Netanyahu: le mosse importanti in Giudea e Samaria sono solo all'inizio
“Ho detto che avremmo impedito la creazione di uno Stato palestinese, e lo stiamo facendo, insieme”, ha dichiarato il premier.
di Akiva Van Koningsveld
Il riconoscimento di massa da parte di Gerusalemme delle nuove comunità ebraiche in Giudea e Samaria “non è la fine, è l'inizio”, ha promesso martedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ai leader locali.
“25 anni fa ho promesso che avremmo approfondito le nostre radici, e lo abbiamo fatto, insieme”, ha detto Netanyahu, intervenendo a un evento organizzato dal Consiglio regionale di Binyamin nel sud della Samaria.
“Ho detto che avremmo impedito la creazione di uno Stato palestinese, e lo stiamo facendo, insieme. Ho detto che avremmo costruito e mantenuto parti del nostro Paese, della nostra patria, e lo stiamo facendo”, ha continuato.
“Tutte le persone qui presenti possono testimoniare che la loro vita è diventata molto più semplice, molto più organizzata e che, in molte comunità, non si viene più trattati come figliastri [di seconda classe]”, ha affermato.
Netanyahu, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz e altri ministri del governo e legislatori hanno partecipato all'evento, organizzato dal capo del Consiglio regionale di Binyamin, Israel Ganz, per celebrare il riconoscimento o la legalizzazione di 17 comunità ebraiche esistenti e nuove all'interno della giurisdizione del consiglio negli ultimi mesi.
“Stiamo celebrando un momento storico ed emozionante che rappresenta la diretta realizzazione della visione sionista. La legalizzazione di 17 nuove comunità è un altro passo che rafforza le comunità della Giudea e della Samaria e stabilisce fatti concreti”, ha dichiarato Ganz.
Il leader regionale, che è anche a capo del gruppo ombrello delle comunità ebraiche Yesha Council, ha esortato: “Ora dobbiamo andare avanti nell'applicare la sovranità sulle regioni di Binyamin e su tutta la Giudea e la Samaria”.
“Il popolo di Israele è con voi. Il popolo di Israele è orgoglioso di voi. Non c'è mai stata una questione alla Knesset che abbia ricevuto un sostegno così schiacciante. Anche sulla scena internazionale, la gente è in attesa di sentire le notizie da qui”, ha detto ai funzionari presenti.
A maggio il Gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato 22 nuove comunità ebraiche in tutta la Giudea e la Samaria, comprese due nel nord della Samaria che erano state sradicate dalle forze israeliane nell'ambito del disimpegno da Gaza del 2005.
Alcune delle comunità approvate sono avamposti esistenti che finora non erano autorizzati dalla legge israeliana, mentre altre sono nuovi villaggi.
Inoltre, la scorsa settimana un ente governativo israeliano ha dato l'approvazione definitiva a un progetto edilizio in Giudea, nella zona di Gerusalemme, che secondo il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich “seppellisce l'idea di uno Stato palestinese”.
Il progetto prevede la costruzione di circa 3.400 unità abitative nella cosiddetta zona E1 di Ma'ale Adumim, situata tra Gerusalemme e la parte attualmente edificata di Ma'ale Adumim.
Al 1° gennaio, 529.704 ebrei vivevano nei territori della Giudea e della Samaria, pari a circa il 5,28% della popolazione dello Stato ebraico.
Nel frattempo, secondo un sondaggio pubblicato l'11 marzo dal Jewish People Policy Institute (JPPI), il 58% degli ebrei israeliani ritiene che le comunità della Giudea e della Samaria contribuiscano alla sicurezza del Paese.
Secondo un sondaggio condotto il 29 gennaio, quasi il 70% degli israeliani desidera che Gerusalemme estenda la piena sovranità giuridica sul territorio conteso.
Il governo israeliano ha recentemente avvertito alcune importanti nazioni europee che qualsiasi riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese potrebbe spingere Gerusalemme a estendere la sovranità su parti della Giudea e della Samaria.
Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar e il ministro degli Affari strategici Ron Dermer avrebbero detto a Francia, Regno Unito e altri paesi che questa mossa potrebbe portare Israele ad annettere l'Area C della Giudea e della Samaria e a legalizzare gli avamposti.
“Le mosse unilaterali contro Israele saranno contrastate con mosse unilaterali da parte di Israele”, ha detto Sa'ar ai suoi omologhi, secondo un articolo pubblicato a maggio da Israel Hayom.
(JNS, 27 agosto 2025)
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Per il professor Nivarra non esistono “ebrei buoni”, se si tratta d’Israele
di Filippo Piperno
Tra tutti gli episodi di ordinario antisemitismo in cui è possibile imbattersi ogni giorno se si frequenta un social network e soprattutto se si porta un cognome come il mio, il post su Facebook del professor Luca Nivarra è certamente uno dei più raccapriccianti.
Nivarra, professore ordinario di Diritto civile presso l’Università degli Studi di Palermo e giurista di chiara fama ha scritto un post, che riportiamo per intero in questa pagina, nel quale invita a ritirare l’amicizia su Fb «ai vostri amici ebrei». E anche agli amici «buoni, che si dichiarano disgustati da quello che sta facendo il governo di Israele e l’IdF. “Mentono – incalza Nivarra – e con la loro menzogna contribuiscono a coprire l’orrore: è una piccola, piccolissima cosa ma cominciamo a farli sentire soli, faccia a faccia con la mostruosità di cui sono complici».
Gli ebrei buoni che in realtà mentono con riguardo a Israele, scrive Nivarra, mentono perché sono ebrei, aggiungo io. Mentono in quanto ebrei, con riguardo a Israele.
Heinrich Himmler, il capo delle SS, amava spesso ripetere ai suoi collaboratori che qualche ebreo poteva anche sembrare una brava persona, corretta e persino leale. Che ogni tedesco poteva dire di annoverare qualche ebreo come un “buon amico”. Ma, metteva in guardia Himmler, non contava: restavano ebrei, e per questo andavano annientati.
Ieri, in una delle esternazioni più cristalline di antisemitismo che si siano lette in Italia e non solo Italia da molto tempo, Nivarra ci dice che non importa cosa pensino o dicano i singoli ebrei, non importa se si dissocino dalle decisioni del governo israeliano o dalle azioni dell’IDF. Essere ebrei, per il professore, significa comunque essere colpevoli. Non cittadini, non individui, non persone: ma un marchio collettivo di responsabilità da additare, da isolare, da isolare e ghettizzare. “Non esistono ebrei innocenti” è il sottotesto che si ricava dal post del professor Nivarra. Con riguardo ad Israele, ovviamente.
Su queste pagine lo abbiamo scritto e ripetuto fino alla nausea. Criticare le politiche di un governo è legittimo e fa parte di un normale dibattito democratico. Ma quando c’è di mezzo l’antisemitismo – e tutta la vicenda dell’indignazione antisraeliana, nella sua evidentissima unicità è permeata di antisemitismo – occorre fare molta attenzione perché il terreno diventa molto scivoloso.
Fate attenzione signore e signori che maneggiate con salottiera disinvoltura una materia che gronda lacrime e sangue. Fate attenzione. L’antisemitismo ha sempre avuto questa capacità di mutare linguaggio e ripresentarsi travestito da indignazione politica. Fate attenzione. Non è la prima volta che gli ebrei vengono stigmatizzati come un corpo estraneo, come complici universali di un crimine, come “mostri” da isolare.
E non si provi a ricorrere a semplificazioni furbastre che vorrebbero confinare questi fenomeni all’ignoranza delle persone. Nivarra è un giurista, un intellettuale, un educatore, un uomo che forma giovani in un’importante università italiana.
Quando un docente universitario – una figura che dovrebbe incarnare il rigore critico di un accademico– invita pubblicamente a “ritirare l’amicizia su Facebook agli amici ebrei”, non siamo di fronte a un eccesso retorico o a un’opinione mal formulata.
La confusione tra Israele e gli ebrei non è un errore in buona fede. Non è un espediente che noi altri “sionisti” utilizziamo per silenziare la critica ad Israele, come qualche sconsiderato continua a ripetere sui social e sui giornali: è l’anticamera dell’Abisso.
E chi si ostina a far finta di niente, chi continua a legittimare questa fogna a cielo aperto o è un irresponsabile o un complice.
Fate attenzione signore e signori. L’appello del professor Nivarra non è una “piccola cosa”. È un atto enorme, che dovrebbe pesare sulle vostre coscienze come un macigno. Sulle coscienze di chi scrive appelli per discriminare dalle università, dai festival cinematografici, dalle librerie, dagli scaffali dei supermercati. Di chi chiede agli ebrei, in quanto ebrei, di dissociarsi. Di chi definisce il 7 ottobre una “cazzata”. Di chi bestemmia la parola “genocidio”.
Fate attenzione signore e signori. Perché la puzza che tutta questa porcheria emana è già divenuta insopportabile.
(InOltre, 27 agosto 2025)
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Impressionante! Ma davvero si può arrivare a tanto? La risposta purtroppo è "sì". M.C.
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Con l'antisemitismo l'Europa nega sé stessa
L'Occidente guarda alla tragedia di Gaza rimuovendo quanto è accaduto il 7 ottobre. E nascondendo un fatto: se Hamas restituisse gli ostaggi, la guerra finirebbe. La narrazione pro Pal ha riacceso un odio anti ebraico che covava sotto la cenere.
di Silvana De Mari
Il vizio tragico dell'Europa cristiana, l'antisemitismo, dopo aver sfigurato l'anima del continente ne sta distruggendo ogni possibilità di futuro. L'Occidente è ubriaco di antisemitismo: le sinagoghe bruciano, gli ebrei sono picchiati negli autogrill, uccisi nelle strade, cacciati dai campus universitari. La guerra a Gaza è cominciata con il massacro più atroce del terzo millennio. Bambini sono stati mitragliati, bruciati vivi o decapitati davanti agli occhi dei genitori, ragazzine sono state stuprate a morte e mutilate, civili sono stati massacrati da persone che riprendevano la scena. Sono stati presi in ostaggio più di 200 israeliani, tra cui bambini. I due bambini che non sono stati restituiti sono i due bimbi con i capelli rossi, i fratellini Ariel e Kfir Bibas, rispettivamente 4 anni e 9 mesi, rapiti insieme alla loro madre dopo averli fatti assistere all' assassinio dei nonni, e strangolati insieme alla loro madre dopo un mese di cattività.
Non c'è stata nessuna vendetta da parte degli israeliani. Vendetta avrebbe voluto dire stuprare donne e ragazzini e ucciderli ridendo e mettere poi i video su Instagram. Vendetta sarebbe stato un bombardamento a tappeto come quello di Dresda, una volta al giorno per dieci giorni, in grado di cancellare dalla faccia della terra Gaza. Tutte le mattine gli abitanti di Gaza si svegliano perché gli israeliani non li hanno voluti uccidere. Tutte le mattine gli israeliani si svegliano perché gli abitanti di Gaza non hanno potuto ucciderli. Israele sta combattendo una guerra giusta: giusta vuol dire inevitabile. Non può sopravvivere se non ricupera i suoi ostaggi e se non disarma Hamas. La costituzione di Gaza prevede la distruzione dello Stato di Israele e lo sterminio di ogni ebreo nel mondo, come specificato nell'articolo 7.
I nostri media dedicano i primi 20 minuti di ogni trasmissione a raccontare con voce accorata di ogni proiettile sparato a Gaza, secondo Hamas, e di ogni vittima che il proiettile ha fatto, sempre secondo Hamas, poi si dedica qualche secondo all'Ucraina, con tono distaccato. L'enorme numero di bambini che stanno morendo in Sudan tra sofferenze atroci e senza nessun soccorso, massacrati dalle milizie islamiche o sterminati con la fame, non è mai nominato: come se quei bambini fossero irrilevanti. I cristiani che continuano ad essere martirizzati per la loro fede nelle atroci terre dell'islam reale continuano a non essere visti. Il massacro del 7 ottobre non viene più nominato, come se le ferite atroci del 7 ottobre potessero essersi rimarginate: nei sotterranei di Gaza ostaggi israeliani ridotti a scheletri scavano la loro fossa. Moltissime persone non sanno nulla del massacro del 7 ottobre. Giovanni Zenone, editore della casa editrice Fede & cultura, e io abbiamo osato parlare del massacro del 7 ottobre in un video in cui abbiamo correttamente definito «orchi» coloro che uccidono ridendo i bambini, con il maggior dolore possibile inflitto a loro e ai loro genitori. Come l'orco della fiaba di Pollicino, gli appartenenti a una cultura di morte dopo aver assassinato i bambini degli altri, causano la morte dei propri, usati come scudi umani, non protetti nei rifugi, oscenamente trasformati in bambini soldato. I palestinesi potrebbero interrompere in qualsiasi momento la morte e la distruzione della guerra restituendo gli ostaggi, ma preferiscono non farlo. Dopo la trasmissione molte persone mi hanno chiesto cosa fosse successo il 7 ottobre, perché non lo sapevano. Dopo la trasmissione sia io che la casa editrice Fede & cultura siamo sotto un boicottaggio micidiale. Sostenere le belve di Hamas paga, anche in termini economici, non solo per i fiumi di denaro che arrivano dagli anni Novanta, ma anche per il consenso. Sostenere Israele è un suicidio economico. Le armi di Gaza sono state pagate con i nostri soldi. Anche i tunnel dove sono stati strangolati i due bimbi con i capelli rossi e la loro mamma sono stati pagati con le nostre tasse, e così ogni rampa di missile da cui sono sparati missili in continuazione da anni. A Gaza, come in Giudea e Samaria, ora chiamate Cisgiordania, distribuivano dolcetti dopo che le belve palestinesi avevano compiuto in Italia i due massacri a Fiumicino, per un totale di 48 morti, dopo che avevano sparato sui bambini ebrei davanti alla sinagoga di Roma. Si distribuivano dolcetti mentre 3.000 creature umane morivano nelle Torri gemelle, mentre i treni spagnoli e la metropolitana di Londra si riempivano morte e distruzione. Hanno gioito per i trecento bambini di Besian uccisi, per il massacro del Bataclan e soprattutto per ogni attentato in Israele, per ogni bus scolastico in cui i bambini ebrei sono stati ridotti a tizzoni. Ogni bambino di Gaza, in età scolastica, dai sei anni in su alla domanda classica «cosa
vuoi fare?» risponde che vuole assassinare ebrei, che il suo unico sogno, l'unico scopo della sua vita non è
curare il cancro, scrivere un racconto o una canzone che commuova il mondo. Il suo unico sogno è rendere fieri i suoi genitori assassinando almeno un ebreo. Quel bambino, come suo padre, come suo nonno, dal 1967 in poi, ha studiato l'aritmetica su libri pagati con le tasse di tutti noi, libri forniti dall'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Su questi libri l'aritmetica si insegna così: se hai dieci ebrei e ne hai già uccisi sette, quanti ne devi ancora ammazzare?
Gli stessi individui che hanno commesso questi massacri nella letizia loro e in quella dei loro genitori in contatto telefonico, ora diffondono notizie false. Non c'è nessun genocidio a Gaza. Da quando nel 1967 sono arrivati gli israeliani, la popolazione di Gaza è quadruplicata. È dal 1974, cioè da dopo la guerra del Kippur, che qualsiasi azione faccia Israele arriva puntuale l'accusa delirante di genocidio. Israele è l'unica nazione in guerra che, benché tragicamente offesa e benché con la necessità assoluta di ricuperare i suoi ostaggi, ha evitato di condannare a morte i suoi nemici e ha addirittura fatto passare enormi quantitativi di cibo, unica nazione in guerra che sfama i propri nemici. Eppure con fotografie false è accusata di affamare i bambini palestinesi. Israele viene accusata di portare derrate alimentari, distribuirle per poi sparare su coloro che vanno a prenderle, operazione che da un punto di vista militare sarebbe una comportamento assolutamente idiota e ovviamente non dimostrato da nessuna foto.
L'antisemitismo non aspettava altro. La Shoah è stata possibile perché nessuna nazione estera ha accettato di accogliere gli ebrei in fuga dalla Germania. Lo sterminio degli ebrei è stato possibile perché l' antisemitismo covava nel cuore di tutti. Adesso sta esplodendo di nuovo, autorizzato dal vittimismo palestinese, vittimismo che è la chiave di volta per l'islamizzazione dell'Europa insieme al vittimismo dei cosiddetti migranti. Il vittimismo palestinese ha il compito di fare accettare agli europei il concetto che il terrorismo sia sempre una reazione a un'ingiustizia, dal terrorismo spicciolo dei maranza a quello più atroce dei jihadisti. Ai palestinesi uno Stato è già stato offerto innumerevoli volte, insieme a fiumi di quattrini. Non vogliono uno Stato, vogliono lo Stato: voglio distruggere lo Stato di Israele. E per questo che la gente li ama. Deve essere una soddisfazione per università non prestigiose rifiutare sdegnosamente come partner le grandiose università di Israele, la nazione con il più alto numero di premi Nobel per milione di abitanti. Piccoli nazisti crescono.
(La Verità, 25 agosto 2025)
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La responsabilità morale dell’odio di Venice for Palestine
di Costanza Escaplon
Cari “artisti” firmatari della lettera aperta “Venice for Palestine”, aspettiamo che ritiriate la firma. So che è chiedere tanto, perché persone come voi probabilmente firmano ma non leggono, e non ho quindi speranza che leggiate questo appello al ritiro della firma.
• L’appello
So che non leggete perché se aveste letto quello che stavate firmando vi sareste accorti che era scritto sotto un logo raffigurante la Palestina al posto di Israele. Non accanto. Proprio in sostituzione. Non “due popoli e due Stati”, ma uno Stato solo. Palestinese. Avete quindi firmato un appello creato da qualcuno che vuole non la pace, ma la cancellazione di Israele. Dico “qualcuno” perché non si trova traccia di chi siano i promotori di questo appello. Il loro sito non lo riporta. E nemmeno si può risalire a chi abbia registrato il dominio Internet su cui è caricato l’appello. È schermato. E non si capisce perché qualcuno che fa un appello pubblico debba nascondere il suo nome.
Non entro nel merito di quello che avete firmato, anche se ci sarebbe molto da dire. So che sarebbe inutile dirvi che a Gaza non esiste genocidio e nemmeno sterminio, e che l’uso di queste parole è strumentale alla demonizzazione di Israele alla banalizzazione della Shoah. Anche se da persone che affermano di lavorare nel mondo della cultura ci si aspetterebbe la conoscenza della differenza di significato tra “sterminio” e “guerra”, che non sono sinonimi. Per vostra tranquillità, e per evitarvi la fatica di informarvi (che mi rendo conto richiede tempo), vi assicuro che in Israele non esiste apartheid e che, anzi, ci sono medici, banchieri, commercianti arabi che sono cittadini come gli altri. Che votano, che hanno partiti politici arabi e vanno nelle stesse scuole, università e spiagge di tutti gli altri.
• Una firma da ritirare
Permettetemi di sottolineare – come ultima cosa – che un appello che sostiene “non volgeremo lo sguardo altrove” avrebbe dovuto “vedere” anche gli ostaggi israeliani. Noi abbiamo visto il corpo scheletrico di Evyatar David, affamato non da una guerra ma da aguzzini, terroristi che dal 7 ottobre lo tengono prigioniero, e lo torturano abusandone fisicamente e psicologicamente. Quindi aspettiamo che ritiriate la vostra firma e che vi dissociate almeno dalla rappresentazione di un unico Stato al posto di Israele. Oppure non fatelo, ma allora sapremo che Gaza è solo una scusa e che non si è mai trattato di Gaza.
(Il Riformista, 27 agosto 2025)
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“L'Europa deve decidere: Israele o Hamas”, afferma il ministro degli Esteri israeliano
“Ogni azione contro Israele favorisce direttamente l'asse jihadista in Medio Oriente”, ha dichiarato Gideon Sa'ar.
(JNS) Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar ha affermato domenica che gli europei devono scegliere da che parte stare: o con Israele o con i jihadisti.
“L'Europa deve decidere: Israele o Hamas. Qualsiasi azione contro Israele favorisce direttamente l'asse jihadista in Medio Oriente”, ha scritto Sa'ar su X.
Il ministro degli Esteri israeliano ha fatto riferimento alle lodi rivolte da Hamas al ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp e al presidente francese Emmanuel Macron per i loro sforzi volti a formare una coalizione di Stati che riconoscano uno Stato palestinese.
Hamas ha definito “coraggiose ed etiche” le dimissioni di Veldkamp e degli altri membri del gabinetto del suo partito “Nuovo Contratto Sociale” il 22 agosto, dopo che Veldkamp non è riuscito a far approvare sanzioni contro Israele durante una riunione di gabinetto.
“Le dimissioni di questi ministri olandesi riflettono una posizione di principio che incarna i valori umanitari e sottolinea l'impegno nei confronti dei fondamenti del diritto internazionale”, ha dichiarato Hamas in una dichiarazione del 23 agosto, secondo il Palestinian Information Center.
Hamas ha definito la decisione di Macron di riconoscere uno Stato palestinese un “passo positivo” e “un passo nella giusta direzione per ottenere giustizia per il popolo palestinese oppresso”.
Altri paesi europei hanno già riconosciuto uno Stato palestinese, tra cui Irlanda, Norvegia e Spagna a maggio.
Anche Hamas ha accolto con favore questa decisione.
“Consideriamo questo un passo importante per affermare il nostro diritto alla nostra terra”, ha dichiarato il gruppo in una dichiarazione, esortando “tutti i paesi del mondo a riconoscere i nostri legittimi diritti nazionali”.
Altri paesi hanno annunciato l'intenzione di riconoscere uno Stato palestinese, tra cui il Regno Unito, Malta, il Canada e l'Australia.
All'inizio della scorsa settimana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scritto una lettera a Macron accusandolo di promuovere l'antisemitismo nel suo paese con la sua richiesta di riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese.
Macron ha replicato il 19 agosto definendo “patetica” e “falsa” l'accusa di Netanyahu secondo cui il suo progetto di riconoscimento alimenterebbe l'antisemitismo.
“La Francia protegge i suoi cittadini ebrei e continuerà a proteggerli”, ha affermato Macron. Secondo il suo ufficio, la lettera di Netanyahu “non rimarrà senza risposta”, come riportato dal sito di notizie France 24.
Le critiche di Netanyahu sono state tuttavia appoggiate dall'ambasciatore statunitense in Francia, Charles Kushner, che in una lettera pubblicata domenica sul Wall Street Journal ha accusato Macron di contribuire all'escalation dell'antisemitismo con le sue dure critiche a Israele e la sua intenzione di riconoscere uno Stato palestinese alle Nazioni Unite a settembre.
Tali misure “incoraggiano gli estremisti, alimentano la violenza e mettono in pericolo la vita degli ebrei in Francia”, ha scritto Kushner. “Nel mondo di oggi, l'antisionismo è antisemitismo, è semplice”.
Ha criticato aspramente il governo Macron per la sua inazione di fronte al forte aumento dell'odio verso gli ebrei nel Paese dopo l'attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023.
L'antisemitismo “ha segnato a lungo la vita in Francia”, ha scritto Kushner, ma è “esploso” dopo il massacro guidato da Hamas del 7 ottobre 2023 e la successiva guerra nella Striscia di Gaza. “Non passa giorno senza che gli ebrei vengano aggrediti per strada, le sinagoghe o le scuole vengano imbrattate o i negozi ebraici vengano devastati”, si legge nella lettera.
(Israel Heute, 26 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ospedali bombardati? Tre domande da farsi
di luri Maria Prado
Ci sono domande legittime e serie da porsi quando un ospedale, sia pur in zona di guerra, è colpito.
Ieri è successo all'ospedale Nasser di Khan Younis, a Gaza.
La prima domanda riguarda l'ipotesi che l'esercito di Israele bombardi le strutture sanitarie perché vuole uccidere i pazienti, i medici e gli infermieri. È verosimile? Avrebbe senso? Per chi ritenga che Israele abbia quell'obiettivo, e che lo persegua incurante dell'esecrazione che inevitabilmente ne raccoglie, sì: è verosimile e ha un senso. Israele vuole uccidere tutti, malati e dottori compresi, e dunque bombarda gli ospedali per ucciderli. Forse qualcuno riterrà improbabile questa ipotesi, anche solo per la scarsa utilità, anzi la evidente dannosità, che Israele trarrebbe comportandosi così. Ma diamola per ammessa.
La seconda domanda riguarda l'ipotesi che l'esercito di Israele, quando colpisce un ospedale, lo fa perché ha accertato che vi si nascondono dei terroristi o che la struttura è utilizzata per attività ostili (costituzione di arsenali, impianto di postazioni di lancio di razzi, organizzazione di attacchi contro militari e civili israeliani, eccetera). Che la cosa sia successa, e non raramente, non è soltanto verosimile: è certo. Si può poi discutere sul fatto che abbia senso, o no, colpire un ospedale per eliminare i terroristi che vi si nascondono, o per neutralizzarne l'uso a fini ostili. L'unica cosa certa è che una struttura "civile" usata in quel modo perde - o vede attenuata - la guarentigia di protezione di cui è destinataria. Si può colpire, insomma. Certo, si tratta di vedere con quanta violenza e a quale costo in termini di danni alle persone. Può trattarsi di una violenza sovradimensionata e i danni possono essere eccessivi: ma tutto questo definisce l'inadeguatezza di fatto, non l'illegalità a priori, dell'operazione.
C'è poi una terza ipotesi, di cui è giusto occuparsi con un'altra domanda. E cioè che l'ospedale sia colpito dall'esercito israeliano per errore, vale a dire ritenendo erroneamente che vi si nascondano terroristi o che sia adoperato per attività ostili. È verosimile? Era il caso dell'ospedale colpito ieri? Diciamo che è possibile. Se è così, tuttavia, si tratta appunto di un errore, grave quanto si vuole e colpevole quanto si vuole. Ma non è la deliberata iniziativa rivolta a uccidere malati e medici. Non diventa una cosa buona, ma resta una cosa diversa.
Qualche parola, infine, sui giornalisti che sono rimasti uccisi nell'operazione. Non usiamo le virgolette ("giornalisti") perché non tutti, pare, erano come Mohammed Salama, il quale aveva accompagnato e ripreso i macellai del 7 ottobre mentre erano all'opera, glorificandola. È doveroso deplorare la morte di ogni essere umano, ovviamente. Ma lasciare intendere che si tratti dell'assassinio del nobile reporter per mano di chi vuol far tacere la stampa è un'altra cosa ancora. Una mistificazione che disonora e danneggia i giornalisti veri, ai quali dovrebbe ripugnare di essere accomunati agli accompagnatori dei macellai e ai distributori delle veline da tunnel.
(Il Riformista, 26 agosto 2025)
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Venezia – Festa del Cinema, due petizioni a confronto
Dario Calimani: «Manifestazioni a raffica, pregiudizio diffuso»
Resta teso il clima in Laguna, dove la petizione di Venice for Palestine sottoscritta da numerosi esponenti del mondo dello spettacolo agita la vigilia dell’82esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. L’attrice israeliana Gal Gadot, nel mirino della petizione, non dovrebbe partecipare alla rassegna al pari del suo collega britannico Gerald Butler, co-protagonista con Gadot del film fuori concorso In the Hand of Dante di Julian Schnabel. All’appello dei registi, degli attori e dei professionisti del settore perché durante la manifestazione «non venga mai meno la voce della verità sulla pulizia etnica, sull’apartheid, sull’occupazione illegale dei territori palestinesi, sul colonialismo e su tutti i crimini contro l’umanità commessi da Israele per decenni e non solo dal 7 ottobre» ha risposto nelle scorse ore una contropetizione dell’appena costituitosi comitato Venice for Israel, con il sostegno dell’organizzazione Free4Future. «L’arte non può essere usata come maschera della propaganda né piegata alle campagne d’odio che invocano la cancellazione di Israele», si legge nel documento, in cui si chiede ai vertici della mostra del Cinema e della Biennale di affermare «con chiarezza» che «i simboli culturali non possono diventare veicolo di antisemitismo e menzogna».
«Ci si sente piuttosto impotenti in questo periodo», dichiara a Pagine Ebraiche il presidente della Comunità ebraica veneziana Dario Calimani. «Ormai siamo sovrastati da manifestazioni a raffica e pure questa lettera di Venice for Palestine ha il suo effetto, parlando a un pubblico vasto». Per Calimani si tratta di un’iniziativa sbagliata, da stigmatizzare con forza come ogni proposta di boicottaggio, «ma finché mescoleremo le posizioni contro il governo israeliano e le azioni dei suoi ministri con l’antisemitismo puro e semplice ci faremo solo del male: c’è un antisemitismo diffuso che si sta espandendo a macchia d’olio nel paese sulla spinta di centinaia di associazioni, alcune delle quali dedite sulla carta alla difesa della Memoria; come ebraismo italiano dobbiamo concentrarci su quello, perché sta diventando una valanga irrefrenabile che mette a rischio il futuro». Secondo Calimani, il pericolo è altrimenti «quello di dare risposte scomposte, guardando il dito e non la luna, mentre l’odio conquista spazio ogni giorno di più».
(moked, 26 agosto 2025)
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“L’Iran dietro agli attacchi contro la comunità ebraica”
L’accusa del governo australiano
di Nathan Greppi
L’Australia ha recentemente accusato l’Iran di aver orchestrato due incendi dolosi che l’anno scorso hanno colpito la comunità ebraica australiana, decidendo di tagliare i legami diplomatici con il paese ed espellere i suoi diplomatici.
“Questi sono stati atti di aggressione straordinari e pericolosi orchestrati da una nazione straniera sul suolo australiano”, ha detto il Primo Ministro australiano Anthony Albanese in una conferenza stampa nella capitale Canberra, dove secondo il New York Times è stato affiancato da un alto funzionario dell’intelligence australiana, dal Ministro degli Esteri e dal Ministro degli Affari interni. Ha aggiunto che quelli perpetrati erano “tentativi di minare la coesione sociale e seminare discordia nella nostra comunità”.
• Antisemitismo in Australia
Dalla fine dello scorso anno, un’ondata di attacchi violenti contro imprese e istituzioni ebraiche ha scosso l’Australia, dove secondo i censimenti vivono circa 117.000 ebrei.
A Sidney, nel gennaio di quest’anno, un incendio doloso aveva colpito un asilo nido ebraico, mentre due sinagoghe erano state vandalizzate con graffiti riproducenti svastiche e messaggi inneggianti al nazismo. Già allora era emerso il sospetto che dietro gli attacchi ci fossero dei mandanti stranieri.
• Il ruolo dell’Iran
Le agenzie di sicurezza australiane hanno concluso che l’Iran è responsabile di due attacchi incendiari: uno, nell’ottobre 2024, contro un ristorante kasher vecchio di decenni, il Lewis’ Continental Kitchen di Sydney; l’altro, avvenuto due mesi dopo, contro la Sinagoga Adass Israel di Melbourne. Nessuno è rimasto ferito negli attacchi.
Mike Burgess, capo dell’intelligence australiana, ha detto che un’indagine durata mesi ha scoperto collegamenti tra i due attacchi e il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica dell’Iran, che l’Australia ora pensa di designare come organizzazione terroristica. Burgess ha detto che organizzazioni criminali attive al di fuori dell’Australia sono state coinvolte negli attacchi, ma non ha rivelato ulteriori dettagli.
Le Guardie della Rivoluzione avrebbero usato “una complessa rete di proxy per nascondere il loro coinvolgimento” negli attacchi, ha detto Burgess alla conferenza stampa. L’Ambasciatore iraniano in Australia, Ahmad Sadeghi, è stato informato dell’espulsione circa mezz’ora prima dell’annuncio, ha detto Albanese.
Il Ministro degli Esteri australiano Penny Wong ha detto che è la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale che l’Australia espelle un ambasciatore, ma che l’Iran ha “oltrepassato il limite”. Sadeghi e altri diplomatici e funzionari iraniani hanno avuto sette giorni per lasciare il paese, ha aggiunto.
Secondo la Wong, oltre ad espellere i diplomatici iraniani dall’Australia è stata anche chiusa l’Ambasciata australiana a Teheran. I diplomatici australiani che si trovavano lì sono stati trasferiti in sicurezza in paesi terzi, e gli australiani che attualmente si trovano in Iran sono stati esortati a lasciare il paese.
L’Ambasciata israeliana in Australia ha risposto rapidamente agli annunci, definendo la designazione terroristica per le Guardie della Rivoluzione “una mossa decisa e importante”. In una dichiarazione pubblicata sui social, l’Ambasciata ha dichiarato: “Il regime iraniano non è solo una minaccia per gli ebrei o per Israele, ma mette in pericolo l’intero mondo libero, compresa l’Australia”.
(Bet Magazine Mosaico, 26 agosto 2025)
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Riguardo all’antisemitismo mondiale siamo ancora nel paradigma errato
Non è solo Hamas, non è solo l’Iran; perché tutto il mondo è contro di noi?
di Rav Chaim Navon
La Francia imparò la lezione dalla Prima Guerra Mondiale e costruì la Linea Maginot. Era un’enorme muraglia di potenti fortificazioni, la maggior parte sotterranee, collegate da ferrovie sotterranee. La Linea Maginot fu un enorme successo ingegneristico – ma i tedeschi la aggirarono facilmente all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, e si precipitarono con i loro carri armati moderni a spaccare la Francia. I francesi avevano davvero imparato la lezione dalla guerra – solo che non era la lezione giusta.
Fino al massacro di Simchat Torah 5784 vivevamo dentro una bolla. Poi la bolla scoppiò, e imparammo la lezione. Ma abbastanza presto scoprimmo che non era la lezione giusta. Come le bambole russe che una volta chiamavamo “babuschka”, si rivelò che vivevamo in una bolla dentro una bolla. Quando scoppiò la prima bolla capimmo quanto avevamo sottovalutato il valore di Sinwar e il pericolo di Hamas; quanto ci eravamo illusi che il muro che avevamo costruito potesse fornirci protezione; quanto ci eravamo sbagliati quando avevamo permesso agli assassini pazzi di Hamas di costruire uno stato del terrore a distanza di sputo.
Ma da allora si sono accumulate prove che ci hanno insegnato che anche questa immagine è molto parziale. Sempre più scoperte ci insegnano che non si trattava di qualche piano puntuale e maligno del genio malvagio Sinwar, ma di un dettaglio di un piano gigantesco per la distruzione dello Stato di Israele, ideato dai suoi padroni in Iran. Il ministro Smotrich ha approfondito questo tema non molto tempo fa in un discorso pubblico.
Altri dettagli di questo piano continuano a emergere, e oggi sembra che Hamas fosse l’anello debole. Se avessero invaso Israele simultaneamente Hamas da sud, Hezbollah da nord e grandi milizie irachene da est – con grande orrore è difficile credere che saremmo riusciti a fermarli. Se quello stesso giorno fossero stati lanciati contro Israele anche decine di migliaia di missili balistici dall’Iran, avremmo potuto contare i nostri morti in sei cifre. Quella avrebbe potuto essere la fine dello Stato ebraico.
Quando questa seconda bolla si frantumò scoprimmo che Sinwar non era il cervello malvagio e brillante che aveva ideato un piano militare geniale, ma un comandante avventato e avido di gloria, che insistette nel metterlo in pratica senza coordinarsi con i suoi partner. Hamas da solo lo fermammo a fatica, grazie a migliaia di volontari che si precipitarono in battaglia, senza che nessuno li chiamasse; grazie alla polizia, che rapidamente installò posti di blocco; e grazie alla malvagità dei terroristi, che non riuscirono a trattenersi e si fermarono al festival Nova, per stuprare e torturare e massacrare. Senza questi tre fattori, i membri di Hamas avrebbero potuto arrivare anche a Tel Aviv. Se si fossero uniti a loro gli altri nemici di Israele, come volevano e pianificavano – guai a noi e ai nostri figli.
La domanda che mi tormenta oggi è se con questo abbiamo esaurito le nostre bolle; se non è possibile che siamo ancora intrappolati dentro una terza bolla, ancora più grande delle precedenti: la bolla dell’odio verso Israele. Ci troviamo di fronte a un’ondata senza precedenti di antisemitismo: da parte dei nostri nemici terroristi, che sono disposti a far diventare tutta Gaza un cumulo di macerie purché riescano a uccidere altri ebrei; e da parte della maggior parte del mondo occidentale, che esprime riserve insipide e piene di rancore verso lo Stato ebraico. Non sono contro di noi perché sono a favore dei diritti umani; sono contro di noi perché sono contro di noi. L’antisemitismo è di nuovo di moda in Occidente.
Non molto tempo fa si è scoperto che 1.500 rifugiati sono stati massacrati in un giorno ad aprile di quest’anno in un campo profughi in Darfur. Ne avete sentito qualcosa? Avete visto il mondo occidentale agitarsi?
Nei decenni trascorsi dalla Shoah eravamo abituati a pensare che l’antisemitismo fosse un fenomeno passeggero, e che la simpatia per gli ebrei fosse la nuova normalità. Ma forse stiamo assistendo al frantumamento di questa bolla; al riconoscimento del fatto che proprio il declino dell’antisemitismo in Occidente era l’eccezione temporanea e anormale, e che oggi stiamo tornando alla realtà che i nostri padri conoscevano da sempre: “È noto che Esaù (e Ismaele) odiano Giacobbe“.
Non c’è alcuna spiegazione razionale per il prezzo che gli arabi musulmani sono disposti a pagare in cambio del massacro tra noi; non c’è alcuna spiegazione razionale per l’entusiastico sostegno che ricevono nelle capitali occidentali. Dato che è così, rimaniamo con la spiegazione irrazionale. I gentili odiavano mio padre, quando cercarono di ucciderlo nelle battaglie del Canale; odiavano mio nonno, quando si nascose in Olanda durante la Shoah e si travestì da pastore di maiali locale; odiavano il mio bisnonno, quando gli bruciarono la barba nella Prima Guerra Mondiale. Perché mi è venuto in mente che non avrebbero odiato me? Non sono migliore dei miei padri.
Nonostante questo odio, potremo con l’aiuto di Dio esistere in sicurezza in questa terra. Potremo accumulare forza, stringere alleanze temporanee, trovare partner, identificare interessi comuni. La terra potrà riposare quarant’anni. Quello che non potremo fare d’ora in poi è dormire con entrambi gli occhi chiusi. Se la terza bolla si sta davvero frantumando adesso, d’ora in poi dormiremo sempre con un occhio aperto.
(Kolòt - Morashà, 26 agosto 2025)
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Come il mondo ha pigramente accettato la sorte degli ostaggi israeliani
di Iuri Maria Prado
Sono passati ormai quasi due anni da quando i nazisti di Gaza, dopo averne uccisi più di milleduecento indiscriminatamente – uomini, donne, vecchi, bambini, lattanti – ne hanno rapiti altri duecentocinquanta, ancora una volta uomini, donne, vecchi, bambini, lattanti. In questi quasi due anni i nazisti di Gaza hanno torturato e assassinato un buon numero di quegli ostaggi.
E in questi quasi due anni il mondo ora ha accettato quell’andazzo aguzzino, ora l’ha considerato un mezzo magari non commendevole, ma in ogni caso comprensibile e inevitabile, nel quadro della guerra di Gaza.
Rapire un bambino di otto mesi e il fratello di quattro anni, e strangolarli, e restituirli in due bare nere tra la folla in festa, con i “giornalisti” che riprendevano l’evento e con la Croce Rossa che firmava i documenti, magari con qualche stretta di mano con i macellai, ecco, tutto questo era e continua a essere osservato dal mondo maggioritario come la parte magari non gradevole della guerra di Gaza, ma insomma come la parte naturale e legittima della guerra di Gaza.
Tutt’al più in questi quasi due anni – ma nemmeno sempre – quel mondo maggioritario ha chiesto la liberazione degli ostaggi. L’ha chiesta come si chiede la liberazione dei tombini intasati, come si chiede il rifacimento di un cornicione ammalorato, come si chiede il ripristino di un manto stradale con troppe buche, ma allargando le braccia se non vi si provvede. Vabbè, c’è un po’ d’acqua per strada; amen, il cornicione è scassato; pazienza, staremo attenti alle buche.
Ma il meccanismo emotivo e umano che tratta l’ebreo preso in ostaggio e tenuto sequestrato per due anni, e torturato, e ammazzato con un colpo alla testa, il meccanismo emotivo e umano che lo tiene nel conto in cui è tenuto un marciapiede allagato o la facciata scrostata di un edificio, cose magari spiacevoli ma pazienza, da dove viene? In che cosa consiste e da dove viene?
Consiste e viene da due elementi ora alternativi e ora combinati. Il primo è semplice: si tratta di ebrei. Il secondo, che in qualche modo dipende dal primo, è più strutturato. Quei rapimenti, quelle torture, quegli assassinii acquisiscono legittimità – una “legittimità” che si traduce in quella noncuranza – in forza o per meglio dire a causa dell’illegittimità della presenza ebraica in Israele.
Sono i padri, le madri, i figli, le figlie, i nipoti e le nipoti degli usurpatori: il che, se non giustifica, almeno spiega la violenza di cui sono destinatari. E simultaneamente spiega, se non giustifica, il gesto di chi li rapisce, li tortura, li strangola e per due anni continua a trattenerli, vivi o cadaveri.
Pensateci. Già il fatto che la liberazione degli ostaggi sia parte di una ipotesi di accordo, già il fatto che quella formula vuota e routinaria – “la liberazione incondizionata degli ostaggi” – mai fatta oggetto di qualche intimazione in caso di inottemperanza (non c’è mai un “altrimenti…”), già il fatto che sia considerata materia transigibile, già soltanto questo dice tutto.
Dice in piccolo, riproduce in piccolo, ciò che successe nella seconda guerra mondiale. Il mondo vittorioso sulla Germania nazista festeggiava la liberazione, festeggiava la vittoria contro la Germania nazista. Ma questa non era la percezione degli ebrei d’Europa, perché la Germania nazista aveva vinto la guerra contro gli ebrei.
I nazisti di Gaza saranno sconfitti, e sarà solo Israele a sconfiggerli. Ma i nazisti di Gaza avranno vinto la loro guerra contro gli ostaggi. E l’avranno vinta grazie al mondo maggioritario che gliel’ha fatta vincere.
(InOltre, 25 agosto 2025)
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La grande amarezza a Venezia: quel cinema che si consegna ai pro pal
di Francesca Nocerino
Si, c’è da aver paura, molta paura quando un bel pezzo del mondo del cinema firma un appello sconnesso, contraddittorio e grondante sangue, come questo “Venice for Palestine” in occasione della 82° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Paura perché tanta brava gente del cinema, sicuramente mossa da buoni sentimenti e propositi pacifisti, si è lasciata trascinare in una macchina dell’odio, e del fango, senza battere ciglio. Voglio pensare, e questo non è bene, che i più non abbiano letto ciò che hanno firmato. Che gli hanno proposto un “appello per Gaza” e tutti a dire: sì, certo!
E allora, intanto questo è un appello che incita il venir meno proprio della funzione del cinema, che sarebbe il core business della Mostra di Venezia. È attraverso le immagini e le sceneggiature infatti che il cinema dovrebbe parlare: occhio sul mondo e sulle diverse realtà, strumento di denuncia e resistenza, di conoscenza e informazione, di parola e pensiero.
Accade invece che la campagna V4P (roba professionale eh, studiata da mesi, mica improvvisazione emotiva!) da un lato sostenga : “La Biennale e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica dovrebbero celebrare la potenza dell’arte come mezzo di trasformazione, di testimonianza, di rappresentazione dell’umano e di sviluppo della coscienza critica. Ed è proprio questo a renderla uno straordinario mezzo di riflessione, di partecipazione attiva e di resistenza.” E, in contemporanea invita : “chi lavora nel cinema a immaginare, coordinare e realizzare insieme, durante la Mostra, azioni che diano risonanza al dissenso verso le politiche governative filosioniste: un dissenso espresso nel segno della creatività, grazie alle nostre capacità artistiche, comunicative e organizzative”.
Non basta dunque la potenza dell’arte. Ci vuole lo squadernamento dell’odio, degli occhi iniettati di sangue, delle bandiere pro-pal sguainate per minacciare emarginare e censurare gli artisti israeliani. Gal Gadot e Gerard Butler sono solo i primi a finire nel mirino dei guardiani del cinema di regime, con la richiesta di esclusione dalla mostra. Urleranno che non tutti i palestinesi sono con Hamas, al contrario tutti gli artisti israeliani (bambini compresi) sono complici del presunto genocidio. Come avrebbe detto Orwel alcune manifestazioni artistiche sono universali ma altre sono meno universali. Potenza del totalitarismo del pensiero.
Lo sanno le tante brave persone del cinema che hanno firmato per una grafica che disegna Israele, col sangue? Che lo cancella dalla mappa del Medioriente? Non una legittima critica politica (d’accordo o no) ma la rappresentazione di un popolo intero (bambini compresi ovviamente) con le mani sporche di sangue? Lo sanno di aver firmato per un falso storico e per di più negazionista? Per queste parole: “che non venga mai meno la voce della verità………sul colonialismo e su tutti i crimini contro l’umanità commessi da Israele per decenni e non solo dal 7 ottobre.” Parole che, proprio in sintesi, negano la legittimità dello Stato di Israele (Non rifacciamo la storia che Israele è dal 48 che viene attaccata e vive stabilmente sotto una pioggia di missili ecc.. ecc.. tanto è proprio questo che negano inventandosi decenni di crimini). Parole che, sempre in sintesi, non citandolo, negano l’orrore del 7 ottobre anzi, peggio, quasi lo giustificano…
Parole che raccontano un Paese come la summa di tutte le negatività del mondo. Un Paese da odiare. Da cancellare. A cui è negato il diritto a difendersi. Il diritto alla verità, a contrastare le narrazioni menzognere. Che deve abbassare il capo davanti alle aggressioni. Che diventa esso stesso responsabile dei vomitevoli fenomeni di antisemitismo a cui stiamo assistendo. Parole che sanno tanto di venir fuori dal repertorio dei fiancheggiatori di Hamas.
Parole che, probabilmente, la brava gente del cinema non ha letto o non ha approfondito prima di firmare (almeno crediamo). Ed è questo che ci spaventa: come l’odio cieco e incondizionato venga spesso alimentato da chi ha troppo timore o troppa pigrizia per guardare oltre il main stream e sventare l’ipnosi della propaganda. Magari ha anche buone intenzioni ma, come diceva un guru di certo pensiero come Karl Marx, “è proprio di buone intenzioni che è lastricata la strada per l’inferno”.
(Shalom, 25 agosto 2025)
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Ismaele ed Esaù: l'antica alleanza contro Israele e il suo nuovo volto in Occidente
I conflitti in Medio Oriente non sono solo scontri politici o territoriali. Hanno radici profonde nella storia spirituale dell'umanità. Ismaele ed Esaù, entrambi figli di Abramo, entrambi esclusi dalla scelta divina, entrambi portatori di una profonda resistenza interiore alla promessa divina fatta a Isacco e Giacobbe, formano una linea che attraversa la storia e il presente. Israele si trova ad affrontare un'alleanza attuale tra ideologie islamiche e movimenti occidentali post-cristiani. Qual è l'alternativa spirituale a questa alleanza?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Perché la storia biblica di Ismaele continua ad avere ripercussioni sulla politica mondiale ancora oggi? Cosa accomuna Esaù alle ONG di sinistra, alle risoluzioni delle Nazioni Unite e alle proteste di piazza a Berlino? E perché tra Ismaele ed Esaù si può vedere un'alleanza profetica contro Israele, allora come oggi?
Il legame tra Ismaele e Isacco si fonda su una linea profonda e allo stesso tempo controversa che attraversa la profezia biblica, l'interpretazione ebraica e gli attuali sviluppi geopolitici. Il legame tra Esau (Edom) e Ismaele è stato interpretato per secoli nell'esegesi biblica come un'alleanza spirituale contro Israele, teologica, ideologica e, in alcune epoche, anche militare.
• Ismaele, capostipite
La Bibbia descrive Ismaele, capostipite dei popoli arabi, in quattro momenti chiave. Ognuno di essi porta con sé un messaggio profondo sul rapporto tra Israele e Ismaele, tra ebraismo e islam.
Nascita con una condizione. La nascita di Ismaele viene annunciata da un angelo, ma a condizione che Agar torni nella casa di Abramo. Il messaggio è: l'esistenza spirituale di Ismaele dipende dal legame con le origini abramitiche, non come sostituto, ma come derivazione dell'alleanza.
Rifiuto per divergenza spirituale. Ismaele viene respinto a causa di una misteriosa “risata”. L'interpretazione ebraica vede in questo un rifiuto morale o spirituale. Il messaggio è che l'allontanamento di Ismaele rappresenta l'alienazione dallo spirito di Abramo. Tuttavia, la conversione rimane possibile.
Il funerale di Abramo, un segno di pentimento. Alla morte di Abramo, Ismaele si fa da parte e lascia il posto a Isacco. Il messaggio è chiaro: il riconoscimento dell'elezione di Israele può portare alla riconciliazione spirituale.
Il matrimonio con Esaù: un'alleanza pericolosa. La figlia di Ismaele sposa Esaù, simbolo delle alleanze ostili contro Israele. E il messaggio è: ogni coalizione teologica o politica contro Israele contraddice il piano divino.
La Bibbia non demonizza Ismaele. Lo mostra come una figura instabile, in bilico tra ribellione e ritorno. La sua storia è un invito: a riconoscere l'origine comune nell'alleanza di Abramo e alla riconciliazione nel rispetto dell'elezione di Israele.
La Bibbia racconta (Genesi 28,9): «Allora Esaù andò da Ismaele e prese in moglie, oltre alle altre, Machalat, figlia di Ismaele, figlio di Abramo, sorella di Nebaioth». Questo legame è più di un matrimonio, è un simbolo dell'unione di due linee che non discendono da Isacco, Esaù come nipote di Abramo, Ismaele come figlio di Abramo. Entrambi sono esclusi dalla benedizione divina, che è riservata solo a Giacobbe e ai suoi discendenti.
• Alleanza contro Israele
Nell'interpretazione biblica, ciò è visto come un'alleanza contro Israele. Gli studiosi ebrei interpretano questo legame come un modello profetico: Esaù rappresenta Edom, poi l'Impero Romano e infine l'Occidente cristiano. Ismaele rappresenta il mondo arabo-musulmano. Insieme, alla fine dei tempi, si schiereranno contro Israele.
Inoltre, un midrash (Tanchuma su Toldot) avverte: “Due popoli sono nel tuo grembo, Esaù e Giacobbe, e la storia del mondo sarà determinata dalla loro lotta.” L'alleanza tra Esaù e Ismaele è vista come una minaccia strategica per il popolo di Israele, non per amore, ma per inimicizia verso il popolo eletto.
Si potrebbero vedere parallelismi attuali nell'alleanza tra l'Occidente e le forze islamiche. Ciò a cui assistiamo oggi, ad esempio nelle proteste in Europa e negli Stati Uniti, potrebbe essere considerato una forma moderna di questa alleanza. Le nazioni di impronta cristiana (discendenti di Esaù), un tempo influenzate dalla Chiesa, oggi spesso secolari e umanistiche, si schierano spesso contro Israele sotto la bandiera dei «diritti umani» e della «solidarietà con la Palestina». Molti di questi movimenti sono guidati o influenzati da arabi o islamisti (Ismaele). Spesso si sottolinea in modo unilaterale la sofferenza dei palestinesi, trascurando però la lotta esistenziale di Israele per la sicurezza e l'esistenza. Questa “alleanza moderna” è spesso ideologico-morale, ma ha lo stesso effetto di quella antica, perché delegittima Israele e mette in discussione la sua elezione, il suo diritto all'autodifesa e all'autodeterminazione.
I gruppi islamisti guidano il movimento, seguito da ONG occidentali, chiese e sinistra di ogni tipo. Esempi sono noti a Londra, Berlino o Parigi, spesso con slogan antisemiti, in parte organizzati da organizzazioni vicine ad Hamas, ma sostenuti anche da attivisti occidentali. Istituzioni come Amnesty, Human Rights Watch o ICC usano termini come “diritti umani” o “diritto internazionale” per attaccare moralmente Israele, spesso basandosi su narrazioni musulmane come “Al-Aqsa è in pericolo”. Si chiede la tregua, si invita al boicottaggio di Israele, si esercita pressione sulla politica interna israeliana – tutto questo senza condannare contemporaneamente il terrorismo islamista.
• Teologia della sostituzione
Ismaele ed Esaù negano entrambi l'elezione biblica di Israele. Nel cristianesimo ciò avviene sotto forma di teologia della sostituzione (“La Chiesa ha sostituito Israele”), mentre nell'Islam sotto forma di “Tahrif” (falsificazione delle Scritture ebraiche). Il risultato è lo stesso: si sostiene che non esiste più un'alleanza valida tra Dio e Israele, entrambi gli approcci negano la posizione voluta da Dio per Israele. In molti luoghi si assiste a una simbiosi propagandistica nelle università occidentali: le narrazioni filopalestinesi sono promosse da gruppi di ispirazione islamica, con il sostegno di accademici laici, liberali di sinistra (un tempo di impronta cristiana).
Le potenze occidentali (Edom) sostengono sempre più gli interessi arabi in Medio Oriente, ad esempio riconoscendo gli Stati arabi a scapito delle rivendicazioni ebraiche. Ciò è evidente in quello che può essere percepito come un patto petrolifero: dopo la crisi petrolifera del 1973, il rapporto dell'Occidente con il mondo arabo è cambiato radicalmente. Molti Stati occidentali si sono sottomessi alle condizioni arabo-islamiche, il che si è riflesso in una politica ostile a Israele, nella copertura mediatica e nelle risoluzioni delle Nazioni Unite. Esiste un blocco palese delle Nazioni Unite contro Israele, poiché nell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è formato da decenni un blocco automatico anti-israeliano composto dagli Stati arabo-musulmani (Ismaele) e dai loro sostenitori in Occidente (Esaù/Edom).
• Profezia biblica
Ma dal punto di vista biblico, il messaggio teologico è chiaro e l'alleanza non è negoziabile. Il tentativo di spodestare Israele dal centro del piano divino non è un attacco politico, ma un errore teologico. Il profeta Zaccaria dice (cap. 12): “In quel giorno renderò Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli”. Il Salmo 83 descrive esattamente questa alleanza: "Si sono consultati insieme con un unico intento: Hanno stretto un patto contro di te, le tende di Edom e gli Ismaeliti...» Edom = Esaù, Ismaeliti = Arabi.
Questa descrizione profetica è spaventosamente attuale. Il mondo ebraico (e quindi anche quello cristiano) deve riconoscere che molti attacchi contro Israele hanno origine in un conflitto spirituale più profondo, non solo in divergenze politiche. È necessario distinguere i veri alleati dai simulatori: non tutte le voci occidentali sono contro Israele, ma c'è bisogno di un sostegno sincero, non di moralismi paternalistici. E manca un'identità teologica: i cristiani legati a Israele devono rendersi conto che non sono figli di Esaù, ma figli di Giacobbe attraverso la fede, se rispettano la vocazione di Israele.
Esistono però anche movimenti di solidarietà cristiana che si oppongono alla coalizione Ismaele-Edom. Si levano voci teologiche che rifiutano il concetto di teologia sostitutiva, riferendosi a Romani 11: «Non sei tu che porti la radice, ma la radice porta te.» Tradotto in termini politici, ciò significa che i cristiani che si schierano con Israele si oppongono all'alleanza di Edom e Ismaele, come «eredi di Giacobbe nello spirito», e per questo si è affermato il termine «sionismo cristiano».
• Realtà spirituale
La linea profetica che va da Ismaele a Esaù fino ai nostri giorni non è una teologia astratta, ma una realtà spirituale che si manifesta ripetutamente nella storia di Israele. Il legame tra Ismaele ed Esaù, descritto nel primo libro della Genesi e sviluppato nelle interpretazioni ebraiche nel corso dei secoli, appare oggi sotto una nuova veste: un'alleanza ideologica tra un Occidente secolare, spesso post-cristiano, e un Islam politico e fortemente carico di connotazioni religiose. Entrambi concordano nel rifiutare Israele come popolo eletto da Dio.
Questa alleanza non è sempre consapevole o organizzata: spesso agisce in modo diffuso, sotto il manto dei diritti umani, della giustizia e della solidarietà. Ma l'effetto è lo stesso: Israele viene demonizzato, la sua autodifesa delegittimata, il suo diritto all'esistenza messo in discussione. E dietro tutto questo non c'è solo la politica degli interessi, ma una profonda resistenza spirituale all'idea che Dio abbia stretto un patto con un popolo concreto in un paese concreto e che non abbia mai revocato questo patto.
La Bibbia però non lascia spazio a dubbi: questa alleanza è “eterna” (Genesi 17,7) e la sua validità non dipende dal consenso internazionale, ma dalla parola stessa di Dio. Il tentativo di spodestare Israele dal suo centro spirituale non è quindi solo un attacco a un paese, ma all'ordine divino stesso.
• Radici comuni
Ma c'è speranza. Come Ismaele prese il posto dietro Isacco al funerale di Abramo, così anche oggi nell'Islam ci sono voci di pentimento, di conversione, di riconoscimento. Queste voci dicono: «Israele ha un ruolo. Israele è legittimo». Sono voci che non vedono nell'alleanza di Abramo una concorrenza, ma una radice comune. Queste voci devono essere rafforzate e allo stesso tempo bisogna smascherare l'inganno che si maschera da attivismo per i diritti umani, ma che in realtà rappresenta la teologia del rifiuto.
La storia non è ancora finita. Ma la strada è visibile: chi benedice Israele sarà benedetto. Chi si pone sotto l'alleanza non sarà deluso. E chi chiama il conflitto con il suo nome, che è teologico, ha la possibilità di risolverlo anche spiritualmente. Perché la religione non è il problema. È la chiave per la soluzione. Per il relativismo morale o per la chiarezza spirituale.
(Israel Heute, 25 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Rosh Chodesh Elul – Rav Arbib: Dalle volpi al Tempio alla ricostruzione
di Rav Alfonso Arbib *
Viviamo un periodo molto complicato della nostra storia, complicato e in buona parte inaspettato con un risorgere prepotente dell’antisemitismo. Ci sentiamo messi sotto accusa. Chi ci accusa ritiene di farlo in nome di una superiore moralità, è un antisemitismo dei buoni, di persone che pensano di essere dalla parte giusta della storia. Persone e organizzazioni che pensavamo amiche non si sono rivelate tali. nello stesso tempo le vicende che abbiamo vissuto in questi due anni sono estremamente dolorose. Viviamo in mezzo a una guerra che comporta lutti e sofferenze e che è conseguenza del peggior massacro di ebrei dalla Seconda Guerra Mondiale. Un pogrom che ancora non si è concluso, continua con l’angoscia per la sorte degli israeliani rapiti da Hamas, torturati e che ancora non sono stati restituiti. Tutto questo nella sostanziale indifferenza del mondo intero.
Come reagire a tutto questo?
Propongo di farlo ricorrendo alle nostre fonti tradizionali cercando ispirazione nella Torà e nella tradizione ebraica. La parashà che abbiamo letto questa settimana comincia con queste parole: Reè – vedi, pongo davanti a te la benedizione – berakhà – e la maledizione – kelalà. Il verbo usato è inusuale: vedere indica qualcosa che è presente davanti a me mentre il verso fa riferimento al futuro. C’è un midràsh che forse ci può spiegare l’uso di questo verbo. Il midràsh racconta del momento in cui i Chakhamim e Rabbi Akivà giungono davanti al Bet Hamikdash distrutto dai Romani e vedono una volpe che passeggiava nel luogo più sacro del santuario, il Kodesh hakodashim. I Chakhamim piangono e Rabbi Akivà ride.
I Chakhamim gli chiedono: «Perché ridi?» Lui risponde: «Perché voi piangete?» «Come si fa a non piangere», dicono, «davanti a uno spettacolo del genere? Come si fa a non piangere vedendo la profanazione del luogo più sacro dell’ebraismo, il luogo in cui poteva entrare solo il Kohèn Gadòl nel giorno di Kippùr e ora le volpi vi passeggiano». Rabbi Akivà risponde: «Per questo stesso motivo rido. Si è appena realizzata una profezia, quella della distruzione, sono sicuro che si realizzerà anche quella che dice che ancora “siederanno anziani e anziane nelle strade di Gerusalemme”. La profezia della ricostruzione, della salvezza». I Maestri rispondono: «Akivà, ci hai consolato».
Che cosa dice Rabbi Akivà ai maestri che loro non sapessero già? Le profezie erano ovviamente conosciute anche da loro. In realtà Rabbi Akivà non si limita a citare i testi ma è come se vedesse in quel momento la distruzione e la ricostruzione, come se riuscisse a vedere anche nel momento più terribile la salvezza. Questa capacità di vedere un futuro migliore nei momenti più difficili è una delle caratteristiche più straordinarie del popolo ebraico. Vorrei ricordare un avvenimento storico fra i tanti.
Nel XIV secolo, in conseguenza della peste nera e delle accuse agli ebrei di essere portatori della peste e i responsabili della terribile strage in Europa, assistiamo a una delle peggiori persecuzioni della storia europea. assistiamo a uccisioni, sofferenze ed espulsioni. Gli ebrei vengono espulsi soprattutto dalle città tedesche e si rifugiano in altre da cui però potevano essere espulsi nuovamente. Vivono una vita estremamente precaria. Che cosa si fa in un caso del genere? Si vive giorno per giorno, senza fare progetti perché non si ha alcuna certezza nel futuro. ma gli ebrei non fecero questo: costruirono Battè knesset, luoghi di studio, una vita ebraica. Non persero la speranza, conservarono la loro capacità di vedere un futuro migliore anche in presenza di un presente che non prometteva niente di buono.
Questo è probabilmente il senso di Reè che abbiamo letto all’inizio della parashà. Nel momento in cui vedi la kelalà, in cui vedi realizzarsi qualcosa di negativo, devi riuscire a non perdere la speranza, devi riuscire a vedere la berakhà, la benedizione. Oggi è Rosh Chòdesh Elùl e comincia il periodo che ci porterà a Rosh Hashanà e Kippùr. È un periodo in cui siamo chiamati a ripensare il passato a considerare i nostri errori avendo però come prospettiva il futuro. Vorrei sottolineare questo secondo elemento. Il messaggio fondamentale delle feste di Rosh Hashanà e Kippùr è che si può sempre ricominciare da capo, che per quanti errori abbiamo commesso dobbiamo progettare un futuro migliore. Quest’idea, che nella tradizione ebraica va sotto il nome di teshuvà, è secondo rav Sachs uno degli elementi più straordinari dell’ebraismo. Rav Sachs dice che una delle parole chiave della tradizione ebraica è la parola tikvà, speranza: speranza non vuol dire che andrà tutto bene, vuol dire che possiamo agire perché vada bene, perché la nostra vita cambi, possiamo agire credendo fermamente in un futuro migliore.
Elùl, Rosh Hashanà e Kippùr vengono poco dopo la data più triste della storia ebraica, il 9 di Av, e il messaggio è molto evidente: dalla distruzione alla ricostruzione.
Negli anni precedenti nelle nostre Comunità si è data una grande importanza al rapporto con il mondo esterno. Quello che è accaduto negli ultimi due anni dimostra che qualcosa non ha funzionato. Credo sia giunto il momento di rafforzarci soprattutto all’interno, di migliorare noi stessi, di rafforzare la nostra identità. Questo non vuol dire che non dobbiamo preoccuparci o occuparci degli altri. Per poterlo fare però è necessario capire meglio chi siamo noi e cosa vogliamo, come immaginiamo il nostro futuro. Rosh Chòdesh è il momento del nuovo ciclo lunare, Rosh Chòdesh Elùl rappresenta questa prospettiva di rinnovamento più di ogni altro capo mese.
* Rabbino capo di Milano Presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana
(Bet Magazine Mosaico, 24 agosto 2025)
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Rosh Chodesh Elul: le novità di quest’anno
di Rav Riccardo Di Segni *
“I Valori Ebraici??? Siete senza Vergogna”. Queste testuali parole, maiuscole comprese, sono state inserite con una firma strana in un post della Comunità Ebraica di Roma dove si facevano gli auguri per il compleanno a un rabbino e si era parlato di valori ebraici. Una reazione di questo tipo, da parte di persone che non amano ebrei ed ebraismo, c’è sempre stata. Il problema di oggi è che queste reazioni sono diventate comuni, diffuse, coinvolgenti un pubblico sempre più vasto, espressione di pensieri convinti, condivisi e senza contraddittorio. La guerra in corso dal 7 ottobre 2023 è stata accompagnata da una campagna accusatoria e diffamatoria che non si è limitata al governo dello Stato d’Israele ma si è allargata allo Stato stesso, agli ebrei e finalmente all’ebraismo stesso come cultura e religione. Siamo arrivati a un punto in cui dei sistemi di convivenza stabili sono entrati profondamente in crisi. Chi non l’ha capito finora è bene che lo faccia presto.
Un piccolo esempio dell’aria che tira. Molte volte in passato, durante lezioni e interventi su temi ecologici, ho spiegato che nella lingua ebraica della Bibbia e dei rabbini del Talmud la parola “natura” non esiste, perché il concetto stesso di natura implica un’autonomia creatrice, mentre c’è un vero e solo Creatore; quindi, non c’è una natura indipendente ma solo il creato. Nel medioevo, però, i filosofi ebrei si trovarono nella necessità di dare un nome alla natura e si inventarono la parola teva’, per indicare qualcosa di coniato, stampato. Un secolo fa, i primi immigrati in Eretz Israel fondarono una casa farmaceutica e le dettero il nome di Teva, natura. L’impresa ha prosperato nei decenni ed è diventata una multinazionale con la maggior parte degli stabilimenti in Europa. Ognuno di noi ha acquistato in questi anni in farmacia un farmaco generico marcato Teva e probabilmente ignorava che ditta fosse e le origini del suo nome. Ora però qualcuno se ne è accorto, ha scoperto il peccato originale ed è partita una campagna di boicottaggio che vede uniti nel coro amministratori sanitari, farmacisti, semplici cittadini e zelanti medici e infermiere che di propria iniziativa buttano al secchio i campioni di prodotti sanitari Teva offerti agli ospedali. Vaglielo a spiegare che storia c’è dietro, e che danneggiano le fabbriche europee, i risparmiatori, la loro stessa salute e i principi bioetici più elementari.
Per anni ci siamo compiaciuti del contributo ebraico alla scienza, dei premi Nobel e di tutte queste belle cose. Possiamo continuare a esserne compiaciuti ma di questi argomenti alla gente non importa più tanto. Possono invece scatenare reazioni di invidia o teorie di potere e di complotto. Per decenni, dopo la Shoà, è stato costruito un sistema di ricordo e di compassione che noi abbiamo alimentato con tutte le nostre energie. Al punto di creare una sorta di identità ebraica al negativo, dolorosa e di ricerca compiaciuta di solidarietà. Ma adesso è finito tutto. Ora, nella narrazione comune, i genocidi siamo noi. Non potremo più fare una qualsiasi commemorazione senza che ci venga detto: “però voi…”, “voi che avete sofferto tanto…” ecc.
Il dialogo faticosamente costruito con la Chiesa cattolica è in crisi. Da una parte rispuntano i vecchi schemi oppositori con l’Antico Testamento fonte di violenza e il fatto che gli ebrei siano una nazione, il popolo “eletto”, un peccato da cancellare; dall’altra prevale una sorta di equidistanza pacifista con suoni di campane e letture pubbliche di lunghe liste di vittime, inviti accorati al risveglio delle coscienze, dove, s’intende, quelle addormentate sarebbero prima di tutte le nostre. “Fermiamo la strage degli innocenti. Siete tutti compagni di Erode”.
Il tema comune che compare sotto tante forme, laiche e religiose, è che l’ebraismo sia moralmente malato, che i suoi valori siano infettati e quel che di buono che c’era se lo è preso qualcun altro.
Il problema è anche nostro, interno. Davanti a una crisi che mette in discussione l’immagine che noi abbiamo dell’ebraismo e il nostro rapporto con la società circostante, le reazioni possibili sono diverse. Sappiamo quante centinaia di migliaia di persone manifestano in Israele contro il governo. Siamo una comunità complessa e divisa in mille rivoli. Dalle nostre parti c’è chi si schiera, senza se e senza ma, con qualsiasi decisione del governo israeliano, chi invece fa dei distinguo, e chi si dissocia pubblicamente, magari firma appelli la cui opportunità suscita ulteriori discussioni. Lo fanno invocando i valori dell’ebraismo, e gli si obietta osservando che molti di loro si ricordano dell’ebraismo solo al momento della firma. Questa obiezione però non vale quando a parlare e firmare sono i rabbini. Hanno cominciato i “progressive”, poi l’ondata ha coinvolto alcuni ortodossi, di tipo “modern”, “lite” (=leggero), alcuni molto politicizzati. Come gli ebrei si dividono in “ebrei buoni” (pieni di valori di amore universale) e “buoni ebrei” (che cercano di vivere il loro ebraismo in modestia e con onestà), a quanto pare, anche i rabbini si potrebbero dividere in rabbini buoni e buoni rabbini; ma la maggioranza degli ebrei e dei rabbini non si fa inquadrare in questo schema. I problemi morali sollevati da questa guerra sono micidiali e nessuno può nasconderlo, la coerenza con le fonti è oggetto di discussioni laceranti in cui ognuno ha un po’ di ragione, ma non tutta. Chi vive in Israele rischia in prima persona, per noi della diaspora i rischi ci sono, ma di altro tipo, e fare i giudici gli uni per gli altri non è semplice e neppure tanto corretto oltre che dannoso. Il quadro si complica ulteriormente con altri rabbini che invitano a pregare, proprio in questi giorni di rosh chòdesh, contro il decreto della coscrizione obbligatoria degli studenti delle yeshivòt. I solchi sociali, che in una situazione di pericolo dovrebbero ridursi, invece si allargano.
Che siamo un popolo particolare, anche per la divisione e la polarizzazione estrema delle posizioni, lo sappiamo. Non basta saperlo, adesso, in un momento così forte di destabilizzazione. Nel calendario ebraico l’inizio del mese di Elul, l’ultimo mese dell’anno, segna l’avvio del ciclo penitenziale. Si suona lo shofàr, un piccolo anticipo di quello si farà tra un mese, a Rosh haShanà. Tutti i testi sacri per l’occasione raccomandano di cominciare a fare teshuvà, marcia indietro. I rabbini parlano, il pubblico ascolta, qualcuno è scosso, altri dicono “vabbè”. Questo rosh chòdesh però l’invito generico dovrebbe avere un contenuto più specifico. La consapevolezza che niente è più come prima. Addio all’ammirazione per il contributo ebraico al progresso. Addio alla condivisione del ricordo della Shoà. Addio all’ebraismo bello ed esemplare, medaglietta chic da ostentare. Ci vorrà molto tempo, ammesso che ci si riesca, a ricomporre un’immagine corretta di ebraismo all’esterno. Per ora pensiamo all’interno. Ci vogliono convincere della nostra essenza malvagia. Bisogna resistere e opporsi all’attacco devastante, con il recupero del nostro vero ebraismo, la correzione dei comportamenti, delle idee e delle conoscenze. E che ognuno cerchi, per quanto gli è possibile, di colmare i solchi delle spaccature che ci dividono.
* Rabbino Capo di Roma
(Shalom, 23 agosto 2025)
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E' così: l'odio contro gli ebrei è ormai un fiume in piena che si è ingrossato in un modo spaventoso, in una misura al di là di ogni previsione. Ormai straripa da tutte le sponde, e se si cerca di tapparne una falla se ne formano altre dieci più gravi. Che potrà dire un non ebreo che si dissocia? Anche questo è un problema. Da che parte si comincia? Quali argomenti scegliere? Nell'imbarazzo, rinviamo alla presentazione del nostro sito, di cui riportiamo qui soltanto uno stralcio dell'approfondimento dal titolo "Manifestare amore". NsI
Gli ebrei avvertono che verso di loro c'è un odio gratuito, cioè un'ostilità che non può essere interamente spiegata da nessuna motivazione razionalmente giustificabile: sono odiati perché ci sono. E anche quando l'ostilità non si concretizza in atti di violenza, la percezione di questi sentimenti di avversione li fa soffrire. Abbiamo detto che questo non dipende dagli ebrei, ma dal rapporto degli uomini con Dio. L'astio contro gli ebrei non è che l'espressione dell'umana ribellione contro Dio, è quindi manifestazione di peccato. I credenti in Gesù sanno di aver ricevuto il perdono dei peccati attraverso il Messia d'Israele, vivono in comunione con Dio e di conseguenza diventano partecipi del suo amore verso il suo popolo. L'amore dei veri cristiani verso Israele è quindi un amore gratuito, cioè un sentimento che non può essere spiegato da nessuna motivazione o interesse razionalmente giustificabili: il popolo d'Israele viene amato soltanto perché c'è, perché è un'espressione della volontà di quel Dio con cui i cristiani vivono in comunione d'amore. Sarebbe una grave perdita per gli ebrei se fossero capaci di percepire soltanto l'odio gratuito contro di loro, senza saper riconoscere e avvertire anche l'amore gratuito di cui sono oggetto. Se è vero che non c'è popolo sulla terra che sia stato tanto odiato, è anche vero che non ce n'è un altro che sia stato tanto amato. E anche se in questo periodo della storia del mondo l'odio è molto più appariscente dell'amore, non è vero che sia più reale.
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Perché Dio ha creato il mondo? - 11
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Botta e risposta fra Dio e Mosè
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani, e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese dove scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me, e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora dunque vieni e io ti manderò dal Faraone perché tu faccia uscire il mio popolo, i figli d'Israele, dall'Egitto” (Esodo 3:7-10).
Dall’interno del roveto in fiamme Dio dice a Mosè che ha visto l’afflizione del suo popolo e che è sceso per liberarlo e farlo salire in un bel paese. Che Dio voglia liberare il suo popolo per il progetto che ha in mente, si capisce, ma perché è sceso? Non può fare tutto anche dal cielo? Evidentemente no, perché la guerra di liberazione del creato dal dominio di Satana è uno scontro che avviene in cielo ma si combatte sulla terra, e prevede la piena riappropriazione della terra da parte di Dio per essere donata all’uomo, a sua volta liberato dal peso del peccato che lo tiene schiavo del Nemico, come gli ebrei erano schiavi del Faraone. Tutto ciò è detto in modo necessariamente sintetico, ma serve a stimolare la riflessione e tener viva l’importanza che ha la terra nel piano redentivo di Dio.
Il discorso dal roveto ardente si conclude con un ordine semplice e chiaro: “Ora dunque vieni e io ti manderò dal Faraone perché tu faccia uscire il mio popolo, i figli d'Israele, dall'Egitto”. Sembra facile, detta così, ma di difficoltà ce n’erano, non solo per Mosè, che erano evidenti, ma anche per Dio, perché per Lui si trattava di riuscire a convincere un uomo a cui aveva concesso, per propria autolimitazione, lo spazio di libertà connaturato al suo essere uomo creato a immagine di Dio. Non è facile, neppure per Dio, convincere gli uomini a fare cose che a loro appaiono pesanti e rischiose.
Dopo l’ordine di Dio comincia il botta e risposta.
Domanda:
E Mosè disse a Dio: “Chi sono io per andare dal Faraone e per trarre i figli d'Israele dall'Egitto?” (3:11).
La domanda è ragionevole; equivale a dire: a che titolo mi presenterò alla più alta autorità del paese d’Egitto?
Risposta:
E Dio disse: “Va', perché io sarò con te; e questo sarà per te il segno che sono io che ti ho mandato: quando avrai tratto il popolo dall'Egitto, voi servirete Dio su questo monte” (3:12).
Dio ribadisce l’ordine: “Va’”, a cui segue la spiegazione “perché io sarò con te”, cioè tu andrai a titolo mio; non è che io ti sosterrò quando tu presenterai al Faraone le tue rivendicazioni; sono Io che dico a te, come mio delegato, di comunicare al Faraone un ordine del Dio degli ebrei. Tu parlerai a nome mio: la risposta che ti darà sarà come se l’avesse data a me, ma gli effetti della sua ira ricadranno su di te. Altro che facile! Messa così, la cosa diventa esplosiva, per Mosè e per tutti gli ebrei.
E nel caso Mosè pretendesse di avere un segno come conferma, la precisazione di Dio (un po’ irritante) è che il segno lui lo vedrà alla fine, quando capirà che se un’impresa così impossibile è riuscita, vuol proprio dire che è stato Dio a volerla. E così è accaduto. Mosè avrebbe dovuto esserne convinto fin dall’inizio, perché Dio gliel’aveva detto: io sarò con te.
Domanda:
E Mosè disse a Dio: “Ecco, quando sarò andato dai figli d'Israele e avrò detto loro: 'L'Iddio dei vostri padri mi ha mandato da voi', se essi mi dicono: 'Qual è il suo nome?', che cosa risponderò loro?” (3:13).
Anche questa domanda è ragionevole, perché se Mosè va dagli anziani a dire che lo manda Dio, ci si può aspettare che diventino sospettosi e facciano domande su quel Dio che l’avrebbe inviato. Come dovrà rispondere? Mosè chiede istruzioni.
Risposta (un po’ sibillina):
Iddio disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. Poi disse: “Dirai così ai figli d'Israele: 'L'Io sono mi ha mandato da voi'” (3:14).
Indubbiamente, il carattere enigmatico di questa risposta dipende dalle difficoltà legate al nome di Dio, che da secoli gli ebrei non pronunciano, ma forse, capendo che con parole di questo tipo Mosè non avrebbe ottenuto un grande successo tra gli ebrei, il Signore aggiunge altre parole di indicazione.
Agli anziani Mosè avrebbe dovuto dire che l’Eterno gli è apparso (3:16); e che gli ha detto che li avrebbe tratti fuori dalla schiavitù d’Egitto; e che li avrebbe fatti andare nel paese dei Cananei; e che quello è un paese dove scorre il latte e il miele (3:17). Ma pensando che Mosè potrebbe avere qualche dubbio sulla sua capacità di convincere gli anziani a credere a tutte queste belle cose, tentò di rassicurarlo dicendo che gli anziani ubbidiranno alla sua voce (3:18).
Al Faraone invece Mosè avrebbe dovuto dire, andando a trovarlo insieme agli anziani, di lasciarli andare per tre giorni di cammino nel deserto, perché loro dovevano fare dei sacrifici al loro Dio. Avverte però che il Faraone non avrebbe per niente accettato quello che gli chiedono (3:19). Tuttavia, “forzato da una mano potente”, sarebbe stato costretto a lasciarli andare. E per di più non se ne sarebbero andati a mani vuote, ma gli egiziani stessi li avrebbero fatti partire con molti doni (Esodo 3:20-22)
Replica a Dio:
Mosè rispose e disse: “Ma ecco, essi non mi crederanno e non ubbidiranno alla mia voce, perché diranno: 'L'Eterno non ti è apparso'” (4:1).
Dicendo che gli anziani non gli crederanno, Mosè usa un comune buon senso, perché da persone normali non ci si può aspettare che credano subito a notizie di grandiosi fatti soprannaturali. Dio però aveva chiaramente detto a Mosè che gli anziani ubbidiranno alla sua voce; quindi il primo a non credere alle parole di Dio è lui, non gli anziani. Il Signore però capisce sia gli anziani sia Mosè, e sovviene all’incredulità di tutti operando davanti a lui segni miracolosi che avrebbero dovuto essere ripetuti davanti agli anziani (4:1-9).
Mosè, che evidentemente non ha proprio voglia di mettersi in quell’impresa, mette avanti un’altra scusa: dice che è “lento di parola e di lingua”, insomma che non sa parlare. Risposta di Dio:
E l'Eterno gli disse: “Chi ha fatto la bocca dell'uomo? o chi rende muto o sordo o veggente o cieco? non sono io, l'Eterno? Ora dunque va', e io sarò con la tua bocca, e ti insegnerò quello che dovrai dire” (4:11-12).
Esaurite le scuse e messo alle strette, Mosè rivolge al Signore la richiesta fondamentale che aveva in mente fin dall’inizio: “O Signore, manda il tuo messaggio per mezzo di chi vorrai!” (4:13), che è come dire: cercati qualcun altro.
Davanti a questo educato rifiuto espresso in forma di proposta, “l’ira dell’Eterno si accese contro Mosè” (4:14).
Qui accade qualcosa di nuovo: è la prima volta che Dio si adira con uno dei suoi uomini. Non era mai successo prima con i patriarchi. Si dovrà tornare su questo punto, perché i racconti biblici non sono cronache giornalistiche, e l’ira di Dio è un fatto serio. Se viene registrata nel testo, vuol dire che qui è presente un aspetto della rivelazione che Dio vuol fare di Sé. Se ne riparlerà.
In questo caso, l’ira ha un effetto conclusivo: è il segnale che Dio rivolge a Mosè dicendogli “basta”. Toglie l’argomento pretestuoso dalle mani di Mosè dicendogli che gli darà Aaronne come dicitore al posto suo, e replica con un secco ordine: “Ora prendi in mano questo bastone con il quale farai i prodigi” (4:17). Fine del colloquio.
La conclusione è un ordine, ma è un ordine militare. Il che vuol dire che Mosè è stato arruolato nell’esercito di Dio: quello con cui sarà portato a compimento il progetto redentivo di riconquista del creato.
Mosè, da militare, non replica più e ubbidisce. Comunica al suocero la sua intenzione di tornare in Egitto e si avvia.
“Mosè dunque prese sua moglie e i suoi figli, li mise su degli asini, e tornò nel paese d'Egitto; e Mosè prese nella sua mano il bastone di Dio” (4:20).
Mentre è in cammino verso l’Egitto, cioè quando aveva già cominciato a svolgere in ubbidienza il compito ricevuto, il Signore gli fornisce qualche spiegazione in più. Gli dice che il bastone che aveva in mano avrebbe dovuto agitarlo, oltre che davanti agli anziani, anche davanti al Faraone. Non per picchiarlo però: lui farà soltanto il gesto. Quando sarà il momento, ad ogni gesto corrisponderà un colpo. E saranno colpi di intensità crescente che Dio farà cadere, uno dopo l’altro, sul capo del testardo Faraone e del suo popolo. Insomma, come Mosè con la bocca farà giungere al Faraone le parole che gli manda Dio, così col bastone farà sentire al Faraone le botte che gli arriveranno dalla stessa Fonte.
Forse Mosè aveva proprio bisogno di sapere che aveva in mano un bastone di tale potenza, perché da una parte gli era stato detto che il Faraone aveva il cuore indurito e non avrebbe accolto la sua richiesta di lasciarli andare, e dall’altra deve comunicargli un ordine di Dio talmente duro da far rizzare i capelli in testa a chi ha l’incarico di trasmetterlo:
“Tu dirai al Faraone: 'Così dice l'Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito; e io ti dico: Lascia andare mio figlio, affinché mi serva; e se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito'” (4:22-23).
Questa è una minaccia. Una minaccia all’autorità suprema della nazione nell’esercizio delle sue funzioni. Chi osa trasmettere al Faraone parole simili non può aspettarsi che la morte. E’ difficile immaginare l’animo con cui Mosè continuò il suo viaggio pensando a quell’incarico. Ma continuò.
Per strada incontrò il fratello Aaronne che gli veniva incontro per ordine del Signore:
“L’Eterno disse ad Aaronne: “Va' nel deserto incontro a Mosè”. Ed egli andò, lo incontrò al monte di Dio, e lo baciò. E Mosè riferì ad Aaronne tutte le parole che l'Eterno lo aveva incaricato di dire, e tutti i segni prodigiosi che gli aveva ordinato di fare (4:27-29).
Mosè raccontò al fratello la sua esperienza con Dio e l’ordine che aveva ricevuto, ma va tenuto presente che lui era fuori dall’Egitto da quarant’anni, quindi non aveva più rapporti diretti con i figli d’Israele. Ecco perché la vicinanza di Aaronne ora è per lui davvero “provvidenziale”, al fine di entrare in contatto con la comunità ebraica in Egitto.
Mosè e Aaronne dunque andarono, e radunarono tutti gli anziani dei figli d'Israele. E Aaronne riferì tutte le parole che l'Eterno aveva detto a Mosè, e fece i prodigi in presenza del popolo. E il popolo prestò loro fede. Essi compresero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva visto la loro afflizione, si inchinarono e adorarono (4:27-31).
Come Dio aveva detto a Mosè - e lui non aveva creduto - gli anziani di Israele ubbidirono alla sua voce e si inchinarono davanti a lui e ad Aaronne riconoscendoli come conduttori; e adorarono Dio riconoscendo di essere stati visitati da Lui.
Arrivati a questo punto, anche se è chiaro che Mosè non è quell’eroico liberatore di popoli tipo Che Guevara che qualcuno potrebbe immaginarsi, si potrebbe comunque dire: fin qui tutto bene.
Ma i guai non tarderanno ad arrivare.
(Notizie su Israele, 24 agosto 2025)
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Chi ha infranto il sogno di due popoli due Stati
di Niram Ferretti
Tutti noi nutriamo un antico rispetto per il Corriere della Sera, che continuiamo a non voler assimilare alle gazzette volgari, partigiane e ideologizzate che popolano il panorama della stampa italiana. Ma il titolo del suo editoriale di ieri (I due Stati e la fine di un sogno) lascia davvero senza parole. Come se la morte di un progetto che si discute da 80 anni sia da attribuire alla recentissima decisione di Israele di dare compimento a una costruzione urbana nel “corridoio E-1” tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim, cittadina situata a est della Capitale, ovvero all’interno dei cosiddetti territori occupati.
• Due popoli, due Stati: la storia
Proviamo allora a ricapitolare la storia dell’idea “due popoli, due Stati”, lasciando parlare i fatti, mettendo da parte i sogni. È una storia nota e documentata, che nessuno in buona fede dovrebbe rimuovere. Nel 1937 la Commissione Peel, incaricata dalla Gran Bretagna, allora titolare del Mandato per la Palestina del 1922, propose agli arabi (non a un popolo senza patria) l’80% dei territori della regione. L’offerta subì un rifiuto netto. Dieci anni dopo toccò all’ONU, quando, nel 1947, l’Assemblea Generale propose un piano di spartizione che assegnava agli arabi (di nuovo non un popolo senza patria) la Giudea e la Samaria e Gaza, per edificarvi il loro Stato. Gli ebrei, nonostante il piano li privasse illegalmente di quanto aveva assegnato loro il Mandato, accettarono; gli arabi rifiutarono.
Il tempo passa e con esso le guerre arabe, tutte aventi come scopo quello di annichilire lo Stato ebraico. A seguito della guerra dei Sei giorni del 1967, la Lega Araba tenne un summit a Khartoum durante il quale formulò tre dinieghi perentori: nessuna pace con Israele, nessuna negoziazione con Israele, nessun riconoscimento di Israele. Si dovettero aspettare dodici anni per gli accordi di pace separati di Camp David tra Israele ed Egitto (1979) e ventisette (1994) per quelli tra Israele e Giordania. Nel frattempo, “il popolo senza patria”, ovvero gli arabi, trasformati per ragioni squisitamente politiche in palestinesi, avevano preferito il terrorismo alla conclusione dei negoziati con Israele (Camp David 2000, Taba 2001).
Ci fu poi, nel 2005, la decisione israeliana di sradicare gli insediamenti ebraici a Gaza in nome del principio “terra in cambio di pace”; quindi la proposta di Ehud Olmert del 2008, ancora più generosa di quella fatta da Ehud Barak nel 2000 a Camp David e, nel 2009, il congelamento per dieci mesi degli insediamenti di Israele in Giudea e Samaria al fine di portare l’Autorità palestinese al tavolo dei negoziati. Questa è la storia dell’idea “due popoli, due Stati”, per chi vuole sapere e capire, senza fare propaganda. Eppure, secondo il Corriere, “la fine del sogno” l’avrebbe sancita la decisione di Israele di dare corpo a un progetto edilizio fermo da trent’anni. Un modo davvero singolare di fare informazione e di ricostruire la storia tormentata della regione.
(Il Riformista, 23 agosto 2025)
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Con il mondo ossessionato da Israele, il Libano è sull’orlo del baratro
Sono così impegnati nella condanna a Israele, così presi dal riconoscere la cosiddetta "Palestina" da disinteressarsi completamente di quello che sta avvenendo in Libano con Hezbollah che, come sempre fomentato da Teheran, rifiuta il disarmo e minaccia la guerra civile
di Franco Londei
Il mondo è troppo impegnato nella condanna a Israele per vedere come il Libano sia sull’orlo del baratro di una terribile guerra civile.
Nonostante le promesse, Hezbollah continua a rifiutare il totale disarmo, rifiuta cioè di diventare solo una forza politica e non più una forma militare che nei fatti crea uno Stato nello Stato o, peggio, fa le veci dello Stato.
Secondo il Segretario Generale di Hezbollah, lo sceicco Naim Qassem, «chiunque oggi chieda la consegna delle armi, sia internamente che esternamente, sulla scena araba o internazionale, sta servendo il progetto israeliano», progetto che secondo Hezbollah mira a controllare il Libano da remoto, cioè a fare quello che faceva l’Iran fino all’attacco israeliano.
Ma il Libano ha bisogno urgentissimo di aiuti materiali e finanziari, aiuti che sono condizionati proprio al disarmo di Hezbollah e di tutte le milizie.
Nonostante il Primo Ministro libanese, Nawaf Salam, abbia incaricato le Forze Armate Libanesi (LAF) di preparare un calendario per il disarmo e lo smantellamento di tutte le milizie armate, l’impresa appare impossibile senza scatenare una terribile guerra civile. Hezbollah rifiuta categoricamente di disarmare sfidando apertamente il Governo libanese a imporre la decisione del Primo Ministro.
A dar man forte ai terroristi libanesi lo scorso 13 agosto è arrivato in Libano Ali Larijani, segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale iraniano.
L’Iran non vuole perdere anche il Libano dopo aver perso definitivamente la Siria e Larijani ha portato a Hezbollah e al Governo Libanese il messaggio della Guida Suprema, Ali Khamenei, con il quale si riafferma la totale vicinanza dell’Iran al Libano, che tradotto significa “totale vicinanza a Hezbollah”.
Senza la rotta siriana e con il Libano attento a non far arrivare armi a Hezbollah, per Teheran non sarà facile rimpinguare le scorte di missili di Hezbollah in modo che torni ad essere una vera minaccia per Israele. Tuttavia gli attuali arsenali di Hezbollah, se non bastano per spaventare Israele, certamente bastano per intimidire il governo libanese.
Più facile per l’Iran fare entrare clandestinamente il denaro sufficiente a garantire a Hezbollah il pagamento degli stipendi, dei risarcimenti alle vedove e, soprattutto, a garantire i servizi alla popolazione sciita che poi è quella che garantisce al gruppo terrorista di sedersi in Parlamento.
Ed è questo che probabilmente è venuto a promettere Ali Larijani, un sostanzioso aiuto finanziario a Hezbollah da parte dell’Iran.
Per di più il momento è particolarmente favorevole a “riprendere fiato” con Israele ancora impantanato a Gaza e con possibili problemi in Cisgiordania, con oltretutto il mondo intero impegnato a condannare sistematicamente ogni mossa israeliana.
E se Hamas il 7 ottobre ha praticamente copiato il piano di Hezbollah volto a invadere la Galilea, Hezbollah potrebbe beneficiare del successo mediatico che sta avendo Hamas in occidente per distrarre gli occhi occidentali dal Libano e cominciare la sua ricostruzione proprio da Beirut.
Il governo libanese non può contare solo sulle promesse americane o sulle minacce israeliane per impedire a Hezbollah di trasformare nuovamente il Libano in una provincia iraniana, serve tutta la comunità internazionale per sventare una più che probabile guerra civile che vincerebbe il gruppo terrorista sciita.
Il Libano ha bisogno di ogni aiuto possibile e i leader mondiali (arabi compresi) invece di star dietro ad un improbabile “stato palestinese” dovrebbero far sentire il proprio peso aiutando il Libano a liberarsi di Hezbollah. O lo farà Israele, e non sarà indolore.
(Rights Reporter, 23 agosto 2025)
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Pisa: il collettore di Hamas sanzionato da USA in prima fila assieme alle Forze dell’Ordine
di Giovanni Giacalone
Il 20 agosto si sono svolti a Pontasserchio, comune di San Giuliano Terme, nel pisano, i funerali di Marah Abu Zhuri, la ventenne palestinese arrivata da Gaza due giorni prima per ricevere cure mediche.
Come riportato da Ansa, la cerimonia funebre è stata voluta dal sindaco di San Giuliano, Matteo Cecchelli (Partito democratico), che ha offerto un posto in uno dei cimiteri del paese per far riposare per sempre le spoglie della ragazza.
La narrativa di molti di coloro che hanno preso parola è ovviamente stata quella del “genocidio” e della “carestia” causati da Israele nei confronti della popolazione di Gaza. Secondo tale narrazione, la ragazzina non sarebbe morta di malattia, ma per colpa del governo di Gerusalemme, come affermato proprio da Cecchelli:
“La morte di Marah non è un’eccezione, come si è provato a far credere attaccando i nostri bravi medici. La sua morte è la conseguenza del genocidio del popolo palestinese portato avanti dal governo israeliano. A Gaza si muore ogni giorno nel silenzio assordante dei governi mondiali. Noi abbiamo deciso di fare rumore di fronte a una catastrofe umanitaria e politica di questa portata“.
Immancabile l’intervento dell’ex presidente UCOII e imam di Firenze, il palestinese Izzedin Elzir: “Non siamo antisemiti. Siamo contro l’occupazione illegale di Gaza da parte del governo di Israele e chiediamo che non siano più fornite armi a Tel Aviv. Si faccia valere il diritto internazionale e si fermi Israele, perché non può fare quello che vuole e dove vuole“.
A fare da grancassa a tali dichiarazioni, l’emittente televisiva qatariota al-Jazeera, braccio mediatico di Hamas, fatta accorrere sul posto per l’occasione. Non a caso i leader dell’organizzazione terrorista palestinese sono da anni residenti proprio a Doha da dove tirano le fila.
Da parte del sindaco e dei rappresentanti palestinesi però nessuna parola sugli ostaggi trattenuti da Hamas o sull’eccidio del 7 ottobre.
Tra i presenti e in prima fila c’era invece chi a suo tempo ha definito il massacro perpetrato da Hamas come “legittima difesa” e ha più volte elogiato terroristi come Yahya Ayyash, Saleh el-Arouri, ovvero il leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun. Il soggetto in questione, già fotografato a suo tempo con i leader di Hamas Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, è stato sanzionato per ben due volte in otto mesi dal Dipartimento del Tesoro statunitense (ottobre 2024 e giugno 2025, assieme alle associazioni “ABSPP” e “Cupola d’Oro”) con l’accusa di essere “uomo di Hamas in Italia “e “collettore di denaro per l’organizzazione”. Secondo informazioni recenti, il conto di una delle associazioni legate a Hannoun presso Poste Italiane e sanzionate dagli USA risulta ancora aperto. Come mai?
La scorsa settimana, durante una manifestazione a Milano, Hannoun ha tra l’altro accusato il Dipartimento del Tesoro statunitense di “menzogne” nei propri confronti. Evidentemente in Italia si sente protetto e continua ad agire indisturbato.
Il 9 novembre 2024, durante una manifestazione sempre a Milano, Hannoun, aveva applaudito e promosso le violenze nei confronti dei tifosi israeliani ad Amsterdam, dopo la partita tra Ajax e Maccabi Tel Aviv: “Per cominciare mandiamo un applauso ai giovani di Amsterdam. Un applauso a tutti i giovani, ragazzi e ragazze, che hanno dato una lezione”. Queste le sue parole. Pochi giorni dopo erano arrivati dei provvedimenti nei suoi confronti da parte della Polizia di Stato, ovvero una denuncia per istigazione a delinquere e un foglio di via da Milano, ma di soli 6 mesi, il minimo possibile.
Va inoltre evidenziato che in prima fila al funerale, a pochi metri da Mohammad Hannoun e dal suo compagno di battaglia, Suleiman Hijazi (già noto alle cronache per dei post pro Hamas), erano presenti alti ufficiali delle Forze dell’Ordine; aspetto che non è certo passato inosservato.
Qualcuno potrebbe giustamente ricordare che la ragazzina deceduta era in Italia su attività umanitaria del governo italiano ed è per quello che erano presenti le Forze dell’Ordine. Ammesso e concesso che questo sia il motivo, è normale che questi ultimi si trovino a dover presenziare e condividere la prima fila con un personaggio sanzionato per ben due volte dal governo degli Stati Uniti, plurisegnalato dalle autorità israeliane e indicato anche in un recente report su Hamas in Europa pubblicato dalla European Leadership Network?
In questo modo si rischia, anche solo involontariamente, di legittimare sul piano rappresentativo il soggetto in questione, e questo è un problema. Le autorità competenti non hanno forse effettuato le dovute verifiche precedenti all’evento? Chi ha organizzato il tutto?
Vedere alti gradi delle FFOO italiane a pochi metri da un personaggio sanzionato dagli Stati Uniti, in prima fila, è quanto meno imbarazzante e non fa certo bene ai rapporti tra Roma e Washington. Altro grave aspetto riguarda l’utilizzo del funerale di una ragazzina per fare da gran cassa alla narrativa di al-Jazeera, di Hamas e con tanto di sindaco con fascia tricolore.
(L'informale, 22 agosto 2025)
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Minacce a Tommaso Cerno, Giampaolo Angelucci, Daniele Capezzone, Giulia Sorrentino e Andrea Pasini: la solidarietà della Comunità
Il Tempo e Libero Quotidiano sono finiti nel mirino degli anarchici, con minacce di morte all’indirizzo di Tommaso Cerno, Giampaolo Angelucci, Daniele Capezzone e Andrea Pasini. Nella redazione de Il Tempo è arrivata una lettera in cui, tra le altre cose, si legge: “Servi del potere morirete“. La missiva riporta come firma la classica “A” cerchiata degli anarchici.
A denunciare l’accaduto è il quotidiano Il Tempo, che ha reso noto che nella giornata di giovedì 21 agosto è giunta in redazione una lettera firmata con la caratteristica “A” cerchiata degli anarchici, contenente minacce di morte all’editore Giampaolo Angelucci, al vicepresidente Andrea Pasini, al direttore Tommaso Cerno e al direttore editoriale di Libero Quotidiano Daniele Capezzone.
Immediatamente è scattata la denuncia ai carabinieri, che hanno già avviato i rilievi del caso.
Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano ha voluto esprimere solidarietà e appoggio ai giornalisti minacciati: “L’intera comunità ebraica milanese offre solidarietà incondizionata a Tommaso Cerno, Giampaolo Angelucci, Daniele Capezzone, Andrea Pasini e Giulia Sorrentino per essere stati minacciati solo per avere fatto il loro lavoro. L’intolleranza sta raggiungendo livelli di allerta preoccupanti”, – ha scritto in un comunicato. – “È inquietante il fatto che oggi denunciare l’illegalità e certe connivenze sia pericoloso. Tutto questo è sintomo di un clima di intolleranza che sta raggiungendo livelli di allerta preoccupanti. Cari Tommaso, Giampaolo, Daniele, Andrea e Giulia… sono certo che andrete avanti così, e sicuramente con ancora maggiore determinazione di prima, per il bene del Paese. Sappiate che avete il sostegno non solo della comunità ebraica, ma della stragrande maggioranza degli italiani che sono un popolo ragionevole e che odia gli estremismi che stiamo vivendo di questi tempi. Avanti così, avanti tutta!”.
Sulla vicenda è intervenuto anche Davide Romano, direttore del museo della Brigata ebraica: “Solidarietà incondizionata a Cerno, Angelucci, Capezzone e Pasini vittime di una intolleranza che colpisce anche il mondo ebraico. Chi attacca la libertà di stampa e di religione ferisce la costituzione antifascista e per questo non esito a definirlo “fascista”. Rivolgo una appello agli “stati generali della tolleranza” perché come diceva Camilleri: “le parole sono pietre e possono trasformarsi in pallottole”
“Esprimo solidarietà incondizionata a Tommaso Cerno, Giampaolo Angelucci, Daniele Capezzone e Andrea Pasini per le minacce ricevute, sintomo di un clima di intolleranza che dal 7 ottobre 2023 opprime sempre di più anche la comunità ebraica in generale, per non parlare di diversi suoi esponenti che debbono girare con la scorta: dalla senatrice Liliana Segre ad altri che preferisco non citare per non esporli ancora di più. Urge una riflessione da parte di operatori dei media, della cultura e della politica su un fatto tragico: chi oggi ha certe idee o una identità religiosa ebraica o anche nazionale israeliana corre dei pericoli sempre più concreti. La libertà di pensiero e di religione è un caposaldo della Costituzione antifascista. Per questo non esito a definire “fascista” chi attacca quei principi conquistati dai partigiani e dagli Alleati, Brigata ebraica inclusa. Faccio dunque un appello agli “Stati Generali della tolleranza”, che coinvolgano la politica, i media e il mondo universitario al fine di studiare cosa sta succedendo alla nostra società e trovare come depotenziare le fonti dell’odio online e offline. Perché come diceva Andrea Camilleri: “Le parole sono pietre, le parole possono trasformarsi in pallottole, bisogna pesare ogni parola che si dice e far cessare questo vento dell’odio”.
(Bet Magazine Mosaico, 22 agosto 2025)
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Cirielli difende Il Tempo: "Inaccettabile intimidire chi smaschera legami con Hamas"
"È inaccettabile che giornalisti che svolgono il proprio lavoro con serietà e rigore vengano intimiditi da ambienti estremisti, talvolta legati all'area anarchica o a frange ideologicamente radicalizzate. Ogni attacco alla libera informazione è un attacco ai valori costituzionali e democratici della nostra Repubblica. Le istituzioni hanno il dovere di intervenire con fermezza contro ogni forma di minaccia o pressione violenta". Lo ha dichiarato il vice ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Edmondo Cirielli.
"L'inchiesta del Tempo che ha sollevato interrogativi su presunti legami tra esponenti di partiti della sinistra italiana e attivisti filo-palestinesi vicini a soggetti sanzionati a livello internazionale - come Mohammad Hannoun, segnalato dagli Stati Uniti per il suo sostegno a Hamas - rappresenta un importante esempio di giornalismo d'inchiesta. Un lavoro che contribuisce a fare luce su dinamiche che non possono essere sottovalutate, soprattutto in un momento in cui si registra un preoccupante aumento di episodi di antisemitismo e di sostegno, anche indiretto, a organizzazioni terroristiche", ha aggiunto Cirielli. "Non possono inoltre essere ignorate le dichiarazioni, gravi e fuorvianti, della Relatrice ONU Francesca Albanese, secondo la quale Hamas sarebbe un semplice partito politico. Ricordo che Hamas è riconosciuto come organizzazione terroristica da gran parte della comunità internazionale e che la sua Carta fondativa ne dichiara esplicitamente l'obiettivo di distruggere lo Stato di Israele e sterminare il popolo ebraico", ha precisato il vice ministro. "È necessario riaffermare una ferma condanna contro ogni forma di estremismo e contro chi, direttamente o indirettamente, ne diventa complice. Va difesa con decisione la libertà di stampa, la sicurezza dei cittadini e i valori fondamentali della democrazia. All'editore Giampaolo Angelucci, al direttore del Tempo Tommaso Cerno e alla giornalista Giulia Sorrentino, esprimo la mia più profonda solidarietà con l'auspicio che questi codardi vengano perseguiti con estrema severità", ha concluso Cirielli.
(Il Tempo, 22 agosto 2025)
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Lo scriba in vetrina
La scrittura di un rotolo della Torah è un’operazione che si svolge in genere in ambienti privati e silenziosi. Anche per garantire al sofer, lo scriba, tutta la concentrazione necessaria per non fare errori e invalidare così la sua opera. A Dresda la scelta della comunità ebraica di ispirazione chassidica e liberale è stata diversa. Per i prossimi 18 mesi, la realizzazione di una Torah avverrà sotto gli occhi di tutti i passanti in un box collocato davanti all’ingresso del museo della città, in collaborazione con le autorità locali. «Invitiamo tutti a guardare, domandare e imparare», ha affermato il rabbino Akiva Weingarten, che ha scritto le prime lettere del rotolo insieme al sofer Yehoshua Diaz. L’iniziativa ha ricevuto il plauso tra gli altri di Dave Panetti, viceconsole statunitense a Lipsia, che ha descritto quest’operazione «come un forte segno di dialogo, che mostra al pubblico come un’antica tradizione possa combinarsi con la modernità, favorendo la reciproca comprensione».
(moked, 22 agosto 2025)
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Non è possibile evitare di entrare a Gaza City
Israele come gli Alleati a Berlino nel 1945 per liberare la Striscia di Gaza dai nazi-terroristi di Hamas: se ci si ritira ora, la guerra è stata inutile
di Andrea B. Nardi
È come se agli Alleati avessimo detto: «Beh, siete sbarcati, ora basta, fermatevi sulle spiagge della Normandia». Oggi i nazisti sono i terroristi di Hamas, sono asserragliati a Gaza City, sono ancora tanti e sono ben armati. Non è possibile evitare di entrare a Gaza City. Occorre smantellare completamente la loro roccaforte, altrimenti tutta questa guerra sarebbe inevitabilmente persa. Hamas ripartirebbe dalla città, dai suoi labirintici chilometri di tunnel che distano solo duemila metri dal confine israeliano, e ricomincerebbe a uccidere civili israeliani come ha fatto ininterrottamente negli ultimi vent’anni, ossia da quando Israele cedette alle solite pressioni internazionali e commise l’errore di lasciare la Striscia all’Anp e ad Hamas.
• Hamas asserragliata e in ritirata come i nazisti
Solo nelle ultime ore, nell’area di Khan Younis, a sud di Gaza City, più di quindici terroristi si sono infiltrati in una fortificazione appartenente al Battaglione Nachshon della Brigata Kfir e hanno effettuato un attacco combinato con mitragliatrici e missili anticarro RPG per tentare di rapire soldati israeliani. La guerra è ancora in pieno svolgimento: non è possibile interromperla ora, pena la sconfitta di Israele. Certo, tutto questo costerà altra sofferenza: a Israele, per un ulteriore, pericoloso impegno dei propri soldati; e ai civili gazawi, vittime di una guerra cui li ha portati Hamas. Anche nella Seconda guerra mondiale le fasi più cruente e sanguinose furono alla fine, con i nazisti asserragliati e in ritirata. Nessuno ha mai pensato di addebitare agli Alleati quella coda di sangue e sofferenza. E infatti il governo Netanyahu non ha preso questa decisione alla leggera, nessun governo lo farebbe, ma l’opposizione protesta chiedendo di non entrare nella città.
• Le finte proposte sugli ostaggi
La soluzione proposta dall’opposizione interna e internazionale sarebbe questa: arrendersi ad Hamas, lasciare che si riarmi e si riorganizzi, lasciare che riprenda gli attacchi contro Israele, e sperare così che i terroristi rilascino gli ostaggi, cosa che non hanno fatto in due anni. Un proponimento che non può che palesarsi come irrealistico, per usare un eufemismo. Demenziale sarebbe più appropriato come aggettivo. Netanyahu è stato sempre molto chiaro: se Hamas vuole interrompere la guerra, Israele la interrompe immediatamente, a patto che siano rilasciati subito tutti gli ostaggi, e siano deposte le armi. Però Hamas non l’ha mai fatto e si guarda bene dal farlo. Le finte proposte dei maggiorenti dell’organizzazione, che ingrassano negli hotel a cinque stelle di Doha, in Qatar, sono sempre le stesse: rilasciare alcuni pochi ostaggi israeliani, già morti, in cambio di centinaia di terroristi arabi prigionieri, e continuare a combattere mentre all’Idf si chiede il cessate il fuoco. È un tranello che va avanti da due anni. Ora basta.
• Gaza City come Berlino nel ’45
Strategicamente, politicamente, eticamente bisogna liberare Gaza City, e per farlo bisogna purtroppo entrarci dentro, strada per strada, quartiere per quartiere, come a Berlino dal 16 aprile al 2 maggio 1945, dacché – proprio come allora – si tratta di una vera guerra, e i nemici in armi sono migliaia, irreggimentati, addestrati, spietati, sanguinari, pure se non indossano uniformi ma vigliaccamente si nascondono fra i civili. Sbaglia Travaglio a dichiarare «è come se per catturare Provenzano avessimo bombardato la Sicilia». E no! Provenzano era un individuo solo, e la mafia non ha mai aggredito militarmente per vent’anni la Penisola compiendo stragi di migliaia di italiani innocenti. Se lo avesse fatto, stia pur sicuro Travaglio che anche la Sicilia sarebbe stata invasa dall’Esercito italiano.
Kissinger scrisse che non esiste nulla di più sbagliato che iniziare una guerra che non si abbia intenzione di portare a termine. Se ci si ritira ora da Gaza, la guerra è stata inutile. L’obiettivo quindi deve essere distruggere Hamas, esautorare l’Anp, rimuovere il monopolio delle agenzie Onu complici e liberare la popolazione araba da questo giogo corrotto e criminale. Dopodiché, visto che l’Egitto non ci pensa proprio a riannettere la Striscia con i suoi “fratelli” arabi, si instaurerà un governo multinazionale arabo che garantisca la sicurezza di Israele, il benessere dei gazawi e che proceda alla ricostruzione di un territorio che potrebbe davvero diventare una Miami Beach del Mediterraneo.
(Il Riformista, 22 agosto 2025)
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Dissidenti palestinesi contro il totalitarismo palestinista
di Davide Cavaliere
Un giorno, nel tempo che verrà, quando la «questione palestinese» avrà trovato la sua risoluzione – ossia quando i «palestinesi» avranno accettato senza riserve né risentimento la legittimità e la presenza di Israele – forse saranno tre i palestinesi celebrati come «eroi nazionali»: Bassem Eid, Mossab Hassan Yousef e Sandra Solomon.
Bassem Eid è nato a Gerusalemme Est al tempo dell’occupazione giordana ed è cresciuto nel campo profughi di Shuafat. Attivista per i diritti umani, da decenni è uno dei critici più feroci di Hamas e dell’Autorità Palestinese, denunciandone abusi e corruzione.
Mossab Hassan Yousef è invece nato a Ramallah, figlio maggiore di Sheikh Hassan Yousef, uno dei fondatori e leader più prominenti di Hamas in «Cisgiordania». Arrestato da Israele a 18 anni, durante la detenzione rimase disgustato dai metodi brutali e dalla corruzione all’interno dell’organizzazione di suo padre. Questo lo portò a diventare una talpa per il servizio di sicurezza interno israeliano, lo Shin Bet, per circa un decennio, durante la Seconda Intifada, contribuendo a sventare numerosi attentati suicidi.
Sandra Solomon (al secolo Sandra Sabih), anche lei nata a Ramallah, nipote di Zakaria Habash, uno dei terroristi che guidarono la Seconda Intifada. Ha raccontato di essere cresciuta in una cultura che glorificava il terrorismo e incitava all’odio nei confronti degli ebrei. Oggi ha abbandonato l’Islam e condanna fortemente la «causa palestinese» come veicolo del jihad globale.
Queste tre personalità, veri e propri «dissidenti» del totalitarismo islamico, non hanno solo condannato Hamas e le altre organizzazioni jihadiste, ma hanno denunciato e deplorato il fanatismo religioso, la cultura del vittimismo e dell’odio, nonché l’antisemitismo profondamente radicato nella società «palestinese». Inoltre, rifiutano il «diritto al ritorno» e reputano la «causa palestinese» come negativa in sé, generatrice di violenza e intolleranza. Tutti e tre si sono detti contrari alla creazione di uno «Stato di Palestina» nelle attuali circostanze e in futuro, sostenendo che i palestinesi avrebbero più diritti, più libertà e una vita più prospera come cittadini di Israele che sotto un governo di Hamas o dell’AP.
Le loro voci sfidano la narrazione dominante sulla presunta «occupazione» israeliana e gettano una luce sinistra sulla matrice religiosa del conflitto, come sulla società «palestinese» nel suo complesso, che soprattutto nella testimonianza della Solomon emerge in tutta la sua ignobiltà: «Ci hanno insegnato che Israele deve essere spazzato via, che gli ebrei non hanno il diritto di esistere».
Bassem Eid, Mossab Hassan Yousef e Sandra Solomon sono le figure pubbliche a cui andrebbe affidata la gestione di Gaza dopo Hamas. Tali «dissidenti» sono la migliore garanzia per un futuro pacifico e stabile, perché conoscono dall’interno i meccanismi della «società della paura palestinese» e sanno come contrastarli efficacemente.
La loro emarginazione attuale all’interno della società palestinese ricorda da vicino quella dei dissidenti sovietici come Natan Sharansky, che negli anni ’70 e ’80 venivano isolati, incarcerati e diffamati dal regime che sfidavano, mentre all’Ovest erano celebrati come eroi e profeti di un futuro più libero. Allora, il sostegno fermo e inequivocabile dell’Occidente a quelle voci solitarie non fu un atto di interferenza, ma un investimento morale e strategico sulla verità e sulla libertà, che contribuì in modo decisivo al crollo dell’Impero del Male.
Oggi, sostenere i dissidenti palestinesi che lottano contro il totalitarismo islamico e la corruzione significa schierarsi dalla parte di coloro che, pagando un prezzo personale enorme, hanno riconosciuto la responsabilità univoca dei loro connazionali nella perpetuazione del conflitto. Onorare il loro coraggio è il primo, necessario passo per applicare la lezione della storia e non abbandonare coloro che, in minoranza, combattono la battaglia più importante: quella per le coscienze del loro stesso popolo.
(L'informale, 22 agosto 2025)
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Turisti israeliani aggrediti in un parco vacanze olandese
Il Ministero degli Esteri di Gerusalemme ha esortato il governo olandese “ad agire con determinazione per impedire attacchi contro gli israeliani nel suo territorio”.
Giovedì due turisti israeliani sono stati aggrediti violentemente al Center Parcs De Kempervennen nella provincia del Brabante Settentrionale, nei Paesi Bassi, e hanno dovuto ricorrere alle cure ospedaliere.
La notizia iniziale riportata dal media ebraico olandese Jonet è stata verificata per JNS dal Centro per l'informazione e la documentazione su Israele (CIDI), l'organismo di controllo olandese che monitora l'antisemitismo, il quale ha affermato di aver ottenuto la conferma della violenza ai danni di due israeliani nel parco.
Secondo quanto riportato dai media olandesi, i visitatori sono stati aggrediti da residenti locali all'interno del parco vacanze. Entrambi sono stati evacuati con ferite e ricoverati in un ospedale di Eindhoven.
Il ministero degli Esteri israeliano ha pubblicato su X che sta “monitorando e gestendo questo attacco attraverso l'ambasciata israeliana all'Aia”, invitando il governo olandese “ad agire con determinazione per prevenire attacchi contro gli israeliani nel suo territorio, individuare i criminali e assicurarli alla giustizia”.
L'attacco ha sollevato preoccupazioni per campagne coordinate di molestie contro gli israeliani nel Paese.
Mercoledì, il parco vacanze Center Parcs de Eemhof a Zeewolde, una città situata a circa 30 miglia a est di Amsterdam, ha riconosciuto che gli israeliani che soggiornavano lì erano stati filmati di nascosto da attivisti anti-israeliani che hanno pubblicato i video online con inviti a prendere di mira gli israeliani e a segnalarne la posizione.
Un portavoce del parco ha dichiarato all'emittente Omroep Flevoland che la direzione era “scioccata” dai video, che sono stati diffusi sui social media di almeno cinque gruppi anti-israeliani, tra cui la sezione di Amsterdam di Students for Justice in Palestine, secondo quanto riportato.
L'incidente è l'ultimo di una serie inquietante di episodi di violenza antisemita e anti-israeliana in tutta l'Europa dopo il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023. Le comunità ebraiche da Londra a Parigi a Berlino hanno segnalato livelli record di molestie, atti vandalici e aggressioni fisiche, con gruppi di controllo che avvertono che l'attivismo anti-israeliano sta sempre più confondendosi con l'odio aperto verso gli ebrei.
“La violenza contro i turisti israeliani è inaccettabile e sintomatica di un clima in cui l'odio verso Israele si trasforma troppo facilmente in odio verso gli ebrei”, ha affermato il CIDI. “Le autorità devono agire con decisione per garantire che sia gli ebrei olandesi che i visitatori israeliani possano vivere e viaggiare qui in sicurezza”.
(JNS, 22 agosto 2025)
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Quando il matchmaking diventa globale: 10.000 ebrei si danno appuntamento il 25 agosto
di Michelle Zarfati
Lunedì 25 agosto, 10.000 giovani ebrei di oltre trenta Paesi si connetteranno simultaneamente per prendere parte al più grande evento di speed-dating ebraico mai realizzato. Si tratta di The Met\@Chabad Largest Global Dating Event ed è molto più di un esperimento sociale: è la punta di diamante di una rete globale di matchmaking guidata da oltre mille rabbini e rebbetzin Chabad, sostenuta da un algoritmo sviluppato in collaborazione con ricercatori di Yale e con la tecnologia del quartier generale Chabad.
In un’epoca segnata dalla “swipe fatigue” delle app di incontri, l’iniziativa propone un’alternativa radicale: incontri online, selezionati e radicati nei valori ebraici, con partecipanti verificati e presentati dai leader locali delle comunità ebraiche. “Non ci sono bot, non ci sono ghosting: solo persone reali che cercano relazioni autentiche” spiegano gli organizzatori.
La data non è casuale. Dopo l’attacco del 7 ottobre e la guerra che ne è seguita, molti giovani ebrei hanno espresso un nuovo bisogno di costruire case e famiglie ebraiche solide. “I ragazzi ci ripetono la stessa frase: voglio qualcuno che condivida i miei valori” ha raccontato il rabbino Mendy Kotlarsky, presidente di Chabad Young Professionals International. “Questa iniziativa dà voce a quella ricerca”.
L’evento avverrà a Rosh Chodesh Elul, il primo giorno del mese ebraico che precede le festività solenni, ovvero Rosh Hashanà (il Capodanno Ebraico), Kippur e Sukkot. Non solo un’occasione romantica, ma anche un richiamo spirituale, ispirato al versetto tradizionale: “Io sono del mio amato e il mio amato è per me”. Ogni partecipante prenderà parte a una serie di mini-incontri virtuali di 9 minuti, selezionati dall’algoritmo e seguiti dai rabbini locali. Una vera rivoluzione del matchmaking, con il vecchio shtetl che incontra l’intelligenza artificiale: shidduchim tradizionali che, con strumenti del XXI secolo, aiutano a realizzare il sogno più antico — trovare l’anima gemella e costruire una casa ebraica.
(Shalom, 22 agosto 2025)
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Le forze armate israeliane controllano oltre il 75% della Striscia di Gaza prima dell'operazione nella città di Gaza
Dalla ripresa delle operazioni il 18 marzo, l'IDF ha ucciso 2.000 terroristi e attaccato 10.000 obiettivi terroristici - Netanyahu ordina un'accelerazione dei tempi “per conquistare gli ultimi bastioni del terrorismo e sconfiggere Hamas”.
di Joshua Marks
Secondo quanto riferito dall'esercito, mercoledì le forze armate israeliane hanno preso il controllo di oltre tre quarti della Striscia di Gaza e hanno ucciso 2.000 terroristi dalla ripresa delle operazioni di terra circa cinque mesi fa.
Altri successi ottenuti dal 18 marzo includono attacchi contro 10.000 obiettivi terroristici; lo smantellamento delle infrastrutture di Hamas, dei depositi di armi e delle reti sotterranee; nonché la creazione dei corridoi Morag e Magen Oz: il primo separa le brigate di Hamas a Rafah e Khan Yunis, il secondo divide la brigata di Khan Yunis da est a ovest.
Centinaia di aerei da combattimento e altri velivoli dell'aeronautica militare, nonché la marina israeliana, hanno partecipato agli attacchi contro obiettivi di Hamas, tra cui alti comandanti e terroristi coinvolti nell'invasione del sud di Israele del 7 ottobre 2023, che ha scatenato la guerra.
Secondo l'IDF, il colpo più significativo è stato l'operazione del 13 maggio nella zona di Khan Yunis, nel sud di Gaza, che ha portato all'uccisione di Mohammed Sinwar, capo dell'ala militare dell'organizzazione terroristica, Mohammad Sabaneh, comandante della brigata Rafah di Hamas, e Mahdi Quara, comandante del battaglione sud di Khan Yunis di Hamas.
Cinque divisioni dell'IDF, che operano contemporaneamente lungo tutta la fascia costiera, hanno distrutto tunnel terroristici, eliminato cellule terroristiche e neutralizzato roccaforti di Hamas sia in superficie che sottoterra, secondo quanto riferito dall'esercito.
Secondo l'IDF, l'espansione territoriale ottenuta durante l'operazione “Gideon's Chariots” sotto il comando sud ha aumentato la pressione su Hamas, creando nuove opportunità per colpire le sue capacità residue e minare la sua catena di comando, oltre a preparare il terreno per le prossime fasi dell'operazione.
Le truppe dell'IDF sono entrate per la prima volta nella Striscia di Gaza il 27 ottobre 2023, 20 giorni dopo il massacro perpetrato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre.
Mercoledì il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha approvato la mobilitazione di 60.000 riservisti e ha prorogato il servizio militare obbligatorio per altri 20.000, dopo aver approvato un piano dell'IDF per la conquista della città di Gaza. I riservisti saranno mobilitati per sostituire i soldati in servizio attivo in altri settori del Paese, in modo che questi ultimi possano essere liberati per l'offensiva contro uno degli ultimi bastioni di Hamas nella Striscia. L'operazione potrebbe iniziare all'inizio di settembre.
In una dichiarazione rilasciata mercoledì, l'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato: "Prima di approvare i piani per la manovra a Gaza City, il primo ministro Netanyahu ha ordinato di accelerare i tempi per la conquista degli ultimi bastioni terroristici e per la sconfitta di Hamas.
Il primo ministro esprime il suo profondo apprezzamento per i riservisti chiamati alle armi e le loro famiglie, nonché per tutti i soldati dell'IDF. Insieme vinceremo".
Il portavoce dell'IDF, il generale di brigata Effie Defrin, ha dichiarato mercoledì in una conferenza stampa che sono già in corso misure preparatorie alla periferia di Gaza City, tra cui nelle zone di Zeitoun e Jabalia.
Defrin ha sottolineato che negli ultimi giorni le truppe hanno scoperto un tunnel nella città di Gaza che conteneva armi e ha sottolineato che nei prossimi giorni altri soldati parteciperanno all'operazione.
Ha inoltre descritto gli sforzi umanitari per proteggere la popolazione civile a Gaza, tra cui l'espansione dell'area umanitaria nel sud di Gaza sotto la guida del COGAT in vista dell'atteso afflusso di civili.
“Sono in fase di allestimento ulteriori centri di distribuzione degli aiuti umanitari. Questo approccio romperà la dipendenza della popolazione da Hamas”, ha affermato Defrin in merito alla distribuzione degli aiuti umanitari.
Prima che le truppe entrino nella città di Gaza, circa 800.000-1 milione di abitanti saranno evacuati a sud, nella zona di al-Mawasi, vicino a Rafah. Lì saranno allestiti altri due ospedali da campo e quattro centri di distribuzione degli aiuti della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), portando il numero totale delle sedi della GHF a otto, secondo quanto riportato dal canale israeliano Channel 12. L'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, ha recentemente affermato che il piano prevede un'estensione a 16 sedi della GHF.
Il portavoce ha inoltre riferito di un grave incidente avvenuto mercoledì mattina a sud di Khan Yunis, dove le truppe della brigata Kfir hanno sventato un attacco terroristico contro un posto di blocco della brigata.
Più di 15 terroristi sono usciti da un tunnel e hanno aperto il fuoco sui soldati, anche con lanciagranate. Le forze israeliane hanno ucciso nove dei terroristi e ferito molti altri. Nello stesso incidente, i terroristi sono riusciti a penetrare in un edificio dove si trovavano dei soldati. I terroristi sono stati eliminati. L'IDF sta indagando su come siano riusciti a entrare nella struttura e trarrà le necessarie conclusioni, ha affermato Defrin.
Un soldato è rimasto gravemente ferito nello scontro, ha detto il portavoce.
In totale, dall'inizio della guerra sono caduti 898 soldati su tutti i fronti.
Defrin ha inoltre sottolineato che in quasi due anni di guerra Hamas si è trasformata da organizzazione terroristica militare a “organizzazione guerrigliera distrutta e demoralizzata” e che l'operazione a Gaza City continuerà a indebolire le capacità del gruppo terroristico.
“Continueremo a colpire duramente Hamas a Gaza City, roccaforte del terrore governativo e militare dell'organizzazione terroristica”, ha affermato Defrin. “Continueremo a distruggere le infrastrutture terroristiche sopra e sotto terra e a spezzare la dipendenza della popolazione da Hamas”.
(Israel Heute, 21 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele accoglie 225 nuovi Olim: record di Aliyah nonostante la guerra
di Michelle Zarfati
Atterraggio emozionante all’aeroporto Ben Gurion: 225 nuovi Olim provenienti dal Nord America sono arrivati in Israele a bordo del 65° volo speciale organizzato da Nefesh B’Nefesh, in collaborazione con il Ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione, l’Agenzia Ebraica per Israele, Keren Kayemeth LeIsrael e la JNF-USA. Il volo segna non solo la ripresa dei charter dopo l’inizio della guerra, ma contribuisce ad un agosto da record: oltre mille nuovi arrivi in Israele, la cifra mensile più alta degli ultimi vent’anni. Dal 7 ottobre 2023 a oggi, più di 7.000 nordamericani hanno fatto Aliyah, un dato che testimonia una straordinaria resilienza e un rinnovato impegno verso il sogno sionista.
Tra i passeggeri, 45 famiglie con 125 bambini, dieci single e tre pensionati. Il più giovane ha appena nove mesi, mentre il più anziano ha 72 anni. A bordo anche cinque medici e 19 operatori sanitari, pronti a entrare nel sistema sanitario israeliano. Oltre trenta degli Olim hanno aderito al programma “Go Beyond”, nato per il rafforzamento delle comunità a Gerusalemme.
“È emozionante vedere così tante persone scegliere Israele proprio adesso” ha commentato il ministro dell’Aliyah e dell’Integrazione, Ofir Sofer, sottolineando il lavoro congiunto delle istituzioni per favorire l’integrazione dei nuovi olim per quanto concerne lavoro, casa e lingua ebraica.
Per Tony Gelbart, co-fondatore di Nefesh B’Nefesh, “questo non è solo un viaggio simbolico, ma un investimento concreto nel futuro di Israele”. Un’iniziativa innovativa ha reso il volo ancora più speciale: per la prima volta, i nuovi cittadini hanno ricevuto la Teudat Zehut (carta d’identità israeliana) e il certificato d’immigrazione direttamente a bordo, completando l’iter burocratico prima ancora di atterrare nello Stato ebraico.
Gli Olim provengono da vari stati americani e canadesi – tra cui New Jersey, New York, Florida, Ontario e Illinois – e si stabiliranno a Gerusalemme, Tel Aviv, Beer Sheva, Haifa, Modi’in. Le loro competenze spaziano dalla medicina all’ingegneria, dal diritto alla finanza, offrendo un contributo significativo allo sviluppo del Paese. Il presidente dell’Agenzia Ebraica, Doron Almog, ha definito la scelta degli Olim “una potente dichiarazione di appartenenza”, mentre la presidente del KKL, Ifat Ovadia Luski, ha sottolineato come ogni nuovo arrivo sia “un’espressione di fiducia nella resilienza della società israeliana”.
(Shalom, 21 agosto 2025)
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Iran: «abbiamo creato nuovi e più potenti missili da usare contro Israele»
di Sadira Efseryan
Mercoledì l’Iran ha ammonito Israele di essere pronto a rispondere a qualsiasi nuovo attacco, annunciando di aver sviluppato missili con capacità superiori a quelli utilizzati durante la recente guerra.
“I missili utilizzati nella guerra dei 12 giorni sono stati fabbricati… alcuni anni fa”, ha dichiarato il ministro della Difesa Aziz Nassirzadeh, citato dall’agenzia di stampa ufficiale IRNA.
“Oggi abbiamo fabbricato e possediamo missili con capacità di gran lunga superiori a quelle dei missili precedenti e, se il nemico sionista si imbarcherà nuovamente in questa avventura, li useremo senza esitazione”.
Le dichiarazioni di Nassirzadeh sono giunte dopo che domenica un alto funzionario del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche aveva affermato che una nuova guerra con Israele o gli Stati Uniti potrebbe scoppiare in qualsiasi momento.
“Non siamo in una fase di cessate il fuoco, siamo in guerra”, ha dichiarato ai media iraniani Yahya Rahim Safavi, alto consigliere militare della Guida Suprema iraniana Ali Khamenei. “Penso che potrebbe scoppiare un’altra guerra e che dopo di essa non ce ne saranno più”.
Nassirzadeh ha parlato mercoledì con i media iraniani a margine di un incontro con il personale militare alleato, in visita nella Repubblica Islamica in vista della Giornata dell’Industria della Difesa Nazionale del Paese, il 22 agosto.
Secondo l’agenzia di stampa semi-ufficiale Mehr News Agency, Nassirzadeh ha parlato a lungo del “successo” dell’Iran durante la guerra dei 12 giorni con Israele, iniziata il 13 giugno con un attacco a sorpresa israeliano contro le capacità nucleari e militari di Teheran.
Ha affermato che Israele non si aspettava che l’Iran fosse in grado di lanciare un contrattacco così “ampio e preciso” come quello che ha fatto, sostenendo che il 90% di tutti i missili balistici ha raggiunto gli obiettivi previsti.
“A differenza del codardo regime sionista, che ha preso di mira comandanti militari, scienziati, donne e bambini innocenti, infrastrutture civili e centri industriali, abitazioni, centri medici, forze di soccorso, prigioni e media nazionali, la Repubblica Islamica dell’Iran ha scelto deliberatamente i suoi obiettivi missilistici”, ha proclamato.
Contrariamente a quanto affermato da Nassirzadeh, i potenti missili balistici iraniani non solo hanno preso di mira basi militari e centri di ricerca, ma hanno anche danneggiato 2.305 abitazioni in 240 edifici, oltre a due università e un ospedale.
Secondo i funzionari sanitari e gli ospedali, gli attacchi hanno ucciso 31 persone e ne hanno ferito oltre 3.000 in Israele.
Nassirzadeh ha affermato che l’Iran non solo ha ottenuto la vittoria su Israele, ma anche sugli Stati Uniti – che si sono uniti a Israele nell’attacco alle strutture nucleari iraniane – e su tutti i paesi che hanno offerto assistenza nella difesa contro gli attacchi missilistici balistici.
“Dall’altra parte c’era la Repubblica Islamica dell’Iran che, dopo oltre 40 anni di sanzioni, ha fatto affidamento esclusivamente sulle capacità delle sue industrie di difesa completamente autoctone”, si è vantato Nassirzadeh.
Egli ha affermato che l’Iran ha accettato di cessare i suoi attacchi contro Israele non perché si trovava con le spalle al muro, ma perché voleva impedire “l’espansione della crisi e della guerra nella regione”.
“Tuttavia, non abbiamo alcuna fiducia nel regime sionista e nei suoi sostenitori, gli Stati Uniti, né nel loro rispetto degli impegni”, ha avvertito. “Se l’altra parte dovesse continuare con il suo avventurismo e le sue ostilità, questa volta la risposta dell’Iran, data la nostra conoscenza dei punti deboli del nemico, sarà mortale, sorprendente, dolorosa e incalcolabile”.
Israele ha affermato che il suo attacco su vasta scala contro i principali leader militari iraniani, gli scienziati nucleari, i siti di arricchimento dell’uranio e il programma missilistico balistico era necessario per impedire alla Repubblica islamica di realizzare il suo dichiarato piano di distruggere lo Stato ebraico.
L’Iran ha sempre negato di voler acquisire armi nucleari. Tuttavia, ha arricchito l’uranio a livelli che non hanno alcuna applicazione pacifica, ha ostacolato gli ispettori internazionali nel controllare i suoi impianti nucleari e ha ampliato le sue capacità missilistiche balistiche. Israele ha affermato che l’Iran ha recentemente compiuto passi verso la militarizzazione.
L’Iran ha reagito agli attacchi israeliani lanciando oltre 500 missili balistici e circa 1.100 droni contro Israele.
(Rights Reporter, 21 agosto 2025)
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Farmaci israeliani nella spazzatura, Ame scrive al ministro
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Dottoressa e infermiera in servizio alla casa della salute di Pratovecchio Stia (AR) gettano nella spazzatura farmaci israeliani
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È arrivato fino in Israele il video della dottoressa e dell’infermiera in servizio alla casa della salute di Pratovecchio Stia (AR) filmatesi mentre, con sguardo compiaciuto, buttavano nella spazzatura alcuni farmaci dell’azienda israeliana Teva.
«Si tratta di un episodio molto serio. Le medicine sono beni a tutela della salute dei pazienti», dichiara in una intervista con Ynet Daniele Radzik, pediatra a Venezia e membro del Consiglio dell’Associazione Medica Ebraica (Ame). Quando si verificano episodi del genere «è molto importante mettere pressione, non rimanere in silenzio», aggiunge l’esponente dell’Ame, sottolineando come l’associazione sia subito intervenuta con una lettera inviata al ministro della Salute, Orazio Schillaci, e ai vertici della struttura sanitaria. «È evidente che il gesto non sia stato casuale, ma compiuto con l’intento di invitare al boicottaggio di farmaci prodotti in Israele», si afferma nel documento dell’Ame, firmato in calce dalla presidente Rosanna Supino. L’Ame parla di fatto «particolarmente grave», perché i farmaci «non devono essere strumenti di polemica politica o ideologica: essi sono beni fondamentali essenziali per la cura dei cittadini». L’Ame chiede che l’episodio venga valutato «con la necessaria attenzione» e al tempo stesso che si riaffermino i principi di «responsabilità, neutralità e centralità della cura» nel sistema sanitario italiano. Sul caso è tra gli altri intervenuta l’Asl Toscana, precisando «di essersi già attivata per ricostruire l’accaduto» e di riservarsi «di intraprendere ogni azione utile a tutela della propria immagine e del personale che, ogni giorno, opera con impegno, dedizione e correttezza». In un video di “scuse”, diffuso dopo che il caso era montato a livello mediatico, le due dirette interessate hanno presentato il loro atto come un «gesto simbolico volto alla pace».
(moked, 21 agosto 2025)
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Qualcuno forse capirà che certi atti "volti alla pace" sono in realtà ripugnanti atti di guerra. Ma essendo un atto contro Israele, molti non capiranno. Perché non vogliono capire. M.C.
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Whistleblower contro l’ONU: ostacolati gli aiuti a Gaza e rifiutato il coordinamento con Israele
di Davide Cucciati
Secondo il Jerusalem Post del 18 agosto 2025, un informatore che ha operato nelle missioni umanitarie nella Striscia di Gaza ha presentato un esposto formale all’Ispettorato generale di USAID, accusando alcune agenzie delle Nazioni Unite di avere ostacolato la consegna degli aiuti e rifiutato il coordinamento con Tzahal. La fonte riporta che nel reclamo si parla di “gravi abusi e cattiva gestione di fondi umanitari” da parte del World Food Programme (WFP), dell’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) e di altre agenzie, e che si chiede un’indagine per accertare se le scelte siano state prese localmente o su impulso dei vertici ONU.
Fox News Digital precisa di avere visionato una copia del reclamo: il denunciante sostiene che ufficiali dell’esercito israeliano avrebbero offerto protezione e coordinamento ai rappresentanti di WFP e OCHA, ricevendo però la risposta che non erano pronti a discutere tale cooperazione. A supporto delle accuse, il denunciante cita anche “immagini disponibili pubblicamente” secondo cui Tzahal avrebbe autorizzato l’ingresso di migliaia di tonnellate di beni umanitari ONU rimasti fermi dentro Gaza in attesa di distribuzione. Nelle conclusioni, il reclamo sollecita un’indagine indipendente per verificare se il rifiuto di coordinarsi con l’esercito israeliano configuri un uso improprio di fondi dei contribuenti americani.
Un alto funzionario del Dipartimento di Stato, citato dalla stessa fonte, afferma che le salvaguardie operative della Gaza Humanitarian Foundation “minacciano” i meccanismi con cui Hamas si finanzia, motivo per cui i siti della fondazione sarebbero stati ripetutamente attaccati. Inoltre, a detta di FoxNews, durante l’amministrazione Biden, l’Ispettorato di USAID ha segnalato criticità nei controlli sul personale ONG a Gaza e, a seguito di indagini, numerosi dipendenti UNRWA affiliati a Hamas sarebbero stati rinviati al Dipartimento di Stato per possibili sospensioni o esclusioni.
Il portavoce del Segretario generale dell’ONU, Stéphane Dujarric, dichiara di non essere a conoscenza dell’esposto presso USAID e definisce “delirante” l’idea che le agenzie ONU rifiutino il coordinamento con Israele, sostenendo che OCHA e WFP mantengono contatti quotidiani con Tzahal e con il COGAT per la logistica degli aiuti. Il World Food Programme, secondo FoxNews, nega di avere ostacolato la consegna degli aiuti o l’assistenza dell’esercito israeliano e aggiunge che l’ONU è “al 100% trasparente” con le autorità israeliane; un portavoce del WFP precisa inoltre che i quattro siti GHF si trovano in aree specifiche e che le rotte di consegna sono diverse da quelle usate da altre organizzazioni. Tuttavia, guardando la pagina X del COGAT, si evince come, in realtà, i rapporti con l’ONU siano tutt’altro che limpidi. Ad esempio, il 4 agosto 2025 veniva scritto: “L’UNRWA, l’agenzia UN i cui dipendenti hanno preso parte attivamente al massacro del 7 ottobre e opera secondo gli ordini di Hamas, sostiene che ci sono 6.000 camion di aiuti umanitari in attesa di entrare a Gaza. Notizia dell’ultimo minuto: tale affermazione è una palese falsità, volta a mascherare la quasi totale mancanza di attività umanitaria nella Striscia da parte di UNRWA.”.
Il whistleblower afferma di non avere riscontrato prove di “carestia” o “fame estrema” generalizzate a Gaza ma piuttosto sacche di grave insicurezza alimentare: una lettura che contrasta con i rapporti di varie agenzie ONU e che al momento resta un elemento del reclamo in attesa di verifiche ufficiali. La testata giornalistica americana aggiunge che funzionari israeliani riferiscono di avere proposto all’ONU l’impiego di società di sicurezza private per scortare i convogli umanitari a Gaza, proposta respinta dall’ONU, che tuttavia accetterebbe tali scorte armate in altri teatri, come Sud Sudan o Congo. Sempre secondo la fonte statunitense, l’esposto avrebbe attirato l’attenzione di uffici del Congresso che avrebbero avviato contatti con USAID e Dipartimento di Stato. Nel dibattito compaiono anche valutazioni politiche più controverse, come l’ipotesi che esistano indicazioni dall’alto volte a ostacolare gli aiuti: accuse che richiederebbero, se confermate, ulteriori riscontri indipendenti.
In attesa di eventuali esiti ispettivi, l’intero dossier resta diviso tra accuse documentate dal denunciante e smentite altrettanto nette delle agenzie ONU: il nodo centrale è se la mancata cooperazione denunciata abbia effettivamente impedito la distribuzione degli aiuti e, soprattutto, chi abbia preso le decisioni operative contestate.
(Bet Magazine Mosaico, 20 agosto 2025)
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Israele apre un'ambasciata in Zambia
Dopo la visita nel Paese africano, il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar farà tappa anche ad Addis Abeba per colloqui con il suo omologo etiope.
Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar è partito martedì per un viaggio in Africa per inaugurare la nuova ambasciata israeliana in Zambia.
Durante la sua visita è previsto un incontro con il presidente dello Zambia Hakainde Hichilema, il ministro degli Esteri Mulambo Haimbe e la presidente del Parlamento Nelly Mutti.
Nel corso della visita, Israele e Zambia intendono inoltre presentare una serie di iniziative volte ad approfondire le relazioni bilaterali.
L'inaugurazione dell'ambasciata è prevista per mercoledì a Lusaka, la capitale dello Zambia.
Israele aveva già avuto un'ambasciata in Zambia negli anni '60 e '70, che era stata chiusa nel corso di una più ampia riduzione delle rappresentanze diplomatiche israeliane in Africa.
“La riapertura dell'ambasciata dopo decenni è un passo importante per approfondire le relazioni bilaterali con lo Zambia e fa parte di un'iniziativa più ampia volta ad ampliare e rafforzare le relazioni con gli Stati africani”, ha dichiarato l'ufficio di Sa'ar.
Lo Zambia ha un'ambasciata in Israele dal 2015.
Sulla strada per Lusaka, Sa'ar farà tappa ad Addis Abeba per incontrare il ministro degli Esteri etiope Gedion Timotheos, il quarto incontro tra i due da quando Sa'ar ha assunto la carica.
La scorsa settimana, il vice ministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel ha visitato la Nigeria per discutere del rafforzamento delle relazioni bilaterali. Il viaggio di tre giorni ha segnato l'ultimo tentativo in un crescente braccio di ferro tra sostenitori e oppositori dello Stato ebraico in Africa.
Gli Stati africani guidati dal Sudafrica si sono distinti come critici accaniti di Israele, mentre altri mantengono stretti rapporti basati su interessi strategici comuni e sulla fede.
Haskel ha anche visitato il Sud Sudan, come parte della prima delegazione ufficiale israeliana nel Paese.
(Israel Heute, 20 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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IDF elimina il terrorista che rapì Yarden Bibas
Il sopravvissuto: “Grazie eroi”
di Samuel Capelluto
Il 10 agosto, in un’operazione mirata condotta dal Comando Sud dell’IDF e dal servizio di sicurezza interno (Shin Bet), è stato eliminato Jihad Kamal Salem Najar, membro dell’ala militare di Hamas. Un nome che, fino a oggi, era ignoto a molti. Ma dietro quel volto, ora rimosso dal campo di battaglia, si nascondeva uno dei responsabili diretti di uno dei crimini più emblematici del 7 ottobre: il rapimento di Yarden Bibas.
Per comprendere il peso di questa notizia, bisogna tornare a quel sabato nero, quando centinaia di terroristi armati sfondarono i confini israeliani e travolsero le comunità civili del sud del Paese. Al kibbutz Nir Oz, uno dei primi bersagli dell’invasione, viveva la famiglia Bibas: Yarden, sua moglie Shiri e i loro due figli piccoli — Ariel, 4 anni, e Kfir, appena 9 mesi. Sì, nove mesi. Un neonato, con i capelli rossi come la madre, diventato a sua insaputa simbolo dell’impotenza del mondo di fronte al terrorismo.
Quel giorno, Yarden fu separato dalla moglie e dai bambini. Le immagini del rapimento — Shiri stringe i figli, terrorizzata, — hanno fatto il giro del mondo. Ma da quel momento, il silenzio. Nessuna conferma, nessuna prova di vita, nessuna pietà. Solo propaganda, menzogne e comunicati distorti da parte di Hamas.
Dopo oltre un anno di prigionia, Yarden è stato liberato. Solo allora ha appreso ciò che il governo israeliano già temeva: Shiri, Ariel e Kfir erano stati uccisi a Gaza. Secondo le autorità israeliane, non c’è alcun dubbio: sono stati assassinati dai loro rapitori. Hamas, nel tentativo di scaricare la responsabilità, aveva fatto circolare la tesi — infondata — che fossero morti in un attacco aereo israeliano. Ma l’esame dei corpi, restituiti in seguito grazie ad un accordo di cessate il fuoco, ha raccontato un’altra verità. Più cupa, più cruda. E infinitamente più colpevole.
Najar non era un semplice esecutore. Era un operatore militare dell’ala armata di Hamas, coinvolto direttamente nel blitz a Nir Oz, riconosciuto in video e foto diffuse da fonti ufficiali. È lui ad aver preso parte al sequestro di Yarden Bibas. Ed è lui che, fino a oggi, ha continuato ad agire liberamente a Gaza, protetto dalla rete di tunnel, armi e complicità che tengono in ostaggio un’intera popolazione.
La sua eliminazione non è solo un successo militare. È un atto di giustizia. Un segnale. Un promemoria: Israele non dimentica. Israele non abbandona le sue vittime. E anche a distanza di mesi, ogni responsabile sarà raggiunto.
La notizia dell’eliminazione di Najar ha suscitato anche la reazione di Yarden:
“Oggi si è chiuso un piccolo pezzo del mio cerchio. Grazie alle forze dell’IDF, allo Shin Bet e a tutti coloro che hanno preso parte all’eliminazione di uno dei terroristi che mi rapirono il 7 ottobre. Grazie a voi, non potrà più fare del male a nessuno. Per favore, abbiate cura di voi, eroi. Attendo la chiusura del cerchio con il ritorno dei miei amici David e Ariel e degli altri 48 ostaggi ancora prigionieri”.
Le sue parole non chiedono vendetta, ma testimoniano la potenza umana della giustizia: il desiderio che nessun altro subisca ciò che ha vissuto lui. E la speranza, ancora viva, che chi è rimasto indietro possa tornare.
Questa non è una storia “di guerra”. Non è l’eliminazione di “un comandante” qualsiasi. È la chiusura, almeno parziale, di un cerchio di dolore che ha segnato un intero popolo.
Ed è anche una risposta, indiretta, a chi chiede a Israele di “contenere la reazione”, di “negoziare sempre e comunque”, anche con chi ha ucciso neonati e nascosto i loro corpi. Israele oggi non festeggia. Ma piange con più forza e colpisce con più giustizia.
Per Yarden Bibas, sopravvissuto all’inferno, forse è un primo passo verso la pace interiore.
E per chi guarda da lontano, è un invito a non dimenticare che in questa guerra c’è ancora una linea netta tra vittime e carnefici.
(Shalom, 20 agosto 2025)
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Hostages Families Forum nella Giornata mondiale dell’aiuto umanitario: “50 ostaggi privati dei diritti fondamentali da 683 giorni
Questo incubo deve finire”
Oggi, 20 agosto, mentre il mondo celebra la Giornata mondiale dell’aiuto umanitario, il Prof. Hagai Levine, responsabile del team sanitario dell’Hostages Families Forum, ha inviato il seguente messaggio al Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), all’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e all’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani:
“Per 683 giorni, 50 ostaggi sono stati tenuti prigionieri a Gaza, in violazione dei diritti umani fondamentali. Sono sottoposti a torture mentali, fisiche e sessuali, fame intenzionale, scarse condizioni igieniche e sono tenuti sottoterra con scarsa illuminazione e ventilazione. Sono isolati dalle loro famiglie e dal mondo esterno, senza cure mediche o visite della Croce Rossa. Sono letteralmente all’inferno. Chiunque abbia a cuore i principi umanitari deve parlare per il loro rilascio, che porterebbe alla fine di questa guerra sanguinosa e mortale. Apprezziamo il contributo dei nostri colleghi operatori umanitari che rischiano la vita per salvare vite umane e li invitiamo a rimanere fedeli ai loro principi morali: non lasciare indietro nessuno!
La scorsa settimana, durante i miei incontri con il presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) e il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), abbiamo concordato che tutti gli ostaggi sono casi umanitari e devono essere riportati a casa immediatamente: i vivi per la riabilitazione e i deceduti per una degna sepoltura. Questo incubo deve finire”.
(Bet Magazine Mosaico, 20 agosto 2025)
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Proteste a New York contro Sharon
Gaza 2005 - Il vergognoso piano di "disimpegno"
23 MAGGIO 2005. NEW YORK - Nella sua recente visita a New York, il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha incontrato la massiccia opposizione degli avversari del piano di ritiro. Durante il suo discorso al Baruch College, più di mille dimostranti hanno scandito frasi contro il piano di Sharon, che prevede lo sgombero di 21 insediamenti ebraici nella striscia di Gaza.
Sharon ha tenuto domenica una conferenza al Baruch College, a cui erano presenti anche l'ambasciatore israeliano negli USA, Daniel Ajalon, e l'ambasciatore di Israele all'ONU, Dan Gillerman. Davanti alla porta dimostravano circa 1.200 persone, le cui grida potevano essere udite anche all'interno della sala della conferenza.
La folla innalzava striscioni, bandiere e T-shirt color arancione, il colore della protesta contro l'evacuazione degli insediamenti ebraici dalla striscia di Gaza e dalla Samaria del nord. Tra i dimostranti c'erano numerosi ebrei ortodossi e chassidici, rabbini e aderenti al gruppo di destra Krach. «Gli abitanti di Gush Katif sono i veri eroi del popolo ebraico», ha detto Dov Hikind, deputato dello Stato di New York e ebreo ortodosso.
Dagli ospiti invitati all'incontro con Sharon, tra cui importanti leader americani di gruppi ebraici, Sharon è stato accolto con applausi. Quando il Primo Ministro è salito sul podio, ci sono state prolungate e spontanee ovazioni.
Nel suo primo incontro con gruppi ebraici americani dal 2001, Sharon ha parlato soprattutto dei forti legami tra ebrei della diaspora e Israele. L'emigrazione di ebrei in Israele ("Aliyà") è il tema più importante del suo governo. Nei prossimi 15 anni vuole veder arrivare in Israele un milione di ebrei, ha detto il Premier.
Quando è arrivato a parlare del piano di ritiro, alcune persone in T-shirt arancione hanno cominciato a gridare innalzando cartelli con le scritte «Ebrei non cacciano ebrei!» e «Gush Katif per sempre». Dopo che sono stati portati fuori della sala, Sharon ha detto: «Grazie per l'aiuto. Di solito mi occupo io stesso di queste faccende.» Nell'auditorium sedevano anche studenti in T-shirt con la scritta: «Per amore di Israele: smettete l'occupazione!»
«La decisione del ritiro è stata molto difficile per me», ha detto Sharon. «Conosco molto bene i coloni di Gaza. Come agricoltore sono in grado di apprezzare le loro conquiste agricole. Come soldato rispetto il loro coraggio.» Lunedì il Premier ha rimarcato in un altro discorso che Gerusalemme non sarà toccata: «Io non tratterò mai su Gerusalemme.»
Mortimer Zuckermann, ex presidente della Conferenza delle organizzazioni di ebrei americani, ha elogiato Sharon come «un guerriero, quando si tratta della difesa di Israele e del popolo ebraico: adesso è un operatore di pace, perché tenta di concludere la pace con i vicini.» E ha aggiunto: «E' una benedizione per noi avere lei come leader d'Israele in questi tempi difficili. [...] Gli ebrei non arriveranno mai ad aver un'unica opinione, ma quando si tratta d'Israele dobbiamo essere uniti.»
(Israelnetz Nachrichten, 23 maggio 2005)
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Cure? No grazie, sono israeliane. Meglio il cestino e un video su TikTok
di Stefano Piazza
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Dottoressa e infermiera nell'esercizio delle loro funzioni
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Alla Casa della Salute di Pratovecchio Stia (Arezzo), la sanità pubblica si è reinventata: non più terapia, diagnosi e cura, ma cabaret ideologico in corsia. In scena, due protagoniste d’eccezione: la dottoressa Rita Segantini e l’infermiera Giulia Checcacci. Con camice, orario di servizio e telefono in mano, decidono di girare un piccolo film. Il copione è semplice: prendere medicinali prodotti da TEVA – colpevoli di portare l’inconfondibile marchio “made in Israel” – e gettarli nel cestino come fossero cartacce. Non basta disfarsene: bisogna sorridere, ridere di gusto, e soprattutto filmare il tutto per condividerlo con il mondo.
Non si tratta di farmaci scaduti o difettosi: sono medicine regolarmente acquistate, pagate con i soldi delle tasse dei cittadini. Ma hanno un peccato originale imperdonabile: sono israeliani. Tanto basta per trasformarli, nell’immaginario militante, in oggetti contaminati. Non strumenti di cura, ma simboli politici da cancellare con un gesto teatrale.
È il trionfo della propaganda sulla medicina. Il giuramento di Ippocrate viene riscritto in chiave ideologica: «Curare quando non contrasta con la linea politica. Altrimenti, ridere e buttare via». Sembra assurdo, ma è accaduto davvero: dentro una struttura sanitaria pubblica, due dipendenti stipendiati con denaro pubblico hanno deciso che la salute dei cittadini viene dopo la lotta contro Israele. Il messaggio è chiaro: il problema non è la malattia, ma la provenienza geografica del farmaco. Non importa se un paziente ha bisogno di quella medicina, non importa se è efficace. Importa solo da dove arriva. E se arriva da Tel Aviv, il cestino diventa l’unica destinazione accettabile. È la geopolitica applicata alla terapia: «il paziente può anche aspettare, ma la causa ideologica no»
Non è libertà di opinione. Non è dissenso terapeutico. È fanatismo puro. Perché un conto è criticare un governo, un altro è boicottare a colpi di sceneggiata i farmaci che potrebbero salvare vite. E il palcoscenico scelto – un ospedale – rende la cosa ancora più grottesca: il tempio della cura trasformato in discarica ideologica.Chiunque paghi le tasse dovrebbe sentirsi preso in giro: quei medicinali non sono “loro”, sono della collettività. Sono stati acquistati per essere usati a beneficio dei malati, non per diventare comparse in un video da social. La scenetta non ha solo ridicolizzato un’istituzione pubblica, ma ha reso evidente la confusione tra ruolo professionale e militanza politica.
Si ride, si pubblica, si raccolgono like. Ma intanto resta un dettaglio: chi indossa il camice non dovrebbe mai decidere il valore di un farmaco in base alla nazionalità della fabbrica che lo produce. Perché se passa questo principio, allora la medicina non è più scienza ma tifoseria. Oggi si buttano i medicinali israeliani, domani magari quelli americani, dopodomani quelli francesi. Finché l’unico farmaco rimasto sarà quello “ideologicamente corretto”. Peccato che ai pazienti non interessi la politica estera, ma la guarigione.
Una scena del genere non è da TikTok, ma da licenziamento immediato. Perché se il camice diventa strumento di propaganda, allora chi lo indossa ha tradito la sua funzione. Chi trasforma un farmaco in spazzatura solo perché israeliano non è un medico, non è un infermiere: è un attivista travestito da sanitario. E di attivisti, francamente, ce ne sono già troppi. In conclusione, resta l’amara verità: i malati aspettano cure, ma la priorità, ormai, è garantire like e applausi nella piazza virtuale. Così i farmaci israeliani finiscono nel cestino, e con loro finisce anche la credibilità di una parte di sanità che confonde la coscienza professionale con il teatrino della propaganda.
(L'informale, 20 agosto 2025)
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"“Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti" (Zaccaria 12:), dice il profeta. In attesa che questo avvenga, si direbbe che Israele sia diventato una coppa di rimbecillimento per tutti i propal del pianeta. M.C.
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L'IDF si prepara alla vittoria decisiva su Hamas
Ex funzionari della difesa israeliani affermano che la determinazione assoluta di Israele è la chiave per sconfiggere Hamas e raggiungere gli obiettivi di guerra.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Dopo la CXdecisione del gabinetto di sicurezza israeliano di prepararsi a una conquista militare definitiva e su larga scala della città di Gaza, la guerra contro Hamas entra nella sua fase più cruciale. L'operazione imminente, che secondo quanto riferito coinvolgerà circa 80.000 soldati, mira a distruggere l'ultimo grande bastione dell'organizzazione terroristica, che continua a detenere 20 ostaggi israeliani vivi e i corpi di altri 30 ostaggi.
Negli ultimi giorni, ex alti funzionari della difesa israeliani hanno dichiarato che questa rischiosa offensiva è un passo necessario e atteso da tempo per raggiungere gli obiettivi finali della guerra. Hanno sostenuto che il successo della missione non dipende solo dalla forza militare, ma anche dalla capacità di Israele di mostrare determinazione e di separare strategicamente la popolazione civile dal controllo di Hamas, forzando così il crollo dell'organizzazione terroristica come regime e fattore di potere nella Striscia di Gaza.
Shalom Arbel, ex membro di alto rango dei servizi segreti interni Shin Bet, che ha prestato servizio a lungo a Gaza, ha dichiarato a JNS che Hamas, guidata da un'ideologia jihadista-islamista di lungo corso che mira alla distruzione di Israele a qualsiasi costo, agisce come uno spietato agente immobiliare che effettua costantemente analisi costi-benefici.
“Hamas agisce sulla base della sua agenda satanica, che è la dottrina dei Fratelli Musulmani”, ha detto Arbel. Questa ideologia considera la terra di Israele come territorio islamico che “deve essere restituito all'Islam. Ciò non significa che ciò debba avvenire entro cinque o vent'anni. Dal loro punto di vista, la strada verso la ‘redenzione’ è lunga. È un percorso eterno”.
“Hamas, per come la conosco, valuta quotidianamente la situazione, calcola le sue mosse e cerca quelle che la avvicinano di più al suo obiettivo”, ha affermato Arbel. “Il suo obiettivo è quello di dissanguare Israele, di esaurirlo socialmente, nazionalmente e militarmente e di danneggiarlo economicamente”.
Tuttavia, se Hamas “vede che Israele è determinato – anche se non ha ancora raggiunto completamente il suo obiettivo, ma ci è vicino [di conquistare l'intera Striscia di Gaza] – farà ciò che si chiama minimizzazione delle perdite, alzerà bandiera bianca e dirà: ‘Basta, negoziamo’. Non vorrà perdere tutto”, ha stimato Arbel.
La percezione della determinazione israeliana da parte di Hamas è fortemente influenzata da fattori esterni, ha spiegato l'ex ufficiale dei servizi segreti.
“Finché la pressione internazionale su Israele sarà forte, Hamas sarà incoraggiata e si manterrà più salda. Finché la scena interna israeliana sarà in fermento, Hamas rimarrà naturalmente più salda”, ha spiegato. Per quasi due anni Hamas non ha creduto alle minacce di Israele di andare fino in fondo e ha così potuto prolungare il conflitto.
La chiave della vittoria, secondo Arbel, sta nell'attaccare la più grande vulnerabilità strategica di Hamas: la sua dipendenza dalla popolazione di Gaza come scudo umano. “Fin dall'inizio della guerra, Israele non ha trattato in modo molto intelligente la questione della popolazione di Gaza come un'arena indipendente che influenza così fortemente la campagna”, ha affermato.
Separando la popolazione dai terroristi, Israele potrebbe privare Hamas della sua difesa più importante. Arbel ha ipotizzato lo scenario in cui i mediatori suggeriscono a Hamas di cercare di ottenere il rilascio dei prigionieri palestinesi detenuti per motivi di sicurezza, di accettare l'esilio dei propri leader da Gaza e di disarmarsi, pena la morte e la perdita totale. E se si dice loro che devono disarmarsi, Hamas
“lo accetterà? Se si ricorre a mezzi di pressione. Loro reagiscono solo al potere”, ha spiegato.
Tuttavia, secondo Arbel, anche questo non è un risultato scontato, a causa dell'ideologia martirizzante della jihad che permea Hamas. "Hamas è disposta ad assassinare bambini israeliani, giustificando questo con il fatto che sarebbero cresciuti come soldati. È disposta a vedere la propria popolazione uccisa e senza tetto, costretta a vivere in tende alla ricerca di cibo. Tutto è giustificato per il jihad", ha affermato, riferendosi alla convinzione di Hamas che la prossima generazione di palestinesi possa continuare la guerra.
Nel frattempo, i recenti avvenimenti nella città di Gaza dimostrano che le tensioni tra la popolazione locale e Hamas stanno aumentando. Secondo un articolo pubblicato domenica su Israel Hayom, uomini armati del clan Jundiya hanno assaltato l'ospedale Al-Maamadani (anche noto come Al-Ahli) nella città di Gaza, scontrandosi con combattenti di Hamas dell'unità Sahm (unità di sicurezza interna di Hamas) che si nascondevano lì. Quando Hamas ha inviato rinforzi, secondo quanto riferito, questi sarebbero stati colpiti da un aereo dell'IDF. Questo incidente evidenzia la resistenza interna che un'operazione israeliana su vasta scala potrebbe sfruttare per accelerare il crollo del dominio di Hamas dall'interno.
Da parte sua, l'IDF ha dichiarato che uno dei suoi aerei ha attaccato una cellula terroristica armata di Hamas che si trovava nelle vicinanze e all'esterno del complesso ospedaliero Al-Maamadani nella zona di Sajun, nella Striscia di Gaza centrale. “I terroristi sono stati identificati mentre immagazzinavano armi e si armavano nel complesso ospedaliero, che utilizzavano come rifugio”.
Il capo di Stato Maggiore dell'IDF, il tenente generale Eyal Zamir, ha visitato domenica la Striscia di Gaza per supervisionare gli ultimi preparativi. In un discorso ai comandanti, ha dichiarato: "Oggi approviamo il piano per la prossima fase della guerra. Come nelle recenti operazioni in Iran, Yemen, Libano, Giudea e Samaria e a Gaza, continueremo a ridefinire la realtà della sicurezza. Manterremo lo slancio dell'operazione “Carri di Gedeone”, concentrandoci sulla città di Gaza. Continueremo a colpire fino alla sconfitta decisiva di Hamas, tenendo sempre al centro dei nostri pensieri gli ostaggi".
Ha aggiunto: “Presto passeremo alla fase successiva dell'operazione ‘Carri di Gedeone’, in cui intensificheremo ulteriormente i colpi contro Hamas nella città di Gaza fino alla sua sconfitta decisiva. L'operazione ‘Carri di Gedeone’ ha raggiunto i suoi obiettivi; Hamas non ha più le capacità che aveva prima dell'operazione; le abbiamo inferto un duro colpo”.
Nel frattempo, una delegazione di Hamas è rimasta al Cairo, capitale dell'Egitto, per “intensi colloqui” con i mediatori egiziani e qatarioti. Una fonte vicina ai dettagli ha detto a i24NEWS che il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, è atteso in Egitto per partecipare ai colloqui.
Il generale di brigata in pensione Harel Knafo, ex comandante del corso di comando e stato maggiore dell'IDF e capo di stato maggiore del comando sud, ha dichiarato domenica al Jerusalem Press Club che la conquista completa dell'intera Striscia di Gaza avrebbe dovuto essere il piano fin dall'inizio.
“Abbiamo detto che non ci sarebbe stata altra alternativa che occupare tutti i territori e controllare l'intera popolazione civile nella Striscia di Gaza, perché altrimenti Hamas non avrebbe mai rilasciato tutti gli ostaggi”, ha spiegato Knafo. “E naturalmente non sarà disposta a rinunciare alle sue armi”.
Knafo ha spiegato che questo passo è stato ritardato perché Israele doveva prima neutralizzare la minaccia di Hezbollah in Libano, cambiare la realtà strategica in Siria e occuparsi del programma nucleare iraniano.
Knafo ha stimato che Israele abbia già raggiunto circa l'80% dei suoi obiettivi di guerra. “L'80% degli ostaggi è ora in Israele”, ha detto, aggiungendo: “Abbiamo raggiunto anche l'altro obiettivo all'80%: distruggere Hamas... Non hanno più armi strategiche contro Israele. Non possono più fare quasi nulla ai civili che vivono intorno alla Striscia di Gaza”.
Tuttavia, per raggiungere l'ultimo 20%, è ora inevitabile un'operazione di terra su vasta scala, ha sostenuto. Ha ammesso che ciò comporta grandi rischi per gli ostaggi rimasti, ma ha ribattuto che ritardare l'operazione equivarrebbe a una condanna a morte per loro.
«Avete visto le immagini degli ostaggi, avete visto come stanno, avete visto che stanno morendo di fame e non ricevono alcun aiuto», ha detto. «Penso che moriranno prima che abbiamo finito, se scegliamo l'altro piano [un assedio]. Non so se avremo abbastanza tempo per riportare indietro tutti gli ostaggi».
Per quanto riguarda la popolazione civile di Gaza City, Knafo ha dichiarato che prima dell'offensiva sarebbero stati dati ampi avvertimenti per l'evacuazione. “Alla fine della giornata dovremo entrare a Gaza City e penso che chiunque rimanga lì sarà considerato un combattente. Altrimenti se ne sarebbe andato. Conosce le minacce, sa che stiamo arrivando con forze ingenti”, ha detto Knafo.
(Israel Heute, 19 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Su Israele lombra della terza Intifada
Gaza 2005 - Il vergognoso piano di "disimpegno"
di Stefano Magni
15 GIUGNO 2005 - Il futuro ritiro è un coltello a due lame puntato al basso ventre di Israele. Qualsiasi cosa accada, non sembra che vi sia fine al lancio di razzi Qassam, che vi sia o meno il disimpegno. Così scrive al quotidiano Haaretz un lettore di Bat Chefer. Un altro lettore precisa che: La recente dichiarazione di Abu Mazen che i Palestinesi non rinunceranno al diritto al ritorno è un chiaro segnale che la soluzione dei due popoli in due Stati, per ora non è percorribile. Daltra parte non cè nulla, nelle azioni e nei fatti dei Palestinesi, che possa suggerire il contrario. E non sono casi isolati. Nonostante, il 9 giugno scorso, la Corte Suprema israeliana abbia respinto il ricorso dei coloni e sancito la piena legalità del piano di disimpegno dalle colonie di Gaza, stando al sondaggio effettuato dal centro di ricerca Maagar Muhot, meno del 50% degli Israeliani è daccordo con il programma di disimpegno. Il sostegno popolare al piano di Sharon è crollato rispetto allabbondante 70% dellanno scorso. Sebbene risultati del sondaggio non siano certi, Sharon rimane ottimista e non ha intenzione di rinunciare al suo piano di disimpegno. È comprensibile, però, che si sia diffuso un certo malcontento, non solo tra i coloni che dovranno lasciare le loro case.
Fra questi ultimi la disperazione è palpabile: prova ne è il tentato suicidio per protesta di due coloni, che volevano darsi fuoco sulla loro auto e le ripetute minacce alla vita del premier Sharon. I coloni alzano il tono e qualcuno inizia a volte anche ad adottare la tattica del suicidio-omicidio, anche se finora non è mai avvenuto nulla di simile. Ma a parte i coloni, è comprensibile il malcontento anche nel resto di Israele, per una ragione di fondo: i palestinesi non rinunciano alla violenza, nonostante Abu Mazen e nonostante le prime elezioni. Hamas ha già annunciato di non voler deporre le armi: il nuovo leader politico, Khaled Mashaal lo ha dichiarato pubblicamente alla fine di maggio. E i fatti lo dimostrano: una pioggia di razzi Qassam si è abbattuta sugli insediamenti israeliani nei dintorni di Gaza e sulle cittadine meridionali in territorio israeliano, tanto che il capo del Consiglio di Sicurezza Giora Eiland ha dichiarato che lesercito israeliano deve essere pronto a rioccupare, se necessario, i centri abitati palestinesi a ridosso degli insediamenti.
La paura è che il disimpegno, già di per sé difficile, venga ostacolato da una pioggia di razzi e granate. Lincapacità delle forze di sicurezza palestinesi di mantenere il controllo del territorio di Gaza è dimostrata anche dalla crescita di violenza fra i palestinesi. La città, una delle aree più densamente popolate nel mondo, è in balia delle bande armate già da settimane. Lultimo episodio di violenza è lassalto (condotto anche con armi pesanti) contro il quartier generale della Sicurezza Preventiva. Ma solo dallinizio di giugno si sono registrati molti altri gravi episodi di violenza, motivati da regolamenti di conti e faide: venerdì 3 lalto funzionario Ali Faraj è stato assassinato assieme a suo fratello, molto probabilmente per una vendetta politica e familiare; lo stesso giorno, uomini armati di Al Fatah si sono scontrati con reparti della polizia e la sparatoria si è conclusa solo in seguito ad una difficile mediazione. Il giorno successivo, un diplomatico palestinese è stato sequestrato dai Falchi di Al Fatah al confine con lEgitto. Estremisti e bande armate, insomma, imperversano nella città. Per lanciare un segnale forte, Abu Mazen ha ricominciato ad eseguire sentenze capitali, a partire dallimpiccagione di tre prigionieri e dalla fucilazione di un quarto, tutti condannati a morte per omicidio anni fa.
Ma il pieno ripristino della pena capitale fa temere il peggio, perché tra i condannati ci sono ancora prigionieri che sono stati processati in modo sommario, anche con accuse di tipo politico. In questo scenario da incubo, è comprensibile che tutti abbiano letto, con attenzione e apprensione, quanto dichiarato dal capo di Stato Maggiore uscente, Moshe Yaalon, il quale teme che il disimpegno da Gaza non possa far altro che estendere il conflitto al resto di Israele: Tel Aviv e Gerusalemme saranno come Sderot. Faranno attentati suicidi ovunque potranno. È altamente probabile che vi sia una seconda guerra terroristica (
) Lidea che possa esservi uno Stato palestinese entro il 2008 è semplicemente avulsa dalla realtà e pericolosa. Un tale Stato si adopererebbe per minare lo Stato di Israele e prima o poi vi sarebbe una guerra, una guerra che potrebbe essere pericolosa per Israele. Cioè una terza Intifada, forse ancora peggiore rispetto alla seconda. E daltra parte, al primo processo di pace e al ritiro dal Libano meridionale, la guerriglia palestinese aveva risposto lanciando la seconda Intifada. Perché escludere che al ritiro da Gaza segua una terza Intifada?
(ideazione.com, 15 giugno 2005)
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Hamas arretra, Israele al bivio: trattare o finire la missione?
di Samuel Capelluto
Hamas avrebbe trasmesso una risposta positiva ai mediatori Egitto e Qatar riguardo a una bozza di accordo simile alla cosiddetta “proposta Witkoff”, secondo quanto riferito da fonti arabe. Israele, che ha ricevuto la risposta solo successivamente, non ha ancora preso una posizione ufficiale, ma secondo fonti egiziane fornirà una risposta entro Shabbat.
L’accordo, secondo fonti arabe citate da Al-Mayadeen, includerebbe:
• cessate il fuoco di 60 giorni;
• il ritiro delle forze israeliane per mille metri da alcune aree del nord e dell’est della Striscia di Gaza (eccetto Shuja’iyya e Beit Lahia);
• il rilascio di 10 ostaggi israeliani vivi in cambio di 200 prigionieri palestinesi, tra cui detenuti condannati all’ergastolo;
• la fornitura di aiuti umanitari (carburante, elettricità, attrezzature per ospedali);
• una revisione congiunta delle mappe relative alla presenza militare dell’IDF nella Striscia.
• Netanyahu sotto assedio politico
La nuova fase pone il Primo Ministro Netanyahu in una posizione estremamente delicata, stretto tra forti pressioni provenienti sia da destra che da sinistra.
A destra, figure come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich avvertono che accettare un accordo parziale equivarrebbe a “una catastrofe storica” e segnerebbe “il mancato completamento della vittoria su Hamas”. A loro avviso, ogni concessione in questa fase rappresenta un segnale di debolezza strategica e un rischio per le generazioni future.
Dall’altra parte, il fronte centrista guidato da Benny Gantz sollecita una decisione rapida e responsabile. “La coalizione ha una maggioranza chiara e una solida rete di sicurezza. Ora è il momento di decidere — per il bene degli ostaggi e della sicurezza nazionale” ha dichiarato.
• La logica della pressione
Secondo fonti israeliane, Hamas avrebbe accettato la proposta proprio in seguito all’intensificarsi della pressione militare, e in particolare alla prospettiva concreta di una conquista della città di Gaza da parte dell’IDF. Anche il Ministro della Difesa, Katz, e il Capo di Stato Maggiore parlano apertamente di un “punto di svolta” nella guerra, sottolineando che Hamas si trova oggi in una situazione di estrema difficoltà.
• Un’occasione o un rischio?
Resta da vedere se Netanyahu — che solo ieri ha ribadito che “Hamas è sotto una pressione enorme” — manterrà la linea annunciata nei giorni scorsi, ovvero il rifiuto di ogni accordo parziale, oppure se deciderà di cogliere l’opportunità, spinto dalle pressioni internazionali, dall’urgenza umanitaria e dalla speranza di riportare a casa almeno una parte degli ostaggi.
Ogni scelta comporterà un prezzo. Ma in un momento in cui Hamas mostra segni visibili di cedimento, la vera domanda non è solo “quanto possiamo ottenere ora”, bensì “a quale costo per il domani”.
(Shalom, 19 agosto 2025)
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Fa inorridire il solo pensiero che una simile ripugnante proposta sia stata presa in considerazione. M.C.
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Guerra, appelli e boicottaggi: 150 docenti contro l’appello di cinque rettori
Negli atenei israeliani la discussione sulla guerra a Gaza e sulla possibile intesa con Hamas per il rilascio degli ostaggi è una costante. Il confronto tra docenti e studenti è acceso ma rimane nei limiti di un dibattito democratico, segno della vitalità dell’ambiente accademico israeliano. Alcune università hanno aderito alla grande manifestazione di domenica per chiedere la fine del conflitto e un accordo sugli ostaggi; in precedenza, cinque rettori avevano inviato al primo ministro Benjamin Netanyahu una lettera in cui sollecitavano un intervento urgente contro la crisi umanitaria nella Striscia.
Tra i firmatari figuravano i presidenti dell’Università Ebraica di Gerusalemme, del Technion di Haifa, dell’Università di Tel Aviv, della Open University e dell’Istituto Weizmann, che hanno richiamato il dovere morale di ridurre le sofferenze dei civili, pur riconoscendo la responsabilità primaria di Hamas. Un appello che ha suscitato un acceso dibattito soprattutto alla Bar Ilan University, dove circa 150 professori e docenti hanno diffuso un documento contestando i colleghi che avevano sostenuto l’iniziativa dei cinque rettori. Secondo i 150, «parlare di carestia significa cadere nella trappola propagandistica di Hamas», che sfrutta la crisi umanitaria «per accusare Israele e l’esercito israeliano di affamare deliberatamente la popolazione palestinese». I firmatari hanno poi invitato i colleghi «a non lasciarsi trascinare da appelli populisti e irresponsabili, che rischiano di rafforzare Hamas e ridurre le possibilità di riportare a casa gli ostaggi».
In questo clima di confronto, l’attenzione si concentra anche sull’ultima classifica Shanghai, il più noto ranking accademico internazionale che valuta oltre 2.500 università in base a indicatori come premi Nobel, pubblicazioni su Nature e Science e collaborazioni scientifiche globali. Tre atenei israeliani figurano ancora nella top 100 mondiale – il Weizmann, l’Università Ebraica e il Technion – ma tutti hanno perso posizioni. Il Weizmann è sceso al 71º posto, l’Università Ebraica all’88º e il Technion al 97º.
Un arretramento che preoccupa i rettori, legato non tanto alla qualità della formazione, rimasta molto alta, quanto alle crescenti difficoltà sul piano delle collaborazioni internazionali. La possibile esclusione di Israele dal programma europeo Horizon, che finanzia progetti di ricerca d’eccellenza, è vista come il rischio maggiore per la competitività del paese. «Avere tre istituzioni tra le prime cento è un risultato notevole, ma in un periodo segnato da pressioni senza precedenti dobbiamo essere vigili», ha commentato Asher Cohen, presidente dell’Università Ebraica. Dal Technion ricordano che, se rapportati alle dimensioni ridotte dell’ateneo, i risultati lo collocherebbero molto più in alto, ma avvertono che «il mantenimento di questo livello dipende dalle collaborazioni internazionali, messe a dura prova dai boicottaggi».
(moked, 19 agosto 2025)
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Un unico coagulo
di Davide Cavaliere
Da quando i terroristi di Hamas e della Jihad Islamica, insieme a comuni musulmani arabi di Gaza, hanno invaso il territorio israeliano il 7 ottobre, assassinando, violentando e rapendo donne e bambini, il dibattito si è, paradossalmente, incentrato sulla loro innocenza nonché sulla «crudeltà» di Israele nel perseguirli per i loro atti di terrore. Lo Stato ebraico è stato accusato di aver adottato una risposta «sproporzionata» ed eccessivamente «punitiva» nei confronti dei gazawi.
I mass media si sono dati da fare per presentare i «civili palestinesi» come pure vittime, totalmente estranee alle azioni e all’ideologia di Hamas. Ma possono essere, davvero, considerati innocenti? La risposta è ovviamente no. Hamas non è qualcosa di «esterno» che si è imposto sui palestinesi; tutt’altro: il gruppo islamista è il prodotto purissimo della mentalità e della cultura arabo-palestinese. In Hamas si raccolgono e si coagulano tutti gli elementi caratteristici della società palestinese: un antisemitismo ossessivo radicato nella tradizione religiosa, il culto della morte e del martirio, il disprezzo per ogni forma di compromesso e di pacificazione con il nemico «infedele».
Il gruppo islamista, è bene ricordarlo, è arrivato al potere mediante libere elezioni. I palestinesi hanno scelto Hamas perché quest’ultima ha saputo incarnare al meglio i loro valori e le loro ambizioni. Quindi, non sono i terroristi di Hamas a rappresentare un problema – possono, infatti, essere eliminati fisicamente con una certa facilità da un esercito moderno –, ma i «palestinesi» in quanto tali, tra i quali personalità del «genere Hamas», ossia psicotiche e stragiste, possono diventare socialmente rilevanti e politicamente rappresentative.
A sostegno di quanto detto finora vi è un sondaggio condotto dalla società di ricerca Arab World for Research and Development (AWRAD), che rileva, tra l’altro, che più di tre «palestinesi» su quattro hanno un’opinione positiva di Hamas in seguito all’attacco del 7 ottobre. Alla domanda se sostenessero o si opponessero alle azioni di Hamas del 7 ottobre, il 59,3% dei palestinesi intervistati ha dichiarato di sostenere «estremamente» gli attacchi, mentre il 15,7% ha dichiarato di sostenere «abbastanza» la serie di orrendi omicidi.
Il 98% degli intervistati, inoltre, ha affermato che l’eccidio li ha fatti sentire «più orgogliosi della loro identità di palestinesi». Questo significa che l’«identità palestinese» si rafforza a ogni atto di terrore contro gli ebrei, rivelando la sua natura puramente negativa: il «palestinese» esiste in quanto negazione dell’ebreo.
Dunque: ci sono civili innocenti a Gaza? Molti meno che a Berlino o Tokyo nel 1944. I tedeschi sostenevano Hitler e i giapponesi supportavano la macchina da guerra imperiale. Quei dissidenti e oppositori che non erano d’accordo, per motivi tattici o morali, erano una piccola minoranza. Una minoranza ancora più esigua tra i cosiddetti palestinesi – solo il 7% si è dichiarato «estremamente» contrario all’omicidio e al rapimento di bambini (dei soli bambini, si badi bene).
La maggioranza dei «palestinesi» vuole una guerra per distruggere Israele. Se adesso si lamentano e chiedono a gran voce un cessate il fuoco, non è perché non vogliono la guerra, ma perché stanno perdendo la guerra che volevano e che hanno iniziato. Loro desiderano ancora lo scontro, solo non vogliono essere sconfitti del tutto.
Ma vi sono dati ancora più curiosi: il 92% non apprezza l’UE, l’88% non ama le Nazioni Unite e il 69% si dice contrario alla Croce Rossa Internazionale. Insomma, i «palestinesi» odiano i loro sponsor. Cosa c’è dietro questa follia? Esattamente quello di cui si è detto prima: una «struttura spirituale» distorta e un macabro culto della morte.
Come nella Sodoma del libro della Genesi, anche a Gaza è impossibile trovare un numero minimo di «giusti» per mezzo dei quali possa essere salvata l’intera collettività. L’uomo moderno non è a suo agio con questa vicenda biblica, perché non crede più alla realtà di un male radicale e totalizzante. Eppure, questo male esiste, ed è in grado di manipolarci: fa leva sulla nostra compassione quando non ne ha per noi direttamente. Cedere ai ricatti morali di Hamas, alla sua propaganda lacrimevole, alla retorica delle vittime innocenti, significa permettere al male di sopravvivere, rafforzarsi e tornare a colpire.
(L'informale, 17 agosto 2025)
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Il Riformista e la scelta di fare contro informazione su Israele. Velardi: «un successo sorprendente»
In soli tre mesi si è fatto promotore di diverse iniziative volte a contrastare la disinformazione dominante sulla maggior parte dei media nazionali, raggiungendo una crescita degli abbonamenti e dei lettori. In questa intervista esclusiva a Mosaico-Bet Magazine, il direttore racconta le motivazioni e i risultati di una scelta controtendenza.
di Ilaria Myr
II 20 maggio è uscito con la prima edizione di una pagina interamente dedicata alle “Ragioni di Israele” per “offrire uno spazio di analisi, riflessione e confronto libero da pregiudizi”. Poi a inizio giugno, il lancio dell’appello «Dalla parte di Israele», firmato da 650 persone, che in pochi giorni sono arrivate a oltre 8000, e che è sfociato in un incontro pubblico a Roma. E poi, a luglio, l’avvio di una newsletter intitolata Kippah, dedicata alla contro-narrazione sul tema Israele.
Non lasciano spazio al dubbio le iniziative prese negli ultimi tre mesi dal quotidiano Il Riformista che, in un periodo in cui la maggior parte dei media nazionali e internazionali portano avanti una narrativa antisraeliana appiattita sulle informazioni fornite da Hamas, ha scelto in modo molto netto quale tipo di informazione vuole portare avanti: un’informazione scevra da pregiudizi e narrazioni facili e appiattite, che propone storie e punti di vista su Israele poco noti e diversi da quelli mainstream, e soprattutto che racconta la complessità della società israeliana e del conflitto in corso a Gaza. Una scelta a dir poco controtendenza, quella del quotidiano diretto da Claudio Velardi, che ha però ottenuto risultati inaspettati fin da subito.
«Non ci aspettavamo un riscontro così importante al lancio della pagina quotidiana dedicata alle Ragioni di Israele – spiega soddisfatto a Mosaico Bet-Magazine il direttore Velardi -. Purtroppo le voci che si levano a difesa delle ragioni di Israele sono molto poche: con questa iniziativa diamo voce a studiosi, giornalisti, intellettuali e testimoni diretti, con l’ambizione di offrire strumenti per capire, senza filtri o barriere, e uno sguardo consapevole, critico e giusto, contro il fanatismo di chi sogna di cancellare lo Stato ebraico dalla faccia della Terra». E i numeri registrati in questi tre mesi dimostrano che la scelta è stata quella giusta: gli abbonamenti sono cresciuti di 500 unità, arrivando a superare quota 1500, mentre ogni post mattutino registra decine di migliaia di visualizzazioni. «Certo, non mancano critiche e insulti, soprattutto sui social – continua Velardi -, ma di fatto gli abbonamenti e le visualizzazioni sono cresciuti esponenzialmente. Quindi continuiamo a fare il nostro lavoro, dando la nostra visione, nella convinzione di essere dalla parte giusta».
Dopo il lancio della pagina quotidiana, un’altra mossa importante: alla vigilia delle manifestazioni organizzate dalla sinistra il 6 e 7 giugno “contro la guerra di Gaza” e “per fermare Israele”, il quotidiano ha lanciato l’appello “dalla parte di Israele” per denunciare quelle iniziative “irresponsabili nei confronti degli ebrei di tutto il mondo, perché avranno il doppio effetto di armare sempre più l’opinione pubblica contro il diritto di Israele a sconfiggere il nemico che vuole distruggerlo e di consentire all’antisemitismo di dispiegarsi in libertà, minacciando la vita di ogni ebreo. Quelle manifestazioni sono organizzate e promosse da chi non capisce o non vuol capire che cosa è successo e quel che ha significato il 7 ottobre 2023”. Un vero successo: dai 650 firmatari iniziali si è arrivati in pochi giorni a 8000 tanto che il giornale ha riempito il Teatro Rossini a Roma con un evento, che ha visto la partecipazione di numerosi ospiti italiani e internazionali: politici, scrittori, giornalisti, storici, blogger e molte altre voci autorevoli.
Infine, a luglio, il lancio della newsletter Kippah che nelle intenzioni del direttore doveva essere settimanale, ma che è subito diventata quotidiana, raggiungendo più di 1800 iscritti ogni giorno, con un tasso di apertura medio fra il 55 e il 60%.
Interessante è anche la composizione del lettorato del quotidiano: se la fascia più rappresentata è quella fra i 50 e i 65 anni, prevalentemente maschile, non mancano però anche giovani fra i 20 e i 30 anni.
«Dal punto di vista giornalistico siamo molto contenti di tutto quello che stiamo raggiungendo – continua il direttore -. Purtroppo non possiamo dire lo stesso del livello dell’informazione più generale, dove si intensifica sempre di più un’informazione unilaterale su Israele, mentre non viene dato risalto a notizie importanti come, ad esempio, la condanna da parte della Lega Araba del 7 ottobre (ripresa solo dopo vari giorni, ndr), così come alle centinaia di migliaia di morti in Ucraina. Dal canto nostro, continuiamo a lavorare seguendo le nostre convinzioni, ben consapevoli che è una battaglia difficilissima, ma necessaria».
Per il futuro, dunque, Il Riformista continuerà in questo sforzo quotidiano di difesa della verità contro la disinformazione e manipolazione dell’informazione. Ma non solo. «Vorrei immettere anche elementi più politico-strategici nelle nostre analisi, per ragionare su quali possono essere le dinamiche future in Medio Oriente, considerando i diversi soggetti in gioco: Israele, i Paesi arabi, ma anche Russia, Qatar e Cina – spiega Velardi -. La mia intenzione è insomma quella di riuscire a passare da un livello di testimonianza e controinformazione su Israele e le sue ragioni a uno successivo di analisi e riflessione più politica che guarda in prospettiva per arrivare a dire come si potrebbe uscire da questa situazione che è purtroppo a un’impasse».
(Bet Magazine Mosaico, 19 agosto 2025)
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Il peso della parola “Adesso”
di Samuel Capelluto
Tel Aviv, Gerusalemme e altre città israeliane sono da settimane teatro di manifestazioni accese. Migliaia di persone scendono in piazza regolarmente, esibendo cartelli con scritte come “Adesso!” o “Riportatelo a casa”. È un grido collettivo e disperato per il ritorno degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Familiari, amici e semplici cittadini bloccano strade, presidiano snodi strategici e accusano il governo di non fare abbastanza — o di non agire abbastanza in fretta. Questo movimento, pur composto da anime diverse, si è unito sotto un’unica parola, potente e semplice: “Adesso”. “Adesso!”. Adesso il governo deve firmare un accordo e riportare a casa gli ostaggi. Adesso bisogna agire, prima che sia troppo tardi. Adesso, perché ogni giorno conta, ogni vita ha valore, ogni minuto in mano ad Hamas è una ferita aperta. Chi può rimanere indifferente davanti a questo appello così umano, così giusto? Eppure, in Israele – come spesso accade in questa terra complicata – le cose non sono mai così semplici. Anche la parola “adesso” porta con sé una rete di dilemmi profondi, morali e strategici, che dividono il Paese e spezzano il cuore. Gli israeliani non sono divisi tra chi vuole riportare a casa gli ostaggi e chi no. Tutti li vogliono a casa. Ma sono divisi sul “come” e sul “prezzo”. Oggi, secondo diverse fonti, i termini richiesti da Hamas per un accordo includono la liberazione di centinaia di terroristi condannati per crimini brutali, il ritiro totale dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza (anche dalle aree a ridosso dei kibbutz israeliani), il mantenimento del potere da parte di Hamas… E, fatto ancor più cinico, Hamas pretende che sia proprio Israele – insieme alla comunità internazionale – a finanziare e sostenere la ricostruzione della Striscia. Secondo alcune fonti israeliane, questo significherebbe che il rilascio degli ultimi ostaggi avverrebbe solo dopo la ricostruzione completa – o almeno sostanziale – di Gaza. Sono richieste che, nella percezione di molti israeliani, non rappresentano una soluzione, ma la premessa per la prossima tragedia. Per il prossimo 7 ottobre. Per i prossimi ostaggi. E allora, cosa significa davvero dire “adesso”? Firmare un accordo che salva oggi ma rischia di distruggere domani? Oppure resistere, con il cuore a pezzi, e dire “non così, non a queste condizioni”? Molte persone vedono solo una parte della storia: la sofferenza delle famiglie, le madri che piangono, i volti dei prigionieri. Ed è giusto che sia così. Ma per capire bene, bisogna entrare anche nel lato scomodo, doloroso, della riflessione strategica. In una guerra, e in una lotta contro un nemico che ha già dimostrato di usare le concessioni per colpire di nuovo, ogni decisione ha un prezzo. Anche quelle mosse dal cuore. Chi oggi dice “no” a un accordo con Hamas non lo fa perché ha meno compassione. Lo fa perché teme che un accordo sbagliato condanni non solo gli ostaggi di oggi, ma anche quelli di domani. In Medio Oriente, anche i mercati obbediscono alla logica del conflitto. Se un venditore capisce che il cliente è disposto a tutto pur di ottenere ciò che vuole – il prezzo sale. Sempre. E Hamas, purtroppo, ha capito benissimo come funziona questa dinamica. Israele si trova quindi sospesa tra la pietà e la paura, tra il dovere morale e il rischio esistenziale. Non esiste una risposta facile. Ma esiste un nemico che conosce bene la debolezza delle democrazie: la pressione emotiva. E la sfrutta con cinismo. Per questo, chi in Israele si oppone a un accordo “a tutti i costi” non è meno umano. È solo dolorosamente consapevole di cosa può succedere dopo l’“adesso”.
(Shalom, 18 agosto 2025)
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"Portatelo a casa adesso". Chi? mio figlio, naturalmente, o forse mia figlia, o forse mio marito, o forse mia moglie, o forse... insomma qualcuno a cui IO sono interessato. Per gli altri non so. Ciascuno penserà per sé, ciascuno metterà il suo cartello, e LORO... loro chi? Quelli del governo, naturalmente, e Netanyahu in modo particolare. Non si dice ai terroristi di Hamas: fateli partire, si dice al governo di Israele: portatelo indietro. Come? Se lo sapete, perché non lo dite? Forse perché se lo dicessero in modo chiaro e conseguente la vergogna si appiccicherebbe indelebilmente in faccia a loro. La sofferenza di chi ha un proprio caro in queste condizioni è degna di compassione, l'egoismo sfacciato e irresponsabile di chi reagisce in questo modo no. Sono deprecabili azioni di estensione e rafforzamento del male. E le frasi del tipo "se tu fossi al mio posto" non stanno in piedi. E' bene dirlo subito. M.C.
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19 luglio 2005: «Giornata internazionale contro il ritiro»
Gaza 2005 - Il vergognoso piano di "disimpegno"
23 MAGGIO 2005 - Gli avversari dell'evacuazione dei coloni dalla striscia di Gaza e dal nord della Samaria hanno dichiarato il 19 luglio «Giornata internazionale contro il piano di ritiro». Si prevede che migliaia di ebrei-chabad chassidici andranno in Israele per dimostrare contro il piano.
Grandi manifestazioni si terranno a Tel Aviv nella «Giornata contro il ritiro»; ma anche in altri paesi i dimostranti vogliono scendere in strada. Negli USA la manifestazione più grande avverrà nella capitale Washington, riferisce l'agenzia di notizie «Arutz Sheva».
In un primo tempo, il governo israeliano aveva fissato il 20 luglio come giorno d'inizio dell'evacuazione dei coloni ebrei. Ma poiché il ritiro avrebbe coinciso con il periodo di cordoglio del «Tisha Be' Av», Ariel Sharon ha rinviato l'esecuzione del piano ad un tempo successivo. Il nono giorno del mese ebraico Av, cioè il 14 agosto, i credenti ebrei ricordano la distruzione del primo e del secondo tempio a Gerusalemme, insieme ad altri tragici avvenimenti della storia del popolo ebraico.
Rabbi Shalom Dov Wolpe, una personalità di spicco del movimento Chabad e propugnatore di un «Grande Israele», durante una sua visita a New York ha esortato gli ebrei chassidici negli USA ad andare in Israele a dimostrare contro il piano di ritiro. Quando il governo darà l'ordine di evacuazione, i Chassidim dovrebbero impedire «che anche solo un pezzo della terra d'Israele venga dato via». Questo insegnerebbe anche la dottrina del Rabbi Menachem Mendel Schneerson. Schneerson è stato uno dei più importanti maestri del movimento Chabad ed è stato venerato come il «Messia». E' morto nel 1994.
(Israelnetz Nachrichten, 23 maggio 2005 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il Principe Verde che rinnegò Hamas. "Vogliono sostituire ebrei e cristiani"
Mossab Hassan Yousef si commuove al museo sul 7 ottobre. "Ai bimbi palestinesi insegnano la violenza contro gli infedeli"
di Fiamma Nirenstein
Ci incontriamo per visitare a Glilot il nuovo museo sul 7 di Ottobre organizzato dall'esercito e non ancora inaugurato, e per commentare la genesi e realizzazione della inenarrabile strage. Lo facciamo guardando negli occhi neri, spalancati, affermativi, Mossab Hassan Yousef, il Principe Verde, il Figlio di Hamas che parla al mondo di sé stesso e invita a combattere sulla base dell'orrore cannibalesco della sua prima esistenza. C'è coraggio e guerra senza fine in quello sguardo, nessuna illusione. Suo padre, lo sceicco Hassan Yussef, uno dei fondatori di Hamas, l'ha condannato a morte, e lui si sente impegnato in un duello storico.
Come un eroe mitologico, Mossab è tutto il bene e tutto il male, brucia in ogni parola, vive per la determinazione di non esitare di fronte a nulla, e mentre descrive la sua origine dentro Hamas che è un «death cult», un culto della morte, è come se avesse fatto un voto, con in mano una spada. Mossab si è fatto cristiano, ma le sue memorie non portano remissione, chiedono solo cambiamento, pentimento, è spietato la sua stessa storia, non ha pietà verso la sua infanzia piena di violenza a scuola, a casa, per strada, e di insegnamenti omicidi, prima di tutto uccidere gli ebrei, e poi chiunque non sia parte dell'Islam. Vede al museo il ruolo dell'Unrwa e dice: ognuno di quei bambini, è destinato a diventare una Nukba. «Avrei potuto tante volte vendicarmi di ciò che mi hanno fatto mentre avevo scelto di lavorare per gli israeliani per bloccare le stragi continue sugli autobus, nelle pizzerie. Ho salvato tanta gente, ma ho sempre rifiutato di implicare una vendetta personale. Mio padre è salvo per questo. Io cerco solo giustizia e che si capisca la terribile verità di con chi avete a che fare».
Mossab ha 47 anni, ma il viso magro di un ragazzo; vive molto lontano, dove Hamas e tutti i terroristi che lo cercano non lo possano trovare. Ma c'è sempre in questa guerra senza fine; così visita il museo insieme a Dan Diker che lo ha invitato in Israele per il Jerusalem Center for Foreign and Strategic Affairs. Là si impara tutta la verità su Hamas, è si capisce che solo una rivoluzione totale può far sperare in una pace coi palestinesi.
Guardiamo foglietti di istruzione per la strage, mappe dei kibbutz con gli asili nido e le case, anche una lunga lettera di ordini di Sinwar. Mossab sorride: «Devo dire che scrive molto bene, ottimo arabo». Le sue divisioni sono divise per luogo e per compito, tutto è segnato. I fogli scritti a penna, come i biglietti in possesso dei terroristi ordinano «in nome di Allah» di «uccidere con donne bambini e vecchi, fotografare, stuprare, fotografare gli stupri, rapire...». «Rapire a centinaia è decisivo, fondamentali - dice Mossab - l'arma geniale, vincente... E attenzione: l'invasione è chiamata Inondazione di Al Aqsa. Lo tsunami sovrasta cadendo dall'alto, gli occhi neri sono ancora più grandi e scuri», cancella allo scopo di sostituire.
È una scelta religiosa, prettamente islamica. «L'Islam arriva 1500 anni dopo l'ebraismo, 700 dopo il cristianesimo: lo scopo di Hamas è compiere a fondo la grande guerra di religione. Sostituire le altre due religioni. Lo dovrete capire tutti a vostre spese se non agite in fretta». Anche l'invenzione di Al Aqsa, spiega, è un'invenzione di guerra: Gerusalemme non esiste nel Corano, e la Moschea si inventa per arricchire una narrativa fasulla, per un popolo che non esiste. Siamo Arabi, dice Mossab, la bandiera palestinese esiste solo dagli anni Sessanta dello scorso secolo. Mossab ride all'accusa di islamofobia: «Basta guardare nei libri di testo, i bambini lo imparano dall'asilo, sulle tv: sottomettere l'infedele con la violenza».
E più avanti, oltre lo stand dove si allineano le armi lasciate sul campo (russe, degli Hezbollah nordcoreane, iraniane) i libri di Gaza: un kit religioso da portare con sé nella strage, col Corano, e i libri che si trovano sia a Gaza che nelle case del West Bank. Mossab li sfoglia, li ha visti a casa sua: c'è il Mein Kampf di Hitler, i libri di Abd Allah al Azzam teorico di Al Qaeda che ha anche scritto la carta di Hamas nel 1988, c'è Mahmoud al Zahar, tuttora nella leadership di Hamas che ha scritto «Odiare gli ebrei», c'è «La fine degli ebrei».
I libri di testo vanno oltre: «Io a scuola imparavo le sottrazioni togliendo gli ebrei morti da quelli vivi per sapere quanti ne erano rimasti». Vediamo i video coi bambini che odiano, che sparano, con le mamme che li candidano a divenire Shahid. Mossab sta impietrito carico di ricordi di fronte al video, annuisce, sa. Poi, solo chi è forte riesce a guardare. Mossab lo è, ma nell'ultima stanza, davanti allo schermo, deve uscire un momento, torna e quasi grida: «Ognuna di quelle membra strappate, di quegli stupri, ognuno di quei bambini stuprati e arsi vivi è un crimine di guerra! Nessuno lo denuncia. Qui ci sono 1200 crimini di guerra: io mi sono detto adesso, specie dopo ciò che si è visto il mondo si alzerà in piedi... e non è successo. Che cosa possiamo fare se non capite che di fronte a questa guerra neonazista di religione ci si deve difendere fino all'ultimo?».
I grandi occhi spalancati di Mossab guardano una vita, una cultura intera: «Io dedico tutto me stesso a difendere Israele e il popolo ebraico dalla guerra psicopatica contro ebrei e cristiani. Se non mi si ascolterà, io continuerò da solo».
(il Giornale, 18 agosto 2025)
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Riproponiamo un articolo presente nel nostro archivio dal 2008: "Perché il figlio di un leader di Hamas si è convertito al cristianesimo"
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Tornando a casa: perché ho lasciato l’Europa per Israele
Sono un musicista. Sono israeliano. E più di ogni altra cosa, sono figlio di un popolo che è sopravvissuto, ha creato e sognato, anche quando il mondo ha cercato di oscurare la sua luce”.
Comincia così il racconto di Oded Nir e del suo ritorno in Israele, pubblicato sul sito Jfeed. “Ho vissuto ad Amsterdam per 19 anni. Una città bellissima, aperta, creativa, ricca di cultura. Mi ha accolto con entusiasmo fin dal mio arrivo: un giovane artista con i suoi sogni, la chitarra in mano, la musica nel cuore. Mi sono esibito in tutta Europa, ho collaborato con musicisti di ogni estrazione e mi sono costruito una vita in un luogo che ammiravo. Ma lentamente, e sempre in modo discreto all’inizio, quell’accoglienza si è affievolita. E’ iniziata con piccole domande. Sguardi silenziosi. Silenzi inquieti. ‘Sei israeliano?’, ‘Cosa pensi di quello che sta facendo il tuo paese?’, ‘Sei ebreo, vero?’. Non erano attacchi. Non all’inizio. Ma col tempo, il significato che si celava dietro si è acuito. Il mio nome, la mia identità, persino la mia musica, cominciavano a sembrarmi un peso. Un peso ebraico. Un peso israeliano.
Mi sono detto, come molti fanno, che sarebbe passato. Che avrei potuto superarlo. Che la musica, che l’arte trascende la politica, i pregiudizi e la storia. Ma alla fine, mi sono ritrovato a modificare chi ero. A nascondere certi testi. A evitare titoli in ebraico. A scegliere collaborazioni che non sollevassero domande. E quello è stato il momento in cui ho capito: non mi sarei arreso. Stavo venendo cancellato, un piccolo silenzio alla volta. Quando nemmeno la mia musica poteva veicolare la mia identità senza paura, ho capito che cosa dovevo fare. Sono tornato a casa.
“Mi sono ritrovato a modificare chi ero. A nascondere certi testi. A evitare titoli in ebraico.
E quello è stato il momento in cui ho capito”
Oggi vivo a Rishon LeZion con mia moglie. Abbiamo costruito una vita, non nell’utopia, ma nel nostro posto. In Israele non ho bisogno di scusarmi per il mio nome. Non ho bisogno di spiegare le mie origini. Posso camminare con una kippah, una chitarra o una bandiera, senza chiedermi chi attraverserà la strada per evitarmi. Questo è ciò che il sionismo ha sempre significato per me: un ritorno non solo dall’esilio, ma dalla cancellazione. Non solo una casa fisica, ma una bussola spirituale. Non sono tornato a casa perché Israele è perfetto. Non lo è. Ma sono tornato a casa perché qui posso vivere liberamente, come ebreo, come israeliano, come artista. E nel 2025, questo non è qualcosa che do per scontato. Il sionismo non è un’idea obsoleta. Non è una reliquia. E’ un diritto. E per molti di noi è l’unica bussola che ci indica ancora casa. A ogni ebreo che si è sentito piccolo, in imbarazzo o in colpa per la sua esistenza, dico questo: non rinunciate alla nostra storia. Non lasciate che il mondo decida quanto vi sia permesso essere ebrei.
E non dimenticate mai: il diritto di vivere liberamente come ebrei in una patria ebraica non è un cliché. E’ un privilegio. Un privilegio che è stato conquistato con sacrifici, lotte e con l’incrollabile convinzione che meritiamo di essere integri”.
Il Foglio, 18 agosto 2025 - trad. Giulio Meotti)
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Bat Ye’or smonta il “mito andaluso”
Il XX secolo, scrive sulla Tribune Juive Bat Ye’or – scrittrice e saggista britannica nata al Cairo nel 1933 – «fu dominato da tre ideologie genocidarie: il comunismo, il nazismo e il mito andaluso». Se le prime due sono state combattute e poi studiate la terza, nata negli anni Sessanta, è rimasta a lungo un argomento proibito: «chiunque vi si avvicinasse rischiava, nel migliore dei casi, l’esclusione sociale riservata ai reietti, o la morte prescritta dal jihad».
Il mito andaluso si fonda sull’idea che nella Spagna medievale governata dagli arabi le leggi coraniche, applicate a ebrei e cristiani, incarnassero una suprema eccellenza morale, regolando la loro vita secondo i principi della giustizia islamica definiti dalla legge e dall’ideologia del jihad. Comandamenti giuridici elaborati già nell’VIII secolo e codificati nella shari’a, la legge islamica, che stabilivano diritti e doveri delle popolazioni indigene ormai islamizzate. In questa prospettiva il mito arriva a legittimare come modello universale i principi dell’islamizzazione jihadista, combinati con regole della “dhimmitudine” che garantivano una sopravvivenza condizionata ai «più privilegiati» tra coloro che erano scampati a massacri o schiavitù.
La dhimmitudine, secondo l’autrice (Bat Ye’or è lo pseudonimo di Gisèle Littman), è la condizione giuridica e sociale imposta storicamente alle popolazioni non musulmane (“dhimmi”, soprattutto cristiani ed ebrei) nei territori governati dalla legge islamica. Non stupisce, nota l’autrice, che movimenti jihadisti come Olp e Hamas proclamino la loro adesione a tale ideale, attribuendo alla «mancata sottomissione ad Allah» la causa dei mali del mondo. Colpisce, per contro, «la totale approvazione occidentale del mito andaluso», che di fatto cancella tredici secoli di jihad contro la cristianità. Che i musulmani lodino le proprie leggi, osserva, è naturale, ma che «le vittime li superino nelle lodi» desta sorpresa.
Questa convinzione trova espressione in dichiarazioni politiche che arrivano ad aspirare a una fusione euro-araba «per riattivare l’età d’oro andalusa». Il legame tra politica comune verso Israele e sviluppo euro-mediterraneo iniziò con la dichiarazione della Cee del novembre 1973, che esprimeva sostegno ai diritti dei palestinesi, mentre il successivo Dialogo Euro-Arabo mirava a rafforzare la cooperazione con il mondo arabo. Il mito andaluso ne divenne la base ideologica, alimentando progetti di fusione culturale, religiosa e migratoria «in un radioso futuro euro-islamico senza Israele». Questa impostazione, sostiene Bat Ye’or, collocava la Cee «nel campo dei suoi ex-alleati degli anni 1920-1945», manovrando con nemici dichiarati di Israele fino a riesumare la Risoluzione Onu 181 del 1947, respinta dagli arabi e seguita da guerra, invasioni e massacri senza reazione internazionale.
Nel 1967, la liberazione dei territori da parte israeliana suscitò nuove ostilità europee; negli anni Settanta, il sostegno all’Olp si consolidò e da allora, l’Ue — «per scelta e non per costrizione» — avrebbe protetto sé stessa dal jihad divenendone al tempo stesso supporto e finanziatore contro Israele, in una collusione che l’autrice accosta all’«euro-jihadismo nazista». Il jihad globale degli anni ’90 e 2000 non ha incrinato il mito andaluso, al contrario: ha alimentato accordi migratori, flussi finanziari e una narrativa che attribuiva a Israele la responsabilità di guerre e terrorismo, assolvendo i jihadisti.
L’Unrwa contribuì a interiorizzare in Occidente «la concezione islamista della giustizia», incentrata sulla sharia dell’«età dell’oro». Mentre l’Europa celava la natura jihadista dell’OLP, le stesse logiche minavano le sue città, l’economia, la sicurezza e il tessuto sociale. Il divario tra mito e realtà generò disillusione e conflitti interni, con il rischio di «emirati fondamentalisti» sul suolo europeo. Sul piano mediatico e politico, accuse costanti a Israele hanno, secondo Bat Ye’or, creato odio genocidario, un «soffio di Lucifero che si compiace della sofferenza e della morte».
L’autrice sottolinea che non è la prima volta che il popolo ebraico affronta simili minacce. Le nazioni dell’Oci, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, afferma l’autrice, non celano l’obiettivo di ricreare un Califfato con capitale a Gerusalemme. Alcuni esponenti di Olp e Hamas celebrano Hitler. Da decenni, l’Ue lavorerebbe a sostituire la narrazione biblica con quella coranica. Non è la prima volta, ripete Bat Ye’or: tre millenni fa, Israele proclamava la sacralità della vita, la giustizia, il libero arbitrio e l’uguaglianza di legge per lo straniero. I testi sacri mettono in guardia contro chi «chiama bene il male e male il bene», ma «non hanno mai detto che bisogna dare un coltello all’assassino perché ci uccida». La «coalizione della Croce con la Mezzaluna contro la Stella» ha già causato ecatombi; oggi la corruzione si maschera da umanitarismo e assolve il carnefice.
(moked, 17 agosto 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 10
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Grida e gemiti
Ora, nel corso di quel tempo, che fu lungo, avvenne che il re d'Egitto morì; e i figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù, e alzavano grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti; e Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. E Dio vide i figli d'Israele, e Dio ebbe riguardo alla loro condizione (Esodo 2:23-25).
Gli ebrei alzano grida a causa della schiavitù a cui li sottopongono gli egiziani. Dio ode i loro gemiti e… ne prende atto. Ritengo sia questa la traduzione migliore di quel verbo yadà (ידע) che significa conoscere. Non è un sentimento di compassione, quello del Signore, ma la percezione di un momento storico che si avvicina. Come dopo aver consultato un’agenda, Dio si ricorda. Si ricorda del suo patto con Abraamo, e precisamente delle parole che gli aveva detto in quella notte tempestosa:
“Sappi per certo che i tuoi discendenti dimoreranno come stranieri in un paese che non sarà loro, e saranno schiavi, e saranno oppressi per quattrocento anni; ma io giudicherò la gente di cui saranno stati servi; e, dopo questo, se ne partiranno con grandi ricchezze’” (Genesi 15:13-14).
Dio dunque sapeva in anticipo che i discendenti di Abraamo sarebbero stati oppressi dagli egiziani per quattrocento anni. La sua reazione alle grida degli ebrei sotto il giogo della schiavitù non può dunque essere interpretata come un moto di compassione o un desiderio di giustizia. La permanenza della progenie di Abraamo all’interno di quella nazione in una posizione di sottomissione all’autorità pagana, entro un determinato tempo, era parte del piano redentivo. Dio non giustifica l’oppressione operata dagli egiziani, ma la fa rientrare nel suo piano intervenendo al momento opportuno: né prima, né dopo, come aveva già fatto in altri casi.
Per quanto riguarda le sofferenze che i figli d’Israele dovettero subire in Egitto, va detto inoltre che se anche per tanti anni erano stati oppressi, tuttavia non erano rimasti schiacciati, né numericamente, né politicamente. La tribù familiare di Abraamo non si era dissolta: era diventata un popolo. Non una minoranza etnica di cui ricordare le antiche origini e ammirare i folcloristici costumi, ma una realtà sociale presente in modo significativo nella vita politica della nazione, al punto da far dire al Faraone: “il popolo dei figli d'Israele è più numeroso e più potente di noi” (Esodo 1:9).
Gli ebrei dunque cominciarono ad essere un popolo odiato anche perché temuto. E per questo motivo ancor più angariato e oppresso. Ma “più lo opprimevano, e più il popolo si moltiplicava e si estendeva; e gli Egiziani presero in avversione i figli d'Israele” (Esodo 1:12).
Le cose andarono avanti così per secoli, ma le grida degli israeliti si fecero particolarmente acute in un preciso momento storico: quando Mosè, invece di venire in aiuto del suo popolo, era scappato nel paese di Madian e lì aveva messo su famiglia. Lo strumento che il Signore aveva scelto per il suo progetto doveva tornare al suo posto e svolgere la parte che gli era stata assegnata nel piano redentivo di Dio.
Dopo quattrocento anni, la gravidanza della progenie di Abraamo nel grembo d’Egitto era giunta a compimento, e i gemiti che salivano al Signore erano da intendere come avvisaglie di parto: il bimbo-popolo doveva uscire da quel grembo e avviarsi a diventare la grande nazione che l’Eterno aveva promesso a Giacobbe quando in visione gli aveva detto: “Non temere di scendere in Egitto, perché là ti farò diventare una grande nazione” (Genesi 46:2-3).
E la parte principale nell’operazione spetterà proprio a Mosè.
• Il roveto ardente
“Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian; e guidando il gregge dietro al deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. E l'angelo dell'Eterno gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un roveto. Mosè guardò, ed ecco il roveto era tutto in fiamme, ma non si consumava. Allora Mosè disse: “Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il roveto non si consuma!”. E l'Eterno vide che egli si era scostato per andare a vedere. Dio lo chiamò di mezzo al roveto e disse: “Mosè! Mosè!”. Ed egli rispose: “Eccomi”. E Dio disse: “Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai, è terra santa”. Poi aggiunse: “Io sono l'Iddio di tuo padre, l'Iddio di Abraamo, l'Iddio di Isacco e l'Iddio di Giacobbe”. Mosè si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio” (Esodo 3:1-6).
L’incontro tra Dio e Mosè davanti al roveto ardente costituisce indubbiamente un momento topico nella storia di Israele. Può essere paragonato e messo in collegamento col sogno che Giacobbe fece a Betel quando era in viaggio verso Caran alla ricerca di una moglie (Genesi 28:10-22), di cui abbiamo già trattato in precedenza. In entrambi i casi non si tratta di colorite esperienze di uomini speciali, ma di significativi momenti storici nel piano redentivo di Dio.
Ricordiamo allora che l’obiettivo di questo piano salvifico non consiste nel rendere possibile l’ascesa in cielo del maggior numero di persone, ma nel rendere possibile la discesa di Dio su una terra santificata dalla sua presenza, in cui Egli possa abitare in mezzo a uomini santificati dalla sua grazia.
Si deve però tener presente che dopo il peccato di Adamo la terra è stata maledetta da Dio (Genesi 3:17) e gli uomini allontanati dalla sua presenza. In questa situazione Dio non può entrare in contatto diretto con la terra senza consumarla e in rapporto ravvicinato con gli uomini senza distruggerli. La relazione di Dio con gli uomini dunque avviene a distanza, attraverso messaggi, visioni, sogni, apparizioni angeliche.
Nello stesso tempo però Dio prepara la sua decisiva discesa sulla terra con successivi avvicinamenti, in forma di contatti sapientemente dosati con particolari uomini. La scala di Giacobbe e il roveto ardente sono due momenti di contatto di questo tipo. Esaminiamoli e mettiamoli a confronto.
- In entrambi i casi Dio prende contatto con un uomo facendogli avvertire distintamente la sua presenza. Nel primo caso con un sogno, nel secondo caso con un roveto che brucia senza consumarsi.
- In entrambi i casi Dio si presenta all’uomo usando le stesse parole: “Io sono l’Eterno, l’Iddio di Abraamo tuo padre”, aggiungendo “e l’Iddio di Isacco” quando parla a Giacobbe, e “l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe” quando parla a Mosè.
- In entrambi i casi Dio fa riferimento alla terra su cui si trova il suo interlocutore: la terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua discendenza” dice a Giacobbe; e “il luogo sul quale stai è terra santa” dice a Mosè.
- In entrambi i casi l’uomo avverte sensibilmente la presenza dell’Eterno ed è preso da paura. Nel primo caso: “Appena Giacobbe si svegliò dal suo sonno, disse: “Certo, l'Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo!”; ebbe paura, e disse: “Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!”.
Nel secondo caso, quando Dio dal roveto ardente gli rivolge la parola, ”Mosè si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio”.
- In entrambi i casi si stabilisce un collegamento cielo-terra. Nel primo caso il collegamento avviene attraverso il sogno di “una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo”, con “gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala”. Il traffico degli angeli che vanno su e giù tra cielo e terra significa che è in corso un collegamento, ma la necessità della presenza di una scala mette in evidenza che si tratta di un collegamento a distanza.
Nel secondo caso invece il collegamento avviene in modo diverso. Si può dire che Dio ritira la scala, mette a riposo gli angeli e decide di scendere in prima persona dal cielo sulla terra per prendere contatto ravvicinato (ma non troppo) con Mosè, l’uomo che aveva scelto per la prosecuzione del suo piano. Certo, la terra su cui Dio ora scende non è la stessa su cui si appoggiava la scala, ma anche questo potrà trovare la sua spiegazione.
Le secche parole (Esodo 3:7-11) che l’Eterno, dopo essersi educatamente presentato come l’Iddio di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe (Esodo 3:6), rivolge dall’interno del roveto in fiamme a Mosè che sta fuori a piedi scalzi sono schematizzabili in tre verbi: ho visto, sono sceso, ti manderò. Ho visto l’afflizione del mio popolo; sono sceso per liberarlo e farlo andare in un bel paese; ti manderò dal Faraone per far uscire il mio popolo dall’Egitto. È un Dio in piena azione, autorevole con tutti, ma “col giudeo prima e poi col greco”: in questo caso prima con Mosè, che riceve l’ordine di andare, poi con il Faraone che riceverà l’ordine di lasciar andare. C’è infine un verbo che schematizza l'immediata reazione del giudeo: e Mosè disse…
Nulla di simile era mai avvenuto prima con i patriarchi.
Esamineremo in seguito il valore di queste incisive parole dell’Eterno e l’intenso colloquio con Mosè che ne seguì, ma poniamoci ora una domanda: perché Dio ordina severamente a Mosè di non avvicinarsi? La risposta che Dio dà a Mosè è significativa: "Perché il luogo sul quale stai è terra santa" (Esodo 3:5)), versetto citato anche nel Nuovo Testamento. (Atti 7:33).
Nella Bibbia l'espressione "terra santa" (adamat kodesh, אדמת קדש) compare soltanto qui e in un passo del profeta Zaccaria: "L'Eterno possederà Giuda come sua parte nella terra santa e sceglierà ancora Gerusalemme" (Zaccaria 2:12).
L'episodio del roveto ardente si presenta dunque come la prima, personale discesa di Dio sulla terra, il suo primo "atterraggio", fatto con le dovute precauzioni. Dio si presenta in una fiamma di fuoco, simbolo di distruzione purificante, ma il roveto non si consuma. La divina presenza è lì, posata su un piccolo lembo di terra diventata "terra santa” da questa presenza, e quindi non calpestabile con i calzari ai piedi.
Dio appare e parla di mezzo (mitoch, מתוך) al roveto, un termine che in altre frasi diventa in mezzo (betoch, בתוך) ed è di fondamentale importanza perché si vedrà che lo scopo essenziale per cui il Signore chiederà a Israele di costruirgli un santuario sarà di poter venire ad abitare in mezzo al popolo: "E mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro (betokham, בתוכם) (Esodo 25:8).
Il roveto ardente dunque si può considerare come il primo santuario temporaneo in cui Dio è sceso, la prima tappa del suo progetto di venire un giorno ad abitare definitivamente in mezzo agli uomini, come sta scritto in Apocalisse 21:2-3.
E se il roveto in fiamme costituisce il primo luogo in cui si presenta la santità di Dio sulla terra, si può dire che l’ordine di non avvicinarsi al roveto e togliersi i calzari dai piedi rappresenta il nocciolo di quella che poi sarà la legge originaria di Mosè: cioè la difesa della santità del santuario e la purificazione di coloro che hanno a che fare con esso (Esodo 25:1-31:18).
Perché è il collegamento con la terra santificata dalla presenza di Dio che giustifica e santifica la legge. Là dove questo collegamento non avviene, quando manca il radicamento alla terra nella forma voluta da Dio, la legge si trasforma in un moralismo volatile che si tenta di ancorare alla terra con una quantità indefinita di precetti che come tanti fili inevitabilmente prima o poi si spezzano e devono essere sostituiti ad ogni cambiar del vento storico.
Ma di questo bisognerà riparlare.
(Notizie su Israele, 17 agosto 2025)
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ll copyright di Hamas e l’etica del grottesco
Come se, per raccontare Auschwitz, fosse stato necessario il consenso di Goebbels
di Daniele Scalise
C’è un momento, nelle degenerazioni morali del nostro tempo, in cui la realtà non si limita a superare la fantasia, ma la umilia. Il Toronto International Film Festival lo aveva appena dimostrato: fuori programma The Road Between Us: The Ultimate Rescue, documentario del regista canadese Barry Ivrich sull’eroismo del generale Noam Tibon durante il massacro del 7 ottobre. La ragione? Mancavano le “autorizzazioni legali” per l’uso di filmati girati dai terroristi di Hamas. Sì, proprio loro. I carnefici.
Motivazione ufficiale (e non ridete, perché qui non c’è niente di comico): serve il permesso dei “titolari dei diritti” per proiettare quelle immagini. Come se, per raccontare Auschwitz, fosse stato necessario il consenso di Goebbels e il timbro in carta bollata del Reich. Come se i cinegiornali dei lager fossero proprietà intellettuale delle SS e ogni proiezione senza liberatoria un reato di pirateria audiovisiva. Al TIFF avevano aggiunto che c’era anche il rischio di “significativi disordini” e che bisognava “gestire i rischi noti e prevedibili”. Tradotto: evitiamo grane con i contestatori pro-Hamas. Il paradosso è di quelli che inchiodano. L’orrore documentato non veniva oscurato perché falso, ma perché il boia ne reclamava la paternità artistica. Si codificava un diritto d’autore sul crimine, elevando i carnefici a creativi audiovisivi e relegando le vittime al ruolo di comparse silenziate. È la logica perversa dell’anti-israelismo e dell’anti-sionismo, quella che si traveste da scrupolo giuridico o da prudenza politica ed è soltanto la faccia che si pretende rispettabile dell’antisemitismo.
La scena è da teatro dell’assurdo: funzionari che, con aria professionale, spulciano i fotogrammi e chiedono “Avete il permesso dell’autore?”, dove “autore” è colui che ha massacrato civili, bruciato case, sequestrato bambini. Un’iperbole degna di intelligenza artificiale, e invece è il frutto lucidissimo della mascalzonaggine umana. Poi è arrivato il contraccolpo. L’indignazione ha travolto il festival, l’assurdo è diventato virale, il ridicolo è stato messo a verbale. E così Cameron Bailey, direttore del TIFF, ha scritto una lettera pubblica: scuse “per qualsiasi dolore causato”, smentita di ogni intento censorio, promessa di lavorare con il regista per “soddisfare i requisiti di proiezione” ed “esplorare tutte le opzioni disponibili”. L’ipotesi di reinserire il film in cartellone è tornata sul tavolo.
Una retromarcia necessaria che però, ahilui e ahiloro, non cancella il punto. L’idea stessa che Hamas possa vantare un copyright sui propri atti di barbarie resta un insulto al buon senso e uno sputo in faccia alle vittime. Perché la verità non ha bisogno del timbro dell’assassino. E se la si lascia in ostaggio delle sue pretese legali, si è già perso molto più di un documentario: si è persa la capacità di distinguere la vittima dal carnefice, di chiamare il male per nome, di difendere la memoria da chi vorrebbe riscriverla. Questa vicenda, anche se si concluderà con la proiezione del film, resta un monumento crisoelefantino alla codardia culturale. È la prova che vaste aree dell’Occidente sono da tempo infette da un morbo morale: la paura di disturbare i resoconti comodi, di incrinare il mito dei “resistenti contro occupanti”, di ammettere che il 7 ottobre non è stato un incidente militare di alcuni svitati, ma un massacro a sangue freddo di una banda di assassini. E che non c’è copyright che possa oscurare questa verità.
(Il Riformista, 16 agosto 2025)
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Israele non può essere solo una nazione di soldati
di Dovid Hofstedter
Recentemente ho avuto il privilegio di accompagnare l'ex ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee in una visita tranquilla ma dal significato profondo. Insieme, ci siamo seduti con due dei più grandi saggi della Torah della nostra generazione, Rav Dov Landau e Rav Moshe Hillel Hirsch, nel cuore di Bnei Brak. Le conversazioni che abbiamo avuto non erano di natura politica, ma fondamentale. Abbiamo parlato dell'anima del popolo ebraico.
In un momento in cui Israele sta attraversando profondi disordini politici, sfide militari e traumi nazionali, un dibattito è tornato alla ribalta con intensità: l'arruolamento nell'esercito dei giovani ebrei ultraortodossi che dedicano la loro vita allo studio della Torah (gli studenti delle yeshiva Haredi). Per molti, questa è una questione di uguaglianza, equità o unità nazionale. Ma dal punto di vista del mondo della Torah – e in effetti dalla prospettiva dell'eternità ebraica – si tratta di qualcosa di molto più profondo e pericoloso.
Per capire perché, bisogna prima capire cosa significa la Torah per il popolo ebraico. Non è solo un insieme di leggi o costumi; è la giustificazione stessa della nostra presenza in Terra d'Israele. Il nostro patto con Dio, come delineato nella Torah, è il fondamento su cui è costruita la nazione ebraica. Senza di essa, non siamo affatto diversi da qualsiasi altra nazione. E senza coloro che dedicano la loro vita allo studio e alla conservazione della Torah, la trasmissione di quel fondamento va perduta.
Nel corso della storia, abbiamo visto che quando l'osservanza della Torah si indebolisce, l'identità e la continuità del popolo ebraico iniziano a sgretolarsi. Questa è una verità spirituale. Gli studenti delle yeshiva in Israele oggi non stanno evitando il servizio militare; stanno servendo il popolo ebraico nel modo più essenziale, ancorando la nostra nazione alla sua missione divina.
Ciò non significa che non ci sia spazio per la discussione. Lo stesso Talmud discute l'equilibrio tra difesa militare e impegno spirituale. Ma ciò a cui assistiamo oggi è un tentativo di cancellare il ruolo della Torah nel futuro di Israele. Arruolare tutti gli studenti delle yeshiva, considerare superfluo lo studio spirituale, significa dichiarare che la sopravvivenza ebraica dipende esclusivamente dalla forza, non dal significato. Questa è una ricetta per l'autodistruzione spirituale.
Israele non deve mai diventare una nazione che dimentica chi è. Siamo una nazione santa con un compito divino. Gli orrori della nostra storia – l'Olocausto, l'Inquisizione, gli esili – non avevano lo scopo di trasformarci in un popolo di soli potenti. Avevano lo scopo di ricordarci la nostra missione unica nel mondo.
L'ambasciatore Huckabee lo capisce. La sua riverenza per la Torah e i suoi studiosi è sincera e profonda. Durante i nostri incontri, ha sottolineato che il mondo guarda a Israele non solo come un baluardo di democrazia e forza, ma come una luce per le nazioni. Quella luce emana dalla Torah, proprio da quelle persone a cui ora viene chiesto di metterla da parte.
Non siamo ciechi di fronte alle sfide. Ci deve essere responsabilità, ci deve essere coesione nazionale. Ma non deve essere a costo della nostra anima. Gli studenti della yeshiva non sono parassiti dello Stato ebraico; sono i difensori spirituali della sua essenza.
Se Israele diventa una nazione in cui la Torah non è più centrale, se ogni ebreo è un soldato ma nessuno è uno studioso, avremo vinto le battaglie ma perso il nostro scopo. Il popolo ebraico non è mai stato destinato a essere come tutte le altre nazioni. E non osiamo provare a esserlo.
(American Thinker, 14 agosto 2025)
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Il ritiro forzato degli israeliani da Gaza è senza precedenti?
Gaza 2005 - Il folle "disimpegno" israeliano
di Daniel Pipes
11 APRILE 2005 - Un mio precedente articolo "Follia di Ariel Sharon", rilevava la probabilità che oltre 8.000 israeliani che vivono a Gaza vengano rimossi dal loro stesso governo, con l'uso della forza se necessario. Ho definito questo gesto senza precedenti e poi ho sfidato il lettore a menzionare "un'altra democrazia che ha rimosso forzatamente migliaia di propri cittadini dalle legittime abitazioni".
I lettori hanno accettato la sfida sia postando dei commenti che inviandomi dei messaggi e-mail. Le loro risposte rientrano in tre principali categorie:
Potere di espropriazione per utilità pubblica. Una prerogativa di governo utilizzata "per costruire strade, opere pubbliche e infrastrutture", ma spesso si abusa di questo potere per favorire dei progetti commerciali. Come scrive un lettore intervenuto: "In America, lo Stato e i governi locali ogni anno abusano del potere di espropriazione per utilità pubblica rimuovendo migliaia di cittadini americani. Ciò non equivale al progetto di Sharon, ma è altresì insidioso poiché lede i diritti di proprietà". Tre corrispondenti fanno specifico riferimento a dei casi in cui a subire lo sfratto furono le loro famiglie: alla Authority di Tennessee Valley che tra il 1933 e il 1935 sfrattò forzatamente migliaia di cittadini per costruire la diga di Norris; a Boston, quando negli anni Sessanta centinaia di case vennero confiscate per fare posto a un'autostrada; e a un progetto di un centro commerciale a Los Angeles. È stato altresì menzionato il caso dei Navajos nella zona (joint use area) che condividono con gli Hopi in Arizona, come pure sono stati riportati esempi di espropriazione in Australia.
Internamento dei giapponesi negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. "Gli Stati Uniti rimossero parecchi cittadini americani di origine giapponese dalle loro abitazioni per piazzarli nei campi di internamento durante la Seconda guerra mondiale".
Casi di "pulizia etnica" in cui una popolazione viene considerata come straniera e cacciata dalle proprie case e perfino fuori dal Paese. Vengono citati a titolo di esempio i Nativi americani, le vittime del nazismo e dell'apartheid in Sudafrica, i tedeschi dopo la Seconda guerra mondiale, i musulmani in India nel 1947 e i Russi negli Stati baltici nel 1991.
Mi sembra che nessuna di queste categorie sia comparabile al caso in questione. Come sostiene un commentatore in merito al potere di espropriazione per utilità pubblica, esso "si applica a TUTTI i cittadini senza distinzione di razza, nazionalità o credo, che vivono e posseggono una proprietà nell'area destinata alla realizzazione di un progetto pubblico (
) niente di simile è previsto accadere [a Gaza]. Invece SOLO DEGLI EBREI verranno rimossi forzatamente". Un altro lettore conclude: "Non si può fare alcuna comparazione tra ciò che il potere di espropriazione per utilità pubblica' significa in termini di sviluppo' e di utilità' e ciò che Sharon intende fare". Proprio così.
Quanto all'internamento dei giapponesi, ciò implicava lo spostamento temporaneo dei cittadini, non uno sgombero permanente né la demolizione delle loro case. Anche qui, non si può fare un paragone con ciò che sta facendo Sharon.
La pulizia etnica non ha niente a che vedere con la situazione di Gaza, perché il governo e i cittadini sfrattati sono della stessa etnia, e i cittadini israeliani vengono spostati in territorio israeliano e non espulsi.
Altri due suggerimenti vanno presi in considerazione. Il generale Charles de Gaulle, "eletto sotto lo slogan dell'Algeria francese, subito dopo la sua elezione avviò il ritiro delle truppe francesi gettando così le basi dell'indipendenza algerina". Ciò avrebbe costituito un valido precedente se de Gaulle avesse chiesto ai cittadini francesi residenti in Algeria di lasciare il paese, ma non lo fece. In effetti, il governo francese non si aspettava l'esodo di circa un milione di piedi neri e di ebrei che ebbe luogo nel 1962:
La valigia o la bara, era lo slogan diffuso tra gli europei e la comunità ebraica. Il governo francese non aveva previsto un simile esodo di massa, al massimo stimava che 200.000 o 300.000 potessero scegliere di andare temporaneamente in Francia. Di conseguenza, nulla era stato disposto per il loro ritorno e in parecchi dovettero dormire per strada o nelle fattorie abbandonate al loro arrivo in Francia.
De Gaulle lasciò i cittadini francesi d'Algeria liberi di decidere il loro futuro, se restare o partire; per inciso, questa è una linea politica che avevo raccomandato ai dirigenti israeliani di adottare per gli israeliani di Gaza.
La migliore analogia proposta è stata quella della demolizione di Africville, in Nova Scotia. Nel 1965, le autorità rasero al suolo il più antico e il maggiore insediamento di neri del Canada, ma questa azione fu condotta in nome del risanamento edilizio e non del trasferimento.
Passare in esame queste risposte alla sfida da me lanciata non è altro che una conferma al fatto che ciò che le autorità israeliane stanno per fare ai loro cittadini di Gaza non ha precedenti storici.
(FrontPageMagazine.com, 11 aprile 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)
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La forza delle mie mani mi ha conquistato questa terra!
Il sottile confine tra agire e credere è oggetto di accesi dibattiti in Israele. La questione divide la società ebraica da millenni.
di Michael Selutin
Nella nostra sezione settimanale della Torah “Ekew” c'è un versetto che da migliaia di anni è fonte di controversie e discussioni nel mondo ebraico. Mosè sta davanti al popolo e nel suo discorso lo prepara all'ingresso nella Terra Promessa. Esorta il suo pubblico a non dimenticare che hanno ricevuto la loro terra da Dio e avverte: “E non dire nel tuo cuore: ‘La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno conquistato questa ricchezza!’” (Deuteronomio 8:17)
La forza della mia mano è un'espressione spesso usata in Israele nel linguaggio colloquiale per mettere in guardia dall'arroganza e dall'eccessiva fiducia in se stessi. Anche a livello sociale, gli ortodossi dicono che “i laici pensano di aver costruito e difeso la terra con le proprie forze”, mentre i laici dicono che “gli ortodossi pensano che siano state le loro preghiere a darci la terra”.
I saggi ebrei hanno già affrontato questa discussione nel Talmud e hanno spiegato: “Bisogna dedicarsi al lavoro e allo stesso tempo confidare nella benedizione di Dio”. Il Rambam (Maimonide) lo dice ancora più chiaramente, ovvero che “l'uomo deve lavorare attivamente e pianificare, ma con la consapevolezza che il risultato è solo nelle mani di Dio”.
Si tratta di una filosofia di vita molto sana, perché non libera l'uomo dalla sua attività, ma gli permette di ringraziare Dio in caso di successo e di dire, in caso di fallimento, “non doveva essere”.
La Bibbia ci mostra anche come applicare questo principio nella pratica, nell'episodio di Giacobbe ed Esaù. Quando Giacobbe torna a Canaan dopo molti anni, suo fratello Esaù gli va incontro con 400 guerrieri. Giacobbe ha paura e si prepara al conflitto. Divide il suo accampamento in diverse parti, nasconde sua figlia Dina da Esaù, manda doni a suo fratello e prega Dio.
Questo è il modello biblico per tutte le nostre attività.
• Tensioni o fratellanza?
In Israele, però, tutto è estremo.
Circa un anno fa circolava su Internet un video in cui l'allora capo dell'esercito Halevi strappava da un'uniforme di un soldato ortodosso una placca con il logo dei chassidim di Chabad. “Non vogliamo cose del genere nell'esercito”, avrebbe detto.
D'altra parte, gli ultraortodossi sostengono che sono le loro preghiere e lo studio della Torah a proteggere veramente il popolo e si rifiutano di aiutare in modo pratico.
Nel mezzo ci sono i nazional-religiosi, con i loro kippah all'uncinetto, per lo più colorati. Lavorano, studiano la Torah, prestano servizio nell'esercito con grande motivazione, pregano e colonizzano il paese. In Israele sono al centro della società, ma all'estero sono considerati estremisti.
Sembra tuttavia che gli estremismi in Israele stiano trovando un punto d'incontro. Il nuovo capo dell'esercito si è recato al Muro del Pianto per pregare per il successo, mentre alcuni ortodossi hanno capito durante questa guerra che anche loro devono assumersi delle responsabilità. Da un lato, infatti, in questo momento è urgentemente necessaria una mano forte sulle armi, ma questa deve essere accompagnata dalla preghiera e dal timore di Dio.
(Israel Heute, 15 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Parashà della settimana: Ekev (In conseguenza)
Deuteronomio 7:12-11:25
- "Se osserverete queste leggi e le avrete eseguite, il Signore tuo D-o manterrà per te il patto che giurò ai tuoi padri. Ti amerà, ti benedirà e ti moltiplicherà" (Deuteronomio 7.12).
La prosperità e la pace del popolo ebraico dipendono dall'osservanza dell'Alleanza stabilita con D-o. Il ricordo delle ribellioni accadute nel deserto del Sinài dovrebbero servire al popolo dalla "dura cervice" per evitare gli errori commessi e ritornare a D-o (teshuvà)
Ekev significa "tallone" ma anche "in conseguenza" dell'obbedienza alle leggi verrà mantenuto da D-o il patto contratto con Israele. Difatti la ricompensa (benedizione) per aver eseguito i precetti non si trova davanti ai tuoi occhi ma nel tallone cioè nella parte nascosta ma di certo essa verrà.
La parola Ekev secondo la tradizione orale, fa allusione alla fine dell'esilio, alla fine di un ciclo storico e più precisamente alla fine della civiltà di Edom (Roma).
Il riferimento a questa interpretazione è scritto nel libro della Genesi. "E dopo Esaù uscì suo fratello Giacobbe che teneva la mano sul tallone di Esaù" (Genesi 25.26).
Nella profezia di Daniele la civiltà di Edom è rappresentata dalla statua sognata da Nabucodonosor, re di Babilonia, che distrusse il primo Tempio in Gerusalemme.
Secondo l'interpretazione della profezia, la statua con le gambe di ferro (Roma) e i piedi di argilla (Islam) simboleggia il quarto ed ultimo esilio del popolo ebraico.
L'argilla mescolata al ferro provocherà la caduta della statua realtà questa sotto gli occhi di tutti. Nel momento in cui l'Islam avrà invaso tutti i paesi con una immigrazione di massa incontrollata sarà l'inizio della fine della civiltà occidentale.
Simbolicamente nella mescolanza tra ferro ed argilla l'Occidente verrà ad identificarsi con l'Islam, perdendo la sua identità per rovinare su se stesso.
Israele: la terra della benedizione
"Perché la terra in cui tu vai ad installarti non è come l'Egitto
.essa è una terra di cui il Signore si prende cura e sulla quale si posano i Suoi occhi dal principio alla fine dell'anno" (Deuteronomio 11.10).
La Torah vuole richiamare la nostra attenzione su un fatto straordinario che spesso dimentichiamo. La benedizione di D-o è sempre presente sulla Terra d'Israele e non è un caso che in questa parashà viene nominato l'Egitto il paese simbolo della potenza e della prosperità.
Uno dei problemi degli ebrei è quello di ritenere che altrove si trovi la benedizione di D-o. Per questi motivi avvennero le rivolte del popolo che voleva tornare in Egitto, come fanno oggi molti di questi ebrei che preferiscono stare in America.
La Torah afferma con chiarezza che solo sulla Terra d'Israele viene data la benedizione a condizione di osservare le leggi che D-o ha comandato (Deuteronomio 11.13).
Questo massà u matan (do ut des) è difatti un atto materiale ma per niente in contrasto con il giudaismo che ha ricevuto il dono della Torah per vivere su questo mondo, essendo il regno di D-o tra gli uomini e non tra i fantasmi delle ideologie.
Un paese di grano e di orzo, di uva e melograni ecc..
Dopo l'elenco dei sette prodotti agricoli presenti nella Terra d'Israele, la Torah riporta la benedizione da recitare dopo il pasto.
"Mangerai e ti sazierai e benedirai il Signore tuo D-o per la buona terra che ti ha dato" (Deuteronomio 8.10).
Due qualità del paese vengono descritte in questa parashà: i prodotti agricoli e la ricchezza del sottosuolo consistenti in giacimenti di rame e di ferro a cui oggi potremmo aggiungere anche i giacimenti di gas naturale.
Il paese darà ai nuovi abitanti tutte le risorse necessarie per una vita economica normale compreso il nutrimento di base rappresentato dal pane. Questo alimento conferisce al pasto una santità particolare a cui fa seguito una benedizione di ringraziamento, che non riguarda solo il sostentamento quotidiano, ma anche il "buon paese che il Signore ti ha donato".
A riguardo la Torah mette in guardia e continua: "L'uomo non vive di solo pane, ma anche della parola di D-o" (Deuteronomio 8.3).
La lotta per la conquista del pane quotidiano (in lingua ebraica pane e lotta hanno le stesse consonanti n.d.r.) non deve autorizzare l'uomo ad allontanarsi dall'osservanza della legge di D-o, ritenendo se stesso l'artefice della sua prosperità.
Il timore di D-o
"Che cosa chiede a te il Signore se non di temerLo?" (Deuteronomio 10.12).
Tutto è nelle mani di D-o ad eccezione del timore di D-o che è nelle mani dell'uomo. In effetti soltanto con un atto di libertà da parte nostra possiamo riconoscere il Creatore del mondo e sottometterci alla Sua volontà.
In cosa consiste il timore di D-o? Non a caso la Torah a riguardo riporta le seguenti espressioni:
"Circonciderete il prepuzio del vostro cuore e non siate di dura cervice
. perché il Signore vostro D-o fa la giustizia della vedova e dell'orfano ed ama lo straniero" (Deuteronomio 10.16).
Non la paura, ma la libertà di scelta è il criterio essenziale della vita dell'uomo, nel fare la volontà di D-o. E' in questo che la strada dell'uomo e quella della bestia si separano. Cosa chiede D-o all'uomo? Di essere temuto, amato e servito (Deuteronomio 11.13).
Quale è il servizio che Egli chiede? La preghiera rispondono i nostri maestri.
La preghiera non deve essere solo una domanda per avere un aiuto, ma anche una riflessione su noi stessi. Il verbo ebraico da cui deriva la parola tefillà (preghiera) è una coniugazione riflessiva che significa "interrogarsi" sul proprio comportamento verso D-o e verso il prossimo.
Questo è il senso della preghiera, che deve portare l'uomo a migliorare il suo operato, affinché il Creatore del cielo e della terra, possa risiedere in mezzo a noi. Fulvio Canetti
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- "Ama dunque l'Eterno, il tuo Dio, e osserva sempre quello che ti dice di osservare: le sue leggi, le sue prescrizioni e i suoi comandamenti" (Deuteronomio 11:1).
Mosè ripete al popolo l'invito ad amare Dio e a osservare i suoi comandamenti. Qualcuno si è chiesto se anche l'amore per Dio rientra tra i comandamenti o se invece è una raccomandazione rivolta da Mosè al popolo. Può sembrare strano che Dio ordini di amarlo; a livello umano questo certamente non è possibile; potrei costringere qualcuno alla sottomissione, potrei asservirlo ricattandolo, ma non potrei mai costringerlo ad amarmi. L'amore vero è libero, spontaneo o non è amore, così si pensa usualmente tra uomini. Ma quando entra di mezzo Dio le cose diventano meno scontate.
Esaminiamo allora alcuni passaggi biblici, così come sono, cercando anzitutto di capire chi è il soggetto dell'azione. Grammaticalmente si potrebbe pensare che quando Mosè parla in prima persona si riferisce a se stesso e quando parla in terza persona si riferisce a Dio. Osserviamo allora il proseguimento dei discorso iniziato nel capitolo 11. A un certo punto Mosè dice: "Osservate dunque tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché siate forti..." (v. 8). Qui può sorgere la domanda: chi è che dà i comandamenti, Dio o Mosè? Credo che tutti risponderemmo: Dio, certamente; e aggiungeremmo che Mosè dà i comandamenti al popolo nel senso che glieli trasmette da parte di Dio. Più avanti, infatti, parlando dell'opera del Signore usa la terza persona: "... affinché prolunghiate i vostri giorni sul suolo che l'Eterno giurò di dare ai vostri padri e alla loro progenie..." (v. 9). Poco più avanti però continua: "Se ubbidirete diligentemente ai miei comandamenti che oggi vi do, amando l'Eterno, il vostro Dio, servendolo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima, io darò al vostro paese la pioggia nella stagione giusta: la pioggia d'autunno e di primavera..." (vv.13,14). Chi è qui il soggetto che parla? Non può essere Mosè, perché certamente non è lui che può dare la pioggia al paese. Dunque il soggetto è Dio, ed è lo stesso soggetto che ordina al popolo di ubbidirgli, amarlo e servirlo con tutto il cuore e con tutta l'anima.
C'è anche un altro versetto in questa parashà che è abbastanza chiaro a questo proposito: "Ed ora, Israele, che cosa chiede da te l'Eterno, il tuo Dio, se non che tu tema l'Eterno, il tuo Dio, che tu cammini in tutte le sue vie, che tu l'ami e serva all'Eterno, che è il tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua" (Deuteronomio 10:12).
Chiedendogli di ascoltarlo, temerlo, servirlo e amarlo, Dio chiede all'uomo una stessa cosa. Ma noi facciamo fatica a capirlo, perché quando parliamo di amore abbiamo l'illusione di sapere di che cosa parliamo, e ci meravigliamo quando nella Bibbia non troviamo le stesse cose che abbiamo in mente. Davanti a certi passaggi ostici, alcuni si tolgono d'impaccio dicendo che sono antropomorfismi a scopo didattico; altri invece, più sofisticati, tentano di spiegare il testo usando concetti intellettualmente più elevati. E qualche volta credono perfino di esserci riusciti.
Ma non è la Bibbia a fare uso di antropomorfismi tratti dal linguaggio corrente, siamo noi, al contrario, che nel linguaggio corrente facciamo uso di teomorfismi tratti dalla Bibbia. Questo è particolarmente vero quando si parla d'amore, perché "Dio è amore" (1 Giovanni 4:8). Dunque, quando parliamo d'amore, che lo sappiamo o no, che lo vogliamo o no, facciamo riferimento a Dio. Quando i nostri nonni (o i nostri genitori nel caso di chi scrive) cantavano quella dolce canzone degli anni '30: "Parlami d'amore Mariù, tutta la mia vita sei tu", non si rendevano conto di imitare nel linguaggio una forma di relazione che ha la sua reale autenticità soltanto nel rapporto tra l'uomo e il suo Creatore. Ogni sofisticazione di questa realtà è un teomorfismo che conduce all'idolatria.
Certo, anche il nostro limitato, offuscato, distorto concetto di amore ha una temporanea funzione limitativa e regolativa nei rapporti umani, ma dobbiamo essere consapevoli che quando ne parliamo stiamo usando, in modi che talvolta possono essere utili (e talvolta no), un concetto che nel fondo ci è sconosciuto.
E allora che si fa? come si può arrivare a conoscere qualcosa che ci è sconosciuto? "Io alzo gli occhi ai monti, da dove mi verrà l'aiuto?" si chiede il salmista (Salmo 121:1). Come sempre, l'aiuto può venirci soltanto da "Colui che ha fatto il cielo e la terra", e questo, Dio lo fa con il semplice atto di rivolgerci la Parola.
Proprio qui sta la peculiarità che distingue il popolo ebraico da tutti gli altri: a lui, e soltanto a lui come popolo e nazione, Dio ha rivolto la parola. Anche nel dare ordini e nell'annunciare o eseguire castighi Dio ha manifestato il suo amore per il popolo, perché l'amore che si muove in linea verticale dall'Alto in basso contiene anche, per sua natura, ordinamenti punitivi. "Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge suo figlio, l'Eterno, il tuo Dio, corregge te" (Deuteronomio 8:5).
La punizione di Dio è espressione d'amore perché è preannunciata dalla sua parola. Per esercitare soltanto la sua autorità, il Signore non ha bisogno di parlare; le nazioni che si trovavano sulla terra destinata ad Israele furono distrutte "per la loro malvagità" (Deuteronomio 9:5) senza ricevere alcun preavviso.
Dio dunque ordina al popolo di amarlo, ma il solo fatto di formulare quest'ordine dopo aver dato tante manifestazioni d'amore, quasi mai contraccambiato, è un segno di grazia. Dio però accetta che il suo ordine, nella sua formulazione storica, possa essere trasgredito. E ne soffre, e si arrabbia, ma non demorde. Riprende un faticoso percorso fatto di parole, ordini, avvertimenti, punizioni, liberazioni, fino a che non arriverà il giorno in cui il suo amore sarà pienamente contraccambiato.
E tutti gli altri? Quello che resterà del mondo dopo il compimento dell'inevitabile giudizio finale di Dio si rallegrerà con Israele.
"Avverrà, negli ultimi giorni, che il monte della casa dell'Eterno si ergerà sulla vetta dei monti, e sarà elevato al disopra dei colli; e tutte le nazioni affluiranno ad esso. Molti popoli v'accorreranno, e diranno: 'Venite, saliamo al monte dell'Eterno, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri'. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell'Eterno" (Isaia 2:2-3).
Ma per questo bisognerà aspettare il ritorno del Messia. Marcello Cicchese
(Notizie su Israele, 25 agosto 2016)
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Vent’anni fa il disimpegno di Sharon da Gaza: un fallimento storico e una lezione per il futuro
di Ugo Volli
• Il disimpegno
Mentre Israele è impegnato da 22 mesi in una difficile guerra a Gaza contro un nemico nascosto fra la popolazione civile e annidato nelle fortificazioni sotterranee che ha costruito sotto gli edifici civili usando i fondi dei soccorsi internazionali, ricorre il ventesimo anniversario dell’abbandono unilaterale di Gaza deciso dal primo ministro Ariel Sharon nel 2004 e attuato dall’esercito israeliano fra il 15 agosto e il 12 settembre del 2005. Venivano così sgomberati con la forza 8.000 abitanti di 21 insediamenti israeliani, lasciando agli arabi della Striscia abitazioni e installazioni agricole che essi avrebbero immediatamente distrutto. Anche il “corridoio Filadelfia” al confine con l’Egitto, essenziale per impedire il contrabbando d’armi e altri rifornimenti militari, veniva abbandonato.
• L’illusione di Sharon
La speranza di Sharon, concepita quando ancora non si era spenta del tutto la sanguinosa ondata terroristica detta seconda intifada, era che Gaza si sviluppasse in un’economia di successo come in “una Singapore del Mediterraneo”, aprendo la strada per uno Stato palestinese pacifico e prospero. Il modello di Gaza era destinato infatti a essere ripetuto in Giudea e Samaria, da dove Sharon iniziò contemporaneamente a sgomberare qualche villaggio israeliano. Questo esperimento, ancor più della asserita difficoltà di assicurare la difesa di piccoli insediamenti isolati in mezzo a una popolazione ostile, fu la motivazione di un gesto che sconvolse e divise profondamente Israele. Per la prima volta l’esercito israeliano veniva usato non per difendere ma per attaccare le comunità ebraiche. Ci si può chiedere perché il capo del Likud, che si era fatto eleggere primo ministro con un programma contrario agli accordi di Oslo, aveva fatto molto in passato per favorire la costruzione degli insediamenti in Giudea e Samaria, era stato sottoposto a un inaudito linciaggio morale (pari solo a quello che oggi subisce Netanyahu) che gli attribuiva falsamente la responsabilità della strage di Sabra e Chatila perpetrata invece dai cristiani libanesi, avesse così drasticamente invertito la sua posizione sugli insediamenti, tanto da suscitare una rivolta dentro il Likud guidata da Netanyahu e da doverne uscire e formare un nuovo partito. Difficile capire le ragioni della sua adesione alla tesi dello scambio fra territori e pace, che aveva sempre avversato. Vale comunque la pena di ricordare che nel momento della svolta Sharon era sottoposto a grande pressione per un’indagine giudiziaria per corruzione, che poi fu lasciata cadere.
• Il fallimento
Vista col senno di poi, ma anche con le ragioni degli oppositori di quel momento, quella di Sharon era una tragica illusione, un errore colossale. Pochi mesi dopo lo sgombero forzato, a gennaio 2006, Hamas vinse le prime (e uniche finora) elezioni parlamentari palestinesi; in particolare, ebbe una grande maggioranza a Gaza, e riaffermò subito il suo rifiuto degli accordi di Oslo e del riconoscimento dello Stato di Israele, ribadendo la scelta del terrorismo. Dopo un anno di schermaglie politiche, a gennaio 2007, quando il presidente dell’Autorità Palestinese Mohamed Abbas sciolse il governo di coalizione egemonizzato da Hamas che si era formato dopo le elezioni, l’organizzazione islamista iniziò a combattere con le armi i concorrenti di Fatah e prese il potere sulla Striscia con un sanguinoso colpo di stato a giugno 2007. Già prima di questi eventi, nel giugno 2006, un commando terroristico guidato da Hamas, infiltrato in territorio israeliano con un tunnel di tre chilometri aveva assaltato di sorpresa una postazione dell’esercito, uccidendo due soldati e rapendone un terzo (Gilad Shalit), che sarebbe stato riscattato solo dopo 5 anni al prezzo della liberazione di oltre mille terroristi incarcerati. Gli attacchi terroristici di Hamas continuarono senza sosta da Gaza e già alla fine del 2008 Israele fu costretto a una prima operazione per contenerli (chiamata “Piombo fuso”). In seguito gli attacchi missilistici o con tunnel, i rapimenti, la costruzione di fortificazioni sotterranee e tunnel d’assalto, i tentativi di abbattere o superare in massa la barriera di sicurezza si succedettero senza sosta fino all’eccidio del 7 ottobre 2023, e così si resero necessarie numerose operazioni israeliane (2008-09, 2012, 2014, 2021). Bisogna aggiungere che nei decenni successivi al ritiro di Sharon, i vertici militari, informativi e anche politici hanno coltivato una versione debole della sua illusione, quella per cui non bisognava cercare di distruggere la minaccia terrorista, ma di gestirla e “addomesticarla”, assicurando a Gaza vantaggi economici (fondi provenienti dal Qatar, permessi di lavoro in Israele, forniture di beni primari come acqua, carburante, elettricità), come se lo scopo di Hamas fosse il benessere dei suoi sudditi e non la distruzione di Israele. Quando poi i terroristi violavano troppo i limiti, era opportuno rispondere con il minimo della forza necessaria per “ristabilire la deterrenza”.
• Gaza è stato il prototipo di uno Stato palestinese
Insomma il disimpegno da Gaza non ebbe affatto l’effetto pacificante ipotizzato dai suoi sostenitori, ma al contrario diede ai terroristi un territorio di controllo esclusivo, il tempo e la possibilità di ricevere indisturbati finanziamenti e aiuti militari (in sostanza uno Stato, nella definizione piena del termine) che essi usarono per allestire progressivamente quella fortezza militare protetta dallo scudo umano della popolazione civile e dalle installazioni delle organizzazioni internazionali, che ha reso Gaza così difficile da ripulire dal terrorismo, come si è visto in questi mesi. Mentre in Giudea e Samaria la presenza degli insediamenti israeliani e la possibilità dell’esercito di esercitarvi sorveglianza e repressione del terrorismo hanno reso molto difficile l’organizzazione della “lotta armata”, a Gaza questi elementi non erano più presenti dopo i disimpegni di Sharon e l’organizzazione militare di Hamas e degli altri gruppi è potuta crescere indisturbata.
• Una lezione per il futuro
Si tratta di un monito serio per tutti coloro che si illudono che la costruzione di uno Stato palestinese sia una condizione per la pace e che gli insediamenti ebraici siano un ostacolo contro di essa. Tutto al contrario, uno Stato palestinese nella situazione attuale diverrebbe subito una Gaza dieci volte più grande e cento volte più pericolosa, per l’estensione del confine e la vicinanza coi centri nevralgici di Israele. Del resto tutti i pericoli più gravi per Israele negli ultimi decenni sono venuti da territori che lo Stato ebraico controllava e che aveva abbandonato con l’illusione di ottenere la pace: l’ondata terroristica detta “seconda intifada” nel 2000-2002 dalle città della Giudea e Samaria che gli accordi di Oslo avevano messo sotto l’amministrazione dell’Autorità Palestinese; i ripetuti attacchi di Hezbollah dal Libano meridionale da una zona che l’esercito israeliano aveva conquistato negli anni Ottanta all’OLP e che aveva affidato a una forza libanese amica (l’Esercito Libanese del Sud diretto da Saad Haddad), finché Ehud Barak, allora primo ministro, decise di ritirargli l’appoggio nel 2000; infine Gaza. Gli intellettuali e i politici del “campo della pace” hanno ignorato le molteplici lezioni sull’inutilità, anzi l’enorme pericolosità di questi ritiri, tant’è vero che oggi ripropongono la stessa ricetta per Gaza. Ma l’elettorato non ha dimenticato e proprio dal fallimento dello scambio fra terra e pace è venuta la sconfitta storica della sinistra pacifista e del centro che ne accetto il programma: dopo Barak e Sharon non hanno mai avuto la maggioranza nel Paese.
(Shalom, 15 agosto 2025)
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Allarme antisemitismo in Francia: dall’aggressione di Livry-Gargan a un’ondata di violenza
di Michelle Zarfati
L’ondata antisemita in Francia sembra essere ormai senza controllo. Sabato 9 agosto, a Livry-Gargan, nella periferia di Parigi, un uomo ebreo di 65 anni, Dov Sitruk, è stato brutalmente aggredito mentre camminava da solo per strada, indossando una kippah. Secondo la denuncia alla polizia, un’auto con tre persone a bordo si è fermata accanto a lui. Due individui sono scesi con la scusa di chiedere indicazioni, per poi colpirlo improvvisamente al volto, strattonarlo per il colletto della camicia e strappargli dal collo la collana con la Stella di David. Sitruk è stato trasportato d’urgenza in ospedale in ambulanza e poi affidato all’Unità di Medicina Legale per accertamenti: ha riportato contusioni all’occhio sinistro e gonfiore.
Nello stesso giorno, a Soisy-sous-Montmorency, nel dipartimento di Val-d’Oise, un altro uomo è stato avvicinato da uno sconosciuto che gli ha chiesto se fosse ebreo. Alla risposta affermativa, l’aggressore lo ha insultato e colpito. Come ha riferito Nathalie Cohen-Beizermann, vice presidente del CRIF (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia), a CNews, l’uomo – già noto alla giustizia – è stato arrestato. La vittima non ha riportato danni fisici.
Solo pochi giorni prima, mercoledì 6 agosto, una coppia di ebrei era stata minacciata di morte mentre usciva da un ristorante nel quartiere Brotteaux di Lione. Due individui avrebbero urlato insulti antisemiti nei loro confronti. Arrestati poco dopo, sono stati difesi dalla Procura della Repubblica di Lione, che ha archiviato il caso sostenendo – dopo le indagini – che si trattava di una lite tra quattro persone, priva di elementi sufficienti per configurare il reato di antisemitismo. I due fermati hanno negato ogni intento discriminatorio.
“C’è un’esplosione di antisemitismo preoccupante. Il conflitto tra Israele e Hamas è stato trasposto completamente sul suolo francese” ha dichiarato Richard Zelmati, rappresentante del CRIF, ad Actu Lyon. Il ripetersi di episodi di antisemitismo sta suscitando forte allarme nella comunità ebraica francese. “L’antisemitismo sfrenato sta turbando profondamente gli ebrei di Francia” ha aggiunto Zelmati. Secondo molti, le tensioni internazionali stanno alimentando l’odio anche in territorio francese, trasformando la quotidianità di numerosi cittadini ebrei in un terreno minato. Le autorità locali e nazionali sono chiamate a rispondere con fermezza, garantendo sicurezza e giustizia a chi è vittima di discriminazione e violenza.
(Shalom, 14 agosto 2025)
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Fin dove si spinge l’ipocrisia della viltà. I terroristi di Hamas hanno trasmesso in diretta streaming le loro atrocità, per vantarsene
Ma il Toronto Film Festival censura un documentario sul 7 ottobre perché non ha la liberatoria dei carnefici per usare i loro video
di Sarah Tuttle-Singer
Il 7 ottobre, quando Hamas e altri terroristi palestinesi fecero irruzione in Israele perpetrando l’attacco più sanguinoso contro ebrei dai tempi della Shoah, i terroristi spararono ai neonati nelle loro culle, stuprarono donne e le trascinarono per le strade, bruciarono vive intere famiglie chiuse nelle stanze rifugio, lanciarono bombe a mano contro giovani inermi nascosti nei precari rifugi anti-aereo e rapirono centinaia di persone deportandole nei tunnel di Gaza, dove ancora si trovano una cinquantina di loro.
E filmarono queste atrocità mentre le commettevano.
Trasmisero in diretta streaming i loro filmati a tutto il mondo. Telefonarono alle famiglie delle vittime perché vedessero in diretta le torture e l’assassinio dei loro cari.
Non fecero nessuno sforzo per nascondere ciò che stavano facendo. Non se ne vergognavano, tutt’altro. Era la loro propaganda e volevano che tutto il mondo la vedesse.
In effetti, io stessa ho saputo che una persona che conoscevo era stata assassinata perché mi è stata inviata una foto del suo cadavere su Telegram dopo che avevo postato la notizia della sua scomparsa.
Meno di due anni dopo, mentre gli ostaggi ancora in vita marciscono, umiliati e torturati, nei tunnel dei terroristi, il Toronto International Film Festival ha deciso che questa storia è troppo rischiosa da mostrare: non perché sia falsa (ovviamente non lo è) e non perché sia incendiaria, ma perché gli autori del film non hanno ottenuto il permesso dagli autori del massacro di usare i loro video.
Follia pura.
Questi codardi che si atteggiano a moralisti hanno ritirato il film The Road Between Us: The Ultimate Rescue (“La strada fra noi: l’estremo salvataggio”), un documentario sulla coraggiosa missione del generale in pensione delle Forze di Difesa israeliane Noam Tibon che il 7 ottobre si lanciò al salvataggio della sua famiglia e di altre persone dal massacro nel kibbutz Nahal Oz e al Supernova music festival.
La motivazione ufficiale: “Manca l’autorizzazione legale” per l’uso delle riprese girate da Hamas, oltre a non meglio specificate preoccupazioni su “sicurezza” e “logistica”.
Soffermiamoci un memento a considerare bene la cosa.
Un importante festival cinematografico internazionale sta di fatto dicendo: se gli assassini non firmano la liberatoria, il massacro non potrà essere visto.
Ha affermato il comico e commentatore Benji Lovitt: “Il Toronto International Film Festival ha annullato la proiezione di un documentario sul 7 ottobre perché i registi non hanno ricevuto l’autorizzazione dai terroristi di Hamas, le cui clip sono presenti nel film: immaginate il processo di Norimberga che rifiutava filmati nazisti perché non era riuscito a far firmare la liberatoria a Goebbels”.
Il paragone è brutale, ma perfettamente calzante.
Le forze alleate non fermarono il processo di Norimberga per ottenere la firma di un ministro della propaganda nazista. Usarono i filmati come prova, non perché giustificassero in qualche modo quel che mostravano, ma perché il mondo doveva vedere la verità con i propri occhi.
I vari festival cinematografici hanno proiettato film che utilizzano filmati di nazisti, dell’ISIS, dei signori della guerra e degli squadroni della morte in tutto il mondo. Nessuno ha chiesto l’autorizzazione per il copyright agli eredi di Osama bin Laden. Nessuno ha chiesto il permesso ai Khmer Rossi.
Allora, perché solo adesso? Perché solo in questo caso?
La risposta è tanto sgradevole quanto evidente: la sofferenza degli ebrei è diventata politicamente sconveniente. Oggi, in troppi ambienti gli ebrei sono considerati un tipo “sbagliato” di vittime, mentre i loro torturatori e assassini sono la causa “giusta”.
Festival cinematografici come il Toronto International Film Festival non si limitano ad accudire l’arte. Accudiscono la memoria. Rifiutandosi di proiettare questo film, stanno dicendo al mondo che le testimonianze del 7 ottobre sono condizionate, che la verità su un massacro può essere bloccata dalla burocrazia o dall’imbarazzo politico di vedere gli ebrei come prede, e non come predatori.
L’autorizzazione non c’entra. C’entra molto la paura. Paura delle proteste, paura dei disordini, delle minacce pro-Pal, paura dei titoli che potrebbero seguire.
E – penso – paura che la gente debba fare i conti con il trauma e la sofferenza degli ebrei.
E così, il Toronto International Film Festival ha scelto la strada più facile: rimuovere il film, rilasciare una dichiarazione dal tono gelidamente burocratico e sperare che l’indignazione si esaurisca più rapidamente del ciclo delle notizie.
Diciamolo chiaramente: il Toronto International Film Festival non ha nessun bisogno dell’autorizzazione di Hamas.
L’unica autorizzazione che vogliono è quella dei giudici della pubblica morale culturale che li puniranno se oseranno raccontare la storia in modo così diretto e vero: se oseranno mostrare ebrei sanguinanti e distrutti per mano di coloro a cui viene attribuito il blasone di “combattenti della resistenza”.
Questo è il contrario del coraggio della cultura. Questa è pura viltà.
I sopravvissuti del 7 ottobre non hanno bisogno del Toronto International Film Festival per avvalorare la verità. Le famiglie delle vittime non hanno bisogno di un red carpet.
E’ il mondo che avrebbe bisogno di vedere cosa è successo: senza trucchi, senza ritocchi, senza offuscamenti dettati dalla sensibilità di chi vive a proprio agio nelle proprie certezze.
I terroristi di Hamas hanno filmato i loro crimini affinché il mondo li vedesse. Hanno continuato a diffondere orribili video di propaganda anche nei lunghi mesi successivi a quel giorno (fino agli agghiaccianti filmati degli ostaggi nei tunnel ndr).
Se il processo di Norimberga non aveva bisogno del permesso di Goebbels, il Toronto International Film Festival non ha bisogno del permesso di Hamas.
Ma la decisione del Toronto International Film Festival e di tanti come loro è quella di distogliere lo sguardo, e chiedere a tutti noi di fare lo stesso. (Da: Times of Israel, 13.8.25)
(israelnet.it, 14 agosto 2025)
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Fondata l'organizzazione per gli “Accordi di Isacco”
NEW YORK – Lunedì la Fondazione Genesis Prize ha fondato un'organizzazione che ha lo scopo di rafforzare le relazioni tra Israele e i paesi dell'America Latina. L'impulso per il progetto diplomatico denominato “Accordi di Isacco” è venuto dal presidente argentino Javier Milei. Il modello di riferimento è costituito dagli “Accordi di Abramo” concordati nel 2020 sotto la presidenza di Donald Trump.
La nuova organizzazione, denominata “Amici americani degli Accordi di Isacco” (AFOIA), ha sede a New York. I fondi iniziali provengono da Milei, che le ha donato il premio di un milione di dollari ricevuto in giugno per il Genesis Prize. Già allora Milei aveva espresso l'intenzione di devolvere il premio all'iniziativa.
• Cooperazione e diplomazia
Inizialmente saranno promossi progetti in Uruguay, Panama e Costa Rica. Secondo un comunicato della Fondazione Genesis, l'AFOIA intende estendere le attività nel prossimo anno al Brasile, al Cile, alla Colombia e possibilmente a El Salvador. L'espansione dipenderà dalla situazione politica e dal sostegno dei donatori.
Il presidente della Fondazione Genesis, Stan Polovets, ha dichiarato che l'iniziativa mira a incoraggiare i paesi a “stare al fianco di Israele, combattere l'antisemitismo e respingere le ideologie del terrore che minacciano i nostri valori e le nostre libertà comuni”.
Un altro obiettivo dell'AFOIA è quello di sostenere gli sforzi diplomatici di Israele. Ciò include il trasferimento delle ambasciate a Gerusalemme e la classificazione di Hamas e Hezbollah come organizzazioni terroristiche.
L'ambasciatore israeliano all'ONU Danny Danon ha accolto con favore l'iniziativa diplomatica di Milei. “Data l'ostilità nei confronti dello Stato ebraico da parte di alcuni paesi della regione, il sostegno a Israele da parte dei paesi latinoamericani che attualmente si trovano ai margini è molto importante”.
(Israelnetz, 14 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Problemi di trasloco nella striscia di Gaza
Gaza 2005 - Effetti del "piano di disimpegno"
di Anna Momigliano
22 APRILE 2005 - Il ritiro dalla Striscia di Gaza sarà anche rimandato (dopo il 14 agosto, dice Sharon), ma l'Autorità Palestinese si sta rimboccando le maniche (risponde Abu Mazen). Anzi, «siamo più organizzati degli israeliani. E molto più avanti coi preparativi», ha dichiarato un ministro dell'Anp al quotidiano israeliano Haaretz. Già all'opera sono due comitati di esperti: uno con base a Gaza, l'altro a Ramallah: ai due team di tecnici (soprattutto urbanisti ed esperti di diritto internazionale) si affianca poi la commissione politica, composta da sette ministri di Ramallah e guidata dal premier Abu Ala (al secolo Ahmed Qureia). Occupazione numero uno degli esperti è passare in rassegna e selezionare gli edifici israeliani nella Striscia che ritengono «utili allo sviluppo e alla crescita dell'economia palestinese». Vagliata l'utilità degli edifici, caso per caso, la commissione d'esperti chiederà a Israele di lasciare intatte le costruzioni utili e di distruggere le altre. Secondo il diritto internazionale, sostiene il ministro palestinese, gli israeliani sono tra l'altro tenuti non solo a smantellare gli edifici che l'Anp riterrà opportuno smantellare, ma «anche a rimuovere tutti i detriti». Tanta puntigliosità da parte dell'Autorità può sembrare forse fuori luogo, davanti un evento tanto significativo come il disimpegno da Gaza, primo smantellamento di colonie israeliane dalla restituzione del Sinai all'Egitto. Ma l'obiettivo è semplice: mettere le mani avanti per evitare una seconda Yamit. Quando Israele abbandonò le postazioni nel Sinai, all'inizio degli anni Ottanta, distrusse la maggior parte di ciò che aveva costruito: alcuni villaggi, e la cittadina di Yamit, dove i bulldozer abbatterono tutte le case, e tagliarono le linee elettriche (secondo la ricostruzione dell'emittente americana Abc). Gli insediamenti ebraici di Gaza constano di circa 1800 case private, 120 edifici pubblici e 30 sinagoghe (questi i dati dell'Israel policy forum di New York), ed è quindi comprensibile che l'Autorità sia interessata a potere usufruire di queste strutture. Perché la già instabile economia palestinese è uscita stremata dal fallimento della seconda Intifada, e perché l'Anp ha già dimostrato di avere molte difficoltà nel costruire infrastrutture per i suoi cittadini, senza contare che la leadership di Fatah gode di una minore legittimità a Gaza. Dove i problemi di sicurezza rischiano di rallentare qualsiasi costruzione. D'altro canto, Israele potrebbe avere buoni motivi per decidere invece di fare tabula rasa, come ai tempi di Begin: cioè il timore che Hamas, i Martiri di al-Aqsa e le varie forze estremiste che trovano nella Striscia la propria roccaforte utilizzino le strutture costruite dagli israeliani come basi. Gaza, poi, non è Yamit. E' Hamasland, e, nella migliore delle ipotesi, ci vorrà molto tempo prima che Abu Mazen riesca a mantenere il controllo sulla zona. Le preoccupazioni dei più pessimisti sembrano trovare conferma nell'escalation di violenza che si è verificata nella Striscia di Gaza in questi giorni. La tregua de facto osservata dai gruppi estremisti, com'era da aspettarsi, è terminata: 25 attacchi contro l'esercito israeliano in meno di una settimana, riportano fonti di Tsahal. Si tratta per lo più di esplosivi piazzati sulle strade percorse dalle jeep israeliane e controllati a distanza, molti dei quali vengono però disinnescati. Ieri, per esempio, una jeep israeliana è stata colpita da un'esplosione: 3 i feriti, secondo le fonti ospedaliere. «La pazienza di Tshal sta scemando», riporta Yediot Ahronot. Un ufficiale dell'esercito intervistato dal quotidiano sostiene che «la situazione non può andare avanti così»: o Abu Mazen riesce a fermare gli attacchi, oppure Tsahal, che finora ha mantenuto un profilo relativamente basso, si troverà costretto a una linea più interventista. Attacchi o meno, questo ritiro s'ha da fare: «gli insediamenti di Gaza non sono mai stati costruiti con l'intenzione di essere per sempre sotto il controllo israeliano», spiega Sharon in un'intervista pasquale con Yediot Ahronot: «non c'è altra alternativa che smantellarle». Questo non significa però che il «ruolo storico dei coloni» sia giunto a un termine: «Abbiamo bisogno di nuovi insediamenti nel Negev, in Galilea e a Gerusalemme», spiega il premier. Che almeno a breve termine, il governo abbia intenzione di mantenere la maggior parte delle colonie in Cisgiordania, Ariel Sharon aveva già anticipato in un'intervista a Haaretz di pochi giorni prima: «saremo capaci di resistere alle pressioni internazionali su un ulteriore ritiro», cioè successivo allo smantellamento di Gaza e di alcune colonie a nord della West Bank. Quanto a Gaza, invece, nonostante i recenti episodi di violenza, le trattative per il disimpegno vanno avanti: ieri, in un albergo di Gerusalemme, Shimon Peres ha incontrato Abu Ala. Quanto allo slittamento, poi, è ufficiale: la seconda metà di agosto, per permettere ai coloni, quasi tutti religiosi, di osservare la festa religiosa di Tesha be-Av, che commemora la distruzione del Tempio e quest'anno cade il 14 agosto. (Il Riformista, 22 aprile 2005)
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Cassa Depositi e Prestiti investe nel quantum computing israeliano
Decine di milioni per startup hi-tech
di Davide Cucciati
Nonostante le dichiarazioni nette del Governo italiano in merito al conflitto in Gaza, la cooperazione tra l’Italia e Israele non si è fermata. Come riportato da Globes l’11 agosto 2025, la Cassa Depositi e Prestiti (CDP), attraverso il proprio fondo di investimento tecnologico gestito da CDP Venture Capital, ha iniziato a investire in aziende israeliane. Questo fondo, che opera sotto l’egida del Ministero delle Finanze italiano e dispone di 4,7 miliardi di euro per investimenti, punta a destinare decine di milioni di euro, e forse anche di più, a startup israeliane, principalmente nei settori dell’intelligenza artificiale e del calcolo quantistico, con l’obiettivo di portare in Italia attività e competenze per sviluppare e far progredire l’industria tecnologica nazionale.wIl calcolo quantistico, spiegano le principali fonti internazionali, rappresenta un salto tecnologico strategico. Secondo il Council on Foreign Relations, “i computer quantistici sfruttano le leggi della meccanica quantistica per risolvere problemi matematici molto più rapidamente rispetto ai computer tradizionali”. La società di consulenza McKinsey & Company riporta che “si tratta di un nuovo approccio al calcolo che utilizza i principi della fisica per affrontare problemi estremamente complessi in tempi molto rapidi”. Secondo la rivista scientifica Live Science, “a differenza dei computer tradizionali che usano bit (0 o 1), il calcolo quantistico impiega qubit, capaci di trovarsi in più stati contemporaneamente: questa caratteristica permette di eseguire calcoli che sarebbero impossibili per i sistemi convenzionali”.
In questo contesto si inserisce l’operazione in Israele, gestita da Hagai Badash, un italiano di origine israeliana residente a Roma, con esperienza come gestore degli investimenti e analista in diverse aziende italiane. Badash ha guidato l’investimento, stimato tra 20 e 30 milioni di dollari, per conto di CDP Venture Capital tramite il fondo “Artificial Intelligence”, nella società israeliana Classiq, in collaborazione con la giapponese SoftBank e con altri attori quali la società di gestione del risparmio Neva del gruppo Intesa Sanpaolo. Secondo il gruppo editoriale Leaders League, l’azienda prevede di aprire una controllata italiana per consolidare l’ecosistema nazionale delle tecnologie quantistiche e favorire trasferimenti di know-how.
Una fonte israeliana di alto livello a conoscenza dell’attività del fondo ha dichiarato: “Giorgia Meloni, il Primo Ministro italiano, è ben consapevole dell’attività del fondo. È considerato un importante strumento di politica governativa e un mezzo per raggiungere i suoi obiettivi, come un programma da un miliardo di euro a supporto dell’intelligenza artificiale”. Il comunicato ufficiale del 31 luglio precisa che l’investimento “rafforza l’impegno di CDP Venture Capital nell’accelerare lo sviluppo di capacità deep-tech critiche in Italia, aumentando la sua sovranità digitale nell’era quantistica”. Alessandro Scortecci, Chief Investment Officer per i Direct Investments, ha spiegato: “Investiamo nei campioni tecnologici di domani, in aree come il quantum computing, per attrarre talenti chiave, integrare la tecnologia nelle filiere industriali e rendere l’ecosistema italiano più competitivo su scala globale”.
(Bet Magazine Mosaico, 13 agosto 2025)
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Fame a Gaza, confutazioni e accuse sulla piccola Misk
La bimba di 6 anni nata con atrofia cerebrale
di Isabella Vano
Misk Bilal al-Madhoun, 6 anni, è una bambina palestinese divenuta nell’estate 2025 uno dei volti più noti della narrativa della “fame indotta” a Gaza. Le sue foto, scattate il 31 luglio 2025 dall’agenzia Anadolu e diffuse tramite Getty Images e altri media internazionali, la ritraevano in severe condizioni di sottopeso ed erano accompagnate da didascalie e descrizioni di grave malnutrizione (4–5 kg). Tuttavia, da un’indagine approfondita è emerso che Misk è nata con atrofia cerebrale, una grave patologia neurologica congenita, spesso definita anche come paralisi cerebrale, che causa problemi di deglutizione e assorbimento di nutrienti, perdita di massa muscolare e difficoltà nel mantenimento del normopeso. Già prima della guerra, Misk dipendeva da una dieta medica specifica e da fisioterapia costante. I risultati di questa indagine denotano un preoccupante divario tra il reale stato clinico della bambina e il modo in cui la sua condizione è stata illustrata al pubblico nel sistema informativo, dove il contesto della malattia è stato spesso omesso, restituendo un’immagine centrata esclusivamente sulla fame indotta.
• Inquadramento mediatico, le accuse di “fame indotta”
Sui social e nei giornali è stata condivisa la notizia che Misk soffriva di grave malnutrizione, presentandola come prova della “fame” a Gaza. Numerosi post hanno riportato le didascalie originali, parola per parola, diffondendo questa narrazione. Diversi media, tra cui Anadolu e Al Jazeera, hanno pubblicato video brevi accompagnati da didascalie come “bambina di 6 anni in condizioni disperate… affetta da grave malnutrizione”, omettendo la patologia di base.
• Le indagini: aggravamento di una malattia cronica
Misk è nata con paralisi cerebrale, patologia che colpisce i centri nervosi che controllano i muscoli, compresi quelli della masticazione, della deglutizione e dell’apparato digerente. La condizione causa danni al sistema nervoso centrale, ritardi nello sviluppo, problemi di deglutizione, perdita di massa muscolare e difficoltà a mantenere un peso normale. Prima della guerra, Misk dipendeva già da una dieta medica specifica e da fisioterapia costante. Le complicazioni tipiche della malattia comprendono (a) difficoltà di deglutizione (disfagia), che comporta rischio di soffocamento o aspirazione di cibo nei polmoni; (b) basso tono muscolare e rallentamento della digestione, che possono generare costipazione e cattivo assorbimento dei nutrienti; (c) alto dispendio energetico dovuto a maggiore consumo di calorie e proteine per il mantenimento delle funzioni di base; (d) intolleranza alimentare e conseguenti difficoltà digestive degli alimenti, specialmente se duri da masticare o poveri di calorie. Senza un adattamento del piano alimentare alle esigenze specifiche e senza supporto medico, la condizione del paziente affetto da paralisi cerebrale, anche se con regolare accesso a cibo adeguato, può peggiorare rapidamente, conducendo a uno stato apparentemente dovuto a denutrizione, ma in realtà derivante dall’incapacità fisiologica di assimilare il cibo. Servizi giornalistici (Al Jazeera, Getty Images, Xinhua) confermano che la bambina soffre di atrofia cerebrale congenita.
• Conclusioni
L’immagine di Misk come vittima di “fame indotta” deriva dalla combinazione di fotografie scattate ad hoc, testi sensazionalistici e condivisioni virali. Tuttavia, prove raccolte da fonti giornalistiche e documentazione pregressa mostrano che Misk convive dalla nascita con una malattia neurologica grave (atrofia cerebrale/paralisi cerebrale) responsabile delle sue condizioni di sottopeso. La tesi che il suo stato sia la conseguenza di una “fame indotta” non tiene se si considerano tutti i dati. In assenza di cartelle cliniche pubbliche, le informazioni provengono da dichiarazioni familiari e didascalie, il che induce molte fonti informative ad omettere il contesto medico pregresso e concentrarsi esclusivamente sul tema della fame.
(Il Riformista, 13 agosto 2025)
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Terroristi travestiti da collaboratori della World Central Kitchen
Terroristi si fingono collaboratori della World Central Kitchen per proteggersi. L'organizzazione condanna questa tattica.
DEIR AL-BALAH – L'esercito israeliano ha ucciso cinque terroristi nella Striscia di Gaza che erano travestiti da collaboratori dell'organizzazione umanitaria World Central Kitchen (WCK). Come comunicato martedì dall'esercito, i sospetti indossavano giubbotti protettivi gialli ed erano armati. Si trovavano nei pressi di un veicolo con il logo della WCK.
Su richiesta, la WCK ha confermato agli israeliani che il veicolo nella città di Deir al-Balah non aveva nulla a che fare con le attività dell'organizzazione. L'esercito ha criticato l'azione dei terroristi: “Questo cinico abuso dei simboli umanitari è una tattica utilizzata da Hamas e da altri gruppi terroristici per proteggersi e portare avanti i propri attacchi”.
Anche il WCK ha condannato con forza l'azione: “Chiunque si spacci per un membro del WCK o di altre organizzazioni umanitarie mette in pericolo i civili e gli operatori umanitari. La protezione e la sicurezza dei nostri team sono la nostra massima priorità”.
(Israelnetz, 13 agosto 2025)
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Il prezzo di una generazione per la falsa rappresentazione del “genocidio” a Gaza
Chi conferma le calunnie sul deliberato sterminio dei palestinesi da parte di Israele si rende complice degli attacchi antisemiti contro gli ebrei che continueranno ancora a lungo dopo la fine della guerra.
di Jonathan S. Tobin
I nemici di Israele e coloro che rendono l'antisemitismo socialmente accettabile hanno tutti i motivi per festeggiare. Sono passati solo 22 mesi da quando Hamas ha perpetrato terribili attacchi terroristici contro Israele il 7 ottobre 2023.
Ma per gran parte dei media liberali mainstream questo è, nella migliore delle ipotesi, un lontano ricordo. Per la maggior parte, tuttavia, è stato cancellato insieme alle recenti prove della barbarie di Hamas nei confronti degli ostaggi israeliani ancora nelle sue mani, poiché sostengono che Israele sta commettendo un “genocidio” e sta deliberatamente affamando i bambini di Gaza.
Queste affermazioni sono false; possono e devono essere confutate. La copertura mediatica distorta e le menzogne diffuse sul comportamento di Israele nella guerra contro Hamas dopo il 7 ottobre sono parte integrante del dibattito su Gaza. I resoconti menzogneri sulle atrocità che attribuiscono a Israele, e l'occultamento della verità sulle intenzioni dei palestinesi e sui crimini brutali che hanno commesso, stanno plasmando l'opinione pubblica internazionale sul conflitto.
Ma c'è qualcosa di ancora più inquietante nel dibattito sulla Striscia di Gaza, che non è stato compreso appieno né dagli israeliani né da coloro che nella diaspora si esprimono sugli eventi. La disponibilità di così tante persone ad accettare come verità la propaganda pro-Hamas va oltre le attuali discussioni sulla guerra o sui modi migliori per combattere l'odio contro gli ebrei divampato dopo il 7 ottobre. L'accettazione delle affermazioni dei jihadisti getta le basi per un futuro in cui l'antisemitismo non solo si diffonderà, ma sarà considerato qualcosa in cui credono le persone perbene e illuminate.
• Il tempo di dimezzamento delle menzogne
Deve essere chiaro che le conseguenze di questa campagna di demonizzazione dello Stato ebraico e dei suoi sostenitori si faranno sentire ancora a lungo dopo la fine della guerra. Come il materiale radioattivo che rimane nell'atmosfera, il loro tempo di dimezzamento non diminuirà per molto tempo.
Chi diffonde l'accusa di genocidio e chi anche solo la accetta passivamente getta le basi per il modo in cui gran parte del mondo penserà al popolo ebraico nel prossimo futuro. I loro sforzi contribuiscono a convincere un vasto pubblico che gli ebrei e il loro Stato sono unici nella loro terribilità e colpevoli di crimini contro l'umanità. In questo modo viene razionalizzata la diffamazione del popolo ebraico, il cui Stato è oggi considerato malvagio. E tali diffamazioni saranno rivolte agli ebrei per decenni, forse addirittura per secoli.
In questo contesto, gli sforzi per confutare le menzogne devono essere visti non solo come un aspetto importante della guerra dell'informazione per difendere Israele oggi, ma anche per le generazioni di ebrei che non sono ancora nate.
• Mainstreaming dell'antisionismo
Come dimostra anche un esame superficiale delle prove oggettive degli eventi di Gaza, la carenza di generi alimentari in quella zona è chiaramente colpa dei terroristi di Hamas. Il gruppo islamista che ha governato Gaza dal 2007 fino al 7 ottobre come uno Stato terrorista palestinese indipendente ha iniziato la guerra che ha causato tutte queste sofferenze, utilizzando tattiche volte a mettere in pericolo i civili.
Inoltre, ostacola gli aiuti umanitari destinati alla Striscia di Gaza provenienti da fonti che non può controllare, al fine di alleviare le sofferenze della popolazione; ruba la maggior parte del cibo che di fatto arriva, lo accumula per sé e ne vende una parte alla popolazione a prezzi esorbitanti.
Tuttavia, poiché gran parte dei media è influenzata dalla propaganda di Hamas e da un'ideologia di sinistra “woke” che dipinge falsamente Israele come uno Stato oppressore ‘bianco’ che ha sempre torto e i palestinesi come il “popolo di colore” che ha sempre ragione, tutte le prove contrarie vengono ignorate.
Di conseguenza, la discussione sia sulla guerra dopo il 7 ottobre che sull'antisemitismo che essa ha scatenato viene costretta in un quadro di riferimento in cui l'odio verso gli ebrei viene normalizzato. Ciò è stato illustrato al meglio da tre articoli pubblicati la scorsa settimana sul New York Times, in cui la demonizzazione di Israele e degli ebrei è stata presentata come la reazione principale agli eventi.
In uno di questi, Ezra Klein del Times ha pubblicato un'intervista lusinghiera a Mahmoud Khalil, l'attivista nato in Siria che rischia l'espulsione dal governo Trump. Khalil ha contribuito a organizzare le esplosive manifestazioni pro-Hamas e gli attacchi contro gli ebrei alla Columbia University. La sottomissione di Klein ha permesso a Khalil non solo di falsificare la storia della guerra contro Israele, ma anche di giustificare il suo comportamento e la campagna antisemita che ha contribuito a guidare.
Che il Times abbia offerto una piattaforma a qualcuno che diffonde menzogne sul comportamento attuale di Israele è già abbastanza grave. Ma ha anche avanzato l'affermazione scandalosa e altrettanto falsa che la guerra di logoramento terroristica nota come Seconda Intifada, che tra il 2000 e il 2005 ha causato la morte di oltre 1.000 israeliani, fosse “non violenta” e che il 7 ottobre fosse una risposta giustificata alle azioni israeliane. In questo modo, il giornale ha trattato il sostegno all'obiettivo di Hamas di distruggere Israele – che può essere raggiunto solo con il genocidio – come un obiettivo su cui, nel peggiore dei casi, si può non essere d'accordo.
È ovvio che nessun media responsabile pubblicherebbe un articolo che tratta in questo modo il genocidio pianificato di un altro popolo. Ma questo dimostra quanto siano efficaci gli odiatori degli ebrei di oggi nel rendere mainstream sia i loro obiettivi che la diffamazione di Israele come “Stato apartheid” e Stato genocida.
Altrettanto rivelatrice è stata l'intervista del Times a Jonathan Greenblatt, CEO e direttore nazionale della Anti-Defamation League, pochi giorni dopo.
Sono un acuto critico di Greenblatt, la cui leadership ha allontanato la venerabile organizzazione dal suo compito di difendere gli ebrei e l'ha invece dedicata a cause liberali di parte che hanno minato il suo scopo fondamentale e legittimato le forze di sinistra woke che diffondono l'antisemitismo. Dal 7 ottobre, tuttavia, lo sviluppo degli eventi lo ha costretto a modificare leggermente la sua linea, poiché l'ondata di odio contro gli ebrei si è diffusa in tutto il mondo.
A differenza delle innocue domande poste a Khalil, la giornalista del Times Lulu Garcia-Navarro ha attaccato duramente Greenblatt, contestandogli quasi tutti i punti e respingendo il suo tentativo di spiegare che l'antisionismo e il sostegno all'agenda di Hamas non sono una “critica” a Israele. Nel suo disperato tentativo di attirare l'attenzione dell'opprimente lettorato liberale del giornale, Greenblatt si è vantato di quante volte ha criticato il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e di condividere le preoccupazioni dei critici dello Stato ebraico per gli eventi di Gaza.
Va dato atto a Greenblatt di aver cercato di sottolineare che l'aumento senza precedenti dell'antisemitismo dal 7 ottobre è direttamente collegato alla legittimazione dell'antisionismo. L'impressione generale dell'articolo era però quella di un leader sotto pressione, messo sulla difensiva e che sta perdendo la battaglia per conquistare i cuori e le menti dei suoi ex alleati, che hanno abbracciato le argomentazioni degli antisemiti.
Un successivo articolo della giornalista del Times Lydia Polgreen, una dichiarata antisionista, ha elogiato il modo in cui democratici apparentemente moderati come la senatrice Amy Klobuchar (D-Minn.) credono alle affermazioni sul genocidio di Israele e sull'affamare deliberatamente i palestinesi. Polgreen ha elogiato il fatto che la grande maggioranza dei senatori democratici abbia votato a favore della sospensione degli aiuti militari allo Stato ebraico durante la guerra.
Tuttavia, i termini “7 ottobre”, “Hamas” e ‘terrorismo’ non sono apparsi nemmeno una volta, giustificando l'idea che sia “coscienzioso” opporsi a Israele e consentire la sopravvivenza di coloro che cercano la sua distruzione.
• Una svolta
È quindi chiaro che la discussione sulla presunta carestia a Gaza non può essere semplicemente intesa come argomento di conversazione in un dibattito infinito su chi ha fatto cosa a chi in una guerra eterna in Medio Oriente. È il potenziale punto di svolta per la delegittimazione di Israele nella mente della maggior parte dei democratici e dei liberali – e per la sostituzione del vecchio consenso bipartisan con un senso di giustizia nei confronti dello Stato ebraico, su cui solo i repubblicani possono ancora contare.
Questo non è il modo in cui molti americani, ebrei e non ebrei, che si considerano amici di Israele, ma sono vittime della narrativa sulla fame, comprendono la discussione. Lo stesso vale per alcuni israeliani che, a causa delle loro aspre divergenze con Netanyahu, si lasciano indurre a confermare la disinformazione dei media su Gaza e persino a definire erroneamente ciò che sta accadendo lì come una forma di genocidio.
Si può sostenere che la guerra di Israele contro Hamas sia stata caratterizzata da errori e strategie sbagliate. Il primo ministro merita riconoscimento per non essersi lasciato mettere sotto pressione affinché Hamas sopravvivesse – come desideravano l'amministrazione Biden e gran parte del mondo – e per aver ottenuto la sconfitta di Hezbollah in Libano e dell'Iran. Ma le sue decisioni possono essere criticate.
• I nuovi “protocolli”
Tuttavia, cedendo alle affermazioni su una carestia basate sulla disinformazione di Hamas e su una copertura mediatica di parte, i critici di Netanyahu in patria e tra gli amici di Israele all'estero stanno facendo molto di più che prendere le distanze da un politico che non gradiscono. La legittimità conferita alle menzogne su una carestia a Gaza o alle statistiche sui civili palestinesi fortemente esagerate da coloro che affermano di amare Israele ma rifiutano Netanyahu non lo danneggia particolarmente. Tuttavia, contribuisce a giustificare la demonizzazione dello Stato ebraico e ad alimentare e rafforzare un movimento antisemita incoraggiato sia dalla sinistra che dalla destra.
Non si tratta della reputazione del primo ministro. Si tratta piuttosto di una diffamazione sanguinaria di Israele, che per il resto del XXI secolo potrebbe benissimo essere l'equivalente morale dei Protocolli dei Savi di Sion, e di un copione per un ciclo infinito di teorie cospirative antisemite sui crimini ebraici.
Non appena si trattano le menzogne sul genocidio non solo come discutibili, ma come ragionevoli, si fornisce a tutti gli antisionisti che odiano gli ebrei, di qualsiasi ideologia, un'arma che useranno contro il popolo ebraico, e lo faranno in un modo che non ha nulla a che vedere con i dibattiti politici in Israele o con le speculazioni sul modo migliore per porre fine alla guerra a Gaza.
Chi firma lettere che condannano Israele – o chi usa le piattaforme mainstream per elevarsi moralmente al di sopra della situazione dei palestinesi che hanno applaudito le atrocità del 7 ottobre, ma ora soffrono per il loro sostegno a Hamas – forse crede erroneamente di parlare a nome dei valori ebraici. Ma così facendo fa il gioco dei propagandisti di Hamas, così come di coloro che esultano per la distruzione di Israele e attaccano gli ebrei ovunque vivano.
Le menzogne che essi rafforzano invece di confutarle saranno rinfacciate al popolo ebraico per molti anni a venire. Non saranno gridate solo dall'attuale generazione di antisemiti, ma anche da coloro che ci daranno filo da torcere in futuro.
(Israel Heute, 12 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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7 ottobre – Israele al bivio: guerra sì, guerra no. Parlano due italkiot
di Daniel Raichel
Una grande sensazione di stanchezza per il protrarsi della guerra a Gaza accomuna Angelica Edna Calò Livne e Nora Ortona. Entrambe parte della comunità degli Italkim, gli italiani d’Israele, entrambe preoccupate per i propri figli e per il destino del paese, ma con punti di vista sul conflitto diversi. Angelica, colonna portante del kibbutz Sasa, nel nord d’Israele, si dice sfinita. «Una stanchezza che non si può dominare, davvero. Siamo stanchi tutti quanti, a cui si aggiunge una totale sfiducia nella nostra leadership politica. Da mesi sentiamo dire «faremo questo, faremo quest’altro»… e non succede niente. Ci struggiamo per gli ostaggi, ma nulla cambia». E l’annuncio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di voler avviare un’altra grande operazione per prendere il controllo di Gaza City ha acuito questo spaesamento. «Io non ce la faccio più: solo l’idea che possano richiamare uno dei miei figli mi fa star male», prosegue Angelica. «Fra due mesi saranno due anni dal 7 ottobre, due anni che viviamo con dolori, incubi, occhiaie… perché non si dorme più di un’ora a notte. E adesso dicono: ”Conquisteremo tutta Gaza e poi la daremo a qualcun altro perché la governi”. Ma scusa: dobbiamo essere noi a cacciare Hamas per tutti? I nostri soldati a fare il lavoro per tutti?».
Anche Nora, da Gerusalemme, si interroga sul significato della nuova operazione, ma ribadendo la sua fiducia in Netanyahu. «La situazione è molto complessa. Temo per gli ostaggi, ma soprattutto, più che per gli ostaggi, temo per i soldati. Abbiamo abbastanza uomini? I nostri miluim (riservisti) sono due anni che stanno dentro. C’è gente che ha fatto un anno intero di servizio, intervallato da poche settimane a casa. È una situazione sfibrante».
Se una ulteriore missione a Gaza City sia la scelta giusta, prosegue, «non lo so. Ma la vera domanda è: avevamo davvero una scelta? Sono una grande sostenitrice di Netanyahu e mi chiedo fino a oggi, quali erano le alternative? Hamas non ha mai voluto rilasciare tutti gli ostaggi: parlavano di al massimo dieci rapiti, in cambio di migliaia di detenuti di ogni livello. Non hanno mai accettato lo smantellamento delle loro forze militari. Quindi, qual era la scelta? Consegnare Israele a loro oggi o tra due, sei, dieci anni?».
Sulla situazione a Gaza Angelica tiene a sottolineare il suo dolore. «Mi dispiace tantissimo per quello che sta succedendo dall’altra parte: per i civili, per i bambini. Ma se non ci ridanno gli ostaggi, cosa possiamo fare? Lo chiedo anche a tutti quei capi di stato che riconoscono la Palestina: voi che fareste?». Più dura la posizione di Nora. «Francamente, la questione palestinese a me non interessa, sono contraria agli aiuti inviati a Gaza: perché dobbiamo essere noi a dare una mano al nemico? Poi se mi chiedi è giusto sacrificare 20 ostaggi e radere al suolo Gaza per eliminare Hamas? Non lo so. Dal punto di vista della Torah, non si deve pagare qualsiasi prezzo per un ostaggio. È un discorso molto difficile, ma è così. Io, anche da madre, l’ho detto alle mie figlie: non metto in pericolo Israele per salvare mia figlia». Dall’altro lato le figlie di Nora, due nell’esercito e una prossima ad arruolarsi, pongono alla madre domande difficili. «Mi dicono: ”Mamma, se non posso vivere sicura e felice nel mio stato, perché devo restare qui?”. Alla nostra generazione non sarebbe mai venuta in mente una domanda del genere», ammette.
Parlando di figli, ad Angelica torna in mente un’intervista al suo più grande, Yotam, fatta 20 anni fa. «Yotam nel 2005 era un ufficiale. Lo intervistavano mentre evacuavano i coloni israeliani da Gaza. Diceva: ”È terribile, ci si strappa il cuore, ma lo facciamo perché è giusto”. E aggiungeva: ”Lo faccio anche perché non vorrei che tra tanti anni ci sia una guerra con Gaza e mio figlio debba combatterla”. E poi, 20 anni dopo, eccoci qui». Il pensiero va poi ai giorni successivi al 7 ottobre: «Eravamo feriti, straziati, ma anche capaci di reagire con orgoglio e unità: in poche ore eravamo tutti pronti, chi per aiutare al kibbutz, chi per soccorrere Nahal Oz o Be’eri, ciascuno era pronto a sacrificarsi», afferma Angelica. «Ma adesso basta. Abbiamo perso troppe persone. Siamo un paese troppo piccolo, non possiamo più sacrificare i nostri figli. Penso ad Abramo e Isacco: Dio all’ultimo momento fermò il braccio di Abramo».
(moked, 12 agosto 2025)
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”Mamma, se non posso vivere sicura e felice nel mio stato, perché devo restare qui?” La mamma non risponde, perché in realtà non è una domanda: è una dichiarazione. Un'altra dichiarazione la fece vent'anni fa Yotam, il figlio di Angelica: "È terribile, ci si strappa il cuore, ma lo facciamo perché è giusto”. E' giusto? Questa sì è una domanda? M.C.
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I coloni di Gush Katif andranno via «senza sparare»
Gaza 2005 - Effetti del "piano di disimpegno"
25 MAGGIO 2005 - »Se davvero succederà, se dovremo partire, la cosa più importante é che restiamo insieme, tutta la nostra comunità, a costo di vivere nelle tende»: all'ombra delle palme di Gadid, una delle colonie del sud di Gaza, Ariel Porath, 50 anni, barba brizzolata, si fa violenza per parlare del "dopo", di quando il "ritiro" annunciato dal governo israeliano sarà stato consumato.
La maggior parte dei circa 8.000 coloni dell'area del Gush Katif, che comprende 18 dei 21 insediamenti della Striscia, preferirebbe fare come se il 15, il 16 o il 17 agosto non dovessero arrivare migliaia di poliziotti e di soldati, incaricati di portarli via di peso, per trasferirli ancora non sanno dove, in Israele.
Ebreo francese Porath è arrivato qui da Strasburgo 20 anni fa. Allora lo stato ebraico incoraggiava gli ebrei della diaspora desiderosi di tornare sul suolo del Grande Israele a trasferirsi nelle colonie. Molti francesi sono così arrivati al Gush Katif. Porath ha creato una sua azienda agricola, che oggi produce milioni di germogli di verdura ogni settimana. «E ora vogliono mandarci via in qualche settimana» tuona.
Religioso moderato come la maggior parte degli altri coloni del Gush Katif, Porath rifiuta la violenza, e dice di non credere che alla fine dovrà andarsene. E se i soldati verranno comunque, a metà agosto, «non spareremo!», assicura: «siamo agricoltori, amiamo la terra e la vita». Ma la battaglia con Ariel Sharon, dopo innumerevoli scontri in parlamento, nel teatro della politica, nello stesso partito del premier, il Likud, a molti sembra ormai persa. E anche se tutti o quasi dicono che non si muoveranno fino all'ultimo minuto, il pensiero e l'angoscia del "dopo", attanaglia tutti.
Un progetto del premier, quello di ricreare una comunità simile, con la maggior parte dei coloni evacuati, a Nitzanim, una splendida riserva naturale di dune a 40 km più a nord, in territorio israeliano, sta mano a mano conquistando simpatie. Perché il posto assomiglia molto al Gush Katif e anche, forse soprattutto, perché la comunità rimarrebbe intatta.
(Corriere.com, 25 maggio 2005)
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Gaza, la guerra delle bugie: ex giornalista dell’Associated Press rompe il silenzio
Matti Friedman denuncia pressioni dirette di Hamas e complicità indirette dei media. Dalla censura sulle vittime ai set fotografici costruiti: così si fabbrica la narrazione della guerra.
di Nina Deutsch
Ha rotto il silenzio denunciando una realtà scomoda; una realtà che pochi media occidentali osano ammettere. Matti Friedman, ex giornalista dell’Associated Press (AP) tra il 2006 e il 2011, sostiene che l’agenzia abbia ceduto a pressioni dirette di Hamas già dal 2008, cancellando dettagli scomodi e alterando così la percezione pubblica degli eventi. In tempo di guerra, la verità non è solo la prima vittima: è anche il trofeo più ambito. Nel conflitto israelo-palestinese, la battaglia per il controllo della narrazione è feroce quanto quella sul campo. E spesso, i media diventano essi stessi parte in causa.
Un episodio emblematico, raccontato da Friedman, risale alla fine del 2008: durante la guerra a Gaza, inserì in un articolo un passaggio che spiegava come i miliziani di Hamas si travestissero da civili, finendo così conteggiati tra le vittime innocenti nei bilanci ufficiali. Poche ore dopo ricevette una telefonata da un collega: «Matti, devi eliminare quel dettaglio». Non era un suggerimento editoriale, ma una correzione imposta, frutto di minacce dirette. Da allora, afferma Friedman, l’AP e altre testate hanno finito per collaborare, di fatto, alla censura di Hamas. Nei resoconti, le immagini di civili morti sono onnipresenti, mentre i combattenti scompaiono. «I dati ufficiali – diffusi dal Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas – vengono accettati senza un reale contraddittorio».
Il problema è anche logistico e strutturale. A Gaza non ci sono giornalisti occidentali: l’accesso è precluso. Le informazioni arrivano da reporter palestinesi, alcuni vicini o interni a Hamas, altri semplicemente intimoriti. È un imbuto informativo in cui una sola fonte controlla il flusso, determinando ciò che il mondo vede e pensa.
Questa dinamica si riflette in episodi recenti, come il caso della foto della fame nella Striscia di Gaza. Lo scorso 7 agosto, la Süddeutsche Zeitung ha pubblicato un’immagine che mostrava palestinesi affacciati da un muretto con contenitori vuoti, apparentemente in attesa di cibo. Dietro l’obiettivo c’era Anas Fteiha, collaboratore dell’agenzia turca Anadolu. Ma secondo la ricostruzione del quotidiano tedesco, sul lato opposto del muretto non c’era alcuna distribuzione di aiuti in corso: il gesto era rivolto al fotografo, non agli operatori umanitari.
La foto ha acceso un forte dibattito. Il tabloid Bild ha accusato Fteiha di inscenare la propaganda di Hamas, Israele l’ha definita un esempio di “Pallywood” – l’unione dei termini “Palestina” e “Hollywood” usata per descrivere presunte messinscene mediatiche – mentre i sostenitori di questa tesi l’hanno usata per mettere in dubbio la gravità della crisi umanitaria. Tuttavia, come sottolinea il giornale, questo non toglie nulla alla sofferenza reale e drammatica della popolazione di Gaza, ampiamente documentata da molte fonti indipendenti. Allo stesso tempo, la diffusione di notizie false e propagandistiche da parte di Hamas, che mirano soprattutto a demonizzare Israele, è controproducente e pericolosa: esaspera gli animi e l’animosità nell’opinione pubblica, compromettendo l’obiettività necessaria per capire la complessità della situazione.
Ad accrescere la tensione, il giornalista israeliano Barak Ravid, da Washington, ha sottolineato un punto cruciale: Israele non consente alla stampa internazionale di entrare liberamente a Gaza. Questo rende quasi impossibile verificare i fatti in maniera indipendente. In assenza di osservatori neutrali, ogni immagine, ogni numero e ogni testimonianza diventa terreno di scontro politico e propagandistico.
Nel frattempo, i social media amplificano la guerra delle immagini. Video emotivi — bambini feriti, soccorsi frenetici, ospedali sovraffollati — circolano senza sosta. Alcuni sono autentici, altri manipolati o fuori contesto, ma tutti hanno un obiettivo: suscitare reazioni forti e orientare l’opinione pubblica prima ancora che la verifica possa intervenire.La diffusione di fake news e contenuti distorti in tempo di guerra non è un effetto collaterale, ma una strategia deliberata. Alimenta la confusione, sposta il dibattito su un piano emotivo e priva il pubblico di basi solide per formarsi un’opinione. In questo scenario, il giornalismo rischia di diventare un’eco della propaganda, anziché uno strumento per smascherarla.
La lezione è chiara: chi controlla le immagini controlla il racconto. E chi controlla il racconto, in guerra, detiene una delle armi più potenti. (Bet Magazine Mosaico, 11 agosto 2025)
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Israele uccide il “giornalista-terrorista” che piaceva a Sinwar
Nel raid morti altri quattro operatori di Al Jazeera, nella Striscia blocco ai reporter stranieri
di Giovanni Pisano
Un raid mirato per uccidere il “terrorista che si spacciava per giornalista di Al Jazeera”. L’Idf annuncia così la morte di Anas al-Sharif, 28enne corrispondente dell’emittente qatarina (artefice della propaganda contro Israele) colpito mentre si trovava in una tenda a Gaza City, davanti all’ospedale di al-Shifa dove poco prima aveva pubblicato un video sull’ultimo “bombardamento incessante” di Israele. Con lui, sotto la tenda utilizzata come redazione, c’erano anche altre quattro persone dello staff di Al Jazeera: il giornalista Muhammad Karika e tre membri dello staff, i cameramen Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal e Moamen Aliwa. Tutte morte.
Una operazione “mirata” da parte dell’esercito israeliano che riteneva al-Sharif “a capo di una cellula dell’organizzazione terroristica Hamas” e lo considerava “responsabile di attacchi missilistici contro civili israeliani e truppe dell’Idf” con il sospetto che avesse partecipato ai massacri nei kibbutz del 7 ottobre 2023. Per l’Idf “informazioni e documenti provenienti da Gaza, tra cui elenchi di personale, liste di addestramento dei terroristi e registri degli stipendi, dimostrano che era un agente di Hamas integrato in Al Jazeera”. La nota si chiude con “un tesserino stampa non è uno scudo contro il terrorismo”. Per cristallizzare i presunti legami di Anas al-Sharif con Hamas, sono state diffuse foto dei due insieme. Addirittura in una l’ex leader dei terroristi, ucciso nell’ottobre del 2024, abbraccia il reporter. Un altro scatto – accusato però di essere un fotomontaggio – immortala un selfie del 28enne con Sinwar e altri leader dell’organizzazione.
Al-Sharif, nato nel campo profughi di Jabalia, da tempo era nel mirino dell’Idf e ad inizio aprile 2025 aveva lasciato un testamento su X. “Se queste mie parole vi giungono – si legge ora – sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce. Ho vissuto il dolore in ogni suo dettaglio e ho assaporato la perdita più e più volte. Eppure, non ho mai esitato un solo giorno a trasmettere la verità così com’è, senza distorsioni o falsificazioni. Vi affido la Palestina, il gioiello della corona dei musulmani, il cuore pulsante di ogni persona libera in questo mondo”.
Per l’emittente televisiva Al Jazeera “l’ordine di assassinare uno dei giornalisti più coraggiosi di Gaza era un tentativo disperato di mettere a tacere le voci che denunciavano l’imminente sequestro e occupazione della Striscia. L’uccisione dei giornalisti della rete da parte delle forze di occupazione israeliane è un attacco palese e deliberato alla libertà di stampa”. Anche Sarah Qudah, direttrice regionale del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha condannato il raid: “La prassi israeliana di etichettare i giornalisti come militanti senza fornire prove credibili solleva seri dubbi sulle sue intenzioni e sul rispetto della libertà di stampa”.
Dall’inizio del conflitto, nella Striscia sarebbero decine i giornalisti palestinesi morti in seguito a raid israeliani (circa 200 per Hamas e per il Cpj). A Gaza, su disposizione del governo Netanyahu, è impossibile per un giornalista internazionale entrare e raccontare ciò che accade.
Napoletano doc (ma con origini australiane e sannite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
(Il Riformista, 12 agosto 2025)
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The Donald: «Hamas non può restare a Gaza
Trump: «Molto difficile un accordo per la liberazione degli ostaggi». La Meloni sente il presidente dell'Anp, Abbas, che elogia il ruolo umanitario «fondamentale» dell'Italia. Tajani: «Aperti al riconoscimento della Palestina, ma prima serve uno Stato».
di Stefano Piazza
Domenica sera, a Gaza City, le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno ucciso Anas Al Sharif, militante di Hamas che si presentava come giornalista dell'emittente Al Jazeera. Secondo quanto dichiarato dall'Unità del portavoce delle Idf, Al Sharif guidava una cellula terroristica del movimento jihadista ed era responsabile di lanci di razzi contro obiettivi civili israeliani e reparti dell' esercito. Le Idf avevano già in precedenza reso pubbliche informazioni di intelligence e diversi documenti rinvenuti nella Striscia di Gaza, che confermarono il suo legame operativo con Hamas. Fra i documenti figurano elenchi del personale, registri di corsi di addestramento per miliziani, rubriche telefoniche e documentazione sugli stipendi del militante. Le prove dimostrano che Al Sharif, più volte apparso abbracciato ai leader di Hamas, operava come combattente armato per il movimento terrorista nella Striscia. Inoltre, le informazioni su Al Sharif rivelano la sua integrazione nella rete qatariota di Al Jazeera. Prima del raid l'esercito israeliano ha adottato misure mirate a limitare i danni collaterali ai civili, facendo ricorso a munizionamento di precisione, sorveglianza aerea e ulteriori dati di intelligence. «Le Idf continueranno ad agire contro le organizzazioni terroristiche presenti nella Striscia di Gaza», ha dichiarato il portavoce militare. Nel corso della stessa operazione, è rimasto ucciso anche Mohammed Qraiqea, altro «giornalista» di al-Jazeera. Entrambi erano figure note di Gaza e molto seguite dal pubblico del mondo arabo. Il primo ministro del Qatar ha rivolto un duro attacco a Israele, accusandolo di aver ucciso giornalisti dell'emittente Al Jazeera e definendo le loro morti «crimini oltre ogni immaginazione». Al Jazeera ha confermato la morte del ventottenne, insieme al collega giornalista Mohammed Qreiqeh e ai video maker Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal e Moamen Aliwa, nell'attacco, che ha preso di mira una tenda vicino all'ospedale Shifa. Un funzionario dell'ospedale ha dichiarato che nell'attacco sono morte anche altre due persone. In un messaggio pubblicato su X, lo sceicco Mohammed bin Abdul r ah man Al Thani ha espresso cordoglio per le vittime: «Che Dio abbia pietà dei giornalisti Anas Al Sharif, Mohammed Qraiqea e dei loro colleghi». L'agenzia delle Nazioni unite per i diritti umani ha condannato gli omicidi, qualificandoli come «una grave violazione del diritto internazionale umanitario». In un post diffuso su X, l'alto commissario Onu peri diritti umani, Volker Turk, ha sottolineato che «Israele deve rispettare e proteggere tutti i civili, compresi i giornalisti», evidenziando che, dal 7 ottobre 2023 - data dell'attacco di Hamas nel Sud di Israele che ha innescato il conflitto - a Gaza sarebbero stati uccisi almeno 242 reporter palestinesi. Israele, da parte sua, sostiene che i miliziani di Hamas si nascondono tra la popolazione civile e afferma di non colpire intenzionalmente né civili né operatori dell'informazione. «Chiediamo che a tutti i giornalisti sia garantito un accesso immediato, sicuro e senza ostacoli a Gaza» ha dichiarato l'ufficio di Turk. Anche l'associazione della Stampa estera ha espresso «indignazione» per l'accaduto, sottolineando che «i colleghi stavano svolgendo il loro dovere professionale, raccontando i fatti in tempo reale». L'organizzazione ha respinto la tesi israeliana che etichetta i giornalisti palestinesi come terroristi «spesso senza prove verificabili, trasformandoli in bersaglì».
Il ministro della Difesa israeliano lsrael Katz ha commentato su X la pubblicazione da parte dell'Iran di una «lista degli assassini» contenente alti funzionari israeliani «destinati all'eliminazione». Katz ha avvertito Khamenei di «guardare il cielo e ascoltare eventuali ronzii» quando esce dal bunker. Nell'elenco figurano lo stesso Katz, Benjamin Netanyahu e il rabbino capo militare Eyal Krim.
Ieri il premier italiano Giorgia Meloni ha avuto un colloquio telefonico con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che ha elogiato il ruolo «fondamentale» dell'Italia nel sostegno umanitario. Meloni ha espresso preoccupazione per l'escalation militare israeliana e definito «ingiustificabile» la situazione a Gaza, chiedendo la fine immediata delle ostilità. Ha ribadito che Hamas deve liberare gli ostaggi e non potrà governare la Striscia. L'Italia prosegue con l'iniziativa Food far Gaza, inclusi lanci aerei e l'evacuazione di oltre 150 bambini malati, con altri in arrivo. Meloni ha confermato l'impegno per la stabilizzazione e ricostruzione di Gaza e la soluzione dei due Stati, fissando un incontro con Abbas all'Onu. Sempre a proposito dell'impegno italiano, Palazzo Chigi coordina un'operazione umanitaria per trasferire in Italia 34 bambini di Gaza bisognosi di cure e 91 familiari. Intanto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani ha dichiarato: «Siamo aperti al riconoscimento della Palestina, ma dobbiamo lavorare alla costruzione di uno Stato palestinese», precisando che «la Cisgiordania e Gaza devono essere riunificate, senza alcun ruolo per Hamas».
Donald Trump, dal canto suo, ha dichiarato ieri ai media israeliani di non ritenere possibile, nelle attuali condizioni, che Hamas accetti un accordo per liberare gli ostaggi, definendo l'obiettivo «molto difficile». Intervistato da Channel 12 News,l'expresidente ha evitato di commentare la decisione di Israele di conquistare Gaza City, ribadendo che spetta a Gerusalemme stabilire come riportare a casa gli ostaggi e chiudere il conflitto. Ha aggiunto che Hamas «non può restare a Gaza» e che bisogna «ricordare il 7 ottobre».
(La Verità, 12 agosto 2025)
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Israele-Iran: “Foreign Policy”, la prossima guerra è vicina e sarà più sanguinosa
ROMA - La prossima guerra tra Israele e Iran sarà più sanguinosa e dura di quella del giugno scorso perché lo Stato ebraico non è stato in grado di piegare la Repubblica islamica, replicando il modello seguito in Siria o Libano.
Questo il contenuto centrale di un’analisi redatta dal think tank statunitense “Foreign Policy”, secondo cui “i calcoli strategici di entrambi i Paesi fanno pensare allo scoppio di un nuovo conflitto nel giro di pochi mesi. Israele ha dimostrato di avere una dottrina militare basata su attacchi preventivi per impedire agli avversari di sviluppare un potere relativo in grado di instaurare un ordine regionale sfavorevole allo Stato ebraico.
Allo stesso modo, la leadership iraniana ha capito che la deterrenza è l’unica arma per fronteggiare Israele e sta ricostruendo il suo arsenale militare”. Secondo il report dell’istituto statunitense, da quale parte penderà l’ago della bilancia nella prossima guerra dipenderà dalla risposta al seguente interrogativo: “Israele riuscirà a rifornire il suo arsenale anti-missile prima che l’Iran ricostituisca la propria scorta di missili o si doti anch’esso di un sistema anti-aereo più sofisticato? La spirale della guerra sembra aver innescato un gioco al rialzo tra le parti dove l’accrescimento della deterrenza del rivale viene visto come una diretta minaccia al potere relativo dell’opponente”.
(Agenzia Nova, 12 agosto 2025)
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L'indispensabile unità...
Gaza 2005 - Effetti del "piano di disimpegno"
di Guy Senbel
1 LUGLIO 2005 - Questa settimana hanno avuto inizio le prime operazioni di una certa importanza concernenti il piano di disimpegno.
Purtroppo, gli scontri tra ebrei, che tanto temevamo, si sono verificati. Grazie ai suoi corrispondenti, "Guysen" ha ricoperto quasi tutti gli avvenimenti drammatici di questi ultimi giorni, relativi al ritiro da Gush Katif. La raccolta di tutte queste informazioni non ha fatto che allarmare ancora di più, se era il caso, il nostro comitato di redazione.
Mercoledì 29 giugno eravamo in quattro sul posto: tre giornalisti dell'agenzia e Arié Lévy, il coordinatore di "Hatzalah-Yoch" e di "Soccorritori senza Frontiere", oltre che un partecipante occasionale per conto di "Guysen".
Due missioni ci aspettavano. Arié ed io, complici da sempre, dovevamo valutare le necessità in termini di soccorso se la situazione in Gush Katif fosse degenerata. I nostri due confratelli dovevano occuparsi invece dell'eventuale evacuazione della casa che gli ebrei avevano occupata dopo che Tsahal aveva distrutto alcune abitazioni edificate sulla spiagga di "Shirat Hayam", località situata sul litorale di Gush Katif.
Sapevamo che era impossibile per il governo lasciare questa casa palestinese nelle mani degli oppositori al piano di ritiro.
Presentivamo che mercoledì sera sarebbe stato il giorno ritenuto propizio dai servizi di sicurezza per tentare di sloggiare gli "squatters".
Le nostre previsioni si sono rivelate esatte. Per tutta la giornata ci sono stati brevi scontri tra gli oppositori al piano di ritiro, i palestinesi che occupavano una casa vicina, e i servizi di sicurezza che tentavano di mantenere l'ordine.
La vita qualche volta è piena di paradossi.
Come si conviene, Arié Levy aveva il suo kit di soccorso in macchina. Durante la giornata ha curato un ufficiale ferito alla testa, due giornalisti, di cui uno di "Guysen", dei manifestanti, e anche sé stesso, con il mio aiuto, perché aveva ricevuto un sasso sulla mano.
Ha cercato soprattutto di soccorrere un palestinese, di cui non si sa ancora che cosa stesse a fare lì, e che ha corso il rischio di essere linciato.
Qualche eccitato ha cercato di impedire ad Arié di intervenire, ma ci vuol altro per impedirgli di salvare una vita, quale che sia.
Con nostro grande sgomento, Arié ha dovuto rassegnarsi a rimanere a distanza dal ferito perché un soldato si era messo vicino a quest'ultimo al fine di proteggerlo da ogni tentativo di linciaggio. Per fortuna, quel palestinese è stato portato via molto velocemente da Tsahal. Ormai è fuori pericolo.
Qui devo ricordare che questo editoriale è redatto senza alcun partito preso. Nella nostra redazione sono rappresentate quasi tutte le componenti della società israeliana e tutte le opinioni pro e contra il piano di disimpegno.
Resta il fatto che tutto il mondo, e in particolare i nostri nemici, perché bisogna pure dire pane al pane e vino al vino, è stato testimone del fatto che degli ebrei si sono reciprocamente maltrattati.
Che vergogna!
Siamo stati testimoni di scene strazianti, ma anche incredibili. Dei soldati molto commossi usavano la loro forza contenendo la loro violenza. Da parte dei manifestanti israeliani segnaliamo delle invettive, qualche volta degli insulti, ma nessuna aggressione fisica contro i soldati.
I poliziotti ci andavano dentro un po' più forte. Tuttavia, anche lì, nonostante che le immagini televisive mostrino una certa brutalità, se quei poliziotti non si fossero contenuti, il conto delle vittime della giornata di mercoledì avrebbe potuto essere di decine di morti. Ci sono stati dei feriti, ma la maggior parte di questi sono dovuti al lancio di pietre da parte dei palestinesi.
Il giorno dopo è toccato all'hotel "Maoz Yam" ad essere evacuato. Di nuovo, le stesse scene strazianti ma nessun ferito: non c'erano palestinesi...
• La nazione è in pericolo!
Oggi in Gush Katif sono rimasti soltanto gli abitanti d'origine, che non hanno niente a che vedere con gli "evacuati" sopra menzionati.
In grandissima maggioranza sono dei "legalitari", anche se molti di loro non capiscono per quali motivi devono lasciare tutto.
Su di loro gravano tutti i fantasmi malsani e i pregiudizi infondati che gli hanno affibbiato le "opinioni pubbliche" di quasi tutte le nazioni. Gli "sporchi coloni", come si compiacciono di definirli i media corrotti, di sporco hanno soltanto i loro vestiti e le loro mani dopo una giornata di lavoro spossante nelle serre e nei campi.
Non è con loro che gli amanti di sangue e di violenza potranno estinguere la loro sete. Anche questo, abbiamo il dovere di gridarlo, alto e forte. Tutti i paesi e la diaspora non devono dimenticarlo.
Il governo ha preso una decisione. Buona o cattiva che sia, bisogna accettarla nel reciproco rispetto.
Ma è anche necessario che coloro che sono a favore del piano di disimpegno abbiano compassione per coloro che stanno per lasciare alle spalle un intero lembo della loro vita. Non devono dimenticare che il più grande degli indennizzi non rimpiazzerà mai i ricordi, le sofferenze, ma anche le gioie, che i loro fratelli di Gush Katif devono abbandonare.
Chi è fra di noi, ebreo di una qualsiasi nazione, che non ha provato le angosce dell'esodo, subito se non da lui stesso almeno dai suoi genitori o dai suoi nonni? Loro, che impropriamente sono stati chiamati "dei coloni", stanno per subire un esodo interiore, probabilmente il più terribile di tutti, affettivamente parlando.
Non dobbiamo mai dimenticare che alle nostre porte, i nostri nemici, i nostri detrattori, i nostri "cari" antisemiti di ogni risma non aspettano altro che di vederci uccidere fra di noi per poterci finire meglio.
Israele è un'"immensa" piccolissima nazione. Dobbiamo saperla conservare e questo passa attraverso l'unità, anche se questa ha un gusto d'amarezza.
(Guysen Israel News, 1 luglio 2005)
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Quando Israele si ritirò da Gaza: “Fu un errore, si basava su un’idea che ignorava la realtà”
Intervista a Fiamma Nirenstein
di Luca Spizzichino
Vent’anni fa Israele lasciava la Striscia di Gaza, nel quadro del piano di disimpegno voluto dal premier Ariel Sharon, dopo che l’aveva occupata nel 1967, in seguito alla guerra di difesa vinta contro l’Egitto, entrato nella coalizione araba che durante la Guerra dei Sei Giorni tentò di distruggere lo Stato ebraico. Un gesto che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto aprire la strada alla pace con i palestinesi, ma che per molti israeliani – e per la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein – ha rappresentato la premessa perché Gaza diventasse la fortezza da cui Hamas ha lanciato tutte le sue guerre. All’epoca inviata de La Stampa, Nirenstein seguì passo passo lo sgombero, raccontandolo nel libro La sabbia di Gaza. Cronache di uno sgombero forzato, edito da Rubbettino. Oggi, alla luce degli eventi e dell’attuale conflitto, ripercorre per noi quei giorni e le conseguenze di quella scelta.
- Lei era a Gaza durante lo sgombero del 2005. Che ricordo ha di quelle giornate?
Quello sgombero fu un evento gigantesco e pieno di dolore e conflitto per la coscienza israeliana. Dal 1967, quegli ottomila cittadini, chiamati malignamente dall’opinione pubblica internazionale “coloni”, ma in realtà pieni di ideali e buoni sentimenti, vivevano lì, in insediamenti sulle spiagge, coltivando pomodori e fiori. Erano lontani dall’immaginario aggressivo diffuso in Occidente: famiglie che amavano quella terra, pronte a difendersi, ma dedite al lavoro. Ricordo una giovane madre con la sua bambina in una casetta sulla sabbia, un pianoforte e una pistola in casa, perché il terrorismo era già una minaccia che aveva fatto centinaia di morti tra gli abitanti ebrei della zona. Lo sgombero significò strappare quelle persone dalle loro case, tra le lacrime ma anche con obbedienza agli ordini dello Stato, nonostante le proteste.
- E cosa accadde con il ritiro?
Il governo israeliano donò le serre alla neonata entità nella Striscia, che avrebbe dovuto costituire il primo Stato palestinese libero. Ma furono distrutte immediatamente: fiori, pomodori, case vandalizzate, sinagoghe rase al suolo, cimiteri profanati. In breve tempo Hamas prevalse sull’Autorità Palestinese, anche con violenze brutali. Subito dopo iniziarono i lanci di razzi verso Israele, esattamente come Hamas aveva promesso.
- Perché Sharon prese una decisione tanto radicale?
Sharon era stato un sostenitore degli insediamenti, ma voleva porre fine allo scontro storico con i palestinesi. Gli Accordi di Oslo e le parole sulla pace non avevano portato risultati. Pensò che liberare completamente Gaza dalla presenza israeliana avrebbe obbligato i palestinesi a comportarsi come una comunità indipendente e responsabile. Era una volontà di pace assoluta, attuata senza condizioni, ma molti oggi la giudicano un’ingenuità. Parte della disperazione di quegli ottomila sradicati era la certezza di rappresentare “lo scudo di Israele”: lo credevano e avevano ragione. Avevano compreso che Hamas avrebbe trasformato Gaza in una base di aggressione.
- Oggi Gaza è molto diversa da allora
La differenza sostanziale è che è diventata la fortezza sotterranea progettata per la guerra contro Israele. All’epoca c’erano circa 1,2 milioni di palestinesi, oggi sono 2 milioni: questo per chi dice che Israele starebbe perseguendo un genocidio della popolazione palestinese. Gli insediamenti umani sono costruiti sopra la rete di gallerie per sostenere le operazioni militari, utilizzando i civili come scudi umani. È per questo che la guerra lì è così complessa.
- Arriviamo al 7 ottobre 2023.
La strada che porta a quel giorno è diritta. Nei mesi precedenti era già evidente che gli uomini di Hamas si esercitavano all’invasione nella no man’s land, ma non si volle credere a un pericolo imminente. L’idea errata, figlia della speranza ideologica di pace, era che Hamas non avrebbe mai osato portare avanti il suo progetto di sterminio. Quel giorno Israele ha pagato un prezzo altissimo per quell’illusione.
- Come viene vista oggi in Israele la scelta del disimpegno?
Come un errore. Così come gli Accordi di Oslo, si basava su un’idea che ignorava la realtà. Oggi, anche chi vorrebbe fermare la guerra sa che Hamas va eliminato e che è impossibile dialogare persino con l’Autorità Palestinese, che non ha mai condannato il 7 ottobre e continua a pagare stipendi ai terroristi. Il suo ideale non è “due popoli, due stati”, ma la distruzione di Israele.
- Quali sono gli obiettivi attuali di Israele nella Striscia?
Riprendere gli ostaggi, togliere a Hamas lo scettro del potere e impedirne il ritorno al governo. Non si tratta di occupazione permanente, ma di operazioni mirate, soprattutto a Gaza City, per ridurre la minaccia. C’è anche un accordo con gli Stati Uniti per ampliare l’aiuto umanitario con molti nuovi centri operativi. Netanyahu ha chiarito che Israele non vuole restare, ma solo garantire che Hamas non torni al potere e che il futuro di Gaza finisca nelle mani di un gruppo di forze arabe di cui Israele si possa fidare.
- Qual è il suo giudizio sul ruolo della comunità internazionale in questa crisi?
La Lega Araba ha detto che Hamas deve essere esautorato e levato di mezzo: questo Netanyahu l’ha molto apprezzato. Allarga anche il concetto degli Accordi di Abramo. Ma alcune leadership occidentali, come quella di Macron, preferiscono parlare di Stato palestinese invece di pretendere la liberazione degli ostaggi.
- E sul modo in cui viene gestita e riportata l’informazione sui media?
La stampa occidentale, inclusi grandi quotidiani italiani come Corriere della Sera e Repubblica, continua a basarsi esclusivamente sulle fonti di Hamas: il Ministero della Sanità di Gaza, l’Agenzia di Stampa palestinese e Al Jazeera. Ignorano invece le fonti israeliane. È una grave distorsione dell’informazione e una vergogna che alimenta una spaventosa ondata di criminalizzazione di Israele, contribuendo allo tsunami di antisemitismo che ha inondato anche l’Italia.
(Shalom, 11 agosto 2025)
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"Notizie su Israele" ha seguito fin dall'inizio la dolorosa (e vergognosa) vicenda del forzato sgombero (chiamato pudicamente "disimpegno") di cittadini israeliani dalla striscia di Gaza. Molti articoli sull'argomento si possono trovare ancora oggi nel sito. Ci proponiamo di riportarne alcuni nei prossimi giorni, di cui quattro oggi, scritti in quell'agosto di venti anni fa.
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"Oggi Gaza, domani Gerusalemme"
di Daniel Pipes
9 AGOSTO 2005 - Coloro che criticano Israele hanno ragione? Lantisemitismo dei palestinesi, la loro industria del suicidio e le azioni terroristiche sono frutto delloccupazione della Cisgiordania e di Gaza? Ed è vero che questi orrori avranno fine solo in seguito al ritiro dai Territori dellesercito e dei civili israeliani?
La risposta non tarderà ad arrivare. A partire dal prossimo 15 agosto, il governo israeliano sfratterà circa 8.000 israeliani residenti a Gaza e consegnerà le loro terre allAutorità palestinese. Oltre a costituire un singolare evento della storia moderna (nessuna altra democrazia ha sradicato forzatamente migliaia di propri cittadini che professano una certa religione dalle loro legittime abitazioni) ciò rappresenta altresì un insolito esperimento dal vivo di scienza sociale.
Ci troviamo al cospetto di una linea di demarcazione ermeneutica. Se coloro che criticano Israele hanno ragione, il ritiro da Gaza non farà altro che migliorare gli atteggiamenti dei palestinesi nei confronti dello Stato ebraico, arrivando a porre fine allistigazione della violenza e sancendo un forte calo degli attentati terroristici cui farà seguito lapertura di nuovi negoziati e un accordo globale. Dopotutto, la logica vuole che se loccupazione rappresenta il problema, una volta che essa cesserà, anche se in modo parziale, si arriverà a una soluzione.
Ma io preconizzo un esito ben differente. Visto che circa l80% dei palestinesi continua a non voler riconoscere la reale esistenza di Israele, i segnali di debolezza mostrati dallo Stato ebraico, come limminente ritiro da Gaza, provocheranno piuttosto un intensificarsi dellirredentismo palestinese. Acquisendo il loro nuovo dono senza mostrare un briciolo di gratitudine, i palestinesi concentreranno la loro attenzione su quei territori che gli israeliani non hanno evacuato. (Questo è quanto accadde dopo che lesercito israeliano abbandonò il Libano.) Il ritiro non sarà fonte di cortesia ma di una nuova euforia di rigetto, di una maggior frenesia di rabbia antisionista, e di una recrudescenza della violenza anti-israeliana.
Gli stessi palestinesi lo dicono apertamente. Ahmed al-Bahar uno dei leader di Hamas a Gaza asserisce che: Dopo oltre quattro anni di Intifada, mai prima di oggi Israele si è trovato in uno stato di retrocessione e di debolezza. Gli eroici attacchi di Hamas hanno smascherato la debolezza e la volubilità dellimpotente establishment di sicurezza sionista. Il ritiro segna la fine del sogno sionista ed è indice del declino morale e psicologico dello Stato ebraico. Noi riteniamo che la resistenza sia lunico mezzo in grado di esercitare pressioni sugli ebrei.
Sami Abu Zuhri, un portavoce di Hamas, sostiene altresì che il ritiro è dovuto alle operazioni di resistenza palestinesi (
) e noi continueremo a opporre resistenza.
Altri personaggi sono ancora più precisi. Nel corso di una manifestazione popolare svoltasi a Gaza City lo scorso giovedì, circa 10.000 palestinesi si sono messi a ballare, cantare e a scandire lo slogan: Oggi a Gaza, domani a Gerusalemme. Domenica, Jamal Abu Samhadaneh, leader dei Comitati per la Resistenza Popolare di Gaza, ha annunciato quanto segue: Trasferiremo le nostre cellule in Cisgiordania ed ha ammonito che Il ritiro non sarà completo senza la Cisgiordania e Gerusalemme. Ahmed Qurei dellAutorità palestinese asserisce altresì: La nostra marcia si fermerà solo a Gerusalemme.
Le intenzioni palestinesi preoccupano perfino la sinistra israeliana. Danny Rubinstein, esperto di questioni arabe per Haaretz, osserva che il premier Ariel Sharon ha deciso di lasciare Gaza solo dopo un intensificarsi della carneficina anti-israeliana. Anche se quegli attacchi non ebbero luogo perché Sharon escogitò lidea del disimpegno, i palestinesi sono sicuri che sia il caso di perpetrarli e ciò rafforza lopinione da loro nutrita che Israele capisce solo il linguaggio degli attacchi terroristici e della violenza.
Israel National News ha raccolto altri commenti della sinistra:
- Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia e leader del Partito Yahad/Meretz: Esiste un reale pericolo che in seguito allattuazione del piano di disimpegno, in Cisgiordania si intensificheranno gli episodi di
violenza, diretti a ottenere la stessa cosa raggiunta a Gaza.
- Lex ministro degli Esteri Shlomo Ben-Ami, membro del Partito laburista: Un ritiro unilaterale perpetua limmagine di Israele, che lo ritrae come un paese che sotto pressione fugge via (
) Fatah e Hamas pensano di doversi preparare alla terza Intifada stavolta in Cisgiordania.
- Ami Ayalon, ex capo del Servizio di sicurezza: Il ritiro senza ottenere nulla in cambio è soggetto ad essere interpretato da parte di alcuni palestinesi come una resa. (
) Cè un grosso rischio che subito dopo lattuazione del piano di disimpegno vi sarà una recrudescenza della violenza.
- Eitan Ben-Eliyahu, ex comandante dellaeronautica militare: Non cè il rischio che il ritiro garantirà una stabilità a lungo termine. Il piano di disimpegno così come è può solo condurre a una recrudescenza del terrorismo.
Prevedo che gli eventi proveranno che le critiche a Israele sono totalmente infondate ma coloro che le hanno mosse non impareranno nessuna lezione. Senza lasciarsi toccare dai fatti, costoro chiederanno ulteriori ritiri israeliani. Il danno auto-inflittosi da Israele sta preparando la via ad altri disastri.
(New York Sun, 9 agosto 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)
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I coloni religiosi di Kfar Darom determinati a resistere all'evacuazione forzata
10 AGOSTO 2005 - I coloni religiosi di Kfar Darom, i pionieri degli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, sono determinati a resistere all'evacuazione forzata. Tra una settimana inizierà il ritiro israeliano dalla Striscia, e il portavoce di Kfar Darom, Asher Mivtzari, ricorda che si tratta dell'unico dei 21 insediamenti della regione che si basa sulla Torah, la legge religiosa ebraica. Mivtzari sottolinea il carattere sacrale del sito biblico di Kfar Darom, "che anche per gli arabi rappresenta il simbolo del ritorno degli ebrei a Eretz Israel", le cui frontiere bibliche includono la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.
Dopo essere stati cacciati nel 1929, nel corso di una rivolta araba in Palestina, allora sotto mandato britannico, gli ebrei tornarono a Kfar Darom nel 1946. Nel 1948 il villaggio si oppose con tenacia all'esercito egiziano, in una dura battaglia che gli valse il soprannome di "invincibile". La comunità è quindi risorta dalle sabbie nel 1970, aprendo la via agli altri coloni che hanno dato vita agli altri insediamenti. Kfar Darom si trova nel cuore della località palestinese di Dei el Balah. I residenti della colonia sono particolarmente fieri per essere riusciti a sviluppare una agricoltura prospera su colline di sabbia. Anche per questo motivo intendono ignorare l'ordine di evacuazione, e proseguire nel loro lavoro come se nulla fosse.
Vicino a Kfar Darom hanno piazzato le tende alcuni simpatizzanti dei coloni,
giunti da altre parti di Israele per manifestare il loro sostegno.
Nitza Kahan è giunta da Gerusalemme con nove dei suoi dieci figli. Come gli altri simpatizzanti, si dice convinta che il ritiro sarà solo temporaneo: "Le altre volte in cui gli ebrei sono stati cacciati, poi sono tornati. Questa non è una speranza, ma una certezza, perché noi sappiamo che torneremo a Kfar Darom se il villaggio sarà smantellato".
(Vita.it, 10 agosto 2005)
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Hana, la madre invalida che sfida Sharon
Menomata per un proiettile che le spararono gli arabi in un insediamento della Striscia di Gaza è diventata il simbolo di chi si oppone al ritiro.
di Gian Micalessin
11 AGOSTO 2005 - KFAR DAROM (Gaza) - «Chi mi spingerà fuori di qua si ricorderà per tutta la vita di averlo fatto. Il soldato che mi trascinerà via da questa casa non potrà mai perdonarsi di aver sloggiato un'invalida, di aver costretto lei e i suoi figli ad abitare in un prefabbricato. Chi ci guarderà negli occhi quel giorno non dimenticherà il nostro sguardo, non scorderà la nostra sofferenza e un giorno maledirà chi l'ha costretto a farlo. Non ci sarà violenza, non ci saranno atti ostili, sarà la nostra unica risposta a chi ebreo ha condannato alla deportazione altri ebrei». Neppure oggi, a cinque giorni dalla fine di tutti i suoi sogni, è facile dimenticare lo sguardo di Hana, un balenio nerastro in un volto slavato coperto da un velo bianco. Sotto, immagini la testa rasata imposta dalla legge ortodossa alle donne sposate. Di Hana sembrano muoversi solo quegli occhi neri, mentre il suo corpo immobile sulla carrozzina t'annega in un diluvio di racconti e parole.
Hodiya le sta accanto, le tiene la mano. Quel giorno di quattro anni fa aveva due anni, compiuti da poco. Hana Barat, 40 anni oggi, la teneva sulle gambe. Papà Eliezer guidava. Loro li aspettavano alle porte dell'insediamento, al cancello di Kfar Darom. Hana sentì gli spari, guardò suo marito sgommare in un inferno di fuoco, senti la pallottola uscirle dalla spalla, vide Hodiya sanguinare. Voleva prenderla, coprirla, proteggerla, ma il suo corpo non le rispondeva. Quando Eliezer fermò la macchina, Hodiya piangeva ancora. Hana disse «non sento più le gambe». Hodiya guarì in due giorni.
«Vai tesoro, mostra la maglietta ai signori». Hodiya scompare di là, torna con una canottierina ingrigita, screziata di macchie rugginose. Hana l'afferra, la mostra. «Le ho detto di non buttarla mai via, di conservare il sangue di quel giorno, di ricordarsi sempre che Kfar Darom è stato bagnato anche dal suo sangue». Hodiya osserva quel grumo della propria vita , l'accarezza a testa bassa. Dietro, sul lungo tavolo della sala da pranzo, dodici ragazze, dodici volti adolescenti. Mani strette alle tempie, occhi reclinati sui libri sacri. Nell'aria, a ogni silenzio di Hana, un salmodiare lento, esile come un sussurro. I salmi delle geremiadi, le lamentazioni per la distruzione del sacro tempio caduto per due volte sempre nel nono giorno del mese di Av.
Ma quest'agosto dalle colonie alla città santa il pianto per le sconfitte del passato si mescola alla sofferenza per il «tradimento» di Sharon, molto sentito in Israele se si pensa che la maggioranza degli elettori del Likud gli preferisce ormai quel Bibi Netanyahu che di ritiro da Gaza non vuol sentir parlare. Da qui, prima linea del disimpegno, fino al «sancta sanctorum» della tradizione ebraica, rabbini e militanti della destra religiosa lanciano l'estrema esortazione al Signore. «Per non farci cacciare dobbiamo farlo tutti assieme - ripete convinta Hana - solo così il Signore, forse ci ascolterà». Pregano le altre tre figlie di Hana, pregano le loro cugine e quelle delle quattro famiglie riunitesi per attendere tutti assieme l'inevitabile cacciata. Pregano e salmodiano, ondeggiando in una riverenza ancestrale, i settantamila fedeli assiepati al Muro del Pianto.
A guidare questa supplica di massa sono arrivati nella Gerusalemme antica l'ex capo rabbino Avraham Shapira e Ovadia Yosef, leader spirituale degli ultraortodossi dello Shas. Davanti hanno una catena di uomini barbuti e palandrane nere, di riccioli e kippa. Su quella distesa di vesti lugubri, strabordate oltre le mura antiche fino all'asfalto della moderna Gerusalemme, spiccano bandiere e fasce arancione diventate colore e simbolo della lotta al ritiro imposto dal governo. Un unico grande abbraccio politico e religioso unisce la città santa e la casa di Hana nella piccola Kfar Darom. Lì dentro Hana un anno fa ha avuto il suo ottavo figlio. Il primo da quando è rimasta bloccata su quella carrozzina. Hodiya le posa sulle ginocchia quel batuffolo di carne rosa e capelli biondi, corre via, torna con in braccio il tubo di piombo e le alette dell'ultima granata di mortaio piovuta davanti a casa. Sembra una sceneggiata macabra di vita e morte, l'insano folle gioco di una famiglia autocondannatasi a sopravvivere nel cuore di un conflitto per compiacersi nella propria sofferenza. Ma i cinquecento della piccola Kfar Darom la pensano tutti come Hana. E i mille intrusi infiltratisi notte dopo notte per dar loro man forte ai «forti» di Kfar Darom hanno fatto di Hana un simbolo.
Hana ti mostra il suo ultimo bimbo, il figlio del proprio strazio: «È nato lo stesso giorno in cui la Knesset approvò il disimpegno, l'ho chiamato Amichai Yisrael, significa il popolo d'Israele vive. Amichai è nato dal mio corpo ferito e sarà il simbolo della nostra resistenza ad ogni ferita».
(Il Giornale, 11 agosto 2005)
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La guerra continua
24 AGOSTO 2005 - E' fatta! I territori "occupati" dagli insediamenti ebraici sono stati sgomberati. I "coloni" si sono lasciati "trasferire" più velocemente e più pacificamente del previsto. La comunità internazionale ha applaudito, i potenti della terra si sono congratulati con i capi d'Israele per la relativa calma con cui il tutto è avvenuto. «E' un avanzamento verso la pace», hanno detto, mentre in realtà è un arretramento del fronte in una situazione di guerra. Ed è una guerra feroce, quella che conducono gli arabi, simile a quella che Hitler scatenò contro la Russia. Una guerra in cui non è in gioco la terra, ma le persone. E' guerra contro un tipo umano, non contro una nazione. Proprio la calma in cui il "trasferimento" è avvenuto dovrebbe far riflettere e provocare forse qualche problema di coscienza, soprattutto negli spettatori internazionali che hanno guardato e applaudito lo spettacolo. I prepotenti "coloni" erano dunque gente tranquilla, a quel che sembra. Perché se ne sono dovuti andare? Perché il prodotto di anni di lavoro, case, aziende, piantagioni, tutti beni di cui anche altri avrebbero potuto godere, hanno dovuto essere distrutti? Si conosce la risposta: perché su quella terra deve nascere il futuro stato palestinese, il quale, dopo le dovute "prove di buona volontà" da parte dei vicini ebrei, vivrà in pace con l'attuale stato israeliano. E perché mai in uno stato arabo che vivrebbe in pace con lo stato ebraico non potrebbe vivere una piccola minoranza di ebrei, quando nel vicino stato ebraico vivono da anni centinaia di migliaia di arabi? Sembra che per far nascere uno stato palestinese sia assolutamente indispensabile che sulla sua terra non si trovi traccia di ebrei. E la cosa sembra ragionevole, anche a molti ebrei. Ma è questo il significato della parola "pace"? Vivere in pace per gli arabi significa non essere disturbati dalla presenza di ebrei? Si dirà che i "coloni" volevano il grande Israele, e che occupavano illegittimamente un territorio non loro. Potrebbe anche essere, ma quanto alle intenzioni, sarebbe stato sufficiente far sapere loro che erano desideri destinati ad essere vanificati; e quanto alla legittimità della loro presenza su quella terra, era una cosa che poteva e doveva essere verificata soltanto dopo avere costituito uno stato di diritto, e non prima. Su questo avrebbe dovuto esercitare la sorveglianza la comunità internazionale: avrebbe dovuto esigere che prima di tutto su quella terra si costituisca uno stato di diritto, in cui l'autorizzazione a vivere in certe zone sia stabilita dalla legge, e non dagli attentati terroristici. I capi delle nazioni avrebbero dovuto dire: «Nascerà uno stato palestinese soltanto quando gli arabi avranno dato prova di saper accettare sulla loro terra anche la presenza di ebrei, e non solo come turisti, ma anche come cittadini dello stato o come cittadini stranieri che hanno dei possedimenti in una nazione estera, come accade in tutte le parti del mondo.» Avrebbe dovuto essere questa la "prova di buona volontà" da richiedere ai palestinesi. Ma questo non è stato fatto. «Prima di tutto gli ebrei se ne devono andare, poi si potrà parlare», questa è la filosofia corrente.
Nessuno s'illuda: la guerra continua. M.C.
(Notizie su Israele, 24 agosto 2005)
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L'orologio di Dio continua a ticchettare
In un'epoca piena di incertezza e speculazioni sul futuro, vale la pena dare un'occhiata alla Bibbia: come ticchetta l'orologio cosmico di Dio e cosa ci rivela il libro di Daniele sui piani di Dio per Israele e il mondo? Perché studiare le profezie bibliche è fondamentale per ogni credente: un'esplorazione e un incoraggiamento.
di Philipp Ottenburg
Nel nostro tempo, ci ritroviamo sempre più spesso a porci una domanda fondamentale: cosa accadrà dopo? È un interrogativo che affascina e inquieta, e che molti cercano di affrontare con risposte di vario genere. Tuttavia, non tutte queste risposte si distinguono per sobrietà o equilibrio. Al contrario, alcune teorie speculative ci appaiono così convincenti e ben strutturate da finire, consapevolmente o meno, per diventare parte delle nostre convinzioni personali. Questa dinamica è evidente anche in ambito religioso. I testi biblici, infatti, possono essere impiegati per sostenere numerose interpretazioni: spesso coerenti, talvolta persino suggestive. Eppure, proprio la molteplicità di argomentazioni rischia di generare confusione, smarrimento e, in certi casi, disillusione. È forse per questo motivo che molti credenti scelgono di mettere da parte lo studio delle profezie, considerandole incerte o eccessivamente complesse, soggette a interpretazioni divergenti. Si potrebbe pensare che sia un atteggiamento rinunciatario, ma in realtà nasce da un sincero desiderio di non cadere in errori dottrinali o in eccessi dogmatici. Rimane comunque salda la convinzione che la Bibbia abbia, in ultima analisi, ragione. Ma la domanda che continua ad affacciarsi è: sì, la Bibbia ha ragione, ma in che modo Dio realizzerà concretamente ciò che ha promesso? D'altra parte, esistono anche coloro che si aggrappano a un'unica visione profetica, ritenendola l'unica corretta, escludendo ogni altra lettura come errata. Si può inciampare da entrambe le parti: nell'indifferenza o nel fanatismo. In questo contesto, il profeta Daniele ci offre un esempio prezioso. Il capitolo 9 del suo libro rappresenta un punto di riferimento per comprendere come affrontare il tema delle profezie con equilibrio e discernimento. In esso, Dio rivela a Daniele cosa accade quando il Suo orologio universale continua a scandire il tempo della storia. Vale la pena soffermarsi attentamente sull'intero passaggio, dai versetti 1 a 27, per coglierne il profondo significato.
• Daniele prestò attenzione ...
La serietà dell'amore di Dio e il contesto profetico di Daniele 9:
«Nel primo anno di Dario, figlio di Assuero, della stirpe dei Medi, che fu fatto re del regno dei Caldei, il primo anno del suo regno, io, Daniele, meditando sui libri, vidi che il numero degli anni di cui l'Eterno aveva parlato al profeta Geremia, durante i quali Gerusalemme doveva essere in rovina, era di settant'anni. Volsi la mia faccia verso il Signore Iddio, per dispormi alla preghiera e alle suppliche, con digiuno, con il sacco e con la cenere.» (Daniele 9:1-3).
Il libro di Daniele si distingue per una visione ampia delle vicende delle nazioni, ma nel capitolo 9 lo sguardo si restringe, focalizzandosi in modo particolare sul popolo eletto d'Israele, immerso nel tumulto degli eventi storici. Prima di addentrarci in questo passaggio, è opportuno compiere un passo indietro per comprendere a fondo il dramma che lo precede. Torniamo dunque a Mosè, in particolare al capitolo 28 del Deuteronomio. Per comando di Dio, Mosè trasmise al popolo d'Israele un messaggio chiaro e solenne: la benedizione sarebbe stata il frutto dell'obbedienza, la maledizione la conseguenza della disobbedienza. Il Signore pone il suo popolo dinanzi a una scelta netta: vita o morte, benedizione o maledizione. Leggendo queste parole, si percepisce con forza l'urgenza dell'ammonimento, che si fa via via più intenso, anticipando il tono delle profezie successive. Se Israele avesse ubbidito, le benedizioni promesse sarebbero state concrete e terrene: fertilità, salute, prosperità e protezione. Nella Chiesa, tali benedizioni assumono oggi una dimensione spirituale, ma all'epoca erano promesse materiali. In caso di disobbedienza, invece, Dio annunciava maledizioni altrettanto tangibili. Ed è interessante notare come il testo biblico dedichi maggiore spazio alle maledizioni che non alle benedizioni. Qualcuno ha detto: la benedizione è incremento di vita, la maledizione è perdita. L'elenco delle maledizioni comprende infertilità, malattie, carestie, disfatte. A una lettura superficiale, Dio potrebbe sembrare severo, persino crudele - un'obiezione spesso sollevata da chi conosce poco le Scritture. Ma chi ama la Parola di Dio sa che questi giudizi non sono segno di assenza d'amore, bensì della sua intensità. La disciplina divina non nasce da indifferenza, ma da zelo. Qualcuno disse: l'ira di Dio è la temperatura del suo amore divorante. Sì, sarebbe ben peggio se Dio restasse indifferente. Immaginate un Dio che si limiti a dire: "Fai pure ciò che vuoi". Sarebbe una condanna peggiore del castigo. Nei capitoli 28 e 30 del Deuteronomio è già delineata, in modo sorprendentemente lucido, la storia d'Israele: l'esilio in Assiria e Babilonia, la caduta di Gerusalemme, la dispersione delle tribù nel 70 d.C. È una storia di giudizio, ma anche di ritorni, conversioni e raduni - eventi che continuano ancora oggi a meravigliarci. Ed è proprio qui che comincia la consolazione: anche le promesse di benedizione si realizzeranno, nella pienezza del futuro regno messianico. Ma prima deve compiersi pienamente il lato delle maledizioni. La Legge di Mosè, infatti, si rivolge alla carne, cioè alla volontà e alla forza umana. Ma l'uomo, da solo, non può osservarla. Israele disse con convinzione in Esodo 19:8: «E tutto il popolo rispose concordemente e disse: "Noi faremo tutto quello che l'Eterno ha detto". E Mosè riferì all'Eterno le parole del popolo». Ma i fatti dimostrarono che Israele non era in grado di mantenere l'impegno. In questo senso, il capitolo 7 di Romani è un riferimento chiave. Nonostante la conoscenza e la volontà, ciò che prevalse fu la trasgressione. Israele cadde sempre più nell'idolatria. Invece di influenzare le nazioni con la testimonianza del vero Dio, si lasciò contaminare dagli idoli dei popoli circostanti. Dopo Salomone, con i regni di Geroboamo e Roboamo, la decadenza fu rapida, nonostante l'operato di alcuni re fedeli. Poi venne l'esilio: prima le dieci tribù del nord deportate in Assiria, poi anche il regno di Giuda condotto a Babilonia. Tra i deportati vi erano Daniele e i suoi compagni, figure centrali in questo drammatico, ma profondo, capitolo della storia del popolo di Dio.
• Daniele e il ticchettio dell'orologio di Dio
Questo ci riporta a Daniele 1. Dio concesse a Daniele un ruolo di rilievo nel regno babilonese, elevandolo a interprete di sogni e a statista con incarichi governativi. Era un uomo di successo, stimato e influente. Eppure, nonostante l'importanza della sua posizione, Daniele continuava a leggere le Scritture. Vi prestava attenzione, con mente e cuore rivolti a Dio (Daniele 9:2). Egli meditava sul contrasto tra benedizione e maledizione, riconoscendo il legame diretto tra le profezie e gli eventi drammatici che stavano segnando il suo tempo: la distruzione di Gerusalemme, la caduta del tempio e l'esilio a Babilonia (Daniele 9:13). Scrive:
«Il primo anno del suo regno, io, Daniele, meditando sui libri, vidi che il numero degli anni di cui l'Eterno aveva parlato al profeta Geremia, durante i quali Gerusalemme doveva essere in rovina, era di settant'anni.» (Daniele 9:2).
Cosa fece Daniele in una situazione così carica di tensione, tra desiderio ardente e incomprensione profonda? Lesse la Scrittura. Non si rifugiò in ipotesi o in illusioni consolatorie. Meditò con attenzione su ciò che leggeva. Lasciò che la Parola penetrasse nel suo cuore. Cercò Dio con sincerità. E poi? Pregò. Pregò nel mezzo delle sue domande rimaste senza risposta. Pregò nella tensione del dubbio. Pregò pur non comprendendo pienamente il piano divino. Non si chiuse nel silenzio dell'attesa passiva, ma si rivolse a Dio con cuore aperto e spirito umile.
• Daniele pregò ...
Daniele si rivolse al Signore: «Volsi la mia faccia verso il Signore Dio per cercarlo ... » (Daniele 9:3). E sapete cosa colpisce profondamente in questo passo? L'assenza totale di accuse. Nessuna lamentela. Nessun dubbio sul fatto che Dio potesse aver sbagliato. Daniele è completamente allineato con la volontà di Dio. Non cerca giustificazioni, non attribuisce la colpa ad altri. Al contrario, confessa apertamente: «Hai ragione» (Daniele 9:7). Riconosce con lucidità ciò che era già stato annunciato nella Legge, in Deuteronomio 28: le calamità erano la conseguenza dell'infedeltà del popolo. E aggiunge con onestà disarmante:
«Non abbiamo implorato il favore dell'Eterno, del nostro Dio; non ci siamo allontanati dalle nostre iniquità e non siamo stati attenti alla sua verità.» (v.13).
E ancora, nei versetti 13-14:
«Come è scritto nella legge di Mosè, questa calamità ci è piombata addosso; tuttavia noi non abbiamo implorato il favore dell'Eterno, del nostro Dio; non ci siamo allontanati dalle nostre iniquità e non siamo stati attenti alla sua verità. L'Eterno ha vigilato su questa calamità e ce l'ha fatta piombare addosso; perché l'Eterno, il nostro Dio, è giusto in tutto quello che ha fatto, ma noi non abbiamo ubbidito alla sua voce».
Una dichiarazione straordinaria: Dio ha vegliato. Anche in ciò che percepiamo come negativo, Dio è vigile. Egli veglia per compiere esattamente ciò che ha detto, anche nel giudizio. Ogni parola, ogni promessa, persino ogni maledizione, si realizza esattamente come è stata pronunciata. Ma proprio questa fedeltà nel giudicare ci dà piena certezza: Dio veglierà con la stessa attenzione anche sulle Sue promesse di benedizione.
«Avverrà che, come ho vegliato su di loro per sradicare e per demolire, per abbattere, per distruggere e per nuocere, così veglierò su di loro per costruire e per piantare», dice il Signore. (Geremia 31:28).
Il tempo scorre, e l'orologio universale di Dio continua a ticchettare. Ma mentre lo fa, Dio vigila su ogni dettaglio, affinché la Sua Parola si compia, tanto per Israele quanto per noi. Egli veglia sul nostro cammino personale, affinché possiamo essere resi perfetti nel giorno di Cristo. Non dipende da noi. Dipende da Lui. Il Dio vivente e onnipotente veglia. È glorioso. La benedizione per Israele è certa. Perché Dio vigila su di essa. Daniele ci lascia una preghiera di straordinaria profondità. Una supplica in cui si identifica nei peccati del suo popolo. Non si pone al di sopra degli altri, non si distanzia dal giudizio. Si pente con sincerità, si lascia ferire dalla consapevolezza del peccato. E noi? Il peccato ci addolora ancora? Non solo il nostro, ma quello del nostro popolo, della nostra cultura, del mondo? Qui intravediamo un eco del cuore di Cristo. Un'identificazione profonda con l'umanità ferita. Una partecipazione vera al dolore per la separazione da Dio. È vero: non possiamo paragonare direttamente la Svizzera, l'Italia o la Germania a Israele. I principi che Dio stabilì per Israele non si applicano meccanicamente a ogni nazione. Ma nulla ci impedisce di pregare per i nostri popoli. Di intercedere con cuore sincero, chiedendo che Dio agisca secondo la Sua giustizia e misericordia. Daniele e il suo popolo non potevano più aspettare. Anelavano al ritorno, all'adempimento delle promesse. Così Daniele supplica:
«O mio Dio, inclina il tuo orecchio e ascolta! Apri gli occhi e guarda le nostre desolazioni, guarda la città sulla quale è invocato il tuo nome; poiché non ti supplichiamo fondandoci sulla nostra giustizia, ma sulla tua grande misericordia. Signore, ascolta! Signore, perdona! Signore, guarda e agisci senza indugio per amore di te stesso, o mio Dio, perché il tuo nome è invocato sulla tua città e sul tuo popolo.» (Daniele 9:18-19).
Colpisce profondamente l'assenza di egocentrismo. Daniele non chiede per sé. È preoccupato per la gloria di Dio. Dice, in sostanza: «Signore, se non intervieni, se non restauri la tua città, la tua promessa, la tua testimonianza, la tua gloria ne verrà oscurata. Le nazioni ti considereranno inaffidabile. Ma tu sei fedele! Tu hai promesso!» Quando l'orologio profetico di Dio ticchetta, non è solo una questione di tempo, ma di gloria, di fedeltà, di giustizia. E la nostra vita? È davvero centrata su Dio? Daniele, uomo rispettato e potente, era completamente orientato verso Dio, verso il Suo onore, la Sua reputazione, la Sua volontà. Oh Signore, aiutaci. Aiuta anche noi, oggi, affinché il nostro cuore desideri così profondamente la Tua gloria, da arrenderci interamente a Te, in ogni circostanza, con fiducia e amore. «Non tardare per amore della tua gloria!" In tempi segnati da sconvolgimenti e tensioni - come quelli vissuti da Daniele e come quelli che attraversiamo anche noi - emerge con forza la fiducia incrollabile del profeta nella giustizia e nella fedeltà del grande Dio. Una fiducia che prescinde completamente dal proprio benessere personale. Possiamo riassumere così il cuore di questo insegnamento: nello studio della Parola - "Considerai..." - e nella preghiera profonda di Daniele, si apre per noi una chiave preziosa su come accostarci alle profezie bibliche. Daniele viene chiamato «uomo molto amato» (Daniele 9:23). Questa espressione non è casuale. Il suo atteggiamento - fatto di ricerca, preghiera e intercessione - è il segno di un cuore che ha trovato favore presso Dio. Il suo esempio suggerisce che interrogarsi sinceramente sulle cose di Dio, sul Suo rapporto con Israele, sul significato delle profezie, unito a una preghiera fedele e umile, conduce a una relazione più intima e profonda con il Signore. Tuttavia, lo studio delle profezie non è mai privo di tensioni. Significa confrontarsi con punti di vista diversi, accettare zone d'ombra, affrontare l'incompletezza. Ma significa anche restare fermi con Dio, continuare la ricerca nonostante i vuoti, nonostante ciò che resta non compreso. Anche Daniele, infatti, non sapeva tutto. Ma non si accontentò di ciò che aveva già compreso: non si arrestò davanti agli adempimenti parziali del suo tempo, ma rivolse il cuore verso il compimento finale, verso la pienezza della benedizione promessa al suo popolo. Con Dio, ogni cosa trova il suo senso e la sua conclusione nel bene: "Tutto è bene quel che finisce bene". Per Daniele, la profezia non era uno strumento di speculazione, né un mezzo per accrescere la propria conoscenza. La profezia era un invito all'adorazione, alla supplica, alla sottomissione al Dio vivente. E questo è anche il proposito per cui Dio ci ha donato la profezia: non per saziare la nostra curiosità, ma per attirare il nostro cuore più vicino al Suo. Perché attraverso di essa possiamo conoscerlo, non solo intellettualmente, ma spiritualmente e personalmente. Per Daniele, tutto questo non era un esercizio teorico: era un incontro. Non cercava verità astratte, ma il volto stesso di Dio. E Dio - come sempre accade con chi Lo cerca con tutto il cuore - si rivelò a lui.
• Dio diede istruzioni a Daniele ...
«Io parlavo, pregando e confessando il mio peccato e il peccato del mio popolo Israele, e presentavo la mia supplica al Signore, al mio Dio, per il monte santo del mio Dio. Mentre stavo ancora parlando in preghiera, quell'uomo, Gabriele, che avevo visto prima nella visione, mandato con rapido volo, si avvicinò a me all'ora dell'offerta della sera.» (Daniele 9:20-21).
La risposta alla preghiera di Daniele giunse immediatamente. Ancor prima che dicesse «Amen», l'angelo Gabriele era già in piedi davanti a lui. Un momento straordinario! Leggiamo nelle parole di Daniele: «La mia supplica per il monte santo del mio Dio ... » Ed è proprio qui che troviamo il riferimento al Regno messianico. Daniele 2 parla di un monte che si erge dopo la pietra che spezza tutti i regni. In un batter d'occhio, l'angelo aveva completato il lungo viaggio. Daniele, nella sua debolezza umana, era completamente esausto ... Perché Dio mandò l'angelo Gabriele? Il motivo era la confusione interiore di Daniele riguardo all'orologio cosmico di Dio. Si chiedeva: cosa succede se continua a ticchettare? Cosa succede dopo i 70 anni di prigionia a Babilonia? La redenzione promessa per Israele arriverà ora o più tardi? Quanto è misericordioso Dio! L'angelo Gabriele risponde esattamente a questa domanda e istruisce Daniele sul piano di Dio. Qui lo vediamo ancora una volta: noi esseri umani - nella nostra stanchezza e nei nostri limiti - dipendiamo completamente dall'aiuto di Dio quando si tratta di conoscenza. Solo lui può darci le risposte giuste.
• Dio istruì Daniele tramite l'angelo Gabriele
«Ora sono venuto a insegnarti l'intelligenza» - L'intervento di Gabriele e il ruolo degli angeli nella rivelazione di Dio:
«Egli mi istruiva e mi parlava, dicendo: Daniele, ora sono venuto perché tu possa comprendere» (Daniele 9:22).
Questo versetto è di una potenza straordinaria: Dio stesso invia l'angelo Gabriele a parlare con Daniele. Il fatto che venga mandato un messaggero celeste di rango così elevato sottolinea l'immensa importanza della rivelazione che segue. Nonostante la complessità del messaggio, esso è essenziale, poiché offre una comprensione profonda degli eventi che si susseguono mentre l'orologio cosmico di Dio continua a scandire il tempo della salvezza. Dio non manda un angelo qualunque, ma uno dei Suoi "principi": Gabriele, un messaggero scelto in momenti chiave della storia della redenzione. Dove altro lo incontriamo? - Con Zaccaria, al momento dell'annuncio della nascita di Giovanni Battista, precursore del Messia. - Con Maria, per profetizzare la nascita miracolosa di Gesù, il Figlio dell'Altissimo. Ogni apparizione di Gabriele nella Scrittura è legata a eventi cruciali nel piano divino di salvezza. E in Daniele 9 lo troviamo non solo come messaggero, ma come insegnante. Questa scena ci rivela una realtà affascinante: un angelo istruisce un uomo. E ci invita a riflettere su quanto profondo sia il contenuto di ciò che viene annunciato. La Bibbia ci insegna che gli angeli hanno una conoscenza approfondita della Legge, della storia d'Israele e del Regno messianico sulla terra. Sono strumenti di Dio nei giudizi, custodi del Suo popolo, esecutori delle Sue decisioni sovrane. Pensiamo a quante volte Dio li ha impiegati per guidare e difendere Israele, o per promulgare la Legge stessa. Come ci ricordano Stefano negli Atti degli Apostoli:
« ... voi che avete ricevuto la Legge per comando degli angeli e non l'avete osservata» (Atti 7:53).
Gli angeli conoscono bene l'economia dell'Antico Patto, sono attivi nel regno visibile e, come si vede nell'Apocalisse, eseguono giudizi cosmici, suonano le trombe, versano le coppe (Apocalisse 8-16). Sono anche ministri al servizio dei credenti, come afferma la lettera agli Ebrei:
«Essi non sono forse tutti spiriti al servizio di Dio, mandati a servire in favore di quelli che devono ereditare la salvezza?» (Ebrei 1:14).
Ma quando si parla della Chiesa, del Corpo di Cristo, di grazia sovrabbondante, di giustificazione gratuita, di glorificazione dei peccatori e dei misteri nascosti in Dio, allora le cose cambiano radicalmente. Su questi temi, gli angeli non insegnano, ma imparano. Sono, per così dire, studenti del piano della grazia. Come scrive Pietro: « ... cose nelle quali gli angeli desiderano guardare bene dentro» (1 Pietro 1:12). Gli angeli conoscono la potenza e la maestà di Dio, ma non conoscono il Suo cuore più profondo. Non partecipano all'intimità della relazione Padre-figlio che noi viviamo in Cristo. Conoscono i decreti, ma non la dolcezza della grazia. Conoscono il timore, ma non la libertà della figliolanza. Conoscono il trono, ma non la croce. Ecco allora la grande verità: a noi, non parlano più gli angeli. Ci parla Cristo stesso. In noi abita il Suo Spirito. Paolo scrive:
«Chi, tra gli uomini, conosce le cose dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così nessuno conosce le cose di Dio se non lo Spirito di Dio. Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere le cose che Dio ci ha donate» (1 Corinzi 2:11-12).
Cristo in noi, speranza di gloria (Colossesi 1:27). Lo Spirito Santo ci guida in tutta la verità (Giovanni 16:13). Non abbiamo bisogno di intermediari celesti, perché abbiamo ricevuto la mente di Cristo (1 Corinzi 2:16). Ecco perché è profondamente sbagliato glorificare o venerare gli angeli. Né Gabriele, né Michele, né alcun altro ha il compito di insegnare al corpo di Cristo. Questo compito spetta al Signore Gesù stesso, per mezzo dello Spirito che ci è stato donato. Eppure, proprio per questo, la visita di Gabriele a Daniele acquista un significato ancora più solenne: in quel contesto, sotto l'Antico Patto, un angelo poteva insegnare a un uomo. Ma oggi, sotto la Nuova Alleanza, è Dio stesso che ci insegna, dimorando in noi. Che responsabilità. Che onore. Che grazia.
• Dio istruì Daniele sullo scopo delle 70 settimane
Il significato profondo delle settanta settimane: il tempo della grazia e del compimento Ci troviamo ora di fronte a un brano denso, maestoso e al contempo complesso. Daniele chiede a Dio chiarimenti sui settanta anni di prigionia profetizzati da Geremia - e la risposta che riceve, attraverso l'angelo Gabriele, ha una portata ben più ampia:
«Settanta settimane sono determinate per il tuo popolo e per la tua santa città ... » (Daniele 9:24)
Il termine ebraico usato è shavuim, letteralmente "settimane", ma nel contesto si intende "settimane d'anni", ovvero cicli di sette anni. Così, 70 settimane = 70 x 7 anni = 490 anni. Questo periodo non è casuale: è stabilito da Dio per il popolo d'Israele e per la città santa, Gerusalemme. Il contesto è chiaro: Daniele non sta ricevendo un'istruzione generica sul futuro dell'umanità, ma una rivelazione specifica sul destino di Israele nel piano di Dio. Se l'orologio cosmico di Dio continua a ticchettare, lo fa attraverso Israele. Perché le benedizioni che toccheranno la terra sono legate a questo popolo. Senza Israele, non c'è restaurazione definitiva. La risposta che Daniele riceve va ben oltre il ritorno da Babilonia: Non dopo 70 anni, ma dopo 70 x 7 anni. Non una restaurazione temporanea, ma una redenzione eterna. Le parole dell'angelo tracciano un programma in sei punti, un glorioso obiettivo di Dio:
Porre fine alla trasgressione,
Mettere un termine al peccato,
Espiare l'iniquità,
Portare una giustizia eterna,
Sigillare visione e profezia,
Ungere il Luogo Santissimo.
Questo non è un elenco apocalittico di giudizi, ma un messaggio di speranza e redenzione. Quante volte, sentendo parlare delle "settanta settimane", pensiamo subito a guerre, disastri e tribolazioni? Eppure, il cuore del messaggio è benedizione, è compimento, è guarigione. Dio ha un piano preciso, e Cristo ne è il centro. Solo in Gesù si adempiono queste sei promesse:
Solo in Lui il peccato viene cancellato.
Solo in Lui viene portata giustizia eterna.
Solo attraverso la Sua croce e la Sua resurrezione, la profezia viene sigillata
e il tempio celeste unto.
La restaurazione definitiva d'Israele è ancora in sospeso, come affermato da Pietro in Atti 3:21: « ... il cielo deve accoglierlo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose».
• Conclusione
Quando l'orologio cosmico di Dio continua a muoversi, non lo fa per caso, né per capriccio. Ticchetta verso uno scopo preciso: il compimento delle Sue intenzioni gloriose. Egli realizza il Suo disegno:
per Israele,
per le nazioni, per la Chiesa,
per ciascuno di noi, personalmente.
Forse, nel nostro cuore, sentiamo confusione, stanchezza o perfino sfiducia. Ma non dimentichiamo: «Io conosco i pensieri che ho per voi», dice il Signore, «pensieri di pace e non di male» (Geremia 29:11). E come scrive Pietro: «Pace a tutti voi che siete in Cristo Gesù!» (1 Pietro 5:14) Perciò, rinunciamo a tutto ciò che ci separa dalla pace di Dio. Apriamo il nostro cuore in preghiera. Diciamogli ciò che ci turba. E ricordiamoci: Lui è Dio. Può tutto. Sa tutto. È al di sopra di tutto. E proprio per questo, può rivolgerci un comando che è anche una promessa: «Pace a voi!» Lui può dirlo perché conosce la tua situazione meglio di te. Perché è con te. È in te. Cammina con te. Non importa se oggi il sole splende o se il cielo è coperto. Il Dio eterno cammina accanto a te.
(Chiamata di Mezzanotte, maggio/giugno 2025)
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Occupazione Gaza, cinque punti e il rebus “forze arabe” che gestiranno il dopoguerra: dubbi sul vero piano di Bibi
di Lorenzo Vita
Cinque punti. Il disarmo completo di Hamas. Il ritorno in patria di tutti gli ostaggi, sia vivi che morti. La smilitarizzazione di tutta la Striscia di Gaza, che non dovrà più essere una minaccia per Israele. Il controllo della sicurezza della regione, che sarà nelle mani delle Israel defense forces. Ma allo stesso tempo, vi sarà un governo civile arabo che non sarà gestito direttamente dallo Stato ebraico e da cui saranno esclusi tanto Hamas quanto l’Autorità nazionale palestinese. Dopo una riunione-fiume del gabinetto di sicurezza, il governo di Benjamin Netanyahu ha approvato all’alba di ieri mattina il piano per l’occupazione della Striscia di Gaza. Una strategia che manca ancora dei dettagli operativi, ma che potrebbe vedere l’utilizzo di circa cinque divisioni dell’esercito (le immagini satellitari ottenute dalla Nbc mostrano già un aumento delle forze ai confini della regione palestinese), per un tempo più o meno di cinque mesi, e che avrà due principali direttrici.
La prima, Gaza city, in cui si prevede una graduale avanzata e l’evacuazione di quasi un milione di persone entro il 7 ottobre, non a caso anniversario dell’assalto di Hamas da cui è scaturito il conflitto. La seconda, i campi profughi della zona centrale della Striscia, ultima roccaforte dei battaglioni di Hamas ma anche luogo dove già sono presenti oltre mezzo milione di palestinesi. Uno schema complesso, su cui il gabinetto di sicurezza non è apparso mai davvero allineato. Alcuni ministri, ma soprattutto i vertici della sicurezza e il capo di Stato maggiore, il generale Eyal Zamir, hanno messo in chiaro che qualsiasi occupazione di questo tipo rischia di trasformarsi in una trappola. Il timore è legato principalmente alla sorte degli ostaggi, la cui vita è appesa a un filo sempre più sottile non solo per la fame a cui sono costretti (come dimostrato dai video) ma anche per il rischio di morire giustiziati o sotto i colpi del fuoco amico. Ma non è un mistero che Zamir abbia anche il fondato timore che la Striscia di Gaza possa trasformarsi in una palude di guerriglia, campi minati e tunnel inestricabili. Cosa che potrebbe portare anche a un numero molto alto di feriti e di morti tra le stesse forze armate.
E tutto questo avverrebbe mentre Israele ha intenzione di aumentare sensibilmente il volume degli aiuti umanitari, senza però sapere se si passerà esclusivamente dalla Gaza Humanitarian Foundation. Un tema fondamentale, perché Israele sa che dovrà farsi carico dei bisogni dei civili anche su pressione degli Stati Uniti, oltre che di tutta la comunità internazionale. Le indiscrezioni sulla telefonata di fuoco tra Netanyahu e il presidente Usa Donald Trump per il cibo a Gaza e le parole del vicepresidente Jd Vance sui disaccordi con lo Stato ebraico riguardo la conduzione della guerra (ma non sugli obiettivi) hanno confermato che Washington ha aumentato l’impegno sugli aiuti umanitari. Ieri, da Israele è stato ribadito che circa 200 camion sono entrati nella Striscia di Gaza, tra i valichi di Kerem Shalom e Zikim. Centinaia sono i tir in attesa di essere scaricati e distribuiti all’interno della regione palestinese. Mentre continuano anche i lanci di aiuti dagli aerei (ieri sono state paracadutate 72 tonnellate, secondo l’Idf).
Ma adesso, l’obiettivo è anche capire come funzionerà il dopoguerra, o quantomeno la fase che per Netanyahu prevede la consegna alle “forze arabe”. “Non occuperemo Gaza, libereremo Gaza da Hamas. Gaza sarà smilitarizzata e verrà istituita un’amministrazione civile pacifica, che non sia l’Autorità Nazionale Palestinese, né Hamas, né un’altra organizzazione terroristica”, ha scritto ieri su X il premier israeliano. Una scelta che lascia aperti diversi interrogativi su quale sia il vero piano di “Bibi”, mentre aumenta la protesta dei Paesi arabi (che vogliono un ruolo dell’Anp) e Hamas che ha già giurato una strenua resistenza.
(Il Riformista, 9 agosto 2025)
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«Vergognoso diffondere menzogne pro Hamas»
di Claudia Osmetti
«Guardi, quest’intervista forse dovrebbe farla a qualche psichiatra. Magari a uno psicanalista bravo in grado di capire la psicosi collettiva nella quale ci siamo infilati». Riccardo Pacifici, l’ex presidente della comunità ebraica di Roma, l’attuale vice-presidente dell’European jewish association, è prima di tutto una persona di spirito. Però non è un istrione: è uno serio, serissimo, preciso, uno informato che davanti a una notizia per prima cosa ne vaglia la fonte, uno che non strilla neanche per sbaglio e che, se alle volte la butta sul sorriso, è perché altrimenti non se ne esce più. «Ci sono persone», dice, «e persone anche molto anziane, di cui sono assolutamente convinto non abbiano alcun sentimento di odio antisemita, che sono prigioniere di una narrazione basata sulle fake news».
- Dottor Pacifici, cosa intende?
«L’altro giorno ho visto un video che mi ha sconcertato. Ritrae un papà con un’enorme bandiera palestinese che porta un bambino a tirare dei sassi ai soldati israeliani. Attenzione, loro quasi si mettono a giocare col bimbo, non hanno un comportamento minaccioso, ma il babbo dietro li incoraggia, uccidetelo-uccidetelo, e riprende tutto col telefonino. Immagino sperando in una reazione: ecco, credo che questa sia una rappresentazione emblematica di quello che sta succedendo».
- Però Pallywood, la grande macchina della finzione propal, non la scopriamo oggi. E il ragazzino malato spacciato per denutrito che alcuni giornali hanno pubblicato pure in prima pagina, e le foto create ad arte come quella delle pentole di qualche giorno fa, e i finti funerali con le comparse vestite da cadaveri che mandano messaggini a vai sapere chi: possibile che basti così poco per ingannare mezzo Occidente?
«È una bella domanda, ma il punto è un altro. Che Hamas faccia questo gioco sporco, lo si può capire. Non giustificare, ma capire sì. Che abbocchi la sora Maria, la signora sempliciotta che magari non ha gli strumenti per capire cosa le stiano propinando, anche. Ma che ci siano politici spregiudicati che sanno benissimo qual è la verità e che, però, per una mascalzonata politica che è solamente strumentale, vista la “viralità” di certe notizie, fanno passare questa narrazione per costruirci sopra un proprio consenso politico: questo no, questo è inaccettabile».
- Lei non fa i nomi, ma li faccio io. È l’arco parlamentare della sinistra. Quello che vorrebbe portare Meloni all’Aja per “complicità in genocidio”, qualsiasi cosa giuridicamente voglia dire e cioè niente, e quello che strizza l’occhio a chi sventolala bandiera palestinese anche nei cantieri della Val di Susa...
«La fermo. Non apra quella parentesi. Ma che nesso c’è? Non ha senso. Vogliamo dircela tutta? C’è tantissima ipocrisia in giro».
- Cioè?
«Vogliamo occuparci delle persone che muoiono di fame nel mondo? Benissimo, mobilitiamoci perché è un tema nobilissimo: abbiamo quattordici milioni di profughi in Sudan, 450mila persone ammazzate negli ultimi otto o nove mesi. Loro non hanno dignità? C’è stata una strage in Congo, gemella nelle modalità di attuazione, dentro una chiesa cristiana: io non ho visto i titoloni dei giornali, le proteste di piazza, niente. Al contrario, invece, quando c’entra Israele, ecco che sbuca un argomento che è facile, è “virale” sui social. Sono tornati i cartelli vietato-l’ingresso-agli-israeliani, ma per coerenza, negli ultimi tre anni, non ne ho mai visti di analoghi destinati ai russi. La mia è una provocazione, non la prenda diversamente».
- Sì, chiaro. Questo governo, tuttavia, su questi temi è saldissimo. Sia sul conflitto mediorientale che su quello in Ucraina. Qual è il suo giudizio?
«Nella vita distinguo tra i politici e i leader, Giorgia Meloni è una leader. Lo è perché sa assumersi le sue responsabilità e perché non governa con l’unico orizzonte della demagogia».
- Senta, a ragionare per assurdo: ci fosse Elly Shlein a Palazzo Chigi come andrebbe?
«Io sono convinto che in un ruolo istituzionale avrebbe un atteggiamento totalmente differente anche la segretaria del Pd. Il termometro per confermare quello chele ho appena detto è il comportamento di Giuseppe Conte».
- Ho ancora davanti l’immagine dei deputati pentastellati alla Camera che formano un’enorme bandiera vivente palestinese, faccio fatica a seguirla.
«Perché lei li guarda ora che sono all’opposizione. Quando Conte era presidente del Consiglio ha avuto atteggiamenti diversi e molto più ragionati su queste tematiche. Ha addirittura visitato la nostra sinagoga, è stato ricevuto da Ruth Dureghello. Oggi è un’altra persona, sembra il sosia di se stesso. Qui ha ragione lei, sì. Ma proprio per questo dico che il metro delle istituzioni probabilmente cambierebbe chi oggi riempie le piazze propal. Io sono sotto scorta da un anno e mezzo per le minacce che ricevo. Da sinistra, da tutti gli amici di sinistra, a parte Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, non ho ricevuto nessun gesto di solidarietà. Prenda quello che è successo a Liliana Segre».
- Rea di aver puntualizzato che la Shoah che lei ha ancora tatuata sul braccio non ha niente a che vedere con l’orrore della situazione in Medioriente?
«Esatto. Credo che si possa tranquillamente sostenere che la senatrice Segre non sia una filomeloniana. Quando ha osato fare il distinguo, dire che non si può usare il termine “genocidio” per quel che sta avvenendo a Gaza, sono scomparsi tutti. Prima la difendevano a spada tratta dalle minacce, poi si sono zittiti. Però così torniamo al punto di partenza».
- Quale?
«Al nodo della fake news: combatterle oggi vuol dire difendere la libertà di tutti. Significa difendere la Costituzione, quella che a sinistra sbandierano a ogni occasione. Significa impegnarsi per far sì che nessuno possa usare questo tipo di campagna, un domani, contro nessun altro. Non è una cosa da poco».
- Direi di no. A proposito di domani, lei come lo vede?
«Le dirò una cosa che forse la sorprenderà: io credo nella contronarrazione, scommettendo sulla pace».
- Non è un po’ prematuro?
«Al contrario, sono assolutamente convinto che siamo agli esiti finali di questa guerra. Lo ha detto Bibi Netanyahu: gli israeliani non staranno a Gaza per governarla, hanno intenzione di consegnarla smilitarizzata alle forze arabe degli eserciti dei Paesi cosiddetti moderati».
- Che tra l’altro è ciò che ha chiesto, ad Hamas, la Lega araba la settimana scorsa. Un appello che è passato inosservato qui da noi. Crede che Macron, per fare un nome, l’abbia ascoltato?
«È proprio questo il punto su cui io scommetto. Mettiamola così: le intenzioni di Gerusalemme sono chiare; il capo dell’esercito libanese, tre giorni fa, ha chiesto ad Hezbollah di riconsegnare le armi con la prospettiva di normalizzare i rapporto coi Paesi vicini, in primis con la Siria ma anche con Israele; la Siria stessa vuole entrare nei Patti di Abramo; Israele è già accettato da Bahrain, Giordania, Egitto, Emirati Arabi: e Netanyahu, secondo qualcuno, deve preoccuparsi di quello che dice la Spagna? Dài, su. Un minimo di realismo».
- Di quello che dice l’Europa invece?
«L’Europa sta rischiando di diventare ininfluente e meno realistica degli attori che sono sul campo».
Libero, 9 agosto 2025)
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Netanyahu ottiene l’approvazione del gabinetto di sicurezza per la conquista di Gaza City, nonostante gli avvertimenti dell’IDF
di Anna Balestrieri
Il governo israeliano ha approvato nella notte tra giovedì e venerdì 8 agosto un piano presentato dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu per conquistare Gaza City. La decisione è stata presa nonostante l’opposizione espressa dai vertici militari, che temono un peggioramento della situazione umanitaria e rischi gravi per gli ostaggi ancora detenuti da Hamas.
Il piano approvato: un’operazione mirata ma con sviluppi potenziali Secondo quanto comunicato dall’ufficio del Primo Ministro, l’operazione è formalmente limitata a Gaza City, centro densamente popolato nel nord della Striscia. Tuttavia, alcune dichiarazioni ufficiali lasciano intendere che la campagna potrebbe estendersi successivamente alle restanti aree non ancora sotto controllo israeliano.
Netanyahu aveva precedentemente affermato in un’intervista a Fox News la volontà di conquistare l’intera Striscia di Gaza, ma il piano approvato risulta più limitato nella sua formulazione attuale. Non si è parlato ufficialmente di “occupazione”, ma di “presa di controllo”, scelta lessicale dettata da considerazioni legali relative alle responsabilità civili.
Cinque condizioni per porre fine alla guerra Il gabinetto ha approvato all’unanimità cinque principi da considerare indispensabili per la cessazione del conflitto:
- Disarmo totale di Hamas
- Rilascio di tutti gli ostaggi
- Demilitarizzazione della Striscia di Gaza
- Controllo della sicurezza da parte di Israele sul territorio
- Creazione di un’amministrazione civile post-bellica che escluda sia Hamas sia l’Autorità Palestinese.
L’esclusione dell’Autorità Palestinese complica gli scenari futuri, poiché diversi Paesi arabi condizionano il loro sostegno alla ricostruzione a una partecipazione di Ramallah. Ciononostante, Netanyahu ha affermato che il controllo verrà passato a “forze arabe” dopo la fine dell’offensiva.
Critiche e preoccupazioni da parte dell’IDF Durante la lunga riunione del gabinetto, durata 10 ore, il Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha espresso una netta opposizione all’operazione. Secondo quanto riportato dai media israeliani, Zamir ha sottolineato alcuni aspetti controversi. La vita degli ostaggi sarà messa ulteriormente in pericolo. L’esercito è logorato e le attrezzature hanno bisogno di manutenzione. Una conquista totale richiederà dai 12 ai 24 mesi, con cinque mesi di combattimenti intensi iniziali.
Zamir ha presentato un piano alternativo, giudicato però insufficiente dalla maggioranza dei ministri per sconfiggere Hamas e ottenere il rilascio degli ostaggi.
Civili palestinesi e condizioni umanitarie Circa 800.000 palestinesi, in gran parte sfollati, si trovano attualmente a Gaza City. Il piano prevede la loro evacuazione verso sud entro il 7 ottobre 2025, data simbolica che coincide con il secondo anniversario dell’attacco di Hamas a Israele.
L’IDF lancerà poi l’offensiva via terra, circondando la città e puntando all’eliminazione dei miliziani di Hamas ancora presenti. Un funzionario ha indicato che successivamente si procederà con l’occupazione delle restanti aree.
Il governo ha garantito la distribuzione di aiuti umanitari fuori dalle zone di combattimento, anche attraverso l’ampliamento della discussa Gaza Humanitarian Foundation, che aumenterà i punti di distribuzione da 3 a 16, operativi 24 ore su 24.
Famiglie degli ostaggi e opinione pubblica divisa La decisione ha suscitato forte opposizione da parte delle famiglie degli ostaggi, che temono conseguenze fatali per i loro cari. Giovedì notte, migliaia di manifestanti hanno bloccato strade a Tel Aviv in segno di protesta, sfidando l’intervento della polizia.
Secondo queste famiglie e numerosi osservatori, l’approccio militare non ha portato risultati concreti sul fronte dei negoziati per la liberazione degli ostaggi. Hamas, nel frattempo, ha adottato tattiche di guerriglia, provocando circa 36 vittime tra i militari israeliani dopo la fine della tregua a marzo, quando Israele ha avviato l’operazione “Carri di Gedeone”.
Contesto politico e strategico Netanyahu è fortemente condizionato dalla sua coalizione, che include forze di estrema destra favorevoli a un’occupazione permanente della Striscia e alla ricostituzione degli insediamenti israeliani.
Al contempo, il premier è accusato dai critici di non aver mai promosso seriamente un’alternativa politica a Hamas, contribuendo a prolungare il conflitto e rafforzare, paradossalmente, il ruolo del movimento islamista. La sua posizione ufficiale resta quella secondo cui nessuna forza alternativa potrà emergere finché Hamas non sarà completamente annientata.
Bilanci umani e prospettive Il conflitto è iniziato con il massacro del 7 ottobre 2023, quando 5.600 miliziani di Hamas hanno attaccato Israele, provocando 1.200 morti e 251 ostaggi.
Secondo fonti israeliane, circa 20.000 combattenti di Hamas sono stati uccisi entro gennaio 2025, cui si aggiungono 1.600 miliziani eliminati durante l’attacco iniziale. Le forze israeliane hanno perso 459 uomini, tra cui poliziotti e civili del Ministero della Difesa.
Il Ministero della Sanità di Gaza, controllato da Hamas, parla di oltre 60.000 morti o dispersi, ma i dati non distinguono tra civili e combattenti e non sono stati verificati da fonti indipendenti.
Il piano approvato rappresenta una nuova fase del conflitto, che mira alla sconfitta totale di Hamas ma solleva gravi interrogativi umanitari, militari e politici. Le tensioni interne, le divisioni tra alleati, le richieste delle famiglie degli ostaggi e la pressione internazionale pongono Israele davanti a una scelta difficile tra continuità militare e apertura diplomatica.
L’esito delle prossime settimane potrebbe ridefinire gli equilibri nella regione, ma anche segnare un punto di svolta nella relazione tra leadership politica, società civile e apparato militare israeliano.
(Bet Magazine Mosaico, 8 agosto 2025)
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Firmato il più grande accordo sul gas nella storia di Israele
HAIFA – Giovedì i partner del giacimento di gas israeliano Leviathan hanno concluso un nuovo accordo con l'Egitto. Secondo l'accordo, il Paese arabo riceverà 130 miliardi di metri cubi di gas. Ciò corrisponde al 22% del giacimento o al 13% di tutte le riserve conosciute dello Stato ebraico, come riporta la rivista economica “Globes”.
NewMed Energy detiene il 45,3% delle quote di Leviathan. L'amministratore delegato Jossi Abu ha dichiarato: “Questo è un giorno storico. Leviathan, il più grande giacimento di gas naturale del Mediterraneo, è uno strumento per cambiare la realtà strategica”. Ha aggiunto: “Questo accordo, reso possibile dalle nostre solide partnership regionali, aprirà ulteriori opportunità di esportazione nella regione. Ciò dimostra ancora una volta che il gas naturale e l'industria energetica in generale possono essere un punto di riferimento per la cooperazione”.
La durata del contratto è fissata dal 2026 al 2040. L'Egitto pagherà per il gas l'equivalente di circa 30 miliardi di euro. Il Ministero dell'Energia israeliano deve ancora dare il suo consenso, ma si tratta di una formalità, poiché aveva già concesso un'autorizzazione di massima per un accordo fino a 145 miliardi di metri cubi.
Secondo NewMed Energy, i proventi finanzieranno due grandi progetti infrastrutturali: il primo è un gasdotto dal giacimento alla piattaforma di produzione, che aumenterà la produzione annuale da 12 a oltre 14 miliardi di metri cubi. Il secondo progetto è un collegamento con il gasdotto Ashkelon-Ashdod per aumentare di 2 miliardi di metri cubi la capacità di trasporto da Ashkelon a El-Arish, in Egitto.
• Anche il mercato interno ne trarrà vantaggio
Abu ha assicurato che, nonostante le esportazioni, Israele disporrà di gas a sufficienza: “L'accordo dovrebbe aprire la strada all'espansione di Leviathan e coprire il fabbisogno di gas naturale del mercato israeliano fino al 2064”.
Leviathan si trova a circa 120 chilometri a ovest di Haifa, a una profondità di 1,7 chilometri. Il giacimento fornisce gas dalla fine del 2019, inizialmente solo per il mercato interno. Nel gennaio 2020 sono iniziate le esportazioni verso l'Egitto. L'accordo ammonta a 60 miliardi di metri cubi, di cui circa 23,5 miliardi sono stati esportati finora.
Nel 2024 Leviathan ha prodotto 11 miliardi di metri cubi di gas, di cui circa il 50% è stato pompato in Egitto. Il resto è andato in parte al mercato interno israeliano e in parte alla Giordania.
I diritti di estrazione dal giacimento di gas ammontano a quasi 10,5 miliardi di euro dall'inizio della produzione. L'anno scorso la somma era di circa 250 milioni di euro.
(Israelnetz, 8 agosto 2025)
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La guerra della fame. Orli Gil: “Il 90% delle risorse viene rubato da Hamas”
di Micol Silvera
Negli ultimi giorni, i media hanno dipinto un quadro ben preciso della guerra: a Gaza c’è la fame. Per molti, questo suscita una risposta univoca: Israele sta affamando Gaza. Ciò che dovrebbe suscitare invece è una serie di domande, prima fra tutte: sono stati forniti gli aiuti umanitari a Gaza?
“Dall’inizio della guerra, due milioni di tonnellate di aiuti umanitari sono entrati a Gaza”: è quanto riporta Orli Gil, Rappresentante Permanente aggiunto di Israele presso le Organizzazioni Internazionali a Roma nell’ambito di un incontro con alcuni giornalisti che si è tenuto nella sede dell’ambasciata israeliana. Israele ha inoltre ripristinato l’elettricità all’impianto di desalinizzazione e reso disponibile 16,7 litri d’acqua per persona nel nord di Gaza e 40 litri per persona nel sud. È stata istituita inoltre una pausa umanitaria giornaliera tra le 10 e le 20 ore.
Dunque, se è in atto un tentativo di fornire gli aiuti umanitari, perché i civili a Gaza riversano in condizioni devastanti?
“I dati delle Nazioni Unite mostrano che delle 40.000 tonnellate di aiuti umanitari arrivati a Gaza tra il 19 aprile e il 2 agosto 2025 solo il 10% è stato consegnato ai civili” afferma Orli Gil.
Dov’è finito il restante 90%? “Saccheggio e rapine da parte di Hamas, che li ha consegnati ai propri attivisti e venduti al mercato nero per comprare delle armi. Alla popolazione civile rimane pochissimo: da qui la narrazione della mancanza di cibo” riporta la rappresentante Orli Gil.
Che soluzione è stata attuata dunque per far sì che gli aiuti arrivino direttamente ai civili? “È stato istituito il GHF, il Gaza Humanitarian Foundation, che ad oggi ha distribuito 110 milioni di pasti”.
Ma nonostante tutti questi tentativi, come afferma Orli Gil, “il quadro non cambia. Nessuno racconta che il 90% delle risorse viene rubato da Hamas”.
Ma la rappresentante è fiduciosa in un miglioramento della situazione degli aiuti umanitari: “Le cose stanno migliorando per il rifornimento di cibo. Mi preoccupa riuscire a riportare i nostri ostaggi a casa perché non sembrano avere molto tempo” continua, facendo riferimento ai video da poco resi pubblici da Hamas che ritraggono la sofferenza degli ostaggi Evyatar David e Rom Braslavski. “È molto chiara la negoziazione tra israeliani e palestinesi: fermare la guerra e riportare a casa gli ostaggi. La posta in gioco è così chiara ed esplicita, come mai ci vuole così tanto tempo? Perché ci deve essere tutta questa sofferenza?” Commenta la diplomatica.
Ed è forse l’interrogativo più importante che ci dobbiamo porre tutti: perché è così difficile raggiungere la fine del conflitto se le condizioni che potrebbero giovare sia ai civili israeliani che a quelli palestinesi sono ben chiare?
(Shalom, 8 agosto 2025)
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Israele cambia marcia: approvato il piano sul controllo di Gaza
di Samuel Capelluto
Dopo dieci ore di discussioni serrate, il gabinetto politico-di sicurezza israeliano ha approvato, nella notte tra giovedì e venerdì, la proposta del Primo Ministro Benjamin Netanyahu per una vasta operazione militare volta alla sconfitta di Hamas. La decisione, presa a larga maggioranza, prevede la preparazione dell’IDF alla presa di controllo della città di Gaza, garantendo al contempo assistenza umanitaria alla popolazione civile fuori dalle aree di combattimento.
Il gabinetto ha adottato cinque principi come quadro per la conclusione della guerra:
- Smantellamento dell’arsenale di Hamas.
- Rilascio di tutti gli ostaggi, vivi e caduti.
- Smilitarizzazione della Striscia di Gaza.
- Controllo di sicurezza israeliano sull’intera Striscia.
- Istituzione di un’amministrazione civile alternativa, né Hamas né Autorità Palestinese.
Secondo un alto funzionario, l’operazione iniziale riguarderà soltanto la città di Gaza, con l’evacuazione di tutti i residenti verso zone centrali e meridionali entro il 7 ottobre 2025. Un assedio sarà imposto ai miliziani rimasti in città, mentre l’esercito manovrerà all’interno. Pur non essendo formalmente previsto, se Hamas dovesse accettare un accordo per il rilascio degli ostaggi durante l’operazione, Israele sospenderebbe le azioni per la durata del cessate il fuoco.
La riunione del gabinetto è stata segnata da forti contrasti. Il Capo di Stato Maggiore, Eyal Zamir, ha avvertito dell’assenza di un piano umanitario per circa un milione di civili e dei rischi per la vita degli ostaggi. Alcuni ministri, come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, hanno invece spinto per una vittoria militare completa e si sono opposti a pause operative.
Le reazioni politiche sono state immediate. Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha definito la decisione “un disastro” che metterà in pericolo ostaggi e soldati, avrà un costo economico enorme e porterà a un’impasse diplomatica. Anche Yair Golan (Democratici) e Avigdor Lieberman (Yisrael Beiteinu) hanno criticato duramente la scelta, mentre esponenti della coalizione come Amit Halevi (Likud) l’hanno difesa, sostenendo che “la guerra non è un gioco e comporta rischi per tutti”.
Sul piano strategico, fonti di sicurezza ritengono che un ingresso dell’IDF nella città di Gaza potrebbe indurre Hamas a usare gli ostaggi come deterrente o, nel peggiore dei casi, a ucciderli. Netanyahu continua a sostenere che la pressione militare potrà favorire il loro rilascio, ma osservatori ritengono che questo obiettivo sia sempre più difficile da raggiungere.
A un anno e mezzo dal 7 ottobre 2023, Israele si trova di fronte a una scelta cruciale: aumentare la pressione militare per disarticolare Hamas e ristabilire la deterrenza, pur affrontando sfide umanitarie e politiche complesse. Il piano approvato punta a garantire la sicurezza di lungo periodo, prevenendo il ritorno di Hamas al potere e stabilendo una nuova amministrazione civile nella Striscia. Il successo, tuttavia, dipenderà dalla capacità di bilanciare obiettivi militari, tutela degli ostaggi e gestione della crisi umanitaria.
(Shalom, 8 agosto 2025)
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Netanyahu e l’occupazione totale della Striscia, il generale Zamir simbolo della resistenza
Report Usa su “trasferimento temporaneo” gazawi in Somalia
di Lorenzo Vita
La decisione è arrivata dopo giorni di altissima tensione. Confermate anche dalle manifestazioni di protesta che si sono tenute a Gerusalemme e a Tel Aviv e fino al largo di Ashkelon. Da quando il premier Benjamin Netanyahu ha fatto trapelare l’idea di occupare la Striscia di Gaza, Israele è apparso spaccato. Molti considerano questa come l’unica opzione per dare una svolta al conflitto.
• Zamir e il “buco nero”
Ma tanti, tra i parenti degli ostaggi, tra gli oppositori del primo ministro e nelle stesse Israel defense forces hanno messo in chiaro la loro contrarietà. Il capo di stato maggiore, il generale Eyal Zamir, era stato scelto da Netanyahu proprio perché appariva più in linea rispetto al predecessore, il generale Herzi Halevi. Ma è stato proprio Zamir in questi giorni a rappresentare il simbolo della resistenza alle decisioni di “Bibi” e dei ministri più radicali, al punto che i media israeliani hanno riferito che il generale avrebbe detto al capo del governo che Israele rischiava di sprofondare in un “buco nero”. Una trappola fatta di una guerriglia spietata, di tunnel minati, di ostaggi potenzialmente giustiziati o uccisi dal fuoco amico, e da milioni di sfollati.
• Striscia “affidata a forze arabe”
Netanyahu ha ascoltato tutte le voci. Ha cercato anche di mediare tra le esigenze dell’Idf e la spinta dell’ala più oltranzista del governo. Ha parlato anche con leader di altri partiti: Aryeh Deri, dell’ultraortodosso Shas; il ministro della Finanze Bezalel Smotrich; Yair Lapid, leader di opposizione, che ieri ha dichiarato che “ciò che Netanyahu propone è un’altra guerra, più ostaggi morti, più soldati caduti e decine di miliardi di denaro dei contribuenti che saranno riversati nelle illusioni di Itamar Ben Gvir (ministro della Sicurezza interna n.d.r.,) e di Smotrich”. E alla fine, prima della riunione di ieri sera del gabinetto di sicurezza, il primo ministro aveva già dato delle indicazioni. Intervistato su diverse emittenti, Netanyahu ha confermato che il piano non prevede l’annessione della Striscia di Gaza. Ipotesi che, secondo Axios, sarebbe già stata bocciata dall’amministrazione Trump. “Non vogliamo mantenerla. Vogliamo avere un perimetro di sicurezza e non vogliamo governarla. Vogliamo affidarla alle forze arabe che la governeranno correttamente e non ci minacceranno” ha spiegato il premier ai microfoni di Fox News. E ha confermato che non avrebbe annesso la Striscia di Gaza anche al media indiano Cnn18, ribadendo che la guerra si fermerebbe subito se Hamas cedesse le armi e rilasciasse tutti gli ostaggi. La milizia palestinese però, nel corso di questi ultimi mesi di negoziati a Doha, ha sempre rialzato la posta, bocciando le proposte dell’inviato Usa Steve Witkoff e dei delegati israeliani. E questo, unito alle immagini dei due ostaggi ridotti a scheletri umani, Rom Braslavski ed Evyatar David, ha accelerato le mosse di Netanyahu e rafforzato la linea dura. Ieri, Hamas, ha detto che i piani del premier “di espandere l’aggressione dimostrano senza ombra di dubbio che mira a liberarsi degli ostaggi e a sacrificarli per i suoi interessi personali” e che “rivelano chiaramente i veri motivi del suo ritiro dall’ultimo round di negoziati, nonostante si fosse vicini a un accordo finale”. “L’espansione dell’aggressione contro il nostro popolo non sarà una passeggiata, il suo prezzo sarà alto” ha avvertito Hamas. Ma in attesa di capire come si svolgeranno nella pratica le operazioni, quello che sembra certo è che l’obiettivo di Netanyahu a questo punto sia quello di togliere definitivamente il terreno sotto ai piedi del gruppo. “L’attuale strategia non ha portato alla liberazione degli ostaggi e non proseguiremo su questa strada” ha chiarito ieri il premier ai suoi ministri.
• Il report sui gazawi
Il piano dovrebbe andare avanti per circa cinque mesi, con lo schieramento di altrettante divisioni. Il primo obiettivo, forse quello più importante, è prendere il controllo della città di Gaza. Una mossa cui potrebbe seguire lo sfollamento dei civili. Lo spostamento avverrà verso sud, dove già sono presenti milioni di persone. E sul fronte umanitario, l’arrivo degli aiuti potrebbe essere garantito proprio dagli Stati Uniti. L’ambasciatore Usa in Israele, Mike Huckabee, ha detto che i centri della Gaza Humanitarian Foundation (fortemente criticata dalle organizzazioni internazionali) saranno 16 e che opereranno “fino a 24 ore al giorno per far arrivare più cibo a più persone in modo più efficiente”. Mentre fonti del Financial Times, hanno rivelato che la società statunitense Boston Consulting Group ha prodotto un report su un eventuale “trasferimento temporaneo e volontario” dei gazawi in Somalia e Somaliland.
(Il Riformista, 8 agosto 2025)
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Israele, tra arte e guerra: la voce di Idan Amedi
di Davide Cucciati
Il mondo della cultura israeliana è scosso da un acceso confronto pubblico che vede contrapposti, da una parte, molti artisti firmatari di una petizione contro la guerra in corso a Gaza e, dall’altra, voci come quella dell’attore e cantante Idan Amedi.
Secondo quanto riportato da Ynet il 4 agosto 2025, più di mille artisti israeliani, tra cui la cantante Nurit Galron, hanno sottoscritto una dichiarazione intitolata “Fermate l’orrore a Gaza”, in cui si afferma che “ci troviamo, contro la nostra volontà e i nostri valori, complici, come cittadini israeliani, degli eventi orribili che stanno avvenendo a Gaza: l’uccisione di bambini e civili, la fame, lo sfollamento della popolazione e la distruzione insensata delle città gazawi”. Il testo chiede esplicitamente ai leader politici e militari israeliani di “non dare né eseguire ordini illegali”, di non “abbandonare la moralità umana e i valori etici dell’ebraismo”, e conclude con un appello: “Fermate la guerra. Liberate gli ostaggi”.
La petizione ha suscitato dure reazioni. Il ministro della Cultura Miki Zohar, citato anch’egli da Ynet, ha definito il testo “delirante” e ha accusato i firmatari di umiliare l’intera collettività israeliana, dai riservisti ai soldati caduti. In un post su X, Zohar ha scritto: “In uno sforzo maldestro di compiacere una piccola parte della società israeliana, nel nome di una moralità distorta, avete infangato e umiliato un intero popolo. Ritirate le vostre firme vergognose. Prendete esempio da Moran Atias e Idan Amedi, che rappresentano la sanità mentale e il patriottismo che voi avete tristemente perso”.
Proprio Idan Amedi ha reagito con forza, commentando la notizia direttamente sulla pagina Instagram del giornalista che l’aveva diffusa. Sempre Ynet riporta che Amedi ha definito i firmatari “disconnessi dalla realtà e diffusori di fake news”. Ha scritto: “Ogni casa a Gaza è piena di propaganda antisemita e anti-ebraica, dai ritratti dei ‘martiri’ agli adesivi con scritto: ‘Con il sangue e il fuoco conquisteremo Gerusalemme’. Un gruppo di privilegiati che riecheggia stupidità, ignoranza e menzogne. Non esiste al mondo un altro esercito che operi in un’area così densamente popolata provocando così pochi danni collaterali. È un fatto. Andate a controllare”.
In precedenza, Amedi aveva già pubblicato un post su Facebook nel quale criticava il tempismo della petizione, diffusa proprio nei giorni in cui erano emerse le immagini drammatiche degli ostaggi israeliani Evyatar David e Rom Breslavski nelle mani di Hamas. “Nel giorno in cui vediamo i nostri fratelli nel 2025 ridotti come Muselmanner (termine usato nei campi di concentramento per indicare i prigionieri ridotti allo stremo da fame e disperazione ndr), sottoterra a scavarsi la fossa, fate un giorno in un tunnel, combattete come decine di migliaia di riservisti, poi firmate petizioni. Siete patetici. Ne abbiamo abbastanza”.
Il 4 agosto, nel corso della presentazione del suo nuovo film su Keshet, Amedi è tornato sull’argomento, assumendo toni più concilianti. Infatti, egli ha dichiarato: “C’è stata un po’ di tempesta ieri. Sono consapevole della strumentalizzazione che ha provato a far passare le mie parole come se stessi aprendo la strada a una guerra senza fine. Ma io odio la guerra”. Inoltre, l’artista ha ricordato il suo impegno personale per il ritorno dei rapiti anche nei momenti in cui l’opinione pubblica sembrava disinteressarsene: “Tutta la mia vita adulta l’ho dedicata a riportare a casa i rapiti, anche quando erano solo quattro. Non c’è nulla di più importante del riportare a casa i nostri fratelli, vivi o morti”.
Amedi, che a gennaio 2024 è stato gravemente ferito a Gaza durante il servizio di riserva nell’unità del Genio di Tzahal, ha difeso con decisione l’operato dell’esercito: “I miei genitori mi hanno cresciuto nell’amore per Israele, e con quello sguardo io e mio fratello guardiamo il mondo. Non posso stare zitto quando i miei fratelli e sorelle vengono accusati di crimini di guerra. I soldati che hanno corso verso il fuoco il 7 ottobre non sono criminali di guerra. Sono il nostro scudo, fisico e morale. Anche per chi firma petizioni contro di loro”.
Nel suo discorso, l’artista ha rivolto un appello ai colleghi firmatari della petizione: “Non abbiamo bisogno di prediche. Abbiamo bisogno di una società che ci sostenga e che creda che stiamo facendo del nostro meglio per proteggere tutti. Fidatevi di noi: il nostro cuore è al posto giusto”. Amedi ha concluso la serata sottolineando che l’attenzione dovrebbe rimanere sul destino dei rapiti: “Spero che tutti riusciremo a concentrare le nostre forze su ciò che conta davvero: riportare a casa i nostri fratelli. È questa la cosa più importante”.
(Bet Magazine Mosaico, 8 agosto 2025)
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La serietà della guerra
Dopo dieci lunghe ore di riunione il gabinetto di Sicurezza israeliano ha confermato la decisione già annunciata da Benjamin Netanyahu di intensificare le operazioni militari a Gaza prendendo inizialmente il controllo di Gaza City, e in seguito valutando ulteriori operazioni per il controllo di altre aree.
L’operazione si incardina su cinque punti essenziali: il disarmo di Hamas, quindi la sua resa, il ritorno degli ostaggi ancora in cattività, più le salme di quelli deceduti, la completa demilitarizzazione dell’enclave, il controllo temporaneo da parte di Israele della Striscia e, successivamente l’instaurazione di una struttura politica araba che escluda sia Hamas che l’Autorità Palestinese dal suo governo.
Dopo ventidue mesi di guerra, a ormai quasi due anni dal 7 ottobre 2023, con il controllo del 75% di Gaza, ma senza avere del tutto sconfitto Hamas, Israele ha deciso di procedere con quella che nelle sue intenzioni dovrebbe essere l’operazione militare conclusiva. Le incognite, come con per ogni operazione militare, sono diverse.
Il capo di Stato Maggiore, il generale Eyal Amir, contrario a questa decisione, ha fatto presente che esiste il rischio concreto che Hamas, messo con le spalle al muro, possa uccidere i restanti ostaggi, così come va calcolato quello di perdite numerose tra i soldati e l’ulteriore uccisione di civili. Tuttavia, la situazione perdurante di stallo non lascia alternative.
Hamas ha un unico scopo, ed è sempre stato quello fin dall’inizio della guerra, sopravvivere all’interno della Striscia, utilizzando gli ostaggi come assicurazione sulla vita, contando sulla pressione internazionale nei confronti di Israele e sul suo logoramento.
La permanenza di Hamas a Gaza è un prezzo che Israele non può pagare. Il rischio che gli ostaggi vengano uccisi da Hamas, paventato da Zamir, va controbilanciato con l’osservazione che uccidendoli, esso si priverebbe dell’unica carta che ha da giocare per garantirsi la sopravvivenza. L’empasse in cui si trova l’organizzazione terrorista è ben maggiore di quello in cui si trova Israele.
Come diceva Clemenceau, “La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali”.
(L'informale, 8 agosto 2025)
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La vita al fronte
«Non combattiamo contro carne e sangue, ma contro lo spirito anticristiano di Amalek»
di Charles Gardner *
I telespettatori britannici hanno potuto farsi un'idea di come sia realmente la vita in prima linea nel conflitto mediorientale.
Nel Middle East Report di Simon Barrett su Revelation TV sono apparsi il pastore Aaron Eime, nuovo capo della sezione britannica del Church's Ministry among Jewish people (CMJ), e suo figlio Micah, soldato di una brigata di fanteria delle Forze di Difesa Israeliane (IDF).
Micah è nato a Betlemme. Non essendo ebreo, il servizio militare non era obbligatorio per lui. Tuttavia, per amore del Paese in cui è cresciuto, ha deciso di arruolarsi volontariamente. I suoi genitori erano arrivati lì dall'Australia prima dell'inizio del millennio e Aaron aveva poi prestato servizio come diacono presso la Christ Church nella Città Vecchia di Gerusalemme, sede principale del CMJ in Terra Santa da quasi 200 anni.
“Nessun genitore vorrebbe mai mandare il proprio figlio in guerra”, ha detto durante il programma, ricordando come ha incoraggiato suo figlio ad “andare e essere coraggioso”.
“Tuttavia, non combattiamo contro la carne e il sangue, ma contro lo spirito anticristiano di Amalek, che cerca di schiavizzare le persone”.
Micah è ora riservista e in attesa di ulteriori missioni, dopo aver terminato il servizio militare e essere stato richiamato con breve preavviso quando è scoppiata l'ultima guerra di Gaza.
Alla domanda su come si prepara alla battaglia, ha risposto: “Prego molto, ma traggo anche ispirazione dai Salmi. Ad esempio, il Salmo 144 dice che il Signore addestra le nostre mani per la guerra”.
Ma la sua forza deriva sempre dalla sua fede in Cristo. «Ho deciso di farmi battezzare una settimana prima della chiamata alle armi, perché stavo per entrare in un ambiente molto difficile e volevo qualcosa di forte che mi tenesse saldamente ancorato.»
Quando ha saputo del massacro del 7 ottobre 2023, ha ricordato: «Dentro di me ribolliva la rabbia. Come hanno potuto farlo? Ci avevano cullato in una falsa sicurezza. È stato uno shock totale per l'intero sistema.»
Ma lui si è rimboccato le maniche e ha preso parte a quella che è diventata la guerra più lunga nella storia di Israele, rimanendo sorpreso nel vedere il nemico in fuga durante l'avanzata delle truppe.
Suo padre, nel frattempo, ha ricordato agli spettatori che una delle prime vittime della guerra è stata la verità, che ci sono profughi sia all'interno di Israele che a Gaza e che l'IDF sta cercando di salvare vite umane e liberare ostaggi, spesso in condizioni impossibili.
Assumere il suo nuovo incarico qui dopo 26 anni in Israele è stato per lui uno shock. È rimasto particolarmente sconvolto dall'antisemitismo diffuso nella Chiesa e dall'affermazione che l'Israele di oggi non avrebbe alcun legame con l'Israele della Bibbia.
“Questo deve essere contraddetto, e noi lo faremo, perché equivale a una perdita delle radici della propria fede.”
Da allora, CMJ ha scritto a tutte le comunità ebraiche del Paese per spiegare che noi cristiani abbiamo un debito spirituale nei loro confronti e che siamo qui per stare al loro fianco.
* Charles Gardner è autore di “Israel the Chosen” (Israele, il popolo eletto), disponibile su Amazon; “Peace in Jerusalem” (Pace a Gerusalemme), disponibile su olivepresspublisher.com; “To the Jew First” (Prima ai Giudei), “A Nation Reborn” (Una nazione rinata) e “King of the Jews” (Re dei Giudei), tutti disponibili su Christian Publications International.
(Israel Heute, 8 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Denaro nascosto e saccheggio di viveri: così Hamas paga i suoi affiliati

La BBC riferisce che Hamas sta utilizzando un metodo segreto per pagare gli stipendi alle decine di migliaia di suoi membri senza che la distribuzione venga ostacolata da Israele, lo fa in un articolo che sostiene anche la tesi di Israele secondo cui il gruppo terroristico avrebbe sistematicamente requisito gli aiuti umanitari in entrata nella Striscia per distribuirli ai propri fedeli mentre gli altri abitanti di Gaza muoiono di fame.
L’emittente britannica afferma di aver parlato con tre dipendenti di Hamas che hanno dichiarato di aver ricevuto circa 1.000 NIS (300 dollari) nell’ultima settimana e di ricevere circa un quinto del loro stipendio prebellico ogni 10 settimane.
Un alto funzionario di Hamas avrebbe dichiarato che il gruppo terroristico avrebbe accumulato circa 700 milioni di dollari in contanti in tunnel sotterranei prima di lanciare l’attacco del 7 ottobre 2023, che ha dato inizio alla guerra.
Poiché Israele aveva già preso di mira i distributori degli stipendi di Hamas, gli agenti riceverebbero messaggi criptati sui loro telefoni o su quelli dei loro coniugi, che li invitano a prendere un “tè” in un determinato luogo e a una determinata ora. Durante l’incontro, viene loro consegnata con discrezione una busta contenente denaro contante.
La BBC riferisce inoltre che Hamas ha tassato i commercianti e venduto pacchetti di sigarette a un prezzo fino a 100 volte superiore a quello prebellico per generare entrate.
Cita fonti anonime di Gaza che confermano la tesi sostenuta da tempo da Israele secondo cui una parte significativa degli aiuti umanitari che entrano a Gaza viene dirottata dal gruppo terroristico e venduta sul mercato nero a prezzi gonfiati o consegnata ai fedeli.
Sia il gruppo terroristico che l’ONU negano che si stiano verificando saccheggi sistematici.
Il rapporto afferma che ciò ha alimentato la rabbia dei residenti nei confronti di Hamas.
“Quando la fame è peggiorata, i miei figli piangevano non solo per il dolore, ma anche perché vedevano i nostri vicini affiliati a Hamas ricevere pacchi di cibo e sacchi di farina”, ha dichiarato Nisreen Khaled, una madre single di Gaza. “Non sono loro la causa delle nostre sofferenze? Perché non hanno garantito cibo, acqua e medicine prima di lanciarsi nella loro avventura del 7 ottobre?”
(Rights Reporter, 7 agosto 2025)
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A Gaza i set della fame-show, così vi ingannano i fotografi Propal
“Pronti? Agitate le scodelle, bravi”
dì Aldo Torchiaro
Una recente inchiesta di ILTV News – rete israeliana in lingua inglese specializzata in politica estera, sicurezza e disinformazione – ha svelato l’ennesima messinscena orchestrata da Hamas per manipolare l’opinione pubblica internazionale: finte scene di fame a Gaza, costruite ad arte per commuovere, indignare e orientare il giudizio dei media occidentali.
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Pentole vuote e persone in posa
Il caso emblematico riguarda il fotografo Anas Zayed Fatiyeh, legato a un’agenzia turca vicina al presidente Erdoğan. Secondo quanto ricostruito, Fatiyeh avrebbe diretto una protesta simulata denominata “Hunger Campaign in Gaza”, dove individui selezionati sono stati messi in posa con pentole vuote per inscenare l’emergenza umanitaria. Una messinscena, nulla più. Per aumentare l’efficacia mediatica, gli organizzatori hanno inserito donne e bambini in primo piano. Il tutto in quartieri del sud della Striscia saldamente controllati da Hamas, dove ogni produzione fotografica – non è un dettaglio – è filtrata, approvata o organizzata dal regime stesso. Secondo una fonte diplomatica israeliana, sono almeno quindici i set fotografici disseminati nella Striscia di Gaza e allestiti con cura teatrale: tende, comparse, cartelli e regia.
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La condanna dell’ambasciatore
Un’indagine della Süddeutsche Zeitung ha mostrato che le immagini usate in Occidente per denunciare la fame non ritraggono file per ricevere aiuti, bensì gazawi in posa, rivolti ai fotografi, non ai camion umanitari. Il quotidiano tedesco Bild ha confermato che uno degli autori di queste immagini lavora per un’agenzia turca e diffonde regolarmente contenuti antisemiti e anti-Israele sui propri profili social. Un esperto tedesco ha dichiarato: «Queste foto non servono a documentare la fame, ma a rimpiazzare le immagini crudeli del 7 ottobre nella mente dell’opinione pubblica». Anche l’ambasciatore israeliano Jonathan Peled condanna l’irrispettosa farsa della fame: «Ancora una volta riscontriamo uno schema già utilizzato in precedenza, che sfrutta le immagini dei bambini per le abominevoli falsificazioni di Hamas. Stavolta, il tabloid tedesco Bild smaschera la deplorevole propaganda mediatica di Hamas, dimostrando quanto le immagini di bambini e adulti disperatamente alla ricerca di cibo esibendo pentole vuote siano frutto di una spregiudicata messa in scena». Il diplomatico israeliano rincara la dose: «La diffusione di immagini artefatte, in cui l’esasperazione e la sofferenza dei palestinesi vengono sfruttate per suscitare del sensazionalismo mediatico contro Israele, è inaccettabile e inammissibile. Chiediamo a tutta la stampa italiana ed estera che abbia fatto utilizzo di queste fotografie ingannevoli di presentare immediatamente una rettifica pubblica. Fare informazione corretta è un dovere professionale, prima ancora che un imperativo morale».
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Riscrivere la storia con la fotografia
Il gioco è evidente: falsificare la memoria, rovesciare la colpa, riscrivere la storia con la fotografia. È il giornalismo deepfake, dove l’immagine non testimonia, ma fabbrica. La domanda è: perché la Turchia ha interesse a tutto questo? Perché Erdoğan finanzia media, agenzie e attivisti dediti a gonfiare ad arte la rabbia antisraeliana e antisemita in Europa? Perché, da anni, Ankara ha fatto della causa palestinese lo strumento perfetto di destabilizzazione del blocco euroatlantico: un grimaldello geopolitico per incendiare le periferie, infiammare le piazze, colpire l’asse israelo-occidentale. L’odio per Israele diventa così carburante per una guerra culturale combattuta in nome della Turchia neo-ottomana, islamista e revisionista. E a pagare il conto, spesso, sono le comunità ebraiche europee. Nel frattempo, la macchina della propaganda si affina. Hamas utilizza bambini, anziani e pentole come attrezzi di scena. Ogni lacrima è un ciak. Ogni posa, un’inquadratura studiata. Ogni fotografia, un’iniezione di colpa destinata al pubblico occidentale, sempre più pronto a farsi ingannare.
Ma perché siamo così propensi a crederci? Perché troppi utenti della rete, oggi, non cercano verità, ma conferme. Vivono in ambienti digitali filtrati – le famigerate echo chambers – dove la complessità è bandita, la compassione è un automatismo, e il frame tragico vale più del contesto. Ci siamo disabituati a pensare, a verificare, a domandarci: chi scatta questa foto? Perché? Chi ne beneficia? È lo schema perfetto: creare immagini false ma verosimili, infilarci dentro un’innocenza manipolata – un neonato, un volto impaurito – e poi gettarle nel mare aperto dei social e delle redazioni europee, dove si trasformano in verità virale. E funziona: la narrazione del popolo affamato ottunde la memoria del 7 ottobre, cancella gli ostaggi, cancella le responsabilità.
Gli analisti parlano chiaro: Hamas sfrutta queste immagini per nascondere il blocco degli aiuti da parte del gruppo stesso e le sue attività terroristiche, condotte con cinismo sotto la copertura di ospedali, scuole, infrastrutture civili. L’obiettivo non è informare, ma avvelenare. Non raccontare, ma incendiare.
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(Il Riformista, 7 agosto 2025)
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È ora che Israele smetta di rispettare le regole mentre i suoi nemici giocano duro
Israele non deve avere l’obiettivo di essere considerato come “i buoni”. Ma piuttosto far capire che attaccare Israele deve essere considerato troppo costoso e troppo doloroso.
di Joshua Katzen
Mentre la guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza entra nel suo secondo anno e l'ostilità internazionale nei confronti dello Stato ebraico continua a crescere, Israele deve affrontare una verità inevitabile: per decenni ha volontariamente limitato la sua lotta esistenziale contro i tentativi palestinesi di annientarlo attraverso vincoli morali autoimposti. Questi vincoli – volti a conquistare il favore della comunità internazionale e a mantenere un senso di superiorità etica – non hanno portato alcun vantaggio strategico. Al contrario, hanno causato perdite dolorose, compromesso i negoziati e incoraggiato i nemici.
Israele deve perseguire una nuova dottrina strategica, basata sul realismo e non sul prestigio, sulla deterrenza e non sull'autocelebrazione.
Da decenni Israele agisce secondo una dottrina di moderazione autoimposta. Si è posto l'obiettivo di essere più “morale” dei suoi nemici, evitando vittime civili a spese dei propri soldati, liberando assassini di massa in scambi di prigionieri sproporzionati, rinunciando all'annessione di territori anche dopo vittorie militari e concedendo privilegi ai terroristi nelle carceri. L'obiettivo: dimostrare la propria superiorità etica a un mondo che non lo ha mai chiesto.
Questa dottrina militare è interamente auto-creata, perché gli israeliani vogliono dimostrare che “noi non siamo come loro”. Essere amati può essere stata una strategia necessaria per la sopravvivenza degli ebrei quando dipendevano dalla generosità dei non ebrei, ma è una cattiva strategia per uno Stato indipendente, consapevole di sé e sempre più autonomo.
La superiorità morale non ha portato la pace. Non ha portato simpatia. Non ha impedito le accuse di crimini di guerra. Al contrario, ha fatto apparire Israele debole, esitante e insicuro della propria legittimità. L'odio verso Israele non ha fatto che aumentare.
Peggio ancora, questo atteggiamento morale non è solo rivolto verso l'esterno. È diventato un peso psicologico all'interno dello stesso Israele. Tra molti israeliani prevale un'immagine diffusa di superiorità morale, un bisogno compulsivo di credere che Israele possieda la superiorità morale. Questo “virtue signalling” interno è confortante per l'anima israeliana, ma pericoloso per la sicurezza nazionale.
Quale genitore israeliano sarebbe disposto a sacrificare il proprio figlio per risparmiare la vita a un civile palestinese? La risposta è ovvia. Eppure è proprio questo che fa parte della dottrina militare israeliana, quando i soldati vengono inviati a sgomberare edifici che potrebbero essere sgomberati con le bombe, o quando i terroristi non vengono colpiti perché esiste la possibilità di danni collaterali ai “civili”. La guerra non è una questione di simbolismo morale, ma di vittoria.
L'obiettivo di Israele non dovrebbe essere quello di essere considerato “i buoni”. Attaccare Israele dovrebbe essere considerato troppo costoso e doloroso.
Uccidere i terroristi è necessario, ma non sufficiente. L'eliminazione strategica dei combattenti nemici raramente ha impedito alla generazione successiva di prendere le armi. Anzi, il martirio ha spesso rafforzato le file dei movimenti jihadisti.
Cos’è che funziona? L'umiliazione e la perdita permanente.
I terroristi devono capire che le loro azioni non solo falliranno, ma porteranno anche alla vergogna personale e conseguenze irreversibili per le loro comunità.
L'umiliazione pubblica dopo la cattura e la negazione del diritto a un funerale che apra loro le porte del paradiso potrebbero contribuire a smantellare il reclutamento più di mille attacchi mirati.
Ci devono essere conseguenze anche per le comunità che sostengono il terrorismo. Gli attacchi contro civili israeliani dovrebbero comportare la perdita di territorio. Non a posti di blocco temporanei. Non alla detenzione amministrativa. All'annessione permanente. Se un terrorista uccide un israeliano, l'intero villaggio dovrebbe essere evacuato e annesso da Israele. Gli abitanti devono essere espulsi, non come punizione, ma come affermazione del principio che chi ospita il terrorismo perde la terra.
Questo approccio è atteso da tempo a Gaza.
Da anni gli israeliani sentono la minaccia: “Un razzo da Gaza e ci riprendiamo la terra”. Ma questa minaccia non è mai stata messa in atto. Al contrario, Gaza è diventata uno Stato terrorista palestinese autonomo, armato fino ai denti con missili iraniani, che scava tunnel sotto le case israeliane e indottrina i suoi giovani con appelli al genocidio. Da anni Israele ha le capacità militari per riconquistare Gaza e ripopolarla. Semplicemente non ha voluto essere un “occupante”.
Questo deve cambiare. Israele deve riconquistare Gaza – militarmente, amministrativamente e demograficamente. L'idea che Israele debba acqua, elettricità e cibo a un'entità che mira alla sua distruzione è assurda e suicida. Israele deve annettere la terra un tempo ebraica e chiarire che quest'area non servirà mai più come rampa di lancio per il terrorismo. Chi attacca Israele perde terra. È semplice.
La stessa logica vale per la Giudea e la Samaria. Le aree A e B devono essere sottoposte a un rigoroso controllo edilizio. L'area C deve essere riservata allo sviluppo ebraico. Tutti i progetti edilizi arabi finanziati dall'estero che mirano a creare fatti compiuti sul terreno dovrebbero essere bloccati. Le organizzazioni non governative, comprese quelle ebraiche, che agiscono come attori ostili, mappano le case ebraiche, fanno lobbying presso organismi internazionali e diffondono calunnie devono essere chiuse. Questi non sono gruppi della società civile, ma agenti del nemico sul campo di battaglia.
Gli israeliani ben intenzionati si fanno prendere da tutto questo. Migliaia di israeliani manifestano regolarmente contro il costo morale dell'«occupazione», senza ammettere che l'alternativa è la distruzione di Israele. Queste persone si stanno arrendendo e si mettono in mostra per ottenere riconoscimento. Devono crescere.
È inevitabile anche una reazione internazionale. Ma la reazione è già in atto. La Corte penale internazionale sta già preparando mandati di arresto contro politici israeliani. I paesi europei e il Canada, così come le Nazioni Unite, si stanno già muovendo verso il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese. Le università occidentali sono già piene di grida di intifada. La moderazione di Israele non ha funzionato.
Israele deve agire con fermezza, non per crudeltà, ma per determinazione. Non per adeguarsi alla barbarie dei suoi nemici, ma per sconfiggerli.
Le guerre contro la sete di distruzione palestinese e per avere il gradimento dell'opinione pubblica non si vincono con conferenze stampa, dialoghi interreligiosi e hasbara. Si vincono quando i nemici di Israele credono che il costo di un attacco allo Stato ebraico sia troppo alto per poterlo sostenere.
È ora che Israele smetta di giocare secondo le regole del Marchese di Queensbury, mentre i suoi nemici giocano secondo quelle del Marchese de Sade.
(Israel Heute, 7 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La vergogna della consegna delle chiavi della città di Bari a Francesca Albanese
di Stefano Piazza
La recente decisione del Comune di Bari di consegnare le chiavi della città a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi, suscita indignazione in ampi settori dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Un atto simbolico che, più che un riconoscimento istituzionale, appare come un’operazione ideologica mascherata da cerimonia civile.
Francesca Albanese è una figura nota per le sue posizioni fortemente critiche nei confronti di Israele. Accusata da tempo di utilizzare un linguaggio sbilanciato e retoricamente ostile, è stata ripetutamente contestata da organizzazioni e governi per aver utilizzato i canali delle Nazioni Unite per diffondere una narrazione giudicata unilaterale e priva di equilibrio. In più occasioni, la relatrice ha definito le azioni israeliane come crimini contro l’umanità, senza mai utilizzare la stessa severità nei confronti di Hamas, responsabile di atti di terrorismo, torture, esecuzioni sommarie e uso strumentale degli ostaggi. A causa di tutto questo lo scorso 10 luglio su iniziativa del Segretario di Stato Marco Rubio, gli Stati Uniti hanno deciso di imporre sanzioni contro Francesca Albanese. Le misure includono il congelamento di eventuali asset detenuti sul suolo americano e il divieto di ingresso negli Stati Uniti per la funzionaria e i suoi familiari. L’amministrazione Trump ha motivato la decisione accusando Albanese di portare avanti una campagna di natura politica ed economica ostile nei confronti di Washington e di Israele.
La sua presenza a Bari e l’omaggio pubblico ricevuto sollevano domande serie sul ruolo delle amministrazioni locali nel prendere posizione su questioni geopolitiche complesse e tragiche come quella israelo-palestinese. Consegnare le chiavi di una città italiana a una consulente ONU il cui operato è stato criticato persino da colleghi delle Nazioni Unite e da associazioni per i diritti umani non allineate con Tel Aviv, significa ignorare la complessità del conflitto, rifiutare il principio di equidistanza e, soprattutto, schierarsi implicitamente contro uno Stato democratico come Israele. A maggior ragione, questo gesto appare inopportuno in un momento in cui il dibattito pubblico europeo è segnato da una crescita di atti antisemiti, da manifestazioni violente e da campagne ideologiche che spesso sfociano nell’aperta legittimazione della violenza jihadista. In questo contesto, le istituzioni dovrebbero rappresentare un baluardo di equilibrio e responsabilità, non prestarsi a operazioni propagandistiche o a omaggi divisivi. Va inoltre ricordato che Francesca Albanese, oltre alle sue dichiarazioni incendiarie, è stata oggetto di contestazioni per presunti legami con ambienti militanti anti-israeliani. Diverse sue dichiarazioni pubbliche hanno suscitato polemiche, tra cui quelle in cui ha definito gli attacchi del 7 ottobre 2023 come «una risposta alla repressione», ignorando del tutto il massacro di civili, donne e bambini compiuto da Hamas.
Nel conferire le chiavi della città, il Comune di Bari ha offerto una vergognosa legittimazione politica a una figura divisiva, rinunciando a rappresentare l’intera cittadinanza in nome di una precisa agenda ideologica. Un gesto che rischia di screditare non solo l’amministrazione cittadina, ma anche l’immagine dell’Italia come paese democratico, attento al pluralismo e al rispetto del diritto internazionale. In un’epoca in cui la diplomazia è sempre più fragile, e il linguaggio della violenza rischia di prevalere su quello del dialogo, sarebbe doveroso da parte delle istituzioni locali agire con prudenza e responsabilità. Onorare chi utilizza il proprio ruolo per diffondere posizioni estreme e unilaterali non è un atto di coraggio, ma un errore politico e morale.
«La maggior parte del male viene compiuta da persone che non hanno mai deciso di essere buone o cattive», scriveva Hannah Arendt nel descrivere la figura di Adolf Eichmann, funzionario nazista che organizzò la parte logistica della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio. Quella riflessione sulla “banalità del male” — il male come esito di un’obbedienza cieca, non meditata, quasi amministrativa — torna drammaticamente attuale se trasportata nell’universo digitale dei nostri tempi. Oggi Eichmann non serve più: bastano un profilo social, un’opinione mal posta, un algoritmo. E così, ogni giorno, su Facebook e sulle altre piattaforme, migliaia di utenti ordinari si trasformano in diffusori seriali di odio. Non con atti straordinari, ma con piccoli gesti quotidiani, apparentemente innocui: un commento, una condivisione, un “mi piace”. Sotto la superficie rassicurante del social più popolare al mondo, si consuma una guerra a bassa intensità, fatta di parole cariche di rabbia, invettive, auguri di morte, disprezzo verso minoranze, politici, medici, donne, migranti, giornalisti. L’odio non è più il monopolio degli estremisti: ormai è diventato mainstream, democratico, condivisibile. Chiunque, armato di tastiera, può spargere veleno in pubblico. Il tutto legittimato da un senso distorto di libertà d’espressione e potenziato da algoritmi che premiano l’engagement, cioè la capacità di provocare reazioni, commenti, scontri. In altre parole: l’odio paga.
• L’algoritmo come Eichmann
Il parallelo può apparire forte, ma è proprio il meccanismo impersonale, automatico e apparentemente neutrale degli algoritmi a rendere inquietante l’analogia con la “banalità del male”. L’algoritmo non ha emozioni né giudizi morali: si limita a privilegiare i contenuti che generano più interazioni. Ed è statisticamente provato che l’indignazione, la rabbia, la paura e l’odio hanno un potere virale superiore rispetto alla solidarietà, alla ragione o alla complessità. Ne consegue che un contenuto violento, razzista, omofobo o sessista ha maggiori probabilità di essere visto, rilanciato, commentato. Facebook non crea l’odio, ma lo amplifica a dismisura e lo monetizza. L’utente indignato resta più tempo sulla piattaforma, commenta, condivide, clicca: tutto questo si traduce in traffico, dati, pubblicità. Come Eichmann eseguiva ordini senza interrogarsi sul loro significato, così l’algoritmo segue il proprio codice senza preoccuparsi delle conseguenze umane. Il risultato è una macchina perfettamente efficiente che trasforma ogni indignazione in profitto e ogni parola in arma.
• Il profilo dell’odiatore medio
Non si tratta più solo di estremisti o provocatori abituali. L’odio che si diffonde online ha ormai assunto una portata capillare, trasversale, persino domestica. L’«odiatore seriale» non è più soltanto una figura marginale: può essere chiunque, anche una persona comune. È il caso, ad esempio, di un pensionato come l’utente Facebook Nunzio Nicita, che in un commento tra i tanti ha scritto: «Trump nega gli aiuti per i danni climatici agli Stati USA che boicottano Israele. Quando dico che tutti gli ebrei vanno sterminati, credo di non sbagliarmi…», oppure, un impiegato o una madre di famiglia. Persone che nella vita reale non farebbero mai certe affermazioni, ma che su Facebook si sentono protette da uno schermo e da una comunità virtuale che applaude i loro sfoghi. Così l’odio diventa parte della routine digitale, come il caffè del mattino. E lo si rivolge contro tutto ciò che appare diverso, ambiguo, distante: il migrante, il politico “traditore”, il giornalista scomodo che diventa “giornalaio” , il medico pro-vaccini, la donna secondo loro “troppo libera”.
• Immagini e video carichi di odio
La violenza verbale è spesso accompagnata da immagini, meme, video manipolati. L’ironia diventa arma, la satira degenerazione. Le parole perdono peso, e così dire “deportiamoli”, “impicchiamoli”, “devono morire tutti” non appare più come una soglia invalicabile, ma come una formula accettabile per “esprimere la propria opinione”. In nome della libertà, si alimenta un linguaggio disumanizzante che rende ogni crimine più prossimo, ogni discriminazione più accettabile. Il vero pericolo, tuttavia, non è soltanto la violenza espressa, ma l’assuefazione collettiva. L’odio online diventa normalità, rumore di fondo. La soglia dell’indignazione si alza progressivamente: ciò che ieri scandalizzava, oggi non sorprende più. La morte di un migrante nel Mediterraneo, l’aggressione a un senzatetto, l’assassinio di una donna vengono spesso accolti con sarcasmo o giustificazioni («se l’è cercata», «doveva stare a casa sua», «non tutti i mali vengono per nuocere»). È in questa zona grigia, tra l’indifferenza e la complicità, che si consuma la nuova banalità del male. Le piattaforme, dal canto loro, faticano a rispondere. Le segnalazioni vengono quasi sempre ignorate, gli account sospesi solo in caso di comportamenti estremi, e le regole di moderazione risultano applicate in modo incoerente. Anche per questo, l’hate speech digitale non conosce freni reali: sa che, nella maggior parte dei casi, non avrà conseguenze. E così si continua senza che nessuno faccia nulla.
• Uscire dal buco nero
Allora cosa fare? La risposta non può essere solamente tecnologica o repressiva. Certo, servono leggi più efficaci, piattaforme più responsabili e algoritmi più etici. Ma serve soprattutto una presa di coscienza culturale. Serve ricordare, come scriveva Arendt, che il male non è sempre opera di mostri, ma può scorrere attraverso la normalità quotidiana, travestito da “libertà”, da “verità”, da “opinione personale”. È necessario recuperare il senso del limite, la responsabilità della parola, il rispetto per l’altro. Serve educare al digitale, ma anche — e soprattutto — al pensiero critico e alla decenza. La battaglia contro l’odio su Facebook e sugli altri social come X non si gioca solo nei server della Silicon Valley, ma nelle nostre case, nei nostri telefoni, nelle nostre coscienze. La rete è specchio della società: se l’odio scorre liberamente online, è perché lo abbiamo reso accettabile anche offline. Ribelliamoci.
(L'informale, 6 agosto 2025)
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USA, auto bruciate e scritte “Morte all’IDF”
Attacco antisemita contro la famiglia di un soldato israeliano
di Luca Spizzichino
Tre automobili sono state date alle fiamme e scritte antisemite sono comparse sull’asfalto davanti all’abitazione di una famiglia ebraica a St. Louis, Missouri. L’attacco, avvenuto nella notte tra martedì e mercoledì nel quartiere residenziale di Clayton, è ora al centro di un’indagine per crimine d’odio da parte della polizia locale in coordinamento con l’FBI.
Secondo le prime ricostruzioni, l’atto intimidatorio sarebbe legato al servizio militare di un membro della famiglia nell’IDF (le Forze di Difesa israeliane), recentemente rientrato negli Stati Uniti. Tra le scritte lasciate dai vandali è apparsa la frase “Death to the IDF”, accompagnata da minacce esplicite rivolte a uno dei residenti.
L’episodio ha suscitato profonda indignazione all’interno della comunità ebraica locale e da parte delle autorità federali e cittadine. Diverse organizzazioni ebraiche hanno denunciato l’episodio come l’ennesimo segnale della crescente radicalizzazione dell’antisemitismo negli Stati Uniti. “Questo non è semplice vandalismo, ma un atto di odio mirato, il risultato della crescente legittimazione dell’antisemitismo”, ha dichiarato Danny Cohn, presidente della Jewish Federation di St. Louis. “Quando slogan antiebraici e anti-Israele restano impuniti, si trasformano in violenza concreta contro la nostra comunità”.
Parole forti anche da parte di Jordan Kadosh, responsabile locale dell’Anti-Defamation League (ADL): “Quando qualcuno dice ‘Globalize the Intifada’, questo è ciò che intende: auto bruciate in un quartiere residenziale americano. Vogliono portare la loro lotta contro gli ebrei ovunque. Ma non ci faremo intimidire. Siamo ebrei americani. Siamo qui per restare e continueremo a far sentire la nostra voce”.
L’Ambasciata d’Israele a Washington ha seguito da vicino il caso, che è stato formalmente segnalato alle autorità statunitensi. In una dichiarazione congiunta, sei organizzazioni ebraiche di St. Louis — tra cui ADL, AJC, JCRC, Jewish Federation e il Museo dell’Olocausto locale — hanno parlato di “un atto di intimidazione che dimostra cosa accade quando l’odio contro Israele e contro gli ebrei viene sdoganato pubblicamente”.
La sindaca di Clayton, Bridget McAndrew, ha condannato l’attacco definendolo “un atto offensivo e violento”, ribadendo che la città “non tollererà mai intimidazioni basate su religione, etnia o ideologia”. Sulla vicenda è intervenuto anche Leo Terrell, presidente della Task Force del Dipartimento di Giustizia per la Lotta all’Antisemitismo: “Sono in contatto con l’FBI, con la famiglia colpita e con la Procura. Chi commette crimini d’odio contro gli ebrei verrà identificato e perseguito a norma di legge”.
L’episodio arriva a poche ore dalla pubblicazione del nuovo report dell’FBI sui crimini d’odio registrati nel 2024: oltre 11.600 casi in tutto il Paese, circa il 25% dei quali motivati da pregiudizi religiosi. La maggioranza delle vittime, ancora una volta, sono state persone di fede ebraica.
(Shalom, 6 agosto 2025)
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«C'è odio diffuso, una trance collettiva
Della Rocca, voce ebraica senza paura
di Aldo Torchiaro
Ruben Della Rocca è giornalista, voce di Radio Radicale e già vicepresidente della Comunità ebraica di Roma. Lo intervistiamo in un momento di particolare allarme, con un'ondata di antisemitismo sempre più allarmante.
- Avevi mai visto una campagna d'odio simile a quella attuale?
«Nel 1982, da liceale, vissi un clima molto simile dopo l'invasione israeliana del Libano. La campagna mediatica fu violenta e sfociò nel sangue, con l'attentato alla sinagoga e l'uccisione del piccolo Stefano Gaj Taché. Oggi però la situazione è aggravata dai social, che amplificano disinformazione e odio, diffondendo psicosi e slogan violenti. Chiunque parla di Israele, spesso senza alcuna competenza. È grave la responsabilità di media e politica, che hanno ridotto tutto a una disputa da tifosi. Ma ciò che più inquieta è il crollo degli anticorpi morali: Auschwitz non basta più a fermare l'antisemitismo».
- Gli ebrei romani si sentono sicuri? Sconsigliate di indossare la kippah?
«Viviamo da oltre quarant'anni con misure di sicurezza permanenti: scorte davanti ai templi, militari all'ingresso delle scuole. È alienante, ma è la nostra realtà quotidiana. Siamo grati alle forze dell'ordine, ma resta l'assurdità. Oggi siamo preoccupati, certo, ma non abbiamo paura. Mai avuta, e mai l'avremo. Continueremo a portare con orgoglio la kippah e a non nascondere i nostri simboli. Siamo forti della nostra fede, dei nostri valori millenari».
- Alcuni italiani fanno aliyah e servono nell'IDF. Cosa pensi dell'ipotesi che Israele amministri Gaza dopo la guerra?
«Il pensiero costante è per i nostri ragazzi al fronte, per le famiglie, per gli ostaggi. Ma anche per i civili palestinesi usati da Hamas come scudi umani. La propaganda jihadista ha voluto questa guerra, e ora sfrutta fame e sangue per commuovere l'Occidente. Israele deciderà cosa fare con Gaza, ma una cosa è certa: i rapiti vanno riportati a casa. Vivi o, se necessario, i loro corpi. Israele non ha scelto questa guerra, ma la combatterà. E noi saremo al suo fianco, sempre e comunque».
- Come trovi l'iniziativa della Regione Lazio sugli aiuti umanitari a Gaza?
«Un atto figlio della confusione generale. Ogni giorno vediamo amministrazioni locali che promuovono boicottaggi culturali, farmaceutici, economici, riconoscimenti di entità che non esistono, chiavi delle città a personaggi ambigui come Francesca Albanese. È uno stato di trance collettiva. Il tema della "fame a Gaza" colpisce l'opinione pubblica più ingenua, ma Hamas ha dichiarato di voler affamare la sua stessa popolazione per fini propagandistici. E l'Occidente ci casca».
- Il Qatar finanzia Hamas, ma anche eventi sportivi, moda e media. Quanto pesa questa influenza?
«Moltissimo. Basta entrare in un grande albergo, seguire una partita o un GP di Formula 1, e il Qatar è ovunque. Ma soprattutto nell'informazione. Al Jazeera è una macchina di disinformazione. Hamas ha potuto scavare centinaia di chilometri di tunnel grazie a quei finanziamenti. E lo stesso denaro ha finanziato narrazioni ideologiche, ONG, università e centri culturali: una propaganda ben oliata».
- Le immagini degli ostaggi sono state censurate. Cosa prova la diaspora?
«Censurare le immagini degli ostaggi significa negare la realtà. Anche Setteottobre è stata oscurata su YouTube da Meta per averle pubblicate. Eppure, chi è ebreo sa che la pace è nel nostro DNA: shalom è il saluto che usiamo ogni giorno, le chaim il brindisi alla vita. Siamo un popolo che prega per la pace più volte al giorno, ma che sa anche di non poter abbassare la guardia. Finché ci saranno nemici che vogliono la nostra distruzione, non ci sarà sicurezza. Ma anche questo momento passerà.
«Am Israel Chai. Il popolo d'Israele vive».
(Il Riformista, 6 agosto 2025)
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I coloni israeliani
Quello che su di loro dicono e quello che sappiamo
di Krista Gerloff *
Nei media, sia a livello mondiale che in Israele, sentiamo parlare di loro solo quando ci sono scontri e violenze contro i palestinesi o i soldati israeliani. Se questi episodi sono causati dai coloni, si tratta di estremisti che rappresentano una piccola parte della popolazione totale dei cosiddetti coloni israeliani. Per il resto, tra gli attuali quasi 800.000 israeliani che vivono sulle alture del Golan, in Giudea e Samaria e a Gerusalemme Est, troviamo tutti i tipi di persone che incontriamo anche nella società israeliana in generale.
Molti abitanti della capitale israeliana Gerusalemme non hanno idea di essere considerati “coloni” e “occupanti illegali” dagli occhi dell'Unione Europea e di molte istituzioni internazionali. Vivono in quartieri e territori che erano stati occupati dalla Giordania dopo la guerra d'indipendenza di Israele nel 1948 e conquistati da Israele nel 1967. Nel luglio 1980, la Knesset, il parlamento israeliano, ha dichiarato con la cosiddetta “Legge di Gerusalemme” che l'intera città di Gerusalemme è la capitale eterna e indivisibile dello Stato di Israele.
Gerusalemme è la città più grande di Israele, in rapida crescita e con una popolazione araba ed ebraica in costante aumento. Dal punto di vista israeliano, Gerusalemme non è quindi, dal punto di vista giuridico, un “insediamento”. Tuttavia, poiché l'Unione Europea mantiene la sua posizione e le persone, come è naturale, si trasferiscono da un quartiere all'altro, alcuni diventano coloni, mentre altri, trasferendosi, cessano di esserlo. Questo vale anche in altre parti del Paese. Le persone si trasferiscono nei cosiddetti insediamenti, che oggi contano decine di migliaia di abitanti, come Maale Adumim o Modiin Ilit, e poi tornano nel territorio riconosciuto di Israele, a Beer Sheva o Tel Aviv. Il numero di israeliani che per motivi ideologici non vivrebbero in un “insediamento” sta diminuendo per varie ragioni.
Il termine “insediamento” può creare confusione. Si tratta di un intero spettro di città, villaggi e località, comprese piccole fattorie nel deserto della Giudea o nelle montagne della Samaria.
Oltre ai coloni di Gerusalemme, ci sono anche gli abitanti delle alture del Golan, occupate da Israele durante la guerra dei sei giorni e dichiarate territorio israeliano per legge nel 1981. Poco dopo la fine della guerra, alcuni kibbutznik esperti fondarono il primo kibbutz “Marom Golan”. Ben presto ne seguirono altri. Oggi, visitando Sussita, uno dei parchi archeologici nazionali, non solo è possibile passeggiare su una strada romana, ma anche vedere un filmato che racconta come i kibbutznik di Ein Gev, durante la guerra d'indipendenza, conquistarono persino una base militare siriana dalla quale venivano costantemente bombardati.
L'insediamento delle alture del Golan dopo la guerra dei sei giorni avvenne principalmente per motivi di sicurezza. Durante la guerra del Yom Kippur del 1973, gli abitanti furono costretti a fuggire. Ma dopo la guerra tornarono e ricostruirono i luoghi distrutti. Oggi le alture del Golan sono un luogo di fertili piantagioni, vigneti e pascoli. A un'altitudine di oltre 1000 metri sul livello del mare crescono anche lamponi e mirtilli, che altrimenti non crescono in Israele.
I drusi ai piedi del monte Hermon coltivano mele deliziose e preparano insalate con erbe selvatiche. Gli scavi archeologici testimoniano una storia interessante e le riserve naturali attirano innumerevoli visitatori. Una particolarità di Gamla è il centro di protezione per avvoltoi in via di estinzione.
Dalle rive del lago di Tiberiade si può vedere, davanti alle alture del Golan, una cima su cui, dopo la prima guerra mondiale e la caduta dell'Impero Ottomano, si riunirono i rappresentanti della Gran Bretagna e della Francia per dividersi il territorio. All'epoca le alture del Golan furono assegnate alla Francia. Con la fine del mandato francese, nel 1946 la Siria ottenne l'indipendenza. I britannici avrebbero avuto il mandato di consentire agli ebrei di costruire una patria nazionale sia a ovest che a est del Giordano. Ma già all'inizio degli anni '20, circa il 75% del territorio palestinese sotto mandato britannico era stato separato e dichiarato Emirato di Abdullah Ibn Hussein. Abdullah era originario della penisola arabica. Suo padre era stato lo sceriffo della Mecca. Il Consiglio della Società delle Nazioni approvò questa prima divisione della Palestina il 16 settembre 1922. Di conseguenza, la parte Est del territorio palestinese sotto mandato britannico divenne l'Emirato della Transgiordania.
Dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993, sotto il governo di Yitzhak Rabin si pensò di restituire le alture del Golan alla Siria. All'epoca spuntarono ovunque striscioni, manifesti e adesivi con la scritta “Il popolo con il Golan”. Oggi in Israele nessuno si rammarica che un “accordo di pace” con la Siria non sia stato raggiunto a quelle condizioni. Dal punto di vista dell'UE e di gran parte dell'ONU, gli abitanti israeliani delle alture del Golan continuano ad essere considerati occupanti di territorio siriano. Sotto la presidenza di Donald Trump, nel 2019 gli Stati Uniti hanno riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan.
C'erano coloni che erano stati abitanti dei villaggi ebraici nella Striscia di Gaza. Esattamente 20 anni fa, il governo israeliano guidato da Ariel Sharon ha attuato una decisione di separarsi unilateralmente dai palestinesi. Tutti gli abitanti delle comunità ebraiche nella Striscia di Gaza furono costretti a trasferirsi, “sradicati”, come loro stessi si definirono. Ciò avvenne tra gli applausi di tutto il mondo, anche se in realtà, secondo la quarta Convenzione di Ginevra, non è più legale “deportare o trasferire” la popolazione civile per motivi politici.
Quando nel 2023, in relazione alle controversie e alle massicce manifestazioni sulla riforma della giustizia, si parlava della “più grande crisi dalla fondazione dello Stato di Israele”, era inevitabile pensare alla sfortunata separazione dai palestinesi nella Striscia di Gaza attraverso l'espulsione della propria popolazione. A mio avviso, le scene strazianti dei soldati israeliani che trascinavano con la forza i propri civili fuori dalle loro case hanno rappresentato la più grande crisi della società israeliana, con conseguenze terribili.
I palestinesi avrebbero potuto costruire una Singapore sulla costa orientale del Mediterraneo. Ma hanno costruito Hamastan – e il mondo ha continuato a parlare di occupazione, anche se nella Striscia di Gaza non era rimasto più un solo ebreo, un solo soldato israeliano. L'agricoltura fiorente con le enormi serre sulla sabbia, le sinagoghe, le scuole e gli asili, tutte le case sono state distrutte dai palestinesi: “il mondo di ieri”, come direbbe Stefan Zweig, ha cessato di esistere.
Vent'anni dopo questo tragico tentativo di separarsi dai palestinesi di Gaza e di lasciarli all'autogoverno; dopo tre decenni di attacchi missilistici e terroristici sul territorio israeliano, culminati il 7 ottobre 2023 nel peggior massacro di ebrei dall'Olocausto, il generale in pensione Gerschon HaCohen, che aveva guidato l'espulsione degli ebrei dalla Striscia di Gaza, ammette che senza l'evacuazione degli insediamenti il massacro non sarebbe avvenuto. Il contrabbando di armi dall'Iran e la creazione di una roccaforte del terrorismo nella Striscia di Gaza non sarebbero stati possibili in questo modo. Probabilmente sentiremo ancora parlare di questi coloni e dei loro discendenti, anche se inizialmente in relazione allo sfortunato ventesimo anniversario.
Finora abbiamo parlato di coloni che, dal punto di vista israeliano, non sono tali, né sono considerati tali da nessuno. Poi ci sono i coloni che non lo sono più perché il governo li ha evacuati contro la loro volontà dai villaggi della Striscia di Gaza. Ci sono i coloni di cui si parla molto attualmente e che vivono in luoghi storicamente molto importanti per il popolo ebraico.
Scrivo “attualmente” perché il 23 luglio 2025 la Knesset ha approvato con una maggioranza di 71 voti una raccomandazione ufficiale al governo israeliano di dichiarare la sovranità sulla Giudea, la Samaria e la Valle del Giordano. In questa risoluzione, questi territori sono definiti parte integrante della patria storica, culturale e spirituale del popolo ebraico.
Prendiamo ad esempio i coloni di Hebron. Qui il patriarca Abramo acquistò un campo per seppellire sua moglie Sara. Qui sono sepolti anche i patriarchi Isacco e Giacobbe insieme alle loro mogli Rebecca e Lea. In questa città regnò il re Davide prima di fare Gerusalemme la sua capitale. Per 3000 anni in questa città ha vissuto ininterrottamente una comunità ebraica, fino all'estate del 1929, quando gli arabi compirono un terribile massacro. Le forze britanniche del mandato evacuarono gli ebrei sopravvissuti, cancellando così l'antica comunità di Hebron.
Quando si valuta una situazione dal punto di vista storico, ci si chiede sempre fino a che punto si debba risalire nella storia. Ai tempi biblici? All'epoca bizantina? Al Medioevo? All'inizio dell'età moderna? Se si guarda alle alture del Golan, alla Striscia di Gaza, alla Giudea e alla Samaria, esistono reperti archeologici e prove scritte di una presenza ebraica, non di rado di una popolazione a maggioranza ebraica. Il bellissimo mosaico di un'antica sinagoga nella Striscia di Gaza può essere ammirato oggi, ad esempio, nel Museo del Buon Samaritano sulla strada per il Mar Morto.
In Europa, i non ebrei hanno sempre voluto decidere dove gli ebrei potevano vivere e dove no. Per questo motivo, la vita ebraica in Europa è stata caratterizzata da espulsioni, restrizioni, ghetti e cose ancora peggiori. Anche oggi, quando il popolo ebraico è tornato nella sua patria originaria, noi europei continuiamo evidentemente a voler decidere dove gli ebrei possono vivere e dove no, persino nel loro stesso Paese.
I palestinesi e i loro sostenitori hanno dichiarato apertamente la loro posizione in tutto il mondo, non solo in arabo, ma in modo comprensibile a tutti, scandendo: «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera!». Chiedono apertamente che l'intero territorio storico di Israele, dal Giordano al Mar Mediterraneo, sia “pulito dagli ebrei”.
Quando lo slogan “Dal fiume al mare” è diventato così popolare, sono rimasto immediatamente colpita da un'ironia del destino o forse dall'ironia di Dio. Questa frase proviene dalla Bibbia. Lì Dio promette al suo popolo (Deuteronomio 11,24): «Ogni luogo che il vostro piede calpesterà sarà vostro: dal deserto al Libano, dal fiume Eufrate al Mar Mediterraneo, tutto questo sarà il vostro territorio». A tutto questo è legata tuttavia una condizione nel rapporto tra il Dio di Israele e il suo popolo.
* Krista Gerloff
Nata nel 1965, è una madre entusiasta di cinque figli e nonna. È cresciuta nella Repubblica Socialista Cecoslovacca (ČSSR) e ha studiato teologia a Praga, Halle an der Saale e Tubinga (Germania). Dal 1994 vive con la sua famiglia a Gerusalemme.
Fin dall'inizio della sua permanenza in Israele, Krista ha descritto le sue esperienze e spiegato la cultura ebraica, le pratiche religiose e il modo di pensare del popolo ebraico. I suoi articoli sono stati pubblicati su giornali e riviste nella Repubblica Ceca e nell'Europa di lingua tedesca. Ha lavorato come traduttrice di libri e articoli in lingua ceca ed è autrice di diversi libri.
Come apprezzata relatrice, è disponibile principalmente per gruppi turistici cechi in visita in Israele. Recentemente ha tenuto anche conferenze in tedesco. Non solo parla della vita quotidiana in Israele, ma si dedica anche all'interpretazione dei testi biblici sulla base della sua conoscenza della lingua ebraica e della vita quotidiana del popolo ebraico.
(gerloff.co.il, 5 agosto 2025)
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Ripresentiamo qui di seguito un articolo di Krista Gerloff presente nel nostro sito già dal 2001.
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Ebraismo e cristianesimo in Israele
di Krista Gerloff
GERUSALEMME - Essere ebrei e credere in Gesù non è molto popolare in Israele. Gli Ebrei che riconoscono Gesù come Messia sono considerati come traditori passati alla religione del nemico. Se invece qualcuno mescola il suo ebraismo con le religioni orientali, questo viene accettato.
Certamente, i motivi di questo fatto stanno anche nellantisemitismo cristiano e nelle brutali persecuzioni degli Ebrei nella storia della chiesa. Unebrea messianica nata e cresciuta in America mi ha detto una volta che lei pensava che Gesù venisse dalla Polonia, più o meno dalle parti di Varsavia, dove si trovavano i peggiori antisemiti. Il Nuovo Testamento, nella sua immaginazione, era un trattato antisemita.
Un mio buon amico è cresciuto, fin dalla fondazione dello Stato di Israele, nel quartiere ultraortodosso di Mea Schearim. Se dei missionari cristiani volevano distribuire a dei bambini ebrei della letteratura cristiana, loro dovevano rispondere - così era stato insegnato dai loro maestri - citando Deut. 7.26: Non introdurrai cosa abominevole in casa tua, perché saresti votato allo sterminio come quella cosa; dovrai detestarla e aborrirla, perché è cosa votata allo sterminio.
Molti dei nostri amici ebrei che vivono in America, questo paese che pretende di essere un esempio al mondo in fatto di democrazia, sono stati derisi e colpiti perché gli Ebrei hanno ucciso Gesù. Ma forse questo non dovrebbe sorprendermi molto, se anche nella mia patria dorigine ceca si sente dire la frase: Zingari ed Ebrei nella camera a gas!
Ma gli Ebrei hanno anche altri motivi, oltre allantisemitismo, per il loro atteggiamento di rifiuto della fede cristiana. Molti hanno limpressione che il cristianesimo contraddica la fede strettamente monoteistica di Israele. Quella povera gente che crede che un uomo sia Dio!, diceva commiserando i cristiani un nostro conoscente.
Un altro racconta di un Ebreo che chiede al suo Rabbi: Chi è più vicino a noi, i Cristiani o i Musulmani? A prima vista, i Cristiani risponde pensosamente il Rabbino, con i quali abbiamo molte cose in comune. Ma in realtà ci sono più vicini i Musulmani, perché i Cristiani credono in tre dèi e mangiano carne di maiale.
Nel corso della storia il cristianesimo si è presentato come una religione ostile allebraismo e sicuramente diversa, estranea. Come poteva accettare un Ebreo che le uova di cioccolata pitturate che si fanno a Pasqua avessero qualcosa a che vedere con il Pessach biblico? con la festa che Dio aveva ordinato di festeggiare e durante la quale Egli aveva fatto morire Suo Figlio come agnello sacrificale?
Le feste hanno un ruolo centrale nella fede di Israele. E anche in una gran parte della cristianità. Si può trovare, dal punto di vista ebreo, qualche denominatore comune? Tutti gli usi religioso-culturali dei cristiani si differenziano da quelli ebrei come il giorno e la notte, come il sabato e la domenica.
Ah già, il sabato e la domenica! Mentre nel pensiero biblico e nel pensiero di Israele la settimana ha il punto più alto nello Shabat (sabato), che comincia il venerdì sera, come ogni altro giorno (Fu sera e fu mattina, il primo giorno...), nel nostro modo di pensare ogni giorno comincia la mattina, e il primo giorno della settimana è naturalmente il lunedì.
Nella lingua ebraica i giorni della settimana vengono nominati secondo il loro numero di successione. Cioè, la domenica è il primo giorno, il lunedì il secondo, e così via. Il nostro calendario comincia il primo di gennaio, quello ebreo in autunno. Noi ci regoliamo secondo il calendario solare, i mesi ebrei finiscono con la luna piena, come sta scritto anche nella Bibbia.
Tutto quello che ho scritto è un tentativo di spiegare perché gli Ebrei - soprattutto quelli che prendono sul serio la loro fede - non si lasciano facilmente evangelizzare. Soprattutto, credo, le guide turistiche ebree.
Qualche volta si trovano persone che probabilmente nel loro posto di lavoro e con i loro vicini di casa a malapena aprono la bocca, il cui spirito missionario si risveglia impetuosamente nellunico loro viaggio di vacanza che fanno in Israele.
Poiché le guide turistiche vivono di turismo, lasciano che si dica tutto. In corsi speciali vengono esaurientemente informati sui Cristiani. Lì vengono a sapere che ci sono diverse chiese, comunità, comunioni, correnti e movimenti, imparano le loro dottrine e le loro tradizioni, e anche le storie del Nuovo Testamento.
Come potrebbero altrimenti condurre i loro gruppi nel luoghi sacri, come per esempio il posto sulle rive del lago di Genezaret dove sono precipitati in mare i porci? Lì, ancora poco tempo fa, sui resti di una basilica bizantina c'era un cartello con la scritta Swine Church che si può tradurre con Chiesa dei maiali o in altro modo, ma in ogni caso non suona molto bene.
Non sono soltanto le guide turistiche ad essere esperti sulla fede e i gusti dei diversi gruppi cristiani. Nellufficio del direttore di una ditta che produce souvenir si può trovare tutto sul profumo biblico fatto secondo la ricetta autentica del re Salomone o della regina di Saba, fino ai recipienti e alle vasche battesimali originali del Giordano, come cercano di dimostrare i certificati di autenticità.
Le brocche pitturate a mano con la croce di Gerusalemme sono per i cattolici, spiega il direttore delle vendite, quelle più semplici con i simboli ebrei sono per gli evangelici.
Se tu sei un ebreo messianico, sei un traditore. Se sei un cristiano va tutto bene. Un cristiano è un goy, appartiene a unaltra nazione e logicamente anche a unaltra religione.
In Israele nessuno ti rinfaccerà di essere cristiano, e a Natale anzi molti vicini ebrei verranno ad ammirare il tuo albero di Natale, per gustare un po di atmosfera. Come cristiano pagano puoi anche essere utile, e precisamente come Shabbes-Goy. Perché quello che il sabato allebreo non è permesso, è permesso al cristiano. Così può succedere che la sera del venerdì, dopo che è cominciato il sabato, tu senta bussare alla porta (perché suonare il campanello non è lecito) e veda qualcuno che ti chiede un favore.
Una volta, per esempio, quando mio marito era allestero, una donna sconosciuta del vicinato mi è venuta a trovare con sua figlia pregandomi di andare con lei. E che cosa faccio dei miei bambini che dormono? Non posso mica lasciarli soli.
Non so come ho trovato il coraggio di accettare linvito di questa sconosciuta signora che si è offerta di guardare i miei bambini mentre io andavo via con sua figlia. E andato tutto bene. La donna era una persona affidabile. Era scattato linterruttore della luce e io [che come non ebrea non ero tenuta allosservanza del sabato, n.d.r.] ho potuto riattaccarlo e così hanno potuto avere caldo e luce anche in giorno di sabato. Sia lodato il Signore.
E come è arrivata alla fede lebrea messianica proveniente dallAmerica nominata sopra? Leggendo il Nuovo Testamento. Si è accorta con sorpresa che Gesù era un ebreo di Israele, che aveva vissuto come un pio ebreo, che aveva amato la Torà ... e che ama anche lei ed ora è il suo Messia.
(Israelnetz.de, 24. aprile 2001 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Gaza, verso la resa dei conti: Israele si prepara a una svolta strategica
di Samuel Capelluto
Dopo mesi di attesa, trattative e pressioni, il governo israeliano sembra aver preso una decisione che potrebbe ridefinire l’intero conflitto: procedere con la conquista totale della Striscia di Gaza e la sconfitta militare di Hamas. Lo riportano fonti autorevoli dell’ufficio del Primo Ministro, secondo cui “il dado è tratto”. Secondo le stesse fonti, il gabinetto di sicurezza si riunirà a breve per ratificare la decisione.
La svolta arriva dopo il fallimento dei negoziati per il rilascio degli ostaggi. Il Capo di Stato Maggiore, Zamir, si era opposto a un’operazione estesa nelle aree centrali della Striscia – come Deir al-Balah, Nuseirat e la città di Gaza – per il timore che la presenza di ostaggi e civili potesse trasformare l’intervento in un rischio incalcolabile. L’IDF aveva proposto una strategia alternativa: raid mirati, accerchiamento e logoramento. Ma il tempo stringe.
Secondo il governo, l’ipotesi di salvare gli ostaggi attraverso un’intesa con Hamas si è dissolta. La convinzione, condivisa anche da Washington, è che Hamas non voglia più negoziare. Donald Trump, in contatto con Netanyahu, avrebbe dato il via libera per un’operazione su larga scala, convinto che solo dopo il crollo di Hamas sarà possibile iniziare un processo di ricostruzione duraturo a Gaza.
La posizione del governo è chiara: “Non c’è più tempo per strategie graduali. Gli ostaggi rischiano la vita ogni giorno. Hamas va sconfitto con forza, anche nei luoghi più sensibili”. L’operazione, se approvata, coinvolgerà probabilmente migliaia di riservisti e porterà l’IDF a entrare in aree finora evitate per ragioni umanitarie e di sicurezza.
Ma la decisione divide. All’interno stesso di Israele si è aperto un intenso dibattito. Alcuni esponenti della sinistra, tra cui figure di Meretz e Avodà, hanno chiesto al Capo di Stato Maggiore di non eseguire l’ordine, temendo per la sorte degli ostaggi. Le famiglie di alcuni rapiti parlano apertamente di “condanna a morte” per i loro cari.
Il Primo Ministro Netanyahu, però, resta fermo: “Hamas non vuole un accordo. Vuole spezzarci con i suoi video dell’orrore. Io sono determinato a eliminarlo e a liberare i nostri figli.”
Anche il Ministro Smotrich ha chiarito: “Non ci sarà più alcuna trattativa parziale. Solo una resa totale: rilascio incondizionato degli ostaggi, disarmo di Hamas, smilitarizzazione di Gaza ed espulsione dei suoi leader.”
In parallelo, voci palestinesi indicano che Hamas, in colloqui riservati, starebbe valutando l’ipotesi di una smilitarizzazione graduale della Striscia, sotto garanzie internazionali. Ma per ora, non si tratta di una posizione ufficiale – e a Gerusalemme nessuno sembra più disposto a scommettere sul dialogo.
Nel frattempo, l’IDF si prepara. Nove brigate operano già all’interno della Striscia, ma potrebbero aumentare sensibilmente. Il piano, secondo indiscrezioni, prevede anche la possibilità di colpire la leadership di Hamas all’estero, se necessario.
Israele si trova dunque a un bivio: proseguire con cautela e il rischio di stallo, o passare all’azione e assumersi la responsabilità di un cambiamento storico. Una cosa è certa: la determinazione a sconfiggere Hamas non è mai stata così alta. E forse, proprio questo messaggio – prima ancora delle bombe – è quello che oggi Israele vuole far arrivare a Gaza.
(Shalom, 5 agosto 2025)
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Israele sta conducendo una “guerra di Dio” o contro se stesso?
In Israele non infuria solo una guerra nella Striscia di Gaza. È in corso una profonda e esistenziale disputa sul futuro del Paese, sul carattere dello Stato, sulla responsabilità, sul senso della realtà e sul rapporto tra strategia, morale e fede.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - “Un esercito in piedi è un esercito vulnerabile. Non importa quanto sia forte: una guerra senza obiettivi politici porta alla sconfitta. La guerra che stiamo combattendo attualmente è un inganno”. Nella loro dichiarazione, gli esperti di sicurezza avvertono: “Questa guerra ha smesso di essere una guerra giusta. Sta portando Israele alla perdita della sua sicurezza e della sua identità”. Parlano di un vicolo cieco militare e strategico: "Stiamo soprattutto cercando di limitare i danni. I nostri successi sono già stati sepolti. Non c'è alcun esempio nella storia di un esercito che abbia vinto una guerra di guerriglia. Nella Striscia di Gaza la situazione è statica. Senza movimento, l'esercito perde forza". Un gruppo di ex alti funzionari della sicurezza ha lanciato un drammatico appello al governo e all'opinione pubblica israeliana.
Tutti gli esperti citati sono concordi: il governo israeliano sta commettendo un grave errore strategico e sta conducendo il Paese in un pericoloso vicolo cieco. Con riferimento all'attuale offensiva terrestre “Gideon's Chariots”, iniziata a marzo, gli ex capi della sicurezza esprimono un giudizio disilludente: “L'operazione non ha portato quasi nessun progresso. Abbiamo un numero elevato di vittime e i successi militari sono limitati. Il danno internazionale, invece, è enorme”. Soprattutto sulla questione degli ostaggi non è stato ottenuto nulla. “Questa guerra non serve più a riportare a casa gli ostaggi, ma è diventata un mezzo per perseguire obiettivi messianici. Il governo è stato ormai preso in ostaggio da una minoranza piccola ma radicale che impone decisioni irrazionali”.
Solo due giorni prima, diverse centinaia di artisti israeliani, tra cui musicisti, attori, scrittori e registi, hanno firmato una lettera aperta in cui chiedono la fine della guerra nella Striscia di Gaza. Secondo loro, Israele sta commettendo crimini di guerra e violando principi umanitari fondamentali. I firmatari chiedono un cambiamento di rotta politica verso una soluzione diplomatica. Il loro appello sta scatenando accesi dibattiti nell'opinione pubblica israeliana: per alcuni è un'espressione di coraggio civile, per altri una pericolosa delegittimazione del proprio esercito in piena guerra.
D'altra parte, però, c'è un governo che non esita a rivendicare la narrativa biblica per la propria politica. Le operazioni sono ora chiamate “carri di Gedeone”, come se non si volessero raggiungere solo obiettivi militari, ma anche aprire un capitolo della storia della salvezza. Il Gedeone biblico era un uomo umile che esitò quando Dio lo chiamò a combattere contro Midian. Solo dopo che Dio gli diede un segno, osò fare il passo, e anche allora non con una grande massa, ma con un piccolo gruppo di eletti. La vittoria di Gedeone non fu una dimostrazione di potere, ma un miracolo.
Il gruppo degli ex capi della sicurezza ritiene che il governo di Netanyahu sia stato “dirottato da una minoranza piccola ma radicalmente religiosa”, come si legge nell'appello. “Un gruppo che sembra credere che la volontà di Dio sia dietro ogni sua mossa militare”. Ma anche questo è biblicamente fuorviante. Nei profeti troviamo innumerevoli avvertimenti ai re e ai principi che si basano sul potere invece che sulla giustizia. La differenza tra la guerra divina e l'arroganza umana sta nel motivo e nell'obiettivo.
Gli ex capi di Stato Maggiore, i capi del Mossad e dello Shin Bet, così come i capi della polizia, rappresentano una leadership pragmatica, spesso di stampo laico. La loro visione del mondo era incentrata sulla sicurezza, a volte sulla realpolitik, ma raramente caratterizzata da un profondo radicamento nella storia biblica di Israele o nell'identità religiosa. Molti nel campo religioso accusano queste élite di governare Israele come «un paese occidentale qualsiasi», senza comprendere che Israele ha una vocazione divina e una storia profetica.
L'attuale guerra può ora essere vista come una svolta spirituale. Molti sostenitori dell'attuale governo religioso di destra vedono nella guerra contro Hamas non solo un conflitto militare, ma una lotta tra la luce e le tenebre, tra la verità biblica e i nemici di Dio. Per loro non si tratta di una guerra ordinaria, ma di una battaglia spirituale per il ritorno di Israele al suo destino divino e per il completo ritorno nella terra promessa, come la vedevano Abramo, Giosuè o i profeti. Dicono: “Non c'era giustizia perché abbiamo dimenticato la nostra vocazione”. Ciò significa che per loro non si tratta solo di sicurezza, ma di un ritorno a ciò che Israele dovrebbe essere: un popolo santo in una Terra Santa.
Secondo questa visione, la paura di molti ex ufficiali e delle élite liberali di un “governo messianico” deriva dalla loro incapacità di comprendere la fede come risorsa strategica e nazionale. Essi vedono la religione solo come un rischio, ma non come una fonte di forza. La fede nelle promesse, nella terra di Israele, nella storia divina del popolo ebraico – tutto questo era loro estraneo. Per questo non si fidano di coloro che ora fanno politica e guerra in nome della fede, della Bibbia e della speranza messianica.
Ora possiamo porre la domanda opposta: la via religiosa è automaticamente giusta? Ma anche se si attribuisce al governo religioso una comprensione più profonda della dimensione biblica, rimane la domanda: questa spiritualità viene davvero tradotta in giustizia, misericordia e timore di Dio, o serve al potere? Perché anche nel testo biblico vediamo ripetutamente che le parole pie e la retorica messianica non bastano. I profeti – Isaia, Geremia, Amos – criticavano proprio quei re che credevano di agire in nome di Dio, ma falsificavano la volontà di Dio e dimenticavano la responsabilità sociale o morale.
Sì, è possibile che il governo religioso abbia nel suo nucleo una visione spirituale e più profonda del destino di Israele. Ma proprio per questo deve misurarsi doppiamente con i criteri biblici: giustizia, compassione, veridicità. Se soddisfa questi criteri, può davvero essere l'inizio di una svolta profetica. In caso contrario, nonostante le pretese religiose, fallirà come tanti re nella storia biblica. Invece di comprendere la lotta per la sopravvivenza di Israele, queste lettere offrono nuovi titoli ai nemici e conferiscono nuova legittimità alla campagna di condanna globale. La storia dimostrerà se il governo Netanyahu aveva ragione con la sua linea o se sono stati gli ex capi della sicurezza ad avere il coraggio di invitare alla prudenza.
Firmano l'appello:
- Shin Bet: Nadav Argaman, Yoram Cohen, Ami Ayalon, Yaakov Peri, Carmi Gillon
- Mossad: Tamir Pardo, Efraim Halevy, Danny Yatom
- Capo di Stato Maggiore: Moshe (Bogi) Yaalon, Dan Halutz, Ehud Barak
- Servizi segreti militari (AMAN): Uri Sagi, Amos Malka, Amos Yadlin, Aharon Farkash
- Polizia: Moshe Karadi, Dudi Cohen, Assaf Hefetz, Rafi Peled
Tutti chiedono al governo israeliano di “porre fine a questa guerra senza speranza e riportare indietro gli ostaggi in un unico passo”.
(Israel Heute, 5 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Finalmente un articolo in cui si fa intervenire l’elemento “Dio”. E che c’entra Dio? diranno subito molti, tra cui i firmatari dell’appello. Siamo seri, qui si parla di guerra, di politica, insomma di questioni tra uomini. Tirar fuori la carta “Dio” è scorretto, non vale, dicono i superlaici. Che però senza volerlo o senza farsi accorgere tirano fuori la carta di quello che si può chiamare l'occidental-god, il dio occidentale del diritto all’illimitata felicità per singoli. A lui bisogna sottomettersi, dicono gli ex capi della sicurezza che hanno “il coraggio di invitare alla prudenza”. Coraggio della prudenza? Strano, perché un detto popolare dice invece che “la prudenza è paura che cammina in punta di piedi”. M.C.
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I pericolosi sogni di Grossman e la brutalità della realtà
di Davide Cavaliere
«L’Occupazione ci ha corrotto. Io sono assolutamente convinto del fatto che la maledizione di Israele sia nata con l’Occupazione dei territori palestinesi nel 1967».
Così afferma David Grossman a La Repubblica, prima di fare propria anche l’accusa di «genocidio» mossa a Israele dai suoi nemici jihadisti e dai loro fiancheggiatori. Grossman vorrebbe che Israele arretrasse sulle linee pre-1967, ossia alle «frontiere di Aushwitz» (come le chiamò Abba Eban), quelle che non potrebbero più garantire allo Stato ebraico la sua attuale sicurezza. Ma questo allo scrittore non interessa. A lui preme mettere fine alla «Occupazione» dei «territori palestinesi», che «palestinesi» non sono mai stati: né per il diritto internazionale né per la storia. Alla domanda sul riconoscimento dello «Stato palestinese» da parte di Macron, risponde:
«Credo sia una buona idea e non capisco l’isteria che l’ha accolta qui in Israele. Magari avere a che fare con uno Stato vero, con obblighi reali, non con un’entità ambigua come l’Autorità palestinese, avrà i suoi vantaggi. È chiaro che dovranno esserci condizioni ben precise: niente armi. E la garanzia di elezioni trasparenti da cui sia bandito chiunque pensa di usare la violenza contro Israele».
Grossman, completamente colonizzato nel pensiero e nel linguaggio dalla retorica «pacifista», non si rende conto che l’erezione di uno «Stato palestinese» non metterebbe fine al conflitto, tutt’altro, lo esacerberebbe come non mai. Non ha ancora compreso − e insieme a lui tutta l’intelligencija progressista israeliana − che ai «palestinesi» non importa nulla di ottenere uno Stato, loro vogliono la distruzione di quello ebraico. La creazione di uno «Stato palestinese» sulle colline della Giudea e Samaria, come ha dichiarato Yoram Ettinger, rischierebbe di innescare «un effetto a rimbalzo che potrebbe devastare gli interessi occidentali in accordo con i regimi pro-occidentali nella penisola araba e in Giordania».
Grossman, inoltre, glissa su una questione fondamentale: a chi dovrebbe essere affidato il governo dello «Stato palestinese»? Alla corrotta Autorità Palestinese, che non ha mai rispettato nemmeno gli Accordi di Oslo; oppure a qualche leader di Hamas opportunamente ripulito e incravattato per i media occidentali, sul modello dell’ex jihadista al-Jolani? O magari, in accordo col suo spirito «democratico», lo scrittore vorrebbe far votare i «palestinesi»; peccato che questi, quando hanno potuto votare in elezioni legislative, abbiano scelto Hamas, un’organizzazione islamista e terrorista che, ieri come oggi, trae la sua popolarità dal rifiuto di scendere a compromessi duraturi con lo Stato ebraico.
Grossman è ancora legato alla fallimentare formula «terra in cambio di pace», che animò il catastrofico «processo di pace» di Oslo, avviato nel 1993, il quale si basava sull’impegno di entrambe le parti a rinunciare alla violenza come mezzo per risolvere la controversia; ma i «palestinesi» non hanno mai abbandonato la violenza e nel 2000 scatenarono la terribile Seconda Intifada.
I «palestinesi» violarono gli Accordi di Oslo proprio grazie alla generosità israeliana. Quando il governo di Ehud Barak si offrì di soddisfare il 95% delle loro richieste, inclusa la cessione di parti di Gerusalemme al loro controllo – una possibilità un tempo considerata impensabile – tali concessioni misero Yasser Arafat di fronte all’unico risultato che non desiderava: la pace con Israele. Infatti, Arafat respinse la proposta israeliana, accompagnando il suo rifiuto con una nuova esplosione di terrorismo.
Israele, per risolvere definitivamente l’annoso conflitto, dovrebbe seriamente «occupare» i territori oggi amministrati dai «palestinesi» e sottoporre la loro popolazione a un «lavaggio del carattere» sul modello della «denazificazione» imposta dagli Alleati ai tedeschi. Solo bonificando il venefico retroterra culturale e religioso dei «palestinesi» sarà possibile edificare una pace solida e durevole.
(L'informale, 5 agosto 2025)
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Tra letterati, artisti e sportivi
ci sono persone di grandi capacità
che sanno dire con grande serietà
le più grandi stupidità.
David Grossman, insieme ad Abraham Jeoshua e Amos Oz, è una di queste. M.C.
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Il sindaco di Arad bandisce gli spettacoli degli artisti che hanno firmato la petizione per la fine della guerra
La città di Arad, nel sud di Israele, ha preso una decisione radicale: i suoi palcoscenici pubblici non saranno più accessibili agli artisti che hanno firmato una petizione che chiede la fine della guerra a Gaza. Il sindaco, Yaïr Maayan, ha confermato lunedì che il comune vieterebbe qualsiasi esibizione di queste personalità culturali, accusate di “incitamento all'odio contro i soldati dell'esercito israeliano”.
“Abbiamo scelto di stare dalla parte dei soldati israeliani e dello Stato di Israele”, ha affermato, paragonando questi artisti ai riservisti che si rifiutano di prestare servizio. La decisione fa seguito a una votazione del consiglio comunale e riflette, secondo lui, la volontà di proteggere l'onore dell'esercito di fronte a quelli che considera attacchi ingiustificati.
La petizione in questione, firmata da oltre 1.000 artisti israeliani, tra cui figure emblematiche come Chava Alberstein, Gidi Gov e Oshik Levi, denuncia la situazione umanitaria a Gaza. I firmatari esprimono la loro vergogna per quella che descrivono come una carestia orchestrata da Israele ed evocano il rischio di uno sfollamento forzato dei palestinesi.
“Scriviamo questo con immenso dolore, rabbia e vergogna”, si legge nella lettera, riportata da Ynet. L'appello mira a ottenere un cessate il fuoco, il ritorno degli ostaggi e una soluzione politica al conflitto.
Ma l'iniziativa ha suscitato vive reazioni, in particolare da parte del cantante e attore Idan Amedi, ferito durante il servizio militare. In un messaggio virulento, accusa i firmatari di ignorare la realtà sul campo: “Siete privilegiati che diffondono menzogne. Andate a combattere un giorno in un tunnel, e poi potrete parlare”.
Da parte sua, Eyal Sher, direttore del Festival di Israele e uno dei promotori della petizione, ha cercato di riportare il dibattito al centro della questione. Egli assicura che l'obiettivo non è quello di dividere la società, ma di promuovere valori di compassione e responsabilità collettiva: “Questo messaggio mira a incoraggiare la pace, la liberazione degli ostaggi e la ricostruzione della nostra società”.
(i24, 5 agosto 2025)
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Gaza, video del COGAT smentisce accuse di carestia: mercati affollati e aiuti in arrivo
di Luca Spizzichino
Il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (COGAT) ha diffuso lunedì un video che mostra mercati affollati nella Striscia di Gaza, ricchi di prodotti freschi e alimentari. L’iniziativa è stata presentata come una risposta diretta alla narrazione di Hamas, che accusa Israele di causare deliberatamente una carestia nell’enclave.
Nel filmato si vedono banchi colmi di frutta e verdura, oltre a pasticcerie aperte e funzionanti. “Gli aiuti arrivano ogni giorno, via terra e via aria”, ha dichiarato il COGAT, accusando Hamas di diffondere “una narrativa falsa di carestia” mentre “ruba gli aiuti umanitari per rivenderli a prezzi esorbitanti”. “La dura verità”, si legge nel comunicato, “è che Hamas affama la propria popolazione. Il cibo c’è, gli aiuti ci sono. Ma Hamas li tiene lontani da chi ne ha più bisogno”. Il video è stato pubblicato a seguito della diffusione, da parte di Hamas, di filmati che ritrarrebbero ostaggi israeliani in condizioni fisiche gravemente compromesse. Secondo il gruppo terroristico, ciò dimostrerebbe che anche loro stanno subendo gli effetti della presunta carenza di cibo nella Striscia. Tuttavia, Israele e diversi partner internazionali continuano a negare l’esistenza di una carestia.
Nel frattempo, l’esercito israeliano ha confermato che, grazie alla cooperazione con Emirati Arabi Uniti, Giordania, Egitto, Germania, Belgio e Canada, sono state intensificate le operazioni per migliorare la risposta umanitaria. In particolare, sono stati lanciati dal cielo 120 pacchi di aiuti in varie zone della Striscia di Gaza. Anche la Gaza Humanitarian Foundation ha continuato a trasferire cibo nella Striscia, malgrado i numerosi episodi di appropriazione indebita da parte di Hamas, che avrebbe sottratto gli aiuti destinati ai civili e attaccato i siti di distribuzione. Hamas ha accusato Israele e GHF di essere responsabili della morte di oltre mille persone in questi luoghi, accuse che entrambe le parti hanno fermamente smentito.
ll COGAT ha inoltre annunciato l’approvazione di un nuovo meccanismo per l’ingresso controllato di beni essenziali a Gaza. Il piano prevede che una selezione di commercianti locali sia autorizzata a vendere beni di prima necessità, tra cui alimenti, prodotti per l’infanzia, frutta, verdura e articoli per l’igiene. Tutti i beni saranno soggetti a ispezioni ai valichi e i pagamenti avverranno tramite bonifici bancari tracciati, secondo quanto riferito dal COGAT. L’obiettivo dichiarato è garantire un afflusso costante ma monitorato di prodotti di base, limitando al contempo l’appropriazione indebita da parte di Hamas.
(Shalom, 5 agosto 2025)
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Una testimonianza che scuote le coscienze
Conversazione in diretta con una famiglia di ostaggi
di Anna Balestrieri
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Da sinistra, Ela Haimi e Tal Schneider
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Nella serata di domenica 3 agosto si è tenuta una toccante conversazione in diretta con Ela Haimi, moglie di Tal Haimi, rapito il 7 ottobre 2023 mentre difendeva il suo kibbutz Nir Yitzhak, al confine con Gaza. L’evento, moderato dalla giornalista Tal Schneider, ha rappresentato molto più di una testimonianza personale: è stato un appello accorato e lucidissimo per la restituzione di tutti gli ostaggi — vivi o morti — e per la fine dei combattimenti.
Ela ha ricostruito la figura del marito con parole semplici e dense, ricordando come, nelle prime ore di quella mattina tragica, Tal lasciò la famiglia per unirsi ai compagni in difesa del kibbutz. Un gesto che sintetizza il suo spirito impavido e il suo attaccamento alla comunità. Il cognome “Haimi” — ha sottolineato Ela — significa Haim sheli, “vita mia” in ebraico, una sorta di presagio involontario per il destino eroico del marito.
Ela ha condiviso dettagli intimi della sua nuova quotidianità: tornata a vivere nel kibbutz solo a luglio, con quattro figli — l’ultimo nato a maggio 2024, frutto di una gravidanza seguita con partecipazione da tutto il Paese — si muove tra le esplosioni in sottofondo e la gioia dei bambini nel sentirsi finalmente a casa. “Possono correre nel kibbutz senza dirmi dove vanno”, racconta, anche se il neonato appare ancora spaesato. Ma per lei, casa sarà di nuovo tale solo quando anche il corpo di Tal potrà riposare lì.

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Nella foto, le 4 generazioni Haimi nel kibbutz: il primo a sinistra, Aaron, il nonno di Tal, è tra i fondatori
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Il racconto ha assunto i toni di un’esortazione civile: “Solo quando tutti gli ostaggi saranno tornati potremo tornare alle nostre vite”, ha affermato, sottolineando che il ritorno deve essere totale, in un’unica soluzione, e non parziale o scaglionato. Il rischio, ha detto, è di perdere ogni traccia, specialmente dei corpi. Ha citato i recenti video degli ostaggi David e Braslavski — immagini che “ricordano la Shoah” — per ribadire che il tempo stringe.
L’intervistatrice ha ricordato i disagi vissuti da Ela e dai suoi figli in questi mesi: quattro scuole cambiate, tre hotel diversi, una vita sballottata e precaria. “È troppo per un bambino”, ha detto Ela con la voce rotta, raccontando come spiegare l’assenza del padre sia quasi impossibile. “Non è vero che è morto se non c’è il corpo”, le dicevano i figli. Per questo, ha organizzato un funerale simbolico con il solo elmetto di Tal: un gesto disperato per offrire loro un senso di chiusura.
Ela ha condiviso anche il dolore straziante del ricordo quotidiano di Tal come marito e padre: un ingegnere meccanico dal carattere mite, devoto alla famiglia, sempre pronto a risolvere qualsiasi problema pratico e a concludere la giornata leggendo libri ai bambini. Una vita semplice, fatta di gesti silenziosi e affetto costante, che oggi appare ancora più lontana, quasi irreale, a confronto con la nuova quotidianità segnata dall’assenza, dallo sradicamento e dalla guerra. “È cambiato tutto, nulla sarà più come prima” — ha detto Ela — alludendo non solo alla perdita personale, ma al crollo dell’intero tessuto familiare e comunitario.
Nel giorno di Tisha Be-Av, la giornata ebraica del lutto e della distruzione, Ela ha legato il 7 ottobre a una delle grandi catastrofi della storia del popolo ebraico. La sua testimonianza ha avuto la forza di un discorso universale sul dolore, sulla memoria e sull’urgenza della pace.
A chi ha domandato come aiutare, Ela ha risposto: “Comportatevi come se fosse vostro padre, vostro figlio e siate attivi. Unitevi ad ogni protesta Run for their lives vicino a voi. Parlatene in continuazione sui social media, è un problema di ognuno di noi. Che tornino è fondamentale per ognuno di noi. Le nostre comunità in tutto il mondo sono la nostra forza.”
Non una semplice intervista, ma una dichiarazione d’amore e resistenza. Un appello che nessuno — politico, cittadino o spettatore — può permettersi di ignorare.
(Bet Magazine Mosaico, 4 agosto 2025)
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Fronti irrigiditi nell'accordo sugli ostaggi – Israele di fronte a una decisione drammatica
Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner parla del fallimento dei negoziati, del nuovo ruolo degli Stati Uniti e della prova di forza tra calcoli militari e pressioni politiche.
di Itamar Echner
GERUSALEMME - A 666 giorni dall'inizio della guerra, Israele si trova forse di fronte al momento più difficile: si trova infatti a un bivio drammatico che deciderà se puntare su un accordo globale per porre fine alla guerra e ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi – un obiettivo che al momento sembra quasi irrealizzabile – o se decidere di ricorrere a misure drastiche per sconfiggere definitivamente Hamas, anche a rischio di mettere in pericolo la vita degli ostaggi.
Proprio in questa fase decisiva, Hamas e la Jihad Islamica pubblicano video raccapriccianti in cui gli ostaggi israeliani appaiono come prigionieri nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è esagerato dire che gli ostaggi in queste immagini sembrano vicini alla morte. La famiglia di Rom Breslawski ha voluto mostrare questi video al presidente degli Stati Uniti Donald Trump e al suo inviato Steve Witkoff affinché capissero con chi ha a che fare Israele.
Il messaggio di Hamas è chiaro: vogliono imporre una sorta di “equazione della fame”: voi affamate la popolazione di Gaza? Allora noi affameremo i vostri ostaggi. Un chiaro ricatto attraverso la minaccia. Hamas sa esattamente dove si trova il punto debole di Israele: il destino degli ostaggi.
In Israele si parla di una politica mirata di fame da parte di Hamas e della Jihad islamica nei confronti degli ostaggi israeliani, con l'obiettivo di aumentare la pressione psicologica su Israele.
Tra Israele e gli Stati Uniti c'è accordo sul fatto che non ci debbano più essere accordi parziali, ma solo un accordo globale che comprenda la fine della guerra, il disarmo di Gaza e lo smantellamento di Hamas. Ma se già un accordo parziale è fallito, come potrà riuscire un accordo globale?
In Israele si ritiene che le possibilità di un accordo globale siano molto scarse, poiché non si prevede che Hamas accetti le condizioni poste da Israele: il rilascio di tutti gli ostaggi, il mantenimento delle truppe israeliane nel corridoio di Philadelphi e la creazione di una cintura di sicurezza militare intorno alle comunità al confine con Gaza, l'esclusione della liberazione dei comandanti dell'unità Nukhba di Hamas che non sono ancora stati condannati, nonché il rifiuto delle quote di liberazione richieste da Hamas (ad esempio 200 condannati all'ergastolo in cambio di 10 ostaggi, il che potrebbe portare a una carenza di prigionieri da scambiare per altri ostaggi). Israele insiste sul disarmo di Hamas e sulla smilitarizzazione della Striscia di Gaza. Un'espulsione simbolica dei leader di Hamas e la formazione di un governo tecnocratico a Gaza potrebbero essere accettabili, ma senza il disarmo Netanyahu non avrebbe nulla da offrire al suo schieramento politico.
L'auspicio è ora che gli Stati Uniti assumano la guida dei negoziati per un accordo globale. Tuttavia, si è consapevoli che ciò richiederà molto tempo. Già in occasione di un accordo parziale si era parlato di una tregua di 60 giorni durante la quale si sarebbero negoziate le condizioni per la fine della guerra. Ma i nostri poveri ostaggi non hanno più tempo. Non è un'esagerazione: secondo i video dell'Hamas, sono molto vicini alla morte.
Allo stesso tempo, il governo statunitense chiede a Israele di aumentare drasticamente gli aiuti umanitari a Gaza. Gli americani non vogliono vedere immagini di bambini affamati. Il presidente Trump sta lavorando parallelamente a un proprio piano umanitario. In Israele si è consapevoli che, dal punto di vista americano, fino a un possibile accordo Israele può fare tutto il necessario per sconfiggere militarmente Hamas.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha deliberatamente deciso di non convocare il gabinetto di sicurezza e difesa questa settimana. Rimanda la decisione per coordinarsi con gli americani. La riunione dovrebbe tenersi nel corso della settimana – la data non è ancora stata fissata – e dovrà prendere decisioni di ampia portata.
Un altro motivo del ritardo è la disputa tra i vertici militari e il governo: mentre i ministri di destra chiedono un'invasione totale della Striscia di Gaza, l'esercito mette in guardia dai rischi enormi per gli ostaggi. Netanyahu ha promesso a Bezalel Smotrich che, in caso di fallimento dell'accordo, procederà ad annessioni simboliche, probabilmente nella zona di confine settentrionale. Ma vista l'attuale situazione politica estera di Israele, una mossa del genere sarebbe un suicidio politico. Spingerebbe tutti gli Stati finora titubanti a seguire l'esempio della Francia e a riconoscere la Palestina a settembre.
L'esercito vuole piuttosto circondare la città di Gaza e i campi profughi centrali e avverte: un'occupazione dell'intera città trascinerebbe Israele in un vortice, in un pantano nero di caos e guerra.
Fino a quando Israele non prenderà una decisione, si vuole dare ancora qualche giorno ai mediatori – in particolare a Steve Witkoff – per rilanciare il dialogo con nuove formule per una soluzione globale.
Nel frattempo, Hamas sta prendendo in giro Israele. Ha ottenuto ciò che voleva: un massiccio aumento degli aiuti umanitari, che Hamas rivendica per sé, senza rilasciare in cambio nemmeno un ostaggio. La leadership di Hamas si sente in ascesa, ha lasciato Doha, si è trasferita in Turchia e ha interrotto i contatti con i mediatori, con un messaggio chiaro: venite a cercarci.
Allo stesso tempo, Hamas vede Israele sempre più isolato a livello internazionale, diventare una nazione paria. La sua campagna della fame ha avuto un enorme successo. Israele è accusato di affamare la popolazione civile, anche se è stato dimostrato che alcune delle immagini di bambini affamati erano false e che i bambini in questione soffrivano di gravi malattie.
L'amara verità: il mondo ne ha abbastanza. Vuole che questa guerra finisca, e il prima possibile. Anche i leader di Hamas hanno lasciato Doha e si trovano ora in Turchia.
Un funzionario della sicurezza israeliano si è detto pessimista: “Non c'è alcun accordo in vista e al momento tutto sembra irrealistico”. Hamas chiede come condizione fondamentale per tornare al tavolo dei negoziati l'ingresso quotidiano di 600 camion, più di quanto previsto da un accordo parziale. Le possibilità di raggiungere un accordo globale sono minime, ma forse si potrà almeno riprendere il dialogo.
L'inviato speciale Steve Witkoff ha incontrato i familiari degli ostaggi per un colloquio carico di emozioni durato quasi tre ore. In tale occasione ha sottolineato sia la determinazione del presidente Donald Trump sia il suo impegno personale a riportare a casa tutti i 50 ostaggi rimasti.
“L'obiettivo non è quello di espandere la guerra, ma di porvi fine”, ha affermato Witkoff. “Riteniamo che i negoziati debbano essere rilanciati secondo il principio ‘tutto o niente’: porre fine alla guerra e riportare a casa tutti i 50 ostaggi contemporaneamente. Solo così si può fare”.
Witkoff ha aggiunto: "La nostra priorità assoluta è riportare a casa tutti gli ostaggi. Il presidente Trump ritiene che tutti debbano essere liberati e che chi è ancora in vita debba tornare vivo. Sappiamo chi è ancora vivo e qualcuno sarà ritenuto responsabile se non torneranno vivi. Gli Stati Uniti sostengono questa dichiarazione. La maggioranza degli israeliani vuole che gli ostaggi tornino a casa e lo stesso vale per la maggioranza dei palestinesi a Gaza, perché desiderano la ricostruzione. Questo è il progetto più importante che il presidente Trump mi ha affidato e lavorerò per realizzarlo fino al mio ultimo respiro“.
Witkoff ha sottolineato che il presidente Trump gli ha espressamente chiesto di raccogliere tutti i desideri personali delle famiglie durante questo incontro. ”Abbiamo un piano per porre fine ai combattimenti e questo piano riporterà tutti a casa".
(Israel Heute, 4 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Vent’anni dopo l’evacuazione, gli ex bambini di Gush Katif tornano a Gaza in divisa
di Michelle Zarfati
Vent’anni dopo il disimpegno unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza, molti ex residenti di Gush Katif — evacuati da bambini nel 2005 — stanno facendo ritorno nelle stesse aree, stavolta come soldati riservisti dell’IDF. Il ritorno in quei luoghi ha risvegliato ricordi d’infanzia e sensazioni contrastanti: nostalgia per la vita perduta e dolore per ciò che è cambiato. Lo ha raccontato il notiziario Ynet, che ha intervistato i soldati.
Gal Cohen, oggi 28enne, aveva solo sette anni quando la sua famiglia fu evacuata dalla comunità di Nisanit. Oggi, da soldato, ha rivisto la spiaggia dove giocava da bambino. “Non avevo mai provato nostalgia. Ma quando siamo arrivati sulla spiaggia, ho detto ai miei commilitoni: ‘Ecco dove sono cresciuto’. Allora giocavo con la sabbia, oggi ci torno per una missione di sicurezza” ha raccontato Cohen.
Anche per Yochai Vilozny, 37 anni, il legame con il passato è rimasto intatto. Cresciuto a Moshav Katif, dove suo padre era rabbino, oggi vive a Carmi Katif con la sua famiglia. “Sapevo che sarei tornato. Non pensavamo sarebbe stato così, ma il desiderio non ci ha mai abbandonati”. Entrato a Gaza in divisa, ha ricordato i giorni da adolescente: “Mi sentivo di nuovo quel ragazzo di 17 anni che correva tra le dune.
Shilo Biton, che aveva sette anni al momento dell’evacuazione da Kfar Darom, ha ricordato con emozione la perdita del padre in un attentato. Mobilitato il 7 ottobre 2023, è entrato a Gaza il 6 novembre, anniversario della morte del padre. “È stato un ritorno carico di significato. Un cerchio che si chiude, tra dolore e fede”.
Yehuda Bartov, ex residente di Neve Dekalim e ora a Yad Binyamin, ha raccontato come la sua famiglia non abbia mai smesso di sognare il ritorno: “Abbiamo ancora la sabbia di Gush Katif in casa”. Durante il servizio militare, ha ritrovato la sinagoga del villaggio di Gadid e ha inviato le foto alla famiglia.
Il disimpegno del 2005 vide l’evacuazione di oltre 8.000 israeliani da 21 insediamenti della Striscia di Gaza, poi passata sotto controllo dell’Autorità Palestinese e infine conquistata da Hamas nel 2007 dopo un colpo di stato che concluse la guerra civile tra le due fazioni palestinesi. Nonostante il passare degli anni e le nuove vite costruite in altre aree del sud di Israele, molti ex abitanti mantengono un forte legame emotivo, spirituale e ideologico con quella terra.
(Shalom, 4 agosto 2025)
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Yuli Edelstein pubblica il disegno di legge sul servizio militare obbligatorio per gli ortodossi prima della sua destituzione
Il deputato Yuli Edelstein, presidente uscente della commissione Affari esteri e Difesa, ha pubblicato lunedì mattina il disegno di legge sulla coscrizione militare, poche ore prima che il Likud confermasse la sua sostituzione con Boaz Bismuth.
L'iniziativa arriva dopo mesi di stallo. Edelstein si era opposto alla promozione di una legge di esenzione dal servizio militare che riteneva squilibrata, rifiutandosi di presentare un quadro conforme alle richieste dei partiti ortodossi. Questi ritardi hanno provocato tensioni all'interno della coalizione e hanno portato il primo ministro Netanyahu a decidere di sostituirlo.
Il progetto rivela per la prima volta le sanzioni civili che colpiranno gli ortodossi che rifiutano di prestare servizio nell'esercito israeliano: soppressione delle riduzioni sulle tasse comunali e sui trasporti pubblici, restrizioni per l'ottenimento della patente di guida, limitazioni alle uscite dal territorio, esclusione dai programmi di sovvenzioni e perdita del diritto all'alloggio sociale nel progetto “Premio per l'acquirente”.
Una settimana e mezzo fa, 29 deputati del Likud avevano votato a favore della nomina di Boaz Bismuth, dopo che Netanyahu aveva pubblicamente sostenuto questa mossa.
Il deputato ortodosso Moshe Gafni, leader del partito Degel HaTorah, ha reagito con veemenza: “Yuli Edelstein presenta oggi questa legge dopo aver rifiutato di pubblicarla tre settimane fa, sperando di rimanere presidente della commissione. Oggi ha dovuto capire che era stato estromesso”. Egli denuncia un progetto che definisce inaccettabile “per un ebreo”.
(i24, 4 agosto 2025)
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«Mai più» è oggi
Immagini che non avremmo mai voluto vedere perché rivelatrici di un sadismo inquietante, una crudeltà difficile da concepire. Immagini prodotte da Hamas sulla pelle prima di Rom Braslavski, la cui famiglia non ha acconsentito alla loro circolazione in forma integrale, e poi di Evyatar David. Due giovani israeliani rapiti il 7 ottobre 2023 dal gruppo terrorista palestinese e tenuti in condizioni disumane, al buio, in spazi minuscoli, sottoterra, affamati. Evyatar è scheletrico, l’ombra di un essere vivente. Hamas gli fa dire che a Gaza non c’è cibo ma per smentire la propaganda basta un solo fotogramma. Quello del suo aguzzino mentre gli porge una scatoletta di cibo. Il suo braccio è forte, di una persona in salute, che mangia. Che mangia e che affama un giovane, colpevole di essere israeliano, di essere ebreo. Avevamo detto «mai più». Gli ostaggi devono essere salvati oggi, non domani. dan.mos.
(moked, 3 agosto 2025)
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"Gli ostaggi devono essere salvati oggi, non domani." Sì, ma come? "Voglio, voglio, voglio che gli ostaggi tornino a casa", sembra che dicano certi israeliani, che su questo non vogliono sentire ragioni. Ma che si può rispondere ai bambini? M.C.
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Tisha Beav – La simmetria della redenzione
di Rav Ariel Di Porto
Il 7 ottobre ha segnato un prima e un dopo nella storia del nostro popolo. Come un fulmine a ciel sereno, quello che doveva essere il giorno più gioioso dell’anno – Simchat Torà – si è trasformato nel più buio dei lutti. In Israele come nella Diaspora, le nostre vite sono cambiate per sempre. Molti di noi si trovano ancora a fare i conti con un dolore che sembra non avere fine. L’atmosfera di lutto di Tishà beAv sembra rispecchiare perfettamente il nostro stato d’animo collettivo. Come ha magistralmente esposto Rav Daniel Glatstein lo scorso anno in una sua profonda lezione, esiste un legame misterioso e profondo tra quella tragica mattina del 7 ottobre e il significato più intimo di Tishà beAv. Il paradosso è straziante: il 7 ottobre la gioia si è trasformata nell’orrore più assoluto. Simchat Torà è diventato Tishà beAv. Ma proprio in questo paradosso, i nostri Saggi ci insegnano, si nasconde una verità profonda sulla natura stessa dell’esistenza ebraica. È significativo notare come esistano paralleli strutturali tra i periodi di lutto e quelli di gioia nel nostro calendario. Le tre settimane che precedono Tishà beAv – dal digiuno del 17 di Tammuz fino al 9 di Av – sono specularmente riflesse nelle tre settimane che ci conducono da Rosh haShanà verso Simchat Torà. Allo stesso modo, i nove giorni di Sukkot, Sheminì Atzeret e Simchat Torà nella Diaspora trovano il loro corrispettivo nei primi nove giorni del mese di Av, i più intensi nel lutto. Questa simmetria non è casuale. Come spiega il Maharal di Praga, nel loro nucleo più profondo, gioia e lutto sono due facce della stessa medaglia. Ma c’è di più. I nostri Saggi ci insegnano che proprio Tishà beAv, il giorno più tragico del calendario ebraico, porta in sé il seme della redenzione finale. Proprio nei momenti di massima oscurità si prepara la luce più brillante. Da parte nostra cosa possiamo fare? Attendere la salvezza. Alcuni commentatori considerano questa attesa come la primissima mitzvà della Torà, e secondo il Talmud sarà una delle sei domande fondamentali che ci verranno poste alla fine della nostra vita: “Hai atteso la redenzione?” Ma cosa significa veramente “attendere la redenzione”? Non si tratta di una passiva rassegnazione o di una fuga dalla realtà. L’attesa della gheulà è, al contrario, un modo attivo di vivere, una lente attraverso cui interpretare gli eventi della storia e il nostro ruolo in essa. In questo Tishà beAv, mentre digiuniamo e ci addoloriamo per le distruzioni del passato e del presente, ricordiamo che stiamo anche piantando i semi della redenzione futura. Ogni lacrima sincera, ogni tefillà autentica è parte del processo che porterà alla gheulà finale.
(moked, 3 agosto 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 9
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Il progetto redentivo come riconquista del creato
Il sottotitolo “Un approccio olistico alla rivelazione biblica” dato a questa trattazione fa già capire che si vuol esporre il risultato di una rilettura dell’intera Bibbia, fatta nel desiderio di individuarne il suo significato unitario nel contesto di precise scelte interpretative. Facciamo allora un’esposizione sommaria del quadro interpretativo assunto, insieme all’indicazione di alcuni incroci dottrinali per cui questa rilettura passerà.
Diciamo allora che si condivide in partenza il pensiero secondo cui il primo mondo creato da Dio è quello angelico; e che tra il primo e il secondo versetto della Genesi sia avvenuta la caduta di Satana e degli angeli che l'hanno seguito. Il mondo su cui avrebbe dovuto regnare Satana è stato invaso dalle acque e l'abisso è diventato un luogo di prigionia per angeli ribelli. La creazione in cui viviamo noi esseri umani non è dunque stata creata dal nulla, ma è il risultato di un'azione di Dio che separa il vecchio e crea il nuovo. La schiera degli angeli ribelli non è stata distrutta ma relegata in regioni che la Scrittura chiama abisso (Luca 8:31) e luoghi celesti (Efesini 6:12), che sono in qualche modo "confinanti" con il mondo dell'uomo. Da queste zone le creature diaboliche possono, nei limiti imposti da Dio, uscire temporaneamente, inserirsi tra gli uomini in forma più o meno visibile e agire su di loro.
Per la prima volta questo è avvenuto nel giardino di Eden, con le parole del serpente rivolte ad Eva. La risposta dell'uomo a quell'invito ha aperto le porte del creato all'azione di Satana e delle sue schiere. L'originario progetto creativo era condizionato all'accettazione di un limite invalicabile; conteneva quindi, fin dall'inizio, la dichiarazione di ciò che sarebbe accaduto in caso di superamento di tale limite: la morte.
Dopo il peccato dunque la morte è entrata nel mondo in modo "naturale", cioè non come atto punitivo di Dio, ma come conseguenza di una scelta dell'uomo. Il limite invalicabile posto da Dio all'uomo con il divieto del frutto dell'albero era la condizione affinché si potesse realizzare l'abitazione del Creatore in mezzo alle creature, in un rapporto d'amore che mantenesse le giuste distanze e i differenti ruoli. Il tentativo dell'uomo di superare questo limite ha provocato qualcosa come la rottura di una diga; l’aspirazione indebita ad uguagliare Dio ha fatto entrare in tutto il creato la morte. Si è rotto il diaframma che separava il mondo creato per l'uomo dalle regioni della presenza diabolica; ed è entrata la corruzione, cioè tutto ciò che porta il segno della morte.
Dio però non ha distrutto il mondo dopo il peccato di Adamo, ma lo ha allontanato da Sé e ha deciso di salvarlo dall'interno, proponendosi di porre in esso un nuovo capostipite, un “nuovo Adamo” (1 Corinzi 15:42-48), che da una parte potesse pagare il debito contratto con Dio dal primo Adamo, e dall'altra generasse una nuova società in un nuovo habitat privo di ogni forma di corruzione. Diciamo subito che questo “ultimo Adamo” (1Corinzi 15:45) è Gesù, Figlio di Dio e Messia d'Israele.
L’agire di Dio dopo il peccato non è dunque punizione, ma atto di grazia, cioè inizio di un nuovo progetto di riconquista del creato, che certamente non avrebbe potuto evitare le conseguenze mortali del primo, ma ne avrebbe anzi esteso le conseguenze fino al punto di far nascere dallo stato di morte una nuova creazione, più gloriosa ancora della prima. La nuova creazione non sarebbe dunque avvenuta ex novo, ma come frutto di un processo di morte che avrebbe subìto e risolto le conseguenze negative del primo progetto, a cui sarebbe seguito un processo di risurrezione che avrebbe generato una nuova vita.
È proprio questo che può dare senso compiuto al fatto di Gesù, cioè alla sua venuta, morte e risurrezione, che è certamente il punto centrale e fondamentale del piano salvifico di Dio, ma deve essere inserito nel complesso del suo progetto redentivo, senza fare di esso un mero strumento di salvezza eterna per singoli.
Il progetto redentivo può dunque essere visto come un piano di riconquista di un territorio caduto nelle mani del Nemico. All'interno del "territorio occupato”, Dio cerca qualcuno che "sia per Lui", cioè che ascolti la sua parola, creda alla verità di ciò che annuncia e manifesti concretamente la sua fede eseguendo le Sue istruzioni e accettando così di mettere in gioco la sua stessa vita. Dio trova questa persona in Abramo, a cui promette, come prima cosa, di fare di lui una grande nazione.
Perché questo riferimento a una realtà politica come la nazione nell'annuncio di una grandiosa opera di salvezza universale? Nella prima creazione le nazioni non esistevano, esse sono sorte come conseguenza della moltiplicazione delle lingue voluta da Dio per impedire agli uomini, persistenti in un atteggiamento di ribellione, di attuare un progetto di autogoverno mondiale e autoglorificazione che sarebbe caduto inevitabilmente nelle mani del Nemico. Il tentativo ribellistico è stato sventato dal Signore, ma le nazioni che sono sorte come conseguenza di peccato, governate da uomini in ribellione aperta con Dio, sono entrate inesorabilmente a far parte del campo d’azione del Nemico, che da quel momento le userà come sue pedine, stabilendo per ciascuna di esse un “governo ombra” gestito da suoi “uomini”.
Dio comincia allora mettere in atto il suo progetto redentivo promettendo ad Abramo di fare di lui una grande nazione. Mancavano forse le nazioni in quel momento della storia? Non erano forse abbastanza grandi? No, il problema non era questo: le nazioni c’erano, ma erano tutte contaminate dal peccato. Non erano kosher. Erano nazioni impure. Non perché ci fossero troppi peccatori rispetto alla media consentita, ma perché come entità sociali nuove rispetto al progetto creazionale originario, erano espressione di una volontà che si opponeva fondamentalmente al Dio Creatore del cielo e della terra. Essendo in origine conseguenza di un’ispirazione del Nemico, sono rimaste sempre sotto questa ispirazione e sono necessariamente entrate a far parte del suo esercito.
Ma per il margine di libertà che Dio concede agli uomini anche dopo la caduta di Adamo, le nazioni, frutto di volontà umana, sono ormai presenti sulla terra, e poiché la Riconquista (così chiameremo qualche volta il progetto redentivo) deve avvenire sulla terra, il Signore ha pensato di fondare una nazione che non provenisse dal peccato della pianura di Scinear, ma fosse espressione della Sua volontà: una nazione kosher. Ed è al Sinai che Dio ha deciso di rendere chiara la sua intenzione agli israeliti:
“Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani, e come io vi ho portato sopra ali di aquila e vi ho condotto a me. Ora dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Esodo 19:4-6).
• Concepimento e gravidanza del figlio di Dio
Come già detto, dal capitolo 12 in poi il libro della Genesi è il racconto di come Dio inizia ad adempiere la promessa fatta ad Abraamo: “Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione”. In questo racconto sono contenuti anche i primi segni delle benedizioni che Dio porterà poi a tutte le famiglie della terra, ma resta il fatto che per loro natura queste benedizioni resteranno sempre in qualche modo collegate alla grande nazione a cui Dio ha dato il nome di Israele.
La nazione non nasce per via politica, come accordo di più gruppi sociali esistenti, ma per via genetica, come seme di Abraamo. A Giacobbe infatti Dio annuncia che una nazione uscirà dai suoi lombi (Genesi 35:11). Uscirà dai lombi di Abraamo, ma Dio stesso se ne assumerà la paternità: infatti tramite Mosè Dio fa sapere al Faraone (quello che “non aveva conosciuto Giuseppe”) che “Israele è mio figlio, il mio primogenito” (Esodo 4:22).
Se dunque Israele è figlio di Dio, la sua nascita come nazione può essere paragonata alla nascita di Adamo come uomo. Nel corso della storia il Signore si rivolge a Israele con queste parole: “Ma ora così parla l’Eterno, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele! Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio!” (Isaia 43:1), dove il termine “formato” (ברא) è lo stesso usato per indicare la formazione di Adamo: “L’Eterno Dio formò (ברא) l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2:7). Come Adamo è stato il primo e unico uomo creato direttamente da Dio, così Israele è stata la prima e unica nazione formata direttamente da Dio.
Il paragone tra la nascita della nazione e quella di un uomo può essere perfezionato dicendo che Israele è stato concepito nella terra di Canaan al tempo dei patriarchi, e che la sua gravidanza, a cui è seguito il parto, si è svolta in Egitto nei quattrocento anni di schiavitù sotto i Faraoni.
Il libro della Genesi racconta il concepimento in Canaan e si conclude con l’annuncio del trasferimento della gravidanza in Egitto.
Il libro dell’Esodo si apre con il racconto degli ultimi momenti di una gravidanza difficilissima e continua con i primi momenti di un parto molto travagliato, seguito da una crescita molto movimentata del nuovo popolo in marcia verso la terra destinata alla nuova nazione.
Da quel momento il racconto nella Bibbia prosegue con la comparsa di una figura gigantesca nella storia di Israele e del mondo: Mosè.
• Dalla parte del popolo
Volendosi esprimere con un linguaggio politico, potremmo dire che alla fine del periodo patriarcale Dio riuscì, operando con la persona di Giuseppe, a piazzare un suo uomo nelle più alte sfere di governo dell’Egitto. La nazione ospitante ne trasse pieno beneficio, come anche la famiglia abramitica, che nell’arco di circa quattrocento anni poté enormemente espandersi perché “i figli d'Israele furono fecondi, si moltiplicarono abbondantemente, diventarono numerosi e si fecero oltremodo potenti, e il paese ne fu ripieno” (Esodo 1:7).
A questo punto la tribù familiare di Abramo, cresciuta nel grembo egiziano, era diventata un popolo. Il periodo della gestazione volgeva dunque al termine e il Signore doveva pensare a come far avvenire il parto.
La situazione era matura, perché gli egiziani ormai “avevano preso in avversione i figli d’Israele” (Esodo 1:12-14): non li sopportavano più e li maltrattavano in mille maniere.
Viene allora in primo piano un nuovo Faraone, il quale decide, primo nella storia, di tentare di risolvere alla radice "il problema ebraico” mediante sterminio. Fallito un primo tentativo di infanticidio per affogamento dei maschi, il monarca tenta un altro sistema, poi applicato anche in tempi più recenti: ammazzarli tutti con una mole insopportabile di lavoro. Tentativo non del tutto riuscito, ma il risultato fu che ”i figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano grida" (Esodo 2:23).
Interviene allora il Signore. Poiché quel Faraone non aveva conosciuto Giuseppe, pensò bene di fargli conoscere un altro suo uomo: Mosè. Ma in che senso il Faraone “non aveva conosciuto Giuseppe”? Non certo nel senso che non l’aveva mai incontrato di persona, visto che li separavano centinaia di anni. Neppure si può credere che non avesse mai sentito parlare della storia di Giuseppe, perché quel potente blocco di ebrei che tanto lo infastidiva certamente ne parlava fin troppo. Era il loro eroe d’origine, entrato in forma gloriosa nella storia d’Egitto, di cui adesso anche loro, discendenti di Giuseppe, facevano parte in modo organico. “Siamo egiziani quanto voi!”, avrebbero potuto dire con fierezza gli ebrei d’Egitto, un po’ come fanno oggi quelli della diaspora. Quindi si può pensare che il Faraone non riconoscesse a Giuseppe il posto che gli ebrei potevano richiedere fosse loro riconosciuto, con tutte le conseguenze che ne seguono. Forse è per questo che quando Mosè gli fece la sua richiesta cominciando con le parole: “Così dice l’Eterno, l’Iddio d’Israele, ecc.”, la pronta risposta del Faraone fu: “Io non conosco l’Eterno” (Esodo 5:1-2), nel senso che non riconosco alcun posto al Dio dei discendenti di Giuseppe nella storia d’Egitto.
E’ interessante il confronto fra i due uomini di cui Dio si servì per rapportarsi con l’Egitto: uno per far entrare Israele, l’altro per farlo uscire. Entrambi erano stati condannati a morte: il primo dai suoi fratelli ebrei, il secondo dai suoi nemici egiziani. E ciascuno di loro sperimenta una sorta di risurrezione per un intervento imprevedibile di Dio che li porta ad occupare un posto di rilievo nella nazione pagana.
Nel caso di Mosè, essere figlio della figlia del Faraone non è cosa di poco conto. Mosè però non ne approfitta: sa di appartenere al disprezzato e maltrattato popolo ebraico e intimamente si schiera dalla sua parte. Un giorno vede un prepotente egiziano che malmena alcuni suoi fratelli e l'uccide. Di solito questo fatto non è giudicato bene, soprattutto perché con la successiva fuga dell’intraprendente eroe il risultato dell'azione è nullo.
Ma forse è proprio questo atto impulsivo che permetterà a Mosè di essere scelto da Dio come strumento della sua opera di redenzione. Perché se è vero che con il suo atto violento Mosè non dà prova di sottomissione a Dio, perché in quel momento non l'aveva ancora incontrato e neppure lo conosceva, resta il fatto che si è messo decisamente dalla parte del suo popolo, cosa che il Signore ha certamente gradito, e l’ha convinto ad affidargli in un secondo momento un compito di fondamentale importanza nella sua opera di redenzione.
Nel Nuovo Testamento si riconosce esplicitamente la fede in Dio che Mosè manifestò mettendosi dalla parte del suo popolo, ponendolo addirittura in collegamento con l’abbassamento di Gesù:
“Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del Faraone, preferendo di essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato, stimando l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto" (Ebrei 11:24-26).
Il Mosè adulto si presenta dunque alla storia d’Israele con un impulsivo atto di solidarietà in difesa suo disprezzato popolo, ma il suo impegnativo e sofferto percorso di servizio comincerà soltanto dopo il suo inaspettato incontro con Dio nei pascoli erbosi del monte Sinai.
(Notizie su Israele, 3 agosto 2025)
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Tutta la sofferenza di Rom Braslavski
Il vero volto della disumanità e la sorte degli ostaggi israeliani
di Paolo Crucianelli
Il suo nome è Rom Braslavski. È vivo. Ma chi ha visto il video diffuso dalla Jihad islamica, che non può essere archiviato come semplice “materiale di propaganda”, ha percepito qualcosa di molto diverso dal semplice essere vivi. Ha percepito l’orrore, l’angoscia, la disperazione che solo un’immagine autentica può rivelare.
• Chi è Rom Braslavski
Rom ha 21 anni. Quando è stato rapito ne aveva 19. Era arruolato nell’Idf, ma non era un comandante, un torturatore, un carnefice, come chi lo detiene vuole far credere. È un ragazzo israeliano, cresciuto tra TikTok e leva obbligatoria. Un giovane come i nostri figli. È detenuto da 664 giorni nelle gallerie sotterranee di Gaza, dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas. Rom è nella cosa che più si avvicina all’inferno di dantesca memoria. Lui è un soldato, è vero, ma un semplice soldato di leva, come tutti i suoi coetanei in Israele. Quel terribile giorno non era in servizio, non era nemmeno in divisa: stava solo ballando al Nova Festival, insieme a una moltitudine di ragazzi.
Il video mostra Rom scheletrico, seduto a fatica, le clavicole sporgenti; un relitto umano. Il volto scavato, lo sguardo assente. Parla, ma le parole non sono le sue, sono quelle che è stato costretto a pronunciare. Chiunque abbia visto i frame riconosce l’indelebile impronta della prigionia. Questo non è un prigioniero nutrito e trattato con rispetto, come pretenderebbe certa propaganda che si ostina a dipingere Hamas e la Jihad islamica come “resistenze popolari”. Questo è un ragazzo nelle stesse condizioni dei sopravvissuti ai lager nazisti. E invece è reale. È oggi. È ora.
(Il Riformista, 2 agosto 2025)
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Il 7 ottobre continua. Il pogrom è in corso d’opera
“Mai più”, si diceva, celebrando (pardon, ricordando) la Shoà. Ma era un fatto del passato. Finito, fermo, irripetibile. Il “mai più” era dunque pleonastico, inutile, per questo si è diffuso sempre di più nel tempo, rarefacendosi al punto da confondersi con l’aria che si respira.
Ma è proprio questo il guaio, avrà pensato il Nemico del popolo di Dio. Bisogna trovare qualcosa che non resti fermo e irripetibile nel passato, ma si mantenga e si sviluppi nel presente fino ad assumere i tratti dell’imperitura eternità.
Ed è arrivato il 7 ottobre, che si può confessare come un evento che ha uno spiacevole passato, ma permette di godere un piacevole presente gustando uno spettacolo da riattizzare ogni tanto con formali esecrazioni del male che ci fu per alimentare continuamente la sua prosecuzione nel male che c’è.
Si assiste al pogrom in corso d’opera con valutazioni e giudizi diversi sul contenuto dello spettacolo, e non ci si accorge di essere diventati parte in causa del pogrom, partecipi attivi di un orrendo super-spettacolo, talvolta con orribili giudizi che volendo essere di natura morale ricadranno pesantemente su chi, soprattutto se capi di governo o presidenti di nazioni, li avranno temerariamente pronunciati. M.C.
(Notizie su Israele, 2 agosto 2025)
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Israele e Gaza: i dubbi e le perplessità sulle parole del presidente Mattarella
di Iuri Maria Prado
Ore 20 circa del 30 luglio. Non posso dire che non so che cosa troverò domani (ieri per chi legge n.d.r.) sui giornali a proposito del discorso fatto oggi dal presidente della Repubblica in relazione alla guerra di Gaza.
So perfettamente che cosa troverò sui giornali. Non solo nulla di nemmeno pallidamente critico, ma un profluvio di citazioni e riferimenti al capo dello Stato che denuncia le atrocità di Gaza e le responsabilità di chi le commette, cioè Israele.
Leggiamo ciò che ha detto il presidente della Repubblica:
“L’incredibile bombardamento della Parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza è stato definito un errore. Si è parlato di errori anche nell’avere sparato su ambulanze e ucciso medici e infermieri che recavano soccorso a feriti, nell’aver preso a bersaglio e ucciso bambini assetati in fila per avere acqua, per l’uccisione di tante persone affamate in fila per ottenere cibo, per la distruzione di ospedali uccidendo anche bambini ricoverati per denutrizione”.
“È difficile” – prosegue il presidente della Repubblica – è difficile “in una catena simile, vedere una involontaria ripetizione di errori e non ravvisarvi l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente”.
Con tutto il rispetto per la presidenza della Repubblica: non c’è stato un “bombardamento” di quella chiesa. C’è stato un danneggiamento, con morti e feriti, di una chiesa in una zona di guerra, un danneggiamento con morti e feriti dovuto a un colpo che accidentalmente ha appunto colpito quella chiesa.
Accidentalmente vuol dire non colpevolmente? No. Accidentalmente vuol dire che non possano esserci responsabilità, persino criminali, per quel colpo? Assolutamente no. Possono esserci. Ma non si tratta del “bombardamento” di una chiesa, perché quel termine evoca una intenzionalità che non c’è.
E con tutto il rispetto per la presidenza della Repubblica: non c’è nessuna prova, neppure un indizio, del fatto che l’esercito israeliano abbia “preso a bersaglio e ucciso bambini assetati in fila per avere acqua”, ma questa è l’accusa che rivolge il presidente della Repubblica: che Israele prende “a bersaglio i bambini assetati in fila per avere acqua”.
Il presidente della Repubblica che denuncia l’ostinazione di Israele di “uccidere indiscriminatamente” partecipa in questo modo alla campagna mistificatoria che senza prove, senza riscontri e in base a un’incolpazione sostanzialmente denigratoria imputa a Israele non solo la commissione di crimini, ma la deliberazione di commetterli e la pratica inesausta di commetterli.
È una responsabilità grave.
(Il Riformista, 1 agosto 2025)
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"... non ravvisarvi l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente". Ma ha davvero detto questo il Presidente della Repubblica? E' un fatto gravissimo. M.C.
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Lettera di un cittadino italiano di religione ebraica a Sergio Mattarella
Lettera scritta da Vittorio Pavoncello indirizzata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
di Filippo Piperno
Ill.mo Signor Presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
sono un semplice cittadino italiano, di religione ebraica, appartenente a una famiglia che vive a Roma da millenni.
Mio nonno, mio omonimo, Vittorio Pavoncello, fu deportato e ucciso ad Auschwitz per la sola colpa di essere ebreo.
Le scrivo dopo aver ascoltato con attenzione le Sue parole pronunciate alla cerimonia del Ventaglio al Quirinale. Il Suo appello sulla tragedia di Gaza e sulla Russia ha avuto un tono netto e autorevole, ma in particolare le frasi sull’operato militare di Israele hanno colpito profondamente me e molti membri della mia comunità.
Quando Lei afferma che non si tratta di incidenti fortuiti, ma di un’“ostinazione a uccidere indiscriminatamente”, attribuendo volontarietà agli attacchi contro ambulanze, ospedali e bambini in fila per l’acqua e il cibo, si tratta di parole di una gravità enorme, cariche di conseguenze istituzionali e morali.
Proprio per questo sento il dovere di condividere con Lei alcune riflessioni:
Per Israele: dichiarare che si tratti di attacchi volontari a civili significa rivolgere una condanna pesante e diretta, che va oltre la critica politica.
Per la comunità ebraica: in Italia, purtroppo, la distinzione tra Stato di Israele e popolo ebraico è ancora poco chiara. Parole così forti rischiano di alimentare confusione e di dare spazio a discorsi antisemiti, alla luce di quanto recentemente accaduto a Milano e al moltiplicarsi di episodi antisemiti in Italia.
Per la percezione pubblica: quando una dichiarazione viene pronunciata dal Presidente della Repubblica, diventa un segnale potentissimo per la società. Se non accompagnata da una netta distinzione tra Israele come Stato e gli ebrei come popolo, può involontariamente generare un clima ostile verso una minoranza che ha già conosciuto discriminazione e persecuzione.
Signor Presidente, proprio Lei, nel Suo discorso di insediamento, volle ricordare il piccolo Stefano Gaj Taché, vittima innocente dell’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, dicendo: “Un bambino italiano, di due anni, ucciso per la sola colpa di essere nato ebreo”.
Quelle parole toccarono profondamente la nostra comunità perché riconoscevano la radice di quell’odio: non contro un governo, ma contro un popolo intero.
Oggi, di fronte a dichiarazioni così forti sull’operato di Israele, sentiamo la stessa urgenza di proteggere quella linea di demarcazione tra critica politica e stigma verso gli ebrei. La memoria di Stefano, così come quella delle vittime della Shoah, ci ricorda quanto fragile possa essere il confine tra accuse rivolte a uno Stato e pregiudizi contro un popolo.
Signor Presidente, sono tempi difficili. Proprio Lei, che ha più volte ammonito l’Italia contro ogni deriva antiebraica, può comprendere quanto sia delicato l’equilibrio tra la denuncia di una tragedia e la protezione di una comunità che sente ancora il peso della Shoah sulle proprie spalle.
La mia non è una difesa cieca di governi o azioni militari, ma una richiesta di attenzione: la chiarezza nelle parole istituzionali è vitale. Le critiche a un governo non devono mai sfociare, neanche indirettamente, in una percezione negativa verso un intero popolo o una fede millenaria.
Con deferente stima, Vittorio Pavoncello
(InOltre, 1 agosto 2025)
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Dalla distruzione alla rinascita: le foto ritrovate che raccontano Tisha B’Av
di Michelle Zarfati
Per la prima volta, l’archivio del Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund (KKL-JNF) rende pubbliche rare fotografie storiche che documentano la commemorazione di Tisha B’Av, il giorno ebraico del lutto, presso il Muro Occidentale (Kotel) a Gerusalemme, e nelle sinagoghe di tutto il territorio israeliano. Le immagini, custodite nel Central Zionist Archive di Gerusalemme, coprono diverse epoche e testimoniano l’intima continuità della tradizione ebraica e il legame profondo del popolo ebraico con i suoi luoghi sacri.
Ma c’è di più: questi scatti raccontano anche una trasformazione ideologica. Attraverso l’obiettivo si intravede come il movimento sionista abbia reinterpretato Tisha B’Av, convertendolo da semplice giorno di lutto a potente simbolo di rinascita nazionale. Già nel 1927, un memorandum del KKL-JNF intitolato “Distruzione e Rinascita” affermava: “La determinazione a ricostruire Sion nacque proprio nel momento della distruzione nazionale”. In quest’ottica, il KKL-JNF avviò iniziative per coinvolgere tutte le correnti dell’ebraismo nel progetto sionista, lanciando campagne di raccolta fondi rivolte anche alle comunità ultra-ortodosse. Con opuscoli in Yiddish, citazioni da fonti religiose e immagini della vita ebraica tradizionale, il messaggio si faceva inclusivo e potente. Materiali come il volantino Fun Churban – Tzu Geulah (“Dalla distruzione alla redenzione”) invitavano alla partecipazione attiva nella redenzione della terra d’Israele.

Tra i documenti pubblicati figurano fotografie storiche di fedeli seduti a terra presso il Muro del Pianto, vecchie pubblicazioni del KKL-JNF, e poster bilingue delle attività dell’organizzazione. In particolare, un volantino proveniente dall’ufficio londinese del KKL-JNF mostra un comitato sinagogale impegnato nella pianificazione del futuro di Israele, sotto lo slogan: Torah e Avodà.
“Queste immagini offrono uno sguardo raro sulla vita della comunità ebraica nella Terra d’Israele” spiega Ifat Ovadia-Luski, presidente del KKL-JNF. “Documentano non solo l’osservanza di Tisha B’Av, ma anche il profondo legame con la terra e la tradizione, e come il movimento sionista abbia saputo intrecciare memoria e rinascita nazionale”. Quest’anno, Tisha B’Av cadrà dal tramonto di sabato 2 agosto fino alla sera di domenica 3 agosto, rinnovando un rito che guarda al passato con dolore e al futuro con speranza specialmente in questo momento della storia del popolo d’Israele.

(Shalom, 1 agosto 2025)
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Gaza, il mito del XXI secolo
di Davide Cavaliere
La guerra che si sta combattendo a Gaza ha delle proporzioni ridicole se la si compara alle guerre combattute in passato. Le guerre jugoslave furono ben più violente, così come è decisamente più terribile quella in atto in Ucraina.
A Gaza, il numero di vittime civili è tra i più bassi mai registrati in un conflitto urbano, vengono garantiti regolari aiuti umanitari, sul campo operano organizzazioni internazionali, non si sono verificati episodi di brutalità gratuita come, per esempio, a Srebrenica nel ’95 o a Bucha nel ’22, eppure la si continua a presentare come una «ecatombe» e uno «sterminio».
Perché? La risposta è semplice: antisemitismo, anzi, «giudeomisia», come dice Taguieff, odio verso gli ebrei considerati come «nemici del genere umano». Alle spalle di questa ossessione per Gaza c’è la volontà di poter odiare, senza più freni inibitori né pudore, gli ebrei, ancora una volta trasformati in entità diaboliche.
Gaza è il nuovo mito antiebraico, una riformulazione dell’antica «accusa del sangue» rivolta contro gli israeliti, di usare il sangue dei cristiani come ingrediente dei cibi e delle bevande prescritti per la festa di Pesach. Come la precedente, anche l’attuale accusa non è fondata sui fatti, è una pura invenzione omicida. Quanti denunciano il «genocidio di Gaza» non stanno raccontando la realtà della Striscia, ma solo rivelando l’immagine che hanno degli ebrei, ancora imbevuta di superstizioni, stereotipi, luoghi comuni.
Il mito del «genocidio di Gaza» assolve, nel XXI secolo, il medesimo ruolo che nel XX secolo ebbero i Protocolli dei Savi di Sion: fornire una «licenza per un genocidio» − questo sì autenticamente voluto e preparato − a danno del popolo ebraico. Gaza non è la pletora della solidarietà universale nei confronti dei «palestinesi», ma quella, altrettanto universale, dell’odio verso gli ebrei.
Nel suo delirante saggio, Il mito del XX secolo, Alfred Rosenberg scrisse del «mito del sangue, che sotto l’egida della svastica scatena la rivoluzione mondiale della razza». Gaza è il mito del XXI secolo, che sotto l’egida del quadricolore «palestinese» ha scatenato una «Intifada globale» in nome di un popolo presuntivamente «oppresso» dagli ebrei e in cerca di riscatto − dopotutto, anche i nazisti cercavano la rivincita degli Ariani sugli «sfruttatori» Semiti. Gaza è la forma contemporanea di Moloch, davanti al quale si intende compiere l’olocausto del popolo ebraico; il pretesto per una nuova Shoah.
(L'informale, 1 agosto 2025)
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In bici da Vicenza ad Auschwitz per ricordare l’eroismo dei Fraccon, padre e figlio partigiani
Partiranno il 12 agosto da Vicenza in bicicletta, con destinazione Auschwitz. Mille e trecento chilometri sulle strade d’Europa per onorare la memoria di Torquato e Franco Fraccon, padre e figlio partigiani cattolici, onorati da Yad Vashem, deportati e uccisi nei lager nazisti nel 1945. A compiere questo viaggio saranno Lucia Farina, nipote dei Fraccon, il marito Antonino Stinà, Paolo Massignan (figlio di Luigi “Gino” Massignan, compagno di prigionia dei Fraccon) e Meme Pandin. Un percorso attraverso confini, storie famigliari e luoghi della memoria, per ricordare e far conoscere alle nuove generazioni ciò che accadde e chi decise di non voltarsi dall’altra parte.
Il progetto, intitolato “1945–2025. 80 Memoria: Vicenza – Mauthausen – Auschwitz”, si inserisce nelle iniziative per l’80° anniversario della Liberazione ed è patrocinato dai Comuni di Vicenza e Venezia e dalla Comunità ebraica di Venezia. I protagonisti hanno presentato l’iniziativa al Liceo Stefanini di Mestre, dove un albero nel giardino dell’istituto ricorda proprio Torquato Fraccon.
«Abbiamo accolto con molto piacere questa iniziativa», sottolinea a Pagine Ebraiche Paolo Navarro Dina, vicepresidente della Comunità ebraica di Venezia. «In un momento come questo, con l’aumento di episodi di antisemitismo in Italia, dare un segnale sull’esercizio della memoria è fondamentale. Abbiamo aderito alla proposta con convinzione perché è necessario, oggi, far capire cosa significano questi 80 anni dalla Liberazione. Serve mantenere viva la lezione della lotta per la libertà e contro ogni forma di antisemitismo e di odio».
Il viaggio inizierà dalla casa dei Fraccon, in via dei Templari, nel quartiere Commenda di Vicenza. Prima tappa sarà il carcere di San Biagio, dove Torquato, Franco, la madre e le sorelle furono reclusi. Da lì i quattro ciclisti proseguiranno verso il centro storico, davanti a Palazzo Leone Montanari, dove si trovano due pietre d’inciampo dedicate a padre e figlio Fraccon. L’itinerario si concluderà poi con una tappa il 20 agosto al memoriale di Mauthausen e poi con l’arrivo, il 27 agosto, ad Auschwitz-Birkenau.
• L’eroismo di padre e figlio
Torquato Fraccon, nato nel 1887 a Pontecchio Polesine, fu un cattolico impegnato, fin da giovane vicino all’Azione Cattolica e al movimento democratico cristiano. Dopo la Prima guerra mondiale lavorò alla Banca Cattolica del Veneto. Non nascose mai il proprio dissenso verso il fascismo: fu aggredito, sorvegliato, intimidito. Dopo l’8 settembre 1943 entrò nella rete della resistenza vicentina. Organizzò fughe verso la Svizzera, fornì documenti falsi a perseguitati politici, ebrei e prigionieri alleati. Tra le persone che aiutò a trovare rifugio nella Confederazione elvetica, ci fu il professor Giulio Reichenbach, docente universitario ebreo, che riuscì a fuggire con la famiglia nel dicembre 1943.Nel gennaio 1944 Torquato fu arrestato un prima volta con il figlio Franco, diciottenne. Furono rilasciati entrambi dopo interrogatori e torture, ma nell’ottobre dello stesso anno vennero nuovamente catturati, insieme alla moglie e alle figlie. Detenuti a Padova, padre e figlio non cedettero e non raccontarono nulla della rete di Resistenza di cui facevano parte. Furono deportati a Mauthausen, dove Franco fu assassinato nel marzo del 1945. Il padre Torquato morì l’8 maggio, tre giorni dopo la liberazione del campo. Entrambi furono insigniti della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria. Nel 1955 l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane assegnò loro una medaglia d’oro al merito. Nel 1978 Yad Vashem riconobbe Torquato Fraccon come Giusto tra le Nazioni.
• Il significato del viaggio
Durante la conferenza stampa, la presidente del Consiglio comunale di Venezia, Ermelinda Damiano, ha sottolineato il valore civile del progetto: «Questo viaggio ha unito due città e sarà la testimonianza concreta dell’impegno di tutti noi per tenere viva la memoria. È un’esperienza che parla di una famiglia che ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. I Fraccon hanno aiutato perseguitati, salvato vite, agito in nome della giustizia. E oggi tutto questo viene riportato all’attenzione dei giovani, proprio qui, in una scuola, luogo di educazione e responsabilità».
(moked, 1 agosto 2025)
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