L'Eterno è giusto in tutte le sue vie
e benigno in tutte le sue opere.
L'Eterno è vicino a tutti quelli che lo invocano,
a tutti quelli che lo invocano in verità.
Salmo 145:17-18
 

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Predicazioni
Dio con noi
    MATTEO 1
  1. Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
  2. E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
  3. Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
  4. Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  5. Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
  6. Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
    SALMO 145

  1. Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
  2. Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
  3. L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
  4. Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
  5. Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
    GENESI 2
  1. L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
  2. gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
    ISAIA 53
  1. Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
    GIOVANNI 20
  1. Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
  2. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
    PROVERBI 8
  1. Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
  2. quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
  3. quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
  4. io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
  5. mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
    GENESI 2
  1. E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
    GIOVANNI 3
  1. Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
    1 CORINZI 15
  1. Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
    GENESI 3
  1. E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
    ISAIA 7
  1. Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
    GIOVANNI 12
  1. “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
    ESODO 3
  1. E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; 
  2. e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
    ESODO 29
  1. Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
  2. E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
    GIOVANNI 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.

Marcello Cicchese
febbraio 2024

Una grande gioia

ATTI 2

  1. Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
  2. Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
  3. E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
  4. E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
  5. e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
  6. E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
  7. lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.

ATTI 4

  1. E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
  2. E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
  3. Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
  4. e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.

LUCA 2

  1. Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
  2. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.

MATTEO 2

  1. Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.

ATTI 8

  1. Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
  2. E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
  3. Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
  4. E vi fu grande gioia in quella città.

ATTI 13

  1. Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
  2. Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
  3. E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
  4. E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
  5. Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
  6. Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
  7. E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

ROMANI 15

  1. Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
  2. affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
  3. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
  4. poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
  5. mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
  6. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
  7. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
  8. E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
  9. Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.


    Marcello Cicchese
    maggio 2016

L'interesse di Cristo
FILIPPESI, cap. 1

  1. Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, 
  2. per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. 
  3. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 
  4. sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.

FILIPPESI, cap. 2

  1. Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 
  2. rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento
  3. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 
  4. cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 
  5. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 
  6. il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 
  7. ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 
  8. trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 
  9. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 
  10. affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 
  11. e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
  12. Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; 
  13. infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo. 
  14. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute
  15. perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, 
  16. tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. 
  17. Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; 
  18. e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.


Marcello Cicchese
novembre 2006

Salmo 92
Salmo 92
    Canto per il giorno del sabato.
  1. Buona cosa è celebrare l'Eterno,
    e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
  2. proclamare la mattina la tua benignità,
    e la tua fedeltà ogni notte,
  3. sul decacordo e sul saltèro,
    con l'accordo solenne dell'arpa!
  4. Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
    io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
  5. Come son grandi le tue opere, o Eterno!
    I tuoi pensieri sono immensamente profondi.

  6. L'uomo insensato non conosce
    e il pazzo non intende questo:
  7. che gli empi germoglian come l'erba
    e gli operatori d'iniquità fioriscono, per esser distrutti in perpetuo.
  8. Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
  9. Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
    ecco, i tuoi nemici periranno,
    tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.

  10. Ma tu mi dai la forza del bufalo;
    io son unto d'olio fresco.
  11. L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
    le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi
    che si levano contro di me.
  12. Il giusto fiorirà come la palma,
    crescerà come il cedro sul Libano.
  13. Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
    fioriranno nei cortili del nostro Dio.
  14. Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
    saranno pieni di vigore e verdeggianti,
  15. per annunziare che l'Eterno è giusto;
    egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.

Marcello Cicchese
gennaio 2017

Saggezza che viene da Dio
PROVERBI 2
  1. Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti,
  2. prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all'intelligenza;
  3. sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all'intelligenza,
  4. se la cerchi come l'argento e ti dai a scavarla come un tesoro,
  5. allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio.
  6. Il Signore infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l'intelligenza.
  7. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell'integrità,
  8. allo scopo di proteggere i sentieri della giustizia e di custodire la via dei suoi fedeli.
  9. Allora comprenderai la giustizia, l'equità, la rettitudine, tutte le vie del bene.
  10. Perché la saggezza ti entrerà nel cuore, la scienza sarà la delizia dell'anima tua,
  11. la riflessione veglierà su di te, l'intelligenza ti proteggerà;
  12. essa ti scamperà così dalla via malvagia, dalla gente che parla di cose perverse,
  13. da quelli che lasciano i sentieri della rettitudine per camminare nelle vie delle tenebre,
  14. che godono a fare il male e si compiacciono delle perversità del malvagio,
  15. i cui sentieri sono contorti e percorrono vie tortuose.
  16. Ti salverà dalla donna adultera, dalla infedele che usa parole seducenti,
  17. che ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio.
  18. Infatti la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti.
  19. Nessuno di quelli che vanno da lei ne ritorna, nessuno riprende i sentieri della vita.
  20. Così camminerai per la via dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti.
  21. Gli uomini retti infatti abiteranno la terra, quelli che sono integri vi rimarranno;
  22. ma gli empi saranno sterminati dalla terra, gli sleali ne saranno estirpati.

Marcello Cicchese
aprile 2009

Sovranità e grazia di Dio
ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Preghiera sacerdotale 1

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.


Marcello Cicchese
agosto 2017

Preghiera sacerdotale 2

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.


Marcello Cicchese
ottobre 2017

Un sabato sacro
ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

Marcello Cicchese
maggio 2017

Benedizione a domicilio?
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
  4. Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
  5. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
  6. Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
  7. Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
  8. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.

MARCO 10
  1. Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
  2. Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
  3. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
  4. Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
  5. Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
  6. Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
  7. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
  8. I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
  9. È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
  10. Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
  11. Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
  12. Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
  13. Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
  14. il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
  15. Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

PROVERBI 10
  1. Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.

Marcello Cicchese
giugno 2006


Salmo 56
Salmo 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.

Marcello Cicchese
agosto 2016

Una lampada al piede
Salmo 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Il peggiore dei profeti
MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'

Marcello Cicchese
febbraio 2015

Salmo 27
Salmo 27
  1. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?
    Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
  2. Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
  3. Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
  4. Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
  5. Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
  6. E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.

  7. O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
  8. Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
    Io cerco il tuo volto, o Signore.
  9. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
  10. Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
  11. O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
  12. Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
  13. Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
  14. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!

Marcello Cicchese
dicembre 2007

Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015



Cosa è andato storto tra Israele e Trump?

Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner analizza la rottura tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu: aspettative deluse, falliti negoziati per il rilascio degli ostaggi e crescente influenza delle forze isolazioniste a Washington.

di Itamar Eichner

GERUSALEMME - All'inizio tutto andava per il meglio. Le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump hanno entusiasmato la destra israeliana. Ha promesso di aprire le “porte dell'inferno” su Hamas, ha annunciato di voler combattere l'antisemitismo nelle università e ha dichiarato che l'unica soluzione per Gaza era quella di trasferire tutti i gazawi in un paese terzo e trasformare la zona in un paradiso immobiliare.
Ma lentamente le cose sono cambiate. La domanda sorge spontanea: perché?
La risposta è complessa. Innanzitutto va detto che Trump non ama i perdenti. In Benjamin Netanyahu ha visto proprio questo: un perdente. Preferiva invece il principe ereditario Mohammed bin Salman dell'Arabia Saudita. A Netanyahu preferiva anche l'emiro del Qatar  che gli ha persino regalato un aereo per la sua Air Force One.
Trump ha una visione: estendere gli accordi di Abraham, raggiungere una normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, concludere un accordo nucleare con l'Iran, porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina e vincere il Premio Nobel per la Pace. Ma Putin e Zelenskyj lo hanno lasciato a bocca asciutta. E in Medio Oriente è stato Netanyahu a deluderlo, con la sua ostinazione a continuare la guerra a Gaza e a non parlare del “giorno dopo”. Questo ha allontanato i sauditi da una normalizzazione. Non possono tendere la mano a Israele finché la guerra continua, e certamente non finché Netanyahu non accetta una formula per un futuro Stato palestinese.
Trump ha capito che se avesse aspettato Netanyahu, tutti i suoi piani sarebbero rimasti nel cassetto. Questo non gli va bene. Così ha deciso di lasciare Netanyahu alle spalle. Nel suo entourage si dice che Israele reagisce troppo lentamente e dice no a tutto. La metafora è chiara: un treno sta lasciando la stazione. Se Israele vuole salire, può farlo più tardi. Ma non si aspetterà.
Dietro le quinte, nel campo di Trump infuria una lotta di potere per chi ha maggiore influenza sulla politica mediorientale. Da una parte ci sono i classici repubblicani filoisraeliani: il consigliere per la sicurezza Robert O'Brien, il segretario di Stato Marco Rubio e l'ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee, fervente sostenitore degli insediamenti. E poi ci sono gli isolazionisti: il vicepresidente JD Vance, che ha annullato la sua visita in Israele quando è diventato chiaro che Israele voleva estendere i combattimenti a Gaza e che lui avrebbe potuto essere strumentalizzato. E Steve Witkoff, l'inviato speciale personale di Trump, forse la persona più vicina al presidente.
Witkoff è un personaggio particolare. Chi ha parlato con lui riferisce che considera la sua missione di liberare gli ostaggi quasi un compito mistico. La morte di suo figlio lo ha legato profondamente alle famiglie degli ostaggi. Ha promesso loro di fare tutto il possibile per riportare a casa i loro figli. E in effetti, con l'aiuto di un uomo d'affari americano di origini arabe come mediatore, è riuscito a ottenere il rilascio del soldato americano-israeliano Edan Alexander dalla prigionia di Hamas.
Witkoff credeva che questo avrebbe spianato la strada a un accordo più ampio. Ma si è scontrato con un muro insormontabile: Hamas ha chiesto agli Stati Uniti garanzie chiare per la fine della guerra. Netanyahu si è rifiutato. Hamas ha capito che la tattica di Netanyahu è quella di ridurre il numero degli ostaggi senza porre fine alla guerra. Un fidato collaboratore di Netanyahu ha ammesso che in Israele è opinione comune che l'ultimo ostaggio potrà essere liberato solo con un'operazione militare, non con un accordo. Dal punto di vista di Hamas, infatti, gli ostaggi sono la loro ultima assicurazione sulla vita. Non li avrebbero liberati senza garanzie da parte degli Stati Uniti sulla fine della guerra. Hanno persino chiesto che Witkoff firmasse l'accordo. Volevano una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Israele ha rifiutato.
I rappresentanti del governo statunitense hanno accusato Israele di aver fatto fallire i negoziati rifiutando un accordo globale. Israele respinge queste accuse e sottolinea di aver accettato un accordo, a condizione che Hamas deponga le armi, lasci Gaza e liberi tutti gli ostaggi.
Nel frattempo, la delegazione israeliana è stata richiamata da Doha. I colloqui sono sospesi e Israele intensifica la guerra a Gaza. Ma la domanda rimane: ha senso che alla fine muoiano più soldati che ostaggi liberati?
In Israele si guarda ora con preoccupazione ai negoziati tra Stati Uniti e Iran. Negli ultimi giorni Trump sembra aver inasprito la sua posizione, rifiutando di concedere all'Iran la possibilità di arricchire l'uranio in modo indipendente. Teheran, dal canto suo, ha dichiarato che ciò è inaccettabile.
Rimane la domanda: Trump manterrà la sua minaccia di bombardare gli impianti nucleari iraniani se l'Iran non accetterà di smantellare il suo programma nucleare?
Secondo alcune fonti, Israele si starebbe preparando a un attacco militare contro l'Iran se non si raggiungesse un accordo. Forse gli Stati Uniti attaccheranno insieme a Israele. Ma forse alla fine Washington raggiungerà un accordo e Israele lo rifiuterà. Netanyahu sarà allora disposto ad attaccare l'Iran contro la volontà di Trump? I dubbi sono leciti.
Sembra che oggi le forze isolazioniste nel campo di Trump abbiano più influenza dei tradizionali amici di Israele. E non bisogna dimenticare che Trump persegue una politica estera orientata all'economia, che dovrebbe portare successi economici alla sua famiglia e agli Stati Uniti.

(Israel Heute, 23 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Tesori ellenistici a Gerusalemme: ritrovato un anello d’oro risalente a 2.300 anni fa

di Nicole Nahum

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Nel cuore dell’antica Gerusalemme, una scoperta straordinaria ci riporta indietro di oltre 2.000 anni. Durante recenti scavi nella Città di David, all’interno del Parco Nazionale delle Mura di Gerusalemme, è emerso un anello d’oro con una gemma rossa. Si tratta del secondo ritrovamento di questo genere in meno di un anno, un evento che sta illuminando i frammenti di vita risalenti all’epoca ellenistica nella città santa.
  La scoperta è avvenuta durante scavi archeologici condotti dalla Israel Antiquities Authority (IAA) in collaborazione con l’Università di Tel Aviv e il sostegno dell’Associazione Elad. Il gioiello è stato rinvenuto insieme ad altri oggetti di grande valore – orecchini in bronzo e oro e una perla decorata – nascosti sotto le fondamenta di un grande edificio. Gli archeologi ritengono che questi tesori non siano stati persi o abbandonati, ma sepolti intenzionalmente.
  Secondo la dottoressa Marion Zindel e l’archeologo Yiftah Shalev, la posizione degli oggetti sotto il pavimento dell’edificio suggerisce una pratica rituale ben precisa. In epoca ellenistica, infatti, era diffusa l’usanza per cui le giovani promesse spose seppellivano oggetti d’infanzia e gioielli nelle fondamenta delle nuove case, come simbolo del passaggio all’età adulta, riflettendo nel rito la speranza di un futuro prospero.
  “È la prima volta che troviamo a Gerusalemme un insieme così ampio di gioielli in oro di questo periodo,” ha dichiarato Efrat Bocher del Centro di Ricerca su Antica Gerusalemme. “Una tale manifestazione di ricchezza è molto rara”. Gli ornamenti riflettono il gusto estetico dell’epoca, in cui l’oro veniva impreziosito da pietre colorate come la granata. Lo stile mostra chiaramente l’influenza delle culture orientali, in particolare indiana e persiana, grazie all’apertura dei canali commerciali seguita alle conquiste di Alessandro Magno.
  Rivka Lengler, presente al momento del ritrovamento, ha raccontato come l’esperienza l’abbia resa parte della sua stessa storia, spiegando come abbia avuto la sensazione di poter toccare e connettersi con le persone che vivevano la terra migliaia di anni fa.
  Anche Eli Escusido, direttore della IAA, ha sottolineato il valore simbolico della scoperta: “La ‘Gerusalemme d’oro’ non è solo una canzone, ma un fatto storico sotto i nostri piedi. La scoperta degli anelli d’oro è una prova tangibile della ricchezza, della bellezza e dell’importanza di Gerusalemme anche migliaia di anni fa”.
  Questo secondo anello ritrovato in meno di un anno conferma, quindi, l’importanza di Gerusalemme come crocevia culturale e centro prospero anche in epoca ellenistica. Ogni oggetto ritrovato permette di ampliare la nostra conoscenza storica e ricuce un legame intimo con le persone che hanno vissuto, amato e sperato in questa città millenaria. E sotto ogni pietra, forse, si cela ancora una storia pronta a essere raccontata.

(Shalom, 23 maggio 2025)

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Un tentativo terrificante di rendere cool l’antisemitismo”

Il database CyberWell condanna il nuovo brano di Ye, “Heil Hitler”

di Pietro Baragiola

«La nuova canzone Heil Hitler di Ye (il rapper noto anche come Kanye West) rappresenta un ultimo terrificante tentativo di ‘rendere cool il razzismo’». Lo ha detto, martedì 13 maggio. Tal-Or Cohen Montemayor, fondatrice e direttrice esecutiva di CyberWell, l’organizzazione no profit che funge da primo database mondiale per la lotta all’antisemitismo online.
Il video musicale del brano, pubblicato in rete l’8 maggio in occasione dell’80° anniversario della sconfitta della Germania nazista, include persino un frammento audio di un discorso di Adolf Hitler ed oggi ha superato le 10 milioni di visualizzazioni su X.
“Ye ha sfruttato la carica algoritmica e l’ampia portata delle piattaforme di social media per normalizzare e diffondere l’odio verso gli ebrei attraverso la cultura pop, raggiungendo milioni di persone” ha affermato Montemayor sul sito di notizie Algemeiner. “È necessaria una risposta decisa da parte delle diverse piattaforme di streaming per risolvere una volta per tutte il problema dell’antisemitismo digitale”.
Da quando Elon Musk ha acquistato Twitter nel 2022, ribattezzandolo X, si è posizionato come ‘paladino della libertà di espressione’, liberalizzando così l’uso di discorsi volti all’incitamento dell’odio e alla diffusione di disinformazione sulla sua piattaforma.
Il comportamento decisamente antisemita di Ye ha spinto molti personaggi pubblici come l’attore David Schwimmer e organizzazioni come la Campaign Against Antisemitism e la StopAntisemitism a criticare apertamente X per non aver ancora estromesso definitivamente il rapper.
Ye ha il doppio dei follower su X rispetto a tutti gli ebrei sulla terra messi insieme” ha affermato un portavoce di StopAntisemitism ad Algemeiner. “La sua ossessione per noi non è solo folle ma pericolosa. Deve essere rimosso dalla piattaforma prima che la sua retorica violenta si trasformi in azioni dello stesso tipo”.

L’antisemitismo di Ye
   47 anni, 24 Grammy e 37 milioni di follower, Ye era uno dei musicisti più popolari e influenti al mondo prima di abbracciare pubblicamente le idee filonaziste. Da allora ha perso il sostegno dell’industria musicale e, secondo quanto afferma, la custodia dei figli dall’ex moglie Kim Kardashian, continuando a diffondere antisemitismo nonostante le occasionali promesse di smettere.
A febbraio il suo account su X è stato disattivato dopo aver inondato il social con sfoghi antisemiti in cui egli stesso si definiva ‘nazista’.
In questa occasione il sito web del suo celebre marchio di sneakers, Yeezy, è stato chiuso da Shopify per ‘violazione dei termini’ dopo aver scoperto che il rapper aveva messo in vendita diverse magliette bianche con la svastica per le quali aveva persino acquistato spazi pubblicitari durante il Super Bowl.
Già nel 2022 Ye era stato bannato per quasi otto mesi da X per aver violato le regole che vietano l’incitamento alla violenza sulla piattaforma.
In seguito a questo comportamento ha perso una serie di partnership con marchi e opportunità professionali, in particolare con il gruppo Adidas con cui aveva un accordo da 2 miliardi di dollari all’anno.
La fine di questa partnership decennale è costata molto ad Adidas che però, sotto la guida di Bjorn Gulden, ha deciso di vendere le scorte di Yeezy e donare il ricavato a gruppi che lottano contro l’odio e la discriminazione: 200 milioni all’Adidas Foundation e i restanti 50 ad associazioni come l’Anti-Defamation League e la Foundation to Combat Antisemitism sostenuta da Robert Kraft.
Queste reazioni ai suoi commenti non hanno impressionato Ye che negli ultimi mesi aveva già preannunciato l’uscita del brano Heil Hitler affermando: “normalizzerò il parlare di Hitler. Era davvero un umano innovativo”.
Il nuovo video musicale ha come protagonisti decine di uomini di colore, vestiti con pelli di animali e maschere, che cantano il titolo della canzone mentre West rappa sul fatto di sentirsi incompreso e sulla sua battaglia per la custodia dei figli contro l’ex moglie.
“Amico, queste persone mi hanno portato via i miei figli, poi mi hanno congelato il conto in banca” canta Ye. “Ho tanta rabbia dentro di me, non ho modo di sfogarla. Penso di essere bloccato nel Matrix. Così sono diventato un nazista. Sì, stronza, sono io il cattivo. All my niggas Nazis, nigga, heil Hitler”.
Il brano si conclude con un lungo estratto di un discorso di Hitler del 1935 che Ye ha anche ripostato sul suo account X: “che pensiate che il mio lavoro sia giusto, che crediate che io sia stato diligente. Che io abbia lavorato, che io abbia lottato per voi in questi anni, che io abbia usato il mio tempo in modo dignitoso al servizio del mio popolo. Ora votate, se sì, allora difendetemi come io ho difeso voi”.
Secondo quanto anticipato dal team di Ye la canzone Heil Hitler sarà inclusa nel suo prossimo album Cuck insieme ad altri brani controversi come Gas Chambers, WW3 e Hitler Ye and Jesus.
Questo album è un esempio palese di antisemitismo ed è disgustoso” ha dichiarato il CEO dell’American Jewish Committee Ted Deutch in un comunicato rilasciato in questi giorni. “Ye sta approfittando dell’odio verso gli ebrei e l’industria musicale deve farsi sentire per condannare questa oscenità”.
Nonostante molti pareri contrari, diversi personaggi pubblici hanno sostenuto il nuovo brano di Ye, tra cui il podcaster Joe Rogan che lo ha definito ‘piuttosto orecchiabile’, il comico e attore Russel Brand che ne ha elogiato il ‘buon ritornello’ e il suprematista bianco e negazionista dell’Olocausto Nick Fuentes, che è apparso in più occasioni affianco a Ye mentre indossa una collana con svastica tempestata di diamanti.
Fuentes ha anche utilizzato il proprio profilo X per complimentarsi con il rapper per il nuovo brano, affermandosi entusiasta: “immaginate 50.000 persone in uno stadio in piedi che cantano ogni parola”. Una visione che CyberWell si augura di non veder mai diventare realtà.

L’attività di CyberWell
   Il database di CyberWell ogni giorno collabora con le principali piattaforme di social media per identificare e rimuovere i contenuti di natura antisemita.
I suoi programmi basati sull’intelligenza artificiale scansionano i social in inglese e arabo alla ricerca di post che promuovono la negazione dell’Olocausto e l’odio o la violenza contro gli ebrei. Una volta trovati questi contenuti, gli analisti li segnalano ai moderatori delle piattaforme su cui vengono individuati.
Sulla base di queste segnalazioni, Spotify e SoundCloud hanno rimosso il brano di Ye dai loro siti ma versioni alternative e modificate sono state condivise dai fan e possono essere tutt’ora presenti.
Lo stesso vale anche per YouTube e Apple Music, dove un fan di Ye ha ripostato la canzone con il titolo HH ma, dopo giorni di ricerca, è stata finalmente rimossa.
“Abbiamo rimosso il contenuto e continueremo a cancellare i re–upload” ha dichiarato un portavoce di YouTube a NBC News.
Su Reddit, invece, diverse versioni della canzone sono state condivise in subreddit dedicati a Ye e ad altri rapper.
Un portavoce del sito ha informato NBC News che Reddit sta lavorando attivamente per rimuovere tutti i contenuti e i post che riguardano il nuovo brano: “l’odio e l’antisemitismo non hanno assolutamente posto su Reddit. Abbiamo regole severe contro i contenuti che incitano all’odio. In linea con queste stiamo rimuovendo la canzone e qualsiasi celebrazione del suo messaggio”.
Anche se YouTube, Reddit e TikTok hanno compiuto tentativi rapidi e chiari per demonetizzare gli account di Ye e rimuovere la canzone su larga scala, altre piattaforme come Facebook, Instagram e X non sono riuscite a fare granché per moderare questi contenuti.
Montemayor ha condannato apertamente queste piattaforme per la loro esitazione nel rimuovere il brano nonostante violi chiaramente le loro politiche sulla negazione e distorsione dell’Olocausto: “la risposta, o la mancanza di risposta, da parte di alcune piattaforme a questo ultimo attacco di odio è una prova del nove per capire quanto prendano sul serio la questione dell’antisemitismo e della sicurezza delle piattaforme.”
Concludendo la sua dichiarazione, la fondatrice di CyberWell ha promesso il suo impegno nel continuare ad assistere tutte le piattaforme streaming nell’ottimizzare la loro risposta al video di Ye, fornendo una guida chiara sulle moderne manifestazioni dell’antisemitismo e come comportarsi per debellarlo dal mondo digitale.

(Bet Magazine Mosaico, 23 maggio 2025)

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Il conformismo e l’uomo massa ovvero delle loro declinazioni lessicali

di Gustavo Micheletti

Esiste forse una parola della lingua italiana che, più di altre, condensa la tendenza umana ad aderire acriticamente all’opinione prevalente, e questa parola è «conformismo». Tuttavia, per quanto sia efficace, da sola non riesce a restituire la varietà di sfumature morali, psicologiche e culturali che connotano tale atteggiamento. In certi contesti, infatti, il conformismo si fa «gregarismo», ovvero sottomissione cieca al gruppo, alla massa.
  Elias Canetti, nella sua opera Massa e potere, spiega bene come l’individuo, annullato nella folla, possa perdere ogni senso critico assumendo un’identità collettiva capace di ogni eccesso gregario. Altre volte, tende invece a incarnare le vesti più vischiose della piaggeria, come quando l’adesione non è solo passiva, ma compiacente, calcolata, volta a ottenere consenso o a evitare il rischio dell’esclusione. Non meno diffusa è l’«acquiescenza», che non ha bisogno di motivazioni ideologiche: essa si limita ad accettare, ad arrendersi al clima culturale dominante, per stanchezza, tornaconto, viltà o semplice desiderio di quieto vivere.
  Queste declinazioni del conformismo trovano un potente riflesso filosofico in ciò che Hannah Arendt definisce come la «banalità del male». Durante il processo ad Adolf Eichmann, osservando l’imputato, la Arendt non scorgeva in lui un mostro, ma un uomo mediocre, ordinario, incapace di pensiero autonomo. Era un burocrate diligente che aveva eseguito ordini con scrupolo, senza interrogarsi sulle conseguenze etiche delle sue azioni.
  Il “male” infatti non si manifesta solo in figure diaboliche o scellerate, ma soprattutto in uomini comuni che smettono di pensare, di riflettere, e che non riescono a giudicare senza incasellare in formule riduttive, indifferenti o sprezzanti verso quanto non è espressione dello spirito del tempo o del proprio habitat sociale. In questo senso, la «banalità del male» è la forma estrema del conformismo: quella in cui l’individuo delega completamente la propria responsabilità morale alla struttura, all’ideologia, al contesto ideologico e culturale.
  Pier Paolo Pasolini, in vari suoi Scritti corsari e nelle sue Lettere luterane, ha denunciato con grande coraggio intellettuale un nuovo tipo di conformismo: non quello clericale e conservatore, ma quello consumistico e progressista, che travolge ogni resistenza critica in virtù del desiderio di appartenere, di essere accettati da una maggioranza che asseconda dei paradigmi introiettati in genere in maniera piuttosto acritica. È un conformismo più insidioso, perché si traveste da libertà e da modernità. Anche Pasolini, come la Arendt, ha intuito che il “male” può assumere tratti normali, quotidiani, socialmente gratificanti.
  Quando le proprie posizioni su temi politici e sociali non sono più oggetto di una scelta razionale e quando non scaturiscono da un confronto argomentato, ma sono semplicemente effetto di imitazione, ogni deviazione dal politicamente corretto può diventare sospetta e perfino sovversiva.
  La società, in questi casi, premia chi si confonde nel paesaggio delle mode culturali e ideologiche. Il «collaborazionismo» rappresenta forse, in tali circostanze, la forma più attiva e strategica di questa adesione: non più solo passiva sottomissione, ma partecipazione interessata, calcolo, alleanza con chi sa lusingare le masse anche a costo di calpestare la verità o la giustizia.
  In tutti questi casi, ciò cui si rinuncia è l’autonomia del pensiero, che per quanto non esista in forma assoluta può sussistere in misura significativamente diversa e che dovrebbe invece essere sollecitata ed esercitata per non divenire una virtù intellettuale astratta e fittizia, oltre che improbabile e sempre più remota.
  Come ricordava Simone Weil, il primo atto di libertà è il silenzio interiore, il tempo per riflettere, e oggi quel tempo sembra ormai frammentato, anche grazie alla diffusione di internet e dei social networks, in mille schegge incapaci di coordinarsi in modo razionale, in mille frasi fatte e stereotipati pregiudizi. Inoltre, nel frastuono collettivo, quel silenzio è spesso temuto o ridicolizzato.
  La cultura politica contemporanea, pur celebrando per altri versi l’individuo, spinge in realtà verso forme di «omologazione» sempre più sofisticate. E così il “male” non appare più come l’eccezione, ma come la norma che può dormire sonni tranquilli nella falsa coscienza collettiva, camuffato spesso da nobili ideali, o da buonsenso, o dal “così fan tutti”.
  Riconoscere questo meccanismo è oggi un esercizio essenziale di consapevolezza. Non per ergersi a giudici degli altri, ma per non cedere noi stessi alla tentazione rassicurante dei buoni propositi rassicuranti, soprattutto quando essi corrono in realtà il rischio di rivelarsi cinici o ciechi riguardo ai modi in cui potrebbero realizzarsi. In un simile contesto, e cioè in tempi di menzogna universale, come suggeriva George Orwell, dire la verità è già un atto rivoluzionario.
  A completamento di questo quadro, meritano di essere richiamate anche le riflessioni di José Ortega y Gasset e Gustave Le Bon, due pensatori che hanno scandagliato con rigore la psicologia delle masse. Gustave Le Bon, nella Psicologia delle folle, osserva come l’individuo, una volta immerso nella massa, perda il senso di sé, si lasci trascinare dall’inconscio collettivo e venga privato dell’autocontrollo.
  Ne nasce una folla dominata dall’irrazionalità, dal contagio emotivo, dalla suggestionabilità e dall’intolleranza. La massa diventa facilmente orientabile da fattori esterni, specie dal prestigio di chi riesce a imporsi come figura carismatica, e la concreta possibilità di derive populiste e demagogiche di ogni tipo è allora in agguato dietro l’angolo.
  Ortega y Gasset, facendo riferimento anche al saggio di Le Bon, ne La ribellione delle masse introduce il concetto di «uomo-massa», un individuo che, pur appartenendo a qualsiasi classe sociale, si caratterizza per la mancanza di disciplina interiore e per l’incapacità di affrontare responsabilmente le sfide della vita. Secondo Ortega, l’uomo-massa si sente pieno di diritti ma privo di doveri, un aspetto questo sottolineato in un altro contesto teorico anche da Simone Weil, e tende a imporre la propria mediocrità come norma, soffocando le minoranze eccellenti che sono invece le portatrici della cultura e del progresso. È un atteggiamento spirituale e culturale che minaccia la qualità della vita pubblica e più in generale qualsiasi forma di reale condivisione dei valori democratici.
  Sia Le Bon sia Ortega denunciano l’impoverimento dell’individuo di fronte alla potenza livellante della folla e dell’opinione dominante anticipando, seppur in forme diverse, quel vuoto malleabile della coscienza che Hannah Arendt avrebbe poi descritto come la radice della banalità del male.
  Anche nelle loro opere, come in quella della Arendt, torna infatti il nodo decisivo: la diffusa perdita di capacità critiche tende a produrre anche la rinuncia alla responsabilità personale e l’abdicazione all’esercizio di quella che Jurgen Habermas chiama «ragione comunicativa», esercizio che è invece assolutamente necessario implementare se si vuole evitare la subordinazione d’interi popoli alle varie forme di autoritarismo che oggi minacciano la loro propensione a convivere da cittadini liberi, in modo autenticamente democratico e civile.
  In nome di un imprecisato senso di appartenenza – che è tanto più pericoloso in quanto risulta di per sé efficace e gratificante, dato che costituisce la conseguenza implacabile di quell’essenziale spirito gregario sui cui effetti deleteri Nietzsche ci aveva avvertito con largo anticipo – proprio mentre la «ragione comunicativa» viene vieppiù dismessa si assiste a l’iperbolico sviluppo di quella che, sempre Habermas, chiama «ragione strumentale», e se l’implementazione di quest’ultima non costituisce di per sé un fatto negativo, la susseguente perniciosa illusione che possa garantire comunque all’umanità sorti sempre più «magnifiche e progressive» potrebbe contribuire all’abbandono di ogni residuale capacità critica e rivelarsi un fatale errore di prospettiva.

(InOltre, 23 maggio 2025)

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Antisemitismo, l’incendio si propaga. Il seme dell’odio aspetta già le prossime vittime

di Claudio Velardi

Che cosa vi aspettavate, razza di pelosi ipocriti che non siete altro, allevati e pasciuti nei media, nella cultura e nella politica d’Italia e dell’Occidente? Che non ci fosse qualcuno pronto a raccogliere il testimone degli insulti, delle minacce, degli incitamenti alla violenza antisionista e antisemita e passare all’azione per sparare e uccidere? A Washington è accaduto semplicemente quello che doveva accadere, perché quando si semina odio si raccoglie tempesta. E poco importa se a uccidere due ragazzi ebrei che stavano per recarsi a Gerusalemme la prossima settimana a dichiararsi il loro amore, sia stato un «pazzo» – come vi piace dire in queste ore per mettere a tacere la vostra coscienza, se ancora ne possedete una – oppure il terminale organizzato di una catena terroristica.

Il clima d’odio mai così visibile
  Quello che è certo è che il velenoso fiume carsico di giudeofobia, che scorre nel sangue malato dell’umanità da duemila anni, non è mai stato così visibile, diffuso e pervasivo come negli ultimi mesi. Una realtà che va oltre le statistiche. Un clima di odio e di paura che coinvolge la quotidianità di milioni di persone, lambisce le istituzioni e interroga la nostra coscienza collettiva. Nel 2024, nella sola Italia, sono stati censiti 877 episodi di antisemitismo, quasi il doppio rispetto al 2023. Di questi, 600 sono cresciuti nelle fogne dell’online, veicolati da hashtag e slogan che glorificano il terrorismo e demonizzano Israele e il popolo ebraico. Mentre i 277 episodi «materiali» vanno dalle aggressioni fisiche (da 32 a 68 in un anno), alle scritte e ai simboli nazisti su edifici e cimiteri, alle minacce dirette a studenti, docenti e membri delle comunità ebraiche, a boicottaggi e discriminazioni nei luoghi pubblici e nelle università. Il 94% degli ebrei italiani dichiara di aver subito almeno un episodio di antisemitismo nell’ultimo anno. In alcune città, studenti ebrei e israeliani hanno dovuto nascondere la propria identità o cambiare scuola per paura di ritorsioni. La distribuzione dei periodici delle comunità ebraiche avviene in modo clandestino, per evitare reazioni ostili.

L’esplosione nelle manifestazioni pubbliche
  L’antisemitismo è esploso poi nelle manifestazioni pubbliche, dove la critica (legittima) alla politica israeliana si trasforma in odio antiebraico alimentato da gruppi estremisti, dal falso storico che equipara il «sionismo» al razzismo o al colonialismo, e da guitti politici alla Conte che soffiano sul fuoco per un voto in più da recuperare nella melma. Nel mondo, dopo il 7 ottobre 2023, l’escalation globale dell’antisemitismo ha riguardato – dicono i tanti dossier – la Francia, la Germania, il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, l’Argentina, la Svizzera, la Spagna, con aggressioni fisiche, vandalismi a sinagoghe e cimiteri, minacce, discriminazioni, boicottaggi, oltre alla solita valanga di odio online. In Svizzera, i casi sono aumentati del 42,5% nel 2024 rispetto all’anno precedente; in Francia, gli episodi sono più che quadruplicati; in Germania, tra ottobre 2023 e gennaio 2024, si sono registrati quasi tanti episodi quanti in tutto il 2022. Negli Stati Uniti, nei campus universitari si moltiplicano le intimidazioni, e le minacce contro studenti ebrei sono all’ordine del giorno. Perché il salto di qualità dell’antisemitismo dei nostri tempi è che non occupa più soltanto i margini della società, ma si è infiltrato nei rami alti, dalle Università alle scuole, ai social network, ai media, ai luoghi di lavoro, per sfociare nei salotti buoni in cui è obbligatorio pronunciare la frase chiave: «Io antisemita? Nemmeno per idea, starei con Israele però stanno esagerando, però Netanyahu…». Le stesse cose che sentivo dire da ragazzo, quando gli odiati erano Golda Meir, e poi via via i Begin, i Barak e gli Sharon: tutti urticanti e fastidiosi solo perché combattevano per la sopravvivenza di Israele.

Aspettando le prossime vittime
  Ora la guerra di Gaza ha fatto riemergere le radici profondissime di un odio che si alimenta delle più nefaste teorie cospirazioniste e negazioniste e di quella retorica della «colpa collettiva» che è la più atroce delegittimazione dell’identità ebraica. Per questo non ci stupisce affatto l’episodio di Washington, «ordinaria» messa in pratica di subculture primitive. E, mentre aspettiamo le prossime vittime e le prossime giaculatorie delle anime belle, non possiamo fare altro che continuare la nostra piccola battaglia quotidiana in difesa di quegli elementari e basilari principi di civilizzazione che portano scritti a caratteri cubitali la parola «Israele».

(Il Riformista, 23 maggio 2025)

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Attentato antisemita a Washington: uccisi due diplomatici israeliani

di Luca Spizzichino

Due giovani funzionari dell’Ambasciata di Israele negli Stati Uniti sono stati assassinati mercoledì sera nei pressi del Capital Jewish Museum, nel cuore di Washington DC. L’attentato è avvenuto al termine di un evento organizzato dall’American Jewish Committee (AJC), come ha confermato il CEO Ted Deutch in una nota. “Una serata di diplomazia e dialogo si è trasformata in un incubo. Questo è un attacco all’intera nostra comunità. Piangiamo due amici e partner preziosi” ha dichiarato Deutch, che ha aggiunto: “Siamo sconvolti dalla brutale uccisione di due giovani impegnati nella costruzione di ponti tra Israele e il mondo. L’odio antisemita non può trovare spazio in una società libera. La memoria di Sarah e Yaron sarà per sempre un simbolo di impegno, pace e speranza”.
  Le vittime sono Yaron Lischinsky, 28 anni, e Sarah Milgrim, funzionari della missione diplomatica israeliana. Entrambi erano presenti alla serata in rappresentanza dell’ambasciata. I due, che, secondo l’ambasciatore israeliano Yehiel Leiter stavano  per fidanzarsi, sono stati raggiunti da colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata mentre lasciavano l’edificio. Sarah Milgrim lavorava nel dipartimento per la diplomazia pubblica. Aveva conseguito due lauree magistrali in studi internazionali e sviluppo sostenibile. Il suo impegno nella promozione del dialogo interreligioso e nella cooperazione ambientale era al centro della sua attività professionale. Yaron Lischinsky, invece, lavorava nel dipartimento politico dell’ambasciata. Laureato in Relazioni Internazionali e specializzato in Diplomazia e Strategia, era un convinto sostenitore degli Accordi di Abramo e dell’importanza del dialogo interculturale nel Medio Oriente.
  Il Capo della Polizia Metropolitana di Washington, Pamela Smith, ha definito l’attacco “un crimine d’odio alimentato da antisemitismo”. Ha aggiunto che le autorità federali stanno collaborando per chiarire ogni aspetto dell’attentato. Il responsabile dell’attacco è stato identificato come Elias Rodriguez, 30 anni, residente a Chicago. Secondo la polizia, l’uomo ha aperto il fuoco contro un gruppo di partecipanti all’evento, gridando slogan antisemiti e filopalestinesi. Dopo aver sparato, è entrato nel museo dove è stato fermato dalla sicurezza e ha ammesso la propria responsabilità gridando “Free Palestine”. Rodriguez, secondo fonti investigative, era legato a un gruppo estremista di estrema sinistra con posizioni radicali contro Israele. In passato aveva partecipato a proteste organizzate dalla Party for Socialism and Liberation, una formazione marxista-leninista. Proprio il giorno dell’attentato, il gruppo aveva pubblicato online una petizione per boicottare Israele, parlando di “genocidio contro i palestinesi”.
  L’attacco ha immediatamente suscitato la condanna unanime delle istituzioni americane e israeliane. Il presidente Donald Trump ha definito l’episodio “un orrore assoluto”, affermando che “queste uccisioni basate sull’antisemitismo devono finire adesso”. Anche la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, spesso critica verso le politiche israeliane, ha condannato con fermezza l’attacco: “Assolutamente nulla giustifica l’omicidio di innocenti. L’antisemitismo è una minaccia per tutta la nostra società. Deve essere affrontato e sradicato ovunque.”
  Il Presidente israeliano Isaac Herzog ha espresso “profondo cordoglio” alle famiglie, ricordando che “Israele e Stati Uniti resteranno uniti contro l’odio e il terrorismo”. Danny Danon, ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, ha definito la sparatoria un “atto depravato di terrorismo antisemita”. “Fare del male alla comunità ebraica significa oltrepassare una linea rossa. Siamo fiduciosi che le autorità statunitensi intraprenderanno azioni forti contro il responsabile di questo atto criminale. Israele continuerà ad agire con determinazione per proteggere i propri cittadini e rappresentanti, ovunque nel mondo”, ha aggiunto. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso profondo shock per l’attentato antisemita, che è frutto della “selvaggia istigazione” contro Israele e ha ordinato un rafforzamento della sicurezza nelle missioni diplomatiche del Paese in tutto il mondo.

(Shalom, 22 maggio 2025)
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L’onda di odio che fomenta gli assassini

I mandanti morali della loro uccisione, coloro che armano le mani di esaltati, psicotici, uomini ordinari intenti a un giorno o a una notte di ordinaria follia, sono coloro che da mesi e mesi, continuano a ripetere che Israele è uno Stato genocida, che affama i bambini, che ama uccidere i bambini, che con deliberata e sadica efferatezza gli spara in testa a bruciapelo come scrive in un suo libro, chiamiamolo libro, la giornalista glamour Rula Jebreal, che li uccide per hobby come ha detto Yair Golan, ex ufficiale di alto rango dell’IDF, ora politico di quarta fila in una formazione di estrema sinistra, per poi, dopo la profonda indignazione suscitata in Israele dalle sue parole, arrampicarsi penosamente sugli specchi affermando che no, lui non voleva dire che l’esercito israeliano uccide i bambini per sport, ma voleva attaccare il governo in carica.
  Qui in Italia, abbiamo solo da scegliere tra chi ogni giorno provvede a sostenere la narrativa di un Paese mostruoso che affama e uccide i bambini (quelli che sono stati uccisi con vero sadico diletto da i jihadisti di Hamas, tra cui il piccolo Bibas, strangolato a mani nude).
  Tra di loro, Alessandro Orsini, che è stato denunciato dalla Comunità ebraica di Roma per istigazione all’odio razziale per i suoi deliranti post contro Israele.
  Qualcuno poi, convinto effettivamente che gli israeliani uccidono i bambini per diletto, che siano demoni, prende in mano un fucile o una pistola, e spara contro i “demoni”. I demoni ebrei. E su questa falsariga appare tra le abituali sconcezze pubblicate ogni giorno sui social, un post a firma di dejalanuit ovvero, Giuseppe Flavio Pagano responsabile comunicazione della biblioteca delle oblate di Firenze, in cui Fiamma Nirenstein viene paragonata a un demone e insultata in quanto “verme nazista”.
  Il copione è sempre quello. Prima si deumanizza con le parole, poi dopo, l’ebreo ridotto a scarto o mostro, si provvede a eliminarlo, come è successo a Washington.
  Se l’obiettivo della guerra contro Hamas, iniziata da Israele a seguito dell’eccidio da esso perpetrato il 7 ottobre 2023, era di sconfiggere il nemico, come è di prassi l’obiettivo di ogni guerra, dopo diciassette mesi non è stato raggiunto. È inutile consolarsi sottolineando che Hamas è stato fortemente depotenziato, che i suoi principali leader sono stati uccisi, che la sua struttura militare operativa è stata ridotta notevolmente, che non è più in grado di lanciare migliaia di razzi  su Israele, che non governa più tutta la Striscia ma solo parte di essa. Hamas è ancora in piedi e ancora in grado di combattere nonostante le vaste perdite e la ingente diminuzione della sua capacità aggressiva. La vittoria, dunque non può essere ancora proclamata.
  Se l’altro obiettivo della guerra era la liberazione dei 251 ostaggi detenuti da Hamas, nonostante la maggioranza di essi sia stata liberata, senza contare quelli uccisi, nella Striscia ne permangono su 58, ancora 21 vivi. Anche questo obiettivo non è stato raggiunto totalmente.
  Allo stesso tempo, a Gaza, ridotta in buona parte ad un ammasso di macerie, la popolazione si trova a doversi confrontarsi con le inevitabili condizioni drammatiche della guerra. Dopo avere provveduto con regolarità ad inviare centinaia di camion contenenti viveri, per due mesi Israele aveva deciso di sospenderli a causa del loro saccheggio sistematico da parte di Hamas. Questa decisione ha inevitabilmente provocato l’accusa che si esso volesse affamare la popolazione attraverso una carestia programmata. Niente di più falso, ma è un’altra delle accuse che si assommano a quelle già lanciate e che si raggruppano tutte sotto il cappello dell’accusa principale, di volere genocidiare gli abitanti della Striscia.
  Ieri il ministro degli Esteri della Gran Bretagna, David Lammy, ha lanciato contro Israele una durissima requisitoria, che segue le aspre critiche della Francia e le dichiarazioni dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea, Kaja Kallas di volere rivedere gli accordi di cooperazione commerciale tra la UE e Israele, se la situazione a Gaza non migliorerà. Da Washington, nonostante la Casa Bianca non abbia messo Israele sotto torchio come faceva quando il presidente era Joe Biden, sembra non spirare un vento del tutto favorevole. Trump, non è un mistero per nessuno, desidera che la guerra abbia termine e non ha disponibilità a trascinarla a oltranza.
  Sono molteplici e intersecate le ragioni che non hanno ancora permesso a Israele di vincere la guerra più lunga dalla sua fondazione ad oggi. Dalla presenza degli ostaggi che ha impedito un attacco massiccio volto alla conquista dell’enclave, dalla riluttanza del comando militare israeliano a porsi questo obiettivo, dalla difficoltà operativa incontrata su un terreno, dalle interferenze americane sotto l’Amministrazione Biden, volte a commissariare il conflitto imponendogli le proprie priorità, dai negoziati con Hamas, l’ultimo voluto da Trump, che hanno ulteriormente allungato i tempi, dal rifornimento continuo di viveri, mai visto in nessun altro teatro di guerra, che ha avvantaggiato Hamas. Tutto questo ha fatto sì che la guerra si trascinasse fino ad oggi. Ma è un trascinamento che non può durare ancora a lungo.
  Israele può scrollare le spalle di fronte al montare della pressione internazionale nei suoi confronti, dell’aumento esponenziale dell’odio e della propaganda atta a rappresentarlo come uno Stato criminale, ci ha fatto il callo, ma non può esimersi, arrivato a questo punto, dal chiudere una guerra che è durata troppo a lungo.
  La natura umorale e ondivaga di Trump è una ipoteca troppo grossa, e il momento in cui l’unico vero alleato che per Israele conta, gli Stati Uniti, inizino ad aggiungersi al coro di chi chiede la fine della guerra, potrebbe non essere lontano. Finirla senza avere sconfitto Hamas, sarebbe l’esito peggiore, anche se, nel frattempo, gli ultimi ostaggi avessero fatto ritorno a casa.

(L'informale, 22 maggio 2025)

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Gli israeliani sionisti non sono benvenuti qui

di Filippo Piperno

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Scritta in ebraico: "Gli israeliani sionisti non sono benvenuti qui"

Un cartello scritto in ebraico e appeso alla porta di una merceria nel pieno centro di Milano con una scritta in ebraico: “Gli israeliani sionisti non sono benvenuti qui”. Lo ha notato Roberto Della Rocca, membro della Camera di commercio israelo-italiana, che ha condiviso la foto sui suoi profili social.
  Acclariamo che la moda partita dalla pugnace trattora di Napoli, di selezionare la propria clientela in base a demeriti di nascita, si sta dunque diffondendo. Per il momento riguarda gli israeliani e da ultimo la fantomatica categoria degli israeliani “sionisti”.
  In attesa che colpisca anche i ciclisti e i bevitori di Sambuca, dobbiamo rimarcare che, tra le tante stupidaggini che si sono potute leggere su Israele, questa dell’israeliano “sionista” è una delle più stupide ma, in vero, denota tutto quell’indicibile che si nasconde dietro alla propaganda propal malamente rimasticata in occidente.
  Scimmiottare la propaganda dei nemici d’Israele e prendersela con il sionismo (“Entità sionista”, sionisti, sionismo sono termini usati da Hamas, dall’Iran e da altri potenziali distruttori d’Israele) testimonia una volta ancora la grande confusione (o l’ipocrisia?) che regna nel diffuso antisemitismo orecchiante che ha trovato nello sdoganamento della criminalizzazione d’Israele la sua tana libera tutti.
  Eppure non ci vuole molto a capire che il sionismo può dispiacere solo a chi ritiene una sciagura la nascita e l’esistenza dello Stato d’Israele, resi possibili proprio dal movimento sionista. E non dovrebbe essere complicato comprendere, conoscendo un po’ di storia, che il sionismo ha esaurito la propria missione il giorno stesso in cui Israele è nato.
  Per cui solo iscrivendosi tra i nemici giurati d’Israele dà il diritto a considerarlo come un’entità sionista da cancellare dal “fiume al mare”. Ohibò! Esattamente quello che accade nella ruminante propaganda propal di seconda mano che affolla il dibattito pubblico occidentale e ora si va estendendo anche a qualche bottega.
  Accade che il conformismo e il perbenismo agiscano come leve potenti e, poiché a parlare male degli ebrei si fa peccato ma a parlar male d’Israele si può e anzi si “deve”, ecco farsi strada la consuetudine furbastra dei distinguo: c’è l’ebreo buono, in genere già morto in un lager, e c’è l’ebreo cattivo, vivo e in carne ed ossa che si ostina a non dissociarsi dai crimini d’Israele. Non bastava.
  Occorreva sofisticare il concetto ed estenderlo anche agli israeliani buoni e a quelli cattivi: i sionisti. I primi possono entrare, i secondi no.

(InOltre, 22 maggio 2025)

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“Non silenziosi, ma silenziati”: la resistenza taciuta dei Palestinesi contro Hamas

di Sofia Tranchina

Continuano nella Striscia di Gaza le mobilitazioni popolari contro l’autorità di Hamas, segnalando un persistente dissenso interno nonostante le gravi condizioni di sicurezza e la militarizzazione del territorio.
Lunedì 19 maggio, a Khan Younis, nel contesto di un imminente attacco su larga scala annunciato dall’esercito israeliano – che ha dichiarato l’area zona di combattimento attivo in vista di un’“offensiva senza precedenti” e ha emesso un avvertimento straordinario di evacuazione – centinaia di cittadini palestinesi sono scesi ancora una volta in piazza chiedendo la fine del conflitto armato e la destituzione del governo de facto di Hamas.
Le manifestazioni, che si sono estese a più aree urbane del sud della Striscia, sono state caratterizzate ancora una volta da slogan espliciti come “Fuori Hamas” e richieste per una governance civile e non armata, auspicando una riorganizzazione istituzionale in grado di rappresentare i bisogni reali della popolazione.
Il gruppo islamista è divenuto espressione quotidiana di un autoritarismo repressivo e autoreferenziale, e i palestinesi, esausti da un anno e mezzo di guerra, con morti, distruzione e insicurezza alimentare, mostrano una crescente esasperazione nei suoi confronti.
Hamas, come documentato da innumerevoli fonti indipendenti, ha implementato una strategia deliberata di militarizzazione della vita civile: tunnel sotto scuole e ospedali, utilizzo sistematico della popolazione come scudo umano, repressione della stampa e delle voci dissidenti. Questa logica strumentale del martirio collettivo ha avuto come unico esito il consolidamento del proprio controllo, a discapito della sopravvivenza della popolazione, e ha compromesso la stessa causa palestinese, e il dialogo con la comunità internazionale.
L’intento dei protestanti non è, evidentemente, di assolvere Israele dalle fondamenta etiche che dovrebbero guidare l’uso della forza militare in un contesto di estrema asimmetria, né dalle gravi responsabilità che ha nei confronti dei civili gazawi vittime del conflitto. «Radere al suolo un territorio con oltre 2 milioni di persone per colpire circa 15.000 terroristi, al fine di raggiungere 23 ostaggi vivi e 35 corpi — che prego Dio vengano salvati e liberati al più presto — sembra qualcosa di ampiamente sproporzionato, incredibilmente irresponsabile», scrive l’attivista palestinese Ahmed Fouad Alkhatib, aggiungendo: “Ma — e non fatevi ingannare — Hamas ha preso decisioni che ci hanno portati fin qui; Hamas è un partner malvagio nella distruzione dei sogni e delle aspirazioni del popolo palestinese».
Ahmed Fouad Alkhatib ha sottolineato anche le differenze abissali tra le condizioni del dissenso in Israele e quelle nella Striscia: criticare il governo israeliano comporta costi sociali; opporsi a Hamas significa mettere a rischio la propria vita. Nonostante ciò, i gazawi persistono nelle loro richieste di demilitarizzazione, assistenza umanitaria e sovranità civile. Il fatto stesso che tali richieste vengano articolate in contesti di estrema vulnerabilità, sotto minaccia costante, restituisce soggettività politica ai gazawi, non come strumenti di una causa, ma come agenti di cambiamento che rivendicano i propri diritti.
La crescente dissonanza tra una parte significativa della società civile palestinese e l’apparato autoritario di Hamas si è inasprita a seguito dell’intensificarsi delle operazioni militari, dell’acuirsi delle condizioni umanitarie e della sistematica negazione di diritti fondamentali perpetrata dal gruppo islamico.
Le violazioni della libertà di stampa sono state documentate dal Committee to Protect Journalists (CPJ). Giornalisti come Tawfiq Abu Jarad e Ibrahim Muhareb hanno subito minacce, pestaggi e intimidazioni da parte di Hamas per aver tentato di documentare proteste e condizioni di vita nella Striscia: «Quando il giornalista gazawo Tawfiq Abu Jarad ha ricevuto una telefonata da un agente della sicurezza di Hamas che lo avvertiva di non coprire una protesta, ha subito obbedito: era già stato aggredito una volta da forze affiliate a Hamas».
Secondo le testimonianze raccolte, le autorità di Hamas non esitano ad equiparare il giornalismo critico allo spionaggio, legittimando così la repressione e contribuendo a instaurare un clima di autocensura generalizzata. Il raro giornalismo indipendente a Gaza sopravvive in condizioni estreme, tra minacce dirette e l’omertà imposta dalla paura.

L’inerzia dell’occidente “propalestinese”
  In questo scenario, appare paradossale l’inerzia di parte del mondo accademico, dei movimenti sociali e dei media, spesso pronti a mobilitarsi contro le violazioni dei diritti umani in altri contesti, ma reticenti nel riconoscere le dinamiche autoritarie interne ai contesti che si presume di difendere. Questa reticenza non solo indebolisce la credibilità morale delle istituzioni e degli attori coinvolti, ma contribuisce anche a perpetuare un’ingiustizia che silenzia le vittime quando esse non rientrano nei canoni ideologici dominanti. Il silenzio o la marginalizzazione operata riguardo alle manifestazioni diventa ingombrante. La mancata copertura e l’assenza di reazioni sollevano interrogativi sull’onestà intellettuale con cui viene affrontata la questione palestinese, e in particolare sulla capacità dell’opinione pubblica di elaborare una comprensione complessa e disallineata dagli schemi dicotomici a cui siamo abituati
L’attivista Hamza Howidy, figura di riferimento del movimento Bidna Naish, afferma che le manifestazioni rappresentano “una maggioranza”, che non è “silenziosa”, ma “silenziata”. Vengono escluse dal dibattito internazionale le voci dissidenti, che invece andrebbero protette e valorizzate proprio per la loro capacità di sfidare il pensiero dominante.
«I cosiddetti giornalisti “indipendenti” di testate filo-palestinesi come The Intercept, DropSite News, Zeteo, Democracy Now, Al Jazeera, The Guardian, Amnesty International o Human Rights Watch non documentano la brutalità di Hamas contro manifestanti o giornalisti palestinesi a Gaza», scrive Ahmed Fouad Alkhatib. «Hamas promuove solo una manciata di reporter altamente selezionati per raccontare la guerra esclusivamente da una prospettiva antisraeliana e che non osano mai criticare l’organizzazione. Gli altri, devono autocensurarsi per sopravvivere».
La solidarietà con il popolo palestinese, se intesa come espressione di un’etica politica coerente e non come riflesso ideologico, impone di distinguere chiaramente quello che è un regime autoritario che esercita il potere tramite coercizione, propaganda e repressione.
Le manifestazioni di Khan Younis chiedono di restituire complessità al discorso sulla Palestina, con rigore analitico, coscienza morale e responsabilità storica, e smascherare le narrazioni che riducono il conflitto a un teatrino ideologico.

(Bet Magazine Mosaico, 21 maggio 2025)

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Quando Kafka incontrò il rabbino nella foresta

di Adam Smulevich

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GERUSALEMME – «Ogni sera, verso le sette e mezza o le otto, il Rebbe esce in macchina. Si muove lentamente nella foresta e alcuni dei suoi discepoli seguono la macchina a piedi. Scende dalla macchina in un punto designato in anticipo e cammina con i suoi seguaci lungo i sentieri della foresta fino al tramonto. All’ora della preghiera, verso le dieci, torna a casa…».
  È il 1916 quando Franz Kafka, in una lettera a Max Brod, descrive la vivida impressione di un incontro con un rabbino del movimento chassidico e la sua corte. Un documento inedito, esposto fino al 30 giugno prossimo alla Biblioteca Nazionale d’Israele (Nli) nell’ambito dell’esposizione Kafka: metamorfosi di un autore. In occasione dei cento anni dalla morte dello scrittore praghese (con uno slittamento di qualche mese rispetto alla data inizialmente prevista), la Nli ha tracciato un percorso il cui punto focale è il rapporto di Kafka con l’ebraismo e la sua identità ebraica. Diari, lettere, disegni, bozze: una parte del patrimonio di carta che Brod salvò dalla distruzione, disattendendo la richiesta dell’amico in punto di morte, risalta nel coinvolgente allestimento che abbiamo visitato con la guida di una delle curatrici, Karine Shabtai.
  Shabtai si sofferma su alcuni dei documenti più interessanti in dotazione alla Nli, che nel 2019 ha ricevuto dalla Corte Suprema d’Israele l’incarico di custodire l’archivio Kafka. Vicino alla celebre Lettera al padre, ecco gli esercizi di ebraico su un quadernino del 1920 pieno di vocaboli con traduzione tedesca a fianco. «Aveva iniziato a dedicarcisi alcuni anni prima », spiega la curatrice. «Le parole più antiche le trascriveva direttamente dal Tanakh, l’insieme dei testi sacri ebraici». La sua insegnante si chiamava Puah Ben Tovim, una giovane “sabra” nativa di Gerusalemme, giunta a Praga per studiare matematica. Insegnava per sostenere le sue spese e Kafka la conobbe attraverso Hugo Bergmann, il grande filosofo amico fin dai tempi delle elementari. Anche lungo questo filone ricorre nella mostra il tema dell’identità. «Cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla in comune con me stesso e dovrei stare molto tranquillo in un angolo, contento di poter respirare », scrisse Kafka. Certo è che per un periodo cullò comunque il pensiero di emigrare nell’allora Palestina mandataria. Qui, secondo Brod, avrebbe voluto vivere come «un semplice artigiano».
  Kafka: metamorfosi di un autore, il cui curatore principale è Stefan Litt, non si sottrae alle domande spinose. «A chi appartiene Kafka?», ad esempio. In uno spazio apposito è affrontata la controversia legale citata in precedenza, arrivata al termine di un dibattito acceso e spesso polarizzante. Da una parte chi, come la Biblioteca Nazionale d’Israele, sottolineava come le sue opere andassero considerate «patrimonio nazionale ebraico» e rivendicava di essere il posto giusto per valorizzarle. Dall’altra chi ne enfatizzava il carattere tedesco o, in senso più ampio, universale. Una sezione tra le più stimolanti è poi dedicata a come fu recepito in Israele e in Medio Oriente. Le prime traduzioni in arabo di suoi racconti, racconta Shabtai, risalgono alla fine degli anni Sessanta. Un fenomeno che interessò in particolare Egitto, Siria, Libano e Giordania, «aprendo una discussione sulle posizioni di Kafka rispetto alla sua identità ebraica e al sionismo». Se ne continua a parlare. Anche a Gerusalemme.

(moked, 21 maggio 2025)

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“Il nostro impegno per un Israele democratico e una diaspora forte”. Il passato e il presente di Hashomer Hatzair e Meretz Italia

In vista del Congresso Sionistico Mondiale, che si terrà a ottobre, parla Laura Gutman Benatoff, candidata per il gruppo Meretz Italia – Hashomer Hatzair. “Un patto generazionale”

di Ester Moscati

A ottobre si terrà a Gerusalemme il 39° Congresso sionista mondiale e l’Italia invierà al Congresso tre delegati, eletti dalla Federazione Sionistica Italiana a fine maggio tra le sette compagini che hanno proposto dei candidati. Il Sionismo ha avuto nel corso della sua storia diverse anime e origini: dal sionismo religioso a quello socialista, passando per il sionismo liberale, quello revisionista e, più recentemente, il post-sionismo e il neo-sionismo.
I sette gruppi che si sono messi in gioco per portare a Gerusalemme i propri rappresentanti sono, in ordine alfabetico, Arzenu Italia, Herut Italia, Likud Italia, Mizrachi Benè Akiva, Meretz Italia – Hashomer Hatzair, Over the rainbow Italia – ADI, Shas Italia. Tante ispirazioni diverse, unite dall’amore per Israele e dalla preoccupazione per il suo futuro.

- Come e quando nasce Hashomer Hatzair in Italia?
  L’Hashomer Hatzair porta con sé oltre 112 anni di storia: nato nel 1913 in Galizia, ha attraversato i momenti più cruciali della storia ebraica del Novecento. Non è stato solo un movimento giovanile, ma una forza attiva contro l’antisemitismo, un protagonista nella creazione dello Stato di Israele e un elemento vitale della Resistenza durante la Shoah. Nel 1992, in Italia, l’unione tra ex bogrim dell’Hashomer Hatzair e militanti di Mapam ha dato vita a Meretz Italia, creando un ponte tra generazioni e tradizioni.
Oggi il nostro movimento è una realtà vibrante in 26 paesi, con una missione che rimane immutata: promuovere giustizia sociale, educazione ebraica di qualità e un sionismo umanista. In Italia, attraverso i diversi kenim, non ci limitiamo a trasmettere tradizioni ebraiche, ma coltiviamo un’identità ebraica progressista che rafforza il legame vitale tra diaspora e Israele.

- Quale linea politica seguite in relazione ai recenti eventi in Israele?
  Il 7 ottobre 2023 ha segnato una ferita profonda per Israele e l’intero popolo ebraico. Il massacro perpetrato da Hamas ha spezzato oltre mille vite e lasciato famiglie devastate dalla perdita dei propri cari portati in ostaggio a Gaza.
Oggi i Democratim, l’alleanza tra Meretz e il Partito Avodah, sono guidati da Yair Golan – ex Vice Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane, un leader che unisce visione politica, esperienza e coraggio. Ha inoltre servito come vice ministro dell’Economia nel governo Bennett-Lapid del 2021 per Meretz e come membro della Knesset dal 2019 al 2022.
Durante l’attacco del 7 ottobre, Golan ha dimostrato cos’è la vera leadership: non appena è stato avvertito di ciò che stava accadendo, ha indossato la sua uniforme, è salito in auto e ha raggiunto il sud di Israele. Dopo aver ricevuto chiamate da genitori preoccupati per i loro figli che si nascondevano dai terroristi di Hamas sul terreno del festival musicale Nova, ha consultato Google Maps e si è diretto in quella direzione, riuscendo a salvare diversi giovani. Nonostante fosse praticamente da solo, ha scelto di agire senza attendere ordini, dimostrando come nei momenti di crisi l’iniziativa personale possa fare la differenza. Le sue azioni in quelle ore drammatiche riflettono esattamente i valori che guidano il nostro movimento.
La nostra visione politica è chiara: vogliamo preservare un Israele democratico con una giustizia indipendente, dove tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, e che cerchi una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese e israelo-arabo.
Il pogrom ha colpito in modo particolare i kibbutz, cuore pulsante dell’identità israeliana. I kibbutzim Artzi, legati all’Hashomer Hatzair, rappresentano il 32% di tutti i kibbutzim del paese – il nostro movimento è stato quindi colpito nel suo nucleo più profondo. Questa non è politica astratta per noi: è personale. Anche la mia famiglia è stata toccata direttamente – mia cugina e i suoi quattro figli, residenti nel kibbutz Be’eri, sono sopravvissuti fisicamente all’attacco, ma portano ferite psicologiche profonde che nessuno può ignorare.
Oggi siamo in prima linea nella ricostruzione delle comunità colpite, sostenendo ogni passo di questo difficile cammino. Ma una verità rimane salda: nessuno di noi – in Israele o nella diaspora – potrà sentirsi davvero in pace finché ognuno dei 58 ostaggi ancora trattenuti non sarà tornato a casa. Il loro ritorno è e rimane una priorità nazionale e morale assoluta.

- Perché hai scelto di candidarti al Congresso Sionista Mondiale? Qual è il tuo legame con Israele?
  Il mio legame con Israele ha radici profonde nella storia della mia famiglia. I miei nonni, sopravvissuti ad Auschwitz, mi hanno tramandato una verità essenziale: quando uscirono dai campi, fu Israele ad accoglierli, offrendo loro non solo una casa e una cittadinanza, ma la possibilità concreta di ricostruire una vita dignitosa. Queste testimonianze hanno forgiato in me un senso di appartenenza e gratitudine che va oltre la semplice identità.
A 18 anni ho fatto una scelta consapevole, diventando una sionista attiva: mi sono trasferita in Israele per studiare all’Università di Tel Aviv. Questa scelta di vita era guidata dalla volontà di contribuire alla costruzione di un Israele democratico, pluralista e in costante dialogo con la diaspora.
La mia candidatura nasce dal profondo legame con l’Hashomer Hatzair, movimento che ha plasmato la mia identità ebraica e che continua a vivere nella generazione successiva. I miei tre figli ne fanno parte attivamente: mia figlia maggiore è una bogheret ‘senior’ del ken di Milano, mio figlio è madrich (istruttore) e quest’estate proseguirà la sua formazione in Israele presso i kibbutz Mishmar HaEmek e Sasa, mentre la mia figlia più piccola ha appena iniziato con entusiasmo il suo percorso di formazione come madricha (istruttrice).
Con un’altra candidata del movimento di Roma, sosteniamo con passione la gioventù impegnata in Italia, consapevoli che le decisioni del Congresso Sionista possono avere un impatto concreto sulle nostre comunità. Il nostro impegno è chiaro: lavorare affinché i fondi vengano reinvestiti nei movimenti giovanili e rappresentare efficacemente i loro interessi presso l’Agenzia Ebraica. Puntiamo a formare una nuova generazione di leader che si impegnino per un Israele democratico, portando avanti una visione progressista del sionismo e del nostro patrimonio ebraico nella diaspora.

- Qual è la vostra visione per il futuro?
  Votare per Meretz e Hashomer Hatzair significa scegliere di difendere i valori profondi dell’ebraismo come cultura e identità del nostro popolo. Significa investire in un futuro dove la ricca tradizione ebraica continui a vivere attraverso le nuove generazioni, mantenendo vivo il dialogo tra Israele e diaspora.
Non stiamo solo chiedendo il vostro voto: vi invitiamo a unirvi a un movimento che da oltre un secolo combatte per un ebraismo umanista, per la giustizia sociale e per un Israele democratico e inclusivo. In un momento storico così complesso, la vostra partecipazione attiva è più che un diritto: è una responsabilità verso il futuro delle nostre comunità.
Il momento di agire è adesso. Costruiamo insieme il futuro dell’ebraismo progressista – in Israele e nella diaspora.

(Bet Magazine Mosaico, 21 maggio 2025)

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Trump nomina 4 rabbini ortodossi tra i consiglieri della nuova Commissione per la Libertà Religiosa

Quattro rabbini ortodossi sono tra le 26 persone nominate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per consigliare la sua neoformata Commissione per la Libertà Religiosa. Altri due attivisti ebrei di gruppi di difesa di destra fanno parte della commissione, che Trump ha annunciato all’inizio di questo mese. I critici della commissione hanno sostenuto che essa asseconda le preoccupazioni dei cristiani evangelici e riflette un ampio sforzo dell’amministrazione Trump per erodere la separazione tra chiesa e stato. Trump ha espresso scetticismo riguardo a questo stesso principio, anche durante l’evento nel Giardino delle Rose della Casa Bianca nella Giornata Nazionale della Preghiera dove ha annunciato la commissione.
Separazione? È una cosa buona o cattiva? Non sono sicuro,” ha detto, aggiungendo: “Stiamo riportando la religione nel nostro paese. È una cosa importante.
All’epoca, Trump nominò diverse persone nella commissione, tra cui una serie di leader e influencer cristiani, nonché l’ex seconda classificata di Miss USA Carrie Prejean Boller e il personaggio televisivo Dr. Phil. Tra i nominati c’era anche un leader ebreo, il rabbino Meir Soloveichik, studioso senior presso il Tikvah Fund, un think tank ebraico politicamente conservatore, e rabbino della Congregazione Shearith Israel, una sinagoga ortodossa che è la più antica congregazione ebraica degli Stati Uniti.
Giovedì, Trump ha annunciato tre comitati consultivi per aiutare il lavoro della commissione. I loro membri includono altri quattro rabbini e due leader ebrei.
Tutti i rabbini sono affiliati all’ortodossia, che rappresenta l’8% dell’ebraismo americano ma costituisce una porzione significativa del sostegno ebraico a Trump. Mentre la grande maggioranza degli ebrei americani disapprova l’operato di Trump come presidente, gli ebrei ortodossi hanno mostrato un forte sostegno: più del 71% approva il lavoro che sta facendo, mentre meno del 20% lo disapprova, secondo un recente sondaggio.
Gli ebrei nominati nei comitati consultivi della Commissione per la Libertà Religiosa includono Jason Bedrick, il primo ebreo ortodosso eletto al parlamento del New Hampshire. Ora ricercatore presso il Centro per la Politica dell’Istruzione della Heritage Foundation, si descrive come un “ebreo testardo” sul suo account X, dove spesso sostiene la libertà di scelta scolastica.
Il rabbino Mark Gottlieb è il capo dell’istruzione di Tikvah e preside fondatore del Programma Tikvah Scholars. È stato anche uno dei firmatari della Dichiarazione di Phoenix, che chiede la scelta dei genitori nell’istruzione americana e l’insegnamento agli studenti dei “principi fondanti dell’America e delle radici nelle più ampie tradizioni occidentali e giudaico-cristiane“. È stata prodotta dalla Heritage Foundation, un think tank conservatore.
Alyza Lewin è presidente del Louis D. Brandeis Center for Human Rights Under Law, un gruppo legale pro-Israele attivo nelle cause nei campus, e cofondatrice e partner di Lewin & Lewin, uno studio legale. Nel 2014, Lewin ha discusso davanti alla Corte Suprema per il riconoscimento di Israele come luogo di nascita sui passaporti statunitensi, che l’amministrazione Trump ha approvato nel 2020.
Il rabbino Yaakov Menken è il vicepresidente esecutivo della Coalition for Jewish Values, un gruppo conservatore intransigente che afferma di rappresentare più di 2.500 “rabbini ortodossi tradizionali” e si oppone ai valori progressisti che a suo dire costituiscono il “wokeism”. Menken ha dichiarato in un comunicato che il suo gruppo è stato “un sostenitore vocale delle protezioni della libertà religiosa per i gruppi cristiani e altri, comprendendo che qualsiasi minaccia alla loro libertà religiosa potrebbe facilmente essere usata anche contro le nostre libertà“.
Il rabbino Eitan Webb è il fondatore e direttore del Chabad di Princeton e cappellano ebraico dell’Università di Princeton dal 2007. Nel 2017, Webb ha ospitato un discorso di un legislatore israeliano di destra dopo che la Hillel di Princeton aveva cancellato la sua apparizione a causa di accuse secondo cui avrebbe fatto dichiarazioni razziste.
Il rabbino Chaim Dovid Zwiebel è il vicepresidente esecutivo di Agudath Israel of America, un gruppo ombrello ortodosso Haredi. Ad aprile, Zweibel è andato a Washington per fare pressione sui membri del Senato e della Camera affinché sostenessero un disegno di legge sul credito d’imposta per aiutare i genitori a pagare l’iscrizione dei loro figli a scuole private. Una versione di questo disegno di legge è inclusa nella proposta di bilancio del Congresso.
In un momento in cui molti segmenti della società americana si stanno allontanando dalla pratica e dall’identità religiosa, è particolarmente importante che rimaniamo vigili nel proteggere la nostra prima libertà – la libertà religiosa,” ha dichiarato Zweibel in un comunicato.
Trump ha effettuato le nomine lo stesso giorno in cui la Commissione degli Stati Uniti sulla Libertà Religiosa Internazionale ha annunciato la partenza di un importante membro ebreo, prima che la commissione si rinnovi a maggio 2026. Susie Gelman è una filantropa ebrea di lunga data e attivista pro-Israele che, fino a poco tempo fa, presiedeva il consiglio dell’Israel Policy Forum, un gruppo di difesa centrista che fa pressione per una soluzione a due stati. Nel 2016, Gelman ha espresso preoccupazione per le posizioni dell’amministrazione Trump entrante su Israele.
Il lavoro della Commissione ha tratto grande beneficio dai suoi inestimabili contributi e dalla sua visione derivante da anni di esperienza di lavoro con le comunità religiose, in particolare la comunità ebraica,” ha dichiarato in un comunicato il presidente della commissione, Stephen Schneck.
Rimangono due ebrei tra i sette commissari rimanenti, che hanno il compito di monitorare la libertà religiosa all’estero. Si tratta di Soloveichik e Ariela Dubler, un’avvocatessa e preside della Abraham Joshua Heschel School di New York.

(Kolòt - Morashà, 21 maggio 2025)

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È pazzesco! Ultraortodossi ballano con bevande energetiche

L'umorismo ebraico è presente in tutte le tribù di Israele, anche dove meno te lo aspetti. Anche gli ultraortodossi hanno senso dell'umorismo.

di Michael Selutin

I cosiddetti ultraortodossi, o charedim in ebraico, finiscono spesso sui giornali per il loro rifiuto di prestare servizio militare. A volte anche per altri eventi negativi, ma mai perché sono divertenti. Eppure anche nel loro cuore batte il famoso umorismo ebraico, che però raramente viene espresso in pubblico.
Un esempio del fatto che anche gli ebrei in abiti neri sanno divertirsi e intrattenere il pubblico è il gruppo satirico “Bardak”. Il loro nome significa ‘confusione’ o “caos” ed è proprio questo il programma del gruppo comico, che prende di mira in modo umoristico la vita dei charedim.

Danza per un amico che sta per sposarsi
Bardak è stato fondato da Efi Skakovsky e Meni Wakshtock, entrambi studenti di yeshiva ortodossa, che hanno poi scoperto il loro talento per la commedia. "Il loro stile è caratterizzato da un umorismo osservazionale che si ritrova nelle situazioni quotidiane della cultura israeliana. Gran parte del loro lavoro si concentra sulla comunità charedi, ma i loro contenuti affrontano anche temi più generali legati alla cultura, alla politica e alle dinamiche sociali israeliane. Il loro approccio è generalmente spensierato, evitano posizioni politiche esplicite e cercano di colmare i divari culturali con un umorismo comprensibile", scrive Sam Sokol a proposito di Bardak.
I bambini non devono digiunare
I suoi sketch sono recitati in ebraico e in parte in yiddish, ma per lo più sono comprensibili anche senza parole. Tuttavia, molte delle sue battute sono piuttosto “battute per addetti ai lavori”, che fanno ridere soprattutto i membri della sua comunità.
In un video, ad esempio, un gruppo di giovani uomini prova una danza per il loro amico che sta per sposarsi. È usanza ebraica rallegrare lo sposo con dei balli e nella comunità charedica ci sono alcuni uomini di talento che vivono solo per questo momento. (Al mio matrimonio, un vecchio rabbino ha improvvisamente iniziato a ballare la break dance per me. Non ero divertito, ma preoccupato per la sua salute).
Tornando al video, il giovane insegna ai suoi amici i passi della danza attribuendo a ogni movimento un significato religioso. Ad esempio, per un movimento dice “legare i tefillin (tikkunim)”, per un altro “andare al mikveh il venerdì” e così via. È particolarmente divertente quando spiega un movimento a un amico che lo interpreta in modo diverso perché è sefardita.
Un altro video tratta del vecchio problema del fatto che i bambini non devono digiunare durante il giorno di digiuno. Mentre la sinagoga è piena di uomini affamati, a volte ci sono dei bambini seduti lì che mangiano con gusto. I rumori del cibo e l'odore degli snack rendono molto difficile concentrarsi sulle preghiere. Il carismatico comico di Bardak descrive molto bene questa situazione imbarazzante, ma guardate voi stessi.

(Israel Heute, 21 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele vince!

Riporto, un po’ in ritardo, quello che mi ha scritto Carmela, una sorella in fede già presente altre volte su queste pagine, per farmi conoscere il modo in cui ha vissuto sabato scorso il televoto di Eurovision Song 2025, forse perché sa che non guardo la televisione. Non le ho chiesto il permesso di farlo, ma sono convinto che non mi denuncerà.  M.C.

Carissimo fratello Marcello,
il Signore benedica grandemente te e tutta la tua famiglia!
Seduta comodamente in poltrona col cuore che mi batteva aspettando i risultati del televoto, sabato sera, ho esultato vedendo Israele al primo posto!
Mi è venuto in mente un versetto del Salmo 23 “Tu apparecchi la mensa al cospetto dei miei nemici”!
Ed è stato proprio così! Serpeggiava tra le presentatrici un senso di inquietudine  e di insicurezza per quel risultato inaspettato e anche tra i conduttori italiani sgomento e incredulità… non sapevano cosa dire ed erano molto rammaricati. 
Per non parlare del pubblico, ammutolito!
C’è stato un momento in cui tutti erano schiacciati, salvo poi esultare per il risultato finale.
Io, invece, un po’ amareggiata ma col cuore colmo di gioia! In fondo anche il secondo posto è stato ottimo! Per me, Israele, sempre al primo posto!!!
So che è stata solo una competizione canora ma quando si parla di Israele, in tutti gli ambiti, mi sembra che c’è sempre una battaglia che si combatte!
Raphael Yuval non ha fatto breccia per il suo passato da scampata all’eccidio, non è stata apprezzata per le sue doti canore dal mondo pieno di livore ed invidia!
Ma ”Il Signore si è riservato tante persone che non hanno piegato il ginocchio davanti a baal”!
Inutile dire che tutto è finito lì!
Ieri mi aspettavo dei commenti che non sono arrivati! Pur di non parlare bene di Israele non si parla proprio, solo quando c’è da parlar male ci si attacca anche ad un cavillo insignificante!
Il Signore c’è! Lunga vita a Israele!!!
Parlare bene di Israele è di primaria importanza per me!
Un forte abbraccio a te e a Lidia!
In Cristo.
Carmela

(Notizie su Israele, 21 maggio 2025)

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Nuova fase offensiva e nuovi aiuti umanitari a Gaza

Nel pieno della nuova offensiva Carri di Gedeone, Israele ha deciso di ripristinare gli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, dopo oltre due mesi di blocco totale. La mossa, disposta dal primo ministro Benjamin Netanyahu senza votazione in gabinetto, arriva dopo forti pressioni americane e su richiesta dell’esercito, scrivono i media locali. «Israele consentirà l’ingresso di una quantità base di cibo per prevenire una crisi umanitaria», ha spiegato l’ufficio del capo del governo. Determinante per questo passo, scrive ynet, l’allarme lanciato dal maggiore generale Rassan Alian, che nelle ultime 24 ore ha avvertito l’esecutivo: «Il cibo finirà entro il 21 maggio. Se non interveniamo ora, anche l’operazione militare dovrà fermarsi». Secondo Ynet, Alian ha anche risposto al ministro Itamar Ben Gvir – contrario alla riapertura – spiegando che «l’accesso ai magazzini è quasi impossibile» per la popolazione ed è necessario intervenire per evitare una carestia.
  La distribuzione sarà gestita da organizzazioni internazionali e aziende americane, senza il coinvolgimento diretto di Israele né il controllo di Hamas. Una gestione provvisoria, in attesa che entri in funzione la Gaza Humanitarian Foundation, un meccanismo coordinato da Washington e Gerusalemme, pensato per distribuire gli aiuti in modo sicuro e senza interferenze da parte di Hamas.
  Sul fronte dei negoziati, l’inviato speciale americano Steve Witkoff ha proposto un cessate il fuoco di circa due mesi in cambio del rilascio di 9-10 ostaggi. Nell’intesa ci sarebbe anche la scarcerazione di 300 detenuti palestinesi. Hamas ha respinto l’iniziativa, ribadendo di volere la fine della guerra con garanzie internazionali.
  Sul fronte militare, l’operazione israeliana è entrata in una nuova fase, con cinque divisioni impegnate dentro Gaza. «Divideremo la Striscia, sposteremo la popolazione e avanzeremo fino alla sconfitta di Hamas», ha affermato il portavoce militare Effie Defrin.

(moked, 20 maggio 2025)
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«... l’inviato speciale americano Steve Witkoff ha proposto un cessate il fuoco di circa due mesi in cambio del rilascio di 9-10 ostaggi.» Vomitevole. Si mercanteggia con la vita di persone in carne ed ossa. Witkoff potrebbe specificare quali ostaggi vuole, se uomini o donne, se giovani o vecchi, se sani o malati. E' importante saperlo, perché il valore di scambio di quelli che restano potrebbe variare in funzione del loro stato di salute. A Witkoff probabilmente verrà richiesto di affinare la raccolta-dati per la trattativa in corso. "America first" e business prima di tutto. Vomitevole. M.C.

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Houellebecq: io sto con Israele

di Giulio Meotti

ROMA - In una libreria di Tel Aviv, uno scrittore francese di fama mondiale corre in un rifugio antiaereo mentre suonano gli allarmi che annunciano i missili in arrivo dallo Yemen. Non è la scena di un romanzo, ma un momento vissuto da Michel Houellebecq giovedì scorso in Israele.Erano le 21:10 quando, come tutti i lettori riuniti per la serata, Houellebecq scese nel seminterrato del rifugio antiaereo per proteggersi da un attacco missilistico houthi. Una pianista israeliana, Ofra Yitzhaki, ha iniziato a suonare Maurice Ravel a un centinaio di persone a conoscenza delle norme di sicurezza. “La resilienza della gente qui è affascinante e dice qualcosa di profondo sull’umanità”, dice Houellebecq. Nell’ora più solitaria per lo stato ebraico,lo scrittore di “Sottomissione” e “Serotonina” non si è tirato indietro, mentre da un anno si registrano scrittori che rifiutano la traduzione in ebraico delle proprie opere (da Sally Rooney ad Alice Walker) e che firmano appelli per boicottare Israele (compresa la francese Annie Ernaux). “Dovrei capire il mondo in cui vivo e pensavo che in Europa ci fosse un movimento positivo verso gli ebrei, ma quello che è successo è completamente l’opposto”, ha detto Houellebecq nella conferenza stampa in occasione della vittoria del Premio Gerusalemme.
  “Si è semplicemente aperto un abisso” ha detto Houellebecq da Gerusalemme. “Se provo a parlare con un sostenitore di Hamas, non so nemmeno come approcciarlo, il dialogo è impossibile”.
  Il presidente israeliano, Isaac Herzog, si è rivolto a Houellebecq durante la cerimonia di premiazione: “Lei è diventato sinonimo dello scrittore fedele alla libertà di pensiero. Gerusalemme è una città di spirito, di passione, di ricchezza culturale e di diversità umana. E’ chiaro che per lei la libertà è un valore supremo e, così facendo, lei dà libero sfogo al suo spirito”.
  Houellebecq si è poi presentato con la spilla gialla degli ostaggi alla serata organizzata dal Museo dell’arte di Tel Aviv in collaborazione con l’Istituto francese in Israele. Al di là del successo commerciale, gli israeliani sembrano avere un rapporto speciale con Houellebecq, e questo rapporto è reciproco. In una foto, scattata nei giorni successivi al 7 ottobre, si vede la prima raccolta di saggi di Houellebecq, “Rester vivant”, su un tavolo carbonizzato in una casa bruciata nel kibbutz Be’eri. Houellebecq, che ha ricevuto la foto da un lettore israeliano, ha risposto: “La mia prima impressione è stata quella di vedere una cupa ironia nel titolo dei libri, ma in questa foto si può anche leggere un messaggio di speranza”. Houellebecq ha visitato Be’eri la scorsa settimana. Lì ha incontrato i membri del kibbutz, particolarmente colpiti dagli attacchi del 7 ottobre. Dopo aver parlato con loro, Houellebecq ha dedicato il suo libro “Rester vivant” a Roni Baruch, un residente di Be’eri che ha perso i due figli nel massacro di Hamas: Edan, caduto combattendo contro i terroristi; e Sahar, rapito dai terroristi dalla sua casa e poi ucciso durante un tentativo israeliano di liberarlo a Gaza. Quello di Houellebecq è l’ultimo libro che Edan ha letto prima di morire.
  “Antisemitismo mostruoso” Con il Premio Gerusalemme,Houellebecq è il terzo scrittore francese dopo André Schwarz-Bart nel 1967 e Simone de Beauvoir nel 1975, insieme al romeno Eugène Ionesco e al ceco Milan Kundera, a ricevere il prestigioso riconoscimento. “L’impronta delle religioni monoteiste è in me” ha detto Houellebecq nel ricevere il premio. “Ogni scrittore occidentale, che gli piaccia o no, porta l’impronta delle religioni monoteiste. Nessuno scrittore, e soprattutto nessuno scrittore occidentale, può essere indifferente a Gerusalemme”.
  Houellebecq in Israele ci era già stato due volte più di dieci anni fa: nel 2011 arrivò a Gerusalemme augurando “ogni bene a Israele dal profondo del cuore”. Ma l’Israele del dopo 7 ottobre è un paese diverso, mentre lui non è cambiato nel suo rapporto con il piccolo stato ebraico. “E’ mostruoso” ha detto al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Si riferisce all’antisemitismo europeo. “E’ mostruoso che invece di mostrare solidarietà e compassione, ci sia una cultura di antisemiti. E’ inconcepibile. E’ qualcosa che davvero non capisco, e che mi spaventa davvero, in Francia. C’è davvero qualcosa che non riesco a capire”.
  Al canale Kan 11, Houellebecq ha detto anche che sta con Israele “perché cerca di comportarsi in maniera morale in guerra, che è difficile, iper difficile”. Attacca la “demente” visione woke per cui “non puoi criticare i trans ma neanche gli islamisti” e dice che questo woke ha “dentro di sé i germi della propria distruzione”. Fa l’esempio del MeToo, “silente sugli stupri di Colonia” (a opera di centinaia di immigrati la notte di Capodanno del 2016). “Sono degli idioti”. Spesso utili a Hamas.

Il Foglio, 20 maggio 2025)

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Dopo il secondo posto di Israele all’Eurovision partono le contestazioni

Il direttore del Contest risponde: “Nessun broglio né favoritismo”

di Luca Spizzichino

C’è chi vince, chi arriva al secondo posto e chi contesta perché è rimasto a bocca asciutta. Dopo il secondo posto conquistato da Yuval Raphael all’Eurovision, naturalmente è arrivato il momento di quella che chiameremmo “eurocontestazione”, ovvero il fronte di attacco contro Israele che a suon di accuse strampalate e insinuazioni degne dei peggiori complottisti cerca (ovviamente senza successo) di far scendere lo Stato ebraico dal podio a riflettori ormai spenti. La pagina vergognosa si aggiunge ai sospiri di sollievo, alle malcelate esultazioni, da parte di molti che hanno condotto la serata, quando hanno appreso che Israele non si era classificato al primo posto.
  A guidare la battaglia contro i mulini a vento è la Spagna, dove l’emittente pubblica RTVE ha chiesto all’European Broadcasting Union (EBU) una revisione del sistema di voto, con particolare riferimento a quello online. Secondo RTVE, il risultato non rifletterebbe l’opinione generale del pubblico iberico, in gran parte contrario alla partecipazione di Israele. Un dettaglio, questo, che ignora completamente il principio alla base dell’Eurovision: si vota la canzone, non la geopolitica. A rincarare la dose è arrivata VRT, emittente fiamminga responsabile della trasmissione in Belgio, che ha chiesto “massima trasparenza” e persino minacciato il boicottaggio delle future edizioni se le loro “preoccupazioni” non verranno prese sul serio.
  In mancanza di prove, le accuse appaiono come un classico caso di chi fatica ad accettare un’evidenza e si rende anche un po’ ridicolo davanti a tutto il mondo. Quando Israele partecipa e perde, va bene. Ma quando ottiene un buon risultato, ecco spuntare “reti di voto”, “campagne coordinate” e richieste di inchiesta. Il tutto con l’aggiunta di una certa dose di moralismo fuori tempo massimo, che mal si concilia con lo spirito dell’evento.
  A spegnere le fiamme della polemica ci ha pensato Martin Green, direttore esecutivo dell’Eurovision, che in una nota ha ribadito l’affidabilità del sistema di televoto: “Il sistema attuale è tra i più avanzati al mondo, dotato di sofisticati meccanismi di verifica, sicurezza e analisi. Non esistono elementi che indichino brogli o favoritismi, nemmeno nel caso dei 12 punti attribuiti a Israele dagli spettatori spagnoli.” Green ha ricordato che il sistema è costantemente monitorato da esperti esterni e validato da controlli incrociati, e che ogni anno viene aggiornato proprio per garantire imparzialità e trasparenza. Il vero problema, forse, non è il sistema di voto, ma l’incapacità di alcuni di accettare che un artista israeliano possa aver emozionato milioni di spettatori.
  Con l’aria che tirava all’arrivo di Yuval c’era da aspettarselo: d’altra parte tra quel gesto di minaccia di linciaggio che ha accolto l’artista e il tentativo di linciaggio mediatico, non vi è differenza alcuna. Malgrado tutto Israele è arrivato al secondo posto, una vittoria che con la portata delle forze dispiegate da tanti paesi per l’attuale campagna antisemita, è ancor più forte e importante.

(Shalom, 20 maggio 2025)

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Il mio mese da ebreo, tra paure e autocensure

di Carmelo Palma

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Ho terminato il mio mese da ebreo, trascorso a vedere l’effetto che fa, anche perché per capire che effetto fa essere ebreo non occorre neppure esserlo, basta essere riconosciuto per tale. Poi, come è noto, dal riconoscimento all’imputazione il passo può essere brevissimo e così quello dall’imputazione alla condanna e dalle parole ai fatti.
  Per sembrare ebreo – nel mio caso, senza esserlo – è bastato indossare la kippah in tutti i luoghi pubblici – per strada, sul treno, sulla metropolitana, al cinema, al ristorante, al supermercato… –  cioè in tutti i luoghi in cui chiunque non mi conoscesse avrebbe potuto scambiarmi per un anonimo rappresentante del solo gruppo umano, dai cui membri sia pacificamente legittimo esigere un requisito di speciale meritevolezza individuale, per scriminare la colpa di un’appartenenza di rinomata perfidia.
  La meritevolezza dei dissociati, quando non dei rinnegati. La meritevolezza di non essere come gli ebrei cattivi, che sono la regola e di cui i buoni sono la sempre sospettabile eccezione. La meritevolezza di denunciare la stessa esistenza di Israele come progetto di colonialismo genocidario fin dal 1948, anzi dal famigerato piano Balfour del 1917 per la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina durante il mandato britannico.
  A vedere l’effetto che fa sono stato fortunato. Qualche sguardo di muto rimprovero o di aperto disprezzo, uno sfottò pacifico, anche se insultante. Tutto qui.
  Nessuno mi ha mai chiesto di tenermi a distanza, per non creare problemi, come i bravi cittadini romani di via Torlonia che, mentre io iniziavo il mio mese da ebreo, hanno avviato una raccolta di firme e preparato un esposto al Prefetto per chiedere la sospensione dei lavori del Museo della Shoah, così da non essere esposti alle minacce e alle violenze che quel monumento di provocatoria ebraicità istiga anche a danno degli incolpevoli non ebrei.
  Non sono neppure mai stato aggredito come i giovani ebrei che a Torino – mentre terminavo il mio mese con la kippah – hanno provato a organizzare nel Campus universitario Einaudi una conferenza sulla libertà di parola – la propria libertà di parola – alla fine annullata dai vertici dell’Università per ragioni di ordine pubblico. Libertà di parola negata, dunque, di nuovo.
  Del resto, nel circolo vizioso della normalizzazione antisemita, se gli ebrei sono il bersaglio della violenza, diventano essi stessi la causa del disordine e il problema da risolvere. Già sei ebreo e pure ti agiti? Se gli ebrei stessero calmi… Da farci un altro, ennesimo decreto sicurezza. Troncare gli ebrei, per sopire gli antisemiti.
  Dicevo l’effetto che fa: che effetto mi ha fatto? Dividerei l’interrogativo in due parti.
  La prima: come mi sono sentito “fuori” da ebreo? Sempre un po’ in pericolo, ma mai troppo, per ragioni in larga misura contingenti e fortunate. Vivo a Roma, a poco meno di due chilometri dal Ghetto. Lavoro nel centro di Roma. Frequento in genere luoghi in cui la presenza ebraica è, se non visibile, metabolizzata o mollemente ingoiata, come Roma ingoia con noncuranza quasi ogni cosa. Eppure mi è capitato spesso farmi domande che normalmente non mi faccio, tipo: stasera è il caso che prenda la metropolitana a mezzanotte, oppure è più sicuro che prenda un taxi? Oggi incontro in un locale pubblico un po’ “alternativo” una persona anziana: è il caso che faccia l’ebreo o per non coinvolgerla involontariamente in qualche incidente è meglio che mi metta in tasca la kippah? Lo sapevo già, ma ho concretamente avvertito, fisicamente e psicologicamente, cosa significa vivere da ebreo visibile ed è stata un’esperienza istruttiva, che consiglio a tutti i non ebrei.
  La cosa però più istruttiva è stato scoprire come mi sono sentito “dentro”: mi sono sentito come gli ebrei che devono giustificare di non essere come gli altri ebrei, che evidentemente per molti procurano all’ebraismo e a Israele un disprezzo meritato. E mi sono sentito nella trappola dell’autocensura.
  Se per essere preso sul serio devo sputare su un ebreo cattivo, non voglio essere preso sul serio così. Se per essere riconosciuto in buona fede nella mia lotta contro l’antisemitismo devo ammettere che questo antisemitismo è un effetto collaterale delle azioni del governo israeliano a Gaza e in Cisgiordania – affermazione che non è solo storicamente falsa, ma è la quintessenza della vulgata antisemita, per cui sono gli ebrei la causa dell’odio antiebraico – non dico che per reazione mi verrebbe da difendere pure i fascisti messianici e gli epigoni ministeriali di Yigal Amir, ma di certo mi viene da tacere, per non cadere nella trappola antisemita per eccellenza: quella – come dicevo all’inizio – per cui si possono difendere alcuni ebrei, che sono buoni solo se dimostrano di non essere cattivi. Trappola in cui i nazisti di Hamas e i loro zelanti agenti sotto mentite (e a volte pure involontarie) spoglie sono riusciti a far cadere buona parte del mondo progressista europeo e la quasi totalità di quello italiano.
  Però, per non cadere in questa trappola, il prezzo rischia di essere altrettanto salato: quello di finire in una autocensura uguale e contraria verso personaggi e politiche che ritengo rovinose per gli ebrei e per Israele (non aggiungo altro all’articolo di Stefano Piperno, di cui condivido tutto, dolore compreso).
  Solidarizzare con gli ebrei e con Israele mentre per una larga fetta dell’umanità antisemitismo e antisionismo sono non solo legittimati, ma rappresentano il non plus ultra della correttezza politica e dell’intransigenza umanitaria, significa trovarsi di fronte a questa alternativa apparentemente obbligata. Non è una cosa semplice e soprattutto non vi sono “soluzioni” che non rischino di apparire esse stesse politicamente e intellettualmente equivoche, sia per gli amici che per i nemici.

(Inoltre, 19 maggio 2025)

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Il nome Shalom

Il nome Shalom mi suscita nostalgia e mi ricorda la mia bella infanzia. “Shalom”. Questa parola non significa solo pace, ma anche ciao, arrivederci, completezza.

di Anat Schneider

Shalom in ebraico
Quando ero una bambina di circa 7 anni, nelle scuole israeliane era consuetudine organizzare una grande festa in onore del Giorno di Gerusalemme. La classe veniva divisa in gruppi, ognuno dei quali rappresentava un diverso gruppo etnico che viveva in Israele. Insieme ad alcuni amici, io rappresentavo gli yemeniti. L'insegnante che lavorava con noi ci insegnò una canzone intitolata “Shir Ad”, con un testo di Natan Alterman (un grande poeta ebreo).
La canzone parla di una famiglia molto numerosa, con molti figli e figlie, che arriva in Israele dallo Yemen. La famiglia arriva nella grande città e cerca di attraversare la strada su un passaggio pedonale. Ecco i nomi dei membri della famiglia, così come compaiono nella canzone mentre attraversano la strada:

     Nessim attraversa – con l'aiuto di Dio.
     Dopo di lui Nisima, la madre – Dio abbia pietà di lei.
     Nehemia, Gedalja, Zacharias e Asarja attraversano,
     Salim, Saadia, Michael, Hanan, Hanania.
     Ci sono Jeruham e Rahamim, grazie a Dio sono gemelli,
     Baby Shalom ride nel sonno, e io sono sua sorella Miriam,
     Poi il piccolo asino Bileam...

Io interpretavo Miriam che si prende cura della sua sorellina e cantavo la frase: “Baby Shalom ride nel sonno, e io sono sua sorella Miriam”.
Da allora, il nome Shalom mi suscita nostalgia e mi ricorda la mia bella infanzia, le meravigliose feste che celebravamo nel Giorno di Gerusalemme, e mi restituisce per un attimo l'innocenza che con il passare degli anni va gradualmente scomparendo.
Basti pensare a quanto significato e profondità racchiudono queste poche lettere: “Shalom”. La parola non significa solo pace, ma anche ciao, addio, completezza. Contiene un grande segreto di felicità e fede nella vita. Quando i bambini di sei anni in Israele iniziano la prima elementare, la prima parola che imparano a leggere e scrivere è “Shalom Kita Aleph”:
     “Shalom Kita Aleph – Pace [sia con te], ciao prima elementare.
Questa parola racchiude in sé tesori e promesse. La pace è la preghiera profonda di ogni persona ragionevole che comprende il valore e la bellezza della vita.

  • Pace interiore, con me stesso
  • Pace con le persone che mi circondano, con la mia famiglia, con il mio coniuge
  • pace all'interno della nazione, tra i partiti e tra le confessioni e le etnie
  • pace mondiale tra tutti i popoli e tutte le nazionalità
  • pace tra gli uomini

Nel nome della città di Gerusalemme si nasconde questa meravigliosa parola: pace. Gerusalemme, Yerushalayim, può essere interpretato come “città della pace/totalità”.
Quando regna la pace, ci sentiamo completi. 
E funziona anche al contrario:
quando ci sentiamo completi, regna la pace.
Non a caso la parola pace è contenuta nella parola Gerusalemme. La pace a Gerusalemme è la fonte della pace nel mondo.
E Melchisedek, re di Salem, portò pane e vino, ed era sacerdote dell'Iddio Altissimo. “ (Genesi 14,18) ("Salem" significa ‘completo’ e si riferisce a Gerusalemme)
Aspetto con ansia e prego per il momento in cui Melchisedek, un ‘re completo’, tornerà da noi. Aspetto il giorno in cui pregheremo insieme a lui sul pane e sul vino e avremo una nuova profezia che dice:
«Pace, pace, e la pace È» (Geremia 6,14).
Amen.

(Israel Heute, 20 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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«Ho odiato Hamas e continuo a odiarlo»

Nell'ospedale Sheba di Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, in un reparto speciale vengono curati anche soldati gravemente feriti e traumatizzati durante le operazioni contro Hamas nella Striscia di Gaza. Incontro con una vittima di guerra.

di Carl Brunke 

RAMAT GAN (Israele) - “Returning to Life” (Ritorno alla vita) è scritto sul cartello all'ingresso del reparto. Attualmente 50 soldati israeliani feriti nella guerra di Gaza sono qui in riabilitazione per poter tornare alla vita. Alcuni rimangono in clinica fino a un anno. Shahar è uno di loro. Il maggiore della riserva ha 38 anni e ne dimostra dieci di più. Non c'è da stupirsi. “Ero in pessime condizioni, sanguinavo dappertutto. È un miracolo che io sia qui”, dice.
Qui si trova il grande ospedale Sheba a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv. L'area si estende su 80 ettari, sei ospedali con 120 reparti e 11.000 dipendenti, di cui 3.000 infermieri. Nella classifica della rivista statunitense “Newsweek”, Sheba si è classificato all'ottavo posto tra i migliori ospedali del mondo.
Sotto il comando di Shahar c'erano 100 soldati di un'unità di infiltrazione. Una volta all'anno i riservisti si riunivano per un'esercitazione. Fino al 7 ottobre 2023. Il giorno del massacro di Hamas che ha cambiato tutto. “Non siamo stati sorpresi che ci provassero. Siamo stati sorpresi che sia successo”, dice.
Da allora è stato in missione a Gaza per un totale di 230 giorni. Fino al 10 ottobre 2024. “Nel nord di Gaza stavamo viaggiando su un veicolo militare quando siamo stati colpiti da un razzo dei terroristi di Hamas. Il mio compagno Daniel è morto sul colpo”, racconta Shahar. Quando il veicolo ha colpito una mina ed è esploso, il mitragliere è rimasto ucciso e Shahar è rimasto ferito in modo grave.
“Ero in pessime condizioni. Sanguinavo dappertutto. Ero solo e indifeso”. Shahar è stato fortunato. Nelle vicinanze si trovava un'unità israeliana che lo ha portato fuori dalla zona di pericolo. È stato trasportato in elicottero in un ospedale di Gerusalemme, dove è stato operato immediatamente.
Da oltre sei mesi, il corridoio dei soldati dell'ospedale Sheba è diventato una sorta di casa per lui. Nelle zone relax ci sono divani e poltrone che hanno visto giorni migliori. Come i soldati che vi riposano. Chi conosce Israele non si stupisce dei mobili segnati dall'uso. In molti luoghi il Paese ha conservato il carattere provvisorio e lo spirito del kibbutz.
Ma naturalmente questa superficiale impressione è ingannevole. Sheba dispone di un ospedale sotterraneo di cinque piani per i casi di guerra e con “Sheba Beyond” sta promuovendo la digitalizzazione in campo medico. “Nel Negev stiamo progettando una clinica basata esclusivamente sull'intelligenza artificiale”, afferma Steve Walz, portavoce di Sheba, sottolineando la coesione tra il personale ebraico e quello arabo (25%): ‘La guerra resta fuori, a Sheba tutti lavorano fianco a fianco e mano nella mano’.
 
Anche i pazienti palestinesi sono benvenuti
   Il professionista delle pubbliche relazioni di New York conosce bene il suo mestiere. Anche i pazienti della Cisgiordania vengono curati a Ramat Gan, pagati dall'Autorità Palestinese (AP) o da organizzazioni non governative (ONG). Al contrario, i pazienti delle famiglie reali degli Stati arabi che non intrattengono relazioni diplomatiche con Israele pagano direttamente a Sheba le loro fatture.
In una grande sala comune, le terapiste lavorano con gli uomini feriti. Un ragazzo di massimo 25 anni è seduto a un piccolo tavolo da cucina e sta imparando a mangiare di nuovo con coltello e forchetta. Ai primi tentativi non riesce ancora a infilzare un pezzo di pollo. Qui nessuno prova vergogna o timidezza. Il destino comune unisce.
Shahar si è in parte ripreso. La gamba destra gli dà ancora problemi. ‘Andrà meglio. Quando sarò completamente guarito, voglio tornare nell'esercito’. E tornare al suo lavoro in una start-up a Tel Aviv. “Come riservista non devo tornare nell'esercito. Ma ho una missione e la porterò a termine”, afferma con convinzione. Shahar vuole difendere il suo Paese, lo Stato ebraico di Israele. Anche per i suoi amici della compagnia che ha perso a Gaza. “Penso che un giorno tornerò a Gaza”.
Molti dei soldati feriti ricoverati nelle cliniche di Sheba condividono questo atteggiamento, conferma Steve Walz. La moglie di Shahar non ha nulla da obiettare: «Anche lei è nell'esercito e sa con chi è sposata. Inoltre, ora ho ancora più esperienza. Odiavo Hamas e continuo a odiarlo». Quando Shahar parla in questo modo, emerge con particolare chiarezza una differenza tra tedeschi e israeliani: gli uni non vogliono mai più essere carnefici, gli altri non vogliono mai più essere vittime.
Nota: per proteggere la sua identità, pubblichiamo solo il nome di battesimo del soldato israeliano e non mostriamo alcuna sua foto.

(Israelnetz, 19 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Usa: per la maggioranza degli elettori ebrei Trump sta sbagliando in politica estera

Il sondaggio tra gli elettori ebrei registrati ha rilevato che il 52% degli intervistati afferma che la parola “antisemita” descrive molto o abbastanza bene il presidente degli Stati Uniti, e quasi il 70% ha detto lo stesso per le parole “fascista” e “razzista”. Inoltre, il 74% degli intervistati disapprova il lavoro che Trump sta facendo come presidente, e il 49% afferma che i tagli ai finanziamenti alle università hanno aumentato l’antisemitismo.

di Nina Prenda

Circa la metà degli ebrei americani descrive il presidente Donald Trump come antisemita, mentre solo una minoranza pensa che le sue misure nei campus stiano riducendo l’antisemitismo, secondo un nuovo sondaggio condotto dalla società di sondaggi GBAO Strategies.
Gli ebrei americani sono anche ampiamente critici nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu, e alcuni di loro dicono di sentire un attaccamento minore a Israele rispetto a prima dell’attuale guerra Israele-Hamas, iniziata con le atrocità guidate da Hamas del 7 ottobre 2023, secondo il sondaggio.
Il sondaggio tra gli elettori ebrei ha rilevato che il 52% degli intervistati afferma che la parola “antisemita” descrive molto o abbastanza bene il presidente degli Stati Uniti.
Inoltre, il 74% degli intervistati disapprova il lavoro che Trump sta facendo come presidente, mentre il 26% approva. Quasi il 70% ha detto che le parole “fascista” e “razzista” lo descrivono molto o un po’ bene.
Sondaggi precedenti hanno costantemente riportato bassi indici di approvazione per Trump da parte degli elettori ebrei, che si sono appoggiati fortemente ai democratici per decenni. Il sondaggio ha rilevato che una grande maggioranza degli intervistati prevede di sostenere i democratici nelle elezioni di medio termine del prossimo anno.
Ma la descrizione “antisemita” è notevole proprio perché Trump ha fatto una grande campagna per combattere l’antisemitismo. Da quando è tornato in carica, la sua amministrazione ha intrapreso una serie di azioni di alto profilo con l’obiettivo dichiarato di combattere l’antisemitismo, tra cui ottenere miliardi di dollari di finanziamenti dalle università e cercare di limitare la capacità d’azione degli attivisti studenteschi stranieri.
Il sondaggio ha rilevato che solo una frazione degli intervistati pensa che tali azioni riducano l’antisemitismo, mentre una quota molto più grande ha affermato che le azioni aumentano l’antisemitismo.
Il 49% degli intervistati ha affermato che i tagli ai finanziamenti alle università hanno aumentato l’antisemitismo, mentre il 25% ha affermato che i tagli riducono l’antisemitismo e il 26% che non hanno alcun impatto.
Il 61% degli intervistati crede che l’arresto dei manifestanti filo-palestinesi voluto dall’amministrazione Trump aumenti l’antisemitismo, mentre il 20% sostiene che riduca l’antisemitismo e un altro 20% che non ha alcun impatto.
Nel complesso, il 77% degli elettori ebrei è preoccupato per l’antisemitismo nei campus universitari, mentre ancora di più sono preoccupati per l’antisemitismo negli Stati Uniti più in generale. Ma il 64% disapprova il lavoro che Trump sta facendo per combattere l’antisemitismo, mentre il 36% approva.
Il sondaggio è stato condotto da un nuovo gruppo apartitico chiamato Jewish Voters Resource Center, che mira a raccogliere e diffondere dati sugli elettori e sulle questioni ebraiche. GBAO, che in passato ha condotto sondaggi per gruppi ebrei liberali, ha condotto il sondaggio su 800 elettori ebrei dal 22 aprile al 1° maggio. Ha un margine di errore del 3,5%.
Il sondaggio ha anche rilevato che il 74% degli elettori ebrei disapprova il lavoro che Donald Trump sta facendo in politica estera, mentre il 26% approva. Il sondaggio ha rilevato che solo il 34% degli intervistati ha opinioni favorevoli su Netanyahu, mentre il 61% ha opinioni sfavorevoli su di lui.
Infine, il 72% degli intervistati ritiene anche che la ripresa dell’azione militare a Gaza renda più probabile che gli ostaggi vengano uccisi e il 28% afferma che li rende più propensi a essere rilasciati.
 

(Bet Magazine Mosaico, 19 maggio 2025)

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Operazione del Mossad: recuperati oltre 2.500 documenti su Eli Cohen

di Luca Spizzichino

Con un’operazione segreta all’interno della Siria, il Mossad ha recuperato oltre 2.500 documenti classificati riguardanti la figura di Eli Cohen, la spia israeliana giustiziata pubblicamente a Damasco nel 1965. La scoperta arriva in concomitanza con il 60° anniversario della sua morte ed è destinata a riscrivere parti importanti della sua storia. Secondo quanto annunciato domenica dallo stesso Mossad, i materiali erano custoditi in un luogo estremamente protetto, sotto la supervisione dei servizi segreti siriani. Nonostante il deterioramento dell’autorità del regime di Bashar al-Assad, l’operazione ha richiesto una pianificazione meticolosa ed è stata portata a termine solo di recente. Tra i documenti recuperati figurano i passaporti falsi utilizzati da Cohen, le chiavi originali del suo appartamento a Damasco, comunicazioni ricevute dai vertici del Mossad, relazioni di sorveglianza siriane e, tra i ritrovamenti più toccanti, una copia originale del testamento scritto di suo pugno prima dell’esecuzione e una serie di registrazioni audio su cassette.
  Grande rilievo assumono anche i documenti che testimoniano la campagna diplomatica condotta dalla moglie di Cohen, Nadia, per salvargli la vita: lettere, appelli e tentativi rivolti sia ai leader siriani che alla comunità internazionale. In segno di rispetto e riconoscimento, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il direttore del Mossad, David Barnea, hanno recentemente incontrato Nadia Cohen, ribadendo l’impegno dello Stato di Israele a riportare finalmente in patria i resti dell’agente. Resta però il mistero: perché, nonostante il ritrovamento dell’intero dossier siriano, il corpo di Eli Cohen non sia stato ancora localizzato.
  Già nel dicembre 2022 il Mossad aveva declassificato nuovi dettagli sul suo arresto, rivelando l’intercettazione dell’ultimo cablogramma inviato da Cohen il 19 gennaio 1965, in cui riferiva di un incontro segreto tra il presidente siriano Amin al-Hafez e i vertici militari del Paese. Per decenni ci si è interrogati se Cohen sia stato tradito dall’eccesso di zelo dei suoi superiori o da imprudenze personali. Ma il direttore del Mossad Barnea ha messo a tacere queste ipotesi: “Eli Cohen non fu catturato perché trasmise troppo, né perché disobbedì ai protocolli. Fu un esempio di coraggio e dedizione assoluti. A volte, anche i migliori possono cadere vittime della determinazione del controspionaggio nemico”. Addestrato intensamente, Cohen fu inviato in Argentina per costruire una solida identità di copertura come uomo d’affari con legami con la Siria. A Damasco riuscì a penetrare nei più alti circoli del potere grazie al suo carisma e alle sontuose feste che organizzava, guadagnandosi la fiducia di ufficiali e ministri.
  Il suo contributo all’intelligence israeliana fu fondamentale: molti storici gli attribuiscono un ruolo cruciale nella vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Tuttavia, l’intensificarsi delle lotte interne al regime siriano e l’introduzione di tecnologie sovietiche anti-spionaggio nel 1963 segnarono l’inizio della fine per l’agente. “Eli Cohen resta una fonte di ispirazione per generazioni di agenti del Mossad. La sua eredità vive nel nostro impegno quotidiano”, ha concluso Barnea.

(Shalom, 19 maggio 2025)

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Yuval Raphael conquista il secondo posto all’Eurovision 2025

Il televoto premia Israele con 297 punti

di Luca Spizzichino

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Yuval Raphael ha ottenuto il secondo posto assoluto all’Eurovision Song Contest 2025, trionfando nel televoto con ben 297 punti. A vincere il prestigioso microfono di cristallo è stato l’austriaco JJ con la ballata “Wasted Love”. Per Israele si tratta della settima volta tra i primi cinque posti nella storia della competizione.
  Nonostante le polemiche e i numerosi appelli per escludere Israele dalla gara, il pubblico europeo ha scelto di premiare la performance di Raphael. I fischi di protesta sono stati sovrastati da applausi e standing ovation. Chiudendo la sua esibizione con: “Am Yisrael Chai!”
  Le giurie nazionali si sono mostrate più caute: Israele ha ricevuto il massimo punteggio, i celebri “douze points”, solo dall’Azerbaigian, ma ha raccolto consensi significativi anche da paesi insospettabili come l’Irlanda, che ha assegnato 7 punti allo Stato ebraico, nonostante il forte clima anti-israeliano presente nel Paese. L’Italia ha assegnato 0 punti a Israele tramite la giuria, ma 8 punti dal televoto, a conferma di un ampio sostegno da parte del pubblico.
  Poco dopo l’annuncio dei risultati finali, in un commento rilasciato a caldo, Raphael ha ribadito il suo affetto per il pubblico israeliano: “Amo il popolo d’Israele più di ogni altra cosa al mondo”.
  Durante la sua esibizione, la sicurezza ha sventato due tentativi di protesta sul palco. Una coppia olandese ha cercato di interrompere la performance: la donna ha spruzzato vernice rossa su un agente, e entrambi sono stati arrestati. Per motivi di sicurezza, l’intera delegazione israeliana ha lasciato temporaneamente la Green Room.
  Sui social, Raphael ha pubblicamente ringraziato la sua scorta personale. Le minacce, del resto, non erano nuove né infondate: lo scorso anno, la cantante Eden Golan aveva ricevuto così tante intimidazioni che il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, si era recato personalmente a Malmö per supervisionarne la protezione. Anche alcuni canali pubblici europei, come RTVE (Spagna) e VRT (Belgio), hanno trasmesso messaggi a favore della causa palestinese durante la diretta. Il messaggio spagnolo recitava: “Quando i diritti umani sono in pericolo, il silenzio non è un’opzione.”

(Shalom, 18 maggio 2025)

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Il coro della sconfitta – così i media israeliani giocano a favore di Hamas

La menzogna secondo cui agli americani importa degli ostaggi più che al governo israeliano, l’aiuto al nemico nella pubblicazione dei suoi video di terrore psicologico, il modo in cui Hamas manipola i nostri media, e al contrario di tutto questo: le vedove piene di spirito del battaglione 8207

di Kalman Liebskind

Questa è la narrazione che è passata come un filo conduttore questa settimana nei giornali, nei programmi radiofonici e nelle trasmissioni televisive: Donald Trump si preoccupa dei suoi cittadini, e quindi Eidan Alexander, che ha un passaporto americano, è stato liberato dalla prigionia. Il governo israeliano non si preoccupa dei suoi cittadini, e quindi gli altri 58 ostaggi, che non hanno un passaporto americano, sono rimasti a Gaza. Su Kan 11 hanno fatto di più, quando all’inizio del notiziario hanno mostrato sullo schermo le foto dei 23 ostaggi tenuti in vita, con sopra un grande titolo rosso “Loro non hanno un passaporto americano“.
E questa squallida campagna politica, che cerca di raccontarci che agli americani importa dei nostri ostaggi più di quanto importi al governo israeliano, deve essere smantellata. Prima di tutto, forse qualcuno ha dimenticato – Eidan Alexander non è il primo ostaggio ad essere liberato. Finora il governo israeliano ha portato alla liberazione di quasi 200 ostaggi.
La grande maggioranza di questi ostaggi liberati non sono cittadini americani. Sono cittadini israeliani. E a differenza di Donald Trump – che ha ricevuto Eidan Alexander gratuitamente, e dubito fortemente che avrebbe pagato qualcosa all’organizzazione terroristica di Hamas se fosse stato necessario – per gli altri ostaggi il governo israeliano ha dovuto pagare prezzi molto alti, e ha scelto di pagarli. Era giusto pagare tali prezzi? Questa è un’altra discussione, con opinioni in entrambe le direzioni, ma ora non stiamo trattando opinioni ma fatti.
Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano ha rilasciato molti terroristi che hanno ucciso circa 650 israeliani, uomini e donne, neonati e anziani. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano ha mandato molti soldati a rischiare le loro vite, alcuni dei quali sono caduti in battaglia per raggiungere questo obiettivo sacrosanto. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano era pronto a fermare la guerra, a ritirarsi da luoghi che avevamo conquistato con molto sangue, e a permettere ai terroristi di tornarvi per prepararsi al prossimo round.
Quindi chi ha pagato di più per gli ostaggi, gli americani o noi? Vi immaginate Trump che rilascia centinaia di terroristi, le cui mani sono macchiate del sangue di molti americani, come abbiamo fatto noi? Quante altre menzogne possono ancora iniettarci, solo per adempiere al sacro compito politico di combattere questo governo?
E se parliamo degli americani, bisogna dire un’altra cosa al riguardo. Gli americani sono una delle ragioni principali per cui l’organizzazione terroristica che tiene i nostri ostaggi è ancora in piedi. Gli americani, quegli stessi americani che ora tutti dobbiamo ringraziare e ammirare per le loro azioni, sono quelli che hanno esercitato una forte pressione su di noi e ci hanno ordinato di rifornire Hamas, di permettere loro di sopravvivere, e di far capire loro che nulla è urgente.
Gli americani sono quelli che hanno imposto un embargo sulle armi che ci ha reso difficile colpire i terroristi con più forza e più presto. E in generale, se l’intera storia inizia e finisce con il fatto che gli americani si preoccupano degli ostaggi che sono loro cittadini più di quanto noi ci preoccupiamo degli ostaggi che sono nostri cittadini, e con un piccolo hocus-pocus sono riusciti a fare ciò che noi non abbiamo fatto, come mai Eidan Alexander è rimasto nei tunnel per 584 giorni? Perché gli americani non hanno fatto questa magia prima?
Quindi dopo aver presentato i fatti, possiamo anche aggiungere una valutazione ragionata: dopo che il nostro livello politico ha preso la decisione di rientrare nella Striscia in forze, e dopo che l’IDF ha reclutato così tanti soldati per questa operazione, Hamas ha deciso che valeva la pena gettare un osso agli americani, anche se significava rilasciare senza compenso un soldato dell’IDF, anche solo per fare uno sforzo per fermare la disgrazia che stava per abbattersi. In altre parole, non sono stati gli americani, che come detto non hanno pagato nulla, a portare a questa liberazione, ma è stata ancora una volta la pressione delle Forze di Difesa Israeliane.
E in generale, questo sforzo di trasformare ogni evento, persino la felice liberazione di un soldato di Golani, in qualcosa di acido e deprimente, diventa insopportabile. Che m’importa se questa liberazione è avvenuta a seguito di un dialogo tra americani e Hamas? Che m’importa se questa liberazione è avvenuta “sopra la testa del governo israeliano”? Abbiamo decine di persone in prigionia, e dato le richieste di Hamas – gli sforzi per liberarli affrontano sfide non semplici. E data questa situazione complessa, chiunque porti un’idea su come liberare anche un solo ostaggio, senza compenso, non importa chi sia o quale cittadinanza abbia – sia benedetto.
Se la Repubblica Dominicana riuscisse a portare alla liberazione di un soldato dell’IDF dalla prigionia gratuitamente, sopra la testa del governo israeliano, e lo facesse solo perché questo soldato ha commosso i dominicani quando ha visitato il loro paese una volta, e tutto questo accadesse sfruttando il fatto che il portavoce di Hamas è un secondo cugino del ministro del turismo dominicano, dovrei essere sconvolto da questo? Ma dico, siete impazziti?

Cosa pensavate che sarebbe successo?
   Questa storia non è saltata fuori dal niente. Dagli studi televisivi si sente da molto tempo il canto della sconfitta, mentre si cerca incessantemente di abbassare il morale e seminare tra noi un senso di depressione. Inizia con spiegazioni che la guerra è un fallimento, che nulla sta avendo successo, che avremmo potuto fare le cose molto più velocemente. Continua con sforzi supremi per convincere che solo pochi si presenteranno alle armi, che la motivazione sta diminuendo, che stiamo annaspando, che stiamo affondando nel fango di Gaza, che non si possono inviare ordini di richiamo ai riservisti quando gli ultraortodossi non si presentano, che non c’è senso in questa guerra, che è tutto politico, che metteremo in pericolo gli ostaggi, e che non c’è motivo di combattere ora se possiamo farlo tra un anno o due.
Su Kan 11 ho visto un calcolo economico che spiega che la guerra ci costa molti soldi, e che se solo avessimo risparmiato questi soldi, avremmo potuto creare qui un paese meraviglioso, con classi meno affollate, con più macchinari per la risonanza magnetica e con un budget più alto per strade e ferrovie.
Ho visto questi calcoli e mi sono ricordato dei loro fratelli maggiori, che in passato hanno controllato quanto ci costano gli insediamenti, ma non si sono mai seriamente chiesti se valesse la pena realizzare il costoso piano di disimpegno, e non si sono mai seriamente chiesti quanto ci sono costati gli accordi di Oslo, e quanto ci è costato dover inseguire per anni i terroristi che abbiamo portato in patria dalla Tunisia, e quanto ci sono costate le guerre che ci hanno portato il ritiro dal Libano, e cosa più importante – non si sono seriamente chiesti se, alla luce di questi costi, tutto ciò valesse la pena.
Ma sapete cosa mi ha fatto più ridere quando ho visto sullo schermo di Kan 11 questi calcoli di “cosa avremmo potuto fare con questi soldi se non avessimo combattuto”? Che gli stessi identici testi sono pronunciati da coloro che vogliono chiudere l’ente radiotelevisivo pubblico. Anche loro spiegano, con le stesse identiche parole, che con 800 milioni in più ogni anno avremmo potuto investire di più nelle aule scolastiche, nelle macchine per la risonanza magnetica, nelle strade e nelle ferrovie. E come sostenitore della televisione pubblica, posso dire che non ho idea di come sia un paese che non investe in tale televisione, ma ho un’idea di come sia un paese che non investe nella guerra contro Hamas.
E conosco bene il prezzo di questa guerra, i cicli interminabili di richiami in servizio, la moglie che rimane a casa alla fine della gravidanza mentre il marito è chiamato in servizio, i bambini piccoli che di tanto in tanto si trasferiscono a casa del nonno e della nonna, perché il loro padre è a Khan Younis, e gli ordini di richiamo che piovono come un diluvio una volta dopo l’altra. Ma che scelta abbiamo? Abbiamo già visto cosa succede quando si vive accanto a un’organizzazione terroristica con motivazioni omicide, senza la volontà e la disponibilità a fare ciò che serve per distruggerla.
Alla fine, tutta questa campagna per abbattere lo spirito ha lo scopo di convincerci tutti a fermarci, ad arrenderci e a soccombere. Cosa potrebbe mai succedere se ci fosse Hamas a tre minuti di corsa dal kibbutz Nir Oz? L’importante è che non ci costi denaro, l’importante è che non facciamo il servizio di riserva, l’importante è che ci sia finalmente la pace qui.
C’è qui un coro di un gruppo che si è stancato della strada da percorrere, e i media israeliani dirigono questo coro. Basta, trasmettono, siamo stanchi. Non abbiamo più la forza di combattere per ciò che è nostro. Vogliamo la pace e ci raccontiamo che se solo dessimo al nemico ciò che chiede, ci darebbe questa pace. E questo è esattamente ciò che ci siamo raccontati alla vigilia del 7 ottobre, quando pensavamo che se solo avessimo fornito a Yahya Sinwar una buona economia e posti di lavoro, i suoi uomini avrebbero dimenticato che siamo condannati a morte.
E cosa pensate che succederà se ci ritiriamo adesso? Hamas capirà di aver sbagliato? Che questa non è la strada? I suoi uomini andranno a crescere i nipoti all’ombra del tramonto sulla spiaggia di Dir al-Balah? Abbandoneranno il loro desiderio di distruggere lo stato ebraico? C’è più 6 ottobre di questo?
Non meritiamo una discussione più seria, dal modo in cui i nostri media stanno conducendo la discussione sulla questione di quanto sia necessario e importante sconfiggere definitivamente chi è responsabile del più grande massacro della nostra storia? E in generale, come si può da un lato opporsi alla continuazione della guerra e sostenere che non ha legittimità, e dall’altro gridare perché non abbiamo intrapreso una tale guerra prima del 7 ottobre, e come abbiamo permesso a questo mostro del terrore di esistere senza combatterlo, in giorni in cui è del tutto chiaro che non c’era alcuna legittimità per intraprendere una tale guerra?
E quando e come, diavolo, la necessità di sconfiggere Hamas è diventata un argomento controverso? Non sto parlando di Gideon Levy, che ha spiegato questa settimana su “Haaretz” che “la distruzione di Hamas è un obiettivo criminale”. Sto parlando del mainstream israeliano sionista. Quello che vuole sconfiggere il nemico. Quello che vuole inviare al mondo arabo il messaggio che chi ci fa ciò che Hamas ha fatto, non la farà franca. Quello che vuole permettere ai kibbutzim e ai moshavim di confine di tornare a una vita serena, di coltivare grano, di crescere bambini, e non di occuparsi del conto alla rovescia verso il prossimo round.

Questa non è una richiesta di pace
   Il video pubblicato da Hamas lo scorso sabato, in cui si vedono gli ostaggi Yosef Haim Ohana ed Elkana Bohbot, era straziante. Da un lato – ogni video del genere è un altro segno di vita incoraggiante. Dall’altro – le dure condizioni, il terribile stato mentale e il grande dolore dei filmati colpiscono profondamente l’anima. Ho espresso in passato la mia opinione contro la pubblicazione di questi video.
Anche perché si tratta di una manipolazione maligna con cui non ho alcun desiderio di collaborare. Anche perché i testi pronunciati dagli ostaggi sono formulati meticolosamente dall’organizzazione terroristica crudele che ha invaso i nostri insediamenti, ci ha massacrato, ci ha stuprato, ci ha ucciso e ha rapito la nostra gente. Hamas non pubblica questi video per rallegrarci e trasmetterci i saluti dai nostri ostaggi. Li pubblica per esercitare su di noi il terrore psicologico. E cosa facciamo in risposta? Collaboriamo con questo terrore.
Nell’ultimo video, pubblicato sabato scorso, si sente Yosef Haim Ohana mentre parla ai “nostri fratelli piloti”. “Sono molto orgoglioso di quelli di voi che hanno deciso di smettere di salire e di mettere a rischio le nostre vite, e hanno firmato ciò che hanno firmato. Ma quelli che sono ancora in grado di salire e bombardare qui noi, i prigionieri civili, cosa raccontate alle vostre famiglie? Cosa raccontate alle nostre famiglie? Cosa?
Non bisogna essere un grande genio per capire che il nostro nemico è molto preoccupato dalla possibilità che i piloti dell’aeronautica militare continuino a bombardarlo. Non si preoccupa del benessere di Yosef Haim Ohana e di Elkana Bohbot. Si preoccupa della sicurezza dei suoi assassini. E visto questo, un media israeliano che pubblica queste cose collabora con il nemico. Non c’è altro modo di presentare le cose.
Volete mostrare qualche secondo in modo che possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo perché il nostro uomo è vivo? Va bene. Ma vedere come quasi tutti i media – Canale 12 e Canale 13, Walla, Mako e Ynet, “Maariv” e i24 – presentano la propaganda del nemico al completo, e trasmettono tre minuti e 19 secondi distillati di messaggi di Hamas, è un evento inconcepibile.
Una nota positiva di responsabilità va, in questo contesto, all’ente radiotelevisivo pubblico (disclosure completa, ecc.), che dopo un breve periodo in cui il video completo era in onda, ha deciso di editarlo e di lasciarne solo 26 secondi. Il messaggio è chiaro: un segno di vita importante – vale la pena pubblicarlo. Un appello emotivo di un’organizzazione terroristica, che cerca, con mezzi manipolativi, di convincere i piloti dell’aeronautica militare a non combatterla – no.
Ho menzionato questo argomento qui più di una volta, ma per qualche motivo non riceve abbastanza spazio nel discorso pubblico. Hamas, senza nemmeno cercare di nasconderlo, ci manipola come burattini. Prendete solo il semplice fatto che quasi tutti i loro video di ostaggi vengono pubblicati da questi assassini nei fine settimana, di solito il sabato pomeriggio. Perché succede questo? Non perché queste sono le ore in cui il loro reparto digitale è libero, ma perché queste sono le ore prima delle proteste regolari del sabato sera, e Hamas ha interesse ad alimentarle con energie.
Non ho alcuna pretesa di pensare, Dio mi guardi, che i manifestanti siano interessati a promuovere gli interessi di Hamas, ma è del tutto chiaro che Hamas è convinto che sia questo che stanno facendo. E quindi, il video di Yosef Haim Ohana e di Elkana Bohbot è stato pubblicato sabato scorso, e anche il video precedente di Elkana Bohbot è stato pubblicato di sabato, e così anche il video di Maxim Harkin, e il video precedente di Harkin e di Bar Kuperstein, e il video di Eidan Alexander, e il video di Matan Tsengauker, e nel passato più lontano il video di Liri Albag, e tra questi, venerdì pomeriggio, è stato pubblicato il video di Matan Angerst.
E poiché, come abbiamo imparato, questa organizzazione terroristica non è stupida, è chiaro che è convinta che le proteste contro il governo sulla questione degli ostaggi la aiutino, e che la pressione sul governo affinché si arrenda e le dia ciò che vuole, la trasmetta. Dovrebbe questo far sì che qualcuno che vuole protestare non lo faccia? Non entro in questo. Viviamo in un paese libero, e che ognuno faccia ciò che ritiene giusto fare. Penso solo che sia giusto parlare di questa questione.
Hamas, con le sue azioni e i suoi video, grida ad alta voce: “Voglio che continuiate a fare pressione sul vostro governo, perché questo è buono per me. Voglio che continuiate a pubblicare i video di propaganda che diffondo, perché questo mi aiuta”, e questa realtà non dovrebbe essere ignorata.
Perché in pratica, qual è la differenza – nell’azione, non nelle intenzioni – tra la campagna che Hamas ci chiede di condurre, e la campagna che noi nei media stiamo conducendo? Ci chiede di trasmettere i video? Noi li trasmettiamo. Ci chiede di incoraggiare le proteste attraverso i video? Noi le incoraggiamo. Ci chiede di convincerci a rinunciare all’espansione della campagna contro di esso? Anche noi cerchiamo di convincere in questo. Ci chiede di spiegare che dobbiamo pagargli qualsiasi prezzo chieda? Questo è esattamente ciò che chiedono i nostri media.
Di nuovo, sottolineiamo l’ovvio, Hamas è un nemico e i nostri media non lo sono, ma il fatto che la sua campagna e la nostra campagna si sovrappongano non dovrebbe causare almeno un po’ di disagio?

Su numeri e storie
   Innumerevoli affermazioni si sentono sul fatto che la guerra non è stata gestita bene, e forse ancora non è gestita bene, e che se fosse stata gestita diversamente – forse saremmo già oltre. È vero? Non lo so. È del tutto chiaro che l’estrema cautela con cui abbiamo operato in vaste aree della Striscia per non danneggiare la vita degli ostaggi, ha danneggiato la nostra capacità di usare lì il fuoco con l’intensità che avremmo voluto usare, ma nella complessa realtà con cui ci confrontiamo questa è stata probabilmente la decisione giusta.
E su questo concetto di fondo, è chiaro che non si può avvertire continuamente che gli ostaggi potrebbero rimanere feriti, e poi chiedere perché la guerra dura così tanto tempo. È anche chiaro che non si può attaccare Netanyahu con l’affermazione che non ha fatto nulla per sconfiggere l’organizzazione terroristica prima del 7 ottobre, e contemporaneamente chiedergli di fermare la guerra e ritirarsi, ora, quando Hamas è in piedi. Decidete, o questa organizzazione terroristica deve essere distrutta o no. Non si può avere entrambe le cose.
Torno all’affermazione secondo cui la guerra non è stata gestita bene finora. Supponiamo, solo per il dibattito, che sia un’affermazione corretta. Ignoriamo i ritardi causati dalle pressioni americane e il modo in cui Joe Biden ci ha costretti a fornire aiuti alimentari a Hamas parallelamente alla sua guerra contro di noi, e per il dibattito partiamo dal presupposto che il governo ha gestito la guerra fino ad oggi in modo catastrofico. Come questa ipotesi ci porta alla conclusione che bisogna fermarsi? Come convince qualcuno che il giuramento che abbiamo fatto di cancellare Hamas, dopo aver visto le orribili immagini dagli insediamenti di confine, non è più rilevante?
Immaginate un inseguimento della polizia dopo un’unità di assassini di una grande organizzazione criminale, che ha appena commesso un triplice omicidio, e questo inseguimento procede zoppicando. Una pattuglia entra nella strada sbagliata, una seconda pattuglia si ribalta durante la guida, una terza pattuglia si confonde e i suoi poliziotti sparano per errore nella direzione opposta.
Qualcuno consiglierebbe alla polizia, in tali circostanze, di interrompere l’inseguimento, solo perché tutto è iniziato storto, e di lasciare che gli assassini fuggano dove vogliono fuggire? Abbiamo un’entità armata che si aggira liberamente. Un’entità pericolosa. Un’entità che potrebbe uccidere innocenti. Quindi lasciarla libera perché l’inseguimento nella sua prima fase non è stato gestito bene?
Scrivete articoli contro chi ha gestito la guerra finora, chiedete di sostituirlo alle prossime elezioni, rilasciate interviste contro di lui alla radio. Ma come può la conclusione di qualcuno da una guerra, che secondo lui non è ben gestita, essere che è meglio lasciare questa organizzazione terroristica in pace?
E questo va ricordato: dall’altra parte di questa campagna mediatica ci sono soldati che sono stati chiamati alla bandiera e si sono presentati. E non li invidio e ciò che stanno passando, quando da un lato ricevono l’ordine di attaccare il nemico, e sanno bene perché devono farlo, e cosa ci ha fatto questo nemico, e cosa bisogna fare per sventare le sue intenzioni, e dall’altro lato si avvicinano al loro orecchio i media israeliani, che deprimono il loro morale, che cercano di convincerli che ciò che stanno facendo è politico, costoso e senza speranza, e che se cadranno in battaglia sarà una morte inutile.
Ho visto che attacco c’è stato la settimana scorsa contro Amit Segal, quando ha riferito del 102% di presenze per la riserva. Una serie di giornalisti ci ha dato una lezione in 5 unità di matematica (punteggi per l’esame di maturità NdT) per spiegare che il conteggio non è corretto, che il calcolo è errato, e che la metodologia è confusa. E io, che non so cosa sia giusto e cosa no, e so solo che i miei amici mi raccontano di buone percentuali di presenze nella loro unità, cerco di capire da dove viene la motivazione per questa discussione. A quale bisogno risponde?
Perché quando vedo dei bravi israeliani presentarsi in massa per la riserva, e tra loro un gruppo della mia stretta famiglia, mi riempio di orgoglio. E mi chiedo qual è la storia di quelli che questo disturba tanto che il loro primo istinto li manda a trovare centinaia di motivi che mostrino che il numero non è corretto, che la motivazione non è così alta, che i riservisti non vengono davvero più. Qual è la vostra storia? Cosa state cercando di promuovere quando siamo in guerra contro questo nemico assetato di sangue?

Donne forti che infondono coraggio
   Ma c’è anche un’altra realtà. Una realtà al di là delle onde radio e degli studi televisivi. Questa settimana sei vedove dell’IDF, che hanno perso i loro mariti in questa guerra, hanno inviato una lettera di incoraggiamento commovente ai combattenti del battaglione dei loro coniugi, che sono stati nuovamente richiamati per la riserva negli ultimi giorni.
Cari soldati e famiglie del battaglione 8207“, hanno scritto loro, “in questi giorni, in cui siete tornati di nuovo a combattere, i nostri cuori sono con voi, vi accompagniamo con orgoglio ed emozione. Voi, coraggiosi combattenti che avete perso sette dei vostri migliori amici, che nonostante il dolore e la mancanza continuate a stare in piedi e non vi scoraggiate dal combattere per la nostra cara terra, non lasciate che le emozioni confondano la strada, e continuate nella missione e nella fede“.
Hanno continuato: “Vogliamo incoraggiarvi e dire: siamo orgogliose di voi, crediamo in voi e confidiamo in voi. Siamo sicure che i nostri mariti, caduti in battaglia, vi guardano dall’alto, e vedono la strada che avete fatto da allora, vi proteggono e sono felici di voi, dello spirito, del cameratismo della perseveranza e dell’unità. Firmato: Tal Avitbul – moglie di Eliav z”l, Reut Shabtai – moglie di Guy z”l, Shir Almaliach – moglie di Gilad z”l, Rachel Goldberg – moglie del rabbino Avi z”l, Smadi Moyal – moglie di Shaul z”l, Shiri Tal – compagna di Amit Hayot z”l”.
(Maariv – 16 maggio 2025)

(Kolòt - Morashà, 18 maggio 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 2

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

Il primo santuario
   Dio aveva dato ad Adamo ed Eva l’ordine di crescere, moltiplicarsi e riempire la terra: gli uomini dunque avrebbero dovuto spargersi su tutta la terra. Ma prima ancora che fosse formata Eva, Dio aveva assegnato ad Adamo un “giardino”, cioè un particolare territorio che Adamo avrebbe dovuto lavorare e custodire: il giardino di Eden. Sarebbe stato questo il centro del mondo, il luogo a cui avrebbe dovuto riferirsi l’intera umanità che sarebbe discesa dalla prima coppia; lì Dio si sarebbe incontrato con gli uomini, riconoscendo ad Adamo, come primo uomo creato, la posizione di legittimo rappresentante di tutta la società umana da lui discesa.
  Il giardino di Eden sarebbe stato dunque il luogo dell’incontro fisicamente avvertibile fra Dio, nella sua santità d'amore, e l’uomo, nella sua natura di creatura ubbidiente. Con un linguaggio usato in seguito nella Bibbia, si potrebbe dire che il giardino di Eden avrebbe dovuto essere il luogo in cui la creatura veniva ad adorare il suo Creatore. Cioè un santuario.
  Sappiamo bene che cosa è successo poi in quel santuario su istigazione del serpente; ma non è su questo che ora vogliamo soffermarci, ma piuttosto su quello che accadde in seguito:

    “E udirono la voce dell'Eterno Dio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Dio, fra gli alberi del giardino. E l'Eterno Iddio chiamò l'uomo e gli disse: 'Dove sei?” (Genesi 3:8-9).

La presentazione di un Dio che cammina nel giardino e chiede all’uomo di dirgli dov’è, come se non fosse capace di saperlo da solo, induce al sorriso: “ecco la presentazione in forma infantile di una profonda realtà spirituale che non si può esprimere in altro modo”, pensa l’uomo evoluto di oggi nella sua protervia intellettuale, questa sì davvero infantile agli occhi di Dio.
  Le cose invece sono andate proprio così, come dice la Bibbia. E tutto fa pensare che non fosse la prima volta che Dio si presentava ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden in forma corporalmente riconoscibile da loro. L’amorevole incontro tra Dio e la sua creatura era concreto, corporale, e dunque non continuo. Continua sarebbe stata la comunione d’amore, che in certi momenti sarebbe stata vissuta in forma di una particolare vicinanza fisica, come avviene in un matrimonio ben riuscito.

Ma le cose non sono andate così
  Sta scritto che nel giardino affidato all’uomo l’Eterno Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli alla vista e il cui frutto era buono da mangiare” (Genesi 2:9). Al centro di questo giardino, dunque proprio nel mezzo del primo santuario, Dio fece spuntare due piante speciali: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.
  Il frutto del primo albero sarebbe stato per l’uomo il nutrimento che gli avrebbe permesso di proseguire in una vita senza limite, mantenendo così in eterno quel rapporto d’amore che Dio voleva instaurare con la sua creatura.
  Quanto al secondo albero, è quasi sicuro che per Adamo rappresentò un enigma: “conoscenza del bene e del male”, che significa? Adamo era nato e cresciuto in un avvolgente bene totale: in lui e intorno a lui tutto era buono. Che cosa poteva significare per lui la parola “male”? Che cos’è il male? Ma se anche non poteva capire il significato di quella parola, poteva ben capire che cosa voleva Dio da lui con l’ordine che gli aveva dato riguardo al frutto di quell'albero: “Non ne mangiare”, aveva detto. E perché? mi chiedo subito io. Non è detto però che se lo sia chiesto anche Adamo, perché lui non era ancora immerso nel peccato, come invece sono io, insieme a tutti gli altri uomini mortali. Per Adamo tutto era buono: sia il permesso di mangiare, sia l’ordine di non mangiare. Se l’ha detto Dio, che c’è da discutere?

Qualcosa è andato storto.
  Conosciamo tutti la storia del “peccato originale”. Quello che di solito si sottolinea è la disubbidienza della creatura rispetto all’ordine del Creatore, e la parte che ha giocato il serpente nell’indurre l’uomo alla trasgressione.
  Qui invece vogliamo riflettere sulla parte del Creatore, e chiederci come mai il progetto di Dio non ha funzionato. Eppure alla fine del suo lavoro Dio aveva detto che tutto era “molto buono”. Come mai allora da quella meravigliosa opera creativa sono scaturite conseguenze disastrose: guerre, morti, calamità, disgrazie? Non ci sarà stato qualche errore di progettazione? Perché Dio ha fatto spuntare nel giardino quel pericoloso albero della conoscenza del bene e del male? Perché, dopo averlo messo proprio al centro del giardino, bene in vista, ha imposto all’uomo di non mangiarne il frutto? Perché, pur conoscendo la pericolosità del serpente, ha permesso che entrasse liberamente nel giardino e prendesse la parola? Perché, dopo che con sua menzognera arte seduttiva aveva cominciato a parlare, non ha inviato qualche angelo a esporre l’interpretazione autentica delle parole di Dio?
  Sono domande legittime, di cui si può cercare risposte nella Bibbia, tenendo presente però che vale il principio secondo cui “nella Bibbia o si capisce il tutto o non si capisce niente”. E’ uno slogan, ma può servire ad abbozzare quello che s’intende per “approccio olistico alla Bibbia”.

Partiamo dunque dall’inizio
  “Dio è amore”, sta scritto nella prima lettera dell’apostolo Giovanni (4:8,16), ed è un’affermazione che dev’essere vista al principio di tutta l’opera di creazione. Dio ha voluto formare un mondo abitato da una società di uomini in cui Egli potesse esprimere la sua natura d'amore. E l’amore, per essere pienamente compiuto, deve essere contraccambiato; e per essere contraccambiato, chi riceve l’offerta d’amore deve essere libero di rispondere sì o no. In altre parole, la libertà è il terreno basilare su cui può avvenire lo scambio d’amore.
  Ma lo scambio d’amore fra Dio e l’uomo non può essere simmetrico. L’amore di Dio è attivo, e l’amore dell’uomo è reattivo. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Giovanni 4:19), dice la Bibbia. L’amore attivo di Dio ha un dono e una parola, perché l’amore è collegato alla verità e la verità è collegata alla parola. Dio aveva detto ad Adamo:

    «Mangia pure (dono) da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai (parola di verità)» (Genesi 2:16-17).

In sostanza, all’uomo è stata offerta la possibilità di vivere una relazione d’amore in una posizione di libera e fiduciosa sottomissione a Dio; il serpente invece è riuscito a far credere all’uomo che la sua relazione d’amore con Dio sarebbe stata piena soltanto se vissuta in posizione di parità: “… sarete come Dio” (Genesi 3:5). Ma questo non è possibile: chi ci prova, muore.
  Con la loro pretesa di autonomia, Adamo ed Eva hanno rotto il legame spirituale che li collegava al Datore della vita. Non sono morti sul colpo, subito dopo aver preso il frutto dell’albero, ma è come se avessero contratto immediatamente una malattia mortale. Dovevano fisicamente morire, era inevitabile, perché Dio l’aveva chiaramente detto, ma tra il compimento del “reato” e le sue annunciate conseguenze, il Creatore si è riservato uno spazio di tempo per prendere le sue decisioni.
  Esamineremo più avanti la nuova formulazione che Dio volle dare al suo progetto dopo la fatale scelta di Adamo ed Eva, ma ora vogliamo provare ad immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se Adamo ed Eva non avessero dato ascolto alle parole del serpente e avessero deciso di attenersi strettamente all’ordine di Dio.

L’ipotetica conseguenza di una “ubbidienza originale” a Dio
  La presenza del serpente nel giardino di Eden fa capire che la creazione è avvenuta sotto gli sguardi di Satana, capo di una ribellione angelica che ha prodotto una caduta precedente a quella dell’uomo. Al ribelle Satana Dio ha concesso di entrare nel giardino e rivolgere all’uomo una parola che avrebbe costituito per lui il decisivo test d’esame: Sì o No alla parola d’amore di Dio. Una “prova d’amore” dunque, espressa in parole, come fece Gesù con Pietro presso il mar di Tiberiade: “Simone di Giovanni, mi ami tu?” (Giovanni 21:1-9). Se Adamo, insieme a Eva, avesse risposto Sì a Dio, come poi fece Pietro con Gesù: la comunione d’amore che genera vita sarebbe fruttuosamente proseguita: la coppia avrebbe potuto accedere all’albero della vita, da cui avrebbero ricevuto entrambi vita eterna fisica, senza altri test aggiuntivi. E’ normale dire questo, perché come è bastato un unico No per provocare la caduta di tutto il programma di Dio, così sarebbe bastato un unico Sì per il mantenimento del programma originario nella forma prevista. Lo spirito che il Signore aveva soffiato nelle narici di Adamo per farlo vivere, sarebbe passato anche ai suoi discendenti di generazione in generazione. Come adesso diciamo che ogni bambino è malvagio fin dalla nascita, in quel caso si sarebbe detto che ogni uomo è buono fin dalla nascita, perché porta i segni della fedeltà a Dio dei suoi progenitori. E come oggi diciamo che anche se tutti nascono originariamente “cattivi”, non per questo tutti saranno dannati, così per il fatto che tutti sarebbero nati originariamente “buoni”, non per questo tutti sarebbero stati “salvati”, cioè mantenuti in eterna comunione con Dio.
  Se Adamo avesse risposto Sì a Dio, Satana avrebbe indubbiamente perso una battaglia, ma questo non sarebbe stata la sua definitiva sconfitta nella guerra con Dio. Sarebbe avvenuto il contrario di ciò che avviene al presente dopo la caduta. Oggi ogni uomo nasce malvagio, ma Dio gli concede, rivolgendogli la parola adatta nel momento opportuno, la possibilità di dire Sì a Lui ed essere salvato. Nel mondo scaturito dall’ubbidienza di Adamo a Dio, ogni uomo sarebbe nato buono, ma Satana avrebbe avuto la possibilità di rivolgersi all’uomo divenuto adulto e mettere in dubbio la verità della Parola di Dio ricevuta attraverso i suoi genitori: sarebbe stato dunque sottoposto a un test simile a quello per cui era passato Adamo. Se l’avesse superato, sarebbe stato mantenuto nella “santa società” in cui Dio dimora; in caso contrario sarebbe stato gettato fuori e consegnato nella mani di Satana, di cui aveva seguito il consiglio.
  La società voluta da Dio sarebbe stata dunque sempre costituita da tutti e soli santi; e quando fosse stato raggiunto il numero stabilito dal programma, Dio avrebbe condannato definitivamente Satana, in forme che non sappiamo e non dobbiamo immaginare.
  Alla fine di tutto si sarebbe realizzato l'obiettivo contenuto nel progetto originario di Dio, come espresso nelle parole dell’Apocalisse:

    «Ecco l’abitazione di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:3).

Quanto sopra immaginato, come puro esercizio letterario, può essere convincente o no, ma ha il solo scopo di far riflettere, per differenza, su ciò che poi si è effettivamente verificato nella storia biblica.

Ma Adamo ha detto No
  Adamo si è lasciato convincere dal serpente e ha detto No a Dio. In quel momento, avendo rotto la comunione vitale col suo Creatore, è spiritualmente morto. Avrebbe potuto continuare a vivere fisicamente, ma questo per lui avrebbe significato entrare definitivamente nella schiera di Satana, condividendone il destino eterno preparato da Dio. Per questo il Signore ha impedito ad Adamo di prendere del frutto dell’albero della vita: affinché non entrasse a far parte dell’esercito dei demoni, condividendone la sorte eterna.
  La morte fisica di Adamo è stata dunque una condanna preannunciata, ma nella forma in cui Dio l’ha eseguita è stata una grazia, perché Dio non ha voluto che l’uomo entrasse a far parte dell'esercito di Satana e il progetto creazionale dovesse essere definitivamente abbandonato.
  E’ da questo momento che si possono cominciare ad applicare le ben note parole del Vangelo di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo…”. Sì, perché Dio ha cominciato ad amare il mondo fin da quando l’ha pensato e progettato; e chi ama davvero, non si rassegna facilmente ad accettare che l’oggetto del suo amore si rovini con le sue mani, dicendo che “tanto è colpa sua, peggio per lui”; chi profondamente ama cerca in tutti i modi di salvare l’oggetto del suo amore, nel desiderio di poterlo riottenere, sia pure in condizioni diverse.
  Così ha fatto il Signore: ha tanto amato il mondo (in senso pieno: habitat-società-santuario) che per riaverlo ha “faticato” molto più di quanto avesse fatto nella prima creazione. Ma invece di riaverlo in forma rattoppata, alla fine lo riotterrà in una forma molto più gloriosa di quella originaria.
  Questo però a Dio è costato molto. Davvero molto:

    ‘Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16).
Il chiunque di questo versetto sottolinea che ogni uomo può essere salvato, senza distinzione di qualsiasi tipo, ma non bisogna trascurare, tenendo presente l’intero messaggio biblico, che avere la vita eterna significa ottenere la grazia di entrare a far parte viva del glorioso progetto salvifico di Dio. Ed è appunto su questo che nel seguito vogliamo riflettere.

(2. continua)
(Notizie su Israele, 18 maggio 2025)


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Israele lancia l’operazione “Carri di Gedeone” su Gaza. Cosa sappiamo

di Anna Lombardi

TEL AVIV – Nuova notte di pesanti bombardamenti sulla striscia di Gaza, iniziati pochi minuti dopo il lancio di volantini con l’avvertimento alla popolazione: «Siete in zona pericolosa, evacuate immediatamente verso sud». Ad essere state colpite sono le aree di Jabalya e Beit Lahiya a nord e Deir al-Bala e Khan Younis al centro della Striscia. In mattinata, ulteriori attacchi in elicotteri sono stati segnalati sull’area meridionale di Rafah. Blindati delle Idf sono avanzando verso il sudest di Deir el-Balah, nel centro della Striscia, protetti da un pesante fuoco di copertura. Nelle ultime 24 ore ci sono stati almeno 115 morti, di questi 58 solo stanotte e almeno 10 stamattina. L’Idf annuncia: «È la prima fase dell’operazione Carri di Gedeone, abbiamo già preso il controllo di alcune aree».

Il nome
  Si tratta del piano approvato dall’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu a inizio maggio che prende il nome da un episodio biblico tratto dal Libro dei Giudici: quello dove il profeta (e leader militare) Gedeone riesce a terrorizzare e sbaragliare i nemici – i Medianiti - con uno sparuto gruppo di uomini armati di torce e vasi di coccio per farli sembrare di più. Simbolo della capacità di Dio di fare grandi cose anche con pochi mezzi. Un parallelo bizzarro visto che l’esercito israeliano di mezzi ne ha, eccome. L’escalation per ora consiste in massicci bombardamenti. Fino a poche settimane i ranghi militari si erano opposti: anche perché il piano richiede la mobilitazione di migliaia di riservisti. Ma in realtà gli ultimi dettagli operativi sono stati messi a punto già lo scorso 6 maggio da Eyal Zamir, capo di Stato maggiore dell'Idf e Ronan Bar, capo dello Shin Bet.Se proseguirà secondo i piani, è preliminare a una più vasta offensiva via terra mirata a distruggere definitivamente Hamas, prendere «il controllo operativo» della Striscia, concentrare la popolazione civile ulteriormente a sud. E, sia pur scivolata all’ultimo punto della lista d’intenti, liberare gli ostaggi.

L’operazione
  L’operazione ha preso il via, almeno nella sua fase preliminare appunto, subito dopo la partenza di Donald Trump dalla regione. E nonostante i negoziati di Doha siano ancora in corso, benché in evidente stallo. Continueranno fino a domani, ma la presenza israeliana, scrivono i giornali locali, è ormai «meramente formale». E una fonte interna ai negoziati ha detto ad Axios: «L'impressione è che gli israeliani siano venuti a Doha per ostacolare i colloqui e trovare una giustificazione per incrementare la guerra». Di sicuro, l’inviato americano Steve Witkoff ha lasciato il Qatar già ieri.

Le tensioni con gli Usa
  Cnn nota che la nuova offensiva israeliana si inserisce in un contesto di crescenti divergenze tra il governo americano e quello israeliano. Trump ha infatti dichiarato la settimana scorsa di voler porre fine alla «brutale guerra» di Gaza e non ha visitato Israele durante il tour in Medio Oriente di questa settimana: scelta che, come ha scritto Yedioth Ahronoth, ha sconcertato gli israeliani lasciandoli «confusi e offesi». Non solo. Il presidente americano ha anche ottenuto da Hamas il rilascio dell’ultimo ostaggio israeliano-americano la scorsa settimana. E gli Houthi hanno accettato di smettere di attaccare le navi americane nel Mar Rosso, continuando allo stesso tempo ad attaccare Israele con droni e razzi (finora sempre intercettati). Durante il tour Trump ha anche riconosciuto che la gente a Gaza sta morendo di fame e ha affermato che gli Stati Uniti si occuperanno della situazione nella Striscia, dove il nuovo blocco imposto da Israele lo scorso 4 marzo sta impedendo l’ingresso di aiuti da oltre un mese. In cosa consiste il piano americano, nessuno lo sa. Secondo una rivelazione di Nbc gli americani avrebbero un piano per spostare un milione di palestinesi in Libia e l’amministrazione ne avrebbe già discusso con le autorità libiche, offrendo in cambio lo sblocco di miliardi di dollari di fondi che gli Stati Uniti hanno congelato a Tripoli oltre un decennio fa. Nessun accordo formale è stato raggiunto e comunque un portavoce dell’amministrazione ha già smentito: «La situazione sul campo è insostenibile per un piano del genere».
Intanto, però, pure i media israeliani sottolineano da giorni quanto fra i due paesi si sia scavato un solco profondo. Tanto che Haaretz addirittura titola: «Il messaggio di Trump a Netanyahu: sei licenziato!». Notando che «ogni foto o dichiarazione del presidente Usa nei paesi arabi visitati, ha bruciato la carne di Netanyahu». Sempre secondo il quotidiano «Trump ha capito prima di essere rieletto che gli interessi dello Stato di Israele non coincidono necessariamente con quelli del suo premier». Per ora Netanyahu tace. E il Washington Post interpreta il suo silenzio come remota ultima possibilità di un accordo. Channel 12 in mattinata ha d’altronde pure affermato che “C'è un'apertura per le negoziazioni e la possibilità di interromperli in qualsiasi momento se ci fossero elementi che potrebbero far saltare l'accordo". La riunione di gabinetto di domani sarà il momento della decisione finale: affondo su Gaza o ulteriore attesa. Manco a dirlo, i familiari degli ostaggi ancora prigionieri nella Striscia si oppongono fermamente all’operazione: stasera torneranno a protestare a Tel Aviv.

(la Repubblica, 17 maggio 2025)

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Trump ha scaricato Israele?

Il corrispondente di Israel Heute parla della nuova politica mediorientale di Trump, degli accordi americani con Hamas, i ribelli Houthi e l'Iran, e dell'isolamento di Gerusalemme in politica estera.

di Itamar Eichner

L'isolamento della politica estera di Israele è particolarmente evidente in questo momento, con la visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo.<
Nelle ultime settimane sono saliti alla ribalta due attori centrali in Medio Oriente: il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Insieme al presidente degli Stati Uniti, stanno tracciando la nuova rotta nella regione, sia attraverso la normalizzazione della leadership siriana sotto Ahmad al-Sharaa, sia attraverso i negoziati sul programma nucleare iraniano. Israele, invece, rimane completamente escluso. Completamente isolato.
Da un lato, Gerusalemme è alle prese con una crisi interna e una coalizione di governo sempre più fragile. Dall'altro, la guerra a Gaza si protrae, mentre cresce il dibattito sulla sua utilità: una parte crescente dell'opinione pubblica israeliana chiede la fine dei combattimenti.
Questo articolo pone la domanda: il presidente Trump ha scaricato Israele? La risposta è complessa e ambigua.

L’inizio sembrava promettente
  All'inizio del suo mandato, Donald Trump sembrava un presidente di sogno per Israele: aveva promesso di aprire “le porte dell'inferno” su Hamas, ma si è trattato solo di parole, come si è poi scoperto. Tuttavia, poco dopo la sua vittoria elettorale, con il suo aiuto è stata attuata la prima fase dell'accordo sugli ostaggi, che ha portato alla liberazione di 38 ostaggi, tra cui 25 ostaggi israeliani vivi, come Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, che erano già stati catturati prima della guerra, cinque soldatesse, Arbel Yehud, cinque ostaggi thailandesi e otto salme, tra cui quelle dei membri della famiglia Bibas.
Dopo il suo insediamento, Trump ha revocato l'embargo sulle armi contro Israele, ha posto fine ai finanziamenti statunitensi all'UNRWA, ha revocato le sanzioni contro i coloni israeliani e ha imposto sanzioni contro la Corte penale internazionale e il procuratore capo Karim Khan. Benjamin Netanyahu è stato il primo capo di Stato straniero ad essere invitato a un incontro alla Casa Bianca. In quell'occasione Trump ha avanzato la proposta di trasferire all'estero gli abitanti di Gaza, un sogno della destra israeliana. Si è diffuso l'euforia. I commentatori di destra hanno letteralmente ballato negli studi televisivi.

Le prime crepe
  La rottura è iniziata con i colloqui diretti tra il responsabile degli ostaggi di Trump, Adam Boehler, e Hamas, uno shock per Israele. Ufficialmente è stato poi dichiarato che Boehler aveva agito di propria iniziativa, era stato licenziato e che gli americani avevano riconosciuto il loro errore. Tuttavia, l'accordo di successo che ha portato al rilascio di Edan Alexander ha dimostrato a posteriori che Boehler agiva con il pieno mandato di Trump.
Israele è rimasto nuovamente sconvolto: un soldato israeliano è stato rilasciato dopo 584 giorni solo grazie alla sua cittadinanza statunitense. Anche se Israele non ha dovuto dare nulla in cambio, il messaggio è stato doloroso: gli altri ostaggi senza passaporto americano hanno meno valore?
Israele ha reagito prontamente: ha accolto calorosamente Edan Alexander e subito dopo ha ucciso Mohammed Sinwar, apparentemente insieme ad altri leader di Hamas, probabilmente il colpo più efficace dall'inizio della guerra. Precedenti uccisioni mirate avevano gravemente compromesso i negoziati per il rilascio degli ostaggi.

Cresce la confusione
  Gli Stati Uniti hanno dichiarato di aver liberato Edan Alexander perché era l'ultimo cittadino americano prigioniero a Gaza e che questo era l'inizio di un accordo più ampio. Ma in Israele crescono il nervosismo e lo scetticismo. Se nei prossimi giorni non verrà raggiunto un accordo sugli ostaggi basato sul piano Witkoff originale, Israele intende avviare l'offensiva terrestre “Gideon's Chariots” subito dopo la partenza di Trump.
Un altro segnale è stato il sorprendente invito di Netanyahu a un secondo incontro alla Casa Bianca. Ufficialmente si trattava dei dazi che Trump aveva imposto a Israele e che, nonostante tutte le contromisure, non sono stati ancora revocati. In realtà Trump ha approfittato dell'occasione per annunciare, al fianco di Netanyahu, l'avvio di negoziati diretti con l'Iran sul nucleare. Ancora una volta Israele è rimasto scioccato.
Inizialmente si diceva che gli Stati Uniti avrebbero consentito all'Iran un uso civile, tra cui l'arricchimento dell'uranio fino al 3,67%. Israele non si fidava delle promesse di Teheran. Poi è stato chiarito che si sarebbe insistito sullo smantellamento delle centrifughe. Ma le dichiarazioni sono rimaste contraddittorie. A volte Trump parlava di un possibile accordo, altre volte diceva che l'Iran doveva scegliere tra la diplomazia e le bombe.

Accordo con gli Houthi e omissione di Israele
  Reuters ha riferito che gli Stati Uniti sarebbero disposti a rinunciare alla normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita se quest'ultima ottenesse in cambio un programma nucleare civile. Sebbene durante la visita di Trump a Riad non sia stato firmato alcun accordo in tal senso, la notizia ha suscitato inquietudine. Forse si è trattato di una manovra mirata per sondare il terreno, forse di un tentativo di affossare i piani.
È seguito l'annuncio di Trump di aver concordato con i ribelli Houthi la fine degli attacchi alle navi statunitensi in cambio della sospensione dei raid aerei da parte degli USA. Israele era sbalordito: per i negoziati segreti, per l'accordo, per la mancata partecipazione. Il più stretto alleato dell'America non era stato informato. Ancora più scandaloso: l'accordo non prevedeva la fine degli attacchi contro Israele. Gli Houthi hanno quindi intensificato i loro attacchi, fino all'impatto vicino al Ben Gurion, che ha portato a massicce cancellazioni di voli. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno dichiarato chiusa la questione.

Israele rimane fuori, visibilmente e simbolicamente
  Il viaggio storico di Trump in Medio Oriente lo ha portato in tre Stati del Golfo, ma Israele è stato ostentatamente escluso. Anche alla firma degli accordi a Riad, Doha e Abu Dhabi Israele era assente. Trump sembra accecato dal denaro e ha ignorato completamente la posizione di Israele.
Il punto più basso: l'incontro con il presidente siriano Ahmad al-Sharaa, un uomo che Israele bolla in tutto il mondo come estremista islamico. Trump ha revocato le sanzioni contro di lui e lo ha accolto come parte della “famiglia delle nazioni”.
In Israele si è cercato di minimizzare l'umiliazione: meglio che al-Sharaa si avvicini all'Occidente piuttosto che a Teheran. Sebbene vi fosse un tacito riconoscimento del suo moderato cambiamento di posizione, il colpo di mano degli Stati Uniti è stato possibile grazie al sostegno di due attori: Mohammed bin Salman e Recep Tayyip Erdoğan, i nuovi amici di Trump.

L’equilibrio militare in pericolo
  A ciò si aggiunge la disponibilità degli Stati Uniti a fornire aerei da combattimento F-35 all'Arabia Saudita e alla Turchia, una minaccia diretta alla superiorità militare qualitativa di Israele, che costituisce il fondamento del partenariato strategico con gli Stati Uniti. Trump sembra accecato dal denaro saudita. Sui social media, i suoi collaboratori hanno pubblicato video di palazzi del Golfo, entusiasti del marmo e dei lampadari di cristallo: una testimonianza imbarazzante di ammirazione superficiale. Che ne è dei valori comuni?

Trump: “Il mio viaggio rafforza Israele”
  Durante il volo di ritorno, i giornalisti hanno chiesto a Trump se le sue mosse non avrebbero danneggiato Israele. La sua risposta: “Al contrario, il mio viaggio rafforza Israele”.
Forse non ha tutti i torti. Da un lato, Trump sta conducendo colloqui diplomatici con Teheran, ma allo stesso tempo sta inasprendo le sanzioni, il che è sicuramente nell'interesse di Israele. Dall'altro, però, non riesce a chiamare Erdoğan a rispondere delle sue provocazioni contro Israele. Anche nei confronti del Qatar, Trump rimane sorprendentemente silenzioso, nonostante l'emirato sostenga Hamas, dia rifugio ai suoi leader e permetta ad Al Jazeera di diffondere impunemente propaganda antisemita. Trump ha persino accettato un aereo da 400 milioni di dollari dai qatarioti, nonostante l'evidente conflitto di interessi. Molti dei suoi collaboratori lavorano o hanno lavorato con enti qatarioti.

E che dire degli F-35?
La consegna alla Turchia non è imminente. Ankara vuole essere riammessa nel programma F-35, dal quale è stata esclusa sotto Biden, ma per farlo deve soddisfare numerose condizioni, il che rimane in discussione. Netanyahu ha dichiarato alla commissione per gli affari esteri e la sicurezza della Knesset che Israele sta lavorando attivamente per impedire questo passo.

Trump è un amico o no?
  Ufficialmente si dice che Trump è il miglior amico di Israele e che non abbandonerà Gerusalemme. Ma dal suo entourage si sentono voci diverse: delusione per Netanyahu, per la sua agenda personale e la sua mancanza di volontà di cogliere opportunità storiche come la normalizzazione con l'Arabia Saudita o un accordo sugli ostaggi. Si critica Israele per la sua lentezza nel reagire e per la sua incapacità di vedere il quadro generale. A Washington si dice che il treno di Trump è già partito. Chi vuole ancora salire, deve farlo adesso.
Nei prossimi giorni o settimane si vedrà se i colloqui con l'Iran porteranno a un accordo o finiranno con un fallimento. A quel punto potrebbe presentarsi per la prima volta una situazione di emergenza per Trump: agirà davvero e distruggerà militarmente il programma nucleare iraniano?
Se Trump scegliesse questa strada, Israele sarebbe di nuovo al suo fianco. Se si arrivasse a un accordo, Israele si troverebbe in una posizione difficile: se Netanyahu lo ritenesse pericoloso, difficilmente potrebbe opporsi pubblicamente, come ha fatto in passato con l'accordo di Obama. Trump lo sa e ignora le obiezioni di Israele.
Nell'entourage di Netanyahu, Trump viene trattato con estrema cautela. Nessuno osa criticarlo, perché Trump non è Biden. Ma la delusione è palpabile. Resta solo da sperare che sia Teheran stessa a far fallire i negoziati, in modo che Israele non si trovi di fronte a un nuovo accordo nucleare che rimanda la minaccia e trasforma l'Iran in una potenza emergente.

(Israel Heute, 16 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Qui gli ebrei non parlano

“A Torino si è superata una linea rossa. Contro di noi violenza fisica”

di Luca Roberto

“A Torino abbiamo vissuto il momento più basso nelle università italiane. In un anno e mezzo siamo passati dalle intimidazioni alla violenza fisica. Si è superata una linea rossa”. Il presidente dell’Unione dei giovani ebrei d’Italia (Ugei) Luca Spizzichino giovedì era al Campus Einaudi per partecipare a un evento sul Manifesto per il diritto allo studio. L’appuntamento però si è trasformato in un’aggressione a suon di “fuori i sionisti dall’università”. “Mi hanno strappato la spilletta per gli ostaggi, hanno cercato di farmi cadere. Io ho mantenuto la calma, ma è assurdo che non si riesca a porre argine a questa deriva aberrante”.
Nelle stesse ore in cui manifestanti pro Palestina cercavano di fare irruzione al Salone del libro, dall’altra parte di Torino a un gruppo di studenti apartitici veniva impedito di parlare di “diritto allo studio”. Pietro Balzano, studente della Statale di Milano e autore del Manifesto che quel diritto lo rivendica, al Foglio racconta l’aggressione subita. “Mi hanno strappato la camicia, mi hanno sputato addosso. Credo che quello che sia successo sia la conseguenza di quello cui abbiamo assistito nel giro dell’ultimo anno e mezzo. I violenti sanno di non essere puniti e alzano sempre di più la posta. Bastava davvero poco perché la situazione diventasse ancor più grave”. Già lo scorso marzo agli organizzatori dell’evento era stato impedito di tenerlo all’interno del Campus Einaudi dell’Università di Torino. “Siamo passati dalle intimidazioni alla cancellazione, fino al terzo step che è stata l’aggressione fisica. Mi chiedo: qual è la prossima tappa?”, dice ancora Balzano.
  La premeditazione dell’attacco, raccontano i due testimoni, la si evince anche dal fatto che all’ora in cui avrebbe dovuto prendere il via l’evento, l’aula assegnata dall’Università era già stata occupata dai collettivi. Per di più i vertici universitari hanno negato alla Digos l’ingresso nelle aule, “anche se un intervento delle forze dell’ordine per cercare di calmare le acque c’è stato ed è stato tempestivo”, spiega ancora Spizzichino. Da presidente dell’Ugei in questo anno e mezzo ha osservato l’evolversi della situazione negli atenei, “ma mai mi sarei immaginato di vedere le immagini che ho visto a Torino”, confessa con un certo sconforto. “Sono scene che per lo più abbiamo visto nei campus americani, in Francia, in Germania, nel Regno Unito. Eppure oramai pure da noi, anche perché queste derive non vengono affrontate come si deve, è stata completamente sdoganata la violenza fisica. Ora però chiediamo una reazione forte da parte delle università contro queste derive estremiste e antisemite. A partire dall’adozione della definizione di antisemitismo stabilita dall’Ihra. Ogni silenzio di troppo è una forma di complicità”. Non risulta che il rettore dell’Università di Torino Stefano Geuna abbia condannato quanto accaduto al Campus Einaudi. Eppure, come spiega ancora al Foglio il presidente dell’Ugei, “non abbiamo alcuna intenzione di indietreggiare. Alla violenza, agli schiaffi, rispondiamo con la calma della parola. Perché per noi è troppo importante contrastare queste derive fasciste con la compostezza e il rispetto dei valori democratici. Gli studenti ebrei continueranno a rivendicare il diritto di poter parlare, contro chi vorrebbe imporre metodi antidemocratici”. Anche Balzano, dal canto suo, nonostante lo choc per l’aggressione subita sta già stilando la lista delle prossime presentazioni del Manifesto. “I nostri eventi sono una specie di crash test sullo stato della democrazia italiana. A ora questi test li abbiamo falliti, visto che quanto successo a Torino non è degno di un paese civile come l’Italia. Ma non ci faremo spaventare e non ci fermeremo”. Anche la camicia strappata dai pro Pal lo studente della Statale se la terrà a mo’ di monito. “Spesso mi chiedono che c’entra il diritto allo studio con l’antisemitismo. Ma quello che abbiamo vissuto dimostra proprio che quando prevale l’odio, il diritto allo studio scompare”.

Il Foglio, 17 maggio 2025)

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Perché il Qatar non supera il “test di Tito”

di Seth Mandel

Durante i primi anni della Guerra Fredda, il maresciallo Josip Broz Tito fu un improbabile alleato per Harry Truman e l’Occidente anticomunista guidato dagli Stati Uniti. Tito salì al potere in Jugoslavia da comunista, ovviamente, e si comportò come tale: fattorie collettive, processi farsa paranoici e altri tratti tipici delle dittature comuniste arrivarono in Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Ma Tito voleva essere più di una semplice marionetta di Mosca, e Truman sfruttò la crepa nella sfera sovietica. Gli Stati Uniti fornirono a Tito armi e aiuti nonostante la sua leadership non democratica e il suo desiderio di essere corteggiato sia dall’Est che dall’Ovest perché, geograficamente, così facendo estendevano la sfera d’influenza della NATO e limitavano la prossimità sovietica. Considerando il ruolo che la NATO avrebbe svolto nel corso del successivo mezzo secolo, il compromesso di Truman era chiaramente difendibile, anche se costoso.
Gran parte del dibattito sull’attuale rapporto tra Stati Uniti e Qatar, un nemico-amico strategicamente posizionato ma in ultima analisi inaffidabile, riecheggia il discorso su Truman e Tito. Ma al Qatar manca l’ingrediente principale che rende un simile Stato degno di rischio: non offre alcun vantaggio evidente.
Ciò non significa che non ci siano vantaggi nei nostri rapporti con il Qatar. Ma la natura sproporzionata degli scambi commerciali implica che l’alleanza richiederà sempre una giustificazione. Non c’è bisogno di chiedersi perché abbiamo voluto porre la Jugoslavia sotto l’egida della sicurezza occidentale nel 1951. Bastava guardare una mappa.
Il Qatar, d’altro canto, cerca di rientrare in una categoria di alleati completamente diversa, composta da paesi che occasionalmente minano la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma non abbastanza da annullare il vantaggio di averli dalla nostra parte.
Si potrebbe sostenere, ad esempio, che questa categoria includa l’Arabia Saudita, sede della visita del Presidente Trump tre giorni fa. Abbiamo relazioni strategiche con ogni tipo di Stato, e non tutti condividono i nostri valori o necessariamente i nostri obiettivi strategici.
Ma questi stati hanno una cosa che manca al Qatar: la capacità di tenere a freno i problemi che causano. Il Qatar può occasionalmente aiutarci strategicamente, ma non è quasi mai in grado di controllare il caos che scatena. Il meglio che il Qatar possa fare è fermare (o mettere in pausa) i  problemi che è in grado di creare. Ed è lecito chiedersi se questo sia davvero sufficiente.
Ad esempio, considerate il sostegno del Qatar a Hamas. Il motivo per cui i leader israeliani credevano di potere convivere con una situazione in cui il Qatar garantiva che Gaza non rimanesse senza fondi era perché quei fondi avrebbero dovuto essere forniti con delle condizioni. Il Qatar avrebbe mantenuto a galla Hamas come costo per mantenere stabile il tenore di vita della popolazione di Gaza. (Se avete visto i post sui social media che dicevano “questo è ciò che Israele ha distrutto”, saprete che non solo Gaza non era una prigione a cielo aperto, ma aveva anche molto da perdere dall’invasione di Israele.)
In cambio, i qatarioti si sarebbero assicurati che il livello di terrorismo fosse mantenuto stabile a un livello gestibile. Sotto Hamas, Gaza non sarebbe mai diventata una colonia di pace, ma porre un limite alla minaccia di Hamas valeva il prezzo – almeno, questa era la scommessa.
Il 7 ottobre ha distrutto questa narrativa. A quanto pare, i qatarioti non stavano tenendo a freno l’estremismo di Gaza; stavano invece usando il denaro per tenere a galla Hamas mentre pianificava la massiccia violenza da pogrom di quel giorno.
Prima del 7 ottobre, si poteva dire: “Sì, i qatarioti finanziano Hamas, ma…”. Ormai non c’è più alcun “ma” nell’equazione.
Un altro esempio sarebbe l’inondazione di denaro da parte del Qatar nelle università d’élite americane. Queste donazioni a volte raggiungono cifre inimmaginabili e consolidano una certa tolleranza nei confronti dell’estremismo nei campus quando si tratta di Israele e degli ebrei. Ma si è scoperto – sebbene sicuramente molti in queste istituzioni si aspettassero gli eventi degli ultimi 18 mesi e molti di loro approvino le rivolte – che l’argomentazione accademica contro Israele era anche l’argomentazione accademica contro l’America. Anche gli studenti di Harvard vogliono che Harvard venga distrutta, e lo dicono apertamente. Lo stesso vale per la Columbia e le altre università.
Poi c’è la questione più ampia di cosa si possa controllare. Pianta una carota, dichiara Bellomy in The Fantasticks, e otterrai una carota. Ma il Qatar ha piantato tra le menti giovani e impressionabili i semi dell’odio per se stessi, dell’antisemitismo e del malcontento paranoico. Quel genio non tornerà nella bottiglia, nemmeno se il Qatar volesse ricacciarvelo.
I qatarioti non sanno come giocare al gioco della geopolitica. Hanno solo soldi e amano spenderli. Il caos che generano è molto più pericoloso per l’Occidente di qualsiasi risultato ottengano con i loro occasionali gesti di buona volontà.

(L'informale, 16 maggio 2025)

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La settimana in Israele: la visita di Trump in Medio Oriente

di Ugo Volli

Gli incontri
  L’evento più significativo per l’intero Medio Oriente negli ultimi giorni è stata la visita del presidente americano Trump che ha toccato l’Arabia Saudita (13-14 maggio), il Qatar (14 maggio) e gli Emirati Arabi Uniti (15 maggio), ma non Israele (né l’Egitto, la Giordania e altri alleati storici). Oltre che con i governanti dei paesi ospiti (il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’emiro del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani e il principe ereditario di Abu Dhabi Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan), Trump ha parlato il 14 maggio a Riad,con il leader siriano Ahmed al-Sharaa detto Joulani e in videoconferenza con Erdogan. Era previsto anche un incontro con il leader dell’Olp Mohammed Abbas, di cui però non si è avuta conferma.

Gli accordi evitati e quelli conclusi
  Questa assenza dell’Olp dal calendario degli incontri è particolarmente significativa, perché alla vigilia del viaggio presidenziale si era diffusa l’ipotesi che Trump intendesse riconoscere unilateralmente uno stato palestinese, contraddicendo tutta la politica sua e delle amministrazioni americane precedenti e suscitando forti timori in Israele. Ciò non è avvenuto. Altri due temi che preoccupavano Israele erano stati presentati come oggetto delle trattative con l’Arabia: innanzitutto l’assenso alla realizzazione del suo progetto nucleare (civile, ma come sempre in questi casi, potenzialmente trasformabile in militare), senza che fosse concessa in cambio la normalizzazione con Israele; e poi un piano condiviso per la pacificazione di Gaza che escludesse il controllo israeliano. Per quel che se ne sa essi non sono stati trattati o almeno non se ne è avuto notizia. Altri temi critici sono stati invece portati a termine: innanzitutto una vendita senza precedenti di armi all’Arabia (ma sembra senza gli F35, negati anche alla Turchia, cioè senza intaccare la superiorità strategica dell’aviazione israeliana) e la rimozione delle sanzioni alla Siria, che in cambio si sarebbe impegnata a non prestarsi ad attacchi a Israele, a rispettare le minoranze (alawiti e drusi che sono stati perseguitati duramente dal nuovo regime) e ad aderire agli accordi di Abramo, “appena consolidato il potere” (così ha dichiarato Trump).

Le ragioni del viaggio
  Il viaggio era dedicato soprattutto ai temi economici, che stanno molto a cuore a Trump. Molti ironizzano su questa concezione “affaristica” dei rapporti internazionali, e accusano spesso a torto o a ragione il presidente di interesse personale. Ma essi non si rendono conto che Trump è stato eletto presidente (degli Usa, non di Israele o dell’Europa) per rimettere a posto una situazione economica che preoccupa moltissimo i suoi elettori: la deindustrializzazione e la burocratizzazione degli States, il debito pubblico gonfiato a dismisura, il controllo cinese su risorse essenziali. Il piano di Trump è di raddrizzare questa deriva nel giro di alcuni anni, anche a costo di peggiorare il disequilibrio a breve, come sta accadendo. I dazi servono a questo, a riportare il lavoro in America e anche i contratti di molte centinaia di miliardi di euro che il presidente ha ottenuto in questo viaggio vanno nella stessa direzione. Il che non significa che la strategia politica non gli interessi, o che non intenda proteggere Israele; ma che la sua priorità sono i problemi economici americani. Inoltre Trump è sincero nella sua volontà di evitare le guerre o di concluderle, se sono in corso, è davvero un pacifista; ma in maniera estremamente realistica, non ignorando i rapporti di forza e gli obiettivi di potenza.

I negoziati
  Questo vale per le due trattative aperte che riguardano il Medio Oriente: quella con Hamas e quella con l’Iran. In entrambi i casi Trump non ha scrupoli a parlare con quelli che considera nemici e anche a fare scambi con loro. È così che ha ottenuto da Hamas la liberazione dell’ultimo rapito americano ancora in vita Edan Alexander (che è anche il primo soldato di Israele rapito il 7 ottobre e rilasciato da Hamas). Ma ora i terroristi si lamentano di non aver ricevuto in cambio né rifornimenti né concessioni sul futuro di Gaza (e infatti la trattativa è ferma a causa della loro pregiudiziale inaccettabile per Israele di una fine della guerra senza resa né consegna delle armi). E anche l’altra trattativa, quella sul nucleare iraniano, è ferma, perché tra molte voci contraddittorie, è chiaro che gli ayatollah non intendono disarmare, cedere il loro uranio e le loro centrifughe, impegnarsi a non aggredire gli altri paesi, il che naturalmente è assai lontano dalle loro intenzioni.

La distruzione del vertice di Hamas a Gaza
  Vedremo presto se alla conclusione del viaggio alcuni di questi risultati saranno cambiati o addirittura rovesciati: Trump è maestro nell’arte della comunicazione, almeno se la si intende come tener fissa su di sé l’attenzione dei media e del pubblico. Intanto bisogna dire che non ha avuto obiezioni di fronte al “tentativo” (probabilmente riuscito, ma finché non ci sono le prove materiali bisogna dire così) dell’aeronautica israeliana di eliminare l’attuale capo di Hamas a Gaza, Mohammed Sinwar, il fratello minore di Yahya Sinwar e degli altri comandanti terroristi che gli stavano vicino. Se è riuscito come sembra, questo è un colpo importante che decapita di nuovo l’organizzazione terroristica. Bisogna dire anche che Sinwar e gli altri si nascondevano, tanto per cambiare, in un tunnel scavato sotto un ospedale di Khan Yunis, cioè cercavano di usare pazienti e malati come scudi umani. Tutti coloro che continuano a parlare di crimini umanitari di Israele a Gaza non tengono minimamente conto che innanzitutto questo uso di ospedali, scuole, moschee ecc. è tecnicamente un crimine di guerra.

La prossima operazione di terra
  Per quel che ne sappiamo Trump non ha fatto neppure obiezioni all’operazione “Carri di Gedeone” che dovrebbe iniziare subito dopo la sua partenza dal Medio Oriente. Si tratta finalmente della presa di tutta di Gaza usando le forze di terra: un’operazione che coinvolge decine di migliaia di soldati ed è concepita per distruggere sistematicamente e definitivamente le infrastrutture e le truppe di Hamas, lasciando alla popolazione civile scampo in una zona di sicurezza al confine dell’Egitto, dove saranno anche forniti i rifornimenti alimentari in modo che i terroristi non possano impadronirsene. Se sarà possibile condurla fino in fondo, questa sarà davvero la liquidazione dei gruppi terroristici a Gaza. Per ora le cronache parlano di un’intensificazione delle operazione preliminari come i bombardamenti sulle fortificazioni sotterranee individuate.

(Shalom, 16 maggio 2025)

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Palestina? Gaza? Parliamone con il Diritto internazionale alla mano

Dopo gli ultimi assalti antisemiti dei pro-Hamas è bene fare un briciolo di chiarezza sui numeri e su quello che dice il Diritto Internazionale sull'esistenza della Palestina

di Maurizia De Groot Vos

A prescindere dal fatto che condivida o meno la linea attualmente tenuta dal Governo Netanyahu nella guerra contro Hamas, dopo gli ultimi assalti antisemiti al grido di “Palestina libera” o addirittura “Gaza libera” mi sento il dovere di evidenziare alcuni elementi fattuali e di Diritto internazionale. Sarò lunga.
Partiamo dagli elementi fattuali e numerici. Siccome si parla tanto spesso della “innocente popolazione di Gaza” cerchiamo di capire se è davvero così.

L’innocente popolazione di Gaza
  Il web del dopo massacro del 7 ottobre 2023 era pieno di video nei quali si vedeva con chiarezza le manifestazioni di giubilo della popolazione di Gaza per il pogrom e massacro appena compiuti. Oggi molti di quei video, dove addirittura si oltraggiavano cadaveri, sono spariti dalla circolazione ma sono tutti ben chiari nella mente di chi come me rimase basito da tanta collettiva crudeltà. Qualcosa sfuggita alla censura lo troviamo qui. Difficile affermare che la popolazione di Gaza fosse innocente.
Prima del 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza operavano circa mille ONG, un numero davvero incredibile di operatori umanitari. Oltre a questi, vi erano ben 36 ospedali (TRENTASEI). Ora, è possibile che tra queste mille ONG nessuno si sia accorto che Hamas stava costruendo centinaia di Km di tunnel sotto Gaza? È possibile che nessuno si sia accorto che sotto ognuno dei 36 ospedali Hamas stesse costruendo grandi centri operativi e di comando? Ma poi, possibile che su due milioni di persone nessuno abbia sentito i lavori della “metropolitana di Gaza”? E dopo il sequestro degli ostaggi, possibile che nessuno di queste due milioni di persone abbia visto dove li nascondevano e si sia fatto avanti? Nemmeno uno? Davvero?
Lasciamo stare il numero delle vittime di cui conosciamo solo quello proveniente da una fonte: Hamas. Ma possibile che siano solo donne e bambini? Gli uomini dov’erano? E i miliziani? L’IDF, ben più attendibile di Hamas, afferma di aver ucciso circa 30.000 terroristi ma di questi nei numeri di Hamas non vi è traccia. E tra i bambini che Hamas dice essere stati uccisi, ci sono anche i bambini soldato di Hamas? E a proposito di quelle mille ONG di cui sopra, nessuna di loro ha mai detto niente di questi bambini soldato. Come mai?
Hamas ha dichiarato guerra a Israele, nel modo più crudele e vigliacco possibile. La popolazione di Gaza non ha mai rinnegato la leadership di Hamas. MAI. Non è innocente.
Per questo sono d’accordo con l’attuale linea del Governo Netanyahu? NO, ma questo è un altro discorso.

Il Diritto internazionale
  I veri confini di Israele secondo il Diritto Internazionale
Chi oggi contesta Israele farneticando di Diritto internazionale violato, parlando di occupazione e di liberare la Palestina dovrebbe sapere che:
La Convenzione di Montevideo del 1933 delinea quattro criteri per la statualità:

  1. Popolazione permanente: Israele ha una popolazione definita e continua, con comunità ebraiche e arabe residenti nel suo territorio fin dalla sua fondazione.
  2. Territorio definito: i confini di Israele furono stabiliti dal Mandato britannico sulla Palestina del 1922, che includeva l’odierno Israele, la Cisgiordania e Gaza. Questi confini furono ereditati ai sensi dell’uti possidetis juris (discusso di seguito).
  3. Governo efficace: Israele ha mantenuto un governo stabile e democratico sin dal 1948, con il controllo del suo territorio e la capacità di stipulare trattati (ad esempio, accordi di pace con Egitto e Giordania).
  4. Capacità di relazioni estere: Israele intrattiene relazioni diplomatiche con 165 stati ed è membro dell’ONU, dell’OMC e dell’OCSE.

Israele soddisfa tutti i criteri per la sovranità ai sensi della Convenzione di Montevideo ed è stato riconosciuto da 165 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite a dicembre 2020. I suoi confini, fondati sul Mandato britannico del 1922 e confermati dalle Nazioni Unite nel 1949, sono giuridicamente incontestabili.
Al contrario, la Palestina non soddisfa i requisiti fondamentali per la sovranità, non gode di un ampio riconoscimento internazionale e non ha mai esercitato una sovranità effettiva su alcun territorio. Andando nel dettaglio:

  1. Mancato rispetto dei criteri di Montevideo
  2. Nessun territorio definito: i confini rivendicati dalla Palestina (Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est) non sono mai stati concordati a livello internazionale. Il Piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 (Risoluzione 181) non era vincolante e fu respinto dagli stati arabi.
  3. Nessun governo efficace: Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese sono entità reciprocamente ostili. Gaza è sotto il controllo di Hamas dal 2007, mentre l’autorità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania è subordinata alla cooperazione israeliana in materia di sicurezza.
  4. Mancanza di sovranità: la Palestina non ha mai controllato i propri confini, il proprio spazio aereo o la propria valuta. Rimane economicamente e militarmente dipendente da Israele e dagli aiuti esteri.

Per farla breve, a livello di Diritto internazionale la Palestina non esiste
   La Palestina è un’aspirazione politica, non una realtà giuridica. La recente revisione della Corte Penale Internazionale (aprile 2025) sulla posizione della Palestina sottolinea questa distinzione: la sovranità di Israele non può essere costruita con la retorica o le risoluzioni delle Nazioni Unite. La comunità internazionale deve riaffermare la sovranità di Israele e respingere i tentativi di delegittimarla attraverso false narrazioni sulla sovranità palestinese.
Concludendo, i cosiddetti pro-pal (o pro-Hamas) chiedono la libertà di uno stato che non esiste né sulla carta né a livello di Diritto internazionale. La Palestina è una aspirazione, non una realtà. Parlano di un genocidio che non c’è usando a sproposito la parola “genocidio”. Prendono per oro colato numeri non verificabili che hanno come unica fonte un gruppo terrorista islamico. Non condannano mai Hamas, nemmeno quando mette nero su bianco che usa vecchi, donne e bambini come scudi umani e che lo fa apposta per mettere in difficoltà Israele.
Come osservato da eminenti esperti di Diritto Internazionale, l’autodeterminazione non equivale automaticamente alla sovranità nazionale – una lezione che i palestinesi e i loro sostenitori devono ancora comprendere.

(Rights Reporter, 16 maggio 2025)

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I veri neofascisti all’assalto degli ebrei: torna l’odio razziale in Italia

di Stefano Piazza

Da quando Giorgia Meloni ha assunto l’incarico di Presidente del Consiglio, le opposizioni – in difficoltà e prive di una chiara direzione – non perdono occasione per agitare lo spettro «del ritorno del fascismo». Al loro fianco si schiera un eterogeneo insieme di sedicenti intellettuali, ex capi di governo, deputati, senatori, celebrità del mondo dello spettacolo, giornalisti e ampie porzioni dell’informazione mainstream, che offrono regolarmente spazio a figure come Alessandro Di Battista e Rula Jebreal, contribuendo alla diffusione di falsità su Israele e sul conflitto innescato da Hamas il 7 ottobre 2023. La parola d’ordine come da precise direttive di chi ha orchestrato e pagato questa gigantesca operazione di propaganda è: «Genocidio». Come osserva l’esperta di comunicazione Elisa Garfagna «L’accusa di genocidio da parte di Hamas è una mossa retorica che si ripete da 20 mesi e che è volta a delegittimare Israele e a suscitare la condanna internazionale. L’uso strumentale del termine “genocidio” inoltre rischia di sminuire la gravità di questo crimine contro l’umanità come ad esempio la Shoah. In maniera del tutto speculare, l’accusa di “politica della fame” serve a dipingere Israele come responsabile della crisi umanitaria, omettendo il ruolo fraudolento di Hamas nella gestione degli aiuti e nel conflitto. Ormai è chiaro che la guerra via terra è affiancata da una guerra di parole difficile da smontare, anche a causa della viralità che tale propaganda assume sui canali sociali». In questo clima di follia collettiva si è arrivati all’assurdo che, in alcuni Comuni – come nel caso di Lodi – venga richiesto, per accedere a spazi pubblici, di firmare una dichiarazione in cui si attesta «di non essere fascisti». Una contraddizione evidente, perché oggi in Italia esiste una forma aggressiva di neofascismo che si manifesta proprio attraverso l’intolleranza dell’estrema sinistra, dei centri sociali e dei movimenti pro-Hamas, che da oltre un anno agitano le piazze con cortei in cui si tollera ogni eccesso e dove le forze dell’ordine vengono sistematicamente aggredite nell’indifferenza generale. In molte università, attivisti filo-Hamas hanno conquistato spazi decisionali grazie alla passività – o alla complicità – di rettori e docenti, impedendo la libera espressione e minacciando chiunque esprima opinioni divergenti.
  Per Celeste Vichi, avvocato e Presidente dell’Unione Associazioni Italia Israele: «È nella connivenza complice dei rettori e di tutta quell’accademia che boicotta il libero pensiero e censura persino la parola antisemitismo nei convegni, nei corsi, nei rapporti scientifici con Israele. È anche dover presentare un libro accompagnati dalle forze dell’ordine perché messo all’indice.Sono gli stessi che accusano gli ebrei nel mondo di fare abiura, chiedendo loro di rinnegare lo Stato ebraico. Israele e la sua esistenza rappresentano oggi la nuova colpa da espiare. È la summa divisio tra ebrei buoni ed ebrei cattivi: abiura e ti salverai, convertiti e vivrai. Non è cambiato niente nella storia: ideologie diverse, modalità di coercizione identiche. Il nazifascismo è qui, e se non ripariamo al più presto, ne pagheremo tutti le conseguenze».

Un giorno nero per Torino
  Ieri, al Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si è verificato un nuovo grave episodio di aggressione preordinata contro la libertà di parola e i principi fondanti dell’università e della democrazia. L’incontro dal titolo “Per le Università Come Luogo di Democrazia e di Contrasto all’Antisemitismo”, promosso da diverse sigle aderenti al Manifesto Nazionale per il Diritto allo Studio — tra cui l’Unione Giovani Ebrei d’Italia, Studenti per le Libertà, Studenti Liberali e Studenti per Israele — è stato interrotto con violenza da un gruppo strutturato di sostenitori di Hamas. Gli aggressori hanno fatto irruzione nell’aula dove l’iniziativa era prevista, gridando slogan come “Intifada” e puntando a impedire agli studenti ebrei e a chi li sostiene di prendere la parola, attraverso insulti, minacce, sputi e persino aggressioni fisiche. Alcuni degli organizzatori dell’evento sono stati persino colpiti, intimiditi e pubblicamente offesi. È stato inoltre rubato un telefono cellulare, gesto che denota la volontà non solo di intimidire, ma anche di cancellare eventuali prove della violenza commessa. E’ normale tutto questo? No ed è ora di dire basta.
  Ogni tentativo di confronto civile è stato annientato fin da subito da atti di prepotenza, trasformando un luogo di apprendimento e confronto in uno scenario di coercizione, dove la violenza ha messo a rischio la sicurezza fisica di studenti, relatori, organizzatori e partecipanti che desideravano semplicemente assistere in modo pacifico alla conferenza. Il volto del nuovo totalitarismo si manifesta oggi nelle fila dei militanti pro-Hamas, che rimuovono le spille in favore degli ostaggi e che da mesi strappano gli striscioni che ne chiedono il rilascio. Un gesto che non è solo simbolico: è l’espressione di un clima di odio che si nutre della retorica antisionista, spesso presentata come distinta dall’antisemitismo, ma che nei fatti ne riproduce le stesse dinamiche e gli stessi obiettivi.
  Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) ha così commentato l’accaduto: «Ai nostri ragazzi abbiamo trasmesso entusiasmo per lo studio e fiducia nel sistema universitario, nel quale coltivare amicizie e alimentare dialogo rispetto ai temi che ogni generazione si trova ad affrontare. Con questo spirito, i rappresentanti dei giovani ebrei italiani si sono recati oggi all’Università di Torino, con la kippà in testa e con l’intento di svolgere un sereno incontro e dibattito sui temi del diritto allo studio, della democrazia all’interno delle università e dell’antisemitismo. Sono stati invece aggrediti e cacciati, con violenza e veemenza. A loro va il nostro abbraccio e incoraggiamento a riprendere fiato dopo l’aggressione subita e a continuare ad avere fiducia nel dialogo.Un Paese democratico, una sede universitaria, un salone del libro – luoghi preposti allo studio e al confronto delle idee – non possono ospitare e legittimare persone che, con violenza e soprusi, negano ad altri di manifestare il proprio pensiero in nome della difesa di diritti e della pretesa di democrazia.Ribadiamo ancora una volta che la sicurezza non potrà mai essere sufficientemente garantita, pur con tutto il supporto delle forze dell’ordine, se ogni generazione non farà propria la cultura della convivenza, eliminando qualsiasi forma di prevaricazione e indifferenza». Sempre ieri, altri simpatizzanti di Hamas si sono ritrovati davanti all’ingresso del Lingotto per contestare la presentazione del libro di Nathan Greppi, ma sono stati allontanati. Ma il fatto stesso che il giornalista abbia dovuto presentare il suo libro «La cultura dell’odio» addirittura sotto scorta e con la presenza delle forze dell’ordine in assetto antisommossa rappresenta la conferma più eloquente delle tesi illustrate nel suo volume.

(Panorama, 16 maggio 2025)

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Israele si qualifica per la finale dell’Eurovision

Tra contestazioni e discriminazione dei conduttori

di Ludovica Iacovacci

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Yuval Raphael durante l’esibizione alla seconda semifinale dell’Eurvision 2025

Israele si classifica per la finale dell’Eurovision Song Contest 2025. Yuval Raphael, la rappresentante di Israele sopravvissuta alla strage del 7 ottobre, accederà alla finale dell’Eurovision in onda il 17 Maggio alle ore 21 in diretta da Basilea, Svizzera. In Italia, la trasmissione potrà essere seguita su Rai 1.
La presenza di Yuval Raphael alla competizione canora aveva suscitato polemiche fin dalla vigilia: al suo arrivo a Basilea era stata contestata e aggredita tra la folla, dove sventolavano una dozzina di bandiere palestinesi ed è stato anche mimato un gesto di sgozzamento nei suoi confronti. Critico anche Nemo, vincitore dell’Eurovision 2024, che ha sostenuto la richiesta di escludere dalla gara Israele: “Le sue azioni contraddicono profondamente i valori che l’Eurovision dovrebbe difendere, di pace, unità e diritti umani”, aveva affermato il cantante.
Durante la seconda semifinale svoltasi la sera di giovedì 15 maggio, l’esibizione della cantante israeliana, la quattordicesima in gara, è stata caratterizzata da diverse contestazioni rivolte contro l’artista. Urla, schiamazzi, fischi contro la rappresentante dello Stato ebraico, e una persona si è elevata rispetto alla folla alzando verso di lei la bandiera della Palestina. La stessa bandiera da cui Yuval sfuggì, quando il 7 ottobre 2023 riuscì a salvarsi dai terroristi palestinesi fingendosi morta sotto altri cadaveri durante il massacro del Nova Musica Festival.
La pagina Wikipedia di Yuval Raphael – adesso corretta – sembrava un fake: c’era scritto che lei “essendo un’ottima terrorista israeliana, il suo hobby preferito è andare a rave organizzati fuori dai campi di concentramento, in cui vengono uccise ogni giorno centinaia di persone dallo Stato ebraico”, un riferimento capovolto della strage perpetrata da Hamas ai danni del sud di Israele.
Già l’anno scorso la rappresentante israeliana Eden Golan aveva subito insulti, fischi e attacchi prima e durante l’esibizione, in un clima di odio mai visto alla kermesse canora.

La parzialità dei conduttori italiani
  L’esibizione di Yuval è stata diversa rispetto alle altre non solo per gli insulti ricevuti prima e durante la performance, ma anche per il comportamento dei conduttori italiani. A commentare l’edizione italiana dell’Eurovision Song Contest 2025 ci sono Gabriele Corsi e Big Mama. Quest’ultima è rimasta silente, dall’inizio alla fine, durante la presentazione e la partecipazione di Yuval alla competizione. Big Mama si è astenuta non solo dal fare commenti ma anche dal ruolo per cui era stata chiamata: presentare. Gabriele Corsi, pertanto, ha fatto il minimo indispensabile da solo. I conduttori italiani hanno riempito tutti gli altri artisti di complimenti. Hanno rivelato curiosità, commentato gli outfit, hanno sempre espresso gradimento e parole gentili per tutti. Per tutti, tranne che per Yuval. Con lei si sono limitati ad una presentazione essenziale, la stretta necessaria.
Il silenzio è stato notato e apprezzato dagli utenti propal sui social. Una pioggia di commenti ne è scaturita, come “Big Mama in lutto durante la presentazione di Israele, we feel you”, “Big Mama non ha detto più nulla per tutto il tempo in cui c’era Isram***a” oppure “Brava Big Mama che non si è proprio filata la sionista di me****”. Ancora: “Il fantastico silenzio di Big Mama prima e dopo l’esibizione di Israele”. Infine: “Bellissimi i mancati commenti di Gabriele e Big Mama sull’esibizione di Israele. Siamo con voi ragazzi!”.
Un clima d’odio, discriminazione e razzismo caratterizza anche quest’anno la partecipazione di Israele all’Eurovision Song Contest. Ma Yuval ha una risposta per tutti: “I love you! Thank you, merçi, todà”, come ha detto alla fine della sua esibizione. E manda una marea di cuoricini anche per chi le augura la morte, da cui è riuscita brillantemente a sfuggire durante la strage del 7 ottobre 2023 proprio ad un festival musicale celebrando la più grande passione della sua vita, quella con cui oggi rappresenta Israele

(Bet Magazine Mosaico, 16 maggio 2025)

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I viaggiatori israeliani devono prestare attenzione

L'aereo è il mezzo di trasporto più sicuro. Tuttavia, per i passeggeri con passaporto israeliano o destinazione Israele, valgono particolari considerazioni di sicurezza per i viaggi aerei internazionali. In particolare, le rotte aeree che attraversano paesi che non riconoscono Israele o che sono in tensione politica con il paese possono diventare problematiche per i viaggiatori. In caso di condizioni meteorologiche estreme, un problema tecnico o un'emergenza medica, l'aereo potrebbe essere costretto ad atterrare in uno Stato ostile.
  In tali situazioni, gli esperti, come il responsabile della sicurezza aerea della compagnia aerea Arkia, Gadi Amal, raccomandano cautela. I passeggeri con passaporto israeliano o identità ebraica dovrebbero comportarsi con discrezione, non mostrare documenti in ebraico e, se possibile, contattare direttamente l'ambasciata israeliana o il ministero degli Esteri. In caso di emergenza, è possibile anche un intervento diplomatico tramite paesi terzi, come la Svizzera o la Germania.

Le compagnie aeree israeliane evitano gli “Stati nemici”
   Il punto di partenza di un recente dibattito su questo tema in Israele è, tra l'altro, una scena della serie televisiva israeliana “Teheran”. In essa, una coppia israeliana viene prelevata con la forza dalle forze di sicurezza dopo un atterraggio di emergenza in Iran. Anche se si tratta di finzione, il problema di fondo rappresentato è estremamente reale.
  Infatti, le compagnie aeree israeliane evitano di sorvolare paesi che non riconoscono lo Stato di Israele e sono ufficialmente considerati “Stati nemici”. Tra questi figurano l'Iran, la Siria, l'Iraq, lo Yemen e il Libano. Le rotte delle compagnie aeree israeliane sono pianificate con un software speciale che tiene conto fin dall'inizio delle zone politiche soggette a restrizioni.

Cautela con le compagnie aeree straniere
   La situazione è diversa per molte compagnie aeree straniere, in particolare quelle asiatiche, arabe o africane. Le loro rotte attraversano regolarmente spazi aerei critici.
  Per i passeggeri israeliani che viaggiano con un secondo passaporto, ad esempio europeo, questo non è sempre immediatamente evidente. In passato si sono verificati casi isolati in cui i passeggeri si sono resi conto solo durante il volo o durante uno scalo non previsto di trovarsi nel territorio di uno Stato ostile a Israele.
  L'esperto di sicurezza aerea Amal raccomanda in linea di principio di viaggiare con compagnie aeree israeliane. Per i viaggiatori che decidono comunque di volare con una compagnia aerea straniera, è consigliabile verificare in anticipo la rotta prevista. Applicazioni come Flightradar24 o FlightAware consentono di tracciare le rotte storiche di voli simili per evitare spiacevoli incidenti.

(Israelnetz, 16 maggio 2025)

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Perché Hamas vuole controllare gli aiuti umanitari a Gaza

di Khaled Abu Toameh

Il gruppo terroristico palestinese Hamas, sostenuto dall'Iran, ha ricostituito la sua "Forza Esecutiva" nell'ambito del tentativo di controllare gli aiuti umanitari e "imporre la legge e l'ordine" nella Striscia di Gaza.
La Forza, composta da 5 mila uomini e creata originariamente nel 2006, è stata incaricata di prevenire il "furto" di forniture di cibo e di "scoraggiare ladri e delinquenti responsabili di anarchia e illegalità".
Secondo fonti palestinesi, membri della "Forza Esecutiva" sono stati dispiegati in tutta la Striscia e hanno ricevuto l'ordine di "adottare tutte le misure necessarie, compreso l'uso eccessivo della forza" per ripristinare la sicurezza e la stabilità nella fascia costiera.
Nel 2007, la "Forza Esecutiva" ebbe un ruolo chiave nel golpe di Hamas contro l'Autorità Palestinese (AP), uccidendo centinaia di palestinesi e ferendone migliaia. Dopo il colpo di Stato, il presidente dell'AP Mahmoud Abbas dichiarò che tale milizia era criminale e illegale.
I palestinesi, tuttavia, affermano che se c'è qualcuno che sta saccheggiando aiuti umanitari e forniture di cibo a Gaza, quello è Hamas. E rilevano altresì che le bande di Hamas sono responsabili dell'anarchia, della sregolatezza e dell'intimidazione della popolazione locale.
Di recente, terroristi di Hamas hanno assaltato magazzini e rubato cibo in diverse zone di Gaza. La mossa arriva sulla scia delle notizie secondo cui Israele starebbe cercando di convincere le organizzazioni internazionali ad assumersi la responsabilità della distribuzione di aiuti umanitari ai palestinesi nella Striscia di Gaza, un'azione fortemente osteggiata da Hamas. Il gruppo terroristico afferma che il tentativo israeliano di distribuire aiuti umanitari attraverso le organizzazioni internazionali è un "ricatto politico" e una "violazione del diritto internazionale".
Video pubblicati sui social media mostrano teppisti di Hamas che picchiano brutalmente palestinesi sospettati di aver rubato cibo per le loro famiglie. Secondo altre fonti, Hamas ha da poco giustiziato numerosi palestinesi per aver rubato derrate alimentari dai magazzini. Hamas sostiene che i presunti ladri erano "collaboratori" di Israele.
Il 5 maggio, i terroristi di Hamas hanno assassinato Ziad Abu Shalouf, leader del clan Abu Shalouf, nell'area di Al Mawasi, a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. Il suo "crimine"? essersi espresso pubblicamente contro Hamas.
Il giorno prima, Hamas aveva annunciato che tre gazawi sarebbero stati presto massacrati a coltellate per presunta "collaborazione" con Israele. Ad altri sarebbero stati amputati gli arti per aver presumibilmente rubato del "cibo".
"Questa non è giustizia, è barbarie: il dominio dei coltelli e della paura", " ha commentato Hamza Howidy, un gazawi, sostenitore della pace e dei diritti umani.

    "Dal 7 ottobre l'ho detto senza esitazione: Hamas è l'ISIS, solo con una migliore propaganda. E quella macchina delle pubbliche relazioni funziona con i soldi del Qatar, attraverso organi di stampa che trasformano il terrorismo in eroismo e insanguinano con la propaganda".

In un altro post su X, Howidy ha scritto:

    "Ciò che sta accadendo a Gaza non è solo distruzione, è il completo collasso della società. Bande armate e milizie di Hamas stanno assaltando case, negozi e magazzini, rubando tutto ciò che vedono. Sparano alla gente per una pagnotta di pane. Li picchiano perché cercano di proteggere le proprie famiglie. Non c'è governo, né legge, né ordine: solo paura. E quando i palestinesi osano parlare, Hamas li bracca, li rapisce, minaccia le loro famiglie e li riduce al silenzio con la forza. Questa non è guerra. È un regime terroristico che trascina una società distrutta al suicidio. Non offrono protezione, né aiuti, né leadership: solo armi, terrore e slogan".

L'ultima repressione di Hamas dimostra che il gruppo terroristico è determinato a mantenere gli aiuti umanitari nelle proprie mani per mantenere il controllo sugli abitanti della Striscia di Gaza e impedirgli di ribellarsi.
All'inizio di questo mese, i terroristi di Hamas sono stati visti per le strade della Striscia di Gaza con i megafoni in mano, urlando: "Chiunque dica che Hamas è finito, il suo sangue è nostro e andrà sprecato".
Hamas è consapevole che gli aiuti umanitari sono cruciali per mantenere potere sui palestinesi, che affrontano morte e distruzione dal 7 ottobre 2023, quando il gruppo terroristico e migliaia di palestinesi "comuni" invasero il sud di Israele, uccidendo più di 1.200 israeliani e ferendone migliaia. Altri 251 israeliani, tra cui donne, bambini e anziani, furono rapiti e condotti nella Striscia di Gaza, dove 59 di loro, deceduti e ancora in vita, sono tenuti prigionieri da Hamas e da altri gruppi terroristici palestinesi.
Hamas sta facendo tutto il possibile per preservare il suo regime nella Striscia di Gaza, anche se ciò significa privare i palestinesi del cibo.
Ahmed Fouad Alkhatib, originario di Gaza e ricercatore senior presso l'Atlantic Council, ha scritto il 2 maggio:

    "Il saccheggio coordinato e organizzato di depositi alimentari nel nord di Gaza, appartenenti alle Nazioni Unite e ad altre ONG, può significare solo una cosa: un atto compiuto da un'entità coesa che ha potuto mobilitare gli elementi dell'attacco, sapendo esattamente quali aree colpire. Questo non può che essere Hamas, che si dice stia affrontando enormi difficoltà logistiche e finanziarie a causa del blocco totale imposto dall'esercito israeliano contro la Striscia di Gaza. Inoltre, Hamas si è affidato a elementi criminali per creare il caos, il che ha portato a saccheggi di massa, fornendo una copertura al gruppo terroristico per commettere il furto organizzato di ciò che resta delle scorte alimentari a Gaza".

Questa condotta criminale è esattamente la ragione per cui la comunità internazionale deve sostenere gli sforzi di Israele per impedire ad Hamas di monopolizzare e appropriarsi indebitamente dei rifornimenti umanitari inviati nella Striscia di Gaza.
La comunità internazionale dovrebbe sostenere qualsiasi iniziativa volta a porre fine al dominio di Hamas sulla Striscia di Gaza e a distruggerne le capacità militari. Sia Israele che il popolo palestinese, che stanno pagando un prezzo altissimo a causa della decisione di Hamas di commettere il più grande massacro contro gli ebrei dai tempi della Shoah, ne trarranno solo beneficio.
- Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme.

(Gatestone Institute, 13 maggio 2025 - trad. di Angelita La Spada)

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Se non è pregiudizio cos’è?

di David Sorani

Come notava con grande precisione Elena Loewenthal su La Stampa del 7 maggio scorso, è molto difficile oggi essere ebrei della Diaspora: in un mondo che non analizza situazioni e problemi ma tende a liquidarli in modo manicheo assegnando ruoli definitivi di “perseguitati” o di “persecutori”, dall’opinione pubblica siamo ormai tutti inquadrati – in quanto inscindibilmente vincolati a Israele – nella schiera degli oppressori. A meno che non ci dissociamo nettamente dalle politiche del governo israeliano scagliandoci a nostra volta contro quel “demonio” di Netanyahu e le sue “scelleratezze”; cosa che purtroppo, come abbiamo visto di recente, alcuni di noi fanno anche pubblicamente per distinguersi da chi non vuole prendere le distanze rispetto a un pezzo importante di sé o semplicemente non può superare l’inquietudine del presente lanciando dall’esterno facili accuse. Di fatto, nell’opinione pubblica oggi prevalente, nessuno o quasi riesce ad andare al di là di giudizi pietistici nei confronti delle cosiddette “vittime”, a spingersi oltre la visione superficiale e mitizzata che dipinge una potenza regionale aggressiva in cerca di dominio territoriale (Israele) e un popolo oppresso e schiacciato che vuole ottenere uno Stato a cui ha diritto (i palestinesi). Nessuno o quasi pare capace di fare una analisi storica degli eventi e delle situazioni che hanno condotto alla realtà di oggi, né di leggere in profondità le motivazioni della guerra di Israele a Gaza e lo stato di cose effettivo nella Striscia.
  Mai si ricorda che dal 1947 a oggi i palestinesi hanno perso tutte le occasioni possibili (alcune anche molto concrete, dopo gli accordi di Oslo del ’93 e dopo gli incontri di Camp David del 2008) di prendere in mano il proprio destino accettando compromessi per avere finalmente uno Stato. Mai si ricorda che il terrorismo è stata l’unica strada perseguita con costanza dalla dirigenza palestinese di qualsiasi colore, l’arma a cui ogni volta essa è tornata. Solo partendo da queste premesse e dalla loro esasperazione nei programmi distruttivi messi a punto da Hamas è possibile comprendere come il jihadismo palestinese sia arrivato a concepire e realizzare un massacro come quello del 7 ottobre, e come sia pronto a ripeterlo qualora se ne presentasse l’occasione. Replicando anche i rapimenti e le detenzioni di massa che tanto fruttuose sono state per la causa palestinese.
  Tenere a mente tutto ciò è indispensabile per comprendere la situazione di oggi. E invece la visione collettiva ha dimenticato tutto, soffermandosi solo sui bollettini di guerra quotidiani, incapace di inquadrarli nella situazione storico-sociale complessiva e di collegarli alla cinica strategia della strumentalizzazione delle vittime (soprattutto dei bambini) messa in atto da Hamas; sempre pronta invece ad affidarsi alle sue statistiche e a moltiplicare il numero dei morti sotto le bombe israeliane.
  È questa visione ossessiva e quotidianamente ripetuta a creare e incrementare il mito falsificante del genocidio a Gaza. Il guaio è che ormai lo strale è partito e non si può più trattenere.
  L’immagine terrificante del genocidio in atto di fronte al silenzio del mondo (ma quale silenzio se tutti strepitano ovunque?) è lanciata e si riproduce perversamente su sé stessa. Ed ecco che il legittimo governo israeliano (miope e oltranzista finché si vuole, ma democraticamente eletto) si trasforma in potere autoritario; ecco che lo stesso Stato di Israele diviene in quanto tale uno Stato colonialista e nazista; ecco che gli ebrei e il mondo ebraico diventano i nuovi persecutori e aguzzini solo perché non si dissociano. L’accusa infamante si amplia e si diffonde, nel mondo, in Europa, in Italia. E cresce la nostra inquietudine, la nostra angoscia, la nostra umiliazione perché non riusciamo ad arrestare questa marea montante.
  È la forma del nuovo antisemitismo, tanto più velenoso perché non viene accettato come tale. Anzi, chi ne viene accusato rifiuta sdegnato e offeso questa classificazione, irridendo all’ipersensibilità di chi si è permesso di adombrare un’accusa così dissacrante. Eppure, tutti noi ebrei lo avvertiamo; eppure, colpisce in modo più o meno diretto solo noi, così legati alla realtà israeliana. Cos’è se non antisemitismo?
  La forma di questo nuovo rifiuto antiebraico ne è anche la sostanza, perché non qualifica negativamente l’ebreo in quanto tale, ma lo colpisce ed esclude a priori insieme a tutto ciò che “sa di Israele”.
  Solo un recupero della ragione e un abbandono dell’appiattimento puramente emotivo potrebbero portare i mass media a una analisi più oggettiva e approfondita della situazione mediorientale. E solo questo processo virtuoso potrebbe farci uscire dalla folle spirale che si è innescata (quasi un’ansia patologica da “nuovo sterminio”). Dubito che ci siano la capacità e la volontà di invertire la rotta.

(moked, 15 maggio 2025)
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«È la forma del nuovo antisemitismo, tanto più velenoso perché non viene accettato come tale…. Eppure, tutti noi ebrei lo avvertiamo; eppure, colpisce in modo più o meno diretto solo noi, così legati alla realtà israeliana. Cos’è se non antisemitismo?» E’ antisemitismo, non c’è dubbio, puro odio antiebraico. Anche alcuni non ebrei lo avvertono. Sono pochi, è vero, ma ci sono. E ne soffrono, non come gli ebrei, certo, ma basta dire una parola in loro difesa per avvertire quasi immediatamente quello sgradevole alito. L’alito di un odio che sembra non avere alcun bisogno di spiegazione. E’ un odio che c’è. Proprio come Dio c’è. M.C.

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Trump tra promesse divine e politica di potere

Israele all'ombra degli interessi geopolitici. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025 è seguito con grande attenzione in Medio Oriente, in particolare in Israele.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Ciò che dal punto di vista politico appare come pragmatismo diplomatico, dal punto di vista teologico rivela una dinamica più profonda. Negli interessi geopolitici Israele gioca sempre un ruolo centrale, a volte più, a volte meno, ma è sempre stato così nella storia biblica di questo Paese.

Tensione tra politica e promessa
   La Bibbia descrive Israele come «la pupilla degli occhi di Dio» (Zaccaria 2,12), come il centro della sua «azione salvifica», così come molti ambienti cristiani nel mondo occidentale amano immaginarlo. Ma proprio in questo momento Israele sembra essere politicamente emarginato. L'attenzione della politica estera di Trump è rivolta a nuove alleanze con l'Arabia Saudita, il Qatar e persino la Siria.

Un patto con l'Arabia Saudita: una nuova alleanza a spese di Israele?
   Un evento centrale della visita di Trump è stata la conclusione di un accordo di sicurezza senza precedenti con l'Arabia Saudita. Esso comprende un accordo per la fornitura di armi del valore di 142 miliardi di dollari, il più grande nella storia dei due paesi, e fa parte di un pacchetto complessivo di oltre 600 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti si impegnano a difendere l'Arabia Saudita in caso di attacco, a intensificare lo scambio di informazioni dei servizi segreti e a fornire armi sofisticate.
Sono inoltre in corso colloqui su un programma nucleare civile saudita. Da notare che l'accordo non contiene alcun impegno pubblico da parte dell'Arabia Saudita a normalizzare le relazioni con Israele, un obiettivo che Trump aveva fortemente perseguito durante il suo primo mandato, ma che ora sembra aver abbandonato. Per Israele si tratta di un patto regionale che potrebbe modificare gli equilibri di potere in Medio Oriente e di un segnale che gli Stati Uniti stanno costruendo nuove alleanze strategiche. In poco più di un giorno, Trump ha firmato accordi economici per un valore di circa 1,8 trilioni di dollari con il Qatar e l'Arabia Saudita, di cui 1,2 trilioni solo con il Qatar. Proprio il Qatar che ha sostenuto finanziariamente il terrorismo palestinese contro Israele e altre organizzazioni terroristiche sunnite come Al-Qaeda. “Ci amiamo semplicemente”, hanno riportato i giornali israeliani citando la dichiarazione di Trump dopo il suo incontro con l'emiro del Qatar, Tamim bin Hamad bin Khalifa Al Thani.
Trump ha sottolineato che “ristabilirà la deterrenza e porterà la pace attraverso la forza”. In Arabia Saudita, Trump ha ricevuto un'accoglienza regale e ha incontrato il principe ereditario Mohammed bin Salman. Nel palazzo reale saudita ha incontrato a sorpresa il nuovo presidente siriano Mohammed al-Joulani, un incontro che ha suscitato scalpore in tutto il mondo. “È davvero meraviglioso ed energico. Un ragazzo giovane e attraente, un vero leader con il potenziale per fare cose meravigliose”, ha detto Trump dopo l'incontro con il leader ribelle sunnita al-Joulani. Inoltre, Trump gli ha proposto di aderire agli accordi di Abraham e di fare pace con Israele. È stato il primo incontro tra un presidente degli Stati Uniti e un capo di Stato siriano in 25 anni e ha fatto seguito all'annuncio di Trump di revocare le sanzioni contro la Siria, nonostante la richiesta del primo ministro Netanyahu di non farlo. Al-Joulani è stato una figura chiave in organizzazioni islamiche radicali come Al-Qaeda e l'ISIS.
La Bibbia parla in Isaia 5,20 di un tempo in cui «il male sarà chiamato bene e il bene sarà chiamato male». La disponibilità di Trump a cooperare con forze islamiche radicali per raggiungere obiettivi strategici a breve termine mostra un ordine mondiale in decadenza morale. In questi giorni Israele è stato messo in secondo piano e ora osserva come finirà il suo viaggio in Medio Oriente. Infine, Israele vuole lanciare la sua offensiva terrestre nella Striscia di Gaza dopo la visita di Trump nella regione. Ma diciamoci la verità: ciò che oggi sembra politicamente emarginato, domani potrebbe diventare il centro della “storia della salvezza”.
Trump vuole trasformare la Striscia di Gaza da regione in crisi a zona economica con potenziale turistico. Dietro a questo c'è un pensiero classico: risolvere i problemi attraverso i mercati, creare sicurezza attraverso accordi. Ma ciò che manca è una bussola morale. I piani di reinsediamento, le fantasie economiche e gli scambi politici ignorano il dramma umano e la dimensione spirituale del conflitto. In precedenza aveva annunciato di voler aprire “le porte dell'inferno”, ma poi è passato improvvisamente alla diplomazia. Ha quindi proposto di “ripulire” Gaza e di reinsediare 1,5 milioni di palestinesi in Giordania e in Egitto. Già nel novembre 2024 Trump aveva dichiarato che la guerra sarebbe finita entro il suo insediamento e che gli ostaggi sarebbero stati restituiti. In caso contrario, aveva minacciato di aprire “le porte dell'inferno” su Hamas. In realtà, ciò non è accaduto. Sebbene alcuni ostaggi siano stati liberati grazie a un accordo, 58 rimangono ancora prigionieri, vivi o morti.
Trump ha promesso che “l'Iran non avrà mai armi nucleari”, ma ora sta negoziando un nuovo accordo nucleare che lascia spazio all'arricchimento dell'uranio per scopi civili. Allo stesso tempo, ha annunciato un cessate il fuoco con gli Houthi nello Yemen, senza previa consultazione con Israele, mentre gli Houthi continuano a lanciare missili contro Israele. In Israele ci si è nuovamente mostrati sorpresi dall'azione degli Stati Uniti, che vengono sempre più percepiti non come un partner, ma come un osservatore esterno. Le promesse di Trump hanno suscitato grandi speranze in molti israeliani, ma la realtà è ben diversa. La sua attuale visita in Medio Oriente sembra un grande successo diplomatico per i vicini di Israele, ma Israele stesso rimane escluso.
Nei media religiosi del Paese, alcuni hanno ricordato le parole del profeta Zaccaria (capitolo 2), che disse:
«Io stesso, dice il Signore, sarò per essa (Israele) una muraglia di fuoco e gloria in mezzo a lei».
Con ciò hanno lanciato un segnale chiaro: la sicurezza di Israele non è garantita da Washington, ma da Dio stesso. È sempre interessante leggere come i media israeliani riprendono queste idee e promesse bibliche nella realtà.
Le forze politiche di questo mondo si comportano spesso, in termini biblici, come Babilonia: grandi, influenti, ma alla fine effimere. Sion, invece, rappresenta l'eterno, l'immutabile nel piano di Dio. Anche se nella logica geopolitica delle nazioni Israele sembra una pedina, nella prospettiva divina rimane il luogo centrale della sua opera. La lealtà di Dio verso Israele non dipende da alleanze diplomatiche.
L'attuale visita di Donald Trump in Medio Oriente può sembrare agli occhi del mondo un successo strategico, ma per Israele è piuttosto una lezione di vigilanza spirituale.

(Israel Heute, 15 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I discendenti degli ebrei bussano alle porte di Israele

Il 7 ottobre: una svolta per il futuro ebraico?

di Rav Scialom Bahbout

Il Calendario ebraico è caratterizzato dal fatto che ogni giorno e ogni festa fanno parte di un insieme in cui specialmente le feste sono tutte in relazione tra loro.  Inoltre ogni festa va vissuta anno per anno con il tempo in cui cade, attualizzandone così il significato. Passate un paio di generazioni dall’evento che intendono ricordare, le feste di natura nazionale finiscono per perdere il loro significato: questo varrebbe anche per le feste cosiddette “religiose”, se non le festeggiassimo come se parlassero a noi stessi in ogni momento. Vediamo che influenza ha questo discorso sulla festa di Yom Atzmaut.
  Innanzi tutto quest’anno il periodo in cui cade la festa è nel mezzo di un’aggressione che si propone letteralmente di voler cancellare Israele e il Popolo ebraico, contestando il diritto di Israele ad avere una patria come tutti i popoli: questo progetto è stato enunciato altre volte nella storia, ma in virtù del patto stabilito tra Israele e il Signore, non ha mai sortito l’effetto voluto dai nemici di Israele.Alcune date rappresentano momenti in cui la storia ebraica cambia passo: il 9 di Av del 70 EV e il 9 di Av del 1492, con la deportazione degli imperatori romani prima e poi con la cacciata degli ebrei dalla Spagna e dai territori sotto il dominio spagnolo, hanno costretto il popolo ebraico a prendere decisioni che ne hanno rilanciato il ruolo nella storia dell’umanità. Penso che qualcosa del genere dovrebbe accadere per quanto accaduto il 7 ottobre 2023, giorno in cui gli ebrei festeggiavano la Torà. 
  La distruzione del Tempio di Gerusalemme ha costretto il popolo ebraico non solo all’esilio, ma a una rivoluzione di tutta la liturgia: la mancanza dei sacrifici al Tempio ha costretto i rabbini del tempo ad escogitare altri modi per riempire il vuoto creato dal Tempio distrutto: anche se le preghiere esistevano già da tempo, il loro ruolo e il modo di porsi di fronte all’osservanza della Torà doveva cambiare profondamente.
  L’esilio cui fu costretto il popolo ebraico in tutto il bacino mediterraneo poneva gli ebrei a contatto diretto con popoli che avevano religioni e usanze diverse con cui confrontarsi: il rapporto con il Divino diveniva più problematico (qual è il messaggio che D. vuole inviarci?): l’ebraismo nel mondo romano si era sviluppato tra i pagani che si avvicinarono alle idee ebraiche, tanto che non mancarono casi di conversione volontaria. Tuttavia, a parte le idee sul Monoteismo espresse in quella che è conosciuta come La religione dei discendenti di Noè, il mancato uso di immagini e la circoncisione erano un ostacolo non indifferente che il Cristianesimo risolse eliminandoli. Il Cristianesimo, proclamato religione di Stato da Costantino, fu certamente agevolato dal “lavoro” fatto dagli ebrei e dall’ebraismo, che aveva degli standard di adesione più impegnativi.
  La distruzione del Tempio fu un momento di grande cambiamento, così come fu la Cacciata da Spagna nel 1492 che portò allo sviluppo della Halakhà (Rabbi Yosef Caro) e della Kabbalà, entrambe sviluppatesi a Safed nella terra da cui gli ebrei erano stati deportati.
  Il dilemma di fronte al quale si trovarono quella generazione e quelle immediatamente successive, era quale potesse essere il senso di un avvenimento così drammatico, quando il popolo ebraico aveva dimostrato per tanti secoli la sua fedeltà al Patto, superando massacri e persecuzioni, da parte sia dei Cristiani che dei musulmani, cosa significa tutto ciò per l’osservanza dei precetti: è il momento in cui si sviluppa la Kabbalà a Safed in Israele, dove una parte degli ebrei cercò immediatamente rifugio. Le risposte non potevano venire dal mondo visibile, ma da un mondo che era al di là della realtà quotidiana. E’ il momento dello sviluppo della Kabbalà di Rabbi Itzchak Luria, che influenzò anche il Chassidismo: Ghershom Scholem sostiene che anche il Sionismo può essere visto come una delle conseguenze più tarde della Cacciata.
  Gli ebrei di Spagna si mossero per tornare alla Terra d’Israele, anche se molti si fermarono per strada. Ma le persecuzioni raggiunsero ancora una volta gli ebrei, nei paesi in cui avevano trovato temporaneamente rifugio, per lo più i paesi conquistati dall’Islam. Un’accoglienza particolare trovarono da parte di Solimano il Magnifico in Turchia, in particolare per la loro capacità di attirare nuovi commerci. La grande commerciante Dona Gracia Mendez – stufa di essere costretta a continue migrazioni – chiese e ottenne a pagamento un territorio vicino a Tiberiade, dove creare una Comunità ebraica indipendente.
  I secoli dal 16° al 19° furono secoli di persecuzioni ovunque gli ebrei cercarono di rifarsi una vita. L’evento che cambiò le cose fu questa volta il Processo Dreyfus, accaduto proprio nella società che predicava Libertè egalitè fraternitè: era il momento di cambiare strategia e continuare il viaggio verso la Terra promessa che era rimasta nei loro cuori e dalla quale erano stati deportati secoli prima.
  La partecipazione degli ebrei ai movimenti di liberazione non aveva avuto alcun effetto: gli ebrei rimanevano comunque diversi e non aventi diritto a esprimere la propria diversità. La storia degli ultimi 150 anni è nota e troppo recente per essere raccontata. Il mondo dei Gentili aveva negato agli ebrei il diritto alla diversità.
  Cosa avverrà oggi dopo il 7 Ottobre?
  Proprio quando gli ebrei si erano illusi di avere superato l’antisemitismo, l’odio antiebraico che si esprime contro gli ebrei e Israele ha nuovamente rimesso in moto la storia ebraica. Paradossalmente molti tra i discendenti che erano stati indotti ad abbandonare l’Ebraismo, stanno cercando oggi di ritrovare la strada per tornare alle proprie radici. Da tempo era stata attivata la creazione di una Commissione che studiasse il fenomeno in vari paesi del Mondo (Europa, Asia, America, Africa ed Australia) ed è arrivata a delle conclusioni molto interessanti. 
  Esiste una popolazione di circa 12 -15 milioni di persone che hanno origini ebraiche e, fra esse, molte desiderano tornare all’ Ebraismo e addirittura alla Terra Promessa: almeno un milione e mezzo ha origini ebraiche molto chiare e desidera fare un percorso per tornare alle proprie radici, osservando le tradizioni ebraiche e tornare in ultima analisi al luogo dal quale i propri avi erano stati deportati.
  Tra i gruppi che hanno intrapreso e portato almeno in parte a termine questo processo ci sono i Benè Menashè (dall’India orientale) e i Falashmura (dall’Etiopia), convertiti al cristianesimo e ora tornati all’ebraismo. Accanto al desiderio di recuperare le passate radici, non c’è dubbio che gioca un ruolo importante l’immagine di Israele, un paese in grande sviluppo, fondato anche con lo scopo di recuperare quelle parti del popolo ebraico che si erano disperse. Monitorare questo fenomeno è molto importante: non si tratta di creare un “secondo popolo ebraico”, ma di permettere a chi è veramente interessato ad affermare la propria identità, a tornare a riunirsi a quella parte del popolo ebraico che ha resistito a tutte le deportazioni, le cacciate e le persecuzioni. 
  Lo Stato d’Israele, assieme a una diaspora forte culturalmente e con una identità chiara, fondata sul passato e proiettata verso il futuro, può dare delle garanzie che il fenomeno venga in qualche modo guidato e condotto verso approdi sicuri.
  Non è un caso che il brano profetico scelto per la lettura del giorno di Yom Azmaut comprende la profezia di Isaia che proclama che in quel giorno il Signore di nuovo alzerà la sua mano per riscattare il residuo del suo popolo… innalzerà il vessillo ai popoli e radunerà gli esuli di Israele e raccoglierà i dispersi di Giuda (Isaia 11.11 e seguenti).

(Kolòt - Morashà, 14 maggio 2025)

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L’Europa “snobba” l’emergenza antisemitismo? Non la ritiene una priorità

L’Europa “snobba” l’emergenza antisemitismo. Secondo una ricerca, l’82 percento degli intervistati non la ritiene una priorità. Fra questi, il 20 percento critica il mondo ebraico nella guerra fra Israele e Hamas

di Roberto Zadik

Cresce l’antisemitismo ma, in  un recente sondaggio, per la maggioranza degli europei interpellati questo non sarebbe un problema rilevante. Martedì 13 maggio il Times of Israel ha pubblicato gli sconvolgenti risultati di una indagine condotta dall’Associazione Ebraica Europea (EJA), in ben sei Paesi, Regno Unito, Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Spagna.
Lo studio rivela che, su 4.400 interpellati, l’82 percento non consideri prioritaria la lotta all’antisemitismo ed il 20 percento addirittura accusi gli ebrei locali di eccesso di vicinanza allo Stato ebraico, riguardo al confitto fra Israele e Hamas, “nonostante”, come evidenzia l’articolo, “lo Stato ebraico disti migliaia di chilometri” dalle nazioni interpellate.
Autore della ricerca è Juan Soto, importante esperto dell’IPSOS  e delle migrazioni, che a Madrid  ha presentato l’indagine alla conferenza annuale dell’Associazione Ebraica Europea. Commentando i dati riscontrati, il presidente dell’EJA, il Rabbino Menachem Margolin, ha equiparato l’antisemitismo e l’antisionismo che,  come ha evidenziato, “appartengono alla stessa moneta” aggiungendo che “l’Europa ha importato l’odio da fuori aggiungendolo a quello già preesistente e la maggioranza dei politici, dei rettori universitari e dei media europei evitano di affrontare questo argomento”.
La ricerca ha sottolineato la preoccupante “normalizzazione” dell’antisemitismo fra gli appartenenti alle nuove generazioni e che oltre il 28 percento dei giovani europei interpellati, di età fra i diciotto e i ventiquattro anni, è stato coinvolto in commenti antisemiti “camuffati”  da critiche ad Israele.  Come ha affermato il 65 percento degli europei, il conflitto in Medio Oriente ha influito grandemente riguardo alla percezione degli ebrei, da parte del mondo non ebraico, addirittura peggiorandone di molto l’immagine secondo il 55 percento degli interpellati.
In conclusione l’EJA ha invitato i governi, le università e le istituzioni a prendere provvedimenti decisivi, inserendo, fra i reati punibili penalmente, i crimini di odio e l’incitamento via web dell’antisemitismo e a  rafforzare maggiormente la protezione delle comunità ebraiche europee. Come ha ricordato il Rabbino Margolin “L’avanzare dell’antisemitismo sta lacerando l’Europa e anche se noi ebrei, nell’Unione europea, siamo i primi a soffrirne non saremo gli unici nel mondo. L’Europa deve agire ora per tutelare i suoi valori proteggendo i suoi ebrei”.

(Bet Magazine Mosaico, 15 maggio 2025)

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Andava in ospedale per partorire, i terroristi la uccidono

di Michelle Zarfati

Una donna israeliana incinta, Tzeela Gez, è stata uccisa mercoledì sera in un attacco terroristico a colpi d’arma da fuoco mentre andava in ospedale per partorire. Madre di tre figli e consulente in ambito psichiatrico, stava viaggiando con il marito lungo la Strada 466, tra le comunità di Bruchin e Peduel, nel nord della Cisgiordania, quando un terrorista ha aperto il fuoco contro la loro auto.
  Gravemente ferita, Gez è stata trasportata d’urgenza al Rabin Medical Center di Petah Tikva, dove i medici hanno eseguito un cesareo d’emergenza per salvare il bambino. Nonostante gli sforzi, la donna è deceduta a causa delle ferite riportate. Il neonato, in condizioni critiche ma stabili, è stato trasferito all’ospedale pediatrico Schneider, dove è sottoposto a cure intensive. Il marito di Gez ha riportato ferite lievi nell’attacco. Le forze di sicurezza israeliane hanno avviato una vasta operazione di ricerca per individuare l’attentatore, impiegando truppe e posti di blocco nella zona.
  Yossi Dagan, capo del Consiglio Regionale della Samaria, ha descritto Gez come “una donna devota e sorridente che desiderava solo una vita tranquilla ed è stata assassinata mentre portava una nuova vita nel mondo”. Ha inoltre sollecitato una risposta più decisa da parte delle autorità per prevenire ulteriori attacchi nella regione. Questo tragico evento evidenzia la vulnerabilità dei civili in aree soggette a tensioni e conflitti, sottolineando l’urgenza di misure efficaci per garantire la sicurezza e la protezione della popolazione locale.

(Shalom, 15 maggio 2025)

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Israele compie 77 anni. Mazal tov!

di Ugo Volli

La cerimonia
  Erano le quattro di pomeriggio del 14 maggio 1948, in data ebraica il 5 del mese di Iyar 5708. La sala al piano terra del vecchio museo d’arte contemporanea di Tel Aviv in Boulevard Rotschild 16, che era stata la villa del mitico sindaco Meir Dizengoff, era strapiena: duecentocinquanta persone, quasi tutte vestite di scuro, in giacca camicia bianca e cravatta, contro tutte le abitudini dell’Yishuv, l’insediamento ebraico in Terra di Israele. Sul palco in fondo alla sala c’erano 25 membri del comitato esecutivo dell’Agenzia Ebraica (Moetz HaAm, il governo de facto dell’Yishuv), mentre gli altri 12 erano bloccati all’estero o assediati a Gerusalemme. Sulla parete sopra a loro, una grande fotografia di Herzl e due bandiere del nuovo Stato. Ben Gurion aprì la riunione battendo il martelletto sul tavolo, ed i presenti intonarono l’ Hatiqvah. La lettura di Ben Gurion della dichiarazione durò 16 minuti, e si concluse con la clausola: “Chi accetta la dichiarazione della fondazione dello Stato ebraico ora si alzi”. L’accettazione fu unanime. Contro le abitudini delle riunioni dall’Agenzia era presente anche un rabbino, rav Fishman, che pronunciò la benedizione “Sheheheyanu”, quella che si usa per le novità positive. La cerimonia continuò con l’inno eseguito dall’Orchestra filarmonica di Israele e Ben Gurion la concluse annunciando: «Lo Stato d’Israele è istituito! Questo incontro è aggiornato!». Non c’era tempo da perdere in festeggiamenti, la guerra civile con gli arabi era in corso da sei mesi e già si sapeva che il giorno dopo gli eserciti dei sei stati arabi avrebbero invaso il piccolo territorio tenuto dall’Yishuv.

Il compleanno
  Oggi è la giornata che segna il settantasettesimo compleanno di Israele: è un’età ormai ragguardevole anche per uno Stato (ce n’è di molto più vecchi come la Gran Bretagna e la Cina; ma tanti anche più giovani, almeno come istituzioni riconosciute). I festeggiamenti in Israele erano previsti per la data ebraica, quest’anno caduta il 1° maggio, con vigilia il 30 aprile, con le limitazioni imposte dalla guerra in corso e con l’annullamento imposto dagli incendi che hanno devastato ampi territori.

Un gesto di straordinario coraggio
  Quando Ben Gurion decise di forzare la mano ai dirigenti dell’Yishuv e di proclamare l’indipendenza, erano passati quasi 19 secoli dalla caduta di Gerusalemme e dell’ultima autonomia ebraica. C’era stata la profezia di Herzl e ottant’anni di immigrati che avevano provato a far fruttare la terra, la lingua era tornata viva, c’erano le scuole e le università, l’amministrazione e una inizio di esercito, insomma l’intelaiatura dello Stato; ma fu un gesto di straordinario coraggio. Erano contrari gli europei e in particolare la Gran Bretagna, ma anche il Dipartimento di Stato americano (non Truman per fortuna). E anche dentro il mondo ebraico molti consideravano avventata la proclamazione dello Stato: la maggioranza dei charedim, ma anche ebrei progressisti come Hannah Arendt e Leon Magnes (fondatore dell’Università ebraica di Gerusalemme) fecero campagna contro l’indipendenza; Martin Buber si era espresso contro e perfino Chaim Weizmann era perplesso. Gli eserciti arabi, almeno sulla carta, erano assai più forti e organizzati di quello del neonato Israele, cui mancava quasi tutto. L’appoggio dell’Urss era solo tattico, inteso a creare problemi all’Occidente, come si sarebbe visto presto. L’economia, retta dal volontaristico sistema dei kibbutz, zoppicava.

Lo straordinario progresso e le speranze
  Ma il miracolo avvenne, Israele superò la guerra, vinse, crebbe, resistette ad altre guerre e al terrorismo, riuscì a produrre un sistema politico, economico, scientifico e civile di straordinaria efficacia, anche grazie alla sua capacità di cambiare: di passare dalla camicia di forza di una specie di socialismo non politicamente oppressivo ma molto burocratico a un capitalismo tecnologico fra i più avanzati al mondo; di integrare un milione e passa di immigrati dall’Unione Sovietica e altri dall’Etiopia, dallo Yemen, da tutto il mondo; di liquidare il predominio politico della sinistra e di superare anche errori come la ricerca di compromessi con il terrorismo nel nome della “pace”. La scommessa di Ben Gurion è stato forse il maggior successo politico del XX secolo. Da alcuni anni il motore politico e istituzionale di questo progresso sembra però essersi inceppato. Le elezioni a ripetizione; l’incapacità di costruire maggioranze stabili; l’odio per Netanyahu che ha bloccato a lungo l’attuazione delle scelte chiaramente di centrodestra dell’elettorato; poi la lunga e astiosa guerriglia di piazza contro il progetto parlamentare legittimo della riforma giudiziaria, che ha proiettato un’immagine indebolita dello Stato e dell’esercito dando ai nemici di Israele, Iran in testa, l’illusione di poter prevalere; il conseguente barbaro pogrom del 7 ottobre; la difficoltà di condurre la guerra anche contro le resistenze degli alleati riluttanti a permettere a Israele di sconfiggere il terrorismo: tutti questi problemi hanno suscitato turbamento e pessimismo. Ma forse proprio la guerra sta obbligando gli israeliani a cementare una nuova unità e una nuova speranza. Oggi che è il compleanno di Israele tutti gli ebrei del mondo e i loro amici sentono nel cuore l’urgenza di augurare lunga vita allo Stato ebraico e, perché essa sia raggiunta in concordia, fratellanza… e pazienza. Come si dice in ebraico: mazal tov, buona stella

(Shalom, 14 maggio 2025)

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Rabbini e studiosi ricordano rav Laras

di Adam Smulevich

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av Giuseppe Laras

ROMA - A sette anni e mezzo dalla morte, l’eredità morale di Giuseppe Laras (1935-2017) vive nei suoi scritti, nelle sue riflessioni, nei suoi moniti. Tutti concordi su questo punto i relatori che hanno illuminato da diverse prospettive la vita di uno dei più importanti rabbini italiani, prendendo parte alla presentazione del numero speciale della Rassegna Mensile di Israel in suo onore nei locali della Biblioteca Nazionale dell’Ebraismo Italiano a Roma.
  Il Maestro, lo studioso, l’uomo del Dialogo. La pubblicazione, curata dai rabbini Gianfranco Di Segni, Angelo M. Piattelli e Amedeo Spagnoletto, affronta varie sfaccettature del suo magistero e include il testamento spirituale redatto dallo stesso rav a malattia in grave fase di avanzamento.
  «Mi sono riletta una sua riflessione del 2016 sul terrorismo islamico e la coscienza nazionale distratta. Sembra di leggere la cronaca di oggi», ha dichiarato la presidente Ucei Noemi Di Segni, segnalando l’attualità dei pensieri e dei suggerimenti del rav qualunque argomento trattasse. Dal modo in cui gestire i rapporti con la Chiesa e l’Islam «all’uso e abuso del tema della Shoah», passando per la proiezione futura delle Comunità «con una demografia molto ridotta». A ricordarne «la varietà degli interessi» era stato in precedenza Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, soffermatosi in particolare su alcuni nodi del Dialogo interreligioso e su un incontro nel quale nel 2009 fu a fianco di Laras, allora presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, per dirimere una controversia con la gerarchia ecclesiastica dopo il ripristino da parte di papa Benedetto XVI della preghiera del Venerdì Santo sulla “conversione” degli ebrei. Uno spunto per riflettere sullo stato dell’arte del Dialogo allora e al tempo presente, soprattutto dopo «il peggioramento» delle relazioni post 7 ottobre. «Oggi», ha dichiarato Di Segni, che domenica sarà all’insediamento di Leone XIV, «assistiamo a una interessante fase di transizione; davanti a noi c’è una incognita, con molta attenzione e cautela vedremo quel che succede».

La “sua” Milano del dialogo
  Per quanto riguarda il dialogo, non soltanto interreligioso, Gavriel Levi (Università La Sapienza di Roma) ha spiegato che per Laras «la cosa più importante era “l’amore per Israele”, che includeva l’amore per l’essere umano». Da Laras, ha poi aggiunto Levi, «credo di aver imparato che è ebreo chi non respinge un altro ebreo». Come ha poi testimoniato Massimo Giuliani (Università di Trento), «soprattutto negli ultimi decenni Laras è stato molto generoso con le collaborazioni con riviste cattoliche e ha tenuto anche una rubrica settimanale su Avvenire: quello era il clima di Milano negli anni Novanta». Ha tra gli altri tessuto le lodi del numero speciale della Rassegna, l’ultimo sotto la direzione di Gianfranco Di Segni, di cui si è da poco concluso il mandato, l’attuale co-direttrice Myriam Silvera. «È un numero molto bello», ha affermato, «perché risponde a due criteri: è animato da sinceri sentimenti di affetto e parla linguaggi diversi, seguendo i diversi interessi di Laras». Tanti gli stimoli dai quali prendere spunto anche per Giorgio Segré, consigliere della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia, che ha ricordato la preoccupazione del rav «per il ritualismo del Giorno della Memoria, tema di cui tratta nel volume la figlia Yardena» e il suo pensiero sulla pace «come concetto concreto, pratico e dinamico».

(moked, 14 maggio 2025)

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Un riscattatore per Rut

È dal modo in cui Dio agisce con il suo popolo che possiamo riconoscerlo. È questa l'esperienza che ha fatto Rut, una straniera, ai tempi della Bibbia.

di Samuel Hänsch*

Nella vita quotidiana ci sono molte cose da sbrigare. Ci sono compiti da portare a termine. Le pillole vanno sciolte nell'acqua. La sentinella viene sostituita. Nei giochi di avventura bisogna decifrare il codice o trovare la soluzione giusta. Per curare una malattia occorre trovare il principio attivo giusto.
  Il personaggio biblico Rut riconobbe in Boaz il riscattatore. È interessante notare che Boaz non fu il primo riscattatore. Lui arrivò solo come secondo (Rut 3,12). Nel secondo capitolo del libro di Rut, che racconta gli eventi di una giornata, leggiamo per la prima volta di un incontro tra i due.
  Boaz, della tribù di Giuda, amministra i campi e discute con i suoi dipendenti, tra cui il responsabile del lavoro nei campi. Rut sta raccogliendo spighe nel campo, e nel corso dell'incontro e della conversazione le vengono garantite diverse “agevolazioni lavorative”. Così può fare una pausa, mangiare e bere, e raccogliere dove è più facile per lei.
  Rut è moabita ed è tornata a Betlemme, in Giudea, Israele, come vedova, con Naomi sua suocera. Sebbene Naomi le chieda ripetutamente di rimanere in Moab, Rut decide di andare con lei. Rut dice alla suocera : “Dove andrai tu, andrò anch'io; dove starai, starò anch'io; il tuo popolo è il mio popolo, il tuo Dio è il mio Dio!” (Rut 1,16).
  Allora Boaz le chiede: «Chi sei tu?». «Sono Rut, tua serva. Spiega le tue ali sulla tua serva, perché tu sei il mio riscattatore», risponde lei.
  Questa è la professione di fede di Rut. Lei professa la sua fede nel popolo d'Israele e nel Dio d'Israele. L'ordine è interessante. Prima viene il popolo d'Israele. Lei aveva conosciuto una famiglia ebrea: Naomi con suo marito Elimelech e i figli della tribù di Giuda. Attraverso di loro Rut aveva acquisito familiarità con aspetti quali la lingua, la cultura, la fede e la vita. Adesso, in un secondo momento, professa la sua fede nel Dio d'Israele.
  Nella Torà è previsto il caso in cui un uomo muore e la moglie rimane vedova senza figli. In tal caso, il fratello del defunto deve sposarla e generare figli con lei. I figli sarebbero stati considerati legalmente discendenti del marito defunto, anche se biologicamente sarebbero rimasti figli del secondo marito. Nel libro di Rut l'attenzione è focalizzata altrove. Si tratta della questione: chi ottiene l'eredità (la terra) e quale ordine di acquisto deve essere rispettato?
  Rut è attiva, agisce. Esorta Boaz a prendere l'iniziativa. Boaz era molto più anziano di lei, poiché la chiama “figlia mia” (Rut 2,8; 3,10). Fino a quel momento Boaz si era tenuto in disparte. Ora è il suo turno. Lei trasferisce la responsabilità a Boaz. «È il tuo turno». Quando si gioca si dice: «Tocca a te». Ci possono essere azioni molto diverse: tirare i dadi, pescare una carta o compiere un'azione. Una cosa è chiara: adesso Boaz deve agire. Il «cosa» e il «come» spettano a lui.

Cosa possiamo imparare da questo?
  Rut riconosce il Dio d'Israele attraverso la conoscenza del popolo d'Israele. E’ dal modo in cui Dio agisce con il suo popolo che possiamo riconoscere Dio.
  Rut è menzionata insieme ad altre donne non ebree nell'albero genealogico del Messia Gesù nel Nuovo Testamento (Matteo 1). Dio include i popoli non ebrei nella salvezza attraverso il suo Messia. La madre di Boaz era Rahab, una prostituta. Gli antenati di Rut discendono da una relazione incestuosa tra Lot e sua figlia. Nonostante questo background immorale, l'eterno Dio include tutti loro nell'albero genealogico del Messia Yeshua/Gesù. Quanto è grande Dio, che può usare tali “cose” per inviarci il Salvatore e redimerci, noi esseri umani, con tutti i nostri peccati!
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* Samuel Hänsch è laureato in chimica (FH). Lavora a tempo pieno come assistente di direzione e relatore presso l'associazione Sächsische Israelfreunde e.V. (Amici sassoni di Israele).  

(Israelnetz, 14 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele dovrà rinunciare a parti di Giudea e Samaria per i rapporti con l’Arabia Saudita?

di Maayan Hoffman

La visita del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Arabia Saudita ha scatenato speculazioni sul fatto che potrebbe fare un cenno in direzione della statualità palestinese in Giudea e Samaria, proprio mentre il Primo Ministro Benjamin Netanyahu sembra rilanciare la possibilità di sovranità israeliana su porzioni di quel territorio.
Parlando domenica davanti a un comitato a porte chiuse della Knesset, fonti interne hanno riferito che Netanyahu ha detto che Israele potrebbe annettere il 30% della Giudea e della Samaria nel prossimo futuro, mentre concederebbe l’autonomia all’Autorità Palestinese in altre parti della regione, note come Aree A e B.
“Ma deve esserci un pieno controllo di sicurezza israeliano su tutto il territorio”, ha detto Netanyahu, sottolineando che non ci sarà uno Stato palestinese.
Le Aree A e B sono già parzialmente amministrate dall’Autorità Palestinese (AP). Esse comprendono anche diversi siti biblici chiave venerati da ebrei e cristiani, come la Grotta dei Patriarchi, la Tomba di Rachele e la Tomba di Giuseppe.
Nadia Matar, co-presidente del Movimento per la sovranità, ha dichiarato che le tensioni segnalate tra Netanyahu e Trump derivano da disaccordi sulla normalizzazione con l’Arabia Saudita. Secondo Matar, Trump ha detto a Netanyahu che se Israele vuole la pace, deve almeno “in teoria” accettare uno Stato palestinese, e ha chiesto a Netanyahu di farlo.
“Ma Netanyahu capisce il Medio Oriente più di Trump, e capisce che se un politico della sua levatura è d’accordo – anche in teoria, sulla carta – potrebbe diventare realtà in qualsiasi momento”, ha detto Matar.
Durante il suo primo mandato, Trump stesso ha proposto un piano di pace noto come “Deal of the Century”, che avrebbe permesso a Israele di applicare la sovranità al 30% della Giudea e della Samaria. Quel piano fu accantonato a favore degli Accordi di Abraham, una serie storica di accordi di normalizzazione con le nazioni arabe, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco.
Ora, con Trump di nuovo alla Casa Bianca e i sostenitori cristiani sionisti/evangelici di lunga data – tra cui il neo-ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee – che appoggiano pubblicamente la sovranità ebraica sul cuore biblico, i coloni israeliani sperano che il loro momento sia tornato.
Ma una domanda centrale incombe: se Trump farà di un accordo con l’Arabia Saudita la sua massima priorità, la sovranità sarà nuovamente accantonata?
Trump si è mostrato ottimista riguardo all’adesione dell’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo.
“Succederà”, ha dichiarato il mese scorso alla rivista Time.
Sebbene abbia previsto che la normalizzazione avverrà “molto rapidamente”, alcuni rapporti suggeriscono che Trump abbia abbandonato la pace con Israele come requisito per il sostegno degli Stati Uniti alle ambizioni nucleari civili dell’Arabia Saudita e ad altri accordi economici, suggerendo che la normalizzazione con Israele potrebbe non essere imminente.
Durante il fine settimana, le voci secondo cui, mentre si trovava in Arabia Saudita, Trump avrebbe pianificato di riconoscere uno Stato palestinese che non includa Hamas sono state liquidate da Huckabee come “sciocchezze”.
“Il presidente non vede l’ora di intraprendere il suo storico ritorno in Medio Oriente” per promuovere una regione in cui “l’estremismo viene sconfitto [attraverso] il commercio e gli scambi culturali”, ha dichiarato venerdì la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt.
In effetti, Trump sembra essere in vantaggio con l’economia.
A marzo ha dichiarato che avrebbe visitato l’Arabia Saudita se questa si fosse impegnata a investire 1.000 miliardi di dollari negli Stati Uniti.
“Hanno accettato di farlo, quindi ci andrò”, ha detto.
Sebbene l’Arabia Saudita non abbia confermato tale cifra, a gennaio ha annunciato l’intenzione di incrementare il commercio e gli investimenti con gli Stati Uniti di 600 miliardi di dollari in quattro anni, e potenzialmente di più.
Tuttavia, si prevede che anche la sicurezza e la diplomazia avranno un ruolo di primo piano.
Secondo i media arabi, Trump dovrebbe incontrare il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman insieme al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, al presidente libanese Joseph Aoun e al leader de facto della Siria, Ahmed al-Sharaa.
Il quotidiano palestinese Al-Quds ha citato una fonte anonima secondo cui il principe ereditario saudita “attende con ansia che Trump accetti la condizione saudita di creare uno Stato palestinese”.
In precedenza Trump aveva affermato che l’Arabia Saudita non chiedeva più la statualità palestinese in cambio della normalizzazione con Israele, ma Riyadh ha smentito.
Poco prima del massacro di Hamas del 7 ottobre, che ha scatenato la guerra in corso in Israele e un’ondata di sentimenti anti-israeliani in tutto il mondo musulmano, l’amministrazione Biden sembrava vicina a finalizzare un accordo saudita che avrebbe incluso la normalizzazione tra Riyadh e Gerusalemme e un percorso verso la sovranità palestinese.
Secondo gli accordi di Abramo, Israele aveva accettato di congelare i piani di sovranità per quattro anni – una moratoria scaduta. Se tale clausola venisse inserita ora, significherebbe che la sovranità non potrebbe essere realizzata sotto Trump e Huckabee e potrebbe, quindi, essere ritardata indefinitamente.
I leader dei coloni stanno esortando Netanyahu a rifiutare qualsiasi accordo diplomatico che possa scaturire dalla visita di Trump, a meno che non includa la sovranità israeliana su almeno parti chiave della Giudea e della Samaria ed escluda qualsiasi promessa, anche solo teorica, di un futuro Stato palestinese.
Ma per molti esponenti della destra israeliana e dei leader dei coloni, anche il piano di sovranità di Trump del suo primo mandato non era abbastanza ambizioso. Lo hanno respinto allora e lo respingono oggi, così come l’Autorità Palestinese.
Questa settimana, il Movimento per la sovranità ha rilasciato una dichiarazione in cui invita il primo ministro a rimanere fermo, nonostante le crescenti pressioni politiche per accettare uno Stato palestinese in cambio della normalizzazione con l’Arabia Saudita, anche se solo simbolica o dichiarativa.
“Uno Stato del genere non solo minerebbe l’esistenza di Israele, ma destabilizzerebbe anche la regione e servirebbe a dimostrare ad altre organizzazioni terroristiche in tutto il mondo che il terrorismo paga”, ha scritto il movimento. Hanno aggiunto che questa posizione riflette “la stragrande maggioranza del popolo di Israele”.
Il rappresentante del movimento, Matar, ha sostenuto che Israele dovrebbe applicare immediatamente la piena sovranità su tutta la Giudea e la Samaria, così come sulla Valle del Giordano.
“Ora è il momento, mentre alcune persone stanno ancora promuovendo uno Stato palestinese, di fermarlo una volta per tutte”, ha detto. “Questa terra è nostra. Non c’è vittoria migliore in questa guerra che applicare la sovranità”.
Matar ha aggiunto che se l’Arabia Saudita vuole davvero la normalizzazione, “la nostra condizione è solo dopo aver applicato la sovranità”.
Alcuni leader dei coloni sostengono che applicare la sovranità solo al 30% del territorio sarebbe un errore. Essi avvertono che così facendo potrebbe essere molto più difficile estendere la sovranità alle aree rimanenti in futuro.
Il movimento dei coloni conta su Huckabee e sulla comunità cristiana evangelica per sostenere la sua spinta alla sovranità. Diversi leader e organizzazioni cristiane di spicco hanno già esortato i funzionari statunitensi e i media cristiani a smettere di usare il termine “Cisgiordania” e a riferirsi invece all’area con i suoi nomi biblici – Giudea e Samaria – per rafforzare il profondo legame storico e religioso tra il popolo ebraico e la terra.
Inoltre, gli American Christian Leaders for Israel (ACLI), in occasione della convention dei National Religious Broadcasters (NRB) all’inizio di quest’anno, hanno firmato una risoluzione che riafferma il diritto del popolo ebraico alla Giudea e alla Samaria e l’importanza della sovranità ebraica sulla regione.
Tuttavia, come si è visto durante la firma degli Accordi di Abramo nel 2020, il sostegno dei sionisti cristiani all’“Israele biblico” si è talvolta spostato verso il pragmatismo, favorendo la pace rispetto alle rivendicazioni territoriali. L’Ambasciata cristiana internazionale di Gerusalemme, ad esempio, sostiene da tempo che Israele detiene un diritto storico e legale alla Giudea e alla Samaria. Tuttavia, sottolinea che la decisione di estendere la legge israeliana in quel territorio è in ultima analisi una scelta che spetta a Israele.
I sostenitori cristiani ed ebrei fanno spesso riferimento a testi biblici, come quelli di Geremia, per giustificare le rivendicazioni ebraiche sulla terra.
Ma per la maggior parte dei cristiani, questi versetti sono profezie sulla fine dei giorni – l’era messianica – piuttosto che una direttiva politica per oggi. I leader evangelici hanno sottolineato che, sebbene la Bibbia prometta la piena eredità della terra, la priorità attuale dovrebbe essere un Israele sicuro, stabile e pacifico.
Ogni giorno, i cristiani evangelici di tutto il mondo pregano per la pace di Gerusalemme. Sono stati infatti i leader sionisti cristiani a contribuire all’avvio dei colloqui con gli Emirati Arabi Uniti nel 2018 che hanno gettato le basi per gli Accordi di Abramo.
Allo stesso tempo, non tutti gli israeliani sono allineati con il movimento per la sovranità. Questa settimana, la Coalition for Regional Security (Coalizione per la sicurezza regionale) – una rete di personalità pubbliche dei settori della sicurezza, della diplomazia, dell’economia e della ricerca formatasi dopo il 7 ottobre – ha lanciato un avvertimento: Israele deve muoversi rapidamente sulla normalizzazione o rischia di essere escluso da uno storico cambiamento regionale.
“Le notizie giunte dalla Casa Bianca nel fine settimana sono un campanello d’allarme per il governo israeliano, che deve intraprendere un’azione diplomatica urgente”, ha dichiarato la coalizione in un comunicato. Se continuiamo a esitare, saremo lasciati indietro”.
“Governo di Israele”, ha proseguito la dichiarazione, “questo è il momento di cogliere l’opportunità storica presentata dal Presidente Trump per cambiare il volto della regione – inizia con la restituzione di tutti gli ostaggi, la fine della guerra a Gaza, e include la sostituzione del dominio di Hamas nella Striscia, la firma di un accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita, e un percorso di separazione dai palestinesi come parte di un accordo regionale globale”.
“Salite subito sul treno regionale”, conclude la dichiarazione. “La storia non aspetterà”.
E non lo farà. La storia sta già bussando. La questione è se Israele dovrà scegliere tra la sovranità e la normalizzazione saudita o se potrà manovrare la situazione e raggiungere entrambi gli obiettivi.
Se sceglierà la normalizzazione, la sovranità potrebbe dover aspettare un futuro lontano, forse addirittura l’era messianica.

(Rights Reporter, 13 maggio 2025)

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Come in realtà è l’opposizione in Israele a mantenere al potere Netanyahu

Gli oppositori della coalizione chiedono continuamente: “Cosa trovate di buono in questo governo” e soprattutto: “Perché lo sostenete dopo il 7 ottobre?”. E io rispondo, in una parola: per colpa vostra. 

di Kalman Liebskind

Molti dei miei amici, persone di sinistra/sostenitori dell’opposizione, mi chiedono con grande stupore, quasi quotidianamente: “Perché persone come te si stringono così attorno al Primo Ministro? Cosa trovate di buono in lui? E come potete sostenere un governo del genere? Non vi sembra, dopo quello che abbiamo passato il 7 ottobre, che sia giusto che concluda il suo mandato?“. Ebbene, fratelli miei di sinistra e chiunque si consideri avversario politico di questo governo, ciò che scriverò qui è dedicato a voi. Voi siete il pubblico al quale è diretto questo editoriale, e per cercare di aiutarvi a capire noi, persone di destra che nelle circostanze attuali non si affrettano a chiedere a Netanyahu di dimettersi e al governo israeliano di dimettersi anche dopo il grande disastro che abbiamo vissuto, cercherò di farvi fare una breve visita guidata nella nostra testa.
Prima di tutto, una breve premessa: non sono mai stato tra i sostenitori devoti di Benjamin Netanyahu. Riconosco i suoi vantaggi, riconosco i suoi difetti, in passato ho espresso molte critiche nei suoi confronti, e già circa cinque anni fa ho condiviso qui la mia sensazione di allora, cioè che fosse giunto il momento per lui di concludere il suo mandato.
Mi oppongo a molte decisioni del governo, ho mal di stomaco per molte delle dichiarazioni dei membri della coalizione di governo, sono disgustato dalla gioia per la zizzania e per le liti di troppe persone in esso, non mi piace il bisogno del Primo Ministro di scontrarsi con i suoi oppositori politici nei giorni in cui un grande pubblico del quale è responsabile è preoccupato per i figli mandati in battaglia. E se avesse chiesto a me, gli avrei consigliato da tempo di non aver paura di dire “mi ritengo responsabile”, e anche di andare ogni tanto negli insediamenti attorno a Gaza e parlare faccia a faccia con coloro che hanno vissuto l’incubo. Tutto questo, immagino, dovrebbe amplificare ancora di più la domanda “allora, perché non dire basta a tutto ciò?”.
Ebbene, inizierò la risposta a tutte queste domande con una citazione da quell’editoriale del 2020 in cui raccomandavo a Benjamin Netanyahu di dimettersi, un brano in cui presentavo il mio impegno personale sull’argomento. “Suppongo che alcuni lettori, specialmente nel campo dei sostenitori del Primo Ministro“, scrivevo allora, “vedranno nella richiesta a fatta a Netanyahu di lasciare il suo incarico una sorta di resa. Resa a una stampa che parla altezzosamente contro la provocazione, ma non esita a paragonarlo ad Adolf Hitler. Resa a giornalisti scioccati dai suoi attacchi alla procura e alla polizia loro che erano essi stessi i grandi critici della procura e della polizia, quando queste agivano contro Ehud Olmert. Resa allo stile di linguaggio aggressivo di persone come Bogi Ya’alon e Yair Golan, che una volta educavano soldati e oggi – in nome del senso dello stato – non smettono di sporcarsi la bocca. Resa a una condotta distorta della polizia e della procura“.
“E sì”, aggiunsi, “sento anche voci come quella di mio fratello e amico, Arel Segal, che mi spiega che se questa guerra diffamatoria e sleale contro Netanyahu dovesse vincere – cioè, con Netanyahu che torna a casa – questo sarebbe il destino di ogni primo ministro di destra, da oggi fino alla fine dei tempi. ‘Netanyahu è un simbolo’, mi spiega ripetutamente. Per i suoi oppositori, lui è ‘la destra‘”. “Dico onestamente”, ammettevo in quell’editoriale, “non sono sicuro di poter dire a Segal che si sbaglia”.
E inizio la risposta alle molte domande su Netanyahu e sul suo governo di proposito con questo scambio che ho avuto con Arel Segal, perché anche se si può continuare a discutere su sì o no a Netanyahu, è più difficile discutere della crescente rilevanza di quella sua affermazione di allora, che nella lotta contro Netanyahu e contro la sua coalizione c’è molto poco di oggettivo. Netanyahu è stato presentato come il cattivo quando è stato eletto nel 1996, ed è stato presentato come il cattivo in ogni campagna elettorale da allora. È stato presentato così prima della riforma giudiziaria, ed è stato presentato così dopo che questa è stata bloccata. È stato presentato così prima del 7 ottobre, ed è stato presentato così dopo il 7 ottobre. Benjamin Netanyahu non ha mai goduto di un solo momento di giudizio oggettivo delle sue azioni. I suoi oppositori, nella stampa e nella sinistra, lo hanno dipinto fin dal giorno in cui è entrato in politica come un nemico amaro e pericoloso, e da allora, ogni mattina, cambiano le affermazioni e le prove di questa idea.
E poiché parallelamente a Netanyahu, vengono presentati così anche gli altri rappresentanti dello schieramento nazionale, è chiaro che lui non è la problema. È semplicemente l’uomo a capo di tutto ciò che loro detestano. Se riassumiamo le cose in poche parole, prima di approfondire, il richiamo allo scioglimento del governo nelle circostanze attuali – di fronte a incitamento incessante, violenza per le strade, media ostili e unilaterali, leader dell’opposizione che con una mano propongono di arrendersi ad Hamas, e con l’altra minacciano di vendicarsi delle persone dello schieramento nazionale se torneranno al potere – è una questione che nessuna persona di destra ragionevole e logica pronuncerebbe.
Perché se riusciste a discuterne oggettivamente, e cercaste di convincere perché i difetti di Netanyahu superano i suoi meriti, e perché dopo così tanti anni è giunto il momento di provare qualcos’altro, potremmo avere una discussione e qua e là, per alcuni argomenti, anche essere d’accordo. Ma è proprio questo il punto. Voi non volete convincere che Netanyahu non dovrebbe continuare nel suo ruolo. Volete cacciarlo dal suo ruolo. Lui e i suoi partner. E lo fate in ogni modo possibile, senza linee rosse, quando persino lo smantellamento dell’esercito e l'invito ai soldati a non presentarsi alla riserva vi è sembrato legittimo per raggiungere questo obiettivo. E se c’è qualcosa che persone come me capiscono che non si deve permettere di vincere, è il modo in cui avete scelto di cercare di sostituire il governo eletto, e non meno importante – gli elettori di questo governo, moltissimi bravi cittadini israeliani la cui unica colpa è che pensano diversamente da voi.

I negatori della legittimità
  A tutti coloro che puntano il dito contro Netanyahu, dicendo “tu sei il capo, tu sei il colpevole“, e chiedono alla luce di ciò che abbiamo passato di andare alle elezioni, ho una sola domanda: supponiamo che Netanyahu esca da queste elezioni come il prossimo Primo Ministro, sarà un Primo Ministro legittimo, o continuerete a trattarlo come lo trattate oggi? Dopo le prossime elezioni, se le vincerà, smetterete di chiamarlo “traditore”?
Perché ammettiamolo: non avevate bisogno del 7 ottobre per negare la sua legittimità come Primo Ministro. E perché faccio questa domanda? Perché se per voi non può essere Primo Ministro, indipendentemente da ciò che pensano gli elettori – come ha onestamente dichiarato l’ex capo dello Shin Bet Nadav Argaman – allora cosa significa per voi l’idea delle elezioni democratiche? E qual è la differenza tra voi e quel bambino che continua a lanciare i dadi del gioco e non si ferma finché non cadono sul lato che gli conviene?
Sapete cosa? Supponiamo che Netanyahu se ne vada, e qualcun altro venga eletto al suo posto. Diciamo Yariv Levin. Con lui andate d’accordo? No, vero? Ha guidato la riforma, cioè il “colpo di stato”. Ok, lo togliamo. E Dudi Amsalem? E Yoav Kisch? E Miri Regev? E Shlomo Karhi? E Tally Gotliv? E Nissim Vaturi? E Nir Barkat? E Galit Distel Atbaryan? E Boaz Bismuth? Perché praticamente inseguite quasi tutti i membri di questa coalizione, che attualmente conta 68 membri della Knesset, per le strade e nei raduni e nei caffè, e li trattate come se non avessero legittimità. Quindi, potrebbe essere che non sia Netanyahu il problema ma chiunque il Likud scelga? In altre parole, potrebbe essere che il vostro problema non sia con il leader del Likud, ma con i suoi elettori e le loro preferenze?

Le esclusioni di Gantz e Eisenkot
  Chiedere a questo governo di andarsene, sullo sfondo del discorso attuale che si sta svolgendo qui nell’ultimo anno e mezzo, è una resa alla falsa narrativa che le persone dell’opposizione nei media, nelle strade e nella Knesset stanno cercando di instillare in tutto ciò che riguarda gli eventi del 7 ottobre. C’è una regola in Israele che esiste da anni e ruota attorno all’atteggiamento verso Benjamin Netanyahu. Se sei con lui – sei un cattivo, se sei contro di lui – sei un eroe. E così, Herzi Halevi, che era responsabile della protezione del confine in quel terribile mattino, si è congedato dall’IDF con un grande abbraccio. Ronen Bar, che non ha fornito l’allarme che avrebbe impedito il più grande massacro nella storia dello stato, è portato in trionfo dai sostenitori dei media ed è presentato come un combattente per la corretta amministrazione mentre si “aggrappa alle corna dell’altare“.
E Netanyahu? Lui è il capo, lui è il colpevole. Solo lui. È vero, non c’è dubbio che il Primo Ministro abbia responsabilità per tutto ciò che accade durante il suo mandato, ma Benjamin Netanyahu non doveva sorvegliare Yahya Sinwar di notte per sapere cosa stava pianificando, e nessuno si aspettava che arrivasse al kibbutz Be’eri la mattina di Simchat Torah per salvare le persone dal rifugio. Ma Herzi Halevi e Ronen Bar sì. E se dopo un terribile evento in cui lo Shin Bet non ha funzionato e l’IDF è scomparso come se non ci fosse stato, Benjamin Netanyahu è presentato nei media – che erano essi stessi i più grandi sostenitori dell’idea fissa errata – come l’unico cattivo del 7 ottobre, è chiaro che nulla in questa discussione è legato a equità e onestà.
E non è solo la storia di Netanyahu e del Likud. Guardate che mostri avete fatto diventare Bezalel Smotrich e Orit Strock. Questi due erano (quasi) gli unici nel sistema politico che hanno avvertito per anni del disastro imminente. Hanno avvertito quando Yitzhak Rabin ha portato un’organizzazione terroristica da Tunisi, l’ha armata, le ha dato un territorio, e ha sperato che finisse bene. Hanno avvertito quando Ariel Sharon ha deciso di fuggire dal terrore di Gaza, e con le sue stesse mani ha stabilito lì lo stato di Hamas. E hanno avvertito ripetutamente che l’unico modo per affrontare ciò che si stava sviluppando nella Striscia era con l’ingresso fisico delle forze dell’IDF e con le azioni aggressive del tipo che ora siamo costretti a fare, dopo aver vissuto ciò che abbiamo vissuto.
In una realtà sana, avremmo dovuto far considerare questi due un modello da seguire. Trattarli come profeti. Dichiarare che non c’è gabinetto al quale non partecipino. Perché mentre l’esercito, lo Shin Bet e i media sognavano ad occhi aperti e deridevano le loro concezioni, sono stati loro a identificare il pericolo. E cosa è successo in pratica? Invece di portarli in palmo di mano, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, che erano immersi fino al collo nelle stesse idee fisse disastrose nelle quali era immerso anche Netanyahu, hanno dichiarato che si sarebbero uniti al governo a condizione che Smotrich (e Ben Gvir) non sedesse nel gabinetto di guerra; Yair Lapid ha annunciato che sarebbe stato disposto a unirsi solo se Smotrich avesse rinunciato al suo ministero; i media li presentano, lui e Strock, come due messianisti pericolosi – e a tutti questo sembra ragionevole.
E quando si vede tutto questo si capisce che il 7 ottobre non è la storia. Noi siamo la storia. Noi, cioè tutti quelli che hanno votato per tutte le persone che voi non amate. Voi non ci volete. Gli elettori di Smotrich e Strock e Ben Gvir possono riempire le file nei cimiteri militari, possono arruolarsi nella riserva in percentuali molto più alte rispetto alla loro proporzione nella popolazione, possono mandare alla Knesset le uniche persone che sapevano indicare il pericolo, e chiedere di fare l’azione giusta contro di esso, ma alla fine della storia non sono legittimi perché la sinistra e i media hanno deciso che loro e i loro elettori sono ripugnanti. Quindi devo essere d’accordo con questa campagna e sostenere le loro dimissioni?
Ho elencato i difetti di Benjamin Netanyahu in questo editoriale, come detto, ripetutamente. Una parte significativa di essi riguardava il suo comportamento verso i palestinesi in generale e verso Hamas in particolare, il denaro del Qatar, l’eccessiva dipendenza da Iron Dome e così via. E dopo aver detto questo, c’è un fatto che è importante interiorizzare: l’idea fissa che ha portato Netanyahu e voi a pensare che si potesse permettere al nemico di vivere a un metro dai nostri insediamenti senza sraducarlo, purtroppo non può essere corretta retoattivamente, ma può essere corretta in avanti, per il futuro. E qui, Netanyahu sembra al momento uno dei pochi che si sono ripresi dopo il 7 ottobre.
Se ci basiamo sulle dichiarazioni pubbliche di tutti i membri di spicco della politica israeliana, possiamo stabilire che se non Netanyahu e Smotrich avessero guidato la linea nell’ultimo anno e mezzo, ma Yair Golan o Yair Lapid o Benny Gantz o Gadi Eisenkot – lo Stato di Israele avrebbe già da tempo alzato bandiera bianca, fermato la guerra e permesso ad Hamas di dichiarare la vittoria totale. Se l’IDF avesse smesso di combattere, quando tutti questi lo chiedevano, Sinwar e Nasrallah sarebbero ancora vivi con noi oggi, Hezbollah sarebbe ancora seduto sulle recinzioni degli insediamenti del nord, e anche con un telescopio sofisticato non saremmo riusciti a vedere il giorno in cui gli insediamenti attorno a Gaza sarebbero potuti tornare alle loro case.

L’accusa di incapacità è un colpo di stato
  Vi sento, miei amici della sinistra, scioccati dal linguaggio, dalla volgarità e dal discorso di molti membri della coalizione, e molte volte mi unisco a voi in questo shock. Sono disgustato da questo discorso. Ma di che stiamo parlando? A causa degli sforzi della stampa israeliana di nascondere ciò che non le conviene pubblicare, la maggior parte del pubblico non ha idea che nelle vostre manifestazioni paragonate il Primo Ministro eletto ad Adolf Hitler, che nelle vostre proteste lo chiamate regolarmente “traditore” e “aggressore”, e che gli appelli ad assassinarlo non si possono più contare.
Solo questa settimana ho visto un video in cui si vedeva una dottoressa, che “il giornale nazionale” (Yedioth Aharonot NdT) ha trasformato in un’eroina e le ha dedicato un lussuoso articolo di copertina, mentre stava su un palco e di fronte alla folla che applaudiva chiamava Netanyahu e il suo governo “il traditore e i suoi maledetti collaboratori“, e prometteva “con tutti faremo i conti, uno per uno, fino all’ultimo, pagheranno per i crimini che hanno commesso contro la società israeliana e contro l’umanità“, e proponeva di “schiacciare la testa del serpente, e abbattere il dittatore“, e spiegava che “questo non accadrà attraverso proteste educate, perché stiamo combattendo un’organizzazione criminale“.
Se non fosse per il Canale 14 e le iniziative di attivisti che caricano tali video sui social media, nel 99% dei casi non sapremmo che parole terribili del genere vengono pronunciate. Proprio come quell’appello, da un altro palco di protesta, a preparare una corda per impiccare Netanyahu e sua moglie. Quasi nulla di questo viene pubblicato su canali diversi dal 14, perché tutti gli altri canali non sono interessati a nulla che non promuova la caduta del governo. E se la strada per arrivarci passa attraverso il nascondere la realtà, la maggior parte dei canali di comunicazione non ha alcun problema con questo.
E quando vedo queste terribili immagini e video, e questi terribili discorsi di follia e incitazione dai palchi, settimana dopo settimana, capisco che lo scioglimento del governo in queste circostanze è una resa a questa pazzia. Questo è vero per le proteste di strada, ed è vero per gli studi dove Benjamin Netanyahu è presentato come un mostro, e i suoi amici nel governo – come persone a cui lo stato non interessa, a cui la vita degli ostaggi non importa, e che non hanno problemi a mandare soldati alla morte in battaglia solo per promuovere i loro interessi politici.
E dato questo contesto, sappia chiunque chieda ora le dimissioni del Primo Ministro, che sta rafforzando con le proprie mani questi standard come una norma legittima che accompagnerà lo Stato di Israele d’ora in poi. Perché dichiarare che questo governo deve andarsene, sotto un tale attacco sfrenato contro di esso, significa normalizzare tutta la follia in cui ci avete trascinato negli ultimi anni. Gli attacchi violenti contro membri della Knesset e ministri, le persecuzioni e le molestie a ciascuno di loro in ogni parte del mondo, e il tentativo di far saltare ogni piccolo evento a cui partecipano.
Se avete argomenti contro il governo sono disposto ad ascoltare, a volte anche a essere convinto. Se questo è il vostro modo di combatterlo, persone come me non hanno interesse a stare con voi. E quando si minaccia di morte membri della Knesset che ho votato, e la notizia non supera nemmeno i selettori dei notiziari, capisco che viviamo in un mondo dove i fatti non hanno importanza e la realtà non ha valore, un mondo dove gli eletti della destra e i loro elettori non vi sembrano importanti, un mondo dove si può sostituire il governo con la forza della violenza, un mondo dove non ci sono linee rosse, e tutto ciò che vi aiuta a promuovere i vostri obiettivi politici – è permesso.
Questa settimana ho visto una lettera in cui il membro della Knesset Merav Cohen di Yesh Atid chiedeva alla Knesset di dichiarare il suo impegno per lo svolgimento di libere elezioni. Capite cosa la preoccupa? Lei e il presidente del suo partito trattano Benjamin Netanyahu e il governo eletto come illegittimi, lei e il presidente del suo partito rifiutano di accettare la volontà degli elettori già da alcuni anni, ma ciò che li preoccupa è che la destra non permetterà lo svolgimento delle prossime elezioni.

Perché Bibi?
  Prendete la storia dell’ “incapacità”, che circola sulle labbra di troppe persone da troppo tempo. L’incapacità non è altro che un sinonimo di colpo di stato. Non c’è altro modo per definire una realtà in cui il pubblico israeliano ha scelto questo governo e questo Primo Ministro, e qualcuno pensa che ci sia la possibilità di gettare nel cestino della spazzatura la scheda elettorale che una massa di persone ha messo nell’urna solo perché non si connette alla loro scelta, e per di più farlo mentre si lamenta della condizione della democrazia. Quindi sì, chi collabora anche solo a pensare in questa direzione, collabora con una prepotenza antidemocratica e ci aiuta tutti a capire che non ha un problema con la politica, e nemmeno con il Primo Ministro, ma con una parte significativa del pubblico che vuole questa politica e vuole questo Primo Ministro.

Il popolo dirà la sua
E c’è un’altra cosa che fa sì che persone come me vogliano allontanare le prossime elezioni il più possibile. I vostri eletti. Sì, ammetto che temo cosa faranno costoro dopo le elezioni se saliranno al potere e otterranno la forza. Ho visto questa settimana un annuncio diffuso dall’organizzazione dei giornalisti, a seguito della pubblicazione dell'”Indice mondiale della libertà di stampa”, con preoccupazione per la condizione peggiorate della stampa libera in Israele sotto l’attuale governo. Non conosco i responsabili di questo indice, che non vivono qui con noi, ma ci sono alcune cose che so.
So che la petizione per chiudere il Canale 7 è stata presentata da membri della Knesset della sinistra. So che le petizioni contro Radio Galei Israel, alla sua fondazione, sono state presentate da organizzazioni di sinistra. So che la “Legge Israel Hayom”, che cercava di danneggiare l’unico quotidiano “diverso” in Israele, non è stata presentata dai bibiisti. So che coloro che oggi minacciano il Canale 14 e lo trattano come un canale che non ha diritto di esistere sono Yair Lapid e Yair Golan. Quindi potete confonderci la mente sulla democrazia da qui all’America, ma alla fine del giorno ho paura che se questi amici arriveranno a una posizione di leadership tapperanno la bocca a un pubblico enorme che non ha voce.
E se mi chiedete perché mi va bene questo governo, con tutti i suoi difetti, è anche perché Yair Golan e Yair Lapid mi spaventano. Non voglio aiutarli a danneggiare i media di destra. Non voglio aiutarli a chiudere le accademie pre-militari che non sono adatte a loro, come ha promesso di fare la grande speranza della sinistra nei sondaggi, quello che una volta “identificava processi” (“come nella Germania degli anni 30” NdT) e oggi si impegna a “correggere” l’educazione del sionismo religioso (Yair Golan NdT)
Se il popolo dirà la sua nelle elezioni che si terranno quando si terranno, questa sarà la via della democrazia per decidere. Fino ad allora, la decisione di sciogliere il governo oggi – sotto la follia nelle strade, sotto l’incitamento dilagante contro il Primo Ministro, sotto la campagna mediatica senza limiti che si sforza di presentare i membri della coalizione eletta come persone non legittime – sarà un annuncio ufficiale della liquidazione della democrazia israeliana, e una dichiarazione che metà dei cittadini dello stato sono persone di serie B.
(Maariv – 9 maggio 2025)

(Kolòt - Morashà, 9 maggio 2025)
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Anche l’opposizione israeliana è stata colta da quel contagioso morbo ideologico che chiamerei genericamente “sinistrismo”. Il sinistrismo ha un carattere universale, e si presenta dunque in modo simile in varie nazioni, tra cui per esempio Italia, Stati Uniti e ora anche Israele. I sinistristi sono ontologicamente nel giusto, per cui è semplicemente immorale che gli avversari possano governare: non è ammissibile, per motivi di coscienza. Devono essere colpiti, abbattuti, resi in condizioni di non nuocere. Le elezioni democratiche, il consenso popolare, non contano, e chi non lo capisce, per loro è un sottosviluppato “populista”. Netanyahu dunque deve essere abbattuto. A tutti i costi. E’ questo l'imperativo primario. Tutto il resto, fosse anche la sconfitta di Israele, è secondario. M.C.

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Eliminato il freelance che collaborava con Hamas

di Michelle Zarfati

Hassan Eslaiah, freelance e membro di Hamas che ha ripreso omicidi e saccheggi durante l’attacco del 7 ottobre, è stato ucciso in un raid aereo israeliano sull’ospedale Nasser a Khan Younis. L’esercito israeliano (IDF) ha dichiarato che l’ospedale era usato come centro di comando e controllo di Hamas per pianificare e condurre operazioni terroristiche. Secondo l’agenzia di stampa palestinese Shehab, Eslayeh è stato ucciso nel raid. Il 7 ottobre aveva trasmesso in diretta immagini di un carro armato israeliano in fiamme. Era sopravvissuto a un precedente tentativo di eliminazione il mese scorso.
  Il ministero della Sanità di Gaza (controllato da Hamas) ha riferito che due persone sono morte nell’attacco, inclusi Eslaiah e Ahmad al-Qudra. L’IDF ha affermato di aver usato munizioni guidate di precisione, sorveglianza aerea e intelligence per ridurre al minimo i rischi per i civili. Ha anche sottolineato che alti funzionari di Hamas continuano a usare l’ospedale per attività terroristiche, mettendo a rischio la popolazione civile. Anche Ismail Barhoum, alto esponente di Hamas, era stato ucciso a marzo in un raid mirato nello stesso complesso ospedaliero.
  Eslaiah aveva collaborato con CNN dopo il 7 ottobre, ma era stato poi licenziato a causa dei suoi legami con Hamas. Secondo l’IDF e lo Shin Bet, era un membro attivo della Brigata di Khan Younis e aveva partecipato direttamente al massacro del 7 ottobre, filmando e diffondendo contenuti di uccisioni, incendi e saccheggi. In passato, aveva pubblicato anche una foto in cui l’ex leader di Hamas Yahya Sinwar lo baciava sulla testa.

(Shalom, 13 maggio 2025)

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Eurovision in Svizzera: sputi e insulti agli ebrei

di David Zebuloni

La Svizzera come la Svezia: sputi e insulti alla cantante israeliana Yuval Raphael, concorrente dell'Eurovision 2025
  Quando l'anno scorso Eden Golan, la rappresentante israeliana all’Eurovision Song Contest, dovette indossare una parrucca e degli occhiali da sole per uscire dalla sua camera d’hotel senza correre pericoli mortali, molti israeliani si consolarono dicendo che questa è la realtà triste in Svezia: prendere o lasciare. Il Paese scandinavo, infatti, uno dei più islamizzati d'Europa, è noto per il suo elevato alto tasso di antisemitismo e antisionismo. Di fatto, antisemitismo anche quello. Quest’anno, in Svizzera, a Basilea, una delle capitali della cultura europea e che fra l’altro ospita una delle maggiori comunità ebraiche della Confederazione, le cose dovevano andare diversamente. Dovevano, eppure nulla sembra essere cambiato. La nuova rappresentante di Israele Yuval Raphael, sopravvissuta alla strage del Nova Festival il 7 ottobre, è vittima di continue minacce di morte. E domenica, durante la sfilata dei 37 concorrenti nella Marketplatz, prima sono apparse bandiere palestinesi e si sono uditi i soliti slogan contro Israele. Poi, da un gruppetto con il cartello “Welcome to genocide song contest”, si è staccato un uomo che si è avvicinato alla cantante ebrea, insultandola, sputando e mimando il gesto del taglio della gola.

• PREOCCUPAZIONE
  Ma anche i turisti israeliani venuti dalla Terra Santa per tifare risultano essere in pericolo. Il Consiglio per la Sicurezza Nazionale d'Israele ha pubblicato questa settimana un allarmante avviso per i partecipanti all’Eurovision, insieme a istruzioni su come comportarsi durante il soggiorno a Basilea, poiché ritenuti potenziali bersagli di attacchi terroristici.
Secondo il Consiglio, in Svizzera si sono svolte 360 manifestazioni anti-israeliane nell’ultimo anno, e manifestazioni simili, se non più violente, sono attese anche durante l’Eurovision, con una possibile concentrazione sulla delegazione israeliana o sugli israeliani presenti tra il pubblico e in città. Come si è visto negli ultimi anni, e soprattutto dall'inizio del conflitto ad oggi, tali “innocue” proteste possono presto trasformarsi in scontri violenti o veri atti di terrorismo contro i turisti israeliani.
Non possiamo per esempio dimenticare il linciaggio avvenuto ad Amsterdam nel mese di novembre, in seguito alla partita di calcio del Maccabi Tel Aviv. Un evento inaudito e privo di precedenti nell’Europa del dopo guerra, una caccia all’ebreo dalle sembianza tragicamente simili ai vecchi pogrom. Ad ogni modo, per gli israeliani interessati comunque a partecipare alla competizione canora, il Consiglio perla Sicurezza Nazionale d’Israele consiglia ovviamente di evitare assembramenti e partecipazione a eventi non protetti.

• VIGILANZA
  E ancora, di stare lontano da proteste e manifestazioni, di mantenere un alto livello di vigilanza, di nascondere simboli israeliani o ebraici negli spazi pubblici e di evitare discussioni pubbliche circa il conflitto in Medio Oriente.
Un’ulteriore, ultima raccomandazione per i visitatori blu e bianchi è quella di scaricare l’applicazione del Comando del Fronte Interno israeliano, che fornisce aggiornamenti in tempo reale in caso di emergenza, a cura del Consiglio per la Sicurezza Nazionale In parallelo, con un tempismo particolarmente incoraggiante, il 15 maggio (ovvero in pieno Eurovision) entra in vigore in Svizzera la legge federale elvetica che vieta Hamas e le organizzazioni associate. Già nell’ottobre 2023, le Commissioni della politica di sicurezza delle due Camere hanno presentato una mozione che chiedeva di vietare l’organizzazione terroristica da molti sdoganata e gravemente rinominata “Resistenza”. L’Esecutivo ha quindi incaricato il Dipartimento federale di giustizia e polizia (DFGP) di elaborare un progetto in tal senso.
Nel settembre 2024, il Governo ha adottato il messaggio concernente la legge federale che vieta l'organizzazione e gli associati.
Questa è stata approvata il 20 dicembre 2024 da una netta maggioranza dei membri del Legislativo ed entrerà per l’appunto in vigore a metà maggio. Meglio tardi che mai.

Libero, 13 maggio 2025)

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Ben-Gvir: scatenate l'inferno sopra Hamas

«Dobbiamo mettere davvero in pratica quello che Trump ha detto», ha dichiarato il ministro israeliano per la Sicurezza nazionale.

Itamar Ben-Gvir, durante la cerimonia per la Giornata dell'Indipendenza della polizia israeliana all'Accademia Nazionale di Polizia di Beit Shemesh, il 20 aprile 2025
Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, ha esortato lunedì il governo ad “aprire le porte dell'inferno” nella guerra in corso contro i terroristi di Hamas nella Striscia di Gaza.
“Dobbiamo davvero mettere in pratica ciò che Trump ci ha detto”, ha dichiarato Ben-Gvir a JNS durante la riunione del suo partito Otzma Yehudit, in risposta alle notizie secondo cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe in programma un incontro con il leader dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas durante il suo attuale viaggio in Medio Oriente.
“Ci ha detto di aprire le porte dell'inferno. Quindi lasciamo che le porte dell'inferno si abbattano su di loro. Questa è la nostra missione”, ha affermato il ministro.
Trump sostiene pienamente la decisione di Israele di riprendere l'offensiva contro Hamas nella Striscia di Gaza per liberare gli ostaggi rimasti, ha affermato la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, il 20 marzo.
“Il presidente ha detto molto chiaramente a Hamas che se non rilascerà tutti gli ostaggi dovrà prepararsi all'inferno“, ha affermato la portavoce. ‘Purtroppo Hamas ha deciso di giocare con la vita delle persone sui media’.
“Non dobbiamo dimenticare che la responsabilità di questa situazione è chiaramente di Hamas, che il 7 ottobre ha lanciato questo brutale attacco contro Israele”, ha aggiunto Leavitt. L'amministrazione Trump “è pienamente solidale con Israele, l'IDF e le misure adottate negli ultimi giorni”.
Il 10 febbraio Trump aveva dichiarato che “si scatenerà l'inferno” se Hamas non rilascerà gli ostaggi rimasti entro cinque giorni.
“Se dipende da me, e se entro sabato alle 12 tutti gli ostaggi non saranno stati restituiti - penso che sia un termine ragionevole - allora direi: cancellate tutto, tutti gli accordi sono nulli e che si scateni l'inferno”, ha detto il presidente ai giornalisti alla Casa Bianca mentre firmava una serie di decreti.
“Direi che devono essere riportati entro sabato alle 12”, ha continuato Trump. ‘E se non saranno riportati entro quell'ora, tutti, non a gocce, non due e uno e tre e quattro e due, allora si scatenerà l'inferno’.
Nelle ultime settimane, la Casa Bianca ha cercato di rilanciare i colloqui con Hamas per raggiungere un accordo che ponga fine alla guerra e garantisca il rilascio dei 59 ostaggi rimasti, detenuti dai terroristi nella Striscia di Gaza da quasi 600 giorni.

(Israel Heute, 13 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L'ex ostaggio Alexander s’intrattiene con Netanyahu e Trump dopo il suo rilascio

L'inviato di Trump, Witkoff, insieme a Edan Alexander e alla sua famiglia
Liberato ieri dopo mesi di prigionia nelle mani di Hamas, Edan Alexander ha ricevuto martedì mattina la visita di Steve Witkoff e Adam Boehler, emissari americani in Medio Oriente, all'ospedale Ichilov di Tel Aviv. Durante l'incontro, l'ex ostaggio americano-israeliano ha potuto parlare direttamente al telefono con il presidente Donald Trump. “Dopo mesi di prigionia, il mondo intero è ispirato dal suo coraggio e dalla sua resilienza. Il suo ritorno porta speranza a tante persone”, ha dichiarato Witkoff sui social media, ribadendo che gli Stati Uniti ‘rimangono determinati a riportare a casa ogni ostaggio’.
  All'inizio della giornata, Alexander aveva parlato con il primo ministro Benjamin Netanyahu. “Edan, è così bello sentirti. Siamo felici”, gli ha detto il capo del governo israeliano. L'ex ostaggio ha condiviso il suo stato d'animo: “È pazzesco, è incredibile. Sto bene. Sono debilitato, ma poco a poco torneremo ad essere quelli di prima. È solo questione di tempo”.
  Durante la conversazione, alla quale ha partecipato anche l'inviato americano, Netanyahu ha sottolineato: ‘Avete qui un soldato israeliano particolarmente coraggioso. Siamo molto felici e grati per l'aiuto che voi e il presidente Trump ci avete fornito’.
  La famiglia di Alexander ha annunciato che non si recherà in Qatar per incontrare il presidente Trump, nonostante il ruolo cruciale che quest'ultimo ha svolto nella sua liberazione. “Le sue condizioni di salute richiedono riposo. Edan incontrerà Trump in un secondo momento negli Stati Uniti”, precisa il comunicato della famiglia.

(i24, 13 maggio 2025)

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Liberato ieri dopo mesi di prigionia nelle mani di Hamas, Edan Alexander ha ricevuto martedì mattina la visita di Steve Witkoff e Adam Boehler, emissari americani in Medio Oriente, all'ospedale Ichilov di Tel Aviv. Durante l'incontro, l'ex ostaggio americano-israeliano ha potuto parlare direttamente al telefono con il presidente Donald Trump. “Dopo mesi di prigionia, il mondo intero è ispirato dal suo coraggio e dalla sua resilienza. Il suo ritorno porta speranza a tante persone”, ha dichiarato Witkoff sui social media, ribadendo che gli Stati Uniti ‘rimangono determinati a riportare a casa ogni ostaggio’.
  All'inizio della giornata, Alexander aveva parlato con il primo ministro Benjamin Netanyahu. “Edan, è così bello sentirti. Siamo felici”, gli ha detto il capo del governo israeliano. L'ex ostaggio ha condiviso il suo stato d'animo: “È pazzesco, è incredibile. Sto bene. Sono debilitato, ma poco a poco torneremo ad essere quelli di prima. È solo questione di tempo”.
  Durante la conversazione, alla quale ha partecipato anche l'inviato americano, Netanyahu ha sottolineato: ‘Avete qui un soldato israeliano particolarmente coraggioso. Siamo molto felici e grati per l'aiuto che voi e il presidente Trump ci avete fornito’.
  La famiglia di Alexander ha annunciato che non si recherà in Qatar per incontrare il presidente Trump, nonostante il ruolo cruciale che quest'ultimo ha svolto nella sua liberazione. “Le sue condizioni di salute richiedono riposo. Edan incontrerà Trump in un secondo momento negli Stati Uniti”, precisa il comunicato della famiglia.

(i24, 13 maggio 2025)

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Israele: critiche per la liberazione dell'ostaggio "in base al passaporto"

di Sarah G. Frankl

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La famiglia dell’ostaggio Alon Ohel critica le mosse degli Stati Uniti che assicurano il previsto rilascio di Edan Alexander lasciando indietro il resto degli ostaggi, notando che il figlio continua a soffrire in prigionia.
  “L’accordo lascia Alon indietro mentre è ferito e soffre”, afferma la famiglia in una dichiarazione riportata dal sito di notizie Ynet. “Siamo in un incubo e spaventati”.
  I commenti riflettono un senso di disagio tra alcune famiglie di ostaggi per il fatto che l’accordo che assicura il rilascio di Alexander, che gli Stati Uniti dicono essere parte di uno sforzo per porre fine alla guerra e liberare tutti gli ostaggi, differenzia tra coloro che si trovano a Gaza in base ai passaporti che possiedono. Idit, la madre di Ohel, si è espressa in modo particolare contro quella che definisce una selezione tra gli ostaggi durante i precedenti rilasci.
  Secondo la famiglia, che si basa sulle informazioni fornite dagli ostaggi liberati, Ohel è stato tenuto legato con catene e non ha ricevuto cure mediche per le schegge nell’occhio e nella spalla causate dalle ferite riportate il 7 ottobre 2023.
  La dichiarazione fa gli auguri alla famiglia di Alexander per l’imminente liberazione del figlio ed esorta il governo israeliano a raggiungere un accordo che garantisca il rilascio del resto degli ostaggi.
  “Alon e gli altri ostaggi feriti vengono lasciati nei tunnel senza assistenza medica o aiuto”, afferma la famiglia. “Non c’è una data per la fine del nostro incubo”.

(Rights Reporter, 12 maggio 2025)

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Hamas si prepara a rilasciare l’ostaggio israelo-americano Edan Alexander come gesto di buona volontà verso Trump

Secondo fonti ufficiali, Israele non è stato informato preventivamente del rilascio di Alexander. Il gruppo terroristico palestinese avrebbe preso questa decisione confidando nell’intervento di Trump per convincere Gerusalemme a porre fine alla guerra. Mentre cresce la rabbia delle famiglie dei prigionieri ancora a Gaza.

di Anna Balestrieri

Hamas ha annunciato il rilascio dell’ostaggio americano-israeliano Edan Alexander, prigioniero da oltre 580 giorni. Questa decisione è stata presa come gesto di buona volontà verso il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in vista della sua visita nella regione. Hamas spera che Trump possa persuadere Israele a concludere un accordo per liberare gli altri ostaggi in cambio della fine del conflitto.

Israele non informato
  Secondo fonti ufficiali, Israele non è stato informato preventivamente del rilascio di Alexander. Il gruppo terroristico palestinese avrebbe preso questa decisione confidando nell’intervento di Trump per convincere Gerusalemme a porre fine alla guerra.
Steve Witkoff, inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente, ha informato i genitori di Alexander, Yael e Adi, del suo imminente rilascio. La famiglia è già in viaggio verso Israele insieme a Adam Boehler, inviato americano per gli ostaggi.
Il presidente americano Trump ha accolto con favore la notizia, definendola un passo positivo verso la fine del conflitto. Ha anche chiesto il rilascio dei corpi di quattro americani uccisi e ancora trattenuti da Hamas.

Prospettive e negoziati futuri
  Hamas ha espresso la volontà di rilasciare tutti gli ostaggi in cambio della fine della guerra, ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto questa proposta, temendo che possa rafforzare il gruppo terroristico.

Contesto del rapimento di Edan Alexander
  Edan Alexander, cittadino americano-israeliano, è stato rapito durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 mentre prestava servizio volontario nell’esercito israeliano (IDF). Sarà il primo soldato maschio ad essere liberato.

Tensioni e reazioni delle famiglie
  Le famiglie degli altri ostaggi hanno espresso sentimenti contrastanti, alternando gioia per il rilascio imminente di Alexander e frustrazione per la mancanza di informazioni riguardo ai propri cari ancora prigionieri.
Il governo israeliano è stato criticato per non essere stato coinvolto direttamente nei negoziati per il rilascio e per non aver garantito un accordo globale per la liberazione di tutti gli ostaggi.
Hamas ha dichiarato di essere pronto a intensificare i negoziati per un accordo finale che preveda il rilascio di tutti gli ostaggi e la fine del conflitto, pur ribadendo che non vi sono stati colloqui diretti con gli Stati Uniti. Il mondo guarda con estrema preoccupazione alla situazione umanitaria a Gaza, inginocchiata dalla guerra con Israele a causa del regime di Hamas. Mentre la famiglia di Alexander si prepara a riabbracciarlo, altre famiglie continuano a vivere nell’angoscia, sperando in un accordo che restituisca i loro cari.

(Bet Magazine Mosaico, 12 maggio 2025)

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Trump sta scaricando Israele. Netanyahu lo permetterà?

di Giovanni Giacalone

La negoziazione diretta tra l’Amministrazione Trump e Hamas è una delle mosse più basse, sleali e immorali che un cosiddetto “alleato” possa mai condurre. Secondo le ultime notizie, l’ostaggio americano-israeliano Edan Alexander potrebbe essere rilasciato nelle prossime 24-48 ore e l’inviato speciale statunitense, Steven Witkoff, dovrebbe arrivare in Israele oggi per facilitarne il rilascio. È inoltre emerso che gli Stati Uniti non hanno informato Israele degli sforzi per il rilascio di Alexander prima di avere raggiunto l’accordo, conducendo di fatto la trattativa a insaputa di Israele.
  Domenica, durante una riunione della Commissione Affari Esteri e Difesa, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha escluso la possibilità che Hamas rilasciasse Alexander “come gesto verso gli americani”. Il governo israeliano era a conoscenza dei negoziati? Anche se non lo era, lo scenario era quantomeno prevedibile, dato che Trump aveva già voltato le spalle a Israele qualche giorno prima, stringendo improvvisamente un accordo con gli Houthi, a condizione che le navi statunitensi non venissero prese di mira. La strada intrapresa con Hamas sembra essere molto simile. È questo il significato di “America first”?
  In effetti, Hamas sta abilmente sfruttando la situazione per raggiungere quattro obiettivi principali: ampliare la frattura tra l’Amministrazione Trump e Israele, impedire a Israele di lanciare la presunta operazione su larga scala annunciata da Netanyahu, consentire l’ingresso degli aiuti a Gaza e, possibilmente, porre fine alla guerra con la rassicurazione che all’organizzazione terroristica sarà consentito di svolgere un ruolo nella Gaza del dopoguerra.
  Trump, d’altro canto, ha bisogno di presentarsi come un grande amico del mondo arabo nella sua prossima visita in Medio Oriente, perché ha un disperato bisogno di concludere accordi commerciali con le tre principali nazioni arabe ricche di risorse energetiche della zona: Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
  Come riportato dalla CNN, questi tre paesi “stanno procedendo veloci per trasformare la loro influenza su Donald Trump in guadagni tangibili. Hanno costruito legami personali con il presidente e collettivamente promesso miliardi di dollari in investimenti statunitensi, presentandosi al contempo come intermediari chiave nei conflitti che Trump vuole risolvere, da Gaza all’Ucraina e all’Iran”. Non dimentichiamo le recenti voci secondo cui Trump potrebbe rinominare il Golfo Persico “Golfo d’Arabia” e persino riconoscere potenzialmente uno Stato palestinese. Nel complesso, è una situazione vantaggiosa per tutti, tranne che per Israele, che viene sacrificato dal suo più stretto alleato, perché Trump ha bisogno di concludere accordi.
  Domenica sera, il Times of Israel ha rivelato che una fonte coinvolta nella mediazione ha dichiarato che Hamas ha ricevuto rassicurazioni dagli Stati Uniti tramite mediatori sul fatto che il rilascio di Alexander “guadagnerebbe molti punti” con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che vuole vedere rilasciati gli ostaggi rimasti e porre fine alla guerra a Gaza.
  La situazione è davvero brutta; l’Amministrazione Trump si è impegnata direttamente con un’organizzazione terroristica palestinese inserita nella lista nera degli Stati Uniti stessi; un’organizzazione che ha perpetrato il peggior pogrom contro gli ebrei dai tempi dell’Olocausto. Gli uomini di Trump hanno negoziato il rilascio di un solo ostaggio, l’unico cittadino statunitense, operando quindi una discriminazione tra ebrei americani e non americani. È questo il tipo di sostegno che ci si aspetta da un cosiddetto “alleato”? Come potranno sentirsi i parenti degli altri ostaggi ancora detenuti da Hamas?
  Inoltre, interagendo direttamente con Hamas e raggiungendo un accordo, Trump sta legittimando e rafforzando l’organizzazione terroristica palestinese, incoraggiando indirettamente altre nazioni a riconoscere Hamas come un’entità politica legittima piuttosto che per quello che è realmente: un’organizzazione terroristica spietata. Hamas sarà ora incoraggiata a perpetrare ulteriori attacchi terroristici perché si sente rassicurata dalla politica sconsiderata di Trump.
  Trump sembra incapace o non disposto a distinguere tra accordi e affari con partner legittimi e trattative con un’entità terroristica, e questo rappresenta un problema molto serio per la guerra internazionale al terrorismo e anche per la credibilità internazionale degli Stati Uniti.
  Trump riuscirà a fare pressione su Israele affinché cessi l’offensiva militare contro ciò che resta di Hamas o addirittura ponga fine alla guerra? Ora tocca al Primo Ministro Benjamin Netanyahu. La cosa giusta da fare sarebbe lanciare rapidamente l’operazione militare su vasta scala a Gaza annunciata e concludere l’opera con Hamas; qualcosa che avrebbe dovuto essere già fatto mesi fa.
  Quanto più a lungo si protrarrà la situazione a Gaza, tanto peggiore sarà per Israele, sia a livello nazionale che internazionale, sia dal punto di vista economico che diplomatico. Hamas deve essere rapidamente rimosso e si deve raggiungere una nuova fase per non permettere più ai nemici di Israele di sfruttare la crisi a Gaza per accusare Israele di “genocidio”, “pulizia etnica” e così via.
  Purtroppo, l’impressione è che non ci sia mai stata una reale volontà, da parte di Netanyahu, di sradicare Hamas da Gaza. La guerra è stata condotta a singhiozzo, il che ha danneggiato il morale delle truppe e l’immagine delle IDF. I numerosi annunci di un’imminente operazione militare terrestre che avrebbe soffocato Hamas non hanno trovato seguito sul piano pratico. In breve, qualcosa non funziona da entrambe le parti, sia da parte americana che da parte israeliana.

(L'informale, 12 maggio 2025)

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«Il denaro compra il Messia»

Politica, corruzione e linguaggio biblico in Medio Oriente.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - In quasi nessun altro paese democratico la linea di demarcazione tra religione e politica è così fluida come in Israele. Qui la politica non solo viene fatta, ma anche interpretata. Il titolo del quotidiano israeliano Jediot Achronot è provocatorio e sconvolgente: “Il denaro compra il Messia” si riferisce alla visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Medio Oriente, in particolare in Arabia Saudita e Qatar, che dovrebbe essere accompagnata da mega accordi economici per un valore fino a due trilioni di dollari. Il sottinteso è chiaro: si tratta di influenza, espansione del potere e forse anche di una forma di corruzione politica che coinvolge non solo la Casa Bianca, ma anche l'ufficio del primo ministro israeliano.
Ma cosa rende questo titolo così speciale? Non è solo l'accusa di corruzione. È la semantica religiosa con cui viene spesso descritta la politica israeliana, soprattutto quando si tratta di personaggi come Donald Trump o Benjamin Netanyahu. Per molti israeliani di destra, essi sono considerati dei messia in senso quasi teologico. Non in senso letterale, ma simbolico: vengono descritti come salvatori, redentori, personaggi storici giunti “per un momento come questo”.
In effetti, grazie alla sua politica filoisraeliana – il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, il trasferimento dell'ambasciata statunitense, gli accordi di Abramo – Trump è stato celebrato da molti in Israele come una sorta di messia pagano. I manifesti lo raffiguravano accanto al terzo tempio, i rabbini lo lodavano pubblicamente come strumento di Dio, alcuni lo paragonavano addirittura al re persiano Ciro, che permise agli ebrei di tornare a Sion.
Anche Benjamin Netanyahu sa come inserirsi magistralmente in questa narrativa messianica. Per i suoi sostenitori non è semplicemente un politico, è una figura del destino, l'unico che può salvare Israele dal declino morale, dall'élite di sinistra e dal nemico iraniano. I suoi oppositori, invece, lo accusano di identificarsi con lo Stato. “Io sono Israele” è il sottinteso inespresso.
Quando in Israele si parla di Benjamin Netanyahu, spesso sembra di leggere un capitolo della Bibbia. “L'unto”, “l'unico che può salvarci”: questi termini non provengono da una sinagoga, ma dal quartier generale elettorale del Likud. Netanyahu non è più semplicemente eletto: è venerato. E questo rende così difficile criticarlo.
Non pochi dei suoi sostenitori vedono in lui un leader mandato da Dio. Solo lui, secondo la narrativa, può salvare Israele dalla rovina. Queste idee non sono nuove, ma stanno diventando più acute, soprattutto da quando Netanyahu si è opposto alla giustizia, ai media e ai movimenti di protesta. Chi è contro di lui è considerato un traditore del popolo. Chi è con lui segue il piano di salvezza.
Ironia della sorte, anche i suoi oppositori ricorrono al linguaggio religioso, come Nahum Barnea nell'editoriale “Il denaro compra il Messia”, ma con un pizzico di ironia. Sui media di sinistra si leggono frasi come: “Il Messia sul banco degli imputati” o “Bibi, il falso profeta o Messia”. Ciò che rimane è un Paese diviso tra realpolitik e profezia.
Il fatto che Jediot Achronot, uno dei più grandi quotidiani, ma politicamente piuttosto centrista o di sinistra, definisca ora il viaggio di Trump un “tour di corruzione” è più che retorica polemica. È un attacco all'interazione tra denaro, potere e mito – e a una cultura politica in cui le narrazioni bibliche vengono utilizzate per interpretare gli eventi attuali.
Secondo quanto riferito, il messia americano riceverà un lussuoso Boeing 747-8 dalla famiglia regnante del Qatar. L'aereo, precedentemente utilizzato dalla famiglia reale del Qatar, dovrebbe servire temporaneamente come Air Force One, poiché i nuovi aerei presidenziali della Boeing non saranno probabilmente pronti prima del 2029 a causa di ritardi. Un palazzo volante del valore di 400 milioni di dollari. Gli avvocati di Trump sostengono che l'accordo sia legale, poiché l'aereo non sarà consegnato direttamente a lui personalmente, ma al governo degli Stati Uniti e successivamente alla sua biblioteca presidenziale. Tuttavia, la valutazione giuridica ed etica del progetto rimane controversa. Se il cosiddetto Messia di Israele, Benjamin Netanyahu, avesse ricevuto un simile regalo, il Messia sarebbe stato “ricrocifisso” in Israele.
In Israele non è una rarità. L'intera storia politica del Paese è profondamente intrecciata con il linguaggio della Bibbia. I ministri sono paragonati a re, le coalizioni ad alleanze bibliche, gli avversari ad Amalek o ai Filistei. Anche le moderne questioni di sicurezza, come l'Iran o la questione palestinese, sono spesso viste attraverso una lente teologico-storica. Ma proprio in Israele, dove la Bibbia e la fondazione dello Stato sono così strettamente legate, la retorica religiosa ha un peso particolare. La lingua ebraica permette di commentare le decisioni politiche con lo stesso vocabolario delle visioni profetiche.
Ma cosa succede quando il Messia è in vendita? Quando la salvezza si traduce in dollari e contratti? Quando l'integrità morale viene sacrificata al calcolo politico? Il titolo solleva domande scomode, non solo per Israele, ma anche per gli Stati Uniti e per tutte le democrazie che fanno politica con pathos religioso. Mostra quanto possa diventare pericoloso quando il simbolismo religioso diventa un'arma nel gioco del potere politico. E ci ricorda che spesso c'è solo una linea sottile tra la vera redenzione e la messa in scena politica.
“Il denaro compra il Messia”: questo titolo è uno specchio dei nostri tempi. Mostra quanto siamo coinvolti in una teologia politica in cui le promesse di salvezza sono diventate una moneta di scambio. È ora di tracciare di nuovo una linea chiara tra mito e potere, tra fede e affari.

(Israel Heute, 12 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Ostaggi – L’85enne Amiram Cooper, fra i fondatori di Nir Oz

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Amiram Cooper

Amiram Cooper era un poeta, un compositore, un economista. Ma prima di tutto era un membro di Nir Oz, il kibbutz che aveva contribuito a fondare nel 1957 e che per oltre sessant’anni ha chiamato casa. Aveva 85 anni, una vita attraversata dalla cultura agricola, dalla poesia e dalla dedizione alla comunità. Scriveva versi fin da giovane: tre raccolte poetiche e un libro per bambini sono il segno lasciato “da una voce che amava parlare dell’amore, della terra, della pace”, ricorda il suo kibbutz. Le sue canzoni, composte spesso fischiettando le melodie, erano interpretate dai cori locali. Il suo brano più noto, Shibulei Paz, scritto per una celebrazione del kibbutz, è diventato un simbolo della festività di Shavuot in Israele.
  Amiram era anche un economista di lungo corso: aveva diretto la fabbrica Nirlat, specializzata in vernici e rivestimenti per l’edilizia, ed era stato per 24 anni il responsabile finanziario del consorzio agricolo Hebel Ma’on. Nel kibbutz era apprezzato per il suo carattere mite e riflessivo, lo sguardo aperto e curioso, e la capacità di coniugare la concretezza a una visione umanistica della vita.
  Il 7 ottobre 2023, Amiram e sua moglie Nurit, 79 anni, sono stati rapiti da Hamas durante l’attacco a Nir Oz. Mentre Nurit è stata liberata dopo 17 giorni, Amiram è rimasto prigioniero nei tunnel di Gaza. In un video diffuso successivamente, appariva fragile, affaticato. Soffriva di ipertensione e problemi gastrici. La figlia Ravit ha raccontato di come la madre, al ritorno, parlasse di un buio assoluto nei sotterranei, della rottura degli occhiali, delle condizioni disumane. E di un’anima, quella del marito, che «sanguinava nel silenzio».
  Per mesi la famiglia ha lottato per riportarlo a casa. Un frammento della sua voce è riemerso in una registrazione di Hamas: «Sembrava solo l’ombra di sé stesso», ha commentato il figlio Rotem. Il 3 giugno 2024, l’esercito israeliano ha annunciato che Amiram era stato ucciso in prigionia. Da 584 giorni, la sua salma è in mano ai terroristi palestinesi.
  Nonostante il dolore, la famiglia ha deciso di non lasciarne spegnere la voce. I suoi archivi, salvati dalla devastazione del kibbutz, sono stati affidati al Ganzim Institute, centro documentale dell’Associazione degli Scrittori Israeliani che conserva il patrimonio letterario degli autori del Paese. Letture pubbliche delle sue poesie si sono tenute a Tel Aviv con la partecipazione di artisti come Ehud Banai e Micha Shitrit.
  In una delle ultime poesie ritrovate, Cooper scriveva: «Piccoli movimenti nel buio / e nessuna luce alla fine del tunnel… / tutto ciò che desideravo / era solo un piccolo appezzamento, una vite, un fico».
  Nei giorni in cui la famiglia ancora sperava di poterlo riabbracciare vivo, la figlia Ravit aveva inviato al padre una commossa lettera aperta:
  «Torna, calmami e dimmi che ce la faremo. Analizza questa frattura, scrivine, componi un canto funebre su queste atrocità e fischietta, come sai fare tu. E che il grano torni a crescere a Nir Oz».
  La piccola comunità sta cercando da mesi di rialzarsi, orfana di molti membri come Amiram. «Mio padre era Nir Oz», ha commentato il figlio Rotem. Anche nel suo nome, ha promesso, il kibbutz verrà ricostruito. d.r.

(moked, 12 maggio 2025)

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“E’ una di noi”: i tifosi del Tottenham danno il benvenuto all’ex ostaggio Emily Damari

di Jacqueline Sermoneta

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“E’ una di noi! Emily Damari è finalmente a casa”. Così oltre 200 tifosi degli Spurs, fuori al Tottenham Hotspur Stadium, hanno accolto e festeggiato l’ex ostaggio Emily Damari, arrivata per assistere al derby londinese Tottenham-Crystal Palace, disputato ieri. “Sono molto felice di essere qui”, ha detto la 28enne anglo-israeliana nella sua prima apparizione pubblica nel Regno Unito dopo il suo rilascio, lo scorso 19 gennaio.
  Sulle note travolgenti di “I’m Still Standing” e “She’s One of Our Own” di Elton John, la folla ha salutato Damari, accompagnata dalla madre Mandy: “Grazie a tutti per aver pregato per me e per aver gridato il mio nome senza conoscermi, non ho davvero le parole per esprimere quanto ne sia grata – ha detto Damari ai presenti – Voglio ringraziare in modo speciale tutti gli ebrei della diaspora, ma soprattutto la comunità ebraica del Regno Unito, che è scesa in campo per sostenere mia madre e la mia famiglia, impegnandosi instancabilmente per ottenere la mia liberazione”.
  Damari ha ricordato specificamente i fratelli Gali e Ziv Berman ‘suoi intimi amici’, i cui nomi erano stampati sulla sua maglia gialla con il numero 583, come i giorni di prigionia, e ha lanciato in cielo 59 palloncini gialli (il numero degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas), fra l’incitamento dei tifosi che sventolavano bandiere israeliane.
  All’ interno dello stadio, Damari è stata accolta da numerosi ex e attuali giocatori di punta degli Spurs e della nazionale inglese. La cerimonia di benvenuto è stata organizzata dal gruppo ‘Stop the Hate’. “Per troppo tempo abbiamo aspettato, sognando che venisse rilasciata. – ha affermato il fondatore del gruppo Itai Galmudy al Daily Mail – Abbiamo fatto una campagna per lei, sotto la pioggia, sotto il sole, nei momenti belli e in quelli brutti”, ha detto. “E averla qui allo stadio degli Spurs oggi è il culmine di tutto”.

(Shalom, 12 maggio 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo?

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

La terra, secondo una diffusa e popolare religiosità, è un luogo che si trova tra il paradiso e l’inferno. Il paradiso si trova in cielo, dove c’è Dio, l’inferno si trova in un profondo abisso, dove c’è il Diavolo. Gli uomini vivono sulla terra sotto lo sguardo indagatore di Dio; se si comportano bene, ricevono aiuto e sostegno durante la vita terrena, e alla fine, se superano l'esame, sono accolti in cielo dove c'è Dio. Se invece si comportano male, ricevono castighi e correzioni durante la vita terrena e alla fine, se non superano l'esame, sono gettati nell’inferno dove si trova il Diavolo.
  Le religioni si differenziano sulla descrizione dei luoghi di arrivo, paradiso e inferno, e sulle regole da osservare per salire in cielo e non essere gettati nell’abisso, ma lo schema essenziale rimane questo.
  In questa visione, la terra è vista come luogo temporaneo di transito e smistamento: la fine della storia è il giudizio universale, in cui si deciderà in modo irrevocabile la destinazione conclusiva di ogni uomo: o in paradiso o all’inferno. E la terra? Forse rimarrà vuota, o sarà distrutta, o sarà messa da qualche altra parte, ma in ogni caso non sarà più oggetto di attenzione.
  In questa visione popolare della religione, così come schematicamente presentata, si pone allora una domanda: ma è per questo che Dio ha creato il mondo? Come una enorme aula in cui svolgere un onnicomprensivo esame che stabilisca in modo definitivo chi saranno i promossi e chi i bocciati?
  Se le cose stanno così, se davvero si tratta di un esame, è chiaro che l’interesse di ogni esaminando sarà tutto rivolto a se stesso, a come dovrà osservare le norme richieste per poter alla fine superare l’esame.
  Anche la religione cristiana, almeno nel modo in cui è stata popolarmente vissuta, e in parte anche insegnata, ha assunto nella storia una forma simile a questa, I preti, in fondo, sono stati intesi come quella particolare classe di specialisti che devono insegnare alle persone normali come si fa ad andare in paradiso. Anzi, col passar del tempo e l’evolversi della dottrina, i preti sono diventati coloro a cui ci si deve rivolgere se si vuole ottenere il lasciapassare per entrare in cielo.
  La predicazione evangelica si presenta in modo indubbiamente diverso: le norme per ottenere l’ingresso in cielo sottolineano la gratuità della salvezza che viene offerta da Dio sulla base della semplice fede nell’opera di Cristo; ma per molti aspetti, almeno in certe presentazioni, non ha modificato il comune schema religioso: la cosa fondamentale per l’uomo che vive sulla terra è che riesca a evitare le fiamme dell’inferno e possa un giorno raggiungere Dio nel cielo. Per il singolo, per la sua sorte eterna, questo naturalmente è importantissimo, anzi è addirittura essenziale; ma sta proprio qui il centro del messaggio biblico? Dio ha creato il mondo al solo scopo di far sì che il massimo numero di persone lascino un giorno questa terra per raggiungerlo eternamente nella sua dimora in cielo?

Dove sta il paradiso?
  Nell’immaginazione popolare il paradiso è un luogo che sta in cielo e in cui si entra dopo morti se ci si è comportati bene sulla terra.
  Nell’immaginazione cristiana il paradiso originario sarebbe il biblico giardino di Eden preparato da Dio per l’uomo. In effetti è così, solo che questo biblico paradiso non si trova in cielo, ma sulla terra. Per questo viene anche chiamato “Paradiso terrestre”.
  L’Eden di cui parla la Bibbia si trovava dunque sulla terra, anzi, per quello che diremo in seguito si può addirittura dire che era il centro della terra. Gli intellettuali, che considerano il racconto della creazione come un'istruttiva favola, o un “mito” se si vuole usare un linguaggio più ricercato, possono essere a disagio quando trovano nella Bibbia una precisa individuazione geografica del luogo dove si trovava l’Eden, con l’indicazione dei fiumi che la circondavano (Genesi 2:10-14).

Se Adamo non avesse peccato
  Dunque Adamo, con la donna Eva tratta dalla sua costola, in origine viveva beato sulla terra. Dio lo mise alla prova con la tentazione del serpente e Adamo cadde nel peccato, trascinando con sé nel degrado l’intera creazione. Come conseguenza, ebbe inizio la storia della salvezza, che come sappiamo ha il suo punto culminante nella persona e nell’opera di Gesù. Alla fine di tutto, in questa schematica presentazione, chi avrà creduto in Gesù andrà in cielo e tutti gli altri andranno all’inferno.
  Si pone allora una domanda, ipotetica ma non inutile: che cosa sarebbe successo se Adamo non avesse peccato? Il peccato non sarebbe entrato nel mondo, dunque non ci sarebbe stato bisogno di una storia della salvezza, e Adamo sarebbe rimasto dov’era, cioè sulla terra. Il premio della sua ubbidienza non sarebbe stato dunque l’andare in cielo, ma il rimanere sulla terra. Ed era effettivamente un premio perché, come sta scritto, al termine della creazione “Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono” (Genesi 1:31). Adamo Dunque avrebbe potuto godere pienamente della bontà della creazione.
  In un approccio olistico alla Bibbia, cioè attento al senso totale della rivelazione di Dio, s’impone allora una domanda: perché Dio ha creato il mondo? Qual è il suo obiettivo? E’ una domanda che in un certo senso si deve fare, non per mettere Dio sotto processo sottoponendolo al nostro interrogatorio, ma per il desiderio di conoscerlo, verificando nella sua Parola se Dio stesso vuole darci una risposta. E si potrebbe anche dire: per il desiderio di amarlo. Perché si può amare veramente solo chi si conosce.
  L’obiettivo di Dio, che è sotteso nella Bibbia fin dall’inizio, è espresso in modo chiaro nei suoi due ultimi capitoli.

    «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più» (Apocalisse 21:1).

Il fatto di accostare la nuova creazione cielo-terra alla prima creazione cielo-terra fa capire che non si tratta di una contrapposizione tra il cielo dove c’è Dio, e la terra dove ci sono gli uomini. Il cielo di cui si parla nella prima e nella seconda creazione è una realtà creata, da non confondere con il cielo che in altri passi della Scrittura indica Dio stesso nella sua inaccessibilità. Volendo usare un linguaggio colorito ma efficace, si potrebbe dire che se nella prima creazione c'era il paradiso terrestre iniziale, nella nuova creazione ci sarà il paradiso terrestre finale, ottenuto attraverso l’intera, faticosissima storia della salvezza che ha in Gesù il suo punto centrale. Ciò che Dio farà alla fine è anche ciò che Egli si proponeva di fare fin dall’inizio, sia pure in altra forma se non ci fosse stata la caduta iniziale dell’uomo.

    «E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:2-3).

La radice del termine greco tradotto con “tabernacolo” (skene) è la stessa del verbo “abitare" (skenao). Una traduzione più efficace potrebbe dunque essere: «Ecco l'abitazione di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro». Con ciò si mette in evidenza che anche nell’Antico Testamento il senso profondo del tabernacolo era quello di esprimere il desiderio di Dio di abitare in mezzo agli uomini, nella forma allora indicata e tra gli uomini che rientravano in quel momento nel piano di salvezza di Dio.

Elementi fondamentali del processo creativo
  Nel progetto che il Creatore ha fatto per venire ad abitare fra le sue creatore in un rapporto d’amore compatibile con la sua giustizia sono presenti tre elementi: un habitat, una società e un santuario. Chiameremo mondo questo complesso di elementi, il che corrisponde anche al senso in cui viene usato nella Bibbia nella maggior parte dei casi, anche se non in tutti.
  Come habitat s’intende il contesto creativo della natura, che la Bibbia chiama i cieli e la terra. Qui viene indicato in questo modo per sottolineare che è stato formato con il preciso scopo di essere abitato dagli uomini.
  Come società s’intende l’insieme strutturato e armonico degli uomini che Dio vuole far abitare sulla terra.
  Come santuario s’intende il luogo concreto in cui il Creatore vuole vivere l’incontro con la società delle sue creature, in un rapporto d’amore che mantenga le giuste differenze tra Chi crea e coloro che sono creati.

L’habitat
  Sull’habitat naturale si può soltanto sottolineare che è l’espressione di una precisa volontà di Dio; per questo in origine era totalmente “buono”, senza nessuna ombra. Inoltre, essendo stato creato per primo, non è mai soltanto un palcoscenico per attori che potrebbero andare a recitare da qualche altra parte, ma entra a far parte integrante di tutto ciò che verrà dopo.

La società
  Per quanto riguarda la formazione della società che avrebbe dovuto popolare l’habitat, è fondamentale capire qual è il posto che Dio assegna al singolo uomo. Contro la tesi evoluzionistica, secondo cui la terra si sarebbe popolata di uomini e donne attraverso un graduale processo di trasformazione di sassi, radici e vermi (linguaggio volutamente approssimativo e poco scientifico), la Bibbia fa iniziare tutto da un preciso individuo: Adamo.
  A questo punto si pone la domanda: perché Dio si è arrestato ad Adamo? Perché, dopo essersi accorto che Adamo era solo, non ha impiantato un processo di produzione industriale di Adami con lo stesso metodo di insufflazione, chiamandoli magari Adamo 1, Adamo 2, Adamo 3, e così via, fino a raggiungere il numero necessario per popolare adeguatamente la terra? Avrebbe potuto dare a tutti le stesse istruzioni date al primo Adamo; chi le avesse trasgredite sarebbe morto sul colpo, di modo che in vita sarebbero rimasti soltanto gli ubbidienti. Ecco un sistema che a noi, cresciuti in una individualistica società liberal-democratica, sarebbe parso più ragionevole e giusto. Di fatto, le cose non sono andate così, ma immaginare come avrebbero potuto svolgersi può far riflettere sulle ragioni profonde dell’agire del nostro Creatore.
  Cominciamo allora col ricordare come si sono svolte le cose secondo la Bibbia.
  Quando Dio creò l’uomo, all’inizio formò un individuo maschio: Adamo. Mentre era ancora solo, Adamo ricevette da Dio l’ordine di non mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (Genesi 2:17). Poi Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo”, e formò il nucleo della prima società costituita dalla coppia uomo-donna, da cui decise di partire per formare l’intera società che avrebbe riempito l’habitat prima creato:

    “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta»” (Genesi 1:27-28).

Si può notare di passaggio che l’immagine di Dio presente nell’uomo non è né il maschio né la femmina, ma la coppia maschio-femmina. Da questa coppia sarebbe discesa l’intera società che avrebbe “riempito” la terra. La produzione di esseri umani nel modo in cui è avvenuto per Adamo ed Eva non sarebbe stata ripetuta.
  Di nuovo una domanda: perché? Perché non ripetere la formazione di altre coppie, come avvenuto nel caso di Adamo ed Eva? In alternativa, i due avrebbero potuto restare l’unica coppia generatrice di altri esseri umani, che avrebbero popolato la terra e formato un'unica grande famiglia con due soli genitori. Ma più avanti il Signore precisa:

    “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne” (Genesi 2:24).

Dio dunque voleva che la formazione dell'intera società umana avvenisse attraverso la costituzione di sottosocietà familiari composte da padre, madre e figli, ben distinte fra loro. Si può dire dunque che in origine, prima della caduta, la sola forma di sottosocietà prevista all’interno della società universale era la famiglia mononucleare composta da padre, madre e figli. Le famiglie patriarcali, come pure i single e le coppie senza figli, non erano previste. E neppure erano previste città e nazioni, entrambe da considerare come conseguenze del primo peccato, anche se, come vedremo, il Signore le userà poi per portare a compimento il suo piano di salvezza.
  Nei due tipi di società previsti da Dio, l’universale e la familiare, l’individuo non si annienta, ma non esiste al di fuori della società. In entrambi i casi la società non si sbriciola in una miriade di singole particelle “aventi pari diritti e pari doveri”, ma in ogni forma di società esiste sempre un individuo che la rappresenta e ne risponde. Per l’intera società umana il rappresentante è Adamo, per la società familiare il rappresentante è l’uomo, come marito e padre.

Il santuario
  Nella Bibbia il termine santuario è usato soprattutto nella storica opera di salvezza compiuta da Dio attraverso Israele, ma se come santuario s’intende il luogo fisico e concreto dove il Creatore incontra la società delle sue creature in un rapporto d’amore e giustizia, allora possiamo dire che il primo santuario è stato il giardino di Eden e l’ultimo santuario sarà la nuova Gerusalemme, secondo la citazione già fatta dell’Apocalisse:

    «E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:2-3).

Se il santuario è il luogo in cui Dio vuole incontrare la società delle sue creature, sarà interessante riflettere sul modo in cui è stato vissuto il primo incontro, secondo quanto riportato nella Bibbia.

(1. continua)
(Notizie su Israele, 11 maggio 2025)


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Il negazionismo vince il Premio Pulitzer?

l poeta palestinese Mosab Abu Toha vince il premio per i suoi articoli pubblicati dal New Yorker in cui racconta la tragedia dell’ultimo anno e mezzo di guerra in Medio Oriente. Il problema? Nei pezzi non cita quasi mai Hamas (che ha fatto partire la guerra e ha il potere di fatto su ogni aspetto della vita palestinese, dalle scuole alla libertà di espressione) e sui social negava le torture agli ostaggi israeliani: al Pulitzer non se ne sono accorti?

di Riccardo Canaletti

Quanto è vero quel che diceva Carlo Maria Cipolla nel suo trattatello del 1988, Le leggi fondamentali della stupidità umana: esistono più stupidi di quel che crediamo e possiamo trovarli ovunque, anche tra i Pulitzer. Tuttavia, il poeta palestinese Mosab Abu Toha, premiato quest’anno per il miglior commento grazie a quattro saggi, non è tra loro. Legge aurea della stupidità (la terza) è infatti questa: “Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita”. Allora forse si potrebbe dire che è tra gli organizzatori e tra coloro che assegnano il Pulitzer che si annidano i veri stupidi, che nulla hanno da guadagnare da un “commentatore” e giornalista negazionista. È anche partita una petizione contro la premiazione: Mosab Abu Toha, infatti, non è solo un poeta che ha raccontato per il New Yorker la tragedia palestinese, ma anche uno scrittore molto attivo sui social, solo che quelli del Pulitzer non se ne sono accorti. Non hanno visto, per esempio, che Abu Toha ha negato o minimizzato la presenza di ostaggi nelle prigioni di Hamas dopo il 7 ottobre, sostenendo che le persone poi rilasciate fossero o soldati, o amici di soldati (e quindi complici) o semplici civili, vero, ma trattati bene.
L’accusa arriva proprio da un ex ostaggio, Emily Damari, per 15 mesi in mano a Hamas:

    “Cari membri del consiglio direttivo dei Pulitzer Prizes, mi chiamo Emily Damari. Sono stata tenuta in ostaggio a Gaza per oltre 500 giorni. La mattina del 7 ottobre, ero a casa nel mio monolocale nel kibbutz Kfar Aza quando i terroristi di Hamas hanno fatto irruzione, mi hanno sparato e mi hanno trascinata oltre il confine, a Gaza. Ero una dei 251 uomini, donne, bambini e anziani rapiti quel giorno dai loro letti, dalle loro case e da un festival musicale. Per quasi 500 giorni sono stata affamata, maltrattata e trattata come se fossi meno che umana. Ho visto amici soffrire. Ho visto la speranza affievolirsi. Quindi immaginate il mio shock e il mio dolore quando ho visto che avete assegnato il Premio Pulitzer a Mosab Abu Toha. Quest’uomo, a gennaio, ha messo in dubbio il fatto stesso della mia prigionia. Ha pubblicato un post su di me su Facebook e ha chiesto: ‘Come diavolo si fa a chiamare questa ragazza ostaggio?’”

Il post su Emily Damari
  Per un commentatore la logica dovrebbe essere importante (la differenza tra la cronaca e l’opinione non è forse dare importanza alle notizie nel primo caso e dare importanza al modo di ragionare sopra le notizie nel secondo?). La domanda da porre a Abu Toha, e che il Pulitzer avrebbe potuto farsi prima di scegliere chi premiare, è questa: davvero Emily Damari è stata catturata come prigioniera militare e non come ostaggio civile? Se sì, allora Hamas aveva i dettagli e le informazioni per poter catturare solamente soldati dell’Idf che dormivano nelle loro case, come Damari; perché prendere come ostaggi anche civili, tra cui donne e bambini?Abu Toha non di rado, comunque, si è concesso licenze poetiche nel modo di gestire le notizie. Lo ha fatto una seconda volta con un altro ostaggio, Agam Berger, 19 anni, militare dell’Idf.

Il post su Agam Berger
  “L’ostaggio israeliano Agam Berger, rilasciata giorni fa, partecipa alla cerimonia di diploma della sorella in un corso per ufficiali dell’Aeronautica militare israeliana. Questi sono coloro per cui il mondo vuole esprimere solidarietà, assassini che si arruolano nell’esercito e hanno parenti nell’esercito!”.
Vale quanto detto per Damari.

Non basta. A febbraio del 2024, quando vennero rilasciati i corpi della famiglia Bibas, Abu Toha mise in dubbio la causa della morte. I corpi dei due bambini, Kfir e Ariel (9 mesi e 4 anni) uccisi insieme alla madre, Shiri Bibas erano stati riconsegnati da Hamas (il corpo della madre venne riconsegnato a giorni di distanza; prima Hamas aveva dato all’Idf il cadavere di un’altra donna, che però non era Shiri). Mentre Israele sosteneva, dopo averli identificati e dopo un’analisi forense, che fossero stati uccisi “a mani nude” dai rapitori, Hamas sosteneva invece che a ucciderli fosse stato uno dei vari bombardamenti israeliani su Gaza. Indovinate a quale delle due versioni Abu Toha non credeva? Quella di Israele ovviamente.

• Il post sui due fratelli Bibas
  Abu Toha ha anche messo in dubbio ripetutamente le testimonianze di chi ha raccontato le torture durante la prigionia a Gaza. Per Abu Toha non ci sarebbero prove evidenti (come dei segni sul corpo) di torture. Peccato che uno dei testimoni, Eli Sharabi, liberato dopo 471 giorni, pesasse solo 44 chili, la metà del suo peso corporeo e meno della sua figlia più piccola. Forse Abu Toha la considera una dieta drastica e non una tortura? Sharabi ha anche raccontato la sua esperienza al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “Per 491 giorni sono stato tenuto sottoterra nei tunnel del terrore di Hamas, incatenato, affamato, picchiato e umiliato. Sono sopravvissuto con avanzi di cibo, senza cure mediche e senza pietà”.

Il post sulle torture agli ostaggi di Hamas
  Minimizzare la violenza di Hamas non è, in ogni caso, solamente il suo lavoro sui social (il 7 ottobre Abu Toha raccontava dei primi bombardamenti israeliani, ma non una parola sull’attacco di Hamas in nessuno dei suoi canali). Anche negli articoli premiati il nome del gruppo terroristico che il 7 ottobre diede inizio all’’Operazione “Alluvione Al-Aqsa” che portò alla morte di 1.200 ebrei tra soldati, civili e forze dell’ordine (oltre ai 250 rapimenti di cui si è parlato), compare solo due volte in quattro lunghi pezzi che avrebbero dovuto raccontare la tragedia di quei giorni. Due volte, in riferimento all’attacco del 7 ottobre, e in entrambi i casi in contrapposizione alla malvagità di Israele.
“Quando Hamas attaccò Israele il 7 ottobre 2023, tre generazioni della mia famiglia vivevano insieme sotto lo stesso tetto. Cinque giorni dopo, le forze israeliane lanciarono volantini che ci intimavano di evacuare la zona”.
E poi:
“Anche quando le forze israeliane iniziarono l'offensiva del 2023, in seguito all'attacco di Hamas del 7 ottobre , potevo comprare un chilo di pane per circa un dollaro. L'UNRWA contribuì a mantenere basso il prezzo prelevando sacchi di farina dai depositi e distribuendoli ai panifici. Dopo l'invasione israeliana, tuttavia, le file per il cibo iniziarono ad allungarsi; nulla poteva passare attraverso i confini settentrionali di Gaza. Spesso aspettavo ore per comprare qualche pagnotta, e quando i panifici erano a corto di carburante a volte tornavo a mani vuote. E quando lessi dei raid aerei che avevano distrutto i panifici a Gaza City e nella zona centrale di Gaza, iniziai ad avere paura di mettermi in coda”. 
Le cose brutte accadono sempre dopo la risposta di Israele, mai dopo l’attacco di Hamas. Sono le forze israeliane che lanciarono i volantini, l’invasione da parte di Israele… non il pogrom ebraico di Hamas. Ma anche questo deve essere sfuggito al Comitato del Pulitzer.

(MOW, 10 maggio 2025)

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Papa Leone XIV: tra speranza e incognite nel dialogo

di Luca Spizzichino

Con l’elezione di Papa Leone XIV, nato Robert Francis Prevost a Chicago nel 1955, la Chiesa cattolica apre un nuovo capitolo nel cammino del dialogo interreligioso, in particolare con il popolo ebraico, e con lo Stato di Israele. Se il suo passato offre segnali di speranza, il futuro resta per ora una pagina ancora tutta da scrivere.
  Leone XIV non è estraneo ai temi del confronto tra religioni. Durante gli anni di formazione al Catholic Theological Union di Chicago, studiò sotto la guida del reverendo John T. Pawlikowski, figura di riferimento nel dialogo ebraico-cristiano nel secondo dopoguerra. Intervistato dalla Jewish Telegraphic Agency, Pawlikowski – co-fondatore del Programma di Studi Cattolico-Ebraici della scuola e per anni membro del consiglio del Museo dell’Olocausto di Washington – ha ricordato il nuovo pontefice come uno “studente brillante” e “aperto”, profondamente immerso nello spirito del Concilio Vaticano II e della Nostra Aetate: il documento che nel 1965 rigettò l’antisemitismo e scagionò collettivamente il popolo ebraico dall’accusa di deicidio. Tuttavia, Leone XIV non ha finora mostrato un interesse diretto per il dialogo ebraico-cristiano. Dopo decenni trascorsi in missione in Perù e in America Latina, non ha mai operato in contesti con significative presenze ebraiche. Il suo primo discorso da pontefice, incentrato su pace e dialogo, è stato letto come una dichiarazione di principio.
  Un pensiero condiviso nei messaggi di augurio giunti dai vertici dell’ebraismo italiano e mondiale. “Formulo al nuovo Papa Leone XIV appena eletto i migliori auguri di successo nell’impegnativa missione che gli è stata affidata per il bene dell’umanità. Confido nel suo impegno a mantenere e promuovere i rapporti di collaborazione, rispetto e amicizia tra le nostre comunità”, ha dichiarato il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni. Le Comunità ebraiche italiane hanno espresso in una nota “le congratulazioni per la nomina al soglio pontificio: un augurio sincero per questo giorno di letizia che nutre le speranze e apre i cuori di tutti i fedeli delle Chiese cristiane”. Ma il messaggio si estende alle grandi questioni globali: “Le sfide storiche, le dure prove esistenziali e morali che ci troviamo a vivere in Europa e in Medio Oriente, dinanzi alle laceranti guerre e minacce, richiamano tutti, e in particolare i leader religiosi, ad altissime responsabilità verso ogni essere vivente, consapevoli dell’imperativo di agire con ogni sforzo di convivenza e ricerca della pace”. L’Ambasciatore Ronald S. Lauder, presidente del World Jewish Congress, si è congratulato con Papa Leone XIV, dicendosi “impaziente di continuare e approfondire questo dialogo essenziale in un momento di crisi globale. L’importanza di questa relazione è ancora più accentuata”.
  Israele osserva con attenzione l’inizio di questo nuovo pontificato, viste anche le posizioni espresse da Papa Francesco in materia del conflitto in Medio Oriente. Le relazioni tra Gerusalemme e il Vaticano si erano raffreddate negli ultimi mesi del pontificato di Papa Francesco, in particolare a seguito delle sue dichiarazioni critiche sull’operazione militare israeliana a Gaza. Il governo israeliano ha già espresso l’auspicio che con Leone XIV si possa “rafforzare la relazione tra Israele e la Santa Sede e l’amicizia tra ebrei e cristiani nella Terra Santa e nel mondo”, come ha scritto il Presidente Isaac Herzog, e “promuovere speranza e riconciliazione tra tutte le fedi”, come ha affermato il premier Benjamin Netanyahu.
  Cosa aspettarsi, dunque? Papa Leone XIV si presenta come un pontefice sobrio, pragmatico, con una sensibilità maturata durante gli anni in missione. Ha sostenuto riforme importanti, ma mantiene una postura conservatrice su temi centrali della dottrina cattolica. Il rabbino Noam Marans dell’American Jewish Committee ha sottolineato che “un papa americano fa ben sperare per il futuro delle relazioni ebraico-cattoliche”, ma resta aperta la questione centrale: il nuovo papa darà continuità alla linea di Papa Francesco? O imboccherà una via più prudente, lasciando che siano le circostanze a dettare tempi e modi?
  Il 60º anniversario della Nostra Aetate, che ricorre proprio quest’anno, potrebbe rappresentare un’occasione cruciale: un momento per riaffermare pubblicamente la volontà della Chiesa di camminare accanto al popolo ebraico. Se, come ha osservato il rabbino Marans, “tutti i papi vogliono la pace”, il mondo — e la comunità ebraica in particolare — si chiede ora se Papa Leone XIV saprà anche volerla con gesti chiari, dialoghi sinceri e un rinnovato impegno verso Israele e il popolo ebraico.

(Shalom, 9 maggio 2025)

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Gerusalemme – Ong israeliane e palestinesi chiedono insieme la pace

Nei massacri del 7 ottobre Maoz Inon ha perso entrambi i genitori, assassinati da Hamas nel kibbutz Nir Am. Entrambi erano attivisti per la pace, impegnati nel garantire ai bambini gazawi le migliori cure negli ospedali israeliani. Anche Inon è un attivista. È stata la telefonata di un collega palestinese che aveva conosciuto di sfuggita a un convegno, Aziz Abu Sarah, a portarlo su quella strada alcune settimane dopo la strage, nel pieno di giornate di smarrimento e rabbia. «Capisco il tuo dolore», gli ha detto Abu Sarah, raccontandogli di aver perso un fratello nella seconda Intifada e di come la sua vita è cambiata dal momento in cui ha messo da parte il risentimento e iniziato a impegnarsi nel dialogo tra i due popoli.
Venerdì mattina sono saliti insieme sul palco del People’s Peace summit, evento pacifista organizzato da una sessantina di ong israelo-palestinesi in un centro congressi nel cuore di Gerusalemme, davanti a migliaia di persone. Scopo della coalizione “It’s time” è «lavorare insieme con determinazione e coraggio per porre fine al conflitto attraverso un accordo politico che garantisca il diritto di entrambi i popoli all’autodeterminazione e alla sicurezza».
Sul palco sono saliti anche familiari di ostaggi, riservisti dell’esercito, ex diplomatici, medici e attivisti. Voci ebraiche e voci arabe. Come Somala Bashir, che guida la divisione araba del movimento femminista Women Wage Peace: «Sono un’orgogliosa cittadina, donna e madre. Le donne lo sanno: questo è il momento di agire». Era parte della stessa “famiglia” Vivian Silver, la celebre attivista israelo-canadese uccisa nel kibbutz Be’eri, alla cui memoria è stato dedicato un lungo applauso. Più volte gli intervenuti hanno puntato il dito contro il governo israeliano, accusandolo di portare il paese nel baratro per la sua gestione della guerra a Gaza. Ha tra gli altri inviato un messaggio da Ramallah il leader dell’Anp Abu Mazen, secondo il quale «la pace può essere raggiunta garantendo dignità, libertà e indipendenza; e con Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese». Mentre da Parigi, il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato: «La vostra mobilitazione è un segnale di speranza in un tempo segnato dal dolore, dalla paura e dall’incomprensione». Hanno poi preso il via alcune sessioni. Una delle quali ha tra i suoi relatori l’ex premier israeliano Ehud Olmert e l’ex ministro degli Esteri dell’Anp Nasser al-Qudwa, che da mesi girano il mondo con il progetto di un piano di pace che riprende a grandi linee quello presentato nel 2008 dallo stesso Olmert ad Abu Mazen. «Nei prossimi cinquant’anni non troverete un solo leader israeliano che vi proporrà quanto vi sto proponendo io», gli disse Olmert. Ma, come noto, Abu Mazen fece orecchie da mercante. a.s.

(moked, 9 maggio 2025)
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“People’s Peace”, “Women Wage Peace”,  Abu Mazen: “la pace può essere raggiunta garantendo dignità, libertà e indipendenza; e con Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese”. E ci sono quelli che girano il mondo con un “progetto di un piano di pace". E c’è Macron che da Parigi benedice gli attivisti della pace con nobili parole: “La vostra mobilitazione è un segnale di speranza”. La Bibbia dice altro: Essi curano alla leggera la piaga del mio popolo; dicono: 'Pace, pace', mentre pace non c’è” (Geremia 6:14, 8:11). Gli attivisti della pace però la cercano, e qualcuno tra loro certamente pensa di aver capito quello che anzitutto si deve fare: distruggere Israele. Sinewar l’aveva capito. E ci ha provato. E molti si dispiacciono che non ci sia riuscito. M.C.

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Giudea e Samaria: importanti dal punto di vista spirituale e strategico

I politici israeliani stanno prendendo coscienza della saggezza di Dio, che a loro ha sempre detto: non dividete la mia terra.

di Ryan Jones

Il cuore biblico della Giudea e della Samaria, che il mondo ama chiamare “Cisgiordania”, è il luogo in cui si svolgono la maggior parte degli eventi delle Sacre Scritture. L'area è di fondamentale importanza per la storia e per l'adempimento delle profezie. È anche di fondamentale importanza per la sicurezza di Israele.
  L'ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Mike Huckabee, ha recentemente visitato la Samaria, dove il capo del consiglio regionale, Yossi Dagan, gli ha consegnato una mezuzah realizzata con le pietre dell'altare di Giosuè sul monte Ebal.
  Profondamente commosso da questo gesto, Huckabee ha promesso di appendere la mezuzah alla porta del suo ufficio, «come promemoria che ci sono persone che pregano per la pace di Gerusalemme... e della Giudea e della Samaria». Huckabee, ex predicatore battista, è un forte sostenitore della sovranità ebraica in Giudea e Samaria, innanzitutto come parte importante della profetizzata restaurazione di Israele.
  Dio non è uno sciocco, e la sua Parola sottolinea l'importanza di queste terre per il futuro di Israele per una buona ragione. Israele, invece, negli ultimi decenni si è comportato in modo stolto, giocando con l'idea di poter rinunciare a questi territori in cambio di un pessimo accordo di pace.
  Il comandante in pensione della Delta Force statunitense, il tenente generale William Boykin, un rispettato esperto militare, era di parere diverso quando ha visitato la Samaria all'inizio di questo mese. “Se non creiamo una situazione in cui qui abbiamo la sovranità, vivremo un altro 7 ottobre”, ha dichiarato, sottolineando il ruolo delle comunità ebraiche come ‘cintura di sicurezza’ che protegge milioni di persone nei centri urbani di Israele.
  La sinistra israeliana si sta svegliando tardi e sta riconoscendo che l'abbandono degli ‘insediamenti’ ebraici è una ricetta per il disastro. Nel 2005, i politici di sinistra hanno deriso le voci di destra che si opponevano al ritiro dalla Striscia di Gaza e insistevano a chiedere che Israele mantenesse a tutti i costi una presenza ebraica nella striscia costiera. Le garanzie americane avrebbero assicurato che la Striscia di Gaza non diventasse un rifugio per i terroristi, sostenevano.
  Oggi cantano una melodia diversa, che riflette la valutazione di Boykin sull'importanza cruciale degli insediamenti ebraici.
  “Ora mi rendo conto che il ritiro è stato un errore. Non il desiderio di separarsi da due milioni di palestinesi – quello era logico – ma l'atto stesso, che a causa della debolezza dell'Autorità Palestinese ha portato alla presa di potere di Hamas nella Striscia di Gaza”, ha dichiarato il presidente Isaac Herzog alla fine del mese scorso in un'intervista alla vigilia della Giornata dell'Indipendenza.
  Nel 2005 Herzog era deputato del Partito Laburista e ministro dell'edilizia abitativa nel governo di Ariel Sharon. All'epoca scrisse un articolo sui media stranieri in cui definiva il ritiro delle comunità ebraiche dalla Striscia di Gaza “la migliore speranza per una pace duratura”.
  All'inizio di questa settimana, Herzog ha dichiarato alla Makor Rishon Settlement Conference che le comunità israeliane in Giudea e Samaria fungono da “muro difensivo dello Stato ebraico in tutti i sensi”.
  “Durante le mie numerose visite in tutto il Paese – e naturalmente in Giudea e Samaria – e soprattutto quando sorvolo il Paese in elicottero, mi convinco sempre più di quanto sia vitale, impressionante e fiorente l'attività di insediamento”, ha affermato Herzog in una dichiarazione preregistrata.
  Anche il leader dell'opposizione Benny Gantz è intervenuto alla conferenza, concordando con Herzog sul fatto che il ritiro dalla Striscia di Gaza nel 2005 è stato un “errore strategico”.
  Gantz ha affermato che Israele non deve accettare ulteriori cessioni di territori e ha definito “irrealistiche” le attuali discussioni su uno Stato palestinese indipendente.

(Israel Heute, 9 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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India-Pakistan: eliminato uno degli assassini di Daniel Pearl

di Nathan Greppi

Nel corso dell’Operazione Sindhoor, avviata dall’India nell’ambito degli scontri degli ultimi giorni con il Pakistan, il governo di Nuova Delhi ha recentemente annunciato di aver eliminato Abdul Rauf Azhar, terrorista pakistano che nel 2002 partecipò all’omicidio del giornalista ebreo americano Daniel Pearl .
Secondo il Jerusalem Post, l’annuncio è stato fatto giovedì 8 maggio dal BJP, principale partito nell’attuale governo indiano. Azhar era affiliato ad Al-Qaeda e a Jaish-e-Mohammed, un gruppo jihadista avente come obiettivo la separazione della regione del Kashmir dal resto dell’India per accorparla al Pakistan.

Chi era Daniel Pearl
   All’inizio degli anni 2000, Pearl era a capo dell’ufficio per l’Asia Meridionale del Wall Street Journal. Inizialmente di stanza a Nuova Delhi, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 si trasferì a Karachi, in Pakistan. Proprio a Karachi, il 23 gennaio 2002 venne rapito in un albergo da un gruppo di terroristi islamisti, che lo accusarono di essere una spia sul libro paga d’Israele e posero agli Stati Uniti diverse condizioni per la sua liberazione.
Il governo americano non riuscì a farlo liberare. In un video apparso poco prima del suo omicidio, Pearl rivendicò il suo essere ebreo e l’avere un legame con Israele: “Mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo. La mia famiglia osserva l’ebraismo. Nella città di Bnei Brak (in Israele, ndr), c’è una via intitolata al mio bisnonno, Chaim Pearl, che è stato uno dei fondatori della città”, disse nel video.

Gli ultimi eventi
   L’India ha lanciato l’Operazione Sindhoor, a detta loro per colpire delle infrastrutture terroristiche, in risposta ad un attentato compiuto nel Kashmir da parte di terroristi pakistani, che ha provocato la morte di 26 persone di fede induista.
Il BJP ha affermato che Azhar era coinvolto in una serie di attentati terroristici, tra cui il dirottamento di un volo della Indian Airlines nel 1999, l’attacco alla base dell’aeronautica militare di Pathankot del 2016 e l’attacco terroristico del 2001 al parlamento indiano.
L’escalation tra i due paesi negli ultimi giorni è stata una considerevole fonte di preoccupazione per gli osservatori internazionali, anche perché l’India e il Pakistan sono entrambi dotati di armi nucleari.

(Bet Magazine Mosaico, 9 maggio 2025)

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Trump abbandonerà Israele a favore dell'Arabia Saudita?

Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner parla del controverso programma nucleare per l'Arabia Saudita e della rottura delle relazioni tra Israele e Stati Uniti.

di Itamar Eichner

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Se la notizia di Reuters è vera, cioè che Donald Trump non chiede più a Ryad di normalizzare i rapporti con Israele come condizione per progredire nei colloqui sul programma nucleare civile in Arabia Saudita, questa sarebbe la prova che Trump ha gettato Israele sotto l'autobus.
Questa notizia però non arriva dal nulla. Si inserisce in una serie di mosse americane che hanno scosso Israele negli ultimi mesi: il dialogo segreto con l'Iran, la dichiarazione degli Stati Uniti su un accordo con gli Houthi, di cui Israele ha appreso solo dai media, l'omissione di una visita in Israele durante un viaggio in Medio Oriente, le relazioni cordiali con Erdoğan a scapito di Israele, il previsto ritiro dalla Siria e molto altro ancora.
Trump ne ha semplicemente abbastanza di Benjamin Netanyahu. Il governo statunitense è frustrato dall'atteggiamento di rifiuto di Israele e dagli ostacoli che Gerusalemme sta ponendo alla visione di Washington per il Medio Oriente, una visione che dovrebbe valere a Trump il Premio Nobel per la Pace.
Fonti vicine alla vicenda affermano che la normalizzazione con l'Arabia Saudita è in fase di stallo da tempo. Ci sono state fasi in cui Netanyahu ha dato al suo consigliere Ron Dermer il via libera per formulare proposte e opzioni di progresso, ma ora non è più possibile perché la guerra continua. Gli americani vedono Israele come un ostacolo e il messaggio è chiaro: gli Stati Uniti portano avanti i colloqui con l'Arabia Saudita indipendentemente dalla posizione di Israele. Israele non può più imporre nulla. Il messaggio è chiaro: nessuno aspetta più Israele.
La questione di un programma nucleare civile per l'Arabia Saudita è complessa e gli ambienti informati non sono convinti che ci siano già accordi, né tantomeno su un'alleanza difensiva. La questione non può essere considerata separatamente dal dialogo tra Stati Uniti e Iran. Se gli Stati Uniti adottano una linea dura nei confronti dell'Iran e chiedono lo smantellamento delle centrifughe, non possono allo stesso tempo consentire ai sauditi di arricchire l'uranio sul proprio territorio, e viceversa.
D'altra parte, i colloqui tra gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita su giganteschi accordi di armamenti stanno facendo progressi significativi. Anche in questo caso, Israele non gioca più un ruolo significativo.
Si pone un'altra domanda: se gli americani concedono ai sauditi ciò che hanno già concesso agli Emirati Arabi Uniti, non vi è alcuna violazione degli accordi precedenti. Tuttavia, se l'Arabia Saudita ottenesse il controllo completo del ciclo del combustibile nucleare, ciò sarebbe soggetto all'approvazione del Congresso.
All'interno degli Stati Uniti ci sono lotte di potere su questa questione. È del tutto possibile che il rapporto di Reuters sia solo un altro pallone sondato da Trump per valutare le reazioni.
La reazione del senatore Lindsey Graham suggerisce che un programma nucleare civile per l'Arabia Saudita senza la normalizzazione con Israele non è ancora cosa fatta. Graham considera la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele parte del suo patrimonio politico. Ha chiarito: “Non sosterrò mai un accordo di difesa con l'Arabia Saudita o altri elementi di un accordo proposto se la normalizzazione delle relazioni con Israele non fa parte del pacchetto. La normalizzazione è una componente fondamentale”.
Finora Israele non ha formulato una posizione ufficiale sulla questione nucleare dell'Arabia Saudita. Prima del 7 ottobre c'erano state delle discussioni, ma i negoziati non erano molto avanzati e si erano svolti sotto l'amministrazione Biden.
Israele è preoccupato dal fatto che si stia cercando una svolta non solo con l'Iran, ma ora anche con l'Arabia Saudita e che si parli di arricchimento dell'uranio. Per Israele, l'arricchimento sul suolo saudita è un problema serio. Israele non può accettare l'arricchimento dell'uranio in Medio Oriente. È pericoloso dare agli Stati la capacità di produrre autonomamente materiale fissile. Ciò non significa però che non esistano alternative, come l'arricchimento in un Paese terzo sotto il controllo degli Stati Uniti.
Ufficialmente Israele tace. Anche dopo l'annuncio di Trump sull'accordo con gli Houthi non c'è stata alcuna reazione da Gerusalemme. Sembra che le relazioni con gli Stati Uniti stiano diventando sempre più incontrollabili. Gli errori di Dermer si accumulano e nessuno lo chiama a rispondere delle sue azioni.
Il leader dell'opposizione Yair Lapid ha commentato: “Da anni metto in guardia da un accordo saudita che prevede l'arricchimento dell'uranio. È incomprensibile che Netanyahu rimanga in silenzio mentre prende forma un accordo che potrebbe scatenare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente e portare le capacità nucleari nelle mani sbagliate”.
Un insider ben informato sulle relazioni israelo-americane ha affermato che l'affermazione di Netanyahu secondo cui non vi è alcuna rottura tra Israele e gli Stati Uniti non è più sostenibile da tempo.

(Israel Heute, 9 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il piano di Hamas per trasformare Gaza in un altro Libano

di Yakoov Lappin

L’obiettivo principale di Hamas in questo momento è garantirsi un cessate il fuoco per riuscire a sopravvivere alla guerra, ricostruire il suo esercito terroristico e consolidare il proprio controllo politico sulla Striscia di Gaza.
Per raggiungere questo obiettivo, ha mostrato la sua volontà di creare un modello di governance a Gaza simile al controllo del Libano da parte di Hezbollah prima della guerra: un governo riconosciuto a livello internazionale che fornisca una facciata di autorità, mentre Hamas mantiene il pieno controllo militare-terroristico sul campo e di fatto il potere politico.
Ciò consentirebbe all’organizzazione jihadista di riorganizzarsi, riarmarsi e infine riprendere la sua guerra contro Israele nel momento più propizio, con l’ulteriore possibilità di vantarsi presso i palestinesi di essere stata in grado di lanciare il peggiore omicidio di massa di ebrei dai tempi dell’Olocausto e di essere sopravvissuta in misura tale da uscirne vincitrice.
Tutte le proposte avanzate nella regione – quella dell’Egitto, che suggerisce che l’Autorità Nazionale Palestinese assuma il controllo politico attraverso un governo di tecnocrati; così come le idee avanzate, anche in Israele, di una Gaza governata da una coalizione regionale – porterebbero a questa pericolosa situazione, simile a quella del Libano. Ciò avverrebbe perché Israele non ha ancora completato la sua campagna militare contro Hamas.
Il 4 marzo, durante un vertice al Cairo tenutosi per presentare un’alternativa araba al piano del presidente Trump per Gaza, il presidente egiziano Fateh El-Sisi ha dichiarato: “L’Egitto si oppone allo sfratto dei palestinesi e sostiene il loro diritto a rimanere nella loro terra. Non prenderemo parte a questi piani. L’Egitto sostiene la continuazione del cessate il fuoco e la creazione di uno Stato palestinese indipendente. L’Egitto sostiene l’istituzione di un comitato amministrativo basato su tecnocrati indipendenti che gestirà temporaneamente la Striscia e supervisionerà gli aiuti, fino al ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese”.
Secondo un articolo della Reuters del 3 marzo, l’Egitto ha elaborato una roadmap per Gaza che propone “un governo provvisorio da parte di una coalizione di stati arabi, musulmani e occidentali”. Il piano non fornisce dettagli su come Hamas verrebbe emarginata, chi pagherebbe la ricostruzione di Gaza o come verrebbe strutturata la governance.
In particolare, Hamas, secondo diverse fonti, ha già dichiarato di accettare tali accordi. Questa è una chiara indicazione che il gruppo terroristico li considera un mezzo per mantenere la propria presa sul potere.
Il 17 febbraio, i media arabi riportavano che Hamas avrebbe accettato di trasferire il controllo di Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese. Sky News Arabia ha riferito che Hamas ha preso questa decisione sotto la pressione egiziana, nel contesto dei negoziati per un cessate il fuoco e un accordo sul rilascio degli ostaggi con Israele. Il portavoce del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Omer Dostri, ha respinto categoricamente l’idea, scrivendo su X: “Non accadrà”.
Analogamente, l’agenzia Anadolu ha riferito il 5 dicembre 2024 che Hamas aveva “accettato la proposta egiziana di formare un comitato palestinese congiunto per gestire la Striscia di Gaza dopo la guerra israeliana in corso”. Hamas ha dichiarato di aver tenuto colloqui con Fatah, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e altre fazioni terroristiche palestinesi per discutere “l’attuazione di quadri precedentemente concordati per raggiungere l’unità palestinese”.
Nonostante queste vaghe formulazioni, la realtà di fondo è che Hamas non ha alcuna intenzione di rinunciare al controllo su Gaza e, ovviamente, non perderebbe tempo a sfruttare le amministrazioni fittizie a Gaza per riaffermare il controllo e consolidarsi militarmente ancora una volta.

Il modello Hezbollah: una trappola che Israele non può permettersi
  Il modello per Gaza che Hamas sembra intenzionato ad adottare è direttamente ispirato al precedente status di Hezbollah in Libano, dove il gruppo terroristico manteneva il controllo militare assoluto nonostante l’esistenza di un governo libanese nominalmente sovrano.
Prima dell’attuale guerra, Hezbollah dettava la politica di sicurezza del Libano, godeva di fatto di un potere di veto sulle decisioni del governo libanese, gestiva uno stato ombra per la sua base sciita libanese ed era la forza militare più forte del Paese con un ampio margine, surclassando le Forze armate libanesi, nelle quali si infiltrava tramite i suoi ufficiali e soldati sciiti.
Nonostante l’esistenza di un governo libanese, Hezbollah gestiva una propria struttura di comando militare e accumulava mostruose quantità di armi con il sostegno dell’Iran, mentre il governo libanese fungeva da fronte impotente per la legittimità internazionale.
Questo accordo è infine crollato quando la presenza di Hezbollah in Libano è stata disarticolata da Israele in una guerra che ne ha paralizzato le infrastrutture e il controllo territoriale. Oggi, il governo libanese sta mostrando i primi segni di vera sovranità, confiscando il denaro che finanzia il terrorismo in transito attraverso l’aeroporto di Beirut e vietando i voli iraniani sospetti. C’è ancora molta strada da fare.
Hamas cercherebbe probabilmente di replicare la precedente configurazione di Hezbollah a Gaza. In caso di successo, ciò gli permetterebbe di ricostruire le proprie capacità militari, impedendo a Israele di intraprendere azioni decisive a livello diplomatico.
Qualsiasi tentativo da parte di Israele di neutralizzare Hamas in uno scenario del genere incontrerebbe l’indignazione internazionale per la violazione della sovranità dell'”autorità di governo riconosciuta” di Gaza, anche se tale autorità non avesse alcun potere effettivo. Qualsiasi forza di peacekeeping internazionale subirebbe la stessa sorte dell’UNIFIL in Libano, e verrebbe ridotta a un osservatore inefficace, usato dai terroristi come scudi umani negli scontri a fuoco con Israele.
Le conseguenze di un simile esito sarebbero disastrose. Hamas sfrutterebbe il tempo guadagnato grazie a un cessate il fuoco per riarmarsi con armi provenienti dall’Iran, contrabbandare tecnologia militare e probabilmente iniziare a ricostruire il suo sistema di tunnel e missili. Sotto la copertura di un organo di governo approvato a livello internazionale, Hamas potrebbe potenziare le sue capacità militari impunemente. Questo è esattamente ciò che Hezbollah ha fatto in Libano, accumulando un vasto arsenale e usando il governo libanese come scudo contro l’azione israeliana.
Di conseguenza, l’unica via percorribile è che Israele, prima o poi, torni a combattere a Gaza, mantenga il controllo del territorio questa volta e ottenga il pieno controllo militare e politico della Striscia per almeno diversi mesi. Ciò è necessario per garantire:

  1. La distruzione totale del regime militare e politico di Hamas
    Senza smantellare completamente la struttura di comando, la leadership e le forze armate di Hamas, qualsiasi accordo di governo sarà privo di significato. Finché Hamas manterrà le sue armi e la sua capacità operativa, sarà il governatore de facto di Gaza e i gazawi non coopereranno mai con alcuna visione post-Hamas.
  2. Una presenza di sicurezza israeliana a lungo termine con piena libertà operativa
    Qualsiasi futuro accordo di governance deve consentire a Israele di condurre ovunque operazioni antiterrorismo all’interno di Gaza, in qualsiasi momento, senza alcuna restrizione. Ciò significa una supervisione completa della sicurezza, con l’IDF che mantiene la capacità sia di colpire i resti di Hamas da terra, aria e mare, sia di impedirne il riarmo. Gaza deve diventare una versione dell’Area A in Giudea e Samaria, dove l’IDF opera di notte per impedire all’Iran e a Hamas di costruire un esercito terroristico che minaccerebbe il centro di Israele.

Solo dopo che queste condizioni saranno soddisfatte, un’autonomia moderata – sostenuta dagli Stati del Golfo e dagli Stati Uniti – potrà essere considerata una possibile struttura di governance per Gaza. Anche in quel caso, Israele dovrà mantenere la piena libertà operativa in materia di sicurezza per prevenire qualsiasi recrudescenza del terrorismo.

(L'informale, 9 maggio 2025 - trad. Niram Ferretti)

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Eurovision. Eden Golan: “Avevo paura che mi sparassero sul palco. L’odio? L’ho trasformato in forza”

di Luca Spizzichino

A un anno dalla sua partecipazione all’Eurovision Song Contest 2024, la cantante israeliana Eden Golan ha rilasciato un’intervista toccante a Walla! in cui ha raccontato le sue paure, i momenti più duri e la forza con cui ha affrontato l’odio ricevuto sul palco europeo.
  “Dopo il 7 ottobre non dormivo la notte” ha rivelato Golan, riferendosi agli attacchi terroristici che hanno colpito Israele. La giovane cantante, allora appena ventenne, ha rappresentato Israele in un clima teso, segnato da minacce di morte, ostilità e proteste. “Mi sono trovata in mezzo a fischi e insulti, ma ho deciso che non avrei lasciato che quelle voci entrassero nella mia testa. È stato durissimo. Ma sono orgogliosa di me. Poteva diventare un trauma, e invece l’ho trasformato in forza”, ha proseguito. Nonostante gli auricolari con cancellazione del rumore, Golan ha raccontato che durante le prove e la performance finale i fischi erano chiaramente udibili. “Pensavo di non sentire nulla. Ma appena sono salita sul palco, ho capito che la realtà era diversa. Tutto il team piangeva. Mia madre mi ha detto: ‘Non riuscivo a respirare vedendoti così, sei venuta solo per cantare’. Eppure, mi sono fatta forza. Ho parlato con me stessa, mi sono concentrata e ho trasformato l’odio in energia”. Golan ha anche raccontato di aver avuto pensieri cupi, specie dopo aver ricevuto minacce gravi. “Ho pensato: e se non torno? Avevo paura che mi sparassero sul palco. Ma a Malmö ho deciso di lasciare andare la paura. Avevo otto guardie del corpo e perfino elicotteri, ma ho scelto di non pensarci”.
  A colpire particolarmente è stato il clima di isolamento. “Su 37 delegazioni, solo quattro sono state calorose. Tali del Lussemburgo è fantastica. Anche i rappresentanti di Francia e Germania sono stati gentili. Ma molti altri – irlandesi, greci, olandesi – sono stati ostili. Karma is a bitch, posso dirlo? L’energia che si mette nel mondo torna indietro”, ha sottolineato la cantante israeliana. Ha poi ricordato un episodio emblematico: “Avevo fatto un TikTok con il cantante finlandese. In pochi minuti, il suo manager è entrato nella mia stanza – senza bussare – e ha chiesto di rimuoverlo. Nessuno voleva essere visto con me, temevano ripercussioni”. Anche dietro le quinte, Golan e la delegazione israeliana hanno subito discriminazioni. “Il giorno della finale ci hanno cacciati dall’area artisti. Ma alla fine ci hanno dato una stanza enorme e tranquilla. È stato quasi un regalo”.
  Ora, Eden tornerà all’Eurovision 2025 come portavoce dei voti israeliani e spera che le restrizioni dello scorso anno – come il divieto di indossare la spilla gialla per gli ostaggi – vengano revocate. “Se sono state permesse bandiere e simboli palestinesi, non c’è motivo di vietare un segno che chiede la liberazione di ostaggi civili”. Sul futuro non si sbilancia: “Tornare in gara? Mai dire mai. Ma se lo faccio, sarà solo per vincere. Il quinto posto dell’anno scorso, raggiunto esclusivamente grazie al televoto del pubblico, è stato un risultato storico”.
  Infine, un pensiero per Yuval Raphael, rappresentante di Israele per l’edizione 2025: “Le ho dato tanti consigli. È pronta. Il pubblico sarà più piccolo quest’anno, forse ci saranno meno fischi. Ma la cosa più importante è una sola: godersi ogni istante”.

(Shalom, 9 maggio 2025)

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Il Giubileo e l’equità sociale

di Roberto Jona

In questi giorni si sente parlare del Giubileo proclamato da Papa Francesco: l’istituzione dello yovel è antica e ha preceduto l’Era Volgare. Per comprenderne il significato occorre andare alle origini: l’insediamento degli Ebrei nella Terra di Israele. Arrivati nella Terra Promessa, dopo la schiavitù in Egitto, il popolo ebraico si divise la terra a seconda della consistenza numerica delle tribù e le famiglie. Il sistema era “liberale”, il commercio cioè era libero e le compravendite permesse, anche quelle dei terreni. È ovvio che dopo mezzo secolo le proprietà terriere si “spostino”. Bisogna sottolineare che il possesso della terra aveva un valore diverso e maggiore, di quello odierno.
  Nel mondo di oggi la sussistenza è data dal lavoro. Che sia dipendente o autonomo non importa, ma il lavoro non concerne necessariamente la lavorazione della terra. Tutti, anche oggi, dipendiamo dalle produzioni della terra, cioè dall’agricoltura, ma molti possono accedere ai prodotti dell’agricoltura per sostentarsi senza però lavorare la terra: rendono con il loro lavoro un servizio a qualcuno che lavora la terra, ne trae i frutti e cede i frutti della terra in cambio del servizio ricevuto. Nell’antichità, ma anche pochi decenni fa, il contatto individuo-produzione della terra era molto più diretto.
  Oggi un bambino non si rende conto che la frutta non la “fa” il fruttivendolo, la farina con cui si “fa” il pane non l’ha “creata” il fornaio e così via. Con l’estensione della vita in città, la natura tende a sparire dalla vista e soprattutto dal sentimento dei consumatori.
  Ma il commercio, cioè la compravendita, dei terreni poteva avere ed aveva un effetto gravemente negativo: qualcuno più abile o fortunato poteva accumulare la proprietà di molti terreni, a scapito di altri. E, come è stato appena detto, la proprietà del terreno significava la sussistenza, cioè la vita, la sopravvivenza.
  Un istituto strano, direi sorprendente e senz’altro originale, stabilito nella Torah, invece, evitava grossi squilibri di ricchezze e benessere tra le varie persone. Ogni 50 anni la proprietà dei terreni ritornava (gratuitamente) al proprietario originale. Era il giubileo, lo jovel. Questo evitava grandi accumuli di beni ed evitava grandi squilibri di ricchezza. È chiaro che se il terreno veniva venduto l’anno successivo allo jovel aveva un valore piuttosto elevato perché c’era una prospettiva di possesso per 49 anni, ma se si vendeva l’anno precedente al giubileo il valore scendeva perché l’acquirente avrebbe potuto godere dei frutti di quella terra solo per un anno: l’anno successivo, con l’arrivo dello jovel, avrebbe dovuto restituire gratuitamente il terreno al proprietario originario.
  Lo jovel era quindi uno strumento di equità sociale grazie al livellamento delle ricchezze e sorprende che non sia mai stato preso in considerazione dai vari movimenti politici socialisti che concentravano l’azione politica sull’eguaglianza delle ricchezze nella popolazione.
  Un altro aspetto, che oggi non è più attuale, ma che in passato aveva un peso rilevante era l’affrancamento degli schiavi. Certe persone, in conseguenza di vicende varie, divenivano schiave ed erano tenute a lavorare (senza compenso) per un “padrone”. Oggi è una situazione addirittura impensabile, ma nei secoli del passato la schiavitù era una colonna portante della società.
  E nel mondo questa situazione era vita, senza dimenticare che nelle campagne degli Stati Uniti l’istituto della schiavitù si è protratto fino al XIX° secolo. Lo yovel però prevedeva che una volta ogni mezzo secolo gli schiavi divenissero persone libere: un concetto rivoluzionario! Un concetto che nemmeno i più famosi teorici del socialismo (Karl Marx, Friedrich Engels ecc.) hanno saputo immaginare.
  In conclusione, il Giubileo, di cui oggi si sente parlare, ha assunto un significato molto diverso da quello che era in origine, ed è stato un importante strumento di equità sociale.

(moked, 9 maggio 2025)

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La confusione della “Sinistra per Israele”: finire la guerra è la pace di Hamas, la reazione proporzionata era replicare il 7 ottobre?

di Iuri Maria Prado

Manifestare in Israele per “la fine della guerra” è già un mezzo controsenso se si considera che Israele non combatte una guerra che ha cominciato, ma una guerra che ha subìto. E, da mezzo, il controsenso diventa pieno considerando che l’istanza di pace dovrebbe essere rivolta a chi quella cosa, cioè la pace, non vuole: e non è davvero Israele a non volerla. Ecco perché lascia perplessi l’iniziativa che un nugolo di sigle – con l’adesione di “Sinistra per Israele” – annunciava per ieri e per oggi a Gerusalemme sotto l’insegna “Per fare la pace”. Si tratta, infatti, di intendersi: “finire la guerra” può significare tante cose. Finirla smettendo di farla a quello che, quando pure tu la finisci, te la fa ancora, non è la fine di un bel nulla: è la rinuncia al tuo diritto di difenderti, che è un’altra cosa. Non è la pace: è la pace del tuo nemico, e solo sua.
  Quelli che pure, legittimamente, rimproverano a Israele di aver fatto troppo danno nella reazione ai massacri del 7 ottobre, sono stati a dir poco vaghi quando si è trattato di chiarire che tuttavia Israele ha ben diritto di fare la guerra a chi vuole distruggerlo. E sono stati anche peggio che vaghi quando si è trattato di chiarire che non solo ha diritto di fargli la guerra, ma ha diritto di vincerla. Indugiano, quei contestatori, sul “come” Israele ha esercitato quel diritto di difesa, ma in realtà è sul “se” di quel diritto, cioè sul fatto che Israele davvero ce l’abbia, che i portatori di quell’istanza di pace coltivano i propri dubbi. La verità è che, per loro, Israele non ha diritto di vincere la guerra contro quelli che vogliono distruggerlo perché a ben guardare non ha nemmeno il diritto di fargliela.
  I numeri impressionanti dei morti nella guerra di Gaza – che quei manifestanti nemmeno per sogno mettono sul conto delle responsabilità di chi l’ha cominciata – solo formalmente sono adoperati per denunciare la presunta “sproporzione” della reazione israeliana. Quale doveva essere, per mantenersi “proporzionata”, la reazione? Israele doveva prendere casa per casa e giustiziare 1200 uomini, donne e bambini palestinesi e rapirne altri 250? Doveva prendere un po’ di ragazze palestinesi e finirle a coltellate dopo (o durante) lo stupro? Doveva deportare un lattante palestinese, strangolarlo e restituirlo in una bara, cantando vittoria, dopo un anno e mezzo?
  La “sproporzione” che denunciano è un’altra. Per loro, in realtà, è “sproporzionato” che gli ebrei abbiano uno Stato, con un esercito a difenderlo. C’erano parecchi pacifisti tra gli ebrei trucidati il 7 ottobre. Non hanno avuto modo di reagire sproporzionatamente, grazie al cielo.

(Il Riformista, 9 maggio 2025)

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Il Parlamento Europeo congela i finanziamenti all’AP per i contenuti antisemiti del suo sistema didattico

di Pietro Baragiola

Mercoledì 7 maggio il Parlamento europeo ha votato il congelamento dei finanziamenti rivolti all’Autorità Palestinese a causa del continuo incitamento all’antisemitismo presente nei suoi libri di testo, oltre che al dichiarato coinvolgimento dei dipendenti dell’UNWRA nell’attacco del 7 ottobre.
Nel corso della loro indagine i parlamentari europei hanno rinvenuto numerosi testi didattici palestinesi che glorificano il terrorismo, prove sufficienti ad accusare il governo del Paese di violare i principi fondamentali di coesistenza ed educazione alla pace.
“I finanziamenti saranno congelati finché il contenuto dei libri di testo non soddisferà gli standard dell’UNESCO e i riferimenti antisemiti non verranno rimossi” ha dichiarato la nuova risoluzione, approvata durante la revisione annuale del bilancio del Parlamento Europeo.
Niclas Herbst, presidente della Commissione per il controllo dei bilanci del centro-destra del PPE, il gruppo più grande e influente del Parlamento, si è dichiarato orgoglioso del risultato della votazione nel corso della sua intervista con Ynet News: “l’Europa ha ufficialmente chiarito che i libri di testo palestinesi non devono promuovere la violenza, incitare all’odio o diffondere l’antisemitismo. È nostra responsabilità garantire che il denaro dei contribuenti europei sostenga la coesistenza, il rispetto dei diritti umani e la comprensione reciproca”.
La decisione di mercoledì è stata approvata con un ampio sostegno anche da parte dei partiti di centro-sinistra con un risultato di 443 voti a favore, 202 contrari e 21 astensioni.
“L’istruzione è il fondamento di ogni nuova generazione: deve essere basata sulla pace, sul rispetto e sulla dignità umana” ha affermato a Ynet News Sabrina Pignedoli, membro del gruppo Socialisti e Democratici (S&D) che fa parte della commissione per l’istruzione. “Il messaggio del Parlamento è stato chiaro: non chiuderemo gli occhi quando i bambini sono esposti all’odio e alla divisione.”
Per la prima volta il Parlamento ha anche incluso la richiesta di riforme immediate del sistema educativo invitando a rimuovere i contenuti antisemiti entro l’inizio del prossimo anno accademico, e respingendo i ripetuti tentativi dei partiti alleati all’Autorità Palestinese di ammorbidire o cancellare tali risoluzioni.

Le promesse disattese
   Già a luglio 2024 la Commissione europea aveva annunciato che i prossimi aiuti all’Autorità Palestinese sarebbero stati ufficialmente condizionati alla riforma dei contenuti educativi.
Nonostante le promesse fatte dall’Autorità palestinese, un’indagine completata nel marzo 2025 dall’istituto di ricerca e politica IMPACT-se non ha trovato alcuna prova di una riforma significativa. Al contrario, il rapporto ha rivelato che l’AP aveva introdotto un nuovo programma di studi a Gaza pieno di incitamenti violenti, promozione della jihad e antisemitismo esplicito.
I risultati di questo rapporto sono stati prima presentati ad alti funzionari dell’UE e ai membri della commissione bilancio del Parlamento europeo e poi trattati dai media che hanno gettato le basi per la decisione presa mercoledì.
“È molto incoraggiante vedere il Parlamento europeo assumere la leadership e chiedere responsabilità sia all’Autorità Palestinese che alla Commissione europea, chiarendo che le promesse a vuoto non saranno più tollerate” ha affermato Marcus Sheff, CEO di IMPACT-se, durante l’intervista rilasciata a Jewish News. “Per sei anni consecutivi, il Parlamento non ha riscontrato alcun miglioramento significativo nei contenuti educativi palestinesi e le promesse di riforma si sono rivelate vuote. Oggi, senza prove verificabili di cambiamento, sarebbe irresponsabile continuare a erogare fondi come in passato.”
Durante l’incontro di mercoledì, il Parlamento ha inoltre sottolineato l’esistenza di alternative all’UNRWA e ha esortato la Commissione Europea a lavorare con ‘partner affidabili come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il Programma Alimentare Mondiale (PAM) e l’UNICEF’.
“È inaccettabile che il denaro dei contribuenti europei venga utilizzato impropriamente per finanziare un sistema educativo che alimenta il tipo di odio estremo e di violenza che abbiamo visto il 7 ottobre” ha concluso Sheff. “Continueremo a monitorare il sistema educativo palestinese e a fare pressione affinché le riforme promesse vengano attuate.”

(Bet Magazine Mosaico, 8 maggio 2025)

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L’inevitabile corruzione del cristianesimo accentrato

L’istituzione religiosa “chiesa cattolica”, con al suo centro la figura del monarca papale, è, nella sua stessa struttura, espressione di peccato. Gesù l’ha detto chiaramente: “Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli” (Matteo 23:9). L’umano “Santo Padre” che oggi si espone al tripudio popolare, si contrappone dunque, nel suo stesso titolo, a Dio stesso, come il Signore Gesù l’ha fatto conoscere. Ancora una volta questa figura ha voluto occupare il centro del mondo, in opposizione a Dio. E’ bene che gli ebrei ne tengano conto, perché questa pretesa di centralità sacra è il chiaro segnale di un antisemitismo incorreggibile, quali che siano le parole con cui si cerchi di nasconderlo. Ripresentiamo, in forma leggermente adattata, un articolo già presente nel nostro sito.

di Marcello Cicchese

L'ebraismo ruota intorno a un centro territoriale: Gerusalemme (Salmo 137:5). Al centro di questo centro si trova il Tempio, la casa dell'Eterno (Salmo 122:1).
  Il Messia Gesù "è venuto in casa sua e i suoi non l'hanno ricevuto" (Giovanni 1:11), ma prima di lasciare questa terra ha detto:
    "Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Io vi dico che non mi vedrete più, fino al giorno in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!" (Luca 13:35).
Dopo la sua risurrezione Gesù fu assunto in cielo, e subito dopo la sua ascesa si presentarono alla folla radunata due uomini in vesti bianche che rivolsero loro queste parole: "Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che vi è stato tolto, ed è stato elevato in cielo, ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo" (Atti 1:11).
  Quaranta giorni dopo scese sui discepoli lo Spirito Santo promesso da Gesù, e al popolo radunato l'apostolo Pietro rivolse queste parole:
    «Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Perché per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà» (Atti 1:38-39).
Tremila persone scesero nelle acque del battesimo in quell'occasione e altre se ne aggiunsero in seguito fino ad arrivare a cinquemila. Nacque a questo punto il primo nucleo di ciò che poi si chiamerà "chiesa", ma che allora poteva considerarsi soltanto come un movimento interno al popolo ebraico che annunciava di credere in Gesù come il Messia promesso a Israele. Chiameremo "gruppo messianico" questa particolare sottosocietà della nazione israelitica di quel tempo.
  Le autorità ebraiche si opposero a questo movimento, e dopo aver respinto Gesù come Messia respinsero anche, con fatale coerenza, i discepoli che proclamavano la risurrezione del Messia Gesù.
  Dopo qualche tempo, con sorpresa, i messianici s'accorsero che lo Spirito Santo promesso da Gesù cadeva anche all'esterno di Israele, perché molti gentili manifestarono di credere in Gesù come loro Signore e Salvatore e vollero essere battezzati. Il gruppo messianico dunque si allargò ai gentili, ma non per questo intendeva uscire dall'ambito del popolo ebraico. La conversione dei gentili non era intesa come un movimento di Israele verso l'esterno, ma, al contrario, come un'attrazione che l'esterno gentile provava verso Israele. I gentili che arrivavano a credere in Gesù manifestavano, con il loro stesso atto di fede, la volontà di porsi in relazione con Israele; ed era una relazione che in un primo tempo non poteva che essere di subordine, perché i credenti nel Messia d'Israele che provenivano dal paganesimo avevano bisogno di essere istruiti su tutto ciò che riguardava le Scritture e le tradizioni ebraiche. E gli istruttori non potevano che essere i messianici ebrei. Dunque "prima il giudeo e poi il greco", come dirà in seguito l'apostolo Paolo (Romani 1:17).

Israele perde il centro
  
La presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio furono un trauma tremendo per la nazione israelitica, e quindi anche per il gruppo messianico. I messianici però erano stati avvertiti da Gesù: "Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina" (Luca 21:20). Credettero a quella parola, e quando videro che cominciava a formarsi l'assedio, prima che fosse troppo tardi lasciarono la città e si rifugiarono a Pella.
  Con la caduta di Gerusalemme, la distruzione del Tempio e la successiva repressione della rivolta di Bar Kokhba nel 135 d.C., il popolo ebraico perse il suo centro, cioè la casa dell'Eterno in mezzo a Gerusalemme.
  Di conseguenza, anche il gruppo messianico perse il suo centro territoriale, perché credere in Gesù come Messia d'Israele e ottenere il beneficio del perdono dei peccati e la promessa di vita eterna non li esimeva dal considerare Gerusalemme il centro del mondo, il luogo in cui Gesù era vissuto, morto, risuscitato e in cui avrebbe posato i suoi piedi al suo ritorno.
  Ma quello che l'imperatore Adriano voleva, era proprio far perdere a Gerusalemme il posto di centro del popolo ebraico; quindi ne cambiò il nome in Aelia Capitolina e proibì agli ebrei di abitarvi.
  Da quel momento la diaspora ebraica, cominciata con la caduta del primo Tempio ma mitigata fino ad allora dalla presenza di Gerusalemme come centro di riferimento storico-politico dell'ebraismo, diventò spazialmente di dimensioni mondiali e temporalmente di dimensioni che finirono per essere considerate eterne: Gerusalemme ebraica non esiste più, né mai più ci sarà. Resta solo come aspirazione ideale, come rimpianto eterno che favorisce il raccogliersi del popolo ebraico intorno al nuovo centro: la Torà. Non più storia, ma istruzione; non più politica, ma devozione. L'ebraismo perde il centro politico territoriale e va in diaspora a tempo indeterminato.
  Il gruppo messianico, nato originariamente come sottosocietà di Israele apertasi in seguito all'ingresso dei gentili, entrò anche lui in diaspora, nel senso che perse il naturale collegamento che aveva avuto con Gerusalemme, centro originario della diffusione del Vangelo. Il suo distacco però fu meno traumatico, perché il suo centro adesso era in cielo, nel Messia Gesù che siede alla destra di Dio (Matteo 22:44). Lo Spirito Santo diffuso tra i discepoli e presente individualmente in tutti coloro che di vero cuore si erano ravveduti e avevano creduto in Gesù Messia, sosteneva questa fede.

La corruzione del cristianesimo era stata prevista
  Com'è potuto accadere allora che quel piccolo gruppo messianico uscito dal costato del popolo ebraico abbia potuto trasformarsi nei secoli in un impero religioso-politico mondiale con centro in Roma? Alcuni spiegano la cosa parlando di corruzione del cristianesimo storico, aspirando romanticamente ad un "ritorno alle origini". Chi parla così però non tiene conto che nel Nuovo Testamento è già predetta la corruzione del cristianesimo storico, perché in esso sono presenti fin dall'inizio i semi del falso vangelo seminati dall'Avversario. Gesù l'aveva detto:
    "Egli propose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi; ma, quand'è cresciuto, è maggiore dei legumi e diventa un albero; tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami»" (Matteo 13:31-32).
Questa parabola fa parte delle sette cosiddette "parabole del regno", che da molti sono interpretate in senso positivo, come preannuncio di un cristianesimo vincente che si espande e trionfa. E' vero il contrario: sono parabole che preannunciano uno sviluppo abnorme e corrotto prodotto dal seme della Parola di Dio in un terreno che l'ha ricevuto ma ne ha usato la potenza a fini di dominio. E' vero che il cristianesimo, come fenomeno storico-politico, col passare del tempo si estenderà nel mondo, perché la potenza redentrice del Vangelo non può essere arrestata, ma il suo successo politico spingerà gli uccelli del cielo della parabola (simboli demoniaci che nella parabola delle zizzanie portano via subito il seme del Vangelo dal cuore di chi lo riceve) ad annidarsi tra i rami dell'albero e a trarne sordidi vantaggi. Ed è quello che è successo.

Il cristianesimo corrotto si accentra
  Dopo la distruzione del Tempio e la sparizione di Gerusalemme come centro della nazione ebraica, il gruppo che adesso possiamo chiamare "messianico-cristiano" per la sua costituzione etnicamente mista, avrebbe dovuto rimanere sempre in diaspora, come Israele e, nei limiti del possibile, insieme a Israele. La diaspora, che per gli ebrei è un giudizio, per i discepoli di Gesù è una vocazione: "E disse loro: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura" (Marco 16:15).
  Ma questo non è avvenuto, e l'ex gruppo messianico trasformatosi in quell'istituzione politica chiamata "Chiesa", dopo aver raggiunto una sufficiente distanza non solo da Israele ma anche dall'originario messaggio di Gesù, sentì il bisogno di avere un centro politico territoriale che ne esprimesse il carattere imperiale, consono alla sua pretesa missione. Questo centro naturalmente non poteva essere Gerusalemme, troppo vicina alla storia degli ebrei e, soprattutto, troppo vicina al Gesù del Vangelo da cui aveva preso le distanze. Al momento opportuno si presentò l'occasione adatta: l'impero romano in dissoluzione. Così la Chiesa istituzionale, invece di disperdersi tra le genti assegnò a Roma il posto di centro della cristianità e di tutto il mondo.
  La predicazione del Vangelo, che avrebbe dovuto continuare ad avvenire in diaspora, si alterò al punto da far pensare che il compito dei discepoli di Gesù fosse quello di lavorare alla costruzione e allo sviluppo del "centro", da cui avrebbe dovuto irradiarsi in tutto il mondo la civiltà cristiana ben organizzata in tutte le sue stratificazioni. E naturalmente al centro di questo centro avrebbe dovuto esserci "Uno" che rappresentasse nella sua persona il Sovrano temporaneamente assente. Lo chiameranno "Papa", e ce n'è ancora uno in circolazione.

Le parole del Vangelo portano frutto in diaspora
  Tuttavia, nonostante le zizzanie seminate dall'Avversario nel campo del mondo affinché le piante cattive si mescolassero con quelle buone, il seme della parola del Vangelo ha continuato ad essere accolto dagli uomini, e dove ciò è davvero avvenuto non sono sorte imponenti basiliche, e duomi, e cattedrali, e monasteri, ma sono spuntati gruppi più o meno grandi di persone che si sono ritrovate insieme "nel nome di Gesù". In certi tempi e in certi luoghi questo potrebbe essere avvenuto anche all'ombra di qualche duomo, ma in ogni caso non era il duomo ad essere importante, ma le persone che si radunavano nel nome di Gesù. Perché Gesù l'aveva detto: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro" (Matteo 18:20). Come si vede, le cattedrali a questo scopo non servono.
  Abbiamo cominciato col dire che l'ebraismo ha un centro territoriale: Gerusalemme. Adesso aggiungiamo che il cristianesimo autentico non ne ha. Non avrebbe mai dovuto esistere un centro cristiano territoriale, ad imitazione e in sostituzione del centro ebraico. I discepoli di Gesù sono chiamati a vivere in diaspora, come sono stati gli ebrei per tanti secoli, anche se in forma e posizione diverse. Storicamente è avvenuto che l'ebraismo ha perso il centro e il cristianesimo se ne è costruito uno. Il "cristianesimo accentrato" è espresso in forma esemplare dalla CCR (Chiesa Cattolica Romana), che ben rappresenta l'albero della parabola in cui si vengono a rifugiare farabutti di ogni tipo, come agevolmente si può vedere anche in questi giorni.
  Quanto agli evangelici, certamente anche tra di loro si trova di tutto, nel bene e nel male, ma la loro posizione nel mondo è fondamentalmente diversa da quella cattolica. Le dottrine e i comportamenti possono essere diversi, ma non esiste né si ricerca un centro territoriale. E' un "cristianesimo diasporico" che ha un solo Centro: Gesù, che ora siede in cielo alla destra di Dio, è presente in mezzo ai suoi nella persona dello Spirito Santo, e un giorno tornerà sulla terra per completare la sua missione. E quando ciò avverrà, al centro del mondo ci sarà Israele, con capitale Gerusalemme, non lo Stato del Vaticano, con al centro la Basilica di San Pietro.

(Notizie su Israele, 8 maggio 2025)

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«Una crudele montagna russa che non si ferma mai»

Le famiglie degli ostaggi non cercano solidarietà e sostegno solo in Israele. In Franconia, il padre di Nimrod Cohen partecipa a una tavola rotonda.

di Lena Prytula

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Inna Volovik, Jehuda Golan e Yonatan Amrani alla serata di discussione della DIG a Fürth

FÜRTH (Germania) – Nimrod Cohen è ostaggio del gruppo terroristico Hamas dal 7 ottobre 2023. Martedì suo padre Jehuda Cohn ha parlato a Fürth, nella Franconia centrale, del destino di suo figlio. L'incontro, dal titolo “Una crudele montagna russa che non si ferma mai”, è stato organizzato dalla Società Tedesco-Israelita di Norimberga-Franconia Centrale nei locali della Comunità Ebraica.
  Jehuda Cohen, che sedeva sul podio insieme a Jonatan Amrani e Inna Volovik, ha offerto ai presenti una visione intensa e profondamente personale della vita della sua famiglia da quel giorno nero. La serata non è stata espressamente un forum politico, ma piuttosto uno spazio di ascolto e di empatia. La conversazione si è svolta in inglese e tradotta in tedesco per consentire a tutti gli ospiti di partecipare.
  Nimrod Cohen era nell'esercito israeliano da dieci mesi e aveva appena finito la scuola. La mattina del 7 ottobre 2023, la sua famiglia è stata svegliata alle 6:30 dalle sirene. Nimrod era di stanza al confine con Gaza. Jehuda Cohen ha raccontato di aver cercato disperatamente di contattare suo figlio, ma invano. Ore dopo, ha trovato dei video di Hamas su YouTube e ha riconosciuto suo figlio: Nimrod giaceva a terra e veniva trascinato via da un terrorista, unico sopravvissuto dell'equipaggio del suo carro armato.
  Solo un giorno e mezzo dopo, l'esercito ha informato ufficialmente la famiglia del rapimento. Da allora, i Cohen lottano instancabilmente per il suo rilascio. Jehuda Cohen si è già recato cinque volte negli Stati Uniti per attirare l'attenzione internazionale sugli ostaggi. Da allora, la famiglia vive in uno stato di emergenza. La madre Vicky è attualmente inabile al lavoro, Jehuda lavora da casa come ingegnere algoritmico. Anche i fratelli di Nimrod stanno soffrendo molto per la situazione: sua sorella gemella Romy è ora lei stessa nell'esercito, mentre il fratello maggiore era in missione di guerra.

Momento commovente per i familiari
  Particolarmente commovente per il pubblico è stato il momento in cui Jehuda Cohen ha raccontato che la sua famiglia aveva sentito Nimrod per l'ultima volta durante Simchat Torah. Per due mesi non hanno avuto alcuna notizia. Ma grazie alle testimonianze di ostaggi liberati di recente, sanno che Nimrod è vivo. Questi sopravvissuti avevano vissuto con lui nello stesso tunnel. Anche in un video pubblicato a gennaio, i suoi genitori sono riusciti a riconoscerlo nonostante il pixelato grazie al suo tatuaggio. Il cubo di Rubik che portava sempre con sé è diventato per la famiglia il simbolo della sua volontà di sopravvivere.
  Jehuda ha sottolineato più volte che la sopravvivenza degli ostaggi dipende in gran parte da chi li tiene prigionieri, ma che c'è speranza perché Nimrod è giovane e in buona salute. Allo stesso tempo, ha chiarito che solo un accordo globale può salvare gli ostaggi rimasti: le tregue temporanee non sono una soluzione. Il governo israeliano, ha affermato Cohen, ha la responsabilità della vita degli ostaggi ancora in vita, tra cui suo figlio. “Durante la Shoah non c'era uno Stato che potesse proteggerci. Oggi c'è, quindi deve agire”, ha esortato.
  Al termine dell'evento è stata recitata una preghiera comune per i soldati, un'espressione silenziosa ma potente di solidarietà e speranza.
  La serata ha lasciato un segno indelebile nel pubblico. Le parole di Jehuda Cohen, improntate a profondo dolore, speranza incrollabile e determinazione combattiva, hanno chiarito che dietro ogni ostaggio c'è una famiglia, e ogni famiglia merita certezza, giustizia e il ritorno dei propri cari.

(Israelnetz, 8 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Cinque anni dopo la Conferenza di San Remo che riconobbe il diritto del popolo ebraico a ricostituire il proprio Stato nazionale in Eretz Israel

Dal 19 al 26 aprile 1920, una conferenza internazionale si riunì a San Remo, sulla Riviera italiana, per decidere il futuro dei territori dell'ex Impero ottomano. Vi parteciparono i primi ministri di Gran Bretagna, Francia e Italia e i rappresentanti di Giappone, Grecia e Belgio.

di Yossi Lempkowicz

A 105 anni dalla conferenza, il direttore fondatore della European Coalition for Israel (ECI) Tomas Sandell ha definito la storia moderna di Sanremo (ortografia odierna) “un dramma in quattro atti” durante un evento organizzato la scorsa settimana al Grand Hotel des Anglais di Sanremo. L'evento è stato co-ospitato dall'Associazione Italia-Israele Savona e dall'Associazione Italia-Israele Ventimiglia Sanremo International.
  “Esattamente 105 anni fa, proprio qui è stata firmata la Risoluzione di San Remo che prometteva una patria nazionale per il popolo ebraico in Palestina, aprendo così la strada alla rinascita dello Stato ebraico nel 1948”, ha ricordato.
  “Ma ogni storia ha un capitolo oscuro e Sanremo non fa eccezione”, ha aggiunto.
  Durante la seconda guerra mondiale, mentre milioni di ebrei venivano sterminati nei campi di concentramento nazisti, il quartier generale regionale delle SS era situato a Villa Devachan, lo stesso edificio dove meno di venticinque anni prima si era tenuta la Conferenza di Pace. Oggi la villa è più nota per la tortura e l'esecuzione di 14 partigiani italiani da parte dei nazisti che per il suo ruolo nella Conferenza di Pace.
  Dopo la guerra, molti degli ebrei sopravvissuti alla Shoah cercarono disperatamente un rifugio sicuro in Palestina. Le prime navi che trasportarono i sopravvissuti ebrei dall'Europa alla Palestina salparono dai porti della Liguria, da La Spezia e Savona, non lontano da Sanremo, e migliaia di sopravvissuti trovarono rifugio in quello che nel 1948 sarebbe diventato il moderno Stato di Israele.
  “Il quarto atto di questa storia di redenzione inizia ora, mentre stiamo cercando di creare un sito storico permanente e un centro educativo qui a Sanremo”, ha spiegato Tomas Sandell.
  Mentre l'Israele moderno è oggi accusato di appropriazione di terre e colonialismo, ciò che accadde qui a Sanremo nel 1920 fu esattamente l'opposto, poiché il riconoscimento dei diritti del popolo ebraico a ricostituire la propria patria nazionale in Eretz Israel dopo oltre 1800 anni di esilio fu sancito dal diritto internazionale.
  Questo fu di fatto l'inizio del processo di decolonizzazione, poiché illustrava il nuovo principio dell'autodeterminazione nazionale invocato dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson alla Conferenza di pace di Parigi del 1919.
  Mentre la maggior parte delle altre aree di mandato istituite nel 1920, che in seguito hanno dato vita a Stati sovrani come la Siria, il Libano e l'Iraq, hanno attraversato gravi crisi e oggi possono essere considerate Stati falliti, il moderno Stato di Israele è una democrazia vivace con un'economia dinamica, nonostante debba affrontare sette fronti di gruppi terroristici e vicini ostili.
  La Conferenza di pace di San Remo è stata unica nel suo genere in quanto ha riunito delegazioni ebraiche e arabe per discutere di un futuro comune in Medio Oriente. “In questo momento cruciale della storia mondiale, sono necessari altri incontri di questo tipo per creare un futuro di pace in Medio Oriente”, ha affermato Sandell.

(European Jewish Press, 4 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Che dire? Per anni “Notizie su Israele” ha fatto riferimento in diverse occasioni e sotto diversi aspetti a questa storica conferenza. Indichiamo soltanto una pagina di quindici anni fa, in cui un articolo dal titolo La risoluzione di San Remo dell'aprile 1920 viene presentato come “Il giorno in cui nacque lo Stato d’Israele”. Buona lettura.

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Antisemitismo a livelli record nei sette paesi con le comunità ebraiche più grandi fuori da Israele

di Maia Principe

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Manifestanti norvegesi a Varsavia il 21 ottobre 2023 in una manifestazione pro-Hamas.

Il primo Rapporto annuale J7 sull’antisemitismo descrive come dal 2021 al 2023 gli episodi di antisemitismo siano aumentati dell’11% in Australia, del 23% in Argentina, del 75% in Germania, dell’82% nel Regno Unito, dell’83% in Canada, del 185% in Francia e del 227% negli Stati Uniti. 
Le sette più grandi comunità ebraiche al di fuori di Israele hanno registrato picchi record di attività antisemite negli ultimi anni, in gran parte guidati da un’ondata di odio antiebraico all’indomani del lancio della guerra contro Israele da parte di Hamas il 7 ottobre 2023, secondo un nuovo rapporto pubblicato in coincidenza con l’80° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto.
Mercoledì scorso, la Task Force delle grandi comunità J7 contro l’antisemitismo – una coalizione di organizzazioni ebraiche in Argentina, Australia, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti nata in risposta ai crescenti tassi di antisemitismo nel mondo – ha pubblicato il suo primo Rapporto annuale J7 sull’antisemitismo alla vigilia della Giornata della Vittoria in Europa (V-E), quando la Germania nazista si arrese formalmente alle forze alleate l’8 maggio.
Confermando i risultati di altre ricerche recenti, il rapporto descrive come dal 2021 al 2023 gli episodi di antisemitismo siano aumentati dell’11% in Australia, del 23% in Argentina, del 75% in Germania, dell’82% nel Regno Unito, dell‘83% in Canada, del 185% in Francia e del 227% negli Stati Uniti. I dati hanno mostrato anche un aumento su base pro-capite, notando che la Germania ha registrato più di 38 incidenti ogni 1.000 ebrei, mentre il Regno Unito ne ha registrati 13 ogni 1.000.
Tra le tendenze comuni individuate dalle sette comunità vi sono gli aumenti degli episodi di violenza, i ripetuti attacchi alle istituzioni ebraiche, l’aumento dei discorsi d’odio online e la crescente paura degli ebrei, che spesso li spinge a nascondere la propria identità ebraica.

Il picco dopo il 7 ottobre 2023
  Il numero di episodi di antisemitismo in tutti e sette i Paesi è salito a livelli record dopo l’invasione e il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas nel sud di Israele e la conseguente guerra a Gaza.
Diverse organizzazioni di ciascuno dei sette Paesi hanno redatto le varie sezioni del rapporto che evidenziano l’aumento dell’astio antiebraico.
Il Board of Deputies of British Jews ha scritto la sezione dedicata al Regno Unito, illustrando i risultati del Community Security Trust (CST), un ente di beneficenza senza scopo di lucro che fornisce consulenza alla comunità ebraica britannica in materia di sicurezza. Il CST ha registrato 3.528 episodi di antisemitismo nel 2024, il secondo anno peggiore per l’antisemitismo nel Paese, con un calo del 18% rispetto ai 4.296 del 2023. Questi incidenti includevano 201 aggressioni fisiche, 157 casi di danni a proprietà ebraiche e 250 minacce dirette.
Il rapporto ha anche rilevato che i sondaggi suggeriscono che “circa 6,7 milioni di persone nel Regno Unito ‘nutrono elevati livelli di atteggiamenti antisemiti’, all’incirca la popolazione di Londra, la capitale e la città più popolata del Regno Unito”. Il gruppo ha inoltre espresso preoccupazione per “l’aumento di deepfakes generati dall’IA che ritraggono individui ebrei utilizzando stereotipi dannosi e inserendo simboli di odio in immagini altrimenti innocue”.
“Dobbiamo insistere sulla tolleranza zero nei confronti dell’antisemitismo e fare in modo che questo messaggio arrivi ai legislatori, ovunque viviamo“, ha dichiarato Phil Rosenberg, presidente del Board of Deputies”.

Canada
  Per la sezione canadese, il Center for Israel and Jewish Affairs (CIJA) ha fornito le informazioni e l’analisi. Il gruppo ha riferito che la comunità ebraica “è stata facilmente la minoranza religiosa più bersagliata, rappresentando circa il 70% dei crimini d’odio a sfondo religioso (con 900 crimini d’odio totali contro gli ebrei registrati). I crimini d’odio contro gli ebrei sono aumentati del 71% dal 2022 al 2023 e del 172% in totale dal 2020”.
Anche la polizia di Toronto ha contato 164 crimini d’odio contro gli ebrei nell’ottobre 2024, con un aumento del 74,5% rispetto alle statistiche del 2023.
La CIJA ha anche sottolineato l’aumento degli atteggiamenti antisemiti tra alcuni gruppi, in particolare tra gli studenti universitari (con il 26% che ha opinioni antisemite) e i musulmani (52%). Un ulteriore sondaggio ha mostrato che questi numeri si riflettono nei sentimenti degli ebrei canadesi, il 98% dei quali afferma che l’antisemitismo è un problema grave o quasi grave e l’82% che afferma che il Paese è diventato meno sicuro per gli ebrei dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre contro Israele guidati da Hamas.
“Dal 7 ottobre, il Canada ha subito un‘ondata di attacchi antisemiti: scuole ebraiche colpite, sinagoghe incendiate, attività commerciali di proprietà ebraica vandalizzate e quartieri presi di mira”, ha dichiarato il presidente ad interim della CIJA Noah Shack. Sulla scia delle elezioni federali della scorsa settimana, ci aspettiamo chiaramente che il prossimo Parlamento si muova con urgenza per proporre soluzioni serie e d’impatto per combattere l’odio e proteggere i canadesi ebrei”. La posta in gioco non è solo la sicurezza e il benessere della nostra comunità, ma il futuro di un Canada in cui tutti possano vivere liberi dalla paura e dalla discriminazione”.

Francia
  La sezione del rapporto dedicata alla Francia, a cui ha contribuito il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (CRIF), afferma che la “Palestina” è comparsa nel 30% degli atti antisemiti dello scorso anno nel Paese. Anche nelle scuole si è registrata un’impennata di incidenti, con un balzo a 1.670 nell’anno scolastico 2023-2024, rispetto ai 400 dell’anno precedente. Tra i crimini d’odio specifici evidenziati nel rapporto vi sono l’aggressione e lo stupro di una ragazzina ebrea di 12 anni, i cui aggressori hanno citato le sue “parole cattive sulla Palestina” per giustificare la loro crudeltà.
Uno studio del CRIF del novembre 2024 che esaminava gli atteggiamenti antisemiti del pubblico ha rilevato che il 46% dei francesi credeva ad almeno sei stereotipi antisemiti. Il CRIF ha dichiarato nel rapporto che “in Francia, l’estrema sinistra strumentalizza l’antisemitismo come strumento politico, mentre l’estrema destra strumentalizza la lotta all’antisemitismo come strumento politico”.
“Quello a cui stiamo assistendo non è solo un aumento statistico, ma un segnale d’allarme per la società”, ha dichiarato il presidente del CRIF Yonathan Arfi. “Questa non è una crisi per la comunità ebraica, è un test per le nostre democrazie. L’escalation di discorsi di odio, minacce e aggressioni fisiche contro gli ebrei in tutto il mondo ci ricorda perché la cooperazione internazionale, come quella del J7, è più vitale che mai”.

Germania
  Il Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania ha fornito i fatti e le analisi per la propria nazione. Sebbene il governo non abbia ancora pubblicato le statistiche sui crimini d’odio del 2024, il gruppo ha affermato che “ci sono stati anche più di 5.000 crimini denunciati dalla polizia tedesca in relazione alla guerra tra Israele e Hamas che non sono stati etichettati come motivati dall’antisemitismo”. Il gruppo ha citato uno studio del gennaio 2025 che ha mostrato che circa il 40% dei tedeschi tra i 18 e i 29 anni non sapeva che i nazisti avevano sterminato 6 milioni di ebrei.
“Il 7 ottobre 2023 ha accelerato in modo massiccio uno sviluppo che era già incombente. Gli ebrei in Germania sono minacciati. Si è formato un fronte che attraversa la sinistra e la destra, dagli islamisti al centro della società”, ha dichiarato in un comunicato il dottor Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania. “Questa coalizione mette in discussione l’autoevidenza della vita ebraica di oggi e la cultura della memoria della Germania. Questi sviluppi si sovrappongono e si influenzano reciprocamente online e offline. Stiamo assistendo a sviluppi simili in tutti i Paesi del J7 e sono lieto che esista questa forte task force”.

Argentina
  La Delegazione delle Associazioni Israelite Argentine (DAIA) ha spiegato la situazione degli ebrei in Argentina, dove non sono ancora stati pubblicati i dati sui crimini d’odio del 2024. Il gruppo ha fatto riferimento al Global 100: Index of Antisemitism 2024 della Anti-Defamation League, che ha mostrato che il 39% degli argentini (12,8 milioni) ha abbracciato sei o più stereotipi sugli ebrei e che il 60% crede che un piccolo gruppo controlli il mondo.
Il DAIA ha anche descritto come “il panorama politico argentino si è modificato in modo significativo con l’elezione del Presidente Javier Milei alla fine del 2023. L’allineamento della sua amministrazione con gli Stati Uniti e il sostegno a Israele hanno portato a un aumento della retorica antisemita e cospiratoria, che si è intrecciata con narrazioni geopolitiche più ampie”.
Il presidente del DAIA, Mauro Berenstein, ha dichiarato che “in Argentina vediamo con preoccupazione l’aumento esponenziale dell’antisemitismo, in ambienti educativi, accademici e professionali, dove molte persone, con la scusa del pensiero critico o di una giusta causa, riproducono pregiudizi secolari. I social media hanno amplificato queste narrazioni. Ciò che una volta veniva sussurrato ora diventa virale in pochi secondi. Pertanto, più che mai, la memoria e l’educazione non sono solo strumenti del passato: sono un dovere del presente e una speranza per il futuro”.

Australia
  In Australia, il 64% degli ebrei ha definito l’antisemitismo un grosso problema nel Paese, con un aumento di dieci volte rispetto al 2017.
“Questo rapporto presenta l’analisi più completa del fenomeno dell’antisemitismo nel mondo occidentale dopo il 7 ottobre”, ha dichiarato Alex Ryvchin, co-CEO dell’Executive Council of Australian Jewry. “Tutte le nostre comunità sono state colpite da questo fenomeno, ma la situazione in Australia presenta una rappresentazione particolarmente sconcertante di come società multiculturali sane possano essere catturate da reti di estremisti che riescono ad alterare radicalmente le relazioni tra ebrei e non ebrei e a far sì che la comunità ebraica si interroghi sul proprio futuro in un Paese in cui le sue radici sono profonde e il suo contributo è stato profondo”.
Ryvchin ha affermato che la recente esperienza del suo Paese ha dimostrato che “quando l’antisemitismo non viene affrontato con sufficiente forza dalle forze dell’ordine, dalla legge e dalla leadership politica, può degenerare in una violenza devastante e può attirare gli elementi più feroci della società, dai fanatici religiosi e ideologici alla criminalità organizzata”. L’importanza e il valore di questo rapporto testimoniano il lavoro dell’ADL [Anti-Defamation League] nel convocare il J7 e la straordinaria cooperazione tra le comunità che ne fanno parte”.

(Bet Magazine Mosaico, 8 maggio 2025)

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Gaza. L’ONU rifiuta il piano di aiuti umanitari Israele-USA perché non coinvolge Hamas

di Luca Spizzichino

Israele e Stati Uniti stanno cercando di convincere le Nazioni Unite ad aderire a un nuovo meccanismo per la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Secondo quanto riferito da fonti diplomatiche israeliane e occidentali al Jerusalem Post, il piano – già approvato dal gabinetto di sicurezza israeliano – prevede l’istituzione di centri di distribuzione sotto il controllo diretto dell’IDF, in cui gli aiuti saranno consegnati direttamente alla popolazione civile, aggirando il sistema attuale dei convogli umanitari. Un sistema che si è rivelato estremamente vulnerabile, poiché frequentemente intercettato, saccheggiato e manipolato da Hamas.
  I convogli umanitari gestiti dalle ONG internazionali infatti, se non adeguatamente scortati, diventano bottino facile per i terroristi: vengono fermati, svuotati e il loro contenuto redistribuito ai membri di Hamas o rivenduto, rafforzando un’economia criminale parallela, mentre i civili continuano a soffrire la fame.
  Per questo motivo, la proposta israelo-americana di centri sicuri gestiti direttamente dall’IDF non solo è pragmatica, ma è l’unica opzione realistica per garantire che gli aiuti arrivino davvero a chi ne ha bisogno. Il nuovo piano è stato illustrato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dall’inviato speciale americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff. Secondo il sito Axios, l’amministrazione Trump sta esercitando forti pressioni diplomatiche affinché il meccanismo venga non solo approvato, ma anche finanziato e legittimato attraverso il coinvolgimento diretto delle Nazioni Unite. Alcuni funzionari statunitensi hanno addirittura ipotizzato la creazione di un’amministrazione transitoria di Gaza sotto guida americana, simile all’Autorità Provvisoria della Coalizione istituita in Iraq nel 2003.
  Nonostante ciò, l’ONU e alcune ONG internazionali hanno respinto la proposta, sostenendo che questa comprometterebbe i principi di neutralità e indipendenza dell’aiuto umanitario, come se, secondo le Nazioni Unite, Hamas debba avere un ruolo nel piano, per renderlo legittimo. Il portavoce dell’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), Jens Laerke, ha accusato Washington e Gerusalemme di voler “strumentalizzare gli aiuti”, affermando che “devono essere forniti in base al bisogno, non utilizzati come leva politica”. Una posizione che molti analisti definiscono ideologica e scollegata dalla realtà sul campo. La cosiddetta neutralità delle agenzie ONU, infatti, ha spesso prodotto una gestione inefficace degli aiuti – e in alcuni casi apertamente collusa con Hamas. Le accuse non sono infondate, ma supportate da numerose inchieste giornalistiche, testimonianze di civili e rapporti dei servizi di sicurezza israeliani. Decine di dipendenti dell’UNRWA sono risultati essere membri attivi di Hamas, alcuni dei quali coinvolti direttamente nel massacro del 7 ottobre. Di fronte a queste evidenze, continuare a parlare di “neutralità” delle Nazioni Unite appare non solo fuori luogo, ma quasi offensivo per le vittime e per chi opera davvero nell’assistenza umanitaria.
  Il Presidente Donald Trump, intervenendo sul tema, ha dichiarato che “aiuterà i civili di Gaza a ricevere cibo” e ha annunciato che, durante il suo prossimo viaggio in Medio Oriente, potrebbe rendere nota una “decisione molto importante” sul futuro politico e umanitario della Striscia.

(Shalom, 8 maggio 2025)

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Israele – Dialogo nell’ombra con Damasco, ma preoccupano le mosse dell’alleato Trump

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Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz in visita, nel dicembre 2024, sulle alture del Golan

Non ci sarà un riconoscimento reciproco né un trattato di pace in tempi brevi, ma Gerusalemme e Damasco, nonostante gli scontri, si parlano. Secondo Reuters, i due paesi hanno aperto un canale riservato di comunicazione mediato dagli Emirati Arabi Uniti. I colloqui – confermati a Reuters da fonti della sicurezza siriana, dell’intelligence regionale e da un funzionario coinvolto direttamente – si svolgono da aprile lontano dai riflettori, lontano anche dalla diplomazia ufficiale.
  Il contesto non potrebbe essere più teso. Proprio mentre si apriva il canale attraverso Abu Dhabi, l’aeronautica israeliana colpiva obiettivi militari a Damasco. Uno degli attacchi ha sfiorato di recente il palazzo presidenziale: 500 metri appena dalla residenza del presidente Ahmed al-Sharaa, già noto come Abu Mohammad al Jolani. Non ci sono state vittime, ma il messaggio era chiaro. Come chiaro è il segnale lanciato da Israele alla nuova dirigenza siriana: la protezione della minoranza drusa, in Siria come sul Golan, resta una linea non negoziabile.
  Il legame tra la comunità drusa e lo stato ebraico è profondo. Dopo i massacri dei giorni scorsi in Siria– scoppiati in seguito a scontri settari nella regione di Suweida – centinaia di drusi israeliani hanno bloccato strade nel nord del paese, chiedendo un intervento immediato a sostegno dei fratelli oltre confine.
  In questo clima, sorprende la disponibilità di Damasco al dialogo. Ma il nuovo presidente, un ex jihadista che oggi si propone come leader pragmatico, ha più volte dichiarato che la Siria non sarà mai una minaccia per Israele, sottolinea ynet. Lo ha messo nero su bianco in una lettera al Dipartimento di Stato americano, in cui si impegna a «non permettere che la Siria diventi fonte di pericolo per nessuno, incluso Israele». Una presa di posizione a cui è seguito l’arresto di due membri della Jihad Islamica legati agli attacchi del 7 ottobre 2023.
  Il canale attivato dagli Emirati, spiega Reuters, si concentra per ora su temi di sicurezza e terrorismo, lasciando fuori le operazioni dell’esercito sul territorio siriano. Non è escluso, però, che si allarghi ad altri dossier. «Non ci sono limiti agli argomenti che potranno essere discussi», ha spiegato una fonte a conoscenza diretta delle conversazioni.
  Se con Damasco si lavora nell’ombra, l’annuncio sotto i riflettori del presidente Usa Donald Trump sugli Huthi ha colto di sorpresa Gerusalemme, scrivono i media israeliani. Nessun preavviso, nessun coordinamento: Trump ha dichiarato la fine immediata dei bombardamenti americani contro le postazioni dei ribelli yemeniti. «Hanno detto che non vogliono combattere, e noi ci fidiamo», ha affermato il presidente Usa. Dichiarazioni accolte con freddezza a Gerusalemme. Fonti della sicurezza, riporta il quotidiano Israel Hayom, temono che il passo Usa venga interpretato come un segnale di debolezza. Gli Huthi, armati da Teheran, mantengono intatta la loro capacità offensiva e promettono di colpire ancora lo stato ebraico.
  A preoccupare Israele, rileva il sito ynet, è però il quadro più ampio. La politica estera americana, scrive l’analista Itamar Eichner, sembra sempre più plasmata dall’ala isolazionista dell’amministrazione incarnata da J.D. Vance, vicepresidente, e da Donald Trump Jr., entrambi sostenitori di una linea “America First” per ridurre l’impegno militare all’estero. Un approccio che ridimensiona le alleanze tradizionali e guarda con distacco alla minaccia iraniana.
  L’allontanamento di figure come Mike Waltz, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, considerato vicino al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e favorevole a un’azione congiunta contro Teheran, ha rafforzato questa tendenza. Per Israele, avverte Eichner, il rischio è duplice: perdere influenza a Washington e trovarsi esposto alla minaccia dell’Iran e dei suoi alleati regionali. D’altra parte, l’asse sciita guidato da Teheran si trova oggi in difficoltà: l’economia iraniana è stremata dalle sanzioni, il malcontento interno cresce e la sua rete di alleati regionali è sotto pressione.

(moked, 7 maggio 2025)

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La popolazione supera i dieci milioni

Per la prima volta Israele supera i dieci milioni di abitanti. Il giovane Stato gode di una popolazione giovane.

GERUSALEMME – In Israele vivono 10,1 milioni di abitanti. Ciò corrisponde a una crescita di 12 volte rispetto alla fondazione dello Stato nel 1948, quando la popolazione era di 800.000 persone, come ha reso noto l'Ufficio centrale di statistica in occasione della Festa dell'Indipendenza israeliana. I dati attuali si riferiscono quindi al periodo compreso tra aprile 2024 e aprile 2025. Il traguardo dei 10 milioni è stato superato già alla fine del 2024.
 L'aumento dall'aprile 2024 è pari a 135.000 cittadini, ovvero l'1,4%. Nel periodo di riferimento dall'aprile 2023 all'aprile 2024, l'aumento è stato leggermente superiore, pari all'1,9%. In entrambi i periodi, tuttavia, la popolazione israeliana è cresciuta in modo relativamente rapido: secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2023 la popolazione mondiale è cresciuta solo dello 0,9%, raggiungendo gli otto miliardi.
  Ad aprile 2025, la maggioranza della popolazione era costituita da ebrei e “altri” con 7,7 milioni di persone. Questa nuova categoria comprende anche i cristiani non arabi che vivono nel Paese e le persone senza appartenenza etnica o religiosa. Si tratta per lo più di persone che hanno lo status di residenti perché hanno un nonno ebreo o un coniuge israeliano. Questo gruppo costituisce il 77,6% della popolazione.
  La seconda categoria più numerosa era costituita da 2,1 milioni di musulmani, cristiani arabi e drusi. Ciò corrisponde al 20,9% della popolazione, ovvero un buon quinto. Nessuna delle due categorie comprende 250.000 persone, pari al 2,5% della popolazione. Tra queste figurano studenti stranieri e lavoratori stranieri, nonché rifugiati senza permesso di soggiorno.
  La maggior parte degli israeliani è soddisfatta della propria situazione sociale ed economica. Il 67% è soddisfatto o molto soddisfatto della propria situazione economica, l'83% ritiene che la propria salute sia buona o molto buona, il 96% è soddisfatto o molto soddisfatto dei propri rapporti familiari e il 91% lo è della propria vita in generale.

Popolazione giovane e calo dell'aliyah

Illustrazione dell'andamento demografico in Israele
Nel periodo di riferimento sono nati 174.000 bambini, sono immigrate 28.000 persone e sono morti 50.000 israeliani. Anche nella primavera del 2025 Israele continua a godere di una popolazione relativamente giovane: il 27% ha meno di 18 anni e solo il 13% ha almeno 65 anni. Ciò è dovuto principalmente all'alto tasso di natalità tra i religiosi e i beduini. Sebbene Israele abbia una delle popolazioni più giovani rispetto ad altri paesi ricchi, il numero assoluto di anziani è in aumento a causa dell'aumento dell'aspettativa di vita.
Dal 1948, un totale di 3,5 milioni di persone sono immigrate in Israele. Il 47,6% di loro è arrivato dopo il 1990, nell'ambito dell'ondata di emigrazione ebraica seguita al crollo dell'Unione Sovietica. L'80% degli ebrei che vivono in Israele sono nati nel Paese.
L'immigrazione ebraica in Israele è diminuita del 24% tra aprile 2024 e aprile 2025, secondo quanto dichiarato dal Ministero dell'Aliyah e dell'Integrazione. Mentre nel periodo di riferimento 2023-2024 sono immigrati 34.610 ebrei, nel periodo 2024-2025 sono stati solo 26.211. Con un numero di 14.398, la maggior parte di loro proveniva dalla Russia. I paesi di provenienza più importanti dopo la Russia sono stati gli Stati Uniti con 3.185 immigrati e la Francia con 2.253. 56.000 israeliani vivono all'estero, con una tendenza in calo.
Confrontando gli anni solari 2023 e 2024, si registra un calo dell'aliyah dal 7 ottobre 2023 del 30%, da 46.590 a 32.161 olim, nonostante l'aumento dell'antisemitismo in tutto il mondo.
  Il ministro israeliano per l'Aliyah e l'integrazione, Ofir Sofer (sionismo religioso), è comunque fiducioso che la storia di successo dell'Aliyah continuerà: “Anche oggi, 77 anni dopo la fondazione dello Stato e in un momento difficile per la nostra sicurezza, continuiamo a vedere il desiderio di molti ebrei di immigrare, anche durante la guerra, per essere parte della storia sionista. L'immigrazione in questo periodo rafforza la solidarietà di Israele e lo spirito della gente”. (ndr)

(Israelnetz, 7 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Quasi la metà dei gazawi è pronta a chiedere aiuto a Israele per emigrare: lo rivela un sondaggio palestinese

Il sondaggio del Centro palestinese per la ricerca politica ha anche rivelato che il 48% dei gazawi sostiene le manifestazioni anti-Hamas che sono scoppiate in varie parti della Striscia di Gaza, un livello molto più alto rispetto ai palestinesi della Giudea-Samaria, dove solo il 14% è a favore. Si tratta di una rara dimostrazione pubblica di opposizione al gruppo terroristico che regna incontrastato dal 2006.

di Maia Principe

Quasi la metà dei gazawi sarebbe disposta a chiedere a Israele di aiutarli a lasciare la Striscia di Gaza per stabilirsi all’estero, ha rivelato un sondaggio del Centro palestinese per la ricerca politica pubblicato martedì e riportato dall’agenzia di stampa Reuters. Il sondaggio riporta anche un forte sostegno alle manifestazioni anti-Hamas. Lo riporta i24news.
Secondo il sondaggio, condotto tra i palestinesi della Striscia di Gaza e della Giudea-Samaria tra il 1° e il 4 maggio, il 49% degli intervistati si è detto disposto a chiedere aiuto a Israele per emigrare attraverso i porti e gli aeroporti israeliani, rispetto al 50% che ha dichiarato di non essere disposto a farlo.
Sebbene la campagna israeliana, durata 19 mesi, abbia ridotto la maggior parte di Gaza in macerie, molti palestinesi ritengono che andarsene equivarrebbe ad abbandonare la propria casa a Israele. Israele ha promesso di aiutare gli abitanti che desiderano lasciare Gaza, ma ha fatto pochi progressi nel convincere altri Paesi ad accettarli.
Il sondaggio ha anche rivelato che il 48% dei gazawi sostiene le manifestazioni anti-Hamas che sono scoppiate in varie parti della Striscia di Gaza, un livello molto più alto rispetto ai palestinesi della Giudea-Samaria, dove solo il 14% è a favore. Si tratta di una rara dimostrazione pubblica di opposizione al gruppo terroristico che regna incontrastato dal 2006. Tuttavia, il 54% ritiene che le manifestazioni, che Hamas sostiene siano state organizzate dai servizi segreti israeliani, siano state orchestrate da forze esterne e solo il 20% ritiene che riflettano la reale opinione della popolazione.

(Bet Magazine Mosaico, 7 maggio 2025)

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Israele si prepara alle Maccabiadi nonostante il conflitto

di Michelle Zarfati 

Nonostante il clima di tensione e insicurezza, Israele si appresta a ospitare, a partire dall’ 8 luglio, la 22ª edizione delle Maccabiadi, uno degli eventi sportivi più grandi al mondo. Sebbene le ferite ancora aperte del devastante attacco del 7 ottobre e una guerra ancora in corso, il Paese si prepara ad accogliere circa 10.000 atleti da oltre 60 nazioni. “Certo che abbiamo pensato di cancellare l’evento – ha ammesso Amir Gissin, CEO della Maccabi World Union, in un’intervista a The Media Line – ma poi abbiamo capito che le Maccabiadi rappresentano molto di più di un semplice evento sportivo. È un simbolo di speranza, coesione e resilienza”.
  Le Maccabiadi, che si tengono ogni quattro anni, sono definite “le Olimpiadi ebraiche”. Gli atleti ebrei provenienti da ogni parte del mondo – così come israeliani di ogni fede – competono in decine di discipline, dall’atletica al nuoto, dalla ginnastica al calcio. Quest’anno, l’apertura avverrà allo stadio Teddy di Gerusalemme, e sarà seguita da competizioni in tutto il Paese, inclusi Netanya, Haifa e Tel Aviv. “Sappiamo che ci saranno delle difficoltà, ma la sicurezza degli atleti e dei visitatori è la nostra priorità assoluta”, ha assicurato Roy Hessing, CEO dell’evento. “Abbiamo lavorato a stretto contatto con le autorità di sicurezza per predisporre ogni misura necessaria”.
  Gissin ha sottolineato come i Giochi abbiano un impatto ben oltre lo sport. “Per molti giovani ebrei della diaspora, è la prima volta in Israele. Le Maccabiadi sono dunque un ponte tra culture e generazioni, un’esperienza identitaria unica”. Un aspetto particolarmente emozionante quest’anno sarà la partecipazione degli atleti provenienti dalle comunità ebraiche colpite direttamente dall’attacco del 7 ottobre. Tra gli eventi commemorativi previsti, uno sarà dedicato proprio alle vittime del massacro e ai soldati caduti in servizio. Gli organizzatori hanno chiarito che l’edizione 2025 non ignorerà il dolore collettivo, ma lo onorerà. “Ci saranno momenti di silenzio, tributi, e l’accensione di una fiaccola commemorativa. Questo è anche un modo per ricordare chi non è più con noi” ha detto Hessing. Nonostante il clima di incertezza, le registrazioni hanno superato le aspettative. Alcune delegazioni, come quelle da Stati Uniti, Australia e Argentina, porteranno numeri simili – se non superiori – a quelli delle scorse edizioni.
  Anche il presidente americano Donald Trump potrebbe essere tra gli ospiti d’onore delle gare di quest’anno, anche se per ora nulla è confermato. “È ancora presto per annunciare i nomi delle personalità internazionali che parteciperanno – ha spiegato Amir Gissin – ma posso dire che il profilo globale delle Maccabiadi non è mai stato così alto. Riceviamo manifestazioni d’interesse da ogni parte del mondo, quindi posso assicurare che non sarà un evento noioso. La cerimonia d’apertura sarà davvero qualcosa di speciale” . Per gli organizzatori, le Maccabiadi 2025 rappresentano una sfida logistica e simbolica. “Non vogliamo che il messaggio sia ‘nonostante la guerra, stiamo andando avanti’, ma piuttosto proprio a causa della guerra, dobbiamo andare avanti”, ha detto Gissin.

(Shalom, 6 maggio 2025)

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La Convenzione di Ginevra e le mistificazioni in atto

di David Elber

Nello specifico degli aiuti umanitari per la popolazione civile, le norme di diritto internazionale sono incardinate nella IV Convenzione di Ginevra del 1949. Per prima cosa bisogna, però, capire il quadro bellico di riferimento per potere applicare le relative norme legali corrette. L’attuale guerra di Gaza si configura come un assedio. È legale operare un assedio? Si, l’assedio è una legittima forma di guerra disciplinata nella IV Convenzione dell’Aia del 1907 (nella fattispecie nella Sezione II: Delle ostilità; Capitolo I: Dei mezzi di nuocere al nemico, degli assedi e dei bombardamenti). Accertata la piena legittimità dell’assedio, vediamo ora come l’esercito assediante si deve comportare con la popolazione civile assediata relativamente agli aiuti umanitari essenziali che devono essere forniti. La prima considerazione da fare in merito all’assedio è la possibilità di far defluire la popolazione civile dalla zona degli scontri armati. Questo non è avvenuto a Gaza, unicamente, per colpa dell’Egitto che non permette il transito dei civili, per scopi umanitari, dal teatro di guerra. Quindi, chi viola il diritto internazionale è l’Egitto e non Israele che ha chiesto, ripetutamente, l’allontanamento dei civili per evitare loro inutili sofferenze e morti. Oltre all’Egitto chi viola il diritto internazionale è la comunità internazionale, a cominciare dall’ONU, che non obbliga l’Egitto a fare transitare i profughi dalle aree degli scontri militari come succede in tutti i conflitti del mondo.
Il piano annunciato da parte di Israele di una larga offensiva di terra coadiuvata da cielo e mare per conquistare e occupare Gaza, se effettivamente avrà luogo, è l’unica opzione realistica per porre fine al governo del terrore di Hamas che domina la Striscia dal 2007 ad oggi.
Infaticabilmente, qui su L’Informale non ci siamo mai stancati di ripeterlo. Nessuna guerra è mai stata vinta senza la sconfitta del nemico, la sua resa, e la conquista del suo territorio.
Il problema è che questa opzione, fin dall’inizio della guerra, è stata scartata dai comandi militari e da Netanyahu a causa principalmente degli ostaggi, i 254 che erano detenuti nella Striscia. Un attacco massiccio di terra, esteso su tutto il perimetro territoriale ne avrebbe inevitabilmente messo a repentaglio la sopravvivenza. Questo è stato il primo freno. Si è dunque optato per operazioni settoriali, per la segmentazione territoriale con interventi circoscritti zona per zona, atti a bonificarle dalle presenze jihadiste, creando corridoi e zone presiediate in modo da disarticolare l’omogeneità di Hamas, da inficiarne l’operatività. Il secondo freno è stato il commissariamento americano della guerra, attuato immediatamente dall’Amministrazione Biden, esplicitamente ostile a una conquista israeliana del territorio e orientata prioritariamente al negoziato con Hamas per la liberazione degli ostaggi. A tutto ciò si è aggiunta la richiesta pressante da parte di Washington di fornire costantemente aiuti umanitari alla popolazione di Gaza che ha solo permesso a Hamas di restare in sella arricchendosi con il depredamento regolare delle scorte inviate da Israele.
Tutto questo ha comportato il trascinamento della guerra e la situazione attuale che, l’Amministrazione Trump , insediatosi il 20 gennaio scorso, non ha certo migliorato. Trump, infatti, ha continuato a privilegiare la via negoziale con Hamas mediata dal suo principale sponsor regionale, il Qatar, a discapito del raggiungimento della vittoria sul gruppo jihadista. Ancora adesso, mentre si scrivono queste righe, questa è la linea dell’Amministrazione Trump, molto bellicosa a parole, ma poco nei fatti concreti.
Si tratta della linea spinta dal consigliere principale di Trump in merito alla politica estera, il faccendiere Steve Witkoff, per il quale Hamas è un attore come tutti gli altri, ci si può sedere a un tavolo, negoziare, e trovare una intesa ragionevole. Così si crede di potere fare con l’Iran, che mentre arma gli Houti per colpire Israele, sta solo guadagnando tempo come la Russia, senza avere alcuna intenzione di porre fine al suo programma nucleare, e dunque al suo obiettivo di distruggere Israele.
Netanyahu ha capito che su Trump può contare a corrente alterna, e si muove come può, mentre l’annuncio della più larga offensiva a Gaza ha provocato il solito coro di sdegn e disapprovazione internazionale, ma la partita a Gaza va chiusa, mancano solo cinque mesi al secondo anniversario dell’eccidio del 7 ottobre per una guerra che si è protratta troppo a lungo.

(L'informale, 6 maggio 2025)

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Hamas perde pezzi a Rafah: arrestati due leader coinvolti nel massacro del 7 ottobre

Due importanti membri di Hamas sono stati catturati dall’IDF a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza. Si tratta di Yousef Qadi, comandante di plotone direttamente coinvolto nell’attacco del 7 ottobre e nella gestione di diversi ostaggi israeliani, e Mohammad Zaarab, figura di spicco dell’unità cecchini dell’organizzazione terroristica. I due si sono arresi alle truppe della Brigata 188, operante sotto il comando della 36ª Divisione. Al momento della cattura, ha riferito l’esercito israeliano, erano armati di coltelli.
  L’arresto rappresenta un duro colpo alla leadership militare di Hamas e, secondo lo Shin Bet, ha già prodotto “intelligence di grande valore”. Tra le informazioni ottenute figura la posizione di un’importante infrastruttura terroristica nella zona di Rafah, attualmente sotto intensa pressione militare israeliana.
  L’operazione si inserisce nel quadro dell’Operazione “Gideon’s Chariots”, approvata di recente all’unanimità dal Gabinetto di Sicurezza. L’obiettivo è lo smantellamento completo di Hamas e il ritorno a casa degli ostaggi ancora prigionieri nella Striscia di Gaza. Il piano prevede la creazione di una “zona sterile” nella parte meridionale dell’enclave, dove i civili palestinesi saranno sottoposti a controlli da parte delle forze israeliane e riceveranno aiuti umanitari tramite canali monitorati, per evitare che le forniture finiscano sotto il controllo di Hamas.
  “Nel momento in cui ripuliamo un’area da ogni minaccia, rimaniamo lì per assicurarci che il terrorismo non possa ritornare. Questo è il modello Rafah,” ha dichiarato un funzionario israeliano, spiegando che il controllo militare continuerà nei territori liberati.
  L’IDF non ha ancora fornito dettagli sulla tempistica delle prossime fasi dell’operazione, ma fonti vicine alla leadership militare lasciano intendere che incursioni più ampie potrebbero essere imminenti.

(Shalom, 6 maggio 2025)

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Una nuova strategia di Israele contro Hamas

di Ugo Volli

La violenta campagna contro Israele
   Come quando Israele entrò a Rafah, l’anno scorso, la nuova strategia delle forze armate israeliane per Gaza ha suscitato commenti violentissimi dei media italiani. C’è chi ha parlato di “ferocia di Israele” che “nega ai palestinesi il sogno del ritorno” (Malcangi sulla “Stampa”), chi parla di “invasione massiccia” e “occupazione” (Frattini sul “Corriere”). In rete si ripropongono le solite accuse di “genocidio” e volontà di “eliminare i palestinesi”. Naturalmente l’Onu esprime “allarme” e l’Unione Europea si dice “preoccupata”. La realtà è molto diversa e merita di essere spiegata con chiarezza.

La guerra finora
   Il 7 ottobre non è stata un’avventura sanguinosa, un pogrom (un cruento tumulto popolare antisemita) e neppure una semplice anche se ampia e sanguinosissima operazione terroristica. E’ stato l’inizio di una guerra, esplicitamente finalizzata alla distruzione di Israele. Ai terroristi di Gaza si sono uniti poi Hezbollah, gli Houthi, forze in Siria e in Iraq, tutti controllati dall’Iran. Lo Stato ebraico ha risposto con la logica della guerra, ha cioè cercato di scardinare il più possibile l’organizzazione militare dei nemici, badando a salvaguardare la popolazione civile. Ha colpito cioè le concentrazioni dei combattenti terroristi (quando si sono fatti trovare), i depositi d’armi, i centri di comando e controllo (spesso nascosti sotto ospedali, moschee e scuole), i comandanti, i mezzi di collegamento e di rifornimento, i lanciamissili. Ha deciso di farlo soprattutto dall’aria o con mezzi non convenzionali (come i cercapersone minati contro Hezbollah), per evitare di coinvolgere troppo i civili e anche di esporre i propri militari. Bisogna ricordare che Israele è un piccolo paese, che fa fatica a tenere sotto le armi centinaia di migliaia di soldati. E’ necessario anche sapere che in un attacco di terra a una difesa fortificata (com’è il caso di Gaza) il rapporto necessario agli assalitori per prevalere è di almeno cinque o sette a uno. Per questo Israele ha limitato il più possibile le operazioni di terra: sono stati occupati stabilmente solo i bordi di Gaza, per mettere in sicurezza le comunità della “cintura” intorno alla Striscia e impedire il contrabbando d’armi con l’Egitto; e poi uno o due corridoi trasversali a Gaza, in modo da impedire la concentrazione dei nemici e infine fasce poco profonde del territorio di confine di Libano e Siria. Il resto della Striscia è stato investito da veloci operazioni di penetrazione, distruzione dell’infrastruttura nemica e ritiro.

Perché Hamas non si arrende
   Ormai l’esercito israeliano ha distrutto la maggior parte dei comandanti (inclusi i capi supremi), delle armi e delle forze terroriste organizzate, anche se Hamas continua a reclutare fra la popolazione di Gaza che le è complessivamente favorevole. In una guerra normale una condizione del genere porta alla resa e alla pace, perché le forze armate si sentono parte del Paese e vogliono impedire che esso subisca danni ulteriori e inutili. Non è così a Gaza. Le ragioni sono tre. La prima è che ancora i terroristi dispongono di un’arma terribile, i rapiti israeliani. La seconda è che hanno molti appoggi internazionali, quelli militari dell’Iran e degli Houthi e quelli politici di una improbabile ma potentissima coalizione che comprende Russia, Cina, Unione Europea, Onu, sinistre di tutto il mondo. E poi c’è il fatto che i terroristi, anche se hanno organizzato forti formazioni militari, non combattono una guerra tradizionale ma una guerriglia, la cui strategia rifiuta sempre di accettare la sconfitta, perché si sente legata alla propria missione e non al benessere del proprio popolo, e dunque se sopraffatta fugge, si nasconde, colpisce a tradimento, attende di ricostruire le sue forze per riprendere il combattimento frontale.

La fragilità degli Stati democratici
   Oggi la facilità di costruire, nascondere. trasportare missili capaci di colpire la popolazione civile dello stato nemico favorisce questa strategia. Quando poi lo stato nemico è civile, democratico e avanzato come Israele, esso è strutturalmente molto più vulnerabile e il suo dibattito interno può essere sfruttato dai terroristi per paralizzare le forze preponderanti del suo esercito. Un missile vicino all’aeroporto, la minaccia di morte dei rapiti, il lutto per i caduti rischiano di logorare assai di più Israele di quel che costi ai terroristi l’eliminazione dei loro battaglioni. Essi lo sanno benissimo e infatti sono disposti a promettere di riconsegnare i rapiti e a cessare le ostilità solo in cambio dell’abbandono di Gaza da parte dell’esercito israeliano, della loro permanenza nella Striscia con le armi, di un impegno internazionale che garantisca la loro sopravvivenza e la “ricostruzione” (che ovviamente includerebbe quella delle loro fortificazioni sotterranee). Cioè niente meno della loro vittoria: una sconfitta decisiva per Israele, preludio, nella loro strategia, alla sua prossima distruzione.

Gli stivali sul terreno
   Di fronte a questa situazione Israele è costretto a perseguire non la normale sconfitta, ma la distruzione completa di Hamas e degli altri movimenti terroristici di Gaza e deve inoltre trovare il modo di eliminare l’influenza che essi hanno sulla popolazione. Il solo modo di farlo è la presa completa del controllo dell’intera Striscia, non per l’ambizione di impadronirsene (si tratta di una trentina di chilometri di costa, senza risorse particolari o importanza strategica se non perché vi si annidano i terroristi), ma per imporre quella pace che altrimenti non sarebbe possibile. Per farlo colpendo il meno possibile i civili israeliani intende utilizzare la sezione più meridionale di Gaza dove vuole sistemare la popolazione e distribuire i soccorsi necessari in maniera che essi non finiscano in mano ai terroristi, com’è accaduto finora. La maggior parte della Striscia sarà occupata dalla forze armate, stabilmente e non solo con spedizioni occasionali, per tutto il tempo necessario a stanare e distruggere i gruppi terroristi, eliminare del tutto armi, fortificazioni, catene di comando e possibilmente anche riuscendo così a liberare i rapiti che ancora sono in loro possesso. Non è una strategia “crudele”, è la stessa che ha portato gli Alleati a risalire faticosamente l’Italia e a occupare con durissime battaglie tutto il territorio tedesco prima di concludere la Seconda Guerra Mondiale. E’ un modo di combattere che costa molte vite anche all’esercito liberatore, che richiede tempo e sforzi, che certamente metterà in tensione l’economia e anche la politica israeliana. Ma è necessario. Anche se l’aviazione può stabilire un dominio essenziale, solo “gli stivali sul terreno” sono in grado di imporre la pace a un nemico che non si arrende.

(Shalom, 6 maggio 2025)
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L'autore presenta in modo chiaro e convincente la situazione in cui si trova Israele nella sua guerra difensiva contro chi l'ha attaccato con l'intenzione di distruggerlo definitivamente come nazione. I commenti malevoli dei media non fanno che confermare la malafede di chi non vuole rinunciare al gusto morboso di parlar male degli ebrei in veste moralistica. M.C.

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Hamas ha saccheggiato gli aiuti che Israele aveva autorizzato a entrare in Gaza

Abbas conferma che “bande” di Hamas rubano gli aiuti a Gaza. 

“Bande” affiliate al gruppo terroristico Hamas hanno saccheggiato gli aiuti umanitari destinati ai civili nella Striscia di Gaza, ha dichiarato questo fine settimana il leader dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas.
Abbas ha condannato i “saccheggi e i furti perpetrati da bande criminali che prendono di mira i magazzini e le strutture di stoccaggio degli aiuti umanitari” in un comunicato ufficiale pubblicato venerdì dal sito di informazione Wafa dell'Autorità palestinese.
Secondo l'Autorità palestinese, che controlla la maggior parte dei palestinesi in Giudea e Samaria, ma è stata violentemente cacciata da Gaza da Hamas durante un colpo di Stato nel giugno 2007, le “bande affiliate a Hamas” sono le “principali responsabili” del furto.
I palestinesi «non perdoneranno questi atti vergognosi commessi in un momento così critico», ha dichiara Abbas riferendosi alla guerra in corso condotta dalle Forze di Difesa Israeliane contro i terroristi di Hamas nell'enclave costiera.
Ha avvertito che le bande sono “ben note al pubblico palestinese” e sarebbero “in cima alla lista nera per essere ritenute responsabili e tradotte davanti alla giustizia secondo la legge, al momento opportuno”.
Hamas ha saccheggiato almeno il 60% degli aiuti che Israele ha autorizzato ad entrare a Gaza, ha rivelato lo scorso anno l'Agenzia di sicurezza israeliana (Shin Bet). Il 2 marzo, Gerusalemme ha sospeso la consegna degli aiuti a seguito del rifiuto da parte di Hamas di un'altra proposta di tregua per gli ostaggi sostenuta dagli Stati Uniti.
I negoziati di riconciliazione condotti dall'Egitto e dalla Cina tra Fatah, la fazione al potere di Abbas, e Hamas sembrano essere falliti da quando quest'ultima organizzazione terroristica ha annunciato la firma di un accordo a luglio.
Fonti dell'AP avevano precedentemente dichiarato a Sky News Arabia che Hamas aveva approvato un piano in tre fasi che avrebbe portato a una “riconciliazione completa” e all'adesione del gruppo terroristico con base a Gaza all'organizzazione terroristica dell'OLP, che controlla l'AP, nell'ambito di una “visione palestinese-araba unificata”.
Hamas avrebbe dato il via libera alla proposta di Abbas di istituire un governo con l'obiettivo di ricostruire la Striscia di Gaza dopo la guerra scatenata dal massacro terroristico del 7 ottobre 2023.
Tuttavia, il 23 aprile, Abbas ha invitato Hamas a «porre fine al suo controllo su Gaza, a restituire tutti i suoi affari all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e alla legittima Autorità Nazionale Palestinese, ad astenersi dal portare armi, a trasformarsi in un partito politico che opera secondo le leggi dello Stato palestinese e aderisce alla legittimità internazionale».
«La priorità assoluta è porre fine alla guerra di sterminio nella Striscia di Gaza», ha dichiarato l'ottantenne presidente dell'Autorità Palestinese. Abbas ha aggiunto: «Bisogna porvi fine; ogni giorno vengono uccise centinaia di persone. Perché non consegnate gli ostaggi americani? Figli di cani, liberate quelli che tenete prigionieri e mettete fine a questa storia. Basta con le scuse [di Israele]. Smettetela!».
Non è ancora chiaro se Abbas, che non ha ancora condannato pubblicamente gli attentati del 7 ottobre, abbia chiesto la liberazione dei 59 prigionieri rimasti o solo degli americani.
I membri delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, un braccio «militare» del movimento Fatah di Abbas, hanno partecipato agli attentati del 7 ottobre, e l'Autorità palestinese ha ricompensato finanziariamente i terroristi del 7 ottobre attraverso il suo fondo «pagare per uccidere».

(JForum.fr, 6 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Chiudere la partita

di Niram Ferretti

Il piano annunciato da parte di Israele di una larga offensiva di terra coadiuvata da cielo e mare per conquistare e occupare Gaza, se effettivamente avrà luogo, è l’unica opzione realistica per porre fine al governo del terrore di Hamas che domina la Striscia dal 2007 ad oggi.
Infaticabilmente, qui su L’Informale non ci siamo mai stancati di ripeterlo. Nessuna guerra è mai stata vinta senza la sconfitta del nemico, la sua resa, e la conquista del suo territorio.
Il problema è che questa opzione, fin dall’inizio della guerra, è stata scartata dai comandi militari e da Netanyahu a causa principalmente degli ostaggi, i 254 che erano detenuti nella Striscia. Un attacco massiccio di terra, esteso su tutto il perimetro territoriale ne avrebbe inevitabilmente messo a repentaglio la sopravvivenza. Questo è stato il primo freno. Si è dunque optato per operazioni settoriali, per la segmentazione territoriale con interventi circoscritti zona per zona, atti a bonificarle dalle presenze jihadiste, creando corridoi e zone presiediate in modo da disarticolare l’omogeneità di Hamas, da inficiarne l’operatività. Il secondo freno è stato il commissariamento americano della guerra, attuato immediatamente dall’Amministrazione Biden, esplicitamente ostile a una conquista israeliana del territorio e orientata prioritariamente al negoziato con Hamas per la liberazione degli ostaggi. A tutto ciò si è aggiunta la richiesta pressante da parte di Washington di fornire costantemente aiuti umanitari alla popolazione di Gaza che ha solo permesso a Hamas di restare in sella arricchendosi con il depredamento regolare delle scorte inviate da Israele.
Tutto questo ha comportato il trascinamento della guerra e la situazione attuale che, l’Amministrazione Trump, insediatosi il 20 gennaio scorso, non ha certo migliorato. Trump, infatti, ha continuato a privilegiare la via negoziale con Hamas mediata dal suo principale sponsor regionale, il Qatar, a discapito del raggiungimento della vittoria sul gruppo jihadista. Ancora adesso, mentre si scrivono queste righe, questa è la linea dell’Amministrazione Trump, molto bellicosa a parole, ma poco nei fatti concreti.
Si tratta della linea spinta dal consigliere principale di Trump in merito alla politica estera, il faccendiere Steve Witkoff, per il quale Hamas è un attore come tutti gli altri, ci si può sedere a un tavolo, negoziare, e trovare una intesa ragionevole. Così si crede di potere fare con l’Iran, che mentre arma gli Houti per colpire Israele, sta solo guadagnando tempo come la Russia, senza avere alcuna intenzione di porre fine al suo programma nucleare, e dunque al suo obiettivo di distruggere Israele.
Netanyahu ha capito che su Trump può contare a corrente alterna, e si muove come può, mentre l’annuncio della più larga offensiva a Gaza ha provocato il solito coro di sdegno e disapprovazione internazionale, ma la partita a Gaza va chiusa, mancano solo cinque mesi al secondo anniversario dell’eccidio del 7 ottobre per una guerra che si è protratta troppo a lungo.
Di Lorenzo Cremonesi, corrispondente di guerra de Il Corriere della Sera, e indefesso propugnatore del romanzo nero dei “coloni” e delle loro nefandezze ai danni dell’inerme popolazione araba palestinese abbiamo dato conto in tutti questi mesi.
In un articolo pubblicato ieri sul quotidiano di via Solferino, Cremonesi allunga il passo e si accoda a coloro i quali affermano che a Gaza sarebbe in corso un genocidio. “Basta ambiguità, basta sensi di colpa rispetto all’ombra nera dell’Olocausto, basta accettare passivi la minaccia del ricatto onnipresente dell’accusa di antisemitismo”. Cremonesi dice basta, e poi prosegue accusando Netanyahu di volere “espellere-eliminare” la popolazione palestinese dalla Cisgiordania e in seguito tutti gli arabi da Israele. Cremonesi ha letto le carte segrete di questa soluzione finale che appunto prevede l’espulsione di ogni arabo, dunque anche il milione e ottocentomila con regolare passaporto israeliano.
Fare ironia sulle farneticazioni di un reporter forse anche mentalmente provato dalla fatica di scrivere sempre e solo di guerre (Cremonesi, da tre anni racconta anche la guerra in Ucraina), è fin troppo facile. Il problema è un altro, ed è, dall’inizio della guerra voluta da Hamas il 7 ottobre del 2023 dopo lo sterminio, questo sì intenzionale, programmatico, sadico, di 1200 cittadini israeliani, la narrazione della propaganda contro Israele, una macchina mastodontica che si tiene in piedi da sessanta anni, oliata magnificamente, vastissima, radicata.
Questa macchina, come tutte quelle della propaganda, usa per il suo funzionamento solerte e ossessivo una serie di parole privandole del loro senso originario per impiegarle come corpi contundenti. L’accusa di genocidio rivolta a Israele è di vecchio conio. Già nel 1982, quando ci fu la prima guerra del Libano, in una dichiarazione contro Israele, ad usarla fu Enrico Berlinguer. La nazificazione degli israeliani, creata ad hoc a Mosca, è in auge da almeno tre decenni, poi è venuto il turno dello stigma di apartheid, risalente al 1975, dopo che l’ONU passò la Risoluzione 3379 che accusava Israele di razzismo.
I cantori o megafoni del genocidio a Gaza, con in testa la corifea Francesca Albanese, sono in molti, e non importa che i numeri dei morti a Gaza siano forniti da Hamas e inverificabili, non importa che se anche fosse vero che sono state uccise cinquantamila persone (che Cremonesi attingendo a proprie fonti, incrementa a settantamila), bisognerebbe sottrarre il numero dei jihadisti morti che l’IDF stima intorno ai 23 mila, portando quindi il rapporto tra terroristi e civili morti a un livello di equivalenza, il più basso mai registrato in tutte le guerre urbane combattute nell’ultimo ventennio, non importa che Hamas non ha mai consentito a nessun civile di potersi rifugiare all’interno del reticolo di 800 km di tunnel costruito sotto case, moschee, ospedali, non importa che se la popolazione di Gaza consta di circa due milioni di persone e se anche ne fossero morte cinquantamila non ci si può nemmeno lontanamente avvicinare alla distruzione sistematica di una popolazione, non importa che in una delle zone più densamente popolate del pianeta, i terroristi si nascondano tra la popolazione, tutto questo non importa.
La razionalità scompare quando trionfa la propaganda, il cui scopo è quello, come ben sapeva Goebbels di reiterare all’infinito le menzogne, di martellare con parole feticcio, di distruggere sistematicamente la realtà per sostituirla con un mondo parallelo.
Alla fine però i Cremonesi, le Albanese, gli Ovadia, vanno ringraziati. Nella furia parossistica del loro odio per la verità, dei loro accecanti pregiudizi, ci consentono di poterci aggrappare con sempre maggiore sicurezza ai fatti, alla loro effettiva consistenza, e a continuare, ogni giorno, a ribadirli.

(L'informale, 6 maggio 2025)

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Hezbollah al capolinea? 

L’organizzazione terroristica sta vivendo un momento di crisi senza precedenti

di David Zebuloni

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Joseph Aoun

“Il mio obiettivo è che nel 2025 tutte le armi del paese siano esclusivamente nelle mani dello Stato”, ha dichiarato il presidente del Libano, Joseph Aoun, annunciando di aver raggiunto un’intesa con il capo del parlamento libanese sul disarmo di Hezbollah. “Ora resta solo da definire il meccanismo per attuare questa misura – qualcosa che avverrà attraverso un dialogo diretto con i leader di Hezbollah”, ha aggiunto, precisando: “Non integreremo Hezbollah come unità indipendente all’interno dell’esercito libanese. I suoi miliziani potranno essere assorbiti solo dopo corsi di formazione e addestramento specifici”.
Il canale di notizie saudita Al-Hadath ha riportato che, secondo una fonte diplomatica dell’America Latina, recentemente Hezbollah avrebbe trasferito circa 400 comandanti, assieme alle loro famiglie, in vari Paesi del Sud America, tra cui Brasile, Colombia, Venezuela ed Ecuador. Secondo la fonte, questa decisione deriverebbe dalla consapevolezza che la struttura militare dell’organizzazione terroristica sta per essere smantellata, e i dirigenti temono di essere colpiti da Israele o arrestati da servizi segreti locali o internazionali.
La domanda sorge dunque spontanea: si può davvero affermare che l’era di Hezbollah in Libano sia finita? Il gruppo terroristico realmente rinuncerà al suo potere e si ritirerà in modo definitivo? Secondo gli esperti, risulta ancora troppo presto per dirlo con certezza. “Sta succedendo qualcosa di grande, l’organizzazione è in grave difficoltà, ma Hezbollah possiede ancora moltissime armi, e anche se in Parlamento si parla di disarmo, non è affatto un compito semplice da realizzare”, ha spiegato in un’intervista a Makor Rishon il generale Gershon HaCohen, ex comandante del corpo d’armata dell’esercito israeliano.
“Il possesso delle armi da parte di Hezbollah è legato prima di tutto a una concezione religiosa e ideologica: il credente islamico deve ogni giorno trovare una nuova via per combattere”, prosegue HaCohen. “È chiaro che l’organizzazione riconosce di attraversare un momento di debolezza, ma anche se sembra disposta a discutere del proprio disarmo, non è una vera apertura sostanziale. In questo momento, Hezbollah ha più bisogno di denaro che di armi. Deve ancora saldare i pagamenti promessi alla sua rete di combattenti, sia durante che prima della guerra”.
Anche Noam Bennett, ricercatore esperto di comunicazione visiva nel mondo arabo, non crede che Hezbollah sia pronto a rinunciare ai suoi asset strategici. “La vera domanda è se il governo e l’esercito libanese abbiano la forza per imporre il disarmo all’organizzazione”, ha sottolineato, sempre in un’intervista a Makor Rishon. “Hezbollah ha subito colpi durissimi nell’ultimo anno, è vero, ma è ancora lì. Esiste. È al punto più basso degli ultimi decenni, non c’è dubbio, ma non lo vedo rinunciare facilmente al suo arsenale”.
Bennett cita poi alcuni segnali del profondo malessere interno a Hezbollah. “Negli ultimi due giorni, in diversi villaggi del Libano, i residenti hanno rimosso le immagini di figure sciite prominenti come l’ex segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e Moussa al-Sadr, fondatore del movimento Amal”, racconta. “Questi sono a mio parere dei segnali non meno significativi delle ultime esternazioni del presidente Aoun”.
Tuttavia, lo stesso Bennett mette in guardia da aspettative troppo ottimiste. “Non credo che il presidente Aoun, che fino a poco tempo fa era il comandante dell’esercito e sa bene cosa sia la guerra, voglia realmente dare inizio a un conflitto interno. I libanesi hanno il terrore di una nuova guerra civile come quella avvenuta negli anni 1975-1990. E con la situazione economica odierna, nessuno sembra avere né il desiderio né le risorse per un altro scontro fratricida”.
La guerra civile libanese, in tutte le sue fasi, causò infatti circa 150.000 morti, 200.000 feriti e oltre 17.500 dispersi, poi dichiarati deceduti. “Non credo che ci siano forze interne al Libano pronte a combattere”, conferma l’ex generale HaCohen. “Non vedo l’esercito libanese o le comunità cristiane dichiarare una guerra aperta a Hezbollah. Ci potranno essere forse degli sporadici scontri localizzati, ma non una vera guerra. Credo ci siano abbastanza persone in Libano che ricordano bene perché una nuova guerra civile sarebbe un disastro da evitare per il bene della nazione”.
Nonostante le difficoltà, Hezbollah è tutt’altro che estinto. “All’organizzazione terroristica manca oggi il sostegno popolare, ma la sua leadership non si è completamente sgretolata”, conclude HaCohen. “Una delle caratteristiche del mondo credente musulmano è la capacità di affrontare i momenti di crisi militare attraverso la fede. Hezbollah vede nella sua sconfitta una fase temporanea da superare. I terroristi credono davvero che si riapriranno per loro le porte del paradiso, e che l’organizzazione tornerà presto ai giorni di gloria”.

(Bet Magazine Mosaico, 6 maggio 2025)

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Ostaggi – Aviv Atzili, il meccanico artista

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Aviv Atzili

Aviv Atzili aggiustava i trattori del kibbutz Nir Oz. 49 anni, una vita passata a fare il meccanico e tra i campi, maneggiando tutti gli strumenti agricoli. Alcuni, quelli messi male, usurati dal tempo e arrugginiti Aviv li usava per esprimere la sua vena artistica. Li incorporava in quadri o sculture, che realizzava per sé, senza prendersi troppo sul serio. «Non c’era ego nelle sue creazioni. Aviv era un artista, ma senza definirsi tale», ha ricordato la sua ex insegnante, Galia Heller. «Guardava le cose in modo diverso, aveva un buon occhio e un eccellente senso estetico». Amava in particolare dipingere miniature di vita quotidiana del kibbutz su attrezzi in disuso. «Sono fortunato», aveva detto poco prima della guerra, «per anni ho lavorato con le mani nell’agricoltura, ora, con l’arte, posso lavorare con le mani stando seduto».
  Il 7 ottobre 2023, Aviv, 49 anni, era in servizio nella squadra di sicurezza di Nir Oz. Alle 8:27 ha lasciato un messaggio vocale alla moglie Liat e ai tre figli: «Ci sono diversi uomini dentro il kibbutz. Ne abbiamo eliminati alcuni. Rimanete chiusi dentro. Bevete acqua. Andrà tutto bene». Poco dopo è stato ucciso in uno scontro con i terroristi di Hamas e il suo corpo è stato portato a Gaza. I risultati di un’indagine hanno indicato che potrebbe aver strappato un’arma a uno degli assalitori. «È così che me lo immagino», ha raccontato la moglie Liat, mentre difende il kibbutz e la famiglia.
  Rapita il 7 ottobre, Liat è rimasta per 54 giorni nelle mani dei terroristi per poi essere liberata nel primo accordo tra Israele e Hamas. Ritornata a casa, ha scoperto il destino di suo marito. Nonostante rivoglia la salma di Aviv per poterlo seppellire, ad Haaretz ha spiegato che la priorità è portare in salvo i 24 ostaggi ritenuti in vita. «Non voglio che qualcuno rischi la vita per riportare il corpo di Aviv. È molto più importante salvare chi è ancora vivo». Da 578 giorni, ci sono ostaggi ancora imprigionati a Gaza. «Quello che ho vissuto io non è niente in confronto a ciò che stanno vivendo oggi», ha sottolineato Liat. «La situazione umanitaria è crollata. Sono molto preoccupata per le condizioni fisiche e mentali dei rapiti».
  Liat non ha fiducia nel governo né nel primo ministro Benjamin Netanyahu. «Quando un disastro del genere accade sotto i tuoi occhi e la tua guida, la cosa più dignitosa da fare è dimettersi». Oltre a lottare al fianco delle famiglie degli ostaggi, Liat lavora alla ricostruzione del kibbutz Nir Oz. «Non sono d’accordo con chi dice che dobbiamo aspettare. Dobbiamo ricostruire le nostre case».
  Intanto, a tenere vivo il ricordo di Aviv è la sua arte. A marzo 2025, alcune delle sue opere sono state esposte nella galleria di Givat Haviva, parte della mostra “Un kibbutz è a volte un indirizzo, a volte una casa”. I quadri di Atzili sono arrivati in questa piccola esibizione nel nord d’Israele grazie al lavoro di restauro del fratello Ronen. Sono opere, ha osservato il quotidiano Israel Hayom, che rappresentano la capacità di trasformare gli scarti in bellezza. All’inaugurazione della mostra era presente anche un amico di famiglia: Gadi Mozes, 80 anni, sequestrato il 7 ottobre da Nir Oz e sopravvissuto a 482 giorni di prigionia a Gaza. «Amavo Aviv con tutto il cuore, l’ho visto crescere. L’ho sempre conosciuto come un meccanico e un fabbro e poi mi ha rivelato la sua passione artistica. Le sue opere mi hanno sempre sorpreso. Mi ha commosso vedere come ha saputo unire il lavoro manuale, il talento e lo spirito».

(moked, 6 maggio 2025)

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Dire la verità su Gaza è diventato pericoloso

Sui social è sommerso dall'odio chi contesta l'accusa di «genocidio», mossa a Israele addirittura prima che iniziasse a rispondere alle stragi del 7 ottobre 2023. Ma sono i numeri a smentire politici, cantanti, università e enti internazionali amici degli islamici.

di Silvana De Mari

È Hamas che nel suo statuto scrive a chiare lettere che il suo obiettivo è distruggere lo Stato ebraico. Nessuno sembra prenderne atto. Va ribadito: i dati forniti dal ministero della Salute controllato dai terroristi sono gonfiati. Le vittime sono soprattutto miliziani.

«Basta la parola». Vecchio slogan pubblicitario che racchiude una verità neurobiologica, la potenza evocativa delle parole. Genocidio non è una parola con cui scherzare. E l'accusa massima, totale, che permette un odio massimo, totale, che permette anche di dimenticare i veri genocidi, di banalizzarli, di considerarli dimenticati. Non esiste alcun genocidio a Gaza.
  Analizziamo la demografia.
  Ci dicono che Gaza, che ha una frontiera in comune con l'Egitto, prima del 7 ottobre era una prigione a cielo aperto, anzi un lager. Nei lager la popolazione diminuiva. Nel 1967, quando Israele conquista Sinai e Gaza con la Guerra dei sei giorni, a Gaza vivono circa 500.000 persone, nel 2000 la popolazione era più che raddoppiata. Gli israeliani hanno portato fogne, acqua potabile, scolarità e ospedali abbattendo la mortalità infantile. Nel 2005 gli israeliani lasciano Gaza, strappando i propri coloni da terre che avevano reso fertilissime. La speranza di pace di Israele naufraga immediatamente. Comincia una guerriglia continua con Israele, sempre accusato di genocidio e pulizia etnica. Nel 2010 la popolazione di Gaza era di 1.600.000 abitanti, nel 2020 ha raggiunto i 2.300.000. Come si può facilmente verificare su Google, a Gaza prima del 7 ottobre, c'erano hotel, di cui due a 5 stelle, ville con piscina, un campo da golf, turismo, motivo per cui Israele ha pensato di essere riuscito a comprarsi la pace. Ritenendo a torto che la pace sia conclusa, Israele cessa di controllare il confine, e addirittura permette l'ingresso di migliaia di frontalieri, migliaia di lavoratori che da Gaza vanno nei kibbutz dei massacri a lavorare. I massacri sono stati possibili perché gli uomini di Hamas conoscevano già i posti, sapevano chi aveva il cane, chi aveva un fucile. Se Israele, durante questo anno di guerra, avesse voluto sterminare la popolazione di Gaza avrebbe potuto farlo: sarebbe stato sufficiente bombardare a tappeto, come è stata bombardata Dresda, o come stata bombardata Berlino, oppure la Cecenia o l'Iraq, per arrivare a esempi più recente, sorvolando sul mezzo milione di morti che ha fatto la guerra in Siria, o su come è stata bombardata Belgrado, per ricordare una situazione dove l'Italia ha entusiasticamente collaborato, senza che nessuno parlasse di genocidio.
  È interessante l'analisi dei tempi con cui viene tirata fuori l'accusa di genocidio. Il 7 ottobre 2023 è il giorno dell'attacco di Hamas ai civili israeliani, uccisi con un sadismo sconosciuto addirittura alle Ss. Ci sono stati più di 1.000 assassinati, tra cui moltissimi bambini, e 6.000 feriti. Ci sono stati stupri di gruppo su centinaia di donne ebree poi mutilate o sventrate. Ci sono stati 200 ostaggi catturati, inclusi i due bimbi con i capelli rossi di 4 e 1 anno. Hamas entra in Israele, uccide e massacra, e già il 7 ottobre compaiono nei campus, sui social, nelle università, nelle sedi di molti movimenti e in rete incredibili paro1e che accusano Israele, che non ha ancora fatto nulla, non sta neanche riuscendo a contare i morti, di genocidio contro Gaza. Il 9 ottobre, due giorni dopo che i miliziani di Hamas hanno sterminato più di 1.000 ebrei, a Londra c'è la prima manifestazione davanti all'ambasciata israeliana, con cartelli, bandiere, latrati di odio. Immediatamente dopo arriva a Chicago. Se analizziamo i tempi ci rendiamo conto che gli israeliani sono stati accusati di genocidio prima di aver cominciato qualsiasi azione militare, con una azione mediatica geniale, capillare, internazionale, che è in realtà cominciata dopo la guerra del Kippur (1973), terza guerra di sterminio scatenata dai Paesi arabi confinanti e terza vittoria di Israele. Si è cambiata strategia, non più vere guerre con veri eserciti, ma la creazione del terrorismo palestinese e la sua beatificazione. Fiumi di denaro sono arrivati ai campus statunitensi ufficialmente, e non ufficialmente anche a personaggi politici e giornali, alle cancellerie europee, al punto che nei palazzi di Bruxelles si firmano trattati ufficiali dove si dichiara che tra gli scopi dell'Ue c'è l'islamizzazione dell'Europa, mediante modificazioni culturali e immigrazione massiva. Il vittimismo palestinese e la beatificazione del terrorismo palestinese sono elementi essenziali. Nasce e viene coltivata negli atenei, nello spettacolo, sui giornali l'idea che il terrorismo è una reazione a un torto subito. Maggiore è la ferocia del terrorismo, maggiore deve essere il torto subito. Quindi tanto più Hamas massacra, tanto più questa è la prova che Israele è un mostro genocida. Israele non avrebbe potuto evitare l'accusa di genocidio, nata il 7 ottobre, il giorno stesso del massacro subìto, nemmeno se si fosse limitato ad accendere candeline e scrivere sull'asfalto con gessetti colorati a tinte pastello. È completamente mancata qualsiasi forma di simpatia per gli assassinati e i rapiti.
  Non sono state fatte condoglianze, perché tutti i sionisti sono colpevoli e meritano la morte. Il solo fatto che siano stati uccisi dimostra che hanno scatenato un odio mortale nel cuore dei palestinesi, quindi sono colpevoli. Il 14 ottobre a Ginevra arrivano le parole di una delle più disastrose persone che prendono uno stipendio dall'Onu per aumentare il disastro del mondo. Francesca Albanese, relatrice speciale dell'Onu, parla di «mass ethnic cleansing», Nemmeno una parola sui rapiti, sugli stuprati sia femmine che maschi, sui bambini massacrati. Grazie alla Albanese la parola genocidio si leva dalle piazze per arrivare ai piani alti. Lo stesso giorno a Londra una marcia di 150.000 persone urla la sua opposizione al genocidio. Qualcuno finalmente protesta per il 7 ottobre, qualcuno protesta per il genocidio che Hamas dichiara di voler commettere addirittura nel suo statuto? Certamente no: il genocidio per cui si protesta è quello di Israele contro Gaza. L'esercito israeliano non è ancora entrato a Gaza. I vertici di Hamas ripetono a chiunque voglia ascoltarli la loro volontà di sterminio. Non si fermeranno fino a quando non avranno distrutto Israele, come prescritto dall'articolo uno del loro Statuto. Grazie a loro, e grazie all'odio che ovunque si sta scatenando contro gli ebrei, sarà possibile lo sterminio di ogni ebreo nel mondo, come prescritto dal loro articolo sette.
  È evidente che c'è una strategia. È fondamentale, per poter distruggere Israele, delegittimarla con l'accusa di genocidio. Ho scritto sulla mia pagina Facebook che non c'è nessun genocidio di Israele. È come mettere le mani in un vespaio. L'odio si è scatenato a fiumi, l'odio più violento e incredibile. Moltissime persone hanno la bandiera di Hamas al posto della propria faccia sulla loro pagina Facebook. Quindi un mucchio di persone vuole come prima cosa al mondo lo sterminio dello Stato di Israele dal fiume al mare, e come settima cosa l'assassinio di ogni ebreo nel mondo. I dati sui morti di Gaza sono forniti dal ministero della Salute controllato da Hamas, e sono ovviamente falsi. Stanno faticosamente emergendo i numeri veri, che sono fortunatamente molto più bassi e, come riconosce lo stesso Hamas, al 70% costituiti da maschi in età militare, cioè da unità combattenti. Ma l'accusa di genocidio scatta in tutti i casi, rilanciata dal Vaticano, da Amnesty International, da qualche miserabile cantautore mai sentito nominare da nessuno, da qualche miserabile aspirante uomo politico, e sempre ottiene standing ovation, intere piazze che latrano la loro gioia all'idea che Israele sia distrutto, così la giustizia sarà ristabilita e il mondo vivrà in pace. L'accusa di genocidio è scattata prima di qualsiasi azione militare perché è preparata dal 1973. Si tratta dell'invenzione di un genocidio, necessaria per rendere tollerabile un genocidio vero, quello che, come posso vedere sulla mia pagina Facebook, è il sogno di molti. «Combatti fino alla morte per la verità e Dio combatterà per te» (Siracide). Non c'è nessun genocidio a Gaza.

(La Verità, 5 maggio 2025)

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Ostaggi – Mohammed Alatrash e la passione per i cavalli

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Mohammed Alatrash

Padre di 13 figli, Mohammed Alatrash, 39 anni, viveva nel villaggio beduino di Sawa, nel Negev settentrionale. Era il maggiore di 22 fratelli e la sua passione, raccontano i parenti, erano i cavalli. «Il suo sogno era aprire una riserva per cavalli. Ne aveva diversi e li faceva cavalcare ai bambini ogni volta che poteva», ha ricordato a ynet Yusuf, uno dei fratelli. «Mohammed era il maggiore», ha raccontato il padre Ibrahim. «Tutta la responsabilità era su di lui e si impegnava a tenerci uniti. Si prendeva sempre cura di tutti».
  La mattina del 7 ottobre 2023 Alatrash era in servizio come tracciatore nella Brigata Nord della Divisione Gaza dell’esercito israeliano. Alle 6:16 risultava ancora attivo su WhatsApp. Era riuscito a parlare brevemente con un familiare, promettendo che avrebbe richiamato. Non lo ha più fatto. Secondo quanto ricostruito dai parenti, quando è avvenuto l’attacco di Hamas, Mohammed stava rientrando verso l’avamposto di Nahal Oz. Lungo la strada ha incrociato i terroristi palestinesi e il suo veicolo è stato trovato abbandonato.
  Nei mesi successivi, la famiglia ha appreso del suo sequestro, senza sapere nulla sulle sue condizioni. «I suoi figli chiedevano ogni giorno quando sarebbe tornato e noi speravamo fosse vivo», ha raccontato al Jerusalem Post lo zio Salem. Solo a giugno 2024, le Idf hanno chiarito il suo destino: Mohammed Alatrash è stato ucciso il 7 ottobre e il suo corpo portato a Gaza. Ai parenti è stato mostrato un video in cui si vede il suo ultimo scontro con i terroristi.
  Ricevuta la conferma della morte, la famiglia Alatrash si è riunita a Sawa. Ma in assenza del corpo, non è stato possibile celebrare il funerale. «Nella nostra tradizione», ha spiegato il cugino Nimer, «la tenda funebre si erige solo quando si può seppellire il defunto». L’attesa per dare una degna sepoltura a Mohammed, la cui salma è in mano a Hamas, dura da 577 giorni.
  Il dolore della famiglia, ha aggiunto Nimer, è aggravato dalla sensazione di abbandono. «Noi serviamo lo stato di Israele, e lo stato demolisce le nostre case, anche quelle dei nostri soldati», ha denunciato, riferendosi alle demolizioni decise dalle autorità di abitazioni considerate abusive e parte degli insediamenti beduini. «Questo sta danneggiando il reclutamento nella nostra comunità. I beduini vogliono integrarsi, ma sono stanchi di promesse non mantenute». d.r.

(moked, 5 maggio 2025)

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Missile Houthi colpisce l’aeroporto Ben-Gurion: sei feriti, sistemi di difesa falliscono l’intercettazione

L’intercettazione è fallita e il missile è caduto direttamente nella zona aeroportuale. L’attacco è il quarto di una serie di colpi sferrati dai ribelli yemeniti contro Israele nelle ultime ore. Morti due soldati a Gaza, mentre tre persone sono state arrestate per aver pianificato attentati terroristici, tra cui l’assassinio del ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir.  

di Anna Balestrieri

Un missile balistico lanciato dallo Yemen ha colpito l’area dell’ aeroporto Ben-Gurion nella mattinata di domenica 4 maggio, dopo che i sistemi di difesa israeliani Arrow e americani THAAD non sono riusciti ad intercettarlo. Secondo una valutazione preliminare dell’IDF, l’intercettazione è fallita e il missile è caduto direttamente nella zona aeroportuale. L’attacco è il quarto di una serie di colpi sferrati dai ribelli yemeniti contro Israele nelle ultime ore.

Feriti e danni
  Secondo i dati forniti da Magen David Adom, sei persone sono rimaste ferite a seguito dell’attacco. Un uomo di circa 50 anni ha riportato traumi agli arti ed è stato classificato in condizioni da buone a moderate. Due donne, di 54 e 38 anni, sono state ferite lievemente dall’onda d’urto. Un uomo di 64 anni è stato colpito da un oggetto volante ed è rimasto leggermente ferito. Altre due donne, di 22 e 34 anni, si sono ferite lievemente mentre correvano verso i rifugi. Due persone sono state trattate per attacchi d’ansia. Tutti i feriti sono stati trasportati in ospedali del centro di Israele.

Rivendicazione degli Houthi e reazioni
  Un alto esponente del movimento Houthi, Muhammad al-Bahithi, ha dichiarato all’emittente qatariota Al Araby che il bombardamento dell’aeroporto Ben-Gurion dimostra “la capacità di colpire siti fortificati in Israele”.
Il ministro della Difesa israeliano , Israel Katz, ha rilasciato una dichiarazione in seguito all’attacco affermando: “Chi ci fa del male, lo colpiremo sette volte tanto”. Finora Israele aveva evitato di rispondere militarmente in Yemen, mentre gli Stati Uniti conducevano una campagna contro i ribelli filo-iraniani.
Fonti statunitensi e britanniche hanno riferito che nella notte tra sabato e domenica sono stati effettuati attacchi aerei contro obiettivi Houthi in Yemen.

Situazione all’aeroporto Ben-Gurion
  L’attacco ha comportato l’interruzione temporanea dei voli in partenza e in arrivo. L’aeroporto ha sospeso le operazioni per circa un’ora, ma successivamente l’Autorità aeroportuale israeliana ha annunciato la ripresa regolare del traffico aereo. Anche il servizio ferroviario presso la stazione aeroportuale è tornato alla normalità dopo un breve blocco.
Un volo Air India proveniente da Nuova Delhi e diretto a Tel Aviv è stato deviato mentre sorvolava l’area a sud di Amman, in Giordania, a seguito dell’attivazione delle sirene antimissile. Il velivolo ha invertito la rotta in direzione dell’Arabia Saudita.

Altri eventi della giornata
  In parallelo all’attacco missilistico, due soldati israeliani sono rimasti uccisi a Rafah a causa dell’esplosione di un tunnel trappola nel 576esimo giorno di guerra.
Nel frattempo, il tribunale di Beersheba ha condannato tre uomini a tre anni e mezzo di carcere per aver pianificato attentati terroristici, tra cui un tentativo di assassinare il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, con un lanciarazzi. I tre, due cittadini della città beduina di Rahat e un palestinese della Cisgiordania, hanno ottenuto pene ridotte in seguito a un patteggiamento. Ben Gvir ha criticato duramente l’accordo, definendolo “una vergogna” e “un incoraggiamento al terrorismo”.

(Bet Magazine Mosaico, 4 maggio 2025)

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La settimana di Israele – Tra Gaza e la Siria

di Ugo Volli

Ecocidio
  La guerra sta entrando nel ventesimo mese e non accenna a cessare. C’è stato un nuovo tentativo di usare gli incendi dei boschi come arma terrorista, secondo uno schema distruttivo usato molte volte da Hamas, senza che i verdi europei protestassero mai per questo ecocidio: i danni sono stati gravi, ma per il momento sembra che il pericolo del fuoco sia passato, anche grazie alla solidarietà internazionale: molti paesi fra cui l’Italia hanno spedito in Israele i propri aerei anti-incendio.

Strategie al confronto a Gaza
  Quel che succede a Gaza è determinato dalla strategia di Hamas che punta a “logorare” l’esercito israeliano in una guerra d’attrito e bloccare la sua reazione con la pressione internazionale. Il movimento terrorista ha approfittato della tregua per cercare di rifornirsi di armi, soprattutto con l’uso di droni; per riposizionare le sue forze e reclutare nuovi combattenti. Israele è deciso a schiacciare il gruppo terrorista bloccando i suoi rifornimenti, isolandolo fisicamente dalla popolazione, smantellando le sue installazioni e i suoi depositi, eliminando i suoi quadri e infine stabilendo un controllo effettivo su tutto il territorio della Striscia, invece della vecchia logica delle incursioni. Per questo ha mobilitato di nuovo molte migliaia di riservisti, ha stabilito dei corridoi traversali presidiati per impedire la mobilità dei terroristi e mantiene delle zone cuscinetto al confine fra Gaza e Israele. Inoltre ha bloccato da qualche tempo i rifornimenti “umanitari” che servivano soprattutto a Hamas, in modo da obbligare i terroristi a utilizzare le loro abbondanti riserve. Quando la popolazione civile avrà davvero bisogno di aiuti Israele farà in modo di distribuirli in modo che non siano depredati da Hamas. È una strategia che funziona e può portare alla vittoria se si riuscirà a continuarla per qualche tempo. Per questa ragione Hamas spinge sulla propaganda internazionale cercando di fermare a tutti i costi l’offensiva di Israele e dunque la sua sconfitta e conta sull’aiuto ormai chiarissimo delle organizzazioni di sinistra che sotto il sempre più esile velo umanitario si battono ormai esplicitamente in favore dell’azione dei terroristi. Ne abbiamo avuto la prova anche in Italia con trasmissioni televisive, appelli a manifestazioni sindacali, prese di posizioni dei leader della sinistra.

Libano e Yemen
  La guerra però ha altri fronti. In Libano sembrano ormai molto deboli i resti di Hezbollah, ormai diffidati anche della autorità locali a cessare ogni tentativo di offensiva contro Israele. In Yemen gli Houthi provano ancora a lanciare missili balistici su Israele, che sono regolarmente abbattuti dalle armi difensive; ma soprattutto sono essi stessi soggetti ai bombardamenti americani, che li colpiscono molto pesantemente. Bisogna tener conto però che lo Yemen è un paese molto grande, dall’orografia difficile ed è perciò lungo e complicato eliminare i missili degli Houthi. Anche in questo caso si tratta di una guerra di logoramento, che se portata avanti abbastanza a lungo porterà alla sconfitta e al rovesciamento degli Houthi, che non sono il governo legittimo dello Yemen, ma solo un gruppo ribelle mantenuto dall’Iran.

Siria
  Ha preso molta importanza il fronte siriano. Qui è Israele ad attaccare ora il regime sunnita di Al Jolani, che ha preso il posto di quello alawita di Assad. Il nuovo leader si è molto impegnato nei mesi scorsi a dichiarare la volontà di convivere pacificamente con le diverse anime del suo paese e i vicini, incluso Israele. Ma si trattava di semplice propaganda per dissipare la diffidenza generale. Un’operazione di relazioni pubbliche che ha avuto molto successo soprattutto in Europa, così desiderosa di amare i propri nemici. Le truppe di Jolani e lui stesso sono però state formate nell’estremismo integralista dell’Isis e hanno una vocazione totalitaria che impedisce loro di sopportare davvero la presenza di realtà differenti dove comandano. Poco dopo aver preso il potere hanno incominciato a invadere le zone alawite sulla costa, non certo solo per impedire l’organizzazione di una resistenza del vecchio regime, ma con chiare intenzioni terroristiche di massa, per sterminare quelli che considerano nemici religiosi: esse si sono realizzate con spaventosi eccidi. Da un paio di settimane queste forze terroriste sunnite si sono volte verso la zona drusa, al confine con Libano, Israele e Giordania. I drusi sono un piccolo popolo fiero e combattivo con una religione iniziatica derivante dall’Islam sciita, che pratica la politica di essere fedele a ogni stato in cui abita, purché ne rispetti identità e tradizioni. In Israele sono leali cittadini e combattenti spesso eroici delle forze armate; in Siria avevano sempre mantenuto fedeltà ai vari regimi. Non aveva senso dunque per le milizie di Jolani attaccarli, ma così è successo, per intolleranza e fanatismo. I drusi hanno chiesto aiuto a Israele che, dopo qualche comprensibile riflessione, l’ha concesso per allontanare i terroristi sunniti dal proprio confine e anche per sincera amicizia coi drusi israeliani. Vi sono stati dunque numerosi bombardamenti israeliani su concentramenti di truppe siriane ed è probabile che Israele sostenga la costituzione di uno stato druso, anche con le armi.

Iran e di nuovo Hamas
  La testa del mostro anti-israeliano è sempre l’Iran. Qui le trattativa fra Usa e ayatollah per un blocco consensuale dell’armamento nucleare del regime sono andate avanti per un po’, poi si sono fermate per le solite tattiche dilatorie degli ayatollah. Ma sta per venire a scadenza un ultimatum di Trump, che a metà febbraio aveva dato due mesi all’Iran per trovare un accordo. Più il tempo passa, più potrebbe essere probabile un’azione militare congiunta di Usa e Israele per distruggere l’arsenale atomico e missilistico del regime e magari per abbatterlo. Sarebbe la mossa decisiva di questa guerra. Oltre al negoziato fra Iran e Usa sul nucleare si è bloccato anche quello sempre promosso dagli americani ma gestito dagli egiziani sul rilascio dei rapiti. Questa trattativa si incrocia con la guerra sul campo di Gaza. Hamas non mollerà la propria assicurazione sulla vita senza ottenere quello che Israele non può concedere: una fine della guerra (loro dicono una tregua di cinque anni) che lasciasse ai terroristi le loro armi e dunque il potere su Gaza e la possibilità di ritentare altri 7 ottobre quando ne avessero l’occasione, come loro stessi proclamano spesso. Per la prima volta Netanyahu ha dichiarato che la vittoria, cioè la distruzione o la resa di Hamas, è un obiettivo che ha la precedenza sulla liberazione dei rapiti (sulla cui sopravvivenza peraltro si infittiscono i dubbi). È un discorso molto difficile da fare, che può apparire insensibile e però tiene conto del futuro e della necessità di assicurare la sicurezza di tutti gli israeliani, che sarebbe certamente a rischio se Hamas sopravvivesse alla guerra.

Finisce la saga dello Shin Bet?
  Un ultimo tema importante emerso in questa settimana è la possibile soluzione di compromesso alla difficile vicenda della ribellione di Ronen Bar, il capo dello Shin Bet (il servizio segreto interno di Israele), che aveva rifiutato di accettare il suo licenziamento approvato dal gabinetto, anche se la legge concede esplicitamente questo potere al governo e le responsabilità di Bar sul 7 ottobre e sulla gestione successiva dello Shin Bet sono chiarissime e molto gravi. In appoggio a Bar era intervenuta la Procuratrice Generale e consigliera giuridica del governo Gali Baharav-Miara, nonostante l’evidente conflitto di interessi dovuto al fatto che Bar fosse un suo amico di famiglia. Poi si era messa di mezzo la Corte Suprema, che, implicitamente ritenendosi superiore alla lettera della legge, aveva stabilito per due volte una sospensiva del licenziamento, senza motivarla. Ora Bar ha finalmente dato le dimissioni (con scadenza 15 giugno) e il governo ha rinunciato al licenziamento per eliminare il contenzioso giudiziario. Se non sarà sollevato qualche nuovo inghippo di qui al 15 giugno, almeno questa ragione di divisione nella politica israeliana è superato.

(Shalom, 4 maggio 2025)

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Il mare su cui naviga la menzogna

Sono più di vent’anni che questo sito s'interessa di Israele, rivolgendosi in primo luogo ai gentili, e tra questi ai cristiani, e tra questi ai cristiani evangelici. A questi ultimi è rivolto soprattutto il seguente articolo, inteso come riepilogo, aggiornamento e avvertimento.

di Marcello Cicchese

«L’ignoranza è il mare su cui naviga la menzogna».

La guerra di Gaza è forse l’ultima forma in cui si presenta oggi al mondo la “questione ebraica”. Se per secoli sono stati gli ebrei come gruppo sociale a costituire un problema all’interno delle singole nazioni in cui vivevano, da circa un secolo è l’esistenza di una nazione che vuol dirsi “ebraica” a costituire un problema. Ha diritto di esistere una “nazione ebraica?” è questa la forma in cui il problema oggi si pone. E inoltre, ha diritto di vivere ed esercitare la sovranità sulla terra che ora occupa? Israele dice “sì”, Hamas dice “no”.
  Immaginiamo allora che in un paese ci sia la famiglia A in lotta da generazioni con la famiglia B sulla rivendicazione di proprietà di un certo possedimento. Col tempo avvengono fatti di violenza tra le due parti e i paesani finiscono per parteggiare per una o per l’altra parte. Quasi sempre lo fanno per simpatia, o per interessi, oppure, nel migliore dei casi, per valutazioni di ordine morale. “Quelli sono altezzosi e offendono”, dicono gli uni; “e loro sono violenti e rubano”, dicono gli altri; e cose simili. Quale sarà il modo giusto per porre fine alla contesa? Risposta: accertare presso il Demanio a chi appartiene per diritto la proprietà del possedimento. Tutto il resto viene di conseguenza.
  La contesa sulla terra "dal Giordano al mare" proviene allora da una questione giuridica tuttora in corso e non ancora risolta. Trattandosi di diritto, la contesa non può che svolgersi all'interno di una struttura giurisdizionale entro cui sono stabilite le norme e si può verificare se sono rispettate o no. In questo caso, in cui sono presenti concetti come “ebrei” e “nazione”, la questione richiede per sua natura una giurisdizione che si colloca su un piano superiore al solito: si deve decidere qual è il sistema ideologico entro cui si vogliono collocare le nozioni di bene e male, di giusto e ingiusto, di vero e falso.
  Trascurando visioni ideologiche come quella islamica o cattolica tradizionale, per i cristiani evangelici entrano in gioco, e in tensione fra loro, due visioni del problema: quella biblica e quella secolare. Più precisamente: la tensione tra diritto biblico e diritto internazionale. E’ lo stesso tipo di tensione che il singolo credente sperimenta quando deve scegliere tra sottomissione a Dio e sottomissione alle autorità.
  Essendo una questione di diritto, occorre avere conoscenza del sistema di norme giuridiche entro cui ci si colloca. Per muoversi nella visione biblica, ovviamente è indispensabile conoscere la Bibbia; e per quella secolare è indispensabile conoscere la storia. Essere privi di adeguata conoscenza nei due ambiti non è una colpa, ma è comunque un pericolo, perché ci si ritrova a galleggiare in un mare di ignoranza su cui naviga la menzogna.
  Sono molti i battelli della menzogna che percorrono il mare dell’ignoranza con la scritta “Palestina-Israele”. I nuotatori in difficoltà li incontrano in quei video in rete che si propongono di spiegare, una volta per tutte, le radici “storiche” del contrasto tra israeliani e palestinesi. Il naufrago viene issato a bordo e gli viene proposto di vedere un film che è un assemblaggio di spezzoni di video accuratamente scelti, con una voce suadente che racconta come sono andate le cose e spiega tutto. Dopo una mezz’ora il nuotatore issato a bordo è convinto di sapere ormai abbastanza sull’argomento e di non avere bisogno di altro. La conseguenza è che il naufrago non soltanto è stato imbarcato su un battello della menzogna, ma gli è stato infilato addosso anche un mantello impermeabile che lo proteggerà in futuro da ogni successivo accostamento della verità.
  Fuor di metafora, quando vent’anni fa un oratore andava a spiegare a un pubblico evangelico la questione di Israele con dati ricavati da studio della Bibbia ed esame di documenti storici, poteva trovare un pubblico poco addentro nell’argomento ma anche attento e desideroso di apprendere. Oggi invece sarebbe molto diverso, perché oggi tutti sanno tutto. Qualunque cosa si dicesse in merito, potrebbe sempre alzarsi qualcuno a dire che non è vero. Perché lui l’ha visto coi suoi occhi. In un video. E c’erano pure scene di fatti avvenuti cento anni fa… Vuoi mettere?

Le nazioni nella Bibbia
  Per uscire dal mare dell'ignoranza, e se del caso scendere dal battello della menzogna, bisogna anzitutto prendere atto che il problema ruota intorno al concetto di nazione, presente sia nella Bibbia, sia nel diritto secolare.
  Nella Bibbia le nazioni non fanno parte del progetto originario di Dio: esse sono conseguenza di peccato; sono frutto della superbia dell’uomo, che nel suo desiderio di diventare come Dio si impegnò nella costruzione della torre di Babele. Fu un peccato “globalista”, frutto del desiderio di unire tutti gli uomini in un'armonica rivendicazione di universale autonomia rispetto a Dio.
  In risposta a questo “nobile” progetto, Dio agì signorilmente: non fulminò i ribelli, ma senza farsi accorgere ne vanificò il progetto obbligandoli a dividersi in nazioni.
  Ma a questo punto sorge un problema: il piano salvifico di Dio prevede la Sua personale discesa sulla terra nella persona del Messia; in quale nazione allora sarebbe dovuto scendere il Signore? Forse noi avremmo stabilito una graduatoria a punti e scelto la nazione col maggior punteggio; Dio invece ha agito diversamente: ha deciso di formarsi la sua propria nazione.
  Quando Dio dice ad Abramo: “… farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione” (Genesi 12:2), questo è un impegno solenne che Dio prende con Se stesso. Quando il popolo di questa nazione, a cui nella storia di Giacobbe Dio ha dato il nome di “Israele”, arrivò a formarsi nel seno dell’Egitto, Dio diede a Mosè l’incarico di comunicare al faraone una notizia importante:

    "Tu dirai al faraone: Così dice l’Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito” (Esodo 4:23).

A questa notizia seguì l’ordine perentorio di far uscire suo figlio da quella terra, cosa che come sappiamo il monarca egiziano fece molta fatica ad accettare.
  Questo dovrebbe essere sufficiente a far capire che qualunque cosa avvenga nel mondo, il popolo di Israele, in quanto figlio primogenito di Dio, non è, e non sarà mai, una nazione come tutte le altre. Secondo la Scrittura, anzi, essa costituisce fin dall’origine il metro di confronto usato da Dio per la costituzione delle altre nazioni:

    “Quando l'Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d'Israele” (Deuteronomio 32:8).

Dunque Israele ha da sempre e per sempre una posizione di primato rispetto alle altre nazioni, le quali sono addirittura invitate dal Signore a gioire e a pregare per lui:

    “Così parla l’Eterno: Innalzate canti di gioia per Giacobbe, prorompete in grida, per il capo delle nazioni; fate udire le vostre lodi, e dite: o Eterno, salva il tuo popolo, il residuo d'Israele!" (Geremia 31:7).

Il posto di Israele
  Se Israele è il capo delle nazioni, resta da decidere quale posto si deve riconoscere nel piano biblico alla nazione che oggi porta il nome Israele; e quale valutazione si vuole dare di ciò che sta accadendo intorno alla terra su cui esercita la sovranità.
  Come persona che su questo tema riflette ormai da decenni, ritengo sia utile riportare qualcosa che nel passato è stato pubblicato sul mensile evangelico “Il Cristiano”, dove nel 2002 è comparsa una serie di miei cinque articoli, raccolti in seguito in un inserto dal titolo “Dio ha scelto Israele - Il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa”, trasformato poi in un libro di cui è uscita l'anno scorso la quarta edizione.
  Il primo articolo, dal titolo “La nascita del sionismo politico”, si apre con questa introduzione:

    "Il ristabilimento della nazione di Israele e il miracoloso ritorno dei suoi cittadini sparsi in tutto il mondo fa capire che Dio non ha cambiato opinione riguardo al "Suo popolo, che ha preconosciuto". L'interesse per Israele non può limitarsi al passato prima di Cristo e al futuro dopo il rapimento della Chiesa, perché quello che sta avvenendo oggi nella terra promessa ad Abramo non merita soltanto riflessione, ma richiede anche decisione."

Nell’ultima pagina di copertina dell’inserto sta scritto:

    "L’autore ripercorre le tappe che nella Storia dimostrano in modo inequivocabile l'unicità di Israele fra tutti i popoli della terra.
    Da dove viene questa unicità? Israele è l'anomalia che sconvolge le "leggi" della politica, della religione, dell'antropologia ... della storia.
    Da dove viene questa anomalia? La Rivelazione biblica, che legge ed interpreta la Storia, ci dà una risposta precisa: l'unicità e l'anomalia provengono da Dio che ha scelto Israele per testimoniare il suo Nome fra le nazioni e, soprattutto, per realizzare il suo progetto universale di salvezza. Il fatto che Israele non abbia spesso assecondato i piani di Dio, non svilisce il valore e gli obiettivi della scelta."

Israele oggi
  Ribadendo allora la validità di queste valutazioni, resta da stabilire se lo Stato che oggi porta il nome “Israele” ha qualche collegamento con l’Israele biblico o è soltanto un incidente della storia profana.
  Una risposta adeguata richiede un esame in parallelo di quello che dice la Bibbia sul futuro di Israele dopo Gesù e di quello che dicono i documenti storici sui fatti che hanno portato alla formazione dell'attuale Stato di Israele. Tutto questo non si può fare certamente nei limiti di un singolo articolo, ma è bene prendere atto che si può arrivare ad averne conoscenza, se davvero lo si desidera.
  Per quanto riguarda l’aspetto biblico della questione, si può indicare un saggio di Arnold Fruchtenbaum: Il moderno Stato di Israele, in cui si dimostra, con abbondanza di citazioni bibliche, che l’attuale Stato di Israele corrisponde a quello che le profezie bibliche prevedono, cioè il ritorno degli ebrei nella loro terra in una posizione di incredulità rispetto al Messia. Questo significa che Dio stesso ha voluto la fondazione dell’attuale Stato di Israele, ed esso rimane dunque sotto la sua personale amministrazione. Si può non essere d’accordo, ma allora si deve mostrarne le ragioni con la Bibbia alla mano.
  Per quanto riguarda l’aspetto storico, la questione è ancora più impegnativa, perché si tratta di smontare la convinzione più diffusa, cioè che gli ebrei avrebbero invaso una terra che non appartiene a loro e avrebbero soggiogato i suoi abitanti. Secondo questa tesi, ad avere il diritto di proprietà sulla terra d’Israele non sarebbero dunque gli ebrei, ma i cosiddetti “palestinesi”. E questo è falso.
  E' vero il contrario: secondo il diritto internazionale, Israele è l'unica nazione ad avere pieno diritto di sovranità sulla terra che ora occupa.
  Un’affermazione così categorica può lasciare perplessi, ma proprio per questo deve essere ripetuta con forza, insieme alla disponibilità a dare risposte a chi sinceramente le chiede, se davvero desidera uscire dal "mare dell'ignoranza".
  Per essere concreti, si può indicare un recente libro di David Elber, Il diritto di sovranità in terra d’Israele, Salomone Belforte, 2024. E’ un libro chiaro, conciso, che contiene in modo documentato tutto ciò che è necessario per arrivare alla conclusione più ovvia, cioè che secondo il diritto internazionale, basato su fatti storici e formulazioni giuridiche di patti fra nazioni, il diritto di proprietà della terra che va “dal Giordano al mare”, appartiene al popolo ebraico, dunque a Israele.
  Certo, un libro simile richiede una lettura attenta, essendo frutto di una ricerca analitica fatta su documenti storici, come si farebbe con documenti dell'archivio del Demanio per appurare a chi appartiene la proprietà di un immobile conteso.
  Altri studi e indicazioni sull'argomento si possono trovare naturalmente su questo sito, e precisamente alla rubrica "Approfondimenti", dove ci sono saggi di tutte le misure e di tutti i tagli (ma non di tutti i gusti).

Israele in rapporto alle nazioni
  Per arrivare all’attualità, chi ha ragione oggi nella contesa tra Israele e Hamas? Se proprio si richiede una posizione netta, per chi scrive la risposta è una sola: ha ragione Israele, senza se e senza ma.
  Se è vero che in questo momento Israele occupa la terra che Dio gli ha assegnata, e contemporaneamente è vero che Hamas dichiara di volerlo distruggere come nazione e cacciare gli ebrei da quella terra, la conseguenza biblica è che Hamas si è costituito apertamente come nemico di Dio e servo di Satana. Hamas si agita fra quei nemici di Dio di cui si parla nel Salmo 83:

    "Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa.  Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!" (Salmo 83:2-4).

La distruzione di Israele come nazione è uno dei principali obiettivi di Satana, perché questo significherebbe la vanificazione del progetto universale di salvezza di Dio. Il Signore avverte minacciosamente chi ha queste intenzioni distruttive:

    "...così parla l'Eterno degli eserciti: ... chi tocca voi tocca la pupilla dell'occhio suo" (Zaccaria 2:8).

Davanti al tentativo di Hamas di distruggere lo Stato d'Israele (sprezzantemente denominato "entità sionista"), e soprattutto davanti alla dichiarata, reiterata volontà di ripetere indefinitamente questo tentativo fino a ottenimento del risultato, Israele ha reagito: ha espresso a sua volta la volontà di distruggere Hamas. E ora sta provando concretamente a farlo. Nel piano di Dio, questo è conforme a giustizia. Dio disciplina il suo popolo, anche duramente, ma guai a quella nazione che si propone di distruggerlo. E' stato sempre così nel passato e sempre così sarà. E' un'espressione della volontà ultima di Dio: i nemici dichiarati del suo popolo saranno distrutti, prima o poi, perché sono nemici di Dio.
  La discussione sui modi in cui la contesa si svolge, la previsione di come andrà a finire, il conteggio dei morti, la commozione per le sofferenze di donne e bambini palestinesi, il palleggiamento delle responsabilità morali da una parte all'altra, sono cose del tutto fuori luogo in questa ottica. E' possibile che Israele non riesca in tempi politici a distruggere Hamas; è possibile anche che i suoi modi di agire avrebbero potuto essere diversi; ma questo non altera la valutazione secondo giustizia del fatto in sé. Con l'assalto del 7 ottobre Hamas ha manifestato, in parole e opere, il suo odio contro il popolo che Dio si è scelto, la volontà di cacciarlo fuori dalla terra che gli appartiene e distruggerlo come nazione. Si è messo contro Dio e ne subirà le conseguenze. Come già è accaduto più volte nel passato.
  Quanto alle sofferenze che ne subisce ora la popolazione di Gaza, da un punto di vista biblico e non genericamente umanitario, esse possono essere considerate come un avvertimento e un'anticipazione di ciò che capiterà un giorno alle nazioni che si muoveranno in guerra contro Gerusalemme:

    "In quel giorno, io renderò i capi di Giuda come un braciere ardente in mezzo alla legna, come una torcia accesa in mezzo ai covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli circostanti" (Zaccaria 12:6).
    "In quel giorno, io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme" (Zaccaria 12:9).

E inoltre:

    "Questo sarà il flagello con cui l’Eterno colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: la loro carne si consumerà mentre stanno in piedi, i loro occhi si scioglieranno nelle orbite, la loro lingua si consumerà nella loro bocca" (Zaccaria 14:12).

Nel libro del profeta Isaia si parla del “giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Sarà un giorno di vendetta “poiché il Signore è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; egli le vota allo sterminio, le dà in balia alla strage” (Isaia 34:2). E va sottolineato che l’indignazione di Dio è causata proprio dal vedere come le nazioni trattano il Suo popolo: con odio e violenza, con ingiustizia e menzogna.

Israele in rapporto a Dio
  Come abbiamo già detto, non è per quello che Israele ha fatto e sta facendo ai palestinesi che Dio lo rimprovera; ma pur dicendo che Israele ha pienamente ragione rispetto ad Hamas, non è detto che Israele abbia ragione anche nei suoi rapporti con Dio. Ci si può chiedere infatti se oggi Israele stia vivendo in modo degno della sua particolare elezione. A nessun altro popolo Dio ha rivolto parole così tenere, come quelle di un innamorato:

    "... tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te" (Isaia 43:4-5).

Ma il Signore è un Dio geloso, e non sopporta che Israele lo abbandoni per onorare e servire altri dei. L'idolatria del suo popolo è un tradimento che lo provoca ad ira:

    "I figli d'Israele continuarono a fare ciò che è male agli occhi dell'Eterno e servirono gli idoli di Baal e di Astarte, gli dèi della Siria, gli dèi di Sidone, gli dèi di Moab, gli dèi dei figli di Ammon e gli dèi dei Filistei; abbandonarono l'Eterno e non lo servirono più. L'ira dell'Eterno si accese contro Israele, ed egli li diede nelle mani dei Filistei e nelle mani dei figli di Ammon" (Giudici 10:6-7).

La gravità della situazione in cui si trova oggi Israele dovrebbe indurre i suoi cittadini a porsi serie domande: stiamo forse servendo dei stranieri, come popolo e nazione? stiamo coltivando forme di idolatria pagana?
  La riflessione potrebbe cominciare proprio dall'esame di ciò che è avvenuto quel 7 ottobre.
  Quella mattina i terroristi di Hamas che fecero irruzione in Israele piombarono nel mezzo di un rave, che non è un gioioso radunamento giovanile, ma la provocazione organizzata di una collettiva eccitazione di massa ottenuta con stimoli musicali e allucinogeni di vario genere.
  Quel giorno era in corso il 'Supernova Festival', festa religiosa di una comunità intercontinentale dal nome “Universo Paralello” [sic, in portoghese] che si celebra nel mondo ogni due anni e per la prima volta avveniva in Israele.
  Nell'area del festival era stata gonfiata ed eretta un'enorme statua di Budda, intorno alla quale festeggiava il "Tribe of Nova Presents", la Tribù del Nuovo Presente. Nell’invito diffuso in precedenza dagli organizzatori si diceva: «Insieme a questa enorme comunità, costruita in 23 anni, che ha ispirato persone a livello globale in tutti i continenti, la forza trainante centrale è un insieme di fondamentali e importanti valori umani: libero amore e spirito, conservazione dell'ambiente, apprezzamento dei rari valori naturali che il festival incarna».
  E si annunciava che «il più potente e significativo festival di musica psy trance di una delle nazioni psy trance più riconosciute e attive, sta facendo il suo ingresso qui», sottolineando con fierezza che «uno dei più grandi, influenti e venerati festival del mondo arriverà in Israele» e proprio «durante l'imminente festività di Sukkot».
  Si spiegava poi che «la parola 'Supernova' si riferisce all’esplosione di una gigantesca stella che provoca un immenso scoppio di luce in termini galattici». E accostando questi effetti galattici con la festività ebraica in corso, nell'invito si poneva una domanda retorica: "Che cosa si può immaginare che accada quando questi concetti si combinano con la festa di Sukkot?" E se ne dava anche la risposta: "Crediamo che possiate già immaginare il risultato...". No, il risultato che poi si è ottenuto proprio non se lo potevano immaginare.
  Secondo uno studio condotto in seguito su 650 sopravvissuti alla strage, due terzi erano sotto l'effetto di droghe  tra cui MDMA, LSD, marijuana o psilocibina. «L’ira dell'Eterno si accese contro Israele, ed egli li diede nelle mani dei Filistei» (Giudici 10:7).

L'odio antiebraico cresce e si diffonde
  Quale che sia la valutazione che il Signore vorrà dare della condotta odierna di Israele, gli uomini dovranno un giorno rispondere a Dio dell'atteggiamento che avranno assunto nel confronti del suo popolo.
  Colpisce allora la rapidità, l'intensità e l'estensione con cui pochi giorni dopo la mattanza del 7 ottobre è cresciuto nel mondo l'odio contro gli ebrei. "Genocidio" è la sintetica parola che si è ben presto diffusa; e naturalmente chi commette genocidio è Israele. Il semplice fatto di usare questo termine in questo contesto fa emergere in chi lo usa la sua antipatia, per non dire l’odio, verso gli ebrei. Naturalmente chi ne fa uso lo negherà, ma non sarà convincente. Genocidio? Quale sarebbe il genere umano ucciso? Quello dei palestinesi? perché, i palestinesi di Gaza costituiscono un genere? come gli ebrei? come i curdi? qual è il gruppo etnico caratteristico dei palestinesi? Ma è inutile porre queste domande, perché chi nomina disinvoltamente il genocidio in questo contesto non è interessato alle risposte: l’importante è che il termine sia entrato nell’uso e sia riferito ripetutamente a Israele. Il bollo infamante gli è stato appiccicato addosso, e bravo chi riuscirà a staccarlo. Forse ci vorranno secoli, come nel caso del deicidio.
  Come cristiani evangelici, dobbiamo renderci conto che anche noi corriamo il rischio di essere contagiati dall'atmosfera antiebraica che si respira oggi nella nostra società. Per avvertirne il rischio possiamo riportarci indietro, al tempo della Germania hitleriana. E' in un clima per certi aspetti simile al nostro che si arrivò fino all'invio degli ebrei nelle camere a gas. Possiamo chiederci allora quale fu il comportamento dei credenti in Cristo di quella nazione davanti ai fatti che li coinvolgevano. Ma ancora prima di questo, c'è da chiedersi se riuscirono a capire quello che stava accadendo.
  Nella sopra citata serie di cinque articoli del 2002 pubblicati su "Il Cristiano", l'ultimo articolo ha come titolo: "Il tentativo sempre rinnovato di distruggere Israele". Nella parte finale si dice:

    "Oggi è chiaro a tutti che attraverso la Germania di Hitler l’Avversario ha operato un tentativo storico di opporsi al piano di Dio, e lo ha fatto spingendo le autorità di un popolo a tentare di sterminare gli ebrei. Ma i credenti di quel periodo e di quella nazione hanno saputo riconoscere per tempo la diabolicità di quello che stava avvenendo? Con umiliazione bisogna rispondere: “No”. La maggior parte dei cristiani evangelici, anche quelli più rigorosamente attaccati alla Bibbia, anche quelli che conoscevano e insegnavano le profezie bibliche, si sono lasciati sedurre e fuorviare."

Poco più avanti si fa un avvertimento che se valeva allora vale tanto più ancora oggi, dopo oltre vent'anni:

    "I tempi politici si stanno affrettando e non si può escludere che fatti inaspettati pongano ciascuno di noi davanti a difficili scelte di ubbidienza a Dio. E’ preoccupante vedere come si stanno ricreando, in una cornice “globalizzata”, le condizioni spirituali per una giustificazione, o quanto meno una “umana comprensione”, dell’odio contro gli ebrei. Le coscienze si stanno ottundendo, i pensieri si stanno contorcendo intorno alla questione di Israele."

Quello che sta avvenendo oggi, 2025, nella terra promessa ad Abramo richiede dunque riflessione, affinché si sappia capire di che natura sono i fatti che avvengono; e decisione, affinché si sappia prendere posizione, o quanto meno si decida di non mettersi a "ululare coi lupi", cioè di non associarsi a quella viscida forma di astio antiebraico che si sta diffondendo oggi, forse purtroppo anche tra evangelici.
  A questo punto non posso che rinnovare l'avvertimento personale che diedi vent'anni fa, sempre sul mensile evangelico "Il Cristiano", dove nei numeri di gennaio e febbraio del 2005 comparve un mio lungo articolo in due puntate dal titolo: "Antisemitismo 'evangelico', moderato ed equilibrato".
  L'articolo è introdotto da queste parole:

    «Esaminare i fatti accaduti nella Germania del periodo nazista e considerare l’atteggiamento tenuto dai credenti evangelici tedeschi nei confronti degli ebrei può aiutare a riflettere su quello che oggi si pensa e si dice sugli ebrei di oggi, e ad assumersene la dovuta responsabilità.»

E si conclude poi con queste parole, che mi sento di ripetere oggi nella stessa identica formulazione:

    «E’ di fondamentale importanza verificare quello che pensiamo, biblicamente, storicamente, politicamente e psicologicamente, degli ebrei di oggi. Pensieri anche biblicamente corretti sugli ebrei di ieri (prima di Gesù) e di domani (dopo il rapimento della chiesa) non sono sufficienti a garantire la fedeltà alla Parola di Dio. Dovrebbe essere chiaro che il tema “ebrei”, inevitabilmente collegato oggi allo “Stato d’Israele”, è non solo di scottante attualità politica, ma è anche e soprattutto di cruciale importanza spirituale. Quello che si pensa, quello che si dice (spesso con preoccupante leggerezza) sul popolo ebraico e sullo Stato d’Israele può avere conseguenze gravi sulla vita della persona, della chiesa e della società. Il campanello d’allarme dell’antisemitismo ha ripreso a suonare. Sapremo riconoscere e tacitare quelli che con le loro politiche e teologiche chiacchiere stanno cercando di coprirne il suono? Mai forse come in questo caso sono appropriate le parole del Signore Gesù:
    "Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato" (Matteo 12:36).»

(Notizie su Israle, 4 maggio 2025)


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L'IDF colpisce in Siria mentre infuriano le violenze contro la comunità drusa

L'attacco è seguito a un'operazione israeliana avvenuta giovedì notte che ha preso di mira un'area vicino al palazzo presidenziale a Damasco.

di Charles Bybelezer

L'esercito israeliano ha colpito diversi obiettivi in Siria nella notte di venerdì, tra cui un'installazione militare, cannoni antiaerei e infrastrutture missilistiche terra-aria, secondo quanto riferito dalle forze armate.
“L'IDF continuerà ad operare come necessario per difendere i civili israeliani”, si legge nella dichiarazione.
L'agenzia di stampa statale siriana SANA ha riferito che gli attacchi aerei israeliani hanno preso di mira siti vicino a Damasco, nella provincia occidentale di Hama e nella regione meridionale di Daraa.
L'Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede nel Regno Unito e affiliato a fonti dell'opposizione, ha affermato che l'IDF ha condotto oltre 20 attacchi in quella che ha definito la più “pesante” offensiva israeliana nel Paese nel 2025.
Lo sviluppo ha fatto seguito a un'operazione israeliana nella notte di giovedì che ha preso di mira un'area vicino al palazzo presidenziale di Damasco. Il primo ministro Benjamin Netanyahu l'ha definita “un chiaro messaggio al regime siriano”.
“Non permetteremo alle forze del regime di spostarsi a sud di Damasco o di rappresentare un pericolo per la comunità drusa”, ha affermato Netanyahu in una dichiarazione congiunta con il ministro della Difesa Israel Katz.
L'operazione è stata condotta dopo che Gerusalemme aveva avvertito Damasco di impedire attacchi settari contro la popolazione drusa siriana. Giovedì, l'IDF ha dichiarato di essere “pronta a impedire l'infiltrazione di elementi ostili nella zona e nei villaggi drusi vicini”, aggiungendo che “continua a monitorare da vicino gli sviluppi e mantiene un alto livello di allerta per potenziali scenari di difesa”.
Il giorno prima, le forze israeliane hanno compiuto un attacco mirato contro un gruppo islamista sunnita siriano che, secondo quanto riferito, stava pianificando attacchi contro le comunità druse nella provincia di Rif Dimashq (sobborgo di Damasco).
L'intervento di Israele arriva tra le crescenti richieste della popolazione drusa, circa 150.000 persone, tra cui il leader spirituale della comunità, lo sceicco Muwaffaq Tarif.
“In questo momento, gli occhi e i cuori della comunità drusa sono rivolti verso il male che viene fatto ai villaggi drusi intorno a Damasco”, ha scritto Tarif, esortando “lo Stato di Israele, la comunità internazionale e il popolo ebraico ad agire immediatamente per impedire un massacro di massa”.
Questa settimana sono scoppiate proteste in Israele, con manifestanti drusi che hanno bloccato le strade e si sono radunati davanti alla residenza privata di Netanyahu a Cesarea. Le manifestazioni sono state sospese nella notte di giovedì dopo che Tarif ha lanciato un appello alla calma mentre proseguivano i colloqui con i funzionari israeliani.
Le ultime violenze in Siria sarebbero state scatenate dalla diffusione di una registrazione audio attribuita a un uomo druso che avrebbe insultato il profeta Maometto.
L'Osservatorio siriano per i diritti umani ha riferito che negli scontri che ne sono seguiti sono state uccise oltre 100 persone, tra cui nove giustiziate.
Giovedì, il Dipartimento di Stato americano ha condannato la violenza e la “retorica incendiaria” diretta contro i drusi come “riprovevole e inaccettabile”.
“Le autorità provvisorie devono fermare i combattimenti, assicurare alla giustizia i responsabili delle violenze e dei danni ai civili e garantire la sicurezza di tutti i siriani”, ha affermato la portavoce del Dipartimento Tammy Bruce.

(JNS, 3 maggio 2025)

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Vite, alberi e canti ebraici: se l’odio è tollerato

di Fiamma Nirenstein

C’è qualcosa di patetico nell’antisemitismo contemporaneo, quello che porta folle in piazza per la festa dei lavoratori a travestire Hava Nagila da inno pro palestinese; quello che i militanti della sacrosanta guerra per salvare dallo scempio la natura, a ignorare la devastazione doppia, fisica e morale, che porta su questa terra la distruzione delle foreste di Gerusalemme. E anche in quello che indica come libertà di opinione, di stampa, di ricerca, un programma come quello di Rai3  “Presa diretta”, la cui star è stata, senza contradditorio, un personaggio come Francesca Albanese. Il suo odio per Israele è un’etichetta del fallimento dell’ONU nella sua missione di pace.
   Il rapimento della canzone “Hava Nagila” è un paradigma del senso di inferiorità dello schieramento proPal. Violenta una canzone che è storicamente l’inno sionista al ritorno in Israele, il cui testo invita gli ebrei alla gioia dopo tanto soffrire, che è stata usata  milioni di volte per festeggiare la vittoria del ritorno a casa nella guerra, nella fame, nell’eroismo, e la fa diventare palestinese: “Free Palestine”, fa urlare su quelle note a una folla che così arruola nelle file dell’ignoranza, delle cifre inventate da Hamas, nel messaggio di odio contro Israele: i palestinesi diventano così  gli ebrei, gli oppressi, mentre gli ebrei sono gli oppressori. Il rovesciamento arriva fino alla più paradossale fra le accuse, quella a Israele di essere nazista, ovvero genocida, e fa dei palestinesi, che dal 1948 perseguitano Israele col terrorismo, i perseguitati. La musica va, la folla si eccita, odia Israele e gli ebrei, e l’antisemitismo viene distribuito a pioggia sulle piazze che furono dominate dalle leggi razziali al tempo del fascismo.  
   E’ diverso da allora, per fortuna, l’esistenza dello Stato del popolo ebraico, lo Stato d’Israele, che insieme alla democrazia e all’esercito ha cresciuto anche le più belle foreste che mai il Medio Oriente abbia visto, le più folte e verdeggianti, un regalo al clima mondiale cui oggi le masse si appassionano, per cui protestano e esclamano: sempre, fuorché quando gli alberi sono quelli dello Stato Ebraico. Sorpresa: potremmo dire che gli “alberi ebrei” non contano per gli ecologisti, proprio come gli ebrei quando subiscono attacchi terroristi e missili sulle loro città ogni giorno. Israele ha cresciuto sul suo suolo dal 1900 250 milioni di alberi: è l’unico Paese al mondo ad aver concluso il ventesimo secolo con più alberi rispetto all’inizio del secolo. Nel 1948 circa il due per cento del territorio era coperto di alberi, oggi questa percentuale è giunta all’8,5. Nelle case di tutti gli ebrei del mondo si vedono le scatole di ferro che raccolgono fondi da consegnare al Fondo Nazionale Ebraico, al Kerem Kaiemet. Piantare un albero è una buona azione che anche le Scritture insegnano. Adesso, in due giorni di fiamme sulla cui origine si affollano sospetti, sono stati spazzati via quasi 2000 ettari di terreno, carbonizzati con i suoi ulivi centenari, i pini, le vigne. Zone storiche come Latrun, lungo la strada fra Tel Aviv e Gerusalemme, in cui gli ulivi hanno visto battaglie decisive quando gli ebrei appena scampati dalla Shoah hanno dovuto difendersi degli eserciti arabi che assaltarono lo Stato Ebraico appena nato, hanno subito il rogo devastante degli alberi. Erano stati curati proprio per battere i rischi della siccità e della desertificazione sempre dietro l’angolo. Nel 2000 uno spaventoso rogo ridusse il Carmelo in cenere e uccise 44 persone, durante la seconda guerra del Libano i missili  degli Hezbollah hanno bruciato circa quattromila ettari nella disperazione dei coltivatori diretti. La tradizione di amore per la terra nasce col sionismo stesso. Ma che ne sanno le folle cui si insegna a odiare Israele. Il programma TV cui accennavo, oblitera che Israele combatta una guerra di difesa contro un nemico di crudeltà mai vista, la sua determinazione a fare a pezzi gli ebrei uno a uno, compreso i neonati, ignora i 58 rapiti di cui forse 24 sono ancora vivi in chissà in quali condizioni. Questo si diffonde alla tv: dati sui morti distribuiti dal “ministero della Sanità” di Hamas, ormai confutati da varie ricerche; si affonda nel tempo inventando un avvento colonialista di un popolo tornato senza armi, solo per lavorare e convivere, e che ha trovato sin dal 1948, solo rifiuti che ci si ostina a non vedere.  
   I palestinesi, non solo Hamas, vogliono distruggere Israele, non è diritto all’informazione quello che ignora la verità, è un gorgoglio antisemita che cancella l’ambizione ad essere parte della storia dei diritti umani: per questa storia, Hava Nagila non dovrebbe essere violentata, l’amore per la natura dovrebbe ricordare l’amore di Israele per gli alberi e correre in aiuto, il diritto alla verità dovrebbe bandire la menzogna senza contraddittorio… siamo lontano da tutto ciò, vicino invece all’odio più antico, quello per gli ebrei.    

(il Giornale, 3 maggio 2025)

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Eliminazionismo liberatore

di Niram Ferretti

Il gruppo musicale i Patagarri, che ieri, sul palco del Concerto del primo maggio ha invitato il pubblico a ripetere il grido “Palestina Libera”, con l’aggravante di suonare prima la Hava Nagila, celebre e festosa canzone ebraica, sono l’ultimo ma certo non definitivo esempio della forza dirompente della propaganda.
  Ormai incitare alla scomparsa di Israele, alla sua distruzione, è diventato un luogo comune, il fiore all’occhiello della propria autocertificata nobiltà d’animo.
  Come si fa, infatti, a non soffrire per il “popolo palestinese”, realtà creata ad hoc nei laboratori di Mosca a metà anni Sessanta per fornire ad Arafat la patente di “resistente” contro l’oppressione “colonialista” e “imperialista”?
  La Palestina, come toponimo, ha cessato di esistere dal 1948, dopo essere tornata in essere brevemente a seguito della fine della Prima guerra mondiale in virtù degli inglesi, dopo cinquecento anni di oblio, quando la regione era sussunta all’interno dell’impero ottomano.
  Chi oggi pronuncia questo slogan intende una cosa sola, la scomparsa di Israele, e infatti, in genere, viene declinato in modo più completo, “Dal fiume al mare, Palestina libera”. Significa, se non altro, essere più onesti. Ma la propaganda è per sua natura nemica di ogni onestà. D’altronde, una volta che si è cominciato a fare uso del termine “genocidio” privandolo della sua specificità e attribuendolo solo alla guerra a Gaza (nessuno lo ha mai adoperato con pari disinvolta e persistente insensatezza, per il Darfur, per lo Yemen, per la Siria, per l’Iraq), si è ormai entrati in un territorio in cui la realtà è scomparsa. È il territorio appunto della propaganda, che alla verità sostituisce la menzogna, dove il bianco è nero e il nero è bianco.
  Questa guerra in corso, più di ogni altra combattuta da Israele, è quella che ha affossato ogni criterio di razionalità e senso in merito alla comprensione di un conflitto.
  Molti pensano che “Palestina” sia il nome di una regione a cui appartiene un popolo autoctono e sulla quale si è impiantata una realtà aliena (Israele) che con essa non ha alcun rapporto, dunque deve essere “liberata”.
  Sono gli stessi che ottanta anni fa ritenevano che per liberare la Germania dal “virus” ebraico, fosse necessario eliminarne i portatori.

(L'informale, 2 maggio 2025)

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L'esercito si prepara a sferrare un «colpo decisivo» contro Hamas

In occasione della cerimonia annuale in onore dei soldati d'élite dell'esercito israeliano, il capo di Stato Maggiore israeliano, il tenente generale Eyal Zamir, ha pronunciato un discorso forte, che ha messo insieme omaggio, determinazione e messaggio strategico. Nei giardini della residenza presidenziale a Gerusalemme, ha ribadito la volontà di Israele di colpire più duramente Hamas e di intensificare le azioni militari nella Striscia di Gaza, se le circostanze lo richiedono.
L'evento, tradizionalmente dedicato all'eccellenza militare, ha assunto quest'anno una dimensione particolare, in un momento in cui lo Stato ebraico attraversa un conflitto lungo e complesso. Per Zamir, questa guerra, che definisce «lunga e multiforme», richiede sia impegno militare che solidarietà nazionale.
«Hamas detiene ancora cinquantanove nostri cittadini, ma anche loro sanno che il loro senso di sicurezza è solo illusorio», ha dichiarato davanti alle famiglie, ai soldati e ai responsabili politici presenti. Un avvertimento chiaro, accompagnato da una promessa: Tsahal si prepara a colpire duro.
Il generale ha sottolineato che l'indipendenza di Israele, lungi dall'essere un dato acquisito, è stata ottenuta con sacrifici e deve essere difesa con costanza. È proprio questo legame tra sovranità nazionale e impegno individuale che ha messo in luce rendendo omaggio ai soldati premiati.
Ha anche dato la sua definizione di eccellenza militare, sottolineando che non risiede né nel talento grezzo né nei risultati eclatanti, ma nella perseveranza quotidiana e silenziosa. «Essere eccezionali significa scegliere ogni giorno di agire con integrità, anche quando nessuno guarda», ha dichiarato.
Tra i soldati premiati, diversi percorsi incarnano questa filosofia. Zamir ha citato in particolare Avigdor, un ufficiale proveniente da un ambiente haredi, che ha superato gli ostacoli sociali per entrare nell'esercito. Ha anche menzionato Dorian, un immigrato recente che ha superato la barriera linguistica per eccellere nell'intelligence militare.
Il discorso del capo di Stato Maggiore ha anche messo in evidenza il coraggio di fronte alla tragedia. Ha parlato di Oria, un'osservatrice militare sopravvissuta all'attacco del 7 ottobre, e di Lea, il cui nonno è stato rapito e poi ucciso a Gaza. Nonostante il dolore, entrambe hanno continuato il loro servizio con forza e abnegazione.
Zamir ha concluso con l'esempio di Daria, sorella di un ostaggio civile. Nel pieno della lotta per la liberazione della sorella, si è arruolata nell'esercito israeliano, distinguendosi e diventando un simbolo di determinazione.
Il generale ha voluto così trasmettere un messaggio di coesione nazionale. Ha insistito sul fatto che tutti i cittadini di Israele, indipendentemente dalla loro origine o appartenenza, hanno un ruolo da svolgere nella difesa dello Stato. «Nessuno è esente: né gli individui, né i gruppi, né le tribù», ha ricordato.
Infine, in un messaggio di speranza pronunciato dal «cuore di Gerusalemme, nostra capitale eterna», ha affermato che il popolo di Israele continua a scrivere la sua storia con coraggio. «La speranza israeliana è viva», ha concluso, augurando a tutti una festa dell'indipendenza «gioiosa e sicura».

(JForum.fr, 2 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele, cresce l’arruolamento tra gli haredim: circa 400 ultraortodossi entrano nell’IDF

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L’esercito israeliano ha annunciato questa settimana l’arruolamento di circa 400 uomini ultraortodossi, segnando un passo significativo nel lento ma costante processo di integrazione della comunità haredi all’interno dell’IDF. Un numero rilevante, se si considera che l’arruolamento dei giovani haredim è da anni al centro di un acceso dibattito politico e sociale.
  Tra i nuovi reclutati, 196 sono stati destinati a ruoli da combattimento, mentre altri 167 sono stati assegnati a posizioni di supporto operativo. Per 23 reclute, invece, è ancora in corso la definizione dell’incarico. Oltre cento soldati sono entrati a far parte del battaglione Netzah Yehuda — storicamente dedicato ai militari osservanti — mentre altri sono stati assegnati alla Brigata Hashmonaim, alla Brigata Givati, ai Paracadutisti e persino a un’unità di difesa della base aerea di Nevatim.
  Parallelamente, 26 uomini ultraortodossi si sono uniti come riservisti dopo aver completato un breve corso di base pensato per chi, pur essendo fuori dall’età dell’arruolamento obbligatorio, desidera contribuire in ruoli non combattenti. Questi, insieme ad altri cento riservisti, intraprenderanno a breve un percorso di sei mesi per acquisire competenze da combattimento, con l’obiettivo di servire nella riserva della Brigata Hashmonaim.
  Il portavoce dell’IDF ha sottolineato come l’esercito stia lavorando per rendere il servizio accessibile anche agli haredim, adattando le condizioni operative alle loro esigenze religiose: dalla dieta kasher particolarmente rigorosa, agli orari di preghiera, fino alla separazione dai soldati laici nelle caserme.
  Questo reclutamento rientra in un programma avviato lo scorso anno, che prevede l’invio di circa 24.000 convocazioni alla leva. Una cifra ambiziosa, soprattutto se si considera che oggi si stima siano circa 70.000 i giovani haredi tecnicamente idonei al servizio militare ma esentati grazie allo studio religioso a tempo pieno. Un cambiamento importante riguarda anche le procedure: per la prima volta, gli adolescenti ultraortodossi riceveranno la convocazione iniziale al compimento dei 16 anni e mezzo, come già avviene per tutti gli altri giovani israeliani. L’arruolamento effettivo, tuttavia, resta previsto a partire dai 18 anni, come da prassi.
  Nonostante l’esigenza urgente di circa 10.000 nuove reclute — di cui il 70% per ruoli da combattimento — l’IDF ha ammesso di poter assorbire solo circa 3.000 haredim in più entro la fine dell’anno, a causa delle complesse necessità logistiche legate alla loro integrazione. Attualmente, il numero di ultraortodossi che si arruolano ogni anno si aggira intorno ai 1.800.

(Shalom, 2 maggio 2025)

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Incendio vicino a Gerusalemme sotto controllo

I vigili del fuoco stanno combattendo con successo il grande incendio nella parte occidentale di Gerusalemme. Una vasta area boschiva è andata distrutta.

GERUSALEMME – Dopo quasi 30 ore, giovedì pomeriggio i vigili del fuoco hanno domato il grande incendio divampato sulle montagne a ovest di Gerusalemme. Le strade e le linee ferroviarie chiuse sono state riaperte. Circa 10.000 persone sono state temporaneamente evacuate da dieci località. 21 vigili del fuoco sono rimasti leggermente feriti.
Si tratta di uno dei più grandi incendi nella storia di Israele. Secondo il Fondo Nazionale Ebraico, circa 2.000 ettari sono stati distrutti dalle fiamme, tra cui 1.300 ettari di bosco.

Prime indagini: incendio doloso e escursionisti negligenti
  Le cause del grande incendio non sono ancora chiare. Sono stati arrestati tre sospetti, due dei quali provengono da Gerusalemme Est. Un arabo di 19 anni aveva chiesto sui social media che Dio alimentasse le fiamme come vendetta per la “distruzione della terra musulmana”. Un cinquantenne ha appiccato un incendio in un campo aperto a sud di Gerusalemme. Non si sa nulla del terzo sospettato, scrive il quotidiano online “Times of Israel”.
Tuttavia, gli investigatori non ritengono che si tratti solo di incendio doloso. Anche escursionisti negligenti potrebbero essere corresponsabili dell'incendio. L'incendio è divampato nella regione di Mesilat Zion, dove mercoledì era presente un numero insolitamente elevato di escursionisti.
Il grande incendio e i forti venti hanno portato alla cancellazione di molti eventi ufficiali per l'inizio del 77° Giorno dell'Indipendenza, iniziato mercoledì sera. Al posto della cerimonia di apertura centrale sul Monte Herzl a Gerusalemme, la televisione israeliana ha trasmesso una registrazione delle prove generali.

(Israelnetz, 2 maggio 2025)

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Messaggio di Israele alla Siria: «non toccate i drusi»

L’esercito israeliano ha condotto un attacco aereo a Damasco adiacente all’area del Palazzo di Ahmed Hussein al-Sharaa”, senza specificare l’obiettivo. Lo ha confermato l’IDF venerdì mattina presto.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Israel Katz hanno dichiarato che Israele non permetterà che venga arrecato alcun danno alla comunità drusa, hanno reso noto i loro uffici in una dichiarazione congiunta.
“Questo è un chiaro messaggio al regime siriano. Non permetteremo l’invio di forze a sud di Damasco né alcuna minaccia alla comunità drusa”, hanno dichiarato.
È la seconda volta che Israele colpisce la Siria in altrettanti giorni, mantenendo la promessa di difendere il gruppo minoritario.
Secondo la Reuters, gli attacchi riflettono la profonda sfiducia di Israele nei confronti degli islamisti sunniti che hanno rovesciato l’ex presidente Bashar al-Assad a dicembre, ponendo un’ulteriore sfida agli sforzi del presidente ad interim Ahmed al-Sharaa di stabilire il controllo sulla nazione fratturata.
Giovedì scorso, la comunità drusa di Israele ha protestato contro le violenze anti-druze in Siria.
I drusi aderiscono a una fede che è un’emanazione dell’Islam e hanno seguaci in Siria, Libano e Israele.
Da quando Assad è stato spodestato a dicembre, Israele ha fatto saltare in aria gran parte delle armi pesanti dell’esercito siriano. Da allora ha anche conquistato terreno nel sud-ovest del Paese, ha giurato di proteggere i drusi e ha fatto pressioni su Washington per mantenere debole lo Stato confinante.
Sharaa, che è stato un comandante di al-Qaeda prima di rinunciare ai legami con il gruppo nel 2016, ha ripetutamente giurato di governare la Siria in modo inclusivo. Ma gli episodi di violenza settaria, tra cui l’uccisione di centinaia di alawiti a marzo, hanno indurito i timori delle minoranze nei confronti degli islamisti ora dominanti.
Le violenze settarie di questa settimana sono iniziate martedì con scontri tra drusi e sunniti nella zona di Jaramana, a maggioranza drusa, scatenati da una registrazione di una voce che imprecava contro il profeta Maometto e che i militanti sunniti sospettavano fosse stata fatta da un druso.
Più di una dozzina di persone sono state uccise martedì, prima che la violenza si estendesse alla città di Sahnaya, principalmente drusa, alla periferia di Damasco, mercoledì.

(Rights Reporter, 2 maggio 2025)

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L'esercito israeliano prevede di demolire 100 edifici nei campi profughi a nord della Samaria

L'esercito israeliano ha informato gli abitanti dei campi profughi di Tulkarem e Nur al-Shams della sua intenzione di demolire circa 100 edifici in queste zone, secondo informazioni ottenute da Ynet. A seguito di tale annuncio, molti residenti che avevano lasciato i luoghi sono tornati precipitosamente per recuperare i propri effetti personali. Secondo tali fonti, circa 60 edifici a Tulkarem e altri 40 a Nur al-Shams sarebbero interessati da tali demolizioni. Le autorità di difesa israeliane hanno precisato che questa misura risponde a una necessità operativa, volta a creare vie di accesso sicure per le forze dispiegate nella regione. L'operazione implicherebbe il coordinamento di diversi organismi e servizi di sicurezza israeliani. Questa decisione si inserisce nel quadro delle operazioni militari in corso nel nord della Cisgiordania, zona che ha visto un'intensificazione delle attività dell'esercito israeliano negli ultimi mesi.

(i24, 2 maggio 2025)

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Concerto primo maggio, i Patagarri sul palco: "Palestina libera". Insorge la comunità ebraica

Proteste per l'esibizione della band. Fadlun: "Ignobile". Di Segni: "Siamo attoniti"

Una esibizione sul palco del Concerto del primo maggio che ha scatenato immediatamente le polemiche da parte della comunità ebraica. "I Patagarri", band milanese, ha cantato "Palestina libera" sulle note di "Haga Nagila", un brano della tradizione ebraica peraltro ispirato a una melodia popolare ucraina. 

Ignobile"
  “Appropriarsi della nostra cultura, delle melodie a noi più care, per invocare la nostra distruzione, è ignobile. C’è qualcosa di davvero sinistro, macabro, nell’esibizione dei Patagarri. I nostri più grandi odiatori nella storia sono quelli che hanno strumentalizzato la nostra cultura e mentalità". Così ha tuonato Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica. E ha aggiunto: "Mai ce lo saremmo aspettati in un concerto che celebra il lavoro. Soprattutto in un concerto! Come quello del Nova Music Festival, trasformato dai terroristi palestinesi in un massacro che non è finito, con 59 rapiti da Hamas ancora a Gaza. Noi ebrei, di fronte a queste provocatorie manifestazioni di intolleranza sentiamo lo spazio delle nostre libertà restringersi inesorabilmente. Ma a perdere in libertà non siamo solo noi, è l’intera società civile".

“Siamo attoniti"
  Noemi Di Segni, presidente dell'Ucei, Unione delle comunità ebraiche italiane, ha proseguito: "Siamo attoniti per quanto avvenuto dal palco istituzionale del primo maggio organizzato dalle sigle sindacali in una ricorrenza ufficiale dell'Italia e senza vigilanza da parte della Rai che ha poi trasmesso il programma. Ancora una volta – ha evidenziato –  per acclamare la liberazione della Palestina (non dei palestinesi) si elude ogni riferimento al reale contesto mediorientale e alla presenza soffocante di Hamas".
Di Segni, inoltre, ha notato: "Con rinnovato dolore assistiamo a slogan unilaterali lanciati da coloro che dimenticano volutamente gli ostaggi israeliani mentre acclamano l'applicazione del diritto internazionale e il diritto umanitario. Una canzone ebraica, che ha come significato la gioia di stare insieme, è stata appositamente stravolta – ha terminato – con l'effetto di creare divisioni e generare odio antisemita anziche' mettere in campo ogni sforzo per la convivenza tra i popoli, come le Comunita' ebraiche in Italia cercano di fare in ogni ricorrenza".

(RomaToday, 2 maggio 2025)


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Odio diabolico a suon di musica

Dal giornale “La Stampa” online abbiamo tratto qualche informazione che qui riportiamo.

«Chi sono i Patagarri
Quando abbiamo scoperto la storia di Hava Nagila, che risale al 1917 e che è legata alla legittimazione delle prime comunità ebraiche in Palestina, abbiamo capito che l'unico modo per suonarlo oggi era accompagnarlo con un messaggio chiaro: Palestina libera», hanno raccontato i Patagarri subito dopo la performance, il quintetto jazz-swing formato da Francesco Parazzoli (tromba e voce), Jacopo Protti (chitarra), Daniele Corradi (chitarra), Giovanni Monaco (clarinetto e sassofono) e Arturo Monico (trombone e percussioni), tutti ragazzi milanesi tra i 20 e i 31 anni lanciati a X Factor dove erano nella squadra di Achille Lauro. Il loro nome è un omaggio ad Aldo, Giovanni e Giacomo e si ispirano ai grandi della musica italiana.
Il loro intervento è stato l'unico momento dichiaratamente politico del concerto. «In un momento come questo, in cui la situazione umanitaria è gravissima e molte voci vengono silenziate, pensiamo che la musica debba tornare a fare ciò per cui è nata: lanciare messaggi forti, prendere posizione, anche a costo di dividere», hanno affermato.»

Tra le parti del concerto, ne è stata sottolineata una importante:

«Non è mancato un omaggio a Papa Francesco, con le sue stesse parole: 'La musica è bellezza e strumento di pace, una lingua che tutti i popoli in diversi modi parlano, e raggiunge tutti i cuori'».

Dopo tante dichiarazioni e manifestazioni di vario genere contro Israele e contro gli ebrei, la conclusione da trarre è una sola: è odio di natura diabolica. Non è un insulto, è una presa di posizione teologica. E’ in gioco il rapporto che contrappone Dio e Satana. M.C.

(Notizie su Israele, 2 maggio 2025)

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Incendi in Israele, si indaga sulla pista dolosa: Hamas incita alla violenza online

di Luca Spizzichino

Nonostante la riapertura delle principali arterie stradali e la ripresa del traffico ferroviario verso Gerusalemme, l’emergenza incendi che da giorni devasta le colline circostanti la capitale israeliana è tutt’altro che conclusa. Giovedì mattina, ben 119 squadre dei vigili del fuoco sono ancora operative sul campo, supportate da 11 aerei, 3 elicotteri antincendio e un ulteriore elicottero per operazioni speciali. Altre 22 squadre sono attese in arrivo nelle prossime ore.
  I residenti delle aree evacuate – tra cui Neveh Ilan, Yad Hashmona, Shoresh, Neveh Shalom e Mevo Horon – sono stati autorizzati a rientrare nelle proprie abitazioni. Anche il servizio ferroviario verso Gerusalemme è stato ripristinato, dopo accurate verifiche di sicurezza.
  Secondo quanto riferito dalla polizia israeliana, rimangono attivi sei focolai principali: tra questi, Sha’ar Hagai, Mesilat Zion, Yad Hashmona e Beit Meir. Le autorità temono che il rafforzamento dei venti previsto nelle ore centrali della giornata possa favorire una nuova propagazione delle fiamme. “Temiamo una ripresa dei roghi. Continueremo a lavorare almeno fino a sabato”, ha dichiarato Shmuelik Friedman, comandante dei vigili del fuoco di Gerusalemme.
  Nel frattempo, un uomo di 50 anni, residente nel quartiere arabo di Umm Tuba, è stato arrestato nella zona sud di Gerusalemme con l’accusa di aver appiccato volontariamente uno degli incendi. Era in possesso di materiali infiammabili. La polizia, insieme allo Shin Bet e ai vigili del fuoco, ha avviato un’indagine per accertare la matrice dolosa dei roghi. In parallelo, crescono le preoccupazioni per una campagna di incitamento attiva su Telegram e altri canali social palestinesi. Mercoledì, Hamas ha pubblicato un messaggio invitando apertamente i palestinesi a “bruciare ciò che potete: boschi, foreste e case dei coloni”. Nella giornata di giovedì, il canale israeliano Channel 2 ha riportato diversi tentativi di incendio doloso nell’area delle colline di Gerusalemme.
  In risposta all’appello lanciato da Israele per ricevere aiuti internazionali, diversi Paesi europei hanno offerto supporto immediato. Otto velivoli antincendio provenienti da Cipro e Italia sono attesi in giornata, mentre Romania, Spagna e Francia hanno confermato l’invio di ulteriori mezzi specializzati. Anche Ucraina ed Ecuador hanno manifestato la loro disponibilità a collaborare Nel frattempo l’esercito israeliano ha mobilitato oltre 50 camion antincendio, unità della Brigata di Ricerca e Salvataggio e squadre di ingegneri militari impegnate nella creazione di linee tagliafuoco. Durante la notte, la piattaforma aerea “Shimshonim” ha effettuato 95 lanci di materiale ritardante.
  Il ministro della Difesa, Israel Katz, ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, chiedendo il massimo impegno da parte delle forze armate: “Ogni sforzo è volto a salvare vite e contenere i danni”.
  L’ambasciatore israeliano in Italia, Jonathan Peled, ha voluto ringraziare pubblicamente il governo italiano per l’assistenza tempestiva: “A nome dello Stato d’Israele, desidero ringraziare il Governo italiano e la Protezione Civile per il supporto immediato e provvidenziale. Un aiuto prezioso, che assume un significato ancora più speciale nel giorno della nostra Indipendenza”.
  Nonostante la gravità della situazione, le autorità israeliane hanno confermato che i festeggiamenti per la Giornata dell’Indipendenza si svolgeranno regolarmente. Tuttavia, è stato raccomandato alla popolazione il massimo rispetto delle norme di sicurezza, in particolare durante i tradizionali barbecue.

(Shalom, 1 maggio 2025)


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La strada per Gerusalemme è in fiamme: segno o coincidenza?

Nel giorno della commemorazione, la strada per Gerusalemme è in fiamme: forse non è una coincidenza, ma un campanello d'allarme per un Israele diviso.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Nel giorno della commemorazione, in cui Israele si ferma per onorare i suoi caduti, improvvisamente una delle strade più simboliche del Paese va in fiamme. L'autostrada n. 1, l'arteria vitale che collega Gerusalemme e Tel Aviv, viene chiusa. Fumo, fuoco, panico. È solo un evento naturale? O forse è un segno? Tra il monastero di Latrun e la rampa di accesso in direzione est, le persone sono rimaste bloccate e sono fuggite a piedi verso ovest per sfuggire alle fiamme. Questa scena mi ha restituito un'immagine sconvolgente della nostra società lacerata. L'incendio esterno come specchio di un fuoco interiore. L'odio che oggi divampa tra gli schieramenti, tra Gerusalemme e Tel Aviv, tra destra e sinistra, tra religiosi e laici, accende sempre nuovi fronti. Si potrebbe dire che il fuoco che infuria all'esterno riflette un fuoco interiore. Questa esperienza mi ha profondamente commosso, perché anche noi viviamo in un moshav sulle montagne boscose di Gerusalemme. Ieri, dopo il lavoro, abbiamo dovuto fare una deviazione per tornare a casa, accompagnati dalla vista inquietante del fumo che si alzava all'orizzonte.
  Nella Bibbia il fuoco non è mai solo una forza della natura. È linguaggio. Quando Dio parla a Mosè, lo fa dal roveto ardente (Esodo 3). Il profeta Elia vede fuoco, tempesta e terremoti, ma la voce di Dio si rivela nel «sussurro di una brezza leggera» che segue (1 Re 19). Il fuoco è un segno. Può significare giudizio, ma anche purificazione, conversione. La domanda è: chi vede? Chi ascolta?
  Già nella storia ebraica leggiamo che quarant'anni prima della distruzione del Secondo Tempio, le porte del santuario si aprirono da sole, come se l'edificio volesse annunciare la propria fine. Ma il popolo continuò a litigare, fino alla rovina. Anche oggi non bruciano solo le foreste. La nostra società è in fiamme. Tra il dovere militare e il dovere religioso, tra schieramenti politici, tra due visioni del mondo per lo Stato di Israele.
  Come allora con il profeta Geremia, la cui brocca rotta era una parabola della catastrofe imminente e nessuno voleva ascoltarla (Geremia 19). Come allora con Gesù di Nazareth, che pianse su Gerusalemme e disse: «Se tu avessi riconosciuto ciò che serve alla tua pace...» (Luca 19). Forse era «solo» un incendio boschivo. Ma forse era anche un richiamo dall'alto. Un appello: smettete di bruciarvi a vicenda! Spegnete i fuochi interiori prima che sia troppo tardi.
  La strada n. 1 non è solo una via di comunicazione. È il simbolo del compito centrale della nostra generazione. 1.500 persone morirono nella guerra d'indipendenza del 1948 mentre si recavano a Gerusalemme. Oggi non bruciano convogli, ma le tensioni tra visioni del mondo, gruppi, ideologie continuano ad alimentare nuovi focolai. Per questo motivo è diventata un monumento commemorativo e un simbolo del legame tra i due poli di Israele, la Gerusalemme montuosa, spirituale e nazionale, e la Tel Aviv pianeggiante, pragmatica e universale. Questo legame non è solo geografico, ma esistenziale.
  Da sempre, sulle alture di Gerusalemme vivevano ebrei religiosi, perché lì sorgeva il Tempio. La pianura costiera, invece, è sempre stata il centro della popolazione ebraica laica ed economicamente forte. E sono proprio questi contrasti a rendere fertile la nostra società, a patto che li uniamo invece di metterli l'uno contro l'altro.
  Naturalmente ci sono nemici esterni e sì, questa è la grande sfida per la sopravvivenza di Israele. Ma finché siamo impegnati a combatterci tra noi, è difficile sconfiggere coloro che vogliono davvero distruggerci. Abbiamo imparato questa dolorosa lezione negli ultimi due anni. Quando la divisione diventa troppo profonda, il nemico fiuta la debolezza e colpisce.
  Il 7 ottobre Hamas ha visto la nostra divisione interna e ha attaccato. Ma nei giorni successivi ci siamo svegliati, abbiamo messo da parte molte controversie, abbiamo riconosciuto la loro relativa insignificanza e siamo diventati una nazione unita e forte. Ma ora? Ora ci sono voci che vogliono tornare indietro. Che vogliono riaccendere il fuoco.
  Mentre Israele onora i suoi morti e lotta per l'unità, i canali palestinesi sui social media diffondono appelli mirati all'incendio doloso. Non si tratta di una provocazione simbolica, ma di terrorismo sotto forma di fiamme. Almeno tre sospetti sono già stati arrestati. Gli incendi che stanno devastando la strada per Gerusalemme non sono solo disastri naturali. Molti sono considerati dolosi e colpiscono il Paese in un momento di grande tensione interna. I venti orientali estremamente forti offrono ai responsabili condizioni ideali. Sanno esattamente cosa stanno facendo: il fuoco diventa un'arma mirata contro Israele.
  Troppo spesso mi capita, anche nelle discussioni con gli amici, che uno demonizza il governo e l'altro odia l'élite di sinistra. Entrambe le parti amano il Paese, ma ne hanno visioni diverse. Recentemente, durante una riunione su Zoom, ho persino dovuto richiamare all'ordine una partecipante che era infastidita dal capo dei servizi segreti interni israeliani, Ronen Bar. È questo reciproco scontro che ci paralizza, proprio come l'incendio sull'autostrada n. 1 ha interrotto il collegamento tra le città e le visioni del mondo del popolo israeliano.
In occasione della Festa dell'Indipendenza avrei voluto scrivere parole più speranzose. Ma non voglio essere cieco di fronte al simbolismo di questo giorno. Il fatto che proprio nel giorno in cui si commemorano i caduti (25.420 dal fondamento dello Stato di Israele) sia in fiamme proprio quella strada che rappresenta l'unità del Paese, è più che una coincidenza. I segnali devono essere ancora più forti? Il segnale di allarme deve essere ancora più chiaro? Dobbiamo tornare alla ragione e spegnere gli incendi che divampano tra di noi. A causa dei forti venti orientali e dei vasti incendi boschivi, ieri sera sono state annullate le celebrazioni ufficiali per l'indipendenza sul Monte Herzl a Gerusalemme. Al loro posto, la televisione israeliana ha trasmesso una prova generale registrata in precedenza.
  Non è questo il momento di cercare di capire chi è “colpevole”. È il momento di vedere i segni, di capire e di agire. Gli incendi potrebbero essere un monito: se non proteggiamo il percorso tra Gerusalemme e Tel Aviv, tra visione e realtà, tra sacralità e quotidianità, tra destra e sinistra, perderemo come popolo.
  La domanda non è se l'incendio sia stato “mandato da Dio”. Piuttosto: cosa facciamo di questo momento? Lo reprimiamo o lo interpretiamo? La Bibbia conosce il “momento della consapevolezza”. Quando Davide si trova di fronte al suo abuso di potere, esclama: “Ho peccato”. Quando Ninive viene avvertita, si pente e viene risparmiata. Questi segni non sono minacce, ma inviti a convertirsi. Alla riconciliazione. In questo senso, la strada in fiamme che porta alla capitale è uno specchio. Se non manteniamo aperta la strada verso la convivenza nella società israeliana, se permettiamo che il fanatismo, la paura e l'odio dicano l'ultima parola, finiremo per bruciare noi stessi.

(Israel Heute, 1 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele – e non Hamas – sul banco degli imputati? Ma perché l’Occidente non riesce a capire il Medio Oriente?

Che tempi stiamo vivendo. Come se non bastassero le guerre, ora anche il commercio internazionale è diventato un terreno di scontro.

di Paolo Salom

[Voci dal lontano Occidente] - E il piccolo Stato degli ebrei intanto continua a difendersi in una regione sempre più nel caos. Appare ogni giorno di più sorprendente che il lontano Occidente non riesca a percepire la realtà mediorientale: un’unica isola di diritti e libertà circondata da Paesi (Paesi?) straziati da conflitti settari e tribali, dominati da élite sanguinarie, uniti soltanto dall’intento di distruggere Israele. Sarebbe logico attendersi solidarietà da chi condivide cultura e obiettivi sociali. Invece accade il contrario, ancora e ancora: Israele è tornato a combattere per liberare gli ostaggi rimasti nelle mani dei terroristi di Hamas, a Gaza – 59 esseri umani soltanto la metà dei quali ancora in vita – e di nuovo si levano le voci contro le “azioni crudeli” di Tsahal.
Viene naturale chiedersi che cosa avrebbero fatto nazioni come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, la stessa Italia in una situazione simile. Si biasima Gerusalemme per una guerra che non ha voluto invece di condannare senza ambiguità chi quella tragedia l’ha cercata fino in fondo. Perché questo scollamento dalla realtà? Nel secondo conflitto mondiale gli Alleati hanno combattuto, senza tentennamenti, fino alla resa totale dei loro nemici: in Europa i nazifascisti, in Asia, i giapponesi. Cosa c’è di diverso nella guerra contro Hamas (e i suoi alleati iraniani e yemeniti)? Nulla se non le proporzioni: gli israeliani stanno combattendo per liberare i loro (i nostri) fratelli strappati alle loro case. Per sconfiggere un male sconfinato che mira, per sua stessa ammissione, al genocidio degli ebrei. Eppure i combattimenti finirebbero comunque all’istante se tutti gli ostaggi venissero liberati: ma in quale contesto (altro che per Israele) è accettabile che un branco di terroristi sanguinari vengano considerati interlocutori con i quali trattare uno “scambio”? Io capisco le famiglie dei disgraziati tenuti prigionieri da un anno e mezzo in condizioni abiette e crudeli. Il loro dolore è il nostro. Ma chi critica Israele perché cerca di riportare a casa queste anime e vuole distruggere i nemici perché non ripetano (come promettono) un altro 7 ottobre, si rende conto dell’inversione morale di cui si fa responsabile? A nessuno piace la guerra, ma quale altro strumento ha a disposizione una nazione attaccata e minacciata con tale violenza?
Oggi si parla, ogni giorno, di “vittime palestinesi”, si danno numeri che nessuno può (o vuole) verificare. Si mette Israele – e non gli sgherri di Hamas – sul banco degli accusati, si intima agli ebrei della diaspora (è successo in Italia) di prendere le distanze, anzi, di “condannare” Israele per non essere considerati “complici”. E, ahimè, qualcuno di noi è effettivamente caduto in questa trappola retorica. Bene, io insisto: questo è un momento decisivo nella Storia di Israele e degli ebrei della diaspora. Per quanto dolorosi gli eventi di cui siamo testimoni, dobbiamo continuare ad avere fiducia nel nostro essere nazione, dobbiamo sostenere Israele e sostenerci l’un l’altro perché quello che accade nel lontano Occidente, non facciamoci illusioni, ha radici antiche e un solo scopo: cancellare tutto quanto abbiamo ricostruito. Non facciamoci sovrastare: siamo un piccolo popolo ma abbiamo dentro di noi tutte le risorse per superare anche questo ostacolo.

(Bet Magazine Mosaico, 1 maggio 2025)

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