disponendo di alcune informazioni nessuno in Israele avrebbe potuto credere a uno scenario del genere, neppure avendocelo sotto gli occhi, è troppo nuovo, selvaggio, troppo inutile se non per il gusto della crudeltà. È così irrazionale e disumano che si fa fatica anche a capire».

- Conosce Bibi Netanyahu?
   «Ho incontrato tutti i primi ministri israeliani, da Golda Meir in poi. Con alcuni, come Rabin e Peres, siamo stati amici, per altri, come Begin, ho provato rispetto pur trovandomi in disaccordo. Ho criticato Netanyahu, che conosco bene, per tutta la mia vita politica: l’ho fatto in modo molto duro durante le proteste contro la sua riforma della giustizia e lo farò di sicuro quando questa guerra sarà finita. Ma oggi no, non mentre Israele è in guerra».

- «Se ti dimentico, responsabilità ebraica che ha fatto dire a un grande primo ministro ebreo: ancora più imperdonabile dell’omicidio dei figli d’Israele è costringere Israele a uccidere i figli dei suoi assassini...» scrive alla fine del suo libro paventando la perdita dell’anima ma chiosando che non siamo a quel punto. Siamo però a oltre 40 mila morti a Gaza e la Knesset è ostaggio degli estremisti. Vede ancora margini per recuperare lo spirito originario d’Israele?
   «Non c’è nulla da recuperare perché quello spirito è lì, vibrante. Basta andare tra le famiglie degli ostaggi per sentirlo fisicamente, in mezzo a loro l’ho respirato come nel giugno del 1967. In Israele ci sono due correnti politiche contrastanti: la prima spinge per la normalizzazione e per fare del Paese una nazione come qualsiasi altra dimenticando i valori del giudaismo, l’altra tiene vivi i principi dei pionieri. C’è tensione, ma per ora non sono pessimista sull’anima d’Israele, lo sono invece sulla guerra esistenziale che il Paese sta affrontando e che deve vincere: se perdesse sarebbe la più grossa tragedia dall’Olocausto».

- Hamas non sembra un partner con cui Israele possa negoziare alcunché, sebbene neppure l’Olp di Arafat lo fosse prima di Olso. Ma, sul fronte opposto, come potrebbe Israele dialogare senza sacrificare le colonie che, cresciute senza sosta, sono oggi dilaganti?
   «Non c’è parallelismo tra Hamas e i coloni. Con Hamas non esiste accordo di sorta che non sia quello circoscritto alla liberazione degli ostaggi. E Hamas non li libererà perché sono la sua assicurazione, la più potente arma di terrore. Chi spera nel negoziato s’illude. E per quanto riguarda i coloni, li avverso. Ma credo che quando l’Autorità nazionale palestinese si sveglierà e riconoscerà come la “resistenza” di Hamas abbia avvelenato la sua gente avremo una soluzione politica in Cisgiordania, nell’ambito della quale i coloni decideranno se andarsene o restare da minoranza in uno Stato arabo». 

- La prospettiva due popoli per due Stati è naufragata, restano al massimo sul tavolo gli accordi di Abramo, congelati il 7 ottobre. Ma con quale partner palestinese se l’Anp, anche con la complicità d’Israele, è così screditata?
   «Mi rifiuto di parlare di una soluzione politica fin quando gli ostaggi non saranno tornati a casa e Hamas non sarà stato sconfitto militarmente in modo tale che il suo mondo riconosca il disastro di quella strategia. Succederà. Anche l’Unione europea era impensabile nel 1945. La condizione però è zero compromessi con Hamas, un gruppo che equivale ad al Qaeda e va schiacciato. Gli accordi di Abramo non sono stati accantonati, restano sullo sfondo, i Paesi arabi si stanno muovendo con accortezza, consapevoli che Hamas è il peggio anche per loro».

- “La solitudine d’Israele”, nato per essere il rifugio degli ebrei del mondo, è la solitudine degli ebrei nel mondo?
   «Di sicuro, gli ebrei sono sotto attacco negli Stati Uniti, nei campus, nelle strade. Criticare Israele è legittimo ma condannare la natura ebraica d’Israele o gli ebrei in generale è diverso. Ho ascoltato proporre l’espulsione d’Israele dalle Nazioni Unite, un’enormità senza precedenti, una misura mai evocata per l’Iran o per altre feroci dittature. Questa non è critica politica è antisemitismo».

- C’è stato un tempo in cui Israele dialogava col socialismo mentre oggi ha spesso accanto amici di destra. È cambiata la sinistra o Israele?
   «La sinistra è cambiata molto più d’Israele».

Israele, scrive, è diviso tra i liberali che gli somigliano e gli illiberali che lo difendono. Un buon esempio è la nuova Europa emersa dal voto di giugno, spostata a destra e con forze conservatrici che avanzano dall’Italia, alla Francia, alla Germania. Cosa si aspetta da questa Europa?
   «Mi aspetto il ritorno dei liberali in Europa, l’illiberalismo non è un’opzione. E rispetto ai nuovi amici illiberali d’Israele, credo che il Paese sia in uno stato di debolezza tale da non poter rifiutare nessun aiuto. Al tempo stesso però gli suggerisco di tenere gli occhi aperti perché l’alleanza con le forze illiberali è fragile, non si basa su valori condivisi né sulla reciproca conoscenza ma sull’opportunità del momento».

- È un’Europa attrezzata a fronteggiare le sfide poste dalle nuove potenze come la Russia, la Cina e l’Iran ma anche dalla prospettiva di un’America sempre più lontana?
   «No, è troppo divisa per affrontare le due minacce più serie: l’America, che gradualmente ci volterà le spalle indipendentemente da chi vinca le elezioni, e l’offensiva dei nuovi attori che io definisco i 5 re e che rappresentano per l’Europa una sfida esistenziale, a cominciare dalla guerra in Ucraina».

- Cosa succede se Donald Trump diventa presidente?
   «È imprevedibile, lo sappiamo debole con dittatori. Non c’è nulla di buono da aspettarsi».

- Come risponde ai tanti Paesi del sud che nel caso di Russia, Israele e delle violazioni del diritto internazionale parlano di due pesi e due misure ?
   «Israele non viola il diritto internazionale, la Russia lo fa. Israele si difende e difende la democrazia contro il peggior fascismo del nostro tempo».

- Le critiche più dure in questo senso vengono da Israele, i soldati refusenik, l’ex capo dello Shin Bet Ami Ayalon…
   «C’è un dibattito interno che dimostra la vitalità della democrazia israeliana, non per questo devo essere d’accordo».

(La Stampa, 19 settembre 2024)

........................................................


Centinaia di cercapersone esplodono in tutto il Libano: Hezbollah accusa Israele

di Anna Balestrieri

Hezbollah ha accusato Israele di aver orchestrato un attacco coordinato, in cui centinaia di cercapersone sono esplosi simultaneamente in tutto il Libano e in alcune parti della Siria. L’esercito israeliano ha rifiutato di commentare.

• L'ATTACCO SIMULTANEO
    Centinaia di cercapersone sono esplosi contemporaneamente in tutto il Libano e in alcune parti della Siria, in quello che sembra essere un attacco coordinato che ha preso di mira i membri di Hezbollah, secondo le dichiarazioni di funzionari libanesi e di Hezbollah.
  L’attacco è avvenuto il giorno dopo che i leader israeliani avevano avvertito di un possibile intensificarsi della loro campagna militare contro Hezbollah, in risposta ai continui attacchi contro il nord di Israele del gruppo filo-iraniano, solidale con i terroristi di Hamas nella guerra contro Israele a Gaza. Tre funzionari informati sull’attacco hanno dichiarato che l’operazione ha preso di mira centinaia di cercapersone utilizzati dai membri di Hezbollah, dispositivi che si erano diffusi ulteriormente dopo gli attacchi del 7 ottobre, quando il leader di Hezbollah aveva avvertito che la rete cellulare era stata tracciata dai servizi segreti israeliani e la segretezza dei loro spostamenti irrimediabilmente compromessa.
  Hezbollah ha accusato Israele e ha promesso di vendicarsi per quella che ha definito “aggressione flagrante”. L’esercito israeliano non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali.

• TENTATIVO DI ASSASSINIO FALLITO
    Martedì pomeriggio, il 17 settembre, prima delle esplosioni dei cercapersone, l’esercito israeliano ha accusato Hezbollah di aver tentato di assassinare un ex membro di alto livello dei servizi di sicurezza israeliani con un ordigno esplosivo. Questo tentativo di attacco era stato attribuito agli stessi operativi di un altro attentato fallito a Tel Aviv l’anno scorso.

• AMBASCIATORE IRANIANO FERITO
    Tra le vittime delle esplosioni ci sono anche il figlio di un parlamentare di Hezbollah, Ali Ammar, e l’ambasciatore iraniano in Libano, Mojtaba Amini, che ha riportato ferite alla mano e al volto quando il cercapersone che portava è esploso.
  L’ambasciatore iraniano in Libano, Mojtaba Amini, è rimasto ferito nell’apparente attacco, secondo i media statali iraniani. Le sue ferite non sono gravi e si prevede che si riprenderà. Le recenti esplosioni coordinate di cercapersone in tutto il Libano, che Hezbollah attribuisce a Israele, segnano una significativa escalation nel conflitto in corso tra le due entità. Questo evento ha aggiunto un nuovo livello di complessità a una regione già instabile. Con i cercapersone che detonano simultaneamente, ferendo quasi 3.000 persone e uccidendone almeno nove, tra cui civili e membri di Hezbollah, le implicazioni di questo attacco sono multiformi e toccano la strategia militare, le vulnerabilità tecnologiche e le dinamiche geopolitiche.

• CONFUSIONE E SHOCK A BEIRUT
    La serie di esplosioni ha lasciato Beirut in uno stato di confusione. Testimoni hanno riferito di fumo proveniente dalle tasche delle persone, seguito da piccole esplosioni. Filmati amatoriali mostrano scene caotiche negli ospedali con pazienti feriti che cercano soccorso.
  Il ministro della sanità libanese, Firass Abiad, ha dichiarato che almeno otto persone sono rimaste uccise e più di 2.700 ferite, con circa 200 in condizioni critiche. Una delle vittime era una bambina di 8 anni.
  Un medico che ha visitato gli ospedali di Sidone ha dichiarato che molti dei feriti hanno subito gravi lesioni agli occhi e che c’è una carenza di chirurghi oculisti. I medici hanno raccolto donazioni di sangue a Sidone e nella periferia meridionale di Beirut, mentre le ambulanze continuavano a trasportare feriti agli ospedali.
  Le scuole in tutto il Libano rimarranno chiuse mercoledì, secondo quanto riferito dai media statali libanesi.
  Almeno 14 persone sono rimaste ferite dalle esplosioni di cercapersone in Siria, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.

• CONFLITTO IN ESCALATION
    Le esplosioni sembrano essere l’ultima mossa in un conflitto che dura da 11 mesi tra Israele e Hezbollah, iniziato dopo che il gruppo, sostenuto dall’Iran, ha iniziato a sparare missili nel territorio israeliano in solidarietà con Hamas.

• NATURA DELL'ATTACCO E SIGNIFICATO MILITARE
    Il targeting dei cercapersone utilizzati dai membri di Hezbollah sottolinea un cambiamento critico nel modo in cui la tecnologia gioca un ruolo nella guerra moderna. I cercapersone erano diventati uno strumento sempre più importante per Hezbollah dopo aver percepito che l’intelligence israeliana si era infiltrata nelle reti di telefonia mobile del Libano. Affidandosi a questi dispositivi low-tech, Hezbollah sperava di salvaguardare le comunicazioni, evitando intercettazioni che avrebbero potuto portare ad attacchi mirati. L’attacco sofisticato a questi stessi dispositivi illustra la capacità di Israele di penetrare anche sistemi di comunicazione presumibilmente sicuri, probabilmente attraverso la rete di intelligence del Mossad, secondo alcuni esperti militari.
  Il presunto coinvolgimento di Israele, sebbene non confermato dall’esercito, rientra in un modello più ampio di attacchi mirati e operazioni di intelligence, tesi a minare l’infrastruttura militare di Hezbollah. Disattivando il sistema di comunicazione del gruppo, questo attacco potrebbe essere stato progettato per seminare confusione e interrompere le capacità operative di Hezbollah, ostacolandone il coordinamento. Tuttavia, l’atto ha conseguenze molto più profonde che vanno oltre gli obiettivi militari immediati.

• IMPATTO STRATEGICO E IMPLICAZIONI REGIONALI
    Le esplosioni giungono in un momento di forti tensioni, con Israele e Hezbollah già impegnati in periodici scontri da ottobre. L’allineamento di Hezbollah con Hamas durante la sua guerra con Israele complica ulteriormente la situazione, trasformando quelli che un tempo potevano essere conflitti localizzati in tensioni regionali più ampie. L’attacco, che ha ferito membri di Hezbollah e civili, tra cui l’ambasciatore iraniano in Libano, segnala un potenziale ampliamento del campo di battaglia, con il rischio crescente di un coinvolgimento diretto dell’Iran.
  La decisione di Israele di evitare di commentare l’incidente potrebbe riflettere il desiderio di mantenere l’ambiguità strategica, un segno distintivo del suo approccio alle operazioni basate sull’intelligence. Tuttavia, la promessa di rappresaglia di Hezbollah rende chiaro che questo attacco non passerà senza una risposta. La retorica di Hezbollah di infliggere una “giusta punizione” a Israele aumenta la probabilità di un’escalation che potrebbe estendersi oltre i confini del Libano, coinvolgendo fazioni siriane e potenzialmente persino l’Iran.

• CAOS UMANITARIO E RIPERCUSSIONI INTERNE
    Il tributo alla popolazione civile libanese, già sconvolta da anni di instabilità politica, difficoltà economiche e guerra, non può essere sottovalutato. Con gli ospedali sopraffatti dall’afflusso di pazienti, la crisi umanitaria si sta aggravando. Il governo libanese ha etichettato l’attacco come una violazione della sovranità, ma la sua capacità di rispondere in modo significativo è limitata dalle sue crisi interne.
  Per Hezbollah, l’attacco è una grave violazione del suo apparato di sicurezza e potrebbe minare la sua reputazione a livello nazionale, anche tra i suoi sostenitori. La forza di Hezbollah si è sempre basata in parte sulla sua immagine di forza resiliente “contro l’aggressione israeliana”. Questo attacco dimostra che il gruppo non è immune alle operazioni di intelligence israeliane, sollevando interrogativi sulla sua strategia futura e su come può mantenere la sua influenza nella regione.
  Da un punto di vista geopolitico, questo incidente aumenta la pressione sugli attori internazionali come gli Stati Uniti e l’ONU, entrambi impegnati a contenere il conflitto e a impedirgli di trasformarsi in una guerra più ampia. La presenza dell’ambasciatore iraniano tra i feriti introduce un ulteriore livello di complessità, poiché Teheran potrebbe considerare questo come un affronto diretto ai suoi interessi in Libano, aumentando così il potenziale coinvolgimento iraniano in future escalation.
  Le esplosioni, unite alla promessa di Hezbollah di vendicarsi, probabilmente avranno effetti di vasta portata sulla diplomazia nella regione, bloccando potenzialmente gli sforzi di cessate il fuoco tra Hamas e Israele. Il rischio di una guerra su vasta scala che coinvolga Hezbollah e, per estensione, l’Iran, potrebbe avere conseguenze devastanti non solo per il Libano e Israele, ma per l’intero Medio Oriente. L’attacco ai cercapersone di Hezbollah rappresenta più di una violazione tecnica; è un’escalation drammatica che potrebbe cambiare la traiettoria del conflitto in Libano e oltre.
  Mentre il guadagno militare immediato per Israele potrebbe essere chiaro (l’interruzione delle comunicazioni di Hezbollah), le conseguenze a lungo termine, sia per le operazioni di Hezbollah sia la fragile stabilità della regione, restano impossibili da prevedere.

(Bet Magazine Mosaico, 18 settembre 2024)


*


Esplosione dei cercapersone in Libano: ecco i dettagli dell’operazione del Mossad

di Luca Spizzichino

Oltre cinquemila cercapersone appartenenti ai membri di Hezbollah sono esplosi simultaneamente in diverse aree del Libano, causando almeno dieci morti e circa 2.750 feriti, tra cui l’ambasciatore iraniano a Beirut, che ha riportato gravi ferite e ha perso un occhio. L’operazione, attribuita al Mossad, rappresenta uno dei più grandi atti di sabotaggio degli ultimi anni, infliggendo un colpo significativo all’organizzazione sciita libanese e ai suoi alleati iraniani. Le linee di comando di Hezbollah sono state decimate, mettendo in luce le avanzate capacità operative di Israele anche nelle roccaforti del gruppo.

• IL PIANO DEL MOSSAD
   Secondo diverse fonti, tra cui Times of Israel e Ynet, l’attacco è stato reso possibile attraverso l’infiltrazione della catena di approvvigionamento dei cercapersone ordinati da Hezbollah. Questi dispositivi erano stati acquistati da Gold Apollo, un’azienda taiwanese, ma durante il processo di produzione sarebbero stati alterati dall’agenzia di intelligence israeliana. L’analisi effettuata da diversi esperti di cybersicurezza evidenzia la complessità dell’operazione: il Mossad non solo ha impiantato gli esplosivi nei cercapersone senza essere scoperto, ma ha anche garantito che la detonazione potesse essere comandata a distanza e simultaneamente su migliaia di dispositivi.
  Arutz 7 ha riportato che i dispositivi erano stati prodotti in una fabbrica europea, autorizzata a utilizzare il marchio Gold Apollo, e che il Mossad avrebbe infiltrato la catena di produzione per sabotare i dispositivi sin dall’inizio. Hsu Ching Kuang, fondatore di Gold Apollo, ha espresso profondo imbarazzo per la situazione: “Il prodotto non era nostro. È stato prodotto da una compagnia europea. È molto imbarazzante,” ha dichiarato, sottolineando che la sua azienda non aveva avuto alcun coinvolgimento diretto nella produzione dei cercapersone manomessi. La posizione della fabbrica europea resta ignota, ma questa strategia ha permesso agli agenti israeliani di alterare i dispositivi prima che fossero consegnati in Libano.
  La maggior parte dei dispositivi coinvolti erano del modello AP924, sebbene altre tre varianti prodotte dalla stessa azienda siano state coinvolte. Diversi analisti di sicurezza sono rimasti sorpresi dalla sofisticatezza dell’operazione, in particolare per la capacità del Mossad di inserire una piccola quantità di esplosivo – meno di 20 grammi per ogni cercapersone – direttamente nella batteria dei dispositivi. Questa soluzione ha reso praticamente impossibile l’individuazione dell’esplosivo da parte di Hezbollah.
  L’innesco è avvenuto a distanza attraverso un impulso elettronico. Yehoshua Kalisky, ricercatore dell’Institute for National Security Studies in Israele, ha suggerito che l’attivazione sia stata orchestrata tramite un impulso elettromagnetico inviato al momento giusto, causando l’esplosione dei dispositivi in modo simultaneo. Secondo il rapporto di Al Monitor, il Mossad avrebbe anticipato la detonazione quando due membri di Hezbollah avevano iniziato a sospettare un’anomalia nei dispositivi, costringendo l’agenzia ad agire rapidamente.

• LE FALLE NELLA SICUREZZA DI HEZBOLLAH
   Hezbollah, che aveva scelto di utilizzare i cercapersone come sistema di comunicazione più sicuro rispetto agli smartphone, si trova ora a dover fare i conti con una grave falla nella propria sicurezza interna. Un funzionario dell’organizzazione ha definito l’attacco “la più grande violazione di sicurezza” subita da Hezbollah dalla guerra con Israele iniziata il 7 ottobre. La portata della violazione ha colto di sorpresa anche i leader dell’organizzazione, che ora stanno conducendo indagini interne su come il Mossad sia riuscito a infiltrarsi nella loro catena di approvvigionamento senza essere scoperto.

• UNA NUOVA FASE NEL CONFLITTO?
   L’attacco arriva in un momento di alta tensione nella regione e potrebbe avere importanti implicazioni per il conflitto in corso. Al momento, Israele non ha né confermato né smentito la propria responsabilità per l’attacco. Tuttavia, Hezbollah ha immediatamente accusato Israele e ha promesso vendetta, considerando l’operazione una grave violazione della propria sicurezza.
  Jonathan Panikoff, ex vice ufficiale dell’intelligence nazionale statunitense per il Medio Oriente, ha commentato: “Questo rappresenta il più grande fallimento di controspionaggio che Hezbollah abbia subito in decenni”. La situazione resta estremamente incerta e non è escluso che questo evento possa innescare una nuova fase di scontro tra Israele e Hezbollah, alimentando ulteriormente le tensioni nella regione.

(Shalom, 18 settembre 2024)

........................................................


Con astuzia e grazia di Dio

Se Israele vuole sconfiggere i suoi nemici in questo round di guerra, dobbiamo procedere con astuzia. Fare la guerra con astuzia. Questo è esattamente ciò che abbiamo visto in diretta in Libano ieri pomeriggio.

di Aviel Schneider

FOTO
Un'ambulanza arriva all'American University of Beirut Medical Center (AUBMC) di Beirut, in Libano, il
  17 settembre 2024, dopo l'esplosione di migliaia di cercapersone appartenenti a membri di Hezbollah.

GERUSALEMME - Più di 5000 cercapersone sono esplosi simultaneamente nelle tasche dei terroristi di Hezbollah ieri pomeriggio. I membri della milizia terroristica sciita portano sul corpo questo tipo di dispositivo di chiamata per ricevere messaggi ed essere pronti all'azione in qualsiasi momento. Come disse il saggio re Salomone nei Proverbi 24: “Con l'astuzia si fanno le guerre, e la liberazione è dove ci sono molti consiglieri”. Per inciso, questo è il motto del servizio segreto israeliano Mossad: “fare guerre di nascosto”. Questo spiega anche il nostro messaggio Telegram di ieri, quando il capo del servizio segreto israeliano Mossad, David Barnea, ha dovuto improvvisamente lasciare un lungo incontro con il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ieri all'ora di pranzo . Tre ore dopo, i cercapersone dei terroristi di Hezbollah in Libano sono esplosi. Questo è l'unico modo - con l'astuzia e la grazia di Dio - in cui Israele può sconfiggere i suoi nemici. Anche se nessuno nel Paese ha ancora ammesso ufficialmente che c'è lo zampino di Israele, siamo tutti orgogliosi di questa esplosione tascabile. L'operazione avrà conseguenze? Questa operazione ricorda le guerre bibliche con l'astuzia e dà speranza. Questo è sempre positivo.
Il sito web arabo-americano Al-Monitor ha riferito poche ore fa che Israele non aveva pianificato di far esplodere le migliaia di dispositivi di chiamata presenti ieri in Libano. Tuttavia, l'operazione è stata effettuata perché Hezbollah si era insospettito. Secondo il rapporto, due attivisti di Hezbollah si sono insospettiti per i dispositivi, il che ha costretto Israele a far esplodere il dispositivo ieri.
La decisione di far esplodere l'ordigno è stata presa all'ultimo minuto, secondo il rapporto. Ora si discute se sia stato saggio effettuare comunque l'operazione, anche se potrebbe scatenare una guerra globale. Ieri il quotidiano kuwaitiano Al-Anbaa, citando una fonte diplomatica occidentale a Beirut, ha rivelato il messaggio completo dell'inviato statunitense Amos Hochstein a Israele poco prima del cosiddetto “attacco con il cercapersone”. Nel suo messaggio, Hochstein ha trasmesso tre punti chiave per evitare che Israele scateni una guerra totale contro Hezbollah. Washington teme che Israele entri in guerra, il che potrebbe portare a una guerra mondiale.
In Libano ci sono 4.000 vittime, tra cui 400 terroristi gravemente feriti. Altri 500 terroristi sarebbero ora ciechi: “Circa 500 combattenti di Hezbollah hanno perso la vista a causa dell'esplosione di cercapersone”, ha riferito l'emittente televisiva saudita Al-Hadath. Il famoso giornalista siro-ruzo Fitzal Al-Qassem, che ha milioni di follower sui social media e un programma su Al-Jazeera, descrive così il colpo:
    "Quello che è successo a Hezbollah può essere descritto come il più grande attacco preventivo della storia moderna. È paragonabile all'attacco preventivo di Israele contro la forza aerea egiziana prima della Guerra dei Sei Giorni. Oggi Hezbollah ha migliaia di paraplegici nelle sue forze d'élite. E se Hezbollah entra in guerra ora, i suoi feriti non troveranno un letto d'ospedale libero perché gli ospedali sono attualmente sovraffollati di feriti. Peggio ancora, Hezbollah ha perso i suoi mezzi di comunicazione sicuri. Scacco matto”.
Fonti libanesi e di altri Paesi arabi chiariscono che la milizia terroristica in Libano è sotto shock. Più di 5000 dispositivi di chiamata sono esplosi in Libano. Hezbollah incolpa Israele per l'attacco informatico e minaccia una rappresaglia. Israele si sta preparando a una risposta di Hezbollah all'attacco informatico, che viene attribuito a Israele. L'aviazione, il Comando settentrionale, i servizi segreti e l'intero esercito sono in stato di massima allerta.
Al-Jazeera cita una fonte della sicurezza libanese: “I cercapersone sono stati portati in Libano cinque mesi fa. Erano stati preparati per questo attacco fin dall'inizio. Ogni dispositivo conteneva esplosivo del peso massimo di 20 grammi”. Improvvisamente, come un fulmine o come in una storia di guerra biblica, 500 arcinemici di Israele sono diventati ciechi. Sospetto che ciò sia avvenuto a causa del messaggio che ogni singolo terrorista aveva ricevuto prima dell'esplosione del cercapersone. I terroristi hanno guardato il messaggio e poi il dispositivo è esploso davanti ai loro occhi. La batteria agli ioni di litio è stata probabilmente riscaldata dal messaggio, che ha portato all'esplosione.
I feriti sono stati distribuiti e curati in circa 100 ospedali in tutto il Paese, compresi quelli cristiani (maroniti), che sono avversari di Hezbollah. 400 terroristi sono rimasti gravemente feriti. È da notare che questo attacco informatico non unisce i vari gruppi etnici (sciiti, sunniti, maroniti, altri cristiani, drusi e altri) in Libano contro Israele. È vero il contrario, dicono.
Le ambulanze cristiane (Croce Rossa) portano i membri di Hezbollah e i terroristi feriti negli ospedali. Il video mostra una chiesa, cioè i membri della milizia terroristica sciita vengono curati nei quartieri cristiani del Libano.
Nella Bibbia, ci sono diverse guerre che i figli di Israele hanno vinto con l'astuzia. Ma anche altri hanno superato Israele, come i Gabaoniti. Gli esempi che seguono mostrano che l'astuzia e la tattica erano spesso elementi importanti nelle guerre degli israeliti nella Bibbia.
La conquista di Ai. (Giosuè 8) Dopo che gli israeliti furono inizialmente sconfitti nel loro primo attacco ad Ai, Giosuè escogitò uno stratagemma per conquistare la città. Preparò un'imboscata nascondendo alcune delle sue truppe mentre attaccava direttamente la città con un altro gruppo. Quando gli uomini di Ai uscirono per inseguire gli israeliti, finsero di fuggire. Mentre le truppe di Ai inseguivano gli Israeliti, la forza nascosta entrò in città, la catturò e la mise a ferro e fuoco. I soldati di Ai furono presi dal panico e alla fine furono sconfitti dagli israeliti.
La conquista di Gerico. (Giosuè 6) La conquista di Gerico da parte degli israeliti potrebbe anche essere vista come una vittoria per astuzia divinamente ispirata. Per ordine di Dio, essi marciarono intorno alla città per sette giorni, finché il settimo giorno le mura crollarono a causa degli squilli di tromba e delle forti grida del popolo. Questa tattica insolita portò alla conquista della città pesantemente fortificata.
La vittoria di Gedeone sui Madianiti. (Giudici 7) Gedeone vinse la guerra contro i Madianiti con soli 300 uomini utilizzando una tattica astuta. I suoi uomini suonarono trombe, ruppero vasi di argilla e alzarono torce per confondere il nemico e fingere un esercito molto più numeroso. Ciò provocò il caos nell'accampamento madianita, che fu preso dal panico e si attaccò a vicenda.
Il trucco dei Gabaoniti contro Giosuè e Israele. (Giosuè 9) Anche se non si tratta di una guerra diretta, l'inganno dei Gabaoniti appartiene alla stessa categoria. Quando i Gabaoniti vennero a sapere che Giosuè e gli Israeliti stavano entrando nella terra di Canaan, finsero di venire da una terra lontana. Indossarono abiti logori e si finsero viaggiatori pacifici per concludere un trattato di pace con gli israeliti. Giosuè e gli Israeliti caddero in questo stratagemma e risparmiarono i Gabaoniti.
CONCLUSIONE: I dispositivi di chiamata esplosi hanno neutralizzato la capacità delle milizie terroristiche sciite di condurre un'operazione su larga scala contro Israele, consentendo un'opportunità senza precedenti per un attacco israeliano pianificato e ad ampio raggio.
La situazione in cui si trova attualmente Hezbollah è un'opportunità storica per Israele di sconfiggere la milizia terroristica in Libano. Tuttavia, è probabile che gli Stati Uniti impediscano a Israele di farlo.

(Israel Heute, 18 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Israele ha una lunga storia di attacchi non convenzionali

Bombe piazzate nei telefoni, virus informatici, mitragliatrici comandate a chilometri di distanza: l'attacco con i cercapersone di Hezbollah ha molti precedenti.

L’operazione in cui si ritiene che Israele abbia fatto esplodere migliaia di cercapersone appartenenti a membri del gruppo radicale libanese Hezbollah è senza precedenti per ambizione e per l’eccezionale numero di persone colpite. Al tempo stesso si inserisce in una lunga storia di operazioni a distanza con esplosivi nascosti, azioni tecnologicamente avanzate e uccisioni mirate con cui Israele ha da sempre colpito i propri nemici, e che hanno contribuito a rendere il Mossad, l’intelligence esterna israeliana, una delle agenzie di spionaggio più temute del mondo.
Una delle operazioni più note messe in atto dal Mossad avvenne nel 1972 a Parigi contro Mahmoud Hamshari, il rappresentante dell’OLP (l’allora Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidata da Yasser Arafat). Agenti dell’intelligence israeliana piazzarono un esplosivo nella base di marmo del telefono fisso di casa sua, e quando Hamshari alzò la cornetta per fare una telefonata lo attivarono a distanza. Hamshari fu ferito gravemente, e morì in ospedale il giorno dopo: fu uno dei leader dell’OLP uccisi dopo l’attacco palestinese contro gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco di quell’anno.
Un altro caso, forse più noto, è quello di Yahya Ayyash, un famoso miliziano di Hamas soprannominato “l’ingegnere” per la sua bravura nel fabbricare bombe. Nel 1996 Ayyash si trovava nella Striscia di Gaza quando lo Shin Bet (l’intelligence interna israeliana) convinse con promesse e minacce un suo conoscente a consegnargli un telefono cellulare Motorola. Al conoscente era stato detto che dentro al telefono c’era una ricetrasmittente con cui lo Shin Bet avrebbe tenuto sotto controllo le comunicazioni di Ayyash. Invece nel telefono c’era una potente carica esplosiva: appena gli agenti israeliani ebbero conferma che Ayyash era al telefono (con suo padre), fecero partire l’esplosione, uccidendolo.

Più in generale, soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta, l’intelligence israeliana face un notevole utilizzo di pacchi esplosivi. Era un periodo in cui la leadership dell’OLP si trovava in clandestinità ed era sparsa in vari paesi del mondo, ed era relativamente frequente che leader e miliziani ricevessero nelle loro abitazioni lettere e pacchi con esplosivi all’interno, pensati per attivarsi all’apertura. A volte l’intelligence israeliana nascondeva esplosivi in oggetti innocui come libri; altre volte piazzava esplosivi in elettrodomestici casalinghi come radio e televisori, che si attivavano all’accensione. Un altro strumento molto utilizzato sono sempre state le autobombe, come quella che uccise nel 2008 Imad Mughniyeh, uno dei più importanti comandanti di Hezbollah.
Questo tipo di tattiche era usato anche dai miliziani palestinesi, che hanno messo in atto negli anni numerosi attacchi esplosivi contro israeliani.
Anche la recentissima uccisione a Teheran di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, potrebbe ricadere nella categoria delle operazioni di questo tipo: secondo alcune ricostruzioni (smentite però dall’Iran) Israele aveva piazzato una bomba nella camera di hotel di Haniyeh con mesi di anticipo, e poi l’aveva fatta esplodere quando aveva avuto conferma che il leader palestinese vi si trovava dentro.
Oltre agli esplosivi, l’intelligence israeliana ha utilizzato numerosi altri metodi inusuali per mettere in atto uccisioni e operazioni comandate a distanza.
Uno dei casi più noti ed eccezionali è stato quello di Mohsen Fakhrizadeh, uno dei più importanti scienziati nucleari iraniani, che Israele e gli Stati Uniti consideravano la mente dietro ai piani dell’Iran di sviluppare un’arma nucleare. Fakhrizadeh fu ucciso nel 2020 in Iran da una mitragliatrice comandata da più di 1.600 chilometri di distanza. La mitragliatrice, montata su un pick-up, era stata fatta entrare in Iran da alcuni collaboratori, e piazzata al bordo di una strada in cui si sapeva che Fakhrizadeh sarebbe passato. Quando l’auto di Fakhrizadeh si è avvicinata la mitragliatrice, comandata a distanza per via satellitare e aiutata da un software che migliorava la precisione dei colpi, ha cominciato a sparare, uccidendolo.
Un altro attacco celebre contro il programma nucleare iraniano è quello di Stuxnet, un virus informatico che nel 2011 si diffuse nei sistemi digitali iraniani fino a raggiungere i computer che governavano le centrifughe nucleari del sito di ricerca di Natanz (le centrifughe sono macchinari necessari per l’arricchimento dell’uranio). A quel punto il virus attaccò i sistemi, facendo girare fuori controllo le centrifughe nucleari fino a renderle del tutto inutilizzabili. Ancora oggi quello di Stuxnet è considerato uno degli attacchi informatici più efficaci della storia.

(il Post, 18 settembre 2024)

........................................................


7 ottobre – Il riservista Mulla racconta la sua guerra a Gaza

FOTO
«L’attacco contro il mio battaglione è sempre nei miei pensieri. Ho perso un amico quel giorno, diversi miei soldati sono rimasti feriti. Io stesso sono stato ferito in modo grave e la mia vita è cambiata per sempre. Non mi guardo indietro per autocommiserarmi, ma per ricordarmi che sono vivo e posso ancora dare il mio contributo», racconta a Pagine Ebraiche Maayan Mulla, riservista dell’esercito israeliano, ferito lo scorso 12 dicembre a Gaza. «Era la sesta sera di Hanukkah. I terroristi di Hamas ci hanno teso un’imboscata, attaccandoci con un lanciarazzi». Mulla ricorda l’esplosione e la palla di fuoco che lo ha investito. Ospite della Comunità ebraica di Milano, racconterà questa sera la sua esperienza.
  Con l’adrenalina in corpo e ignaro dell’entità delle sue ferite, subito dopo l’attacco era riuscito a fatica a dare assistenza a un commilitone ferito. «Sono riuscito a raggiungerlo strisciando vicino a lui. Per 30 secondi ho risposto al fuoco nemico da solo. Non potevo usare la mia radio perché era danneggiata». Quando una squadra di soccorso è riuscita a raggiungere Mulla, il team medico si è accorto dell’entità delle sue ferite: aveva oltre 100 pezzi di schegge conficcate nel corpo. «Sono stato portato d’urgenza con l’elicottero in ospedale. Ho subito un danno neurologico e per mesi sono rimasto in ospedale». Quando è stato dimesso ha deciso di raccontare la propria esperienza in Israele e all’estero. «Penso sia importante far capire quanto in questo momento il popolo ebraico debba rimanere unito. Il conflitto in corso non è solo una guerra d’Israele, ma è una guerra del mondo ebraico per difendere il suo diritto ad avere un paese sicuro. Io da otto anni vivo in India, ma il 7 ottobre sono tornato subito per dare il mio contributo nella lotta al terrorismo».

(moked, 18 settembre 2024)

........................................................


Netanyahu ha un nuovo obiettivo nella guerra contro Hamas

Permettere ai cittadini sfollati dal nord a causa degli attacchi di Hezbollah di rientrare nelle loro case al confine con il Libano.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha aggiunto un nuovo obiettivo nella guerra in corso contro Hamas, ovvero permettere ai cittadini sfollati dal nord a causa degli attacchi di Hezbollah di rientrare nelle loro case al confine con il Libano. Lo rende noto l'ufficio di Netanyahu. Finora i tre obiettivi che si era posto il premier israeliano erano sconfiggere Hamas militarmente e politicamente, far sì che la Striscia di Gaza non rappresentasse più una minaccia per Israele e riportare a casa gli ostaggi ancora trattenuti nell'enclave palestinese.
  "Il ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case" è stato ora aggiunto come quarto obiettivo della guerra, ha affermato l'ufficio del Primo Ministro in una nota. "Israele continuerà ad agire per raggiungere questo obiettivo", si legge nella nota rilasciata dopo una riunione a tarda notte del gabinetto di sicurezza a Tel Aviv. Gli sfollati del nord sono in gran parte ospitati in hotel pagati dallo stato ebraico.

• Blinken in Egitto, no tappa in Israele mentre cerca accordo su ostaggi
   Intanto visita oggi in Egitto per il segretario di Stato americano Antony Blinken, che nel suo nuovo tour nella regione questa volta non farà tappa in Israele. E' la prima volta che evita di recarsi nello Stato ebraico dal massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre dello scorso anno, l'ultima volta che visitò Israele fu ad agosto per fare pressione su Benjamin Netanyahu perché accettasse i termini dell'accordo. Obiettivo nella missione è sempre quello di cercare di arrivare a un accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi, obiettivo che sembra sempre più difficile prima della scadenza dell'Amministrazione Biden.
  Il Dipartimento di Stato ha affermato in una nota che Blinken "incontrerà i funzionari egiziani per discutere degli sforzi in corso per raggiungere un cessate il fuoco a Gaza che garantisca il rilascio di tutti gli ostaggi, allevi le sofferenze del popolo palestinese e aiuti a stabilire una più ampia sicurezza regionale". Sarà anche "co-presidente dell'apertura del dialogo strategico Usa-Egitto con il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty", ha affermato la nota, sottolineando che il "dialogo strategico mira a rafforzare le relazioni bilaterali e ad approfondire lo sviluppo economico, nonché ad aumentare i legami tra le persone attraverso la cultura e l'istruzione".

• Idf: "Ucciso comandante Jihad islamica in raid a Khan Younis"
   Sul fronte della cronaca, un comandante della Jihad islamica palestinese è stato ucciso in un attacco con drone israeliano nella Striscia di Gaza meridionale. Lo ha reso noto l'Idf, precisando che Ahmed Ayesh Salama al-Hashash, che comandava l'unità missilistica della Jihad islamica a Rafah, è stato ucciso nell'attacco di ieri nella zona umanitaria designata da Israele nell'area di Khan Younis.
  Mentre è di quattro morti il bilancio del bombardamento israeliano di un'abitazione nel campo profughi di Bureij, nella Striscia di Gaza centrale, ha reso noto la protezione civile dell'enclave, aggiungendo che decine di persone sono ancora intrappolate sotto le macerie dell'edificio crollato.

(ANSA, 17 settembre 2024)

........................................................


Israele a un passo dalla guerra totale contro Hezbollah

Se sarà guerra totale, quella tra Israele e Hezbollah, sarà una guerra sanguinosa. 

di Franco Londei

Ieri sera il gabinetto di guerra israeliano ha aggiunto un nuovo significativo obiettivo alla guerra, quello del ritorno alle loro case degli sfollati al nord costretti a lasciare città e kibbutz a causa degli attacchi di Hezbollah.
  Detta così sembra una cosa da niente, ma non lo è. Anzi, è una cosa enorme perché per far rientrare alle loro case gli sfollati del nord occorre ricacciare Hezbollah oltre la linea blu decisa dalla risoluzione 1701 delle Nazioni Unite la quale prevede una zona smilitarizzata che va da fiume Litani al confine con Israele. Risoluzione del tutto disattesa da Hezbollah che invece occupa stabilmente quel tratto di terra da dove dal giorno successivo al massacro del 7 ottobre ogni giorno lancia missili contro Israele.
  In realtà non spetterebbe a Israele far rispettare la risoluzione 1701, spetterebbe alla missione UNIFIL la quale avrebbe dovuto vigilare affinché Hezbollah non entrasse nella zona smilitarizzata, meno che meno con armi e missili.
  Purtroppo, checché ne dicano le cornacchie dell’ONU, UNIFIL ha fallito miseramente nella sua missione di mantenimento della pace, perché non si mantiene la pace permettendo ad un gruppo terrorista islamico di fare tutto ciò che vuole senza battere ciglio.
  E così si torna alla riunione del gabinetto di guerra di ieri sera e alla decisione di inserire negli obiettivi di guerra il ritorno alle loro case degli sfollati del nord.
  Per farlo Israele sembrerebbe orientato a creare una zona cuscinetto non si sa bene entro che confini, se cioè entro quelli stabiliti a suo tempo dalle Nazioni Unite con la risoluzione 1701, o se andare oltre il fiume Litani e risalire il Libano.
  Come dicevo non è affatto una cosa da niente. Significa entrare in Libano, significa intraprendere una guerra su larga scala con Hezbollah, cioè con l’esercito più forte e preparato del Medio Oriente dopo quello israeliano.
  Attenti, l’esercito israeliano non si scontrerà con l’esercito libanese, per altro addestrato e armato dagli americani, ma con Hezbollah, uno Stato nello Stato, un esercito indipendente meglio armato di quello nazionale.
  Voglio vedere quanti anti-israeliani avranno il coraggio di accusare Israele di aver invaso un altro Stato sovrano invece che accusare l’Iran di controllare il Libano attraverso Hezbollah. Voglio vedere quanti salteranno a piè pari il fatto che da 11 mesi Hezbollah spara ogni giorno missili contro Israele.
  Naturalmente non sono stato a spiegare che Hezbollah è controllato, armato, addestrato e finanziato dall’Iran e in particolare dai Guardiani della Rivoluzione Islamica e dalla loro Forza Quds. Credo che tutti lo sappiano.
  Tutto ciò detto, se sarà guerra totale sarà una guerra sanguinosa, molto diversa da quella che si combatte a Gaza contro Hamas. Gli Hezbollah si sono fatti il callo in Siria, sanno combattere, sono molto ben armati, hanno temibili razzi anticarro, missili antinave, almeno 150.000 tra razzi e missili, forse qualcosa di meno dopo l’ultima operazione preventiva israeliana. Ma sono davvero pericolosi.
  La scelta di Israele deve essere attentamente valutata. So che in tanti analisti, me compreso, giudicano “indispensabile” una operazione israeliana su larga scala in Libano. Forse lo è, non lo metto in dubbio. Ma è facile fare gli strateghi da una poltrona (mi ci metto pure io). Questa sarà una guerra totale, si andrà a sbattere contro un vero vespaio terrorista. Iran, Siria, Iraq, Yemen, saranno tutti coinvolti contro Israele. Forse chiudere prima il fronte con Hamas non sarebbe una cattiva idea.

(Rights Reporter, 17 settembre 2024)

........................................................


Rav Arbib: «Ebrei fra le nazioni o no?»

Gli ebrei fanno ancora parte della famiglia delle nazioni? È l’interrogativo con cui rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano, nella sinagoga di via Guastalla si è rivolto al pubblico della 25esima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Domenica mattina nel tempio si è celebrato un evento felice: un matrimonio. Per questo il rav ha parlato sotto una chuppah, il baldacchino matrimoniale della tradizione ebraica. «In una giornata dedicata alla famiglia è una coincidenza felice e di buon augurio», afferma il presidente della Comunità, Walker Meghnagi. Ma il suo messaggio, come quello di Arbib e del vicepresidente Ucei Milo Hasbani è amaro. «Oggi più che mai è importante celebrare la cultura ebraica, senza dimenticare che la nostra è una famiglia ferita dal 7 ottobre», ha affermato Meghnagi. Una ferita che tra un mese, a un anno di distanza dai massacri di Hamas, verrà ricordata in Israele e in tutto il mondo ebraico. «A voi, ai media, alle istituzioni chiediamo ancora una volta di ricordare l’origine di questa guerra, di ricordare la verità: tutto è iniziato con i crimini di Hamas», sottolinea Hasbani. Un appello alla solidarietà raccolto dalla presidente del Consiglio comunale di Milano, Elena Buscemi. «Questa giornata non è solo un’occasione di studio, ma anche un momento per ricordare come il 7 ottobre abbia gettato nel vuoto, nella disperazione, nel dolore migliaia di famiglie. Per riconoscere il coraggio di questi parenti che continuano a farsi sentire e manifestare».
  Proprio l’eccidio compiuto dai terroristi palestinesi ha riportato d’attualità l’interrogativo di Arbib. Il rav si è soffermato sul significato per l’ebraismo di essere diverso e allo stesso parte integrante della famiglia delle nazioni. Il punto di partenza sono le parole che Dio rivolge ad Abramo «Vai verso di te (lekh lekhà)». E subito dopo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra». Il primo è «un ordine ad Abramo a separarsi dalla propria famiglia, tradizione, cultura, terra», ha spiegato il rabbino capo. Con una separazione, aggiunge, «ha quindi inizio la storia ebraica». Una particolarità coltivata e difesa nel corso dei secoli dall’ebraismo. Una differenza, ha sottolineato il rav, che permette di dare seguito alla seconda parte del dettato di Dio ad Abramo, la benedizione. «Solo consapevoli della nostra identità, della nostra differenza possiamo essere utili al mondo. Come diceva rav Jonathan Sacks, bisogna prima separarsi per poi potersi unire».
  La separazione però nella storia ebraica non è stata solo volontaria. Anzi. Secoli di antisemitismo hanno segnato con violenza e dolore la vita di milioni di ebrei. «Alcuni elementi si sono riprodotti nel tempo: l’accusa di essere vendicativi, di complottare contro il mondo, di non essere mai uguali agli altri, di non avere empatia». Elementi di un odio antico, ha ricordato il rav, oggi ritornati d’attualità nell’ondata di antisemitismo post 7 ottobre. «Più volte ci siamo illusi che il pregiudizio fosse stato sconfitto. È un errore che non dobbiamo commettere ancora».
  A chiudere la domenica in sinagoga, un dialogo sulla famiglia Rothschild con lo storico ed economista britannico Niall Ferguson, la lezione di rav Roberto Colombo sul rispetto coniugale e il racconto di come si è evoluto oggi lo shidduch, il sistema ebraico per far incontrare e sposare le coppie.
  Il programma della Gece milanese prosegue lunedì con l’appuntamento organizzato dalla Fondazione Cdec al Memoriale della Shoah (ore 18.00) e intitolato “Scene di famiglia: la vita e i luoghi attraverso i filmati privati”. Nel corso della serata, il direttore del Cdec Gadi Luzzatto Voghera e Daniela Scala, responsabile dell’archivio fotografico, presenteranno una selezione di pellicole raccolte grazie al progetto “Mi ricordo – Raccolta nazionale di film di famiglia”, una campagna nazionale di raccolta, digitalizzazione e catalogazione dei filmati conservati dalle famiglie ebraiche italiane, avviata nel 2019 dalla Fondazione CDEC in collaborazione con l’Archivio Nazionale Cinema Impresa.

(moked, 16 settembre 2024)

........................................................


Nel 31° anniversario di Oslo, la sinistra deve rinunciare all'odio
IMPORTANTE!

Il problema della politica dell'odio è che l'odio è un'abitudine difficile da spezzare.

di Caroline Glick

Il 13 settembre 1993 è stato il giorno in cui la classe dirigente israeliana ha abbandonato il sionismo. Il giorno in cui l'allora primo ministro Yitzhak Rabin si presentò nel Giardino delle Rose della Casa Bianca e riconobbe ufficialmente l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina - tra gli applausi entusiasti dei suoi sostenitori in patria - fu il momento in cui l'élite israeliana rinunciò collettivamente all'attaccamento alla propria nazione.
L'OLP era molte cose. Era un'organizzazione terroristica. È stata l'architetto del terrorismo moderno, compresi i dirottamenti aerei, i rapimenti, l'assassinio di famiglie, l'uccisione di massa di bambini e l'assassinio di diplomatici.
L'OLP ha addestrato chiunque, dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche di Khomeini all'Armata Rossa giapponese, alla Banda Baader-Meinhof e alle Pantere Nere. Ha riunito terroristi di ogni provenienza ideologica e li ha forgiati in un conglomerato rivoluzionario unito dal desiderio di distruggere gli Stati Uniti, l'Occidente, gli ebrei e il loro Stato di Israele.
L'OLP era un gruppo di guerra politica. Ha portato l'odio genocida per gli ebrei nella sinistra radicale dell'Occidente. Ha usato i media per romanzare i barbari omicidi di massa e le brutali torture mentre li eseguiva.
Attraverso i suoi lacchè occidentali, l'OLP è riuscita a ristabilire l'odio per gli ebrei come strumento di mobilitazione politica e come forza culturale importante, appena 20 anni dopo l'Olocausto. Attraverso le sue operazioni di propaganda, l'OLP ha convinto giovani ignoranti con la coscienza sporca che i loro genitori nazisti erano in realtà vittime. Il sionismo è stato demonizzato come un nuovo nazismo, peggiore del primo. Nel 1975, 30 anni dopo la liberazione di Auschwitz, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 3374, che etichettava il sionismo come una forma di razzismo.
Il sionismo viene spesso definito come il movimento di liberazione nazionale ebraico. Anche questo è vero, ma questa definizione oscura più che illuminare. Il sionismo è semplicemente ebraismo.
L'ebraismo ha tre fondamenti: la Torah, la nazione di Israele e la terra di Israele. Ci sono stati secoli di campagne per convertire con la forza gli ebrei ad altre fedi, con tanto di roghi di massa di libri sacri con l'obiettivo di sradicare la Torah e distruggere gli ebrei distruggendo fisicamente i loro testi sacri e imprigionandoli spiritualmente attraverso la rinuncia forzata alla loro fede.
Le campagne di annientamento del popolo ebraico - attraverso il genocidio, le espulsioni di massa, il Codice napoleonico o i diktat comunisti che imponevano agli ebrei di abbandonare la loro fedeltà nazionale - miravano a distruggere fisicamente gli ebrei o a costringerli a rifiutare la rilevanza della propria identità.
Il sionismo ha preceduto sia la Torah che il popolo di Israele. L'ebraismo è iniziato nel momento in cui Dio disse ad Abramo di lasciare la terra dei suoi padri e di trasferirsi nella terra d'Israele, dove sarebbe diventato una nazione organizzata secondo le leggi prescritte da Dio. La nazione ebraica è nata nella terra d'Israele. E lì è nata la fede di Israele. Né la legge né la nazione hanno alcun significato senza la terra d'Israele.
E questo è il punto: ognuno dei tre fondamenti degli ebrei è inseparabile dagli altri.
L'OLP ha avuto tre fondatori: Yasser Arafat, il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e il KGB. Per Arafat, l'OLP era un mezzo per ereditare l'eredità del fondatore del nazionalismo palestinese, l'agente nazista Haj Amin el Husseini. Husseini era il leader della moderna jihad contro gli ebrei e gli inglesi in tutto il mondo arabo. Usò l'antisemitismo come mezzo per convincere gli inglesi e altri a sostenere i suoi sforzi contro gli ebrei, mentre dirigeva i suoi seguaci a fare la guerra contro la Gran Bretagna.
Con l'aiuto dei suoi sponsor sovietici, Arafat ha condotto un'operazione politica simile tra i radicali occidentali. Come Husseini, Arafat cercò di consolidare il sostegno panarabo per la distruzione di Israele nel lungo periodo.
L'OLP servì gli obiettivi di Nasser in due modi. Quando fondò il gruppo terroristico nel 1964, Nasser pensava che esso avrebbe consolidato la sua posizione di leader indiscusso del mondo arabo. Dopo la sua schiacciante sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni, tre anni dopo, vide l'OLP come un proxy che doveva servire come avanguardia della guerra panaraba per distruggere Israele e tenerlo nei titoli dei giornali mentre gli arabi ricostruivano le loro forze e si organizzavano per un nuovo round di guerra.
Per i sovietici, l'OLP era un mezzo per minare la sensibilità morale dell'Occidente guidato dagli Stati Uniti. Lo Stato ebraico era il fondamento paradigmatico dello Stato nazionale occidentale. I padri fondatori degli Stati Uniti cercarono di stabilire una nuova Gerusalemme nel Nuovo Mondo, basata sulla legge di Dio e sulla fede nella fallibilità intrinseca dell'uomo.
L'OLP, che sosteneva che Israele fosse un avamposto razzista e colonialista, era uno strumento per delegittimare Israele e, per estensione, gli Stati Uniti e il mondo occidentale. Se Israele era nato nel peccato, allora la Bibbia era una menzogna e gli stessi Stati Uniti erano stati fondati sulla convinzione immorale di una supremazia razzista ed europea.
Per quanto riguarda Israele, il duplice terrorismo e guerra politica dell'OLP mirava alla balcanizzazione della società israeliana. I surrogati e i simpatizzanti dell'OLP corteggiavano avidamente prima gli ebrei americani di sinistra e poi gli attivisti israeliani di sinistra per allontanarli dalla stragrande maggioranza degli ebrei americani e israeliani che riconoscevano l'insidiosità delle azioni politiche dell'OLP e la pura malvagità del suo terrorismo. L'idea era di convincerli che la “pace” avrebbe prevalso se Israele avesse semplicemente accettato la legittimità dell'OLP.
Questi attivisti, a loro volta, lanciarono campagne nella comunità ebraica americana e in Israele per demonizzare gli israeliani che rifiutavano l'OLP come guerrafondai atavici. Col tempo, i loro sforzi sono stati ripagati. Quando la destra israeliana salì al potere per la prima volta nel 1977 con il sostegno degli israeliani religiosi e della classe operaia, prevalentemente sefardita, la legittimazione dell'OLP divenne sempre più un mezzo per unire la sinistra in un'opposizione coesa e in una classe sociale.
Data la natura, l'obiettivo e il modus operandi dell'OLP, riconoscere la legittimità dell'OLP al suo inizio significava rifiutare la legittimità del sionismo o dello Stato degli ebrei. Per gli israeliani e gli ebrei della diaspora, ciò significava attivismo sociale e politico volto a legittimare l'odio verso le comunità israeliane i cui membri rifiutavano di indebolire i loro legami con l'ebraismo. Questo vale sia per l'ebraismo tradizionale degli ebrei sefarditi, sia per l'ultraortodossia degli Haredim, sia per l'attaccamento della comunità religiosa nazionale israeliana alla terra d'Israele, in particolare alla Giudea e alla Samaria.
La decisione di Rabin di riconoscere la legittimità dell'OLP alla Casa Bianca, il 13 settembre 1993, ha fatto di questo atteggiamento odioso e antiebraico nei confronti del popolo di Israele e della sua identità nazionale la strategia nazionale del governo israeliano.
Tuttavia, essa è completamente fallita.
È fallita completamente per due motivi. In primo luogo, l'obiettivo dell'OLP non è mai stato la pace. È sempre stato la distruzione di Israele - di tutto Israele. Pertanto, non ha mai potuto essere un vero partner per nessun israeliano, per quanto di sinistra, che non fosse convinto che Israele dovesse scomparire completamente. E anche loro hanno avuto un problema. Perché si scoprì che l'OLP era solo una droga di passaggio per Hamas, che non voleva nemmeno fare la distinzione tra ebrei post-sionisti e sionisti.
La seconda ragione del fallimento è che la narrazione della criminalità e dell'immoralità di Israele non è mai stata vera e la maggior parte degli israeliani non ci ha mai creduto. La maggior parte degli israeliani non ha mai accettato la distinzione tra ebrei “buoni” e “cattivi”. Non hanno mai accettato che ci sia qualcosa di moralmente riprovevole nel sionismo, nella Torah o nel popolo israeliano. Per quanto la sinistra ci abbia provato, non è mai riuscita a far accettare alla maggioranza degli israeliani il principio fondamentale che guida le sue politiche e le sue azioni.
Certo, gli israeliani vogliono la pace. Ma non credono di essere il motivo per cui lo Stato ebraico e il popolo ebraico non hanno ottenuto la pace. Si rifiutano di incolpare se stessi per l'aggressione e l'odio contro il loro popolo e il loro Paese.
Il problema della politica dell'odio è che l'odio è un'abitudine difficile da spezzare. Se siete stati condizionati a credere che il vostro futuro dipenda dalla sconfitta dell'oggetto del vostro odio, potete cambiare idea solo se smettete di odiare. Dal 1993, l'OLP ha dimostrato più volte di essere il nemico di Israele e non il suo partner di pace. Ma accettare la verità significava accettare che la sinistra aveva portato il Paese al disastro e che gli oggetti del loro odio - gli ebrei che si rifiutavano di rinunciare a qualsiasi aspetto della loro identità - avevano sempre avuto ragione.
In altre parole, l'accettazione del fallimento imponeva loro di ridefinire la propria identità di classe o di abbandonarla. La sinistra scelse di reinventarsi. Ha abbracciato il concetto di “Start-Up Nation” per garantire il proprio potere economico e culturale, prendendo le distanze dal resto della società. Impadronendosi del nuovo elisir dell'alta tecnologia, la sinistra è entrata a far parte dell'élite globale con le sue capitali a Davos e nella Silicon Valley.
Ma per entrare nel regno della nuova élite globalista bisogna pagare. I padroni si battono per una forma di governo post-nazionalista e internazionalista. Le loro radici ideologiche non sono nel capitalismo americano. Piuttosto, i leader della nuova classe dirigente globale, educati nelle università d'élite radicate nell'anti-occidentalismo sovietico, sono post-nazionalisti e sottoscrivono la visione sovietica secondo cui il sionismo, l'apoteosi delle aspirazioni nazionaliste, è illegittimo. Per entrare nel loro club, i titani della tecnologia israeliana hanno dovuto rinnegare la loro fedeltà ai loro compatrioti “coloni violenti” e “ultraortodossi”.
In altre parole, anche quando hanno cercato di sfuggire all'elisir dell'OLP che ha portato alla catastrofe dello Stato del terrore palestinese nel cuore di Israele, si sono trovati di fronte alla stessa scelta.
Ha funzionato, più o meno, fino al 7 ottobre. Quel giorno sono accadute due cose. In primo luogo, i terroristi palestinesi, con i loro parapendii, i loro pick-up Toyota, i loro bazooka e la loro sadica sete di sangue, hanno fatto esplodere il mito che la tecnologia libererà Israele dalla necessità di difendersi con i fratelli che la sinistra sperava disperatamente di abbandonare. Tutte le applicazioni militari della Start-Up Nation - i sensori ad alta tecnologia, i segnali di intelligence, i recinti intelligenti, l'aviazione - hanno fallito completamente il 7 ottobre. L'unica cosa che ha funzionato quel giorno è stato l'eroismo e il patriottismo sfrenato dei civili e delle forze di sicurezza ebraiche che si sono precipitati a sud, senza alcun preavviso, per salvare le famiglie e le comunità che venivano invase.
La seconda cosa che accadde fu che il jet set internazionale, l'élite globale, abbandonò ogni distinzione tra ebrei “buoni” e “cattivi”. Le foto degli ostaggi di Be'eri e di Kfar Azza sono state oggetto dello stesso odio che per lungo tempo era stato rivolto solo ai “coloni violenti” o agli “ebrei identificabili”. I detrattori degli ebrei universitari non hanno più sentito il bisogno di fingere che alcuni israeliani fossero accettabili.
Negli ultimi 11 mesi, i membri del settore post-sionista hanno lottato per venire a patti con la frantumazione delle loro illusioni. I loro leader stanno cercando di consolidare la loro posizione. Ma la loro insistenza sul fatto che i problemi risiedano nel Primo Ministro Benjamin Netanyahu, negli Haredim, nei coloni messianici o negli imbecilli che scoppiano in lacrime alle canzoni su Am Yisrael trova sempre meno sostenitori. Ogni protesta si spegne dopo pochi giorni. L'emozione non c'è più. Senza le foglie di fico della “pace” o della “Start Up Nation” dietro cui nascondersi, l'odio è tutto ciò che rimane.
Trentuno anni dopo aver abbracciato l'OLP e l'odio, la sinistra deve finalmente abbandonarlo. La sopravvivenza di Israele dipende da questo.

(Israel Heute, 17 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Antica Torà venduta all’asta per 6,9 milioni di dollari

di Michelle Zarfati

FOTO
L’antica Torà di Shem Tov, risalente a 700 anni fa e acquistata nel 1994 dal banchiere Jacob (Jacqui) Safra per 825.000 dollari, è stata venduta all’asta da Sotheby’s la scorsa settimana a New York, dopo una fitto rilancio di offerte tra tre acquirenti anonimi. Il prezioso testo è stato venduto per 6,9 milioni di dollari. La Bibbia, nota come “Tanach Shem Tov” fu scritta nel Regno di Castiglia (nell’attuale Spagna) intorno all’anno 1312, ed è considerata una delle versioni più accurate della Bibbia ebraica scritta a mano.
  Il testo, scritto da Rabbi Shem Tov ben Avraham Ibn Gaon, ha intrapreso un viaggio intorno al mondo che è iniziato nel Regno di Castiglia ed è proseguito in Medio Oriente, Africa, Europa e Safed, dove è stato acquistato da un ricco uomo di Baghdad. Il manoscritto è sempre stato conservato dalle famiglie nobili della comunità ebraica locale. Uno dei suoi proprietari in passato fu il famoso collezionista David Solomon Sassoon, che lo acquistò nel 1909. Dopo la sua morte, questa Torà fu venduta per la prima volta da Sotheby’s a New York. La famiglia Safra ha acquistato il libro nel 1994, aggiungendolo così alla loro collezione di manoscritti storici ebraici, che comprende anche il Codice Sassoon che è stato venduto nel maggio 2023 per 38,1 milioni di dollari, diventando il manoscritto ebraico più costoso mai venduto.
  Durante l’ultima asta, la concorrenza per aggiudicarsi questa Torà è stata particolarmente agguerrita. Secondo i presenti, hanno partecipato telefonicamente almeno tre acquirenti. Infine, la Bibbia è stata venduta per un totale di 6,9 milioni di dollari, comprese le commissioni, ad un acquirente anonimo. La famiglia Safra, una delle più importanti famiglie di banchieri al mondo, è originaria della Siria ha avuto fortuna in Libano, con l’apertura della prima banca da parte di Jacob Safra nel 1920 a Beirut. La famiglia è oggi nota per i suoi investimenti globali.
  La Bibbia di Shem Tov non è solo un bene finanziario, ma anche un elemento culturale e storico di enorme importanza. Fu scritto durante l’età d’oro della Spagna, quando ebrei, musulmani e cristiani vivevano fianco a fianco in una cooperazione culturale relativamente insolita, e questo elemento è evidente nel suo complesso lavoro di progettazione, che combina stili artistici di tutte le religioni monoteistiche.
  L’autore non era impegnato solo in manoscritti ebraici, mezuzot e tefillin, ma era un vero e proprio artista. Le sue pagine sono piene di illustrazioni e simboli appartenenti al mondo della flora e della fauna, motivi architettonici come gli archi a ferro di cavallo (che rivelano una chiara influenza musulmana), e persino immagini mistiche come il serpente Ouroboros (il serpente che si mangia la coda). Gli esperti spiegano che si tratta di un’opera artistica rara, in quanto le illustrazioni sono direttamente correlate al testo scritto, il che indicherebbe che lo stesso Ibn Gaon potrebbe essere stato l’illustratore del testo.
  Nel corso degli anni, il documento passò attraverso importanti collezioni fino ad arrivare nelle mani di Safra. In precedenza, è stato esposto in prestigiose mostre in tutto il mondo, tra cui Amsterdam, Berlino e New York.

(Shalom, 16 settembre 2024)

........................................................


Israele nel mirino: Hezbollah spara, razzo dallo Yemen

di David Zebuloni

A meno di un mese dall’anniversario del 7 ottobre, data in cui i terroristi di Hamas hanno invaso il sud di Israele per commettere un vero e proprio pogrom, la tensione in Medio Oriente pare alle stelle. Dopo innumerevoli attacchi missilistici di Hezbollah sulle alture del Golan e con decine di migliaia di sfollati israeliani che non possono tornare nelle loro case a causa dell’offensiva terroristica, la scorsa notte Benjamin Netanyahu ha dato il via libera per un’operazione militare in Libano. Non prima di aver subito l’ennesima aggressione: 55 missili lanciati su Tiberiade.
  Così, secondo fonti libanesi, lo Stato ebraico ha bombardato due villaggi a circa 150 e 80 km dal confine. Secondo fonti saudite, invece, i due obiettivi in questione sono stati attaccati insieme ad altre nove località diverse, tutte nel giro di un’ora. L’Idf ha confermato di aver colpito i depositi militari di Hezbollah, sia nella valle della Bekaa che nel distretto di Baalbek. «La situazione non può continuare così», ha dichiarato il premier israeliano, facendo poi intendere di essere pronto ad ampliare il conflitto così da neutralizzare Hezbollah. «Dobbiamo ridefinire gli equilibri al confine, per permettere ai nostri cittadini di tornare a vivere nelle loro case. Ciò non sarà possibile senza un intervento militare di larga scala», ha aggiunto. La riunione di gabinetto volta a discutere la faccenda, tuttavia, è stata rimandata a lunedì prossimo.
  Secondo alcuni esperti coinvolti nella mediazione tra i due Paesi, l’eventualità di trovare una soluzione diplomatica al conflitto nel nord è quasi inesistente. «Quali sono le probabilità che Nasrallah accetti di rinunciare alla propria offensiva armata? È un sogno utopico che non si realizzerà mai», hanno spiegato. Nonostante ciò, entrambi gli armamenti sembrano indugiare. Giocano a braccio di ferro e a nascondino contemporaneamente.
  Colpiscono in modo tale da tenere acceso il conflitto, ma non da far scoppiare una vera e propria guerra. Diversa è la situazione a sud, a Gaza, dove la guerra contro il terrorismo continua imperterrita.
  Il portavoce dell’Idf ha informato ieri che gli aerei da combattimento dell’aeronautica militare israeliana hanno attaccato in modo mirato, e sotto la guida dell’intelligence dello Shin Bet, un complesso di comando e controllo dell’organizzazione terroristica. Hamas si era insediato nell’edificio precedentemente utilizzato come scuola, rendendolo una vera e propria base militare a fini bellici. Il complesso è stato utilizzato dai terroristi come luogo in cui nascondersi e prepararsi al fuoco dell'IDF, per poi rispondere al fuoco in modo indisturbato, sotto copertura, fingendo di rifugiarsi in un innocuo luogo di studio.
  «Prima dell'attacco, sono state adottate molte misure per ridurre la possibilità di danneggiare i civili, compreso l'uso di armi di precisione, osservazioni aeree e ulteriori informazioni di intelligence», ha precisato il portavoce per poi concludere: «Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale, sfruttando brutalmente le istituzioni civili e la popolazione come scudi umani per i loro fini terroristici. L’Idf continuerà ad agire con forza e determinazione contro tutte le organizzazioni terroristiche che minacciano la sua esistenza».
  Intanto, mentre il conflitto si fa sempre più duro, tre ostaggi israeliani sono stati dichiarati morti ieri mattina: Ron Sherman, 19 anni, Nik Beizer, 19 anni, Elia Toledano, 28 anni.
  Oltre a loro, altri 97 ostaggi innocenti sono tenuti ancora in cattività, nei tunnel dei terrore di Hamas a Gaza. Il loro rilascio incondizionato, probabilmente, definirebbe la fine della guerra.

Libero, 16 settembre 2024)

........................................................


Yahya Sinwar, il genio del male

Il leader di Hamas conosce gli israeliani meglio di quanto loro conoscano sé stessi

Sinwar ha trovato l’arma con cui sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei loro connazionali. Invita gli ebrei a uccidere il suo popolo. "Ho visto il video di Eden prima che fosse uccisa: lo facciamo perché siete figli di maiali - è il messaggio di Hamas - godiamo del dolore che vi causiamo."

Nel 2011, dopo cinque anni di negoziati, un soldato israeliano tenuto prigioniero da Hamas è stato scambiato con mille prigionieri palestinesi, compresi i peggiori terroristi” scrive il romanziere olandese Leon de Winter sulla Neue Zürcher Zeitung. “Uno di loro era l’attuale leader di Hamas, Yahya Sinwar. Durante la prigionia studiò gli ebrei e li conobbe meglio di quanto loro stessi conoscessero sé stessi. Gli israeliani lo rilasciarono, un criminale responsabile di innumerevoli omicidi, perché quell’unico soldato era al centro dell’immagine che gli ebrei avevano di sé. Un migliaio di potenziali terroristi furono rilasciati in un colpo solo. Non ci sono regole per i nemici di Israele. Riguarda la distruzione di Israele, indipendentemente dai metodi, dalle morti, dal dolore. L’Islam è permeato dall’idea di una guerra permanente contro gli infedeli, e gli ebrei sono un ostacolo in quella guerra, che sarà eliminato con perseveranza e sufficiente spargimento di sangue, poiché ogni ostacolo è stato eliminato nella storia dell’Islam. E’ solo questione di tempo e di generazioni di credenti che dovranno essere sacrificate prima che gli ebrei vengano sottomessi ed espulsi.
   Sinwar ha trovato l’arma con cui può sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei suoi stessi connazionali. Invita gli ebrei a uccidere il suo popolo, e gli israeliani non possono sottrarsi a questo nella loro lotta contro Hamas, poiché il movimento terroristico si nasconde dietro le spalle della popolazione di Gaza.
   Quando ci sono morti civili, il mondo incolpa Israele, non Sinwar e la sua cricca di assassini. Sa come reagisce il mondo alle morti causate dagli ebrei. E gli ebrei prendono sul serio queste accuse. Sviluppano metodi di combattimento per ridurre al minimo il rischio di vittime civili nella Striscia di Gaza proteggendo i terroristi, ma nel caos della guerra si verificano ancora innumerevoli morti civili. Sinwar, d’altro canto, non si preoccupa di risparmiare il più possibile i civili israeliani. I suoi uomini uccidono senza pietà e sanno di essere in armonia con la loro gente, la loro cultura e le loro tradizioni. Perché gli ebrei non sono solo i loro nemici, ma anche i nemici del loro profeta, e lui stesso ha ordinato l’assassinio delle tribù ebraiche, come dicono i resoconti islamici. Di conseguenza, nei territori palestinesi non esiste un ampio dibattito sociale sulla possibilità che una società civile possa tollerare l’omi-cidio, lo stupro, la mutilazione e la decapitazione. Internet è pieno di leader religiosi che definiscono le circostanze legali in base alle quali lo stupro è consentito. Nella tradizione islamica è un mezzo consentito per instillare la paura nei non credenti.
   Mentre viveva in una prigione israeliana, a Yahya Sinwar è stato diagnosticato un tumore al cervello. Da detenuto aveva dei diritti e ha subito un intervento chirurgico. E gli è venuto in mente che quando un prigioniero ha diritto a un’operazione costosa, possibile solo grazie alle tasse pagate dagli israeliani, grazie alle loro conoscenze scientifiche, grazie al loro impegno a onorare e proteggere ogni vita, anche quella di un assassino che odiava gli ebrei come lui, allora gli ebrei erano perduti. Allo stesso tempo, l’operazione con cui gli ebrei gli salvarono la vita fu l’umiliazione più profonda che potesse essergli inflitta. Ma era anche euforico. Aveva riconosciuto la debolezza degli ebrei, i quali credevano che la salvezza di una vita fosse la salvezza di tutta l’umanità. Sinwar sapeva che un’idea del genere era uno scherzo in medio oriente. Gli ebrei non potevano immaginare che egli disprezzasse i suoi salvatori in ogni senso: personale, culturale, religioso. E sebbene potessero immaginarlo, gli ebrei non erano nella posizione di lasciarlo morire. L’unico soldato scambiato con mille prigionieri palestinesi nel 2011 è stato rapito in un attacco dalla cosiddetta Striscia di Gaza libera nel 2006. Nel 2005 Israele se ne era completamente ritirato. Non c’erano più ebrei lì. Ma il 25 giugno 2006, un gruppo di terroristi emerse da un tunnel lungo 300 metri che avevano scavato al valico di frontiera di Kerem Shalom. Il loro attacco a sorpresa ha provocato la morte di diversi soldati israeliani e la cattura del caporale Gilad Shalit. Non un uomo famoso. Non uno scienziato degno di nota. Solo un giovane ebreo. Il prezzo per la sua liberazione fu di 1.027 prigionieri responsabili della morte di 569 israeliani. Per persone come Sinwar, questa fu la prova finale della debolezza degli ebrei. Nessun leader di un paese islamico sarebbe disposto a scambiare mille criminali con un qualunque soldato. Ma gli ebrei erano abbastanza stanchi del mondo da credere che la vita di Shalit fosse più importante dell’imprigionamento degli assassini di 569 ebrei. Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri. Cento ebrei rapiti avrebbero fatto a pezzi la terra ebraica. La chirurgia cerebrale può portare a profondi cambiamenti caratteriali, ma Sinwar era già infinitamente crudele quando fu condannato nel 1989 per l’omicidio di due soldati israeliani e l’uccisione di quattro palestinesi che accusava di collaborare con Israele. Il medico della prigione che lo conosceva ha detto al Times of Israel: ‘Prima del suo arresto, viveva nella paura e nel terrore. Fece scavare delle fosse, vi gettò dentro le persone che sospettava fossero contro di lui e vi versò sopra il cemento mentre erano ancora vive. In prigione mandava le persone a torturare gli altri che non gli piacevano. Ma non si è sporcato le mani lui stesso’. Finché Sinwar avrà i suoi ostaggi, sarà intoccabile. I familiari degli ostaggi chiedono al governo israeliano di accettare qualsiasi accordo per la loro liberazione, compreso il ritiro completo dalla Striscia di Gaza e l’abbandono della striscia di confine, che contiene i tunnel attraverso i quali Hamas fornisce componenti per armi e razzi, nonché come materiali da costruzione contrabbandati per la città sotterranea della guerra. Ma Sinwar non consegnerà mai gli ostaggi. Il tempo è dalla sua parte. Non importa se gli ostaggi sono ancora vivi o sono già stati uccisi. Ogni ostaggio in un tunnel sconosciuto significa tortura per lo Stato ebraico, che non può adempiere al proprio obbligo di salvare ogni ebreo. Al contrario, nessun leader islamico si sottometterebbe mai a un simile ricatto.
   Per Sinwar il fine giustifica ogni mezzo. Tiene sulla linea di fuoco innumerevoli suoi compatrioti nella Striscia di Gaza. Con l’aiuto di utili idioti nei media e nei governi occidentali, incolpa gli ebrei per la loro morte. Ciò è diabolico: Sinwar scommette sulla coscienza degli israeliani e, se ne avrà la possibilità, massacrerà spietatamente gli ebrei. La legge marziale avvantaggia i terroristi Questa guerra è asimmetrica, dicono i critici israeliani, intendendo con questo che la forza militare di Israele è di gran lunga maggiore di quella di Hamas. Questa è una distorsione della realtà. La spietatezza di Hamas è in netto contrasto con la coscienza di Israele, che è vincolata alle regole culturali interne ed esterne e alle leggi dello stato di diritto. L’esercito di Hamas conta due milioni di persone, tutti potenziali martiri sacrificati da Hamas nella guerra mediatica globale contro Israele. La vera forza dirompente nell’asimmetria è la capacità di Hamas di contrastare i civili dell’esercito israeliano, non la potenza di fuoco dell’esercito israeliano. La leadership israeliana si trova di fronte a un dilemma insolubile: se stringerà un accordo con Sinwar e si ritirerà dalla Striscia di Gaza in cambio del rilascio degli ostaggi, Hamas sfrutterà l’opportunità per rafforzare il suo esercito. Poi tra cinque o dieci anni attaccherà di nuovo, sostenuto dalle armi nucleari iraniane. Se il governo israeliano non riuscirà a raggiungere un accordo, condannerà i restanti ostaggi a morte o a sofferenza per tutta la vita in una gabbia nel deserto del Sinai o in una prigione in Iran. Israele è stato fondato per dissipare la paura tra gli ebrei che nessuno al mondo si preoccupi di loro. Nessun politico israeliano può abbandonare gli ostaggi al loro destino. Sinwar, il brillante diavolo, conosce gli ebrei e quelli che considera i cani miscredenti dell’occidente. Lui lo sa, che il moderno stato costituzionale occidentale non è in grado di sostenere le guerre nel deserto: il paese più potente della terra si è ritirato dall’Iraq e dall’Afghanistan. Nessun accordo potrà convincerli che è meglio convivere pacificamente con gli ebrei. Nel loro mondo non ci sono dubbi sulla direzione della storia. Conducono una guerra eterna sotto la bandiera del Profeta finché l’umanità non sarà sottomessa. È triste, drammatico, disperato: per sopravvivere, lo Stato ebraico deve diventare uno Stato mediorientale che agisce spietatamente come i leader della Siria o dell’Arabia Saudita? E’ questo il prezzo che gli ebrei devono pagare per preservare la loro autonomia e le loro tradizioni in Medio Oriente? Questo è il nocciolo della crisi nella società israeliana: è possibile combattere il male senza usare i mezzi del male? E’ qui che hanno origine le storie della Bibbia. Noi, menti illuminate in Occidente, riduciamo le cause delle bestialità perpetrate da Hamas alle conseguenze della deprivazione socioeconomica, alla Nakba del 1948 o alla rabbia per le azioni dei coloni in Cisgiordania. Ma tutto questo fallisce quando si vede il video dell’ostaggio assassinato Eden Yerushalmi. La 24enne era stata rapita il 7 ottobre dal festival musicale Nova, dove lavorava al bar. Era bellissima. Nel video è ancora lì, ma emaciata, con lo sguardo sfinito e triste. Le forze israeliane erano sulle tracce di Eden Yerushalmi e di altri cinque ostaggi. Ma prima che potessero essere liberati, furono uccisi in un tunnel sotterraneo.
   Quando i soldati israeliani l’hanno trovata, Hamas ha pubblicato un video in cui Eden parlava per alcuni minuti con la sua famiglia. Lo facciamo perché non siete altro che figli di maiali, è il messaggio implicito di Hamas, vi massacriamo e godiamo del dolore che causiamo. Ero sopraffatto, sbalordito, mentre la guardavo parlare e mi rendevo conto che era stata macellata come un cane. Non sono religioso. Ma il rituale di Hamas può essere descritto solo con un termine religioso. Il male assoluto”.

(Il Foglio, 16 settembre 2024 - trad. Giulio Meotti)

........................................................


I Fratelli Musulmani trionfano alle elezioni in Giordania, cresce la frustrazione per la guerra a Gaza

di David Fiorentini

Le recenti elezioni legislative in Giordania hanno segnato un trionfo significativo per il Fronte di Azione Islamica (IAF), l’ala politica dei Fratelli Musulmani, che ha conquistato 31 seggi su 138 nel parlamento del regno. Questo risultato ha triplicato la rappresentanza del principale partito islamista, che nel 2020 aveva ottenuto solo 10 seggi, riporta The Times of Israel.
Il successo dell’IAF è avvenuto in un contesto politico e sociale dominato dalla crescente frustrazione dei giordani per la guerra tra Israele e Hamas a Gaza. Con metà della popolazione giordana di origine palestinese, la crisi ha avuto un impatto profondo sull’opinione pubblica, che ha visto nel voto per l’IAF un modo per esprimere la propria solidarietà con il popolo palestinese e la propria opposizione alla normalizzazione dei rapporti con Israele.
Il leader dei Fratelli Musulmani in Giordania, Murad Adailah, ha descritto la vittoria come un “referendum popolare” in favore del sostegno a Hamas e contro il trattato di pace firmato tra Giordania e Israele nel 1994. L’accordo, pur garantendo stabilità geopolitica, è sempre stato motivo di divisione all’interno del paese, con gli islamisti fortemente opposti.
Nonostante l’importante affermazione elettorale, l’IAF rimane lontano dalla maggioranza parlamentare, che richiederebbe 70 seggi. Tuttavia, il partito ha consolidato la sua posizione come forza politica più influente nel paese, superando partiti come Al-Mithaq Al-Watani, di orientamento nazionale, che ha ottenuto 21 seggi, e Taqaddum, partito progressista di sinistra, fermo a 8 seggi.
Le elezioni si sono svolte con un’affluenza del 32%, un dato relativamente basso, con 1,6 milioni di votanti su 5,1 milioni di aventi diritto, di cui circa 500.000 andati all’IAF.
Un elemento significativo di questa tornata elettorale è stata anche l’elezione di 27 donne in parlamento, superando la quota minima di 18 seggi, evidenziando un passo avanti verso una maggiore inclusione di genere nella vita politica del paese.
D’altro canto, il potere legislativo del Parlamento in Giordania rimane limitato, poiché ampiamente superato dal Senato, composto da 65 membri nominati dal Re, così come il ramo esecutivo. Per questo, ogni disegno di legge proposto dal Parlamento deve essere ratificato dal Senato e, in ultima istanza, dal Re stesso, garantendo al sovrano un controllo diretto sul processo legislativo.
Gli islamisti, dal loro ingresso sulla scena politica all’inizio degli anni ’90, hanno sempre rappresentato l’opposizione principale agli accordi di pace con Israele, ma hanno evitato critiche dirette alla famiglia reale, considerata intoccabile nella politica giordana. Questa strategia ha permesso al movimento di consolidarsi come una forza politica rilevante senza scontrarsi apertamente con il potere centrale.
Con il risultato delle elezioni, il Fronte di Azione Islamica ha ora l’opportunità di ampliare ulteriormente la sua influenza e di giocare un ruolo chiave nel prossimo futuro politico della Giordania, soprattutto in un contesto regionale sempre più teso e instabile.

(Bet Magazine Mosaico, 16 settembre 2024)

........................................................


GECE – Torino apre l’evento. Dario Disegni: Vetrina di conoscenza. Noemi Di Segni (Ucei): Spazio sereno e di stimolo

FOTO
Si è aperta in Piazzetta Primo Levi, davanti all’ingresso della sinagoga di Torino, la XXV edizione della Giornata della Cultura ebraica (Gece). Il primo a salutare il pubblico è stato “il padrone di casa” – Torino è città capofila dell’edizione 2024 – il presidente della Comunità ebraica torinese, Dario Disegni, che ha dato lettura del messaggio del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «La conoscenza è lo strumento fondamentale per superare le degenerazioni dei valori della convivenza civile che i principi fondanti della Repubblica scolpiscono nell’uguaglianza di tutti i cittadini. In un momento di cambiamenti epocali e di ferite lancinanti procurate dalle guerre», ha scritto il Capo dello Stato, «la cultura, nella sua pluralità, assume un valore risolutivo per la difesa dell’umanità».
  Nel ricordare il 600esimo anniversario della vita ebraica a Torino, Disegni ha definito la Gece, dedicata quest’anno al tema della famiglia, «una straordinaria vetrina per far conoscere la vita e la cultura ebraica vero antidoto contro il pregiudizio». Dopo di lui ha parlato Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) che ha tra l’altro ricordato come «conoscere la cultura ebraica significa comprendere che il vissuto ebraico non è solo Shoah e persecuzione, orrore e crimini subiti e distorsioni denunciate. È vita quotidiana, è vitalità di comunità, di bambini, di famiglie che prima della Shoah e nei secoli precedenti, così come dopo la Shoah, hanno reagito e dato un significato anche ebraico alla propria esistenza».
  La presidente Ucei ha poi approcciato il tema della famiglia: «Mishapachà in ebraico nella radice e nel concetto di essere l’uno di servizio all’altro. Una parola che per ciascuno di noi è immediata e intuitiva, tra le prime alle quali diamo un senso dopo il primo respiro nel mondo circondati di padre, madre, fratelli e nel mondo ebraico tipicamente da un intero parentame. Nel nostro vissuto è il luogo primario, al centro della trasmissione dell’identità ebraica e, per la giornata di oggi, appunto desiderio di condividere con voi i «come» della nostra cultura di essere famiglie ebraiche, può essere un contributo anche alle famiglie accanto alle quali conviviamo. Quest’anno – ha proseguito Di Segni – la Giornata arriva dopo lunghi mesi di sofferenza e dolore, dopo la strage del 7 ottobre avvenuta in Israele, violando e distruggendo le case che pensavamo essere sicure e blindate, facendo lasciare alle spalle le case e gli spazi personalizzati amati per cercare sicurezza, rendendo vedove ragazze speranzose di vita banale, orfani fratelli e figli per gli oltre 1.658 caduti, massacrando e violando ogni sacralità della famiglia, prendendo ostaggi e lasciando monche centinaia di famiglie. E con loro la grande famiglia del popolo di Israele. Con animo sconvolto e affaticati anche da una continua ed esasperante distorsione, affrontiamo sempre più punti interrogativi. Ineludibile, in questo contesto, il riferimento alla famiglia, proprio come soggetto preso di mira, considerato il nucleo sul quale perpetrare l’orrore e su cui si è poi abbattuta la guerra. Il 7 ottobre oltre il dolore e il lutto mai immaginati ci ricorda ancora una volta che la funzione dei precetti religiosi è di coadiuvare la vita e la convivenza. L’abuso e l’uso della ragione religiosa per ricercare altro genera orrore, prevaricazione e conquista politica.
  Invece per noi la cultura e la conoscenza reciproca sono il presupposto per arginare fenomeni di odio, sospetto e antisemitismo e, proprio per questo, desideriamo vivere questo appuntamento non come momento di protesta contro una situazione insostenibile ma come spazio sereno, gioioso e ricco di stimoli per tutti i partecipanti».

(moked, 15 settembre 2024)

........................................................


I Rothschild e il “potere ebraico”

Intervento di Niram Ferretti tenuto ieri al Tempio Centrale di via Guastalla a Milano in occasione della Giornata Europea della Cultura ebraica dedicata quest’anno al tema della famiglia.

Il nome Rothschild è un nome immediatamente evocativo ed è sostanzialmente sinonimo di denaro, potere, e, con il passare del tempo, di influenza occulta. Su questo aspetto torneremo in modo particolare a breve. Intanto un bignamino storico. I Rothschild hanno origine a Francoforte, nel sedicesimo secolo, e iniziano la loro fortuna attraverso la gestione delle finanze di Gugliemo I il Langravio di Assia, ultimo dei figli di Federico II. Sostanzialmente, Meyer Amschel Rothschild, il capostipite della futura dinastia di banchieri, inizia come cosiddetto ebreo di corte, ovvero nel ruolo di quegli ebrei che potevano prestare il denaro ai reali i quali, in questo modo, non si sporcavano le mani con una attività considerata disonorevole come il prestito di soldi. Da qui si arriverà poi, dopo la rivoluzione francese, alla gestione dei capitali che, attraverso la Gran Bretagna, arrivavano in Assia Kassel per l’arruolamento dei mercenari da impiegare nelle guerre contro Napoleone. E’ importante tenere a mente questo punto perché verrà usato poi contro i Rothschild. I profitti che essi fecero durante il periodo delle guerre napoleoniche gli verrà in seguito imputato. Infatti, dalle guerre napoleoniche, i  Rothschild trassero enormi profitti che poi vennero usati per finanziare altre imprese. E ora arriviamo al tema del mio intervento, che è relativo a come, nel corso dei secoli, il nome dei Rothschild sia diventato sostanzialmente, ad uso degli antisemiti, una sineddoche per ebreo.
  Nella immaginazione paranoica degli antisemiti, Rothschild significa sostanzialmente “potere ebraico”, e soprattutto, potere occulto ebraico, e qui, inevitabilmente, non possiamo evitare di ricollegarci ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il falso complottista confezionato agli inizi del Novecento, dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, l’antesignana del KGB, in cui viene descritto come realmente accaduto, un incontro dei maggiori esponenti dell’ebraismo i quali, in sintesi, illustrano il loro piano segreto per influenzare e dirigere il mondo.
  Nel 1846 esce a Parigi un pamphlet di un autore che si firma con lo pseudonimo “Satana” il quale informa i suoi lettori che Nathan Rothschild, il più noto dei figli del capostipite della dinastia, conoscendo in in anticipo l’esito della battaglia di Waterloo era riuscito a trarne grandi profitti in borsa  e che suo fratello James era il principale responsabile di un incidente ferroviario avvenuto in Francia causato da una carenza di manutenzione intenzionale, quindi dovuto alla volontà di risparmiare a danno degli utenti. Il libretto fu un grande successo editoriale, vendette decine di migliaia di copie ed è il primo esempio di una pressoché infinita serie di accuse rivolte ai Rothschild, di fatto assurti al ruolo dell’ebreo astuto, cinico, avido e manipolatore.
  Nel suo libro del 2023 Jewish space lasers, the Rothschilds and 200 years of conspiracy theories, Mike Rothschild, l’autore, un giornalista americano, che è solo un omonimo, ha raccolto l’insieme di queste teorie cospirazioniste che vanno dalle più plausibili a quelle più folli, come è appunto quella che dà il titolo al volume, secondo la quale, nel 2018 dei generatori solari spaziali avevano provocato l’incendio di alcune foreste in California. Una deputata repubblicana aveva sostenuto che avendo fatto delle ricerche aveva scoperto che i generatori erano riconducibili, tra gli altri, a dei finanziamenti dei Rothschild.
  Il fondamento delle teorie della cospirazione si basa sull’assunto che la maggioranza, se non tutti i fenomeni rilevanti, politici, storici, economici e culturali abbia una regia, ci sia cioè un gruppo o più gruppi che li determinano, i quali, però, poi fanno sempre riferimento in senso ascendente, a un gruppo egemone, a un apice generativo, che ne è il regista occulto. Il primo a mettere nero su bianco questa idea fu un sacerdote francese alla fine del diciottesimo secolo, l’abate Barruel il quale, nel 1797, nei cinque volumi del suo Memoire pour servir a l’histoire du jacobinisme, sostenne che la Rivoluzione Francese era stata ordita dai massoni i quali, a loro volta erano dominati dall’ordine dei templari, che in realtà non era mai stato distrutto nel 1314. Dai massoni si arrivava poi agli illuminati bavaresi.
  E’ interessante evidenziare come, ai primi dell’Ottocento, un presunto ufficiale dell’esercito italiano, J.B. Simonini poi diventato protagonista di Il cimitero di Praga di Umberto Eco, scrive una lettera all’abate per informarlo che c’era in giro gente assai peggiore dei massoni, si trattava della “setta ebraica”, il prototipo della  cosiddetta lobby, una setta molto ricca e influente che ordiva trame e complotti spaventosi.
  I Rothschild sono e diventano senza sosta il prototipo di questa setta, ne rappresentano il nefasto emblema, così come vengono raffigurati in una vignetta su un settimanale satirico francese. Le Rire, fondato a metà Ottocento in cui un vecchio dalla lunga barba bianca e sul capo una strana corona con una testa di animale, il vitello d’oro, ghermisce un globo con delle mani artigliate.
  Nell’immaginazione paranoica degli antisemiti e dei complottisti, due categorie che si intrecciano indissolubilmente, essi sono inscalfibilmente tali, e nulla, nessun argomento, nessun tentativo di spiegare in modo puntiglioso che questo assunto si basa su fantasie e leggende potrà fare cambiare loro opinione poiché le teorie complottiste sono logicamente inespugnabili, essendo strutturalmente circolari, cioè inglobando al loro interno ogni possibile confutazione come parte stessa del complotto.

(L'informale, 16 settembre 2024)
____________________

Dunque secondo l'autore antisemiti e complottisti sarebbero “due categorie che si intrecciano indissolubilmente” e “logicamente inespugnabili” perché “strutturalmente circolari, inglobando al loro interno ogni possibile confutazione come parte stessa del complotto”. E’ un modo superficiale di fare accostamenti. Prima che emergesse l’anelito e il tentativo di fondare uno stato ebraico, prima che uscissero i falsi “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, l’antisemitismo nella storia ha preso forme anche molto diverse dal semplicistico “complottismo”. Quello che accomuna complottisti e anticomplottisti nell’antisemitismo è l’incapacità di riconoscere e capire quale sia, o anche quale potrebbe essere, la relazione che lega tra loro gli ebrei e ne mantiene in vita una inspiegabile unità. Il complottista crede di aver trovato una ragione, ma l’anticomplottista che si vanta di non cadere in sempliciotte o truffaldine spiegazioni, non trovandone una che lo soddisfa finisce col dire che non c’è nessuna ragione per cui quelli che si dicono ebrei debbano voler vivere una particolare forma di unità. Nel caso storico attuale, può significare che non si giustifichi l’accanimento con cui si vuol difendere uno stato come Israele che vuol essere ebraico e tale vuol essere chiamato. L’antisionista che propone uno stato binazionale, o la consegna di quella terra a qualche governance sovranazionale o, peggio ancora, agli islamici che la pretendono, non è certo un complottista, ma è forse un antisemita ancora più insidioso.
Inoltre, se si vuol dire che la “teoria complottista” è “logicamente inespugnabile”, lo stesso si può dire della “accusa di complottismo”. Se sei accusato di essere complottista, non hai possibilità di difesa, perché ogni tuo sforzo di dimostrare il contrario sarà visto come una tecnica tipicamente complottista di deviare l’accusa. “Complottista ti sei rivelato, e come come complottista sarai per sempre etichettato”: questa l’irrevocabile condanna. Esempio recente: l’epiteto ingiurioso di “no-vax”. M.C.

........................................................





E’ violenta la verità?

di Marcello Cicchese
    Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Pilato gli disse: «Che cos’è verità?» (Giovanni 18.37-38)

• È UTILE PARLARE DI VERITÀ?
   Il pretorio di un governatore romano, con la folla fuori che rumoreggia e le autorità religiose che chiedono la condanna a morte di un loro connazionale, non sembra essere il luogo adatto per un’ordinata e pacata discussione sulla verità. Così almeno potrebbe sembrare a noi, che dagli anni passati a scuola abbiamo forse ereditato l’impressione che discutere sul tema della verità sia un’esercitazione intellettuale da lasciare a persone che hanno tempo e voglia di farlo o, al massimo, da riservare a momenti particolarmente tranquilli della nostra vita.
  Di verità invece bisogna parlare, e bisogna parlarne come ne parla la Scrittura, perché è tutt’altro che un argomento ozioso. Oggi si preferisce parlare d’amore, perché nell’opinione corrente l’amore unisce, mentre la verità divide. Salvo poi a scoprire, davanti a un tribunale, che l’amore di cui tanto si parlava non era vero amore. La disprezzata verità entra allora in scena e a questo punto si rivela utile, perché viene impugnata come un randello per bastonare l’altro con il lungo elenco dei suoi veri torti.
  Dopo di che intervengono i professionisti del soccorso psicologico, i quali spiegano ai contendenti che nelle disturbate relazioni interpersonali l’elemento che più di altri contribuisce a peggiorare la situazione è proprio il riferimento alla verità.
   “Il fatto di introdurre dei concetti “vero o falso”, “bugia o verità”, immette all’interno di qualsiasi relazione un elemento molto negativo e fastidioso; nel caso della relazione di aiuto, dove uno è un professionista e l’altro è la persona che chiede aiuto, la situazione diventa veramente molto grave”.
   Chi si richiama alla verità è un “dogmatico” - secondo questa visione - e il suo dogmatismo lo rende rigido, intollerante, tendenzialmente violento, perché convinto di potersi e doversi riferire a una realtà esterna, oggettiva, al di sopra delle parti. Ma per alcuni questo non è possibile, e quindi lo stesso professionista deve stare ben attento a non assumere l’atteggiamento dogmatico di chi pensa di avere una verità da trasmettere alla persona che sta curando, perché è proprio il dogmatismo la malattia più grave da cui il paziente deve essere guarito.
   “In realtà noi non possiamo passare al paziente niente di nostro, possiamo solo aiutarlo a trasformarsi da dogmatico in scettico”.
   Conseguenza inevitabile e disastrosa del dogmatismo è il moralismo, con il quale si vorrebbe dire ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
   “Il rischio più grave è il tentativo di «moralizzare»: in un rapporto di aiuto non deve infatti esistere nessun tipo di giudizio di valore”.
  “Tutte le volte che si dice «devi», «bisogna», «si deve», «ma come si fa a non capire che...», tutte le volte che si introducono elementi di questo tipo si introduce un giudizio di valore, un giudizio morale. In una relazione di aiuto questo è disastroso. La gente non desidera essere giudicata, e men che meno desidera essere duramente castigata. Quasi sempre si è già data da sola dei giudizi di valore, e in ogni caso non viene a cercare aiuto perché qualcuno alzi il dito e gli dica cosa dovrebbe fare”

• DOGMATICI INTRANSIGENTI E SCETTICI TOLLERANTI
   Dogmatismo e moralismo sarebbero dunque conseguenze inevitabili e nocive del richiamo ad una verità assoluta, immutabile nel tempo e universale nello spazio. 
  Convinzioni di questo tipo sono correnti non solo nell’ambito della cura psicologica della persona, ma anche nella sfera delle relazioni politiche. Un esempio eloquente è dato dall’attuale crisi mediorientale. Due popoli, gli ebrei e gli arabi, rischiano di provocare una carneficina mondiale perché entrambi si riferiscono ad una verità religiosa assoluta e immutabile che li obbliga a rivendicare per sé il medesimo pezzo di terra. Il loro dogmatismo intransigente, basato sulla pretesa di sapere con certezza assoluta a chi Dio ha dato quella terra, li spinge alla violenza. Se qualcuno potesse guarirli dal loro dogmatismo e riuscisse a trasformarli in scettici tolleranti molti guai potrebbero essere evitati. Così pensano alcuni, anche tra gli ebrei e gli arabi “illuminati”.
  La domanda “Che cos’è verità?” è quindi tutt’altro che l’esercitazione oziosa di una mente troppo filosofica. Alcuni sostengono che nel mondo biblico-ebraico il termine “verità” ha una connotazione più morale che conoscitiva. In parte questo può essere vero. Nella Bibbia infatti il contrario di verità non è “errore”, ma “menzogna”, con tutti gli aspetti di colpevolezza che questo termine implica. Gesù parlò di verità quando disse ai Giudei: “Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8.31-32). E nominando il diavolo come colui che si oppone alla verità disse: “Egli è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c’è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è suo perché è bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8.44).
  Ma non bisogna credere che il tema della verità possa esaurirsi in una discussione sui corretti comportamenti che popoli e persone dovrebbero tenere per assicurare a tutti una pacifica e civile convivenza. Questo è ciò che pensano gli scettici laici del nostro tempo, che intimamente si compiacciono del loro pragmatismo utilitarista e considerano le cosiddette verità religiose assolute come moleste pastoie che possono essere benevolmente sopportate fino a che si presentano in forma di folcloristici costumi locali, ma che devono essere fermamente combattute quando minacciano la tranquillità della vita sociale.

• LA NATURA PERSONALE-GIURIDICA DELLA VERITÀ
   La verità di cui parla la Bibbia ha un carattere che si potrebbe dire personale-giuridico. Non risponde in primo luogo alla domanda “che cosa?” (atteggiamento teoretico) o alla domanda “come?” (atteggiamento utilitaristico-morale), ma a domande del tipo: “Chi?”, “Chi è?”; e subito dopo: “Che cosa ha detto?”, “Che cosa ha fatto?”, “Che cosa vuole?”. E’ in risposta a domande come queste che si pone il problema della verità e della menzogna. I popoli antichi non mettevano in dubbio che ci fossero degli dèi, cioè delle potenze celesti che avevano potere sugli uomini e sulla terra, ma la domanda era: “Chi è il più forte?”, “Chi comanda?”. “Chi bisogna ingraziarsi?”. La Scrittura risponde che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è l’unico che “nel principio” “creò i cieli e la terra” (Genesi1.1), e di conseguenza “gli dèi che non hanno fatto i cieli e la terra scompariranno dalla terra e da sotto il cielo” (Geremia 10.11). Questa è la verità, e chi dice il contrario mente.
  Ma questo Dio, che è l’unico Creatore dei cieli e della terra, ha parlato e tuttora parla. Sorgono allora altre domande: “A chi ha parlato?”, “Che cosa ha detto?” “Che cosa dice?” La verità si trova nella risposta a queste domande, perché la verità è, per definizione, quello che il Creatore del cielo e della terra dice, cioè la sua Parola. Chi non accetta questa parola e ne diffonde un’altra si trova automaticamente fuori dalla verità, e non è soltanto qualcuno che sbaglia in buona fede, ma è un bugiardo.
  Il problema della verità si pone dunque in relazione alla Persona di “Colui che parla” (Ebrei 12.25) (“Chi è?”) e al contenuto della sua Parola (“Che cosa ha detto?”).
  Cominciò per primo il serpente, nel giardino di Eden, a fare domande intorno alla verità quando chiese alla donna: “Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?” (Genesi3.1). Ecco il problema: “Che cosa ha detto Dio?” E qui fa il suo ingresso nel mondo il contrario della verità, cioè la menzogna. “No, non morirete affatto” (Genesi3.4), disse il serpente, e si rivelò come “bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8.44).
  Il problema della verità fu posto ancora dal faraone d’Egitto in un contesto tutt’altro che filosofico. A Mosè ed Aaronne che gli comunicavano:“Così dice il Signore, il Dio d’Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto”, il faraone rispose con durezza: “Chi è il Signore che io debba ubbidire alla sua voce e lasciare andare Israele? Io non conosco il Signore e non lascerò affatto andare Israele” (Esodo 5.1-2), e concluse negando la verità delle parole udite dicendo: “Questa gente sia caricata di lavoro e si occupi di quello, senza badare a parole bugiarde” (Esodo 5.9).

• LA VERITÀ SI È MANIFESTATA AGLI UOMINI
   Il problema della verità si è presentato al mondo, insieme con la sua soluzione, in modo decisivo e definitivo quando “la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità” (Giovanni 1.14). A un certo punto del suo ministero Gesù chiese ai discepoli: “Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?” ed essi risposero: “Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti”. E allora rivolse loro direttamente la domanda: “E voi, chi dite che io sia?” . Conosciamo la risposta di Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Matteo 16.13-16).
  La verità dunque è apparsa agli uomini nella Parola di Dio fatta carne, e davanti alla domanda: “Chi è Gesù?”, Simon Pietro, per rivelazione del “Padre che è nei cieli”, rispose secondo verità. Si potrebbe dire, usando un linguaggio attuale, che Pietro fece una corretta “confessione di fede”. Non sembra però che questo sia stato sufficiente per fare di lui un fedele seguace di Gesù.
  Usando le parole del faraone, si potrebbe dire che Pietro, dopo aver riconosciuto chi è Gesù, si rifiutò di ubbidire alla sua voce. Nell’episodio della trasfigurazione il Padre rese testimonianza a Gesù dicendo: “Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo” (Matteo 17.5). Non basta dire la verità su chi è Gesù; bisogna anche ascoltarlo, cioè agire in modo conforme alla verità della sua parola. Dopo aver riconosciuto chi è Gesù, Pietro avrebbe dovuto “camminare nella verità” (2 Giovanni 1.4) ascoltando le parole di Colui che aveva riconosciuto come Messia e Figlio del Dio vivente. Invece da quel momento cominciò a contrastare ripetutamente le parole di Gesù, mostrando di essere piuttosto all’ascolto dei suggerimenti di Satana, il padre della menzogna, fino al punto di farsi suo portavoce presso Gesù. Questo conferma che si può “professare di conoscere Dio” e “rinnegarlo con i fatti” (Tito 1.16). Pietro sfuggì alla tentazione di Satana soltanto quando riconobbe, con umiliazione, la verità delle parole di Gesù: “Prima che il gallo abbia cantato due volte, tu mi rinnegherai tre volte” (Marco 14.72).
  Il problema della verità si presentò a Pilato, in una forma chiaramente personale-giuridica, quando gli misero davanti quel Rabbi giudeo di controversa fama. In qualità di magistrato romano, Pilato doveva prendere le sue decisioni sulla base di risposte a domande come: “Chi è Gesù?”, “Che cosa ha detto?”, “Che cosa ha fatto?”, “Che cosa vuole?” Si stava svolgendo un processo, sia pure sommario, e l’aula di un tribunale è la sede adatta per discutere il problema della verità. Tutte le persone coinvolte sono tenute a dire o a riconoscere la verità; dopo di che si esegue la sentenza.
  Nel processo di Gesù la verità fu ripetutamente calpestata da diversi falsi testimoni, ma non fu questo che fece condannare il Signore Gesù: la sua morte non fu la conseguenza di un errore giudiziario. Alle domande: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? “ (Marco 14.61), “Sei tu il re dei Giudei?” (Marco 15.2) Gesù rispose con verità, dicendo che era venuto nel mondo “per testimoniare della verità” (Giovanni 18.37). E per questo fu condannato. Non furono le menzogne dei falsi testimoni a provocare la morte di Gesù, ma la verità uscita dalla sua bocca. 
  Questo conferma la natura personale-giuridica della verità, che viene contrastata non dall’errore teoretico-scientifico, ma dalla menzogna che provoca ingiustizia. Se Dio ha parlato e attraverso la Sacra Scrittura da Lui ispirata ha rivelato agli uomini la verità intorno a fatti storici, naturali, morali, chi si oppone alla sua rivelazione in nome di qualche altra autorità non è un onesto ricercatore che vuole stabilire il reale svolgersi dei fatti o un sincero pensatore che vuole comprendere il mutare dei costumi, ma è un bugiardo, un falso testimone che sostituisce la parola di verità proveniente da Dio con la parola di menzogna proveniente da uomini. Un giorno la verità sarà ristabilita, e a questo non seguirà la pubblicazione di un articolo su qualche rivista scientifica o teologica, ma la verbalizzazione di una sentenza pronunciata dalla giuria di un tribunale. Gli uomini non sanno che con le loro dissertazioni culturali e morali riempiono verbali che un giorno saranno letti, esaminati e valutati. E il tutto si concluderà con una sentenza definitiva a cui non si potrà interporre appello.

• LA VERITÀ SOFFOCATA DALL'INGIUSTIZIA
   Ma oggi, nel tempo della pazienza di Dio, le parti si presentano invertite. Spesso, come nel caso di Gesù davanti a Pilato, è la verità ad essere posta sotto accusa da qualche tribunale umano. Ma le sedi giuridiche in cui gli uomini tentano di soffocare la verità con l’ingiustizia sono anche i luoghi in cui Dio vuole che i suoi servitori siano testimoni della verità, avendo la promessa di una particolare assistenza da parte dello Spirito Santo (Marco 13.9-11). “Dare la propria testimonianza” significa essere testimoni di Gesù Cristo, non di sé stessi, ed è bene ricordare che il termine “testimone” appartiene al linguaggio giuridico dei tribunali, non a quello artistico dei teatri. Alle testimonianze segue una sentenza, non un applauso.
  Eppure Pilato non voleva condannare Gesù. Da buon cittadino romano era attento soprattutto alle questioni di potere; quanto alle cose religiose poteva essere considerato uno scettico tollerante. Fosse stato per lui, Gesù avrebbe potuto essere liberato. In bocca sua la frase “Che cos’è verità?” forse significava: “Piantiamola una buona volta con tutte queste beghe intorno alla verità e cerchiamo di essere persone pratiche e di buon senso”. Ma il fanatismo religioso dei Giudei e l’insistenza con cui Gesù continuava a presentarsi come testimone della verità gli avevano reso impossibile resistere alla pressione delle autorità religiose e della folla, pena il rischio di essere denunciato come nemico di Cesare. Non era certo un pacifista integrale, Pilato, ma in quel caso la violenza gli sembrava proprio inutile. Non voleva crocifiggere Gesù e avrebbe potuto non farlo. E tuttavia lo fece. Perché? Quale forza glielo impose?
  Erode e Pilato divennero amici dopo la condanna di Gesù (Luca 23.12), forse perché le loro storie avevano qualcosa in comune. Entrambi erano stati spinti a uccidere qualcuno contro la loro volontà. Erode non avrebbe voluto uccidere Giovanni Battista e Pilato non avrebbe voluto uccidere Gesù, ma entrambi lo fecero perché non vollero ascoltare la voce della verità che li spingeva ad agire secondo giustizia. Di conseguenza furono costretti a praticare l’ingiustizia soffocando la verità (Romani 1.18). Gesù aveva detto: “Per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Giovanni 18.37). Davanti alla verità che gli stava davanti nella persona e nelle parole di Gesù, Pilato aveva voluto rimanere in una posizione neutrale, distaccata, e di fatto era caduto sotto il potere della menzogna. Non aveva capito in che senso Gesù si proclamava re dei Giudei, ma certamente aveva capito che glielo avevano consegnato “per invidia” (Marco 15.18) e che i suoi accusatori mentivano. Ma invece di mettersi decisamente dalla parte della verità liberando Gesù e castigando i testimoni bugiardi (Deuteronomio 19.16-19), Pilato aveva cercato un compromesso con la menzogna: non lo avrebbe ucciso e non lo avrebbe assolto, si sarebbe limitato a farlo flagellare. Ma il suo tentativo di rimanere equidistante dagli “opposti estremismi” di coloro che forse considerava come fanatici religiosi non gli riuscì: poiché non era interessato alla verità ma al potere, fu costretto da colui che è il “padre della menzogna” (Giovanni 8.44) a usare il potere per soffocare la verità con l’ingiustizia.

• DA CHE PARTE VIENE LA VIOLENZA?
   E’ dunque violenta la verità? Viene inevitabilmente spinto alla violenza chi vuole attenersi alla verità? Nel processo di Gesù chi ha finito per usare violenza?
  Non è la verità che genera violenza, ma la menzogna, sia quando assume la forma dogmatica della contrapposizione frontale alla verità in nome di un’altra “verità” con la quale si vogliono difendere interessi inconfessabili, come hanno fatto i Giudei con Gesù, sia quando assume la forma dello scetticismo tollerante che mira a dissolvere il concetto stesso di verità per sostituirlo con un nebuloso e bonario pragmatismo che qualcuno vorrebbe chiamare “amore”, mentre in realtà è soltanto voglia di potere, come mostra l’esempio di Pilato.
  Chi non “è dalla verità” (Giovanni 18.37) non si trova sul terreno di una pacifica neutralità ma su quello della violenta menzogna, che può essere religiosamente dogmatica o laicamente scettica. Se in altri tempi (medioevo “cristiano”) e in altre culture (islam) la menzogna ha usato e usa ancora la violenza brandendo l’arma di una verità distorta, nel nostro tempo e nella nostra cultura postmoderna la menzogna sta producendo germi di violenza che si sviluppano sulla carcassa di una verità dissolta. Osservatori attenti, anche tra i non cristiani, da tempo avvertono che il vuoto prodotto dall’abbandono del riferimento ad una verità assoluta sarà prima o poi colmato dall’assunzione di un potere assoluto. Il clima “dolce” promosso e diffuso dalla New Age si presta bene a disgregare, insieme con la verità, anche la personalità degli individui e a renderli adatti per essere asserviti a un potere tirannico.
  “Se un giorno sorgerà un governo mondiale, avrà sicuramente bisogno di un’ideologia per legittimarsi e vi sono buone possibilità che la New Age possa rappresentare questa ideologia. Possiamo sorridere a questa idea e pensare che quel giorno è ancora lontano. Conviene però fare molta attenzione, perché questi fantasmi planetari non sono solo innocenti fantasie ... La nostra ipotesi è che la New Age stia per varare una nuova forma di totalitarismo.”
   E’ un’ipotesi che non dovrebbe sembrare strana a noi cristiani. Non dice forse la Scrittura che un giorno farà la sua comparsa in scena “l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando sé stesso e proclamandosi Dio” (2 Tessalonicesi 2.3-4)?
  Gesù, che è la verità e davanti a Pilato ha testimoniato della verità, non ha usato violenza, ma l’ha subita. La verità di Dio porta amore, non violenza; ma chi resiste all’amore di Dio si oppone alla verità con la forza della menzogna, ed è questa che genera violenza. Chi vuole comunicare agli uomini la verità dell’amore di Dio, manifestatosi nella persona del Signore Gesù, deve essere pronto a subire violenza, non a farla.

• IL COMPITO DI CHI ANNUNCIA IL VANGELO
   E’ necessario allora che gli annunciatori del vangelo abbiano la franchezza di dire sempre che la verità è una sola. Non è sufficiente che io dica: “Gesù è il mio Signore e il mio Salvatore”, perché alle orecchie di molti questo significa che ho voluto comunicare loro la mia verità, quella mi ha soddisfatto e reso felice. Di questo tutti sono disposti a rallegrarsi, come quando mi sentono dire con orgoglio, mentre sollevo un bambino di pochi mesi: “Questo è mio figlio”. Ma guai a me se poi aggiungo che “c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1 Timoteo 2.5) e che “in nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati” (Atti 4.12). Questo può dare fastidio e provocare stizzite reazioni, che un giorno potrebbero anche portare a forme di repressione.
  Ma proprio per questo coloro che vogliono annunciare agli altri l’unica buona notizia che può salvare gli uomini dall’eterna perdizione, e vogliono farlo in modo onesto e credibile, devono mantenersi in una posizione di umana debolezza, che può anche significare essere fraintesi e disprezzati. Devono essere disposti a patire torti, non cercare di ottenere privilegi. In un mondo dominato dalle informazioni, questo può anche significare la rinuncia a curare premurosamente la propria immagine pubblica. Voler attirare troppo l’attenzione sulla propria “identità” rivela soltanto il desiderio di avere un piedistallo su cui salire per essere approvati e ammirati. Si comincia col dire che si sale per predicare meglio la verità e si finisce con il rimanerci perché si sta più comodi. E una volta che si è preso gusto alla comodità, anche la verità comincia ad essere guardata con altri occhi. Il “buon deposito” resta tale, ma nell’annuncio si comincia a selezionarne i contenuti, accantonando quelli “secondari” e “negativi” per sottolineare quelli “fondamentali” e “positivi”, che spesso sono anche quelli che non provocano noie e consentono di rimanere sul piedistallo.
  Il testimone è chiamato a dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. La verità che annuncia è una realtà d’amore che porta la vita agli uomini, ma il testimone fedele sa che potrebbe incontrare la reazione d’odio della morte. In quel caso non reagirà con violenza, ma sarà disposto a subire violenza, sapendo che anche questo darà forza alla verità del messaggio di Gesù Cristo , morto in croce per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione.

    “... portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo; infatti, noi che viviamo siamo sempre esposti alla morte per amor di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Di modo che la morte opera in noi, ma la vita in voi” (2 Corinzi 4.10-12).
(Il Cristiano, marzo 2001)




........................................................


Il passo lento e inesorabile di Israele

Mentre la Corte Internazionale dell’Aia respinge la richiesta di proroga presentata dal Sud Africa a sostegno della sua grottesca accusa di genocidio nei confronti di Israele per i morti a Gaza, dove, secondo le stime di Hamas i morti sono poco più di quarantamila, di cui, per l’IDF diciassettemila suoi combattenti, (ottenendo dunque un rapporto sorprendentemente basso tra combattenti morti e civili di circa 1:1,5., ovvero 1,5 civili per ogni combattente, quando per l’ONU i civili di solito rappresentano circa il 90 percento delle vittime in guerra, ovvero un combattente ogni nove civili) Israele procede a falciare Hamas.
  Ieri il ministro della Difesa Yoav Gallant ha mostrato un documento attribuito a Rafa’a Salameh, il fu comandante della brigata di Hamas a Khan Younis, ucciso dall’IDF a luglio e indirizzato a Yahya Sinwar e a suo fratello Mohammad, in cui lamenta la perdita del 90 per cento dei razzi, del 60 per cento delle armi convenzionali, del 65-75 per cento dei razzi anticarro e del 50 per cento dei combattenti.
  Oggi l’IDF ha dichiarato che a Rafah, la brigata di Hamas è stata decimata. Duemilatrecento dei suoi operativi sono stati eliminati, mentre centocinquanta chilometri di tunnel sono stati distrutti. Israele ha adesso il completo controllo della città e del corridoio Filadelfia. Solo pochi mesi fa la propaganda anti-israeliana annunciava l’ingresso dell’IDF a Rafah come la premessa di una catastrofe umanitaria senza precedenti, che non c’è stata.
  Non si tratta di una marcia trionfale, ma di una lenta e inesorabile progressione. Nonostante i tentativi costanti di fermare l’offensiva di Israele dopo l’eccidio del 7 ottobre scorso, Israele è andato avanti. Hamas non ha alcuna possibilità di vincere militarmente questa guerra, può solo vincerla politicamente grazie al copioso fiancheggiamento di cui gode a livello internazionale.
  Tutte le volte che abbiamo sentito il mantra che Hamas “non può essere distrutto”, che si sia udito fuori da Israele o al suo interno, chi lo ha pronunciato, consapevolmente o inconsapevolmente, ha reso a Hamas un servizio. La verità è che Hamas può essere distrutto, sicuramente può essere distrutto a Gaza così come l’ISIS è stato distrutto a Mosul e Al-Qaeda è stata distrutta in Afghanistan.
  Non è l’ideologia che anima Hamas l’obiettivo da distruggere, è la sua presenza operativa a Gaza. Questo obiettivo è di lungo respiro, ma perfettamente raggiungibile, e certamente necessiterà che Israele occupi la Striscia per il periodo necessario a bonificarla del tutto. È esattamente quello che chi lavora indefessamente contro Israele, non desidera che accada.

(L'informale, 14 settembre 2024)

........................................................


Mattarella e il tratto di preoccupante ambiguità nel suo discorso su Gaza: il “chiaroscuro” che equipara Hamas a Israele

di Iuri Maria Prado

Pur con tutto il rispetto dovuto, occorre osservare che c’era qualcosa di incongruo nel discorso che il presidente della Repubblica ha inviato l’altro giorno all’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario di Sanremo in occasione della “47ª tavola rotonda su questioni attuali di Diritto internazionale umanitario”.
  Premettendo che l’occasione di convegno si confrontava “con tristi e stringenti attualità” (le situazioni di crisi in Ucraina, Yemen, Siria, Haiti), il discorso presidenziale si intratteneva in modo particolare sulla “tutela della popolazione civile, dei minori, delle donne, dei più fragili”, argomentando che la questione “interpella le coscienze anche a Gaza”. Ed era con particolare – anzi esclusivo – riferimento alla guerra di Gaza che Sergio Mattarella richiamava il “bollettino quotidiano di uccisioni, distruzioni di infrastrutture, tra cui anche scuole, ospedali e campi profughi, attacchi contro operatori umanitari, personale medico, giornalisti”.
  Il presidente della Repubblica non ignora che, nella guerra di Gaza, le distruzioni di infrastrutture avvengono o perché si tratta di infrastrutture militari, o perché sono adibite a tale uso da parte di miliziani e terroristi che vi si insinuano mischiandosi alla popolazione civile. Nei due casi, con intenzioni ed effetti di violazione che il diritto internazionale e umanitario non addebita a chi colpisce quelle strutture, ma a chi ne fa quell’uso illecito. Non ignora, il presidente della Repubblica, che nella guerra di Gaza non si sono registrati deliberati attacchi contro operatori umanitari, personale medico e giornalisti, e che quando si sono verificate uccisioni di appartenenti a quelle categorie si è trattato, alternativamente, di drammatiche conseguenze di operazioni belliche o – in rarissimi casi – di tragici e inescusabili errori di cui l’esercito si è assunto la responsabilità.
  Ancora con il massimo rispetto, si deve poi osservare che il discorso di Sergio Mattarella si segnalava per un tratto di preoccupante ambiguità quando – giusto dopo quell’elenco di violazioni a Gaza – deplorava lo “sterile rimpallo delle responsabilità fra le parti in guerra” e il “chiaroscuro delle narrative opposte”. Il presidente della Repubblica non ignora che, nella guerra di Gaza, c’è una parte – Israele – che ha la responsabilità di difendere il proprio Stato e il proprio popolo facendo la guerra a quelli che vogliono distruggerli; e c’è una parte – il fronte terrorista e genocidiario – che aggredisce Israele e il popolo israeliano rivendicando di volerli distruggere. Il “chiaroscuro” non è nelle narrative opposte, ma nelle rappresentazioni che si prestano a equiparare quelle due responsabilità molto diverse.

(Il Riformista, 14 settembre 2024)

........................................................


TikTok: un’inchiesta rivela 72.000 post di matrice nazista

di Nathan Greppi

Da un’indagine condotta da Sky News, è emerso che i vecchi discorsi e la musica delle marce risalenti alla Germania nazista sono stati trasformati in audio utilizzati come base per numerosi video usciti su TikTok, e che vengono utilizzati come colonne sonore in almeno 72.534 post. I video che utilizzano questi suoni hanno raggiunto alti livelli di interazione sulla piattaforma, con alcuni che hanno ricevuto milioni di “Mi piace” da parte degli utenti.
  Gli esempi includono un post che incolpa gli ebrei per l’islamizzazione dell’Europa, e un altro che contiene il testo “mescolando il bianco con il nero, il bianco scompare”, accanto all’immagine di repertorio di una coppia multietnica.

• DISCORSI NAZISTI
   Una ricerca condotta tra il 2 e il 3 settembre ha trovato 50.023 post che utilizzavano suoni audio che incorporavano discorsi di Adolf Hitler, Joseph Goebbels e altri gerarchi nazisti.
  Per attirare un pubblico più ampio, la maggior parte dei discorsi è impostata su un tipo di musica assai popolare su TikTok, chiamata Drift Phonk, senza che i creatori ne fossero al corrente. Ad esempio, un post mostra l’immagine di un raduno di Norimberga accompagnato da un discorso di Hitler, ed è stato apprezzato da oltre 56.700 utenti. In un commento al suo discorso, che ha ricevuto 1.695 like, un utente afferma che “la società moderna ha assolutamente bisogno di lui”. Un altro dice di Hitler: “Ci manchi”.
  Contattata da Sky News, un artista di nome Pastel Ghost e la cui musica è stata riproposta per creare contenuti nazisti a sua insaputa, ha dichiarato: “Non ero a conoscenza del fatto che la mia musica venisse utilizzata in questo modo, e lo trovo scandaloso”. Ha aggiunto che “io e il mio team stiamo setacciando attivamente TikTok e altre piattaforme per eliminare tutti i casi come questo, in cui il mio lavoro viene utilizzato per promuovere un’ideologia d’odio”.
  Hannah Rose, analista per i fenomeni d’odio presso l’Institute for Strategic Dialogue, ha dichiarato a Sky News: “È scioccante, ma non ci sorprende particolarmente. Sappiamo già da diversi anni che le piattaforme non moderano adeguatamente la portata dell’odio e dei contenuti estremisti. Il che significa che contenuti come i discorsi di Hitler, e contenuti antisemiti, sono presenti non solo in aree marginali, ma anche sulle piattaforme tradizionali”.

• ALTI LIVELLI DI INTERAZIONE
   Per valutare la popolarità dei post che utilizzano questo tipo di audio, Sky News ha esaminato i cinque suoni più utilizzati tra quelli tratti dai discorsi nazisti, e ne ha registrato il coinvolgimento sui 10 post più popolari che utilizzano ciascuno di essi. Il risultato è che questi 50 post hanno ottenuto complessivamente un totale di oltre 13,7 milioni di “Mi piace”. Il post più apprezzato tra questi campioni ha ricevuto oltre 2,5 milioni di “Mi piace”, e include la registrazione di un discorso di Hitler.

(Bet Magazine Mosaico, 14 settembre 2024)

........................................................


La testimonianza di un ex ostaggio: “Hamas teneva Bibas in una gabbia”

di Luca Spizzichino

Adina Moshe, una degli ostaggi liberati da Hamas a novembre, ha raccontato di aver visto Yarden Bibas, padre del piccolo Kfir, in una gabbia sotterranea durante i suoi 49 giorni di prigionia a Gaza. La drammatica testimonianza è emersa in un’intervista rilasciata alla radio dell’esercito israeliano, nella quale Moshe ha descritto le condizioni degli ostaggi nei tunnel. Moshe ha raccontato di aver visto Yarden Bibas e Ofer Kalderon, entrambi del Kibbutz Nir Oz, rinchiusi in una gabbia. “Era buio pesto. Mi sono avvicinata e ho chiesto: ‘Perché siete in una gabbia?’ Loro hanno risposto che non lo sapevano. Quando ho chiesto se avevano affrontato Hamas, è venuto fuori che lo avevano fatto. Durante il rapimento, avevano tentato di opporsi ai terroristi”.
  Lei ha descritto il coraggio di Yarden e Ofer, i quali avevano affrontato gli assalitori nel disperato tentativo di proteggere le loro famiglie. “Mi hanno raccontato la loro storia, e immediatamente ho iniziato a pensare a come poter usare quelle informazioni una volta liberata”. Due giorni dopo, Moshe ha chiesto al comandante dell’unità di Hamas che sorvegliava gli ostaggi se potesse parlare con altri prigionieri del Kibbutz Nir Oz. Sorprendentemente, il comandante ha acconsentito e ha permesso agli ostaggi di trascorrere un’ora insieme. Il giorno successivo, sono stati lasciati insieme per altre due ore, prima di essere nuovamente riportati nelle gabbie.
  Durante la prigionia, Yarden Bibas ha chiesto disperatamente ad Adina Moshe se avesse notizie della moglie Shiri e dei loro figli, Kfir e Ariel. Yarden ha raccontato che, durante l’attacco, aveva tentato di confrontarsi con i terroristi mentre la moglie e i bambini si erano nascosti nel rifugio. “Spero che non li abbiano presi. Sono rimasti nascosti mentre i terroristi mi portavano via”, ha raccontato Bibas, spiegando come fosse stato trasportato a Khan Younis. A dicembre, Hamas ha diffuso un video di propaganda in cui Yarden Bibas appariva costretto a dichiarare che la sua famiglia era stata uccisa, accusando Israele per la loro morte, mentre piangeva disperatamente.
  Adina Moshe ha anche parlato del complicato sistema di tunnel sotterranei utilizzati da Hamas. “Lo Shin Bet non sapeva molto sui tunnel”, ha sottolineato, descrivendo la complessità del sistema: “È un enorme labirinto sotto Gaza. Ci sono linee telefoniche, alimentazioni elettriche, trappole esplosive, e aree di detenzione” ha aggiunto. Dopo la sua liberazione, Moshe è stata interrogata da funzionari della sicurezza israeliana, i quali le hanno chiesto di fornire una descrizione dettagliata del sistema di tunnel. “Ho spiegato loro che non si può semplicemente vedere la struttura, bisogna sentirla. Mi hanno anche chiesto di disegnarla, ma ho detto che non ero in grado di farlo con precisione. Tuttavia, ho cercato di dare più dettagli possibile, incluse le aree che servono per le detenzioni”.

(Shalom, 13 settembre 2024)

........................................................


Pesante attacco di Hezbollah contro il nord di Israele

di Sarah G. Frankl

Una raffica di circa 20 razzi è stata sparata dal Libano verso Israele. Secondo una dichiarazione dell’esercito israeliano la maggior parte di questi è stata intercettata o è caduta in aree aperte.
Nessuno è rimasto ferito. Un’immagine pubblicata dall’emittente pubblica Kan mostra danni di lieve entità a un edificio a Dalton, un moshav vicino a Safed, a causa di un frammento di razzo.
Hezbollah ha rivendicato la responsabilità del lancio di razzi verso la città settentrionale di Safed.
Secondo una dichiarazione, il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran afferma di aver preso di mira una base di difesa aerea a 12 chilometri dal confine con razzi Katyusha per vendicare un attacco israeliano a Kafr Joz.

(Rights Reporter, 13 settembre 2024)

........................................................


Parashà di Ki Tetzè: La mitzvà di non usare insieme lino e lana nei tessuti

di Donato Grosser

Sull’argomento di non usare lino e lana nei tessuti era stato scritto un articolo nella rivista Segulat Israel (n. 4) a cura di Moshè Netzer. Questa pagina è un riassunto dei punti principali di quell’articolo.
   Nella Torà vi sono due fonti che trattano la mitzvà di non usare insieme lino e lana nei tessuti; la prima è in Vaykrà (19:19) dove è scritto: “Osserverete i miei decreti, non devi incrociare i tuoi animali con altre specie, seminare il tuo campo con diverse specie di semi, né indossare vestiti con una mescolanza proibita di fibre”. La seconda fonte è in questa parashà (Devarìm,32:11) dove è scritto: “Non indossare sha’atnez, lana (di pecora) e lino insieme.” Nel versetto viene quindi spiegato che la mescolanza proibita è quella di fibre di lino e di lana.
   I commentatori hanno cercato di chiarire fino a quanto possibile le motivazioni della mitzvà. Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) scrive che la proibizione deriva dal fatto che era usanza dei sacerdoti idolatri usare vestimenti di lino e di lana (Guida dei Perplessi, III:37).
   Rav S.R. Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) in Horeb, nel capitolo dal titolo “Regarding the Species as Divine Order” scrive che l’uomo ha l’obbligo di rispettare l’ordine divino nella Creazione. Pertanto non si devono fare azioni che interferiscano in questo ordine. Pur affermando di non potere andare al di là di una conoscenza superficiale dell’argomento, egli suggerisce una classificazione delle cinque mitzvòt di rispettare l’ordine della Creazione. La prima è quella di non incrociare animali di specie diverse. La seconda è quella di non innestare alberi diversi o di mescolare le sementi. La terza è di non fare lavorare insieme animali di specie diverse (come arare con un bovino e con un asino). La quarta è di non coprirci o scaldarci con materiali tessili risultanti da combinazioni di lino e di lana. La quinta è quella di non cucinare carne nel latte.
   Chi indossa un vestito che include fibre di lino e di lana trasgredisce in ogni momento la mitzvà della Torà. Pertanto non bisogna indossare abiti sui quali si abbia il dubbio che includano misture di fibre di lino e lana neppure temporaneamente. È permesso però provare un vestito in un negozio se non è certo che contenga misture di lino e di lana. Misture di lino e di lana possono essere anche nelle fodere e non solo nel tessuto o nel cucito. La proibizione non ha una misura minima per cui anche un filo di lana in un abito di lino (o viceversa) è sufficiente a proibire di indossare l’abito.
   La mitzvà di non combinare fibre di lino e di lana riguarda solamente la lana di pecora e non la lana di cammello, coniglio, lepre ecc. Tessuti di lana e cotone sono permessi. Dal momento che un solo filo di lino in un abito di lana costituisce sha’atnez, bisogna fare attenzione quando si danno i vestiti in tintoria o al sarto che non vengano usati fili di lino per attaccare le etichette indicanti il numero o il nome del cliente. È raccontato che quando R. Shim’òn bar Yochày (II sec. E.V.) ritirò un abito da un tintore non ebreo, lo fece verificare da dieci sarti per essere certo che non vi fosse stato cucito un filo proibito (Talmùd Yerushalmì, Kilayim, 9:1).
   Alla categoria degli oggetti di vestiario soggetti a combinazioni di fibre di lino e di lana appartengono anche coperte, cappelli, calze, pantofole, stivali e guanti. Il Maimonide afferma che non bisogna usare neppure tovaglie, fazzoletti, asciugamani, o anche vestimenti per gli oggetti del bet ha-kenèsset con misture di lino e di lana perché con essi ci si può scaldare le mani (Mishnè Torà, Hilkhòt Kilaim, 10:24).
   Così come non si devono indossare abiti che contengono misture di lino e di lana, non si devono fare indossare abiti di questo tipo ad altri ebrei, neppure a dei lattanti e così pure usare coperte o lenzuola di questo genere per delle culle. Un ebreo non deve cucire vestiti che contengono misture di lino e di lana se esiste la possibilità che questi abiti vengano venduti ad altri ebrei; e anche vendere abiti a dei non ebrei se esiste la possibilità che costoro li vendano a degli ebrei. I fabbricanti ebrei di tessuti o di abiti di questo genere incorrono nella trasgressione di “porre un inciampo davanti a un cieco” se con questo contribuiscono a far commettere una trasgressione ad un ebreo.
   R. Chayim Kanievsky (Pinsk, 1928-2022, Bene Berak) in Derekh Emunà (note 124-5) scrive che quando si acquistano oggetti di vestiario non ci si può fidare di venditori o di sarti, sia per via di conflitti di interesse sia per il fatto che anche i sarti spesso non sono in grado di distinguere tra i numerosi tipi di fibre. L’etichetta non è una garanzia che un capo di vestiario non includa fibre di lino e di lana in quanto elenca solo le fibre del tessuto e non delle imbottiture e dei fili usati per la cucitura. C’è chi, diversi anni dopo aver comprato un vestito, ha scoperto che i colletti delle giacche e i bordi delle tasche erano rinforzati con tessuti di lino. Inoltre, le leggi statali non richiedono l’indicazione delle fibre contenute in quantità molto piccole e l’indicazione sull’etichetta è spesso imprecisa. Pertanto è importante fare verificare il vestiti dagli esperti nelle comunità.

(Shalom, 13 settembre 2024)
____________________

Parashà della settimana: Ki Tetzei (Quando uscirai)

........................................................


Idf: “Sconfitta la Brigata Rafah di Hamas, nessun tunnel attivo al confine con l’Egitto”

Le Forze di difesa d’Israele (Idf) hanno “sconfitto” la Brigata Rafah del movimento islamista palestinese Hamas nel sud della Striscia di Gaza. Lo ha dichiarato oggi ai giornalisti il generale di brigata Itzik Cohen, comandante della 162ma Divisione delle Idf e responsabile dell’offensiva nella città più a sud di Gaza, Rafah. Almeno 2.308 dei membri della Brigata Rafah sarebbero stati uccisi dalle Idf e più di 13 chilometri di tunnel sarebbero stati distrutti. “La Brigata Rafah è stata sconfitta”, ha detto Cohen, aggiungendo: “I loro quattro battaglioni sono stati distrutti e abbiamo completato il controllo operativo dell’intera area urbana”.
  Il generale israeliano ha anche spiegato che sono stati trovati 203 tunnel nel Corridoio di Filadelfia, che si estende dal confine con l’Egitto a circa 300 metri di distanza alla periferia della città di Rafah, aggiungendo che “la maggior parte di essi è stata distrutta”. “Stiamo operando negli altri siti e quando avremo finito di investigare, saranno distrutti”, ha affermato Cohen. In totale, ci sono nove tunnel che “attraversano il territorio egiziano, ma sono crollati, non sono utilizzabili, non sono attivi”, ha concluso il generale.

(Nova News, 12 settembre 2024)

........................................................


“A Gaza è in atto un genocidio”. Le ragioni di un falso

I filo-pal insistono da mesi nell’utilizzare un termine improprio per descrivere quanto sta accadendo sulla Striscia

di Francesco Teodori

Sarebbe opportuno, riteniamo a questo punto, riflettere attentamente sul significato delle parole. Significato letterale ed intrinseco. La parola “genocidio” è entrata ormai nel linguaggio comune per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza, e la forza genocidiaria, ossia colei che opera il genocidio, sarebbe giustappunto Israele. Un uso certamente evocativo del termine, utile forse a commuovere gli animi di chi assiste, ma decisamente fuorviante.Riprendiamo per un attimo in mano il dizionario degli etimi. Il termine “genocidio” è formato dalla radice greca di ghénos, ossia “razza”, “stirpe”, e dal verbo latino caedo, “uccidere”, da cui poi si forma la desinenza cidium. Dunque, la distruzione di una razza, di un gruppo etnico in quanto tale. La sola caratteristica che giustifica il massacro, nel senso linguistico del termine, è il fatto che un insieme di esseri umani possieda una particolare caratteristica (fisica, etnica, religiosa) tale da giustificarne lo sterminio. Nella storia gli esempi sono, tristemente, molteplici. Il genocidio degli armeni fu attuato dai turchi ottomani contro il gruppo etnico, per l’appunto, degli armeni. L’Olocausto vide come protagonisti del massacro sistematico gli ebrei in quanto ebrei. Il genocidio del Ruanda ebbe come vittime la minoranza etnica dei Tutsi, sterminati per via di un tremendo odio interetnico con la maggioranza Hutu.
  Durante le guerre jugoslave l’esercito serbo si macchiò di crimini atroci contro la minoranza religiosa dei bosgnacchi, ossia i musulmani bosniaci, massacrati nel tristemente noto eccidio di Srebrenica. In Cambogia gli Khmer rossi adoperarono metodi genocidiari uccidendo sommariamente la popolazione borghese cambogiana; si rammenta di uomini uccisi solamente perché portavano gli occhiali, simbolo odiato della classe borghese. Ora, dopo un simile elenco di atrocità, considerare gli avvenimenti di Gaza come parte di un genocidio in corso è decisamente iperbolico, se non indecente. I palestinesi non vengono uccisi in quanto palestinesi; Israele non ci sembra nutrire un particolare odio etnico nei confronti del suo scomodo vicino (in Israele vive 1 milione e mezzo di palestinesi). La popolazione di Gaza è vittima di una guerra iniziata da chi controllava quella città, ossia Hamas.
  Se si seguisse il discorso di chi, erroneamente, parla di genocidio, dovremmo considerare gli americani come i maggiori autori di atti genocidiari: i bombardamenti di Dresda, la guerra contro i vietnamiti, le bombe atomiche sul Giappone. Anche noi europei non saremmo da meno dopo i bombardamenti della Nato sulla ex Jugoslavia. La guerra coinvolge tutti, anche i civili, ma guerra non significa necessariamente genocidio. Che poi semmai l’unico atto genocidiario è stato il pogrom perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Le parole sono pietre usava dire Carlo Levi, usiamole nel modo corretto.

(nicolaporro.it, 12 settembre 2024)

........................................................


IDF, tre membri dello staff UNRWA erano miliziani di Hamas

Dei nove miliziani di Hamas uccisi nell’attacco contro un’ex scuola dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) che accoglie gli sfollati nella Striscia di Gaza tre erano anche componenti dello staff dell’UNRWA.
È quanto riportano i media locali secondo i quali le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno identificato e redatto una lista dei nove militanti di Hamas morti in seguito all’attacco di ieri.
Secondo l’IDF a far parte del personale dell’UNRWA ed essere contemporaneamente membri del braccio militare di Hamas erano Muhammad Adnan Abu Zaid, Yasser Ibrahim Abu Sharar e Iyad Matar. In base alle informazioni diffuse dall’esercito almeno due di loro sarebbero stati responsabili anche del lancio di colpi di mortai contro le truppe israeliane.
Gli altri sei terroristi identificati dall’IDF sono: Ayser Qardaya, Bassem Majed Shahin, Omar al-Judaili, Akram Saber al-Ghalidi, Muhammad Issa Abu al-Amir e Sharif Salam. Tutti componenti delle forze di sicurezza interne di Hamas. Alcuni di loro avrebbero inoltre partecipato agli attacchi del 7 ottobre scorso.
Ieri l’UNRWA aveva reso noto che sei suoi dipendenti sono stati uccisi in due raid aerei israeliani sul campo profughi di Nuseirat, nella zona centrale di Gaza, precisando che si tratta del “più alto numero di vittime tra i nostri dipendenti in un singolo incidente” durante la guerra. Complessivamente, secondo la protezione civile gestita da Hamas, le vittime sarebbero 18.
Il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha commentato su X che “quello che sta accadendo a Gaza è completamente inaccettabile. Una scuola trasformata in un rifugio per 12’000 persone è stata colpita dagli attacchi di Israele. Sei dei nostri colleghi dell’UNRWA sono fra le vittime. Queste drammatiche violazioni della legge umanitaria internazionale devono fermarsi ora”.

(tvsvizzera.it, 12 settembre 2024)

........................................................


Israele revoca tessere stampa ai giornalisti di al Jazeera

L’ufficio stampa del governo israeliano ha annunciato la revoca delle tessere stampa di tutti i giornalisti di Al Jazeera che lavorano in Israele. Una decisione che segue quella del governo del 5 maggio, in conformità con una legge di emergenza approvata ad aprile, di sospendere l’attività della rete e bloccarne le trasmissioni per “violazione della sicurezza nazionale”. La revoca non riguarda produttori e fotografi.
  “Si tratta di un mezzo di comunicazione che diffonde contenuti falsi, che includono incitamenti contro israeliani ed ebrei e costituiscono una minaccia per i soldati dell’Idf -ha affermato il capo dell’ufficio stampa governativo Nitzan Chen- Pertanto l’utilizzo delle tessere stampa da parte dei giornalisti dell’emittente potrebbe di per sé mettere a repentaglio la sicurezza dello Stato in questo momento di emergenza militare”.

(Professione Reporter, 12 settembre 2024)

........................................................


Ecco com’è realmente ridotto Hamas dopo 11 mesi di guerra

Una risposta concreta a coloro che "magnificano" la resistenza di Hamas

Mercoledì il ministro della Difesa Yoav Gallant, con l’obiettivo di dare un’idea di come è ridotto Hamas, ha rivelato un documento scritto dall’ex comandante della Brigata Khan Younis di Hamas nel sud di Gaza, Rafa’a Salameh, e indirizzato al leader di Hamas Yahya Sinwar e a suo fratello Muhammad, in cui il comandante descrive la “difficile situazione” in cui si è trovato il gruppo terroristico.
Salameh, uno degli ideatori del massacro del 7 ottobre perpetrato dal gruppo terroristico, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano nel sud di Gaza a luglio, in cui è morto anche il comandante di Hamas Muhammad Deif.
Nella lettera ha scritto: “Si prega di considerare quanto segue: manteniamo le armi e l’equipaggiamento rimanenti, poiché abbiamo perso il 90-95 percento delle nostre capacità missilistiche; e abbiamo perso circa il 60% delle nostre armi personali; abbiamo perso almeno il 65-70% dei nostri lanciatori anticarro e dei nostri razzi”.
“La cosa più importante,” ha continuato, “è che abbiamo perso almeno il 50% dei nostri combattenti tra coloro che sono stati martirizzati e feriti, e ora ci resta il 25%. L’ultimo 25% della nostra gente ha raggiunto una situazione in cui la gente non li tollera più, distrutti a livello mentale o fisico.”
Gallant ha affermato che il documento mostra “una reale difficoltà che colpisce Hamas e colpisce i comandanti più anziani”.
Salameh “chiede a gran voce l’aiuto dei fratelli Sinwar, ma ovviamente non possono salvarlo”, ha detto Gallant.
“Perché? Perché stiamo continuando lo sforzo iniziato a ottobre e continua passo dopo passo… e raggiunge tutti gli alti funzionari di Hamas. Lui ha scritto questo ai fratelli Sinwar, noi raggiungeremo anche loro”, ha continuato il ministro della difesa.
Yahya Sinwar è il leader di Hamas a Gaza ed è considerato la mente dell’attacco del gruppo del 7 ottobre 2023, quando migliaia di terroristi invasero il sud di Israele dalla Striscia di Gaza, uccidendo circa 1.200 persone e prendendo 251 ostaggi, dando inizio all’attuale guerra.
Sinwar è stato nominato il mese scorso capo del gruppo terroristico in seguito all’assassinio del precedente leader Ismail Haniyeh, avvenuto il 31 luglio. Suo fratello Muhammad è un comandante di alto rango nell’ala militare di Hamas.
Mercoledì Gallant ha pubblicato sui social media anche un video dalla stessa struttura, in cui si vede una foto dei figli di Muhammad Sinwar in posa davanti a una raffigurazione dell’attacco dell’11 settembre 2001 al World Trade Center negli Stati Uniti.
La foto è stata scoperta di recente in un tunnel sotto Khan Younis, ha detto Gallant nel video, pubblicato nel 23° anniversario degli attacchi dell’11 settembre.

(Rights Reporter, 12 settembre 2024)

........................................................


Piantedosi vieta le manifestazioni pro Hamas il 7 ottobre

di Simone Canettieri.

Il manifesto dei Giovani Palestinesi che indice una manifestazione per celebrare il 7 Ottobre, come atto di "resistenza". E il Viminale, giustamente, ha deciso di vietarla. Non si può inneggiare al terrorismo, nemmeno un paese libero. Il Viminale vieterà – per la prima volta – le manifestazioni in programma nella capitale a ridosso del 7 ottobre. A un anno dall’eccidio di Hamas in Israele, il ministero dell’Interno è intenzionato a non lasciare nulla al caso. Motivi di ordine pubblico, e non solo. Troppi i campanelli che stanno suonando dalle parti del ministro dell’Interno Matteo Piantendosi. Chi si occupa di monitorare i movimenti in rete delle varie associazioni pro Pal ha notato l’attivismo dell’organizzazione “Giovani palestinesi”. Accompagnato da card e manifesti che non possono essere equivocati: “Il 7 ottobre 2023 è la data di una rivoluzione. Dopo un anno il valore dell’operazione della resistenza palestinese e della battaglia del ‘Diluvio di Al Aqsa’ è chiaro a tutto il mondo”, si legge nel comunicato finito sul tavolo di Piantedosi. Di questo argomento – l’allarme e le relative contromisure – si è discusso ieri mattina durante una riunione riservata del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica (Cnosp) presieduta dal ministro. Presenti tutte le forze di polizia, i principali prefetti italiani e soprattutto gli uomini della nostra intelligence. Una riunione simile, ma su scala provinciale, è in programma questa mattina in prefettura a Roma. E sarà sempre il titolare del Viminale a condurla. Le vie della capitale sono state scelte dai “Giovani palestinesi”. In subordine è prevista anche un’altra manifestazione. Ma a Milano. Per entrambe medesimo verdetto.
  Se i presupposti saranno questi, cioè osannare l’azione di Hamas e incitare all’odio contro Israele, la scelta di Piantedosi sarà obbligata. Le indicazioni dei nostri 007 fanno propendere la scelta verso questa direzione: manifestazioni annullate. Sarebbe la prima volta di questo governo. L’unico precedente simile, ma non uguale, è dello scorso 27 gennaio, Giorno della memoria. Quando il Viminale decise di rinviare due cortei pro Palestina in programma a Roma e a Milano di qualche giorno. Per evitare una concomitanza in una ricorrenza così importante che avrebbe potuto portare a problemi di ordine pubblico come scontri con la polizia. All’epoca fu bollata dal governo “come una decisione di buon senso”.
  Non circolano numeri esatti dei possibili partecipanti a queste manifestazioni.
  Tuttavia a un anno dal 7 ottobre e dopo la reazione del governo israeliano nella Striscia di Gaza che dura ormai da dodici mesi, le prime cifre sono di tutto rispetto: “Intorno alle diecimila persone”, filtra dal Viminale. Nei giorni scorsi, appena l’allarme si è affacciato, in Parlamento c’è chi ha sollevato il problema. Chiedendo a Piantedosi tolleranza zero. Dopo aver presieduto il Cnosp, il ministro è andato a Palazzo Chigi per una serie di riunioni. Quella più importante, politica, è stata con la premier Meloni e i colleghi Tajani (Esteri) e Crosetto (Difesa). Nella sessione ministeriale si è parlato del Dl sicurezza, in un’altra precedente a cui hanno partecipato i vertici dei Servizi e delle forze dell’ordine, di scenari e di sicurezza.
  L’appuntamento, almeno come spiegano fonti del governo, fa parte della routine. Di sicuro vietare due manifestazioni con un conflitto in medio oriente ancora in corso, e lontano da una soluzione di tregua o di pace, è un argomento su cui anche Meloni è chiamata a esporsi. O almeno a dare il via libera in maniera informale, alla luce delle informazioni in possesso dell’intelligence italiana. Il Viminale dopo la riunione di ieri mattina è intenzionato ad andare dritto: linea dura per evitare sbavature o spiacevoli incidenti o inconvenienti. Per chi si occupa di sicurezza e gestione della piazza questa è davvero l’ultima ipotesi da prendere in considerazione.
  Finora tutte le manifestazioni pro Palestina sono state sempre autorizzate per cercare anche di capire chi voleva propagandare tra la folla messaggi di odio e di violenza. Un’occasione, dunque. Questa volta però non sarà così. Sull’agenda del Viminale c’è sicuramente un’iniziativa che balla a Roma per il 5 ottobre, un sabato, giorno di più facile adesione. E un’altra che potrebbe esserci a Milano lo stesso giorno o al massimo il 7. Quando sarà passato un anno esatto dalla violenza dei terroristi palestinesi che è costata la vita a più di 1200 civili e militari israeliani.

Il Foglio, 12 settembre 2024)

........................................................


Parigi: sventati tre attacchi terroristici durante le Olimpiadi

PARIGI - Secondo le autorità di sicurezza francesi, durante i Giochi Olimpici di Parigi sono stati sventati tre attacchi terroristici. Il procuratore antiterrorismo Olivier Christen lo ha dichiarato mercoledì all'emittente radiofonica “France Info”. Uno di essi era diretto contro “strutture o rappresentanze israeliane” a Parigi, ma non contro la delegazione.
  I terroristi hanno preso di mira anche i pub intorno allo stadio Geoffroy-Guichard di Saint-Étienne. Lì si sono svolte sei partite del torneo olimpico di calcio, tra cui una delle partite delle donne tedesche.
  Christen ha aggiunto che tutti e tre i piani di attacco avevano legami con i jihadisti. Cinque sospetti sono attualmente in custodia, tra cui un minore.

• IMMENSA PRESENZA DI SICUREZZA
   Secondo gli organizzatori, ai giochi sono stati schierati 30.000 agenti di polizia, 20.000 soldati e fino a 22.000 addetti alla sicurezza privata. Tuttavia, la commemorazione del massacro olimpico del 1972 è stata spostata in un luogo segreto per motivi di sicurezza.
  Il servizio segreto israeliano Shabak ha garantito la sicurezza degli israeliani in collaborazione con le autorità francesi. In vista dei Giochi, il ministro dello Sport israeliano Miki Sohar (Likud) ha dichiarato che il governo ha triplicato il budget per la sicurezza rispetto a Tokyo 2021.

(Israelnetz, 12 settembre 2024)

........................................................


La rinascita di Yonatan: dalla tragedia alla speranza

di Yael Di Porto

Il sergente maggiore Yonatan Ron, un giovane soldato dell’esercito israeliano di soli 21 anni, ha affrontato una delle prove più difficili della sua vita: una grave ferita durante un’operazione militare in cui ha perso una gamba.
  Nonostante la tragedia, la sua forza di volontà non è mai venuta meno. Prima ancora di concludere il suo percorso di riabilitazione, Yonatan aveva già stabilito obiettivi ambiziosi: tornare a servire nell’esercito, viaggiare per il mondo e correre una mezza maratona.
  La scorsa settimana, Yonatan ha preso parte come spettatore ai Giochi Paralimpici di Parigi, partecipando alla delegazione di El Al composta da soldati israeliani feriti nel conflitto attuale iniziato tra Israele e Gaza, per poi espandersi anche con i paesi confinanti. Tra la folla di spettatori, Yonatan si è fatto notare con la sua maglietta bianca e blu, sventolando con orgoglio la bandiera israeliana mentre osservava con ammirazione i concorrenti della delegazione israeliana. “Quando subisci una ferita così grave, all’inizio pensi che il mondo sia finito. Ma poi ti ritrovi a eventi come questo, dedicati interamente a persone che vivono la tua stessa situazione, e capisci che non c’è spazio per le lamentele”, ha dichiarato Yonatan, riflettendo sulla sua esperienza ai Giochi.
  Ferito durante un’operazione lo scorso gennaio, Yonatan ha raccontato di come il 7 ottobre sia stato chiamato d’urgenza per una missione ad alto rischio. “Ogni missione può costarti la vita, ma quando riesci, sai che hai evitato che un’altra famiglia venga colpita dal dolore. In quei momenti l’adrenalina scorre forte e non hai paura di nulla”, ha spiegato.
  Purtroppo, durante una missione di routine, il veicolo della sua squadra è esploso a causa di un ordigno esplosivo. Yonatan e altri due soldati sono rimasti gravemente feriti, mentre la soldatessa Shay Gormay ha perso la vita. “Sono stato sbalzato fuori dal veicolo e ho visto la mia gamba destra ancora attaccata, ma completamente girata, con una frattura esposta. Mentre i proiettili volavano sopra di me, tutto ciò a cui riuscivo a pensare era come poter fornire assistenza medica ai miei compagni”, ha raccontato Yonatan, ricordando quei momenti drammatici. Trasportato in condizioni critiche all’ospedale Rambam di Haifa, ha subito l’amputazione della gamba destra e gravi lesioni alla sinistra. Nonostante tutto, la determinazione di Yonatan è stata ammirevole. Dopo l’incidente, ha stabilito tre obiettivi fondamentali: tornare a viaggiare, riprendere a correre e, soprattutto, tornare a servire in uniforme.
  Durante i Giochi Paralimpici, Yonatan ha indossato un adesivo in memoria della sua compagna d’armi, Shay Gormay, la soldatessa che ha perso la vita nell’esplosione. “Ci sono persone che parlano senza fare e persone che fanno senza parlare”, si leggeva sull’adesivo, accanto a una foto di Shay in divisa, sorridente.
  Essere presente ai Giochi Paralimpici come membro della delegazione di sostegno è stato per lui un’esperienza straordinaria. “Essere qui, soprattutto in questo momento, è un’opportunità unica”, ha dichiarato Yonatan. Ma il suo spirito ambizioso lo spinge a guardare oltre: tra una gara di tennis e una di nuoto, ha già fissato il suo prossimo obiettivo. “Forse tra quattro anni tornerò ai Giochi Paralimpici, ma questa volta come partecipante”.
  La storia di Yonatan Ron è un esempio di resilienza, forza di volontà e speranza, e dimostra come, anche dopo una tragedia, sia possibile rinascere e guardare al futuro con ottimismo.

(Shalom, 12 settembre 2024)

........................................................


L’IDF mostra il tunnel “degli orrori” dove erano tenuti prigionieri i sei ostaggi assassinati di recente da Hamas

Martedì 10 settembre le Forze di Difesa israeliane hanno diffuso un filmato che mostra l’interno di un tunnel nel sud della Striscia di Gaza dove sei ostaggi israeliani sono stati uccisi da terroristi di Hamas alla fine del mese scorso e i loro corpi sono stati trovati e recuperati dalle truppe israeliane due giorni dopo.
  Il video mostra il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, mentre visita il claustrofobico passaggio sotterraneo nel quartiere Tel Sultan di Rafah. Il tunnel è stato visto disseminato di bottiglie di urina, vestiti da donna e grandi macchie di sangue sul terreno, dove sono stati uccisi gli ostaggi.
  Gli ostaggi Hersh Goldberg-Polin, Eden Yerushalmi, Ori Danino, Alex Lobanov, Carmel Gat e Almog Sarusi sono stati giustiziati nel tunnel dai loro rapitori il 29 agosto, prima di essere scoperti dalle truppe il 31 agosto.
  Oltre al filmato, l’IDF ha rilasciato nuovi dettagli sul tunnel e sull’operazione di ritrovamento dei corpi dei sei israeliani uccisi, tra cui il fatto che erano tenuti a soli 700 metri di distanza da dove un altro ostaggio era stato salvato vivo giorni prima.
  Il tunnel in cui sono stati ritrovati i corpi è uno stretto passaggio di 120 metri – non abbastanza alto da poterci stare in piedi senza piegarsi – che collegava parti di una vasta rete sotterranea nel quartiere di Tel Sultan, che secondo l’IDF apparteneva alla Brigata Rafah di Hamas. La rete di tunnel era uno dei più grandi complessi sotterranei trovati dall’esercito a Gaza fino ad oggi, hanno detto le fonti militari.
  All’interno del tunnel, situato a circa 20 metri di profondità, l’IDF ha trovato cibo e attrezzature che, secondo l’IDF, sono state utilizzate dai terroristi di Hamas e dagli ostaggi israeliani per sopravvivere sottoterra per lunghi periodi. Secondo fonti dell’IDF, le scorte erano sufficienti per sopravvivere nel tunnel per almeno diverse settimane.
  Tra gli oggetti trovati nel tunnel c’erano cibo secco, acqua, un secchio usato come gabinetto di fortuna, numerose bottiglie di urina, materassi e caricatori di fucili d’assalto.
  Il video è stato mostrato alle famiglie e ai membri del gabinetto israeliano.
  Il video pubblicato questa sera dall’IDF dimostra le condizioni inimmaginabili e disumane in cui sono stati tenuti per mesi i 6 ostaggi Alex, Hersh, Eden, Ori, Carmel e Almog. Le macchie di sangue secco non lasciano dubbi sulla crudeltà dei loro ultimi momenti – si legge in una nota del Forum delle Famiglie degli ostaggi -.  Il filmato di stasera dal “tunnel degli orrori” è scioccante. Rivela le orribili condizioni sopportate da Carmel Gat, Hersh Goldberg-Polin, Alex Lobanov, Almog Sarusi, Ori Danino e Eden Yerushalmi – per 11 mesi. Sono stati confinati in stretti tunnel alti 1,5 metri, in profondità, privati dell’aria e delle condizioni sanitarie e sottoposti a continui abusi mentali e fisici prima della loro brutale esecuzione. Carmel, Hersh, Alex, Almog, Ori ed Eden hanno sofferto fino all’ultimo respiro. Hanno implorato di essere rilasciati, hanno supplicato per la loro vita. Hanno lottato per la loro vita fino alla morte.”
  A gaza ci sono 101 ostaggi ancora detenuti (almeno 30 dei quali già dichiarati morti dall’IDF), che stanno sopportando sofferenze inimmaginabili.

(Bet Magazine Mosaico, 11 settembre 2024)
____________________

Il pogrom del 7 ottobre non è, come la Shoah, un evento del passato: è un fatto del presente, è “in corso d’opera”. Non ci viene riportato con testimonianze orali, documenti o libri, ma trasmesso quasi in diretta con i più moderni strumenti video. E noi assistiamo al pogrom in corso con valutazioni e giudizi diversi sul contenuto dello spettacolo, senza accorgerci che siamo diventati noi stessi parte in causa del pogrom, partecipi diretti di un orrendo super-spettacolo di cui forse un giorno saremo chiamati a rispondere. M.C.

........................................................


La strategia di Hamas

“Israele opera su quattro fronti a Gaza”, ci dice il generale Amidror. Lo strike a Khan Younis

di Giulio Meotti

ROMA - Jet da combattimento israeliani hanno colpito importanti operativi di Hamas in un centro di comando incastonato nella zona umanitaria di Khan Younis, nella Striscia di Gaza. Secondo “fonti palestinesi”, l’attacco aereo ha ucciso quaranta persone. Questo è il secondo importante attacco aereo israeliano a Gaza nelle ultime settimane. Il mese scorso, i jet israeliani hanno colpito un centro di comando di Hamas nascosto all’interno di una scuola a Gaza City. I terroristi hanno ripreso a lanciare razzi verso la città di Ashkelon, nel sud di Israele. Segno che Hamas si sta riorganizzando anche nelle zone che Israele riteneva sicure. All’interno di Gaza, Israele è concentrato sul controllo di due corridoi, uno sul confine meridionale con l’Egitto e il corridoio centrale di Netzarim, che isola Gaza City dal resto della Striscia a sud. Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha visitato il corridoio di Netzarim l’8 settembre e giurato che Israele avrebbe eliminato i leader di Hamas a Gaza: “Raggiungeremo Muhammed Sinwar e anche Yahya Sinwar. Chiunque la pensi diversamente dovrebbe guardare Marwan Issa e Muhammed Deif: anche loro pensavano di essere immuni, non sono con noi oggi”. Yahya Sinwar intende prolungare la guerra e la sofferenza dei civili a Gaza, per migliorare la sua posizione nei negoziati di cessate il fuoco e garantire che il gruppo terroristico possa ricostruire la sua potenza militare. Un documento trovato su un computer del leader di Hamas e visionato dal quotidiano tedesco Bild descrive in dettaglio come la sofferenza degli ostaggi israeliani tenuti prigionieri a Gaza va usata per esercitare pressione sul pubblico israeliano.
  L’ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale, il generale Yaakov Amidror, al Foglio spiega: “Sono realista al momento, stiamo andando bene e ci stiamo concentrando su quattro fronti. Controllare il corridoio Filadelfi e distruggere i tunnel che vi passano sotto, accerchiare Rafah e Khan Younis, a Netzarim ripulire l’area e avere un corridoio importante verso sud e infine entrare ancora dove Hamas si sta riorganizzando”. E se Israele si ritirasse ora? “Entro un anno, Hamas tornerebbe a essere forte come prima”.
  Amidror spiega la strategia di Hamas. “Hamas usa tutte le aree umanitarie per sferrare attacchi a Israele. Sinwar vuole sopravvivere alla guerra e dire al cessate il fuoco ‘abbiamo vinto’ per poi riorganizzare il prossimo 7 ottobre. Non gli interessa quanti civili di Gaza moriranno”.
  E Sinwar starebbe pianificando di utilizzare il corridoio per fuggire con gli ostaggi israeliani verso il Sinai, per poi essere trasferiti in un paese ostile a Israele. Informazioni che sarebbero state ottenute dall’interrogatorio di un alto funzionario di Hamas catturato e dall’analisi di documenti sequestrati dopo il recupero dei corpi di sei ostaggi il 29 agosto a Rafah.
  Intanto continuano a emergere dettagli sugli ostaggi in mano a Hamas. Esther Buchshtab, il cui figlio Yagev è stato ucciso in prigionia da Hamas e il cui corpo è stato recuperato a Khan Younis tre settimane fa, ha detto lunedì che suo figlio “è stato rapito vivo e riportato morto: è stato assassinato”.

Il Foglio, 11 settembre 2024)

........................................................


Do ut des. Israele ha offerto un salvacondotto al capo di Hamas in cambio del rilascio degli ostaggi

Il capo negoziatore israeliano Gal Hirsch ha dichiarato che Yahya Sinwar e la sua famiglia potrebbero uscire incolumi dalla Striscia di Gaza se saranno liberati i centouno prigionieri ancora detenuti dal gruppo terroristico palestinese dopo il pogrom del 7 ottobre.

Il capo negoziatore israeliano per gli ostaggi catturati da Hamas il 7 ottobre 2023 ha dichiarato al canale televisivo statunitense Cnn che Israele sarebbe disposto a garantire un salvacondotto al leader di Hamas,  in cambio dei prigionieri detenuti dal gruppo terroristico palestinese. Gal Hirsch ha ribadito la sua proposta in un intervista con Bloomberg in occasione del suo viaggio a Washington promettendo però anche la demilitarizzazione e la deradicalizzazione della Striscia di Gaza.
  Yahya Sinwar, ritenuto il principale responsabile dell’ideazione dell’attacco del 7 ottobre in Israele, durante il quale sono state uccise milleduecento persone e più di duecentocinquanta sono state prese in ostaggio, è attualmente nascosto nella rete di tunnel sotto Gaza e non appare in pubblico da undici mesi. Il salvacondotto non sarebbe solo per lui, ma anche per i membri della sua famiglia ed entourage.
  Il gruppo terroristico palestinese non ha commentato ancora la proposta e neanche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ancora chiarito la sua posizione sull’offerta di Hirsch. In passato, Netanyahu ha dichiarato che una resa di Hamas, compreso il disarmo totale, è la condizione necessaria per porre fine al conflitto. L’idea di un passaggio sicuro per Sinwar è stata discussa anche in passato, ma l’opinione pubblica israeliana resta divisa: alcuni vedono l’offerta come una concessione troppo grande a un leader accusato di crimini di guerra, mentre altri sperano che questa mossa possa portare a una rapida risoluzione della crisi umanitaria e alla liberazione degli ostaggi.

(LINKIESTA, 11 settembre 2024)

........................................................


Il Canada sospende quasi 30 permessi di esportazione di armi verso Israele

Il Ministro degli Affari Esteri Melanie Joly ha dichiarato: “La nostra politica è chiara: non permetteremo l'invio di alcuna forma di armi o parti di armi a Gaza. Punto e basta”.

Il Ministro degli Esteri canadese, Melanie Joly, ha annunciato martedì la sospensione di circa 30 permessi di esportazione di armi verso Israele. La decisione, che include una rara misura contro una filiale canadese di un'azienda americana che lavora con il governo degli Stati Uniti, fa parte di una revisione dei contratti di armi canadesi con Israele e altri Paesi.
  “Quest'estate ho sospeso circa 30 licenze esistenti per aziende canadesi”, ha dichiarato Joly. Queste licenze erano state approvate prima del divieto di gennaio sulle nuove vendite di armi che potrebbero essere utilizzate a Gaza, dove la crisi umanitaria si sta aggravando nel contesto della guerra in corso.
  Il ministro ha sottolineato la posizione del Canada: “La nostra politica è chiara: non invieremo a Gaza alcuna forma di armi o parti di armi. Punto e basta”. Ha aggiunto che “non importa” come o dove vengano inviate, riferendosi alle munizioni che saranno prodotte da una divisione canadese dell'appaltatore della difesa statunitense General Dynamics per le Forze di Difesa israeliane.
  Questa decisione arriva in un contesto di crescente pressione sul governo canadese, con il moltiplicarsi delle manifestazioni pro-palestinesi in tutto il Paese. Israele è storicamente uno dei principali destinatari delle esportazioni di armi canadesi, con 21 milioni di dollari di equipaggiamenti militari nel 2022.
  La sospensione delle licenze di esportazione da parte del Canada fa eco a una decisione simile presa di recente dal Regno Unito, che ha sospeso anche alcune esportazioni di armi verso Israele.

(i24, 11 settembre 2024)

........................................................


Studio israeliano: un nuovo trattamento per il tumore del retto

di Jacqueline Sermoneta

Un passo importante nella lotta contro il tumore del retto. Un recente studio, condotto dal Davidoff Comprehensive Cancer Center del Beilinson Hospital, il più importante ospedale oncologico di Israele, ha dimostrato come una nuova terapia abbia contribuito a eliminare il cancro del retto nel 65% dei pazienti trattati e, nella maggior parte dei casi, senza intervento chirurgico. Questo nuovo trattamento combina l’immunoterapia con la chemio – radioterapia preoperatoria più avanzata, una speranza in più per migliaia di pazienti in tutto il mondo.
  I risultati dello studio sono stati presentati al congresso della Società Europea di Oncologia Medica Gastrointestinale (ESMO GI), tenutosi a Monaco di Baviera, in Germania.
  Il cancro del retto rappresenta circa il 25% dei casi di tumore colon-rettale e di solito viene scoperto quando è in uno stadio localmente avanzato, pertanto richiede terapie multidisciplinari. Nel caso di tumore non metastatico, il trattamento solitamente prevede l’intervento chirurgico. Tuttavia, la rimozione della formazione maligna spesso provoca gravi danni alla qualità della vita del paziente e, a volte, è necessaria l’asportazione totale o parziale dell’ano stesso.
  I risultati preliminari dello studio, portato avanti dal Prof. Brenner, direttore del Dipartimento di oncologia e dell’Unità di oncologia gastrointestinale presso il Davidoff Center, hanno rilevato che nel 65% dei pazienti i tumori del retto sono scomparsi in seguito al nuovo metodo terapeutico e molti di loro non hanno dovuto sottoporsi a intervento chirurgico. Grazie al suo successo, lo studio verrà esteso in diversi ospedali in Israele e Germania, con la partecipazione di un team multidisciplinare di specialisti oncologici.
  “Questa ricerca è molto promettente e può cambiare il modo in cui il cancro del retto viene trattato a livello globale. – ha affermato il Prof. Brenner – I risultati indicano il potenziale di questo nuovo approccio terapeutico per aiutare ad eliminare il tumore in modo non chirurgico, il che aumenta la qualità della vita del paziente una volta in remissione. Sebbene siamo ancora nelle fasi di ricerca, le prove di questo studio indicano che combinare l’immunoterapia nel trattamento preoperatorio può effettivamente aumentare le possibilità che il tumore scompaia”.

(Shalom, 11 settembre 2024)

........................................................


La propaganda psicologica di Hamas: riprese e messinscene

Le testimonianze di alcuni ostaggi

di Olga Flori 

Cominciano ad emergere maggiori dettagli sulle strategie adottate da Hamas nella subdola guerra psicologica contro Israele. Sabato il The Wall Street Journal ha pubblicato un articolo in cui si è concentrato soprattutto su come i terroristi abbiano costretto gli ostaggi rapiti il 7 ottobre a partecipare nei video pubblicati da Hamas.
  Gli ostaggi sono stati costretti a ripetere ciò che gli veniva ordinato dai terroristi che li detenevano. Vere e proprie sceneggiature curate nei minimi dettagli sia nelle parole che nei gesti. Le riprese sono state fatte da una piccola troupe che includeva un cameraman e una persona che parlava in ebraico.
  In particolar modo, The Wall Street Journal ha riportato quanto rivelato da Aviva Siegel. La donna era stata catturata dai terroristi durante l’attacco dello scorso 7 ottobre ed è stata liberata dopo 50 giorni, durante la tregua di novembre. Siegel ha spiegato che gli ostaggi sono stati obbligati a partecipare alle riprese seguendo accuratamente le istruzioni dei propri aguzzini. I terroristi le hanno dato alcune frasi su cui basarsi e qualora avesse sbagliato durante la registrazione, avrebbero ricominciato dall’inizio fino a quando non avesse raggiunto il risultato che volevano.
  Ad esempio Siegel ha ricordato che le riprese del suo filmato sono state interrotte perché non aveva detto di venire da Kfar Aza, oppure perché non aveva detto che Netanyahu la dovesse far tornare a casa. «Dimenticavo sempre qualcosa, quindi dovevo ripeterlo di nuovo» ha spiegato Siegel. I terroristi l’avrebbero anche filmata seduta ad un tavolo sul quale era stato disposto del cibo. Le avrebbero anche ordinato di sedersi accanto a loro e di sorridere, ma solo per una fotografia.
  Un terrorista avrebbe anche provato a pettinarle i capelli per farla apparire in condizioni migliori, ma Siegel avrebbe rifiutato la richiesta. «Sapevo come apparivo. Era disgustoso, ero molto sporca» ha commentato la donna.
  Alcuni dei filmati realizzati da Hamas non sono mai stati pubblicati. Tra questi vi è quello di Chen Almog- Goldstein, rapita insieme ai suoi tre bambini da Kfar Aza. I terroristi l’hanno filmata mentre si trovava in un tunnel il secondo giorno della sua prigionia.
  I filmati prodotti dai terroristi sono stati uno degli elementi fondamentali della propaganda e guerra psicologica condotta dai terroristi di Hamas. Alcuni di questi video sono stati pubblicati per accusare Israele di aver ucciso alcuni ostaggi con le proprie operazioni militari; altri, invece, sono stati pubblicati dopo la conferma dell’assassinio degli ostaggi. È il caso dei filmati dei sei ragazzi rapiti da Hamas mentre partecipavano al Supernova Festival.
  Hamas ha inizialmente pubblicato i filmati di Eden Yerushalami, Alex Lobanov e Carmel Gat ed in un secondo momento ha pubblicato anche il filmato che mostrava Hersh Goldberg-Polin. I terroristi avevano già pubblicato un filmato di Hersh ad aprile. Il ragazzo era apparso in pessime condizioni di salute e senza un avambraccio, perso a causa dell’esplosione di una granata durante l’attacco del 7 ottobre. La madre di Hersh ha spiegato al The Wall Street Journal che guardare il primo filmato di Hersh è stata una forma molto lenta di trauma e tortura.

(Shalom, 9 settembre 2024)

........................................................


Un rapporto inchioda Joe Biden sulla “fuga” dall’Afghanistan

La stampa americana tace su un rapporto della Commissione Affari Esteri della Camera che inchioda Joe Biden alle sue responsabilità sulla umiliante fuga dall'Afghanistan.

Una commissione della Camera ha pubblicato un rapporto sul ritiro dell’Amministrazione Biden dall’Afghanistan nel 2021, un documento che la stampa ha liquidato come “fortemente di parte” e per questo non ne ha dato conoscenza.
Il merito del rapporto è del rappresentante del Partito Repubblicano Michael McCaul, che ha contribuito ad accrescere la conoscenza pubblica di una disfatta le cui conseguenze continuano a danneggiare la sicurezza degli Stati Uniti e ad avere un peso sulla posta in gioco nelle elezioni di novembre.
Il rapporto della Commissione Affari Esteri della Camera è un atto d’accusa di 350 pagine punto per punto sulle scelte del Presidente Biden, un ritratto di un Comandante in Capo “determinato a ritirarsi”.
Una lunga serie di consiglieri militari aveva detto che il governo afghano sarebbe crollato se gli Stati Uniti avessero rimosso l’esiguo numero di 2.500 truppe presenti nel Paese.
Il generale Kenneth McKenzie, che all’epoca dirigeva il Comando centrale degli Stati Uniti, ha dichiarato alla commissione che “il suo consiglio al presidente è stato inequivocabile”. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, ha condotto una revisione della politica statunitense in Afghanistan e ha permesso al Gen. Austin Scott Miller, il comandante più anziano degli Stati Uniti in Afghanistan, di partecipare solo a “un’unica riunione dei deputati dell’NSC”, si legge nel rapporto. Sullivan è oggetto di critiche particolari.
Secondo la Commissione, l’Amministrazione non è riuscita a pianificare adeguatamente l’uscita dal paese. Il rapporto afferma che “una quantità significativa di informazioni classificate è stata lasciata ai Talebani” nella fretta di andarsene. Il personale statunitense ha riferito di una corsa alla distruzione dei documenti e di un falò nel cortile dell’Ambasciata. Ma non è stato sufficiente
Il rifiuto del Presidente di mantenere almeno 2.500 militari ha fatto sì che gli Stati Uniti abbandonassero la base aerea di Bagram con la sua pista sicura. Ciò significava che l’evacuazione doveva essere condotta nel panico totale dall’aeroporto civile di Kabul, con l’assistenza per la sicurezza dei Talebani.
Quell’incubo ha provocato la morte di 13 membri del servizio americano a causa di un attentatore suicida. Il rapporto dice che “almeno quattro civili afghani, tra cui bambini”, sono morti aggrappati agli aerei americani in partenza. La Casa Bianca ha salutato l’evacuazione come se fosse un trionfo in stile Dunkirk, mentre in realtà si è trattato di una caotica umiliazione.
Il team di Biden sostiene che Donald Trump ha lasciato loro poca scelta dopo aver negoziato nel 2020 un accordo con i talebani per il ritiro nel 2021. Come è stato detto all’epoca, Trump ha concluso un pessimo accordo, non da ultimo escludendo il governo afghano dai colloqui.
Ma Biden non ha mostrato una simile deferenza nei confronti delle altre politiche di Trump, e i Talebani stavano comunque violando le promesse fatte a Doha. Biden voleva andarsene entro il 20° anniversario dell’11 settembre per il simbolismo politico e ha imposto il suo catastrofico calendario politico. La scelta è sua.
La stampa americana sbaglia a considerare questa notizia come vecchia, perché gli Stati Uniti stanno ancora vivendo le conseguenze dannose di quella fuga precipitosa.
Il rapporto dice che i Talebani stanno trattenendo sette cittadini americani e che la sorte delle donne afghane è orribile. Nel frattempo, l’Afghanistan sta tornando ad essere un rifugio per i jihadisti dell’ISIS-K e di Al Qaeda. Gli attacchi dello Stato Islamico contro Mosca e l’Iran potrebbero preludere a un attacco contro obiettivi statunitensi. L’amministrazione Biden “non ha condotto un solo attacco contro l’ISIS-K dal 2021”, si legge nel rapporto.
Più in generale, il ritiro dall’Afghanistan ha segnato la fine della “credibile” deterrenza americana durante la presidenza Biden. Si può tracciare una linea retta dal ritiro alla decisione di Vladimir Putin di entrare in Ucraina, o al motivo per cui gli Houthi sostenuti dall’Iran in Yemen non hanno paura di lanciare missili contro le navi commerciali nel Mar Rosso.
La vicepresidente Kamala Harris ha dichiarato di essere stata l’ultima persona, la meno importante, nella stanza quando Biden ha deciso di ritirarsi. Cosa gli ha detto? Trump o i moderatori del dibattito di martedì dovrebbero chiedere alla signora Harris se è ancora d’accordo con la decisione di Biden.
Il compito più importante del prossimo Presidente è ripristinare la deterrenza degli Stati Uniti per evitare una guerra più grande. Se la Harris difenderà il ritiro di Biden, sapremo che non capisce il mondo pericoloso in cui viviamo.

(Rights Reporter, 10 settembre 2024)

........................................................


Torino capofila, 600 anni di orgoglio

Domenica 15 settembre si svolgerà la venticinquesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, con Torino città capofila per l’Italia.

di Dario Disegni
Presidente della Comunità ebraica di Torino

Correva l’anno 1424 quando gli Ebrei giunti in Piemonte una ventina di anni prima, dopo l’espulsione dalla Francia nel 1394, venivano ammessi ufficialmente a Torino. Sono passati sei secoli di ininterrotta presenza, segnata da momenti di buona convivenza e da altri di restrizioni e confinamento nei ghetti, fino all’emancipazione decretata da Carlo Alberto nel 1848, che portò gli Ebrei piemontesi a una intensa partecipazione alle guerre risorgimentali e poi alla Prima guerra mondiale. Quindi dalle persecuzioni razziali e dalla Shoah fino alla faticosa ripartenza nel Dopoguerra e alla ricostruzione di una piena vita comunitaria, caratterizzata da notevole vivacità culturale e intellettuale grazie anche alla presenza di grandi figure di letterati, artisti e scienziati.
  Quale migliore occasione di questo 600esimo anniversario per scegliere Torino quale città capofila dell’edizione 2024 della Giornata Europea della Cultura Ebraica nel nostro Paese? La GECE rappresenta da sempre una straordinaria vetrina per raccontare la storia e la cultura del mondo ebraico, con particolare riferimento a quello della Penisola e della città scelta come capofila, attraverso dialoghi, dibattiti, eventi teatrali e musicali, visite a sinagoghe e cimiteri, degustazioni di prodotti tipici della cucina ebraica. Un’occasione fondamentale di incontro con la cittadinanza e di conoscenza di una realtà, spesso sconosciuta o presentata in maniera superficiale se non scorretta, vero antidoto quindi al pregiudizio e all’ostilità.
  Non fa eccezione l’edizione di quest’anno, focalizzata sul tema della famiglia, un concetto centrale nella vita ebraica, che verrà declinato in svariate modalità.
  Se mi è consentito, vorrei solamente richiamare il valore che la famiglia ha avuto nella Comunità torinese, riferendomi a quella dalla quale provengo, con il capostipite, il Rabbino Dario Disegni zZl (di cui ho l’onore di portare il nome), che resse, dopo svariati altri incarichi in Italia e all’estero, la Cattedra rabbinica di Torino dal 1935 al 1959 e qui fondò la Scuola Rabbinica intitolata al suo Maestro Rav Margulies, che diede all’Italia ebraica straordinarie figure di Rabbanim. La famiglia fu sempre un valore centrale nella sua visione, tramandata gelosamente dalle generazioni successive, che tra figli, nipoti e pronipoti ha mantenuto e mantiene legami strettissimi, non disgiunti da un forte impegno nel mondo ebraico, che si affianca a quello nella vita civile e professionale di ciascuno.

(moked, 10 settembre 2024)

........................................................


Odiare Netanyahu più di Sinwar?

Una settimana di successo per Sinwar, che ha ucciso sei ostaggi e ha convinto molti israeliani che Netanyahu è colpevole dell'omicidio - Una rilettura del giornalismo israeliano nei giorni successivi al dirottamento dell'aereo a Entebbe - Lettura consigliata: i successi dell'IDF nell'ultimo mese nella Striscia.

di Kalman Liebskind - Maariv, 06/09/2024

Quel momento in cui un terrorista di Hamas passa, da uno all'altro, tra sei ebrei rapiti dal territorio sovrano dello Stato di Israele, e li giustizia, uno dopo l'altro, con un colpo alla testa, è un momento che sembra essere stato preso dalle storie dell'Olocausto. Chi chiuderà gli occhi e si connetterà a questa immagine, non avrà difficoltà a immaginarla come una scena dalle storie che ci hanno raccontato i nostri genitori su come i nazisti uccidevano a sangue freddo gli ebrei, sulla riva del fiume o di fronte a una grande folla nel centro della città.
In una realtà normale, i nostri rappresentanti eletti, sia della coalizione che dell'opposizione, sarebbero passati il giorno dopo la pubblicazione di questa terribile notizia da un canale televisivo straniero all'altro, saltando da un intervistatore della CNN a un'intervistatrice della BBC, descrivendo loro la sensazione che prova ogni israeliano di fronte alle immagini di giovani con tutto il futuro davanti a sé, giustiziati solo perché ebrei.
In una realtà normale, il presidente dell'Histadrut Arnon Bar-David avrebbe contattato il suo omologo austriaco e quello francese, descrivendo loro le immagini e chiedendo loro di trasmettere questo quadro agghiacciante della realtà alla loro gente. Che capiscano. Che si indignino.
In una realtà normale, il Prof. Asher Cohen, presidente dell'Università Ebraica, insieme ai suoi colleghi di Bar-Ilan e Reichman, avrebbero invitato a una ampia videoconferenza i loro omologhi dell'accademia americana e li avrebbero coinvolti nello sconvolgimento che abbiamo attraversato questa settimana, dal più piccolo al più grande. E in una realtà normale, il sindaco di Tel Aviv-Yafo Ron Huldai, il sindaco di Givatayim Ran Kunik e il sindaco di Herzliya Yariv Fisher sarebbero partiti per una missione di sensibilizzazione nelle loro città gemelle all'estero, descrivendo lì come appare il volto mostruoso dell'odio antisemita modello 2024.
Tutto questo, purtroppo, non è accaduto. Invece abbiamo visto Yair Lapid ("Il gabinetto della morte ha deciso di non salvare gli ostaggi"), e Benny Gantz ("C'è chi non ha fatto tutto il possibile per evitare questa morte... Andate a protestare"), e Arnon Bar-David ("Non c'è accordo a causa di considerazioni politiche"), e Ron Huldai ("Il governo di Israele ha abbandonato gli ostaggi"), e i rettori dell'Università Ebraica ("La nostra gente è abbandonata a Gaza"), mentre si rivolgevano ai miliardi di persone nel mondo che seguono ciò che sta accadendo qui, e dichiaravano alle loro orecchie "È Bibi. È tutto Bibi. Bibi è il colpevole. Bibi è la storia. Bibi è responsabile di tutto il male che avete visto".
Non hanno parlato delle immagini di giovani ebrei colpiti alla testa. Nemmeno della crudeltà senza limiti. Nemmeno dell'odio verso gli ebrei in quanto ebrei. Il giorno dopo l'esecuzione di sei dei nostri connazionali da parte di un'organizzazione terroristica omicida, il cui statuto aspira alla distruzione dello Stato di Israele, grazie a tutti questi leader - dalla politica, dall'accademia, dal settore degli affari e dal governo locale - i media mondiali hanno trasmesso dallo Stato di Israele un unico messaggio: "È Bibi". E se c'è un esempio e un simbolo della follia che ha colpito parti importanti della società israeliana - questo è l'esempio e questo è il simbolo.
Si può criticare Netanyahu su ogni questione e argomento, ma l'odio profondo nei suoi confronti è diventato la piattaforma quasi unica di aree troppo ampie della società israeliana. E non lo dico perché ho sentito l'ex deputato Eli Goldschmidt, membro del Partito Laburista, che si è rivolto alla sua ala e ha dichiarato: "Odiamo Bibi più di quanto vogliamo il bene degli ostaggi". Non lo dico nemmeno sulla base delle citazioni riportate questa settimana da Dana Yarkechy su Kan 11 dal gruppo WhatsApp del Forum dei leader economici, da cui emergeva che nei loro contatti con Arnon Bar-David riguardo allo sciopero, ciò che li preoccupava principalmente era la caduta del governo.
Lo dico perché c'è una domanda che non mi dà pace. Se non è Netanyahu a preoccupare tutti costoro, ma gli ostaggi, e solo gli ostaggi, com'è che non abbiamo incontrato da parte loro alcuna rabbia pubblica contro Hamas? Non penso, Dio ce ne scampi, che in questa ala politica ci sia qualcuno che non veda Hamas come un nemico crudele. Eppure, com'è che non abbiamo sentito da loro alcuna richiesta incisiva di far pagare un prezzo a Hamas, affinché in futuro ci pensi un milione di volte prima di osare alzare di nuovo le armi contro un ebreo? Nessun sostegno alla pena di morte. Nessuna richiesta di fermare gli aiuti. Nessuna richiesta di radere al suolo un quartiere di Gaza per ogni nostro ostaggio ucciso. Nessuna richiesta di annettere ai campi di Be'eri o Kfar Aza un dunam di terra di Gaza per ogni ostaggio ucciso a morte. Niente. Non è da Sinwar che chiedono di esigere un prezzo. Solo da Netanyahu.
E anche se accettiamo la loro posizione, secondo cui Netanyahu è la radice di tutti i mali - si tratta comunque di una realtà folle. Com'è che per ogni 1.000 manifestanti contro Netanyahu, non abbiamo visto un solo manifestante che si è fermato a Kaplan e ha chiesto di interrompere l'elettricità e l'acqua alla Striscia di Gaza? Di punire con forza i membri di Hamas in Cisgiordania. Di negare tutti i diritti e i privilegi di cui godono i rappresentanti di questa organizzazione in prigione. Di trasmettere che il padrone di casa è impazzito. Che l'uccisione di ebrei non è qualcosa che ignoriamo. Solo Netanyahu li interessa?
In una realtà normale, un'opposizione israeliana patriottica avrebbe chiesto di far pagare alla Striscia di Gaza un prezzo tale da togliere al prossimo portatore d'armi la voglia di puntarla alla testa di un ebreo. Prendete la storia di "Tzav 9", un'organizzazione creata con lo scopo di fare pressione su Hamas e fermare gli "aiuti umanitari" che fluiscono verso di esso e i suoi membri. "Le forniture che arrivano a Gaza rafforzano Hamas, gli danno respiro, con forza e capacità di continuare a colpirci e a trattenere gli ostaggi", si legge sul sito web di "Tzav 9".
Allora com'è che chi chiede a Netanyahu un accordo a tutti i costi, non ha pensato di tendere una mano a questa organizzazione? Com'è che quando gli americani hanno imposto sanzioni alla fondatrice dell'organizzazione, non si è trovato qualcuno tra le masse di manifestanti di questa settimana che sia venuto in suo aiuto? Come mai non c'è stato nessuno che abbia chiarito che "fare tutto" per riportare indietro gli ostaggi non significa solo attaccare Netanyahu, ma anche, diciamo, ostacolare l'ingresso di rifornimenti a Gaza?
Come mai non abbiamo sentito da Gantz, da Lapid o da Arnon Bar-David una richiesta che Hamas paghi un prezzo per le sue azioni? Che il governo israeliano gli chiarisca, e sto solo facendo un esempio, che anche se fosse disposto a ritirarsi dall'asse di Filadelfia, annuncia ufficialmente che da oggi in poi ogni ebreo ucciso in prigionia dell'organizzazione farà perdere un chilometro del territorio da cui intendiamo ritirarci. Ma questo è esattamente il punto. I manifestanti, a giudicare da ciò che hanno fatto sentire questa settimana, non hanno alcun interesse a occuparsi di Sinwar o a fargli pagare un prezzo. Solo di Bibi.
Masse di israeliani, guidati da un'opposizione irresponsabile di politici, di membri del settore imprenditoriale, di capi delle università, di leader del governo locale e dal presidente dell'Histadrut, hanno realizzato questa settimana il sogno di Yahya Sinwar e gli hanno insegnato che si può ottenere da noi due al prezzo di uno. Sia uccidere ebrei, sia ottenere come bonus uno stato disturbato, paralizzato, bloccato e in conflitto, i cui alti funzionari aumentano il loro sostegno alle richieste di Hamas di negoziare contro il proprio stato, e chiedono al loro governo di allinearsi con l'organizzazione terroristica. Yahya Sinwar avrebbe potuto sperare più di questo?
Il modello vergognoso di questo approccio è stato presentato questa settimana, come no, dal deputato di Yesh Atid. Moshe Tur-Paz, almeno secondo la sua pagina Wikipedia, è una persona seria. Tenente colonnello nella riserva, che in passato ha servito come preside di una scuola e come capo del dipartimento dell'istruzione nel comune di Gerusalemme. Lo scorso gennaio ha pubblicato un articolo dettagliato e motivato sulla questione della guerra. La prima riga affermava: "L'asse di Filadelfia - la chiave per prevenire il rafforzamento di Hamas". L'ultima riga concludeva: "Il controllo di Filadelfia, a lungo termine, è l'unico modo per vincere".
Nel frattempo, Tur-Paz ha motivato la sua posizione e ha sollevato argomenti, identici a quelli usati questa settimana da Benjamin Netanyahu, per spiegare perché dobbiamo essere a Filadelfia. "Quasi tutto ciò che si trova oggi nella Striscia in termini di mezzi di combattimento, esplosivi, missili, razzi, ecc. è entrato da lì", ha scritto, "Hamas ha fatto uscire i suoi comandanti per addestramento in Iran attraverso i tunnel sull'asse e attraverso il valico di Rafah e li ha riportati più esperti e più forti. Tutta la costruzione della forza di Hamas ha origine nel passaggio da Filadelfia".
Ora che il presidente del suo partito accusa il primo ministro di omicidio e deride la sua richiesta di rimanere a Filadelfia, la stessa richiesta sollevata dal deputato Tur-Paz stesso, l'uomo si trova in difficoltà. Cosa si fa? Un salto mortale all'indietro. "All'inizio di gennaio 2024 ho pubblicato un articolo sull'importanza dell'asse di Filadelfia per la guerra a Gaza", ha scritto questa settimana, "Ci sono voluti altri sei mesi perché Netanyahu ordinasse all'esercito di conquistarlo. Con grande ritardo. E ora vuole convincerci che questa è la nostra roccia di esistenza? 101 ostaggi a Gaza sono più importanti. Lo Stato di Israele farà tutto in modo più strategico. Tutti loro. Ora".
In altre parole, ho una visione del mondo coerente, ma se si scoprisse, Dio non voglia, che questa è anche la visione del mondo di Netanyahu, spiegherò facilmente perché si tratta di una visione sbagliata. Tutta la dottrina dello "Yesh Atidism" in una frase. E va sottolineato, il dibattito sulla questione se dobbiamo rimanere fisicamente a Filadelfia o se possiamo accontentarci di una protezione a distanza, è un dibattito importante. Ci sono argomenti validi da entrambe le parti. Ma quando si vede cosa succede a brave persone come Tur-Paz, e cosa fa loro la necessità di allinearsi con la lotta del presidente del partito contro il primo ministro, anche a costo di una tale imbarazzante umiliazione, si capisce che non sono gli ostaggi la storia qui. Certamente non tutta la storia. È la piccola politica. È Netanyahu. Da lui tutto inizia e con lui tutto finisce.

• TUTTE LE LINEE ROSSE SONO STATI CANCELLATE
  "Un Sanhedrin che ha visto tutti essere colpevoli, assolve l'imputato" (Sanhedrin 17a).
Il Talmud spiega che un Sanhedrin, composto da 23 giudici per trattare questioni di vita o di morte, se tutti all'unanimità dichiarano l'imputato colpevole, in realtà lo assolvono. Perché? Perché quando tutti pensano allo stesso modo, c'è motivo di sospettare che qualcosa nel processo sia stato viziato. Forse c'erano pregiudizi. Forse non si sono concentrati sui fatti. Forse non hanno percepito le sottigliezze e le complessità. Forse non hanno riflettuto a fondo sui pro e contro.
La nostra stampa mainstream ricorda quel tribunale. Su quasi nessun tema importante in discussione, non c'è disaccordo, non c'è dibattito, non ci sono argomentazioni a favore e contro. Tutti pensano allo stesso modo. Tutti parlano allo stesso modo. E come cittadino – non come giornalista, solo come cittadino – questo spaventa. Perché su questioni di grande peso come quelle all'ordine del giorno, non può essere che in ogni discussione tra destra e sinistra, tra opposizione e coalizione, un lato abbia sempre ragione e l'altro sempre torto.
Per venire al punto, non si può prendere sul serio una stampa che parte tutta dal presupposto che il suo lato – quello che vuole accettare pienamente le richieste di Hamas – abbia ragione, sia umanitario, si preoccupi dei rapiti, mentre l'altro lato – quello che insiste nel non cedere a Hamas – è composto da persone senza cuore, disinteressate al destino dei rapiti, e che tutto ciò che conta per loro è che Netanyahu resti al potere.
Questa settimana Shmuel Rosner e l'Istituto per le Politiche del Popolo Ebraico hanno pubblicato un sondaggio condotto subito dopo l'annuncio dell'uccisione di sei ostaggi. Agli intervistati sono state presentate due posizioni riguardo all'accordo sugli ostaggi, e sono stati invitati a dire quale fosse più vicina alla loro opinione. Il 49% degli ebrei ha risposto che "Israele non dovrebbe rinunciare al controllo del corridoio di Philadelphi, anche se ciò impedisse l'accordo sugli ostaggi". Il 43% ha risposto che "Israele dovrebbe cedere il controllo del corridoio di Philadelphi per consentire un accordo per il rilascio degli ostaggi".
Lasciamo da parte le sfumature. Lasciamo stare il fatto che Hamas non ha risposto positivamente all'accordo in questione. Lasciamo stare il fatto che l'organizzazione terroristica non si accontenta del corridoio di Philadelphi, ma vuole molte altre cose importanti. Lasciamo stare il fatto che abbiamo visto sondaggi con risultati diversi, a seconda dell'istituto di ricerca e della formulazione delle domande. Lasciamo stare anche la domanda su cosa avreste risposto voi stessi se foste stati interrogati.
I risultati di tutti i sondaggi, indipendentemente dai dettagli precisi, indicano che c'è un forte disaccordo nella società israeliana sulla questione del prezzo giusto da pagare per un accordo. E il fatto che i media, che dovrebbero riflettere questo disaccordo, si rifiutino di farlo, conducendo invece una propaganda aggressiva a favore di una sola posizione e delegittimando completamente l'altra – è un vero e proprio crimine professionale.
Perché quello che sta succedendo in questi giorni nei media è qualcosa che neanche io, che critico i media israeliani da molti anni, ho visto da molto tempo. Tutto è concesso. Tutto è normale. Le linee rosse se mai ce ne sono state, sono state completamente cancellate. Uno dopo l'altro, giornalisti, conduttori, presentatori e commentatori si sono fatti avanti e hanno spiegato, chi con parole dure e chi con parole ancora più dure, che il governo israeliano è colpevole. Un'organizzazione terroristica spietata sta massacrando ebrei innocenti, e la stampa israeliana attribuisce tutta la colpa al proprio governo.
Il compito di Hamas è ucciderci, il nostro compito è cedere a tutte le sue richieste, e se non lo facciamo, in modo totale, è chiaro che le nostre mani sono sporche di sangue. Abbiamo un governo di traditori, abbiamo un governo di assassini, abbiamo un governo irresponsabile, abbiamo un governo al quale Hamas, con grande magnanimità, era disposto a fare di tutto per liberare i suoi ostaggi, ma che, con il suo cuore indurito, gli ha risposto negativamente. Mi chiedo seriamente: qual è la differenza tra la posizione del leader di Hamas e quella espressa dalle nostre trasmissioni di attualità questa settimana?
E non è una novità. La nostra stampa ha fallito miseramente nel suo quasi unico ruolo in ogni interazione che abbiamo avuto con il nemico negli ultimi decenni. Con l'accordo di Oslo, il ritiro dal Libano, il disimpegno, l'accordo su Shalit. In tutti questi eventi, che si sono conclusi con fiumi di sangue ebraico, non c'era una stampa che facesse domande, non c'era una stampa che pretendesse risposte, non c'era una stampa che sollevasse dubbi, non c'era una stampa che criticasse.
Conosco già le solite reazioni che arrivano ogni volta che sollevo questo tipo di argomentazioni, reazioni che chiedono "perché ti occupi sempre di giornalismo?". La risposta è semplice. Perché credo nel ruolo del giornalismo e nel suo potere di correggere, verificare, indagare, vigilare e prevenire disastri prima che si verifichino. E in tutti questi aspetti, in Israele non c'è giornalismo. C'è un enorme gruppo di persone con posizioni politiche, ovviamente legittime, che si precipitano come un gregge dietro ogni passo politico che si adatta alla loro agenda, senza fermarsi un attimo e senza fare il loro lavoro.

• ALLORA E ADESSO
  Questa settimana, grazie all'archivio, sono tornato ai giornali di fine giugno - inizio luglio 1976, per cercare di ricordare com'era una volta. Come ci comportavamo — il governo israeliano, il pubblico israeliano e la stampa israeliana — di fronte a un evento catastrofico simile a quello che stiamo affrontando oggi. Un aereo dell'Air France, con a bordo 260 persone, di cui più di 100 ebrei, fu allora dirottato in Uganda, molto lontano da Israele. Apparentemente, un classico caso in cui non avremmo avuto altra scelta che pagare tutto ciò che i terroristi richiedevano. E cosa chiedevano? In termini odierni, praticamente nulla: il rilascio di 53 terroristi, di cui solo 39 imprigionati in Israele.
In questa situazione, la decisione del governo israeliano di inviare più di 100 dei nostri migliori soldati a Entebbe, sapendo che il minimo errore avrebbe potuto lasciare una grande quantità di vittime sul suolo africano, invece di risolvere tutto liberando 39 terroristi, sarebbe considerata oggi pura follia. "Il governo della morte" è come Yair Lapid avrebbe definito Yitzhak Rabin e Shimon Peres. "Il governo dell'abbandono" è come la stampa di oggi li chiamerebbe.
A proposito, Israele non era sola allora nella decisione di non cedere al terrorismo. "La Francia non intende cedere a richieste che considera inaccettabili", annunciò il portavoce del Ministero degli Esteri francese. Anche dalla Germania, che fu chiamata a liberare sei terroristi dell’organizzazione Baader-Meinhof, giunse una risposta simile. "Funzionari del governo hanno accennato che la Germania non è incline a cedere alle richieste dei terroristi", riportò "Maariv".
"A Londra", raccontava un'altra notizia del giornale, in seguito all'annuncio del governo Rabin di voler negoziare con i dirottatori, "la decisione del governo israeliano è stata accolta con sorpresa e persino dispiacere. L'opinione prevalente era che il governo israeliano avrebbe mantenuto la sua posizione di non negoziare con i terroristi". Questa era la posizione prevalente anche in altre parti d'Europa. "La notizia che il governo israeliano fosse disposto a entrare in trattative con i terroristi è stata accolta con sgomento in Svizzera", riportava la nostra corrispondente da lì.
L'editoriale di "Maariv" parlava allora della necessità di "resistere uniti al ricatto e rifiutare di cedere al gangsterismo internazionale". "Nonostante la preoccupazione per i 250 passeggeri, che sono pedine nelle mani dei gangster, non si può non affermare che cedere al ricatto potrebbe avere un prezzo molto alto. Trasformerebbe Entebbe in un modello e un presagio di futuri disastri", si leggeva. Il giornale raccontava di una "manifestazione silenziosa" tenutasi davanti alla residenza del Primo Ministro a Tel Aviv. Parte dei manifestanti, riferiva il nostro corrispondente, chiedeva di accogliere le richieste dei terroristi.
"Altri chiedevano di avvertire i dirottatori che per ogni ostaggio ferito, dieci terroristi detenuti in Israele sarebbero stati giustiziati". Più avanti nella settimana, decine di parenti degli ostaggi irruppero nel campo dove si trovava il Primo Ministro, chiedendo di incontrarlo. Rabin, riferiva il giornale, si incontrò con i loro rappresentanti e chiese loro di "calmare gli animi".
Moshe Zak, uno degli editorialisti di spicco di "Maariv", analizzò allora nel suo articolo ciò che stava accadendo nella società israeliana, un'analisi che potrebbe essere scritta con esattamente le stesse parole anche oggi, 48 anni dopo. "La guerra psicologica si nutre dei dibattiti interni che esplodono proprio nel momento critico della resistenza alla prova, in cui vince chi ha i nervi più saldi per stare sulla linea del limite. Tuttavia, durante il dibattito, che è assolutamente legittimo in una società democratica, ci emozioniamo e riveliamo tutti i punti deboli della nostra società, aiutando così i ricattatori, i dirottatori e gli assassini in potenza".
Anche Ephraim Kishon aveva una posizione chiara: "...gli assassini di donne e bambini condannati all'ergastolo possono sorridere di gusto", scrisse con il suo stile, "...poiché la loro liberazione non è in dubbio. Se non oggi, allora tra due settimane, quando saranno dirottati altri aerei o una squadra di basket o forse i figli di uno dei nostri ambasciatori da qualche parte nel mondo... Cosa sarebbe successo se il governo israeliano avesse risposto agli assassini, dopo aver ricevuto la lista dei terroristi richiesti per la liberazione (da rilasciare – K.L.)... Se dovesse accadere qualcosa agli ostaggi israeliani, eseguiremo l'esecuzione di un numero equivalente della lista?".
La Israele di allora, i rappresentanti eletti di allora e la stampa di allora non si preoccupavano meno per quegli ostaggi di quanto noi ci preoccupiamo oggi. Ma mantennero la calma. Capirono cosa serviva i nostri interessi e cosa serviva quelli del nemico. Capirono che in una democrazia non esiste necessariamente una sola risposta giusta, e che tutte le opinioni sono legittime, poiché anche allora c'erano coloro che proponevano di accettare le richieste dei terroristi e altri che si opponevano. Tuttavia, nel 1976, a tutti era chiaro chi fossero i cattivi della storia, contro chi bisognava agire e quale messaggio avrebbe trasmesso una nostra resa.
"Non c'è alcun problema a ritirarsi dalla Striscia di Gaza e dichiarare la fine della guerra. In fondo, non c'è davvero una guerra e l'IDF è impantanato da tempo". Se siete in sintonia con il dibattito pubblico, è impossibile che non abbiate sentito questa affermazione. Bene, ho visitato il sito dell'ufficio del portavoce dell'IDF, dove ogni giorno sono elencate le azioni delle nostre forze contro il nemico. Se lo fate anche voi, rimarrete sorpresi di scoprire che l'IDF svolge un lavoro importante e colpisce Hamas ogni giorno, ogni ora.
Ecco un breve riassunto di ciò che abbiamo fatto nella Striscia di Gaza solo nell'ultimo mese: abbiamo distrutto centinaia di infrastrutture terroristiche, da terra e dall'aria, e scoperto una lunga serie di tunnel. Come detto, non sto parlando di ciò che abbiamo fatto durante tutta la guerra. Mi riferisco solo alle ultime settimane. Il 15 agosto, il portavoce dell'IDF ha riferito che nell'ultimo mese le forze di ingegneria hanno distrutto circa 50 percorsi sotterranei nell'area del Corridoio di Filadelfia, senza contare una serie di complessi sotterranei nelle aree di Khan Younis, Deir al-Balah e Beit Hanoun.
Nell'ultimo mese, secondo i rapporti del portavoce dell'IDF, abbiamo eliminato centinaia di terroristi. Abbiamo colpito squadre che lanciavano bombe di mortaio. Abbiamo distrutto pozzi di tunnel, edifici militari e depositi di armi. Abbiamo attaccato siti di lancio e squadre che lanciavano razzi contro Be'er Sheva, Rishon Lezion, Kibbutz Nirim, Kibbutz Kissufim e Kibbutz Ein HaShlosha. Abbiamo colpito complessi che servivano da rifugi per i terroristi, da cui venivano pianificate e realizzate operazioni terroristiche, e in cui venivano sviluppate e immagazzinate molte armi.
Abbiamo scoperto depositi di armi con granate, ordigni esplosivi, missili spalla e Kalashnikov. Abbiamo eliminato funzionari di alto rango. Abbiamo colpito edifici che immagazzinavano esplosivi, complessi di comando e controllo di Hamas, officine sotterranee utilizzate per la produzione e magazzini di armi nelle vicinanze. Abbiamo trovato pozzi di lancio di razzi a Filadelfia. Abbiamo colpito edifici del sistema di lancio di razzi, eliminato operatori di droni e trovato un complesso con decine di razzi, lanciatori e missili anticarro.
Questo è, come detto, solo un insieme estremamente sintetico di esempi delle ultime settimane. Se avessimo accettato le richieste di Hamas e fossimo usciti dalla Striscia un mese fa, nulla di ciò che è stato riportato qui sarebbe stato colpito. I centinaia di terroristi che abbiamo eliminato sarebbero ancora con noi. Anche le infrastrutture terroristiche, i depositi di armi, le decine di tunnel e i magazzini di munizioni, oltre ai razzi. Se fossimo usciti un mese prima, la lista sarebbe stata il doppio.
È possibile decidere di rinunciare a colpire tutto questo in cambio di un accordo? Sì, certamente. Ma non si può evitare di parlare di questo prezzo. Perché bisogna ricordare che il nostro obiettivo non è che la Striscia di Gaza torni ai giorni di tranquillità. Perché la tranquillità è sporcizia. Abbiamo già visto che, grazie alla calma, Hamas sa come lavorare per preparare il prossimo attacco. Il nostro interesse è il rumore. Tanto rumore. Un rumore in cui noi blocchiamo la Striscia da un lato e dall'altro continuiamo a distruggere terroristi e armamenti.
E dato che la Striscia è sigillata, e finché noi abbiamo la chiave di Filadelfia e del valico di Rafah, questa è la situazione: ogni terrorista che abbiamo eliminato oggi non ci sparerà domani. Ogni razzo che abbiamo distrutto oggi non sarà diretto verso il Kibbutz Nirim domani. Ogni giorno rende Gaza un posto più sicuro rispetto al giorno precedente. Non lo dico io, lo dicono i rapporti del portavoce dell'IDF, che affermano che ogni giorno stiamo vincendo sempre di più contro Hamas.
E cosa succederà se usciamo? Hamas si rialzerà, e prima o poi scopriremo che, dopo aver pagato con il sangue di centinaia dei nostri soldati, ci ritroveremo con lo stesso mostro al confine. Cosa è giusto fare quando i nostri ostaggi sono lì? È un dilemma difficile, ma non si può evitare di esporlo in tutti i suoi dettagli. La mattina dopo l'uccisione di Ismail Haniyeh, un familiare che vive in uno degli insediamenti vicini ha condiviso con noi le sue sensazioni, sensazioni che solo chi vive lì può capire. "È incredibile", ha scritto nel gruppo WhatsApp della famiglia. "Nel 2014 siamo tornati dall'estero, e l'aereo ha girato in cerchio sopra il Mediterraneo in attesa di atterrare, a causa del fuoco da Gaza. Per molti anni, a ogni eliminazione di un piccolo terrorista in Cisgiordania, eravamo costretti nei rifugi e tutto nella zona si fermava. Le scuole erano chiuse, le strade bloccate, ci vietavano di riunirci, gli eventi festivi venivano cancellati e i funerali si svolgevano solo tra familiari stretti. Stamattina, dopo l'eliminazione di Ismail Haniyeh, nessuna istruzione. È incredibile. Un vero e proprio sogno nella nostra area. Complimenti all'IDF."
Di fronte a tutto questo, non possiamo evitare di porre una domanda cruciale: siamo pronti a rinunciare ora a tutti i nostri successi in guerra? A lasciare i punti strategici in cui l'IDF preme su Hamas? Dopo un anno di guerra, dopo centinaia di soldati eroici che hanno sacrificato la vita e migliaia di combattenti coraggiosi che sono rimasti invalidi per sempre, siamo davvero disposti a rinunciare a tutto ciò che abbiamo fatto e permettere a Sinwar di uscire dal suo tunnel, riorganizzare i suoi uomini, invitare le masse a una festa della vittoria, segnare "V" e dichiarare "Abbiamo vinto contro i sionisti"?
Mi è incomprensibile come si possa attribuire a Benjamin Netanyahu la responsabilità del massacro del 7 ottobre, e allo stesso tempo spingerlo a permettere a Hamas di celebrare i suoi successi e tornare al punto di partenza del 6 ottobre come se non fosse accaduto nulla.

(Kolot, 9 settembre 2024)

........................................................


Israele attaccato anche dalla Giordania

Ormai subisce assalti da ogni parte

di Claudia Osmetti. 

Attentato al valico di Allenby, al confine con la Giordania. Mancava solo questo nuovo fronte, un attacco terroristico anche dal confine giordano, che teoricamente dovrebbe essere in pace dal 1994. Sono stati uccisi tre israeliani: Yohanan Shchori di 61 anni, Yuri Birnbaum che ne ha 65, e il 57enne Adrian Marcelo Podsmeser.  Poi, però, sono tutti contro Bibi.
  La sinistra, non solo quella israeliana; i manifestanti, non solo quelli a Tel Aviv; i commentatori della domenica che, specie da noi, cioè qui, al sicuro, in Europa, non fanno che puntare il dito contro il governo di Israele: è Netanyahu che non vuole l’accordo con Hamas (come se ci si possa tranquillamente sedere a un tavolo coi tagliagole del 7 ottobre e discutere di chicchessia), è Netanyahu che non riesce a riportare a casa gli ostaggi, è Netanyahu che ha voluto la guerra.
  Un ritornello che va avanti da mesi e che, da mesi, ha stufato perché la realtà dei fatti, per chi non sia mosso da un semplice pregiudizio di partito o, peggio ancora, da quell’innato antisemitismo che è duro a morire, è diversa. È, per esempio, che lo Stato ebraico, in Medioriente, è attaccato da ogni parte. Dal Libano di Hezbollah a nord (che sabato notte ha scaricato oltre confine la sua dose quotidiana di missili e verso il quale il premier Netanyahu, ancora lui, apriti cielo, ha «incaricato le Idf e le forze di sicurezza di prepararsi a cambiare la situazione»), dalla Striscia di Gaza a sud ovest, più a oriente dall’Iran (che da tutta l’estate promette scenari apocalittici salvo poi, e andrebbe ricordato più spesso, non essere in grado di sparare nemmeno un petardo) e adesso pure dal valico di Allenby, nella zona est del Paese, al confine tra la Cisgiordania e la Giordania.
  L’ultimo atto di un conflitto a cui Israele si limita a rispondere (e continua ad averne pieno diritto). Un check-point, di quelli che di solito non creano problemi, ieri mattina, alle 10 ora locale, le 9 in Italia: un camionista di 39 anni, è giordano, fa parte di una famiglia potente che abita a sud di Amman, parcheggia il suo tir in mezzo alla strada e apre il fuoco, a casaccio, contro il personale israeliano della postazione. I morti sono quattro: tre ebrei (Yohanan Shchori di 61 anni, Yuri Birnbaum che ne ha 65, e il 57enne Adrian Marcelo Podsmeser) e l’attentatore, perché di attentato si tratta. Il tutto, però, precipita nell’arco di una mezz’ora.
  «Siamo circondati da un’ideologia assassina», dice, giustamente, Netanyahu, «sono assassini che non fanno distinzioni e ci vogliono eliminare fino all’ultimo: di destra, di sinistra, laici o religiosi. Ma ciò che impedisce la distruzione di Israele sono gli apparati dello Stato e della Difesa».
  Gerusalemme chiude i valichi con la Giordania, tutti; mentre la Jihad islamica palestinese (a conferma che le parole di Bibi sono corrette) festeggia «l’attacco eroico al valico del ponte di Allenby», Hamas fa lo stesso (lo definisce una «risposta naturale all’olocausto perpetrato dal nemico sionista-nazista», oltre ogni qualsiasi senso del pudore, anche letterario) e all’Onu la delegazione palestinese si spinge a presentare una bozza di risoluzione per chiedere il ritiro ebraico da Gerusalemme est e dalla stessa Cisgiordania (senza, ovvio, alcuna contropartita). Però il problema è Netanyahu.

Libero, 9 settembre 2024)

........................................................


Benny Gantz: “Israele deve concentrarsi su Hezbollah e Iran”

«La storia di Hamas è vecchia, occorre concentrarsi sull'Iran e sui suoi proxy. E' già tardi»

L’ex membro del gabinetto di guerra Benny Gantz sostiene che Israele dovrebbe spostare la sua attenzione verso Hezbollah e il confine libanese, avvertendo che “siamo in ritardo su questo”.
  Israele e Hezbollah, questi ultimi sostenuti dall’Iran, si sono scambiati quasi quotidianamente fuoco transfrontaliero, con il gruppo terroristico libanese che dice di agire a sostegno di Hamas – suo alleato palestinese – nella guerra in corso a Gaza.
  “Abbiamo già forze sufficienti sul posto per affrontare il conflitto a Gaza e dovremmo concentrarci su ciò che sta accadendo nel nord”, ha dichiarato Gantz, intervenendo a Washington a un forum sul Medio Oriente, dove ha anche affermato che l’Iran e i suoi proxy sono ‘il vero problema’.
  “Il tempo del nord è arrivato e in realtà penso che siamo in ritardo su questo”, ha aggiunto l’ex capo dell’esercito e politico centrista.
  Gantz afferma che Israele ha commesso un errore nell’evacuare gran parte del nord del Paese quando le ostilità con Hezbollah sono divampate dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre che ha scatenato la guerra di Gaza.
  “A Gaza abbiamo superato un punto decisivo della campagna”, ha dichiarato. “Possiamo fare tutto quello che vogliamo a Gaza. Dovremmo cercare di trovare un accordo per liberare i nostri ostaggi, ma se non ci riusciamo nei prossimi tempi, pochi giorni o poche settimane, o qualunque cosa sia, dovremmo andare a nord”.
  “Siamo in grado di… colpire lo Stato del Libano, se necessario”, afferma.
  “La storia di Hamas è vecchia”, aggiunge, affermando invece che ‘la storia dell’Iran e dei suoi proxy in tutta l’area e quello che stanno cercando di fare è il vero problema’.

(Rights Reporter, 9 settembre 2024)

........................................................


Israele – Il 7 ottobre non ha fermato l’aliyah ‍‍

Secondo i dati raccolti dal Global Aliyah Centre dell’Agenzia Ebraica in collaborazione con il Ministero israeliano per l’Aliyah «Israele sta attraversando una delle sue crisi più grandi e in tanti vogliono partecipare alla ricostruzione di un Paese che considerano casa». C’è stato un aumento notevole nel numero di pratiche di immigrazione: si arriva al +355% dalla Francia, +87% dal Canada, +63% dal Regno Unito e +62% dagli Stati Uniti. Shay Felber, direttore dell’Unità per l’Aliyah e l’Integrazione dell’Agenzia Ebraica ha ricordato che c’è stato un esodo simile dopo la guerra dello Yom Kippur, nel 1973. Felber attribuisce i dati dello scorso anno anche all’aumento dell’antisemitismo: in molti valutano che è tempo di andarsene e Israele è visto come il futuro. Per Felber si tratta di una tendenza che dovrebbe continuare nel 2025: «Non stiamo parlando solo di potenziali olim», ovvero delle pratiche descritte sopra, «sono dati che si sono già tradotti in nuovi arrivi, c’è già un aumento del 50% dell’aliyah dalla Francia e del 25% dal Nord America».
  Come ha scritto Amelie Botbole sul Jewish Chronicle il 2 settembre Dov Lipman, ex membro della Knesset e fondatore e amministratore delegato di Yad L’Olim, ha dichiarato che dal 7 ottobre la sua organizzazione ha aiutato un numero crescente di immigrati ebrei a stabilirsi in Israele: «Per alcuni è il desiderio di stare con il proprio popolo nel momento del bisogno. Per altri è l’aumento dell’antisemitismo e riconoscere che Israele è la patria del popolo ebraico». Per esempio Warren e Leah Phillips hanno iniziato da poche settimane la loro nuova vita, si sono trasferiti da Manchester in Israele a metà agosto con le figlie, di 18 e 14 anni: hanno iniziato a informarsi nel dicembre 2023 perché volevano un futuro migliore ed essere più vicini a Israele e alla sua popolazione, soprattutto dopo il 7 ottobre. «Avevamo più paura di rimanere in Inghilterra che di venire in Israele, e tutti sono stati incredibilmente accoglienti: ci guardano con ammirazione e rispetto perché abbiamo deciso di venire qui mentre la guerra è in corso».
  Secondo i nuovi dati dell’Agenzia Ebraica, circa 30 mila persone hanno espresso il desiderio di immigrare in Israele negli ultimi dieci mesi, e tra di loro c’è anche chi ha agito d’impulso, come Eric Rubin e sua moglie Sue, che si sono trasferiti dal Maryland meno di una settimana dopo l’attacco di Hamas: «Ho guardato mia moglie e le ho detto che non era più possibile restare. Lei mi ha risposto che se fossi riuscito a trovare i biglietti aerei sarebbe partita subito… avevamo programmato da tempo di trasferirci, ma abbiamo anticipato la data della partenza dopo il massacro. Sia per essere presente, per la mia gente, che per dimostrare ai terroristi che nulla ci avrebbe impedito di venire! Sono orgoglioso di essere qui, è qualcosa che ci ha reso più forti: in America quando qualcosa va storto si resta a casa, qui abbiamo preso a svegliarci ogni mattina con l’idea di vivere la nostra vita al meglio, non sappiamo cosa ci riserverà il domani».
  Dal New Jersey invece sono arrivati a luglio Jonathan Deluty con la moglie e due figlie piccole: «Avevo prestato servizio nella Brigata Paracadutisti dell’IDF nel 2014 e durante il servizio militare avevo fatto un voto: se tutti i membri del mio plotone fossero tornati a casa interi avrei fatto l’aliyah entro dieci anni – ha raccontato lui al JC – Il 7 ottobre mi è stato chiaro che era arrivato il momento di partire». Lavorava a New York e, ha spiegato, si è sentito come l’11 settembre, e i suoi amici hanno iniziato a partire per la guerra. Ha aggiunto che ritiene importante crescere le sue figlie in un Paese in cui possono avere un ruolo nel futuro del popolo ebraico: «Non mi sono sentito in fuga dall’America ma mi sono chiesto se si sarebbero sentite così le mie figlie, magari tra quarant’anni».

(moked, 9 settembre 2024)

........................................................


Le scelte difficili chieste a Israele

Il 6 settembre Bild pubblica un documento rinvenuto a Gaza dall’IDF in cui è esplicitata la strategia di Hamas relativa agli ostaggi ancora detenuti a Gaza e alla conduzione della guerra.
   Massima deve essere la pressione psicologica esercitata sulle famiglie degli ostaggi, in modo che “i parenti delle vittime siano portati ad un livello tale di disperazione da richiedere che venga fatto di tutto per liberare i loro cari”.
   La tecnica, implacabile e spietata è tipica di chi detiene un ostaggio avendo come scopo principale quello di ottenere dalla sua detenzione il massimo vantaggio.
   Dopo l’uccisione a sangue freddo da parte di Hamas di sei ostaggi che teoricamente avrebbero dovuto essere tra quelli rilasciati nella prima fase di un eventuale accordo tra Israele e l’organizzazione terrorista, la reazione è stata esattamente quella prevedibile: l'intensificarsi delle manifestazioni di piazza in Israele per chiedere che il governo di Netanyahu raggiunga l’accordo, (ieri, a Tel Aviv si è avuta la più grande manifestazione in questo senso dall’inizio della guerra, con circa 400,000 mila manifestanti) e le accuse rivolte soprattutto a quest’ultimo di essere l’ostacolo principale al suo raggiungimento.
   Sempre ieri, a Londra, durante un incontro organizzato dal Financial Times, Richard Moore direttore dell’intelligence britannica e Robert Burnes, direttore della CIA e uno dei mediatori principali per conto degli Stati Uniti negli incontri che si sono svolti e sono ancora in corso tra Doha e il Cairo, hanno entrambi convenuto che per giungere a un accordo sarà necessario sia per Israele che per Hamas fare delle scelte difficili che comportino dei compromessi politici importanti.
   Ora, appare del tutto evidente a chiunque sia smaliziato il giusto, che le scelte difficili, le più difficili, dovrebbero spettare allo Stato ebraico, essendo esso e non Hamas, la parte lesa, essendo esso e non Hamas uno Stato democratico costretto dalle circostanze a intavolare dei negoziati con una efferata organizzazione criminale, essendo esso e non Hamas a dovere mettersi nella posizione di fare cessioni particolarmente impegnative per riavere gli ostaggi vivi. L’ipocrisia dei due alti funzionari dell’intelligence è palese, così come è del tutto palese che la pressione della piazza sul governo e le accuse rivolte a Netanyahu facciano solo ed unicamente il gioco di Hamas.
   Hamas non libererebbe mai tutti gli ostaggi, ne andrebbe della sua sopravvivenza. Anche in un eventuale accordo farebbe il possibile per trattenerne una riserva e con questa continuare a ricattare Israele.
   Non esiste alcuna possibilità che Hamas possa vincere militarmente una guerra contro Israele, soprattutto adesso, dopo quasi dieci mesi e mezzo di guerra, con il grosso della sua struttura operativa politica e militare fortemente compromessa, ma sarebbe da ingenui pensare che Hamas abbia mai pensato solo un attimo, di sconfiggere Israele militarmente. La strategia di Hamas, così come esplicita il documento pubblicato da Bild, è sempre stata, fin dall’inizio, di vincere la guerra politicamente, in virtù dell’enorme apparato di fiancheggiamento, intenzionale e non intenzionale, di cui ha potuto usufruire in tutti questi mesi, e la cui finalità è la criminalizzare di Israele per una guerra che esso è stato costretto a combattere a seguito dell’eccidio del 7 di ottobre scorso.
   Nonostante ciò, e l’indubbio successo conseguito nell’opera di criminalizzazione senza precedenti, (al cui confronto la condanna occidentale nei confronti della Russia per l’aggressione dell’Ucraina, appare carezzevole), Israele ha proseguito nelle operazioni militari, ottenendo lentamente ma inesorabilmente il raggiungimento di numerosi obiettivi, tra cui quello del controllo del corridoio Filadelfia, la striscia di terra a Gaza al confine con l’Egitto la quale rappresenta per Hamas la principale arteria di alimentazione per il flusso in entrata di armi.
   Le scelte “difficili”, quelle che chiedono i funzionari americani e inglesi soprattutto a Israele, e va ricordato che il Regno Unito con il nuovo governo laburista in carica ha recentemente bloccato una fornitura di armi a Israele per ragioni squisitamente demagogiche, si possono facilmente riassumere in una formula: Israele deve ribaltare la sua posizione di forza a vantaggio della debolezza di Hamas, deve cedere in modo da ottenere che Hamas guadagni tempo e possa continuare a giocare come il gatto con il topo, lucrando il più non posso sulla vita degli ostaggi.
   Solo restando fermo sulle posizioni acquisite, Israele può realisticamente vincere la guerra, ogni compromesso avvantaggerebbe esclusivamente i jihadisti.

(L'informale, 9 settembre 2024)

........................................................


Il 15 settembre torna la Giornata della Cultura Ebraica, occasione di apertura e conoscenza

Conoscere l’ebraismo, la sua storia bimillenaria in Italia, i precetti religiosi e gli aspetti culturali per combattere i pregiudizi e gli stereotipi. Questo è l’obiettivo della Giornata Europea della Cultura Ebraica, appuntamento giunto alla venticinquesima edizione che torna domenica 15 settembre 2024 in 106 località italiane distribuite in 16 regioni. Conferenze, dibattiti, visite guidate, apertura di siti archeologici, degustazioni di cibo kasher, concerti, spettacoli, laboratori per bambini e tante altre attività animeranno la manifestazione; sinagoghe, musei, archivi, catacombe, locali comunitari si apriranno a cittadini, turisti e semplici curiosi, per un’iniziativa finalizzata proprio alla condivisione, all’incontro, al confronto e al dialogo.
  Le varie iniziative si terranno in tutte le città dove si trovano le 21 comunità ebraiche italiane e in quelle località grandi o piccole dove la presenza ebraica è di poche decine di persone o addirittura assente da secoli, ma che ha lasciato una traccia profonda della propria presenza in passato.
  Città Capofila sarà Torino: nel capoluogo piemontese la Giornata verrà simbolicamente inaugurata alla presenza delle autorità locali e nazionali. Una scelta non casuale, dal momento che ricorrono i 600 anni dalla nascita della comunità.
  Tema prescelto per questa edizione, filo rosso tra i vari eventi, sarà “la famiglia”. Molteplici le declinazioni possibili: dalle intricate e appassionanti “storie di famiglia” delle narrazioni bibliche alle famiglie ebraiche nella storia e nelle società; la concezione ebraica di educare i figli nella continuità della tradizione e, al tempo stesso, nel rispetto e nella valorizzazione dell’unicità di ciascuno; l’idea (biblica e talmudica) delle “famiglie della terra”, in base alla quale ogni popolo e ogni individuo è figlio del Dio unico e quindi parimenti degno dei diritti fondamentali di uguaglianza, libertà, rispetto e solidarietà. Il tentativo di enucleare un punto di vista ebraico sulla famiglia – pur sempre tenendo conto dell’irriducibile pluralità e diversità di tempi, geografie, interpretazioni, comunità storiche – sarà lo spunto per connettere e far dialogare il passato e il presente, le tradizioni con le trasformazioni e con le questioni sociali, etiche, bioetiche, politiche e normative, cruciali per le famiglie contemporanee.
  La Giornata è coordinata a livello europeo, dall’AEPJ – European Association for the Preservation and Promotion of Jewish Culture and Heritage – e, per l’Italia, dall’UCEI – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
  “Una giornata importante dedicata alla cittadinanza per trasmettere un messaggio fondamentale di come la cultura ebraica scorra nella cultura italiana ed europea e di come nei secoli abbia plasmato concetti, istituzioni e tradizioni – afferma la presidente Ucei Noemi Di Segni -. La famiglia oggi è il nucleo più essenziale al quale prestare attenzione, come spazio che deve generare sicurezza, certezza e affetti, per trovare forze e risorse da condividere negli altri ambiti in cui si svolge la vita quotidiana. È il presupposto della convivenza democratica, tra fatiche e crisi, con la convinzione dell’essenzialità e ricchezza della relazione. La cultura e la conoscenza sono il presupposto per arginare fenomeni di odio, sospetto e antisemitismo”.

(Shalom, 9 settembre 2024)

........................................................




Antisemitismo evangelico
    Questo articolo è stato scritto dieci anni fa ed è presente da allora sul nostro sito nella rubrica “Approfondimenti”. Lo riproponiamo adesso per mostrare che l’«antisemitismo quiescente» di cui allora si parlava ora si è svegliato, e dopo il 7 ottobre è diventato addirittura assordante. Ripresentiamo l’articolo così com’era, con la sola aggiunta del risalto in colore.
di Marcello Cicchese

«Antisemita io? Ma per carità! Ci mancherebbe.» Di questo tipo è spesso la reazione di chi si sente dire che forse il suo atteggiamento verso gli ebrei assomiglia molto a quello degli antisemiti. Chi reagisce così di solito ha in mente un antisemitismo dichiarato, esplicito, attivo, nel quale naturalmente non si riconosce.
   Ma accanto a un antisemitismo militante, facilmente riconoscibile, esiste un antisemitismo quiescente che può restare in stand by per molto tempo e, purtroppo, attivarsi nei momenti critici meno adatti. Del resto, per diventare o rimanere antisemiti non ci vuole molto: basta non fare niente. In questo modo, senza neanche accorgersene, si viene tranquillamente trasportati dal main stream, la principale corrente di questo mondo che segue gli impulsi del principe di questo mondo, che detesta e tenta continuamente di distruggere il popolo che Dio si è scelto. E' un antisemitismo per default, cioè in assenza di... In assenza di interesse e conoscenza si rimane, rispetto a Israele, indifferenti e ignoranti. L'antisemita per default "non ce l'ha" con gli ebrei e con Israele per il semplice fatto che di loro non si interessa: i suoi problemi sono altri. Fosse per lui, non ne parlerebbe proprio.
   Ma per sua sventura gli ebrei ci sono, Israele esiste e il mondo ne parla. Quindi, prima o poi anche lui è costretto a parlarne, e quando lo fa quasi sempre dice qualcosa di sbagliato. Naturalmente però non se ne accorge, a causa della sua ignoranza, e si sorprende se gli si fa notare che sta semplicemente ripetendo quello che tanti antisemiti dicono.
   La cosa è particolarmente grave quando l'antisemita per default è un cristiano evangelico, che in quanto tale dovrebbe avere la Bibbia come fondamento della sua fede e delle sue convinzioni. Perché è un fatto indiscutibile che nella Bibbia di Israele si parla dappertutto. Dicendo allora qualcosa di sbagliato su questo argomento si rischia di cadere nell'eresia; il che è grave, perché si può non essere d'accordo con molti, anche con gli ebrei, anche con Israele, ma non essere d'accordo con Dio è rischioso, perché si finisce per essere d'accordo con il suo nemico, che è Satana.
   In molti casi però l'eresia non si esprime con formulazioni di dottrine sbagliate, ma con l'assenza di dottrine giuste. E' un'eresia di omissione. Come ci sono i peccati di omissione, ci sono anche le eresie di omissione. Questo avviene quando un aspetto importante della rivelazione biblica, che compare più volte in tutte le parti della Scrittura, viene sistematicamente negletto e trascurato. E' il caso della dottrina su Israele.
   Qualche anno fa è comparso in Italia un "Dizionario di teologia evangelica" di più di 800 pagine. Ebbene, tra le oltre 700 voci elencate nel dizionario non si trova il termine "Israele". Non c'è. Non è strano? Non è significativa un'omissione come questa? E non è strano che certe parti della Bibbia vengano sistematicamente escluse dall'insegnamento nelle chiese? Ad un qualsiasi evangelico si potrebbe chiedere: quante volte nella tua chiesa hai sentito predicare sul libro di Ezechiele? E in particolare sugli ultimi nove capitoli che parlano del nuovo Tempio a Gerusalemme? E quante volte hai sentito un'istruzione ordinata sul concetto di "Regno di Dio" nei Vangeli? Riflettendoci su con calma, potremmo arrivare alla conclusione che la Bibbia per noi è come certi grossi programmi del computer: la usiamo sì e no al 30 per cento. Non potrebbe trovarsi in quel residuo 70 per cento l'eresia di omissione che riguarda la dottrina di Israele?
   La questione dunque è grave e non può essere trattata in poche battute, ma qui si vuole sottolineare che il tema Israele non è un'appendice della dottrina cristiana, ma sta al centro del messaggio evangelico, perché sta lì dove Gesù stesso sta. Il tentativo sempre ripetuto nella storia di staccare Gesù da Israele e Israele da Gesù è di natura diabolica, perché corrisponde all'interesse storico di Satana. E' triste doverlo riconoscere, ma in questa trappola diabolica sono caduti nel passato e cadono ancora oggi molti cristiani autentici, anche evangelici, anche nati di nuovo. Lo scandaloso caso di Lutero dovrebbe far capire che l'autenticità della fede personale in Gesù, se non è accompagnata da una dipendenza reale dallo Spirito Santo e dalla Parola di Dio nel preciso momento storico in cui si vive, non è una garanzia contro la possibilità di cadere in un autentico antisemitismo evangelico. Il quale - ed è una cosa grave - fa diventare anche i credenti in Gesù strumenti di Satana nel suo tentativo di disonorare prima e distruggere poi il popolo ebraico e, oggi, lo Stato d'Israele.
   Come l'acqua, che in natura si presenta in diversi stati ma ha sempre la stessa struttura molecolare, così l'antisemitismo si presenta nella storia in diverse forme ma ha sempre la stessa struttura spirituale: l'odio per gli ebrei. Si parla di "struttura spirituale" perché l'odio che si manifesta è espressione dell'intima ribellione a Dio dell'uomo peccatore. L'antisemitismo è un frutto della carne: una carnalità che ha l'aggravante pericoloso di non essere quasi mai riconosciuta come tale. Anzi, in molti casi si presenta come anelito ad una superiore virtù.
   Nel periodo storico in cui viviamo la carnalità dell'antisemitismo assume due forme tra loro collegate: una anti e una filo. C'è l'antisionismo e il filopalestinismo. Il primo è più esteso, il secondo più ristretto, ma entrambi sono presenti negli ambienti evangelici, e in questo caso meritano il nome di antisemitismo evangelico perché le sue motivazioni pretendono di essere tratte dalla Scrittura. E questo ne aumenta la gravità.
   Qualcuno sarà sconcertato da affermazioni così forti, altri saranno in netto disaccordo, altri ancora chiederanno di avere argomenti a sostegno di quanto si dice. Gli argomenti ci sono: chi è interessato può cercarli in questa rivista o in altri libri che possono essere indicati a chi lo desideri, ma qui è importante sottolineare ancora una volta che il tema Israele non può essere accantonato, perché è di enorme gravità spirituale. La preannunciata biblica apostasia degli ultimi tempi si sta avvicinando a grandi passi ed è penetrata anche in chiese evangeliche che un tempo si distinguevano per la loro fedeltà alla Scrittura. Una delle forme più gravi che questa apostasia sta assumendo è la conformazione al mondo nell'odio verso il popolo che Dio si è scelto per il suo piano di salvezza. Gli eventi incalzano e il tempo stringe: su Israele ciascuno ha il dovere di chiarirsi le idee e fare la sua propria scelta. Sulla sua responsabilità davanti a Dio.

(Chiamata di Mezzanotte, Nr.11/12 2014)




........................................................


Netanyahu contro tutti

di Giulio Meotti

Lo scorso luglio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu voleva visitare Praga e Budapest sulla strada per gli Stati Uniti, dove avrebbe parlato per la quarta volta Congresso, un onore concesso soltanto a Winston Churchill. Ma alla fine, Netanyahu ha rinunciato: niente sosta europea per i timori che la Corte dell’Aia spiccasse un mandato di arresto. “Bibi” non mette piede in Europa dal 7 ottobre.
  A quasi un anno dal conflitto più difficile di Israele dalla guerra d’indipendenza del 1948, una cosa è sempre più chiara. Che lo si stimi o lo si detesti, Netanyahu ha imposto la sua volontà sui grandi eventi del suo tempo. Tutti lo davano per spacciato l’8 ottobre. Ma nonostante le sue vulnerabilità politiche in patria e l’isolamento israeliano internazionale, Netanyahu ha mantenuto i fili del potere nelle sue mani molto più a lungo e con un’efficacia molto maggiore di quanto tutti si aspettassero dopo l’eccidio di Hamas.
  “Un robot giapponese programmato da allenatori americani”. Così il commentatore politico più famoso d’Israele, Nahum Barnea, definì Netanyahu nel 1996, quando vinse le prime elezioni e l’Economist gli dedicò una copertina su cui campeggiava il titolo: “Il grande sbruffone”.
  Una carriera in una Sayeret Matkal dell’esercito, inglese perfetto, due lauree prese in quelle università americane che oggi paragona a quelle naziste, bugiardo politico di talento, sempre pronto a prendersi il merito e mai la responsabilità, Netanyahu è forte di un eloquio televisivo sensazionale, iniziato come vice ambasciatore in America e poi come capo della delegazione israeliana all’Onu. Era la prima guerra del Golfo e Bibi, indossando la maschera antigas in diretta tv, diventò il preferito della Cnn, per l’America l’espressione più autentica del sabra emancipato. Da allora, parte dell’istinto di sopravvivenza di Netanyahu è dimostrare di poter tenere testa all’America.
  Oggi Bibi guida un paese profondamente polarizzato. I casi penali contro di lui stanno macinando nei tribunali. Migliaia di israeliani scendono regolarmente in piazza per chiederne le dimissioni. L’establishment militare israeliano è in aperta rivolta. La Corte suprema lo considera una minaccia costituzionale. Ex premier e suoi ex alleati, come l’intelligenza egolatrica fatta persona di Ehud Barak, invocano apertamente la sedizione contro Netanyahu, la cui politica è riassumibile con una parola yiddish: “chutzpah”. Vuol dire sfacciataggine, quella determinazione insieme sentimentale e ideologica, oggi così poco occidentale, di non arrendersi e di eliminare il nemico che vuole distruggerti e che Netanyahu ha preso dal padre, il durissimo Benzion, che nella casa del quartiere di Katamon, un modesto quartiere di Gerusalemme, fino a 102 anni ha seguitato a scrivere libri sulle infinite persecuzioni degli ebrei. Quando Benzion è morto, nel 2012, Netanyahu si rivolse direttamente a suo padre: “Mi hai sempre detto che una componente necessaria per qualsiasi corpo vivente, e una nazione è un corpo vivente, è la capacità di identificare un pericolo in tempo, una qualità che è andata perduta per il nostro popolo in esilio”. Chissà cosa avrebbe detto il padre il 7 ottobre.
  La guerra di Gaza è iniziata con Hamas che ha esposto i catastrofici fallimenti strategici dello stato ebraico. Ci vorranno anni per attribuire una responsabilità precisa per la serie di errori di intelligence, politici e militari che hanno lasciato così tanti israeliani vulnerabili alla barbarie dei terroristi, ma i fallimenti chiave si sono verificati sotto Bibi, che aveva promesso due cose agli israeliani: “Sicurezza e un’economia forte”. L’idea di fortificare tutti i confini dello stato ebraico è di Netanyahu. La dottrina di Bibi è sempre stata pessimista: Israele deve chiudersi nei confini, come in un gigantesco vallo di Adriano, sviluppando i rapporti economici e diplomatici con il resto del mondo arabo che odia Teheran. Dopo il 7 ottobre, la dottrina ha mostrato lacune drammatiche. Ora si scopre che seimila palestinesi da Gaza sono entrati in Israele quella mattina di festa.
  Il 7 ottobre cambia anche la politica di Netanyahu. Consapevole che la sicurezza di Israele richiede l’annientamento militare di Hamas, Bibi, finora così restio ad azzardi bellici su vasta scala, lancia una lunga guerra impopolare a livello internazionale e interno, per il suo rifiuto di anteporre il ritorno degli ostaggi alla vittoria militare che ha mobilitato l’opposizione interna, consapevole che, in caso di uno sciagurato accordo al ribasso, Israele diventerebbe “debole come la tela del ragno”, come disse Hassan Nasrallah in un famoso discorso quando Israele si ritirò dal sud del Libano nel 2000 per opera del suo rivale politico, Ehud Barak. Yahiya Sinwar, il brillante diavolo di Hamas, conosce gli ebrei e sa che il moderno stato costituzionale occidentale non è in grado di sostenere per sempre le guerre nel deserto: anche il paese più potente della terra si è ritirato dall’Iraq e dall’Afghanistan.
  Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti sotto Netanyahu, ha affermato che il primo ministro è arrivato a pensare che la sopravvivenza di Israele sia intrinsecamente legata alla sua. “Questa convinzione gli consente di resistere a una pressione tremenda”. E da quante parti gli arriva: la destra radicale partner di governo, l’establishment militare nella persona del ministro della Difesa Yoav Gallant, gli Stati Uniti di Joe Biden, i famigliari degli ostaggi che lo accusano della morte dei loro cari, Hamas, l’Onu, gli alleati occidentali che devono gestire elettoralmente l’appoggio precario a Israele. E se non bastassero le decine di filmati in cui Hamas costringe i rapiti israeliani ad attaccare Bibi e chiederne la resa, ora ci si mettono anche i sindacati a paralizzare il paese. Forse non dimenticano le politiche thatcheriane con cui Netanyahu da ministro delle Finanze di Ariel Sharon li rimise al loro posto.
  Netanyahu è diventato la bestia nera dell’intellighenzia internazionale e il capro espiatorio della stampa mondiale, che lo accusa di tenere in ostaggio i rapiti da Hamas e di voler continuare la guerra per motivi politici. Mentre l’antisemitismo si diffonde nel mondo, è Netanyahu che scatena l’odio. C’è chi lo paragona a Sinwar, che sa come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, ha condiviso un post su X che accosta un’immagine di Hitler, celebrato da una folla acclamante con saluti nazisti, a una di Netanyahu accolto da membri del Congresso degli Stati Uniti. Bibi è diventato Hitler nelle piazze di Londra, nei proclami di Erdogan, negli editoriali dei giornali scandinavi. Il mondo intero, l’esercito israeliano, le istituzioni politiche e intellettuali, l’Amministrazione Biden, hanno cercato di spezzare la sua presa sul potere o almeno di costringerlo a cambiare direzione. Ma per ora hanno tutti fallito. Bibi rimane al timone ed è già da tempo il più longevo primo ministro della storia israeliana, anche più di David Ben Gurion.
  Nicolas Sarkozy: “Netanyahu? Non posso vederlo”. Replica Barack Obama: “Tu sei stufo, io devo trattare con lui tutti i giorni”. Così un famoso fuorionda al G20 di Cannes. Sarkozy oggi è l’ombra di quello che era, Obama è impegnato nell’elezione di Kamala Harris e Netanyahu è ancora al potere. “A pain in the ass”, ebbe a definirlo Obama. Un dito al culo. E Biden, “a bad fucking guy”. Un esasperato Bill Clinton disse in privato, dopo il suo primo incontro con Netanyahu nel 1996: “Chi cazzo si crede di essere? Chi è la fottuta superpotenza qui?”. Nonostante la straziante tragedia degli ostaggi e delle loro famiglie, Netanyahu ha resistito alla richiesta di consentire ad Hamas di trarre profitto da stupri, rapimenti e torture facendo pagare a Israele un prezzo impossibile per il loro rilascio. Netanyahu ha superato in astuzia Biden, rifiutandosi di lasciare che una politica americana confusa in medio oriente dettasse l’agenda di Israele in una guerra esistenziale come non se ne vedevano dal 1948. E oggi Netanyahu è l’unico ostacolo sulla strada di Hamas, che chiede che Israele abbandoni il corridoio Filadelfi, la fondamentale striscia di terra al confine tra Gaza e l’Egitto sotto la quale Hamas fa passare armi ed equipaggiamento; che interrompa la guerra e assicuri di non uccidere Sinwar. In altre parole, vittoria per Hamas e resa di Israele.
  Fu Netanyahu primo ministro nel 2011 a volere il rilascio di mille terroristi palestinesi, tra cui Sinwar, in cambio di un solo soldato israeliano, Gilad Shalit. Il prezzo per la sua liberazione fu di 1.027 terroristi responsabili della morte di 569 israeliani. E dal primo giorno del rapimento, la stampa come Haaretz incolpava Netanyahu di non volere lo scambio con Hamas. Corsi e ricorsi storici.
  I terroristi palestinesi hanno appena ucciso sei ostaggi israeliani, tra cui un americano con doppia cittadinanza, e il colpevole è comunque Netanyahu. Non importa che il governo israeliano abbia inviato una delegazione dopo l’altra per negoziare con Hamas. Non importa che sia Hamas, non Netanyahu, a rifiutare qualsiasi accordo. Sfumature: è Bibi che ha abbandonato Ori Danino, Carmel Gat, Hersh Goldberg-Polin, Alexader Lobanov, Almog Sarusi ed Eden Yerushalmi. Bibi deve accettare qualsiasi accordo, subito, e riportare a casa il resto degli ostaggi, a qualunque costo. E poi dovrà dimettersi. Magari andarsene in esilio in Florida assieme a Ron Dermer, il cui padre e fratello sono stati entrambi sindaci di Miami Beach.
  La reazione della Casa Bianca, del governo britannico, della stampa occidentale e di parti di Israele è stata di dare la colpa al premier. Biden ha accusato Bibi di non aver “fatto abbastanza” per garantire un accordo sugli ostaggi. Il nuovo governo laburista britannico ha scelto il giorno del ritrovamento dei cadaveri dei sei per annunciare la fine di trenta licenze di esportazione di armi verso Israele. La spiegazione è che c’è un “rischio” che le armi possano essere utilizzate in violazione delle leggi umanitarie. Il governo di Keir Starmer intende le violazioni di Hamas che spara alla testa a degli innocenti?
  L’opposizione americana ha tenuto Israele fuori da Rafah, dove Hamas ha tenuto i sei prima di ucciderli, per tre mesi. Kamala Harris aveva detto che un’invasione di Rafah avrebbe condannato i suoi civili. “Ho studiato le mappe, non c’è nessun posto dove quella gente possa andare”, disse Harris. Bibi ha dimostrato che si sbagliava, evacuando un milione di abitanti in due settimane.
  Ora anche la marea politica sembra nuovamente essere girata a favore di Bibi. Per la prima volta dal 7 ottobre, i sondaggi lo danno in vantaggio sul suo principale rivale, l’ex capo di stato maggiore il centrista Benny Gantz, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, alto, laconico e che trasuda pragmatismo. Ma nel caso di elezioni anticipate nessuna coalizione naturale avrebbero i 63 seggi per governare.
  Hezbollah e l’Iran sembrano scoraggiati dalla risposta militare israeliana, con gli strike di Gerusalemme sul Libano e l’eliminazione a Teheran del capo di Hamas, Ismail Haniyeh. Ma tutti sanno che per sferrare un colpo efficace ai suoi nemici a nord, Israele dovrà non solo assassinare i capi del terrore, ma anche tornare a nord del fiume Litani e creare vaste zone cuscinetto.
  La sopravvivenza dello stato ebraico rimane un immenso work in progress e il conflitto con l’Iran resta irrisolto. Eppure, una cosa è chiara. Netanyahu sta lasciando impronte profonde nella storia e nella storia del popolo ebraico. Quanto alle piazze e ai media, Bibi taglia corto: “Preferisco avere cattiva pubblicità che un buon necrologio”.
  E in fondo subito dopo la fondazione di Israele, quando gli fu posta l’attenzione sulla probabile reazione negativa delle Nazioni Unite, anche David Ben Gurion sbottò: “E’ stata l’audacia degli ebrei a fondare lo stato, non una decisione di quell’Um Shmum”. Um Shmum si riferisce all’Onu (“Um” in ebraico) abbinandogli il prefisso “Shm” con cui si prende in giro. Tradotto: chi se ne frega dell’Onu? Israele è nato contro il parere del resto del mondo. Sopravviverà anche senza.

Il Foglio, 7 settembre 2024)

........................................................


Odiare Israele usando Netanyahu come paravento

di Davide Cavaliere

«Blogger» presso Il Sole 24 ore, Ugo Tramballi è specializzato nel diffondere la peggior propaganda palestinese, che cerca di spacciare sotto forma di analisi «imparziali». Il giornalista, infatti, è uno di quelli che ama celarr la propria avversione per Israele dietro a un discorso anti-Netanyahu e, più in generale, «antifascista». 
  Come tutti i conformisti di sinistra rimpiange Yitzhak Rabin, trasformato in santo laico dopo l’omicidio, dimenticando che i suoi compagni e amici progressisti, forse lui stesso, ma non lo sappiamo, non mancarono di accusare anche il leader laburista di «fascismo», soprattutto in relazione alla frase sulla necessità di rompere le braccia ai palestinesi che tiravano pietre durante la prima Intifada. 
  Tramballi è ossessionato dalla destra israeliana. Non esiste, praticamente, suo articolo che non contenga un riferimento a un presunto «messianismo ebraico» o alle «destre nazional-religiose». Si è convinto che Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir siano la versione ebraica di Hamas e che vogliano realizzare il progetto della «Grande Israele». Si tratta del riciclo della menzogna fabbricata, negli anni Trenta, da Amin Al-Husseini, il Muftì filonazista di Gerusalemme, secondo cui i sionisti volevano impadronirsi di tutte le terre arabe e radere al suolo la moschea di al-Aqsa.
  In realtà, Ben-Gvir e Smotrich, sono solo due ebrei israeliani fieri di esserlo, che non intendono continuare a fare da bersaglio ai terroristi di Hamas per soddisfare i sogni irenici e ingenui di gente come Tramballi. Mentre compila i suoi trafiletti per Il Sole 24 ore su come faccia fatica ad accettare un governo «nazional-religioso», gli israeliani, soprattutto se residenti in Giudea e Samaria, cercano di non farsi sparare lungo la strada che li riporta a casa o di evitare che le loro auto di seconda mano vengano rubate e portate nel territorio controllato dalla «Autorità Palestinese».
  I cosiddetti «coloni», che il nostro dipinge come subumani «razzisti», sono persone normali che ogni giorno si battono per vivere in una terra nella quale hanno diritto di risiedere. 
  Tramballi, sebbene ami sfoggiare il suo curriculum di giornalista, non ha compreso nulla della realtà israeliana e della mentalità islamica, ancorato com’è a idee e concetti sconfessati dalla realtà. Il jihad condotto da Hamas e da Hezbollah col supporto dell’Iran non è la reazione violenta a una disputa territoriale. Gli arabi-palestinesi non combattono una guerra per la terra, bensì una guerra ideologica, «santa», volta a sterminare i circa sette milioni e mezzo di ebrei che vivono nei confini dello Stato d’Israele.
  A questi fanatici, Tramballi vorrebbe regalare uno stato, anzi, a suo dire lo vorrebbero tutti: «lo stato palestinese che invocano l’amministrazione Biden, cinesi, russi, europei, Sud globale, arabi buoni e cattivi. Tutto il mondo, tranne Israele». Viene da chiedergli: dove dovrebbe sorgere questo «Stato palestinese»? Sui monti della Giudea così che i cecchini arabi possano mirare più facilmente agli israeliani? Oppure in una Gaza nuovamente retta da un gruppo jihadista?    
  Israele è un Paese piccolo e stretto, circondato da grandi e instabili Stati arabo-musulmani. Sottrargli altro territorio equivarrebbe a condannarlo a morte. Inoltre, come ha chiarito Yoram Ettinger proprio su queste pagine: «Uno stato palestinese significherebbe una base navale o aera russa al suo interno, e possibilmente una base militare iraniana che sconvolgerebbe drammaticamente il corrente equilibrio dei poteri nel Mediterraneo, già il ventre molle dell’Europa. Comporterebbe anche la devastazione di ciò che resta dei centri cristiani di Giudea e Samaria. Betlemme e Bet Jalla una volta erano centri a maggioranza cristiana fino agli Accordi di Oslo del 1993». 
  Sono queste, però, considerazioni strategiche e politiche che non interessano a Tramballi, troppo impegnato a sfoggiare i suoi buoni sentimenti e a coccolare il «Sud globale», gli arabi «buoni» e soprattutto quelli «cattivi», che difende con un ardore sospetto. Non si stanca mai, infatti, di ripetere che «Hamas non può essere sconfitto». Nel ’39 avrebbe detto che Hitler non poteva essere sconfitto (e avrebbe avuto ben più ragioni per pensarlo). 
  Secondo lui, Netanyahu dovrebbe accettare un accordo con Hamas, ossia con macellai imbottiti di Captagon, per far cessare una guerra che, a suo dire, non può essere vinta. In altri termini: vuole preservare il dominio di Hamas nella Striscia, così che in futuro possa esserci un nuovo 7 ottobre. 
  Tramballi, come direbbe John Bolton, è uno che fa della diplomazia un fine quando è solo un mezzo. Decenni di accomodamenti con Hamas non hanno prodotto nessuna pace, perché adesso dovrebbe essere diverso? Dubitiamo abbia una risposta razionale. I suoi articoli trasudano una pelosa indignazione, ma non forniscono nessuna soluzione concreta. Si limita a evocare idee platoniche e concetti puri: «Pace» e «Democrazia». 
  Non si capisce mai se sia un collaborazionista del jihad o un ingenuo utopista. Forse, la seconda ipotesi è la più probabile. Il conflitto israelo-palestinese gli permette di sfoggiare la sua «umanità». Leggere Tramballi è il miglior modo per continuare a non capire nulla del Medio Oriente, in compenso aiuta a farsi un’idea delle dimensioni del suo ego. 

(L'informale, 7 settembre 2024)

........................................................


Engagé a metà. L’ottusità degli attori di Hollywood nel chiedere a Biden il cessate il fuoco di Israele

La gente del cinema che ha scritto al presidente americano per proporgli una «immediata de-escalation» ha dimenticato di citare i massacri di Hamas, il 7 ottobre e gli sfollati interni causati dai missili di Hezbollah. Sarà stato per questioni di spazio.

di Iuri Maria Prado

La bella gente di Hollywood che l’altro giorno scriveva al presidente Joe Biden chiedendogli di impegnarsi per una «immediata de-escalation» non ha dimenticato nulla dei numeri che raccontano la tragedia di Gaza: i «più di quarantamila uccisi negli ultimi undici mesi, e i più di novantaduemila feriti». «Crediamo», hanno aggiunto, che «ogni vita è sacra, a prescindere dalla fede o dall’etnia e condanniamo l’uccisione dei civili palestinesi e israeliani». Equanimi, quindi.
  E sicuramente, dunque, erano le ristrettezze di spazio a precludere a quelle decine di artisti di menzionare i numeri del carico residuo, cioè quelli degli ebrei ammazzati il 7 ottobre, quelli degli ostaggi trattenuti e assassinati a grappoli dall’innominabile Hamas, quelli degli israeliani – un settantamila – profughi in terra propria perché l’innominabile Hezbollah ha incenerito la Galilea.
  Nel reclamare il “cessate il fuoco”, la brochure delle celebrities engagé du côté de chez Intifada ricorda doverosamente che «più dei due terzi» dei residenti di Gaza «sono rifugiati e i loro discendenti sono stati obbligati ad abbandonare le loro case». Ancora ragioni di spazio impedivano agli artisti firmatari di ricordare che gli israeliani – non due terzi: tutti – sono rifugiati e discendenti di rifugiati. E che, se fosse per quelli che gli attori e i registi di “Artist4Ceasefire” non nominano, sarebbero alternativamente ammazzati o ributtati in mare.
  Vogliono «la fine del bombardamento di Gaza», gli attori, come Laura Boldrini, Andrea Orlando, Angelo Bonelli, Alessandro Zan e soci quando, imbandierati di arcobaleno, mostravano cartelli con la scritta “Ceasefire on Gaza now”. Ceasefire from Gaza, from Lebanon, from Yemen e from Iran la prossima volta.
  «Salvare vite», scrivono, «è un imperativo morale». Quanta giustizia nell’apoftegma. Avrebbero potuto rivolgerlo – quanto meno anche – agli innominabili che rivendicano di usare i bambini palestinesi «come attrezzi contro Israele». Ma la scelta avrebbe deturpato il nitore di quella deplorazione umanitaria. Una che non ha firmato è Gwyneth Paltrow. Sarà perché è un’ebrea non meritevole, come Ben Stiller e – figurarsi – Gal Gadot. Sinwar non ha firmato perché non lo sapeva.

(LINKIESTA, 7 settembre 2024)

........................................................


Mala tempora currunt sed peiora parantur

di Kishore Bombaci

Verso quale società ci stiamo dirigendo se oggi, annus Domini 2024 siamo costretti ad assistere attoniti a cittadini inglesi di religione ebraica felici perché il Sindaco di Londra Khan ha riservato loro degli autobus che potranno assicurarne in sicurezza gli spostamenti?
  A quale livello è giunto l’antisemitismo violento che costringe cittadini ebrei a mutare le proprie abitudini fino alla gioiosa autoghettizzazione per motivi di sicurezza e tutela dell’incolumità?

- A quale vette di insulsa viltà morale è pervenuta la nostra società se asseconda tale assurdità che tanto assurda non pare visti i tempi che corrono?
  Sembra un mondo al contrario, una fotografia mossa degli anni 30 del secolo scorso, con la differenza che, adesso, il condizionamento mentale imposto con la violenza dagli estremisti opera a priori, spinge all’autoesclusione per stanchezza, distrugge dall’interno la voglia di combattere per qualcosa che è semplice e banale e che sta diventando invece una chimerica utopia: viaggiare in sicurezza.

- Il sindaco londinese riferisce che molti ebrei gli hanno confessato che «Le famiglie [ebree], quando cambiavano autobus da Stamford Hill a Golders Green a Finsbury Park, erano spaventate dagli abusi subiti» e da qui la richiesta di viaggiare separati
  Una forma di apartheid autoinvocata. La vita che muore nella morte della libertà!
Si possono biasimare gli ebrei londinesi che vogliono viaggiare in pace e sicurezza? No e il paradosso è proprio questo.

- Perché la decisione del sindaco di Londra offre lo spaccato di un mondo che sta rapidamente cambiando ed involvendo avvitandosi in spire antiche che conducono alla paralisi della ragione e alla morte dello spirito
  La vittima anticipa il carnefice, esce dal gioco, sacrifica la libertà per la sicurezza. Segno evidente della crisi profonda in cui versa la nostra democrazia occidentale, che proprio sulla libertà si era fondata e che, incapace di offrire sicurezza, si appresta ad essere surclassata da nuove forti identità che della libertà non sanno proprio che farsene.

- Le istituzioni occidentali non possono altro che assecondare queste spinte uguali e contrarie
  Da un lato la violenza aggressiva di chi con le proprie minacce vorrebbe imporre nuovi paradigmi e dall’altra la vittima che si fa prona per salvare il salvabile. La dinamica del servo-padrone di hegeliana memoria risplende in tutta la sua fulgida dinamica paradossale lasciando inerte chi invece, sulle macerie del 900, avrebbe dovuto costruire una nuova società fondata su una “identità democratica” che facendo i conti con la propria storia, dimostrasse che “mai più” era davvero “mai più”.

- In questo la società occidentale ha fallito clamorosamente
  Non c’è via di ritorno Quel che resta da decidere sono i tempi in cui questo fallimento si rivelerà patente agli occhi degli stolti che ancora non vedono quanto sia ormai troppo tardi. Quanto ormai a forza di giocare con il fuoco, ci si sia scottati. Quanto si sia varcata la triste soglia del non ritorno!

- Ci sono singoli che possono integrarsi, ma certe culture no
  Oggi no. Tramonta l’idea progressista del multiculturalismo frizzante. E al contrario, si staglia all’orizzonte (invero forse ci siamo già immersi) uno scontro di civiltà che non fa prigionieri. Che non lascia spazio a compromessi. Che invita ciascuno di noi a una precisa scelta di campo. O di qua o di là. O con la cultura della vita, o con quella della morte.

- E‘ chiara la visione in chi, con occhio disincantato, osserva la realtà attuale e di cui le scelte londinesi sono una cartina di tornasole perfetta
  Una realtà ampiamente preannunciata da Oriana Fallaci più di vent’anni fa, ma volutamente sottovalutata perché non in linea.

- Oggi farebbe bene rileggere La “Rabbia e l’Orgoglio”
  Libro profetico al pari di Orwell e Huxley. E come questi, frainteso e emarginato.
L’Occidente sta abdicando al proprio ruolo, vacilla con gambe malferme su una identità vista come un nemico da autoabbattere.

- Un’identità che viene fieramente negata dall’imperante cultura mainstream, censurata in un falso senso di colpa che assurge a parametro di interpretazione della storia e a strumento per rimodellare il futuro
  E quindi, il cambiamento della cornice di riferimento occidentale, la caduta degli dei ci rende permeabili a una forma di invasione senza armi (ma all’occorrenza ci sono pure quelle), per contaminazione.

- L’Europa si fa vuoto, e il vuoto viene riempito da altri
  Non c’è spazio per nessuna resistenza non dico militare, ma nemmeno culturale, a fronte di questa colonizzazione mentale di cui l’Occidente è vittima anestetizzata. Una forma di sindrome di Stoccolma si dipana nelle mente delle masse informi annichilite dal buonismo progressista; e i pochi che riescono a scorgere il disegno che si cela dietro fatti apparentemente scollegati, a individuare una direzione, a ammonire sul futuro, vengono tacciati di fascisti e messi a tacere.

- L’Europa muore nel silenzio dei più
  I valori che ne hanno costruito l’essenza e l’esistenza sono prostituiti in vista di nuove sorti magnifiche e progressive. L’Europa si trasforma in Eurabia per dirla con le parole di Bat Ye’Or intellettuale di riferimento di Oriana Fallaci. Gente visionaria e perciò da mettere a tacere.

- Gente coraggiosa e perciò da silenziare
  Gente libera, e quindi pericolosa.
  Ecco, oggi mancano i visionari. Oggi quello di cui avremmo bisogno e che non esiste è una classe intellettuale coraggiosa che si rifiuti di affogare nelle sabbie mobili del perbenismo suicida e che, al contrario, denunci la vergognosa deriva che l’Occidente sta prendendo.

- Che ci rende morti prima ancora di essere uccisi
  Quello di cui avremmo bisogno è di qualcuno che si alzi e dica NO! Io non voglio un autobus per me. Io voglio viaggiare con gli altri. Perché l’essenza della libertà è non farsi condizionare, non subire il ricatto morale e materiale degli antisemiti, degli islamisti, dei violenti e dei loro corifei buonisti.

- A tutto questo dico no!
  E questo manca. E certo, non è colpa degli ebrei.

(AdHoc News, 7 settembre 2024)

........................................................


La truffa del multiculturalismo, l’ideologia europea che ci porta alla sottomissione

Parla l’autrice di “Eurabia”, Bat Ye’or. Una dottrina, oggi nel Dna dell’Unione europea, veicolo politico dell’immigrazione di massa che in pochi decenni ha trasformato l’Europa. 

di Davide Cavaliere

Bat Ye’or, ovvero “Figlia del Nilo”, è autrice di studi pionieristici sulla condizione sociale delle minoranze religiose nel mondo islamico. È lei ad aver introdotto i termini “Dhimmitudine” ed Eurabia nel dibattito pubblico. Con lucida precisione e competenza storica, in questa intervista affronta temi cruciali per il futuro dell’Europa.
 
• COME NASCE IL MULTICULTURALISMO

DAVIDE CAVALIERE: Vorrei cominciare da quanto è avvenuto nel Regno Unito, dove comuni cittadini e militanti identitari si sono scontrati con bande di musulmani e gruppi filo-palestinesi. Il multiculturalismo, inteso come pacifica convivenza tra gruppi etnici e religiosi differenti, è fallito?
BAT YE’OR: È chiaro che il multiculturalismo, oggi, appare come una truffa su vasta scala. Il suo obiettivo proclamato è la coesistenza pacifica tra le culture, dove il termine cultura è qui usato, in senso lato, per mascherare il termine religione. Perché questa omissione? Esistono religioni nemiche? Il presidente Barack Obama ha detto che tutte le religioni predicano l’amore e la pace, ma no! Le religioni non sono identiche, alcune sono intolleranti e dominatrici e hanno provocato guerre. Facciamo attenzione all’irenismo. Possiamo stabilire una coesistenza pacifica tra le culture se le religioni che ne plasmano le espressioni e i valori predicano la nostra distruzione?
Il multiculturalismo è un’ideologia politica di origine europea, che sostiene la coesistenza pacifica tra diversi gruppi etno-religiosi. Questa dottrina è stata creata dal Consiglio europeo, il massimo organo dell’Unione europea, che rappresenta i capi di Stato degli Stati membri.
È stata espressa per la prima volta in Europa negli anni ’70 da storici e arabisti filo-islamici. Essa sottolineava la benefica tolleranza della dominazione araba nei confronti delle “minoranze” ebraiche e cristiane, in particolare in Andalusia e nell’Impero Ottomano. Un flusso di pubblicazioni di eminenti storici in tutti i campi ha inondato il pubblico per decenni. Esaltavano la tolleranza del governo islamico e la sua superiorità rispetto al cristianesimo arretrato e bigotto. Questo indottrinamento accompagnava la politica di massiccia immigrazione islamica in Europa e mirava ad abbattere i freni nazionalisti che ostacolavano la fusione intraeuropea dell’Unione.
Jacques Berque, uno dei suoi più attivi sostenitori in Francia, voleva vedere diverse “Andalusie”, cioè Stati musulmani, sparsi per l’Europa. Oltre all’Andalusia, i militanti del multiculturalismo portavano il Libano come esempio di meravigliosa coesistenza multiculturale islamo-cristiana e accusavano Israele, uno Stato nazionale, di volerlo distruggere per gelosia. Il multiculturalismo promuoveva un’Europa senza confini, sottomessa all’Islam, come in Andalusia, e fortemente ostile al sionismo e allo Stato di Israele, accusato, per la sua sola esistenza, di essere la causa degli attuali conflitti islamico-europei. Se solo Israele scomparisse, la convivenza euro-islamica tornerebbe ad essere idilliaca.
Il multiculturalismo è un movimento consensuale saldamente radicato nell’Unione europea, nel cuore dei settori educativo, sociale e politico. È rappresentato ai massimi livelli da vaste reti di lobby, comitati, associazioni e progetti, a cui si aggiungono organi di censura per neutralizzare e sopprimere qualsiasi opinione contrastante.
Possiamo ora chiederci se questo multiculturalismo benevolo e felice sia davvero esistito nelle relazioni tra musulmani e cristiani. Forse nell’impero Judenrein del Terzo Reich tra il 1940 e il 1945, dove c’era una vera e propria fraternizzazione tra gli europei nazisti e i loro colleghi musulmani nelle SS e nella Wehrmacht. Numerosi libri hanno recentemente sfondato il muro della censura per denunciare le falsificazioni storiche del mito andaluso. Se questo paradiso di ebrei e cristiani governato dalla sharia non è mai esistito, a cosa è servita la costruzione di quell’immensa macchina politica transnazionale che è il multiculturalismo? Non è riuscito nemmeno a salvare il Libano dal caos.
Questa dottrina, che oggi costituisce il Dna dell’Unione europea, è stata il veicolo politico dell’immigrazione di massa che ha trasformato l’Europa nel giro di pochi decenni. Dietro la sua facciata umanista si nascondevano questioni strategiche ed economiche transcontinentali.
Sembra quindi che la violenza che ha lacerato la società britannica, nota per la sua tolleranza, sia un sintomo del caos e della destabilizzazione nazionale causati dalla collisione dei costumi stranieri importati e imposti alla Gran Bretagna. È il confronto tra la dottrina irenica e immaginaria del multiculturalismo, che predica l’amore e la pace sociale attraverso la mescolanza delle culture e, dall’altra parte, la violenza di una realtà vissuta dal popolo e negata dalle élites al potere, pronte a punire il proprio popolo se si ribella alla loro dottrina.

• L’ALLINEAMENTO EURO-ARABO

- DC: Ogniqualvolta gli europei manifestano la loro contrarietà all’immigrazione o denunciano l’eccessiva tolleranza delle autorità verso l’Islam, le classi dirigenti dell’Occidente parlano di “rigurgiti” di fascismo e di “fake news” russe. Da dove deriva questa incapacità di comprendere le cause della rabbia e del malessere dei popoli?
   BYO: Il rifiuto di comprendere l’opposizione nazionalista all’immigrazione islamica di massa non deriva da una mancanza di informazione da parte delle élites al potere, ma dall’inesorabile rifiuto di rompere gli accordi e gli impegni assunti dai Paesi dell’Ue negli ultimi quattro decenni con i Paesi arabi e musulmani. I due Paesi in prima linea in questa politica, Francia e Gran Bretagna, hanno promosso una politica di associazione tra gli Stati della Comunità europea e i Paesi musulmani, soprattutto quelli produttori di petrolio, sin dalla fine del 1969. In quel periodo, i Paesi arabi si stavano unendo sotto la bandiera del nazionalismo arabo modellato sulla jihad.
Il riavvicinamento euro-arabo degli anni Sessanta e Settanta ha proseguito l’alleanza stretta dagli Stati fascisti e nazisti con i movimenti antisemiti arabi e musulmani degli anni Trenta e Quaranta. Le Camicie Verdi in Egitto, che negli anni Trenta riunirono decine di migliaia di giovani, e il Movimento Popolare Siriano di Antoun Saadé si ispirarono apertamente a questi movimenti. Questi gruppi propugnavano lo sterminio degli ebrei e l’eliminazione del sionismo.
All’interno di questa convergenza nazista euro-islamica, una corrente cristiana ostile alla civiltà giudaico-cristiana esprimeva la sua ammirazione per l’Islam. Pertanto, accusare oggi i movimenti nazionali dell’Ue di essere nazisti e fascisti quando combattono l’islamizzazione dei loro Paesi è un sovvertimento della storia e una negazione della realtà.

• L’INFLUENZA DEL JIHAD

- DC: Cosa ci può dire dell’allenza tra estrema sinistra e Islam?
   BYO: L’alleanza tra i movimenti marxisti e terzomondisti e l’Islam è stata oggetto di numerosi studi. Ma qui mi concentrerò su un argomento tabù: l’influenza del movimento jihadista sull’Ue e sulla politica internazionale.
Come ho detto, il multiculturalismo, che è in realtà il desiderio irriducibile di legare l’Europa all’Islam, è nel Dna dell’Unione europea, che nel 1957 ha eletto Walter Hallstein come primo presidente della Commissione europea per dieci anni. Hallstein era stato un ufficiale nazista molto favorevole all’Islam, proprio come i suoi colleghi collaborazionisti dell’epoca. Tutti i principali testi internazionali a partire dagli anni Settanta, siano essi politici, strategici o culturali, sottolineano questo desiderio occidentale di legarsi all’Islam. Lo si vede chiaramente nei testi dell’Alleanza delle Civiltà creata nel 2005. Si tratta di una forte tendenza che risale agli anni Venti, basata sulla lotta comune euro-islamica contro il sionismo e contro il Trattato di Losanna del 1923, che confermava la legittimità di uno Stato ebraico nella sua patria.
Questa lotta ha portato alla Shoah nei territori del Terzo Reich, ai raid contro gli ebrei nei Paesi arabi, alla loro espulsione e, a partire dal 1947-48, alle guerre di sterminio contro lo Stato di Israele. Questo movimento euro-arabo e cristiano-islamico è durato per tutto il XX secolo. L’emigrazione in Egitto e in Siria, durante il periodo nasseriano, di criminali nazisti convertiti all’Islam gli diede una struttura. Essi assunsero posizioni di rilievo nel governo egiziano in relazione alla guerra contro lo Stato ebraico e fornirono istruttori militari all’OLP e nella propaganda. Fu questa collaborazione con Amin al-Husseini, in particolare, a dare origine al movimento del jihad nazificato, che è ancora vivo oggi ed è stato studiato dagli specialisti nell’ultimo decennio. Mi riferisco al “palestinismo” nato dalla fusione dei fondamenti teologici della jihad con le tematiche antisemite naziste. È qui che l’odio antiebraico cristiano e musulmano si fondono.
L’Unione europea non cambierà strada. Sta brandendo sanzioni e minacce contro l’Ungheria ribelle e ha bloccato i popoli europei in una rete di leggi che li paralizzano. È chiaro che questa politica rifiuta il giudeo-cristianesimo proprio come il nazismo. Infatti, i nazisti disprezzavano le origini ebraiche del cristianesimo e si rammaricavano che l’Europa non fosse stata islamizzata nel 732 a Poitiers.
D’altra parte, non dobbiamo minimizzare le pressioni esercitate sulla Ue dai Paesi della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), che riunisce 56 Paesi musulmani o a maggioranza musulmana. Come dimostrano i numerosi testi che ho pubblicato, questa pressione mirava a mantenere aperta l’immigrazione islamica, a promuovere l’entrisme, la discriminazione positiva (favoritismo verso i musulmani), la mescolanza e a incoraggiare lo sviluppo di costumi e leggi islamiste nell’istruzione e nella cultura. Ciò ha portato allo sviluppo di quello che è noto come il “nuovo antisemitismo”, che non è altro che la giudeofobia manifesta, rivendicata e comune nei Paesi musulmani e familiare agli ebrei di quei Paesi.
- DC: All’Università di Torino, durante le proteste anti-Israele degli ultimi mesi, un imam è stato invitato dagli studenti filopalestinesi a tenere un sermone. Le foto dell’evento mostrano gli studenti maschi separati dalle loro colleghe. Come è stato possibile che studenti universitari occidentali, benpensanti e progressisti, simpatizzino per l’Islam e per organizzazioni come Hamas?
   BYO: Credo che dalla guerra del petrolio dell’ottobre 1973 stiamo vivendo un periodo di jihad in Occidente e soprattutto in Europa. La jihad è un tipo particolare di guerra che non si limita a dispute territoriali come altri conflitti che si concludono con trattati di pace. L’obiettivo della jihad è islamizzare il pianeta e sradicare la miscredenza. È una guerra di civiltà con codici militari propri e principi giuridici religiosi ben sviluppati.
Secondo questa ideologia, fermare l’immigrazione musulmana potrebbe essere considerato un casus belli per lanciare la jihad. Le continue vessazioni di Hamas e Hezbollah ai confini di Israele sono una tattica jihadista tradizionale. Gaza è stata trasformata, sotto gli occhi e con l’approvazione dell’Ue, in una roccaforte sotterranea del terrorismo, ossia in un ribat, una di quelle fortezze militari che, per oltre un millennio, hanno riunito i jihadisti per razziare, uccidere, bruciare e rapire ostaggi nelle terre di confine cristiane.

• OCCIDENTALI ISLAMIZZATI

Il comportamento degli studenti a cui lei fa riferimento è quello di persone ormai profondamente islamiche, che aderiscono ai criteri religiosi della separazione dei sessi e della guerra contro i miscredenti ebrei e cristiani, perché le due cose sono inscindibili. Questo comportamento è perfettamente normale in qualsiasi società islamica. Se cambiate la parola progressista con islamista, avrete la risposta alla vostra domanda.
In un’atmosfera islamista si può essere progressisti e continuare a sostenere la guerra di sterminio del popolo ebraico da parte di Hamas, che è l’incarnazione della fede jihadista contro l’Occidente miscredente. Non vogliamo vedere che questi occidentali sono stati islamizzati perché crediamo che tutti gli occidentali condividano i nostri valori. Ma è chiaro che l’Occidente ha addestrato degli islamisti all’odio verso il modello giudaico-cristiano. Si può anche sostenere il piano palestinese di sterminio degli ebrei pur essendo cristiani, per odio verso gli ebrei. Abbiamo una lunga storia di questo tipo.
La sua domanda pone quindi un problema fondamentale: i nostri leader hanno tollerato l’importazione e la riproduzione nei Paesi dell’Ue dei modelli educativi, religiosi e sociali dei Paesi musulmani? La risposta è chiaramente sì, perché i risultati di quarant’anni di politica sono sotto i nostri occhi. Se avessimo avuto una politica diversa, non avremmo avuto questi risultati. Sono le conseguenze delle decisioni prese e della loro attuazione. Non appaiono all’improvviso. Dobbiamo avere il coraggio di uscire dalla negazione e imparare a vedere e affermare l’ovvio.

• UNA DOTTRINA EUROPEA

La seconda domanda è: perché? La mia risposta è: perché era esattamente quello che volevano questi capi di Stato. In tre libri ho studiato l’introduzione nei Paesi membri dell’Ue delle decisioni che hanno portato alle conseguenze che vediamo oggi. Si tratta di Eurabia (Lindau, 2007), Verso il Califfato Universale (Lindau, 2008) e Comprendere Eurabia (Lindau 2015). Contro i miei libri è stata condotta una campagna diffamatoria di criminalizzazione nelle principali università britanniche e statunitensi, sulla stampa internazionale e su Wikipedia.
La dottrina europea del multiculturalismo nasconde e nega totalmente la realtà storica della jihad e quella della dhimmitudine, ovvero lo studio dello status giuridico di ebrei e cristiani e di altri popoli non musulmani che vivono sotto la sharia. Il multiculturalismo – che non parla di jihadelogia la tolleranza dell’Islam e incolpa l’Occidente per le crociate e per la colonizzazione, per Israele e per il sionismo. Tuttavia, solo la conoscenza dei concetti storici fondamentali dell’ideologia del jihad e dei principi teologici e giuridici della dhimmitudine può permetterci di comprendere la continuità e il significato degli eventi contemporanei.
È importante sottolineare che né tutti gli attuali capi di Stato musulmani né tutti i musulmani aderiscono all’ideologia jihadista. Tuttavia, avremmo voluto sentire la voce forte di un Islam moderno che rifiuta i principi di sterminio della jihad.

(ATLANTICO, 7 settembre 2024)

........................................................


Un anno dal 7 ottobre: la normalizzazione dell’odio

di Ariela Piattelli

Potrebbe essere una vignetta ma purtroppo non lo è. È la fotografia della realtà. Al netto della sua drammaticità, vista anche la tragedia sfiorata, è di grande impatto l’immagine del responsabile dell’attentato alla sinagoga Beth Yaakov di La Grande – Motte, un algerino di 33 anni, che si allontana con una kefiah in testa, armato di ascia e pistola, con due bottiglie di liquido esplosivo in mano e avvolto dalla bandiera palestinese. Un’immagine alla quale un bravo disegnatore potrebbe ispirarsi perché racchiude, evidenzia e riassume ogni singolo elemento del male, vecchio e nuovo, (ri)emerso con forza nel giro di uno schiocco di dita dal pogrom jihadista del 7 ottobre. Abbraccia tutti gli ingredienti dell’odio e della violenza antiebraica con le sue bugie: il terrore, le armi, le bombe e la maschera di chi ce l’ha con gli ebrei perché, a suo dire, gli rubano la terra. E sullo sfondo il disegnatore potrebbe aggiungere l’immagine (anche questa reale) della statua di Anna Frank deturpata ad Amsterdam con le scritte su Gaza. Ci sarebbe davvero tutto per tentare di sensibilizzare qualche coscienza. Non servirebbe neanche una parola e, senza ironia, stupisce davvero che i vignettisti, almeno tanti di quelli italiani, che si sono sbizzarriti in questi mesi in interpretazioni allusive e temerarie del conflitto Israele-Gaza, rispolverando simboli, fantomatici deicidi e pregiudizi vari, come tanti nostri colleghi, non abbiano colto questa occasione.
  Non servono maestri del disegno satirico e dissacrante per descrivere, enfatizzare e denunciare l’onda lunga di antisemitismo e violenza che gli ebrei stanno vivendo in Israele, in Europa e in tanti altri paesi del mondo: ogni fotogramma della storia di questo ultimo anno è un evidenziatore di un dato di realtà, una denuncia di fatti talmente eloquenti che se ci si volta altrove per non guardare, se ne vedono altri pullulare come in un moltiplicatore. Eppure l’attentato terroristico del 24 agosto in Francia (dove anche prima del 7 ottobre si uccidevano gli ebrei e si scaraventavano dalla finestra), nella cittadina turistica vicino a Montpellier, che per miracolo non ha lasciato a terra decine di vittime, ha avuto nei giornali italiani, tranne rare eccezioni, lo spazio di una notizietta che non merita più di 20 righe.
  Ci si abitua a tutto, purtroppo, ma ad essere sinceri bisogna riconoscere che al ribaltamento della realtà, all’antisemitismo, alla barbarie che ha colpito e colpisce Israele, ci si è forse abituati un po’ di più e in tempi rapidissimi. Gli ebrei e gli israeliani no, loro naturalmente non si sono abituati e considerano ancora insostenibile l’idea un bambino che ha compiuto un anno nelle mani dei terroristi di Hamas, delle donne da loro stuprate, dei centinaia di israeliani rapiti o uccisi nella strage di un anno fa, poi negli attentati, delle migliaia di sfollati cacciati dalle loro case dai missili di Hezbollah che ammazza i ragazzini mentre giocano a calcio, del numero impressionante dei giovani soldati dell’IDF rimasti uccisi o mutilati in una guerra contro il male che Israele non ha mai cercato. Degli ostaggi qui in Italia non se ne parla più, se non come “posta” sul tavolo delle trattative che per volontà dei terroristi, oramai promossi al rango di credibili interlocutori, falliscono miseramente da mesi. Ormai è tutto normale, come essere in una lista di proscrizione antisemita, una specie di odioso menu che offre i nomi di ebrei e cosiddetti “sionisti” per circoscriverli, puntarli ed invitare a colpirli.
  “Questa normalizzazione è spaventosa perché porta all’indifferenza, noi sappiamo cosa significa”, mi confessa una voce italiana da Gerusalemme. È un grave e preoccupante segno del nostro tempo, un altro effetto dell’accelerazione, di quella miccia antisemita innescata di nuovo un anno fa con la strage del 7 ottobre.
  Allora ripenso ad un amico israeliano che andò qualche anno fa in Polonia a girare un film sulla Shoah: la sua famiglia veniva proprio da lì e aveva vissuto le persecuzioni. Al suo arrivo, travolto dalla profonda emozione, spinto dal bisogno di condividere con qualcuno le ragioni di quel viaggio e finalmente di riconciliarsi con la storia, iniziò a parlare con l’anziano tassista: lui da bambino viveva accanto ad una famiglia di ebrei, poi un giorno li portarono via. Dopo ne portarono via altri ed altri ancora. E a lui non gli venne proprio da pensare a dove fossero finiti. In fondo era normale che gli ebrei sparissero nel nulla, accadeva così spesso a quei tempi da lasciare tutti gli altri indifferenti. E anche lui si era abituato in fretta.

(Shalom, 6 settembre 2024)

........................................................


Ecco come Hamas vuole prolungare i colloqui per mettere pressione a Israele

Da rabbrividire, un documento rinvenuto dalla Bild rivela la tattica di Hamas per garantirsi la sopravvivenza militare attraverso una forza araba di interposizione, il tutto ignorando completamente la popolazione di Gaza

Un documento di Hamas appena rivelato indica che la principale preoccupazione del gruppo terroristico nei negoziati per il cessate il fuoco con Israele è quella di riabilitare le sue capacità militari, e non di alleviare le sofferenze della popolazione civile di Gaza. Lo ha riferito venerdì il quotidiano tedesco Bild.
Il documento della primavera 2024, che Bild ha dichiarato di aver ottenuto in esclusiva, senza offrire ulteriori dettagli, sarebbe stato trovato su un computer a Gaza appartenente al leader di Hamas Yahya Sinwar.
Il documento illustra le strategie e gli obiettivi di Hamas nei negoziati con Israele su un potenziale accordo che vedrebbe il rilascio di ostaggi in cambio di un cessate il fuoco e della liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti da Israele.
Secondo il rapporto, Hamas è indifferente al fatto che la guerra in corso finisca rapidamente, dando invece priorità al mantenimento delle capacità militari del gruppo terroristico, allo “sfinimento” degli apparati militari e politici di Israele e all’aumento della pressione internazionale su Israele.
Sebbene il gruppo terroristico ammetta nel documento che la guerra, giunta al 12° mese, ha diminuito le sue capacità militari, Hamas cerca ancora di “migliorare importanti clausole dell’accordo, anche se i negoziati continueranno per un periodo prolungato”. In particolare, il documento non menziona le vittime civili palestinesi.
Il rapporto dice anche che Hamas ha definito una strategia di guerra psicologica attraverso gli ostaggi, chiedendo di “continuare a esercitare una pressione psicologica sulle famiglie degli [ostaggi], sia ora che nella prima fase [del cessate il fuoco], in modo da aumentare la pressione pubblica sul governo nemico”.
Questa strategia è stata dimostrata dalla pubblicazione periodica da parte di Hamas di video di ostaggi che implorano il loro rilascio. Nell’ultima settimana, Hamas ha pubblicato tali video con ostaggi i cui corpi sono stati recentemente recuperati a Gaza, pochi giorni dopo la loro esecuzione da parte del gruppo terroristico.
Nel documento, Hamas pianifica anche punti di discussione, incolpando “la testardaggine di Israele” di ritardare un accordo. Secondo quanto riferito, il documento elenca anche i principali obiettivi di Hamas in un accordo. Uno è garantire il rilascio di 100 prigionieri palestinesi detenuti da Israele e condannati all’ergastolo, di solito per omicidio.
Un altro presunto obiettivo di Hamas è che le forze dei Paesi arabi stazionino lungo il confine tra Israele e Gaza come parte di un cessate il fuoco più permanente, per fare da cuscinetto tra Israele e Hamas, consentendo così a Hamas di recuperare e riorganizzarsi sotto la protezione di queste forze.
In particolare, Israele avrebbe anche suggerito che una coalizione di forze arabe amministri l’enclave in futuro. A differenza della proposta di Hamas, il piano israeliano prevede che le forze arabe assicurino che Hamas non riabiliti le sue capacità militari.
Va inoltre notato che il documento non menziona il Corridoio di Filadelfia, nonostante la striscia di terra al confine tra Gaza e l’Egitto sia diventata di recente un punto critico nei negoziati. Questo potrebbe essere attribuito al momento in cui il documento è stato scritto, dato che Israele ha preso il controllo del Corridoio di Filadelfia solo a maggio.
Si ritiene che 97 ostaggi rimangano a Gaza, compresi i corpi di almeno 33 morti confermati dall’IDF. Hamas ha rilasciato 105 civili durante una tregua di una settimana alla fine di novembre, e quattro ostaggi sono stati rilasciati prima.

(Rights Reporter, 7 settembre 2024)

........................................................


Sinwar pronto a fuggire con gli ostaggi: il ruolo chiave del corridoio di Filadelfia

di Luca Spizzichino

Secondo fonti dell’intelligence israeliana riportate dal Jewish Chronicle, il leader di Hamas Yahya Sinwar starebbe pianificando di utilizzare il corridoio di Filadelfia per fuggire con i leader rimanenti dell’organizzazione e con gli ostaggi israeliani verso il Sinai, per poi essere trasferiti in Iran. Queste informazioni sono state ottenute dall’interrogatorio di un alto funzionario di Hamas catturato e dall’analisi di documenti sequestrati dopo il recupero dei corpi di sei ostaggi il 29 agosto.
  Sinwar sembra ormai consapevole che la guerra è persa per Hamas e che la sua unica via di salvezza è la fuga. Il capo dell’organizzazione terroristica palestinese vede un’unica soluzione per sopravvivere: abbandonare Gaza e cercare rifugio fuori dai confini. In quest’ottica, il controllo del corridoio di Filadelfia diventa cruciale per attuare il suo piano.
  Tuttavia, Israele si è fermamente opposta a cedere il corridoio, ritenendo che farlo rappresenterebbe un grave rischio per la sicurezza nazionale. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, durante una conferenza stampa, ha spiegato che il corridoio di Filadelfia è la “linfa vitale” che ha permesso ad Hamas di rafforzarsi negli anni grazie al contrabbando di armi e rifornimenti. Cedere questo passaggio, secondo Netanyahu, significherebbe permettere a Hamas di continuare le proprie operazioni militari, e una volta perso il controllo, Israele non sarebbe in grado di riappropriarsene a causa delle inevitabili pressioni internazionali.
  Nonostante il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant abbia proposto di concedere temporaneamente il controllo del corridoio per facilitare il rilascio di 33 ostaggi, Netanyahu rimane categoricamente contrario. Secondo il Primo Ministro, una concessione temporanea rischierebbe di trasformarsi in una perdita definitiva, compromettendo la sicurezza di Israele e rafforzando ulteriormente Hamas.

(Shalom, 6 settembre 2024)

........................................................


Giovani Palestinesi d’Italia esaltano il 7 ottobre

Appello al Ministro dell’interno Matteo Piantedosi

FOTO
il messaggio pubblicato dalla Associazione dei Giovani Palestinesi d’Italia che si configura come reato di apologia di delitti di terrorismo, punito dall’art. 414 del Codice Penale

L’Associazione Italia-Israele di Milano denuncia con ferma condanna l’iniziativa di “giovani palestinesi” che il 5 ottobre prossimo a Roma intendono promuovere una manifestazione, che in modo blasfemo esalta come “rivoluzione” l’esecrando genocidio perpetrato da Hamas in Israele al confine con Gaza nel Pogrom del 7 ottobre 2023.
Proporre e diffondere l’odio, il genocidio, la violenza e il terrorismo, come strumenti per annientare l’avversario, è contrario alla nostra Carta costituzionale che esalta i valori della pace, della convivenza e del dialogo civile.
Inoltre, definire – come i promotori – lo Stato d’Israele (membro dell’ONU) “invasore e Stato coloniale” senza neppure nominarlo, è contrario ai diritti dell’autodeterminazione dei popoli, internazionalmente riconosciuti dalle Nazioni Unite.
Desiderosi di un costruttivo confronto nella verità e nella giustizia, anche per la dignità e la difesa dei legittimi diritti palestinesi, facciamo appello, pertanto, al Signor Ministro degli Interni, perché manifestazioni simili alla suddetta del 5 ottobre vengano severamente vietate.
Associazione Italia-Israele di Milano
Email: itaisraele.milano@gmail.com

Milano, 4 settembre 2024

(Bet Magazine Mosaico, 6 settembre 2024)

........................................................


Autobus e linee di trasporto riservate agli ebrei

Il doppio scandalo dell’iniziativa del sindaco di Londra Khan

di Iuri Maria Prado

Nei giorni scorsi il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha comunicato con entusiasmo la sperimentazione di una nuova linea di autobus che collegherà direttamente, per la prima volta, due zone della città densamente abitate da ebrei. Un provvedimento per rendere più spedito lo spostamento da un punto all’altro? Macché. Serve invece a limitare il pericolo che, lungo le tappe del tragitto, i passeggeri ebrei siano esposti ad aggressioni, aumentate a livelli mai registrati prima.
   Le comunità ebraiche interessate hanno accolto con favore l’iniziativa, e si può capire. Dovrebbe tuttavia far riflettere e suscitare qualche trasalimento il fatto che nel 2024, in una città europea, ci si costringa a organizzare linee di trasporto riservate agli ebrei perché altrimenti c’è caso che li accoppino. Quelli, d’accordo, preferiscono così, e appunto c’è da capirli: perché se devi scegliere tra il ghetto ambulante e le botte o le coltellate, beh, per evitare queste scegli quello e tanti saluti. Ma la società costretta a presidiare sé stessa perché, se lasciata libera si sfogherebbe violentemente su una minoranza, è in buona salute? E gli amministratori costretti a separare quella minoranza dal resto della società che minaccia di aggredirla, preservandone l’incolumità al prezzo di incapsularla in una riserva semovente, possono ritenersi soddisfatti?
   Non si dice che quel sindaco avrebbe dovuto rinunciare a fare qualsiasi pubblicità dell’iniziativa, questo magari no. Ma farne sfoggio tutto contento, come lui ha creduto di fare, significa non accorgersi del doppio scandalo che una simile vicenda drammaticamente denuncia: lo scandalo di una situazione in cui gli ebrei devono temere per la propria incolumità, e lo scandalo di una società che per proteggerli deve ricorrere a un regime speciale loro dedicato. Se il discorso pubblico europeo non fosse ormai destituito di qualsiasi tempra civile, se non fosse ormai completamente ottuso nella propria capacità di intelligenza delle cose, qualcuno con influenza e voce in capitolo avrebbe identificato e denunciato in quella “piccola” vicenda londinese l’enorme spettro di una trafila speculare. Non è successo.
   Ma non accorgersi di quanto sia grave dover ricorrere a uno statuto speciale per “proteggere” gli ebrei, sia pur solo relativo a un po’ di fermate di bus, significa non accorgersi che i lombi della società sono maturi per dare fuori materia di segno esattamente opposto. Il ghetto faceva due cose. Disegnava il perimetro di qualche guarentigia. Circoscriveva l’ambito del pogrom.

(Il Riformista, 6 settembre 2024)

........................................................


Il primo computer in Israele

La costruzione del primo computer nello Stato ebraico è iniziata circa 70 anni fa. Il WEIZAC rimase in funzione fino al 1963. Einstein era ancora scettico.

di Jörn Schumacher

FOTO
Il WEIZAC in funzione

Nel 1955, il WEIZAC (Weizmann Automatic Calculator) fu il primo computer ad entrare in funzione in Israele. Era anche uno dei primi grandi calcolatori al mondo e il prodotto di alcuni rinomati scienziati ebrei emigrati.
  Anche Albert Einstein faceva parte del comitato che doveva decidere sulla realizzazione del progetto. Era scettico, e si chiedeva se avesse senso costruire computer costosi. Il gruppo comprendeva anche John von Neumann, sulla cui idea si basò il primo computer di Israele e, in ultima analisi, del mondo intero. Nato nel 1903, il figlio di un banchiere ebreo di Budapest emigrò negli Stati Uniti nel 1933 ed è tuttora considerato uno dei più grandi matematici del XX secolo.
  L'iniziatore del progetto fu il fisico e matematico Chaim L. Pekeris, trasferitosi in Israele dagli Stati Uniti nel 1948. Einstein gli chiese perché il piccolo e povero Paese di Israele avesse bisogno di un computer. Von Neumann rispose: “Non si preoccupi di questo problema. Se nessun altro usa il computer, Pekeris lo userà sempre!”.
  Il “Weizmann Automatic Calculator”, in breve WEIZAC, fu costruito presso il Weizmann Institute tra il 1954 e il 1955. Eseguì i primi calcoli nell'ottobre 1955. Il WEIZAC gettò le basi dell'industria informatica e tecnologica israeliana. Per sei anni è stato l'unico computer in funzione in Israele.
  Per l'input e l'output si usava il nastro perforato e successivamente il nastro magnetico. Il WEIZAC era costantemente occupato. Gli utenti (soprattutto di altre istituzioni) erano desiderosi di tempo di calcolo e chiedevano che venissero messi a disposizione altri computer.

• Calcolo di maree e atomi
   Il WEIZAC fu utilizzato per la ricerca matematica, ad esempio per risolvere problemi legati al calcolo delle maree oceaniche. Ciò richiedeva calcoli complessi che non potevano essere eseguiti manualmente in modo significativo.
  I calcoli con WEIZAC richiedevano centinaia di ore. Hanno permesso agli scienziati di creare mappe che riflettevano in modo molto accurato le fluttuazioni delle alte e basse maree in tutto il mondo. Di conseguenza, i ricercatori del Weizmann hanno previsto la posizione esatta di un punto dell'Atlantico meridionale in cui non si verificano mai alte e basse maree. Le misurazioni effettuate nel corso della scoperta hanno confermato l'esistenza e la posizione di questo punto.
  In un'altra ricerca, gli scienziati hanno utilizzato WEIZAC per calcolare lo spettro di un atomo di elio - che consiste di tre particelle: il nucleo atomico e i due elettroni che si muovono intorno ad esso. Ancora oggi, risolvere le relazioni dinamiche tra tre corpi è considerato un compito matematico molto complesso. Tuttavia, il problema dell'atomo di elio è stato completamente risolto e ha fornito risultati confermati sperimentalmente dal Brookhaven National Laboratory negli Stati Uniti.
  In altri progetti, WEIZAC è stato utilizzato per calcoli volti a studiare diversi modelli teorici della struttura interna della Terra, tenendo conto dei suoi diversi strati. Questi studi si basavano sui calcoli della propagazione delle onde d'urto attraverso i diversi strati; dopo il verificarsi di diversi terremoti in tutto il mondo, sono stati effettuati confronti con le misurazioni reali.

• Il progetto consumava un quinto del budget dell'Istituto Weizmann
   Chaim Weizmann nacque nel 1874 nell'attuale Bielorussia e inizialmente era un chimico. Weizmann, che in precedenza aveva insegnato a Manchester, divenne direttore dell'Istituto di ricerca Daniel Sieff, fondato a Rechovot nel 1934. Fu anche attivo politicamente e si impegnò per la creazione di uno Stato ebraico; nel 1949, Weizmann divenne il primo presidente israeliano. Tuttavia, continuò a vivere a Rechovot e a occuparsi dell'istituto di ricerca, che prese il suo nome.
  Per la costruzione del primo computer in Israele, Weizmann mise a disposizione 50.000 dollari USA, che rappresentavano un quinto del budget totale dell'Istituto Weizmann. Oggi l'importo corrisponderebbe a un valore di circa 680.000 dollari USA.
  L'ingegnere americano Gerald Estrin fu responsabile della costruzione del WEIZAC. Tra gli altri, reclutò Aviezri Fraenkel, un matematico ebreo di Monaco emigrato in Israele nel 1939, per unirsi al suo team. Weizmann stesso non visse abbastanza per vedere il completamento del computer; morì il 9 novembre 1952.
  Il WEIZAC rimase in funzione fino al 29 dicembre 1963. Ancora oggi si trova presso l'Istituto Weizmann e può essere visitato. Il suo successore fu inizialmente chiamato “WEIZAC 2”, ma su consiglio dello studioso di cabala Gershom Scholem gli fu dato il nome di “Golem”. Si trattava di un'allusione al Golem di Praga, che secondo una leggenda medievale era una creatura di argilla che prendeva vita.
  Il primo computer al mondo è considerato lo “Z3”, costruito nel 1941 dal tedesco Konrad Zuse. Egli costruì il primo computer controllato da un programma durante il tumulto della Seconda Guerra Mondiale, completamente da solo. La sua presentazione nel suo laboratorio di Berlino attirò poca attenzione all'epoca.

(Israelnetz, 6 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

........................................................


Parashà di Shofetim: Cosa succede dove non ci sono giudici

di Donato Grosser

La parashà inizia con queste parole: “Porrai su di te dei giudici (shofetìm) e dei ufficiali (shotrìm) in tutte le città che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà, tribù per tribù; ed essi giudicheranno il popolo con giusti giudizi (Devarìm, 16:18).
Rashì (Troyes, 1040- 1104) commenta questo versetto nel modo seguente: “I shofetìm sono i giudici che decidono la legge; i shotrìm sono gli ufficiali che governano il popolo seguendo gli ordini dei giudici…” e quindi usano anche metodi coercitivi affinché le decisioni dei giudici vengano obbedite.
R. Yaakov Yosef Hakohen di Polnoye (Ucraina, 1710-1783), che fu il principale discepolo del Ba’al Shem Tov, compose un’opera dal titolo Toledot Ya’akov Yosef che fu pubblicata nel 1780 a Koretz in Ucraina. È un libro molto prezioso perché fu il primo libro di Chassidismo ad andare in stampa. In quest’opera che comprende commenti alla Torà, r. Ya’akov Yosef citò centinaia di volte gli insegnamenti del Ba’al Shem Tov.
In questa parashà, r. Ya’akov Yosef si sofferma sulla parola “Porrai su di te”. Egli afferma che questo significa che devi giudicare te stesso nello stesso modo in cui tu giudichi il tuo prossimo.
Inoltre r. Ya’akov Yosef aggiunge che da questo versetto si può imparare come resistere alle tentazioni dello yetzer hara’, dell’istinto naturale. L’uomo è come una piccola città e lo yetzer hara’ è paragonato a un Re che la mette d’assedio. L’uomo deve quindi proteggere le sette “porte” della sua città che sono i due occhi, le due orecchie, le due narici e la bocca. La bocca è la “porta” più importante e richiede maggiore protezione. Infatti nei Pirkè Avòt (Massime dei Padri, 1: 16) r. Shim’on ben Gamliel disse: “Ho trascorso la mia vita tra i maestri e non ho riscontrato nulla di meglio per l’uomo che il silenzio, e non è la sola teoria quel che conta, ma la teoria vissuta e praticata, e chiunque si prolunga in discorsi inutili porta il peccato”. Così pure nel vedere e nel sentire, afferma r. Ya’akov Yosef, bisogna saper avere giudizio su cosa guardare e su cosa sentire.
R. Avraham Kroll (Lodz, 1912-1983, Gerusalemme) in Bepikudekha Asicha (p.372) cita i Proverbi di Salomone (6:6-8) dove è scritto: “Và, pigro, alla formica; considera come si comporta, e diventa savio! Essa non ha né capo, né ufficiale, né governante; prepara il suo cibo nell’estate, e raduna il suo mangiare durante la raccolta”.
Nel Midràsh (Devarìm Rabbà, 5:2) i maestri si soffermano sull’espressione “considera come si comporta e diventa savio”. Viene citato r. Shim’on figlio di Chalaftà il quale racconta che una volta una formica aveva fatto cadere un chicco di grano. Le altre formiche si avvicinavano per annusarlo e nessuna glielo portava via. Per questo nel Talmud (‘Eruvìn, 100b) è detto che se non ci fosse stata data la Torà avremmo potuto imparare le leggi del furto dalla formica.
Nel versetto succitato dei Proverbi è anche scritto che la formica “non ha né capo, né ufficiale, né governante”. Rashì spiega: “Che non la ammonisca e le faccia restituire quello che ha rubato dalla sua compagna”. Questa affermazione è problematica perché appare contraddire quello che disse r. Shim’on ben Chalaftà che le formiche non portarono via il chicco di grano caduto da una loro compagna. Ma nello stesso midràsh viene citato Shim’on figlio di Yochay che dice che nel nascondiglio di una formica trovarono una quantità enorme di grano. E se le formiche stanno attente a non rubare da dove veniva questa enorme quantità di grano?
Rav Kroll conclude che è per questo che re Salomone sottolinea che se non c’è un capo, un ufficiale e un governante, si può stare attenti a non toccare un chicco di grano che non ti appartiene e d’altra parte rubare in grande scala.

(Shalom, 6 settembre 2024)
____________________

Parashà della settimana: Shoftim (Giudici)

........................................................


Un rapporto svela la strategia di Hamas per nascondere le perdite di combattenti a Gaza

In un rapporto citato dal quotidiano Haaretz e riportato dal Times of Israel, una fonte ha spiegato che per Hamas la guerra con Israele non si limita al campo di battaglia, ma include anche la battaglia per preservare la propria immagine globale. Nascondendo le informazioni sui combattenti uccisi e concentrandosi solo sulle perdite civili, Hamas spera di ottenere maggiore sostegno internazionale nella sua lotta contro Israele.
Tuttavia, a Gaza, la segretezza con cui Hamas gestisce le proprie operazioni contrasta nettamente con la trasparenza che lo stesso gruppo mostra in Cisgiordania. In quest’ultima area, non esita infatti a rivelare i nomi dei combattenti uccisi dall’esercito israeliano e li svela pure con orgoglio. Hezbollah, in Libano, segue una prassi simile: mantiene un elenco aggiornato delle sue vittime negli scontri con Israele.
Questo approccio solleva interrogativi: perché questa segretezza a Gaza per nascondere le perdite dei suoi soldati? Si tratta di una strategia per preservare la loro forza morale o c’è qualcosa di più? Un altro aspetto è legato al timore delle ritorsioni. A Gaza, chi perde un familiare affiliato a Hamas può avere paura a parlarne apertamente, temendo ripercussioni.
Citando residenti anonimi della Striscia di Gaza, il rapporto – che giunge nel bel mezzo della guerra – afferma che la norma non ufficiale viene applicata a tal punto che perfino i familiari degli agenti di Hamas uccisi si astengono dal lutto pubblico. «C’è paura di parlare pubblicamente degli agenti di Hamas, compresi quelli che sono stati uccisi», ha detto un residente di Gaza ad Haaretz, spiegando che c’era paura di essere etichettati come «traditori» o «collaboratori» e di essere molestati dal gruppo terroristico.
Secondo le voci che circolano per le strade, se i nomi degli uomini armati uccisi venissero resi pubblici, le persone in tutto il mondo potrebbero sentirsi meno colpite dalle sofferenze dei gazawi, e questo potrebbe giustificare il bombardamento di Gaza, ha detto un altro residente, conosciuto con lo pseudonimo di Adnan. «Finché si mostrano filmati e storie della popolazione civile, nessuno protesta. Ma se qualcuno osa criticare Hamas o nominare un combattente ucciso, verrà considerato un traditore e trattato come tale».
Bushra (nome di fantasia), una donna che vive in questa realtà difficile, racconta qualcosa di sorprendente: spesso i familiari non sanno nemmeno cosa fanno i loro cari quando entrano in Hamas. Quando poi muoiono in combattimento, la notizia arriva in modo frammentato, come un eco lontano. A volte ci vogliono giorni, settimane addirittura, prima che i genitori ne siano informati. La notizia della loro morte viene trasmessa solo per passaparola diffondendosi da una persona all’altra fino a raggiungere i loro cari.
Nonostante tutto questo silenzio soffocante, la gente di Gaza ha imparato a trovare informazioni in modi diversi. Non si può sempre contare sulle vie ufficiali, perciò molti si affidano ai social. Questi strumenti digitali sono diventati essenziali per cercare di capire chi è stato ucciso. È una rete sotterranea di notizie che non sarà perfetta, ma, senza altro, è quello che c’è.
Nel frattempo, il Ministero della Salute di Gaza, che è sotto il controllo di Hamas, ha diffuso cifre impressionanti: oltre 40.000 persone sarebbero state uccise o risultano disperse dall’inizio del conflitto. Ma quei numeri, dicono gli esperti, non possono essere verificati in modo indipendente, e c’è anche da dire che non fanno distinzione tra chi fosse un civile e chi un combattente.
Israele, dal canto suo, ha dichiarato di aver eliminato circa 17.000 combattenti di Hamas e 1.000 terroristi nel famoso attacco del 7 ottobre. Le autorità israeliane continuano a sottolineare che fanno il possibile per limitare i danni ai civili, puntando il dito contro Hamas, accusandoli di usare la popolazione come scudi umani, nascondendosi tra case, scuole, ospedali e, addirittura, moschee.
Un dato interessante viene da una recente analisi dell’Associated Press: da giugno, la percentuale di donne e bambini uccisi è scesa sensibilmente. Come mai? Pare sia dovuto a un cambiamento nelle tattiche di Israele, cosa che va a contraddire quanto detto da Hamas. A ottobre, oltre il 60% delle vittime erano donne e bambini. Ma già ad aprile, quel numero era sceso sotto il 40%. Eppure, questa riduzione non ha attirato grande attenzione, né dalle Nazioni Unite né dai media. Hamas, da parte sua, non sembra aver mostrato interesse a correggere questi dati in pubblico.
Ci si rende conto, insomma, che questa guerra non è fatta solo di proiettili e bombe, ma anche di informazioni. Ogni parte cerca di modellare la propria narrativa per guadagnare terreno, mentre la popolazione civile resta, come sempre, intrappolata in mezzo. E, alla fine, che cosa sono? Numeri. Freddi numeri.
Questa mancanza di trasparenza da parte di Hamas non sembra solo una strategia di guerra. È anche un modo per mantenere un certo controllo sulla narrativa interna. Tuttavia, in tutto questo gioco di potere, fatto di silenzi e mezze verità, trovare la realtà diventa sempre più complicato. Alla fine, come sempre, sono i civili a pagarne il prezzo più alto. Bloccati in una guerra di cui spesso non comprendono né le cause né l’orizzonte.

(Bet Magazine Mosaico, 5 settembre 2024)

........................................................


Ostaggi – Il Global Imams Council condanna la violenza di Hamas

«Prendere di mira e brutalizzare i civili, soprattutto quelli indifesi e trattenuti contro la loro volontà, è un atto di malvagità assoluta e una grave violazione delle leggi stabilite da tutte le principali tradizioni religiose, Islam incluso».
  È una ferma condanna quella espressa dal Global Imams Council dopo l’assassinio a sangue freddo dei sei ostaggi israeliani da parte di Hamas. Fondata dopo l’invasione irachena e siriana dell’Isis e non nuova a prese di posizione contro l’odio, l’ong islamica raggruppa oltre 1400 leader religiosi musulmani in tutto il mondo, sciiti e sunniti, con l’obiettivo di contrastare e disinnescare il radicalismo interno a quel mondo. Una piccola ma significativa goccia nel mare di tanta violenta intolleranza, anche perché il documento è stato emesso nel corso di un seminario in Iraq, paese che ha più volte guardato verso Israele (anche in questi mesi) con propositi distruttivi.
  «Riteniamo Hamas direttamente responsabile della morte e della sofferenza di tutte le vite innocenti perse dal 7 ottobre, poiché le sue azioni non solo hanno portato morte e distruzione nella regione, ma hanno anche causato immense sofferenze al popolo palestinese», precisano gli imam aderenti alla ong, definendo le tattiche di Hamas «sconsiderate e disumane» per l’utilizzo di scudi umani, per aver intensificato il ciclo delle violenze e più in generale per aver indebolito la causa della giustizia e della pace. Il Consiglio Globale degli Imam si scaglia anche contro il regime iraniano, che a suo dire «condivide la stessa responsabilità per queste tragedie, per via del continuo sostegno e appoggio alle azioni di Hamas». Chissà cosa penserà di questa nota Ahmad al-Tayyib, Grande Imam dal 2010 di Al-Azhar, la massima espressione dell’Islam sunnita, che aveva definito il 7 ottobre un’azione di «resistenza dell’orgoglioso popolo palestinese».

(moked, 5 settembre 2024)

........................................................


"Quando a Forlì si attuò la soluzione finale da parte delle SS eliminando ebrei e antifascisti"

Ricorre l'ottantesimo anniversario del primo eccidio di settembre in via Seganti

FOTO
Il monumento che ricorda le vittime dell'eccidio

Sono trascorsi ottant'anni da primo eccidio di settembre in via Seganti. Ricostruisce lo storico Gabriele Zelli: "Nel tardo pomeriggio del 5 settembre 1944, il gruppo di nazisti delle SS che si era insediato a Forlì provenienti da Roma, avendo lasciato la capitale in seguito all'arrivo dell'esercito alleato, e fascisti italiani della Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr) prelevarono dal carcere di via della Rocca ventuno persone. L’Aussenkommando della Sicherheitsdienst (Sd) di Forlì deteneva i prigionieri sia negli scantinati trasformati in prigione della propria sede in viale Salinatore 24, con una capacità di circa cinquanta posti (per i quali non sono sopravvissuti registri o documenti), sia nel carcere civile di via della Rocca, dove aveva un ufficio con due uomini addetti agli interrogatori dei prigionieri politici (per il quale esistono i registri di ingresso e uscita)".
"Nove dei ventuno prelevati erano parenti di Tonino Spazzoli e furono tutti deportati nei campi di concentramento - prosegue Zelli nel racconto -. Gli altri dodici prigionieri, dieci ebrei e due antifascisti, vennero portati alla caserma “Caterina Sforza” in via Romanello, un luogo di "visita medica" per coloro che dovevano essere deportati in Germania. Da viale Salinatore, altri otto prigionieri - quattro donne e quattro uomini - furono trasferiti sempre in via Romanello. Questi movimenti facevano parte di una decisione presa dai comandanti tedeschi Karl Schütz e Hans Gassner nel tentativo di mantenere segrete le eliminazioni e giustificare le sparizioni con la deportazione in Germania. In tarda serata, le venti persone furono caricate su diversi automezzi e portate verso l’aeroporto. All’altezza delle “casermette” del Ronco, occupate dalle truppe tedesche che le avevano ribattezzate Caserma “Adolf Hitler”, alcuni automezzi svoltarono, mentre gli altri proseguirono verso l’aeroporto, dove li attendevano gli esecutori. Le uccisioni non ebbero testimoni diretti".

FOTO
Il primo monumento in granaglia a ricordo delle vittime della strage dell'aeroporto e collocato nel 1946 in via Seganti

"Alle cinque del mattino successivo, 6 settembre, gli altri prigionieri furono prelevati dalle casermette, condotti all’aeroporto e eliminati - prosegue il drammatico racconto -. Le venti vittime furono uccise in tre gruppi: uno composto da dieci persone e due da cinque. Non sappiamo quanti furono uccisi la sera e quanti al mattino. Tra le vittime si trovavano, tra gli altri, Edoardo Cecere, colonnello dell’XI Brigata Casale, uno dei primi a salire in montagna per combattere i tedeschi; Pellegrina Rosselli del Turco, moglie del marchese Gian Raniero Paulucci De Calboli; Pietro Alfezzi, partigiano appartenente ai GAP; Chino Bellaganba, dipendente del Comune di Cesena e dirigente dell’Ufficio Leva, accusato di aver alterato documenti per sottrarre giovani alla deportazione in Germania e forse anche per favorire ebrei. Solo nel 2005 la famiglia di Bellaganba scoprì che era stato fucilato a Forlì, analogamente a quanto accadde per Lissi Lewin, che nel 2000 scoprì che il fratello Lewin fu eliminato nello stesso contesto e luogo".

(ForlìToday, 5 settembre 2024)

........................................................


L’Idf rivela: gli ostaggi uccisi sono stati trovati in un tunnel sotto un’area per bambini

di Michelle Zarfati

L’IDF ha recentemente rivelato di aver ritrovato l’entrata del tunnel, in cui gli ostaggi Hersh Goldberg-Polin, Eden Yerushalmi, Carmel Gat, Almog Sarusi, Alexander Lobanov e Ori Danino sono stati uccisi, sotto un’area civile, in un cortile per bambini.
  In un video pubblicato dall’esercito, un soldato ha spiegato che l’IDF ha ricevuto informazioni chiare sulla posizione dell’entrata del tunnel, un elemento importante per determinare la posizione esatta in cui operare. “Come potete vedere, il tunnel era nascosto nel cortile di un luogo utilizzato dai bambini, un luogo dove i ragazzi dovrebbero essere al sicuro e non essere usati come scudi umani per Hamas”, ha spiegato il soldato nel video. La 162ª Divisione dell’IDF e lo Shin Bet hanno localizzato il tunnel in un cortile utilizzato per far giocare i bambini, in un’area ad uso civile piena però di trappole.
  “Questo è un altro esempio dell’uso cinico da parte di Hamas dello spazio civile per attività terroristiche” ha aggiunto l’IDF che ha recuperato i corpi degli ostaggi da un tunnel sotto la città di Rafah, a Gaza. I corpi sono stati trovati a solo un chilometro da dove Kaid Farhan al-Alkadi, 52 anni, di Rahat, è stato trovato vivo la scorsa settimana. Da quando Alkadi è stato salvato, l’IDF ha dato istruzioni di prestare la massima attenzione nella zona. Tuttavia, è possibile che Hamas abbia ucciso le sei vittime, sapendo che l’esercito era vicino e che gli ostaggi potevano essere salvati vivi dall’esercito israeliano.

(Shalom, 5 settembre 2024)

........................................................


Scoperto a Gerusalemme un Sigillo di Pietra di 2.700 anni fa

L’oggetto, inciso con scritta specchio, serviva al suo proprietario sia come amuleto che per firmare legalmente documenti e certificati

FOTO
Un sigillo in pietra estremamente raro e insolito del periodo del Primo Tempio, di circa 2.700 anni, recante un nome inciso in scrittura paleo-ebraica e una figura alata, è stato scoperto nei pressi della parete meridionale del Temple Mount, nel Giardino Archeologico di Davidson, durante gli scavi condotti dalle Antichità Israel Autorità e organizzazione Città di David.
Secondo il Dr. Yuval Baruch e Navot Rom, direttori degli scavi per conto dell’Autorità Israel Antichities:

    Il sigillo, realizzato in pietra nera, è uno dei più belli mai scoperti negli scavi nell’antica Gerusalemme, ed è eseguito al più alto livello artistico.

L’oggetto, inciso con scritta specchio, serviva al suo proprietario sia come amuleto che per firmare legalmente documenti e certificati. Ha un taglio convesso su entrambi i lati, e un foro perforato attraverso la sua lunghezza, in modo che possa essere attaccato ad una catena ed essere indossato al collo.
Al centro una figura è raffigurata di profilo, possibilmente un re, con le ali; indossa una lunga camicia a righe e va verso destra. La figura ha una criniera di lunghi riccioli che copre la nuca del collo, e sulla testa c’è un cappello o una corona.
La figura alza un braccio in avanti, con un palmo aperto; forse per suggerire qualche oggetto che tiene.
Su entrambi i lati della figura è incisa un’iscrizione in paleo-ebraico:

    LeYeho ‘ezer ben Hosh ‘ayahu.

Secondo l’archeologo e assiriologo Dr. Filip Vukosavovi, della Israel Antiquity Authority, che ha studiato il sigillo:

    Si tratta di una scoperta estremamente rara e insolita. È la prima volta che un ‘genio’ alato – una figura magica protettiva – viene trovato nell’archeologia israeliana e regionale.
    Le figure dei demoni alati sono note nell’arte neo-assira del IX – VII secolo a.C., ed erano considerate una sorta di demoni protettivi.

I ricercatori ritengono che l’oggetto, sul quale originariamente apparve l’immagine del demone, fosse indossato come amuleto al collo di un uomo di nome Hosh ʼayahu, che ricopriva una posizione di alto livello nell’amministrazione del Regno di Giuda.
In virtù della sua autorità e del suo status, questo Hosh ʼayahu si è permesso di nobilitare se stesso e ostentare un sigillo con incisa su una figura che ispira lo stupefacente, che incarna un simbolo di autorità.
Il Dr. Vukosavovi afferma:

    Sembra che l’oggetto sia stato realizzato da un artigiano locale che ha prodotto l’amuleto su richiesta del proprietario. È stato preparato ad altissimo livello artistico.

L’ipotesi è che, dopo la morte di Hosh ‘ayahu, suo figlio Yeho ‘ezer abbia ereditato il sigillo, aggiungendo il suo nome e il nome di suo padre su entrambi i lati. Questo lo fece, forse, per appropriarsi direttamente a sé stesso delle qualità benefiche che credeva che il talismano incarnasse come oggetto magico.
Il nome Yeho ‘ezer ci è familiare dalla Bibbia (Chron. I 12:7) nella sua forma abbreviata – Yo ‘ezer, uno dei combattenti di re Davide.
Inoltre, nel libro di Geremia (43:2), che descrive gli eventi di questo stesso periodo, viene menzionata una persona con un nome parallelo, ‘Azariah ben Hosh ‘aya. Le due parti del suo nome sono scritte in ordine inverso al nome del proprietario del sigillo, e il suo secondo nome è lo stesso, compare nella sua forma abbreviata. Questa scritta nel testo corrisponde al nome del sigillo appena scoperto ed è quindi appropriata per questo periodo.
Secondo il Prof. Ronny Reich dell’Università di Haifa:

    Confrontando la forma delle lettere e la scrittura con quelle di altri sigilli e bulle di Gerusalemme si evidenza che, a differenza dell’attenta incisione del demone, l’iscrizione dei nomi sul sigillo è stata fatto in maniera approssimativa.
    Non è impossibile che forse è stato Yeho ‘ezer stesso a incidere i nomi sull’oggetto.

Il Dr. Yuval Baruch, Direttore degli scavi e Vicedirettore presso l’Israel Antiquites Authority, afferma:
    Questa è un’ulteriore prova delle capacità di lettura e scrittura che esistevano in questo periodo. Contrariamente a quanto si può pensare comunemente, sembra che l’alfabetizzazione in questo periodo non fosse solo riservata all’élite della società.
    La gente sapeva leggere e scrivere – almeno a livello base – per le esigenze del commercio. Conosciamo molti sigilli in scrittura paleo-ebraica, provenienti dai dintorni della Città di Davide e del periodo del Regno di Giuda.
    La figura di un uomo alato in uno stile neo-assiro è unica e molto rara negli stili glifici del tardo primo Tempio. L’influenza dell’Impero Assiro, che aveva conquistato l’intera regione, è chiaramente evidente qui.
    Giuda in generale, e Gerusalemme in particolare all’epoca, era soggetta all’egemonia dell’Impero assiro e ne fu influenzato – realtà questa che si riflette anche negli aspetti culturali e artistici.
    Il fatto che il proprietario del sigillo abbia scelto un demone come insegne del suo sigillo personale può attestare la sua sensazione di appartenere al contesto culturale più ampio, proprio come le persone oggi in Israele, che si vedono parte della cultura occidentale.
    Tuttavia, all’interno di quel sentimento, questo Yeho ʼezer ha tenuto saldamente la sua identità locale, e quindi il suo nome è scritto in ebraico e il suo nome è un nome ebraico che appartiene alla cultura di Giuda.
    Negli ultimi anni, le testimonianze archeologiche sono in aumento, specialmente negli scavi della Città di David e alla base del Monte del Tempio, testimoniano l’entità dell’influenza della cultura assira soprattutto a Gerusalemme.

Il Ministro israeliano del patrimonio artistico rabbi Amichai Eliyahu ha accolto con favore la scoperta:

    La spettacolare e unica scoperta negli scavi dell’Autorità per le Antichità Israeliane e della città di David ci apre un’altra finestra sui giorni del Regno di Giuda durante il periodo del Primo Tempio, e attesta i legami internazionali di quell’amministrazione.
    Così facendo, dimostra l’importanza e la centralità di Gerusalemme già 2.700 anni fa. È impossibile non lasciarsi commuovere da un incontro così poco mediato e diretto con un capitolo del nostro passato.

(ExPartibus, 5 settembre 2024)

........................................................


Conversione secolarizzata

di Antonio Cardellicchio

Un antisemitismo che è aumentato del 400 per cento, con ossessiva violenza. Un aumento vertiginoso, dopo la Shoah e il 7 ottobre, indicatore di un mondo molto storto e cieco. La vittoria politica e mediatica di Hamas e Hezbollah, dei loro padroni e soci, con questa stortura e cecità del mondo, che segue e adotta la voce dei genocidi sadici, stupratori, tagliagole, nuovo Isis, e anche peggio.
  La polarizzazione-lacerazione del popolo di Israele, vista da lontano è, in un certo senso, un effetto dell’assedio antisemita e della pressione pesante e costante della cosiddetta comunità internazionale ribaltata contro l’indipendenza ebraica e consociata con il terrore israelofobico. E anche delle difficoltà a fronteggiarlo. Vista da vicino, costituisce l’esplosione di una situazione incandescente, insostenibile di un Paese assediato da sette lati, da una morsa sterminazionista, davanti a scelte di per sé difficili, dilemmatiche, irte di inevitabili contraddizioni.
  Da un lato Israele, in guerra di difesa da mostri implacabili, isolato dall’ondata antisemita senza vergogna e limiti, ricattato dalla lacerante necessità della liberazione degli ostaggi – assassinati e seviziati con orribile, inenarrabile ferocia – si mostra un’ultra democrazia dove ognuno esprime la sua, perfino i vertici militari dissentono, sono rese pubbliche le riunioni del gabinetto di guerra, libere manifestazioni di piazza, sciopero politico illegale, accanito e puntiglioso dibattito permanente.    
  Perfino alcuni dei dichiarati nemici di Israele si confessano colpiti da tanta visibilità iper-democratica. Una realtà in netto spartiacque con l’oscurità totalitaria dei nemici genocidi e dei regimi loro alleati e sponsor. Ma è una vitalità che rischia fortemente di convertirsi in mortalità. 
  La luminosa definizione del grande rabbino pensatore Lord Jonathan Sacks sull’ebraismo, grande “modello autocritico”, rischia di trasformarsi in un modello autodistruttivo.  
  Una opposizione isterica accusa il governo di essere “per la morte”, la maggioranza accusa l’opposizione di essere allineata e complice di Hamas sulla controversia per la liberazione degli ostaggi. Le minoranze di sinistra non accettano le scelte della maggioranza legittima degli Ebrei di Israele per la guerra di difesa dalla pianificazione sterminazionista di un nemico totalitario, genocida, sadico, apocalittico. Contrastano l’esigenza prioritaria di un’unità nazionale antiterrorista, strumentalizzano a fini di parte politica la comprensibile, umanissima rabbia delle famiglie degli ostaggi nelle mani dei mostri torturatori-assassini.  
  Ma il popolo e il governo di Eretz Israel, nella piena realizzazione della cultura e dell’etica ebraica del primato della vita contro la mistica fascista della morte di Hamas, hanno il diritto-dovere di salvare la vita e la libertà di tutte le famiglie e le persone, ebrei e minoranze.  
  Mentre il primo ministro Netanyahu si destreggia con una certa abilità tra la priorità della difesa, con la sconfitta dei nazisti del 7 ottobre, e la necessità di liberare gli ostaggi, una parte dell’opposizione lo demonizza in termini analoghi a quelli ostentati dalla costellazione Hamas, Hezbollah, Iran e Putin. Si tratta di una grave, inammissibile forma di allineamento a chi vuole eliminare Israele. Netanyahu non viene criticato per il 7 ottobre indifeso, o per l’illusione di addomesticare Hamas con finanziamenti e permessi di soggiorno; ma mostrificato per la fermezza su ragioni elementari di difesa di Israele.
  Gli oppositori non vogliono la capitolazione di Hamas, ma di fatto agiscono per la capitolazione ad Hamas, con effetti letali.  
  Una strategia di cedimenti e complicità con la guerra psicologica programmata da Yahya Sinwar. Un “pizzino” a lui attribuito stabilisce in modo esplicito: massacro degli ostaggi prima della liberazione da parte di Tsahal, scaricare la colpa su Netanyahu, fare degli ostaggi una rendita criminale incentivata dalla piattaforma politica degli organizzatori delle manifestazioni; preparare nuovi 7 ottobre.   
  Sinwar, prigioniero di Israele per crimini efferati, liberato nello scambio di un’enorme massa di terroristi con il soldato Gilad Shalit, curato con la massima cura in un ospedale israeliano, conosce bene la realtà, la lingua, l’opinione pubblica israeliana, e la sfrutta per alimentare divisioni laceranti.  
  Da qui il suo ordine ai mostri infernali, di catturare quanti più ostaggi possibili. Per questo, cedere sugli ostaggi significa incentivare nuovi ostaggi di nuovi 7 ottobre. 
  La società israeliana condanna i gruppi estremisti minoritari che compiono azioni di violenza simmetrica su comunità e persone arabe palestinesi in Giudea e Samaria, dovrebbero condannare altrettanto la propaganda simmetrica ad Hamas, contro la volontà di difesa della maggioranza del popolo di Israele. 
  L’isteria e la virulenza antisemita di massa di questo ultimo anno punta a dividere gli ebrei in Israele, e le comunità ebraiche della diaspora da Israele. 
  Come per millenni l’antigiudaismo cristiano voleva la conversione dei “perfidi Giudei”, oggi si vuole una conversione secolarizzata, cioè la rottura degli ebrei da Israele come una nuova forma di battesimo forzato. Oppure l’uniformazione a un’idea astratta e omogenea di “umanità”, con la rinuncia alla propria diversità-particolarità ebraica. 
  Da qui, la valanga di stereotipi antiebraici riverniciati, da una storia millenaria di discriminazione, persecuzione, eliminazionismo fisico. 
  L’attuale antiebraismo israelofobico è un concentrato di filisteismo, tartufismo, bigottismo, laico e religioso. Il più diffuso e ottuso conformismo di massa, una mistura di cecità ideologica e analfabetismo trionfante. La parola “filisteo” viene dall’ebraico ‘Pelishtin’, a designare gli appartenenti ai filistei, antica popolazione immigrata sulla costa di Israele, tradizionale avversaria del popolo ebraico.
  L’ebreo tra gli Stati è l’oggetto di un attacco concentrico. Il bombardamento mediatico contro Israele che affianca quello fisico, non è solo un potente tossico antiebraico di falsificazione e mostrificazione, ma è un delitto di conoscenza, che corrode e annulla il tessuto democratico di quei paesi che ancora in qualche modo lo mantengono.
  Il potere illimitato dei media limita ulteriormente i poteri limitati delle democrazie liberali in un punto nevralgico. La deliberazione democratica di fonda sulla conoscenza, secondo il noto principio chiave “Conoscere per deliberare” (l’insistenza di Luigi Einaudi e Marco Pannella). Quando i media seguono la voce di Hamas, Hezbollah e soci e diventano una mezza Al Jazeera, non solo compiono un’aggressione quotidiana antiebraica ma ribaltano una conoscenza fondata sulle fonti e gli eventi reali. Dunque, la degenerazione della democrazia, in un mare di demagogia populista, di isteria vendicativa. Il sistema informativo normalizza Hamas, e per questo si pone su un terreno anti-democratico. La demagogia sostituisce la democrazia, non si limita a corromperla. 
  La quotidiana dose mediatica di oppio antiebraico è la forma attuale della persecuzione. L’antiebraismo si rivela la punta d’assalto di un pensiero unico massificato contro il pensiero libero, plurale e creativo. 
  Il terzo totalitarismo, quello islamista califfale terrorista, oltrepassa l’eredità, che pure contiene, del nazifascismo tedesco e del comunismo, raggiunge livelli senza precedenti di azione genocida, a livelli sadici e apocalittici. Anche la sola “equidistanza” tra Hamas e Israele è incivile, è una forma di collaborazionismo con il nuovo nazismo. E i Quisling dell’islam sono tanti. 
  La barbarie antisemita in atto è doppia: antisemitismo ancestrale, stratificato, ora carsico ora emergente, nel senso dell’”inconscio collettivo” (Jung) e la barbarie digitale virale (B. H. Lèvy) con l’idiozia dell’istante. Un totalitarismo mediatico per l’uomo-massa con l’esclusione sistematica di conoscenza e pensiero. Un meccanismo implacabile per disumanizzare l’ebreo e umanizzare il terrorista disumano.  
  Siamo al caso limite di osservare una relativa giustificazione della Shoah: se gli Ebrei sono tanto cattivi e duri, se sono percepiti come nazificati, vorrà dire che il nazionalsocialismo hitleriano qualche ragione doveva pure averla. Qualche intellettuale di sinistra proclama risentito che la Shoah l’hanno fatta i suoi nemici, i nazifascisti; ma ora, davanti al 7 ottobre del totalitarismo nazi-islamico, con il peggioramento di una ferocia esibita, lui sta dalla parte di costoro o, nel migliore dei casi, si pone come equidistante.  
  Per gli ebrei, un’assimilazione coatta sembra essere l’unico modo per sfuggire alla condanna a morte. Ma neppure questo è possibile, perché anche gli ebrei assimilati, “pacifisti”, “filo-palestinesi”, vengono ammazzati lo stesso, e certe volte per primi.    

(L'informale, 5 settembre 2024)

........................................................


Sciopero nazionale in Israele, la Corte ne decreta la fine

Scintille tra Biden e Netanyahu mentre il paese piange i sei ostaggi.

di Anna Balestrieri

Lunedì 2 settembre, centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade di Israele, esprimendo la loro furia per il fallimento del governo nel concludere un accordo di cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas. La giornata di sciopero ha portato gran parte del paese a fermarsi, in seguito all’appello del sindacato più grande del paese, Histadrut, per bloccare l’intera economia. Le proteste si sono diffuse in città come Gerusalemme, Tel Aviv e Cesarea, dopo che sei ostaggi sono stati uccisi a Gaza e i loro corpi recuperati dai soldati israeliani.

• GLI ADERENTI ALLO SCIOPERO
   Lo sciopero ha coinvolto diverse categorie di lavoratori e servizi pubblici. Uffici governativi e municipali, inclusi ministeri cruciali come quello dell’Interno e parti dell’ufficio del Primo Ministro, sono stati chiusi. Anche molte aziende private hanno aderito allo sciopero. I voli da e per l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv sono stati sospesi per due ore. Gli ospedali e le strutture sanitarie hanno operato secondo un orario ridotto, simile a quello del fine settimana, e in modalità di emergenza.
   Nonostante il sostegno di molte istituzioni, alcune categorie non hanno partecipato allo sciopero. Ad esempio, il sindacato degli insegnanti ha scelto di non aderire, sebbene il personale di supporto nelle scuole abbia partecipato.  Tuttavia, le principali università israeliane, tra cui l’Università Ebraica di Gerusalemme e l’Università di Tel Aviv, hanno aderito alla protesta.

• “SCIOPERO POLITICO”: LA SENTENZA DELLA CORTE DEL LAVORO
   La Corte del Lavoro di Tel Aviv ha ordinato la fine dello sciopero dopo otto ore, affermando che era di natura politica e non legata a motivi economici. Lo sciopero è stato il primo di questa portata dal marzo 2023, quando il paese si era fermato a causa delle controverse riforme giudiziarie proposte da Netanyahu.

• LE CRITICHE A NETANYAHU
   Molti manifestanti hanno preso di mira le residenze del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, accendendo falò e scandendo slogan come “Tu sei il leader – tu sei colpevole!” vicino a una delle sue residenze private a Cesarea. A Tel Aviv, i manifestanti fuori dall’ambasciata americana hanno gridato “Vergogna!” fino a tarda notte.
   Le critiche a Netanyahu si sono intensificate, con alcune famiglie degli ostaggi che lo hanno accusato di ritardare gli sforzi per un accordo. Più di 100 ostaggi, vivi e morti, sono ancora detenuti a Gaza, la maggior parte catturata durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando oltre 1.200 persone furono uccise e più di 200 prese in ostaggio.
   Durante una conferenza stampa lunedì sera, Netanyahu ha respinto le critiche, incluse quelle del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, affermando che Hamas deve fare concessioni. Il premier israeliano ha chiesto perdono alle famiglie dei sei ostaggi per non averli riportati a casa vivi, ma ha promesso di vendicarsi e far pagare un “prezzo pesante” a Hamas per le loro morti.

• LA REAZIONE DI HAMAS
   Hamas ha risposto intensificando le minacce, avvertendo che altri ostaggi torneranno “nelle bare” se Israele tenterà di liberarli militarmente. Il disaccordo su un’area di confine nota come il corridoio di Philadelphi ha ulteriormente complicato i negoziati per un cessate il fuoco. Netanyahu insiste sul controllo di questa striscia di terra lungo il confine di Gaza con l’Egitto per prevenire il contrabbando di armi da parte di Hamas, ma questa posizione è stata duramente criticata, incluso dal Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, che ha definito la priorità del corridoio un “disgusto morale”.

(Bet Magazine Mosaico, 4 settembre 2024)
____________________

Missione compiuta: nel tunnel di Sinwar staranno brindando.

........................................................


Il Regno Unito sospende la vendita di armi a Israele. Netanyahu: “Vergognoso, incoraggia i terroristi”

di Luca Spizzichino

La decisione del governo britannico di sospendere la vendita di alcune componenti per armi destinate a Israele ha suscitato forte indignazione da parte di leader israeliani e organizzazioni ebraiche. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha duramente criticato la mossa, definendola “vergognosa” e avvertendo che essa non farà altro che incoraggiare Hamas, il gruppo terroristico responsabile del massacro di oltre 1200 persone il 7 ottobre, tra cui 14 cittadini britannici.
  In una dichiarazione molto dura, l’ufficio del premier israeliano ha affermato che “la decisione vergognosa della Gran Bretagna non cambierà la determinazione di Israele a sconfiggere Hamas, un’organizzazione terroristica genocida che ha brutalmente assassinato 1200 persone il 7 ottobre, inclusi 14 cittadini britannici”. Tracciando un parallelo con la lotta del Regno Unito contro la Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, il governo israeliano ha aggiunto: “Invece di schierarsi con Israele, una democrazia che si difende contro la barbarie, la decisione fuorviante della Gran Bretagna non farà altro che incoraggiare Hamas”.
  La decisione del Regno Unito è stata annunciata dal Segretario degli Esteri David Lammy, che ha dichiarato che la sospensione di circa 30 licenze di esportazione di armi, tra cui parti per aerei da caccia, elicotteri e droni, è stata presa dopo una revisione che ha concluso che esiste un rischio reale che queste armi possano essere utilizzate in violazione del diritto umanitario internazionale.
  Anche il Rabbino Capo del Commonwealth, Sir Ephraim Mirvis, ha espresso profonda preoccupazione per la decisione del governo britannico, affermando su X che “è incredibile che il governo britannico, alleato strategico di Israele, abbia annunciato una sospensione parziale delle licenze per armi in un momento in cui Israele sta combattendo una guerra per la sua stessa sopravvivenza su sette fronti, forzata il 7 ottobre, e proprio nel momento in cui sei ostaggi assassinati a sangue freddo da crudeli terroristi venivano sepolti dalle loro famiglie”.
  Mirvis ha aggiunto che “questo annuncio servirà a incoraggiare i nostri nemici comuni. Non contribuirà alla liberazione dei restanti 101 ostaggi, né contribuirà al futuro pacifico che desideriamo”.
  L’annuncio del Regno Unito ha anche sollevato critiche interne, con esponenti del partito conservatore e gruppi pro-Israele che hanno messo in dubbio la saggezza e il tempismo della decisione. Helen Whateley, portavoce del Partito Conservatore, ha insinuato che la decisione potrebbe essere stata influenzata dalla pressione dei membri laburisti, piuttosto che basata su un’analisi strategica corretta.
  Tuttavia, il Segretario alla Difesa britannico, John Healey, ha difeso la decisione, sottolineando che il Regno Unito ha il dovere “di dire le verità più difficili” ai suoi “amici più stretti” e ha ribadito l’impegno del Regno Unito a sostenere Israele in caso di un nuovo attacco diretto. Mentre la sospensione riguarda solo una parte delle 350 licenze di esportazione attive verso Israele, alcuni critici ritengono che il governo britannico non sia andato abbastanza lontano. Amnesty International ha richiesto una sospensione totale delle esportazioni di armi verso Israele, comprese quelle destinate al programma dei jet F-35, preoccupata per l’impatto delle armi britanniche nel conflitto in corso.
  Nonostante la parziale sospensione, Netanyahu ha ribadito la determinazione di Israele a vincere questa guerra, dichiarando che “con o senza armi britanniche, Israele vincerà questa guerra e garantirà il nostro futuro comune”.

(Shalom, 4 settembre 2024)

........................................................


Il boicottaggio contro Israele tocca il più grande fondo sovrano norvegese

Il Consiglio per l'Etica ritiene che le linee guida etiche forniscano una base per escludere diverse aziende (israeliane e non) che producono armi o componenti per armi usate da Israele

Il fondo sovrano norvegese da 1.700 miliardi di dollari denominato Government Pension Fund Global potrebbe essere costretto a cedere azioni di società che violano la nuova e più severa interpretazione degli standard etici per le imprese che aiutano le operazioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania.
Il 30 agosto il Consiglio per l’Etica del più grande fondo sovrano del mondo ha inviato una lettera al ministero delle Finanze norvegese che riassume la definizione recentemente ampliata di comportamento aziendale non etico.
La lettera non specifica il numero e i nomi delle società che potrebbero essere vendute, ma suggerisce che si tratterebbe di un numero ridotto, se il consiglio della banca centrale, che ha l’ultima parola, dovesse seguire le raccomandazioni del consiglio.
Secondo il Consiglio, una società è già stata individuata per essere disinvestita in base alla nuova definizione.
“Il Consiglio per l’Etica ritiene che le linee guida etiche forniscano una base per escludere alcune altre società dal Fondo Pensione Governativo Global, oltre a quelle già escluse”, scrive l’organismo di vigilanza, indicando il nome formale del fondo sovrano norvegese.
Il fondo è stato un leader internazionale nel campo degli investimenti ambientali, sociali e di governance (ESG). Possiede l’1,5% delle azioni quotate a livello mondiale di 8.800 società e le sue dimensioni sono influenti.
Dall’inizio della guerra a Gaza, in ottobre, l’organo di controllo etico del fondo sta indagando per verificare se un numero maggiore di aziende non rientri nelle linee guida per gli investimenti consentiti. Nella lettera si legge che, con la nuova politica, “ci si aspettava che la portata delle esclusioni aumentasse un po’”.
Tra le società che l’organo di controllo potrebbe esaminare vi sono RTX Corp, General Electric e General Dynamics. Secondo le organizzazioni non governative, queste società producono armi utilizzate da Israele a Gaza.
Secondo i dati del fondo, al 30 giugno il fondo deteneva investimenti in Israele per un valore di 16 miliardi di corone (1,41 miliardi di dollari) in 77 società, tra cui aziende del settore immobiliare, bancario, energetico e delle telecomunicazioni. Rappresentano lo 0,1% degli investimenti complessivi del fondo.

(Rights Reporter, 4 settembre 2024)

........................................................


Eliminato dall’IDF Muhammad Wadiyya: responsabile dell’invasione del 7 ottobre a Netiv Haasara

di Michelle Zarfati

Eliminato, in un recente attacco aereo israeliano, Ahmed Fawzi Nasser Muhammad Wadiyya, comandante della compagnia Nukhba di Hamas, responsabile di aver guidato l’invasione e il massacro del 7 ottobre di Netiv Haasara, un moshav vicino al confine di Gaza. L’uomo era arrivato a Nevit Haasara con il parapendio e lì aveva supervisionato il massacro di 22 dei 900 residenti della comunità.
  Wadiyya, è tra gli otto terroristi di Hamas che sono stati eliminati ieri in un’operazione congiunta dell’IDF e dello Shin Bet, durante la quale i caccia dell’aeronautica hanno attaccato un complesso utilizzato da Hamas vicino all’area dell’ospedale Al-Ahli a Gaza City. L’IDF ha confermato che l’attacco ha mirato ad eliminare alcuni membri del Battaglione Daraj-Tuffah, uno dei quali coinvolto nella fornitura di bombe utilizzate per violare la barriera di sicurezza di Gaza. L’esercito ha confermato di aver adottato misure di sicurezza per ridurre al minimo i danni ai civili durante l’operazione.
  Ahmad Wadia, il 7 ottobre aveva fatto irruzione nella casa della famiglia Ta’asa. Mentre gli altri terroristi uccidevano il quarantaseienne Gil Ta’asa davanti ai suoi figli più piccoli, Koren, 12 anni, e Shay, 8 anni, l’uomo aveva preso possesso della casa della vittima e lì era stato ripreso dalle telecamere di sicurezza della famiglia mentre apriva il frigorifero e beveva una Coca-Cola, proprio di fronte ai due bambini feriti e sanguinanti. Un filmato agghiacciante, annoverato ormai tra le immagini più scioccanti del massacro del 7 ottobre.

(Shalom, 3 settembre 2024)

........................................................


Ostaggi e terrorismo psicologico: il piano di Hamas per colpire Israele dall’interno

di Luca Spizzichino

Se Israele continuerà ad attaccare la Striscia di Gaza, gli ostaggi torneranno a casa “dentro le bare“. Questa è la minaccia lanciata da Hamas attraverso una dichiarazione di Abu Obeida, portavoce delle Brigate Ezzedine Al-Qassam. Il gruppo terroristico prosegue la sua guerra psicologica, cercando di dividere l’opinione pubblica, soprattutto in Israele, e attribuendo la responsabilità della morte degli ostaggi al governo di Netanyahu.
  Un piano dettagliato è emerso da un pizzino manoscritto ritrovato nei tunnel di Gaza. Secondo quanto riportato da La Repubblica, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno trovato un elenco di punti, mostrato da Channel 12, uno dei canali televisivi israeliani più informati, che sembra essere stato redatto da Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza.
  Dal documento emerge l’intenzione di Hamas di intensificare la pressione sulla questione degli ostaggi, con l’obiettivo di destabilizzare l’andamento della guerra. Si evidenzia inoltre come Hamas miri a sfruttare le divisioni sociali all’interno della società israeliana. Per raggiungere questo scopo, il piano prevede la diffusione di immagini e video degli ostaggi israeliani, l’intensificazione della pressione psicologica sul ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e, cosa più importante, “spingere sulla linea narrativa che Netanyahu è responsabile unico di quanto sta succedendo”.
  L’ultimo punto del documento fornisce una risposta all’uccisione di Hersh e agli altri cinque ostaggi. L’esecuzione degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre viene presentata come un mezzo per contrastare la narrativa israeliana secondo cui un’intensificazione militare aumenterebbe le probabilità di liberarli. In questo contesto, Hamas ha recentemente impartito nuove istruzioni alle guardie su come gestire gli ostaggi nel caso in cui le truppe israeliane si avvicinassero ai luoghi in cui sono detenuti.

(Shalom, 3 settembre 2024)

........................................................


Netanyahu ha ragione: gli errori della coppia Biden/Harris

Gli ostaggi sono stati uccisi da Hamas a Rafah, cioè dove Biden, Harris, Egitto e Qatar (praticamente tutti i negoziatori) non volevano che Israele andasse.

di Franco Londei

Quello che sta avvenendo intorno all’assassinio dei sei ostaggi da parte di Hamas ha davvero dell’incredibile. A partire da Biden alla Harris passando per migliaia di manifestanti nonché pseudo giornalisti “esperti” sui social, attribuiscono al Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, la colpa di quelle morti.
A Netanyahu viene rimproverato di non essersi arreso ad Hamas. Sì, è esattamente quello di cui è accusato il Premier israeliano. Per Biden, Harris e contestatori vari, Israele doveva deporre le armi e permettere ad Hamas di rientrare in pompa magna nella Striscia di Gaza. Così, come se niente fosse.
Nessuno dei tanti che contestano Netanyahu ha il coraggio di affermare che su Rafah aveva ragione. Nessuno dirà che se a suo tempo fosse stato permesso a Netanyahu di entrare a Rafah a quest’ora probabilmente il conflitto sarebbe finito.
Invece lo hanno bloccato, lo hanno minacciato, gli hanno fermato o rallentato la fornitura di armi per costringerlo a non attaccare quello che palesemente era la base di Hamas. Anzi, se c’è una cosa di cui rimproverare il Premier israeliano, è quella di non aver attaccato sin da subito la roccaforte dei terroristi.
Dicevano che non poteva garantire la sicurezza di centinaia di migliaia di civili, invece l’IDF ha spostato un milione di civili in due settimane e ha smantellato la Brigata Rafah di Hamas. I gruppi umanitari dicevano che sarebbe stata una strage, invece non c’è stata nessuna strage. L’IDF ha scoperto decine di tunnel che portavano in Egitto.
Già l’Egitto, il “negoziatore imparziale” che come Hamas non vuole la presenza israeliana nel Corridoio Filadelfia, quel corridoio da dove sono passati indisturbati milioni di metri cubi di cemento, migliaia di missili, polvere da sparo, armi di ogni tipo.
Il Cairo voleva rivedere il trattato di pace con Israele se l’IDF attaccava Rafah. Forse sarebbe il caso che sia Gerusalemme a rivedere il trattato di pace con l’Egitto visto che è palese la sua connivenza con Hamas. Forse sarebbe il caso che Israele revochi all’Egitto il permesso di entrare con mezzi pesanti nella Penisola del Sinai e che addirittura sia di nuovo Israele a controllare quel territorio, visto che l’Egitto non ci riesce.
Come sarebbe il caso che Joe Biden e Kamala Harris chiedano scusa a Netanyahu e ai genitori degli ostaggi per non aver permesso a Israele di fare il suo lavoro quando era il momento e per le frasi del tutto fuori luogo pronunciate ieri, perché è stato Hamas e non Netanyahu a uccidere gli ostaggi e lo ha fatto a Rafah, cioè proprio dove l’Amministrazione americana non voleva che Israele andasse.

(Rights Reporter, 3 settembre 2024)

........................................................


Il nemico è Sinwar, non Netanyahu

di Giovanni Giacalone

Le manifestazioni di piazza e lo sciopero generale che si sono verificate in Israele in risposta alla scoperta, da parte delle IDF, dei corpi di sei ostaggi, assassinati a sangue freddo da Hamas, hanno aiutato l’organizzazione terroristica palestinese a raggiungere i suoi obiettivi di sopravvivenza e di perseveranza nell’uccidere israeliani.
Secondo le fonti, Hersh Goldberg-Polin (23), Carmel Gat (39), Eden Yerushalmi (24), Almog Sarusi (26), Alex Lobanov (32) e Ori Danino (25), tutti catturati il 7 ottobre, sono stati colpiti a distanza ravvicinata in uno dei tunnel di Rafah, circa 24-72 ore prima dell’arrivo dell’IDF. Il fatto è avvenuto la scorsa settimana, molto probabilmente dopo che Qaid Farhan al-Alkad è stato recuperato vivo dall’esercito.
Ciò che risulta assurdo è che una parte consistente dell’arena politica e degli attivisti israeliani stiano incolpando il Primo Ministro Benjamin Netanyahu per la morte dei sei ostaggi, piuttosto che Hamas. Caroline B. Glick ha presentato il problema in modo estremamente chiaro e approfondito in un articolo per il Jewish News Syndicate, nel quale ha anche affermato:

    “All’unisono, Benny Gantz, Yair Lapid, Yair Golan e i loro subordinati si sono uniti ai gruppi di sinistra che hanno usato tumulti di massa, violenza politica e il caos generale dal 2019 nel tentativo di estromettere Netanyahu dal potere e hanno invitato gli israeliani a scendere in piazza in risposta alle esecuzioni degli ostaggi e a fare cadere il governo attraverso la violenza. Il comportamento di gente come Lapid, Gantz, Golan, del 90% degli organi di informazione israeliani e del resto dei rappresentanti della sinistra, solleva la domanda: hanno perso la testa”?

A quanto pare, molti in Israele e all’estero sembrano odiare Netanyahu più di Hamas e del suo leader assassino, Yahya Sinwar. Dopo tutto, abbiamo visto i doppi standard della comunità internazionale, con continue pressioni su Israele per fermare l’offensiva a Gaza invece di spingere Hamas all’angolo e costringerlo a rilasciare gli ostaggi.
Netanyahu può piacere o meno e può essere sostenuto o meno, ma qui la questione è molto più grande e riguarda principalmente la sicurezza e la protezione dello Stato di Israele e dei suoi cittadini. In secondo luogo, la guerra di Israele con Hamas ha un impatto più ampio sulla guerra transnazionale all’estremismo e al terrorismo islamista, perché Hamas non è solo un’organizzazione terroristica palestinese, è anche uno strumento iraniano per la destabilizzazione e un’ideologia (che può essere sconfitta, contrariamente a quanto alcuni hanno affermato).
“Se Israele cade nelle mani degli islamisti, l’Occidente è il prossimo”. Abbiamo sentito questa affermazione in diverse occasioni da parte della leadership israeliana e non potrei essere più d’accordo. Abbiamo avuto tutti  sotto gli occhi le situazioni nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Francia, con gli islamisti in massa nelle strade, nelle università e in alcuni casi con il loro ingresso persino in politica. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che Israele si arrenda quando sta per raggiungere il suo obiettivo di sconfiggere Hamas a Gaza.
Dobbiamo affrontare la realtà per quella che è, perché vivere nella fantasia è pericoloso. La possibilità di vedere gli ostaggi tornare a casa a causa di una decisione presa da Hamas è estremamente remota se non impossibile. L’organizzazione terroristica palestinese non ha alcun interesse a rilasciarli perché è l’unica leva che ha per sopravvivere e mantenere il controllo su Gaza. Inoltre, il numero di ostaggi ancora vivi è plausibilmente molto piccolo.
Hamas sta facendo un uso eccellente delle emozioni di molti israeliani per raggiungere i suoi obiettivi e, sfortunatamente, queste persone stanno aiutando i terroristi loro malgrado. Ovviamente, non possiamo biasimarle, non possiamo aspettarci che tutti abbiano una mente fredda per affrontare una questione così problematica come il terrorismo. Ma dovremmo aspettarci un po’ più di responsabilità dall’establishment politico in un momento in cui è in gioco la sopravvivenza del paese.
Cos’è il terrorismo, dopotutto? L’uso deliberato della violenza perpetrata contro i civili per raggiungere obiettivi politici (Boaz Ganor). Violenza fisica e psicologica. Omicidi, stupri, mutilazioni e poi l’uso di tattiche psicologiche per torturare ulteriormente la mente della popolazione al fine di fargli fare pressione sull’establishment politico.
Sinwar vuole sopravvivere e vuole garanzie che non verrà eliminato; Hamas vuole mantenere il controllo su Gaza. Questo risultato equivarrebbe alla sconfitta di Israele. Hamas vuole che l’IDF se ne vada dal corridoio Filadelfia in modo da potere riprendere le forniture di armi e uomini. In effetti, Israele non può permetterlo, poiché centinaia di tunnel tra Gaza e il territorio egiziano sono stati scoperti e distrutti.
È incredibile come tutto questo traffico abbia potuto svolgersi sotto gli occhi delle autorità egiziane che, curiosamente, non si sono accorte di nulla.
Lasciare che Hamas riprenda il controllo di Gaza e lasciare Sinwar al suo posto causerebbe più morti israeliane, più attacchi come l’eccidio del 7 ottobre (come affermato dai rappresentanti di Hamas) e sarebbe una vittoria anche per il regime iraniano. Dopo tutto, i precedenti negoziati e le concessioni a Hamas hanno portato al 7 ottobre, questo è un dato di fatto.
C’è un principio chiamato “ragione di Stato” che in alcuni casi deve essere applicato. Questo è uno di questi. Non si può pensare di mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini, la sopravvivenza di una nazione in guerra per l’interesse di pochi. Lo Stato ha il dovere di proteggere tutti, e cedere alla richiesta di Hamas andrebbe nella direzione opposta.
Inoltre, come già detto, è ingenuo credere che Hamas rilascerà gli ostaggi rimasti, perché sono plausibilmente pochi e sono l’unica garanzia che ha per la sua sopravvivenza. Sinwar trascinerebbe questa situazione per mesi, anni, mentre allo stesso tempo ricostruirebbe l’organizzazione, riprenderebbe Gaza e continuerebbe a uccidere israeliani. Hamas è un’organizzazione terroristica composta da spietati assassini, va tenuto bene a mente prima di affidarci alla sua parola. L’unico modo per riportare a casa gli ostaggi rimasti è attraverso l’azione militare.
Quanto all’Amministrazione Biden, sarebbero felici di andare alle elezioni con il “successo” di un cessate il fuoco per cercare di calmare la rabbia del loro elettorato filo-islamista. Di nuovo, tutto a scapito di Israele. Questo è il momento per tutti di essere uniti contro Hamas, contro il terrorismo islamista. Sarebbe anche un ottimo momento per prendere Sinwar.

(L'informale, 3 settembre 2024 - trad. Niram Ferretti)
____________________

La società occidentale, che nella sua ideologia libertaria sostiene un ordine inevitabilmente destinato a degradare in libertino caos, ha nella sua struttura originale un’intrinseca tendenza all’autodistruzione. Tendenza sostenuta soprattutto dalla parte sinistra della società, quella più “moderna”, più aperta anche a laceranti modifiche “evolutive”, come quelle invocate dall’anglosassone cancel culture. L’ideologia autodistruttiva della società occidentale è penetrata ormai anche in Israele, ed è condivisa soprattutto dalla parte laica di sinistra della società. E' possibile allora che la tendenza autodistruttiva dell’Occidente stia mietendo i suoi frutti più dissolventi proprio nello Stato che per tanti aspetti è in posizione d'avanguardia nel mondo: Israele. Qual è infatti la parte politica dello Stato ebraico che oggi di fatto ne caldeggia l’autodistruzione favorendo gli atti di chi ha dichiarato apertamente di volerlo distruggere? E’ la parte che più di altre sottolinea l’importanza del rapporto privilegiato con quello stato occidentale che più occidentale non ce n’è: gli Stati Uniti. I quali potrebbero pensare che se proprio si va verso l’autodistruzione, è meglio che i primi a farlo siano gli ebrei con il loro Stato. Ci stanno gli ebrei? M.C.

........................................................


UK – Rav Mirvis: Chi taglia armi a Israele rafforza i suoi nemici

FOTO
Rav Ephraim Mirvis

Il governo britannico ha annunciato un parziale alle taglio alle esportazioni di armi in Israele perché, così ha presentato la questione il ministro degli Esteri David Lammy, sarebbe stato rilevato un «chiaro rischio che possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale» nel corso delle operazioni militari a Gaza. L’annuncio, accolto con «profonda amarezza» dal governo israeliano, ha suscitato reazioni anche nelle istituzioni ebraiche d’Oltremanica. Tra i più colpiti sembra esserci il rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth, rav Ephraim Mirvis, intervenuto con un preoccupato “cinguettio” su X. Secondo il rav, in carica dal 2013, la decisione del governo Starmer non sarà d’aiuto alla causa della pace e non aiuterà nemmeno gli ostaggi ancora prigionieri di Hamas, incoraggiando al contrario «i nostri comuni nemici». Colpisce il rav che il taglio sia stato comunicato «nel momento in cui Israele combatte una guerra per la sua sopravvivenza su sette fronti impostigli il 7 ottobre e nel momento stesso in cui sei ostaggi assassinati a sangue freddo venivano sepolti dalle loro famiglie». E sgomenta inoltre che venga accreditata dal ministro «la falsità secondo cui Israele stia violando il diritto internazionale umanitario, quando in realtà fa di tutto per rispettarlo».
  Nessuno «dovrebbe dimenticare le ragioni per cui Israele è oggi in guerra», ha commentato la Jewish Leadership Council (JLC) sottolineando come il 7 ottobre i terroristi di Hamas abbiano invaso Israele «per uccidere, mutilare, torturare, stuprare e rapire». Ma non è finita lì, viene ricordato, perché negli undici mesi successivi «Israele ha dovuto affrontare nuove minacce ai suoi confini, mentre Hamas continuava a minacciare da Gaza, mentre Hezbollah colpiva dal Libano e gli Houthi cercavano di espandere il conflitto dallo Yemen». Senza dimenticare «l’importante offensiva» lanciata in aprile dall’Iran, in combutta con i suoi alleati regionali. In considerazione di tali eventi, conclude JLC, non è questo il momento «di intraprendere azioni che limitino la capacità di Israele di difendersi». Anche per Phil Rosenberg, presidente del Board of Deputies of British Jews, la decisione dell’esecutivo «rischia di inviare un messaggio pericoloso a Hamas e ad altri nemici del Regno Unito, che possono commettere atrocità spaventose, condannate dal governo britannico, e tuttavia vedere ancora Israele castigato».

(moked, 3 settembre 2024)

........................................................


Il numero dei terroristi di Hamas responsabili del 7 ottobre è il doppio di quanto si era inizialmente stimato

Un’indagine approfondita, a cura delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) della Divisione Gaza, ha portato ad aggiornare il numero dei terroristi, autori del pogrom del 7 ottobre 2023, quando su direttive di Hamas, hanno invaso i confini occupando il sud di Israele.
Sarebbero ben 7000 i gazawi complici del massacro, praticamente il doppio di quanto in origine si credeva. I nuovi risultati sono stati diffusi dal Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Tenente Generale Herzi Halevi.
Come riporta il sito Algemeiner, quel terribile giorno nel Negev nordoccidentale si sono infiltrati circa 3800 terroristi dell’unità Nukhba di Hamas, in aggiunta ad altri 2200 terroristi e saccheggiatori, sempre provenienti da Gaza. E ancora, circa 1000 terroristi sono rimasti all’interno della Striscia mentre lanciavano su Israele, solo in quel momento, ben 4300 razzi, aiutando gli altri nella traversata sul territorio israeliano, compiendo uccisioni e stupri di massa, rapimenti e altre inaudibili atrocità. I confini sono stati violati in 119 punti e non 60 come si riteneva in precedenza.
In quello che è stato definito il giorno peggiore per gli ebrei dopo la Shoah sono stati assassinati 1200 esseri umani, 251 rapiti a Gaza, di cui 101 ancora in ostaggio, oltre a migliaia di feriti.
«L’indagine operativa non è ancora stata conclusa e continua in conformità con la valutazione della situazione e in vista dei vincoli operativi. Una volta conclusa, sarà presentata al pubblico in modo trasparente», ha affermato il portavoce dell’IDF.

(Bet Magazine Mosaico, 3 settembre 2024)

........................................................


Stiamo facendo il gioco di Hamas

di Maurizia De Groot Vos

Sebbene le contestazioni mosse al Primo Ministro Benjamin Netanyahu non siano campate in aria, sebbene il Governo avrebbe potuto senza dubbio fare qualcosa di più per liberare gli ostaggi, quello che sta accadendo in Israele è esattamente quello che voleva Yahya Sinwar quando ha ordinato di giustiziare i sei ostaggi ritrovati morti dall’IDF.
  Il capo terrorista dall’inizio della guerra ha indovinato ogni mossa mediatica riuscendo persino a trasformare degli spietati assassini in vittime innocenti. Questo grazie ai tantissimi megafoni anti-israeliani che non hanno perso occasione per diffondere le veline di Hamas e le tante bugie sul conflitto.
  Ieri abbiamo avuto centinaia di conferme eclatanti di questo “aiuto al terrorismo” quando la vasta platea anti-israeliana sui social ha usato la tragedia dei sei ostaggi assassinati da Hamas per capovolgere totalmente la verità.
  Uno dei casi più eclatanti, quello messo in piedi ad arte da Tiziana Ferrario che è riuscita in un Twitt a sciacallare sui morti per poi riversare tutta la responsabilità su Netanyahu facendo appena un cenno ad Hamas. Non sazia di tanto odio ha persino chiesto la fine delle operazioni in Cisgiordania, chiaramente senza sapere né il perché né gli obiettivi di quella operazione.
  Ora, non sto dicendo che sono contenta di questo governo, tutt’altro, non sto dicendo che Benjamin Netanyahu non abbia severe responsabilità sia su quanto successo il 7 ottobre, figlio di una scelta politica suicida, che sullo sviluppo della guerra (tra i tanti errori, perché il corridoio Filadelfia non è stato occupato da subito?), sto però dicendo che quello che stiamo vedendo oggi in Israele è esattamente quello che voleva Hamas.
  Comprendo il dolore dei genitori dei ragazzi assassinati come comprendo quello dei parenti di coloro che sono ancora in mano di Hamas, ma questo loro comportamento non può che portare ad un ulteriore irrigidimento delle posizioni di Netanyahu, perché cedere alle legittime richieste dei genitori dei rapiti significa cedere ad Hamas.
  Lo sa benissimo Yahya Sinwar che infatti gioca cinicamente sui sentimenti dei parenti dei rapiti e sulle vite dei pochi che ancora saranno in vita, aiutato in questo dai tanti megafoni anti-israeliani sempre pronti ad aiutare la causa dei terroristi.

(Rights Reporter, 2 settembre 2024)
____________________

Che l’azione delle famiglie degli ostaggi sarebbe stata una carta preziosa in mano a Hamas avrebbe dovuto essere subito evidente a tutti coloro che sono dalla parte di Israele, e quindi avrebbe dovuto essere “compresa” quanto si vuole ma fortemente “osteggiata”. Perché non è avvenuto? Per non fare un favore a Netanyahu, questa sarebbe la risposta di molti, se volessero essere sinceri fino in fondo. Dire che “cedere alle legittime richieste dei genitori dei rapiti significa cedere a Hamas” è come dire che Netanyahu aveva ragione e i suoi avversari torto. Ma l’odio implacabile per Netanyahu, dentro e fuori Israele, ha qualcosa di arcano, proprio come l’odio per Israele, con cui in molte menti indissolubilmente si confonde. Da riflettere. M.C.

........................................................


«Noi ebrei traditi dai progressisti»

L'editore: «A sinistra dilaga l'antisemitismo: inseguono i musulmani per qualche voto in più. Dal 7 ottobre mi sento solo perfino a Livorno, dove la mia famiglia arrivò 500 anni fa. La Digos mi consiglia di non andare in giro».

di Carlo Cambi 

Livorno è la sola città a non aver mai conosciuto un ghetto ebraico; i sefarditi vennero chiamati da Ferdinando I de' Medici a fertilizzare la nascente città nel 1591 e dettero vita a una loro cucina, una loro cultura e a una loro lingua: il bagitto. Joseph Belforte nel 1805 stampò il primo libro di preghiere in ebraico e poi suo figlio Salomone Belforte dette vita ad una casa editrice che è il faro della cultura ebraica nel mondo. Attività che continua con Guido Guastalla, 82 anni, ma scritti solo sulla carta d'identità, scampato da neonato alla Shoah laureato in filosofia con Nicola Badaloni, amico personale di Giorgio Amendola, con una militanza giovanile nel Pci, grandissimo mercante d'arte ed editore per scelta: essere un pilastro della cultura ebraica. 

- Guardandolo da Livorno c'è un rigurgito di antisemitismo? Come si vive da ebreo? 
   «Si vive nell'ansia perché l’antisemitismo è potente e pervasivo. Ho visto che a Roma e a Milano, le ha animate Klaus Davi, ci sono state iniziative per rispondere dopo il 7 ottobre al clima di odio verso di noi; qui a Livorno, è strano a dirsi, siamo soli. È la stessa atmosfera del '38, la comunità nazionale ci dice di stare tranquilli, di stare nascosti. Ci sentiamo traditi dalla sinistra come gli ebrei italiani che erano in larga misura fascisti si sentirono traditi da Mussolini. Una mano ce l'ha data il governo: ha blindato l'ingresso della sinagoga, ha affidato alla Folgore, i paracadutisti del generale Roberto Vannacci, la nostra sicurezza. Il sindaco di Livorno, Luca Salvetti, indipendente eletto dal Pd che non si è mai fatto vedere nella nostra comunità, quando il 12 ottobre abbiamo fatto una manifestazione per il massacro perpetrato da terroristi di Hamas ci ha impedito di esporre la bandiera di Israele». 

- Anche nell'unica città senza ghetto essere ebrei e diventato rischioso? 
   «Io sono in là con gli anni e non mi faccio intimidire, ma mia moglie dice di sì, Su un social un ragazzotto pro Pal mi ha apostrofato: ebreo torna a casa. Gli ho replicato: sono già a casa mia. Ci stiamo da 2.200 anni in Italia, ci siamo da prima di Cesare. E poi dove devo andare? Se mi dite che Israele, perché occupa i territori, deve sparire, dov'è la mia casa? Giorni fa in piazza Grande qui a Livorno c'era una manifestazione pro Palestina, sempre con gli slogan “a morte Israele", che significano "morte agli ebrei". Una funzionaria della Digos mi ha ripetuto: Guastalla non stia in piazza, vada a casa, è meglio per lei e per noi. Le ho risposto: le pare che io non possa stare nella mia città, libero dove la mia famiglia è arrivata mezzo millennio fa? Una signora che passava ha aggiunto: gli ebrei hanno fatto Livorno; si devono rintanare quelle m.... che fanno confusione. Dopo il 7 ottobre però i nostri giovani sono andati via, siamo rimasti in 400 tutti in là con l'età». 

- È un clima da triangolo giallo? 
   «È ancora più pervasivo. Mi spiego con un episodio. Il professor Samuele Rocca che vive tra Milano e Gerusalemme ha scritto un bellissimo libro sui Cesari e l'ebraismo. Doveva presentarlo all'Università di Pisa dove c'è il Cise, centro studi sull'ebraismo. Ebbene il professor Arturo Marzano - delegato alle attività gender dell'ateneo che ha dedicato un suo libro al proprio compagno: un inviato Onu a Gaza - storico dell'Asia nonché fratello di tanta sorella -, e la dottoressa Carlotta Ferrara degli Uberti che dovrebbe occuparsi di antisemitismo, hanno deciso che il libro di Rocca non doveva essere presentato perché lui insegna all'Università di Ariel che secondo loro sta nei territori occupati. In realtà Ariel è in Samaria, ma Rocca non è potuto entrare all'Università di Pisa e ha subito una sorta di "linciaggio mediatico" in chat. Siamo alla discriminazione e all'esaltazione della Palestina che è un falso storico». 

- ln che senso la Palestina è un falso storico? 
   «Non è mai esistita una nazione palestinese, né mai c'è stato un popolo palestinese. Si è determinato solo dopo che gli ebrei alla fine dell'Ottocento hanno fertilizzato i terreni e hanno prodotto sviluppo economico nell'area, cosi alcune tribù arabe che venivano dai Paesi confinanti si sono insediate in quelle terre. A creare la Palestina è stata l'Unione sovietica che nel '64 s'inventa l'Olp e agita una sorta di colonialismo ebraico perché ha bisogno di strappare l'Occidente, perseguendo il disegno ateista alla Robespierre, dalla sua radice. Cosi iniziano a circolare parole d'ordine come razzismo, antisionismo che è sinonimo di antisemitismo e s'inventano la Palestina». 

- L'antisemitismo sta tutto a sinistra?
   «Sì, duole dirlo, ma è così: oggi la sinistra è antisemita. Su questo la sinistra è cambiata molto. Quando ci fu il massacro di Sabra e Shatila nell’82, mio figlio che andava al liceo fu bersaglio di intolleranza. Arrivarono a telefonare a mia moglie dicendole: sei convinta che tuo figlio sia a scuola, ma ce lo abbiamo noi e non lo rivedrai. Allora il sindaco di Livorno Pino Raugi e l'onorevole Nelusco Giachini del Pci vennero a casa nostra a offrirci solidarietà e protezione. Oggi vanno dietro ai pro Pal. Il clima è cambiato. Molti nostri amici prendono le distanze da noi. E sono convinti che aprire ai musulmani, aprire indiscriminatamente all'immigrazione, sia segno di progresso. Si sono dimenticati in fretta della testimonianza di Oriana Fallaci. A destra ci sono rarissimi episodi di antisemitismo. Prendo per esempio Ignazio La Russa: il presidente del Senato è da sempre amico della famiglia Meghnagi e della comunità milanese».

- Ha ragione Olaf Scholz in Germania a preoccuparsi? 
   «Sì, ha ragione Scholz e noi in Italia dovremmo stare attenti. L'islam si presenta con la faccia buona, dialogante, ma ha in testa l'umma: il creare un mondo solo islamico dove noi, cristiani ed ebrei perché obbedienti alle religioni del libro, siamo considerati dhimmi: gli schiavi privilegiati. L'islam è convinto che Abramo fosse musulmano e che poi il mondo si è corrotto e la loro missione è di ricostituire attraverso la umma, che è insieme religione e Stato, l'armonia del mondo. Hanno deciso di conquistarci: in Gran Bretagna ormai quasi tutti i sindaci sono islamici. Usano l'immigrazione come mezzo di istillazione dell'islam e ci sono anche forme terroristiche. Tra l'altro per loro non esiste il concetto di popolo, esiste solo quello di ubbidienza religiosa. Loro negano che esista il popolo d'Israele che fu cosi designato da Dio quando affidò a Mosè il compito di guidarlo nella terra promessa, perciò vogliono la distruzione d'Israele». 

- L'Europa è sotto scacco dell'islam? 
   «Sì e non lo dico io. Lo ha detto l'abate e vescovo di York, che in un libro scrive: l'Europa è in preda a un cupio dissolvi. Lo ha gridato quasi Shmuel Trigano - di cui sto pubblicando un bellissimo libro su Gerusalemme: è uno dei massimi intellettuali francesi - che mi ha confidato: sono reduce da un incontro con i socialisti, mi hanno spiegato che loro stanno con i musulmani perché sono di più degli ebrei e hanno tanti voti. Sembra di sentire Jean Luc Mélenchon. Per gli ebrei in Francia la vita sta diventando impossibile. Dal Sud, dove c'è stato l'ultimo attentato, la diaspora verso Israele è continua. Mia moglie che è vicepresidente della comunità delle donne ebree riceve continuamente appelli dalla Francia». 

- Bisogna dunque fermare l'immigrazione? 
   «Bisogna integrare facendo rispettare la nostra identità. Quando Giovanni Paolo II ha posto il tema delle radici giudaico-cristiane, aveva ben presente che l'Europa avrebbe avuto bisogno di rafforzarsi per poter ospitare». 

- Ma Francesco predica porte aperte ... 
   «Francesco fa del marketing della fede: ha capito che i musulmani sono di più e si accoda a loro. Non ha la forza teologica di Ratzinger. A Francesco di rispondere al bisogno di sacro dell'uomo non interessa nulla. Per tenersi buoni gli islamici tifa per l'immigrazione indiscriminata e ha azzerato i rapporti con gli ebrei; tra i cattolici i focolarini e i comboniani sono pro Pal e pro islam. Se ne accorgeranno: l'islam è come i coccodrilli. Il vescovo di Livorno da noi non è mai venuto, neppure dopo il 7 ottobre, e pensare che un tempo il dialogo tra ebrei e cattolici era quotidiano». 

- È vero che lei fa il tifo per Donald Trump? 
   «Sì, per gli ebrei americani e anche per noi. Con Kamala Harris i conflitti non finiranno mai. E poi come si fa a credere a una che ha allestito alla convention democratica lo spazio Lgbtq+ per gli americani di religione islamica? Ma lo sanno che cosa succede ai gay nell'islam e anche in Palestina? Basta questo per pensare che Trump è meglio». 

- E la simpatia per il generale Vannacci? 
   «Nasce dall'aver constatato che è un uomo colto: tre lauree, parla sei lingue, si è formato a Parigi, ha una visione dell'Europa che molti non hanno e conosce perfettamente il pericolo islamico. Mi ha detto una sera a cena: 
   "Guastalla, si rende conto che dicono di me che sono antisemita? Io che ho combattuto come ufficiale della Folgore contro il terrorismo islamico". Mi sono accorto che i giornali mainstream gli fanno dire cose che lui neppure si sogna. E sono convinto che abbia una statura istituzionale molto alta». 

- Eppure lei è stato comunista, militante del Pci, Come mai tanta distanza? 
   «Sono stato convintamente comunista fino al '67 quando ci fu la guerra dei 6 giorni. Allora Emilio Sereni venne e mi disse: compagno Guastalla, devi scegliere tra la tua appartenenza ebraica e il partito. Io lo guardai e dissi: voi pensate che si possa scambiare un' appartenenza che si perpetua da 3.500 anni per una storiella che ha appena 70 anni? Me ne andai, tenendo buoni rapporti. Ma ripensandoci mi spiego tante cose di questi nostri giorni difficili e penso a persone degnissime come Emanuele Fiano. Chissà che fatica fanno». 

(La Verità, 2 settembre 2024)

........................................................


Grazie al fatto che Israele esiste, gli ebrei non sono più vittime dei tempi bruti e dei venti di follia

di Paolo Salom

[Voci dal lontano occidente] Abbiamo avuto altri momenti difficili in passato. Ma questo 5784 promette di essere il più duro da decenni a questa parte. Eppure, mentre si avvicinano Rosh haShanah, Kippur e la stagione delle feste autunnali, nonostante le difficoltà che il futuro ci presenterà, è forse giunto il momento di rasserenarci un pochino. Perché dico questo? Lo scorso novembre, a poche settimane dal 7 ottobre, ho avuto l’occasione di parlare con Lior Keinan, vice ambasciatore di Israele a Roma. Allora, lo ricordo bene, eravamo tutti in stato di choc. E ricordo la sorpresa sul volto del diplomatico che cercava di infondere nell’interlocutore (io) la giusta dose di fiducia, nonostante l’impazzimento del lontano Occidente. “È presto per pensare a come sarà il dopo – mi aveva spiegato tra l’altro parlando del conflitto a Gaza -. Ma se vogliamo aprirci alla speranza, e dobbiamo farlo anche in queste ore buie, dobbiamo essere onesti e dire che una parvenza di normalità potrà esserci soltanto quando Hamas uscirà dall’equazione”.
   Ecco: queste parole, pronunciate all’inizio di una guerra non voluta da Israele e comunque atroce per tutti, potevano sembrare propaganda, wishful thinking, mentre tutto sembrava precipitare nell’assurdo di una ferocia che stava avvolgendo il mondo intero, con le frange di estremisti pro palestinesi impegnate ad attaccare gli ebrei ovunque si trovassero. Eppure, il vice ambasciatore aveva visto con obiettività la situazione e, oggi, possiamo dire che aveva ragione: nonostante il duro prezzo pagato, le vittime civili, i soldati e i riservisti bruciati nei loro anni più belli in difesa di Israele, si comincia a intravedere una luce diversa attorno allo Stato ebraico. E di conseguenza anche attorno a noi.
   È fallito il tentativo dell’Iran di isolarlo (di fronte ai missili lanciati dagli ayatollah si sono mobilitati Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia). Sono falliti tutti i movimenti di pressione per separare le comunità della Golah dai fratelli in Terra di Israele. Hamas è ridotta al lumicino. E, soprattutto, nonostante la paura, gli ebrei hanno scelto di resistere, combattere (con le parole) e non cedere alla tentazione di lasciare tutto o nascondersi di fronte all’oscena rappresentazione di un antisemitismo “moderno” studiato e riproposto dai soliti noti.
   Insomma, possiamo dire che il peggio è alle nostre spalle? No. Non è il momento di fare previsioni. Il futuro non è conoscibile. Però è onesto dire che quest’anno ci ha messo tutti a dura prova. Ma, anche grazie al fatto che Israele è lì, nella Terra dei nostri Padri e delle nostre Madri, gli ebrei non sono più vittime dei tempi bruti e dei venti di follia che spazzano il mondo come se l’umanità non avesse imparato nulla dal passato.
   Dunque, sì, viviamo un’era di cambiamenti grandi e terribili (a volte). Ma la nave che ci trasporta ha dimostrato di saper affrontare le onde più alte. Scusate le metafore. Credo che un briciolo di retorica, in un momento come questo, sia giusto concedersela. Auguro a tutti Shanà tovà umetukà: sia davvero dolce e sereno per ciascuno di noi. Am Israel chai.

(Bet Magazine Mosaico, 1 settembre 2024)

........................................................


Il rabbino capo del Sudafrica sferza Canterbury e il Vaticano

FOTO
Warren Goldstein, rabbino capo del Sudafrica

Il rabbino capo del Sudafrica, Warren Goldstein, ha criticato in maniera molto dura sia l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby che Papa Francesco. In videomessaggio postato su Twitter/X ha accusato i due leader religiosi di «abbandonare il loro più sacro dovere di proteggere e difendere i valori della Bibbia». Invece, sostiene, «Papa Francesco e l’arcivescovo anglicano sono indifferenti agli omicidi di cristiani in Africa e alla minaccia del terrorismo in tutta Europa, e allo stesso tempo sono ostili ai tentativi di Israele di combattere le forze jihadiste guidate dall’Iran».
  Come ha ricordato Jenni Frazer su JewishNews il 28 agosto, l’arcivescovo Welby ha raccontato di aver visitato i cristiani palestinesi molte volte negli ultimi decenni, aggiungendo: «Mi è chiaro che il regime imposto dai governi israeliani nei Territori palestinesi occupati è un regime di discriminazione sistemica. Sono consapevole di come questo abbia un impatto sui cristiani palestinesi, minacciando il loro futuro e la loro sopravvivenza. È chiaro che porre fine all’occupazione è una necessità legale e morale».
  Il rabbino Goldstein ha criticato in particolare il sostegno dato dall’arcivescovo Justin Welby alla sentenza della Corte internazionale di giustizia secondo cui la presenza di Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è illegale e ha osservato che l’arcivescovo «dovrebbe sapere che Gerusalemme era la capitale di Israele prima che si sentisse parlare di Gran Bretagna».
  Nè Lambeth Palace, la sede della residenza ufficiale dell’arcivescovo di Canterbury, né l’ufficio del rabbino capo del Regno Unito Sir Ephraim Mirvis hanno dato disponibilità a commentare.

(moked, 1 settembre 2024)

........................................................


I difficili rapporti con l’Egitto e i negoziati di pace

di Ugo Volli

• La decisione del gabinetto e le trattative
   Il consiglio di gabinetto – l’organo ristretto del governo israeliano che ha la responsabilità della conduzione della guerra – su proposta del primo ministro Bibi Netanyahu e con il solo voto contrario del ministro della difesa Yoav Gallant, ha stabilito giovedì notte che anche nel quadro di un possibile accordo di cessate il fuoco, le forze armate di Israele dovranno restare a presidiare il “corridoio Filadelfia”, cioè il breve tratto di confine (14 km) che separa Gaza dall’Egitto. È una decisione importante, perché proibisce all’equipe negoziale che ricomincia oggi a Doha per l’ennesima volta le trattative per una tregua, di accettare una delle tre richieste centrali di Hamas, lo sgombero di Israele dal corridoio Filadelfia. Le altre due pretese, altrettanto problematiche, sono la possibilità per gli sfollati di rientrare nella parte settentrionale della Striscia senza subire alcun controllo, il che evidentemente permetterebbe ai terroristi di insediarvisi di nuovo con le loro armi, e l’impegno di Israele a non riprendere le operazioni belliche alla fine della tregua. Sembra che vi sia aggiunta di recente la richiesta del capo dei terroristi Sinwar di una garanzia per la sua vita.

• Da dove vengono le armi di Hamas
   Chi ha ragionato in questi 11 mesi sulla forza imprevista di Hamas e sulla sua capacità di continuare a combattere nonostante l’autodifesa di Israele e il blocco imposto da molti anni sull’importazione di materiali di uso bellico, chi si è interrogato sulla consistenza dei grandi arsenali di armi e in particolari di missili che si continuano a scoprire, sull’addestramento dei terroristi da parte di istruttori iraniani, sulle macchine sui carburanti e sui prodotti necessarie per scavare tunnel più lunghi della metropolitana di Londra, si è certamente chiesto da dove tutte queste notevolissime risorse militari provenissero. La risposta è doppia: in parte minore questo materiali sono importati con gli aiuti umanitari: ancora pochi giorni fa si sono scoperti esplosivi nascosti fra gli aiuti alimentari dell’Onu. Ma la maggior parte viene dal contrabbando nel corridoio Filadelfia, cioè dall’Egitto.

• L’Egitto e il contrabbando
   Si tratta di un punto molto delicato. L’Egitto ha sempre sostenuto di combattere questo contrabbando, e ha molto propagandato alcune operazioni di distruzione dei tunnel da cui esso era condotto. Ma di fatto si è comportato in maniera opposta, favorendo di nascosto l’importazione di armi. Molti si sono sorpresi vedendo che Al Sisi si è opposto ferocemente alla presa israeliana del corridoio; ma si è visto presto il perché. Oltre 80 tunnel di contrabbando sono stati scoperti nella zona, alcuni abbastanza grandi da far passare camion.. Le armi vengono da lì, e così il cemento, gli esplosivi, gli esperti iraniani e a quanto sembra anche cinesi. Ovviamente Hamas vuole che l’esercito di Israele se ne vada dal Filadelfia proprio per poter riprendere il contrabbando di armi che è vitale per continuare la guerra (si dice che vi sono carichi interi di missili nascosti fra i beduini del Sinai). La meraviglia è che l’Egitto lo sostenga. In teoria, si dice, Hamas è un braccio di quella stessa Fratellanza Musulmana di cui il generale Al Sisi si è liberato con un colpo di stato nel 2013 e quindi dovrebbe essere un nemico del regime attuale. Ma sono passati 10 anni, si dice che perfino i parenti del dittatore abbiano parte nel grande business economico del contrabbando militare, e molti funzionari del regime vi prendano parte. Ma soprattutto vi sono ragioni politiche per questo atteggiamento.
  Il confine fra Israele ed Egitto è lungo 266 chilometri lungo il Negev e negli ultimi 45 anni non vi sono state difficoltà in questo, anche se non sono mancati alcuni incidenti provocati dalla parte egiziana, come il lancio di missili su Eilat o l’assassinio di due militari israeliani di guardia qualche anno fa. Perché dunque Al Sisi non vuole assolutamente la sorveglianza israeliana degli ultimi 14 chilometri che sono il corridoio Filadelfia? Le ragioni sono diverse. Da un lato, nonostante la pace firmata da Begin e Sadat nel 1979, che costò la vita a quest’ultimo, Israele è sempre nella psicologia collettiva egiziana il nemico storico contro cui l’esercito egiziano combatté nelle guerre nel 1948, ‘56, ‘67. ‘73, sempre perdendole. A differenza dei più recenti “accordi di Abramo”, la pace con l’Egitto è sempre stata “fredda” senza aperture commerciali o turistiche: la “normalizzazione” è sempre deplorata, la propaganda antisemita è sempre diffusa fra le masse e anche ai più alti livelli. L’esercito dell’Egitto, nonostante le enormi difficoltà economiche del paese, ha condotto un piano di riarmo imponente, comprando aerei in Cina, sottomarini in Germania, migliaia di carri armati in Usa. Oggi in Medio Oriente è il meglio armato dopo Israele e Iran; la speranza di una rivincita è sempre sottintesa, anche i dirigenti egiziani sanno di non poterla evocare. Al Sissi insomma sembra voler ripetere certe mosse della Turchia. Sunnita sì, potenzialmente nemico dell’Iran, ma senza nessuna simpatia per Israele.

• Perché restare sul confine
   In questo quadro la sopravvivenza di Hamas, soprattutto se oltre che dall’appoggio iraniano dipende anche dalla complicità egiziana al contrabbando di armi, è una cosa che al vertice egiziano evidentemente non dispiace. E questa è anche la ragione per cui Israele fa bene a non fidarsi e a non cedere all’illusione di una delega all’Egitto di un passaggio così essenziale alla sua sicurezza come il corridoio Filadelfia. La divisione che si è avuta negli ultimi mesi fra il vertice militare e quello politico su questo tema deriva anche dall’esperienza dell’incapacità di barriere elettroniche e delle forze internazionali di garantire la sicurezza del paese, come si è visto purtroppo il 7 ottobre, ma anche prima con Unfil in Libano, con le forze di interposizione dell’Onu fra Israele ed Egitto che si sono squagliate nel 1973, le numerosi operazioni a Gaza lasciate a metà perché lo stato maggiore assicurava che si fosse restaurata la mitica “deterrenza”. Insomma, nonostante l’immensa fiducia che tutto il paese ha nell’impegno e nella dedizione delle forze armate, fra i politici della maggioranza e nei media c’è diffidenza sulla concezione strategica dello stato maggiore.

• Sono davvero mediatori?
   Vi è un dato in più da tener presente, Le trattative per il cessate il fuoco non sono condotte direttamente fra Israele e Hamas o il suo burattinaio Iran: fra le due parti si interpone da un terzetto di “mediatori”, gli Usa, il Qatar e l’Egitto. L’amministrazione americana certo non vuole la distruzione di Israele, ma nemmeno la sua vittoria che sconfesserebbe la politica di Obama, Biden e se vincerà di Harris di accordo con l’Iran. Gli Usa oltretutto fanno il possibile per estendere questo modo di vedere all’interno di Israele, sia nell’ambito politico che negli apparati di sicurezza, fino influenzare fortemente la delegazione negoziale. Il Qatar è il più diretto protettore di Hamas, ne ospita i dirigenti e ne gestisce la propaganda con la sua rete Al Jazeera. Ma anche l’Egitto, per i motivi appena visti, non è certo neutrale nei confronti di Israele. Dunque, come accade con le organizzazioni politiche internazionali (per esempio l’ONU) e le corti come quella dell’Aja, Israele deva difendersi un ambiente sostanzialmente ostile. Quando ci si interroga sulla difficoltà del governo israeliano di prendere decisioni e iniziative forti, bisogna pensare che resistere a queste pressioni è un compito difficilissimo, ma essenziale per il futuro del paese.

(Shalom, 1 settembre 2024)

........................................................




Perché ci interessiamo di Israele
    L'articolo che segue è presente da anni nella sezione di Presentazione del nostro sito. Lo ripresentiamo ora in questa forma sia perché molti vanno subito alle notizie di attualità e rimandano ad altri momenti letture più impegnative, sia perché intendiamo ribadire, anche nei particolari, che l'atteggiamento di fondo con cui ci poniamo nei confronti di Israele non è cambiato col passar del tempo e con lo scorrere degli avvenimenti. Dire questo è tanto più importante in quanto dopo il 7 ottobre le simpatie per Israele, da sempre molto poche, sono drasticamente diminuite nelle statistiche. Per noi non è così, la ripresentazione di questo articolo vuol esserne una conferma.
Il problema di Israele in realtà è stato sempre il problema dell'esistenza di Israele. La ragione del disagio non va cercata in quello che gli ebrei fanno o sono. La gente non li odia perché fanno gli strozzini o hanno il naso adunco: il problema sta nel fatto che ci sono.
   Da una parte questa constatazione può tagliare le gambe agli ebrei di buona volontà, quelli che vogliono avere un comportamento giusto e rispettoso verso gli altri, che cercano di evitare atteggiamenti di superbia che possano ferire, che fanno sforzi per favorire il dialogo e lo stare insieme dei diversi. Tutto questo è buono e lodevole in sé, ma non cambia il fatto che le cose buone può farle soltanto qualcuno che c'è. E più un ebreo si muove, anche per venire incontro al suo prossimo non ebreo, più gli fa sentire che c'è. E questo non fa che aumentare l'avversione del non ebreo ostile.

 UNA MALATTIA DEI GENTILI
  D'altra parte, proprio questa amara constatazione può liberare l'ebreo da un inutile senso di colpa. «Sarò imperfetto, farò molte cose sbagliate, sarò un poco di buono come tanti altri - può pensare - ma se i guai provengono dal fatto che ci sono, allora la colpa non è mia, perché io ho il diritto di esserci, come tutti gli altri».
   Sì, su questo punto gli ebrei possono tranquillizzarsi: il "problema Israele" in realtà è una malattia dei gentili.
   C'è un particolare della vita di Theodor Herzl che fa capire quanto può essere pesante per un ebreo il sentirsi non accolto dall'ambiente circostante, e quanto può essere grande e sincero il desiderio di fare qualcosa per venire incontro alle aspettative degli altri. Riporto alcune notizie della sua vita tratte da "A History of Israel from the Rise of Zionism to our Time", di Howard M. Sachar.
   Herzl non era un religioso, e in gioventù tendeva piuttosto all'assimilazione. Provava anzi un po' di disagio davanti ai comportamenti sconvenienti di certi "cattivi ebrei". Ma il suicidio di un suo caro amico, Heinrich Kana, molto probabilmente dovuto ai disagi legati al suo essere ebreo, lo scosse profondamente. Nella sua attività di giornalista cominciò allora a dedicare sempre più attenzione all'antisemitismo, e nel privato continuò a rimuginare dentro di sé su quello che si poteva fare per eliminare questa piaga sociale. Un'idea che gli venne in mente, e che riportò soltanto nelle sue note, fu «una volontaria e onorevole conversione» di massa degli ebrei al cristianesimo. Immaginava che la cosa sarebbe dovuta avvenire «alla chiara luce del sole, in un pomeriggio di domenica, con una solenne, festosa processione accompagnata dal suono delle campane ... con fierezza e gesti dignitosi». L'autore aggiunge che Herzl lasciò cadere quasi subito quest'idea, ma il semplice fatto che gli sia venuta in mente fa intuire il peso che aveva in cuore, e la sua sincerità nella ricerca di una soluzione che non danneggiasse nessuno.
   Resta la domanda del perché. Perché i gentili non sopportano la presenza degli ebrei come persone, come popolo, come nazione? Anche qui le spiegazioni date sono innumerevoli, ma quella biblica resta la più semplice, ed è anche quella giusta: gli ebrei ricordano Qualcuno. Qualcuno a cui non si vuole pensare perché non si vuole che ci sia. O, se proprio deve esserci, che almeno stia zitto. Si sarà capito che è il Dio d'Israele, l'unico vero Dio, che non solo ha creato i cieli e la terra, ma li ha creati con la sua parola, e quindi ha parlato, e continua a parlare. Cosa che a molti non fa piacere.
   Si capisce allora perché periodicamente si è sempre fatto avanti qualcuno che ha manifestato la "buona intenzione" di beneficare l'umanità risolvendo una volta per tutte il problema nell'unico modo adeguato: sterminando gli ebrei. E questa non è un'idea che sia venuta in mente per la prima volta a Hitler. L'intenzione risale ai tempi biblici. Sentiamo come prega il salmista:
    "O Dio, non restare silenzioso! Non rimanere impassibile e inerte, o Dio! Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto contro di te: le tende di Edom e gl'Ismaeliti; Moab e gli Agareni; Ghelal, Ammon e Amalec; la Filistia con gli abitanti di Tiro; anche l'Assiria s'è aggiunta a loro; presta il suo braccio ai figli di Lot" (Salmo 83:1-8).
Tramano insidie contro il tuo popolo, congiurano, si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto, dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Sembra di assistere a una seduta della Lega Araba. Anche loro, infatti, hanno stretto un patto, che dà tutta l'impressione di essere soltanto contro Israele.
   In questo salmo c'è tutta la spiegazione del "problema Israele". Abbiamo detto che la causa profonda dell'ostilità verso gli ebrei sta nel fatto che ci sono, e infatti qui si dice: "distruggiamoli come nazione". Abbiamo detto che non si vuole che gli ebrei ci siano perché non si vuole che la loro presenza tenga vivo un ricordo, e qui si dice: "... e il nome d'Israele non sia più ricordato!". Abbiamo detto che quello che non vuol essere ricordato è il Dio d'Israele, e qui si dice che i popoli stringono un patto contro di te, cioè contro Dio che ha scelto Israele.
   Il salmista non prega dicendo: "Aiuto, Signore, siamo in mezzo ai guai, liberaci dai nostri nemici", come avremmo fatto noi che pensiamo sempre e soltanto agli affari nostri. Il salmista dice: "I tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa". Quello che succede a noi è un problema tuo, dice il salmista a Dio, perché i nostri vicini stanno congiurando "contro quelli che tu proteggi", e allora se noi andiamo a fondo, sarà il tuo nome che ci va di mezzo. Diranno che non sei un Dio potente, che non sei stato capace di proteggere il tuo popolo, arriveranno fino a Gerusalemme, al monte che tu hai scelto per tua dimora (Salmo 68:16), e faranno quello che vuol fare Arafat (anacronismo calcolato), «poiché hanno detto: Impossessiamoci delle dimore di Dio» (Salmo 83:12). E nel seguito il salmista non chiede al Signore di aiutare il popolo d'Israele, ma di colpire i nemici di Dio. Cattiveria? No, difesa del nome di Dio e desiderio che i popoli vicini, proprio quelli che vogliono far sparire il nome d'Israele dalla terra (tanto da non volerlo nemmeno scrivere sulle carte geografiche del Medio Oriente), si ravvedano e cerchino il nome del SIGNORE, buttando nella spazzatura tutti gli altri nomi. Infatti conclude:
    Copri la loro faccia di vergogna perché cerchino il tuo nome, o SIGNORE! Siano delusi e confusi per sempre, siano svergognati e periscano! E conoscano che tu, il cui nome è il SIGNORE, tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra (Salmo 83:16-18).
Il salmista quindi non va in depressione per l'odio che sente contro Israele, e non si limita neppure a dire a se stesso: "Io ho il diritto di esistere come tutti gli altri", ma in sostanza dice a Dio: "Tu hai il dovere di farmi esistere per tutti gli altri".
   Ma è chiaro che chi osa pregare in questo modo deve anche, coerentemente, lui per primo, cercare e onorare il nome del Signore. E questo è il vero problema di Israele.

 EBREO, GENTILI... E CRISTIANI
  Cominciamo adesso a dire qualcosa su di noi, che ci professiamo cristiani e abbiamo un particolare rapporto con Israele e con gli ebrei.
   Diciamo anzitutto che mentre il dualismo ebrei-gentili è giustificato biblicamente ed è chiaro nella sua formulazione, anche se non sempre nella sua esatta delimitazione, la contrapposizione ebrei-cristiani è ambigua e fuorviante. Anzitutto, entrambi i termini sono di radice ebraica. Se invece di usare la derivazione dal greco si usasse quella dall'ebraico, si dovrebbe parlare di "messianici", invece che di "cristiani", e allora il collegamento con l'ebraismo sarebbe più evidente. Ma a parte questo, non ha senso contrapporre ebraismo e cristianesimo come se fossero due religioni che una volta si combattevano ma adesso hanno finalmente imparato la civile arte del dialogo e della coesistenza pacifica. O meglio, il senso è che quando questo avviene, vuol dire che s'incontrano due religioni create dagli uomini, senza reale collegamento con la rivelazione biblica. All'inizio i cristiani erano tutti ebrei. Solo dopo qualche anno ai cristiani ebrei si sono aggiunti anche i gentili, che adesso certamente sono in larga maggioranza. Ma questo non giustifica una delimitazione di campo tra ebrei e cristiani.
   Prendiamo infatti i principali documenti dei cristiani: i vangeli. Qualcuno forse pensa che i vangeli siano libri da sacrestia, che parlino di chiese, messe, sacramenti, processioni, statue della madonna, cattedrali. Chi li conosce sa invece che non c'è niente di tutto questo. E molti forse sarebbero sorpresi nel sapere che nei vangeli il termine "chiesa" è usato solo 3 volte in due soli versetti, mentre il termine "Israele" è usato 30 volte in altrettanti versetti. Un rapporto di 1 a 10. Questo dà una prima idea di questi libri che, contrariamente a quello che si può pensare, hanno un carattere interamente ebraico, anche se sono scritti in greco. Una persona che cominciasse a leggere l'Antico Testamento e proseguisse nel Nuovo fermandosi ai vangeli, potrebbe legittimamente chiedersi: "Ma che c'entrano i non ebrei in tutto questo?". Un ebreo nato in Israele e cresciuto con un'educazione ortodossa, che in età adulta si è deciso infine a leggere i vangeli, non solo vi ha ritrovato un paesaggio a lui ben familiare, ma a un certo momento si è chiesto: "Ma come fanno i gentili a capire questi libri?" E la domanda è comprensibile, perché per veder comparire il primo gentile che occupi un posto significativo nella storia della salvezza si deve arrivare al capitolo 10 del libro degli Atti.
   Riporto un passo del vangelo che dovrebbe essere noto, ma non è molto sottolineato:
    Ed ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: «Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio». Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano dicendo: «Mandala via, perché ci grida dietro». Ma egli rispose: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele». Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: «Signore, aiutami!» Gesù rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini». Ma ella disse: «Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le disse: «Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi». E da quel momento sua figlia fu guarita (Matteo 15:22-28).
E' un passo tosto. Ci presenta un Gesù che entra a fatica nelle varie iconografie religiose o laiche. C'è da scommettere che il racconto riesce a scontentare tutti. Scontenta i palestinesi, perché vedono una di loro umiliarsi in modo indecoroso davanti a un ebreo; scontenta gli ebrei, perché si sentono chiamare "pecore perdute" e perché non possono lasciare Gesù ai polacchi e al loro Papa, come avrebbero fatto più che volentieri; scontenta gli antisemiti, perché vedono un Gesù che privilegia in modo inaccettabile gli ebrei; scontenta i promotori dei rapporti umani tra israeliani e palestinesi, perché il dialogo si deve fare su un piano di parità e non in quel modo; scontenta infine tutti quelli dal cuore tenero, perché "così non ci si comporta, ed è pure maleducazione non rispondere, e poi, sì, va bene, la donna alla fine è stata esaudita, ma a prezzo di quale umiliazione! Non si fa così!"
   Non è possibile entrare qui nella spiegazione di quel passo del vangelo, ma vale la pena segnalarlo perché è uno di quei passi della Bibbia che si riescono a ingranare in modo legittimo nel contesto solo se si ha una comprensione della rivelazione biblica che tiene conto in modo corretto del posto che occupa Israele nella storia della salvezza.
   C'è anche un'altra donna non ebrea che Gesù ha trattato in modo non proprio conforme a certi canoni di comportamento usualmente accettati: la donna samaritana. Gesù la incontra e le chiede un favore. Lei si sorprende, prima in modo positivo, perché Gesù si degna di rivolgerle la parola, poi in modo negativo, perché certe parole di Gesù sulla sua vita privata avrebbe volentieri fatto a meno di sentirle. E alla fine, dopo aver capito che Gesù era un profeta, gli pone un problema teologico:
    «I nostri padri hanno adorato su questo monte, ma voi dite che a Gerusalemme è il luogo dove bisogna adorare». Gesù le disse: «Donna, credimi; l'ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma l'ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l'adorano, bisogna che l'adorino in spirito e verità». La donna gli disse: «Io so che il Messia (che è chiamato Cristo) deve venire; quando sarà venuto ci annunzierà ogni cosa». Gesù le disse: «Sono io, io che ti parlo!» (Giovanni 4:20-26).
C'è un altro fondamentale errore, molto comune, che deve essere corretto. La Bibbia dei cristiani si divide in Antico e Nuovo Testamento, e, com'è noto, la parola testamento significa patto. Si parla dunque di due patti che Dio ha fatto con gli uomini. Il lettore provi a fare un test con se stesso, e eventualmente anche con altri. Che patti sono? Dove si parla nella Bibbia di questi due patti? Con chi ha fatto Dio i due patti? Forse soltanto a quest'ultima domanda molti si sentirebbero sicuri di poter dare la risposta giusta: l'antico patto è stato fatto con gli ebrei, e non vale più; quello nuovo è stato fatto con i cristiani, e vale ancora. La risposta è sbagliata. Da Abraamo in poi, tutti i patti di cui parla la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) sono stati conclusi sempre e soltanto con il popolo d'Israele. E di tutti questi patti, soltanto uno è da considerarsi superato, ma non per scadenza dei termini o per progresso culturale, come potrebbero pensare i laici illuminati, ma semplicemente perché è stato violato da una delle due parti: il patto con Mosè. Tutti gli altri patti, quelli con Abraamo, con Davide e il nuovo patto, sono sempre in vigore perché sono patti incondizionati, che Dio si è impegnato a mantenere soltanto per essere fedele al suo nome. Non possono essere violati, e quindi sono sempre validi.
   Nell'ultima cena Gesù ha parlato di patto quando ha detto ai suoi dodici discepoli ebrei: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti» (Marco 14:24). Questa frase non è una formula magica che fa cambiare il vino in sangue, anche perché in quel momento il sangue di Gesù stava ancora scorrendo nelle sue vene; questo è un linguaggio tipicamente ebraico, come quello che usò Mosè quando suggellò il patto con Dio al Sinai:
   Allora Mosè prese il sangue, ne asperse il popolo e disse:
    «Ecco il sangue del patto che il SIGNORE ha fatto con voi sul fondamento di tutte queste parole»(Esodo 24:8).
Nella Bibbia ogni patto importante doveva essere suggellato con il sangue, e quindi questo è accaduto anche per il nuovo patto. Dice infatti l'evangelista Luca:
    «Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi» (Luca 22:20).
Il sangue del patto, dunque, è quello di Gesù, ma il contraente umano del nuovo patto, chi è? La risposta si trova nell'Antico Testamento, prima che nel Nuovo:
    «Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d'Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi loro signore», dice il SIGNORE; «ma questo è il patto che farò con la casa d'Israele, dopo quei giorni», dice il SIGNORE: «io metterò la mia legge nell'intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo. Nessuno istruirà più il suo compagno o il proprio fratello, dicendo: "Conoscete il SIGNORE!" poiché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande», dice il SIGNORE. «Poiché io perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò del loro peccato» (Geremia 31:31-34).
Geremia scrive mentre sta per avvenire il tragico dramma della presa e della distruzione di Gerusalemme, cioè in un momento in cui si poteva pensare che la storia d'Israele sarebbe finita lì. Parla del patto che essi violarono, riferendosi evidentemente a quello del Sinai, e annuncia un nuovo patto. Ed è questo il patto di cui parla Gesù nell'ultima cena, come viene anche attestato dalla citazione del passo di Geremia che si fa in Ebrei 8:8-13. Ma si noti che questo nuovo patto è stato fatto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda, non con i cristiani, non con la chiesa. Fino a quel momento noi gentili non eravamo stati neppure interpellati, non sapevamo niente, eravamo tutti ignoranti, come Pilato. Come lui non avremmo potuto capire chi era Gesù, e come lui l'avremmo condannato a morte.
   L'apostolo Paolo, che qualcuno considera un traditore del popolo ebraico, sottolinea invece che agli israeliti "appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse" (Romani 9:4). Mentre ai gentili dice:
    Ricordatevi che un tempo voi, stranieri di nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, perché tali sono nella carne per mano d'uomo, voi, dico, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo (Efesini 2:11-12).
Noi gentili eravamo dunque senza speranza e senza Dio nel mondo perché eravamo senza Cristo, cioè senza Messia. Ed è a questo punto che viene fuori la caratteristica inattesa del nuovo patto che Dio ha stabilito con la casa d'Israele. Per una precisa volontà rivelata da Dio agli apostoli, questo patto apre la possibilità di estendere anche ai non ebrei la grazia spirituale che è compresa in questo patto: il perdono dei peccati e il dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo, come Dio ha promesso alla casa di Giuda.
    Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell'inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia. Con la sua venuta ha annunziato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; perché per mezzo di lui gli uni e gli altri abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito. Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare, sulla quale l'edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore. In lui voi pure entrate a far parte dell'edificio che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito (Efesini 2:13-22).
In questo modo abbiamo toccato il punto fondamentale della fede cristiana che avvicina ebrei e gentili, perché inserisce questi ultimi (i lontani) nell'ambito della benedizione promessa ai primi (i vicini): la persona di Gesù, che però nel presente resta ancora una pietra di scandalo e un elemento di divisione.
   «E voi, chi dite che io sia?» chiese a un certo momento Gesù ai suoi discepoli (Matteo 16:15). La risposta fu data, ed era quella giusta, ma solo un ebreo poteva darla: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16:16). Solo chi risponde nello stesso modo a questa domanda, entra a far parte di quell'unico corpo di cui parla l'apostolo Paolo.
    Ma se il Messia è già venuto, che cosa si deve fare di tutte le profezie messianiche che parlano di un regno di Israele trionfante e vittorioso? Un giorno tutte inevitabilmente si compiranno, perché il Messia, che una prima volta è venuto come servo sofferente dell'Eterno per espiare i peccati del popolo d'Israele e di tutti gli uomini, un giorno ritornerà come il Leone della tribù di Giuda per regnare sul mondo da Sion. I cristiani evangelici letteralisti non "spiritualizzano" l'Antico Testamento, facendone un'allegoria della chiesa. Quando la Scrittura parla di Israele, intende sempre e soltanto Israele, mai la chiesa, anche se spesso si possono trarre utili analogie e applicazioni pratiche. Per questo i cristiani fedeli alla Bibbia aspettano che le sue parole riguardanti il futuro di Israele si compiano, predicando il vangelo a tutti gli uomini e cercando di occupare il giusto posto nel tempo dell'attesa.

 MA ALLORA VOI VOLETE SOLTANTO CONVERTIRCI!
  L'obiezione che i cristiani s'interessino di Israele soltanto per convertire gli ebrei dev'essere attentamente esaminata. E' assolutamente vero che tutti i cristiani desiderano, o dovrebbero desiderare, che ogni persona, ebreo, musulmano, ateo, cristiano nominale o altro ancora, si ravveda, creda nel Signore Gesù Cristo e sia salvato, perché sta scritto che
    In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati (Atti 4:12).
E' chiaro dunque che un cristiano fedele non si esime mai dall'annunciare il vangelo, tanto meno a un ebreo. Anzi, l'apostolo Paolo dice che il vangelo dev'essere annunciato prima di tutto agli ebrei, poi agli altri.
    Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco (Romani 1:16).
Chiedere a un vero cristiano di non parlargli mai di Gesù equivale a dirgli di stare alla larga. E se richiesto, naturalmente questo avverrà.
   L'annuncio del vangelo è un compito che il cristiano deve e vuole svolgere verso ogni essere umano, senza distinzione, mentre l'interesse per Israele è dettato dalla particolare, unica posizione che questo popolo occupa nella storia della salvezza.

 TRE MOTIVI
  Ci sono almeno tre motivi per cui i cristiani s'interessano di Israele e degli ebrei.

1. Manifestare amore. Gli ebrei avvertono che verso di loro c'è un odio gratuito, cioè un'ostilità che non può essere interamente spiegata da nessuna motivazione razionalmente giustificabile: sono odiati perché ci sono. E anche quando l'ostilità non si concretizza in atti di violenza, la percezione di questi sentimenti di avversione li fa soffrire. Abbiamo detto che questo non dipende dagli ebrei, ma dal rapporto degli uomini con Dio. L'astio contro gli ebrei non è che l'espressione dell'umana ribellione contro Dio, è quindi manifestazione di peccato. I credenti in Gesù sanno di aver ricevuto il perdono dei peccati attraverso il Messia d'Israele, vivono in comunione con Dio e di conseguenza diventano partecipi del suo amore verso il suo popolo. L'amore dei veri cristiani verso Israele è quindi un amore gratuito, cioè un sentimento che non può essere spiegato da nessuna motivazione o interesse razionalmente giustificabili: il popolo d'Israele viene amato soltanto perché c'è, perché è un'espressione della volontà di quel Dio con cui i cristiani vivono in comunione d'amore. Sarebbe una grave perdita per gli ebrei se fossero capaci di percepire soltanto l'odio gratuito contro di loro, senza saper riconoscere e avvertire anche l'amore gratuito di cui sono oggetto. Se è vero che non c'è popolo sulla terra che sia stato tanto odiato, è anche vero che non ce n'è un altro che sia stato tanto amato. E anche se in questo periodo della storia del mondo l'odio è molto più appariscente dell'amore, non è vero che sia più reale.

2. Mettersi dalla parte della verità e della giustizia. Le ingiustizie nel mondo sono infinite, e altrettante sono le menzogne, ma quelle che si commettono contro Israele sono uniche per grandezza, estensione e sfacciataggine. Il credente in Gesù Cristo deve stare sempre dalla parte della verità e della giustizia, quindi è suo compito prendere la parola per difendere chi viene ingiustamente colpito, quando ne ha l'occasione e la possibilità. Questo dev'essere fatto verso tutti, ma si potrebbe dire, con l'apostolo Paolo, prima al Giudeo e poi al Greco. Chi, pur essendo adeguatamente informato, non è capace di riconoscere gli enormi soprusi e le spudorate calunnie che deve subire Israele, ha una coscienza morale assopita e un'intelligenza critica ottusa. E queste forme di rilassamento spirituale un vero cristiano non se le deve permettere.

3. Essere vigilanti. Quello che succede agli ebrei, prima o poi ha delle conseguenze sul resto del mondo. Questo è stato ormai accertato, e vale in primo luogo per il corpo dei veri credenti in Gesù Cristo che il Nuovo Testamento chiama "chiesa". Per poter colpire il popolo d'Israele, l'Avversario spirituale di Dio cerca di confondere e fuorviare prima di tutto quelli che potrebbero essergli d'aiuto, e questi sono proprio gli autentici seguaci di Gesù. In tempi difficili per Israele, i credenti vengono messi sotto pressione in vari modi, soprattutto attraverso false informazioni e false dottrine. Questo è successo in Germania ai tempi del nazismo: le persecuzioni contro i cristiani sono state poche perché pochi sono stati i cristiani che hanno capito quello che stava veramente succedendo, e molti sono stati sedotti da false dottrine che si accordavano con la realtà diabolica che si stava svolgendo sotto i loro occhi. Non sono stati soltanto i "Deutsche Christen", con il loro pervertito "cristianesimo positivo" nazionalsocialista, a profanare il nome di Cristo: molte altre chiese e movimenti cristiani, anche evangelici, hanno subito l'influsso dell'ideologia del tempo, e se non sempre hanno adottato dottrine perverse dal punto di vista biblico, certamente si sono lasciati trasportare in un'annebbiata atmosfera di torpore che non ha permesso loro di rendersi conto della realtà in cui vivevano. E questo non deve più accadere. O per lo meno, per quel che ci riguarda non vogliamo che accada più. Anche per questo riteniamo nostro dovere interessarci di Israele e, per quanto possibile, aiutare altri a capire quello che succede, in modo da saper prendere al momento opportuno la giusta posizione che le circostanze richiedono.

 UN'ULTIMA OSSERVAZIONE
  Secondo la nostra comprensione della Bibbia, i veri cristiani non devono cercare di costituirsi come forza politica organizzata al fine di esercitare un potere sul resto della società. Devono vivere come semplici cittadini nella società in cui si trovano, assumendosi di volta in volta le responsabilità sociali che a loro competono, ma come comunità devono essere presenti solo come testimoni di Gesù Cristo, e in quanto tali assumere come arma soltanto la parola: la Parola di Dio innanzi tutto, e la parola umana che l'accompagna, ma senza fare ricorso ai consueti mezzi di lotta politica organizzata.
   Certo, questa è una debolezza, ma una debolezza voluta, perché sorretta dalla parola di Dio giunta fino a noi anche attraverso un noto ebreo, nato a Tarso di Cilicia, allevato a Gerusalemme, educato ai piedi di Gamaliele nella rigida osservanza della legge dei padri (Atti 22:3):
    I Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i gentili pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1 Corinzi 1:22-25).
(Notizie su Israele, 1 settembre 2024


........................................................


Notizie archiviate


     Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.