Te beato, o Israele!
Chi è pari a te, un popolo salvato dall'Eterno,
che è lo scudo che ti protegge,
e la spada che ti fa trionfare?
I tuoi nemici verranno ad adularti,
e tu calpesterai le loro alture”.
Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
SALMO 145
Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
GENESI 2
L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
ISAIA 53
Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
GIOVANNI 20
Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
PROVERBI 8
Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
GENESI 2
E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
GIOVANNI 3
Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
1 CORINZI 15
Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
GENESI 3
E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
ISAIA 7
Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
GIOVANNI 12
“Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
ESODO 3
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni;
e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
ESODO 29
Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
GIOVANNI 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.
ATTI 4
E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
LUCA 2
Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.
MATTEO 2
Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
ATTI 8
Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
E vi fu grande gioia in quella città.
ATTI 13
Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
ROMANI 15
Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.
Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo,
per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio.
Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.
FILIPPESI, cap. 2
Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione,
rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.
Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso,
cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,
ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;
trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;
infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.
Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute,
perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo,
tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.
Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi;
e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.
Buona cosa è celebrare l'Eterno,
e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
proclamare la mattina la tua benignità,
e la tua fedeltà ogni notte,
sul decacordo e sul saltèro,
con l'accordo solenne dell'arpa!
Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
Come son grandi le tue opere, o Eterno!
I tuoi pensieri sono immensamente profondi.
L'uomo insensato non conosce
e il pazzo non intende questo:
che gli empi germoglian come l'erba
e gli operatori d'iniquità fioriscono,
per esser distrutti in perpetuo.
Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
ecco, i tuoi nemici periranno,
tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.
Ma tu mi dai la forza del bufalo;
io son unto d'olio fresco.
L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi che si levano contro di me.
Il giusto fiorirà come la palma,
crescerà come il cedro sul Libano.
Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
fioriranno nei cortili del nostro Dio.
Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
saranno pieni di vigore e verdeggianti,
per annunziare che l'Eterno è giusto;
egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.
Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
ATTI 10
Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni:
vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno.
Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse
non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.
MARCO 10
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».
PROVERBI 10
Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.
Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!
GIONA
Capitolo 1
La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Capitolo 4
Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.
O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!» Io cerco il tuo volto, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!
Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
ECCLESIASTE 2
Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.
ECCLESIASTE 12
Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.
1 PIETRO 1
E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.
1 CORINZI 15
Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
«O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.
E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.
E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.
Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
"Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti
che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo
ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce
e il mio carico è leggero.
Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.
Capitolo 4
Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che langoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto allinesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le buone parole con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.
Marcello Cicchese
novembre 2018
Testo delle letture
1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.
2.E l'Eterno disse a Satana:
3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
2 E prese a dire così:
3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!
3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?
9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?
19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!
24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.
24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?
27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.
31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!
1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!
19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!
9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!
42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.
32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.
33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».
34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».
35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».
36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!
37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.
38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»
42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».
42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.
42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.
Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
Giovanni 14:27
Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
Io non vi do come il mondo dà.
Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
Giovanni 16:33
Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
Nel mondo avrete tribolazione;
ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.
Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
da lui viene la mia salvezza.
Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
e cercherete tutti insieme di abbatterlo
come una parete che pende,
come un muricciuolo che cede?
Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
prendono piacere nella menzogna;
benedicono con la bocca,
ma internamente maledicono. Sela.
Anima mia, acquétati in Dio solo,
poiché da lui viene la mia speranza.
Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
Confida in lui ogni tempo, o popolo;
espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
Dio è il nostro rifugio. Sela.
Gli uomini del volgo non sono che vanità,
e i nobili non sono che menzogna;
messi sulla bilancia vanno su,
tutti assieme sono più leggeri della vanità.
Non confidate nell'oppressione,
e non mettete vane speranze nella rapina;
se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
Dio ha parlato una volta,
due volte ho udito questo:
Che la potenza appartiene a Dio;
e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi,
senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi;
di notte ancora, e non ho posa alcuna.
Eppure tu sei il Santo,
che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
I nostri padri confidarono in te;
e tu li liberasti.
Gridarono a te, e furono salvati;
confidarono in te, e non furono confusi.
Ma io sono un verme e non un uomo;
il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque;
lo salvi, poiché lo gradisce!
Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno;
m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina,
e non v'è alcuno che m'aiuti.
Grandi tori m'han circondato;
potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
apron la loro gola contro a me,
come un leone rapace e ruggente.
Io son come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa si sconnettono;
il mio cuore è come la cera,
si strugge in mezzo alle mie viscere.
Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi s'attacca al palato;
tu m'hai posto nella polvere della morte.
Poiché cani m'han circondato;
uno stuolo di malfattori m'ha attorniato;
m'hanno forato le mani e i piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e m'osservano;
spartiscon fra loro i miei vestimenti
e tirano a sorte la mia veste.
Tu dunque, o Eterno, non allontanarti,
tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
Libera l'anima mia dalla spada,
l'unica mia, dalla zampa del cane;
salvami dalla gola del leone.
Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.
Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
O voi che temete l'Eterno, lodatelo!
Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe,
e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
Poich'egli non ha sprezzata
né disdegnata l'afflizione dell'afflitto,
e non ha nascosta la sua faccia da lui;
ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea;
io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
Gli umili mangeranno e saranno saziati;
quei che cercano l'Eterno lo loderanno;
il loro cuore vivrà in perpetuo.
Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno
e si convertiranno a lui;
e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
Poiché all'Eterno appartiene il regno,
ed egli signoreggia sulle nazioni.
Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno;
tutti quelli che scendon nella polvere
e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
La posterità lo servirà;
si parlerà del Signore alla ventura generazione.
31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
Ezechiele 8:1-13
E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.
Ezechiele 14:1-11
Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
La pazienza di Dio e la nostra speranza Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza
(Romani 8.25).
Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Il corpo della nostra umiliazione Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Il rinnovamento della mente Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.
Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e il mondo,
da eternità a eternità tu sei Dio.
Tu fai tornare i mortali in polvere
e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
Perché mille anni, agli occhi tuoi,
sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
e come una veglia nella notte.
Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
Son come l'erba che verdeggia la mattina;
la mattina essa fiorisce e verdeggia,
la sera è segata e si secca.
Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
e siamo atterriti per il tuo sdegno.
Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
o, per i più forti, a ottant'anni;
e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
Chi conosce la forza della tua ira
e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
che acquistiamo un cuore saggio.
Ritorna, o Eterno; fino a quando?
e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
Saziaci al mattino della tua benignità,
e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
e degli anni che abbiamo sentito il male.
Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
e la tua gloria sui loro figli.
La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.
Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.
Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015
Israele attaccherà di nuovo l’Iran se dovesse riprendere il programma nucleare
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump non ha sollevato obiezioni quando questa settimana il primo ministro Benjamin Netanyahu gli ha comunicato che Israele potrebbe attaccare nuovamente l’Iran se la Repubblica islamica riprendesse il programma nucleare, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal. L’articolo, che riferisce che Trump avrebbe detto al premier di preferire una soluzione diplomatica, aggiunge che il presidente degli Stati Uniti spera di utilizzare la minaccia di ulteriori attacchi per convincere l’Iran a firmare un accordo che gli impedisca di sviluppare una bomba atomica. Tuttavia, l’articolo afferma anche che Netanyahu potrebbe subire pressioni da Trump affinché non attacchi l’Iran per preservare i colloqui diplomatici, citando un alto funzionario israeliano secondo cui Gerusalemme non chiederebbe necessariamente il via libera esplicito degli Stati Uniti prima di attaccare. Il funzionario afferma inoltre che Israele è in grado di impedire all’Iran di dotarsi rapidamente di armi nucleari e dispone di informazioni sui luoghi in cui Teheran potrebbe tentare di riprendere segretamente il suo programma atomico.
Come la Cina influenza le proteste propal negli USA
di Nathan Greppi
Già nel maggio 2024, un rapporto stilato dal NCRI (Network Contagion Research Institute) aveva dimostrato che le proteste filopalestinesi scoppiate negli Stati Uniti dopo il 7 ottobre erano stata almeno in parte foraggiate da una rete di persone e associazioni legate al PCC (Partito Comunista Cinese), al fine di destabilizzare la società americana dall’interno.
Oltre un anno dopo, questa teoria ha ricevuto ulteriori conferme a seguito della recente pubblicazione di un report analogo da parte del Program on Extremism della George Washington University. Redatto da Jennifer Baker, ex-agente del FBI con oltre vent’anni di esperienza negli ambiti della sicurezza nazionale e del controspionaggio, il report si intitola CCP Influence in U.S. Pro-Palestinian Activism.
• La galassia filocinese Nello specifico, il rapporto spiega come l’attivismo filopalestinese negli Stati Uniti sia sempre più collegato a delle operazioni del PCC per esercitare la propria influenza negli Stati Uniti. Viene fatto in particolare il nome di Neville Roy Singham, un imprenditore statunitense residente a Shanghai e legato al PCC, che ha costruito una vasta rete che finanzia gruppi di attivisti con un agenda politica antiamericana e antisraeliana.
Le organizzazioni chiave di questa rete, come il Forum dei Popoli, la ANSWER Coalition e l’Assemblea Internazionale del Popolo, hanno ampiamente sostenuto la campagna “Shut It Down for Palestine” (SID4P), lanciata sull’onda dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. L’evidenza suggerisce che questi gruppi, alcuni dei quali legati ad organizzazioni terroristiche come il FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), beneficiano di finanziamenti e promozioni in linea con la narrazione portata avanti dalla Cina, che si vuole presentare come un difensore della giustizia globale. Il rapporto delinea come queste organizzazioni siano unite tra loro da un’ideologia condivisa, la cooperazione logistica e l’allineamento agli obiettivi della guerra mediatica portata avanti da Pechino.
• La propaganda della Cina Il rapporto analizza anche il modo in cui la Cina si è rapportata alla guerra tra Israele e Hamas. Pur dichiarandosi ufficialmente a favore della Soluzione dei due Stati, il governo cinese ha criticato duramente l’operazione militare israeliana a Gaza, specialmente per bocca del presidente Xi Jinping. E nonostante la repressione interna che il governo cinese porta avanti da anni nei confronti dei musulmani uiguri, Xi ha cercato di dipingersi come un amico degli arabi e dei musulmani, palestinesi in primis.
Ci sono stati anche casi di media cinesi che hanno promosso narrazioni complottiste e stereotipi antisemiti: nell’ottobre 2023, in un programma dell’emittente statale China Central Television (CCTV) si è sentito dire che “gli ebrei, che sono il 3% della popolazione americana, controllano il 70% delle sue ricchezze”.
Antisemitismo negli USA: un quarto degli americani ritiene “comprensibili” le violenze contro gli ebrei
di Luca Spizzichino
Un nuovo sondaggio condotto dal Center for Antisemitism Research dell’Anti-Defamation League rivela un dato allarmante: quasi un americano su quattro considera “comprensibili” le recenti aggressioni violente contro cittadini ebrei negli Stati Uniti. Il rapporto arriva dopo tre gravi episodi di antisemitismo, tra cui un incendio doloso presso la residenza del governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, e gli attentati di Washington D.C. e Boulder, Colorado.
Il sondaggio, effettuato il 10 giugno su un campione rappresentativo di 1.000 adulti americani tramite Ipsos Observer Omnibus, mette in luce una preoccupante normalizzazione dell’odio antiebraico. Il 24% degli intervistati ha definito le violenze “comprensibili”, mentre percentuali simili le hanno bollate come “false flag”, ovvero operazioni montate ad arte per generare sostegno verso Israele. Secondo la ricerca , il 15% ha definito gli attacchi “necessari”, il 14% non li considera crimini d’odio e il 13% li ritiene “giustificati”.
“È inaccettabile che un quarto degli americani giustifichi o comprenda la violenza mortale contro cittadini ebrei. Questo è un chiaro segnale di quanto le narrazioni antisemite siano penetrate nel discorso pubblico”, ha dichiarato Jonathan Greenblatt, CEO dell’ADL. “Dal 7 ottobre 2023 in poi, abbiamo assistito a un’escalation continua di odio: molestie, aggressioni, e persino omicidi contro ebrei americani”.
Nonostante la diffusione di retoriche violente, il 60% degli americani, indipendentemente da età, orientamento politico o posizione su Israele, riconosce l’antisemitismo come un problema grave. Le preoccupazioni emergono anche all’interno dei partiti: il 25% dei democratici e il 23% dei repubblicani temono l’antisemitismo nei rispettivi schieramenti. La percezione del problema è più forte tra le generazioni più anziane: l’80% della Silent Generation e il 64% dei Baby Boomer lo ritiene una minaccia, contro il 50% di Millennials e Gen Z. Ma è proprio tra i più giovani che emergono dati particolarmente preoccupanti. Il 59% della Gen Z ha una visione favorevole dei movimenti anti-Israele – quasi il doppio rispetto alla media nazionale (29%) – e il 34% ammette di non sapere cosa significhi “antisionismo”.
Il sondaggio dell’ADL ha messo in luce anche il radicamento di stereotipi antisemiti: il 34% degli americani crede che gli ebrei siano più fedeli a Israele che agli Stati Uniti, il 30% ritiene abbiano “troppo potere” in politica e nei media, e il 27% pensa che dovrebbero essere ritenuti responsabili per le azioni del governo israeliano. Significativo anche il dato sul linguaggio delle proteste: il 68% degli americani ritiene che slogan come “Globalize the Intifada” o “From the River to the Sea” aumentino il rischio di violenze contro gli ebrei. Inoltre, il 58% è convinto che il termine “sionista” venga spesso usato come sinonimo di “ebreo” in contesti offensivi.
Nonostante i segnali inquietanti, il sondaggio mostra anche una volontà diffusa di combattere l’antisemitismo: l’82% degli americani sostiene la rimozione dei contenuti d’odio online, e il 77% chiede un maggiore impegno governativo contro l’antisemitismo. “C’è ancora una finestra di opportunità per agire,” ha dichiarato Matt Williams, vicepresidente dell’ADL Center for Antisemitism Research. “La maggioranza degli americani rifiuta l’odio e la violenza contro gli ebrei. Ma il tempo per intervenire è ora, prima che l’antisemitismo diventi un elemento normalizzato del discorso pubblico”.
Quanto è importante il corridoio di Morag per Israele?
Chi oggi chiede che Israele si ritiri dal corridoio di Morag rischia più che solo terreno militare: sacrifica una delle ultime speranze reali di cambiamento nella Striscia di Gaza.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Ciò che molti commentatori, osservatori dell'ONU e giornalisti ben intenzionati non capiscono o non vogliono capire è la dimensione di ciò che si sta sviluppando tra il corridoio di Morag e quello di Philadelphi. Mentre in Occidente si fantasticano “campi di concentramento”, davanti ai nostri occhi sta nascendo una nuova realtà: un modello palestinese alternativo a Hamas. Ed è proprio questo che Hamas vuole distruggere a tutti i costi. Una guida per chi è confuso, con uno sguardo alla strategia, alla sicurezza e alla speranza nella Striscia di Gaza. Molti ritengono che il cosiddetto corridoio Morag non sia così importante da giustificare il fallimento di un accordo per il rilascio degli ostaggi e di un cessate il fuoco. Ma è proprio questo corridoio, a nord della strada di confine egiziana del corridoio di Philadelphi, che attualmente costituisce il principale ostacolo a un accordo di cessate il fuoco. Ma cos'è esattamente questo corridoio di Morag? Perché è così conteso? E perché è così importante per la sicurezza di Israele?
Dall'inizio delle operazioni a Rafah, l'esercito israeliano ha completamente liberato questa zona dalle strutture di Hamas. L'IDF controlla militarmente il territorio e ha distrutto gran parte degli edifici e dei tunnel.
Il corridoio di Philadelphi corre lungo il confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto.
Il corridoio di Morag si trova tra Rafah e Khan Yunis, una striscia di terra strategica che oggi è diventata l'ultima zona libera da Hamas nella Striscia di Gaza meridionale
Nella terra di nessuno tra rovine e macerie sta ora sorgendo un nuovo spazio, non solo geografico, ma anche politico. Qui dovrebbe sorgere anche la città umanitaria, ovvero un centro abitativo per i palestinesi, spesso descritto all'estero come un campo di raccolta negativo.
In questa striscia opera una milizia palestinese guidata da Yasser Abu Shabab. Il comandante beduino, originario della tribù dei Tarabin, ha radunato attorno a sé centinaia di uomini armati. Agiscono in coordinamento non ufficiale ma pratico con l'IDF. Assicurano la distribuzione di generi alimentari da parte dell'organizzazione umanitaria americana GHF “Global Hunger Fund”, scortano convogli di aiuti e, secondo Hamas, conducono persino operazioni mirate in zone in cui le truppe israeliane non osano avventurarsi per motivi tattici.
Per Hamas, Abu Shabab è un incubo. Perché? Perché non è solo un avversario militare, ma sta anche iniziando a costruire un modello civile funzionante, un'alternativa al regime terroristico islamista di Hamas. Nella sua zona di influenza vivono ormai diverse centinaia, forse addirittura migliaia di civili, con scuole funzionanti, approvvigionamenti stabili, un'amministrazione rudimentale e la sensazione di non doversi più sottomettere agli ordini di Hamas.
Nella sua prima intervista a un media israeliano (Ynet) circa tre giorni fa, Yasser Abu Shabab, leader delle “Forze popolari” nella Striscia di Gaza, descrive come sta cercando di costruire un ordine alternativo a Hamas con il sostegno dell'Autorità palestinese, in piena guerra e sotto costante minaccia. “Quando sono fuggito con la mia famiglia ad Al-Mawasi, tra i due corridoi, regnavano la fame, il caos e l'umiliazione”, racconta Abu Shabab. "Hamas controllava tutto, si appropriava degli aiuti umanitari. Non potevo più tacere“. Quando ha visto con i propri occhi che Hamas deviava gli aiuti umanitari destinati alla propria clientela, Abu Shabab ha deciso di agire. ”Ho iniziato a fermare i camion, a prendere il cibo e a distribuirlo io stesso alla gente, ai bambini e alle donne. Per mesi".
«Hamas ci trattava con diffidenza perché abbiamo legami familiari con la tribù dei Tarabin nel Sinai, una tribù che si oppone chiaramente alla Fratellanza Musulmana». Il risultato è stato che «hanno ucciso 52 membri della mia famiglia allargata, compreso mio fratello». Hamas lo ha dichiarato nemico, ma la sua popolarità tra la popolazione è cresciuta. Sempre più giovani si sono uniti a lui.
“Chi aveva armi veniva da me. Chi le nascondeva me le consegnava volontariamente”, racconta. Hamas, invece, sembra sempre più indebolita: “Quando li attacchiamo, scappano come topi”. Abu Shabab commenta anche il dibattito su un possibile cessate il fuoco: "Vogliamo che gli ostaggi israeliani tornino a casa.
Ogni innocente, da qualsiasi parte stia, deve tornare dai propri figli“. Allo stesso tempo, però, mette in guardia da un ritiro troppo affrettato di Israele dai territori liberati da Hamas: ”La popolazione di Gaza ha pagato un prezzo inimmaginabile per questa folle organizzazione terroristica. Non ci fermeremo. Continueremo a combattere fino all'ultimo, fino alla fine di Hamas".
Ciò che sta nascendo qui è più di un semplice corridoio sicuro. È un tentativo di stabilire un'autonomia palestinese indipendente da Hamas e altrettanto indipendente da Fatah e dall'Autorità palestinese di Ramallah, di cui molti palestinesi diffidano. Una sorta di “terza via” nella Striscia di Gaza, nata dal vuoto lasciato dalla guerra.
Proprio in questo contesto, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha annunciato il piano per la creazione di una cosiddetta città umanitaria nella zona di Rafah, una zona che, dopo i controlli di sicurezza, dovrebbe ospitare fino a 600.000 palestinesi e oltre. Le persone che non hanno legami con Hamas dovrebbero trovare lì protezione, assistenza e prospettive. L'obiettivo: una zona sicura senza la presenza terroristica di Hamas, senza armi, senza tunnel, ma con rifornimenti, aiuti per la ricostruzione e un'amministrazione minima.
Il ritiro delle truppe israeliane dal corridoio di Morag, come richiesto da Hamas come condizione per un accordo di cessate il fuoco, vanificherebbe tutto ciò che ho detto prima. Sarebbe un passo indietro, un tradimento nei confronti di coloro che proprio ora hanno il coraggio di intraprendere una strada diversa. Abu Shabab e i suoi uomini sarebbero in pericolo di vita nel giro di poche ore. Hamas riconquisterebbe immediatamente il territorio, insieme agli aiuti umanitari, alle infrastrutture e, soprattutto, alla speranza di qualcosa di diverso. Gli stessi palestinesi parlano sui social network di sentirsi più al sicuro nella zona tra i due corridoi, mentre all'estero questa viene descritta come un “campo di concentramento”.
Non si tratta quindi solo di territorio. Si tratta di un'opportunità storica per dare un nuovo slancio alla Striscia di Gaza, dall'interno, non attraverso l'occupazione o governi in esilio. Un'alternativa locale a Hamas, che sta appena iniziando a formarsi.
La domanda cruciale rimane: vale la pena rinunciare a questo sviluppo per ottenere una fragile tregua? Una tregua che Hamas sfrutterà per riorganizzarsi? Una tregua che potrebbe consentire a un regime terroristico radicale di riprendere piede? Il corridoio di Morag non è un simbolo, è realtà. E forse è uno dei pochi luoghi in cui è già visibile oggi ciò che potrebbe essere possibile domani nella Striscia di Gaza. Chi rinuncia a questo non solo rischia un passo indietro sul piano militare, ma potrebbe anche perdere l'occasione per un vero cambiamento politico.
(Israel Heute, 11 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Gli aiuti dell’UE a Gaza non passeranno più da Hamas
di Amedeo Ardenza
Un passo avanti sugli aiuti alla popolazione gazawi e mezzo sul futuro della Striscia di Gaza. Ieri la Commissione europea ha annunciato che a seguito di «un dialogo costruttivo» con il governo di Gerusalemme sono stati concordati passi significativi di Israele «per migliorare la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza». Un risultato, ha spiegato un portavoce comunitario, frutto del dialogo fra l’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas, e il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar. Le misure previste dall’accordo «saranno attuate nei prossimi giorni, con l’intesa che aiuti su larga scala debbano essere consegnati direttamente alla popolazione e che continueranno a essere adottate misure per evitare qualsiasi deviazione degli aiuti verso Hamas». Più aiuti, dunque, come chiesto dal blocco dei 27, ma nessun favore a Hamas, come preteso da Israele dopo decenni di sostegno europeo a entità ritenute troppo vicine al gruppo terrorista palestinese.
L’accordo sull’asse Bruxelles-Gerusalemme prevede un «sostanziale aumento» dei camion giornalieri di generi alimentari e non alimentari verso Gaza; l’apertura di altri valichi, sia nelle aree settentrionali che meridionali; la riapertura delle rotte di aiuto giordana ed egiziana; la distribuzione di generi alimentari attraverso panifici e mense pubbliche in tutta la Striscia; la ripresa delle forniture di carburante per le strutture umanitarie «fino a un livello operativo»; la protezione degli operatori umanitari; e la riparazione e facilitazione dei lavori sulle infrastrutture vitali, come la ripresa della fornitura di energia all’impianto di desalinizzazione dell'acqua.
Da parte sua l’Ue ha rinnovato l’appello «per un cessate il fuoco immediato e la liberazione di tutti gli ostaggi rimasti» e «sostiene gli attuali sforzi di mediazione di Egitto, Qatar e Stati Uniti».
Su questo fronte, però, il negoziato procede a singhiozzo nonostante lo stesso presidente americano Donald Trump si sia impegnato in prima persona perché le due parti arrivino a un cessate il fuoco in tempi brevi. Ieri, riferiva il Jerusalem Post, gli emissari israeliani a Doha hanno presentato ai mediatori nuove mappe sul possibile ridispiegamento delle Israeli Defense Forces (Idf) dopo l’entrata in vigore della tregua da 60 giorni, mappe che, scrive ancora la testata, indicano una maggiore flessibilità soprattutto per quanto riguarda la presenza israeliana nel sud della Striscia.
Nell'ambito sempre dei negoziati in Qatar, Israele avrebbe concordato in linea di principio che l’Emirato inizi a destinare risorse e fondi alla ricostruzione della Striscia di Gaza già durante il cessate il fuoco.
Lo riferisce il quotidiano Ynet, secondo cui è stata Hamas a esigere questo impegno quale garanzia dell'intenzione israeliana di porre fine alla guerra.
Lo Stato ebraico da parte sua insiste affinché non solo Doha trasferisca i fondi, ma anche altri Paesi (dei quali forse si fida di più). Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita si rifiuterebbero però di aiutare senza prima avere assicurazione che Israele non si limiti a siglare una tregua ma punti, invece, a una pace di durata.
Parlando con un gruppo di famigliari degli ostaggi da Washington DC dove è ancora in visita, ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che sono stati fatti progressi verso un accordo di tregua a Gaza e che lui e il presidente Trump hanno «dei piani» che non possono essere divulgati; quindi ha esortato le famiglie alla pazienza.
Nella regione la tensione resta alta: ieri due palestinesi hanno ucciso un giovane israeliano a Gush Etzion, un insediamento in Giudea, per essere poi eliminati da forze di sicurezza presenti nell’area. Ieri Israele ha ucciso Il comandante delle forze di artiglieria di Hezbollah Nuhammad Murad a sud di Tiro in Libano: «La sua attività costituiva una palese violazione delle intese tra Israele e Libano», hanno scritto le Idf.
Sergey Brin contro l’ONU: «Antisemitismo mascherato da attivismo»
Il cofondatore di Google attacca duramente un rapporto delle Nazioni Unite che accusa Big Tech di sostenere l’offensiva israeliana a Gaza: «Un documento distorto e offensivo».
di Nina Deutsch
Il cofondatore di Google, Sergey Brin, ha accusato le Nazioni Unite di essere «apertamente antisemite» in un messaggio rivolto ai dipendenti di Google DeepMind. Il suo intervento arriva in risposta a un rapporto delle Nazioni Unite che accusa diverse aziende tecnologiche, tra cui Google, di trarre vantaggio dalle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza, fornendo servizi di cloud computing e intelligenza artificiale.
Il documento, redatto dalla relatrice speciale Francesca Albanese, cita espressamente Project Nimbus, un contratto da 1,2 miliardi di dollari firmato nel 2021 da Google e Amazon con il governo israeliano per creare un’infrastruttura digitale autonoma e sicura, isolata da server esterni. Il progetto è stato oggetto di critiche per il possibile utilizzo in attività di sorveglianza e operazioni militari. Secondo il rapporto, tali tecnologie contribuirebbero alla cosiddetta «strategia genocidaria» israeliana contro la popolazione di Gaza.
Brin ha definito l’uso del termine «genocidio» come «profondamente offensivo per molti ebrei che hanno vissuto o ricordano autentici genocidi», aggiungendo che il documento delle Nazioni Unite è «scritto con un pregiudizio evidente». Le sue parole, condivise in una chat interna dell’azienda, hanno colpito molti colleghi, considerato il suo abituale riserbo sulle discussioni pubbliche.
Gli Stati Uniti hanno criticato il rapporto e chiesto formalmente la rimozione di Francesca Albanese, accusandola di antisemitismo e ostilità sistemica nei confronti di Israele. La relatrice ha respinto le accuse, sostenendo che il suo lavoro si limita a documentare il coinvolgimento delle aziende tecnologiche nell’infrastruttura militare israeliana, soprattutto dopo l’attacco lanciato da Hamas il 7 ottobre 2023.
Sergej Brin, nato Sergej Michajlovič Brin in Unione Sovietica nel 1973 da una famiglia ebraica, è fuggito negli Stati Uniti per evitare la persecuzione religiosa. È tornato a essere attivamente coinvolto nelle operazioni di Google a partire dal 2022, con l’obiettivo di guidare la competizione nel campo dell’intelligenza artificiale contro rivali come OpenAI.
Google, da parte sua, ha già chiarito che Project Nimbus non è destinato all’uso da parte delle forze armate israeliane. Tuttavia, il coinvolgimento dell’azienda in progetti governativi legati a scenari di guerra ha sollevato forti polemiche anche all’interno, tra lavoratori e ingegneri che da tempo chiedono maggiore trasparenza e un’etica più rigorosa nello sviluppo dell’AI.
Come riportato dal Washington Post, il dibattito su tecnologia, guerra e responsabilità morale delle grandi aziende si fa sempre più acceso, mentre la linea di confine tra innovazione e complicità si fa ogni giorno più sottile.
L’appello dei docenti contro il boicottaggio di Israele: «Disastro politico, umano e morale»
«Sono già pervenute quasi 2mila adesioni, ma altre centinaia sono in arrivo nelle prossime ore. È un segnale molto importante».
Lo psicanalista David Meghnagi, già coordinatore del Master in Didattica della Shoah all’Università di Roma Tre, è uno dei sei accademici promotori di un appello “contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani”, rivolto in prima istanza alla ministra dell’Università e della Ricerca e alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui). Nell’appello si denunciano con allarme «le mozioni di boicottaggio promosse in alcuni atenei contro università e istituti di ricerca israeliani e il loro corpo docente, di ricerca e studentesco», citando vari episodi avvenuti in questi mesi. Tali iniziative, si legge, «anche quando non consapevolmente antisemite, non solo contrastano con la vocazione dell’università e della ricerca, che devono restare spazi di libertà, confronto critico e cooperazione internazionale, ma contribuiscono anche a portare in superficie forme di antisemitismo latente».
Secondo Meghnagi, interpellato da Pagine Ebraiche, è un tema sul quale la Crui «deve pronunciarsi in modo netto, perché il boicottaggio delle università israeliane è un disastro politico, umano, morale». Morale anche perché, ricorda Meghnagi, le università israeliane «sono in parte figlie della tragedia della persecuzione fascista: molti docenti italiani allontanati dall’insegnamento con la promulgazione delle leggi razziste del ’38 hanno plasmato e rinnovato diverse aree della ricerca israeliana». Fu un gruppo percentualmente molto rilevante, il secondo in assoluto dopo quello tedesco. «Va aperta una riflessione morale su quello che sta accadendo»; incalza Meghnagi. «facendo notare che i nipoti di coloro che allora si sono voltati dall’altra parte, permettendo il suicidio dell’università italiana, partecipano ora al boicottaggio dei nipoti di quanti furono allora perseguitati». È poi inquietante, aggiunge Meghnagi, «che tutto questo avvenga ad appena sette anni distanza dalla “cerimonia del ricordo e delle scuse” durante la quale le università italiane riunite a Pisa affrontarono insieme quel tema, dopo aver aspettato 80 anni».
Gli atenei israeliani possono fare qualcosa per contrastare la deriva in atto? A detta dello studioso, «le università israeliane sono portatrici di un messaggio prezioso, anche in questo difficile periodo, continuando a preservare il valore della convivenza tra diverse componenti culturali e religiose». La sua speranza è che voci arabe e islamiche si facciano sentire in ambito accademico a difesa degli stessi valori. «Spero si pronuncino molto più di adesso, perché sarebbe la premessa per creare le condizioni culturali per uscire dalla tragedia in cui vive il vicino Oriente», sostiene Meghnagi. «Non siamo decisori politici, ma docenti. E come docenti il nostro compito è fornire delle buone pratiche e alimentare l’empatia». In quest’ottica, conclude, «anche psicologi e psicanalisti italiani hanno perso finora un’occasione, concentrandosi nel deumanizzare la realtà d’Israele» .a.s.
Università ebraica di Gerusalemme, l’officina dei geni che cambiò il mondo
di David Meghnagi
L’Università ebraica di Gerusalemme compie 100 anni, e li porta bene. La foto di Einstein con lo sguardo sognante, che gira in bici per il campus, ti segue e ti incoraggia amichevolmente. Dalla terrazza dell’ateneo è possibile guardare in lontananza il luogo più basso del pianeta. La città di Gerusalemme si affaccia sul deserto. Ma il deserto, con il suo silenzio, non è mai stato concepito come assenza totale. Dal midbar (deserto) viene davar, la parola che consola e restituisce un senso al dolore. L’Università, scrisse Freud nel suo toccante messaggio, «è il luogo in cui si insegna il sapere al di sopra di ogni differenza di religione e di nazionalità», in cui gli esseri umani «apprendono fino a che punto può spingersi la loro comprensione del mondo», una «nobile testimonianza del grado di sviluppo cui il nostro popolo è faticosamente pervenuto in duemila anni di traversie sfortunate».
Nonostante i laceranti conflitti che scuotono la regione, l’Università non è mai venuta meno all’appello di Freud. Se non fosse per la follia che dilaga verrebbe da ridere amaramente che ci siano fisici, psicologi e purtroppo anche psicoanalisti che vogliono porre fine a ogni forma di collaborazione con un ateneo in cui il ruolo degli accademici italiani – espulsi dalle Università italiane dopo le Leggi razziali – è stato importante. Giusto per citare alcuni nomi da ricordare: Giulio Racah, fisico espulso dall’Università di Pisa, uno dei padri della fisica israeliana; Guido Tedeschi, giurista dell’Università di Siena a cui si deve lo sviluppo del pensiero giuridico in Israele. Quando Ben Gurion gli chiese di assumere la presidenza dell’Alta Corte, Tedeschi rispose che per lui era più importante formare dei giuristi di qualità. E poi ci sono l’anatomopatologo Salomone Enrico Emilio Franco; Roberto Bachi, statistico e demografo; Guido Mendes, tisiologo; Umberto Cassuto, orientalista; Enzo Bonaventura, psicologo sperimentale e pioniere della psicoanalisi italiana, che morì assassinato insieme ad altre 68 persone in un agguato mortale nell’aprile 1948. Tre generazioni di studiosi uccisi in un solo giorno.
Per non parlare di Enzo Sereni (fratello di Emilio), che fondò un kibbutz e non si rassegnò mai, come tanti, all’idea che non fosse possibile costruire un rapporto di convivenza con il mondo arabo e islamico. Sul finire della guerra, Enzo Sereni, che il Comune di Roma ha deciso di ricordare con una via, si fece paracadutare in Italia per unirsi alla lotta partigiana e portare aiuto agli ebrei braccati dai nazisti. La storia dell’Università ebraica è anche un pezzo di storia italiana, da riscoprire come tale per gettare un ponte tra un passato che non passa e un futuro possibile di convivenza.
Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Palestinesi, accusandola di condurre una “guerra politica ed economica” contro Washington e Gerusalemme. L’annuncio è stato dato direttamente dal Segretario di Stato Marco Rubio, che ha definito inaccettabili gli sforzi della relatrice speciale per coinvolgere la Corte Penale Internazionale contro funzionari, aziende ed esponenti politici americani e israeliani.
“Non tollereremo oltre la campagna di guerra politica ed economica di Francesca Albanese contro Stati Uniti e Israele,” ha dichiarato Rubio in un post su X. “Continueremo a intraprendere tutte le azioni necessarie per contrastare il lawfare e difendere la nostra sovranità e quella dei nostri alleati”.
L’iniziativa arriva in un momento delicato, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si trova in visita a Washington per negoziati con l’amministrazione Trump riguardo a un possibile cessate il fuoco a Gaza e un accordo per la liberazione degli ostaggi. La decisione di Rubio ha raccolto immediatamente il sostegno di diversi rappresentanti israeliani, come ha riportato il Jerusalem Post. Il Ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha commentato con entusiasmo: “Un messaggio chiaro. È ora che l’ONU presti attenzione!”. Anche l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Danny Danon, ha applaudito l’iniziativa: “Albanese ha superato da tempo il confine tra difesa dei diritti umani e propaganda antisemita. Le sue dichiarazioni e azioni danneggiano profondamente la credibilità delle Nazioni Unite”.
Le accuse nei confronti di Francesca Albanese spaziano da posizioni ritenute antisemite — come l’aver parlato di una “lobby ebraica” che controllerebbe gli Stati Uniti — a una presunta legittimazione di Hamas e del ricorso alla lotta armata da parte dei palestinesi. In un’intervista del 2022, ripresa dal Times of Israel, aveva paragonato l’azione di Israele a quella dei nazisti. Più recentemente, ha descritto le azioni di Israele a Gaza come “genocidio” e ha invitato gli Stati membri dell’ONU a prendere misure concrete contro lo Stato ebraico, comprese sanzioni internazionali.
(Shalom, 10 luglio 2025)
La viceministra Haskel: Italia tra i paesi più vicini a Israele
Il governo italiano? «Uno dei più vicini a Israele, hanno capito perfettamente la situazione e per questo li ringrazio»
Sharren Haskel è la viceministra israeliana degli Esteri. È di ritorno in Israele dopo una tre giorni a Roma nel corso della quale ha incontrato ministri, parlamentari, esponenti della maggioranza e di parte dell’opposizione, rappresentanti del mondo ebraico e dell’associazionismo. Una missione proficua, fa capire incontrando alcuni giornalisti nella sede della missione israeliana, affiancata dall’ambasciatore Jonathan Peled. Haskel ha risposto a domande su vari temi, a partire dal recente conflitto dei “12 giorni” con l’Iran e dai negoziati per una tregua a Gaza e per il rilascio di parte degli ostaggi. La viceministra ha rivendicato «il grande successo» dell’operazione in Iran, che avrebbe riportato il progetto nucleare di Teheran indietro di almeno due anni. «Si apre per tutti una grande opportunità», ha dichiarato. «Ed è il momento che emergano delle leadership in grado di stabilizzare la situazione in Medio Oriente». Stabilità della quale il regime degli ayatollah «è il più grande nemico, come si vede nella guerra che stiamo combattendo da quasi due anni con i suoi proxies». L’Iran è un pericolo globale, ha proseguito la viceministra, «perché ha tentacoli in tutto il mondo, è infiltrato in Europa e in America Latina: noi siamo in prima linea». Israele «non ha avuto alternative», ha spiegato. «Negli ultimi mesi il regime ha impresso un’accelerazione drammatica sia rispetto al programma nucleare, sia alla produzione di missili balistici; quando il regime grida “morte a Israele!” sappiamo bene cosa intende e non possiamo permetterlo».
Per quanto riguarda i negoziati in corso a Doha, la viceministra ha affermato che «Israele ha sempre detto sì, facendo molte concessioni, perché la nostra priorità è riportare gli ostaggi a casa». Hamas invece «ha sempre rifiutato, ponendo condizioni inaccettabili: non possiamo permettere che riprenda il controllo della distribuzione degli aiuti umanitari». È un punto non negoziabile, ha ribadito, «e malgrado ciò siamo ancora a Doha perché vogliamo un accordo». Sul “day after” per Gaza, quando la guerra sarà finita, «stiamo dialogando con alcuni paesi arabi, che concordano con noi sul fatto che Hamas non possa più avere un ruolo: una delle ipotesi in campo è un controllo internazionale con il coinvolgimento di alcuni di questi paesi». È ancora attuale soluzione “Due popoli, due stati?”. Haskel ha espresso un no netto, sostenendo che chi la avalla in questo momento storico (il riferimento era al presidente francese Emmanuel Macron) «sta di fatto chiedendo di arrenderci ad Hamas, perché la festa nazionale di quello Stato diventerebbe il 7 ottobre».
La situazione nei Territori è spesso incandescente. Haskel ha condannato le violenze di alcuni “giovani delle colline” che di recente hanno attaccato anche soldati dell’esercito israeliano, sostenendo comunque che si tratta di episodi «non così frequenti, certo non su base quotidiana». E in ogni caso, ha aggiunto, «la giustizia farà il suo corso, abbiamo un sistema molto solido che non fa differenza a seconda dell’identità degli imputati: ebrei, musulmani, cristiani è lo stesso per tutti». La viceministra si è poi detta ottimista sul futuro degli Accordi di Abramo: «Altri paesi vorrebbero entrare a farne parte». E anche sulla tenuta dell’economia israeliana: «Siamo di fatto in una nuova guerra d’indipendenza, sottoposti a una minaccia esistenziale; ciò nonostante, anche a livello economico, stiamo mostrando la nostra resilienza».
L’obiettivo è rafforzare le relazioni con l’Italia in vari ambiti, promuovendo ricerca e sviluppo. Haskel ne ha parlato con Anna Maria Bernini, la ministra italiana dell’Università e della Ricerca. Haskel ha posto l’accento con preoccupazione sulla crescente influenza del movimento Bds nel sistema universitario. «Boicottando Israele, perdono tutti», ha sostenuto. «Il Bds è un movimento estremista che punta a distruggere la possibilità di un futuro migliore, anche per i palestinesi. Nelle aziende prese di mira dal Bds, ad esempio SodaStream, ebrei e arabi lavorano fianco a fianco, si conoscono e vanno ai matrimoni e alle feste l’uno dell’altro».
Rav Bahbout rinuncia alla cittadinanza onoraria di Napoli: “L’amministrazione napoletana appoggia assassini criminali e terroristi”
“Non intendo, quindi, essere più cittadino di una città che rappresenta, da parte di chi la amministra, l’esatto contrario di quella che mi conferì la cittadinanza” ha scritto l’ex rabbino capo della città partenopea al sindaco Gaetano Manfredi dopo la decisione del consiglio comunale di interrompere i rapporti con Israele.
di Nina Prenda
Rav Scialom Bahbout, già rabbino capo della città di Napoli e del Sud Italia, ha rinunciato al conferimento della cittadinanza onoraria del capoluogo campano e ha scritto una lettera al sindaco Gaetano Manfredi per declinare l’invito ed esprimere la sua posizione in merito. Deluso ma deciso, compiendo un gesto forte e ricco di significato, Bahbout rigetta il conferimento poiché il Consiglio Comunale della città ha deciso di interrompere i rapporti con Israele.
“Signor Sindaco, la Sua città ebbe a conferirmi la cittadinanza partenopea che accolsi con spirito di orgoglio e responsabilità” così inizia la lettera. Ricordando di essere stato accolto nel 1953, quando giunse a Napoli come profugo dalla Libia, il rabbino riconosce la “responsabilità quale rabbino capo in una realtà dialogante e che guardava al Mediterraneo aspirando giustamente ad un ruolo centrale anche di pacificazione” e la sua intenzione di “corrispondere anche dal ruolo ricoperto all’ accoglienza che ricevetti nel 1953”.
In passato, il ruolo da lui ricoperto è stato motivo di orgoglio, così da lui stesso definito, “perché mi consentiva di essere parte di una comunità che aveva costituito una città aperta e tollerante e che è stata, con il ghetto di Varsavia, unica in Europa a sollevarsi da sola e con le armi contro assassini crudeli, sterminatori e oppressori che avevano lo scopo di assoggettare popoli ed eliminare quello al quale appartengo”.
Eppure oggi qualcosa nella città di Napoli è cambiato. Rav Bahbout esprime la sua profonda delusione per le decisioni del Consiglio Comunale, giacché “un recente voto del Consiglio che Ella presiede promuove un boicottaggio contro l’unica democrazia del Medio Oriente e, sposando facili quanto falsi slogan, calpesta le gloriose, spontanee ed eroiche gesta della città”; ottantadue anni dopo “con tale voto l’amministrazione napoletana ha inteso appoggiare assassini criminali e terroristi che hanno gli stessi scopi e metodi di quelli che furono cacciati dalla popolazione nel 1943 e che ho sopra richiamato”.
È per questa ragione che il rabbino declina il conferimento della cittadinanza onoraria, scrivendo: “Non intendo, quindi, essere più cittadino di una città che rappresenta, da parte di chi la amministra, l’esatto contrario di quella che mi conferì la cittadinanza e che risulta oggi perseguire l’opposto di quei valori di Libertà, Giustizia e Verità che ne fecero un faro tra le genti e non soltanto in occasione delle eroiche quattro giornate per le quali la città venne insignita di medaglia d’oro”. Conclude così Bahbout: “Le comunico quindi la mia volontà a rinunciare alla cittadinanza di Napoli”, chiosa.
Forse c’è anche una stanchezza che logora più delle bombe. È la stanchezza di una nazione che da mesi manda i suoi figli di diciannove anni a morire in un dedalo di vicoli a Gaza, senza che nessuno sappia indicare quale sia la vera meta, quale sia l’uscita dal labirinto. “Il capo di stato maggiore continua a ripetere che non c’è ragione di rimanere lì”, scrive un’amica da Israele, e in quella frase c’è il dramma di un intero popolo. Un popolo che si sente sotto assedio, non solo dai missili che piovono da ogni dove, ma anche dal dito puntato del mondo intero, e che inizia a dire, semplicemente, “basta”.
Di fronte a questo logoramento, le domande strategiche restano sospese a mezz’aria, senza risposta. Qual è il piano del governo Netanyahu, al di là del corretto obiettivo di “estirpare Hamas”? Cosa si è guadagnato davvero dalla guerra lampo con l’Iran se non un “cessate il fuoco”? E dopo mesi di combattimenti a Gaza, Israele è davvero più sicura? Il vuoto di una strategia a lungo termine viene così colmato da un atto di disperata diplomazia personale.
La speranza non è più in un piano, ma nell’intervento di un attore esterno come il presidente Trump, la cui benevolenza va corteggiata con gesti plateali. Lo conferma la notizia, riportata dalla CNN e da altre testate, della lettera che Bibi ha consegnato ieri a Trump per candidarlo al Nobel per la Pace: non un omaggio, ma l’ultima moneta di scambio per ottenere quella parola ‘fine’ che la sua leadership è incapace di prevedere.
E sullo sfondo un Occidente ripiegato su se stesso, perso tra le sue piazze urlanti e i suoi salotti accademici schierati nella quasi totalità con lo slogan “dal fiume al mare”. L’uscita dal labirinto, forse, non si trova a Washington o a Bruxelles, ma sta prendendo forma proprio in quel mondo arabo che per decenni è stato considerato la radice del problema.
Il primo segnale è un cambio di paradigma geopolitico, riassunto nel vecchio adagio: “il nemico del mio nemico è mio amico”, pronunciato poco tempo fa dal principe Mohammed bin Salman. Il vero nemico che unisce non è più lo Stato ebraico. È l’Iran. La prospettiva di un’egemonia persiana, e forse nucleare, sta costringendo le monarchie sunnite a un ricalcolo radicale dei propri interessi. La sopravvivenza dei loro troni vale più della vecchia retorica panaraba. E la stabilità, si rendono conto, passa per una normalizzazione dei rapporti con l’unica altra potenza tecnologica e militare della regione in grado di fronteggiare Teheran: Israele.
Su questo terreno di realismo spietato, stanno germogliando semi che fino a ieri sarebbero stati considerati pura eresia. Non si tratta più solo degli Accordi di Abramo. Dal mondo arabo stesso, come riporta la stampa israeliana, si sta formulando una nuova Iniziativa di Pace Araba. E, ancora più sorprendente, dal basso, dal cuore della Cisgiordania, emergono proposte locali, come quella dello sceicco di Hebron, Wadee’ al-Jaabari, che, scavalcando l’Autorità Palestinese ormai decrepita e corrotta, propone al Wall Street Journal la creazione di un emirato locale pronto a fare la pace.
Queste non sono soluzioni definitive, ma sono crepe nel muro dell’immobilismo. Sono tentativi pragmatici di costruire qualcosa di nuovo sulle macerie di un’ideologia fallita, quella del rifiuto a oltranza. L’idea che la “questione palestinese” possa essere risolta non da un accordo globale imposto dall’esterno, ma da una serie di patti locali e regionali sostenuti da chi ha davvero interesse a pacificare l’area, è un concetto rivoluzionario.
Questa svolta non nasce da un ingenuo idealismo, ma da un realismo che mette sul tavolo una scelta tra due visioni del futuro, incompatibili e antitetiche. Da un lato, c’è un modello di cooperazione basato sul progresso concreto: la sicurezza idrica, l’agricoltura, l’innovazione e l’interdipendenza economica. È la via di chi vuole “costruire e assicurare un futuro condiviso”, allineandosi con partner strategici come Israele, visto sempre più come un pilastro necessario per la prosperità a lungo termine.
All’opposto, c’è la dottrina del caos, incarnata dall’Iran e dai suoi emissari del terrore come Hamas, Hezbollah e Houthi. Il loro unico progetto non è costruire un futuro, ma orchestrare un conflitto senza fine per annientare Israele e muovere guerra all’Occidente. È il regno dei predicatori di morte, un investimento garantito nell’instabilità che una parte del mondo occidentale, con una perversione quasi incomprensibile, sembra voler abbracciare.
I leader arabi, con lungimiranza, stanno semplicemente scegliendo tra un partner che è pilastro di prosperità e un movimento che è “l’antitesi della civiltà”.
E così, mentre in Italia e in Occidente ci si lacera su boicottaggi e liste di proscrizione, la storia si muove altrove. L’uscita dal labirinto potrebbe non essere la porta principale che tutti fissano da settant’anni, ma un passaggio secondario, aperto silenziosamente da chi ha capito che, per sopravvivere alla minaccia più grande, è necessario scegliere il proprio alleato, anche se ieri lo si chiamava nemico.
(InOltre, 10 luglio 2025) ____________________
Analisi di questo tipo mettono sempre da una parte i "barbari" orientali: Hamas, Iran, Hezbolla, Houthi, con qualche accenno alla putiniana Russia, e dall'altra i "civili" occidentali: Israele, America, Europa. Sono analisi prettamente laiche e pertanto superficiali. Il nemico profondo di Israele e degli ebrei si trova, ora come nel passato, in un Occidente percorso da correnti religiose cangianti secondo i tempi. Nella superficiale religiosità laica dei diritti e della libertà si è innestata una religiosità islamica adattata ai tempi e alle circostanze che sta potenziando il sempre latente odio antiebraico occidentale rendendolo più universale, più ecumenico, più resistente. E in sostanza più occidentale. Registro anche, con dolore e umiliazione, il riemergere di un antisemitismo cristiano, anche questo ecumenico, proveniente da zone teologiche diverse che però si ritrovano in una comune svalutazione dello Stato di Israele e degli ebrei di oggi. E anche questo è un fenomeno che avviene in Occidente. M.C.
Cinque soldati israeliani uccisi in un’imboscata di Hamas a Beit Hanoun
di Luca Spizzichino
Lunedì sera cinque soldati israeliani sono stati uccisi e altri 14 feriti, di cui due in modo grave, in un attacco coordinato da Hamas nella città settentrionale di Beit Hanoun, nella Striscia di Gaza. L’imboscata, avvenuta intorno alle 22:00, ha colpito una forza del battaglione Netzah Yehuda della Brigata Kfir, impegnata in un’operazione di avanzamento a piedi in una zona sotto intenso controllo militare israeliano.
Secondo una prima indagine dell’IDF, l’attacco è stato innescato da una serie di quattro-cinque ordigni esplosivi nascosti e fatti detonare in rapida successione. Gli esplosivi, probabilmente piazzati nei due giorni precedenti, avrebbero preso di mira una colonna di soldati in prossimità di carri armati e veicoli del Genio militare israeliano. Le forze di soccorso, intervenute per evacuare i feriti, sono poi finite sotto un intenso fuoco di copertura in quella che i vertici militari hanno definito “un’imboscata ben preparata”, organizzata dopo un’attenta osservazione dei movimenti delle truppe israeliane.
Il battaglione era entrato a Beit Hanoun come parte di una più ampia offensiva congiunta, condotta insieme alla Brigata Paracadutisti della Riserva 646 e alla Divisione settentrionale della Striscia, con l’obiettivo di neutralizzare una roccaforte di Hamas alla periferia della città. L’area era stata sottoposta a pesanti bombardamenti aerei e di artiglieria nei giorni precedenti.
Questo episodio rappresenta la più grave perdita per il battaglione Netzah Yehuda dall’inizio della guerra. Prima di lunedì, il battaglione aveva perso quattro soldati, tre dei quali in un attacco simile avvenuto a maggio. Con questi ultimi caduti, il numero totale di soldati israeliani morti nella guerra sale a 888, di cui 446 uccisi durante le operazioni terrestri a Gaza. Tra le vittime c’è Benyamin Asulin, 28 anni, riservista originario di Haifa, arruolato nella Brigata settentrionale della Divisione Gaza. Con lui hanno perso la vita quattro giovani soldati in servizio attivo del Netzah Yehuda, tutti tra i 20 e i 21 anni: Noam Aharon Musgadian, Meir Shimon Amar e Moshe Nissim Frech, tutti e tre cresciuti a Gerusalemme, e Moshe Shmuel Noll, di Beit Shemesh.
Parlando da Washington, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Questo è un mattino difficile per tutti noi. Il popolo d’Israele china il capo nel dolore e nell’orgoglio, rendendo omaggio ai nostri eroi caduti. Hanno dato la vita nel nome di una missione più grande: sradicare Hamas e riportare a casa i nostri ostaggi”.
“I cinque soldati uccisi erano in prima linea nella lotta per la sicurezza di Israele. Hanno combattuto con valore e sacrificato tutto. La nostra responsabilità è continuare la loro missione” ha aggiunto il ministro della Difesa Israel Katz.
Il codice etico di IDF: un filo collega l’attacco del 7 ottobre e le leggi della guerra
Un filo collega l’attacco del 7 ottobre e le leggi della guerra.
di Joe Shammah
Il kibbutz Be’eri fu fondato il 6 ottobre 1946. Il 7 ottobre è il giorno del fatidico attacco di Hamas del 2023. Le due date sono separate da 77 anni. La fondazione del kibbutz (1946) precede di 2 anni la costituzione (1948) dello Stato di Israele ed è successiva di 2 anni (1944) alla morte di Berl Katznelson. Il nome del kibbutz venne attribuito in suo onore, Be’eri è la versione ebraica di Berl. Katznelson (1887-1944) era un ebreo lituano emigrato nella Palestina ottomana nel 1909. Fondò nel 1920 il sindacato dei lavoratori, Histadrut, e nello stesso anno la cassa mutua malattie, Clalit, entrambi tuttora operativi. Nel 1925 diede vita al quotidiano socialista Davar (Parola) e la casa editrice ‘Am ‘Oved (Popolo Operaio). Anche questi sono attivi tutt’oggi.
Nel 1936-1939 durante la Rivolta Araba al Mandato Britannico, in un periodo fragile per la comunità ebraica, esposta al terrorismo arabo prima della costituzione dello Stato, il Palmach (acronimo di Plugot Maḥatz, Compagnie d’Attacco) garantì l’ autodifesa degli insediamenti ebraici. Katznelson sviluppò allora un codice di norme di guerra e attinse dalla tradizione biblica il nome di “purezza delle armi”. Il codice fu adottato prima dal Palmach, poi da IDF quando vi confluì il Palmach.
Il codice etico di IDF (Israel Defense Forces, in ebraico ZAHAL, Zvà haHaganà LeIsrael) del 1994 fu redatto nella continuazione del pensiero di Katznelson.
È opera di Asa Kasher con contributi di Moshe Halbertal. Affonda le sue radici nella tradizione ebraica: “Se il tuo nemico cade, non festeggiare; se cade, non si rallegri il tuo cuore” (Proverbi 24:17).
Le Laws of War sono state redatte nel 1949, 4 trattati e 3 protocolli, a cui ci si riferisce come Convenzioni di Ginevra.
Katznelson ha anticipato le leggi internazionali di un decennio, permeando IDF di un codice etico che ispira e precede norme di condotta militare di altri eserciti.
Il kibbutz Be’eri è stato devastato da 101 morti, un decimo dei suoi membri, e da 30 rapiti il 7 ottobre.
L’ateneo filo-palestinese di Padova che ripudia Israele e i suoi istituti
di Pompeo Volpe
Il Senato accademico (Sa) dell’Università di Padova ha approvato tre mozioni, successivamente al 7 ottobre, cioè all’eccidio di oltre 1200 civili e al rapimento di circa 250 ostaggi. Il 7 novembre 2023, in una “Mozione per la pace”, «condanna fermamente le atrocità commesse da… Hamas, …esprime sconcerto e preoccupazione per il drammatico evolversi della situazione nella striscia di Gaza dove l’intervento dell’esercito israeliano, colpendo anche obiettivi non militari, sta imponendo alla popolazione palestinese perdite umane e disagi inaccettabili» e «si esprime a favore della risoluzione pacifica del conflitto». Prescindendo dall’aggressione subita da Israele su sette fronti di guerra e dal suo diritto all’autodifesa, nonché dalle responsabilità di Hamas che usa i gazawi come scudi umani, il Sa si presenta quasi equidistante tra i due contendenti, 30 giorni dopo il 7 ottobre, ma si preoccupa dell’intervento “inaccettabile” dell’IDF.
Il 14 maggio 2024, a fronte dell’insistenza di alcuni suoi componenti che vorrebbero un atto di condanna di Israele, la maggioranza del Senato accademico e la rettrice Mapelli si oppongono alla denuncia degli accordi con le Università israeliane, ma fanno passare alcuni elementi di narrazione filo-palestinese. Nella “Mozione sul conflitto nella Striscia di Gaza”, l’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre diventa l’”esacerbazione” del conflitto in corso e la liberazione degli ostaggi è posposta alla richiesta di un immediato cessate il fuoco. Tutta l’attenzione viene rivolta alle «gravissime emergenze umanitarie e a[lle] numerosissime vittime tra la popolazione civile palestinese, tra cui migliaia di bambini… drammatiche notizie provenienti quotidianamente dalla Striscia di Gaza», e all’«ulteriore drammatico evolversi del conflitto condotto con ingiustificabile accanimento dall’esercito israeliano ai danni della popolazione civile palestinese, alla quale vanno sentimenti di vicinanza e solidarietà». Accettando per buona la propaganda di Hamas sul numero e sul tipo di vittime (tra cui migliaia di bambini) e dimenticando il continuo lancio di razzi verso centri abitati israeliani, dalla Galilea al Negev, emergono gli stereotipi del palestinese vittima e dell’israeliano carnefice.
Il 1° luglio 2025, regista la rettrice Mapelli, il Senato accademico dispiega pienamente la narrazione filopalestinese e anti-israeliana omettendo ogni riferimento alle vittime israeliane (dagli ostaggi ancora detenuti, ai morti e ai feriti delle centinaia di missili balistici lanciati dall’Iran). Inizialmente il Sa constata il «proliferare delle violazioni sistemiche (sic) dei diritti umani fondamentali del popolo palestinese» e l’«esacerbarsi dell’azione militare della Stato di Israele a Gaza» e poi «condanna … tutte le ripetute violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani compiute dalla Stato di Israele, certificate dall’ONU, dalla Corte Penale Internazionale e dall’Unione Europea». Ma le violazioni si “certificano”? E ammesso che si certifichino, sono state certificate?
Quando mai è stato condannato Israele nelle sedi opportune? Essendo le violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani a carico di Israele ad oggi inesistenti, fino a quando ascolteremo le falsità divulgate dal Sa dell’Università di Padova? In base a tale, infondata, premessa, il Senato accademico si impegna poi a «farsi promotore … del riconoscimento dello Stato Palestinese … [e] a non intraprendere nuovi accordi istituzionali, né a rinnovare gli accordi in essere, con le istituzioni e gli enti israeliani che contribuiscono al perpetrarsi delle gravissime violazioni del diritto internazionale e al mantenimento dell’occupazione illegale del Territorio Palestinese».
Adesso l’istituzione universitaria si sente autorizzata a negare la sottoscrizione di nuovi accordi per evidenti complicità con le violazioni del diritto internazionale e con il mantenimento dell’occupazione illegale. Nella chiusa della mozione, il Sa raggiunge quindi il suo “Nadir anti-israeliano” tratteggiando un Israele imperialista e colonizzatore: ma qualcuno di loro ha letto i documenti del trattato di Sanremo (1920), del Mandato della Lega delle Nazioni (1922) fino a quelli degli Accordi di Oslo (1993)? Accettando la propaganda di Hamas, affiancando chi vuole semplicemente la distruzione di Israele, praticando il doppio standard (che condanna i presunti bombardamenti indiscriminati condotti dallo Stato ebraico, ma cancella quelli subiti per venti anni da Israele), discriminando Israele e ignorandone il diritto all’auto-difesa e all’esistenza, il Sa non rende un buon servizio alla verità, alla libertà e alla storia dell’Università di Padova, spesso memorabile.
Mentre Benjamin Netanyahu atterra a Washington, sembra che gli ingranaggi della macchina dell’intelligence israeliana si stiano rimettendo in moto، silenziosi, nascosti, lontani dai riflettori mediatici. Non è solo un viaggio diplomatico. È l’inizio di un nuovo capitolo in una guerra invisibile, una battaglia d’intelligence che potrebbe sfociare in un altro terremoto geopolitico in Medio Oriente. Il Mossad e le sue reti di collaboratori, già attive nelle profondità del territorio iraniano, si preparano a uno scenario nuovo. Non se ne parla nei talk show internazionali, né se ne sente l’eco nei corridoi dell’ONU, ma i segnali sono visibili. La visita ufficiale del Primo Ministro israeliano, in un momento critico per la ridefinizione degli equilibri di sicurezza in Medio Oriente, grida una verità inequivocabile: il dossier Iran è tutt’altro che chiuso. Al contrario, è entrato in una fase ancora più nascosta, chirurgica e brutale. Dopo i dodici giorni di guerra tra Iran e Israele, la polvere ancora non si è del tutto posata. Ma ciò che avvolge la regione ora non è quiete, bensì la calma prima della tempesta. È in corso un gioco d’ombre, una partita d’intelligence in cui l’obiettivo non è solo distruggere le installazioni nucleari o le basi militari iraniane, ma qualcosa di molto più ambizioso: sgretolare dall’interno la volontà strategica del regime, logorare psicologicamente i suoi quadri di comando, e aprire crepe nel cuore stesso del potere. Il Mossad, con un curriculum di operazioni audaci nel cuore dell’Iran, sta nuovamente posizionando le sue pedine. Le cellule dormienti si risvegliano. Tecnologie di sorveglianza e comunicazione avanzate vengono dispiegate. Agenti addestrati da anni per questo momento cruciale sono pronti a eseguire un piano che potrebbe, per la seconda volta in un mese, ribaltare completamente gli equilibri. Nel frattempo, ciò che accade nella Striscia di Gaza non è affatto scollegato. Fonti autorevoli parlano di una tregua di due mesi tra Netanyahu e Hamas, mediata da Qatar ed Egitto, sotto pressione americana. Perché ora? Perché l’opinione pubblica mondiale è sempre più ostile verso governo di Israele. Le immagini dei bambini morti sotto le macerie hanno generato un’ondata di condanna globale. Ma Netanyahu, un politico temprato da decenni di crisi, potrebbe ancora una volta usare questo clima a suo favore. La tregua a Gaza potrebbe essere parte di una tattica più ampia: abbassare il livello di tensione mediatica, guadagnare legittimità internazionale con una faccia più “razionale”, e concentrare tutte le forze contro ciò che Israele considera la minaccia esistenziale: Il regime islamico dell’Iran. In questo contesto, il viaggio di Netanyahu a Washington ha un messaggio: ottenere il via libera definitivo dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per sferrare un colpo più duro, più deciso – forse, finale. Trump, tornato alla Casa Bianca con l’intenzione dichiarata di contenere nuovamente l’Iran, sa bene che Netanyahu può essere il suo braccio operativo nella nuova fase della politica di “massima pressione”. La cooperazione tra Tel Aviv e Washington si è rafforzata dopo la guerra recente, e ora, mentre il polverone si deposita, è il momento di pianificare il prossimo attacco. Israele sa che il tempo non gioca a suo favore. Ogni giorno di attesa consente al “regime di Ayatollah” di rafforzarsi e complica il contesto diplomatico. Per questo, la nuova strategia non punta a una guerra convenzionale, ma a una guerra invisibile: smantellare le reti informative, neutralizzare i centri decisionali, e soprattutto, distruggere la fiducia strategica del regime. Questa volta, l’obiettivo potrebbe non essere solo Fordow, Isfahan o Parchin. Forse, il Mossad non cerca più l’esplosione, ma il collasso. Distruzione senza fumo. Attacco senza detonazione. Mandare in tilt i meccanismi interni della sicurezza iraniana, è questa l’arte oscura che ha reso Israele uno degli attori più temuti nel mondo dell’intelligence. Il silenzio dei media, la lentezza sospetta degli analisti occidentali e il focus globale su altre crisi sono tutti segnali rivelatori: il prossimo attacco potrebbe essere già finito prima ancora che qualcuno si accorga che è iniziato. In tutto questo, il popolo iraniano deve essere più vigile che mai. Perché la posta in gioco non è solo il destino di un regime, ma il futuro di un’intera regione. Un regime che ha usato il terrore e la penetrazione per esportare la sua rivoluzione, ora rischia di diventare vittima delle stesse armi. La storia ha un senso dell’ironia feroce. Nel teatro della politica internazionale, chi tace non è sempre inattivo.
Oltre Monte Porzio Catone, se una sezione del Pd riflette la sinistra italiana
di Valentina Belgrado e Aldo Winkler
I fatti sono ormai noti.
Presso il Pd di Monte Porzio Catone, il 3 luglio 2025, è stato organizzato un incontro pubblico sulla situazione di Gaza, dal titolo: “Stop al Massacro”, promosso dall’Anpi Frascati – Grottaferrata, di cui era già evidente l’intento dalla locandina. Questa, nella versione inviata a scopo promozionale dalla Sezione del Pd, non riportava la presenza di Marina Argada in qualità di relatrice per il Bds Italia.
Siamo molto affezionati a quel circolo Pd, dove abbiamo partecipato a diversi eventi culturali che, all’epoca del nostro trasferimento da Roma e Firenze a Monte Porzio Catone, ci permisero di inserirsi nell’allora fervido attivismo di un paese che nel tempo abbiamo frequentato sempre meno.
La nostra partecipazione all’evento è stata senz’altro animata da voglia di comprendere fino a che punto ci si potesse spingere a livello di trattazione unilaterale del conflitto. Infatti, era ovvia già dalla locandina la faziosità di un incontro proditoriamente chiamato “dibattito”, mancando tra i relatori una presenza che potesse esprimere il punto di vista israeliano sul conflitto in corso. Erano diversi poi i motivi di pregiudizio, avendo l’Anpi apposto il proprio logo dedicato all’80° Anniversario della Liberazione fuori contesto e competenza in un evento del genere che, piuttosto, doveva essere territorialmente legato alla Resistenza nei Castelli Romani e al fondamentale contributo degli ebrei italiani raccontato da Pino Levi Cavaglione nel suo diario Guerriglia nei Castelli Romani. Le cartine sull’evoluzione territoriale della Palestina dal 1917 all’epoca attuale non sono neppure commentabili, per quanto notoriamente false in tutti i piani storico-politici che intenderebbero rappresentare, con la cui diffusione il circolo del Pd si è assunto la responsabilità di contravvenire all’obbligo di proporre contenuti atti a non diffondere pregiudizio e falsi storici.
Abbiamo potuto apprezzare l’intervento accorato a cura di Emergency, e quello del delegato di Amnesty International, di cui è stato contestabile il solo uso della parola genocidio, unico rappresentante che ha parlato della tragedia del 7 ottobre e delle difficoltà, anche a livello di reperimento di fonti affidabili e statisticamente riscontrabili, di trattare dati riguardanti una forza di natura terroristica quale Hamas.
Per quanto riguarda gli altri interventi, possiamo soltanto ribadire che presso una sede del Pd — forza politica che si definisce democratica che ha ambizioni di governo — si è consumato un evento di propaganda anti-occidentale, violentemente antisionista, antisemita e anti-storica, che può essere soltanto marginalmente rappresentata da ciò che andiamo brevemente a descrivere, non potendo purtroppo raccontare gli sguardi, le espressioni letteralmente (ma anche oralmente) di schifo che abbiamo subito e il livello di recepimento acritico di ciò che è stato narrato.
Una sezione del Pd si è permessa di consegnare al pubblico un delirio autoriferito sul boicottaggio con elenchi di ditte, supermercati e aziende da boicottare, invitando persino a non assumere medicinali, qualora riconducibili a Israele, e a mettere in crisi, fino a farli fallire, persino piccoli negozi locali che vendono prodotti di origine israeliana. La rappresentante Bds, da noi contestata per aver parlato dello Stato ebraico come “territorio che adesso viene chiamato Israele”, ha replicato sostenendo che Israele è lo Stato più razzista del mondo.
Il termine più adatto a descrivere l’intervento del presidente della Comunità palestinese di Roma è comizio.
Si è trattato di un esercizio dialettico intriso di odio antiamericano, antisraeliano e antiebraico, per quanto il rappresentante palestinese stesso abbia riferito di non avercela contro gli ebrei romani e di aspirare a una sola terra in cui laicamente convivano ebrei, palestinesi e cristiani. Dalla continua ostentazione delle mappe di cui sopra, fino al lungo sproloquio sulla natura di Israele quale Stato creato dagli americani per controllare il mondo e rubare le ricchezze agli arabi, è arrivato a sostenere che il sionismo sia peggio del nazismo, nel silenzio del rappresentante dell’Anpi, inducendo interrogativi evidentemente subdoli su come mai Italia e Germania, complici della Shoah, ora favoreggino Israele, il tutto consumato tra l’approvazione del pubblico. Per giunta, alimentando la consueta falsa narrazione che Israele sia nato come una sorta di risarcimento concesso a seguito della persecuzione nazifascista, e che non ci sia modo di controbattere a un popolo che pretende di avere terre in quanto popolo di Dio.
Essendo terminati gli interventi dei relatori, a seguito dell’insistente richiesta di prendere la parola, credevamo fosse arrivato il momento di controbattere. Ma è stato dato prima spazio ad altri ospiti, e la discussione ha preso a quel punto un’altra piega, esplicitamente antisemita. Un ospite del pubblico è intervenuto per sostenere che gli ashkenaziti controllano le ricchezze del mondo e decidono le guerre. Con il pubblico sempre più convinto e consenziente. Purtroppo, la narrazione seguente non può procedere al plurale – con un noi – perché ci è stato impedito. E proseguo la narrazione come Aldo. Ero ormai pronto per il mio intervento, in cui ho rivendicato la mia origine ashkenazita, ironizzando su una posizione economica tale da consentirci comunque di vivere in affitto e, a quel punto, l’ospite di cui sopra mi ha risposto sostenendo che, in quanto ashkenazita, sarei comunque complice di Netanyahu e, pertanto, assassino. Mentre il pubblico continuava ad applaudire e annuire, Valentina, offesa per queste indegne affermazioni, ha risposto con veemenza allo spettatore e a tutti coloro che, intorno a lui, continuavano a dare cenni di approvazione e sostegno a quelle offese antisemite. È stata sostanzialmente costretta ad abbandonare la sala lei, anziché lo spettatore antisemita, e poi interdetta dal rientrare. Voglio ribadire qui che Valentina non ha mai chiesto di tornare a casa, anzi, ha voluto che restassi lì per portare avanti il mio intervento, in cui il rappresentante palestinese mi ha interrotto a ogni parola proferita. Ho sottolineato alla rappresentante Bds quanto il suo comportamento fosse corresponsabile anche della perdita di impiego di tanti palestinesi, per sentirmi rispondere che sono lavoratori schiavizzati. Il tutto, nella connivente gestione, inadeguata e reticente, del segretario locale del Pd, che vogliamo continuare a ritenere persona equilibrata, in grado di rendersi conto di quanto sia accaduto, anziché continuare a portare avanti il leitmotiv del non essere antisemita, accusa che peraltro mai gli è stata rivolta.
Ora, è necessario uscire dal contesto monteporziano, comprendendo piuttosto quanto questi eventi che propagandano disinformazione e odio si diffondano a livello sempre più capillare, contando sulla possibilità di sobillare audience sempre più allineate alla narrazione mainstream. Al di là delle parole francamente antisemite, è ora di obbligare Pd, Anpi Cgil e associazionismo di sinistra a fare una scelta precisa e netta, in cui non ci siano equivoci e smarcamenti dialettici sui piani del contrasto all’antisemitismo e all’antisionismo.
Siamo stati testimoni di un vile mercimonio in cui Gaza è stata sfruttata, come sempre più spesso accade, come parola magica per inculcare visioni antistoriche non del conflitto in corso, bensì della stessa esistenza, natura e legittimità dello Stato d’Israele, deridendo il dramma del 7 ottobre fino al punto di sostenere che i palestinesi fatti del genere, li subiscano continuamente. I circoli del Pd non possono diventare zone franche in cui si può liberamente promuovere il BDS e propagandare odio antioccidentale e antiebraico: questa esperienza arrivi alle dirigenze nazionali dell’associazionismo coinvolto, perché se ne assumano la dovuta responsabilità.
Intendiamo concludere con un messaggio positivo, approfittando di questo spazio per ringraziare con affetto tutti coloro che hanno sostenuto le nostre posizioni, decisamente maggioritari rispetto ai pochi messaggi di sostegno all’evento. L’Ucei ci ha onorati di parlare di quanto accaduto al Consiglio di domenica 6 luglio, in cui abbiamo avuto modo di incontrare l’onorevole Pina Picierno, cui vogliamo rivolgere un caro saluto per il modo con cui ha voluto onorarci con la sua deliziosa attenzione e disponibilità. Ringraziamo il Nes e Sinistra per Israele per i comunicati stampa che hanno diffuso verso l’esterno questi accadimenti, trattati poi da “Il Tempo”, “Il Riformista” e “Libero”. Sinistra per Israele – due popoli due stati – è stata per me, Aldo, una palestra politica importante e qualificata, con cui comprendere e agire dall’interno su quanto sta accadendo nella sinistra italiana.
Agam ha chiesto ai suoi rapitori un libro di preghiere ebraico. L'hanno derisa, ma poi è avvenuto un miracolo.
di Oriel Moran
Gli ostaggi israeliani che sono stati tenuti prigionieri a Gaza dalle forze di Hamas raccontano della speranza che un potere superiore vegliasse su di loro mentre sopportavano fame, percosse, torture fisiche e psicologiche, interrogatori, abusi sessuali e umiliazioni. C'era una cosa che i loro rapitori non potevano togliere loro: la fede. Ascoltando i liberati, emerge una sorta di filo conduttore che accomuna le loro storie.
• Cosa hanno vissuto le donne L'osservatrice dell'IDF Agam Berger è stata in prigionia per 482 giorni, l'osservatrice Liri Elbag per 477 giorni. Entrambe hanno mantenuto salda la loro fede. Agam ha deciso di osservare lo Shabbath, quando possibile. Una volta, mentre guardavano la televisione israeliana, le due donne capirono che giorno era. Da quella data continuarono a contare i giorni fino a Tisha B'av, e poi osservarono le festività ebraiche successive. A Yom Kippur digiunarono, anche se in generale ricevevano pochissimo cibo. Chiesero un pezzetto di mela e un po' di miele per celebrare Rosh Hashana. Quando a Pesach non vollero mangiare chametz (lievito), fu loro concessa anche un po' di farina di mais. Per Sukkot costruirono piccole decorazioni per le capanne. Conoscevano a memoria la Haggadah. Agam chiese ai rapitori un Siddur (libro di preghiere ebraico). La derisero. In precedenza le avevano portato un Corano, ma lei non voleva leggerlo. Come per miracolo, poco dopo aveva un Siddur tra le mani. Un soldato israeliano aveva lasciato il libro in una postazione. I rapitori lo presero e glielo diedero. Il giorno del suo rilascio, durante il volo di ritorno in elicottero, Agam scrisse su una lavagna: “Nella fede, che ho scelto, in questa fede ritorno”. Un'altra osservatrice dell'IDF, Daniella Gilboa, è stata prigioniera per 477 giorni. Lì ha cantato il tradizionale canto dello Shabbat Malachei Hashalom, che però ha tradotto in arabo perché non le era permesso pronunciare una sola sillaba in ebraico.
Emily Damari è stata in prigionia per 471 giorni. Durante lo Yom Kippur ha ascoltato alla radio le preghiere dello Slichot al Muro del Pianto. Ha sentito che si pregava anche per gli ostaggi. Dopo il suo rilascio, si è recata al Muro del Pianto per pregare. Qualche tempo prima del 7 ottobre 2023, Sapir Cohen ha avuto un brutto presentimento. Sentiva il bisogno di leggere ogni giorno, per un mese, il Salmo 27. Questo salmo è legato alla guerra. Quando è stata rapita, questo salmo, che ormai conosceva a memoria, le ha dato forza. È certa di aver sopravvissuto grazie alla sua fede in Dio, che ha dato un nuovo significato alla sua vita. Sapir è stata tenuta in ostaggio per 55 giorni.
• Cosa hanno vissuto gli uomini Elia Cohen è stato prigioniero per 505 giorni. Ha recitato le preghiere del Tefillin che ricordava. Ha anche pregato sull'acqua per il Kiddush dello Shabbat.
Omer Shem Tov è stato tenuto prigioniero da solo per la maggior parte del tempo, 505 giorni. I fratelli Mia e Itai Regev, rilasciati come ostaggi, hanno raccontato che Omer osservava lo Shabbath a Gaza recitando il Kiddush con un tappo di bottiglia ammuffito e dei salatini. Come kippah si metteva un pezzo di carta igienica sulla testa. Lo stesso giorno in cui Omer Shem Tov ed Elia Cohen sono stati liberati, il nonno di Elia Cohen ha celebrato l'Havdalah (un rituale che separa il sabato dal giorno normale) in ospedale. Ha benedetto il vino, acceso le candele e recitato le preghiere. Gli ostaggi che sono tornati hanno cercato di rispettare l'ultimo desiderio dei loro amici. Hanno onorato in modo particolare coloro che sono stati uccisi durante la prigionia. Ori Danino è riuscito inizialmente a fuggire dal luogo del festival Nova, ma poi ha ricevuto una telefonata dai partecipanti al festival Omer Shem Tov, Mia e Itai Regev, a cui aveva dato un passaggio in auto. Gli hanno chiesto di tornare a prenderli. In realtà erano degli estranei per lui. Ma lui è tornato per aiutarli. Ori è stato poi assassinato. La sua ultima volontà era che Eliah Cohen dedicasse un nuovo rotolo della Torah a una sinagoga in suo nome. Omer Shem Tov ha indossato i tefillin in sua memoria.
• Lehitchasek Alcuni ostaggi sono diventati credenti durante la prigionia, anche se prima non erano particolarmente religiosi. Lehitchasek è un termine che esprime il fatto di diventare “più forte” nell'osservanza religiosa dei comandamenti. Keith Segal (484 giorni di prigionia) iniziò a recitare una delle poche benedizioni che conosceva. Si trattava di una preghiera di Kiddush sul pane Challah. Lo recitava sull'unico pezzo di pane pita che gli veniva dato ogni giorno, poiché non conosceva la preghiera vera e propria per il pasto. Una volta, mentre guardava la televisione, era in onda un programma sui buoni ristoranti di Tel Aviv. Prima di mangiare, il conduttore recitò il “Baruch Mine Mezonot” e così Keith imparò la preghiera giusta per il pasto. Recitava anche lo “Shma Yisrael”. Ohad Ben Ami (499 giorni di prigionia) iniziò a celebrare l'Havdala ogni settimana: "Hitchasakti un po' in prigionia. Durante tutta la mia prigionia ho sentito che c'era qualcuno in cielo che mi proteggeva e dovevo essere forte. Dentro di noi siamo una nazione molto forte, e ciò che ci unisce è la nostra fede in Dio. Questo mi ha sostenuto, grazie a Dio oggi sono qui". Dopo il suo rilascio, Ohad ha ricevuto un set per l'Havdala e ha chiesto di essere istruito sul suo utilizzo.
Alexander “Sasha” Trufanov ha iniziato a pregare durante la prigionia per la sua ragazza, l'ex ostaggio Sapir Cohen. Sapir ha detto commossa: “Sasha ha pregato durante tutto questo tempo affinché io non lo aspettassi e trovassi un altro uomo con cui passare la mia vita. Non pensava che sarebbe sopravvissuto”. La madre di Sasha ha raccontato che durante la prigionia suo figlio ha capito che la sua vita era nelle mani di Dio. Dopo il rilascio, Sasha ha indossato per la prima volta i tefillin.
• La tangibilità della grazia di Dio Forse possiamo capire un po' come Daniella cantava a Dio in arabo a Gaza. Dio capisce tutte le lingue sotto il sole. Oppure pensiamo ad Agam Berger. Quanto era felice con il Siddur, completamente impolverato, ma un libro spirituale scritto in ebraico. Ha onorato il santo nome di Dio “Jud He Vav He” in terra straniera rifiutando il Corano. Pensiamo a Omer Shem Tov ed Elia Cohen. Erano rinchiusi in una prigione profonda diversi metri, tagliati fuori dall'aria fresca e dalla luce del giorno. Eppure capivano che non c'era luogo dove Dio non potesse vederli. Avevano lo stomaco vuoto, ma con timore di Dio posero la mano sul capo e Dio diede loro il necessario, letteralmente sotto gli occhi dei loro nemici. Pensiamo alla nostra vita normale e facciamoci coraggio! Lo stesso Dio che era con coloro che erano in prigionia è con tutti coloro che invocano il suo nome.
(Israel Heute, 8 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L’incontro fra Netanyahu e Trump: coordinamento e progetti
di Ugo Volli
• I colloqui
Quella di ieri sera era la terza visita di Netanyahu alla Casa Bianca nei primi sei mesi della seconda presidenza Trump: un record assoluto, che insieme ai numerosi contatti telefonici, ai frequenti incontri del ministro degli Affari strategici Darmer a Washington e quelli dell’inviato americano per il Medio Oriente Witkoff mostrano il livello di coordinamento fra Israele e Usa in questo momento, anche se continuamente i commentatori ostili a Israele (quasi l’intera stampa “autorevole” in Occidente) cercano di spacciare come notizie la loro speranza di dissidi fra i due leader. Questi incontri però significano più di una semplice solidarietà di schieramento, sono i momenti in cui si prendono le decisioni importanti, di solito non rese immediatamente note o anche coperte da un velo di disinformazione per ingannare il nemico. È così che nell’incontro precedente Netanyahu e Trump quasi certamente decisero i modi e i tempi dell’attacco israeliano all’Iran e dell’intervento americano, anche se le dichiarazioni del presidente americano lo escludevano. Probabilmente questa volta si è parlato di cosa fare se l’Iran riprende il suo progetto nucleare, del modo di eliminare la minaccia degli Houthi non solo su Israele ma sul commercio internazionale che passa dal Mar Rosso e dal Canale di Suez diretto in Europa e America settentrionale e soprattutto di come concludere la guerra a Gaza e liberare i rapiti. Nella conferenza stampa informale condotta insieme dai due leader sono intanto emersi alcuni punti fermi.
• Gaza
In primo luogo, si è riaffermato il pieno coordinamento e la fiducia reciproca rispetto ai negoziati su Gaza. L’accordo sulla liberazione dei rapiti non è ancora concluso ma la trattativa continua. Hamas ha sostanzialmente rifiutato l’ultima offerta formulata dal Qatar, fingendo di accettarla ma aggiungendole condizioni inaccettabili; ma i punti di dissenso fra le parti sono abbastanza limitati. I terroristi sono ancora capaci di far male a Israele, come si è visto purtroppo anche ieri, grazie alla tecnica degli agguati alla mescolanza coi civili e alle fortificazioni sotterranee sopravvissute. Ma è chiaro a tutti che hanno perso, quasi tutti i capi sono eliminati e non controllano più l’80%del territorio. Trump e Netanyahu sono d’accordo che bisogna continuare a trattare e insieme a esercitare pressione su Hamas, proseguendo la disabilitazione del suo apparato militare, fino a che sarà accettato un accordo di tregua.
• La fine della guerra
Per quel che riguarda lo stato finale della Striscia, è emerso un consenso sulla posizione presentata da Netanyahu: Hamas non dovrà avere nessun ruolo a Gaza né altrove, dovrà sciogliersi, i suoi capi principali saranno esiliati, gli altri saranno giudicati o forse amnistiati, la Striscia dovrà essere smilitarizzata. Israele continuerà ad avere la responsabilità della sicurezza, il che significa che potrà intervenire a bloccare ogni rischio di ritorno del terrorismo. Sarà istituita una nuova struttura amministrativa, che sarà affidata non all’Autorità Palestinese, ma più probabilmente alle tribù locali, anche se non è escluso che vi partecipino membri dei gruppi politici. La popolazione non sarà espulsa, ma chi vorrà andarsene sarà libero di farlo. In generale, come ha risposto esplicitamente Netanyahu a una domanda, Israele considera necessario che i palestinesi possano autoamministrarsi ma non può accettare che costituiscano una minaccia. Il che implica che dovrà esserci un cambiamento profondo anche nel funzionamento dell’Autorità Palestinese.
• Il quadro internazionale
Per quanto riguarda l’Iran, gli scopi dell’operazione sono stati raggiunti, bloccandone l’armamento nucleare, che non sarà mai consentito. Se occorresse, Israele potrebbe intervenire di nuovo. Gli Usa sperano che la lezione dell’attacco sia stata compresa e che sia possibile far ripartire le trattative. Comunque anche su questo tema continuerà ad esservi uno stretto coordinamento fra Israele e Stati Uniti in ambito politico e militare. Per quanto riguarda Siria e Libano, Israele e Usa concordano che si è aperta una possibilità di cambiamento nelle relazioni. Israele non ha obiezioni alla decisione americana di togliere le sanzioni alla Siria, anche se considera prematura una completa normalizzazione dei rapporti. Quanto all’Arabia Saudita, sia Israele che gli Usa sperano che l’avvicinamento interrotto in seguito alla guerra prosegua e giunga a una conclusione positiva. In generale il tema dell’estensione di “patti di Abramo” è la prospettiva comune per dare tranquillità e progresso alla regione.
• Le prospettive
Non vi sono state, insomma, in questa visita, o almeno non sono state annunciate decisioni nuove, forse perché la trattativa con Hamas non è proseguita come l’amministrazione americana sperava, tanto che alcune fonti accennano alla possibilità di un nuovo incontro fra i due leader addirittura in settimana. Ma resta la solidità e l’impegno di un’alleanza che sta ristrutturando il Medio Oriente. Gli effetti politici sono in genere assai più lenti delle operazioni militari, ma già l’equilibrio complessivo della regione è profondamente cambiato e questo progresso richiede attenzione e coordinamento.
L’ambasciatore d’Israele in Senato: informazione manipolata contro di noi
«La demonizzazione di Israele è di fatto mainstream». È il pensiero dell’ex ministro degli Affari Esteri e ambasciatore d’Italia in Israele, Giulio Terzi di Sant’Agata. Oggi senatore di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Politiche dell’Unione Europea di Palazzo Madama, Terzi di Sant’Agata ha inaugurato un incontro dedicato a tre libri “contro la disinformazione su Israele” nella sala dell’Istituto Santa Maria in Aquiro del Senato. I tre libri sono La cultura dell’odio. Media, università e artisti contro Israele (ed. Lindau) di Nathan Greppi, La guerra antisemita contro l’Occidente (ed. Giubilei Regnani) di Fiamma Nirenstein e Nicoletta Tiliacos e Ritorno a Sion (ed. Studium) di Claudia De Benedetti, David Elber, Niram Ferretti e Ugo Volli, tutti di recente uscita, e per il senatore vanno letti come argine conoscitivo rispetto «all’ondata di antisemitismo che si sta abbattendo sull’Italia e l’Europa». Per Jonathan Peled, l’ambasciatore d’Israele a Roma, si tratta di «tre letture preziose per favorire la cultura della responsabilità e del rispetto dei fatti in un’epoca in cui la manipolazione dell’informazione è un’arma di propaganda». In questo senso, ha aggiunto, «conoscere e denunciare diventa uno scudo fondamentale». L’ambasciatore ha poi definito gli autori dei saggi dei «soldati della verità», contrapposti «ai cattivi maestri che diffondono pregiudizio e odio». Pure Andrea Cangini, il segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi, ha lanciato l’allarme: c’è un grave pregiudizio su Israele «diffuso nei grandi media e nel mondo della cultura» e varie università stanno seguendo a suo dire quest’onda «per conformismo e per paura di minoranze agguerrite e scalmanate». Moderati da Matteo Angioli, segretario del Global Committee for the Rule of Law (Gcrl) “Marco Pannella”, sono intervenuti infine tre autori. «Il confine tra antisemitismo e antisionismo è molto più sottile di quanto in molti vogliano far credere», ha sostenuto Greppi.
Elber ha illustrato le ragioni che hanno portato alla stesura del saggio storico a più mani al quale ha contribuito: «Il popolo ebraico non si può scindere dalla sua terra, si fonda in terra d’Israele e in special modo a Gerusalemme». Nirenstein ha denunciato «un’esplosione di antisemitismo mostruosa», ma anche ravvisato vari motivi di speranza per il Medio Oriente. Secondo la giornalista, «Israele sta portando avanti una politica meravigliosa con il mondo arabo» e questo rapporto «fiorirà sempre di più».
Contro il boicottaggio d’Israele e l’antisemitismo negli atenei italiani
L’appello dei docenti silenziosi
di Alessandro Tedesco
Se il tradimento dei singoli intellettuali ci lascia più soli, le università italiane fanno di peggio: elevano quel fallimento individuale a vero e proprio dogma istituzionale. La storia di Yaël, studentessa israeliana e riservista dell’IDF all’Università Statale di Milano, è più di un caso di cronaca: è il sintomo di una malattia che ha infettato l’accademia italiana. È la storia di una ragazza il cui percorso di studi viene messo in discussione non per demeriti, ma per la colpa di esistere come cittadina di uno stato messo alla gogna. Questa non è una crepa isolata nel sistema, è la prova che la struttura sta cedendo. Il caso di Yaël è solo l’epilogo più noto di una caccia alle streghe che serpeggia in tutta Italia: dal professore dell’Università di Firenze, sottoposto a procedimento disciplinare dopo la denuncia di una studentessa attivista pro-Palestina, al docente aggredito fisicamente a Napoli da collettivi studenteschi per il suo impegno a favore di Israele. È proprio per reagire a questa deriva intollerabile che una rete silenziosa di docenti ha lanciato l’appello “Contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani”. Un manifesto di resistenza intellettuale che, nel denunciare un “clima di intimidazione”, cita a sua volta i casi delle università di Torino, dello IUAV di Venezia e della stessa Statale di Milano, dove studenti e docenti si trovano esposti a “esclusioni” e “delegittimazioni” continue. Di fronte a questo, come ha scritto il professor Francesco Faldini su Pensalibero.it, emerge un dovere ineludibile, perché “un Ateneo dovrebbe contribuire a non radicalizzare narrazioni distorte che favoriscano la ricomparsa di pregiudizi del passato”, altrimenti cessa di essere una palestra di pensiero per diventare un luogo di indottrinamento. Nel loro testo, questi accademici, “docenti silenziosi”, rigettano con forza “ogni forma di boicottaggio” definendolo un “impoverimento dello scambio culturale” e una “negazione della missione stessa dell’università”. Si uniscono attorno a principi solidissimi: che l’università è un luogo di dialogo, non di esclusione; che il boicottaggio è un atto di violenza intellettuale; che l’antisemitismo va combattuto senza ambiguità; e che il dialogo con le istituzioni accademiche israeliane va preservato e rafforzato. Mentre il conformismo ideologico fa rumore nelle piazze e in televisione, questa rete si muove sottotraccia, attraversando l’Italia dalla Sicilia alla Lombardia. È composta da professori universitari che non si sono arresi alla barbarie e che, con tenacia, si scambiano informazioni e offrono sostegno a chi subisce ostracismo. La loro posizione, che in Italia oggi appare come un atto di resistenza, all’estero è la norma. Lo statement del presidente dei rettori tedeschi, ad esempio, va nella direzione opposta a quella dei nostri boicottatori, chiedendo che l’UE sostenga e rafforzi la ricerca in Israele. Questo scarto misura l’abisso in cui sta precipitando parte della nostra accademia, diventata terreno fertile per la propaganda di regimi autocratici e organizzazioni terroristiche. Questa rete silenziosa è una minoranza, non ha i megafoni dei cattivi maestri che oggi riempiono le aule. Ma la sua esistenza è un flebile ma tenace segnale di speranza. È la testimonianza che non tutta l’accademia italiana si è arresa e che da qualche parte c’è ancora chi crede che il compito di un docente non sia imporre una verità, ma fornire gli strumenti per cercarla. Anche quando è difficile, anche quando va controcorrente.
Israele, svolta sulla leva militare: l’IDF lancia un reclutamento di massa degli Haredim mentre cresce lo scontro politico
Gli ordini di leva saranno inviati in più fasi durante il mese di luglio 2025, con appuntamenti di arruolamento distribuiti lungo l’anno di leva 2025–2026. I partiti ultraortodossi Shas e UTJ hanno minacciato di boicottare tutte le votazioni plenarie alla Knesset fino alla consegna del testo finale. Ma per il 2025, l’IDF punta a integrare almeno 4.800 haredim.
di Anna Balestrieri
Israele si trova al centro di una trasformazione epocale in materia di leva militare, con una serie di decisioni senza precedenti che puntano all’arruolamento su larga scala degli ebrei ultraortodossi (Haredim). La controversa riforma, promossa dal governo e sostenuta dalle forze armate, ha scatenato tensioni all’interno della coalizione, critiche da parte dell’opposizione e accese reazioni della società civile.
• Netanyahu cerca di evitare la crisi, Lapid attacca Nel tentativo di prevenire una crisi politica imminente, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha chiesto al presidente della Commissione Difesa della Knesset, Yuli Edelstein, di condividere in anticipo una bozza della legge sulla leva con Ariel Atias, rappresentante politico degli Haredim. La mossa mira a contenere le proteste della componente ultraortodossa della coalizione prima del volo di Atias verso Washington.
Yair Lapid, leader dell’opposizione, ha definito il disegno di legge “una misura pensata per legalizzare l’evasione dalla leva”. Anche le associazioni dei riservisti hanno reagito duramente, accusando il governo di aver tradito le promesse e di “fare politica sulla pelle dei soldati”.
• La minaccia degli Haredim: senza progressi immediati, il governo cade La versione preliminare della legge sulla leva è stata presentata da Yuli Edelstein ad Ariel Atias (Shas) prima della partenza di Netanyahu per Washington, provocando un ritardo nel viaggio del premier. Il testo, più morbido rispetto alle versioni precedenti, è stato condiviso prima ancora con gli Haredim che con i riservisti, scatenando l’indignazione dell’opposizione. Dalla parte opposta, i rappresentanti del mondo ultraortodosso hanno lanciato un chiaro avvertimento: se la nuova legislazione non avanzerà rapidamente, il sostegno al governo potrebbe venir meno. La posta in gioco è la tenuta stessa dell’esecutivo Netanyahu, fondato su una fragile alleanza tra laici e religiosi. Una recente minaccia di caduta del governo era stata sventata solo il mese scorso, grazie a sforzi concertati del premier e della coalizione di governo. Dopo l’accordo preliminare sulla legge, un attacco israeliano contro il programma nucleare iraniano ha scatenato una guerra di 12 giorni, che ha sospeso ogni discussione alla Knesset. Edelstein e Deri erano stati informati in anticipo dei raid, facilitando il loro consenso momentaneo. Gli ordini di leva saranno inviati in più fasi durante il mese di luglio 2025, con appuntamenti di arruolamento distribuiti lungo l’anno di leva 2025–2026. I partiti ultraortodossi Shas e UTJ hanno minacciato di boicottare tutte le votazioni plenarie alla Knesset fino alla consegna del testo finale. La loro opposizione alla bozza resta, ma non intendono far cadere il governo, almeno per ora.
Contenuti specifici della bozza annacquata
Validità limitata: sei anni, o quattro se non vengono raggiunti gli obiettivi di reclutamento.
Sanzioni immediate: divieto di viaggi all’estero, revoca della patente, esclusione da sussidi per università.
Altre sanzioni, come l’esclusione da asili e trasporti pubblici sovvenzionati, posticipate.
Niente più sussidi per famiglie con disertori, ma le misure sono state notevolmente diluite rispetto alla bozza originaria.
• L’IDF avvia la più vasta campagna di reclutamento degli Haredim della storia israeliana Nel frattempo, l’esercito ha annunciato l’avvio di un piano senza precedenti: entro fine luglio 2025 verranno inviati 54.000 ordini di leva ai cittadini haredim considerati idonei al servizio militare, di età compresa tra i 16 anni e mezzo e i 26. L’obiettivo è portarli in servizio attivo entro luglio 2026. Il processo per dichiarare un giovane come disertore sarà ridotto a circa due mesi, contro i diversi mesi richiesti in passato. Questo permetterà arresti molto più rapidi. Si tratta del più vasto tentativo mai compiuto di integrare gli ultraortodossi nell’IDF. Questo avviene in un contesto di forte pressione pubblica e giudiziaria: il numero crescente di caduti e feriti tra le forze regolari, unito al prolungamento dei turni di riserva, ha spinto la Corte Suprema e l’opinione pubblica a chiedere una maggiore equità nella distribuzione del peso della difesa nazionale. Finora, nonostante i richiami, la risposta della comunità haredi è stata minima. La leadership ultraortodossa continua a sostenere che “è proibito arruolare studenti di yeshivà la cui professione è lo studio della Torà”, ritenendo che tale studio costituisca una forma di protezione spirituale per lo Stato.
• Sanzioni individuali e arresti: stretta dell’IDF sui disertori L’IDF ha inoltre richiesto al governo l’introduzione di sanzioni dirette contro i singoli haredim che ignorano le convocazioni. Nel frattempo, però, non ha atteso l’approvazione della nuova legge — ferma in Parlamento e bloccata dalla pausa estiva della Knesset — per dare il via alla campagna. La Polizia Militare e la Polizia di Frontiera saranno autorizzate a istituire checkpoint sia in Cisgiordania che all’interno di Israele, per facilitare l’arresto dei disertori. Già da settembre, l’IDF sarà operativo per arrestare disertori. Chi ignorerà tre convocazioni sarà considerato disertore; chi si sottrarrà per oltre 540 giorni potrà essere incarcerato. In alternativa, per coloro che rientrano in periodi più brevi di diserzione, è prevista la detenzione in unità speciali dell’esercito. Attualmente, sono disponibili tra i 250 e i 300 posti nelle prigioni militari, ma l’IDF sta valutando l’apertura di una nuova struttura detentiva per aumentare la capacità. L’arresto dei disertori avverrà in modo strategico: anziché irrompere nei quartieri haredi o nei villaggi beduini, l’esercito sfrutterà aeroporti, posti di blocco e controlli lungo le principali arterie del Paese, tra cui i valichi in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e la strada per Eilat. Solo all’ingresso delle città ultraortodosse verranno eretti checkpoint, per evitare tensioni nel cuore dei quartieri religiosi. Negli ultimi mesi, circa 140 disertori sono già stati arrestati all’aeroporto Ben Gurion. Si prevede che entro pochi mesi il numero di individui arrestabili possa salire a 35.000, con una netta prevalenza di Haredim. A settembre partirà l’operazione “Nuovo Inizio”, che offrirà una possibilità di regolarizzazione a chi ha disertato in passato: questi potranno arruolarsi senza conseguenze penali, prestando un anno di servizio “in prova”. Se completato con successo, il loro status di disertori sarà annullato.
• Obiettivo 2025: 4.800 Haredim integrati, ma serve il sostegno dei rabbini Per il 2025, l’IDF punta a integrare almeno 4.800 haredim, un numero significativamente superiore rispetto agli anni precedenti. Tuttavia, senza il sostegno aperto di rabbini e politici ultraortodossi, pochi si aspettano che la risposta alle convocazioni possa migliorare sensibilmente. Nonostante le tensioni, alcune unità haredi sono già operative e attivamente coinvolte nei combattimenti. Due compagnie ultraortodosse sono schierate nella Striscia di Gaza e una di esse ha partecipato all’eliminazione di circa 41 terroristi, in operazioni coordinate con l’aviazione. Il Capo di Stato Maggiore, generale Eyal Zamir, ha visitato la Brigata Hashmonaim, composta da soldati haredim, e si è rivolto a loro con parole di stima: “Voi dimostrate che fede e servizio militare possono coesistere. Siete pionieri, un orgoglio per le vostre famiglie e per l’intera società. So che affrontate difficoltà personali, ma la perseveranza premia sempre.” Zamir ha concluso ringraziando i soldati per il loro contributo, sottolineando il valore esemplare del loro impegno. Yair Lapid ha espresso pieno sostegno alle nuove misure dell’IDF, ribadendo che “l’esercito israeliano è l’esercito di tutto il popolo, non di mezzo popolo.” Lo scontro sulla leva militare in Israele rappresenta molto più di un dibattito tecnico: tocca i nervi scoperti dell’identità collettiva, dei diritti e dei doveri nella società israeliana. Tra l’urgenza operativa dell’IDF, le rivendicazioni religiose, le pressioni dell’opinione pubblica e l’instabilità politica, il Paese si prepara a una trasformazione profonda del proprio contratto sociale.
È atterrato giovedì il primo volo di gruppo che inaugura un’estate intensa per Israele: 45 nuovi immigrati provenienti da otto stati americani e province canadesi sono arrivati nel Paese, avviando un’ondata che, secondo le stime, porterà circa duemila “olim” nordamericani entro la fine dell’estate.
A organizzare i voli è l’ONG Nefesh B’Nefesh, in collaborazione con il Ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione, l’Agenzia Ebraica per Israele e altre istituzioni. Nonostante le tensioni regionali e la recente guerra lampo di 12 giorni con l’Iran, il flusso migratorio dall’America del Nord verso Israele prosegue senza sosta. “Anche nei momenti difficili, il popolo ebraico sceglie di venire in Israele” ha dichiarato il ministro dell’Aliyah, Ofir Sofer. “L’aliyah continua è il simbolo della vittoria dello Stato di Israele. Questi nuovi immigrati sono degli eroi”.
I passeggeri del primo volo collettivo provenivano da luoghi diversi come New York, New Jersey, Maryland, Wyoming, Ohio e Ontario. A bordo, uomini e donne di ogni fascia d’età, dai neonati agli anziani ultra-settantenni, con diverse professionalità tra cui ingegneri, avvocati, insegnanti e persino uno chef. Molti di loro si stabiliranno in città principali come Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa, ma altri hanno scelto comunità più piccole, come Safed e aree periferiche designate come prioritarie per l’integrazione.
Nel frattempo, altri 60 immigrati già presenti in Israele hanno completato questa settimana il loro processo ufficiale di aliyah, portando il totale a oltre 100 nuovi cittadini israeliani. Logicamente, l’impatto emotivo di questa stagione è particolarmente sentito. Dal brutale attacco terroristico del 7 ottobre 2023 compiuto da Hamas, l’interesse per l’aliyah è esploso, con oltre 13.500 richieste presentate a Nefesh B’Nefesh.
“Ogni estate è un periodo di rinnovamento e speranza, ma quest’anno ha un valore ancora più profondo” ha affermato il direttore esecutivo dell’ONG, Rabbi Yehoshua Fass. “In uno dei momenti così determinanti della nostra epoca, queste persone stanno scegliendo di tornare a casa. Oltre ad essere un traguardo personale, è anche e soprattutto una potente dichiarazione nazionale, un atto di destino ebraico”.
I nuovi arrivati potranno contare su una vasta rete di servizi e agevolazioni, come contributi per l’affitto in zone di priorità nazionale, corsi di lingua ebraica (ulpan), iniziative per l’integrazione sociale e lavorativa e benefici fiscali.
L’arrivo del primo volo collettivo segna l’inizio di un’estate significativa per Israele, in un contesto segnato ancora dalle conseguenze del 7 ottobre. Nonostante le tensioni e i rischi, la spinta verso l’aliyah non si ferma. Per i nuovi arrivati, è l’inizio di una nuova vita; per lo Stato, un segnale di continuità e determinazione.
Perché la guerra nella Striscia di Gaza dura così a lungo?
Come è possibile che l'operazione israeliana contro l'Iran abbia avuto successo in soli dodici giorni, che la guerra contro Hezbollah sia finita dopo dieci settimane, ma nella Striscia di Gaza non si intraveda alcuna fine?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Nessuna vittoria chiara, nessuna decisione tangibile. Forse questa settimana ci sarà una svolta, quando Benjamin Netanyahu e Donald Trump annunceranno uno scambio di ostaggi e un cessate il fuoco che potrebbero portare alla fine della guerra. Ma il paragone è ingannevole, perché l'operazione contro l'Iran è stata un colpo preciso e nascosto, con obiettivi ben definiti, un territorio limitato e senza ostaggi, ed è quindi stata conclusa rapidamente. Nella Striscia di Gaza, invece, Israele sta combattendo contro un'organizzazione terroristica radicata in zone residenziali, rispettando gli standard umanitari, sotto forte pressione internazionale e lottando allo stesso tempo per la vita degli ostaggi. Hamas usa la propria popolazione come scudo, mentre Israele deve soppesare ogni decisione in base a criteri morali, militari e diplomatici. Questa guerra non è una battaglia classica, ma uno scenario ibrido e permanente: una crisi con ostaggi, una guerra asimmetrica, diplomazia globale e un test quotidiano di stress morale. A differenza delle operazioni rapide come quelle contro l'Iran o Hezbollah nel 2006, Israele deve agire con cautela, perché è l'unica democrazia della regione, perché ha la responsabilità dei propri cittadini e perché ogni sua parola e ogni sua azione sono sotto gli occhi di tutto il mondo. Gli ostaggi israeliani nella Striscia di Gaza sono un vero ostacolo al rapido avanzamento dell'offensiva terrestre. Israele mostra una sensibilità straordinaria per il destino dei suoi fratelli in prigionia, siano essi civili o soldati. Per ragioni tattiche, gran parte della Striscia di Gaza è militarmente inaccessibile perché potrebbero esserci degli ostaggi. Israele rinuncia quindi a bombardamenti su vasta scala o a massicce incursioni terrestri per non mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Leva strategica per Hamas: l'organizzazione terroristica usa gli ostaggi come “ancora di salvezza”, liberandone alcuni per imporre tregue, riorganizzarsi, rifornirsi di armi e stabilizzare il proprio controllo. In nessun altro paese al mondo gli ostaggi hanno un peso strategico così grande come in Israele. Ciò ha diverse ragioni, prima fra tutte il DNA sociale. In Israele ogni soldato caduto o rapito è considerato una questione che riguarda tutto il popolo, non solo una statistica militare. Le famiglie degli ostaggi mobilitano i media, i politici, la società civile. In questo modo viene esercitata una pressione politica sul governo, anche se dal punto di vista militare ciò appare poco saggio. La pressione internazionale ha ritardato la guerra nella Striscia di Gaza più di quanto si rimproveri al capo del governo israeliano Netanyahu all'interno del Paese. Israele opera nella Striscia di Gaza sotto la costante osservazione di un'opinione pubblica mondiale critica.
• Pressione da Washington Il governo Biden ha esercitato fin dall'inizio pressioni su Israele affinché consentisse i consensi umanitari quotidiani, anche nelle zone di guerra attive. Ciò ha ignorato in larga misura il fatto che gran parte di questi aiuti finisce nelle mani di Hamas. Hamas è riuscita a rubare le forniture, rivenderle sul mercato nero a prezzi esorbitanti e persino a tassarle. In questo modo, centinaia di milioni di dollari sono finiti nelle casse di Hamas. Con questi soldi ha reclutato nuovi combattenti, pagato i suoi funzionari e consolidato il suo controllo sulla popolazione civile. Ricordiamo che durante la guerra una sigaretta costava 50 euro!
Biden ha promesso al primo ministro Netanyahu di interrompere immediatamente le forniture di aiuti se Hamas le avesse confiscate o bloccate. Ma questa promessa non è stata mantenuta. Invece di un vero aiuto umanitario, denaro e risorse sono finiti direttamente nelle mani di Hamas. Israele ha annientato gran parte dei suoi combattenti, solo per trovarsi poco dopo di fronte a nuovi terroristi appena pagati, finanziati proprio con quelle forniture che Israele è stato costretto a concedere sotto la pressione internazionale. La volontà ben intenzionata di aiutare la popolazione ha finito per prolungare le sofferenze e garantire la sopravvivenza di Hamas.
• I media distorcono la realtà I media internazionali si concentrano sulle vittime civili, piuttosto che sulle necessità militari. Ciò indebolisce il sostegno diplomatico di Israele. Inoltre, nonostante la sua superiorità militare, Israele dipende fortemente dalla mediazione americana, egiziana e qatariota e deve quindi rispettare il loro margine di manovra nei negoziati. Ciò ha fatto perdere molto tempo.
• La tattica militare di Israele nel sud Il sistema terroristico di Hamas si basava su tre elementi: terroristi, territorio e un vasto sistema di tunnel. L'esercito israeliano sta conducendo una guerra asimmetrica contro una crudele organizzazione terroristica che non conosce regole umane. Hamas opera da uno Stato terroristico sotterraneo. Ciò rende estremamente difficile distruggere in modo duraturo le sue infrastrutture, a differenza, ad esempio, delle postazioni missilistiche in terreno aperto in Iran. I suoi terroristi si mescolano alla popolazione civile, utilizzando scuole, ospedali e moschee come scudi umani. Anche dopo gravi perdite, Hamas riesce a reclutare nuovi combattenti tra la popolazione civile o attraverso incentivi finanziari come gli aiuti umanitari. La Striscia di Gaza è urbanizzata. Una “marcia selvaggia” come nel deserto o in terreno aperto non è possibile. È invece necessario mettere in sicurezza casa per casa, scoprire e neutralizzare tunnel per tunnel, e questo richiede tempo. In confronto, durante l'attacco all'Iran è stato possibile colpire obiettivi militari o nucleari in modo mirato, senza prestare particolare attenzione alla popolazione civile o a lunghe operazioni di terra.
Nel primo anno di guerra, anche a causa del fronte contro Hezbollah nel nord, l'esercito israeliano non ha potuto operare con tutta la sua forza nella Striscia di Gaza. Si è invece limitato a operazioni puntuali per l'eliminazione mirata di terroristi. Tuttavia, dopo ogni ritiro delle truppe israeliane, Hamas ha rapidamente ricostituito le sue file. Nel frattempo, però, la situazione è cambiata. Dopo la fine della guerra nel nord di Israele, l'esercito sta procedendo in modo sistematico nella Striscia di Gaza, occupando territori in modo permanente, distruggendo tunnel e assicurando il controllo. Hamas ha così perso gran parte del suo spazio di ritirata, limitando il suo dominio a circa un quarto della Striscia.
Anche ragioni politiche e strutturali hanno contribuito a ritardare i tempi. La divisione politica in Israele – tra la pressione della coalizione da parte di ministri di destra come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich e le aspettative degli Stati Uniti – porta Netanyahu a temporeggiare. Inoltre, in Israele si sostiene che il governo e Netanyahu stiano deliberatamente ritardando la guerra nella Striscia di Gaza per motivi di sopravvivenza politica. Le critiche popolari sono controverse e dipendono dalla posizione politica di ciascuno in Israele. Tuttavia, a causa di disaccordi, il governo ha ritardato la definizione di obiettivi chiari: “smantellamento di Hamas” contro “liberazione degli ostaggi” o “stabilità regionale”.
• Minaccia su più fronti A differenza dei conflitti precedenti (Iran, Hezbollah), Israele deve fare i conti in qualsiasi momento con escalation nel nord (Libano, Siria), in Cisgiordania e persino nello Yemen. Ciò vincola le risorse. I limiti mediatici e giuridici hanno fortemente limitato la libertà d'azione di Israele attraverso una costante attenzione e iniziative giuridiche internazionali (CPI, ONU, ecc.). Chi vuole davvero la fine di Hamas deve sostenere la strategia di Israele, in particolare la richiesta di distribuire gli aiuti umanitari esclusivamente attraverso canali indipendenti. A Israele bastano pochi mesi per portare a termine l'operazione, a condizione che il mondo glielo permetta. La fine di Hamas non sarebbe una vittoria locale, ma globale.
La guerra nella Striscia di Gaza non è un semplice scontro, ma un conflitto complesso tra democrazia e terrorismo, moralità e cinismo, calcolo strategico e dolore umano. Chi vuole porvi fine non deve puntare solo su cessate il fuoco, ma deve chiedersi cosa rimarrà dopo e chi. Una pace vera inizierà solo con la fine di Hamas, non con la sua riabilitazione. Allo stesso tempo, però, Israele ha il dovere morale di liberare i suoi fratelli e sorelle rapiti dalla prigionia.
(Israel Heute, 7 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Cinque sceicchi di Hebron propongono di uscire dall’Autorità Palestinese per aderire agli Accordi di Abramo
di Anna Balestrieri
Cinque capi tribali della città palestinese di Hebron, situata in Cisgiordania (nota in arabo come Al-Khalil), hanno inoltrato una proposta audace: staccarsi dall’Autorità Palestinese e costituire un piccolo emirato indipendente, al fine di stringere un’intesa di pace con Israele e partecipare agli Accordi di Abramo.
• Una lettera a Israele con richieste precise I promotori hanno formalmente inviato una missiva al ministro israeliano dell’Economia, Nir Barkat, chiedendo di trasmetterla all’attenzione del primo ministro Benjamin Netanyahu. L’iniziativa segna un netto cambiamento rispetto alla politica tradizionale palestinese . Tra i firmatari figura lo sceicco Wadi al-Jaabari, esponente di un’importante famiglia di Hebron, che ha ribadito il desiderio di “cooperazione e convivenza con Israele”. Questa presa di posizione coraggiosa ha segnato una svolta, con al-Jaabari e altri leader tribali che riconoscono ufficialmente Israele come stato ebraico, impegnandosi per la pace.
• Un piano con forte impatto economico La proposta prevede l’assunzione iniziale di 1.000 lavoratori da Hebron su base sperimentale, con l’intenzione di farne arrivare fino a 5.000 in una fase successiva. Secondo i promotori, Barkat avrebbe ipotizzato di arrivare a 50.000 occupati nel tempo. Uno sceicco citato dal Wall Street Journal ha commentato: “Se avremo il supporto dell’amministrazione Trump, Hebron potrebbe diventare come Dubai”, delineando una visione ambiziosa di sviluppo economico e integrazione regionale.
• Critiche agli Accordi di Oslo e all’Autorità Palestinese Nel documento si chiede l’adesione agli Accordi di Abramo con un calendario preciso, giudicando gli Accordi di Oslo falliti e responsabili di “morte, rovina economica e distruzione”. Al‑Jaabari ha criticato duramente l’Autorità Palestinese, affermando che “non è capace di proteggerci” e negando qualsiasi possibilità di uno Stato palestinese nel prossimo millennio: “Dopo il 7 ottobre, Israele non lo permetterà; continuare a puntare su quello Stato ci condurrà al disastro”.
• Un’iniziativa con l’avallo israeliano Secondo i promotori, il ministro Barkat avrebbe esaminato la proposta insieme al governo israeliano, sotto l’egida di un atteggiamento cauto da parte di Netanyahu. Le discussioni tra le parti risalirebbero a febbraio, con diversi incontri ospitati nella residenza del ministro. Barkat ha dichiarato al Wall Street Journal che “il vecchio modello dei due Stati ha fallito” e ha criticato la leadership dell’Autorità Palestinese per la perdita di fiducia sia tra i palestinesi sia in Israele.
• Reazioni contrastanti e potenziali implicazioni Alla domanda se questa posizione potesse essere vista come un tradimento, al-Jaabari ha risposto: “Il tradimento è stato Oslo. Io seguo la mia strada”. Le sue parole mettono in luce profonde spaccature nella società palestinese, tra chi punta su approcci tradizionali e chi vuole sperimentare soluzioni locali più pragmatiche. Questa iniziativa emerge mentre l’amministrazione Trump considera l’ampliamento degli Accordi di Abramo anche a paesi come Siria, Libano e Arabia Saudita. Se portata avanti, l’idea di Hebron potrebbe rappresentare un precedente significativo, dimostrando come la diplomazia locale possa superare impasse geopolitiche. Tuttavia, non mancano interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine e sui rischi di frammentazione territoriale. Per ora si tratta di una proposta inedita e non ancora ufficialmente adottata.
«Ebreo? Meglio se qui non parla» Cosa sta diventando il Pd?
di Aldo Torchiaro
Ogni volta che temiamo di aver capito cosa sia diventato il Pd, nelle sue espressioni periferiche più ancora che in quelle centrali, i fatti si incaricano di avvisarci: bisogna scavare ancora più in basso. Oltre il fondo del barile, dove tutto è ormai concesso. Anche di gridare, finalmente sentendosi liberi di farlo, il profondo, viscerale antisemitismo che evidentemente alberga nella pancia di quel partito.
Quel che è accaduto giovedì sera nel piccolo comune di Monte Porzio Catone, nelle immediate vicinanze di Roma, è solo la punta di un iceberg avvelenato. Sotto la regia dell’ANPI e con la partecipazione di rappresentanti del movimento Bds, che propugna il boicottaggio di prodotti israeliani, si è svolto nel circolo Pd di Monte Porzio Catone un incontro pubblico sulla situazione a Gaza. Peccato che il cosiddetto dibattito si sia rivelato una piattaforma unilaterale di propaganda antioccidentale, antisionista e, non troppo velatamente, antisemita. In un clima tossico sin dall’inizio, ecco che Yousef Salman, che pretende di essere il Presidente della comunità palestinese di Roma, ammalia la platea, gridando al genocidio di Gaza e arrivando presto all’apice della vergogna: mappe false, slogan urlati, teorie complottiste e affermazioni aberranti come “il sionismo è peggio del nazismo”. Il tutto condito dalla risata sprezzante sul 7 ottobre, come se quell’orrendo massacro di famiglie e bambini fosse materia da ridicolizzare. I trenta militanti seduti annuiscono, applaudono. Il segretario del circolo, vicino a Elly Schlein, si compiace di avere riempito la sala e si guarda bene dall’intervenire. Parla invece Martina Argada, del gruppo dei boicottatori Bds. Vengono distribuiti materiali con elenchi di aziende, supermercati, persino farmaci da boicottare perché “collegati a Israele”. Lo Stato ebraico è stato definito “quello che oggi si chiama Israele”, come a dire che prima o poi una soluzione finale al problema si troverà.
In quel contesto, si fa coraggio Aldo Winkler, cittadino di quel comune e membro del direttivo di Sinistra per Israele. Alza la mano e chiede di poter dire la sua. Si qualifica come ebreo. Prova a iscriversi parlare, ma cercano di impedirlo. Lo mettono ultimo, in lista. Pazienta. E quando riesce a prendere la parola, viene zittito, interrotto e attaccato da quattro persone alla volta. La moglie accenna a un malore.
«Andiamo a casa». Lui vuole rimanere, lei esce. Riprova a parlare: «Vengo da una famiglia askenazita, abbiamo vissuto in casa la tragedia dell’Olocausto », prova a accennare, ma si sente dire che “gli ashkenaziti controllano le ricchezze del mondo” e che, con Netanyahu, sarebbe responsabile delle guerre globali. Tra frizzi e lazzi, applausi e cenni di approvazione, Winkler, l’ebreo irriducibile, non si fa mettere nell’angolo. Parla della Resistenza, del partigiano ebreo Pino Levi Cavaglione, che era di Monte Porzio. Parla della Shoah, di cui una volta si conservava la memoria, a sinistra. E di come senta diventato improvvisamente ostile il clima tra quelle mura.
Una volta era un militante anche lui. Adesso non più. È ebreo. E gli altri lo sanno, glielo rinfacciano. Alzano la voce. Si alzano tutti, finisce l’incontro.
Il linciaggio, stavolta, è solo sfiorato. «In quel circolo del Pd ho rivissuto una nuova Difesa della Razza», ci dice al telefono, amareggiato ma combattivo. «Poi però, alla fine, una persona gentile si è avvicinata e, fuori dalla sezione, mi ha espresso solidarietà». Quell’iscritto da solo non basta a salvare l’onore di una comunità che, democratica nel nome, finisce spesso per rappresentare nei fatti l’esatto opposto. Le responsabilità di chi ha organizzato, ospitato, applaudito sono enormi. Ma la colpa più grave è di chi tace.
Israele – Parla lo psichiatra: «Riconoscere il trauma collettivo»
Demian Halpérin è medico, psichiatra, a Tel Aviv. Con il progetto SafeHeart – Lev Batuach, offre supporto psicologico a giovani e famiglie colpite dagli effetti della guerra. Nell’intervista rilasciata ad Antoine Strobel-Dahan per Tenoua il 26 giugno delinea una diagnosi netta: Israele è una società traumatizzata alla sua base. Il trauma non riguarda solo il presente ma affonda in strati più profondi della memoria collettiva e individuale e si alimenta in un tempo che non ha avuto tregua. Le settimane più recenti, seguite all’intensificarsi del confronto con Hezbollah e alla guerra aperta con l’Iran, hanno amplificato un malessere già largamente diffuso nella popolazione israeliana.
La ferita del 7 ottobre non si è mai chiusa. Allora, dice Halpérin, a essere colpiti furono non solo i corpi, ma le fondamenta psicologiche della società: la fiducia nel fatto che lo Stato sapesse proteggere i suoi cittadini, la certezza di vivere in un luogo dove la vita civile potesse scorrere in sicurezza, la convinzione – implicita e profonda – di non dover più subire ciò che era accaduto in passato. Oggi, a molti mesi dall’attacco di Hamas, l’intera popolazione continua a vivere sotto pressione.
Lo stress non colpisce solo i soldati in prima linea. Le famiglie dei riservisti, lasciate ad affrontare l’assenza di padri, madri e figli riportano segnali evidenti di logoramento. Le coppie spesso si trovano a dover fronteggiare una gestione quotidiana sbilanciata, in cui una sola persona porta il peso della cura dei bambini, del lavoro e della tenuta emotiva.
I bambini stessi non sono risparmiati. Halpérin osserva che la loro sofferenza riflette in maniera speculare quella degli adulti. Non c’è distanza tra l’ansia dei genitori e quella dei figli. I più piccoli registrano i cambiamenti negli sguardi, nei toni della voce, nella frenesia degli spostamenti, nelle notizie che trapelano anche quando si tenta di proteggerli. Non servono spiegazioni esplicite: la paura si trasmette comunque. La psiche infantile è porosa e capta i segnali del pericolo senza filtri.
Diversamente da quanto si potrebbe pensare, anche gli anziani non appaiono anestetizzati dal passato. L’idea di una resilienza costruita su esperienze precedenti – guerre, evacuazioni, attacchi missilistici – non regge. La guerra attuale, spiega Halpérin, non ha paragoni. Per l’intensità, per la durata, per la sovraesposizione mediatica, per la discontinuità del conflitto. Ma anche perché la società stessa è cambiata. È più frammentata, più esposta, più dipendente da equilibri precari. In questo contesto, i professionisti della salute mentale rilevano sintomi diffusi: insonnia, ansia generalizzata, difficoltà di concentrazione, depressione reattiva. Si manifesta anche un senso di colpa latente: per essere sopravvissuti, per non essere coinvolti in prima linea, per non riuscire a essere all’altezza delle aspettative proprie o familiari.
Halpérin insiste sul fatto che non si tratta di fenomeni isolati: l’intera società è attraversata da un malessere strutturale. Alla domanda su come affrontare una crisi di queste dimensioni, lo psichiatra risponde con cautela. Israele è, da sempre, una società costruita in reazione a traumi profondi: la Shoah, prima di tutto, ma anche l’esperienza della diaspora e l’ostilità costante dell’ambiente regionale. Questa storia sedimentata si traduce, nel presente, in una difficoltà a distinguere tra minaccia reale e paura amplificata. «Viviamo – dice – con una parte della psiche costantemente in allerta».
Il progetto SafeHeart nasce per offrire strumenti di ascolto e sostegno, in particolare ai giovani. Gli operatori cercano di mantenere uno spazio di calma e continuità nel caos. Ma è chiaro che l’intervento terapeutico, da solo, non basta. La crisi è politica, sociale e culturale prima ancora che clinica. I genitori, spesso in difficoltà, chiedono aiuto non solo per i figli, ma anche per sé. «Ci dicono: non siamo sicuri di riuscire a garantire stabilità», racconta Halpérin. Anche il sollievo provvisorio che si avverte quando l’allarme si attenua è, in realtà, parte del meccanismo traumatico. Non è una vera guarigione, ma una pausa, un respiro tra due tensioni. Il sistema nervoso resta iperattivo, pronto a riattivarsi. Questo stato di attesa prolungata ha un costo, che si somma ai dolori individuali, ai lutti, agli sradicamenti.
Alla fine dell’intervista, Halpérin torna su un punto centrale: riconoscere la natura traumatica della società israeliana non è una forma di giudizio, ma un dato di fatto. Accettare questa diagnosi significa porre le basi per un processo di cura che deve coinvolgere non solo i singoli, ma anche le istituzioni e la cultura pubblica. «Non siamo ancora in grado di elaborare tutto ciò che è successo», afferma. «Ma possiamo cominciare a prenderne atto».
Perché Dio ha creato il mondo? - 7Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Formazione di una nazione speciale Dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino di Eden, i rapporti ravvicinati tra Dio e gli uomini si sono interrotti, e dopo la sparizione dell’Eden per effetto del diluvio, il mondo, che nell’originario progetto creativo era costituito da habitat, società e santuario, è rimasto senza santuario. La terra è stata maledetta, dunque Dio non può discendere fisicamente in essa senza distruggerla con la sua santità. Da quel momento il Creatore si collega alla creatura mediante rapporti a distanza, rivolgendo la parola ad alcuni uomini o, in certi casi, apparendo a loro in visione. Noè ed Abramo hanno avuto l’immenso privilegio di udire direttamente da Dio una parola che non era soltanto un’assicurazione di immediata salvezza personale dal giudizio, ma, soprattutto nel caso di Abramo, una promessa di redenzione del mondo nel futuro attraverso la formazione di una grande nazione discendente da lui.
Le solenni parole di Dio: “Io farò di te una grande nazione”, costituiscono l’atto costitutivo della nuova nazione. Invece di un’Assemblea Costituente, come avviene oggi nei paesi cosiddetti democratici, qui agisce un “Dio Costituente”, le cui delibere non possono essere impugnate. In questo modo Dio lega la costituenda grande nazione alla persona di Abramo, a cui è stato chiesto di apporre la sua firma di accettazione ottemperando alla richiesta iniziale: “'Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò” (Genesi 12:1), cosa che Abramo ha eseguito scrupolosamente: “E Abramo se ne andò, come l’Eterno gli aveva detto” (Genesi 12:4).
A questo punto l’atto giuridico è completo: Dio figura come esecutore: “Io farò…” e Abramo come beneficiario: “… di te”.
Il beneficiario però non deve aspettarsi che l’esecutore gli prepari da qualche parte una nazione già pronta, con tutto ciò che occorre: terra, popolo, struttura amministrativa, in cui a lavoro finito egli entrerà con tutti gli onori e sarà riconosciuto come primo cittadino. La nazione - avverte il Signore - nascerà personalmente da te, e si svilupperà come risultato del lavoro che Io farò su di te e a partire da te.
Paragonando la costituenda nazione a un’opera d’arte in terracotta, si può dire che Dio è il modellatore e Abramo l’argilla. La nazione, che pure esiste fin dall’atto costitutivo, prenderà forma attraverso un lungo lavoro di creativa manipolazione da parte di Dio. Si parla di manipolazione, ma il materiale su cui si fa il lavoro è l’uomo, a cui Dio ha riservato fin dall’inizio il margine di libertà che gli compete come creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
L’artista operante dunque è Dio, e il materiale su cui agisce è un oggetto vivo, desideroso di ascoltare, oppure no, pronto ad ubbidire, oppure no, capace di ringraziare, ma anche di lamentarsi, pronto a rispondere all’amore, ma anche ad essere infedele; e così via in un’altalena di su e giù che metteranno a dura prova l’Artista che s’affatica al suo lavoro. Ma Dio lo sapeva già, e l’ha messo in conto.
La manipolazione di Dio sulla parte umana dell’opera sarà di due tipi: genetico e storico.
• Aspetti genetici e storici nella formazione della nazione Se l’intera popolazione umana sopravvissuta al diluvio nasce e si forma come progenie di Noè, il popolo della nazione voluta da Dio nasce e si forma come progenie di Abramo. L’aspetto genetico nell’opera di formazione della speciale nazione abramitica emerge nella storia dall’importanza che hanno sempre avuto in Israele le genealogie. Esse esprimono la precisa volontà di Dio di accrescere numericamente il popolo e interferire nella sua storia attraverso la generazione di uomini, prima ancora che per il susseguirsi di fatti storici.
Non è forse “manipolazione genetica” quella che Dio opera nel popolo in formazione dando ad ognuno dei tre patriarchi Abramo Isacco e Giacobbe una moglie sterile, per poi farla diventare feconda al momento opportuno? Si prenda ad esempio l’ultima delle tre matriarche:
Dio si ricordò anche di Rachele; Dio l'esaudì e la rese fertile; concepì e partorì un figlio, e disse: “Dio ha tolto la mia vergogna”. E lo chiamò Giuseppe, dicendo: “L'Eterno mi aggiunga un altro figlio” (Genesi 30:22-24).
Rachele chiede un figlio, ma è Dio che “si ricorda” di lei e interviene nel suo corpo donandole Giuseppe.
Questo frutto di manipolazione genetica viene poi usato per operare una grandiosa manipolazione storica nella politica della più grande potenza mondiale del momento:
“Il Faraone disse a Giuseppe: ‘Vedi, io ti stabilisco su tutto il paese d'Egitto’. E il Faraone si tolse l'anello di mano e lo mise alla mano di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino, e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece montare sul suo secondo carro, e davanti a lui si gridava: ’In ginocchio!’. Così Faraone lo costituì su tutto il paese d'Egitto. Poi il Faraone disse a Giuseppe: “Io sono il Faraone! e senza te, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d'Egitto” (Genesi 41:44).
Tutto questo poté avvenire a Giuseppe per il semplice motivo che “L’Eterno era con lui” (Genesi 39:3, 23). Stando alla Bibbia, Giuseppe non ebbe mai una visione di Dio, né mai ricevette da Lui una parola. Ebbe soltanto dei sogni e la capacità di interpretarli. Ma l’Eterno era con lui, senza che Giuseppe forse neppure lo avvertisse. Dio dunque era disceso con Giuseppe in Egitto, e attraverso di lui aveva preso il governo della più grande potenza mondiale del momento.
Non si dica ora che Dio non aveva bisogno di Giuseppe per governare una nazione perché Dio può tutto e comanda su tutti. Certo, Dio può tutto quello che vuole, ma non vuole tutto. Avrebbe potuto far pervenire al Faraone l’ordine di nominare Giuseppe Primo Ministro di Egitto, un po’ come farà in seguito con il “re che non aveva conosciuto Giuseppe” (Esodo 1:8), ma non ha voluto agire così. Ha voluto invece che il re della più forte nazione al mondo lo facesse “spontaneamente”, dopo aver visto quello che era capace di fare un rappresentante significativo di una particolarissima nazione che ancora non compariva nella storia, ma che il Creatore dei cieli e della terra stava formando con pazienza e perseveranza.
Questo è il primo atto di politica internazionale che Dio compie nella storia attraverso la sua nazione in fieri. Ed è una politica vincente.
• In marcia verso la nazione Avevamo detto che dopo il peccato di Adamo ed Eva Dio ha interrotto il suo riposo e si è rimesso a lavorare. Il primo lavoro che Dio si è impegnato a fare è la costruzione di una grande nazione. Ma come si fa a formare ex novo una nazione? Dopo il costitutivo patto con Abramo, la nazione esiste già de jure, ma nella realtà effettuale una nazione è composta di tre elementi: un proprio popolo, una propria terra, un proprio governo. Dal capitolo 12 in poi, il libro della Genesi è interamente dedicato a descrivere il procedimento seguito da Dio per generare il popolo della nazione,
Dopo la stesura del patto di Dio con Abramo, un passo avanti nella formazione della nazione si ha con Giacobbe, che mentre era in viaggio verso Paddan Aram in cerca di moglie fa un’esperienza stranissima:
Giacobbe partì da Beer-Sceba e se ne andò verso Caran. Capitò in un certo luogo dove passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del luogo, la pose come suo capezzale e si coricò lì. Fece un sogno: una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed ecco gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala. L'Eterno stava al di sopra di essa, e gli disse: “Io sono l'Eterno, l'Iddio di Abraamo tuo padre e l'Iddio di Isacco; la terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua progenie; e la tua progenie sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai a occidente e a oriente, a settentrione e a meridione; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua progenie. Ed ecco, io sono con te, e ti guarderò ovunque tu andrai, e ti riporterò in questo paese; poiché io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto”. Appena Giacobbe si svegliò dal suo sonno, disse: “Certo, l'Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo!”; ebbe paura, e disse: “Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!”. Allora Giacobbe si alzò la mattina di buon'ora, prese la pietra che aveva posta come suo capezzale, la eresse come pietra commemorativa e vi versò dell'olio sulla cima. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora, il nome della città era Luz. Poi Giacobbe fece un voto, dicendo: “Se Dio è con me, se mi guarda durante questo viaggio che faccio, se mi dà pane da mangiare e vesti per coprirmi, e se ritorno sano e salvo a casa di mio padre, l'Eterno sarà il mio Dio; e questa pietra che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio; e di tutto quello che tu darai a me, io, certamente, darò a te la decima” (Genesi 28;10-22)
L’espressione "la sua cima raggiungeva il cielo" ricorda subito quella usata dagli uomini di Scinear che volevano costruire una torre "la cui cima raggiunga il cielo". Indubbiamente la scala apparsa a Giacobbe è la risposta di Dio alla torre di Babele. Non si raggiunge il cielo con una laboriosa e abile opera umana, perché soltanto Dio può stabilire un contatto non distruttivo ma vivificante tra il cielo e la terra.
Il preannuncio che il Signore ha voluto dare a Giacobbe con questo sogno mette in evidenza che il progetto redentivo di Dio non si conclude con la generazione dei patriarchi, ma si estende fino a un lontano futuro che non arriverà prima di quattrocento anni, come Dio aveva rivelato ad Abramo in una terribile notte (Genesi 15:7-21).
Come ad Abramo e ad Isacco, Dio annuncia a Giacobbe il suo progetto, che si estende nel futuro a occidente e a oriente e contiene due elementi essenziali: la terra e la progenie. Quanto alla terra, anche a Giacobbe Dio ripete: "Io la darò a te e alla tua progenie"; dunque non solo alla progenie, ma anche a te personalmente, il che esprime in forma indiretta che Giacobbe risusciterà e vedrà il compimento di queste parole.
Inoltre, la terra su cui si appoggia la scala è indubbiamente terra d'Israele. Si capisce allora il feroce antisionismo di oggi, perché se nel passato gli uomini fallirono nel loro tentativo di innalzarsi verso il cielo con una torre che poggiava sulla terra di Scinear, oggi gli uomini cercano di impedire che il cielo faccia scendere sul mondo la benedizione su una scala che
poggia sulla terra d’Israele. Anche Gesù, molti secoli dopo, ha fatto riferimento a un traffico di angeli tra la terra e il cielo: “Poi gli disse: “In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo” (Giovanni 1:51)
La progenie di Giacobbe che sarà come la polvere della terra è certamente il popolo etnico d'Israele, dal quale Dio un giorno farà scaturire il "germoglio di giustizia" che costituisce la vera scala che congiunge in modo salvifico il cielo e la terra. Sta scritto infatti:
“In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia, ed esso eserciterà il diritto e la giustizia nel paese" (Geremia 33:15).
Ma c’è un altro fatto importante in questo racconto:
“E come Giacobbe si fu svegliato dal suo sonno, disse: ‘Certo, l'Eterno è in questo luogo ed io non lo sapevo!' Ed ebbe paura, e disse: 'Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!’” (Genesi 28:16-17).
Per la prima volta nella Bibbia compare qui l’espressione casa di Dio, che in seguito si userà per indicare il tabernacolo prima e il tempio poi. In quel luogo dunque è stato presente per breve tempo il santuario di Dio. Che è stato anche la porta del cielo, cioè il passaggio attraverso cui gli uomini possono avvicinarsi a Dio e rimanere in sua presenza.
Nulla di questo è entrato in funzione nell’esperienza di Giacobbe, ma Dio in quell’occasione ha voluto rivelare qualcosa di Se stesso e del suo piano al suo servitore, il quale naturalmente è stato preso da paura, perché l’uomo peccatore non può avvertire la vicinanza di Dio senza provare spavento, come è avvenuto fin dall’inizio ad Adamo.
Nel viaggio di ritorno da Paddan Aram, sulle rive dello Iabbok, Giacobbe ha una lotta notturna con "un uomo" .
Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui fino all'apparire dell'alba. E quando quest'uomo vide che non lo poteva vincere, gli toccò la giuntura dell'anca; e la giuntura dell'anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. L'uomo disse: “Lasciami andare, perché spunta l'alba”. E Giacobbe: “Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!”. E l'altro gli disse: “Qual è il tuo nome?”, egli rispose: “Giacobbe”. E quello disse: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con Dio e con gli uomini, e hai vinto”. Giacobbe allora gli disse: “Ti prego, palesami il tuo nome”. E quello rispose: “Perché chiedi il mio nome?”. E lo benedisse lì. E Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, “perché”, disse, “ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata”. Il sole sorgeva appena egli ebbe passato Peniel; e Giacobbe zoppicava dall'anca. Per questo, fino a oggi, gli Israeliti non mangiano il nervo della coscia che passa per la giuntura dell'anca, perché quell'uomo aveva toccato la giuntura dell'anca di Giacobbe, al punto del nervo della coscia (Genesi 32:24-32).
Alla fine dello scontro Giacobbe dice: "Ho visto Dio faccia a faccia". Questo è un altro passo avanti nei rapporti fra il Creatore e la creatura: non c’è qui soltanto comunicazione verbale, o apparizione, o vicinanza di luogo come a Betel, ma visione faccia a faccia e contatto fisico, sia pure in forma temporanea e altamente enigmatica.
Perché questa lotta? Sembrerebbe che a cominciare lo scontro sia stato l’uomo sconosciuto, e che Giacobbe abbia cercato in un primo momento di difendersi come da un’aggressione. Ma poi comincia ad avere il sopravvento, e allora l’uomo cerca di sfuggire alla presa e mostra di voler scappare. A questo punto Giacobbe capisce che contro di lui è Dio stesso che combatte, e allora con tutte le sue forze cerca di impedire che l’uomo riesca a divincolarsi e scappare. Vuol essere benedetto, perché avverte che senza quella benedizione per lui sarebbe la fine. La benedizione che aveva strappato al fratello con il traffico commerciale, adesso vuole ottenerla con la forza. E ci riesce. L’uomo misterioso capisce di star soccombendo in quel tipo di lotta con Giacobbe e allora manifesta la sua forza assestandogli un colpo speciale sulla commessura dell'anca, e manifesta la sua autorità cambiandogli il nome. E per la prima volta nella Bibbia compare qui il nome "Israele", applicato prima al patriarca Giacobbe e poi esteso a tutta la nazione da lui discesa.
Una serie di attacchi antisemiti ha sconvolto Melbourne venerdì sera, esacerbando le preoccupazioni della comunità ebraica australiana, che conta 117.000 membri. Verso le 20:00, un uomo ha versato un liquido infiammabile sulla porta della sinagoga di Albert Street, nella zona est della città, prima di appiccare il fuoco, mentre 20 persone, tra cui donne e bambini, stavano consumando la cena dello Shabbat. I vigili del fuoco hanno spento l'incendio senza causare feriti, ma il sospetto, un uomo di circa trent'anni, è ancora in fuga. A un chilometro di distanza, una ventina di manifestanti hanno invaso il ristorante israeliano Miznon, in Hardware Lane, scandendo “Morte alle FDI (Tsahal)”, secondo testimoni citati da Nine News. Un uomo di 28 anni è stato arrestato per ostruzione alla polizia, poi rilasciato. Durante la notte, un terzo incidente ha preso di mira un'azienda a Greensborough, dove sono state incendiate tre auto e imbrattati i muri, un luogo già preso di mira dai militanti filopalestinesi. La polizia del Victoria, mobilitando la sua unità antiterrorismo, sta indagando su questi atti senza ancora qualificarli come terroristici. “Stiamo esaminando le intenzioni e l'ideologia dei responsabili”, ha dichiarato il comandante Zorka Dunstan. Le autorità australiane hanno condannato con forza queste violenze. Il primo ministro dello Stato di Victoria, Jacinta Allan, ha denunciato un atto ‘abietto’ volto a “traumatizzare le famiglie ebree”, sottolineandone il carattere antisemita, particolarmente odioso in pieno Shabbat. Il sindaco di Melbourne, Nicholas Reece, ha definito l'attacco «scioccante», ribadendo che la città promuove la pace e la tolleranza. Alex Ryvchin, co-direttore dell'Executive Council of Australian Jewry, ha chiesto una risposta ferma: «Questi crimini non possono essere perdonati, devono essere affrontati con tutta la forza della legge». Anche Israele ha reagito con forza. Il viceministro degli Esteri, Sharren Haskel, ha definito questi attacchi “terrorismo antisemita”, accusando l'assenza di sanzioni contro l'odio di incoraggiare gli estremisti. «Prendere di mira luoghi di culto ebraici e un ristorante israeliano mira a intimidire un'intera comunità a causa della sua religione», ha dichiarato, esortando l'Australia a consegnare i colpevoli alla giustizia. Questi incidenti si inseriscono in un'escalation di atti antisemiti a Sydney e Melbourne dalla fine del 2024, che includono incendi di sinagoghe e graffiti con svastiche. La polizia sta raddoppiando gli sforzi per identificare i responsabili, in un clima di crescente tensione.
(i24, 5 luglio 2025)
Monte Porzio Catone, è rissa nel circolo-pd dopo il comizio anti-ebraico
di Andrea Muzzolon
Lo chiamano dibattito, ma evidentemente a sinistra non hanno idea di cosa sia il confronto. Quello vero, che mette sullo stesso piano due opinioni diverse. E così a Monte Porzio Catone, in provincia di Roma, si è consumato l’ultimo, ennesimo, comizio anti-ebraico e anti-israeliano. Questa volta, teatro dello show pro-Pal è stato il circolo locale del Pd, intitolato ad Antonio Gramsci, che ha ospitato un confronto dal titolo “Stop al massacro. Vita, terra, libertà per il popolo palestinese”. Se già il titolo non fosse sufficientemente esplicativo, basta scorrere l’elenco dei relatori per capire dove si vuole andare a parare. Si parte con un esponente dell’Anpi, ormai in prima linea nel sostegno alla Palestina, passando per poi quelli di Emergency, Amnesty, fino ad arrivare a un rappresentante della comunità palestinese romana e uno del gruppo Bds, movimento che accusa apertamente Israele di apartheid e colonialismo. C’erano pochi dubbi sul fatto che in breve l’incontro si sarebbe trasformato in un plotone d’esecuzione contro lo Stato ebraico, ma comunque anche alcuni cittadini che non girano con la kefiah hanno deciso di assistere. Certo, mai si sarebbero aspettati uno spettacolo del genere. Fra di loro c’era anche un uomo di origini ashkenazite, un gruppo etnoreligioso ebraico originario della Valle del Reno in Europa centrale.
Non ha potuto credere alle sue orecchie quando dal palco è stato recitato un elenco di ditte, supermercati, perfino medicinali, da boicottare perché legati a Israele. Come da lui raccontato, l’intervento dell’esponente palestinese è stato il solito concentrato di odio contro Gerusalemme e Washington, quest’ultima accusata di aver creato lo Stato di Israele addirittura per conquistare il mondo. Un comizio con tanto di mappe manipolate sull’evoluzione temporale dei confini palestinesi dal 1945 ad oggi. Non sono poi mancati gli accostamenti vergognosi fra “sionismo” e “nazismo”, con tanto di sorrisi beffardi quando è stato nominato il 7 ottobre 2023, data del massacro dei giovani israeliani al rave party.
Per non farsi mancare nulla, c’è stato spazio anche per la repressione di chi la pensava in modo diverso. Proprio l’ashkenazita, residente da anni ai Castelli Romani e frequentatore del circolo dem, ha provato a portare una voce fuori dal coro sul conflitto in atto a Gaza. Di tutta risposta, è stato accusato di essere responsabile dei conflitti mondiali insieme a Netanyahu solo per le sue origini. Ogni sua parola è stata interrotta con violenza da chi sedeva sul palco nel tentativo di zittirlo finché non ha deciso di defilarsi. Il tutto, nel silenzio più totale degli esponenti locali del Pd che gestiscono il circolo. Un canovaccio diventato ormai la normalità nell’indifferenza generale di una sinistra che continua a fomentare pericolosamente l’odio verso Israele e il popolo ebraico.
Libero, 5 luglio 2025) ____________________
L'odio antiebraico è ormai fuori misura. Non ci sono più ragioni umane che potrebbero contrastarlo. E' una libidine spirituale di natura diabolica. Hanno paura. Sono afferrati da una primordiale paura di Dio, la cui ombra vedono continuamente riapparire dietro i fatti inconsueti di Israele e degli ebrei. E' quest'ombra che non vogliono vedere, e il continuo non riuscirci aumenta la loro paura, fino a farla diventare rabbia. M.C.
D'ora in poi ci si ricorderà della “guerra dei 12 giorni”, proprio come ci si ricorda della “guerra dei 6 giorni” del giugno 1967.
di Pastore Gérald Fruhinsholz
GERUSALEMME - Iniziato alle 3 del mattino del 13 giugno 2025, l'attacco di Israele contro l'Iran islamico ha colto di sorpresa il mondo intero. L'obiettivo di Israele era quello di privare l'Iran della sua capacità futura di dotarsi dell'arma atomica, come era già avvenuto con l'Iraq nel 1981 e con la Siria nel 2007. Non è un caso che l'operazione sia stata chiamata “Am kelavi” (il Risveglio del Leone), un'espressione tratta dalla Torah. Come credenti, dobbiamo prendere coscienza del carattere profetico dell'evento che si è svolto sotto i nostri occhi. Dalla guerra del 7 ottobre 2023, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha subito numerose critiche da parte dell'ONU, dalle nazioni e persino all'interno di Israele. Tuttavia, molte voci si sono levate per dire che Dio aveva scelto quest'uomo “per un tempo come questo”. Poco prima dell'attacco, il Primo Ministro aveva inserito questo versetto tra le antiche pietre del Kotel
«È un popolo che si leva come una leonessa e si erge come un leone; non si corica finché non ha divorato la preda e bevuto il sangue dei feriti» (Numeri 23:24).
• L’attualità dei testi Queste parole descrivono la potenza e la determinazione del popolo di Israele, paragonato a un leone pronto a colpire. Fanno parte della profezia di Balaam, che, nonostante i suoi tentativi di maledire Israele, finisce per benedirlo. Balaam riconosce che Dio benedice Israele e lo descrive come un popolo temibile, che non riposa finché non ha compiuto la sua missione. È sempre sorprendente vedere quanto i testi letti ogni settimana – la Parashà della Torah e la Haftarah, tratta dai Profeti – risuonino con l'attualità. Il 13 giugno, Israele ha quindi lanciato un'operazione su larga scala: il più massiccio attacco contro l'Iran dalla guerra Iran-Iraq (1980-1988). Eppure, nella Haftarah di quella settimana, era scritto:
«Non è con la potenza né con la forza, ma con il mio Spirito» (Zaccaria 4:6),
dice l'Eterno degli eserciti. Israele sa che può contare solo sull'aiuto dell'Altissimo. Al Kotel, gli shofar e le trombe hanno già suonato. La Parashà del giorno evocava proprio la dichiarazione di Dio a Mosè di suonare le trombe (Numeri 10:9), conferendo a questa guerra una dimensione spirituale e profetica.
• La testa del serpente Si può definire l'Iran degli ayatollah come «la testa del serpente», un serpente simile a una piovra i cui tentacoli si estendono su tutto il mondo. L'Iran è il principale fornitore di armi e fondi ai suoi proxy: Hamas, Hezbollah e Houthi - nemici diretti di Israele - attraverso il denaro sporco proveniente da un vasto traffico di droga. Tutti i paesi sono colpiti, più o meno direttamente, dall'influenza destabilizzante dell'Iran islamico. Daniele 10 descrive una battaglia celeste tra il Principe di Persia e l'arcangelo Michele. L'angelo Gabriele dice a Daniele, che digiuna e pregava per il suo popolo:
«Il capo del regno di Persia mi ha resistito per ventuno giorni; ma ecco, Michele, uno dei capi principali, è venuto in mio aiuto» (Daniele 10:13).
Questa battaglia spirituale è più attuale che mai. Dio usa Israele come strumento per liberare il mondo dalla minaccia esistenziale rappresentata dal regime dei mullah.
• La pace in Medio Oriente & E' giunto il momento di pregare per la pace annunciata dai profeti. Isaia parla di un Medio Oriente pacificato, ma la Bibbia avverte anche:
«Ci sarà guerra dell'Eterno contro Amalek fino alla fine» (Esodo 17:16).
Hitler con il nazismo, Stalin con il comunismo e oggi i mullah iraniani con il terrorismo islamico incarnano questa figura di Amalek. Solo Dio conosce la fine. Siamo chiamati all'umiltà e alla vigilanza, anche nei momenti di vittoria. Il Leone si è risvegliato, ma è Dio che conduce la battaglia. C'è ancora molto da fare: il regime dei mullah non è caduto; Gaza non è stata liberata e gli ostaggi sono ancora prigionieri; Hamas, gli Houthi, Hezbollah sono ancora attivi... Ma celebriamo questa vittoria di Israele, quella del suo capo, dei suoi servizi segreti, del suo esercito e dei suoi piloti in particolare, durante la «guerra dei 12 giorni» che ha visto molti miracoli. Era Ben Gurion a dire: «Chi non crede nei miracoli non è realista». Siamo con tutto il cuore accanto alle famiglie delle vittime e preghiamo per la pronta guarigione dei feriti.
È ora di portare a casa gli ostaggi, porre fine alla guerra e sconfiggere Hamas una volta per tutte
Se il mondo vuole davvero aiutare, deve finalmente affrontare la verità: la liberazione dei palestinesi (e di tutti noi) inizia con la sconfitta di Hamas
diZina Rakhamilova
Il cessate il fuoco con il regime iraniano è iniziato poco più di una settimana fa, il 24 giugno. Nonostante noi in Israele avessimo appena sopportato quasi due settimane di vero terrore – secondo modalità che ci hanno riportato alla mente la stessa paura e la stessa angoscia provate nelle prime settimane dopo il 7 ottobre 2023 – in pieno stile israeliano gran parte del Paese è tornata quasi immediatamente alla normalità, come se non fosse mai successo. A molti, questo potrebbe sembrare un concetto strano ed estraneo. Come si fa a passare da due settimane di notti insonni – dall’ansia scatenata da ogni rumore forte, dall’ossessione di “cos’altro dovrei mettere nella mia borsa d’emergenza?” – allo svegliarsi la mattina, indossare una camicia pulita e andare in ufficio come se fosse un giorno qualsiasi, spesso passando per le stesse stazioni ferroviarie dove centinaia di persone avevano trascorso la notte precedente accalcate sottoterra, usandole come rifugi antiaerei? E’ perché in Israele non abbiamo scelta. Se smettessimo di vivere la nostra vita a causa del terrorismo, non vivremmo mai veramente. Ma la verità è che qui le cicatrici della guerra non sono sempre visibili. Sì, Tel Aviv può sembrare tornata alla sua vitalità ed energia, ma nessuno di noi è veramente tornato alla normalità. Siamo ancora fisicamente ed emotivamente esausti per le notti insonni. Sussultiamo ancora ad ogni suono inaspettato. Abbiamo amici e parenti che stanno cercando di ricostruire le loro case, alcune ridotte in macerie.
15 giugno: israeliani in un rifugio di condominio a Gerusalemme, in attesa del cessato allarme
Ovunque andiamo, continuiamo istintivamente a individuare il rifugio antiaereo più vicino. Vi sono alcuni quartieri tuttora devastati dai recenti attacchi missilistici del regime iraniano. Può essere che viviamo le nostre giornate come se tutto andasse bene, ma la verità è che nessuno di noi è più lo stesso da quel giorno orribile e traumatico in cui Hamas ha preso d’assalto i nostri confini, ha devastato le comunità civili nel sud e un festival musicale, ha bruciato, decapitato e stuprato in gruppo civili innocenti e ha trascinato in cattività centinaia di persone (vive e morte). Sì, da un certo punto di vista abbiamo visto dispiegare una forza straordinaria da parte delle nostre forze armate. Abbiamo visto la piena potenza e portata delle Forze di Difesa israeliane, non solo contro Hamas, ma contro fronti ancora più formidabili e pericolosi. Nell’operazione dei cercapersone di Hezbollah, agenti israeliani sono riusciti a piazzare detonatori in dispositivi di comunicazione non rilevabili nemmeno ai raggi X, un’operazione che ha rivelato quanto profondamente avessimo infiltrato da tempo le milizie sponsorizzate e al servizio dell’Iran. Negli ultimi due anni, Israele ha eliminato quasi tutti gli alti dirigenti di Hamas dietro al 7 ottobre, insieme a figure chiave della rete terroristica iraniana come Ismail Haniyeh, tolto di mezzo nientemeno che su suolo iraniano. Abbiamo visto, forse più chiaramente che mai, che Israele dispone di un’innegabile superiorità militare, anche rispetto alla testa stessa della piovra: la Repubblica Islamica dell’Iran. Da qualsiasi punto di vista razionale, Israele ha ripristinato la deterrenza che aveva perso il 7 ottobre. Eppure la nostra vitale deterrenza non sembra del tutto ripristinata. Non finché 50 ostaggi rimangono nelle mani di Hamas. Non finché Hamas detiene ancora il potere su Gaza. Non finché la popolazione israeliana continua a convivere con le conseguenze di un trauma che nessuna vittoria sul campo di battaglia può cancellare. Quindi, cosa viene dopo? Per gli israeliani, la priorità rimane chiara: bisogna riportare a casa gli ostaggi e porre fine a questa guerra a Gaza. Secondo i funzionari israeliani, la dirigenza di Hamas è ora in preda al panico, dopo il recente successo militare di Israele contro l’Iran, e la paura che un tempo instillava nella sua popolazione si sta incrinando. Il feroce gruppo terroristico ha governato Gaza per decenni rubando aiuti, accumulando risorse e rivendendole a prezzi da estorsione. Ma la creazione di un nuovo meccanismo di aiuti sostenuto dall’Occidente – la Gaza Humanitarian Foundation – ha finalmente iniziato a rompere quel sistema di controllo. Dalla fine di maggio 2025, la Gaza Humanitarian Foundation (violentemente osteggiata da Hamas e sciaguratamente boicottata dagli organismi internazionale ndr) ha consegnato quasi un milione di pasti al giorno direttamente alla popolazione di Gaza. L’efficacia dell’iniziativa è tale che l’amministrazione Trump ha promesso 30 milioni di dollari per sostenerla. Si immagini come sarebbe potuta essere Gaza se il Qatar, invece di dare a Hamas 30 milioni di dollari al mese, avesse finanziato iniziative come questa. Giornalisti israeliani riferiscono che ora clan palestinesi locali hanno persino iniziato a rivolgersi alle Forze di Difesa israeliane avanzato idee circa la governance in una Striscia di Gaza post-Hamas. Oltre a tutto questo, Israele sembra aver fatto significativi passi avanti nell’intelligence. Solo nelle ultime settimane sono stati recuperati i corpi di otto ostaggi, un altro colpo alla morsa di Hamas e un altro segnale che sta perdendo il controllo. Nel frattempo, l’amministrazione statunitense esprime ottimismo riguardo a un possibile cessate il fuoco e ad un accordo sulla consegna degli ostaggi nelle prossime settimane. Ma qui in Israele sappiamo che non è mai così semplice. Hamas non ha ancora accettato le basilari richieste israeliane: il pieno controllo del Corridoio Philadelphi (fra Gaza ed Egitto ndr) per impedire il traffico di armi, il disarmo di Hamas e l’esilio da Gaza della sua leadership. E’ tutt’altro che sicuro che tutto questo si realizzi. E tuttavia, la situazione attuale sembra indicare un punto di svolta in Medio Oriente. Un vero cambiamento è possibile. Paesi come l’Arabia Saudita (e forse persino Siria e Libano) potrebbero presto normalizzare i rapporti con Israele. Se lo facessero, potrebbero finalmente collaborare con gli Stati Uniti per combattere il terrorismo e portare tranquillità, stabilità e speranza nella regione. Possiamo immaginare un futuro in cui gli stati arabi stabili svolgano un ruolo concreto nel migliorare la vita dei palestinesi, non finanziando il terrorismo né voltandosi dall’altra parte, ma costruendo scuole, ospedali, case e posti di lavoro. Un futuro in cui i palestinesi non siano più pedine nella guerra di qualcun altro, ma esseri umani dotati di dignità, capacità e responsabilità decisionale, e pace. Questo futuro dipende dai nostri leader – in Occidente, in Israele e nel mondo arabo – che devono fare la scelta coraggiosa e audace di reprimere Hamas e costringerla al disarmo. Non c’è futuro per Gaza – né libertà, né pace – finché Hamas rimane al potere. Se il mondo vuole davvero aiutare la martoriata enclave costiera, allora deve finalmente affrontare la verità: la liberazione dei palestinesi inizia con la sconfitta di Hamas. Solo allora israeliani e palestinesi potranno iniziare a guarire dal trauma della guerra e muovere verso una pace condivisa e sostenibile. (Da: Jerusalem Post, 2.7.25)
(israelnet.it, 3 luglio 2025)
Donne in uniforme: i ruoli segreti e strategici dell’IDF
di Michelle Zarfati
Mentre l’opinione pubblica si concentra sui ruoli da combattimento più tradizionali, all’interno delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) esistono posizioni meno note ma di cruciale importanza, oggi sempre più spesso occupate da donne. Dalla guerra elettronica all’addestramento al combattimento ravvicinato, questi incarichi dimostrano come le soldatesse israeliane siano ormai parte integrante anche delle unità più specializzate dell’esercito. Uno di questi ruoli è quello dell’istruttrice di droni, diventata fondamentale nell’attuale conflitto a Gaza. Queste soldatesse non solo conoscono a fondo le tecnologie più avanzate, ma insegnano anche a impiegarle in missioni reali, tra cui la ricognizione, l’individuazione di minacce e il supporto tattico alle truppe sul campo.
Allo stesso modo, le istruttrici di Krav Maga, trasmettono competenze essenziali per la sopravvivenza e l’autodifesa. Insegnano tecniche di combattimento corpo a corpo, disarmo e reazione rapida in scenari estremi, come rapimenti o attacchi improvvisi. Il corso di formazione, pur breve, è intensivo e punta alla padronanza tecnica e mentale. In scenari di addestramento, un ruolo altrettanto strategico è quello dell’operatrice di Hummer da combattimento, incaricata di guidare mezzi blindati durante esercitazioni complesse. Queste simulazioni, spesso notturne e in ambienti urbani, sono essenziali per preparare le unità combattenti a operare in situazioni di crisi.
Nell’IDF si è scelto inoltre di schierare sempre più donne nell’ambito della guerra elettronica, una sfera invisibile ma decisiva del conflitto moderno. Queste operatrici gestiscono sofisticati sistemi di difesa e attacco informatico: disturbano comunicazioni nemiche, neutralizzano droni e proteggono infrastrutture digitali. Durante l’attacco missilistico iraniano dell’aprile 2024, il loro intervento si è rivelato cruciale. Un’altra figura chiave è quella delle simulatrici del “Red Team”, che ricreano fedelmente tattiche, abiti e metodi del nemico per migliorare l’addestramento delle forze israeliane. Dotate di grande creatività e intuizione tattica, queste soldatesse si immergono nel ruolo dell’avversario per testare le reali capacità delle unità sul campo. Anche nel settore navale, non mancano le opportunità: oggi le donne possono diventare ufficiali della Marina israeliana, guidando imbarcazioni armate, coordinando l’equipaggio e gestendo i sistemi di difesa in mare aperto. Il percorso per arrivarci è lungo e impegnativo, e comprende anche una laurea e il prestigioso brevetto di ufficiale. Infine, ci sono le istruttrici di paracadutismo, che non solo accompagnano le truppe nei lanci, ma gestiscono tutta la fase di preparazione, dalla sicurezza all’aspetto psicologico. Addestrate in salti automatici e lanci ad alta quota, contribuiscono a costruire sicurezza e disciplina tra i soldati destinati a missioni speciali. In un contesto militare che continua a evolversi, queste sette posizioni dimostrano come le donne non siano più solo parte dell’esercito, ma protagoniste delle sue trasformazioni più strategiche.
La distruzione, parziale o totale che sia, dell’infrastruttura nucleare iraniana da parte di Israele e degli Stati Uniti rappresenta un successo per quello che, un tempo, si sarebbe definito «mondo libero». Eppure, il successivo «cessate il fuoco» imposto dal Presidente Trump a Israele testimonia, per l’ennesima volta, l’incapacità dell’Occidente di comprendere la natura dell’Islam, sunnita e sciita, e in particolare la sua santificazione della violenza e del «martirio» in adempimento al comando di Allah sul dovere della guerra santa, il jihad. Uno dei più significativi esegeti islamici, lo studioso di fine XIV secolo Ibn Khaldun, nei suoi «Prolegomeni a una storia universale» (al-Muqaddimah), scrisse: «Nella comunità musulmana, la guerra santa è un dovere religioso, a causa dell’universalità della missione musulmana e dell’obbligo di convertire tutti all’Islam, sia con la persuasione che con la forza». È noto che gli islamici dividono il mondo in due categorie: la «Dimora dell’Islam» (dar al-Islam), ossia i territori sottoposti al dominio dell’Islam, e la «Dimora della Guerra» (dar al-harb), il territorio dei non musulmani, che devono essere combattuti e convertiti. Più o meno come Carl Schmitt, il giurista del Terzo Reich, divideva il mondo in «amici» e «nemici» (hostes), facendo dell’individuazione e dell’annientamento di quest’ultimi il fondamento dell’agire politico. Questa ambizione «universalista» del jihad, animò le conquiste e le occupazioni islamiche di territori che erano stati cristiani per millenni. Una volontà di dominio che rappresentò una minaccia per l’Occidente fino a quando l’espansione dell’Europa nei territori extraeuropei, compresi quelli musulmani, non iniziò ad accelerare nel XVIII secolo. Questo cambiamento, avvenuto nel corso di lunghi decenni, ha avuto un profondo impatto sull’Islam e ha suscitato richieste di riforma e un ardente desiderio di tornare ai «fondamenti» della fede (da qui il termine fondamentalismo). «Dall’inizio della penetrazione occidentale nel mondo non europeo – ha scritto lo storico Bernard Lewis – fino ai nostri giorni, le risposte politiche più caratteristiche, significative e originali a tale penetrazione sono state quelle islamiche. Esse si sono concentrate sui problemi della fede e della comunità sopraffatta dagli infedeli». La fede nel mandato divino dell’Islam di conquistare e «redimere» il mondo intero non è stata intaccata dai solventi secolari della modernità, come invece è accaduto al Cristianesimo. Il sogno di dominio mondiale è rimasto vivo nei cuori e nelle menti di molti musulmani. Nel 1924, l’egiziano Hasan al-Banna creò la Fratellanza Musulmana per riportare l’Islam alla sua purezza dottrinale, incentrata sul jihad, al fine di far rivivere l’impero islamico usurpato dagli infedeli occidentali. Hasan al-Banna riteneva che fosse nella natura dell’Islam dominare il creato e imporre le sue leggi a tutte le nazioni del pianeta. Il suo confratello musulmano Sayyid Qutb, «padrino intellettuale» di Osama bin-Laden e di al-Qaeda, sostenne la necessità di far rivivere la comunità musulmana (Umma), ritenuta «decadente» e sepolta sotto il peso di false leggi e false usanze lontane dagli «autentici» insegnamenti islamici. A queste ambizioni catartiche e apocalittiche – così simili a quelle che animavano gli ideologi dei totalitarismi europei (nazismo e comunismo) – non sono estranee nemmeno all’Islam sciita. La Rivoluzione Islamica iraniana e la sua Guida, l’ayatollah Khomeini, hanno rilanciato con successo il sogno di una rigenerazione dell’Islam attraverso una violenza «purificatrice» a danno degli infedeli e, soprattutto, degli ebrei e del loro Stato. La dottrina teologica del clero sciita, ritiene che il ritorno di Muhammad ibn Hossein al-Mahadi – più semplicemente noto come Mahdi, ovvero il «dodicesimo imam» (donde la definizione di Islam duodecimano), figura messianica dell’escatologia islamica destinata ad annunciare la «Fine dei Tempi» – dal suo «divino nascondimento» possa essere accelerata attraverso la guerra e la «conflagrazione mondiale», per usare le parole dell’ex presidente iraniano, Ahmadinejad. La distruzione dell’infrastruttura nucleare iraniana ha frustrato le attese messianiche degli sciiti e deluso tutti quei musulmani sunniti, come i membri di Hamas, che sognavano un «olocausto nucleare» attraverso l’atomica mahadista. Noi occidentali laici, che abbiamo relegato la fede a un fatto privato o a una bizzarra superstizione, spesso non riusciamo a comprendere o a prendere sul serio il ruolo smisurato che queste esaltate fantasie religiose hanno nella politica islamica. Questa mancanza di immaginazione, quando non vera e propria ignoranza, si è rivelata un errore strategico. Lo Stato di Israele, ritenuto erede di quegli ebrei che si opposero a Maometto, fin dalla sua erezione, è stato bersaglio di una violenza sancita e glorificata dalla religione. Israele rimarrà «una democrazia in guerra» finché i fondamentalisti non saranno sconfitti in modo definitivo. La cosiddetta «guerra dei dodici giorni» è stata necessaria per smantellare almeno parte del nucleare iraniano, tuttavia, come si è già detto, la riluttanza del Presidente statunitense a intervenire militarmente, così come la sua affannosa ricerca di un «accordo», hanno impedito a Israele di portare fino in fondo l’azione militare. Per quanto possano, strumentalmente, apprezzare gli appelli di Trump alla pace e alla riconciliazione, i mullah e gli altri ferventi jihadisti non li vedono come espressioni di magnanimità e rispetto per la vita, ma come sintomi della debolezza spirituale degli «infedeli». Ogni respiro concesso agli ayatollah sarà sfruttato e utilizzato per alimentare le loro ambizioni globali. Trump, proprio come i suoi predecessori, Obama e Biden, nonché l’intera leadership europea, è caduto vittima della retorica dell’«impegno diplomatico», una formula che ha assunto una valenza quasi magica, come se, pronunciando semplicemente queste parole, anche il più fanatico degli jihadisti decidesse di diventare ragionevole.
R. Hershel Schachter (Scranton, 1941-) in Insights and Attitudes (p. 206-7) scrive che per tanti anni il Salmo 23 (che comincia con le parole “Salmo di Davide. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce..”) era il più noto presso la popolazione cristiana negli Stati Uniti. Si può aggiungere che questo salmo è ancora il più popolare. Infatti durante il funerale del senatore ebreo Joe Lieberman, quando venne letto questo salmo in inglese, tutti i presenti, ebrei e non ebrei lo seppero recitare a memoria.
R. Schachter aggiunge che qualche ministro di culto protestante voleva vendere la religione alle masse con la motivazione che chi è religioso non avrà contraddizioni nelle vita. Invece, dice r. Schachter, che il suo maestro r. Joseph Beer Soloveitchik, (Belarus, 1903-1993, Boston) non era affatto d’accordo con questa idea.
Re Salomone in Kohèlet (Ecclesiaste, 7:23) affermò che credeva di poter capire tutto, ma dovette confessare che la mitzvà della vacca rossa, il primo argomento di questa parashà, era al di là della sua comprensione. Il motivo è la evidente contraddizione: lo scopo delle ceneri della vacca rossa è di purificare coloro che sono impuri per aver avuto contatti con una cadavere. Con tutto ciò chi usa le ceneri per purificare diventa impuro. La vacca rossa purifica gli impuri e rende impuri i puri!
La verità è che il mondo è pieno di contraddizioni. Quando recitiamo una berakhà(benedizione) iniziamo usando la seconda persona (“Benedetto tu o Signore”) e concludiamo in terza persona (“che fa uscire il pane dalla terra”). Talvolta sentiamo vicina a noi la presenza divina e altre volte, assai lontana. Entrambe le impressioni sono vere.
Un altro esempio è il Salmo 8 (4-5) nel quale re David descrive la dualità della natura umana:”Che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura? Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore agli angeli, e l’hai coronato di gloria e d’onore”. Nel primo versetto l’uomo viene descritto come essere insignificante; nel secondo ad un livello quasi come quello degli angeli!
Anche nella Halakhà vi sono contraddizioni. R. Avraham Borenstein, rebbe di Sochachow (Polonia, 1838-1910) nella sua opera Avnè Nèzer elenca delle contraddizioni halakhiche in almeno trenta dei suoi responsi.
Vivere seguendo e osservando le mitzvòt della Torà non risolve tutte le contraddizioni. È piuttosto vero che ci renderà coscienti di più contraddizioni. La vacca rossa non è il solo esempio di contraddizioni nella Halakhà. È una Chukkà, un decreto. L’intera creazione è tutto un decreto. Per fare un altro esempio, è impossibile spiegare i fenomeni del quantum con i principi tradizionali della fisica. Così scrisse il rav professor Aaron Schreiber in “Quantum Physics , Jewish Law, and Kabbalah”. Certe cose sono note solo all’Eterno e per gli uomini rimarranno oscure.
MENDY & TZVI BLAU di Colel Chabad si uniscono all'allora ministro del welfare Haim Katz alla Knesset per celebrare il lancio del Progetto Nazionale per la Sicurezza Alimentare di Israele, una partnership innovativa che garantisce a decine di migliaia di famiglie in tutto il paese un sostegno alimentare affidabile e nutriente ogni mese
Quando un'organizzazione di successo esiste da quasi 250 anni, aiutando chi è nel bisogno, è comprensibile che si sia riluttanti a cambiarne il nome. Dopo tutto, perché rovinare una cosa buona? È il caso di Colel Chabad, la più antica organizzazione benefica ancora in attività in Israele, fondata nel 1788 dal rabbino Shneur Zalman di Liadi, fondatore del movimento Chabad-Lubavitch. Zalman Duchman, amministratore delegato dell'organizzazione, afferma: “Non siamo un colel tipico, né una casa Chabad tipica. Il nostro marchio esiste da quasi 250 anni e continuerà ad esistere. Siamo un conglomerato di hessed [amorevole gentilezza] al servizio di ogni fascia demografica in Israele”. Colel Chabad è diventata una delle organizzazioni più importanti di Israele, offrendo una vasta gamma di programmi, che includono mense per i poveri, asili nido, centri di riabilitazione medica, cliniche di salute mentale e molto altro ancora. Il suo programma più importante è l'Iniziativa per la sicurezza alimentare, parte della Blavatnik Food Bank of Israel. Ha sviluppato una partnership con il governo israeliano che raggiunge 40.000 famiglie ogni mese, contribuendo a garantire la loro sicurezza alimentare. La sicurezza alimentare è definita come lo stato di avere accesso affidabile a una quantità sufficiente di cibo nutriente e a prezzi accessibili. Il padre di Zalman, il rabbino Sholom Duchman, direttore di Colel Chabad, è stato nominato dal Lubavitcher Rebbe a capo dell'organizzazione nel 1978. Egli spiega l'importanza della collaborazione con il governo. “Quando il Rebbe mi ha affidato personalmente la missione di espandere le attività di Colel Chabad e di prendermi cura dei più vulnerabili in Israele, era chiaro che il nostro mandato era quello di raggiungere tutti coloro che ne avevano bisogno, senza eccezioni. Allora capimmo, e continuiamo a credere oggi, che una partnership strategica con il governo israeliano è la strada più efficace per realizzare questa visione”.
Il RABBINO SHOLOM DUCHMAN, direttore di Colel Chabad, consegna un premio di riconoscimento al presidente Isaac Herzog e a Yael Eckstein, presidente dell'International Fellowship of Christians & Jews, in segno di apprezzamento per il loro sostegno all'iniziativa nazionale per la sicurezza alimentare di Israele. Con Mendy Blau, direttore di Colel Chabad, Israele.
Nei comuni di tutto Israele, da Rahat ad Ashkelon, da Beit Shemesh ad Acri, Colel Chabad è l'organizzazione ufficiale responsabile della supervisione del sostegno alla sicurezza alimentare per tutti i cittadini israeliani bisognosi. “Diamo da mangiare ai poveri, ebrei e non ebrei”, afferma Duchman. Aggiunge Moshe Lavon, vicedirettore generale del Ministero del Welfare e degli Affari Sociali: “Colel Chabad si occupa di tutto ciò che riguarda il cibo per le famiglie bisognose in qualsiasi momento e in qualsiasi momento per tutti i settori, senza distinzione di religione, razza e sesso”. Colel Chabad utilizza tre metodi per fornire cibo a chi ne ha bisogno. In primo luogo, i partecipanti al programma ricevono ogni mese una speciale carta di debito da 500 NIS, che può essere utilizzata nelle principali catene di supermercati per acquistare generi alimentari di prima necessità. In secondo luogo, grazie a una partnership con Leket, l'organizzazione nazionale israeliana che gestisce un banco alimentare, i partecipanti ricevono ogni mese consegne di frutta e verdura fresca. Infine, Colel Chabad fornisce latte in polvere alle madri lavoratrici bisognose in collaborazione con la Fondazione Ted Arison.
Un operatore di COLEL CHABAD conforta una sopravvissuta all'attacco missilistico iraniano su Bat Yam
Mendy Blau, che dirige le attività di Colel Chabad in Israele, spiega la natura unica del progetto di sicurezza alimentare dell'organizzazione. “La particolarità del nostro programma nazionale di sicurezza alimentare”, afferma, “è che si tratta del primo e unico programma governativo in questo settore. In Israele sono molte le organizzazioni caritative che si occupano di sicurezza alimentare, ma l'aiuto che possono fornire è relativamente limitato e solitamente viene erogato in periodi diversi dell'anno, come la Pasqua ebraica e il Rosh Hashanah”. Al contrario, osserva, il programma di Colel Chabad è attivo tutto l'anno. Sebbene il programma sia pienamente operativo da tre anni, dice Blau, Colel Chabad ha condotto test per 10 anni per garantirne il successo. Poiché Colel Chabad fa parte dell'iniziativa nazionale israeliana per la sicurezza alimentare, i suoi rappresentanti fanno parte del dipartimento di assistenza sociale di ogni comune in cui opera. I rappresentanti indagano sulle famiglie registrate presso il dipartimento di assistenza sociale della città per identificare quelle che hanno bisogno di assistenza alimentare. “Non ci occupiamo semplicemente delle famiglie povere”, dice Blau. “Lavoriamo con famiglie che soffrono di estrema insicurezza alimentare, persone che temono di non avere cibo a sufficienza per il giorno successivo”. SECONDO l'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale israeliano (Bituach Leumi), aggiunge, circa 265.000 famiglie in Israele soffrono di estrema insicurezza alimentare e saltano i pasti perché semplicemente non hanno cibo a sufficienza. “Individuiamo queste famiglie e le raggiungiamo con aiuti”, afferma. Attualmente, il programma raggiunge circa 40.000 famiglie e si prevede che ne raggiungerà 50.000 entro la fine dell'anno. Secondo il Quadro politico nazionale israeliano per la sicurezza alimentare, le abitudini alimentari delle persone che vivono in condizioni di insicurezza alimentare e nutrizionale sono caratterizzate da un elevato consumo di alimenti malsani e trasformati e da un basso consumo di alimenti sani. La loro combinazione con il rischio di problemi di salute come diabete, obesità, malattie cardiache e respiratorie ne aumenta l'importanza. Blau spiega che l'assegno mensile di 20 kg di alimenti e verdure che le famiglie ricevono è destinato a prevenire l'insorgenza di questo tipo di malattie. L'iniziativa per la sicurezza alimentare di Colel Chabad non si limita a soddisfare i bisogni fisici dei partecipanti. L'organizzazione offre alle famiglie che partecipano al programma seminari sulla gestione delle finanze, sulla promozione di una corretta alimentazione e sull'educazione ai loro diritti in relazione alla loro situazione finanziaria. Le famiglie che aderiscono al programma di sicurezza alimentare di Colel Chabad possono partecipare per un periodo di due anni. Oltre all'importanza di fornire cibo alle famiglie bisognose, il programma, attraverso varie iniziative delle agenzie di assistenza sociale israeliane, offre formazione professionale e programmi pomeridiali per i bambini a sostegno delle famiglie che lavorano. Una percentuale significativa del sostegno al progetto di sicurezza alimentare di Colel Chabad – il 65% – proviene dal governo israeliano, mentre il 10% proviene dai comuni israeliani. Colel Chabad e l'International Fellowship of Christians and Jews forniscono il restante 25% dei finanziamenti. Blau afferma che molte famiglie che hanno partecipato al programma di sicurezza alimentare sono riuscite a tirarsi fuori da situazioni difficili insieme ai propri figli. Cita il caso di una madre single di Lod che cresceva due gemelli in una situazione di estrema insicurezza alimentare. Grazie alla partecipazione della famiglia al programma e all'assistenza ricevuta, i ragazzi hanno conseguito il diploma di scuola superiore con ottimi voti e hanno prestato servizio nell'IDF con distinzione, uno dei due entrando a far parte dell'élite del corpo di intelligence 8200. “Nessuna di queste cose sarebbe stata possibile per una famiglia in queste circostanze [senza il nostro aiuto]”, afferma. Un secondo caso ha riguardato una donna il cui marito aveva abusato di lei ed era in carcere. La moglie viveva in una casa per donne maltrattate con suo figlio. Colel Chabad l'ha aiutata a iscrivere il bambino a un asilo nido pomeridiano, permettendole di lavorare come cassiera in un supermercato. La donna ora vive in un appartamento con suo figlio. Se la famiglia non fosse stata inserita nel programma di sicurezza alimentare del Colel Chabad, dice Blau, è probabile che la madre sarebbe finita in circostanze poco favorevoli. “Una volta che le persone vogliono prendere in mano la propria vita, possono risolvere i propri problemi e uscire dalla situazione in cui si trovano”, afferma. Un terzo caso in cui il programma si è rivelato fondamentale ha coinvolto una famiglia etiope che viveva a Netanya. Il marito aveva problemi di salute mentale ed era costretto a casa, e il loro figlio era disabile. La famiglia trascorreva la maggior parte del tempo a casa. Grazie alla sua partecipazione al programma, la moglie ha trovato un lavoro fuori casa e ha potuto organizzare l'assistenza per il figlio fuori casa e per il marito a casa. Blau afferma che il programma alimentare, con le numerose iniziative offerte dal Ministero del Welfare, è molto apprezzato da molte famiglie. “Oggi, quando il ministro del Welfare visita i comuni, gli viene chiesto di aumentare il numero di partecipanti al programma perché è molto richiesto”, dice. “Siamo ancora lontani dal poter fornire soluzioni a tutte le famiglie bisognose, ma è un miglioramento significativo rispetto a prima”. MOSHE LAVON, del Ministero del Welfare e degli Affari Sociali, afferma che Colel Chabad svolge un ruolo fondamentale nell'aiutare le famiglie a superare le situazioni di insicurezza alimentare. “Ha dato prova di sé e ha aiutato molte famiglie a uscire dal ciclo della povertà sia attraverso la carta di debito alimentare, che consente loro di conoscere i propri diritti, sia attraverso seminari che aiutano a uscire dal ciclo della povertà”. Blau afferma che Colel Chabad sta sviluppando ulteriori progetti per assistere chi è nel bisogno. Sebbene il programma principale di sicurezza alimentare dell'organizzazione sia rivolto alle famiglie con bambini, presto inizierà un progetto pilota in collaborazione con l'International Fellowship of Christians and Jews e il Ministero del Welfare e degli Affari Sociali per assistere circa 50.000 anziani che affrontano problemi di insicurezza alimentare. Oltre a fornire cibo, le organizzazioni metteranno a disposizione volontari che visiteranno gli anziani e controlleranno il loro benessere. “Dobbiamo essere in grado di aiutare più famiglie”, afferma Blau, “e i 500 NIS che forniamo ogni mese non sono sufficienti. Abbiamo creato la cornice del quadro e abbiamo il governo dalla nostra parte. Dobbiamo solo riempire l'immagine”. Per Blau, che collabora con Colel Chabad in Israele da 34 anni, il messaggio centrale del programma di sicurezza alimentare è il fatto che è realizzato in collaborazione con il governo israeliano. “Lavorare insieme al governo dà potere e forza al programma. Una volta che il programma ha questa forza, possiamo raggiungere persone che altrimenti non avrebbero accesso alle singole organizzazioni. Inoltre, dobbiamo coinvolgere lo Stato in questo importante lavoro. Il Paese deve rendersi conto che è una sua responsabilità”. Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Colel Chabad.
(The Jerusalem Post, 29 giugno 2025)
Dopo 477 giorni di prigionia a Gaza, Liri Albag, ex osservatrice dell’IDF, si prepara a tornare alla vita quotidiana. Rapita il 7 ottobre dal Kibbutz Nahal Oz, all’inizio del suo servizio militare, è stata liberata a gennaio insieme ad altre tre osservatrici: Naama, Daniela e Karina. Oggi Liri intraprende un nuovo percorso, difficile ma consapevole, tornando nell’esercito israeliano. Tuttavia, non riprenderà il suo vecchio ruolo: stavolta, come ha raccontato suo padre Eli Albag in un’intervista a Channel 12 News, assumerà un incarico di maggiore responsabilità.
“Vuole essere parte di qualcosa che abbia davvero un senso, e lo farà” ha detto Eli. Dopo la liberazione, Liri ha affrontato un intenso percorso di riabilitazione, tra cure, viaggi e momenti di esplorazione personale. “Ha intrapreso un cammino di recupero, ha viaggiato all’estero per aprire di nuovo gli occhi sul mondo, ha visitato ogni angolo d’Israele, si è concessa qualche momento di relax” ha spiegato il padre, lasciando intendere quanto fosse fondamentale per lei ritrovare un equilibrio con la normalità, oltre che con sé stessa.
Nonostante l’esperienza traumatica, Liri ha dimostrato una forza interiore che ha stupito persino la sua famiglia. “Mi sono reso conto che è molto più forte di quanto pensassi, è riuscita persino a sorprendermi” ha raccontato Eli, visibilmente orgoglioso. La giovane condivide la sua triste esperienza solo quando si sente pronta: “Non la spingiamo a parlare, è lei a decidere quando e come aprirsi con noi”. La decisione di tornare nell’esercito è stata accolta con pieno sostegno dalla famiglia. “Liri è molto matura e sa esattamente cosa vuole. Abbiamo appoggiato con convinzione la sua scelta”, ha aggiunto Eli.
Il ritorno di Liri dalla prigionia è stato accompagnato dalla visibilità mediatica e da non poche polemiche. Alcune critiche online rivolte a Liri hanno indignato il padre: “Solo quando sarà tuo figlio ad essere rapito potrai capire cosa abbiamo vissuto… sono un branco di ignoranti che non ha idea di cosa significhi essere la famiglia di un ostaggio”.
Sul piano politico, Eli ha espresso sostegno al Primo Ministro Netanyahu, pur riconoscendo la legittimità del dibattito pubblico: “Criticare il Primo ministro è lecito, ma lo è anche riconoscerne i meriti”. Tuttavia, ha sottolineato che c’è una sola vera priorità in questo momento: “La cosa più importante adesso è riportare tutti gli ostaggi a casa”.
La famiglia Albag non ha mai smesso di battersi per la liberazione di Liri e, oggi, continua a farsi portavoce di chi ancora aspetta. In Israele, storie come quella di Liri non sono rare: ogni ferita porta con sé il peso del dolore, ma anche la volontà di andare avanti. La sofferenza non viene nascosta, ma affrontata giorno dopo giorno, nella speranza di trovare il coraggio di ripartire senza lasciare che la paura guidi il futuro.
Nata a Parigi, ebrea e apparsa improvvisamente a Londra. Appassionata di storia e letteratura araba e persiana. Sapeva tutto dei sunniti e degli sciiti. Conosceva le preghiere e i versi di Khomeini. È andata a vivere a Teheran, con tanto di chador e conoscendo a memoria il Corano. L’establishment iraniano l’ha accolta a braccia aperte. Lei faceva la giornalista e scriveva per due testate del regime. Ma Catherine, in realtà, era un agente del Mossad: ha tracciato mappe, svelato nomi, luoghi ed orari. Ha fornito informazioni fondamentali a Israele. Ha permesso operazioni fondamentali come Shabgard (Nightwalker). Questa la sua storia raccontata da Gabriele Paglialonga e pubblicata sulla pagina Facebook ‘Noi che amiamo Israele‘.
• Chi è Catherine, l’agente del Mossad che ha colpito in Iran Una donna che ha distrutto un regime senza sparare un solo proiettile – Solo con la fede. È nata a Parigi. Ebrea. Laica. Libera. Ma il suo sangue portava con sé i venti dello Yemen, il battito dell’esilio, la poesia del silenzio del deserto. Ha studiato il Medio Oriente come un amante legge una lettera – Sunniti e sciiti. Arabi e persiani. Rivoluzione e marciume. Poi – è scomparsa. È riapparsa a Londra. Come una devota musulmana sciita. Chador. Persiano. Hadith. Citava Khomeini come fossero sacre scritture. Si è inchinata verso Qom. Ha pianto con i fedeli khomeinisti. E Teheran le ha aperto le braccia.
• Da Londra a Teheran, poi la misteriosa scomparsa dopo gli attacchi Ma lei era un pugnale. Affilato a Tel Aviv. Avvelenato dalla prosa. Scriveva per Press TV. Per il Teheran Times. I suoi articoli venivano pubblicati sul sito ufficiale della Guida Suprema Khamenei. La sua penna non elogiava: Tracciava mappe. Ogni paragrafo, un codice. Ogni metafora, un aggancio missilistico. La chiamavano Catherine. Sorseggiava té alla menta con le mogli delle Guardie della Rivoluzione islamica (IRGC). Pregava accanto alle figlie degli scienziati. Sussurrava con velata dolcezza: “Dorme bene dopo un tale fardello?“; “Ha mai avuto paura quando viaggiava?“. E loro rispondevano. Con orari. Con nomi. Con segreti. Ogni sospiro che sentiva diventava un funerale. Operazione Shabgard (Nightwalker), 13-14 giugno 2025. L’Iran bruciava: • 8 comandanti dell’IRGC inceneriti nei loro letti. • 7 scienziati nucleari – mai arrivati al lavoro. • 3 fantasmi della Forza Quds – spazzati via dalla terra. Nessun drone. Nessuna cimice nei vicoli. Solo le sue parole. I suoi sussurri. Il suo silenzio. La sua poesia. Quando i missili caddero, lei scomparve. Qom. Isfahan. Karaj. Tracciarono ogni tappeto da preghiera su cui si inginocchiava. Ma lei era sparita. Una squadra del Mossad la sollevò dal letto di un fiume secco sui Monti Zagros. Nessuna impronta. Nessuna chiamata. Solo fumo. Oggi è un fantasma. Il suo blog? Cancellato. Il suo account Twitter? Sparito. Nessuna foto. Nessuna pista. Nessuna traccia. Ma a Teheran, maledicono il suo nome. E a Tel Aviv, lo sussurrano come un mito: “La donna che incendiò Qom senza un fiammifero“. “La scrittrice dei minareti”. “La penna che trafisse la Repubblica“. Non ha combattuto con i pugni, ma con la fede. Non con la violenza, ma con l’intimità. Non ha ucciso nessuno. Eppure migliaia di persone non si sono mai più risvegliate dal sonno. Non è un personaggio. È un promemoria. Che nell’era dei droni e dei dati…Una donna con una penna e una preghiera può ancora riscrivere la storia.
Verso una tregua a Gaza? Segnali di apertura tra Hamas, Israele e Stati Uniti
di Anna Balestrieri
Secondo il quotidiano saudita Asharq, Hamas si dichiara soddisfatto delle garanzie contenute nella proposta di cessate il fuoco recentemente ricevuta. Una fonte informata ha riferito che la proposta prevede l’impegno, da parte dei mediatori, affinché nessuna delle due parti riprenda le ostilità durante il proseguimento delle trattative. Inoltre, si attende che il presidente americano Donald Trump annunci ufficialmente l’accordo una volta ottenuto il consenso di entrambe le parti, assumendone anche il ruolo di garante. Tuttavia, secondo un’altra fonte vicina ad Hamas, la nuova proposta non presenta sostanziali novità rispetto a quella precedente redatta dal mediatore statunitense Steve Witkoff, ma solo modifiche marginali. Hamas dovrebbe fornire la propria risposta entro venerdì.
• Punti chiave della proposta: ritiro e aiuti umanitari Il giornale libanese Al-Akhbar descrive la proposta attuale come centrata su tre elementi principali:
Ritiro dell’IDF alle posizioni precedenti al 2 marzo, prima della rottura dell’ultimo cessate il fuoco. In quel momento, l’esercito israeliano non si era ancora completamente ritirato da Gaza e manteneva il controllo del corridoio di Filadelfia.
Ripristino del meccanismo ONU per gli aiuti umanitari, volto a garantire una distribuzione senza interruzioni. Non viene menzionata esplicitamente la Gaza Humanitarian Foundation, sostenuta da USA e Israele, ma il sistema delle Nazioni Unite verrebbe adottato in modo esclusivo.
Impegno a proseguire i negoziati anche nel caso in cui non si arrivi subito a un’intesa complessiva sulla fine della guerra.
• Israele spinge per l’accordo prima della visita di Netanyahu a Washington Israele è impegnato in un’accelerazione diplomatica per raggiungere un’intesa sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi prima del viaggio del premier Netanyahu a Washington, previsto per la prossima settimana. Per la prima volta, secondo fonti israeliane, Tel Aviv sarebbe pronta a discutere un cessate il fuoco complessivo e un accordo per la liberazione di tutti i 50 ostaggi rimasti nelle mani di Hamas. Qualora Hamas accetti il quadro proposto nelle prossime 24 ore, si dovrebbero comunque avviare negoziati a Doha o Il Cairo su temi come:
lo scambio di prigionieri;
il ritiro graduale dell’IDF da Gaza;
e l’ingresso di aiuti umanitari.
Queste trattative, secondo le previsioni, richiederebbero almeno una settimana. Secondo il New York Times, l’accordo sugli ostaggi attualmente in fase di definizione prevede il rilascio di dieci ostaggi vivi e di 18 corpi in cambio della liberazione di terroristi palestinesi. A differenza della proposta americana di maggio, che prevedeva il rilascio di tutti i prigionieri entro il settimo giorno, questo accordo si articolerà in cinque fasi distribuite in 60 giorni. Questa volta, Hamas rinuncerà alle “cerimonie di consegna” filmate che hanno caratterizzato gli scambi precedenti. Tre fonti israeliane senza nome hanno dichiarato al quotidiano americano che “questo sforzo mira a offrire ad Hamas garanzie più solide di un cessate il fuoco temporaneo e potrebbe aprire la strada a una cessazione permanente delle ostilità”. L’accordo seguirà un calendario dettagliato: otto prigionieri vivi saranno rilasciati il primo giorno, seguiti da cinque salme il settimo giorno. Trenta giorni dopo l’inizio, saranno consegnati altri cinque corpi, seguiti da due prigionieri vivi il cinquantesimo giorno e infine da altri otto corpi il sessantesimo giorno. Gli aiuti umanitari inizieranno subito dopo l’approvazione di Hamas, in quantità sufficiente con la partecipazione dell’ONU e della Mezzaluna Rossa. Il ritiro israeliano inizierà il primo giorno nel nord di Gaza, poi il settimo giorno nel sud, secondo le mappe concordate tra le parti.
• Pressioni internazionali e sanzioni mirate Nel frattempo, Israele starebbe spingendo gli Stati Uniti a fare pressione sul Qatar, affinché minacci di espellere i leader di Hamas in caso di mancati progressi. Il tema dei leader del movimento che vivono all’estero con trattamento privilegiato è tornato al centro del dibattito. Secondo Channel 12, sanzioni mirate contro figure chiave, ospitate in paesi come Qatar e Turchia, potrebbero spingere Hamas ad accettare un compromesso. «I leader di Hamas si muovono liberamente nel mondo e non sentono alcuna pressione — per questo non hanno fretta di firmare un accordo», ha dichiarato una fonte della sicurezza israeliana coinvolta nei negoziati.
• Tra apertura e scetticismo Hamas ha recentemente dichiarato di essere aperta a un cessate il fuoco, ma non ha accettato la proposta sostenuta da Trump, che prevede 60 giorni di tregua durante i quali si lavorerebbe a una fine definitiva del conflitto. Il nodo centrale resta quello del diritto di Israele a riprendere le ostilità, un punto su cui Gerusalemme insiste e che Hamas rifiuta, chiedendo un cessate il fuoco permanente. Secondo Kan, Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz avrebbero espresso appoggio alla proposta in incontri a porte chiuse, anche se finora non è arrivata alcuna conferma ufficiale da parte del governo.
• Nuove perdite per l’esercito israeliano a Gaza Il sergente Yaniv Michalovitch, 19 anni, è stato ucciso mercoledì nel quartiere Shujaiyeh di Gaza City, colpito da un missile anticarro. Originario di Rehovot, serviva come carrista nell’Armored Corps dell’IDF. Altri quattro soldati sono rimasti feriti in due distinti episodi: tre nello stesso attacco al carro armato di Michalovitch e uno, appartenente all’unità di ricognizione Egoz, colpito da un cecchino. Domenica scorsa, un altro soldato, il sergente Yisrael Natan Rosenfeld, 20 anni, è morto nel nord della Striscia per l’esplosione di un ordigno. Nato nel Regno Unito, viveva a Ra’anana da 11 anni ed era in servizio nel Battaglione del Genio da combattimento. Giugno si è rivelato il mese più letale per l’IDF a Gaza da inizio guerra: 20 militari caduti, su un totale di 881 vittime militari dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Mentre si moltiplicano i segnali di una possibile svolta diplomatica, il contesto rimane fragile. Il viaggio di Netanyahu negli Stati Uniti potrebbe trasformarsi nel teatro dell’annuncio di un accordo, oppure rivelare ancora una volta l’impasse di un conflitto che da mesi attende una soluzione sostenibile.
(Bet Magazine Mosaico, 3 luglio 2025) ____________________
Dunque l'accordo previsto sarebbe questo:
1° giorno 8 vivi
7° giorno 5 morti
30° giorno 2 vivi + 5 morti
50° giorno 2 vivi
60° giorno 8 morti
TOTALE:
10 vivi + 18 morti
Non è detto quanti ne restano in deposito a Hamas
Certo, dopo 60 giorni i vivi diminuiranno, ma basterà alzare il prezzo.
Ripugnante. M.C.
Ostaggi violentati, corpi profanati: l’ONU documentò l’orrore del 7 ottobre
L’ONU documentò stupri e torture durante l’attacco del 7 ottobre: “Un pattern da crimini contro l’umanità”.
di Luigi Giliberti
• Marzo 2024 Fu un documento pesante come piombo, ma scritto con precisione chirurgica. Il 4 marzo del 2024, l’Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti (SRSG-SVC), guidato da Pramila Patten, pubblicò il primo rapporto ufficiale delle Nazioni Unite sui fatti avvenuti durante l’attacco del 7 ottobre contro Israele. La conclusione, prudente ma inequivocabile, recitava: “Esistono motivi ragionevoli per credere che si siano verificati stupri, stupri di gruppo e altre forme di violenza sessuale sia durante l’attacco sia successivamente, su ostaggi detenuti a Gaza”.
• Una missione di verifica indipendente La missione si svolse tra il 29 gennaio e il 14 febbraio 2024 su invito del governo israeliano. Il team dell’ONU, guidato da Pramila Patten – che ricopriva il ruolo di Inviata Speciale del Segretario Generale per la violenza sessuale nei conflitti dal 2017 – visionò oltre 50 ore di filmati, analizzò centinaia di fotografie e raccolse testimonianze da medici, paramedici, soccorritori, investigatori forensi e membri delle forze dell’ordine israeliane. Pur senza incontrare direttamente le vittime sopravvissute – per ragioni di riservatezza, sicurezza o trauma – il team ONU definì le prove raccolte come “chiare e convincenti”.
• I luoghi delle violenze documentate Furono tre le località in cui vennero riscontrati episodi documentati di violenza sessuale:
Il Nova Music Festival a Re’im
La Strada 232, percorsa dai terroristi durante l’infiltrazione
Il kibbutz di Re’im
In questi siti furono rilevati indizi di stupri, violenze di gruppo, nudità forzata, mutilazioni genitali post-mortem e profanazioni sessualizzate dei corpi. «In almeno tre località, ci sono motivi ragionevoli per ritenere che siano avvenuti atti di violenza sessuale, inclusi stupri e stupri collettivi», si leggeva nel rapporto ufficiale ONU pubblicato sul sito un.org
• Gli ostaggi: un orrore che proseguì Il documento riportava anche “informazioni credibili e consistenti” su abusi sessuali inflitti agli ostaggi israeliani, incluse donne e bambini, rapiti e trasferiti a Gaza. Secondo Patten, alcuni casi suggerivano che gli abusi sessuali fossero proseguiti anche nei mesi successivi all’attacco, configurando una forma di “violenza sessuale prolungata” e possibile uso della tortura a scopo umiliante.
• Mutilazioni e prove circostanziali Gli investigatori raccolsero materiale fotografico e video che ritraeva corpi femminili nudi, legati, mutilati. Alcuni presentavano segni compatibili con penetrazione forzata da oggetti contundenti, anche post mortem. In più casi, i soccorritori dell’organizzazione ZAKA e i medici legali israeliani riferirono di “desecration sessualizzata”. Il team ONU, pur mantenendo uno standard di oggettività, ritenne che la quantità e la coerenza delle testimonianze fossero sufficienti per formulare una valutazione basata su motivi ragionevoli – la soglia minima richiesta per una missione di verifica ONU.
• Le limitazioni dell’indagine Il rapporto precisò che non tutte le accuse furono confermate e che alcune testimonianze si basavano su elementi circostanziali. Tuttavia, Patten sottolineò che l’assenza di sopravvissuti disposti a parlare non negava la realtà dei crimini, poiché molte vittime erano decedute, traumatizzate o ancora in ostaggio. Il team lamentò anche la mancanza di accesso forense completo ai luoghi degli attacchi, spesso già bonificati o contaminati prima dell’arrivo degli investigatori. • Una responsabilità storica Fu il primo rapporto delle Nazioni Unite a riconoscere ufficialmente l’esistenza di un pattern di violenza sessuale da parte di miliziani palestinesi durante l’attacco del 7 ottobre. «La violenza sessuale non è avvenuta in modo accidentale. Il modo in cui i corpi sono stati lasciati, il modo in cui le vittime sono state trattate, l’assenza di pudore, indicano un’intenzionalità chiara», dichiarò Patten in conferenza stampa.
• Reazioni e sviluppi Il rapporto ricevette il plauso del governo israeliano, che da mesi denunciava l’uso del silenzio internazionale come forma di complicità. L’ambasciatore israeliano all’ONU, Gilad Erdan, lo definì “un passo cruciale per combattere la negazione sistemica” dei crimini di Hamas. Nel frattempo, l’Unione Europea inserì Hamas e la Jihad Islamica Palestinese in una nuova lista di soggetti sanzionati, citando esplicitamente il dossier Patten tra le motivazioni.
• Una verità scomoda per molti Nonostante le evidenze raccolte, molte voci nel mondo accademico e mediatico occidentale reagirono con ambiguità o scetticismo, invocando “ulteriori verifiche” o ridimensionando la gravità delle accuse. Eppure, il documento dell’ONU parlò chiaro. E se il termine “pogrom” aveva ancora un significato nel XXI secolo, quello che avvenne il 7 ottobre nei campi, nei kibbutz e sulle strade del sud di Israele lo incarnava in pieno.
Hamas e la distribuzione degli aiuti: confermate le violenze sui civili
di Luca Spizzichino
Hamas starebbe sabotando attivamente la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, ricorrendo alla violenza e alla propaganda contro i civili palestinesi e gli operatori umanitari. È quanto emerge da registrazioni audio diffuse dal COGAT (Coordinatore delle Attività Governative nei Territori), che documentano le testimonianze di residenti gazawi presenti nei centri di distribuzione. Le accuse sono gravi: atti di terrorismo, disinformazione e attacchi armati.
Secondo le testimonianze, Hamas non solo aprirebbe il fuoco contro i civili nei pressi dei centri di distribuzione, ma diffonderebbe anche false notizie, attribuendo gli attacchi all’IDF (Forze di Difesa Israeliane), accompagnandoli con video manipolati e dati falsi sulle vittime. «È Hamas che spara alla gente. Vogliono far credere che sia l’esercito israeliano, ma sono loro», ha dichiarato un testimone. Un altro ha parlato di «banditi che sparano e rubano gli aiuti alla popolazione». Le accuse trovano conferma anche da parte della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), l’organizzazione sostenuta dagli Stati Uniti e attiva nella distribuzione degli aiuti nel territorio. Lunedì, la GHF ha reso noto che Hamas avrebbe offerto taglie in denaro per chiunque ferisca o uccida membri del suo staff, sia americani che palestinesi. Dodici operatori locali sono già stati uccisi, altri sarebbero stati torturati. «Abbiamo ricevuto informazioni credibili secondo cui Hamas ha messo una taglia sui nostri operatori. Le nostre squadre sono state attaccate, e alcuni colleghi potrebbero essere stati rapiti», si legge in un comunicato ufficiale dell’organizzazione. Uno degli episodi più gravi si è verificato sei giorni fa, quando un autobus della GHF con oltre 20 operatori umanitari a bordo è stato assalito da uomini armati di Hamas nella zona di Khan Yunis: cinque dipendenti palestinesi sono stati uccisi e molti altri feriti.
Alla luce di queste rivelazioni, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant hanno ordinato all’IDF di presentare entro 48 ore un piano operativo per impedire che Hamas continui a sottrarre gli aiuti umanitari destinati alla popolazione del nord della Striscia di Gaza.
Le testimonianze dirette dei gazawi, i dati forniti dalla GHF e le intercettazioni dell’intelligence israeliana delineano una strategia sistematica: Hamas non solo ostacola la consegna degli aiuti, ma strumentalizza la sofferenza della popolazione per fini propagandistici, agendo contro gli stessi civili che afferma di voler proteggere.
Da circa sessant’anni s’è diffusa la convinzione che lo Stato di Israele costituisca l’espressione della più bieca prevaricazione dell’Occidente sul Medioriente: lo Stato occupante e colonizzatore di terre non sue. Tale convinzione, profusa a piene mani dall’URSS (che fu la prima a riconoscere de jure lo Stato di Israele tre giorni dopo la sua costituzione) e poi da tutta la sinistra militante, costituisce il principio per il quale lo Stato di Israele deve sparire e la Palestina tornare libera “dal fiume al mare” o viceversa. Tale convinzione ha attecchito come un’edera che scala i muri delle ideologie antioccidentali fino al punto in cui anche il Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, ebbe a dire che gli attacchi di Hamas del 23 ottobre 2023 non vengono dal nulla, quindi: se non giustificabili, almeno comprensibili. Secondo questo cliché anche l’annientamento nucleare di Israele da parte dell’Iran diverrebbe, almeno, comprensibile. Tutto questo è falso perché smentito severamente dalla storia, dunque, non si tratta di uno scontro di vedute o di opinioni schierate politicamente ma si tratta proprio di storia, quella con la “S” maiuscola. Qui è in gioco l’elemento principe atto al conferimento del titolo di verità o realtà fattuale rispetto alla trattazione di un caso, sia questo familiare o mondiale: il fondamento storico. Esso può essere di varia natura, ad esempio può essere di pietra. Quella che oggi è conosciuta come la Spianata delle moschee, con la Moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia risalenti al 705 e al 691, è, in realtà, il sito del primo e del secondo Tempio ebraico: il Beit ha-Miqdash, l’importantissimo luogo della memoria degli ebrei, dove sorge il Muro del pianto. I due templi risalgono all’833 a.C. e al 515 a.C. Ci troviamo vicini alla collina di Sion, conquistata da Re David nel 1010 a.C. quando fece di Gerusalemme la sua capitale, quasi 2000 anni prima della nascita dell’Islam. Sempre nella zona troviamo la valle di Kidron, che nelle Scritture ebraiche e nei Vangeli è chiamata la valle dei Re e/o valle di Giosafat. Proprio qui Gesù dodicenne giunse con Maria e Giuseppe nel suo pellegrinaggio della Pasqua ebraica e qui predicò nel tempio. Tuttavia, l’UNESCO ha deciso di ritenere la zona una pura eredità islamica e così la storica denominazione di “Monte del Tempio” è divenuta “Spianata delle moschee”. Tale inesattezza o falsificazione da parte dell’UNESCO dovrebbe essere evidenziata anche a fronte di un importante documento storico di cui sotto.
• Lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon a Hijaz Al-Husain ibn Ali Himmat. Il Regno Unito, Nazione mandataria per la Palestina, secondo la vulgata corrente, avrebbe conferito agli ebrei un ingiusto privilegio: la realizzazione di un focolare in Palestina dopo aver promesso la stessa terra agli arabi. Tale spregio sarebbe, dunque, avvenuto dopo che gli inglesi avevano illuso il mondo arabo, sotto l’egida dell’impero Turco-Ottomano che, una volta finita la guerra (I° guerra mondiale), avrebbe concesso loro la disponibilità di ampie estensioni territoriali sì da formare la grande Nazione Araba. Normalmente si fa riferimento alla lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon (Alto Commissario britannico) al governatore della regione di Hijaz Al-Husayn ibn Ali Himmat. Tale documento viene nominato anche su tiktok come prova della disonestà inglese ma senza mai dire che nel testo della missiva non si dice affatto che la Palestina sarebbe stata concessa agli arabi secondo gli accordi presi. Essa non viene nominata ma si dice che le zone non ritenute puramente arabe (si citavano le zone ad ovest di Damasco) non avrebbero fatto parte degli accordi. La Palestina rientrava fra queste. Nella lettera si parlava dei distretti di Mersin e di Alessandretta, e zone della Siria che si espandono a ovest del distretto di Damasco, Homs, Hama e Aleppo…, ma non si nominava mai il sangiaccato[1] di Gerusalemme, che era la divisione amministrativa ottomana che copriva la maggior parte della Palestina. Tale sangiaccato comprendeva cinque cazà: Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba. Nel Libro bianco del 1939 (Churchill White Paper) stabilì che la frase in cui si parlava dei “distretti a ovest di Damasco” doveva intendersi come inclusiva del Sangiaccato di Gerusalemme e del vilayet di Beirut (cioè la Palestina). A proposito del Monte del Tempio si ribadisce il concetto di zone non puramente arabe. Nonostante le due diaspore, l’ultima nel 70 d.C. gli ebrei non hanno mai abbandonato completamente le loro terre ma, in quantità più o meno cospicue sono sempre rimasti là dove avevano le loro radici. Gli ebrei non sono giunti nell’inesistente Stato palestinese perché lo ha voluto il Regno Unito, essi non sono i colonizzatori di terre altrui ma sono coloro che, in parte, ritornano nell’antica casa della terra di Israele. Gli ebrei in quei luoghi non sono immigrati ma rimpatriati. Il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito (attraverso la lettera Balfour, la conferenza di Parigi e la Conferenza di Sanremo) non fu quello di inventarsi lo Stato di Israele ma quello di fare sì che la comunità ebraica, già esistente in Palestina e già con le caratteristiche proprie di uno Stato, potesse svilupparsi compiutamente in tale senso. Di seguito quanto scritto in un brano del Libro Bianco inglese del 1922:
«Durante le ultime due o tre generazioni gli Ebrei hanno ricreato in Palestina una comunità, ora di 80 000 persone, di cui circa un quarto sono agricoltori e lavoratori della terra. La comunità ha i suoi organi politici […] I suoi affari sono effettuati usando la lingua ebraica e la stampa ebraica soddisfa le sue necessità. [La comunità ] ha la sua vita intellettuale e mostra una considerevole attività economica. La comunità quindi, con la sua popolazione urbana e rurale, con la sua organizzazione politica, religiosa, sociale, la sua lingua e i suoi costumi, e la sua vita, ha di fatto caratteristiche “nazionali”. Quando viene chiesto cosa significa lo sviluppo di un focolare nazionale ebraico in Palestina, la risposta è che non si tratta dell’imposizione della nazionalità ebraica sugli abitanti palestinesi in toto, ma l’ulteriore sviluppo della comunità ebraica esistente, con l’assistenza degli Ebrei del resto del mondo, in modo che questa possa diventare un centro di cui il popolo ebraico intero possa avere, per motivi di religione e razza, un interesse e un vanto. Ma, per poter far sì che questa comunità abbia le migliori prospettive di libero sviluppo e possa offrire la piena possibilità al popolo ebraico di mostrare le proprie capacità, è essenziale che sia riconosciuto che questo è in Palestina di diritto e non perché tollerato. Questa è la ragione per cui è necessario che sia garantita internazionalmentel’esistenza di un focolare nazionale ebraico in Palestina e riconosciuta formalmente la sua esistenza in base agli antichi legami storici.»
Nel 1922 la Società delle Nazioni emette il mandato britannico per la Palestina e nel preambolo del mandato si afferma:
«Considerato che in tal modo è stato riconosciuto il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e le ragioni per ricostituire la propria patria nazionale in quel paese.»
Tutti gli atti prodotti dalla Società delle Nazioni e dal Regno Unito per giungere alla costituzione dello Stato di Israele partono dal presupposto fondamentale del riconoscimento del legame storico del popolo ebraico con quell’area chiamata Palestina dall’Imperatore Adriano nel 135 d. C, in realtà Terra di Israele ed è questo ciò che è stato riconosciuto a partire dalla dichiarazione di Arthur James Balfour, segretario al ministero degli affari esteri britannico, a Lord Rothschild, capo dell’agenzia sionista per lo Stato di Israele.
• La risoluzione ONU 181 del 29 novembre del 1947 Sappiamo che la risoluzione ONU non rappresenta il comando che determina un obbligo ma “solo” un suggerimento da parte di un organismo sovranazionale legalmente riconosciuto. Come è noto in quella occasione venne raccomandata caldamente la soluzione dei due popoli e due stati. I sionisti accettarono senza riserve e dettero vita allo Stato di Israele. Tuttavia, è opportuno evidenziare il fatto che in tutti i passaggi burocratici internazionali precedenti, quelli di cui sopra, quindi il Mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito, si è sempre parlato di un focolare ebraico in Palestina e non in una parte di questa. A tale proposito la Risoluzione 181 fu penalizzante proprio per gli ebrei. La reazione degli arabi a tale suggerimento e alla proclamazione dello Stato di Israele fu la guerra del 1948 scatenata da Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq contro il nuovo Stato.
• Conclusioni L’illegalità dello Stato di Israele in Palestina è una menzogna di dimensioni colossali sotto tutti i punti di vista. Del resto, chiunque abbia un minimo di cognizione dei Vangeli e/o delle Scritture ebraiche comprende benissimo che gli ebrei e quei luoghi costituiscono quasi la carta d’identità gli uni degli altri. Non si tratta di simpatizzare o avversare nessuno ma solo di riconoscere la verità storica che in molti, troppi, si ostinano a ignorare o a falsificare. Vorrei concludere con alcune considerazioni personali a proposito della risoluzione 181 dell’ONU. Questa non concede niente agli ebrei in quanto il diritto alla costituzione del loro Stato in Palestina è sancito dalla verità storica e da quanto stabilito dalla Società delle Nazioni nelle varie vicende istituzionali. Tuttavia, c’è chi sostiene che gli ebrei avrebbero dovuto accordarsi con gli arabi prima di passare alla costituzione del loro Stato ma questo è del tutto falso. In primo luogo si deve tenere conto di quanto viene messo in risalto da David Elber nel suo “Il Mandato per la Palestina. Le radici legali dello Stato d’Israele”, «la Risoluzione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d’Israele”, ma il risultato della decurtazione di una parte consistente di terra che già sarebbe dovuta appartenere, de jure, allo Stato ebraico dal 1922, data in cui la Gran Bretagna operò la prima partizione del territorio mandatario.» In secondo luogo si tenga presente che gli arabi, anche nelle consultazioni internazionali con l’UNSCOP (Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina), che precedettero l’emissione della Risoluzione 181, avevano reclamato a gran voce e con la violenza il diritto all’istituzione di uno stato arabo su tutta la Palestina e fecero capire in ogni modo la loro indisponibilità ad accettare altre soluzioni. Diritto che non avevano per tutte le ragioni suddette. La risoluzione 181, nel suo preambolo, pone tutta una serie di condizioni inderogabili ai fini della formazione dei due stati e una su tutte è quella che si creino stati democratici. A questa dicitura fa seguito un elenco di richieste che caratterizzano le società democratiche. Non si dimentichi il punto di partenza di questa piccola dissertazione: il mondo era da poco uscito dalle macerie della seconda guerra mondiale e si parlava di autodeterminazione dei popoli e di una nuova e diversa capacità di rapportarsi reciprocamente. La risoluzione 181 propone una concezione dello stato di stampo illuminista, burocratico e lontano da ogni tendenza teocratica, qualcosa che non poteva rientrare nell’orizzonte esistenziale dell’arabo musulmano. A mio parere vi è una questione culturale che sovrasta tutto il resto. Detto in parole povere: gli ebrei avevano la capacità di ragionare in termini politici aconfessionali, i musulmani no. Gli ebrei avevano vissuto per secoli in Occidente, dopo le due diaspore che avevano costretto molti di loro a fuggire e non solo conoscevano le dinamiche culturali occidentali ma le avevano anche acquisite e fatte proprie. In altri termini: per gli arabi musulmani costituirsi in uno stato democratico, secondo i criteri richiesti dall’ONU, avrebbe voluto dire andare contro la propria essenza culturale, quindi, l’esatto opposto del concetto di autodeterminazione di un popolo. Stiamo parlando di etnie avvezze ad assetti “politici” che comprendevano emirati e sultanati sia prima della dominazione Turca-ottomana che, in alcuni casi, durante. Lo Stato palestinese non è mai esistito perché il concetto stesso di “Stato” nel mondo arabo musulmano è incompatibile con quello occidentale. [1] Il sangiaccato di Gerusalemme (Suddivisione amministrativa dell’Impero Ottomano; sopravvive ancora in alcuni paesi arabi)è stato una provincia dell’Impero ottomano fino al 1918. Parte della Palestina, la quale faceva parte del vilayet di Sham (Siria), il sangiaccato di Gerusalemme era formato da cinque cazà (Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba)[1]. Nel 1887 il sangiaccato di Gerusalemme, in quanto sede dei Luoghi Santi, divenne un mutasarriflik indipendente il cui mutasarrif era responsabile direttamente nei confronti del governo centrale di Costantinopoli, dei suoi ministeri e dipartimenti di Stato.
C’è qualcosa in Israele che mette le persone a disagio - e non è ciò che dicono che sia. Indicheranno la politica, gli insediamenti, i confini, le guerre. Ma se si scava sotto la rabbia, si scopre qualcosa di più profondo. Non è un disagio per quello che Israele fa, ma per quello che Israele è. Una nazione così piccola non dovrebbe essere così potente. Punto. Israele non ha petrolio. Nessuna risorsa naturale speciale. Una popolazione a malapena pari a quella di una città americana di medie dimensioni. È circondata da nemici. Disprezzata alle Nazioni Unite. Bersaglio del terrorismo. Dileggiata da celebrità. Boicottata, diffamata e attaccata. Eppure prospera come se non ci fosse un domani: nell’esercito, nella medicina, nella sicurezza, nella tecnologia, nell’agricoltura, nell’intelligence, nella morale, nella pura e incrollabile volontà. Trasformano il deserto in terra coltivabile. Producono acqua dall’aria. Intercettano razzi in volo. Salvano ostaggi sotto il naso dei peggiori regimi del mondo. Sopravvivono a guerre che avrebbero dovuto cancellarli — e vincono. Il mondo guarda tutto questo e non riesce a comprenderlo. E così fanno quello che la gente fa quando assiste a una forza che non riesce a spiegare: presumono che ci sia un imbroglio. Deve essere per gli aiuti americani. Dev’essere per le lobby. Dev’essere per l’oppressione. Per il furto. Per qualche trucco oscuro che ha dato agli ebrei un tale potere. Dev’essere ricatto. Perché guai a pensare che sia qualcos’altro. Guai a pensare che sia reale. Guai a pensare che sia stato conquistato. O peggio, che sia stato destinato. Il popolo ebraico doveva scomparire da tempo. È così che finiscono le storie delle minoranze esiliate, schiavizzate e odiate. Ma gli ebrei non sono scomparsi. Sono davvero tornati a casa. Hanno ricostruito la loro terra, rianimato la loro lingua, fatto rivivere i loro morti — nella memoria, nell’identità, nella forza. Questo non è normale. Non è politico. È biblico. Non c’è nessun trucco che spiega come un popolo torni nella propria patria dopo 2000 anni. Non c’è un percorso razionale dalle camere a gas all’influenza globale. Non c’è alcun precedente storico per sopravvivere a babilonesi, romani, crociati, inquisizione, pogrom e Shoah — e poi presentarsi al lavoro il lunedì mattina a Tel Aviv. Israele non ha senso. A meno che non si creda in qualcosa che va oltre la matematica. Ed è questo che fa impazzire il mondo. Perché se Israele è reale, se questa nazione antica, improbabile e odiata è ancora in qualche modo scelta, protetta e prospera allora forse Dio non è un mito dopotutto. Forse è ancora nella storia. Forse la storia non è casuale. Forse il male non ha l’ultima parola. Forse gli ebrei non sono solo un popolo… ma una testimonianza. Ed è questo che non riescono a sopportare. Perché nel momento in cui si ammette che la sopravvivenza di Israele non è solo impressionante, ma divina - tutto cambia. La tua bussola morale deve essere reimpostata. Le tue certezze su storia, potere e giustizia crollano. Capisci che non stai assistendo alla fine di un impero. Stai testimoniando l’inizio di qualcosa di eterno. E allora lo negano. Lo diffamano. E ne sono furiosi. Perché è più facile chiamare un miracolo “imbroglio” che affrontare la possibilità che Dio mantenga ancora le Sue promesse. E lo faccia in silenzio.
(Daily Telegraph, giugno 2025) Segnalato da Emanuel Segre Amar.
Ebrei persiani in Israele: soffrire per i due fronti della guerra
L’Iran radicale e indistruttibile, così come lo conoscevamo fino all’attacco israeliano nei cieli di Teheran, forse non esiste e non esisterà più. Il regime oggi è vulnerabile, isolato, spaventato. Ma ha reagito, bombardando Israele e le basi americane nel Golfo. Come vivono tutto questo gli israeliani di origine iraniana? Sperando nel crollo del regime, per poter visitare l’antica patria.
di David Zebuloni
L’attacco di Israele all’Iran il 13 giugno ha certamente avuto grandi ripercussioni sugli equilibri non solo mediorientali, ma anche mondiali. Alleanze, forze e sistemi cristallizzati in decenni sono scossi nel profondo. Tra attacchi reciproci, cessate-il-fuoco, pressioni internazionali, la situazione è in continua evoluzione e solo il tempo ci dirà se gli effetti del conflitto saranno positivi o negativi per Israele e per la popolazione. E se l’incubo del nucleare iraniano sia finito per sempre. Quello che è certo è che questo conflitto ha fatto nascere un nuovo moto di speranza in Iran, che ha scosso gli animi stanchi di chi aveva perso fiducia in un futuro di democrazia per la propria patria. E non mi riferisco solo a quei coraggiosi dissidenti iraniani che da anni si battono per la liberazione del loro popolo, ma anche agli ebrei iraniani, oggi sparsi principalmente in Israele, a Milano, a Londra e a New York, che non hanno mai dimenticato, rinnegato o cancellato le loro origini. Ebrei ancora straordinariamente legati alle loro radici, che hanno abbracciato delle nuove culture senza mai dimenticare quella di provenienza. Figli e nipoti di quella storia che oggi cercano la loro voce, lacerati tra passato e presente. Una crisi identitaria che non permette loro di vivere questo conflitto come hanno già vissuto i conflitti con Hamas, con Hezbollah, con gli Houthi. Giovani ebrei israelo-iraniani che oggi faticano a definire “nemico” il loro paese di provenienza, ma che riconoscono la minaccia esistenziale che esso rappresenta per loro. “Credo che, a differenza dei conflitti precedenti, il conflitto in corso contro il regime iraniano suscita in me più curiosità e coinvolgimento, poiché emotivamente vicino”, mi racconta Yael Carmeli, giovane sociologa e ricercatrice universitaria presso la Hebrew University di Gerusalemme. “Sento le conversazioni dei miei genitori e dei miei nonni, e sento che ne parlano diversamente. Che si immedesimano, che si preoccupano particolarmente per il destino degli iraniani. Ecco, questo non può che influire anche sulla mia personale percezione della guerra”. Yael nasce infatti da due genitori di origini persiane. La madre italiana, ma originaria della città di Mashad, e il padre israeliano, ma nato e cresciuto a Teheran. «Non posso non pensare che, se il regime realmente crollerà, potrò finalmente partire in Iran e visitare i luoghi nei quali hanno vissuto i miei antenati – prosegue la ricercatrice. – Personalmente sto seguendo questo conflitto più di quanto abbia fatto con i precedenti. Tuttavia, la paura è assolutamente proporzionale al coinvolgimento. E in questo caso, non una paura per il nostro destino, il destino di Israele e per il popolo ebraico, ma per il precario destino dello stesso popolo iraniano. Provo per loro un inspiegabile e innato senso di solidarietà. D’altronde, non è difficile immedesimarsi in loro: mi assomigliano vagamente, la loro lingua mi è assolutamente famigliare e così anche le loro usanze». E non è tutto. Oltre a simpatizzare per il popolo iraniano e per la sua sacrosanta causa, Yael si rifiuta categoricamente di riconoscere in lui un nemico. «Il regime è il nemico di Israele, ma a differenza di altri popoli sparsi per il Medio Oriente, il popolo iraniano ama e sostiene il popolo ebraico e lo Stato d’Israele. Non posso e non voglio desiderare il loro male, così come loro non hanno mai desiderato il mio. Il nostro. Dunque, non posso fare altro che auspicare alla caduta del regime. E pregare per una pace tra i due popoli». Yaniv Sayeh l’ho conosciuto quando, svariati mesi fa, cercavo degli ebrei iraniani che si fossero recentemente trasferiti in Israele. Dopo una serie infinta di ricerche estenuanti e molto poco producenti, ho finalmente incontrato Yaniv: un giovane ragazzo israelo-iraniano che mi ha spalancato la porta su un mondo a me sconosciuto. In Israele, infatti, esiste oggi una piccola comunità di giovanissimi ebrei nati e cresciuti Teheran, e recentemente fuggiti nello Stato Ebraico in cerca di libertà. Giovani e coraggiosi ebrei disposti a varcare il confine pur di fuggire dalla realtà dittatoriale che vige nella terra degli Ayatollah, consci di dover abbandonare tutto alle loro spalle. Forse, per sempre. Yaniv funge per loro oggi da casa e famiglia. Sostiene questa piccola e schiva neo comunità con grande e mai scontata sensibilità. «Entrambi i miei genitori sono nati a Teheran – mi racconta. – La mia mamma è fuggita dopo la rivoluzione islamica e il mio papà dopo la guerra con l’Iraq. Puoi dunque immaginare quanto la cultura iraniana sia parte di me e della mia famiglia. I miei genitori mi hanno insegnato la lingua persiana e a casa di mia nonna, ogni tavolata viene arricchita con qualche prelibatezza persiana. Suono anche il Tau, uno strumento a corde iraniano, e ultimamente mi sto dedicando allo studio della poesia, della letteratura e della filosofia persiana». Un legame viscerale che oggi viene messo a dura prova. «È difficile per me vedere le mie due patrie in guerra – spiega Yaniv. – Sai, sono cresciuto sui racconti dello Scià buono e dello stravolgimento che ha subito il suo, il nostro paese dopo l’avvento di Khomeini. Per anni in casa abbiamo parlato, anzi discusso, della possibilità che il regime venisse rovesciato. Quando? Come? Per mano di chi? E ora mi domando: ci siamo? Il regime sta crollando? È questo il momento che abbiamo sempre sognato? Sta davvero per succedere? Non ho una risposta a questa domanda, ma so che qualcosa è cambiato. Che qualcosa è diverso. La guerra è sempre triste, sempre dolorosa, sempre sbagliata, ma oggi c’è nell’aria qualcosa in più. Forse, una speranza perduta e ora ritrovata. Desidero da sempre visitare la città di Esfahan e d’un tratto questo sogno non mi sembra più lontano. O irrealizzabile. Spero di non illudermi e spero soprattutto di non rimanere deluso dall’accoglienza iraniana, quando questa guerra sarà finita e si potrà finalmente parlare di pace. Reputo gli iraniani miei fratelli e non vorrei scoprire che questo sentimento sincero non è ricambiato». L’emozione di Yaniv è papabile. «Sono giorni che non penso ad altro. Che immagino mille scenari possibili per la fine di questa guerra. Dai più pessimisti ai più ottimisti – mi confessa. – Ho mille dubbi e perplessità, ma di una cosa sono certo: al termine di questi combattimenti dobbiamo assolutamente essere persone migliori. Popoli migliori. Più vicini, più uniti. Nulla ha avuto senso se, finita questa guerra infinita, il Medio Oriente non diventerà un luogo più libero e sicuro nel quale vivere. Per tutti». Un’altra immancabile voce in questo nostalgico mosaico di vissuti e riflessioni, è quella di Noa Yanai, la mia più cara amica degli anni dell’Università, oggi Chief Marketing Officer di un’importante società di moda. Anche Noa, come me e come gli altri giovani intervistati, ha delle forti origini iraniane. «Non mi dà pace questa guerra contro l’Iran – mi ha confidato una notte al telefono, mentre allattava sua figlia e aspettava il suono della sirena antimissili. – So che è una guerra necessaria. So che gli iraniani stessi desiderano l’aiuto di Israele per liberarsi dei loro tiranni, ma non riesco proprio a scindere le mie due identità». Una vera e propria renaissance identitaria, che non passa inosservata. «Fa sorridere, non sono mai stata tanto legata alle mie origini come in questo periodo – aggiunge poi. – Da bambina pensavo che le nostre usanze fossero goffe e grottesche, oggi invece penso che senza quel passato, il mio presente sarebbe completamente diverso. Che senza le canzoni iraniane di mia mamma e il cibo persiano di mia nonna, oggi non sarei la donna che sono. La madre che sono. Ironico, non trovi? Non conosco nemmeno un iraniano, eppure ho a cuore il destino del loro intero popolo». Non ho fatto in tempo a rispondere: la sirena è suonata, la bambina è scoppiata a piangere e Noa ha riattaccato la chiamata prima che potessi dirle di essere stranamente d’accordo con lei (una vera rarità). No, non è ironico avere a cuore il destino di un popolo che appartiene a un tuo passato remoto. Un paese i cui odori e sapori ti rievocano casa. Una casa che non hai mai visitato, eppure che ti porti dentro. Talvolta, inconsciamente. Inconsapevolmente. Una sorta di memoria cellulare proiettata sulle emozioni. Sogni e ricordi che non vengono trasmessi a parole, ma in piccoli gesti. O melodie lontane. Chissà, forse nello stesso latte materno. Forse, in attesa del suono della sirena, mentre allattava sua figlia, Noa le stava trasmettendo anche le memorie dei suoi antenati. I piatti della nonna, le canzoni della mamma. Le radici che un giorno definiranno la donna che sarà. La mamma che a sua volta diventerà. Lo scrittore sopravvissuto alla Shoah Primo Levi constatò in una delle su opere che “non c’è futuro senza passato”. Molti giovani ebrei iraniani oggi aggiungono: senza pace, non c’è futuro. Un futuro privo di terrorismo, all’insegna della democrazie. Della fratellanza. Un nuovo slogan: Israeliani, Iraniani, Vita, Libertà.
• La profezia di Reza Ciro Pahlavi Nel novembre del 2023, tra le pagine di questa testata venne pubblicata un’intervista che realizzai con l’erede al trono del Pavone, Reza Ciro Pahlavi. Oggi, a distanza di un anno e mezzo da quell’indimenticabile incontro, rileggo le sue parole e quasi non mi capacito della loro attualità. All’epoca, confesso, pensai che il re senza trono e senza corona stesse ostentando un ottimismo forzato, poco autentico. Oggi mi ricredo e chiedo venia: Reza sapeva esattamente quale sarebbe stato il destino del suo popolo e del suo paese. “Se un giorno ci sarà la pace tra Israele e Iran? Assolutamente sì, senza alcuna ombra di dubbio. Non perché lo dico io, ma perché lo dicono milioni di iraniani. Credimi David, non immagini quanto potenziale strategico potrebbe esserci tra i due paesi”, mi spiegò l’erede al trono con fermezza, senza esitare. Poi aggiunse: “La mia non è una speranza o un augurio, ma una piena certezza. L’attuale regime iraniano comprende tutte le peggiori forme di regime che abbiamo conosciuto nell’età moderna. È un regime al contempo totalitario, razzista e fascista. Ecco, la storia ci insegna che i regimi totalitari, alla fine, crollano sempre ed è la pace a regnare”.
GERUSALEMME - In Israele c'è un gruppo di giovani ebrei noto come “Hilltop Youth”. A sentire molti, si direbbe che siano dei mostri in sembianze umane: estremisti dall'aspetto feroce, radicali violenti, criminali che vivono ai margini della nostra società Ma io dico: basta. Gli Hilltop Youth non sono mostri. Vivo in una fattoria che ho contribuito a costruire, all'estremità sud-orientale della Giudea. Conosco questi giovani. Centinaia di loro sono passati di qui come volontari, pastori, operai, aiutanti edili. Sono pionieri e sono la punta di diamante che difende il cuore della nostra patria. Sono diamanti. Sì, a volte sono diamanti grezzi, ma sono comunque diamanti. Sono giovani uomini e donne che, invece di cercare il comfort, hanno scelto le colline battute dal vento della Giudea e della Samaria. Vivono in roulotte che tremano al vento invernale. Piantano alberi. Costruiscono case. Allevano capre e pecore, e anche bambini. E lo fanno perché credono profondamente che questa terra sia l'eredità del popolo ebraico, promessa da Dio, pagata con il sangue e difesa per generazioni. E per anni sono stati il capro espiatorio preferito di Haaretz, della BBC, del Tagesschau e di gran parte della sinistra del nostro Paese. Ma il 7 ottobre 2023 ha cambiato tutto. In quel giorno nero, quando il terrore ha varcato i confini di Israele e massacrato intere comunità nel sud, la nazione si è risvegliata a una dolorosa verità: la Giudea e la Samaria non sono il problema, sono la soluzione. Sono state le comunità della Giudea e della Samaria, situate sulle colline e nelle valli, a proteggere il cuore di Israele dallo stesso incubo che ha colpito il sud. È stata la presenza ebraica in queste zone a impedire che un'ondata di terrore penetrasse più a fondo nel nostro Paese. La geografia della Giudea e della Samaria, controllata dal nostro popolo, era un muro che proteggeva Tel Aviv, Gerusalemme e la pianura costiera dalla distruzione. E proprio ai margini di questo muro si trovano, a volte letteralmente, i Hilltop Youth. Sono la punta di diamante. Sono gli occhi e le orecchie al confine di Israele. Sono i primi a notare movimenti sospetti. I primi a dare l'allarme. I primi a correre in aiuto quando il vigneto di un vicino è in fiamme, quando le strade vengono assaltate, quando i terroristi assediano le case degli ebrei durante la notte. Eppure, invece di ringraziarli o almeno di concedere loro un po' di fiducia, vengono diffamati e condannati. Politici, giornalisti e persino ebrei sono fin troppo pronti, a volte quasi con gioia maligna, a diffamare questi giovani. Li dipingono come il problema. Li gettano in pasto ai lupi, a volte sembra proprio per dimostrare la propria superiorità morale. È un teatro grottesco: «Guardateci», sembrano dire. «Noi condanniamo i nostri. Noi siamo i buoni ebrei. Noi non siamo come loro». Molto comodo. Molto codardo. Tuttavia, alla luce della copertura mediatica prevenuta e propagandistica, è difficile biasimarli. Perché mentre a Tel Aviv o New York è di moda condannarli, questi giovani vivono in luoghi dove la legge a volte non ha potere e non li protegge. Dove le famiglie vengono uccise nelle loro case. Dove l'esercito ha le mani legate da considerazioni politiche. Dove la polizia spesso arriva troppo tardi, o non arriva affatto. Se la legge non li protegge, alcuni credono di doversi proteggere da soli. È così che nascono le milizie popolari, non per odio, ma per paura e per un senso di abbandono insopportabile. E per questo vengono braccati. Perseguitati dal loro stesso Stato. Messi in detenzione amministrativa, senza accuse, senza processo, senza possibilità di difendersi. Privati dei loro diritti perché “sospetti”. Sospetti di credere troppo fermamente in qualcosa. E il mondo applaude. Perché è più facile perseguitare adolescenti ebrei che affrontare la verità: che la Giudea e la Samaria sono la spina dorsale della sicurezza di Israele e che l'espulsione degli ebrei da queste colline provocherebbe un disastro. Se in questo Paese ci fosse un altro gruppo di minori trattato come questi bambini, l'intera nazione sarebbe in subbuglio. Lo scorso Shabbat, un ragazzo di 14 anni della Hilltop Youth è stato colpito da un proiettile ed è ora in fin di vita, solo per essersi opposto allo sgombero del suo avamposto. Il ragazzo ha riportato una ferita da arma da fuoco al braccio, con il proiettile che gli è entrato nel braccio e si è conficcato vicino alla schiena. Ha riportato fratture alla spalla e al braccio, un trauma polmonare causato dall'esplosione e diverse ferite da schegge. Il quattordicenne è stato soccorso sul posto dai paramedici della United Hatzalah e trasportato dal Magen David Adom all'ospedale Hadassah. Incredibilmente, la polizia ha arrestato il paramedico della United Hatzalah e un altro residente che aveva aiutato nell'evacuazione. Entrambi sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati. Immaginate se fosse stato un adolescente di sinistra di Tel Aviv a essere ucciso nelle stesse circostanze. Il Paese sarebbe in rivolta. I media esploderebbero, i politici farebbero a gara per condannare l'accaduto e il soldato che ha premuto il grilletto verrebbe probabilmente arrestato prima del tramonto. Ho visto con i miei occhi come questi bambini vengono privati dei loro diritti umani fondamentali. Come vengono vessati, detenuti senza accuse, demonizzati dalla stampa e dipinti come mostri, anche se la stragrande maggioranza di loro, nonostante queste persecuzioni, non nutre odio nei loro cuori. Solo amore. Questi bambini sono adolescenti: hanno 14, 15, 16 anni. Pensate alle sciocchezze che avete fatto a quell'età. Gli errori. L'incoscienza. Fa parte della crescita. Sì, alcuni di loro commettono errori. Ma sono ancora bambini, bambini che preferiscono le cime delle montagne alle discoteche, le capre agli smartphone e il senso della vita a TikTok. Bambini che rifiutano la droga e la ricerca insensata delle tendenze moderne. Molti di loro usano ancora i vecchi cellulari Nokia perché si rifiutano di diventare schiavi dei loro smartphone: una disciplina e una forza interiore che, devo ammettere, io stesso non ho raggiunto. E sono fermamente convinto che la stragrande maggioranza delle persone che leggono questo articolo amerebbe questi bambini se solo li conoscessero personalmente, invece di giudicarli sulla base delle menzogne distorte che vengono diffuse su di loro. Prima di credere alle parole di attori politici e ideologici che dipingono questi giovani come cattivi, vi prego: andate a conoscerli di persona. Guardateli negli occhi. Parlate con loro. Scoprirete anime giovani che bruciano di idealismo, passione e amore per il loro popolo e il loro Paese. Ci sono azioni che vanno troppo oltre? Sì. E dovrebbero essere condannate. Ma condannare l'intera Hilltop Youth, privarla della sua dignità, trattarla come criminali prima ancora di essere giudicati, è un fallimento morale della nostra società. Non sono orde selvagge. Sono idealisti. Sono costruttori. Sognatori. Sono i discendenti di coloro che hanno bonificato le paludi, costruito kibbutz in valli infestate dalla malaria e combattuto eserciti per issare la bandiera di Israele su Gerusalemme. E siamo onesti: non ci vuole coraggio a stare in città e condannarli. Il vero coraggio è stare da soli su una collina, con nient'altro che la propria fede, le proprie mani e la convinzione che questa terra appartiene al proprio popolo. Israele è sempre stato costruito da coloro che si sono rifiutati di seguire la via più facile. I Hilltop Youth possono essere giovani, sfacciati e talvolta sconsiderati, ma portano dentro di sé lo stesso fuoco che ha infiammato i cuori di tutti i pionieri che li hanno preceduti. Non dovremmo sacrificarli così facilmente sull'altare dell'opportunismo politico. Non dobbiamo unirci al coro di coloro che cercano di dimostrare la propria purezza morale condannando la propria carne e il proprio sangue. Riconosciamo invece i giovani delle colline per quello che sono veramente: i pionieri – e i vigilanti – del nostro tempo. Meritano la nostra guida. Meritano la nostra giustizia. E soprattutto, secondo gli insegnamenti del 7 ottobre, meritano la gratitudine e la fiducia che ogni difensore di Israele ha meritato mille volte.
(Israel Heute, 1 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Operazione Rising Lion e il fronte caucasico: Israele, Azerbaijan e l’Iran
La partnership strategica tra Baku e Gerusalemme, forgiata in anni di cooperazione energetica e militare, ha ormai un peso geopolitico cruciale. Per Israele, si tratta non solo di una fonte di approvvigionamento petrolifero – oltre il 40% del greggio israeliano proviene da lì-, ma anche di un potenziale avamposto d’intelligence in una regione chiave. Ma per la repubblica islamica di Iran è fonte di grande preoccupazione.
di Davide Cucciati
Il viaggio di ritorno del ministro israeliano dell’Aliah e integrazione Ofir Sofer non è stato solo un’odissea diplomatica. È diventato, in controluce, il simbolo della fragilità dell’equilibrio geopolitico che lega Israele al Caucaso. Tra il 14 e il 17 giugno 2025, Sofer è rientrato in Israele via mare dopo essere stato evacuato dall’Azerbaijan. La sua missione a Baku, iniziata solo poche ore prima, aveva come obiettivo la partecipazione a un seminario per giovani ebrei organizzato insieme all’Agenzia Ebraica. Venerdì 13 giugno, mentre si trovava ancora in hotel nella capitale azera, Israele ha dato inizio all’“L’Azerbaijan condivide 680 chilometri di confine con l’Iran. Non è un dettaglio. Lapartnership strategica tra Baku e Gerusalemme, forgiata in anni di cooperazione energetica e militare, ha ormai un peso geopolitico cruciale. Per Israele, si tratta non solo di una fonte di approvvigionamento petrolifero – oltre il 40% del greggio israeliano proviene da lì-, ma anche di un potenziale avamposto d’intelligence in una regione chiave.
• Le preoccupazioni dell’Iran L’apertura dell’ambasciata azera a Tel Aviv, avvenuta nel marzo 2023, ha rappresentato il culmine di questo rapporto. Per Teheran, si è trattato di una provocazione. La Repubblica Islamica osserva con crescente preoccupazione i legami tra i due Paesi e teme che Baku possa fungere da piattaforma logistica o informativa per operazioni contro obiettivi iraniani. La tensione si è riflessa perfino in un contesto insospettabile: l’Eurovision Song Contest. Il Jerusalem Post, il 22 maggio 2025, ha riportato che l’agenzia iraniana Fars News, vicina ai Pasdaran, ha lanciato un duro attacco propagandistico contro Azerbaijan e Israele. Il motivo? La cantante israeliana sarebbe di origine azera (ma quest’affermazione non risulta confermata da altre fonti), mentre il rappresentante dell’Azerbaijan era ebreo. “Non una nazione in due Stati, ma due nazioni in uno Stato – lo Stato che divide il mondo islamico”, scriveva l’editoriale di Fars News. L’Iran ha visto in quella partecipazione incrociata la prova definitiva dell’“alleanza segreta e vergognosa” tra i due Paesi e una minaccia diretta all’unità islamica. Israele ha accolto con favore il voto massimo (12 punti) ricevuto da Baku. Il ministro della Difesa Israel Katz ha ringraziato pubblicamente l’Azerbaigian per il gesto e per il sostegno fornito dopo l’attacco del 7 ottobre. In quello stesso contesto, ha ricordato anche il ruolo azero nella mediazione tra Israele e Turchia. Ma la tensione non si limita a scambi mediatici. Israel Hayom, il 18 maggio 2025, ha rivelato che mentre Israele e l’Azerbaigian rinsaldano la loro alleanza, le forze speciali azere e iraniane hanno condotto un’esercitazione congiunta (“Aras 2025”) nella regione del Karabakh. Secondo l’agenzia iraniana Tasnim, unità dei Pasdaran sono entrate in territorio azero attraversando il confine presso Bileh Savar (provincia di Ardabil), per partecipare a manovre che si sono protratte fino al 21 maggio. Si tratta della seconda esercitazione in due anni, ma questa volta si è svolta in un’area simbolicamente sensibile: il Karabakh, riconquistato da Baku nel 2023, ma storicamente legato all’alleanza tra Armenia e Iran. Il generale Vali Madani, comandante iraniano dell’operazione, ha dichiarato: “Questa esercitazione rappresenta un passo significativo per rafforzare la sicurezza lungo il nostro confine e affrontare potenziali minacce.” La vera minaccia, per Teheran, resta l’alleanza tra Israele e Azerbaijan, che non si limita ad armi e petrolio, ma include anche cooperazione diplomatica, rapporti religiosi e logistica strategica. In novembre, una delegazione militare azera aveva già visitato l’Iran per assistere all’esercitazione “Aras 2024”, segno che il doppio gioco tra Teheran e Baku è parte integrante del calcolo geopolitico. Se le foto ufficiali ci mostrano ministri, ambasciatori e comunità in festa, c’è un’altra dimensione del rapporto tra Israele e Azerbaijan che sfugge alle inquadrature diplomatiche. È quella che riguarda l’intelligence, la logistica e le operazioni sul campo. In una guerra che ha ormai travalicato le soglie della clandestinità, l’Azerbaijan è diventato anche una delle piattaforme potenziali per la guerra segreta del Mossad contro l’Iran. Lo ha scritto con chiarezza Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa, all’indomani dell’attacco israeliano: “Nei prossimi anni verranno scritti libri su libri. Il tema: la guerra segreta condotta dal Mossad contro l’Iran in questi anni; guerra che questa notte ha raggiunto il suo apice. Secondo le ricostruzioni, “le squadre del Mossad, e presumibilmente anche team di forze speciali infiltratisi da tempo (dal Kurdistan iracheno, piuttosto che dall’Azerbaijan), sono entrate in azione poco prima del lancio degli attacchi, muovendosi poi in perfetta sincronia con questi”. Il riferimento al territorio azero non è casuale. Da anni si ipotizza che l’intelligence israeliana abbia strutture logistiche, punti di appoggio e vie di fuga attive a nord del confine iraniano. Per questo, la fuga di Sofer da Baku non è stata solo un fatto di cronaca, ma un simbolo di un’alleanza che, tra petrolio e operazioni segrete, ha ridisegnato la mappa del Medio Oriente.
Hamas tortura i cittadini di Gaza per mettere a tacere le proteste
Per aiutare a comprendere che cosa stia accadendo alla popolazione palestinese all’interno della Striscia di Gaza, stretta fra la “macchina da guerra” israeliana e il terrorismo di Hamas, pubblichiamo questo articolo del corrispondente del Telegraph da Gerusalemme. Esso attira l’attenzione sul fenomeno forse più significativo delle ultime settimane, poco ripreso dalla stampa italiana, ossia sugli episodi di resistenza della popolazione palestinese contro la violenza di Hamas all’interno della Striscia. Il gruppo terroristico ricorre a metodi sempre più crudeli per mantenere il controllo di una popolazione disperata
di Henry Bodkin*
Il volto del giovane che fissa la telecamera mentre la folla gli si accalca attorno è forte e provocatorio. Nelle sue mani, il ventiseienne tiene uno striscione con un messaggio incendiario: «Hamas non ci rappresenta». Un video di accompagnamento lo mostra mentre incita gli altri, alimentando apertamente il fuoco del dissenso, mentre molte delle persone attorno a lui distolgono nervosamente il viso per non essere identificate dalle telecamere. Quell’uomo è Ahmed al-Masri, uno degli organizzatori chiave nel nord di Gaza delle proteste che hanno scosso l’enclave ad aprile e maggio. Questa settimana sono emerse le foto dello stesso uomo su una barella, con uno sguardo spaventato e impotente negli occhi e le gambe insanguinate. Secondo diverse fonti che hanno parlato con il Telegraph, Al-Masri è stato rapito da uomini armati di Hamas a Beit Lahia, vicino al confine settentrionale con Israele, dopodiché è stato brutalmente torturato. Gli sono stati deliberatamente spezzati i piedi con grosse pietre e piedi di porco di ferro; lo hanno anche colpito alle gambe. Questa atrocità fa parte di un’ondata crescente di spargimenti di sangue scatenata da Hamas contro i comuni cittadini di Gaza che pretende di rappresentare. Mentre si trova ad affrontare una stretta senza precedenti sulla sua forza militare ed economica a causa della campagna di logoramento di Israele, il gruppo terroristico sta ricorrendo a metodi sempre più crudeli per mantenere il controllo su una popolazione sempre più disperata. Khaled Abu Toameh, docente ed esperto di questioni palestinesi, ha affermato: «Dopo le proteste degli ultimi mesi, hanno iniziato a giustiziare e arrestare persone per intimidire la popolazione e terrorizzarla. Penso che stia funzionando. A un certo punto, le proteste sono scomparse». Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le segnalazioni di persone prelevate mentre erano in coda per ricevere aiuti, torturate negli scantinati o semplicemente giustiziate in pieno giorno. In un video, pubblicato entusiasticamente dagli account dei social media affiliati a Hamas, si vedevano figure mascherate che usavano una lunga sbarra di metallo per fracassare le rotule di un uomo bendato. Le sue urla strazianti e le sue suppliche di pietà sono troppo raccapriccianti per essere descritte adeguatamente. Gran parte di questa violenza viene perpetrata in nome della cosiddetta “unità Sahm”, che in arabo significa “freccia”. Quelli che riescono ad arrivare in ospedale a volte vengono braccati ed eliminati all’interno dei reparti. Nel caso di Al-Masri, la violenza si è verificata in diverse ondate e si è concentrata attorno a una grande struttura medica. Persone a conoscenza della situazione, troppo spaventate dalle rappresaglie per rivelare i loro nomi, hanno dichiarato che il giovane attivista è stato rapito e portato all’ospedale Al-Shifa di Gaza City, dove è stato interrogato e gli è stato intimato di non parlare con i media. Uno di loro ha dichiarato: «Hanno sparato a due persone davanti a lui, poi gli hanno sparato ai piedi. Gli hanno frantumato i piedi con grosse pietre e piedi di porco e poi lo hanno esposto al sole per un’ora. Poi hanno chiamato un’ambulanza e lo hanno portato all’ospedale, dove lo hanno picchiato sui piedi all’interno dell’ambulanza». In un altro tristemente noto episodio, avvenuto all’inizio di questo mese, uomini armati di Hamas avrebbero provocato le vittime che avevano ferito in precedenza, impedendo loro di entrare in un ospedale e lasciandole a contorcersi all’esterno. Secondo gli amici, Al-Masri, che gestisce una farmacia, è stato inizialmente portato all’ospedale principale di Al-Shifa, ma ora è stato trasferito altrove per la sua sicurezza. Ora fanno appello a chiunque voglia aiutarlo a uscire da Gaza, sia per sfuggire a Hamas sia per ottenere le cure adeguate alle sue ferite. «Sta malissimo», ha detto una persona. «Stiamo cercando di fare del nostro meglio per lui, ma la gente ha paura di parlare, perché potrebbe essere la prossima vittima». Alcuni attivisti ritengono che Hamas abbia approfittato del conflitto tra Israele e l’Iran per intensificare la sua campagna intimidatoria, mentre gli occhi del mondo sono puntati altrove. Stanno facendo del loro meglio per inondare le sezioni dei social media viste dall’Occidente con video e fotografie esplicite pubblicate da Hamas negli angoli arabi di Internet e guardate principalmente dalla gente di Gaza. Uno di loro, Howidy Hamza, ha descritto le vittime come «uccise due volte». In primo luogo, da Hamas; in secondo luogo, «da un movimento che si rifiuta di vederli», il movimento pro-Palestina in Occidente, molti dei cui sostenitori, compresi quelli nei campus universitari, considerano Hamas un legittimo organo di resistenza. Lo ha sottolineato questa settimana in un video che mostra un uomo bendato interrogato per presunta «collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese», l’organismo che governa, sotto il controllo israeliano, la Cisgiordania. Poiché tale accusa costituisce un crimine capitale sotto il regime di Hamas, è probabile che l’uomo sia stato giustiziato. Il Telegraph ha appreso i dettagli di un ulteriore omicidio di un organizzatore della protesta, Mohammed Abu Saeed, che guidava il movimento a Khan Younis. I testimoni hanno dichiarato che è stato colpito ai piedi così tante volte che è stato necessario amputarne uno. Durante il suo funerale, uomini armati di Hamas avrebbero aperto il fuoco sul corteo funebre, uccidendo alcuni membri della sua famiglia. Oltre alla violenza fisica, queste campagne diffamatorie contro chi manifesta dissenso sono una tattica fondamentale di Hamas. A Gaza accusare qualcuno di collaborare con Israele è la calunnia peggiore. «Risale ai tempi del mandato britannico», ha detto Toameh. «Se vuoi diffamare qualcuno, lo accusi di collaborare con l’occupante. Migliaia di persone sono morte in Cisgiordania per questo dal 1967». Un attivista, che ha preferito restare anonimo, ha affermato che il gruppo terroristico tenta di indurre la gente a rivolgere accuse, contattandole tramite falsi account sui social media. Sebbene le proteste di aprile e maggio si siano esaurite, Hamas si trova ad affrontare una sfida enorme alla sua autorità con l’introduzione del nuovo sistema di distribuzione degli aiuti. Secondo un piano concordato da Israele e dagli Stati Uniti – e osteggiato da quasi tutti gli altri – un’azienda statunitense, la Fondazione umanitaria di Gaza (GHF) distribuisce aiuti tramite un numero limitato di hub creati appositamente. Il piano, giudicato disumano, è oggetto di sparatorie di massa quasi quotidiane, mentre le truppe israeliane forniscono una protezione esterna per i contractors statunitensi, come indicato da testimoni oculari. Nonostante le numerose crudeltà del sistema, questo sembra aver preoccupato Hamas, che in passato intercettava e poi rivendeva enormi quantità di aiuti che arrivavano nelle comunità tramite camion. «Colpito con bastoni, tubi di ferro e pietre» L’11 giugno, uomini armati hanno teso un’imboscata a un autobus che trasportava lavoratori palestinesi destinati a uno degli hub della GHF in una zona di Al-Mawasi, vicino a Khan Younis, uccidendo otto persone. Uno dei morti era Osama Sa’adu Al-Masahal. Sua sorella, Heba Almisshal, ha dichiarato che dopo la sparatoria, «mio fratello e i suoi compagni sono stati trasportati all’ospedale Nasser, ma non sono stati lasciati in pace». Ha aggiunto: «Gli uomini armati li hanno catturati, li hanno gettati contro il cancello dell’ospedale, hanno impedito a medici e infermieri di prestare soccorso e hanno costretto la gente a colpirli con bastoni, tubi di ferro e pietre». Successivamente si è ipotizzato che Hamas avesse preso di mira i lavoratori perché riteneva che fossero associati a una milizia legata a Yasser Abu Shabab, il leader di un clan nel sud della Striscia che Israele sta armando. Mentre la carestia aumenta, incoraggiando i disperati abitanti di Gaza a mettere in discussione i loro governanti degli ultimi due decenni, il potere di queste famiglie armate, che precedono di gran lunga il gruppo terroristico, è cresciuto. Giovedì sono spuntate le immagini delle conseguenze di uno scontro a fuoco nell’ospedale Nasser, dopo che gli uomini armati di Hamas si erano rifugiati dietro ai familiari infuriati di un giovane che avrebbero appena ucciso. Tre loro veicoli sono stati bruciati. Nonostante tutto questo, Hamas resta di gran lunga il gruppo palestinese più potente a Gaza. Come hanno dimostrato le ultime settimane, le insinuazioni dei ministri israeliani più intransigenti, secondo cui i comuni cittadini di Gaza avrebbero potuto semplicemente “sbarazzarsi” del gruppo terroristico – con l’implicazione che forse in realtà non lo volevano – si sono rivelate crudelmente lontane dal vero. Ciò significa che la popolazione, di cui giovedì sono morte più di cento persone in meno di 24 ore, continua a essere stretta tra la macchina da guerra israeliana e i jihadisti che usano la loro sofferenza per giustificare la propria causa di fronte al mondo.
* Corrispondente da Gerusalemme del Telegraph
L’evento del Riformista: Noi, dalla parte di Israele
A inizio giugno Il Riformista ha lanciato un appello a difesa delle ragioni di Israele, raccogliendo migliaia di adesioni. Partendo dall’appello, il quotidiano diretto da Claudio Velardi ha organizzato lunedì sera a Roma un evento “Dalla parte di Israele” in un teatro cittadino. Sul palco sono saliti rappresentanti politici e delle istituzioni ebraiche, giornalisti, comunicatori, studenti universitari.
«Israele è vittima di una asimmetria informativa. Credo molto in questa battaglia a sua difesa, una battaglia che mi sta facendo ridiventare giovane dopo tanti anni di cinismo», ha esordito Velardi. In quattro panel sono stati affrontati tra gli altri temi come “Giovani”, “Media, emergenza antisemitismo”, “I nuovi nemici della libertà delle donne” e “Prospettive”, con uno sguardo anche al futuro. «Dalla parte di Israele è un titolo stupendo e coraggioso, soprattutto in un momento in cui viene promosso un odio ideologico verso Israele e il suo popolo», ha dichiarato l’ambasciatore israeliano a Roma, Jonathan Peled. «Un odio che rischia di avere profonde conseguenze sociali nei prossimi anni».
Era tra gli altri presente in sala la presidente Ucei, Noemi Di Segni. Mentre sul palco è salito Victor Fadlun, il presidente della Comunità ebraica di Roma. Israele, ha detto Fadlun, «è l’avamposto della società occidentale che parte mondo arabo vuole annientare: questo è il dramma che una parte della nostra società non capisce». Per Stefano Parisi, il presidente dell’associazione Setteottobre, «l’Europa è oggi invasa dalla Fratellanza Musulmana e alcuni paesi che finanziano il terrorismo si stanno comprando le nostre università, le nostre città, le nostre grandi piattaforme culturali come lo sport». Al riguardo, si è chiesto Parisi, «cosa fa la leadership europea?». Secondo la giornalista Fiamma Nirenstein, una delle promotrici dell’iniziativa, «Israele non può essere distrutta perché vive in noi il dettame del Deuteronomio che ci impone di scegliere sempre la vita». È un dettame, ha concluso Nirenstein, «che condividiamo nella cultura giudaico-cristiana».
Emanuele Ottolenghi: “Israele non solo ha seriamente danneggiato il programma nucleare iraniano, ma ha reso al regime molto più difficile ricostruirlo”
di Francesco Paolo La Bionda
Il conflitto tra Israele e Iran, che ha visto lo Stato ebraico e gli Stati Uniti infliggere seri danni al programma nucleare del regime di Teheran, è un evento storico che sta già avendo profonde ripercussioni sulla geopolitica del Medio Oriente e non solo.
Per approfondirne le implicazioni e analizzarne i dettagli, abbiamo intervistato Emanuele Ottolenghi, politologo e saggista italiano specializzato in Medio Oriente, terrorismo e antisemitismo. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna e con un dottorato in Teoria Politica all’Università Ebraica di Gerusalemme, Ottolenghi ha insegnato Storia d’Israele presso l’Oxford Centre for Hebrew and Jewish Studies e il Middle East Centre del St. Antony’s College, ha diretto il think tank Transatlantic Institute, è stato Senior Fellow presso la Foundation for Defense of Democracies (FDD), e ora lavora come senior advisor della società di elaborazione dati di rischio 240 Analytics. È autore di numerosi saggi e articoli su questioni mediorientali.
- Israele aveva previsto da anni la possibilità di colpire militarmente i siti del programma nucleare iraniano. Quali fattori lo hanno spinto ad agire a partire dal 13 giugno scorso? La relazione dell’AIEA dello scorso 12 giugno, in cui ha affermato che l’Iran non stesse rispettando gli obblighi di proliferazione nucleare, ha rivelato certamente al mondo la gravità della situazione e l’avanzamento del programma nucleare di Teheran. Gli israeliani però queste informazioni le avevano già, quindi non credo che il rapporto dell’agenzia sia stato un fattore determinante.
È stata importante invece, a mio parere, la conclusione dei sessanta giorni che Trump aveva posto come ultimatum per concludere un negoziato tra Stati Uniti e Iran sulla questione. Israele ha quindi preso consapevolezza che si fosse aperta una finestra d’opportunità, inizialmente se non con il sostegno del presidente americano, almeno col suo tacito consenso. Credo che negli scorsi mesi ci sia stato un andirivieni di funzionari tra Gerusalemme e Washington, in cui gli israeliani hanno convinto i colleghi americani, grazie anche a informazioni d’intelligence condivise, che la finestra utile per intervenire si stesse chiudendo, visti i progressi del nucleare iraniano.
Un altro fattore importante è stata la vulnerabilità dell’Iran a seguito sia dell’indebolimento di Hezbollah e Hamas, in Libano e Gaza, sia degli scontri diretti con Israele avvenuti lo scorso anno. Gerusalemme, infatti, non solo ha neutralizzato le due milizie proxy di Teheran, ma negli attacchi diretti avvenuti ad aprile e ottobre 2024 ha dimostrato di poter penetrare le difese aeree iraniane e le ha in parte neutralizzate, distruggendo i sistemi d’arma antiaerei russi S-300 posti a difesa di uno dei siti nucleari.
- Come si spiega la decisione del presidente statunitense Trump di intervenire militarmente in un secondo momento rispetto all’inizio dell’offensiva israeliana? Credo che Trump volesse evitare il rischio di una guerra prolungata che avrebbe potuto portare a una possibile escalation regionale e sapeva che l’intervento militare americano avrebbe potuto portare a una conclusione molto più rapida del conflitto. Gli israeliani avevano dichiarato di avere soluzioni proprie per eliminare i siti nucleari iraniani più inespugnabili come Fordow, ma avrebbero richiesto molto più tempo, prolungando il conflitto con tutte le sue incognite, e comportato molti più rischi.
Ritengo inoltre che gli americani abbiano ricevuto le informazioni sulla base delle quali gli israeliani avevano deciso di attaccare e le abbiano fatte loro, concludendo che un loro intervento avrebbe potuto essere molto più risolutivo, evitando un trascinarsi del conflitto e il rischio che la partita non venisse davvero chiusa.
È anche possibile che Trump, e questo non esclude gli altri fattori, di fronte al successo israeliano che si stava già profilando, abbia deciso di mandare un messaggio forte non solo all’Iran, ma anche alle altre potenze e agli altri paesi della regione. Ha messo in atto un’operazione militare magistralmente eseguita, con armamenti ineguagliabili, dimostrando che l’America resta a fianco dei propri alleati e mantiene la propria parola sulle questioni di sicurezza nazionale e sugli interessi globali che considera non negoziabili. Questo è un messaggio che trascende lo scontro tra Israele e Iran: è un messaggio alla Russia, alla Cina e anche agli alleati del Golfo, che nei quattro anni di presidenza Biden hanno dubitato della credibilità e dell’affidabilità del loro alleato a Washington.
Questa spiegazione, secondo me, viene confermata anche dalle parole di Mark Rutte, il Segretario Generale della NATO, che al vertice dell’Aia ha ringraziato Trump per aver eliminato la minaccia iraniana, aggiungendo che oggi la NATO è più forte e il mondo più sicuro, un messaggio che è stato ascoltato in tutto il mondo. Anche dagli avversari dell’Occidente.
- Rispetto agli obiettivi che si era posto Israele, quanto è stato effettivamente danneggiato il programma nucleare iraniano e che possibilità ci sono che il conflitto riprenda? Non avremo una risposta chiara alla prima domanda finché non ci saranno valutazioni più precise e definitive dell’impatto delle operazioni militari israeliane. Ciò detto, molte delle polemiche di questi giorni, compresa quella sull’uranio arricchito del sito di Fordow, che non è ancora chiaro se sia stato spostato prima degli attacchi, si concentrano principalmente sul risultato dell’attacco americano, che è solo una parte, seppur non secondaria, della distruzione del programma nucleare iraniano. Gli israeliani, infatti, sono comunque riusciti a distruggere la maggior parte delle fabbriche dove venivano prodotte e assemblate le centrifughe di arricchimento, hanno distrutto i siti dove l’uranio veniva riconvertito in metallo, un passaggio indispensabile per assemblare un ordigno nucleare, hanno eliminato sia un grande numero di scienziati di alto rango sia l’archivio stesso del programma nucleare iraniano.
L’Iran quindi, anche se fosse riuscito a salvare l’uranio arricchito, avrà una grossa difficoltà a rimpiazzare tutte quelle componenti, compresa l’esperienza e il sapere che erano conservati nelle teste degli scienziati, nei loro appunti e nei documenti accumulati in quarant’anni di programma nucleare. Nel peggiore dei casi, insomma, l’Iran potrebbe aver mantenuto una scorta di uranio arricchito e una piccola capacità di arricchimento; nel migliore, tutto è stato completamente degradato o distrutto.
Quindi, anche se viene difficile poter stimare quanto il programma sia stato ritardato in termini di settimane, mesi o anni, valutazioni che peraltro tengono conto anche di altri fattori quali la volontà politica del regime, il danno è stato sicuramente significativo. Bisogna inoltre considerare che, come hanno detto esplicitamente sia gli Stati Uniti sia Israele, se emergessero indicazioni o segnali di una ripresa di queste attività nucleari, sarebbe molto plausibile una ripresa dei bombardamenti da parte americana e israeliana.
Tornando sulla questione di Fordow, un’ultima considerazione: gli israeliani hanno potuto realizzare la propria operazione grazie a un minuzioso lavoro d’intelligence durato anni, che ha permesso loro di identificare e mappare non solo i siti nucleari nascosti, ma anche altri anelli della catena di montaggio che non erano necessariamente noti all’AIEA, non avendo materiali nucleari: centri di studio e di ricerca e fabbriche. Le informazioni di intelligence, poi, hanno permesso anche di eliminare le figure di spicco del regime e del programma nucleare con un livello di precisione stupefacente, al punto di sapere in quale stanza del loro appartamento stessero dormendo. Di fronte a tutto questo, sarebbe incredibile che gli israeliani si siano lasciati sfuggire 400 kg di uranio arricchito. Può darsi che gli iraniani li abbiano effettivamente rimossi, e può altrettanto darsi che americani e israeliani sappiano benissimo dove si trovino ora.
In conclusione, non solo il programma nucleare iraniano ha subito danni ingenti, ma ora i rischi per ricostruirlo sono molto più grandi.
- Israele ha dichiarato che rovesciare il regime iraniano non era uno degli obiettivi dell’operazione, ma un possibile effetto collaterale sperato. Come il conflitto ha cambiato i rapporti di forza interni e come ha reagito il popolo in Iran? È ovviamente difficile sapere con precisione cosa accade in Iran, dove il regime ha sostanzialmente bloccato l’accesso a Internet per tutta la durata della campagna militare israeliana e represso duramente chi ha provato ad aggirare il blocco con soluzioni come Starlink. Il fatto stesso però che siano dovuti ricorrere a queste misure è un indice di una difficoltà interna. Inoltre, l’eliminazione di decine di gerarchi e scienziati e di centinaia di Guardiani della Rivoluzione, i famigerati pasdaran, in particolare con l’attacco sulla loro sede centrale a Teheran, hanno esposto la vulnerabilità del regime e gli creerà per questo problemi. Un segnale a riguardo arriva dall’immediata ondata di arresti e repressione messa in atto in Iran, che è stata giustificata come sempre con le accuse di spionaggio, ma che in realtà viene usata per incutere paura nella popolazione e stroncare il dissenso.
Ci sarà sicuramente anche una resa dei conti tra esercito, pasdaran e religiosi. Ci saranno accuse di tradimento e recriminazioni. Queste divisioni possono generare risultati diversi: potrebbero portare a un colpo di stato interno, a una guerra intestina di una fazione contro l’altra, oppure a un riconsolidamento del regime. Se vogliamo possiamo fare un paragone con tre episodi della storia contemporanea, in cui tre dittature subirono forti contraccolpi dalla sconfitta militare, ma con esiti diversi. La guerra delle Falkland fece cadere dopo circa un anno la giunta argentina e la guerra del Kosovo decretò la fine di Milošević, mentre la guerra del Golfo provocò insurrezioni curde e sciite in Iraq, purtroppo non sostenute dalla coalizione alleata e perciò represse dall’allora regime di Baghdad. Saddam Hussein rimase in quel caso al potere, anche se in Kurdistan fu instaurata la no-fly zone che rese la regione di fatto indipendente.
- La rete di milizie proxy dell’Iran, come Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e i gruppi armati sciiti iracheni, ha fornito un sostegno quasi nullo a Teheran nel conflitto. Solo gli Houthi hanno lanciato alcuni missili verso Israele, con effetti nulli. Sicuramente sia i miliziani libanesi sia quelli yemeniti sono stati indeboliti dalle operazioni militari israeliane e alleate contro di loro dei mesi scorsi. Quali valutazioni li hanno portati a non entrare nel conflitto a fianco dell’Iran. Credo che il fattore più importante sia stata la dissuasione esercitata dalle operazioni israeliane contro Hamas ed Hezbollah dal 7 ottobre in avanti e da quelle americane contro gli Houthi tra marzo e aprile, che li hanno profondamente indeboliti sul piano militare e hanno generato una situazione in cui un nuovo loro intervento a sostegno di Teheran avrebbe avuto conseguenze per loro ancora più devastanti. Questo peraltro ora è successo anche con l’Iran: fino al 12 giugno scorso, infatti, un attacco diretto al regime degli ayatollah era considerato impensabile. Gli scambi di missili e droni tra Iran e Israele lo scorso anno, infatti, si sono svolti in un contesto diverso, dove la precedente presidenza statunitense ha limitato la reazione israeliana: Joe Biden disse testualmente a Netanyahu, che voleva proseguire lo scontro, di fermarsi e “prendere come una vittoria” il fatto che tutti i missili e droni iraniani fossero stati neutralizzati senza causare danni in Israele. Dopo quello che è successo nelle scorse settimane, Israele ora sa di avere non solo l’appoggio, ma anche la disponibilità a un intervento militare diretto, degli Stati Uniti in caso di una ricostruzione del programma militare iraniano.
Poi certo, questo potenziale di deterrenza non vuole dire che la situazione non possa cambiare in futuro: l’Iran sta già cercando di riarmare Hezbollah. Ma almeno in questo momento, i danni subiti fin qui sia da Teheran sia dalle milizie della sua rete è tale da aver lasciato queste ultime molto vulnerabili, e per questo ritengo non abbiano preso parte al conflitto. Questo è un segno dell’errore strategico che il regime ha commesso: Hezbollah, in particolare, era la prima linea di difesa e di dissuasione contro un attacco israeliano all’Iran. Avendo speso questo asset prima di questo scontro, quando Israele ha attaccato, la strada per Teheran, metaforicamente, era senza ostacoli.
- I lanci di missili hanno provocato danni seri in Israele, sia materiali sia umani. Quanto questo fattore ha influito sulla decisione di Gerusalemme di aderire al cessate il fuoco proposto da Washington? E quanto questa vulnerabilità potrebbe dissuadere il popolo israeliano dall’appoggiare una ripresa eventuale delle ostilità? Ci sono stati diversi fattori, tra cui sicuramente l’assottigliamento dell’arsenale di missili intercettori e la pressione americana. Credo però che abbia pesato di più nella decisione del governo israeliano il raggiungimento dei principali obiettivi dell’offensiva, compresa la distruzione per mano americana dei siti nucleari più inespugnabili, tanto più che Israele aveva inizialmente preventivato perdite più pesanti e un successo più contenuto della sua campagna.
Quindi è vero che i missili iraniani hanno sicuramente causato vittime, ma in misura minore di quanto si temesse e senza colpire nessun obiettivo strategico, pur causando distruzione in molte zone residenziali. Nel complesso non si sono rivelati un’arma di dissuasione efficace come si pensava. Se gli iraniani dovessero riuscire a ricostruire e avanzare nel loro programma missilistico, magari acquisendo tecnologia dell’estero per migliorarne precisione e gittata, allora il timore della popolazione israeliana diventerebbe più rilevante, e quindi penso che potremmo aspettarci in tal caso un’interruzione del cessate il fuoco con nuovi attacchi israeliani e possibilmente americani. Sicuramente, nei prossimi mesi vedremo un incremento delle attività clandestine da parte israeliana per sabotare la ricostruzione dell’arsenale balistico iraniano.
- A questo riguardo, per anni Israele e Iran hanno combattuto quella che è stata definita “una guerra nell’ombra”, con sabotaggi, spionaggio e azioni offensive mirate. Possiamo prevedere che il conflitto ora torni a riaccendersi su questo piano? L’Iran potrebbe attuare o commissionare attentati terroristici, come quello contro l’Asociación Mutual Israelita Argentina di Buenos Aires nel 1993? Assolutamente sì. Peraltro, in questi ultimi anni abbiamo visto un aumento dei casi in cui l’Iran ha assoldato organizzazioni criminali transnazionali per compire attentati terroristici sia contro i dissidenti all’estero sia contro obiettivi americani, israeliani ed ebraici. Gli iraniani hanno una rete occulta estesa in tutto il mondo, più forte in alcune regioni e meno in altre, ma che passa anche per le ambasciate iraniane e per la diaspora libanese sciita, almeno la parte che appoggia Hezbollah. Si alleano inoltre con movimenti, ONG e partiti politici in tutto il mondo che condividono la loro ideologia o l’odio per gli Stati Uniti e Israele. Quindi hanno sicuramente tutte le capacità per compiere questo tipo di azioni. Peraltro, essendo stata la Repubblica Islamica praticamente da subito sottoposta a sanzioni economiche, è diventata esperta nell’aggirare gli ostacoli legislativi e i controlli per procurarsi le tecnologie che gli servono, e ora penso raddoppieranno i loro sforzi in tal senso.
Dall’altro lato, finché sopravvive il regime islamico in Iran non penso che gli israeliani desisteranno nelle loro operazioni clandestine, e la guerra per così dire “fredda” continuerà. Mentre ritengo stia recedendo la possibilità di un nuovo conflitto convenzionale tra i due paesi, diretto o attraverso la rete delle milizie filoiraniane.
- A livello internazionale, gli Stati Uniti hanno nettamente riconfermato il loro sostegno a Israele. L’Europa invece si è mostrata divisa sulla posizione da adottare rispetto al conflitto: ad esempio la Germania ha appoggiato pienamente l’operazione israeliana mentre la Francia è stata critica, rispecchiando anche le crescenti divisioni sul conflitto a Gaza. Come pensa evolveranno quindi i rapporti tra Israele e i paesi europei? Continueranno a essere caratterizzati da alti e bassi e con diverse modalità. Alla fine, nonostante i tentativi di presentarsi come un’entità con una politica estera unita, che le dia la possibilità di agire come un attore globale, l’Unione Europea è composta da stati sovrani che conservano con gelosia la loro prerogativa di condurre, almeno in parte, le proprie relazioni diplomatiche e i loro interessi, che sono diversi. Israele è sempre stato capace di giocare bene su questo piano, sfruttando i buoni rapporti con alcuni paesi dell’Europa centrale, che sono entrati nell’Unione più di recente, anche se ormai si parla di vent’anni fa, e che rimangono più sensibili alle ragioni di Gerusalemme su Gaza, ma anche sull’Iran, rispetto a Spagna o Francia. Il buon successo dell’operazione contro il nucleare iraniano rappresenta comunque un sollievo per tutti in Europa, ma non credo ci saranno grandi cambiamenti nella postura diplomatica dei diversi paesi che ne fanno parte nel corso dei prossimi mesi. Non vedo l’Europa capace di adottare una posizione univoca su nessuna di queste questioni: non ci riuscirà neanche sul mantenimento dell’accordo di associazione con Israele, che è osteggiato ad esempio dall’opposizione italiana e dal governo spagnolo, ma sostenuto dal governo italiano e da altri stati membri. Forse su Gaza si potrebbe arrivare a una posizione più condivisa, ma è una questione su cui alla fine avranno molto più impatto gli Stati Uniti e i paesi del Golfo.
L’ossessione di coscienza che genera odio per Netanyahu
Non si possono disconoscere oggi i suoi risultati, eppure il premier israeliano avrebbe fatto tutto per interesse personale. Ma quanto intriso di menzogna è talvolta il moralismo spicciolo di chi fa di ogni slancio un’ossessione?
di Giuliano Ferrara
Che cosa ci dice di noi l’odio per Netanyahu? L’avversione politica si spiega da sola. Un uomo di stato israeliano di destra dispiace a chi coltiva un grande mito ideale e letterario, l’integrazione pacifica in medio oriente di ebrei e arabi musulmani, la convivenza multietnica, il dialogo nello sviluppo comune, l’accostamento di diversi diritti a una patria o focolare nazionale. La crescita senza fanatismi della società israeliana, capace di contaminare con la laicità e almeno un barlume di democrazia quella terra che disconosce l’una e l’altra, è in sé attraente, sembra l’unica vera garanzia di sicurezza per quel paese avventuroso venuto dalla eco ormai lontana ma inestinguibile dello sterminio degli ebrei d’Europa, e da molto altro. Tutte le idee di Amos Oz, peace now, sono finite in minoranza, e Oz sapeva che sarebbe andata a finire così. Ma questo non vuol dire che siano prive di fascino, che alla lunga quel terreno non si debba comunque riconquistare. Tenebra e amore avvinte, inseparabili, complementari.
L’avversione ha basi reali, dopo decenni di occupazione militare e di colonizzazione, in una lotta senza esclusione di colpi per la gestione del potere, in una guerra spietata e tragica generata dal primo pogrom dopo la Shoah, nella totale scomparsa dell’amore e nella vittoria di tutte le tenebre.
Detto questo, perché l’odio? Perché la calunnia? Da dove viene l’ossessione di coscienza che è la versione corrotta ideologicamente dell’obiezione di coscienza?
Netanyahu ha vinto molte elezioni e dura da troppo tempo, forse. Ha fatto degli errori, ma ha lavorato con la legna e i materiali incendiari del suo paese e dei suoi vicini armati. Nemmeno il newyorchese liberal disconosce ora i suoi risultati: i colpi ad Hamas, la distruzione della testa e del corpo paramilitare di Hezbollah, la caduta di Assad, l’attacco al nucleare iraniano e al regime infame degli ayatollah, nato come cocco della gauche internazionale e subito rivelatosi come macchina di assassinio e potenziale sterminio antisemita, neanche gli ossessi di coscienza possono negare, per non parlare delle persone di buon senso e di buon cuore, che l’unico serio contributo a sicurezza e pacificazione sia venuto dalla scelta decisiva di rispondere al 7 ottobre maledetto con una guerra crudele ma necessaria. Eppure Netanyahu avrebbe fatto tutto ciò per salvarsi il culo in senso politicante, per sottrarsi a un processo, per il piacere della vendetta. Ma quanto intriso di menzogna è talvolta il moralismo spicciolo che muove le passioni di chi fa di ogni slancio un’ossessione?
Netanyahu è un abilissimo manovratore dei rapporti di forza, costruisce sui fatti un’opinione nazionale patriottica e genera anche paura, visioni ristrette del futuro, mette la camicia di forza del realismo senza sconti alla situazione in cui si trova. Non è fatto per piacere. Ma i suoi odiatori, che hanno sparso il veleno capace di appestare una generazione di disinformati e di sprovveduti e fanatici nei campus e nelle organizzazioni umanitarie, quelli che lo vedono come il fucilatore degli affamati, l’uccisore di bambini, lo stragista degli innocenti, ora che una prospettiva meno fosca si è aperta grazie al controllo delle informazioni e dei cieli e all’immensa necessità di distruzione soddisfatta dal sacrificio di un paese e di un esercito, e dalla tormentosa sorte dei suoi nemici che hanno sacrificato un popolo come scudo di una banda terrorista, non dovrebbero fare ammenda e riflettere sine ira ac studio sulla quantità di balle dolose che hanno profuso prima di tutto a sé stessi?
Il Foglio, 30 giugno 2025)
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C'è qualcosa di diabolico nell'avversione a Netanyahu
In un commento dell'anno scorso scrivevo: "L’odio implacabile per Netanyahu, dentro e fuori Israele, ha qualcosa di arcano, proprio come l’odio per Israele, con cui in molte menti indissolubilmente si confonde. Da riflettere." Riflessione conclusiva: se è azzardato dire che Netanyahu è ispirato da Dio nelle sue decisioni per Israele, è giustificato dire che l'opposizione a Netanyahu è ispirata dal Diavolo. Gli elementi a favore della diabolicità di questo odio sono gli stessi che spiegano il furore antisemita. Osservati con attenzione, sono gli stessi. E il Diavolo, quando opera, non sta a guardare se gli strumenti di cui si serve sono ebrei o gentili. M.C.
L'enigma biblico dietro l'operazione militare di Israele
Israele ha scelto deliberatamente il nome “Popolo come un leone” per la sua operazione militare. Con questo nome si voleva inviare un messaggio preciso al popolo iraniano, che solo chi legge la Bibbia può comprendere.
di Nicolai Franz
L'attacco di Israele all'Iran ha tenuto il mondo con il fiato sospeso come nessun altro argomento nelle ultime due settimane. Dal punto di vista militare, l'operazione “Rising Lion” (“Popolo come un leone”) è stata, per quanto si sa, un grande successo. Non è ancora possibile prevedere se a lungo termine porterà alla pacificazione della regione o addirittura a un cambio di regime.
Ma “popolo come un leone” era molto più di un attacco militare. Con il solo nome, Israele ha inviato diversi messaggi contemporaneamente. Si tratta della Bibbia, di un'amicizia millenaria e di un antico impero che potrebbe ritrovare nuova forza.
Il 12 giugno 2025, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha infilato un biglietto nel Muro del Pianto. Come è stato reso noto, su di esso era scritto un versetto della Bibbia tratto da Numeri 23,24: “Ecco, il popolo si leverà come un leone giovane e si ergerà come un leone”.
Il profeta Balaam rivolge queste parole al popolo d'Israele. Il re moabita Balak gli aveva ordinato di maledire gli Israeliti, ma Balaam fece il contrario. E incoraggiò il popolo benedicendolo.
Il giorno dopo la visita al Muro del Pianto è iniziata l'operazione “Popolo come un leone”. Naturalmente il biglietto di Netanyahu non era una coincidenza, ma parte di una sofisticata campagna di pubbliche relazioni. Cosa voleva dire? Le risposte sono complesse e ambigue. Da un lato, la campagna sottolinea la forza di Israele: state attenti, siamo forti come un leone.
In effetti, gli attacchi di Israele sono stati un grande successo militare. Ma Netanyahu ha anche sottolineato più volte di non avere alcun problema con il popolo iraniano. Al contrario: ha invitato gli iraniani a scendere in piazza contro il regime dei mullah, a “sollevarsi” come il popolo d'Israele nel quarto libro del Levitico. Il messaggio: non siete nostri nemici, ma nostri amici. Combattiamo insieme contro i mullah.
• Ciro liberò Israele Dalla rivoluzione del 1979, l'obiettivo dello Stato iraniano è quello di cancellare Israele dalla mappa. Tuttavia, secondo gli osservatori, la maggior parte della popolazione iraniana non ha nulla contro Israele. Anche durante la guerra dei sei giorni, l'Iran ha sostenuto politicamente Israele. Ma il rapporto speciale tra i due popoli risale a migliaia di anni fa.
I segnali inviati da Netanyahu al popolo iraniano sono culminati in un'intervista alla televisione israeliana: “Ciro liberò gli ebrei e oggi lo Stato ebraico potrebbe liberare i persiani”. In effetti, molto prima dell'avvento dell'Islam, il re persiano aveva liberato il popolo d'Israele dalla prigionia babilonese. Il popolo di Dio poté tornare in Israele e fu persino autorizzato a ricostruire il tempio.
Ora è tempo che Israele ricambi il favore, almeno così vuole far capire Netanyahu. E poi c'è la vecchia bandiera della Persia. Per millenni un animale speciale ha simboleggiato l'impero persiano: il leone. Solo nel 1979 è stato bandito dalla bandiera nazionale nel corso della rivoluzione islamica. Accanto al leone: un sole nascente.
Non c'è dubbio: con “popolo come un leone” Netanyahu voleva fare qualcosa di più che lanciare qualche missile sull'Iran. Voleva far rivivere un'amicizia secolare per distruggere il nemico giurato di Israele. Una cosa è chiara: questo nemico non è il popolo iraniano, ma i mullah che lo opprimono.
• Prima della guerra La notizia principale della settimana è quella che i media e i politici in Europa e anche in Italia si rifiutano ostinatamente di dare: Israele ha vinto, la guerra non è finita ma si avvia verso la conclusione. La vittoria di Israele risulta chiara semplicemente confrontando la situazione di questi giorni con quella subito precedente al 7 ottobre. Allora Hamas aveva decine di migliaia di uomini armati e ben disciplinati, almeno 20 o 30 mila missili, l’appoggio della popolazione di Gaza che amministrava, oltre che quello di altre organizzazioni terroristiche come la Jihad Islamica (direttamente iraniana) e le “brigate di Al Aqsa” (di Fatah), era arroccata in una rete di fortificazioni sotterranee di 800 km, seguiva un piano ben congegnato per prendere di sorpresa lo Stato ebraico onde assicurarsi l’insurrezione degli arabi israeliani e di Giudea e Samaria, contava sulla divisione politica e sociale profonda di Israele. Otteneva rifornimenti dal confine egiziano, era sostanzialmente appoggiato dall’Onu attraverso l’Unrwa e visto di buon occhio dalla sinistra mondiale. Era garantito, finanziato e armato dalla potenza regionale che puntava all’egemonia e allo status di grande potenza, l’Iran. Al Nord c’era Hezbollah, che aveva ancora più soldati e meglio armati di Hamas; i suoi missili erano 100 o 150 mila, molti di precisione. Aveva anch’essa i suoi tunnel e l’appoggio diretto dell’Iran, governava in sostanza il Libano e usava il corpo internazionale di Unifil come scudo. A Nordest c’era il regime siriano, indebolito dalla guerra civile, ma garantito da militari russi e di Hezbollah, comunque coi suoi missili, aerei e forze corazzate, ben disposto a fare da ponte fra Iran e Hezbollah. Dietro c’erano altri satelliti iraniani, gli Houti in Yemen, gli sciiti in Iraq. Tutte creature dell’Iran, con la sua grande popolazione, l’industria moderna, il petrolio, le alleanze con Russia e Cina, i missili balistici a lunga gittata, un progetto di armamento atomico che era ormai arrivato alla soglia della bomba: la testa del serpente.
• La situazione attuale Oggi tutto questo non c’è più. Decimato Hamas, i suoi capi sul campo e all’estero eliminati, buona parte delle sue fortificazioni e quasi tutti i missili distrutti, i canali di rifornimento tagliati. Gli resta l’appoggio dell’Onu e della sinistra mondiale con i suoi media e le loro menzogne (quotidiane a prova della loro vergogna). Hezbollah ha perso le sue armi, i suoi comandanti, le sue installazioni, il dominio del Libano, quasi tutto il peso politico. La Siria è passata in mano a un gruppo anti-iraniano, che certamente è manipolato dalla Turchia, ma esprime volontà di far la pace con Israele (come molti in Libano) e non fa più da ponte per l’infiltrazione persiana sul Mediterraneo. Degli altri gruppi restano attivi gli Houti, pesantemente colpiti però da Israele e dagli Usa. Soprattutto l’Iran ha perso la sua invincibilità, non ha più difese aeree, gli restano pochi missili, ha visto il programma atomico annullato o molto ritardato (e sottoposto alla minaccia di nuovi bombardamenti se proverà a ricostituirlo). Non c’è stata l’insurrezione popolare che si sperava, ma certo Israele con 10 milioni di abitanti contro i quasi 90 dell’Iran e stando più di mille chilometri lontano non poteva imporlo. Ma i processi storici richiedono i loro tempi, bisogna vedere se i persiani saranno disposti a pagare il prezzo enorme necessario per cercare di far ripartire il progetto imperialista del regime.
• Il merito di Netanyahu L’architetto di questa vittoria ha un nome, Benjamin Netanyahu. È lui che ha capito, contro l’opinione dell’amministrazione Biden, dell’Europa e della minoranza in Israele, che questa volta non sarebbe bastata un’operazione “per ristabilire la dissuasione”, ma ci voleva un cambio del paesaggio politico del Medio Oriente e dunque prima di tutto un’operazione di terra a Gaza. È lui che ha voluto andare fino in fondo, occupare il confine con l’Egitto e Rafah, contro gli strilli di mezzo mondo, i “don’t” di Biden, la resistenza del capo di stato maggiore e del direttore dei servizi segreti competenti (Shin Bet) che ha licenziato. È lui che ha insistito nella nuova mossa ora vincente e per questo demonizzata da Europa, Onu, stampa, di eliminare la distribuzione di soccorsi dell’Onu, collusa con Hamas, e di sostituirla con una cogestita con gli Usa. È lui che ha deciso, pure qui vincendo molte resistenze anche interne, il bombardamento di Nasrallah e l’uso dei carcapersone esplosivi per eliminare i capi di Hezbollah. È lui che ha speso le sue sofisticate abilità diplomatiche per ottenere l’assenso dell’amministrazione Biden prima e di quella Trump dopo per le sue scelte, senza mai forzare, aspettando pazientemente il momento giusto. È lui che ha deciso il bombardamento dell’Iran dopo aver coinvolto Trump (che la solita stampa diceva avesse rotto con lui). Ed è lui che in cambio del bombardamento di Fordow, punto decisivo della guerra con l’Iran, ha accettato il cessate il fuoco voluto dal presidente americano: altra prova di flessibilità e capacità diplomatica. La vittoria, perseguita con ostinazione per 21 terribili mesi, è sua. Nessuna sorpresa che la sinistra estrema ma anche moderata, politica ma anche mediatica, lo odii come mai aveva odiato nessun altro dei molto diffamati dirigenti israeliani.
• Una dimensione storica La guerra che Israele ha vinto non è solo quella dei “dodici giorni” con l’Iran e neppure quella aperta con il pogrom criminale del 7 ottobre 2023 e i bombardamenti successivi (cui subito, il giorno dopo stesso, si unì Hezbollah, e che le carte di Sinwar mostrano pienamente concordata con l’Iran). È la guerra che da decenni organizza l’Iran, raccogliendo la bandiera del terrorismo dei Fatah e dell’Olp e l’eredità delle quattro guerre promosse dagli stati arabi (1948-49, ‘56, ‘67, ‘73). È la guerra dei cent’anni dei musulmani contro l’instaurazione di uno Stato ebraico in Terra di Israele, partita coi pogrom del 1921. Questa è una vittoria più grande e decisiva di tutte quelle passate. Mai Israele aveva combattuto contro tante forze e su tanti fronti, Soprattutto mai era arrivata alla radice dell’aggressione: dietro all’Egitto e alla Siria nelle guerre dopo la costituzione dello Stato c’era la potenza atomica dell’Urss, mentre oggi si è visto che Russia e Cina sono capaci di spendere parole e spedire rifornimenti all’Iran, ma non si sognano di minacciare Israele. Certo, il lavoro è incompleto, Khamenei ancora è il leader iraniano, ma Nasser rimase presidente dell’Egitto dopo aver perso la guerra dei Sei giorni, fino alla sua morte nel 1970 e così Hafez Assad dopo il 1973. I risultati politici successivi a quelle guerre si realizzarono solo dopo anni.
• La conclusione e i dopoguerra Ora il punto è come concludere questa guerra e come non far svanire la vittoria con condizioni di pace fallimentari, come vorrebbe l’Europa, la sinistra mondiale e anche quella interna, proponendosi una nuova Oslo o un accordo atomico con l’Iran su stile Obama. Non è possibile pensare che Hamas resti in circolazione più di quanto potesse rimanere in piedi un partito nazista nella Germania dopo il ’45. Non può essere l’Onu o una sua creatura inetta e complice come Unrwa o Unifil ad amministrare la transizione. Non può essere assegnato un ruolo all’impotente, corrotta e anch’essa complice Autorità Palestinese, prossima del resto allo scontro interno quando il vecchio e malato Mahmud Abbas morirà o sarà costretto al ritiro. È una partita che si giocherà fra Israele, Usa (cioè Trump) e stati arabi moderati (innanzitutto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, con una certa influenza dell’Egitto). Per vincerla Israele avrà ancora bisogno di Netanyahu. Chi si illude di metterlo fuori gioco in cambio alla fine della persecuzione giudiziaria di cui è oggetto (e che l’ha intricato vergognosamente anche nei momenti più difficili di questa guerra), non conosce la tempra del leader e comunque non svolge un buon servizio a Israele.
Vorrei iniziare questo argomento con due uomini che avevano lo stesso nome e vivevano nello stesso periodo: uno in Europa, l'altro oltreoceano, negli Stati Uniti. Entrambi erano cristiani devoti e convinti che prima del ritorno di Gesù sarebbe avvenuto il ritorno degli ebrei in Israele, allora ancora chiamata Palestina, e che Israele sarebbe risorto.
Il primo è William Hechler, che operò in Europa. Visse dal 1845 al 1931 e nacque in India da un missionario anglicano. Hechler stesso divenne pastore anglicano e, sulla base delle profezie bibliche, era fermamente convinto della restaurazione di Israele prima del ritorno di Gesù.
Come precettore alla corte del Granduca di Baden, ebbe accesso alla nobiltà tedesca. Divenne un caro amico di Theodor Herzl e lo incoraggiò nella sua causa sionista, poiché egli stesso credeva nella restaurazione di Israele. Grazie ai suoi contatti, Hechler cercò di spianare la strada a Herzl presso varie case reali europee. Riuscì così a portare la questione all'attenzione dell'imperatore Guglielmo II, che alla fine la sottopose al sultano di Costantinopoli. Tuttavia, il reggente turco, sotto il cui dominio si trovava allora la Palestina, non mostrò alcun interesse.
Hechler rimase al fianco di Herzl fino alla sua morte, avvenuta nel 1904. Quando Herzl cominciò a impazientirsi, Hechler gli scrisse:
«Rimani calmo, sereno. Lassù, al vertice di tutte le cose, troneggia Colui che governa tutto secondo la sua volontà, nonostante la malvagità degli uomini. Seguiamo Lui. Io sto facendo propaganda ovunque [...] Dio ti benedica».
Quando le speranze di una patria ebraica rimasero deluse, pochi mesi prima della sua morte Hechler intuì che la rinascita di Israele sarebbe avvenuta attraverso una catastrofe. In una conversazione disse: «Una parte dell'ebraismo europeo dovrà essere sacrificata per la rinascita della vostra patria... »
Sebbene alcune delle speculazioni di Hechler fossero irrealistiche, la sua chiara visione della restaurazione di Israele sulla base delle Sacre Scritture rimane indiscussa. Egli era anche in contatto con la Pilgrim Mission Chrischona ed era vicino al movimento di santificazione. Solo nel 2010 è stata riscoperta la sua tomba dimenticata a Londra.
Con questo arriviamo a William Blackstone, vissuto dal 1841 al 1935. Era un uomo d'affari di successo e un devoto seguace di Gesù. Blackstone sostenne finanziariamente la fondazione del Moody Bible Institute e nel 1878 scrisse il libro «Jesus is Coming». Fondò anche la prima missione per l'evangelizzazione degli ebrei negli Stati Uniti.
Nel 1890 organizzò una conferenza di cristiani ed ebrei sul passato, il presente e il futuro di Israele. Promosse un sionismo che doveva andare a beneficio sia degli ebrei che degli arabi. Blackstone fu anche cofondatore e primo decano della Biola University. La rivista Biola scrive di lui:
«Venticinque anni dopo, il giudice della Corte Suprema Louis Brandeis definì Blackstone “il padre del sionismo” e gli chiese di presentare nuovamente al presidente Wilson la sua petizione del 1891, nota come “Blackstone Memorial”. Questa petizione era considerata la migliore espressione di compassione umanitaria nei confronti dei rifugiati ebrei perseguitati e del loro diritto umano a una patria nazionale sicura».
Quando iniziò il movimento sionista, Blackstone inviò a Theodor Herzl una Bibbia in cui aveva segnato tutti i passaggi profetici su Israele. Anche lui fu sepolto in una tomba semplice. Su di lui si legge nella Wikipedia inglese:
«Senza gli sforzi profusi dal reverendo Blackstone nel corso della sua vita per promuovere il sostegno politico americano e la comprensione profetica del dispensazionalismo e del restaurazionismo negli Stati Uniti, il sostegno americano al sionismo e allo Stato di Israele avrebbe potuto essere molto diverso. Famoso durante la sua vita, cadde poi nell'oblio».
Entrambi i Williams credevano indipendentemente l'uno dall'altro nella realizzazione letterale della profezia biblica e nella riunione e risurrezione di Israele, e questo già prima che si tenesse il primo congresso sionista a Basilea nel 1897.
Siamo così giunti al nostro vero argomento: la risurrezione e la salvezza di Israele. Ma esaminiamo prima il testo del profeta Ezechiele
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Una situazione desolante In Ezechiele 6 e 36, il profeta riceve l'incarico di parlare alle montagne d'Israele. Il capitolo 6 parla del giudizio imminente, mentre il capitolo 36 della futura salvezza di Israele. Nel capitolo 37, Ezechiele viene condotto in spirito in una valle. Questa valle, piena di ossa di morti, offre uno spettacolo desolante. Ma torneremo su questo punto tra poco; prima facciamo un'osservazione sul contesto del testo.
Come già detto, le montagne di Israele in Ezechiele 36 e la valle in Ezechiele 37 sono collegate alla restaurazione di Israele. Nei capitoli 38 e 39 viene poi menzionato Gog di Magog, che sarà colpito dal giudizio di Dio sui monti e nelle valli dell'Israele restaurato. I monti d'Israele e la valle sono inizialmente testimoni e teatro del giudizio di Dio sul suo popolo eletto. Ma dopo la risurrezione di Israele e in relazione alla sua salvezza, essi diventano luoghi di giudizio per i nemici del popolo di Dio.
Ora consideriamo la grande pianura piena di ossa secche. Per un ebreo, un luogo simile, dove giacciono ossa di morti non sepolti, sarebbe associato all'impurità. Diversi interpreti sottolineano che queste ossa secche assomigliano a un campo di battaglia o ai resti di una battaglia persa. Ciò rende tangibile la situazione al tempo di Ezechiele: il regno meridionale di Giuda era stato distrutto e devastato dai Babilonesi. La morte e il terrore si erano diffusi, molte persone erano state deportate in Babilonia come prigionieri. Durante la lunga e faticosa marcia attraverso il deserto morirono numerosi israeliti. Ma non è tutto.
Nel versetto 11 viene spiegato a Ezechiele che le ossa secche simboleggiano l'intera casa d'Israele, la cui speranza è completamente perduta. Non si tratta quindi solo di Giuda e del tempo di Ezechiele. Già oltre cento anni prima, il regno delle dieci tribù era stato deportato dagli Assiri. Anche se il ritorno dalla cattività babilonese portò nuova speranza a Giuda e Israele tornò ad esistere al tempo del Nuovo Testamento, sebbene sotto il dominio straniero romano, con la nuova dispersione nel 70 iniziò un lungo periodo di sofferenza per il popolo ebraico. Solo tra il 67 e il 70 d.C., durante l'assedio e la conquista di Gerusalemme da parte dei Romani, morirono oltre un milione di persone. A queste si aggiunsero numerose altre vittime nella guerra giudaico-romana.
Quando l'imperatore Adriano represse la rivolta di Bar Kochba nel 135, furono uccisi ancora oltre mezzo milione di ebrei. Altre centinaia di migliaia morirono nelle repressioni che seguirono. Werner Keller scrisse al riguardo:
«Erez Israel offriva uno spettacolo spettrale. Era completamente devastata e quasi deserta. L'odore di putrefazione della morte impestava l'aria. I cadaveri non potevano essere sepolti: la loro vista doveva servire da monito e deterrente. Tutti i villaggi e le località che avevano opposto resistenza erano ridotti in cenere. In Galilea, un tempo ricoperta di uliveti e vigneti, non c'era quasi più un ulivo o una vite. Dopo le enormi perdite della guerra ebraica, i pochi abitanti rimasti nel paese erano stati decimati in modo terribile. I ribelli catturati, tra cui donne e bambini, furono venduti al mercato della «Terebinto di Abramo» a Mamre e al mercato degli schiavi di Gaza. Molti furono deportati in Egitto. Per mesi, i commando romani continuarono a dare la caccia ai fuggitivi e ai dispersi che si nascondevano nelle valli e nelle caverne.»
Da quel momento in poi, un filo triste attraversa la storia del Medio Oriente e dell'Europa. Ovunque gli ebrei siano andati nel corso dei secoli, sono stati ripetutamente vittime di pogrom, persecuzioni e omicidi di massa. Non va dimenticato che la storia dell'Europa era già stata segnata da un crudele antigiudaismo molto prima del nazionalsocialismo. Anche in Nord Africa ci furono persecuzioni. Da non sottovalutare sono inoltre le persecuzioni degli ebrei da parte della Chiesa cattolica.
Così, una scia di espulsioni e di esilio attraversa la storia dell'intera casa d'Israele. Più volte sono stati oppressi, perseguitati e cacciati. In questo contesto, il versetto 11 assume un significato ancora più profondo: «Le nostre ossa sono secche, la nostra speranza è perduta, è finita per noi».
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Facciamo un salto al 5 gennaio 1895 Quel giorno, sulla piazza d'armi dell'Accademia Militare di Parigi, un ufficiale francese fu solennemente spogliato dei suoi gradi e la sua spada fu spezzata con un gesto drammatico. La folla inferocita che si era radunata gridava slogan antisemiti. Il capitano ebreo Alfred Dreyfus era accusato di aver tradito piani segreti alla Germania. L'argomento: «Solo gli ebrei potevano commettere un tradimento così atroce». In un processo scandaloso fu condannato e deportato sull'Isola del Diavolo. Solo anni dopo fu possibile dimostrare la sua innocenza e Dreyfus fu riabilitato.
Tra gli osservatori di questo processo scandaloso c'era un giovane corrispondente di un giornale viennese. Quest'uomo era egli stesso ebreo e l'ingiusta sentenza non gli dava pace. Cominciò a riflettere sul suo popolo, disperso in tutto il mondo. Non c'era una patria, uno Stato che rappresentasse e difendesse gli interessi degli ebrei. Così questo giornalista viennese, Theodor Herzl, scrisse il suo famoso opuscolo «Der Judenstaat» (Lo Stato ebraico) e divenne il fondatore del sionismo.
Ma l'antigiudaismo in Europa continuò a divampare fino all'ascesa al potere del movimento nazionalsocialista in Germania. Hitler perseguiva l'obiettivo di sterminare tutti gli ebrei. In una diabolica distorsione della storia biblica della salvezza, era convinto che un nuovo paradiso sulla terra potesse sorgere solo dopo la sconfitta del nemico giurato, il popolo ebraico.
La speranza suscitata dalle prime ondate di pionieri ebrei che tornavano in patria fu brutalmente spazzata via dalla Shoah, la catastrofe dell'Olocausto. Oltre sei milioni di ebrei furono uccisi in modo atroce. Allo stesso tempo, l'Impero britannico limitò drasticamente l'immigrazione degli ebrei in Palestina.
Un aspetto poco conosciuto di questo periodo è illustrato nel libro dello storico israeliano Dan Diner, pubblicato nel 2022, «Ein anderer Krieg» (Un'altra guerra). In esso, egli esamina gli sviluppi della seconda guerra mondiale dal punto di vista degli ebrei in Israele, allora ancora chiamata Palestina.
Diner chiarisce che la Wehrmacht tedesca stava preparando una morsa sulla Palestina di allora, da un lato attraverso il Nord Africa, dall'altro attraverso il Caucaso. Le truppe tedesche in Africa
erano a soli 230 chilometri dal Cairo e nell'agosto 1942 la bandiera di guerra del Reich sventolava già sulla vetta più alta del Caucaso. Nessuno poteva sapere allora che la svolta a favore degli Alleati era imminente nelle battaglie di El Alamein e Stalingrado.
All'epoca, i vertici della Haganah, l'esercito clandestino ebraico, discutevano se oltre 100.000 ebrei dovessero ritirarsi sul Monte Carmelo per opporre un'ultima eroica resistenza all'avanzata dei tedeschi, proprio come i difensori di Masada nel 70 d.C. Anche i combattenti clandestini dell'Irgun pensarono di radunare 1000 uomini nella città vecchia di Gerusalemme per opporre una resistenza accanita ai tedeschi per due mesi.
Ogni speranza per tutta la casa d'Israele sembrava perduta.
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Le parole potenti di Dio Di fronte all'enorme campo pieno di ossa di morti, il Signore pone una domanda a Ezechiele: Queste ossa possono tornare in vita? Il profeta viene chiamato «figlio dell'uomo», un appellativo che ricorre circa un centinaio di volte in questo libro. Esso evidenzia l'enorme differenza tra il Dio vivente e noi esseri umani, un fatto di cui oggi spesso non siamo più consapevoli. «Figlio dell'uomo, queste ossa possono tornare in vita?» (v. 3). A differenza di alcuni entusiasti che forse avrebbero esclamato: «Nessun problema, puoi farlo!» o «Ce la farò, se pregherò con forza!», Ezechiele risponde in modo diverso. Le sue parole dimostrano che è consapevole dell'immensa differenza tra lui, figlio dell'uomo, e l'onnipotente Dio d'Israele: «Signore, Signore, tu lo sai». Questa risposta è allo stesso tempo espressione di completa fiducia in Dio e di totale sottomissione al suo piano e alla sua volontà: non è un'esibizione entusiastica, ma un umile riconoscimento della signoria e della sovranità di Dio.
Ezechiele riceve quindi l'incarico di profetizzare su queste ossa. In questa profezia riconosciamo diversi aspetti. Da un lato, si rivela la forza creatrice e potente della parola di Dio. Proprio come nel racconto della creazione, il Dio vivente parla e l'impossibile accade: le ossa disperse si ricompongono, crescono carne e tendini e infine Dio soffia il suo alito vitale. Qui si nota un chiaro parallelismo con la storia della creazione.
Strettamente legato a questo tema è quello della risurrezione dei morti. Alcuni interpreti vedono in questo capitolo un riferimento dell'Antico Testamento alla risurrezione dei morti. In effetti ci sono alcuni parallelismi, ma se consideriamo il brano nel suo contesto complessivo, non si tratta della risurrezione generale dei morti, ma del miracolo della restaurazione di Israele e del popolo ebraico. Ciò è particolarmente evidente nei versetti 13 e 14. Il ritorno di Israele nella sua terra e il rinnovamento spirituale del popolo sono al centro dell'attenzione.
Quando nel versetto 7 le ossa si avvicinano, ciò è accompagnato da un forte rumore e fragore, un altro segno dell'azione potente di Dio. Ciò potrebbe essere collegato all'opera dello Spirito di Dio. È interessante notare, tuttavia, che nella seconda profezia dei versetti 9-10, quando viene soffiato il soffio vitale, non si fa menzione di alcun fragore. La Bibbia Schlachter-2000 traduce in una nota a piè di pagina il tremore delle ossa nel versetto 7 addirittura con «Erdbeben» (terremoto). Ci si chiede quindi se qui non si alluda a un evento violento, addirittura sconvolgente, legato alla risurrezione dello Stato e del popolo di Israele.
Alcuni interpreti vedono in Ezechiele 37 il compimento del ritorno dalla cattività babilonese. Potrebbe trattarsi di un adempimento anticipato, ma la domanda rimane: Tutto ciò che è scritto in questo capitolo è realmente accaduto allora?
Il vento soffia da tutte e quattro le direzioni, mentre il ritorno dall'esilio babilonese avvenne principalmente da una sola direzione. Inoltre, nel versetto 10 si parla di un «esercito grandissimo», un'espressione che ricorda molto la promessa di Geremia 33:22:
«Come l'esercito del cielo non può essere contato e la sabbia del mare non può essere misurata, così renderò numeroso il seme del mio servo Davide e i Leviti che mi servono».
Dopo il ritorno dalla cattività babilonese fino alla dispersione nel 70, Israele invece rimase piuttosto modesto rispetto alla sua grandezza precedente.
Un altro punto importante si trova nel versetto 14: Dio stesso dice che metterà il suo Spirito nel suo popolo. Ciò è direttamente collegato al rinnovamento spirituale di Israele descritto nella seconda parte di Ezechiele 36. Sebbene il ritorno sotto Zorobabele, Esdra e Neemia possa essere descritto come un risveglio, all'epoca non ci fu un rinnovamento spirituale completo. Già i profeti Aggeo e Zaccaria dovettero predicare contro l'inerzia. Esdra e Neemia lottarono contro i mali spirituali e infine Malachia mise in evidenza la crescente superficialità e la conseguente apostasia all'interno del sacerdozio e del popolo. Pertanto, non è convincente considerare Ezechiele 37 come già adempiuto.
Ho citato prima William Hechler e William Blackstone. Entrambi erano convinti, sulla base delle profezie bibliche, della rinascita di uno Stato ebraico. Si potrebbe essere tentati di giustificare questo con il nascente sionismo, ma la loro visione della storia della salvezza era già presente molto prima di questo movimento. Anche la prima grande ondata di ritorno in Israele, iniziata nel 1882, era ancora lontana quando essi espressero la loro convinzione.
C'erano altri cristiani professanti che, sulla base della Bibbia, credevano nella restaurazione di Israele alla fine dei tempi, anche se all'epoca non c'era alcun segno storico che lo indicasse. Due altri esempi: Charles H. Spurgeon (1834-1892) può essere definito un teologo riformato. Mentre molte parti della teologia riformata, nonostante numerose intuizioni preziose, non vedevano un futuro profetico per la terra e il popolo di Israele, Spurgeon era convinto del significato letterale della profezia e credeva nell'adempimento delle promesse fatte a Israele.
Il 9 maggio 1878 predicò sulla vite d'Israele e chiarì che credeva nella restaurazione di Israele come nazione. In un sermone del 16 giugno 1864, Spurgeon disse, riferendosi a Ezechiele 37,1-10:
«Il significato letterale e il significato del passo scritturale (Ezechiele 37,1-10) mi appaiono chiari ed evidenti, un significato che non può essere spiritualizzato o ignorato, che dimostra chiaramente che sia le due che le dieci tribù di Israele saranno restaurate nella loro terra e che un re regnerà su di loro».
Anche nella sua ultima grande battaglia, la controversia sul downgrade (1887-1891), Spurgeon rimase fedele alla sua fede nel ritorno di Gesù e nella successiva instaurazione del Regno Millenario.
Il pastore Karl-August Dächsel visse dal 1818 al 1901 e divenne famoso grazie alla sua serie di commenti in sette volumi «Dächsel's Bibelwerk» (L'opera biblica di Dächsel). Suo padre, anch'egli pastore protestante, non solo era il padrino della sorella di Friedrich Nietzsche, ma era anche sposato in seconde nozze con la sorellastra di Nietzsche. È sconvolgente pensare a quali testimoni di Cristo avesse intorno a sé il filosofo ateo Nietzsche.
Poiché Karl-August Dächsel prendeva alla lettera le Sacre Scritture, era convinto della restaurazione di Israele e della sua salvezza. Ciò emerge chiaramente dalla sua interpretazione di Ezechiele 37. Ecco alcuni estratti dal suo commento:
«Tutti gli interpreti concordano sul fatto che, secondo l'interpretazione inequivocabile di Ezechiele, questa visione non si riferisce alla risurrezione dei cadaveri, ma alla rinascita del popolo d'Israele, spiritualmente morto ma ancora vivente nel corpo; ciò è confermato in modo incontrovertibile dalle parole: “Queste ossa sono tutta la casa d'Israele...”».
E continua:
«La rappresentazione della risurrezione delle ossa morte in due atti si spiega con il riferimento alla storia della creazione dell'uomo e serve, come in quel caso per la creazione dell'uomo, a descrivere in modo vivido la risurrezione creativa di Israele come opera del Dio onnipotente».
Come già accennato, alcuni interpreti considerano Ezechiele 37 come il compimento del ritorno dall'esilio babilonese. A questo proposito Dächsel scrive:
«... questo adempimento è stato preparato e avviato dal ritorno di una parte del popolo dall'esilio babilonese sotto Zorobabele ed Esdra, nonché dalla ricostruzione dell'ordine distrutto, ma tutto ciò non era altro che un pegno per la futura piena restaurazione di Israele».
Più avanti, Dächsel spiega perché la salvezza definitiva di Israele avverrà solo quando sarà completo il numero dei credenti provenienti dalle nazioni.
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Le due fasi del ripristino di Israele Come già accennato, la valle piena di ossa di morti acquista ancora più significato alla luce della storia di Israele dopo la dispersione del 70. A questo proposito cito lo storico, ebreo messianico e teologo luterano David Jaffin, uno dei miei insegnanti:
«La mano di Dio mi toccò», si legge in Ezechiele 37, «e mi condusse in un campo e mi disse: Ezechiele, che cosa vedi? E io risposi: “Per quello che vedo, Signore, non vedo altro che ossa”. Questo è Auschwitz».
Egli sottolinea che la maggior parte dei teologi rifiuta il ritorno di Israele. Come già accennato, nelle ossa dei morti e nella disperazione che esse evocano vediamo la sanguinosa storia di Israele durante la diaspora. Ma proprio alla luce della Shoah questo testo tocca particolarmente nel profondo.
Pensiamo alle terribili scoperte fatte dagli Alleati durante la liberazione dei campi di concentramento: montagne di cadaveri, sopravvissuti ridotti a scheletri, immagini e filmati difficili da sopportare. Pensiamo alle fosse comuni della Shoah, come i tumuli di Bergen-Belsen. Su ciascuno di questi tumuli è riportato il numero stimato delle vittime: centinaia, migliaia. Una realtà del genere sconvolge profondamente.
Nei versetti 12-13 leggiamo:
«Perciò profetizza e di' loro: Così dice il Signore Dio: Ecco, io aprirò le vostre tombe e farò uscire dalla vostra tomba il mio popolo, e vi ricondurrò nel paese di Israele; e voi riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e farò uscire dalla vostra tomba il mio popolo».
Israele uscirà da una situazione senza speranza. Se pensiamo all'intera storia della dispersione, ma anche ai campi di sterminio del nazionalsocialismo, vediamo che torneranno e diventeranno di nuovo un popolo.
Se nel 1943 qualcuno avesse osato affermare che in cinque anni lo Stato di Israele sarebbe risorto dopo quasi duemila anni di dispersione, sarebbe stato dichiarato pazzo. Eppure, poco dopo questa terribile catastrofe del popolo ebraico, accadde l'inimmaginabile: attraverso il fragore mondiale della seconda guerra mondiale, attraverso il terremoto della Shoah, fu preparata la risurrezione di Israele.
Nel nostro testo si possono distinguere due fasi della restaurazione di Israele. Dopo la prima profezia, le ossa si riuniscono, vengono ricoperte di carne e pelle - questo è descritto nei versetti 7-8 e 12-13. Segue poi la seconda fase nel versetto 9: Ezechiele deve profetizzare di nuovo. Lo spirito vitale di Dio entra nei corpi e li rende vivi. In questo contesto, il versetto 14 dice che il Signore metterà il suo spirito in loro. Questa seconda fase descrive la salvezza e il rinnovamento spirituale del residuo di Israele.
Quando pensiamo di scoprire qualcosa nella Bibbia che nessuno ha mai visto prima, è pericoloso. Ma quando scopriamo qualcosa e poi ci rendiamo conto che altri servitori di Dio l'hanno vista allo stesso modo, è una conferma. Spurgeon era sempre felice quando, durante la preparazione delle sue prediche, trovava pensieri che poi trovava confermati nei commentari biblici. Già il testo con la sua doppia profezia dà un chiaro indizio delle due fasi. Questa distinzione si trova anche nell'opera biblica di Däxels. Egli scrive:
«Come nella visione prima appare il lato inferiore (v. 7 s.), poi quello superiore (v. 9 s.), o più precisamente, viene rappresentata la separazione di questi due lati sotto forma di differenza temporale, così anche nell'interpretazione si distinguono chiaramente l'instaurazione politica (v. 12 s.) e quella spirituale (v. 14).»
Dächsel riconosce in questo testo la differenza tra la restaurazione politica e quella spirituale di Israele.
A. La prima fase della restaurazione di Israele Le ossa dei morti si riuniscono. Con il sionismo di Herzl, la speranza perduta di Israele riprese vigore. Nel 1897 si tenne a Basilea il primo congresso sionista. Fritz Grünzweig riporta quanto segue da un testimone oculare dell'epoca:
«A questo congresso erano riuniti ebrei provenienti da tutta Europa: commercianti, banchieri e molti altri. Si discussero diverse possibilità per una patria ebraica, tra cui il Madagascar e l'Africa. Nel bel mezzo del dibattito, un vecchio rabbino gridò le parole del Salmo 137: ‘Se mi dimentico di te, Gerusalemme, la mia destra si paralizzi’. Allora quegli uomini esperti si alzarono, si abbracciarono in lacrime e dissero: “Venite, andiamo nella terra dei nostri padri...”».
Tra il 1882 e il 1903 ebbe luogo la prima Alija, la prima ondata di ritorno degli ebrei in Palestina. All'epoca arrivarono fino a 30.000 persone. Tra il 1904 e lo scoppio della prima guerra mondiale seguì la seconda Alija con diverse decine di migliaia di immigrati.
Nel 1908 fu scoperto il primo giacimento di petrolio in Medio Oriente. Con la Dichiarazione Balfour del 1917 fu concesso agli ebrei il diritto a una patria nazionale in Palestina. Ciò portò a una nuova ondata di immigrazione tra il 1919 e il 1932. In questo periodo furono scoperti altri grandi giacimenti di petrolio in Medio Oriente, il che rafforzò l'interesse delle potenze coloniali per la regione. Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale seguirono altre tre ondate di rimpatrio.
Alla fine furono gli eventi della Shoah ad accelerare rapidamente il ritorno degli ebrei in Israele. Su navi in parte fatiscenti, migliaia di ebrei tornarono nella terra dei loro padri, molti di loro completamente emaciati, sopravvissuti ai campi di concentramento.
L'antico campo di morte di Ezechiele cominciò a trasformarsi nuovamente in corpi viventi. Nel 1948 il mondo assistette alla risurrezione di Israele dalle ceneri della storia. Tuttavia, l'Israele spiritualmente rinnovato e salvato deve ancora venire.
B. La seconda fase della ricostruzione di Israele Oggi viviamo nella prima fase della ricostruzione. Israele sta diventando sempre più il centro dell'attenzione mondiale. Secondo Zaccaria 12-14, sarà alla fine la questione di Gerusalemme a provocare il ritorno di Gesù. Con il ritorno visibile di Gesù inizierà allora la seconda fase di cui parla Ezechiele.
Sia Ezechiele 36 che Zaccaria 12 parlano del rinnovamento spirituale di Israele e della conseguente effusione dello Spirito. Questo deve ancora avvenire. Oggi vediamo davanti a noi il popolo eletto di Dio. È evidente che la prima parte di Ezechiele 37 si sta adempiendo. Tuttavia, la salvezza definitiva di Israele avverrà solo con il ritorno di Gesù. Allora si adempirà ciò che leggiamo nel versetto 14: Dio metterà il suo Spirito nel loro cuore.
La credibilità della Parola di Dio si manifesta nella risurrezione e nel radunamento di Israele. Cosa avrebbe dato Ezechiele per poter vedere Dio iniziare ad adempiere le sue ultime promesse per Israele!
Continuiamo quindi con coraggio – nella testimonianza per Cristo, nella costruzione della comunità e nell'obbedienza al mandato missionario – affinché presto si compia il numero dei gentili, Gesù ritorni e Israele sia salvato.
Sono proprio gli eventi intorno a Israele a ricordarci quello che Gesù dice in Luca 21:28. Lo riassumo così: "In alto i cuori, il nostro Signore sta arrivando!"
(Nachrichten aus Israel, maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
GERUSALEMME - Il leader del partito Shas Aryeh Deri ha dichiarato domenica che Dio ha abbandonato il popolo ebraico “per un brevissimo momento” durante il massacro guidato da Hamas il 7 ottobre 2023, ma che ciò ha portato al crollo dell'intero asse terroristico guidato dall'Iran. “Per un brevissimo momento, il 7 ottobre, il Santo, benedetto sia Lui, ci ha abbandonato. Abbiamo subito un colpo terribile, dal quale non ci siamo ancora ripresi”, ha detto Deri in un'intervista alla rete televisiva israeliana Channel 14. “Ci sono state così tante vittime, alcuni ostaggi sono ancora nelle mani del nemico, ma è stato salvatoil popolo israeliano, che Yahya Sinwar, quell'uomo malvagio e corrotto, aveva deciso di distruggere senza aspettare il consenso di tutti gli alleati”. Anche se il leader ucciso di Hezbollah, Hassan Nasrallah, sosteneva esplicitamente l'obiettivo della distruzione dello Stato ebraico, il leader supremo iraniano Ayatollah Ali Khamenei avrebbe dato il consenso ad Hamas di guidare l'attacco del 7 ottobre senza la piena partecipazione del rappresentante libanese di Teheran. “Vedo in questo ciò che il profeta Isaia ha detto nella sua profezia: ‘Per un piccolo istante ti ho abbandonato, ma con grande misericordia ti raccoglierò’”, ha detto il deputato ultraortodosso nell'ultima puntata del programma “The Patriots” del canale Channel 14. “Improvvisamente abbiamo scoperto – e la nazione di Israele e il mondo intero hanno scoperto – cos'è l'Iran. Gli iraniani hanno perso tutti i loro rappresentanti e ora sono a mani nude”, ha affermato il politico ultraortodosso. “Dio ha compiuto un altro grande miracolo: l'elezione di Trump”, ha continuato Deri, spiegando che “senza il 7 ottobre, senza Trump e senza il primo ministro Benjamin Netanyahu” la campagna in corso delle forze armate israeliane contro Teheran non sarebbe stata possibile. Alla domanda del conduttore di “The Patriots”, Yinon Magal, se ritiene che Netanyahu sia diventato più forte nella sua fede alla luce della guerra su sette fronti contro lo Stato ebraico, Deri ha risposto: “Assolutamente sì”. “Vede le cose in modo molto concreto. Il 7 ottobre ci trovavamo in una situazione umiliante e lui è stato testimone della grande bontà che Dio ci ha dimostrato”, ha detto Deri. La mattina presto del 13 giugno, più di 200 aerei da combattimento israeliani hanno attaccato decine di obiettivi nemici, tra cui installazioni militari e nucleari, in un “primo attacco preventivo, preciso e combinato” contro il programma nucleare di Teheran. Poche ore prima che l'esercito sferrasse i primi attacchi, Netanyahu, insieme al presidente argentino Javier Milei, ha visitato il Muro del Pianto a Gerusalemme. Durante la sua visita, il primo ministro ha inserito nel muro un biglietto con un versetto tratto dal Libro dei Numeri (23:24): “Ecco, il popolo si leverà come un leone e si ergerà come un leoncello”, secondo quanto riferito dall'ufficio del primo ministro. L'attacco aereo delle forze armate israeliane contro il programma nucleare della Repubblica Islamica è stato chiamato, secondo la profezia biblica, Operazione “Un popolo come un leone
(Israel Heute, 26 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il dissidente Ashkan Rostami: “In Iran abbiamo più paura del cessate il fuoco che della guerra. Netanyahu? Ha dato un grande aiuto al popolo”
di Davide Cucciati
Ashkan Rostami è uno dei più autorevoli esponenti della diaspora iraniana in Europa: rappresenta all’estero il Partito Costituzionalista dell’Iran e da tempo prende parte al Consiglio di Transizione dell’Iran. La sua voce, spesso ospite di testate internazionali, offre un quadro lucido e spietato del dissenso iraniano. Oggi, con la paura che il regime rivolga la propria rabbia verso l’interno dopo il recente cessate il fuoco, Rostami avverte: “le persone in Iran sono più spaventate dal cessate il fuoco che dalla guerra”. Un punto di vista indispensabile per capire gli equilibri geopolitici e sociali attuali.
- Quando sei arrivato in Italia? Sono qui dall’agosto 2015. Prima ho vissuto per circa dieci mesi in Turchia, poi sono rientrato in Iran per un breve periodo. Alla fine, ho colto l’occasione per venire in Italia con un visto per motivi di studio. In Iran avevo studiato architettura, in Italia mi ero iscritto a informatica ma non ho terminato gli studi. Oggi lavoro e vivo a Parma.
- Eri già attivo politicamente in Iran? Sì. Ho partecipato alle proteste del 2009, ero parte del movimento studentesco e vicino al Movimento Verde. In quell’anno ho perso due amici: uno è morto durante le manifestazioni, l’altro è stato arrestato. Il suo corpo ci è stato restituito dopo tre mesi. Da allora non ho più smesso di oppormi al regime.
- Come è proseguita la tua attività in Italia? Dopo aver imparato l’italiano nei primi anni, ho fondato due gruppi: uno è il gruppo Ex musulmani in Italia, e l’altro è la Comunità iraniana di Parma. Ho cercato da subito di creare spazi di opposizione e consapevolezza, anche fuori dall’ambito politico ufficiale.
- Hai avuto anche un percorso nei partiti? Sì, ho militato in Europa, dove sono stato coordinatore a Parma per circa un anno. Avevo simpatia per alcune posizioni sui diritti civili ma sono rimasto molto deluso soprattutto sul tema dell’accordo nucleare con l’Iran. Anche lì c’era chi non capiva quanto fosse sbagliato dare legittimità al regime. Dopo +Europa sono passato ad Azione dove ho militato per un altro anno. Ma anche lì ho trovato la stessa incomprensione: non riuscivano a vedere che un accordo con il regime è un errore strategico, oltre che morale.
- Oggi dove ti collochi? Oggi penso che il partito più affidabile sia Fratelli d’Italia. Continuo a tenere molto ai diritti civili ma in questo momento credo sia giusto privilegiare il discorso geopolitico. La priorità è fermare il regime. Non si può essere neutrali su una questione così cruciale.
- Come giudichi la posizione italiana in generale? Nessun partito ha capito davvero la realtà iraniana. La destra pensa soprattutto agli affari, l’estrema destra ragiona ideologicamente e anche la sinistra è tutta ideologia. Nessuno ha davvero ascoltato la nostra voce, quella degli oppositori.
- Che idea hai del futuro politico dell’Iran? Sono monarchico, ma liberale. Sostengo l’idea di una monarchia costituzionale ma anche una repubblica parlamentare o presidenziale andrebbe bene. Se ci fosse un referendum oggi, penso che vincerebbe la monarchia. La parola “repubblica” è associata a troppe ferite. Detto questo, tra 15 o 20 anni penso che l’Iran sarà comunque una repubblica. Le nuove generazioni della monarchia sono nate fuori dal Paese e la famiglia reale è piccola. Le cose cambieranno.
- Com’è la situazione adesso in Iran? A Teheran ci sono più posti di controllo che persone. Un mio amico mi ha detto: “ci sono più blocchi che cittadini”. Il regime si vendica sulla popolazione, la tiene sotto controllo totale. Ma non è solo Teheran: anche Mashhad, che è la seconda città dell’Iran, sacra per gli sciiti, è scesa in piazza nel 2022 per fame. Anche Fordò e Qom, città religiose, oggi sono segnate dalla povertà.
- Ci sono segnali anche dalle province? Sì, assolutamente. Le proteste possono partire da lì. Non si può pensare che solo Teheran sia decisiva. Le città medie e grandi sono piene di tensione. La scintilla potrebbe essere, come molti pensano, la morte dell’Ayatollah.
Pensi che la guerra abbia indebolito il regime? Sì, molto. Ma ora c’è paura vera: il regime è stato indebolito e battuto dal suo nemico numero uno. Ora potrebbe vendicarsi sulla popolazione iraniana. Molti iraniani sono più spaventati dal cessate il fuoco che dalla guerra stessa.
- Come è percepito Netanyahu oggi? Netanyahu ha fatto quello che doveva fare per Israele nella guerra contro il regime. Ha dato una grande mano al popolo iraniano, anche se in modo indiretto. È vero che il regime per ora non è caduto, ma Netanyahu rimarrà nella storia. Ha colpito Hamas, Hezbollah e il cuore del sistema iraniano. Il Medio Oriente è già cambiato.
- Gli Stati Uniti? Come li vede la popolazione iraniana? C’è molta rabbia. Molti iraniani non vedono Israele come nemico ma vedono Trump come uno che ha bloccato la fine del regime. Lo considerano un bluff, anche sul cessate il fuoco. Forse tra un giorno Trump cambierà tutto e diventerà un eroe. Ma oggi, per tanti, è uno di quelli che ha salvato la Repubblica Islamica, come lo erano Obama, Biden e Jimmy Carter. Gli Stati Uniti, questi Stati Uniti, sono visti da tanti iraniani come complici.
- La Cina? Credo che la Cina abbia fatto forti pressioni per fermare tutto. Ha interesse a mantenere calma la situazione. Ma quello che hanno fatto ora è bloccare un cambiamento storico. La paura, dentro l’Iran, è altissima.
- Ti aspettavi un’insurrezione popolare? No, non si poteva pretendere che le persone scendessero subito in piazza. Oggi più che mai bisogna dare tempo all’opposizione per organizzarsi. Il regime è quasi distrutto ma è ancora feroce. Se gli si dà respiro, si riprenderà. Serve tempo, ma anche decisione.
Lo scorso 15 giugno, una parte del Weizmann Institute di Rehovot, in Israele, è stato bombardato da un missile balistico iraniano. Due importanti edifici hanno subito danni significativi e con essi anche lo sviluppo scientifico mondiale. Dottorati di ricerca, pubblicazioni accademiche, laboratori, test e provette: le aule del Weizmann hanno rappresentato l’eccellenza e il cuore pulsante dell’avanguardia accademica. Un luogo impegnato al servizio dell’umanità. “Lo considero la quintessenza della ricerca scientifica, pieno di studiosi che guardano alla natura con curiosità e ingenuità per scoprirne i segreti più profondi – ci racconta Gavriel Hannuna, giovane scienziato italiano del Weizmann – Ci ho lavorato un anno e mezzo. Quando ho visto le foto delle rovine sono rimasto incredulo. Impensabile che la struttura in cui si fa ricerca su cancro, diabete e altre malattie sia stata distrutta. Mi ha lasciato spiazzato e profondamente triste”. Il danno culturale è ben più esteso di quello materiale, stimato intorno ai 300-500 milioni di dollari, perché porta via con sé un patrimonio collettivo di conoscenza che negli anni a venire avrebbe potuto salvare vite in tutto il globo. “Una professoressa, con cui tutt’ora collaboro, aveva scoperto sequenze fondamentali legate a un bersaglio molecolare chiave, potenzialmente utili per lo sviluppo di nuovi anticorpi terapeutici. Quelle informazioni esistevano solo in quei laboratori, ora è tutto andato perso”. L’attacco non ha però generato sconforto. Anzi, in un paese abituato a vivere ciclicamente drammi e gioie, ha rafforzato il desiderio di rimettersi a lavoro, di ricostruire. “Il Weizmann non è solo l’insieme dei laboratori, ma delle straordinarie persone che ogni giorno vi dedicano mente e cuore. La cosa più importante è che siano tutte vive. Possono anche distruggere gli edifici, ma non potranno mai spezzare lo spirito degli scienziati che lo animano. Gli israeliani sono persone che sanno come andare avanti con positività e hanno lo sguardo rivolto al futuro”. Insieme a un’ampia squadra di ricercatori, Gavriel lavora in uno dei laboratori del professor Eran Segal, scienziato di fama internazionale e tra i più prolifici del Weizmann. “Il mio progetto si chiama 10K e coinvolge diecimila persone di età compresa fra i 40 e i 70, che vengono sottoposte a test clinici nel corso di 25 anni. Si tratta di uno studio longitudinale volto a comprendere lo sviluppo delle malattie per identificarne i segnali premonitori e prevenirle in anticipo. Io analizzo alcuni dei numerosi dati che abbiamo per costruire modelli di IA per predire l’insorgenza di diabete e malattie cardiovascolari”. Un lavoro ambizioso e senza precedenti, che ha recentemente esteso la collaborazione ad altri paesi, come gli Emirati Arabi Uniti, per comprendere meglio la diversità biologiche degli esseri umani. Il sapere Made in Israel viene dunque esportato a livello internazionale con lo scopo di migliorare la qualità della vita e donare speranza di cura a chi lotta ogni giorno contro la malattia. Sfide presenti e future, che alimentano la macchina del sapere. “Nel laboratorio di Sima Lev, dove ho lavorato per un anno, si fa ricerca su una forma molto aggressiva di cancro al seno, il triplo negativo, e in particolare su nuovi approcci terapeutici per portare alla morte delle cellule tumorali”. L’attacco al Weizmann riporta indietro le lancette del tempo, danneggiando non solo Israele ma tutte le realtà che vi collaborano e che vedono nell’istituto un partner indispensabile. Fra queste anche l’Italia, che al suo interno vanta la presenza di un gran numero di ricercatori. Molte sono le collaborazioni con il Bambino Gesù, San Raffaele di Milano, Politecnico di Torino e specialmente con l’ospedale Regina Elena di Roma “con cui Sima Lev collabora da anni. In Italia usano una tecnica molto avanzata per studiare il cancro al seno: costruiscono organelli 3D, usando tessuto canceroso che viene preso dalle biopsie delle pazienti, per comprendere quali possano essere le migliori chemioterapie da utilizzare”. Lo spirito resiliente d’Israele ricostruirà quei laboratori in cui scienziati da tutto il mondo lavorano per il bene comune. Perfino per il bene di chi, in Occidente, chiede l’interruzione dei rapporti accademici con Israele, senza rendersi conto di danneggiare sé stesso. ---
* David Di Segni, 25 anni, giornalista pubblicista laureato in Scienze politiche e relazioni Internazionali. L'interesse per la politica estera mi spinge allo studio costante di conflitti internazionali e sicurezza globale.
Attacco al nucleare iraniano, le valutazioni sui risultati
di Luca Spizzichino
A pochi giorni dagli attacchi coordinati di Stati Uniti e Israele contro i principali siti nucleari iraniani, la valutazione dei risultati sembra essere ancora controversa. Il portavoce dell’IDF, il generale Effi Defrin, ha dichiarato mercoledì che Israele ha raggiunto “tutti gli obiettivi operativi” nella lotta contro l’Iran, affermando che il programma nucleare iraniano è stato “significativamente danneggiato e ritardato di anni”. Tuttavia, ha aggiunto che “è ancora troppo presto per valutare pienamente l’impatto dell’operazione”.
Parole simili sono state pronunciate dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, intervenuto da L’Aia in occasione del vertice NATO. “C’è stato un’annientamento totale”, ha detto Trump ai giornalisti, sostenendo che i siti nucleari iraniani siano stati “completamente distrutti” e che Teheran sia stata riportata “indietro di decenni”.
Le dichiarazioni ufficiali cozzano però con le prime analisi di intelligence, in particolare quella della Defense Intelligence Agency (DIA), che in un documento interno trapelato alla stampa americana, sostiene che gli attacchi abbiano sì causato danni, ma abbiano solo ritardato il programma nucleare iraniano di pochi mesi. Il documento contraddice in particolare le dichiarazioni pubbliche del Presidente Trump e del Segretario alla Difesa Pete Hegseth, secondo cui il programma sarebbe stato “completamente eliminato”. Le rivelazioni hanno scatenato una reazione furiosa da parte dell’amministrazione americana. Il portavoce della Casa Bianca ha confermato l’esistenza del documento, ma ha precisato che l’amministrazione “non ne condivide le conclusioni”. L’inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ha definito la fuga di notizie “un atto traditore” e ha chiesto un’indagine per identificare i responsabili. Il Segretario di Stato Marco Rubio, anch’egli a L’Aia, ha difeso l’operazione parlando di “danni significativi e sostanziali” e sottolineando che “l’Iran oggi è molto più lontano dal dotarsi di un’arma nucleare rispetto a prima dell’intervento”.
Nuove immagini satellitari diffuse da Maxar Technologies mostrano danni significativi ai siti nucleari di Natanz, Fordow e Isfahan, ma anche una realtà più complessa. A Fordow, struttura sotterranea altamente fortificata, si osservano crateri nei pressi degli accessi principali e la distruzione di edifici di supporto, ma la struttura sembra essere ancora operativa secondo fonti israeliane e statunitensi. A Isfahan, i tunnel di accesso sono stati colpiti direttamente. Tuttavia, Bloomberg riporta che gli Stati Uniti hanno evitato volutamente di colpire tre piccoli reattori di ricerca contenenti circa 900 grammi di uranio arricchito a livello militare. A Natanz, le immagini satellitari mostrano due crateri principali, già riempiti di terra.
È ancora prematuro determinare in che misura precisa gli attacchi israeliani con ausilio finale americano abbiano danneggiato il programma nucleare iraniano. Sulla centrale di Fordow bombardata pesantemente da sei aerei B-2 con 12 bombe bunker buster, i pareri sono discordanti. Secondo Trump, amante dell’iperbole, Fodrow sarebbe stata “obliterata”, secondo la CNN e il New York Times, notoriamente ostili a Trump, i danni non sarebbero stati molto significativi. Secondo Effie Defrin, portavoce dell’IDF, l’impatto effettivo dei danni inferti all’Iran, sia il comparto nucleare che a quello per la produzione dei missili balistici non può ancora essere determinato con precisione. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Esmail Baghaei, tuttavia, ha confermato che gli impianti nucleari del Paese sono stati «gravemente danneggiati» dai raid americani del fine settimana.
Saranno i prossimi giorni, le prossime settimane, che ci diranno quale è stato l’effettivo successo delle operazioni congiunte, Rising Lion e Midnight Hammer, ma nel frattempo, al netto del bilancio, una cosa si può dire con certezza, fino a quando il regime integralista di Teheran resterà al potere, il problema non sarà risolto. Pensare che a seguito di questo conflitto, Khamenei e accoliti si trasformeranno da lupi ad agnelli è scambiare la realtà per fantasia. Donald Trump è convinto che adesso l’Iran acconsentirà a un negoziato che offrirà garanzie sia a Israele che agli Stati Uniti, ma l’unica garanzia accettabile può essere solo quella della rinuncia totale dell’arricchimento dell’uranio oltre la soglia lecita per il suo uso civile, clamorosamente superata, e un freno alla produzione del comparto missilistico balistico. Non ci sono altre garanzie, poi, Khamenei e i suoi successori potranno invocare solo retoricamente la distruzione di Israele, ma, ed è un grosso ma, per offrire questo pegno il regime che controlla l’Iran da 46 anni dovrebbe rinunciare alle sue ambizioni regionali, all’impianto rivoluzionario e imperialista che costituisce la sua struttura ideologica, dovrebbe cioè accettare di farsi piccolo e sostanzialmente irrilevante, trasformandosi in un’altra cosa. Non è credibile.
Per sopravvivere, il regime di Khamenei ha bisogno non solo di una salda presa interna ma di una forte proiezione di se stesso sul piano delle ambizioni e della rilevanza internazionale, e per farlo non può rinunciare al suo slancio rivoluzionario-millenaristico. Per questo motivo un eventuale negoziato con gli Stati Uniti può avere al momento esclusivamente un significato tattico, oltretutto in una posizione di oggettiva debolezza. Tra poco meno di tre anni, Trump non sarà più alla Casa Bianca e il suo successore potrebbe essere un presidente più allineato sulle posizioni morbide di Obama o di Biden.
C’è solo un modo per risolvere il problema ed è quello di vedere la fine del regime, tutto il resto è solo un succedaneo.
Israele ha riaperto i suoi cieli per i viaggi aerei martedì sera, 24 giugno, dopo che il Comando del Fronte Interno ha revocato tutte le restrizioni sui raduni, mentre il fragile cessate il fuoco con l’Iran sembrava prendere piede. Lo riporta il Times of Israel. Il principale aeroporto internazionale di Israele, il Ben Gurion, e altri aeroporti stanno tornando ad essere pienamente operativi dopo che lo spazio aereo del Paese era rimasto in gran parte chiuso durante gli ultimi 12 giorni di conflitto. Come parte di un’operazione guidata dal governo, negli ultimi giorni le compagnie aeree israeliane hanno iniziato a limitare i voli di rimpatrio per riportare indietro circa 100.000-150.000 israeliani bloccati all’estero e per aiutare quelli bloccati nel Paese a partire. “Le restrizioni sul numero di voli in arrivo e in partenza e sul numero di passeggeri per ogni volo sono state abolite”, ha dichiarato l’Autorità aeroportuale israeliana. “Inoltre, sono state abolite le restrizioni all’arrivo di passeggeri e accompagnatori negli aeroporti”. Martedì scorso, il ministro dei Trasporti Miri Regev ha dichiarato che le autorità dell’aviazione e le compagnie aeree israeliane si stavano preparando ad aumentare il numero di voli e ad estendere l’orario di funzionamento dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per farlo funzionare a pieno regime, 24 ore al giorno. El Al ha dichiarato che tutti i suoi voli in arrivo e in partenza saranno operati alla massima capacità di posti senza alcuna restrizione. I passeggeri di El Al i cui voli sono stati cancellati a causa del conflitto con l’Iran e della chiusura dello spazio aereo israeliano il 13 giugno potranno utilizzare il loro biglietto cancellato senza alcun addebito. Inoltre, il vettore di bandiera sta lavorando per potenziare il suo programma di voli e aggiungere destinazioni nei prossimi giorni per aiutare a riportare in Israele decine di migliaia di passeggeri bloccati all’estero. El Al potenzierà la frequenza dei voli da e per otto destinazioni in cui la maggior parte dei suoi passeggeri è bloccata: Larnaca, Atene, Roma, Parigi, Londra, New York, Los Angeles e Bangkok. Nei prossimi due giorni, inoltre, il vettore locale inizierà a operare voli aggiuntivi da e per Budapest, Bucarest, Amsterdam, Praga, Madrid, Milano, Varsavia e Sofia. “L’assegnazione dei passeggeri sui voli in partenza e in arrivo sarà effettuata automaticamente da El Al, sulla base del modulo di registrazione compilato dai clienti i cui voli sono stati cancellati”, ha fatto sapere la compagnia aerea. “Una volta che tutti i nostri clienti saranno stati assegnati, i voli saranno aperti al pubblico per la prenotazione”. Il piccolo vettore locale Arkia ha annunciato che riprenderà il suo regolare programma di voli previsto per la stagione estiva a partire da lunedì 1° luglio. Le destinazioni includono Rodi, Creta, Corfù, Atene, Parigi, Milano, Ginevra, Mykonos, Larnaca, Amsterdam, Barcellona, New York e Tivat. I biglietti possono essere acquistati sul sito web della compagnia e presso le agenzie di vendita autorizzate. Parlando in una conferenza stampa prima che le restrizioni del Comando del Fronte Interno venissero rimosse, Regev ha affermato che dall’inizio dell’operazione di rimpatrio sicuro lanciata la scorsa settimana e fino a martedì, più di 100.000 israeliani bloccati saranno tornati a casa e circa 70.000 persone saranno partite. Regev ha incoraggiato il pubblico israeliano a tornare a fare progetti per i mesi estivi, anche se non si prevede che la maggior parte delle compagnie aeree straniere riprenda le operazioni di volo verso Israele durante l’alta stagione, poiché hanno già dirottato gli aerei altrove. Sebbene Israele sia stato un mercato redditizio per le compagnie aeree straniere e si preveda una domanda elevata, il loro ritorno graduale è destinato ad essere più lento, poiché i vettori hanno già dirottato gli aerei verso altre destinazioni e cercheranno maggiore stabilità e sicurezza prima di prendere in considerazione il ritorno.
La storia mai raccontata della guerra in Iran: come Israele ha fatto l'impensabile
Un'attenta pianificazione e una campagna magistrale con il sostegno degli Stati Uniti hanno ingannato Teheran sulla sua sicurezza.
di Itay Ilnai
All'inizio di gennaio, un funzionario israeliano ha incontrato il ministro degli Affari strategici Ron Dermer all'ottavo piano dell'ufficio del primo ministro a Gerusalemme. Una settimana dopo, lo stesso funzionario ha incontrato l'allora capo di stato maggiore delle forze armate israeliane, il tenente generale Herzi Halevi, al 14° piano dell'edificio dello Stato maggiore generale nel quartier generale militare di Kirya a Tel Aviv. Da entrambi gli incontri il funzionario è uscito con una chiara consapevolezza: Israele aveva preso una decisione irreversibile: un attacco all'Iran era solo una questione di tempo. Sei mesi dopo, la sinergia tra l'ottavo e il quattordicesimo piano – i piani alti della leadership politica e militare – ha permesso di sferrare un attacco preventivo venerdì 13 giugno. L'opzione militare contro l'Iran, sul tavolo da almeno un decennio, è stata attuata con tempismo perfetto e consenso politico. Mentre le forze armate israeliane mettevano a punto i dettagli dell'imminente attacco all'Iran, i pianificatori capirono che dovevano ripetere la strategia libanese: un colpo concentrato e a sorpresa per sbilanciare il nemico, una sorta di “dottrina Dahieh 2.0”, ispirata al bombardamento sistematico della roccaforte di Hezbollah in Libano durante la seconda guerra del Libano nel 2006 e negli anni successivi. “La differenza è che per Hezbollah ci sono voluti dieci giorni, per l'Iran ci siamo riusciti con il primo colpo in un'ora”, ha detto un funzionario informato. I piani per uno scontro con l'Iran, che prevedevano un attacco alle sue strutture nucleari, erano in fase di elaborazione da anni all'interno dell'apparato della difesa e hanno caratterizzato la costruzione delle forze armate israeliane negli ultimi due decenni. Tuttavia, in tipico stile israeliano, questi piani sono stati abbandonati all'ultimo momento per far posto a una nuova strategia audace, creativa e rapidamente elaborata. “In realtà, abbiamo iniziato a pianificare operativamente l'attacco nella sua forma attuale solo nell'ottobre 2024”, ha detto un funzionario che conosce bene i dettagli. “A quel punto ci siamo resi conto che le forze armate israeliane non dovevano prepararsi solo a un attacco mirato contro l'Iran, ma a un'intera campagna”. Fino a poco tempo fa, anche alti funzionari della difesa consideravano l'idea di un attacco all'Iran irrealistica, un piano che sarebbe rimasto teorico. Ma tre mesi nell'autunno del 2024 hanno cambiato completamente questa visione. Tre attacchi nel mese di settembre – l'Operazione Pagers, i raid aerei per neutralizzare i missili di Hezbollah e l'eliminazione della leadership del gruppo, tra cui Hassan Nasrallah – hanno indebolito notevolmente Hezbollah. “Abbiamo sempre detto che Israele non ha confini con l'Iran, ma l'Iran ha un confine con Israele: Hezbollah, che sta alle frontiere ed è pronto a reagire con forza se attacchiamo”, ha detto un ex funzionario militare. “Una volta eliminato questo confine, è iniziato un nuovo gioco”. In ottobre, l'aviazione israeliana ha condotto l'operazione Days of Repentance, che per la prima volta ha incluso attacchi su larga scala contro i sistemi di difesa aerea iraniani, stimolando l'appetito dei piloti per ulteriori azioni. In novembre, la rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha rafforzato la posizione dei sostenitori di un attacco guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu. A dicembre, i vertici israeliani non discutevano più se l'attacco avrebbe avuto luogo, ma solo quando.
• Il processo di convalida degli obiettivi All'inizio degli anni 2020, la direzione dei servizi segreti militari israeliani è stata riorganizzata, con risorse e personale dirottati verso l'Iran. “Quello che vedete ora è il risultato di anni di sforzi dei servizi segreti militari e dell'aviazione israeliana in Iran”, ha detto una fonte. Il processo di convalida degli obiettivi per l'Iran, condotto dai servizi segreti militari israeliani e dall'IAF, si è concentrato su tre pilastri del programma nucleare: l'arsenale missilistico, gli impianti di arricchimento e il “gruppo di armi” (l'assemblaggio di testate nucleari su missili balistici). Di conseguenza, sono state raccolte sempre più informazioni sulle rampe di lancio, i magazzini e le fabbriche negli arsenali missilistici iraniani. I sistemi missilistici e gli impianti di arricchimento presentavano ciascuno delle difficoltà specifiche, ma i servizi segreti hanno identificato il gruppo di armi come la sfida più grande. Più i servizi segreti avanzavano, più diventava chiaro che erano gli scienziati stessi a rappresentare il collo di bottiglia. “Ci siamo resi conto che dovevamo concentrarci sul fattore umano”, ha detto la fonte. Nel 2020, il fisico Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma nucleare iraniano, è stato assassinato in un'operazione sofisticata sul suolo iraniano. “Una bella operazione”, ha detto qualcuno che ha familiarità con molte missioni di questo tipo. Il successo dell'attacco contro Hezbollah nel settembre 2024, che ha destabilizzato il gruppo e ha praticamente deciso la campagna, ha ispirato i servizi segreti israeliani. Settimane dopo, le stesse persone che si occupavano dell'Iran hanno iniziato a discutere la possibilità di ripetere la strategia libanese in Iran. “Eliminare l'intera leadership militare in un colpo solo”, ha detto una fonte dei servizi segreti. A differenza dell'operazione contro gli scienziati, in cui l'elenco degli obiettivi da colpire è stato progressivamente ristretto nel corso del tempo, in questo caso i servizi segreti lo hanno ampliato. Quello che era iniziato come un piano per uccidere uno o due alti funzionari iraniani è stato poi esteso al comandante dell'aviazione delle Guardie Rivoluzionarie, al comandante in capo delle Guardie Rivoluzionarie, al capo di stato maggiore dell'esercito iraniano e al suo vice. “Quando è nata l'idea, nessuno credeva che potesse essere realizzata contemporaneamente”, ha detto una fonte ben informata. Ma i servizi segreti hanno insistito e hanno formato una squadra speciale che ha lavorato 24 ore su 24. I risultati del team sono stati presentati al capo dei servizi segreti, il generale di divisione Shlomi Binder, e successivamente trasmessi all'aviazione militare (IAF). Negli ultimi mesi, Binder, il comandante dell'IAF, il generale di divisione Tomer Bar, e il capo della direzione operativa, il generale di divisione Oded Basyuk, hanno tenuto numerose riunioni per coordinare l'operazione nei minimi dettagli. Con il passare del tempo, i tre generali e le loro squadre hanno acquisito la convinzione che l'ambizioso piano potesse avere successo. A differenza degli scienziati, che sono stati attaccati nelle loro case, l'operazione dei generali era stata pianificata per una riunione congiunta dell'élite della sicurezza iraniana. Per garantire che si riunissero in un unico luogo, è stata condotta una sofisticata operazione di inganno, i cui dettagli rimarranno segreti per anni. È degno di nota il fatto che le operazioni degli scienziati e dei generali fossero mature quasi contemporaneamente. La piccola squadra di tre generali israeliani, che era a conoscenza di entrambi i piani, li ha portati a termine nelle ultime settimane. Il primo colpo era pronto. Oltre all'operazione “Decapitazione”, il piano di guerra di Israele comprendeva anche altri elementi. Ultimamente si discute molto della superiorità aerea. Anche questo argomento è stato affrontato solo di recente. Mentre i piani per un attacco agli impianti di arricchimento avanzavano, era chiaro che l'IAF aveva bisogno di una via libera per raggiungere Natanz e Fordow. Il dipartimento iraniano del servizio segreto incaricato della ricerca e dell'analisi ha messo a disposizione ingenti risorse per mappare i sistemi di difesa aerea iraniani, che erano molto numerosi. Una volta mappati i sistemi di difesa aerea iraniani, i servizi segreti e l'IAF sono giunti alla conclusione che potevano liberare non solo la strada verso gli impianti nucleari, ma anche verso Teheran e oltre. Il termine “supremazia aerea in Iran” ha iniziato a circolare sottovoce, per poi diventare oggetto di un'entusiastica discussione.
• La messa in scena di una rottura tra Stati Uniti e Israele Dalla fine di maggio, due settimane prima dell'attacco, è iniziata un'operazione di “percezione” per far credere all'Iran che Israele non avrebbe attaccato a breve. È stata orchestrata dall'ufficio del primo ministro e ha comportato la trasmissione di informazioni ai giornalisti israeliani, in particolare a quelli non legati a Netanyahu. Al centro dell'operazione c'erano i colloqui sul nucleare tra la Casa Bianca e Teheran, che davano l'impressione di una frattura tra gli Stati Uniti e Israele. Sei mesi prima del 7 ottobre 2023, l'IAF ha formato una piccola squadra di personale di volo, composta principalmente da riservisti, per pianificare la strada verso la superiorità aerea. Il team ha ricevuto dall'unità segreta 8200 dei servizi segreti un elenco in continua crescita delle posizioni delle batterie di difesa aerea iraniane e importanti informazioni di intelligence. Il team per la superiorità aerea ha presentato il piano al comandante dell'aeronautica militare, che era consapevole dei rischi ma disposto a sacrificare alcuni aerei per portare a termine la missione. “L'obiettivo era quello di non subire perdite, ma la politica del comandante dell'aeronautica militare consentiva alcune perdite purché il piano fosse portato avanti”, ha detto la fonte. "Fortunatamente, abbiamo avuto un successo ben oltre le aspettative e non abbiamo perso un solo aereo. Credo che abbia funzionato perché il nemico non si aspettava un attacco del genere da parte di Israele. Non avevano abbastanza esperienza per essere preparati a quel momento.“ Gli scettici dei servizi segreti dubitavano della capacità dell'aeronautica militare di ottenere la superiorità aerea senza perdite. ”Quando abbiamo iniziato, sembrava impossibile“, ha detto un'altra fonte vicina all'operazione. ”La difesa aerea iraniana è sia di alta qualità che numerosa. Bisogna neutralizzarla rapidamente, altrimenti i piloti israeliani moriranno in Iran". Alla fine, la missione è stata compiuta in sole 36 ore senza perdite. Durante la prima notte sono state distrutte 30 batterie di difesa aerea iraniane e un numero a due cifre di sistemi radar. “La più grande operazione di superiorità aerea della storia”, ha detto qualcuno che conosce i dettagli. Il Mossad si è unito negli ultimi mesi e ha utilizzato droni controllati da agenti locali in Iran per attaccare altre batterie di difesa aerea. Sebbene le operazioni contro scienziati e generali avrebbero potuto essere condotte anche senza la superiorità aerea, il controllo dell'aviazione militare sullo spazio aereo iraniano ha notevolmente facilitato gli attacchi a Natanz, alle postazioni missilistiche e ad altri impianti nucleari. Inoltre, ha consentito una caccia su vasta scala ai lanciatori di missili balistici, poiché lo smantellamento della difesa aerea iraniana ha permesso a un maggior numero di droni di operare senza ostacoli da Israele fino a Teheran. “Ciò significa che è possibile distruggere munizioni su larga scala da Teheran, riducendo drasticamente i lanci di missili contro Israele”, ha affermato una fonte ben informata. “Invece di centinaia di missili il primo giorno, ne abbiamo visti solo poche decine. È stata una svolta decisiva che ha ridotto la pressione e lo stress per Israele”.
• “I preparativi sono iniziati 20 anni fa” Un altro elemento che è stato accuratamente costruito nel corso del tempo è stata la difesa. “Senza difesa non si può attaccare”, ha affermato il generale di brigata (in pensione) Ran Kochav, ex comandante della difesa aerea e capo del programma missilistico Arrow. “I preparativi per una guerra con l'Iran sul fronte difensivo sono iniziati 20 anni fa. Quella era la minaccia di riferimento per la quale ci siamo addestrati, costruendo un sistema di difesa aerea multistrato e conducendo esercitazioni congiunte con il Comando Centrale degli Stati Uniti”. Infatti, gli ufficiali dell'IAF confermano che la difesa aerea e la superiorità aerea sono due componenti che non avrebbero potuto essere raggiunte senza la piena collaborazione con Washington. Questo ci porta all'ultimo componente del piano di guerra israeliano contro l'Iran, “gli americani”, come ha detto un funzionario che ha familiarità con il piano di guerra. “Il piano è stato elaborato senza di loro, ma senza il loro sostegno era impossibile attuarlo”. Poco dopo l'insediamento di Trump nel gennaio 2025, Netanyahu ha ricevuto messaggi dal suo entourage che indicavano che non si sarebbe opposto con forza all'attuazione dell'“opzione militare” se i colloqui sul nucleare con Teheran fossero entrati in una fase di stallo. Secondo quanto riferito, Trump avrebbe revocato le restrizioni allo scambio di informazioni dei servizi segreti, compreso l'accesso ai satelliti e ai sistemi radar statunitensi. Sebbene Trump non si fosse impegnato a partecipare all'attacco, diversi funzionari israeliani confermano che era “profondamente coinvolto nella cerchia ristretta”. “Pieno coordinamento”, ha descritto uno di loro. Trump ha anche partecipato all'operazione di inganno nei giorni precedenti l'attacco a sorpresa. Prima del 13 giugno, fonti vicine ai giornalisti israeliani hanno continuato a diffondere la versione secondo cui un accordo nucleare tra gli Stati Uniti e l'Iran era ormai concluso e che Trump era fermamente contrario a un attacco israeliano. “Queste informazioni sono state servite ai giornalisti su un piatto d'argento, a differenza di casi simili in passato”, ha detto un giornalista. Un'indagine di Israel Hayom ha rivelato che alcune notizie fuorvianti diffuse ai media israeliani provenivano direttamente dai portavoce di Netanyahu. L'ufficio del primo ministro non ha smentito le citazioni tratte dalle conversazioni tra Trump e Netanyahu volte a inscenare una disputa tra gli Stati Uniti e Israele. Un funzionario israeliano vicino all'ufficio ha dichiarato: “Israele ha sorpreso l'Iran con manovre psicologiche. L'obiettivo era quello di far credere alla leadership iraniana che non ci sarebbe stato alcun attacco o che, se anche ci fosse stato, non sarebbe stato imminente”, ha aggiunto. (da Israel Hayom)
(Israel Heute, 25 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Agenti iraniani si spacciavano per giornalisti di i24NEWS per spiare alti ufficiali israeliani
di Luca Spizzichino
Israele ha sventato un tentativo di infiltrazione condotto da agenti iraniani che, secondo quanto rivelato da funzionari della sicurezza israeliana, avevano creato una falsa identità fingendosi una giornalista del canale televisivo i24NEWS con l’obiettivo di introdurre spyware nei telefoni cellulari di alti ufficiali dell’IDF.
Usando lo pseudonimo di Emmanuel Zeitoun, l’operatore si presentava come giornalista e contattava ufficiali di alto rango tramite WhatsApp. Proponeva interviste o briefing con la stampa, sfruttando riferimenti a eventi recenti o a coperture mediatiche in corso per guadagnare credibilità. Nei messaggi, Zeitoun inviava un link, apparentemente legato alla logistica dell’intervista. In realtà, si trattava di un collegamento infetto da spyware, in grado di compromettere il dispositivo della vittima e di sottrarre informazioni sensibili. Il tentativo è stato scoperto quando uno degli ufficiali ha notato alcune anomalie nello scambio e ha deciso di segnalare l’episodio alla Direzione per la Sicurezza delle Informazioni dell’esercito. Le indagini hanno portato alla scoperta che “Emmanuel Zeitoun” era un’identità fittizia, parte di una più ampia campagna di spionaggio iraniana volta a raccogliere intelligence sulla leadership militare israeliana.
“Si tratta dell’ennesimo esempio dei tentativi dell’Iran di penetrare le difese interne di Israele attraverso tecniche di social engineering e strumenti cibernetici,” hanno dichiarato le autorità. “Invitiamo tutto il personale a rimanere vigile, a segnalare contatti sospetti e a non aprire link non verificati, anche se sembrano provenire da fonti affidabili”.
Nel conflitto che infiamma il Medio Oriente, un’eredità millenaria rischia di scomparire nel silenzio: è il patrimonio culturale di Iran e Israele, fatto di templi antichi, città storiche e collezioni museali. Mentre musei e istituzioni mettono in salvo le opere "mobili" più preziose, monumenti, paesaggi e siti archeologici restano esposti ai rischi della guerra. “Il patrimonio artistico di Iran e Israele è straordinario e di portata globale”, spiega a HuffPost Enrico Ascalone, docente di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente Antico all’Università del Salento. “In Israele troviamo una concentrazione di beni legati alla storia delle religioni, con luoghi di valore simbolico universale come Gerusalemme, la città vecchia di Acri, la fortezza di Masada. In Iran, invece, si tratta di un’eredità che abbraccia un arco temporale amplissimo: dal Paleolitico fino all’epoca islamica. Entrambi sono pilastri della civiltà occidentale, in modi diversi ma complementari”. Nei giorni successivi al bombardamento missilistico su Teheran, l’Organizzazione iraniana per il patrimonio culturale ha attivato i protocolli di emergenza, trasferendo le opere più importanti nei depositi sotterranei. La messa in sicurezza è stata completata in 48 ore. Del resto, la posta in gioco è altissima: soltanto il Museo Nazionale dell’Iran custodisce oltre 300.000 reperti, mentre il Museo d’Arte Contemporanea ospita capolavori di artisti come Warhol, Picasso, Monet, Van Gogh. Anche le istituzioni israeliane si sono mosse per proteggere le loro collezioni. L’Israel Museum di Gerusalemme e il Museo d’Arte di Tel Aviv hanno chiuso i battenti, secondo le direttive della sicurezza nazionale. Entrambi resteranno chiusi a tempo indeterminato. “Ci siamo abituati”, ha commentato amaramente Suzanne Landau, direttrice dell’Israel Museum, confermando che anche le opere in prestito sono state messe al sicuro. Ma questi sforzi riguardano esclusivamente i beni mobili. Il problema resta la vulnerabilità dei siti archeologici, dell’architettura storica, del paesaggio. “Solo in Iran ci sono 28 siti dichiarati patrimonio mondiale dell’Unesco. E poi ci sono Pasargade e Persepoli, capitali dell’impero achemenide, che rappresentano le radici stesse della cultura persiana e occidentale”, ricorda Ascalone. “E la città di Isfahan, con le sue moschee, le case storiche, la grande piazza, le architetture del Rinascimento iraniano: Byron la definì 'la città più bella del mondo'. Oggi le vibrazioni dei bombardamenti a distanza hanno già provocato crepe in edifici storici, tra cui moschee dell’XI secolo oggetto di scavi archeologici italiani. In Israele, in particolare a Gerusalemme, si concentrano percorsi religiosi e culturali che raccontano l’origine delle grandi religioni monoteiste e vanno tutelati”. Tra i danni diretti già documentati, il professore segnala anche tre rilievi rupestri sasanidi di Taq-e Bostan, nella regione iraniana di Kermanshah, colpita dai raid. Le incisioni, databili tra il IV e il VI secolo d.C., raffigurano scene di incoronazione e iconografie reali, tra cui quella di Ardacher II nell’atto di calpestare la testa di Giuliano l’Apostata. Poco distante si trovano grotte paleolitiche e neolitiche, testimonianze ancora più antiche oggi minacciate. “Non ci sono solo i rischi immediati: le onde d’urto e le vibrazioni degli attacchi provocano lesioni lente ma progressive. I danni indiretti, come quelli registrati a Isfahan, sono spesso più difficili da monitorare e riparare”, evidenzia il docente. Nel frattempo,riporta ArtNews, la Society for Iranian Archaeology ha chiesto all’Unesco, a Blue Shield e all’International Council on Monuments and Sites di monitorare la situazione. “Il patrimonio culturale non è solo appannaggio di una singola nazione, ma un lascito condiviso da tutta l’umanità”, si legge nel comunicato. “La sua distruzione rappresenta un grave attacco all’identità, alla memoria e alle basi della pace. Chiediamo un’azione internazionale immediata e coordinata per proteggere vite umane, tutelare il patrimonio culturale e difendere i valori del diritto internazionale e dell’umanità condivisa”. Ma è proprio qui sta il nodo. “Le convenzioni internazionali esistono — ricorda Ascalone — ma vengono raramente rispettate. Il diritto internazionale, in tempo di guerra, è il grande assente. Lo stesso vale per le indicazioni dell’UniDroit e per la Convenzione Unesco del 1972: strumenti preziosi, oggi purtroppo depotenziati”. Non si tratta solo di danni collaterali. “A volte colpire il patrimonio culturale è un atto deliberato, finalizzato a cancellare l’identità, la memoria e la coesione di un popolo. È accaduto con i Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani, con le devastazioni dell’ISIS a Palmira, Ninive, Hatra, Mosul, Tikrit. Ma anche durante le guerre del Golfo, quando gli Stati Uniti hanno dimostrato scarsa attenzione verso siti come Ur, Babilonia, o il museo di Baghdad”, aggiunge il docente. In un quadro tanto fragile, conclude Ascalone,”l’Italia ha un ruolo unico da giocare. Per storia, geografia e relazioni diplomatiche, è sempre stata un interlocutore privilegiato del Medio Oriente. Le missioni archeologiche italiane sono tuttora attive in Iran, e il Nucleo Tutela del nostro Arma dei Carabinieri è un modello riconosciuto a livello internazionale per la salvaguardia dei beni culturali. Se l’Europa non si espone, l’Italia deve farlo per difendere un patrimonio che appartiene a tutta l’umanità”.
(L'HuffPost, 25 giugno 2025)
Tamar Herzig, studiosa israeliana specializzata in storia del Rinascimento, docente alla Tel Aviv University. Un missile è caduto ad alcune centinaia di metri dal campus dell’ateneo, provocando danni ad alcune strutture per via delle onde d’urto causate dall’esplosione. C’è anche questo nel conto della rappresaglia di Teheran, che negli scorsi giorni aveva già colpito un’eccellenza del sapere israeliano: l’istituto Weizmann di Rehovot.
Herzig è molto spesso in Italia, un paese che ha nel cuore e dove tiene regolarmente lezioni e conferenze. «Colpisce purtroppo il silenzio assordante di tanti colleghi italiani che ritenevo amici», sottolinea la studiosa, che vive nella città di Ra’anana a nord di Tel Aviv. «Qui per fortuna è successo poco rispetto a Tel Aviv. Ma le esplosioni che sentiamo in lontananza, in quell’area, fanno spavento: sono più forti, molto più intense, di qualunque scenario bellico precedente». La didattica in presenza è inevitabilmente sospesa dal giorno dell’inizio del conflitto aperto tra Israele e il regime degli ayatollah: «Si va avanti con zoom, nei limiti del possibile. Anche perché molti studenti non hanno una abitazione in cui stare e nei rifugi il wifi in genere non funziona. Mercoledì scorso stavo tenendo un seminario per dottorandi, ma prima che potessi concluderlo è suonato l’allarme. E non ho potuto fare altro che interromperlo, chiudere il tutto all’istante».
Alla Tel Aviv University i danni sono nell’ordine di porte e finestre divelte, vetri in pezzi. Peggio è andata ai palazzi nelle vicinanze, «in molti casi distrutti e in particolare quelli più vecchi; per fortuna non ci sono al momento vittime, anche perché ormai la nostra preparazione alle emergenze è stata rodata da mesi di esperienza: 10-15 minuti prima dell’arrivo della minaccia, un sistema di messaggistica ci avvisa dei missili e abbiamo quindi il tempo per spostarci nei rifugi». È un tempo difficile, un tempo di resilienza. L’ha ricordato anche il rettore della Tel Aviv University, Mark Shtaif, in un messaggio rivolto alla “comunità universitaria” nel suo insieme. E quindi a professori, studenti, personale dipendente. «È in momenti difficili come questo che la forza di una comunità viene testata», scrive Shtaif. «Sono fiducioso nel fatto che continueremo ad agire per la reciproca comprensione e solidarietà e in uno spirito di responsabilità condivisa». a.s.
Israele colpisce a Teheran l’orologio che segnava la fine dello Stato ebraico Situato in piazza Palestina, segnava il countdown fino al 2040, data entro la quale secondo l’ayatollah il «regime sionista» sarebbe stato letteralmente cancellato dalla storia. La distruzione dell’orologio ha un enorme peso politico perché era l’emblema della guerra psicologica dell’Iran contro Stato ebraico.
L'orologio che segna quanto manca alla fine di Israele
In piazza Palestina, a Teheran, c’era una volta un orologio digitale. Il tempo che scandiva non era un orario normale: era un conto alla rovescia che indicava, secondo le previsioni della Repubblica Islamica, la fine dell’esistenza dello Stato di Israele. Posizionato in un luogo già intriso di simbolismo politico, l’orologio è stato collocato in Piazza Palestina per diventare l’epicentro delle attività anti-Israele. Un promemoria della missione ideologica dell’Islam incarnato dalla Repubblica Islamica dell’Iran ma anche un monito al pubblico internazionale, oltre che nazionale. Infatti il messaggio del countdown era in tre lingue: in persiano, in arabo e in inglese. Il conto alla rovescia dell’“orologio della Distruzione di Israele” – così veniva chiamato – segnava il countdown fino al 2040. Una data che non è stata scelta a caso ma è legata alla profezia del 2015 della Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, secondo cui Israele avrebbe cessato di esistere entro quella data. Secondo la «profezia» della Guida suprema, entro il 2040 il «regime sionista» sarebbe stato letteralmente cancellato dalla storia. Quel display luminoso voluto nel 2017 era un monito permanente per rimarcare quotidianamente l’odio degli Ayatollah per il nemico ebraico. L’orologio rappresentava uno dei simboli della propaganda e della guerra psicologica della dittatura islamica. Nella giornata di lunedì 23 giugno è stato fatto saltare in aria da un raid mirato dell’esercito israeliano. La sua distruzione ha un enorme peso politico perché “l’orologio della Distruzione di Israele” era l’emblema della guerra psicologica dell’Iran contro Stato ebraico. Adesso che l’orologio è stato colpito, il contdown è finito e Israele sta vincendo la guerra contro la Repubblica Islamica – con il sostegno degli americani nella giornata di domenica 22 giugno sono stati colpiti i cuori del programma nucleare iraniano, tra cui Fordow – è il caso di dire per il regime degli Ayatollah: times is over.
(Bet Magazine Mosaico, 24 giugno 2025)
L’attacco missilistico dell’Iran uccide una sopravvissuta alla Shoah
di Jacqueline Sermoneta
Una sopravvissuta alla Shoah è tra le vittime dell’attacco missilistico iraniano della scorsa settimana a Petah Tikva, in Israele. Si chiamava Yvette Shmilovitz, aveva 95 anni. A confermarlo le autorità israeliane, lo riporta Kan News.
“A nome di tutti i cittadini, mando un forte abbraccio alla famiglia e la sostengo in questo momento difficile. – ha affermato il sindaco di Petah Tikva, Rami Greenberg – Chiniamo il capo e piangiamo l’uccisione di quattro residenti della città, vittime dell’attacco missilistico iraniano. Cittadini amati, il cui unico peccato era quello di voler vivere una vita pacifica e sicura”.
Shmilovitz aveva partecipato al progetto “Good Hands” promosso dall’Autorità per i diritti dei sopravvissuti alla Shoah. L’organizzazione, riferendosi all’uccisione di Shmilovitz e di Bella Ashkenazi di Bat Yam, anche lei sopravvissuta alla Shoah, ha detto nel comunicato che “il percorso di vita delle persone che sono sopravvissute agli orrori della Shoah è stato interrotto in modo crudele, ma il loro messaggio di ricostruzione, di speranza e di resilienza continua a vivere tra noi, ed è così che le ricorderemo, come donne che hanno portato la luce”.
L’attacco missilistico a Petah Tikva ha ucciso anche Daisy Yitzhaki e i coniugi Yaakov e Desi Bello. Un’indagine preliminare condotta dall’Home Front Command ha rivelato che il missile balistico ha colpito direttamente il muro tra due ‘safe room’ dell’edificio residenziale: un colpo diretto che non ha lasciato alcuna possibilità all’infrastruttura di proteggerli.
Centinaia di residenti del quartiere colpito dal missile sono stati evacuati dalle loro case.
Daniel Boaron, il giovane atleta israeliano di 16 anni
Daniel Boaron, giovane atleta israeliano di 16 anni, ha conquistato una medaglia d’oro al Grand Prix di Jiu-Jitsu di Roma. Nonostante l’eccellente risultato, non è stato permesso al vincitore di salire sul podio. Le autorità italiane hanno parlato di “ragioni di sicurezza”, poiché la sua nazionalità avrebbe potuto suscitare “provocazioni”. Nonostante l’esclusione, l’atleta ha reagito con determinazione rivendicando il proprio orgoglio di essere israeliano e in un’intervista post-gara ha affermato: “Sono orgoglioso di rappresentare il mio Paese e felice per il risultato. Grazie al popolo di Israele e ai soldati delle IDF che ci proteggono abbiamo mostrato al mondo cosa valiamo, anche quando cercano di metterci a tacere.” In un’intervista al Jewish News, Amir Boaron, il padre del ragazzo, ha raccontato che Daniel ha ricevuto la medaglia d’oro in privato. Dopo l’intervento delle autorità, “gli è stata consegnata la medaglia lontano dalla cerimonia e abbiamo scattato una foto” ha detto. L’allenatore Nimrod Ryder ha affermato che l’avvertimento è arrivato poco prima dell’inizio della cerimonia: “La vita non è sempre come la pianifichi, è quello che succede. Daniel è arrivato primo, e tutti lo sanno. Eppure, è stato un peccato che non sia potuto salire su quel podio e mostrare al mondo cosa aveva realizzato”. Nonostante l’accaduto, un folto gruppo di volontari della Comunità Ebraica di Roma ha voluto accogliere e festeggiare il giovane atleta per il risultato raggiunto. La Comunità ebraica si dimostra ancora una volta unita contro spiacevoli eventi, oramai diventati quotidiani per ebrei ed israeliani. Il dispiacere per un’ingiustizia subita non può cancellare l’importante traguardo, che Daniel ha saputo rivendicare con orgoglio e fierezza nel rappresentare lo Stato di Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 24 giugno 2025)
Resta fragile e incerta la tregua tra Israele e l’Iran. Poche ore dopo l’entrata in vigore dell’accordo, il regime di Teheran ha sparato due missili balistici contro Israele, intercettati dal sistema difensivo Iron Dome. Israel Katz, il ministro israeliano della Difesa, ha quindi comunicato di aver dato istruzioni di «rispondere con forza alla violazione del cessate il fuoco da parte dell’Iran con attacchi intensi contro obiettivi del regime nel cuore di Teheran».
Il nuovo scenario di crisi ha portato all’intervento di Washington. Entrambi i paesi hanno violato la tregua, ha accusato il presidente Usa Donald Trump, sollecitando sia Iran sia Israele a sospendere le operazioni. L’inquilino della Casa Bianca si è rivolto con inedita durezza anche nei confronti di Gerusalemme: «Israele. Non sganciate quelle bombe. Se lo fate, è una violazione grave. Riportate a casa i vostri piloti, subito!»
Martedì mattina il governo israeliano aveva confermato il cessate il fuoco, sostenendo in una nota che «tutti gli obiettivi» dell’operazione Rising Lion erano stati raggiunti. Israele, si legge nel documento ufficiale, «ha rimosso una duplice minaccia esistenziale e immediata, sia sul piano nucleare sia su quello dei missili balistici», infliggendo gravi danni a strutture di governo degli ayatollah, eliminando centinaia di miliziani del Basij e “neutralizzando” molti scienziati coinvolti nel progetto nucleare. «Israele risponderà con fermezza a ogni violazione del cessate il fuoco», ha poi annunciato il suo governo, nell’invitare la cittadinanza «a continuare a osservare scrupolosamente le direttive del Comando del Fronte Interno e della Protezione Civile». Con l’operazione Rising Lion, si sottolinea ancora nella nota, Israele «ha conseguito risultati storici di portata straordinaria, collocandosi al fianco delle grandi potenze mondiali» e questo è da ritenersi «un successo straordinario per il popolo di Israele e per i suoi combattenti, che hanno eliminato due minacce esistenziali per il nostro paese, garantendo così il futuro di Israele». Poco prima del cessate il fuoco, un missile iraniano non intercettato dall’Iron Dome ha provocato quattro vittime e diversi feriti nella città di Beer Sheva, già duramente colpita negli scorsi giorni.
Raffica di missili dall’Iran: oltre 30 minuti di attacco su Israele
di Michelle Zarfati
Sirene antiaeree in funzione in Israele per il rilevamento di missili lanciati dall’Iran, come ha riferito l’IDF (Forze di Difesa Israeliane). Dapprima nell’area settentrionale, per poi estendersi poco dopo anche alle regioni centrali e meridionali del Paese, a cui ha fatto seguito un secondo lancio sul nord e sul sud. Secondo un comunicato ufficiale, numerosi missili sono stati individuati mentre puntavano verso il territorio israeliano: l’Aeronautica Militare ha prontamente avviato le operazioni d’intercettazione. Le autorità hanno ammonito che “la difesa non è ermetica”, invitando la popolazione a seguire le direttive del Comando della Frontiera Interna. Non sono stati riportati danni o feriti al momento.
Nelle stesse ore, i droni israeliani hanno attaccato sei basi in Iran, abbattendo 15 velivoli da combattimento (F‑14, F‑5 e AH‑1) e un aereo per il rifornimento in volo, causando danni a piste, hangar sotterranei e altre infrastrutture. La missione ha mirato a ridurre la capacità di lancio aereo iraniana. Di notte, circa 20 caccia israeliani hanno sganciato oltre 30 bombe di precisione su obiettivi militari in Iran Occidentale e a Teheran. A Kermanshah sono stati colpiti siti di lancio missilistici e infrastrutture radar; sempre a Teheran è stato distrutto un lanciatore SAM (surface-to-air missile).
Un’altra raffica ha interessato Kermanshah lunedì mattina, con oltre 15 aerei israeliani: obiettivo principale, ancora, siti di supporto missilistico. L’attacco a Teheran ha eliminato una batteria avanzata di difesa aerea – localizzata in un hangar sotterraneo – strategica per mantenere il controllo aereo nella fase finale dell’Operazione “Rising Lion”. Secondo fonti iraniane, 10 membri dei Guardiani della Rivoluzione sarebbero morti in un raid a Yazd domenica. Infine, è stato lanciato un missile balistico verso il centro di Israele: l’IDF dichiara di averlo intercettato e non risultano vittime o danni, secondo il servizio nazionale di emergenza Magen David Adom.
Gerusalemme, la preghiera di Netanyahu per Trump al Muro del Pianto
“Si è assunto il compito di scacciare il male”
GERUSALEMME – Immagini del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che prega al Muro del Pianto a Gerusalemme per “il successo della continuazione della guerra contro l’Iran” e per ringraziare il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dopo gli attacchi statunitensi ai siti nucleari iraniani.
“Possa Egli Dio benedire, custodire, proteggere e aiutare ed esaltare, ed elevare in alto il presidente degli Stati Uniti – ha detto il premier israeliano – perché si è assunto il compito di scacciare il male e le tenebre nel mondo”.
La comunità ebraica in Iran mantiene un basso profilo durante la guerra
Molti ebrei sono fuggiti da Teheran durante il conflitto verso zone più tranquille a nord della città.
(JNS) - Dopo quasi due settimane di guerra tra Iran e Israele, attivisti ebrei iraniani-americani in contatto con amici e familiari ebrei in Iran riferiscono che la loro comunità è al sicuro, ma mantiene un profilo basso durante i raid militari israeliani e gli attacchi aerei statunitensi di domenica contro il regime di Teheran. "Sebbene il regime (iraniano) abbia bloccato Internet e le linee telefoniche da alcuni giorni a causa della guerra, sono riuscito a parlare con alcune personalità ebraiche a Teheran che mi hanno detto di aver ordinato agli ebrei che vivono lì di lasciare la città e di recarsi in altre città iraniane come Shiraz, Isfahan e Yazd, dove sono più al sicuro e possono trovare alloggio presso i loro familiari o altri ebrei", ha riferito a JNS un attivista ebreo iraniano di Los Angeles. I leader della comunità ebraico-iraniana americana si sono astenuti per decenni dal commentare pubblicamente il regime, per paura che ciò potesse portare a ritorsioni contro gli ebrei che ancora vivono in Iran. Saeed Banayan, un uomo d'affari ebreo iraniano in pensione che vive a Los Angeles, ha detto che molti ebrei sono fuggiti da Teheran durante il conflitto verso zone più tranquille a nord della città. “Ho parlato con un membro della mia famiglia che vive a Teheran alcuni giorni fa”, ha detto Banayan. “Mi ha detto che lei e suo marito sono fuggiti dalla città insieme a molti altri ebrei e ora si trovano in zone vicino al Mar Caspio, che sono più sicure e non hanno installazioni militari che potrebbero essere attaccate da Israele”. Un attivista ebreo iraniano di Los Angeles, che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di ritorsioni da parte del regime iraniano contro i suoi familiari in Iran, ha riferito a JNS che la leadership ebraica ha chiuso tutte le sinagoghe e cancellato le funzioni sabbatiche durante il conflitto. “I leader della comunità ebraica hanno consigliato agli ebrei di non apparire in pubblico con la kippah. Hanno cancellato le funzioni religiose ebraiche e hanno chiesto alla comunità di mantenere un basso profilo in pubblico per evitare possibili problemi con il regime o con i musulmani che odiano Israele”, ha detto l'attivista. JNS ha ricevuto un'e-mail in lingua persiana proveniente dalla Shiraz Jewish Charity Association, in cui si chiedeva agli ebrei di Teheran di recarsi temporaneamente a Shiraz per motivi di sicurezza durante il conflitto. “A causa della situazione di emergenza, la Shiraz Jewish Charity Association ha organizzato alloggi temporanei per i nostri parenti di Teheran che desiderano recarsi a Shiraz”, si legge nell'e-mail. “Chiediamo quindi ai nostri cari concittadini ebrei di Teheran di mettersi in contatto con noi. Vi daremo un caloroso benvenuto e provvederemo a fornire alloggi per voi e i vostri familiari”. Dal 13 giugno, l'aviazione israeliana ha bombardato diverse installazioni militari e di ricerca nucleare nella capitale Teheran. Attualmente, la maggior parte della piccola comunità ebraica rimasta in Iran, stimata in 8.000 persone, vive a Teheran. Attivisti ebrei iraniani nel sud della California hanno dichiarato di essere in contatto con amici e familiari ebrei fuggiti dall'Iran dallo scoppio del conflitto. “Conosco diversi ebrei di Teheran che avevano i mezzi finanziari per lasciare l'Iran e sono andati a vivere temporaneamente a Dubai o in alcuni paesi europei per evitare lesioni o la morte”, ha detto Bijan Khalili, uno dei fondatori dell'organizzazione no profit iraniano-ebraica “No To Antisemitism” con sede a Los Angeles. Khalili ha dichiarato a JNS che gli ebrei iraniani in Iran e in America stanno ancora aspettando una dichiarazione ufficiale sulla guerra in corso da parte del Dr. Homayoun Sameyah Najafabadi, attuale presidente dell'Associazione ebraica di Teheran, che è anche membro del parlamento iraniano controllato dal regime. Dall'inizio del conflitto, non ha rilasciato alcuna dichiarazione pubblica. Tuttavia, in una lettera aperta dell'agenzia di stampa Tasnim News Agency, legata alla Guardia Rivoluzionaria Islamica, si afferma che Najafabadi avrebbe scritto che “il lancio quotidiano di migliaia di droni e missili sarebbe la risposta adeguata” all'operazione israeliana. La scorsa settimana, Yehuda Gerami, Gran Rabbino dell'Iran e presidente del Comitato ebraico di Teheran, che rappresenta gli ebrei rimasti in Iran, ha rilasciato dichiarazioni in cui condannava gli attacchi di Israele al regime. Attivisti ebrei iraniani-americani hanno affermato che gli ebrei in Iran vivono sotto costante pressione e sono costretti a rilasciare dichiarazioni a sostegno del regime iraniano, pena gravi conseguenze da parte dell'apparato di sicurezza del regime. “Gli ebrei rimasti in Iran non hanno altra scelta che rilasciare dichiarazioni pubbliche che soddisfino il regime, perché non vogliono problemi con il governo”, ha detto a JNS Dara Abaei, capo del “Jewish Unity Network”, un'organizzazione ebraico-iraniana senza scopo di lucro con sede a Los Angeles. Abaei ha detto di aver parlato con amici e familiari a Teheran dall'inizio del conflitto, i quali gli hanno riferito che la comunità ebraica è al sicuro, ma che la sua situazione è precaria come quella della maggior parte degli altri abitanti della città. “A Teheran vivono circa 10 milioni di persone, la maggior parte delle quali è fuggita dalla città, compresi gli ebrei, perché la situazione è difficile per tutti in questo momento”, ha detto a JNS. “Le banche sono chiuse, i negozi e le scuole sono chiusi, ci sono carenze di acqua ed elettricità ovunque e, a causa del recente sciopero dei camionisti che non trasportano merci in città, ci sono alcune carenze di generi alimentari”. Abaei e altri attivisti ebrei iraniani-americani hanno affermato che tra alcuni ebrei che attualmente vivono in Iran c'è il timore di essere attaccati da folle islamiste radicali che li ritengono responsabili dei raid aerei israeliani nel Paese. “Alcuni ebrei hanno sicuramente paura, poiché esiste la possibilità che vengano attaccati a causa dell'antisemitismo di alcuni gruppi radicali inferociti”, ha detto Abaei a JNS. “Pertanto, la comunità ebraica sta attualmente cercando di rimanere a casa e di non uscire troppo”.
(Israel Heute, 23 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il sindaco di La Courneuve distribuisce bandiere palestinesi ai suoi cittadini
Il sindaco di La Courneuve (Francia), Gilles Poux, ha lanciato un'iniziativa controversa offrendo bandiere palestinesi a tutti gli abitanti del suo comune. In un video diffuso la scorsa settimana sui social network ufficiali della città, il sindaco comunista chiede esplicitamente ai residenti di esporre questi simboli alle finestre. “Voglio una città dai colori della Palestina”, dichiara il sindaco in questo video, in cui denuncia le azioni di Israele nella Striscia di Gaza. Gilles Poux accusa lo Stato ebraico di condurre quello che definisce un “genocidio” contro la popolazione di Gaza, evocando le vittime civili e la situazione umanitaria nel territorio palestinese. La distribuzione delle bandiere fa parte di una più ampia azione di protesta condotta dal sindaco. Qualche giorno prima aveva pubblicato un comunicato per protestare contro la partecipazione di aziende israeliane al Salone del Bourget, importante evento aeronautico che si svolge nel territorio del suo comune. In questo messaggio, il sindaco di La Courneuve critica aspramente la presenza di aziende israeliane produttrici di armi al salone, che accusa di fornire armi al governo di Benjamin Netanyahu. “È intollerabile che gli organizzatori non abbiano preso l'unica decisione possibile: rifiutarsi di fare da vetrina alle armi al servizio di un'impresa genocida”, scrive, pur riconoscendo l'importanza economica dell'evento per il suo territorio. Gilles Poux conclude il suo appello esortando a “proseguire la mobilitazione per il riconoscimento da parte della Francia dello Stato palestinese e per la fine del ‘genocidio’ degli abitanti di Gaza”, illustrando così il netto impegno politico di questo comune della Seine-Saint-Denis nel conflitto israelo-palestinese.
Da anni l'Iran minaccia apertamente di distruggere Israele, sia attraverso i discorsi degli ayatollah che finanziando il terrorismo in tutto il Medio Oriente. Ma molti ancora oggi si chiedono: perché? Perché un Paese che non confina nemmeno con Israele dichiara che la sua distruzione è un obiettivo strategico? Perché l'Iran vede Israele non solo come un nemico, ma anche come una minaccia alla propria identità?
GERUSALEMME - L’ossessione iraniana per la distruzione di Israele è un fenomeno complesso con radici religiose, ideologiche, politiche e storiche. La Repubblica Islamica dell'Iran si basa su una visione rivoluzionaria sciita guidata dagli ayatollah e dalla guida suprema. Questa ideologia si considera all'avanguardia di una “rivoluzione islamica mondiale” con la missione di portare la giustizia, secondo la sua definizione, in tutto il mondo islamico e oltre. Ai suoi occhi, Israele non è semplicemente una “entità occupante sionista”, ma un simbolo dell'incredulità su questa terra, del colonialismo occidentale in Medio Oriente e dell'influenza del “grande Satana”, gli Stati Uniti. In Iran, religione e politica sono indissolubilmente intrecciate, e quindi la distruzione di Israele appare come un passo religioso verso la promozione della redenzione islamica. Il successo di Israele nei suoi 76 anni di esistenza scuote la narrativa ideologica che la rivoluzione islamista a Teheran cerca di raccontare, ovvero che l'Islam rivoluzionario è moralmente e politicamente superiore all'Occidente. Per il regime iraniano, lo Stato ebraico in Medio Oriente è un simbolo rischioso di tutto ciò che la rivoluzione islamica voleva effettivamente eliminare: uno Stato libero, forte, prospero, democratico ed ebraico. Israele ostacola la narrativa iraniana. La teologia sciita, specialmente nell'interpretazione iraniana, attende il ritorno dell'Imam Mahdi nascosto, che inaugurerà una giustizia islamica globale. In questa visione messianica, Israele, uno Stato ebraico indipendente nel cuore del mondo islamico, non ha posto. Al contrario, l'esistenza di Israele è interpretata come un ritardo o addirittura un impedimento all'ordine “divino”. La semplice esistenza di Israele è per gli ayatollah una provocazione teologica, una sorta di “blasfemia permanente” che, dal loro punto di vista, deve essere eliminata. Come una spina nel fianco! Questo mi ricorda il Salmo 83, un'antica espressione del desiderio di annientare Israele per odio. :
“Venite, distruggiamoli, affinché non siano più un popolo, affinché non sia più ricordato il nome di Israele!”
I nemici di Dio stringono alleanze contro Israele perché è una testimonianza della fedeltà di Dio, e questo non lo possono tollerare. L'odio verso Israele ha una radice spirituale: la volontà di cancellare la storia di Dio con questo popolo. Già la Bibbia parla più volte di Israele come di una «spina nell'occhio» o di una pietra d'inciampo per gli altri popoli, sia in senso letterale che figurato. Questo topos biblico ricorre in tutto l'Antico e il Nuovo Testamento e può essere interpretato sia in senso storico-politico che spirituale-teologico. Fin dai suoi inizi, Israele era una spina nel fianco per i popoli di Canaan, e per questo Dio disse chiaramente di eliminare questo pericolo:
«Ma se non scaccerete gli abitanti del paese, quelli che lascerete come superstiti saranno per voi come spine negli occhi e come spine nei fianchi; vi tormenteranno nel paese dove abiterete» (Numeri 33).
Chi non viene allontanato diventa una spina nella carne, simbolo di costante oppressione, ostilità e inquietudine. Israele è oppresso anche quando vive nella sua terra, perché la sua stessa esistenza provoca le culture circostanti. Come oggi i palestinesi.
Il profeta Zaccaria (12) avverte:
«Ecco, io faccio di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutte le popolazioni che la circondano... E avverrà in quel giorno che io renderò Gerusalemme una pietra pesante per tutte le popolazioni; tutti quelli che la solleveranno, saranno feriti».
Israele è descritto come una pietra insostenibile che nessuno può toccare senza subire danni. Lo Stato ebraico è un «problema irrisolvibile» per i popoli, che li preoccupa, li opprime e allo stesso tempo li giudica. Chi lo attacca, ferisce se stesso. Come oggi l'Iran. Israele deve combattere questi pericoli: è ciò che Dio ha già ordinato al suo popolo nella Bibbia. L'odio per Israele svolge una funzione di politica interna in Iran, come un demone che unisce. La società iraniana è profondamente divisa, l'economia è al collasso, il popolo è insoddisfatto: cosa resta per serrare i ranghi? Un nemico comune. Ed è proprio a questo che serve il «nemico sionista» nella propaganda dei mullah iraniani. Come in ogni sistema totalitario che teme il proprio popolo, anche il regime iraniano deve creare un nemico immaginario. Israele – piccolo, ebraico, occidentale – si adatta perfettamente a questo ruolo.
L'Iran non è il primo nemico musulmano di Israele, ma è un nemico speciale. Non solo per i suoi missili o i suoi eserciti proxy, ma perché la sua lotta è ideologica. L'Iran non vuole ridisegnare i confini, vuole cancellare Israele. Non vuole un cessate il fuoco, ma l'annientamento esistenziale dell'idea stessa di Israele. Nel pensiero sciita iraniano, Israele è visto come un errore della storia che non può esistere dal punto di vista teologico e ideologico. Per il regime di Teheran, Israele non sbaglia perché combatte: Israele deve essere combattuto perché esiste. Non è una guerra per la terra, è una guerra per il significato. La Bibbia riconosce che Israele è spesso una spina nel fianco delle nazioni. Non perché agisca con malizia, ma perché la sua stessa esistenza, la sua storia e la sua elezione rappresentano una sfida per gli idoli, per i potenti, per l'orgoglio umano e per la “normale” comprensione della storia. Israele è una contraddizione nella storia mondiale, e proprio questo fa parte della sua vocazione. E questo il regime sciita dei mullah di Teheran non può tollerarlo. Chi crede che si possa indurre il regime iraniano alla moderazione con concessioni o appagamenti, fraintende il carattere di questa ossessione iraniana. Un regime che nega fondamentalmente il diritto all'esistenza di Israele non può essere convinto con la diplomazia. Finché esisterà la Repubblica Islamica dell'Iran, la minaccia non scomparirà, cambierà solo maschera. Non è catastrofismo, ma sobria analisi.
(Israel Heute, 22 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Perché Dio ha creato il mondo? - 6Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Si conclude la parte passiva del piano redentivo Passato il diluvio, concluso il patto di Dio con Noè, andato in fumo il tentativo globalista della torre di Babele e iniziata l’era delle nazioni, si conclude la parte “passiva” del piano redentivo di Dio, cioè quella puramente contenitiva del male.
Ma prima di passare alla parte “attiva”, cioè introduttiva del bene sulla terra, conviene fare alcune osservazioni sull’operato di Dio fino a questo momento.
Ci sono due azioni con cui Dio evita che l’uomo peggiori la situazione con il suo stolido agire:
1. Impedisce che l’uomo mangi del frutto dell’albero della vita;
2. Impedisce che l’uomo riesca a costruire la torre di Babele.
Nel primo caso Dio impedisce che l’uomo entri in eterno nel regno di Satana e abbia fine il progetto originario della creazione.
Nel secondo caso impedisce che in una creazione corrotta dal male l’uomo riesca a costituire sulla terra un governo unitario mondiale con cui sperare di ottenere, in splendida autonomia umana, quella “pace nel mondo” che oggi tanto si ricerca. Un simile governo, elaborato in aperta ribellione a Dio che aveva ordinato di disperdersi sulla faccia della terra, sarebbe diventato presto un prezioso strumento di Satana per sottomettersi il mondo. E anche in questo caso il Signore manifesta il suo amore per la creatura e la creazione facendo silenziosamente fallire questo piano. Ma di questo amore gli uomini di allora non si accorsero, come del resto accade anche oggi. L’amore di Dio non è chiassoso.
• Il primo peccatore
Da notare il comportamento di Dio con Caino, che è il primo peccatore al mondo, il primo omicida, il primo seguace di colui che “è stato omicida fin dal principio”(Giovanni 8:44). Nella Bibbia non è detto il motivo esplicito per cui Dio gradì l’offerta di Abele e non quella di Caino (Genesi 4:3-5). Non ci sta bene? Attenzione, perché corriamo il rischio di reagire come Caino, cioè essere irritati contro il Dio della Bibbia. Perché è lì che Dio si rivela. E per avere risposte convincenti dalla Bibbia occorre conoscerla in tutta la sua totalità (approccio olistico); chi ha fretta e non vuole leggere o ascoltare, eviti di chiedere. La Sacra Scrittura è un organismo vivo che non sopporta di essere squartato per estrarne un pezzo da esaminare al microscopio.
Il peccato di Caino non sta in quello che ha fatto prima del giudizio che Dio ne ha dato, ma in quello che ha fatto dopo. Con la sua irritazione ha fatto capire a Dio di “non essere d’accordo” con Lui. E il Signore è stato molto paziente con questo autentico “figlio degli uomini” - generato per primo da una donna con il seme di un uomo -, e gli ha rivolto buone parole di esortazione e ammonimento. Ma queste hanno finito per aumentare la sua irritazione, al punto che non potendo colpire Dio si è scagliato contro chi ai suoi occhi lo rappresentava: Abele.
Qui entra in gioco la terra:
“L’Eterno disse: ‘Che hai fatto? la voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra’” (Genesi 4:10).
La terra era stata maledetta, e tuttavia l’uomo poteva ancora trarne il frutto, anche se con affanno (Genesi 3:17), ma il sangue di quell’uomo ucciso grida a Dio e la maledizione che aveva subito la terra raggiunge ora anche l’uccisore, che non riceverà più alcun frutto dalla terra bagnata da quel sangue. Conseguenza:
“Ora tu sarai maledetto, condannato a vagare lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti, e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra” (Genesi 4:11-12).
La pena inflitta è davvero pesante.
“E Caino disse all'Eterno: “Il mio castigo è troppo grande perché io lo possa sopportare. Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo, e io sarò nascosto lontano dalla tua presenza, e sarò vagabondo e fuggiasco per la terra; e avverrà che chiunque mi troverà mi ucciderà” (Genesi 4:13-14).
Sì, sarà vagabondo, perché dovrà sempre cercare una terra che gli dia frutto, e “fuggiasco”, perché dovrà continuamente scappare davanti a chi vuole ucciderlo.
Il Signore ascolta il lamento di Caino e stabilisce una protezione:
“E l'Eterno gli disse: ‘Perciò, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui’. E l'Eterno mise un segno su Caino, affinché nessuno, trovandolo, l'uccidesse” (Genesi 4:15).
A Caino però il segno di Dio non basta. Non volendo continuare a fuggire davanti agli uomini, riprende a fuggire davanti a Dio. Per non passare tutta la vita da eterno migrante, fa una cosa non prevista dal “piano regolatore” di Dio per il terreno: fonda una città. Sarà tutta sua. Gli darà il nome di suo figlio (Enoc) e ne diventerà il primo cittadino. Non il segno di Dio, ma le mura costruite dai cittadini saranno una difesa contro chi volesse ucciderlo.
E Dio “abbozza”. Permette al vagabondo e fuggiasco per la terra di diventare l’onorato abitante di una stabile città. Se questo non è amore…
• Città e nazioni Si può tracciare un parallelo tra Caino e gli uomini della pianura di Scinear.
Il primo non vuole più essere “vagabondo e fuggiasco per la terra”; i secondi non vogliono diventare “dispersi sulla faccia di tutta la terra”.
Dal primo nasce la città, e di conseguenza si forma una nuova sottosocietà costituita da cittadini; dai secondi nascono le nazioni, costituenti anch’esse delle nuove sottosocietà all’interno dell’universale società di tutti gli uomini.
In entrambi i casi queste nuove costruzioni sociali, non previste nell’originario piano creativo, nascono come tentativi di umana autonomia rispetto a Dio. E in entrambi i casi Dio non le reprime, ma anzi al momento opportuno le userà come modelli di formazione sociale per costituire, nell’ordine storico da Lui voluto, quelle che saranno la sua nazione e la sua città.
A questo punto si sarà capito che si tratta di Israele e Gerusalemme. Il progetto redentivo di Dio si va delineando in itinere.
• Inizia la parte attiva del piano redentivo Prendiamo in considerazione questi due passi biblici:
Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell'abisso, e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. E Dio disse: “Sia la luce!”, e la luce fu (Genesi 1:1-3).
L'Eterno disse ad Abramo: ‘Vattene dal tuo paese e dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò: e io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione: benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra’ (Genesi 12:1-3).
Il primo passo sta all’inizio del programma creativo di Dio; il secondo sta all’inizio del programma redentivo di Dio.
Analogie tra i due casi.
Chi muove tutto è Dio
L’azione di Dio riguarda la terra;
La terra esce da una situazione penosa;
L’azione di Dio comincia con un’opera di separazione.
Spiegazione.
a1) E Dio disse… a2) L’Eterno disse… Tutto ciò che accade nella realtà dei fatti è effetto di una decisione di Dio che si esprime con una sua parola.
b1) La terra era informe e vuota. b2) In te saranno benedette tutte le famiglie della terra. In entrambi i programmi l’azione di Dio riguarda ciò che accade sulla terra, sia nella natura, sia nei rapporti umani.
c1) La terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell'abisso. c2) L’Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra (Genesi 6:5).
All’inizio della creazione la terra era ciò che rimaneva dopo il cataclisma provocato dalla caduta angelica; al momento della chiamata di Abramo la terra abitata subiva le conseguenze fisiche e morali del cataclisma provocato dalla caduta umana, cioè dal peccato di Adamo ed Eva.
d1) Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre (Genesi 1:4).
d2) Io farò di te una grande nazione. Il programma creativo di Dio comincia con successive separazioni; il programma redentivo comincia con il separare dalle nazioni, che sono conseguenza di peccato, una precisa nazione che Egli stesso decide di formare per il compimento del suo programma redentivo.
• Tutto comincia con Abramo
Abbiamo visto che dopo il peccato originale la malvagità degli uomini era talmente aumentata che in un primo tempo al Signore era venuta l’idea di sterminare tutto dalla faccia della terra, uomini e bestie. L’atteggiamento fiducioso di Noè gli fece cambiare idea e stabilì che la terra poteva continuare ad esserci, ma si doveva operare un totale rinnovamento della popolazione. E sappiamo come questo avvenne.
Però, dopo che la terra ebbe cominciato a ripopolarsi con i discendenti della famiglia di Noè, la situazione morale degli uomini era sì un po’ migliorata, ma non che fosse proprio irreprensibile. Noè e famiglia, che dopo il diluvio apparivano come i progenitori della stirpe umana, potevano dare qualche pensiero a Dio in fatto di moralità… con il capostipite Noè che si ubriaca e si spoglia in mezzo alla tenda, e quei figli e nipoti che non promettevano nulla di buono. Poteva venire un dubbio: e se le cose tornassero allo stato antidiluviano, con gli uomini che si rotolano moralmente nel fango come prima, che si dovrà fare? L’idea di mandare un altro diluvio fu subito scartata dal Signore: l’aveva promesso (Genesi 8:21-22).
È a questo punto che Dio mette gli occhi su Abramo. Lo chiama, gli dà un ordine, vi aggiunge una promessa, e lui parte. Incredibile: “Partì senza sapere dove andava” (Ebrei 11:8). Ma gli sarà pur stato detto che cosa andava a fare, là dove stava andando, osserverà qualcuno. Qual è il compito affidato ad Abramo per lo svolgimento della sua missione?
Sul modello dei propugnatori di pace in stile papale, Dio avrebbe potuto fare ad Abramo un discorsetto di questo tipo: Abramo, tra gli uomini c’è molta cattiveria, ma tu hai dimostrato di essere diverso perché hai creduto alla mia parola e mi hai ubbidito.Ti mando allora nel mondo come predicatore di giustizia ed esempio di amore, affinché si possa giungere a quella pace universale a cui tutti gli uomini di buona volontà anelano.
Oppure, in stile più evangelico, avrebbe potuto dirgli: Abramo, tutti gli uomini sono peccatori davanti a me e anche tu lo sei. Tu però hai creduto alla mia parola e hai ubbidito a quello che ti ho ordinato di fare, quindi io ti perdono e adesso ti mando nel mondo ad invitare tutti gli uomini a credere alla mia parola per ottenere così il perdono, come è avvenuto a te.
Sono immagini caricaturali di come si potrebbe immaginare uno svolgimento diverso dei fatti, affinché si rifletta seriamente su come invece si sono realmente svolti. Ciò che sorprende allora è che Dio non dà ad Abramo alcun compito. Abramo deve soltanto lasciare i suoi parenti, partire, cominciare a camminare, e aspettare che gli arrivino strada facendo nuove comunicazioni.
In quei primi tre versetti di Genesi 12 non è detto che cosa Abramo avrebbe dovuto fare dopo la sua partenza, ma soltanto quello che Dio farà. Ad Abramo, che secondo la Bibbia e la tradizione ebraica era una persona ricca e stimata in Caran, dove viveva con tutta la sua famiglia, il Signore fa un’offerta “commerciale” interessante: lascia tutto, luogo e famiglia, segui le mie istruzioni e Io ti darò molto di più.
Non è importante indagare per ora che cosa in realtà Dio aveva promesso ad Abramo, perché di questo parla tutto il resto della Bibbia. Per ora è importante osservare il tipo di relazione che si stabilisce fra Dio e Abramo con il patto concluso. L’unica clausola che obbliga Abramo suona così:
Vattene dal tuo paese e dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò.
Nel versetto che segue di Genesi 12:4 si dice:
E Abramo se ne andò, come l'Eterno gli aveva detto.
Dopo essere partito, Abramo arrivò nel paese che Dio aveva promesso di mostrargli:
E l'Eterno disse ad Abramo, dopo che Lot si fu separato da lui: “Alza ora i tuoi occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua progenie, per sempre. E farò in modo che la tua progenie sia come la polvere della terra; in modo che, se alcuno può contare la polvere della terra, anche la tua progenie si potrà contare. Alzati, percorri il paese in tutta la sua lunghezza e in tutta la sua larghezza, poiché io te lo darò” (Genesi 13:14-18).
Dunque a questo punto Abramo ha mantenuto tutti gli impegni che si era assunto nel contratto: da questo momento spetta a Dio mantenere i suoi. Cioè: formare la grande nazione, rendere grande il suo nome, benedire lui e renderlo fonte di benedizione.
Si noti che l'adempimento di questi impegni da parte di Dio non dipende da come si sarebbe comportato Abramo. Non è che Dio gli abbia detto: se sei bravo e ti comporti bene, io ti darò questo e quest’altro. Il Signore si è impegnato, di sua propria volontà, a spargere benedizione fra gli uomini, dunque a introdurre il bene sulla terra, in osservanza a un patto stabilito con un uomo che aveva avuto il solo “merito” davanti a Lui di credere alla Sua parola e di dimostrarlo coi fatti. Se questo non è amore…
• Un bersaglio di altissimo valore La notte del 20 giugno, in un’operazione ad altissima precisione condotta nella città iraniana di Qom, Israele ha eliminato Saeed Izadi, il comandante della Divisione Palestinese della Forza Quds, l’unità operativa esterna dei Guardiani della Rivoluzione islamica (IRGC). Secondo il ministro della Difesa Israel Katz, Izadi era il principale architetto del trasferimento di fondi, tecnologia e armi sofisticate da Teheran verso la Striscia di Gaza, in particolare verso le brigate di Hamas, prima e dopo il massacro del 7 ottobre 2023. Per Tel Aviv, la sua figura rappresentava l’anello di congiunzione tra l’apparato militare iraniano e la rete delle milizie anti-israeliane attive a Gaza e in Libano.
• L’operazione: intelligence, precisione e penetrazione L’attacco è stato portato a termine grazie a un’intensa attività d’intelligence, probabilmente condotta in sinergia tra l’Unità 8200 (l’intelligence elettronica israeliana) e il Mossad. Le modalità dell’eliminazione non sono state rese note ufficialmente, ma secondo fonti occidentali il raid potrebbe essere stato condotto con un missile stand-off a lungo raggio lanciato da velivoli al di fuori dello spazio aereo iraniano, oppure mediante l’utilizzo di droni stealth ad alta penetrazione come gli Eitan o unità Harop. Izadi si trovava in un appartamento sicuro a Qom, considerata da Teheran una zona “off-limits” per operazioni nemiche. Il colpo, preciso e localizzato, fa pensare all’uso di un’arma a guida elettro-ottica (probabilmente Spike NLOS o munizionamento guidato israeliano), in grado di colpire selettivamente senza causare vittime collaterali.
• Il significato strategico dell’eliminazione Saeed Izadi non era un semplice ufficiale: la Divisione Palestinese della Quds Force gestisce l’interfaccia con Hamas e Jihad Islamica, addestrando combattenti, coordinando il trasferimento di razzi avanzati, droni esplosivi e componenti per il programma missilistico. Secondo fonti militari israeliane, Izadi era dietro alla fornitura di missili a lungo raggio derivati dai Fateh-110 e di droni suicidi Shahed, già impiegati in passato sia da Hamas che dagli Houthi. La sua eliminazione è un colpo all’infrastruttura logistica che collega l’Iran ai gruppi armati sunniti. Non a caso, Katz ha dichiarato: “Giustizia è stata fatta per gli assassinati e gli ostaggi. Il braccio di Israele raggiungerà tutti i suoi nemici”. Un messaggio chiarissimo per Teheran e per le sue proiezioni in Libano, Siria e Gaza.
• Reazioni e rischio di escalation Nessuna conferma ufficiale da parte della Repubblica Islamica, ma nei giorni successivi l’Iran ha risposto lanciando una serie di missili balistici a corto raggio e droni da combattimento verso il territorio israeliano, causando 24 vittime civili, secondo dati diffusi da Israele. In parallelo, almeno 639 vittime sarebbero state registrate sul suolo iraniano in seguito a contrattacchi israeliani, tra cui un’ondata di bombardamenti contro siti sensibili, come centrali di comando e presunti impianti di arricchimento dell’uranio.
• Una guerra sempre più senza confini Israele ha dimostrato di poter colpire in profondità, a oltre 1.500 chilometri di distanza, nel cuore del dispositivo militare iraniano, senza dover impiegare le sue risorse nucleari o attacchi convenzionali su larga scala. Ciò conferma il pieno controllo israeliano sulla guerra asimmetrica: tecnologie, intelligence e capacità chirurgica. Questa operazione segue un’escalation che dura ormai da settimane, in cui Israele ha colpito diversi depositi missilistici e laboratori nucleari, dichiarando di aver ritardato il programma atomico iraniano di almeno 2-3 anni. Una chiara strategia di interdizione. L’eliminazione di Saeed Izadi non è solo una vendetta simbolica, ma una dimostrazione di forza strategica e tecnologica da parte di Israele. In un momento in cui l’Iran cerca di alzare la posta con missili, proxy e nucleare, l’operazione su Qom rappresenta un messaggio inequivocabile: nessun luogo è al sicuro.
Secondo l’esercito israeliano (Idf), sarebbero circa 30 i missili balistici lanciati nella mattinata di ieri dall’Iran verso Israele. Un missile ha colpito l’ospedale Soroka a Beersheva, nel sud di Israele, altri invece le città di Holon e Ramat Gan nel centro del Paese dove si registrano tre feriti gravi. Il missile caduto a Beersheva ha provocato ingenti danni all’area della chirurgia oltre che a edifici residenziali vicini. Il ministro della Salute israeliano, Uriel Bosso, ha commentato l’attacco all’ospedale affermando che si è trattato di “un atto di terrorismo e del superamento di una linea rossa. Un crimine di guerra del regime iraniano, deliberatamente commesso contro civili innocenti e contro équipe mediche impegnate a salvare vite umane”. Fonti militari iraniane, a loro volta, hanno riferito all’agenzia stampa Irna che gli obiettivi dell’ultimo bombardamento su Israele erano “un quartier generale dell’intelligence delle Idf e una base vicino all’ospedale di Soroka”. Nella città, nota anche come la capitale del Negev, vive una piccola comunità cattolica di espressione ebraica, che fa capo al Patriarcato latino di Gerusalemme, formata da ebrei e arabi israeliani, nonché da immigrati provenienti da Russia, Romania, Polonia e India. È presente anche un gruppo regolare di studenti di medicina stranieri che studiano all’Università Ben Gurion. A guidare la comunità è il parroco di origini polacche Roman Kaminski che racconta così, al Sir, le ore dell’attacco.
- Padre Kaminski, com’è stata vissuta l’esplosione in città? Fino a ieri la nostra zona era rimasta tranquilla. Nonostante l’allerta dei mesi scorsi, non avevamo registrato impatti diretti. Proprio per questo una famiglia del centro di Israele aveva chiesto di venire a rifugiarsi in parrocchia: marito, moglie e un bimbo di tre anni. Poi, ieri mattina, la situazione è cambiata improvvisamente. Io ero fuori città, stavo accompagnando una signora polacca che tornava in patria con l’aiuto dell’ambasciata, passando per la Giordania. Il missile è caduto circa 40 minuti prima del mio rientro. Quando sono tornato, ho trovato la comunità molto scossa.
- Che cosa è stato colpito esattamente? Un razzo ha colpito l’area chirurgica dell’ospedale Soroka. Ma – grazie a Dio – quella sezione era stata evacuata il giorno prima. Possiamo dire che è stato un miracolo. I danni sono stati gravi, anche ad alcune abitazioni vicine, ma non ci sono state vittime. E nemmeno tra i nostri parrocchiani: ho telefonato a tutti, ho scritto a chi vive più vicino alle zone colpite, e stanno tutti bene.
- Ci sono stati altri attacchi in città? Nel pomeriggio sono caduti altri due razzi dentro Beersheva. Le autorità hanno detto che sono finiti in aree aperte, ma poi ho scoperto, parlando con i parrocchiani, che uno è caduto nel campo sportivo di una scuola e un altro in un parco. Erano missili meno potenti, per fortuna. A oggi non si registrano feriti in città. Ma resta la paura. Soprattutto per anziani e malati, che fanno più fatica a raggiungere i rifugi.
- Cosa significa sentirsi improvvisamente indifesi in un Paese noto per la sua sicurezza? È vero, Israele ha la fama di sapersi difendere. Ma trovarsi sotto attacco, senza difese immediate, genera una sensazione nuova. Per me è la prima volta in 26 anni che vivo qui. Ho sempre abitato in zone che non erano direttamente colpite. Ma gli israeliani sono abituati a tutto questo. Anche se non ‘suona bene’, è la verità. Io non lo ero, ma spiritualmente mi ero preparato. Sapevo che sarebbe potuto accadere.
- Cosa cambia rispetto ai razzi lanciati da Gaza o dallo Yemen? Questi sono missili balistici veri, con una potenza molto superiore. È un salto qualitativo. Ed è questo che impressiona di più. Ma, come sempre, la gente qui sa reagire. Le autorità ripetono continuamente di andare nei rifugi, e quasi tutti lo fanno. È ciò che salva la vita.
- Quale risposta state dando, come comunità cattolica? Quella della preghiera. Abbiamo ripreso il Rosario via Zoom e stiamo organizzando anche la messa online in ebraico, come durante il Covid. È un modo per restare uniti, per sostenersi spiritualmente. Anche padre Piotr Zelazko, il vicario patriarcale per le comunità cattoliche di espressione ebraica ha invitato a riprendere forme di preghiera a distanza, soprattutto per proteggere i più anziani. È importante non perdere il contatto con Dio e tra di noi.
- E voi sacerdoti, come state accompagnando le persone in queste ore? Con la preghiera e con la presenza. Oggi, ad esempio, ho accompagnato una signora anziana dal medico: non poteva tornare a casa da sola. Sono piccoli gesti, ma fanno la differenza. È il nostro modo per dire: non siete soli. Speriamo solo che tutto finisca presto. Intanto continuiamo a pregare. Anche da qui.
La guerra con l’Iran si avvicina al momento decisivo
di Ugo Volli
• Gli obiettivi israeliani È appena passata una settimana dall’inizio dell’operazione di Israele contro l’Iran ed essa ha ormai un volto ben definito, anche se ogni giorno ha le sue sorprese. Israele attacca i comandanti militari, le caserme delle milizie del regime, le strutture del suo potere e della sua propaganda, innanzitutto le installazioni militari, i lanciamissili, i depositi di rifornimenti strategici, gli impianti nucleari e missilistici e i tecnici o scienziati che li progettano. Il suo è insomma un attacco militare pienamente legittimato dalle minacce iraniane, dalle notizie di uso militare dell’energia atomica giunta ormai alla soglia della bomba atomica per attestazione dell’agenzia dell’Onu che sovraintende a questo tema (l’AIEA), dagli attacchi diretti e attraverso satelliti partiti dall’Iran in questi due anni. In questa opera di interdizione, che vorrebbe anche favorire il successo della lunga lotta degli iraniani per riottenere la loro libertà conculcata dal sanguinario regime clerico-fascista degli ayatollah, Israele ha ottenuto successi imprevedibili, distruggendo una parte notevole dell’industria nucleare, eliminando molti fra i capi supremi delle milizie del regime, mettendo fuori combattimento la maggior parte dei missili e dei loro lanciatori. Se dei civili sono stati colpiti da parte israeliana, ciò è avvenuto senza che essi fossero l’obiettivo, solo perché gli obiettivi militari si nascondevano fra loro.
• Le difficoltà Ma l’Iran è un paese molto vasto, ha una superficie oltre sei volte quella dell’Italia e una popolazione una volta e mezza superiore a quella italiana. Il regime ha disperso e nascosto i suoi armamenti, in particolare quelli atomici, e ha mille nascondigli e centri di potere dispersi nel territorio. È sostenuto da personale fanatico, educato a pensare che il martirio per l’Islam sia un ideale da cercare. Ha inoltre stabilito da quasi cinquant’anni un regime di terrore, con reti di spie, piccoli ras locali, carceri, torture e condanne a morte di cui l’Iran è di gran lunga il primo responsabile al mondo in proporzione alla popolazione. Il regime è insomma gravemente ferito, forse ferito a morte, ma ancora violentissimo e pericoloso.
• La strategia iraniana Questo pericolo non riguarda in particolare l’apparato militare: i missili iraniani hanno colpito case di abitazione, villaggi arabi, complessi industriali civili, autobus in mezzo alla città, il grande ospedale Soroka di Beer Sheva (e tutti quelli che avevano protestato contro le passate azioni israeliane contro i centri di comando di Hamas nascosti sotto gli ospedali di Gaza su questo bombardamento diretto e immotivato di un centro ospedaliero sono stati zitti…). Nessuna base militare ha subito danni. Ciò dice molto sul carattere francamente terroristico della condotta di guerra dagli ayatollah. Anche gli ultimi proiettili sparati indicano questa strategia: si tratta di bombe a frammentazione, cioè di missili che non indirizzano il proprio carico utile (circa 400 kg di esplosivo) su un unico obiettivo, che potrebbero così distruggere protezioni pesanti come quelle delle basi militari e dei bunker aerei, ma lo suddivide in un centinaio di piccole bombe che si spargono largamente attorno al luogo di impatto e servono soprattutto a colpire persone.
• L’urgenza C’è molta fretta da parte israeliana. Questa guerra così pericolosa è stata intrapresa all’ultimo momento prima che l’Iran ottenesse l’arma atomica. Vi sono dichiarazioni iraniane e indizi che fanno ritenere che questo tentativo sia ancora in corso in località segrete e protette, soprattutto nel sito di Fordow. Questo è il cuore del progetto nucleare dell’Iran, annidato sotto una montagna che lo rende assai difficilmente vulnerabile ai bombardamenti, soprattutto con le armi disponibili a Israele. Il punto focale della guerra oggi probabilmente è lì sotto quel monte scosceso e senza vegetazione duecento o trecento chilometri a sud di Teheran, oltre Qom. Per eliminarlo potrebbero probabilmente bastare le superbombe americane GPU 57, così pesanti che possono essere trasportate solo dai grandi bombardieri strategici B52 e B2, che sono a distanza di tiro nell’Oceano Indiano sull’isola Diego Garcia. Ma l’amministrazione Trump, che pure sta aiutando Israele con rifornimenti, informazioni preziose e l’abbattimento di alcuni dei proiettili iraniani, e che sta mobilitando un grande potere militare, con tre gruppi navali guidati da portaerei intorno all’Iran, esita a intervenire direttamente nel conflitto. Il presidente Trump si è dato ieri due settimane per decidere e Israele ha dichiarato che ha i piani per eliminare da solo Fordow, forse dei bombardamenti ripetuti o l’intervento assai rischioso di forze speciali sul terreno. Ma ancora l’azione non è iniziata.
• I rischi di questa fase Nel frattempo Israele prosegue con l’opera sistematica di smantellamento dell’apparato militare del regime e l’Iran continua a tentare di intimidire Israele cercando di ottenere una strage della popolazione civile. Ha sparato finora circa 400 missili e un migliaio di droni (questi ultimi senza effetto), provocando danni materiali gravi ma solo qualche decina di vittime. Si tratta probabilmente di una quota intorno a un terzo di tutto l’arsenale missilistico rimasto all’Iran, che per sua natura non è rinnovabile, mentre Israele dispone sempre dei suoi aerei che possono ripartire dopo essere ritornati alla base ad essere stati revisionati e riforniti di nuove bombe. In tutta la guerra nessun aereo israeliano è stato finora mai abbattuto. In prospettiva vi è dunque un esaurimento delle capacità offensive dell’Iran, anche perché Israele dà la caccia a depositi di missili e soprattutto ai lanciatori, che sono molto meno dei proiettili Anche questo fatto produce un’urgenza della guerra e induce gli ayatollah a usare le proprie armi più potenti, finora le testate a frammentazione, i missili da crociera e i preziosi missili ipersonici, capaci di cercare sfuggire agli antimissili israeliani cambiando traiettoria. Ci potrebbero essere delle sorprese anche nel carico delle bombe trasportate da questi proiettili, includendo armi di distruzione di massa chimiche, biologiche e radioattive. Ma Israele è certamente preparato a contrastarle e ha la possibilità di reagire a queste armi estreme con minacce dissuasive, la prima delle quali è la possibilità di colpire il leader iraniano Khamenei, che a quanto pare si trova in un bunker ben individuato nella periferia di Teheran. Insomma la guerra prosegue, avvicinandosi alla sua stretta decisiva. Israele sta conducendola da solo e vincendola per conto di tutto il mondo libero.
A monte dell’attacco israeliano all’Iran cominciato venerdì scorso non c’è la convinzione di Benjamin Netanyahu, il quale ripete da circa un ventennio che l’Iran rappresenta per Israele una minaccia esistenziale, ma la certificazione dell’AIEA, la quale ha confermato che Teheran ha arricchito l’uranio di 400 chili al 60%, ben oltre la soglia del suo impegno ad uso civile, specificando inoltre che si tratta dell’unico Paese al mondo a farlo.
L’Iran detiene anche un altro primato, è ancora l’unico Paese al mondo che dichiara programmaticamente la sua volontà di distruggere Israele. Però, e qui c’è un però che piace tanto agli indignati dell’uso preventivo bellico, soprattutto se è Israele a farlo, non c’è la prova che la bomba sia in procinto di essere fabbricata. Quindi? Quindi si tratta di un processo alle intenzioni, anzi peggio, si tratta di una vera e propria aggressione pretestuosa.
Riassumiamo i dati, l’Iran, che dagli anni ’80 ha collezionato una serie di attentati terroristici da Beirut, al Kuwait, dall’Arabia Saudita all’Argentina, provocando centinaia di morti, soprattutto americani (gli Stati Uniti, come è noto, sono per il regime di Teheran, il Grande Satana), l’Iran che ha finanziato e appoggiato per anni organizzazioni jihadiste come Hezbollah e Hamas, l’Iran che ha fomentato i ribelli Houthi in Yemen, oltre alle fazioni sciite in Iraq, l’Iran che ha gioito per il 7 ottobre, e che ha orchestrato l’anello di fuoco intorno a Israele, bisogna venga dimostrato, dopo un arricchimento dell’uranio che, ribadiamolo, nessun altro Paese al mondo sta arricchendo a questo livello, che stia effettivamente preparando le bombe, anzi, meglio, bisogna venga dimostrato, dicevamo, che ne abbia già una pronta per essere lanciata, ma ancora meglio, che l’abbia già lanciata su Israele. Allora sì, forse sì, avrebbe diritto di attaccare l’Iran.
Ma c’è dell’altro. Cosa se ne fa l’Iran di missili balistici la cui produzione è in forte crescita e hanno una gittata di duemila, tremila km, cioè che volendo possono arrivare fino a Parigi? È bene ricordarlo, Israele non sta solo colpendo i siti nucleari ma anche la filiera produttiva dei missili balistici, perché un Iran dotato di decine di migliaia di missili balistici, se gli fosse consentito averli, non avrebbe bisogno più delle testate nucleari per infliggere a Israele morte e distruzione a livello industriale.
Che il regime fanatico e potenzialmente genocida di Teheran cada o meno come conseguenza dell’attacco israeliano, che gli Stati Uniti entrino direttamente nell’agone con propri operativi, è secondario rispetto all’obiettivo che si è dato Israele, impedire quello che i suoi molteplici odiatori vorrebbero accadesse, che l’Iran si trovi realmente nella condizione di causargli danni irreparabili.
Come l'America e Israele possono creare le condizioni per il rovesciamento della Repubblica Islamica
di Eric Edelman, Reuel Marc Gerecht e Ray Takeyh
Ci sono molti modi per raggiungere un cambio di regime in Iran. Nel 2020, due di noi (Edelman e Takeyh) hanno scritto un saggio su Foreign Affairs in cui abbiamo delineato un modo per rovesciare la Repubblica Islamica. All’epoca, pensavamo che l’uso della forza fosse fuori discussione e che le potenze esterne potessero solo erodere gradualmente le fonti di forza del regime. L’attacco di Israele all’Iran di questo mese ha introdotto un elemento nuovo e instabile nel quadro generale, ma la logica di fondo rimane la stessa. In tutti i casi di cambiamento di regime, le condizioni indispensabili per il successo sono l’indebolimento del governo e l’audacia della popolazione. Nell’ultima settimana, Israele ha fatto molto per soddisfare la prima condizione. Non solo ha messo fuori uso le principali strutture nucleari iraniane, ma ha anche praticamente decapitato la leadership militare dell’Iran. Al momento della stesura di questo articolo, Israele ha attaccato 20 delle 31 province e ucciso decine di generali e scienziati. Ha in gran parte risparmiato le risorse economiche dell’Iran, anche se ha preso di mira gli impianti di produzione e distribuzione di petrolio e gas nazionali. I critici hanno affermato che l’intento di questa operazione israeliana è il cambio di regime, ma sarebbe più corretto dire che il cambio di regime potrebbe emergere come un beneficio collaterale dell’offensiva israeliana. Il leader supremo Ali Khamenei è stato completamente umiliato. Un tempo era il leader che ha contribuito a sconfiggere gli Stati Uniti in Iraq e ha circondato Israele con proxy letali. Ha sfidato la comunità internazionale e ampliato il programma nucleare iraniano, portando la teocrazia a un passo dalla bomba. Il suo successo all’estero ha rafforzato la sua autorità in patria. Ma il crollo dell’«asse della resistenza» iraniano nel Levante e a Gaza e l’attuale pestaggio della Repubblica Islamica da parte di Israele sollevano inevitabilmente la questione se una tale inversione di tendenza possa sradicare la dittatura. Potrebbe, ma Israele dovrà fare molto di più per distruggere i poteri coercitivi dello Stato di polizia teocratico, e farlo senza azioni militari che uccidono un gran numero di civili, soprattutto donne e bambini.
• Il regime in ginocchio In oltre quarant’anni al potere, la Repubblica Islamica ha dovuto affrontare diverse insurrezioni popolari. Ogni decennio, un’altra classe sociale ha abbandonato la coalizione rivoluzionaria. Gli studenti e i liberali sono stati i primi ad andarsene, poco dopo la rivoluzione del 1979. Sono seguiti elementi della classe media durante il Movimento Verde del 2009 e, infine, alla fine degli anni 2010, i lavoratori poveri in nome dei quali era stata lanciata la rivolta. Il regime ha sempre represso queste rivolte. Non hanno mai raggiunto una massa critica, poiché la maggior parte della popolazione riteneva che le Guardie Rivoluzionarie del regime, la milizia Basij, i teppisti di strada che aiutano le autorità e l’onnipresente ministero dell’intelligence fossero troppo crudeli e implacabili per essere sconfitti. Una volta che le forze di sicurezza hanno iniziato a uccidere e torturare un numero sufficiente di manifestanti, le proteste, che nel 2017 e nel 2019 sono degenerate in insurrezioni, si sono esaurite. Per gli stessi iraniani è stato un ciclo ricorrente profondamente frustrante, vissuto più recentemente nelle proteste del 2022 seguite alla morte di Mahsa Amini, una giovane donna che era stata arrestata dalla polizia religiosa. Ora, dopo giorni di bombardamenti israeliani, sia il regime che l’opinione pubblica iraniana sembrano traumatizzati. Quando le cose si calmeranno, i conti saranno sicuramente regolati, forse anche all’interno dell’élite al potere, quando i detentori del potere nell’establishment della sicurezza, clericale e politico tireranno fuori i coltelli. I membri delle Guardie Rivoluzionarie, ad esempio, potrebbero incolpare la leadership civile per il fallimento del Paese nello sviluppo dell’arma atomica che avrebbe scoraggiato un attacco israeliano. L’ottantaseienne leader supremo potrebbe avere vita molto difficile con i membri più giovani delle Guardie, che sembravano volere una politica nucleare più aggressiva. Saranno sconvolti dal fatto che il tanto decantato programma atomico, costato miliardi di dollari, sia ora in rovina. (Il suo costo finanziario effettivo probabilmente ammonta a centinaia di miliardi, date le opportunità commerciali che l’Iran ha perso a causa delle sanzioni imposte dall’Occidente). Sebbene Israele abbia ucciso molte persone molto importanti nel Paese, tutte le patologie della Repubblica Islamica sono ancora intatte. Rimane una teocrazia affogata nella corruzione. Le istituzioni fondamentali, come i ministeri governativi, sono in uno stato avanzato di degrado e la disuguaglianza sociale, soprattutto a seguito dell’impennata dell’inflazione, si è aggravata. Alcuni osservatori immaginano che l’attacco di Israele stimolerà un fervore nazionalista che contribuirebbe a isolare il regime. Ma i legami tra lo Stato e la società sono troppo recisi perché si possa arrivare a un simile risultato. Nelle manifestazioni passate, il popolo iraniano ha incolpato il proprio regime e non gli stranieri per la sua difficile situazione. Senza dubbio sorgerà un altro grande movimento di protesta. La domanda è: cosa faranno Israele e gli Stati Uniti per far pendere la bilancia a favore del movimento?
• Una visita alla squadra dei picchiatori Sarà forte la tentazione di offrire un’ancora di salvezza al regime se accetterà di abbandonare il suo programma nucleare. I “realisti” della sinistra e della destra americana sono profondamente a disagio con la promozione dei diritti umani e della democrazia all’estero. Non la considerano un’arma efficace per gli Stati Uniti. Il regime ha sempre preferito che l’Occidente si concentrasse sulle sue ambizioni nucleari, piuttosto che sui suoi problemi interni. Molti americani e israeliani non sono stati molto interessati a sostenere i diritti umani dei musulmani. Ma gli israeliani sembrano ora molto più consapevoli di come questa difesa, anche se applicata solo agli iraniani, rafforzi le possibilità che la Repubblica Islamica possa crollare. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha descritto il regime come “debole” e ha esortato gli iraniani a ribellarsi, e il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, sembrano entrambi disposti a considerare più seriamente la possibilità di sostenere gli iraniani dal basso. Trump ha ora chiesto la “resa totale” della Repubblica Islamica, con cui intende l’abbandono da parte del regime delle attività di arricchimento e del programma nucleare. È difficile immaginare che i leader iraniani accettino così facilmente; potrebbero invece concordare un processo diplomatico e fare concessioni sufficienti, come l’accettazione da parte dell’Iran di non arricchire l’uranio oltre un certo livello, per assicurarsi una tregua tanto necessaria. Una politica migliore, tuttavia, dovrebbe rinunciare al controllo degli armamenti come unico obiettivo. Sebbene non vi siano grandi successi in termini di attuazione di un cambio di regime dall’alto, Israele può fare molto di più per accendere la miccia. La campagna militare che si è concentrata sul disarmo dell’Iran deve ora concentrarsi sugli esecutori del regime. La leadership delle Guardie Rivoluzionarie è stata decimata, ma le sue numerose basi militari rimangono intatte e dovrebbero essere prese di mira. La prima linea di difesa del regime in tempi di crisi interna è la sua squadra di picchiatori, i Basij, che è sotto il controllo delle Guardie. I Basij hanno commesso crimini enormi contro il popolo iraniano. Le loro installazioni, comprese le strutture di polizia e le basi militari, dovrebbero essere inserite nella lista degli obiettivi. Lo stesso vale per il ministero dell’intelligence, con i suoi numerosi uffici in tutto il Paese. Tali bombardamenti non distruggeranno definitivamente queste forze, ma getteranno un dubbio nei vertici del regime sulla disponibilità e l’affidabilità dei suoi soldati e dei suoi inquisitori. Israele dovrebbe anche ampliare la sua campagna per paralizzare l’economia iraniana. L’aviazione israeliana dovrebbe mettere fuori uso ulteriori infrastrutture petrolifere e del gas. Il regime mantiene il suo potere in parte grazie alle sue reti clientelari. Incapace di far fronte ai propri obblighi finanziari nei confronti dei suoi sostenitori principali, le defezioni dalle sue file aumenterebbero probabilmente, forse in modo significativo. È importante, tuttavia, che tali attacchi siano chirurgici e limitino il più possibile le vittime civili. La sfida più significativa di qualsiasi politica di cambio di regime è quella di rimanere concentrati sul compito da svolgere una volta terminati i fuochi d’artificio. Una volta disarmato l’Iran, Israele e gli Stati Uniti potrebbero essere tentati di abbandonare il campo e guardare altrove. È proprio in quel momento che dovrebbero invece aumentare la pressione sul regime. Gli Stati Uniti devono mantenere le sanzioni e controllare le vie di accesso dell’Iran al commercio globale. Il Mossad, che ha dimostrato un’enorme capacità di operare all’interno dell’Iran, dovrebbe intensificare le sue operazioni segrete, dato che la CIA non ha mai mostrato alcun interesse in questo senso, almeno dagli anni ’70.
• La fine della strada Data la debolezza del governo iraniano dopo la conclusione dell’attuale offensiva israeliana, potrebbe non essere difficile mantenere la Repubblica islamica politicamente instabile. Una intensa campagna di propaganda americana attraverso i social media e altri canali dovrebbe continuare a mettere in evidenza il governo disastrato e corrotto dei mullah. L’élite iraniana nasconde ingenti somme di denaro all’estero. Come minimo, il Tesoro degli Stati Uniti dovrebbe rintracciare e rendere pubblici questi fondi. E qualunque forza di opposizione emerga all’interno dell’Iran, gli Stati Uniti dovrebbero aiutarla con sostegno finanziario e assistenza tecnologica nella misura del possibile, purché non si tratti di forze politicamente estreme. L’Iran appartiene agli iraniani. Sono loro gli unici che alla fine possono determinare la direzione del loro Paese. Sono scesi in piazza nel 1906, nel 1922 e nel 1979 e si può contare sul fatto che lo faranno di nuovo. Tutto ciò che gli Stati Uniti e Israele possono fare è indebolire il regime e accentuare le sue vulnerabilità. La Repubblica Islamica non ha mai affrontato una crisi come quella scatenata dagli attacchi di questo mese. È una grande ironia che Israele, denigrato senza sosta dalla leadership iraniana come uno Stato coloniale selvaggio e illegittimo che mira a umiliare i musulmani di tutto il mondo, possa, forse, aver aperto la porta a un nuovo futuro per il popolo iraniano che soffre da troppo tempo.
Oltre 400 chili di uranio arricchito al 60%, l’Iran può scatenare una guerra globaleNetanyahu ha seguito la dottrina del principio di Begin
di Luca Longo
Tutto il mondo si sta chiedendo perché proprio ora? Perché Israele ha deciso di scatenare un attacco preventivo sull’Iran proprio in questi giorni, mentre è impegnato in combattimento con tutti i suoi proxy, mentre gli ostaggi soffrono nelle prigioni di Hamas, mentre sono in corso trattative con gli Stati Uniti proprio con l’obiettivo di neutralizzare il programma nucleare degli Ayatollah? La risposta è molto semplice, ed era sotto gli occhi di tutti i governi dal 31 maggio. Quel giorno, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) ha diffuso il rapporto GOV/2025/24 – “Verification and monitoring in the Islamic Republic of Iran in light of United Nations Security Council resolution 2231 (2015)”; poi desecretato l’11 giugno. Qui, per la prima volta in 20 anni, l’agenzia ONU dimostra l’esistenza di un programma nucleare militare iraniano e prova scientificamente che l’Iran possiede 408,6 kg di Uranio arricchito al 60%. Quantità adatta – previa ulteriore raffinazione – per realizzare almeno dieci testate nucleari: più che sufficienti per vetrificare la terra di Israele e renderla completamente inabitabile da chiunque. Tutta Israele, “dal fiume al mare”, ma anche i territori circostanti, con buona pace dei vari luoghi sacri e delle ambizioni di conquista di tutti i suoi vicini di casa.
• Dall’“Atoms for Peace” alla Guerra con l’Iraq La storia del nucleare iraniano affonda le radici negli anni Cinquanta. Nel 1957, sotto lo Scià Mohammad Reza Pahlavi, l’Iran avvia un programma di sviluppo dell’energia atomica civile con il sostegno diretto degli Stati Uniti, nell’ambito dell’iniziativa “Atoms for Peace” promossa dal presidente Dwight Eisenhower. Gli Stati Uniti forniscono a Teheran il primo reattore di ricerca e combustibile nucleare, mentre negli anni Settanta la Germania Ovest inizia la costruzione della centrale di Bushehr, sul Golfo Persico. Questo scenario cambia radicalmente nel 1979, con la Rivoluzione islamica che porta al potere l’Ayatollah Khomeini. Il nuovo regime interrompe ogni collaborazione con l’Occidente. La guerra Iran-Iraq (1980–1988) compromette ulteriormente le infrastrutture nucleari e interrompe il programma. Ma questo venne ripreso negli anni Novanta con l’aiuto della Russia, che realizza il reattore di Bushehr, un VVER russo da un Gigawatt collegato alla rete elettrica nazionale nel 2011. Intanto, sotto sotto, l’Iran avvia, con Pakistan e Corea del Nord, un parallelo sviluppo atomico militare nascondendolo agli ispettori dell’IAEA. Nel 2002, gruppi di opposizione iraniani in esilio rivelano l’esistenza di due impianti nucleari segreti: il centro di arricchimento dell’uranio di Natanz (lo stesso colpito da Israele il 13 giugno) e il reattore ad acqua pesante di Arak. È la prova dell’esistenza di un programma iraniano per l’atomo militare: una brutta storia che attraversa i decenni successivi fino ai giorni nostri.
• Sanzioni e accordi: dal JCPOA alla rottura A seguito della scoperta dei siti segreti, la comunità internazionale impone sanzioni economiche sempre più dure che colpiscono profondamente l’economia iraniana. Nel 2013, con l’elezione del presidente Hassan Rouhani, Teheran apre a una stagione diplomatica che culmina nel 2015 con la firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). L’accordo, sottoscritto da Iran, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina, prevede una drastica riduzione (del 98%) delle riserve di uranio arricchito e lo smantellamento di migliaia di centrifughe in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni. L’intesa sembra funzionare, ma nel 2018 la prima amministrazione Trump esce unilateralmente dall’accordo – ritenuto troppo permissivo – e reintroduce pesanti sanzioni. L’Iran risponde facendo carta straccia dei limiti imposti dal JCPOA: nel 2025, secondo le stime più recenti, le sue scorte di uranio arricchito superano di oltre 25 volte i limiti previsti dall’accordo del 2015.
• L’impasse dei negoziati e il ritorno alla tensione Nell’aprile 2025, con la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca, riprendono i negoziati con Teheran, ma non producono risultati concreti. La Guida Suprema Ali Khamenei ha rifiutato l’ipotesi di interrompere completamente l’arricchimento dell’uranio, mantenendo una posizione inflessibile. Nonostante oltre vent’anni di sforzi diplomatici, il programma nucleare iraniano era, fino alla settimana scorsa, tra i più avanzati al mondo. Un percorso che ha trasformato l’Iran da partner dell’Occidente a rischio esistenziale non solo per Israele e per gli USA, ma per l’intero pianeta. La questione iraniana, ancora una volta, si conferma come uno dei principali focolai geopolitici del Medio Oriente e dell’intero sistema internazionale.
• Il principio non negoziabile di Begin In questi giorni, la pavida comunità internazionale sta lavandosi la coscienza criticando aspramente Netanyahu. E lo critica mentre nasconde un sospiro di sollievo perché, anche stavolta, è Israele che fa il lavoro sporco per tutti. Ma questa volta non è colpa o merito di Bibi: il premier israeliano si è limitato a dare applicazione concreta al Principio di Begin. Per capire in cosa consiste, riavvolgiamo il nastro fino al 7 giugno 1981. Quel giorno, Menachem Begin ordinò l’Operazione Babilonia: un audace attacco aereo su Osirak, a pochi km da Baghdad, per annientare il reattore dove gli scienziati di Saddam Hussein stavano realizzando la bomba atomica irakena. Il premier si accollò la responsabilità completa della decisione, tenendo all’oscuro anche i suoi ministri fino a poche ore prima. E quando l’operazione ebbe un pieno e definitivo successo, ricevette – indovinate – la dura condanna dell’intera comunità internazionale, oltre a una lettera di congratulazioni firmata dall’intero parlamento israeliano, per la prima volta unito dai sostenitori del governo fino alle frange di opposizione più estreme. In una conferenza stampa poche ore dopo l’eliminazione della minaccia esistenziale, Menachem scandì che “Non permetteremo a nessun nemico di realizzare armi di distruzione di massa”…“e che questo attacco costituisca un precedente per ogni futuro governo in Israele. Ogni futuro premier, in simili circostanze, dovrà agire nello stesso modo”. Le cronache ricordano che, poco dopo, ai giornalisti che gli elencavano le dure critiche giunte da tutto il mondo, rispose semplicemente: “Devo proprio essere un ragazzaccio”. E uscì. Chimico industriale, Chimico teorico, Giornalista, Comunicatore scientifico con una grande passione per la storia e per la ricerca in campo energetico. Autore di 900 analisi, saggi, articoli di divulgazione e di circa 100 articoli scientifici, brevetti, conferenze, contributi a congressi, 2 libri.
Missile su Holon: “Un miracolo che non ci sia nessun ferito nella Grande Sinagoga”
Anche a Holon gli israeliani si stanno riprendendo dopo che ieri un missile iraniano ha colpito la Grande Sinagoga nel quartiere Shikun Vatikim, causando gravi danni alle vetrate e all’edificio, che ospita una yeshivà e una sala di studio. L’attacco è avvenuto alle 7:05 del mattino, nel breve intervallo tra la fine del primo servizio di preghiera e l’inizio del secondo, previsto per le 7:15. Proprio in quei minuti, quando non c’era nessuno all’interno, il missile ha colpito: “È stato un miracolo – nessuno si trovava in sinagoga, e nessuno è rimasto ferito” ha raccontato il rabbino Binyamin Hamra, a capo della yeshivà.
Il bombardamento ha provocato 38 feriti: 4 in condizioni gravi, 3 moderate e 31 lievi. Inoltre, 746 abitazioni nei dintorni sono state evacuate e 5 edifici dichiarati “rossi”, a rischio di crollo imminente. Nonostante lo shock e i danni – tra cui migliaia di frammenti di vetro – il rabbino Hamra ha lanciato un messaggio di speranza: “Da questo momento, tra le mille schegge e la devastazione, torneremo più forti. Ci sosterremo a vicenda e risorgeremo nella grande luce. Pregheremo perché il Signore rinvigorisca i nostri spiriti e ci dia la forza di rimanere fedeli alle nostre tradizioni”.
Negoziati con l’Iran, ma «con i terroristi non si tratta». Intervista a Rayhane Tabrizi
Missili e droni si inseguono tra i cieli di Iran e Israele, mentre l’Occidente lancia appelli al dialogo e prepara nuovi colloqui diplomatici. Ma a cosa serve trattare ancora, se il regime islamico resta al potere, armato, isolato, feroce?
di Sofia Tranchina
L’opposizione alla Repubblica Islamica riunisce da decenni migliaia di iraniani dentro e fuori dal Paese: attivisti, intellettuali, cittadini comuni. Li accomuna l’insofferenza per l’autorità violenta e misogina che li opprime dal 1979. Ma la forza dei numeri porta con sé anche divergenze profonde: tante voci, tante sensibilità. Alcuni invocano una transizione interna, senza interferenze straniere: una riforma per volta, malgrado la lentezza. Tra questi gli attivisti Parisa Nazari e Shady Alizadeh, che hanno lanciato una petizione che chiede lo stop immediato dei raid israeliani: “il movimento non ha mai chiesto l’intervento militare di potenze straniere”, ricordano. Anche i premi Nobel Narges Mohammadi e Shirin Ebadi, insieme ad altri attivisti, hanno firmato una lettera aperta che chiede il cessate il fuoco immediato, ma anche un passo indietro sul nucleare e una transizione politica volontaria. Altri ritengono che le circostanze richiedano misure drastiche, e sperano che l’intervento israeliano — pur tragico — offra loro l’occasione per la libertà agognata. Molti graffiti sui muri di Teheran riportano diverse formulazioni della frase: “Colpiscili, Israele. Gli iraniani sono dietro di te”. Tra questi Rayhane Tabrizi, attivista iraniana in esilio che vive in Italia dal 2008, e da qui denuncia quotidianamente i crimini dei pasdaran (che i dissidenti esortano a inserire nella lista delle organizzazioni terroristiche), e dei loro alleati. All’opposizione serviva «una leva esterna per accelerare la lotta contro il regime», spiega: senza essere accompagnati da «una qualche forma di collaborazione dall’esterno», non si riusciva a scalfire la crosta dura della teocrazia, armata e protetta dalla sua mostruosa macchina propagandistica. Non volevano un conflitto armato, ma ora che c’è, non vogliono che anni di sforzi e sacrifici vengano vanificati da una diplomazia miope. I missili israeliani, per quanto ufficialmente mirati contro gli impianti nucleari e i centri nevralgici della Repubblica Islamica, stanno coinvolgendo la vita civile in modo disastroso: centinaia di vittime civili, edifici privati distrutti, vie e infrastrutture necessarie alla vita quotidiana danneggiate. Inoltre, Teheran sta usando il popolo “come scudo umano”, aggiunge Tabrizi: con il blocco totale di internet, le persone non ricevono più gli avvisi di evacuazione lanciati da Israele, «e questo permette al regime di usare ogni “martire” per la sua propaganda vittimista». Israele non deve cadere in questa trappola, mette in guardia. Ma non si può tornare indietro. Il conflitto armato era «l’ultima risorsa», ma, «per quanto doloroso, ora bisogna andare fino in fondo», afferma con voce rotta Tabrizi, che ha ancora parenti e amici in Iran. «Anche se questo significa che molti innocenti pagheranno il prezzo più alto». E per quanto sognasse di vedere i vertici dei pasdaran processati da un tribunale internazionale, «ogni criminale in meno è un passo verso la libertà». Una soluzione diplomatica potrebbe peggiorare le cose: «la richiesta di cessate il fuoco mossa da alcuni attivisti iraniani parte dal cuore, ma non è logica: se anche un solo esponente del regime dovesse sopravvivere e riuscisse a riorganizzarsi, l’Iran verrà trascinato in anni bui e brutali». Il rischio maggiore è che il regime, umiliato militarmente sullo scenario internazionale, reagisca con rinnovata violenza all’interno, scatenando un’ondata repressiva per annientare l’opposizione. Per quarantasei anni la Repubblica Islamica ha inseguito il sogno di annientare lo Stato Ebraico: “sarà sradicato e distrutto, sparirà dal paesaggio, e la divina promessa di eliminarlo sarà compiuta”, ha ripetuto il governo. Ha istituzionalizzato l’odio con l’annuale cerimonia Quds Day, in cui si inneggia “Morte a Israele” nelle piazze e si brucia la bandiera di Israele. Ha investito miliardi in operazioni contro Israele, mentre la popolazione iraniana affondava nella povertà. Ha distrutto l’economia, isolato il Paese e trasformato il Medio Oriente in una scacchiera di guerra per procura: Hezbollah, Hamas, la Jihad islamica, gli Houthi, sono tutti sostenuti e armati da Teheran per combattere Israele, nemico ideologico. E allora Tabrizi mette in guardia a «non cadere nella propaganda del regime», come hanno fatto alcuni compatrioti condividendo frettolosamente sui social la storia “Israele sta attaccando l’Iran senza nessuna provocazione”: «sono offuscati dal nazionalismo e dall’amore per la patria, ma quello che sta accadendo è la ovvia conseguenza di anni di provocazioni». Eppure, non idealizza Israele a eroe di una favola geopolitica. Sa che nessuno Stato combatte per altruismo: Netanyahu non bombarda il regime islamico “per amore del popolo iraniano”. Ma oggi, gli interessi degli iraniani che vogliono liberarsi dall’oppressore, e di Israele che vuole neutralizzare chi minaccia la sua esistenza, convergono. Ma «in Europa manca totalmente consapevolezza», commenta amareggiata. Proprio mentre Israele colpiva le sedi della TV di Stato iraniana — il cuore pulsante della propaganda —, la televisione pubblica italiana intervistava l’ambasciatore iraniano a Roma. «Nessuna domanda scomoda, nessun contraddittorio» si lamenta Tabrizi: è uno schiaffo alla lotta del popolo iraniano, che rischia tutto mentre l’Europa presta il microfono alla Repubblica Islamica e le fornisce l’opportunità di diffondere la sua propaganda. «Oltre al regime, ora dobbiamo combattere anche contro l’ignoranza degli italiani, complici delle bugie del regime?». Intanto a Ginevra si apre un nuovo tavolo negoziale tra Germania, Francia, Regno Unito e l’Iran, con l’Unione Europea nel ruolo di mediatore. Tabrizi non nasconde la rabbia. Ogni tentativo di normalizzazione è una forma subdola di complicità e legittimizzazione, che rende intollerabile il dolore degli iraniani dopo questi giorni di paura e lutto: «Perché mettere a repentaglio la vita dei civili, se poi l’Occidente torna al tavolo con il regime da cui ci si doveva liberare? A che è servito, se Israele bombarda e l’Europa negozia?». Ogni volta che un ministro europeo stringe la mano a un rappresentante della Repubblica Islamica, oltraggia il coraggio delle donne che hanno tolto il velo, dei ragazzi che sono stati torturati, degli esiliati che non possono tornare. Di chi come lei rischia ogni giorno: il sistema repressivo iraniano ha infatti perseguitato sistematicamente dissidenti anche all’estero, con omicidi, avvelenamenti, rapimenti. Si guardi a Habib Chaab, rapito in Turchia e impiccato in Iran, e Masih Alinejad, sopravvissuta a tentati omicidi a New York. L’Iran è scosso dall’artiglieria pesante e l’Occidente si affretta a mediare, ma Tabrizi commenta tranchant: «non si tratta con i terroristi. Con l’ISIS avete negoziato?». Il timore che vengano sacrificati gli ideali umanitari alla stabilità geopolitica è esacerbato da un altro fattore non indifferente: il petrolio. «L’Iran fa gola», si sa, perché ha una riserva energetica con un ricco mercato potenziale. E così «si chiudono gli occhi e si stringono le mani». In questo gioco meschino, «L’Europa recita la parte della democrazia illuminata», inveisce l’attivista, «ma in realtà è una farsa. Si direbbe che non gliene importa nulla né della vita degli iraniani, né di quella degli israeliani, nonostante – come solo Merz ha riconosciuto – Israele stia “facendo il lavoro sporco del mondo intero”, anche a costo di generare un ulteriore odio antiebraico». Rayhane Tabrizi non pretende chissà qual gesto salvifico, sa che ogni paese ha la sua lotta e i suoi interessi, ma chiede al mondo uno sforzo di onestà intellettuale: «il mio cuore piange. Ma voi non dovete dare ascolto al regime: date importanza alla voce degli iraniani». La canzone del popolo deve contare più delle menzogne del suo oppressore.
Verso una rivolta popolare in Iran? Rivelazioni su ciò che sta accadendo dietro le quinte
Una foto fornita dall'ufficio della guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, il 17 dicembre 2024, mostra la guida suprema iraniana che saluta la folla prima di un discorso a Teheran.
di Céline Bukin
- Atlantico: Reza Pahlavi, erede dello Scià di Persia, ha lanciato per la prima volta un appello alla rivolta popolare. Se ci sarà una rivolta popolare, sarà relativamente strutturata o diffusa e prolungata? Emmanuel Razavi: Penso che il principe Reza Pahlavi ritenga che questa guerra abbia raggiunto un punto di non ritorno. Come altri leader dell'opposizione iraniana, in particolare tra i curdi con cui parlo regolarmente, o anche all'interno dei movimenti liberali, sa che i mullah sono animati da un'ideologia omicida e che Israele è ormai minacciato in modo esistenziale. Di conseguenza, tutti questi leader dell'opposizione ritengono che l'Iran sia a un punto di svolta della sua storia. È per questo che, sui canali di alcuni movimenti, da due giorni si parla di coalizioni e di rivolte. Detto questo, ho l'umiltà di dire che non so tutto, il che è una fortuna. Perché l'opposizione iraniana sa anche mantenere i segreti, mentre i suoi movimenti di resistenza sono tutti in allerta... Vorrei concludere con Reza Pahlavi, che ho intervistato su Paris Match l'anno scorso, e dirvi che, nonostante ciò che pensano alcuni, ha una visione politica e geopolitica a lungo termine di ciò che deve cambiare in Iran e evolversi in Medio Oriente. Come altri leader iraniani, è anche un uomo animato dalla democrazia e dalla laicità. Per quanto riguarda la strutturazione dei partiti democratici iraniani, sono sempre più organizzati e da tempo vedo che stanno cercando di formare una o più coalizioni, cosa non facile, dato che ciascuno dei loro leader ha la propria agenda. Ma in questo momento, mi sembra di capire che quasi tutti stiano gestendo l'emergenza. In parole povere, stanno cercando di riunire coloro che lo desiderano e di rovesciare il regime, per poi sedersi attorno a un tavolo e lavorare a ciò che diventerà l'Iran liberato dai mullah. Personalmente, credo che sia necessario dare fiducia a questi movimenti democratici di opposizione iraniani.
- Partendo dalle dichiarazioni di Trump, è ragionevole credere a una rivolta, quando permangono dubbi e molti temono di essere ridotti a carne da cannone e poi abbandonati dall'Occidente, come in altri conflitti passati? Emmanuel Razavi: È una buona domanda. Gli iraniani sono stati abbandonati per 46 anni dall'Occidente, che si è accordato con i mullah. Tuttavia, dalle conversazioni che ho avuto, mi sembra di capire che il sentimento che prevale in alcune città iraniane è la paura e il panico, soprattutto nelle zone bombardate. Ma c'è anche una profonda stanchezza e il desiderio che questa guerra finisca. Naturalmente, il regime ha ancora dei sostenitori tra le persone che lavorano per lui e che mantengono intere famiglie. Ma sono sempre meno. Inoltre, in Iran, come in ogni altra parte del mondo, le opinioni e le convinzioni sono molteplici. Aggiungo che lo sono tanto più che gli iraniani, molto istruiti, hanno una mentalità e una cultura politica raffinata e complessa. Ma la maggioranza degli iraniani non vuole più il regime.
- In che modo la situazione attuale differisce dalle rivolte precedenti (1999, 2009, 2017, 2022)? E soprattutto, perché questa volta il regime potrebbe non riuscire a disinnescare la crisi come in passato? Emmanuel Razavi: Questa volta non si parla di rivolta, ma di guerra, in un momento in cui il regime iraniano è indebolito militarmente e frammentato al suo interno a causa di numerose dissensioni politiche. In parole povere, in Iran si distinguono due grandi tendenze: i conservatori e i riformatori. I conservatori sono senza dubbio pronti, almeno in parte, ad andare fino in fondo. Con questo intendo dire che non si arrenderanno, tanto sono ideologizzati. I riformatori, invece, insieme ai Guardiani della Rivoluzione, controllano il business in Iran. Sono coinvolti nel traffico di droga su larga scala e nella vendita di armi. Pezeshkian, il presidente della Repubblica islamica, è un riformatore. Da quando è salito al potere ha fatto giustiziare centinaia di persone. Per molti di loro, i riformatori hanno le mani sporche di sangue. In Iran, pochi li vogliono. Penso quindi che questo sia un momento storico, in cui le opposizioni iraniane, guidate da persone istruite, hanno finalmente una speranza, a condizione che gli Stati Uniti e l'Europa le sostengano e non trovino una soluzione negoziata con i mullah, che significherebbe fare un passo indietro per saltare meglio.
- Come ha fatto finora il regime iraniano a sopravvivere ai movimenti di contestazione, e questi meccanismi sono ancora validi oggi? Emmanuel Razavi: È sopravvissuto grazie a una repressione terribile. Ma ha anche investito enormemente in strategie di influenza in Occidente. Ha speso miliardi in attività di lobbying per assicurarsi i servizi di ex diplomatici, ricercatori, influencer e giornalisti negli Stati Uniti e in Europa. Ha potuto contare anche sugli studenti iraniani residenti in Occidente che, temendo che il regime se la prendesse con le loro famiglie, hanno accettato di diffondere il suo linguaggio e la sua propaganda. Ma sempre più giornalisti in Francia, Italia, Inghilterra, Svizzera, Spagna e Stati Uniti stanno lavorando su queste strategie, collaborando e facendo conoscere ciò che sta accadendo.
- Robespierre diceva che i popoli non amano i missionari armati. In che misura gli iraniani, che sono molto nazionalisti, sono disposti ad accettare una rivoluzione importata dall'estero? Emmanuel Razavi: La ringrazio per questa domanda. Per rispondere, non c'è alcuna rivoluzione importata dall'estero in Iran, al momento in cui parliamo. C'è piuttosto una guerra, scatenata perché il regime iraniano, che è totalitario, minaccia di sradicare Israele. Gli iraniani sono un popolo di incredibile finezza, dotato di un grande senso politico. Vogliono solo che l'Occidente li aiuti a liberarsi dei mullah. Vogliono la pace, la libertà e relazioni pacifiche con Israele.
- Come percepiscono gli iraniani della diaspora, o quelli in Iran, i dibattiti che stanno attraversando i paesi occidentali sulla questione: bisogna o no aiutare a rovesciare il regime dei mullah? Cosa ne pensano? Emmanuel Razavi: Come vi ho detto, in Iran e nella diaspora c'è una pluralità di opinioni. Ma nel complesso, gli iraniani sono sconcertati nel vedere persone che non hanno alcuna legittimità per parlare dell'Iran, parlare a volte a loro nome. Credo che siano stanchi. Ma in questo momento sta succedendo qualcosa di molto particolare. Alcuni pensano che la fine del regime potrebbe arrivare presto. E che gli Stati Uniti debbano aiutarli. E credo che la loro stanchezza potrebbe smentire le previsioni di alcuni. Il futuro prossimo lo dirà.
Un po’ di chiarezza sulla cornice giuridica dell’attacco israeliano all’Iran
di Luca Lovisolo
Sullo scontro fra Israele e Iran vanno consolidandosi narrazioni che tendono a confondere la percezione dei fatti. Le risposte ad alcuni quesiti ricorrenti, senza pretesa di completezza.
Israele ha violato il diritto internazionale con una difesa preventiva contro l’Iran? Tre fatti contraddicono questa affermazione: 1) L’Iran determina e supporta l’azione di gruppi paramilitari (Hamas, Hezbollah, Houthi) che aggrediscono già materialmente Israele ed è perciò correo morale e materiale di tali aggressioni; 2) Israele attacca obiettivi militari o civili a uso militare: tali attacchi possono produrre vittime civili collaterali, spiacevoli ma ammesse; sarebbe invece censurabile l’attacco deliberato contro obiettivi civili senza finalità belliche; 3) Israele si tutela rispetto a una minaccia esistenziale, l’arma nucleare iraniana: in questo caso, la difesa preventiva è ammessa secondo la cosiddetta «formula Caroline» (1837). D’altra parte, la mancanza di questa eccezione al principio di materialità dell’offesa contraddirebbe la ratio stessa dell’istituto dell’autodifesa: in presenza di una minaccia esistenziale, si permetterebbe al minacciato di difendersi solo dopo essere stato annientato dall’aggressore.
Come per l’Iraq nel 2003, anche per l’Iran le prove potrebbero essere false? I due scenari non sono comparabili. Nel 2003 l’Iraq fu attaccato argomentando che possedesse armi di distruzione di massa, tesi poi dimostratasi falsa. Le prove apparvero subito deboli e gli USA faticarono molto a convincere i loro alleati e le Nazioni Unite della solidità delle loro accuse. Inoltre, il grado di minaccia globale dell’Iraq non era paragonabile a quello dell’Iran oggi, benché il regime iracheno fosse abominevole. Le prove dello sviluppo nucleare militare in Iran, al contrario, sono fornite dalle stesse Nazioni unite, attraverso l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, e poggiano su uno storico pluridecennale. Vi sono poi le osservazioni dei servizi segreti e di Stati della regione non amichevoli verso Israele, che tuttavia stanno cooperando con discrezione alle azioni dello Stato ebraico contro il programma nucleare iraniano, che è minaccia comune. Non è realistico che l’Iran possa realizzare subito una bomba atomica, come sostiene Benjamin Netanyahu, ma è accertato che è in grado di arricchire uranio a tale scopo in ormai pochissimo tempo e deve essere fermato tempestivamente, non solo nell’interesse di Israele.
L’Iran rispettava l’accordo del 2015 sul controllo del nucleare? La questione è mal posta. Rispettato o no, l’accordo non produceva la rinuncia definitiva dell’Iran all’armamento nucleare. I controlli non garantivano che lo sviluppo non potesse continuare in segreto e, rimuovendo le sanzioni, forniva all’Iran nuovi mezzi per proseguirlo. L’accordo, in astratto, era un apprezzabile atto politico di apertura verso la dirigenza iraniana, ma, comunque lo si giudichi, soffriva di una contraddizione strutturale: si fondava sulla convinzione che un approccio negoziale razionale, fondato sull’equilibrio di interessi, funzioni anche con regimi che non agiscono secondo la razionalità tipica del diritto positivo occidentale, ma sono guidati da dogmi religiosi o ideologici. Gli accordi con tali regimi non sono impossibili, ma devono essere garantiti da un’adeguata e vigile forza di dissuasione.
L’Iran non può volere l’arma nucleare? Nessuno Stato può decidere d’arbitrio di dotarsi di un’arma nucleare. Esistono accordi internazionali contro il proliferare di tali ordigni fatali. Ogni nuovo armamento o estensione degli arsenali esistenti che esca da tale quadro o è illecito o presuppone la denuncia o modifica dei trattati, con le conseguenze del caso. Pertanto, il possesso dell’arma nucleare non è un diritto nascente da un principio generale di equità («se ce l’ha Tizio ha diritto di averla anche Caio»): è regolato da norme che tutelano la sicurezza collettiva. Ciò vale vieppiù per Stati privi di meccanismi democratici di controllo. Vero che vi sono già Paesi poco affidabili dotati di arma nucleare, ma questo non è un buon motivo per accettare che se ne aggiunga un altro. L’Iran, infine, presenta un quadro più complesso e minaccioso, anche per le sue relazioni con gruppi terroristici e paramilitari.
E’ sempre bene ricordare che l’Iran costituisce già oggi una minaccia oltre la sua regione. Missili iraniani sono in grado di raggiungere il Sud Europa. Vi sono parti del dibattito pubblico europeo che perseverano nel dare delle vicende mediorientali letture irreali, persino protettive degli attori più violenti e minacciosi per tutti. I pericoli per l’Europa provenienti da quello scenario sono concreti, nonostante la scarsa percezione da parte delle opinioni pubbliche continentali.
Non cercare guai con IsraeleQuesto in sintesi il messaggio della nuova strategia israeliana post-7 ottobre
di Boaz Golany
"Don’t mess with Texas” (non andare in cerca di guai con il Texas) era uno slogan usato per promuovere una campagna contro l’immondizia abbandonata dai turisti sulle autostrade di quello stato. Indirettamente, descriveva anche la natura dei texani: in generale persone rispettose della legge, cordiali e amichevoli, ma se provate a entrare nelle loro proprietà senza permesso, scoprirete rapidamente che in Texas il cartello “vietato l’accesso” significa che è legale spararvi. Dalla vittoria nella guerra del 1967 in poi, Israele aveva adottato una politica di auto-contenimento e moderazione nei confronti dei suoi vicini, dettata in primo luogo dal fatto che gli israeliani odiano la guerra e farebbero di tutto per evitarla. Questo atteggiamento poggiava sull’illusoria convinzione che i nostri nemici fossero scoraggiati e dissuasi dalla nostra potenza militare, e che non avrebbero osato attaccarci in forze, E così abbiamo chiuso gli occhi quando gli egiziani ammassavano forze militari e mettevano in atto manovre belliche, per poi essere presi totalmente di sorpresa quando scatenarono la guerra nel giorno di Kippur del 1973. Per oltre un decennio abbiamo lasciato che l’OLP costruisse un vero esercito al nostro confine settentrionale con il Libano, finché – dopo continui attentati – nel 1982 abbiamo deciso di smantellarlo. Poi, per oltre tre decenni abbiamo ripetuto lo stesso errore con Hezbollah. Anche nella guerra in Libano del 2006 ci siamo fermati prima d’aver eliminato quella minaccia, accentando invece la fittizia risoluzione Onu 1701 come una foglia di fico che ha permesso a Hezbollah di continuare a consolidare e irrobustire le sue forze fino diventare uno degli eserciti più forti e temibili del Medio Oriente. Questa politica di auto-contenimento ha raggiunto il suo apice nel modo in cui abbiamo ignorato la minaccia di Hamas a Gaza. Col senno di poi, era tutto chiaro come il sole. Ma le nostre false convinzioni, unite a un’infondata presunzione, hanno spianato la strada al disastro del 7 ottobre. Lo strazio insopportabile per la carneficina del 7 ottobre ha causato un profondo cambiamento nell’opinione pubblica e nel pensiero strategico di Israele. Che si tratti di Gaza, del Libano o della Siria, Israele non è più disposto a tollerare la presenza, e men che meno l’incremento, di pericolose e sanguinarie forze ostili attorno a sé. Su tutti e tre i fronti, le Forze di Difesa israeliane hanno istituito zone cuscinetto al di là dei confini, le hanno sgomberate da edifici e infrastrutture che potrebbero essere usati contro di noi e hanno adottato una tattica logica e pragmatica volta a neutralizzare i rischi appena si presentano, ben prima che abbiano la possibilità di colpirci. Se la politica di moderazione e auto-contenimento è stata uccisa il 7 ottobre 2023, il suo definitivo funerale ufficiale ha avuto luogo il 13 giugno 2025. L’attacco preventivo contro l’Iran (i suoi missili balistici, il suo potenziale nucleare, le sue gerarchie guerrafondaie) invia un messaggio forte e chiaro a tutti i nemici di Israele: non venite a cercare guai con noi. D’ora in poi, non tollereremo più che si accumulino minacce contro di noi: non importa se a ridosso dei nostri confini e quindi delle nostre città in Israele, o a migliaia di chilometri di distanza. Se intendete farci del male e preparate i mezzi per farlo, verremo a cercarvi ed elimineremo la minaccia prima che possa essere attuata. Il successo sull’orrendo regime in Iran e i suoi armamenti sembra ormai a portata di mano, e speriamo di arrivarci presto. Una volta ottenuto, dovremo rimanere sempre vigili ed evitare di ricadere nella stessa trappola del moderato auto-contenimento in cui siamo caduti in passato. Come i texani, continueremo a mostrare cordialità verso i nostri vicini, a rispettare le loro culture e religioni, ad aiutare nei momenti difficili (malattie, inondazioni, terremoti ecc.) e abbracceremo volentieri ogni offerta di collaborazione pacifica che porti vantaggi reciproci a tutte le parti interessate. Ma, insieme a tutto questo, dovremo assicurarci che tutti intorno a noi vedano e capiscano bene il cartello: “Non cercare guai con Israele”.
(Da: Jerusalem Post, 19.6.25)
Il presidio, simbolo di coesistenza fra ebrei e arabi, in prima linea il 7 ottobre 2023.
Un neonato in terapia intensiva. Una madre al suo capezzale. Un medico che corre da un letto all’altro. Un anziano in una casa di cura.
«Ecco alcuni degli obiettivi degli attacchi missilistici iraniani contro i civili israeliani questa mattina», ha affermato il presidente d’Israele Isaac Herzog. C’è sgomento nel paese per le conseguenze del missile sparato dal regime sull’ospedale Soroka di Beer Sheva, una delle principali strutture ospedaliere d’Israele, punto di riferimento per tutta l’area del Negev e già in prima linea nel portare soccorso alle vittime del 7 ottobre. Beer Sheva e Gaza distano poche decine di chilometri. Nel “sabato nero” dell’ottobre 2023 e nelle settimane successive i chirurghi, le infermiere, tutto il personale sanitario del Soroka, ebrei e arabi, e tra loro numerosi beduini, comunità storicamente radicata nel territorio, sono stati mobilitati senza riposo. E hanno affrontato l’emergenza innescata dai massacri di Hamas, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Iron Dome sanitario”. Oggi purtroppo il vero Iron Dome, il sistema antimissile in dotazione a Gerusalemme, non è stato in grado di intercettare l’ordigno sparato da Teheran.
L’attacco iraniano al Soroka ha provocato ingenti danni alla struttura e varie decine di feriti, alcuni in modo grave. «Stamattina gli occhi del mondo intero dovrebbero essere puntati sull’ospedale Soroka di Beer Sheva per capire cosa significhi davvero un crimine di guerra», ha dichiarato il presidente dell’Associazione medica israeliana Zion Hagay. «Mentre Israele mira a obiettivi di sicurezza, gli iraniani sparano deliberatamente contro i centri abitati per danneggiare il maggior numero possibile di civili. È solo grazie alla preparazione dell’ospedale che è stato evitato un disastro molto più grave». Inaugurato nel 1959, il Soroka è una delle eccellenze del sistema sanitario israeliano. Ha circa 1200 posti letto. Nel 2004 a beneficiare dei suoi servizi fu tra gli altri Yahya Sinwar, futuro leader di Hamas e architetto del 7 ottobre, allora “ospite” delle carceri israeliane, al quale fu rimosso un tumore al cervello. Quando Sinwar fu scarcerato insieme a oltre mille terroristi di Hamas in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, prigioniero per anni a Gaza, Sinwar promise a colui che gli aveva diagnosticato per tempo il male, il medico Yuval Bitton, allora responsabile della clinica dentale della prigione, che avrebbe fatto di tutto per ripagarlo. Il 7 ottobre Hamas ha ucciso un suo nipote nel kibbutz Nir Oz. a.s.
L’Alleanza Fatah filo-iraniana irachena, guidata da Hadi al-Amiri, ha dichiarato giovedì che si aspetta un decreto religioso (fatwa) per la jihad da parte del Grande Ayatollah Ali al-Sistani, la massima autorità sciita irachena, in risposta all’escalation delle azioni israeliane e statunitensi contro l’Iran. Ali al-Fatlawi, un alto funzionario dell’alleanza, ha dichiarato che “l’assalto alla Repubblica Islamica, che difende i fondamenti dell’Islam, non si limita alla setta sciita, sebbene questa sia in prima linea nella difesa”. Egli ha affermato che “la debolezza della leadership islamica sunnita ha fatto apparire più dominanti le voci religiose sciite”. Al-Fatlawi ha considerato un attacco al leader supremo iraniano Ayatollah Ali Khamenei equivalente a un attacco all’Islam stesso, paragonando la sua influenza a quella del Grande Ayatollah al-Sistani in Iraq. Al-Sistani, con sede nella città santa di Najaf e noto per la sua moderazione in materia politica, ha rilasciato giovedì una rara dichiarazione in cui avverte che qualsiasi attacco contro la leadership religiosa o politica iraniana provocherebbe il caos nella regione. Il suo ufficio ha descritto la campagna militare israeliana in corso come una violazione dell’etica religiosa, del diritto internazionale e delle norme umanitarie. Nella giurisprudenza islamica sciita, la jihad non si riferisce solo alla lotta armata in difesa della fede, ma anche alla resistenza morale e sociale in tempi di crisi. L’ultimo appello alla jihad di Al-Sistani risale al 2014, quando emanò una fatwa storica che esortava gli iracheni a prendere le armi contro l’ISIS. Quel decreto portò alla formazione e alla mobilitazione delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF), una rete di gruppi paramilitari per lo più filo-iraniani che ora esercitano un’influenza significativa sulla sicurezza e la politica irachena.
Caro Stefano, rispondo alla tua richiesta di notizie e soprattutto dell’atmosfera che sto vivendo dal primo dei tanti allarmi che ormai si susseguono quotidianamente. Oggi sono particolarmente stanca, quando si ritorna a casa dal rifugio non si riesce più a dormire per l’adrenalina che scorre. Ieri per 3 volte sono dovuta scendere. La prima alle 8 di mattina, la seconda alle 22. Tornata a casa, nemmeno il tempo di riprendermi e mettermi a letto, a mezzanotte in punto di nuovo! Vivo qui da 50 anni con figli e nipoti (uno di leva) e purtroppo sono abituata agli allarmi, anche se, con una certa incoscienza, mai ero scesa nel rifugio perché, abitando al decimo piano, non c’era tempo sufficiente per mettersi al riparo. Infatti le scorse volte, tra l’allarme e la deflagrazione intercorreva solo un minuto ed in alcuni casi anche meno. Ora è diverso perché le autorità hanno deciso di inviare ad ognuno sul cellulare un avviso 10 minuti prima che le sirene diano l’allarme, per cui ora ho tempo sufficiente per scendere nel rifugio. Ti descrivo la scena mentre in silenzio stiamo sottoterra in attesa dell’esplosione di razzi e missili. Siamo almeno 100 persone: bambini svegliati nel cuore della notte che proseguono il sonno nelle braccia protettive della mamma, vecchi zoppicanti con il bastone che ricordano la sensazione già vissuta, che ritenevano essersi lasciati alle spalle per sempre, cani tenuti al guinzaglio che cercano di fuggire percependo chissà come l’imminente pericolo. E poi ci sono io che vivo sola, seduta con una bottiglia d’acqua in grembo e la mia borsa stretta al petto con dentro la mia carta d’identità, perché, qualora il palazzo fosse colpito e crollasse, se sotto le macerie trovassero il mio corpo, saprebbero dargli un nome. Un saluto affettuoso, L.
GERUSALEMME - Negli ultimi due anni ho riflettuto molto sull'opera di pubbliche relazioni di Israele nel mondo. E, onestamente, non è particolarmente lodevole. A volte ho persino l'impressione che non ci sia alcuna opera di sensibilizzazione su ciò che stiamo vivendo qui. Israele è solo. Questa solitudine non è un caso storico, ma una caratteristica intellettuale che attraversa tutta la storia di Israele. Anche oggi, dopo il 7 ottobre 2023, Israele sta vivendo una forma profonda di questa solitudine. Quando gli ebrei vengono attaccati, la compassione del mondo è spesso di breve durata. La solidarietà ha rapidamente lasciato il posto all'accusa, la compassione al freddo calcolo. In questo momento di solitudine globale, Israele ricorda la sua fonte più profonda: l'alleanza con Dio. Forse è proprio questa solitudine che, come nel caso di Mosè, non deve portare alla disperazione, ma alla vicinanza divina. Forse la voce debole di Israele nel mondo non è un segno di sconfitta, ma un appello a tutti gli uomini nello spirito di Dio a diventare parte della missione – non per Israele, ma con Israele: nella verità, nella fede e nella responsabilità. Dopo il 7 ottobre 2023 e dopo la lunga e tragica storia del popolo ebraico in tutto il mondo, Israele è tornato nella sua terra. E non per caso. La dura realtà a cui era esposto il popolo ebraico lo ha riportato indietro. In nessun luogo al mondo siamo stati veramente accolti, né in Occidente né in Oriente, in nessun luogo. Ovunque siamo stati emarginati, respinti e, quando possibile, cacciati o uccisi. Gli ebrei non hanno mai conosciuto pace e sicurezza. Questo è un dato di fatto. E ora, finalmente, dopo la Shoah, abbiamo uno Stato. Un luogo dove gli ebrei possono vivere liberi, con la loro religione, la loro fede. Vivere semplicemente, come persone normali in circostanze normali. Ma, come tutti vediamo, anche in questo unico Stato ebraico il popolo di Israele deve ancora giustificarsi. Continuiamo a lottare per qualcosa di ovvio: il nostro diritto all'esistenza. Dall'ottobre 2023 ho pensato per un attimo che forse ci sarebbe stato un risveglio nel mondo. Forse la nostra presenza nel nostro Paese sarebbe stata finalmente riconosciuta come legittima. Forse ci sarebbe stata una possibilità di un po' di pace. All'inizio della guerra c'erano effettivamente voci di sostegno. Avevo la sensazione che qualcosa stesse cambiando. Ma molto rapidamente la situazione è cambiata, trasformandosi in odio, incitamento all'odio, manifestazioni violente, minacce e persino omicidi di ebrei in tutto il mondo. Quasi nessun Paese al mondo è stato risparmiato dalle esplosioni di antisemitismo. Il Sudafrica è andato particolarmente lontano e Israele si è ritrovato sul banco degli imputati all'Aia, accusato di crimini internazionali. Anche se la ferita è ancora fresca, la ruota della storia ha girato di nuovo contro di noi. Israele è tornato ad essere il “cattivo”, il fuorilegge. A tal punto che oggi i soldati dell'IDF devono temere di essere arrestati durante i viaggi all'estero, compresi i miei tre figli, mio genero e mia nuora. Nessuno di loro mostra più foto di sé stesso in divisa sui social network. È diventata una pratica comune nel Paese, per paura di essere arrestati all'estero. Più sentivo che la nostra lotta era giusta, più le nostre voci si spegnevano nell'opinione pubblica mondiale. Il lavoro di sensibilizzazione di Israele si è ridotto al minimo, quasi impercettibile. Mi chiedevo: com'è possibile? Perché nessuno parla? Perché nessuno mostra la verità, la nostra innocenza? Ma niente. Il mondo continua a girare e gli ebrei sono di nuovo gli odiati. Qualche settimana fa ho scritto della lettura biblica settimanale “Beha'alotecha”. Ho sottolineato la solitudine di Mosè e ho ricordato che anche altri leader biblici hanno vissuto una profonda solitudine. Ma più Mosè era solo, più sentiva la presenza di Dio. Questo non alleviava il dolore, ma lo legava più fortemente a Dio, che era la sua ancora e lo aiutava a compiere la sua missione: condurre il popolo d'Israele nella terra promessa. La mia conclusione è questa: come Mosè allora, così è il popolo d'Israele oggi. Sì, siamo un popolo solitario. Anche se abbiamo amici, si tratta di alleanze temporanee, basate su interessi che possono cambiare in qualsiasi momento. E come Mosè nella sua solitudine cercava Dio con più forza, così anche Israele, più è solo, più cerca profondamente il legame con l'alto. È lì che trova la forza. E mi è venuto in mente un pensiero sul lavoro di pubbliche relazioni, quello che mi frustra tanto: forse Israele non ha più bisogno di PR da sé stesso. Forse Israele deve essere forte, intelligente, coraggioso e tecnologicamente superiore, ma allo stesso tempo deve intraprendere la sua missione insieme a Dio. Perché la vera forza di Israele è la sua fede in Dio. Dio, a differenza del mondo, non ha interessi mutevoli. È completamente orientato al bene di Israele. Vuole essere parte di questo popolo. Vuole dimorare nei nostri cuori. Vuole essere unito a noi con amore e vicinanza. E se Dio è con noi, chi può essere contro di noi? Dio è la migliore pubblicità che Israele abbia mai avuto. È la nostra voce più forte nel mondo. E poiché siamo davvero pessimi nelle pubbliche relazioni, nel presentarci al mondo, ma forti nel difendere la nostra terra, forse voi, cari lettori, nostri veri amici, dovreste occuparvi delle pubbliche relazioni e della comunicazione: persone di spirito e di fede. Noi vi forniamo i fatti e voi li diffondete. Uniamo le nostre forze. Ognuno fa ciò che sa fare meglio. E Dio ci aiuterà. Perché se Dio è con noi, e voi siete con noi, chi può fermarci? «Sia benedetto il Signore, Dio di Israele, che solo fa meraviglie. Sia benedetto il suo nome glorioso per sempre, e tutta la terra sia piena della sua gloria. Amen e amen» (Salmo 72).
(Israel Heute, 19 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Italiani e israeliani bloccati all’estero aspettano di fare ritorno a casa
di Nina Prenda
A causa dello spazio aereo bloccato nei cieli del Medio Oriente per la guerra in corso, sale la preoccupazione per gli italiani residenti all’estero che non riescono a tornare a casa. Si muovono le ambasciate italiane in Israele e in Iran per permettere il rimpatrio degli italiani bloccati nei due Paesi in guerra. Sono circa 20mila gli italiani che si trovano nello Stato ebraico e 500 quelli nella Repubblica Islamica in questi giorni di conflitto. I secondi hanno potuto lasciare la Nazione passando via terra per l’Azerbaigian e al momento si contano ventinove concittadini che sono stati rimpatriati. “Ringraziamo l’ambasciata e coloro che ci hanno aiutato ad uscire, siamo molto riconoscenti. Il viaggio è stato duro: si respira l’aria di guerra. Non solo per i bombardamenti ma per l’atmosfera pesante”, dichiarano gli italiani che stanno lasciando la Repubblica Islamica. Le Ambasciate e i Consolati stanno fornendo assistenza ai connazionali che desiderano lasciare gli Stati, favorendo l’uso dei valichi terrestri in attesa della riapertura degli aeroporti. I primi connazionali che sono riusciti a lasciare i Paesi stanno tornando a casa. “La situazione anche dei nostri concittadini è abbastanza complicata e cerchiamo di assisterli nel modo migliore”, ha dichiarato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nel suo intervento al Consiglio generale degli italiani all’estero. “La situazione attuale – ha spiegato – è veramente molto complicata. La mia priorità e del governo è quella della sicurezza di tutti i nostri connazionali che vivono in questo momento nelle aree di crisi”, ha aggiunto Tajani. Il ministro aveva spiegato nei giorni scorsi che “le nostre Ambasciate sono in contatto con tutti i connazionali che hanno chiesto informazioni per rientrare in Italia. Stanno tutti bene e stanno ricevendo uno ad uno ogni possibile assistenza, tenendo conto dell’interruzione del traffico areo nella regione”. Nella stessa situazione, uguale e contraria, si trovano gli israeliani che hanno difficoltà nel fare ritorno nello Stato ebraico. Per aiutarli a trovare un alloggio si sono attivate anche le comunità ebraiche. Per contattare quella di Milano scrivere a: segreteria.generale@com-ebraicamilano.it Israele ha iniziato a riportare a casa i cittadini rimasti all’estero durante il conflitto con l’Iran: due voli provenienti da Cipro sono atterrati a Tel Aviv mercoledì mattina. Lo spazio aereo di Israele è stato chiuso da quandoil Paese ha lanciato una campagna di attacchi aerei contro l’Iran, venerdì 13 giugno. L’Iran ha risposto con centinaia di droni e missili, pertanto lo spazio aereo tra i due Paesi al momento è dominato solo da velivoli militari. Il ministero dei Trasporti israeliano afferma che circa 150mila israeliani sono attualmente fuori dal Paese e 50mila di questi hanno chiesto il rimpatrio immediato. La compagnia di bandiera israeliana El Al ha dichiarato che intende operare decine di voli per rimpatriare gli israeliani da varie capitali europee come Atene, Roma e Parigi. Il vettore più piccolo Arkia riporterà in patria i cittadini israeliani da Grecia, Cipro e Montenegro, mentre Israir sta operando voli per i turisti bloccati da Cipro, Grecia e Bulgaria. I voli passeggeri, invece, non partono ancora da Israele, il che significa che decine di migliaia di turisti sono attualmente bloccati nel Paese, per questo sono al lavoro le ambasciate dei vari Paesi di provenienza. Il conflitto ha costretto la maggior parte dei Paesi del Medio Oriente a chiudere il proprio spazio aereo. Decine di aeroporti hanno interrotto tutti i voli o ridotto significativamente le operazioni, lasciando decine di migliaia di passeggeri bloccati e altri impossibilitati a fuggire dal conflitto o a tornare a casa.
Primo Sar-El Summit a New York alla “Celebrate Israel Parade”
di Keren Dahan
Il 18 maggio a New York City è stato semplicemente straordinario. In una giornata luminosa ed emozionante, abbiamo avuto l’immenso onore di marciare nella “Celebrate Israel Parade” sulla Fifth Avenue, una delle più grandi espressioni annuali di solidarietà con lo Stato di Israele. Quest’anno è stato particolarmente significativo. Dopo un anno e mezzo di guerra e incertezza, stare orgogliosamente nelle strade di Manhattan, sventolando bandiere, cantando canzoni e camminando accanto a oltre 250 appassionati volontari di Sar-El è stato profondamente commovente. Non è stata solo una parata, è stata una dichiarazione. Una dichiarazione di unità, di orgoglio, di perseveranza. E per noi, è stato qualcosa di ancora più personale: on stavamo solo marciando attraverso New York, stavamo marciando attraverso le città natali dei nostri stessi volontari. Venire da loro, essere accolti dalle loro famiglie e comunità, e celebrare la nostra missione condivisa fianco a fianco è stato un privilegio raro e indimenticabile. L’energia era elettrica. Lo striscione di Sar-El sventolava alto tra il mare di bandiere israeliane, e gli applausi della folla riecheggiavano tutto ciò in cui crediamo: servizio, forza e solidarietà con Israele. Ma la magia non è finita. Quella stessa sera, ci siamo riuniti per un evento storico: il primo Sar-El Summit, ospitato presso l’elegante Harvard Club di New York City. Una serata di connessione, visione e celebrazione come mai prima d’ora. Durante la cena e la conversazione, circondati da amici vecchi e nuovi, abbiamo riflettuto su quanto siamo arrivati lontano e guardato avanti a ciò che ci aspetta. La serata ha visto le parole potenti di alcune delle voci più ispiratrici nel mondo sionista ed ebraico di oggi:
Yaakov Hagoel, Presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale,
Neriya Meir, Capo del Dipartimento di Attività Sionista nella Diaspora,
e diversi dei nostri stessi volontari di Sar-El, provenienti da tutti gli Stati Uniti, Canada, Australia e Sud America, che sono saliti sul palco per condividere storie commoventi su cosa significa servire, guidare e portare avanti la torcia del sionismo. I discorsi sono stati commoventi, ma è stato lo spirito della sala a rubare la scena: un vero senso di comunità, scopo e slancio. Non è stata solo una riunione, è stata una pietra miliare. Uno dei momenti più potenti della serata è stato il panel dei comandanti dell’IDF, guidato dal Brig. Gen. (Res.) Ronen Cohen, Presidente di Sar-El, insieme al Maggiore Yuval Holtzman e Yoni Tokayer. Hanno condiviso esperienze dirette e storie commoventi dalle prime linee della guerra a Gaza, offrendo una visione personale e cruda delle sfide, del coraggio e della resilienza dei nostri soldati. È stata un’opportunità rara e profondamente significativa per ascoltare direttamente coloro che hanno vissuto la missione che sosteniamo. Durante la serata, abbiamo tenuto discussioni a tavola rotonda dove volontari, ex allievi e partner si sono riuniti per fare brainstorming sul futuro di Sar-El. Le idee emerse sono audaci, diverse e piene di potenziale:
Sviluppare programmi interattivi di Shabbat per i volontari, sia durante che dopo il loro servizio
Creare opportunità per incontri e riunioni regionali nelle città di tutto il mondo
Lanciare programmi mirati per demografie più giovani per garantire che ogni generazione trovi il suo posto in Sar-El
Costruire piattaforme online e comunità digitali per una connessione e un coinvolgimento continuo
Espandere la nostra presenza sui social media e il racconto di storie per ispirare altri a unirsi
Esplorare nuove collaborazioni, partnership e strategie di finanziamento per crescere la nostra portata e impatto
Ogni suggerimento rifletteva la passione e l’intuizione di persone che conoscono Sar-El non come un’organizzazione, ma come un movimento vivo e pulsante. Queste non sono solo idee, sono semi per il futuro, e stiamo già lavorando su come portarle alla vita. • Aiutateci a mantenere lo slancio Questi momenti indimenticabili ci hanno ricordato quanto sia forte e unita la nostra famiglia globale di Sar-El. Ma per mantenere viva e in crescita questa missione, abbiamo bisogno del tuo supporto. La tua donazione ci aiuta a espandere i programmi, sostenere i soldati dell’IDF, connetterci con più volontari in tutto il mondo e dare vita a iniziative potenti come il Sar-El Summit. Ogni contributo, grande o piccolo, ha un impatto reale. Continuiamo a costruire insieme. Mostriamoci—per Israele, per i nostri soldati, per l’un l’altro. Quello che abbiamo vissuto a New York è stato più di una parata o un summit—è stato un promemoria che Sar-El non è confinato a un luogo o a un programma. Vive ovunque siano i nostri volontari. Prosperano nella passione che porti, nelle storie che condividi e nell’amore che porti per Israele—che tu sia in una base nel Negev o sulla Fifth Avenue a Manhattan. A tutti coloro che hanno marciato, che si sono uniti a noi al Summit, che hanno aiutato a pianificare, promuovere, parlare o semplicemente si sono presentati con il cuore aperto: grazie. Voi siete la ragione per cui Sar-El continua a crescere, ispirare e guidare. Insieme, stiamo costruendo qualcosa di duraturo. E non vediamo l’ora di vedere dove ci porterà questo viaggio. Con gratitudine e orgoglio, Keren Dahan CEO
In Medio Oriente, anche un nome può arrivare a diventare un’arma strategica. Lo dimostra “Rising Lion” – Leone nascente – l’operazione di guerra lanciata qualche giorno fa da Israele contro l’Iran. Il nome richiama un versetto biblico, ma al tempo stesso porta un messaggio politico ben preciso: non si tratta solo di contrastare, giustamente, il folle programma nucleare iraniano, ma anche di riaprire una ferita simbolica nel cuore del regime degli ayatollah.
Il nome “Rising Lion” trae origine da un versetto del Libro dei Numeri, che simboleggia la determinazione e la forza del popolo d’Israele: “Ecco, un popolo si alza come leonessa e si drizza come leone; non si coricherà finché non abbia divorato la preda e bevuto il sangue delle vittime” (Numeri 23:24).
Si tratta di una delle profezie pronunciate da Balaam, indovino e stregone pagano, che il re moabita Balak aveva convocato per maledire il popolo ebraico in marcia verso la Terra Promessa. Ma Dio interviene nei sogni di Balaam, prima impedendogli il viaggio, poi consentendolo ma guidandone le parole. Alla fine, Balaam si trova a benedire Israele, anziché maledirlo, con tre oracoli che ne celebrano la forza e la missione divina.
Quel versetto è ormai da secoli interpretato come allegoria della tenacia israelita, con il leone e la leonessa simboli di una volontà che non si arrende finché non ha raggiunto l’obiettivo.
Ed è proprio a questo immaginario che si collega la scelta del nome dell’operazione da parte di Benjamin Netanyahu. Ma non solo. Il “leone” è anche un riferimento sottile al simbolo monarchico presente sulla bandiera dell’Iran pre-rivoluzionario, abolito nel 1979 con l’ascesa al potere della Repubblica Islamica. Il messaggio, in questo caso, è tanto simbolico quanto strategico: colpire Teheran significa anche evocare un’epoca in cui l’Iran era un alleato dell’Occidente e laico, non un regime teocratico.
“Non siamo contro il popolo iraniano, ma contro il regime degli ayatollah”, ha dichiarato, e non è la prima volta, Netanyahu, lasciando trasparire una potenza evocativa dal suo messaggio. E in questo senso, il leone che si alza rappresenta anche un’esortazione al popolo iraniano a risollevarsi e a riprendersi la propria identità.
Durante le dinastie Qajar e Pahlavi, infatti, il leone era emblema nazionale iraniano, presente sulla bandiera, sulle monete, sugli edifici ufficiali. Dopo la rivoluzione khomeinista, fu eliminato perché ritenuto simbolo di un passato corrotto e sostituito con l’attuale calligrafia stilizzata della parola “Allah”.
Che si tratti di un’operazione militare, di guerra cognitiva o di strategia diplomatica, “Rising Lion” ci sta mostrando come il conflitto tra Israele e Iran si giochi anche sul terreno dei simboli.
Indipendentemente da come si concluderà questa fase dello scontro, il segnale lanciato da Tel Aviv è forte e chiaro: non si tratta più solo di deterrenza nucleare e sopravvivenza, ma di sfida aperta all’architettura ideologica del regime iraniano. In un Medio Oriente già molto fragile, è una mossa che potrebbe riscrivere l’equilibrio di potere nell’intera regione.
Il crepuscolo delle nazioni: Israele, la Francia e la cancellazione delle identità
Israele non è soltanto al centro di un conflitto territoriale: incarna una frontiera delle civiltà tra due visioni del mondo. Dietro il conflitto israelo-palestinese si profila uno scontro più ampio, tra il globalismo – che dissolve le identità – e il radicamento – che difende le nazioni, le memorie, le singolarità. Questo combattimento, troppo spesso mascherato, riguarda tanto l’Europa quanto il Medio Oriente.
di Charles Rojzman
Bisogna dirlo senza giri di parole, senza quell’artificio delle anime tiepide che vogliono ancora credere a compromessi: Hamas non vuole la soluzione dei due Stati. Non la vuole, non la può volere, perché il suo orizzonte non è quello delle nazioni, nemmeno quello dei popoli, ma quello di un universo sottomesso alla sola legge di Allah. Al limite estremo, la accetterebbe come un inganno, una dilazione, una pausa strategica: una tappa prima di cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, prima di dissolvere questa anomalia che è Israele nel grande bagno di un Medio Oriente musulmano da tutta l’eternità. Per lui, per l’islamismo, Israele non potrebbe essere una nazione sovrana, per di più ebraica, ma tutt’al più un territorio, uno spazio, una porzione di terra dove gli ebrei vivrebbero come dhimmi, sotto il giogo discreto ma implacabile della sharia, tollerati come si tollera l’ombra del passato sulle rovine del presente.
• Società affaticate Quello che si gioca qui, e che non si vuole vedere – perché la cecità, oggi, è il lusso supremo delle società affaticate –, è che questa logica non è circoscritta al conflitto israelo-palestinese. Lavora anche, sotterraneamente, l’Europa, la Francia, queste vecchie nazioni che si accaniscono a negare la propria carne, la propria memoria, il proprio essere. Per l’estrema sinistra, per la sinistra che si lascia trascinare da essa in una vertigine di cui non comprende né l’origine né il prezzo, come per l’islamismo, le nazioni sono finzioni da dissolvere, impedimenti all’avvento di un ordine superiore: quello della umma per gli uni, quello del mercato planetario per gli altri, quello dell’umanità universale per i terzi. Ed è per questo che si comprende anche perché queste correnti così diverse in apparenza – islamisti, capitalisti, rivoluzionari – si ritrovano paradossalmente a difendere, in un modo o nell’altro, un’immigrazione di massa, soprattutto proveniente da paesi a maggioranza musulmana: perché questo flusso umano, affogando le identità storiche sotto un’ondata demografica, contribuisce potentemente a dissolvere i riferimenti, a cancellare le singolarità nazionali, a rendere i popoli più malleabili, più astratti, più intercambiabili.
Così, quello che si vuole cancellare non è soltanto lo Stato ebraico; è l’idea stessa di Stato-nazione. Hamas non vuole uno Stato ebraico, vuole bene, forse, uno Stato d’Israele svuotato della sua sostanza ebraica, come l’islamismo può ben tollerare una Repubblica francese a condizione che non sia più la Francia dei francesi, ma uno spazio astratto, aperto, disponibile per il dispiegamento dell’islam. Perché per l’islamismo, come per gli ideologi della globalizzazione, la nazione non ha senso: quello che conta è l’unità del mondo, l’unificazione sotto una legge, sia essa mercantile o divina, ma sempre ostile alle singolarità storiche, alle eredità, ai confini.
E non si vede – e forse è questa la tragedia del nostro tempo, questa incapacità di percepire le linee profonde che strutturano gli eventi – che la Francia e Israele sono, in verità, confrontati allo stesso pericolo: quello della loro cancellazione. Cancellazione sotto la spinta islamista, che sogna un mondo dove le altre religioni sarebbero sottomesse; cancellazione sotto la spinta della mercificazione, che sogna un mondo dove tutto sarebbe intercambiabile, mercificabile, dissolto nei flussi; cancellazione sotto la spinta di una sinistra ancora ossessionata dai relitti del comunismo, che sogna un mondo dove gli uomini sarebbero ridotti alla loro semplice umanità astratta, senza storia, senza memoria, senza identità.
• È il tuo destino In questa congiunzione inaspettata – islamismo, mercato, ideologia universalista – si gioca una battaglia che non è soltanto politica, ma metafisica: quella dell’esistenza delle nazioni. Essere una nazione significa dire no all’uniformità, no alla dissoluzione, no alla riduzione degli esseri umani a semplici unità di desiderio o di fede. Significa affermare una differenza, una singolarità, una memoria incarnata in luoghi, lingue, riti, morti. Israele, come la Francia, come l’Europa, si trova al crocevia: o persiste nell’esistere come nazione, al prezzo di un combattimento doloroso, solitario, quasi disperato; oppure consente a scomparire, a fondersi nel grande magma planetario, a non essere più che uno spazio senza spessore, senza memoria, senza volto.
Questo combattimento, lo si conduce spesso senza saperlo, o credendo che si tratti soltanto di coabitazione, di giustizia sociale, di redistribuzione economica. Ma si tratta, in verità, di un combattimento ontologico: si tratta di sapere se vogliamo continuare a esistere come popoli, come nazioni, o se accettiamo di non essere più che individui senza legami, sottomessi alle leggi dell’economia, dell’ideologia, o della religione totalitaria.
Ecco perché la Francia e Israele sono legati da un destino comune, che nessuno vuole vedere. Ecco perché bisogna parlare, scrivere, nominare, contro il flusso amnesico del mondo contemporaneo. Ecco perché bisogna, forse, ritrovare questa malinconia tragica che fu sempre propria delle civiltà invecchianti ma lucide.
C’è, in questa faccenda, un’immensa stanchezza. Stanchezza delle nazioni, che non sanno più portare il peso della loro storia; stanchezza degli uomini, che non credono più alla loro singolarità; stanchezza delle élite, che sognano di cancellare le asperità per fondersi in un’umanità senza spessore. La Francia è come questa vecchia dimora che si abbandona ai venti, alla pioggia, all’edera, e di cui si contempla la lenta decrepitezza con una fascinazione morbosa, senza trovare in sé l’energia di ripararla. Israele, dal canto suo, conosce un’altra realtà: una parte delle sue élite sogna talvolta l’abbandono, ma il cuore del paese resiste ancora — portato da una gioventù ardente, patriottica, pronta a difendere la sua sopravvivenza. Se certe zone d’Israele cominciano a somigliare all’esaurimento francese, il resto del paese, lui, rimane in stato di allerta, teso, in piedi, di fronte alla minaccia.
• Triplo rifiuto Perché riparare significa sempre ricordare. Riparare significa dire: siamo esistiti, abbiamo un passato, abbiamo morti, guerre, lacrime, canti. Riparare significa rifiutare l’oblio in cui ci spinge l’epoca. Ma l’epoca non vuole più questo passato. Non lo vuole più perché disturba, imbarazza, limita. Il passato, per l’ideologia mercantile, è un peso morto; per l’ideologia islamista, è un’impurità; per l’ideologia di sinistra, è una colpa. E in questo triplo rifiuto, c’è una forma di alleanza, una coalizione inaspettata ma temibile.
Israele, in quanto Stato ebraico, incarna lo scandalo del particolare: un’identità storica, religiosa, culturale, irriducibile all’universalismo astratto. La Francia, malgrado tutti i suoi tradimenti, tutte le sue abdicazioni, rimane, agli occhi del mondo, una vecchia nazione forgiata da secoli di guerre, di letteratura, di cattolicesimo, di rivoluzioni, di fedeltà a se stessa. Ora, sono precisamente queste singolarità che bisogna abbattere.
Perché il mondo che viene – il mondo che vogliono gli islamisti, i mercanti, gli ideologi – è un mondo senza nazioni. Un mondo di flussi: flussi di capitali, flussi di merci, flussi di credenti, flussi di esseri umani ridotti alla loro funzione economica o religiosa. Quello che si chiama, spesso senza comprenderlo, il globalismo, non è che un nome cortese per designare questa guerra sotterranea contro i radicamenti. E l’islamismo, in questo senso, non è il nemico del mercato; ne è l’alleato paradossale. Perché entrambi vogliono cancellare le frontiere, entrambi vogliono un mondo unificato, entrambi vogliono abolire l’idea stessa di nazione.
Ecco perché è vano opporre ingenuamente l’uno all’altro. Ecco perché è illusorio credere che si potrà risolvere il conflitto israelo-palestinese, o la questione dell’immigrazione in Europa, con semplici aggiustamenti politici, con compromessi, con accordi tecnici. Perché si tratta di un combattimento più profondo: quello della sopravvivenza delle identità.
Ed è qui che arriva il più tragico: è possibile che questo combattimento sia già perduto. Non con la forza delle armi, ma per la stanchezza interiore. Perché le nazioni non sono innanzitutto abbattute dall’esterno; muoiono dall’interno, per esaurimento, per disgusto di sé, per incapacità di trasmettersi, di desiderarsi ancora. Guardate la Francia: non insegna più la sua storia; non osa più dire quello che è; si scusa di esistere. Guardate Israele: vacilla tra il bisogno di difendersi e la colpevolezza di farlo, tra la volontà di sopravvivere e l’ossessione di essere giudicato.
Si dice talvolta: bisogna difendere l’Occidente. Ma l’Occidente esiste ancora? È altro che un ricordo, che un miraggio, che una parola vuota? Si dice: bisogna salvare le nazioni. Ma le nazioni vogliono ancora essere salvate? Hanno ancora in loro il desiderio di durare, questa ostinazione, questo sangue, questa fedeltà, questa malinconia attiva che fu un tempo la loro forza? Oppure hanno già acconsentito, in silenzio, a dissolversi, a cancellarsi, a diventare spazi neutri, luoghi senza memoria, zone franche per il commercio e per la fede?
Non lo so. O piuttosto, lo so fin troppo bene: ci sono momenti in cui le civiltà, come gli uomini, scelgono la morte senza dirlo. Si afflosciano dolcemente, con una stanchezza infinita, con questa nostalgia senza oggetto che precede la caduta. Forse è questo che stiamo vivendo. Forse è questo, il cuore pulsante del nostro tempo: il crepuscolo delle nazioni.
(Causer.fr – 5 giugno 2025)
(Kolòt - Morashà, 18 giugno 2025) ____________________
Articolo ottimo. Nell'800 gli ebrei non avendo nazione erano visti come corruttori delle nazioni con il loro universalismo morale, adesso che ne hanno una sono visti come corruttori nazionalisti della pace universale in un mondo globalizzato. Per questo l'Occidente laico è nemico di Israele non meno dell'Oriente religioso. Lo è soltanto in modo diverso, meno doloroso ma più insidioso. M.C.
Trump abbandona il G7: gli Usa pronti a intervenire a fianco di Israele?
di Ugo Volli
• Il vertice interrotto
 Ha suscitato grande suspense in tutto il mondo la decisione di Donald Trump di abbandonare in anticipo di vertice del G7 in Canada, cioè di gran lunga la più importante riunione annuale dei leader del campo occidentale (o di ciò che a questo punto ne resta). Il presidente americano aveva già rifiutato di firmare una dichiarazione sottoscritta dagli altri sei capi di stato e di governo che chiedeva in termini generici un cessate il fuoco fra Israele e Iran, anche se dichiarava che agli ayatollah non doveva essere concesso di arricchire l’uranio e di costruire armi atomiche. L’abbandono della riunione però non è stato polemico, ma dettato dall’urgenza. E quando il presidente francese Macron ha suggerito che la ragione della partenza del suo collega americano fosse una trattativa di tregua, Trump ha risposto con un tweet sarcastico fino all’insulto: “Macron, amante della pubblicità, ha erroneamente affermato che ho lasciato il vertice per concordare un cessate il fuoco tra Israele e Iran. Sbagliato! Non ha idea del perché me ne sia andato, ed è qualcosa di molto più grande di un cessate il fuoco. Emmanuel si sbaglia sempre!”.
• Un prossimo intervento?
 Naturalmente nessun sa qual è la cosa molto più grande. Ma vi sono degli indizi. A Trump era stato chiesto prima se crede che Israele possa eliminare la minaccia nucleare iraniana senza l’aiuto degli Stati Uniti, e lui ha risposto: “La domanda non è rilevante. Qualcosa sta per accadere”. E l’ambasciatore americano in Libano ha detto che questo qualcosa “farà sembrare superata la vicenda dei cercapersona” (quando cioè Israele eliminò la dirigenza di Hezbollah con degli ordigni contenuti nei loro dispositivi elettronici). Sul piano dei fatti quel che sappiamo è che Trump ha ordinato alla portaerei più potente della flotta, la Nimitz, di accorrere velocemente dal Pacifico orientale dove si trovava e ha fatto accumulare in Europa un gruppo molto importante di aerei cisterna, necessari per consentire attacchi aerei a lunga distanza. A Diego Garcia, la base britannica nell’Oceano Indiano a distanza di volo dall’Iran, vi sono ancora molti grandi bombardieri. Vi sono anche indiscrezioni da Washington che dicono che l’intervento americano sia previsto in pochissimo tempo.
• Ultimatum
 Lo scenario più probabile è dunque che Trump abbia fatto pervenire agli iraniani un ultimatum (tutt’altra cosa dalla “ripresa delle trattative” ipotizzata dai soliti Qatar e Oman) in cui esige per chiedere a Israele di cessare il fuoco l’abbandono completo del programma nucleare e in sostanza il disarmo, che probabilmente porterebbe a un cambio di regime. Nel caso esso non fosse accolto, la minaccia è che gli Usa si unirebbero all’attacco israeliano. Ormai la strada per Teheran è spianata, come ha dichiarato il primo ministro Netanyahu, le prospettive di un contrattacco iraniano alle basi americane nel Golfo Persico sono poco realistiche, visto che il 40% dei lanciamissili sono stati già distrutti e anche i bombardamenti iraniani su Israele sono sempre meno massicci, anche se continuano a essere frequenti e pericolosi. Dunque l’intervento americano non sarebbe difficile e permetterebbe a Trump di intestarsi almeno parte della vittoria e di intervenire così a pieno titolo nel processo successivo di ristrutturazione del Medio Oriente che sarà lungo e complesso. Accumulerebbe così anche titoli per chiedere a Israele scelte non facili sulla sistemazione postbellica.
• La necessità dei superbombardieri
 L’intervento americano è certamente gradito a Israele, che sta prevalendo con le sue sole forze, ma si trova di fronte ancora l’ostacolo di un certo numero di basi atomiche iraniane (la più nota è Fordow) annidate a grande profondità nelle montagne, che probabilmente non possono essere distrutte dagli aerei israeliani perché essi non sono in grado di usare le bombe potentissime e pesantissime che solo i grandi bombardieri strategici americani possono trasportare. Senza di essi, sarebbe necessario che gli iraniani stessi distruggessero quelle basi (ma ci vorrebbe una rivoluzione che ancora non è iniziata) o servirebbe da parte di Israele un’azione di terra particolarmente difficile e pericolosa.
• Altri scenari
 Vi sono anche altre ipotesi, meno positive. È possibile che gli Usa abbiano segnali per un intervento a fianco dell’Iran di potenze nucleari come Cina, Russia o Pakistan – ma questo è stato ripetutamente escluso dallo stesso Trump. O è possibile che ci siano degli indizi di un estremo tentativo iraniano di montare una bomba atomica, che richiederebbe di essere immediatamente stroncato dall’intervento americano. Ma anche questa ipotesi non sembra realistica, dopo i bombardamenti di questi giorni. O potrebbe esservi l’ipotesi della preparazione di un colpo di stato a Teheran, garantito dagli Usa, di cui però non ci sono indizi.
• Una pace possibile
 Dunque lo scenario più probabile è che, forse già molto presto, i bombardieri americani si uniscano a quelli israeliani nel distruggere totalmente l’apparato atomico e missilistico e in genere l’armamento dell’Iran e obbligarlo alla resa e magari eliminare del tutto la dittatura clerico-fascista che l’ha oppresso per quarant’anni. Ciò porterebbe a una rapida fine della guerra non solo su questo fronte, ma anche in tutto il Medio Oriente. Senza più la testa, l’intera piovra da Gaza allo Yemen al Libano non avrebbe più la capacità di combattere. Si potrebbe pensare allora a come rendere stabile e proficua la pace. Questa campagna è un momento decisivo non solo per Israele e il Medio Oriente, ma per l’equilibrio politico complessivo del pianeta. La vittoria di Israele che si profila può essere una premessa per un mondo più pacifico, giusto e prospero, in cui l’aggressione non paghi.
“Le azioni di Israele in Iran favoriscono le relazioni con l'Arabia Saudita”
Una fonte araba ha dichiarato martedì a i24NEWS che l'azione israeliana in Iran sta facendo progredire notevolmente un accordo per l'instaurazione di relazioni con l'Arabia Saudita, anche se ciò richiederà tempo. Secondo questa fonte, i sauditi esprimono grande soddisfazione per gli sviluppi sulla scena iraniana e stanno anche cercando una formula sulla questione palestinese che consentirebbe di portare avanti la normalizzazione.
• Una svolta attesa dopo Gaza Tuttavia, secondo la fonte, una svolta è attesa solo al termine dei combattimenti nella Striscia di Gaza. Alla vigilia dell'azione israeliana in Iran, la leadership iraniana aveva organizzato un incontro con le fazioni palestinesi, libanesi e irachene a Teheran. L'organizzazione terroristica Hamas era assente, ma hanno partecipato rappresentanti del Fronte Popolare e della Jihad Islamica.
L'obiettivo dell'incontro era quello di garantire la mobilitazione di tutte le fazioni e milizie per procura in caso di attacco israeliano, ma è fallito a causa dell'assenza di Hamas e dello stato di emergenza dichiarato a Teheran.
• Israele blocca la diplomazia araba In questo contesto, ricordiamo che il mese scorso Israele ha impedito l'ingresso a Ramallah ai ministri degli Esteri arabi, prima di una conferenza a sostegno dell'Autorità palestinese. Tra i ministri a cui è stato vietato l'ingresso figuravano il ministro degli Esteri saudita Fayçal ben Farhan e il ministro degli Esteri qatariota Mohammed al-Thani. Queste personalità avrebbero dovuto incontrare il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas. A seguito di questo divieto, la conferenza, che avrebbe dovuto essere una grande manifestazione di sostegno, non ha avuto luogo.
• Messaggio diretto dell'Arabia Saudita all'Iran Per quanto riguarda la questione iraniana, alla fine del mese scorso il ministro della Difesa saudita Khalid bin Salman ha inviato un messaggio chiaro e diretto agli alti funzionari iraniani, secondo cui sarebbe vantaggioso per loro prendere sul serio la proposta del presidente americano Donald Trump sui negoziati sul nucleare, poiché ciò costituisce un modo per evitare un attacco israeliano.
• Una riconfigurazione geopolitica in corso Questi sviluppi illustrano la ricomposizione geopolitica in corso in Medio Oriente, dove l'indebolimento dell'Iran potrebbe aprire la strada a una normalizzazione israelo-saudita. Riyadh sembra percepire le azioni militari israeliane contro l'Iran come un'opportunità per indebolire il suo rivale regionale, pur mantenendo le sue condizioni sulla questione palestinese.
La diplomazia saudita gioca su più tavoli: da un lato, si rallegra di vedere l'Iran indebolito, dall'altro continua a chiedere progressi sulla questione palestinese come prerequisito per qualsiasi normalizzazione con Israele. Questo approccio pragmatico riflette la strategia di Riyadh di massimizzare i propri guadagni geopolitici in un contesto regionale in evoluzione.
(Israelnetz, 17 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Ha avuto breve durata il mandato del neo capo di stato maggiore iraniano Ali Shadmani. Nominato dal regime degli ayatollah appena quattro giorni fa, nelle prime ore dell’offensiva israeliana contro siti nucleari e obiettivi strategici della Repubblica islamica, è stato ucciso nel corso dell’ultima ondata di attacchi. Lo rendono noto le Forze di difesa israeliane, che già avevano eliminato il suo predecessore Alam Ali Rashid all’inizio dell’operazione Rising Lion. «Stamattina abbiamo ricevuto la notizia che le nostre forze hanno eliminato il capo di stato maggiore iraniano. Non sappiamo ancora chi lo sostituirà. Consiglio a chiunque riceva l’offerta di valutare attentamente la propria candidatura: se la risposta è positiva, si raccomanda la massima cautela», ha commentato il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar.
Poche ore prima, parlando con l’emittente ABC, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva dichiarato che l’uccisione della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, cambierebbe il corso degli eventi e porrebbe fine al conflitto. «Abbiamo avuto mezzo secolo di conflitti diffusi da questo regime che terrorizza tutti in Medio Oriente e sta diffondendo terrorismo, sovversione e sabotaggio ovunque», ha affermato Bibi nell’intervista. «La “guerra infinita” è ciò che l’Iran vuole, e ci sta portando sull’orlo di una guerra nucleare. In realtà, ciò che Israele sta facendo è impedirlo, porre fine a questa aggressione, e possiamo farlo solo opponendoci alle forze del male».
“Non abbiamo visto tutto”: i più pericolosi missili non ancora utilizzati dal regime iraniano
“L’Iran sta ora operando secondo un’economia di armamenti – spiega Moran Elaluf, esperta di Iran e di Medio Oriente, in un’intervista a Makor Rishon -. Il regime comprende che il conflitto potrebbe durare giorni o settimane, quindi non ha fretta di utilizzare tutte le munizioni a disposizione – ne conserva una parte per fasi successive della guerra”.
di David Zebuloni
Tel Aviv, Bat Yam, Haifa, Rishon LeZion, Ramat Gan, Petah Tikva – nonostante l’impressionante successo dell’IDF nell’intercettare i migliaia di missili lanciati dall’Iran, nell’ultima settimana diverse città israeliane hanno subito gravi danni e dolorosi lutti. Questa nuova equazione di guerra solleva alcune inquietanti domande: quali sono le reali capacità del regime degli Ayatollah? Cosa comprende il suo arsenale? E ancora, l’Iran ha forse a disposizione missili più avanzati che ancora non ha usato? “Come linea guida, il regime ha già dichiarato l’intenzione di intensificare e aggravare le proprie risposte, il che significa che non abbiamo ancora visto l’intero arsenale in suo possesso”, spiega Moran Elaluf, esperta di Iran e di Medio Oriente, in un’intervista a Makor Rishon. “Finora, abbiamo assistito a raffiche relativamente limitate, nonostante il regime parli di 1.000 o perfino 2.000 missili lanciati. Perché questa incongruenza numerica? Probabilmente a causa della disconnessione tra la leadership politica e quella militare, oltre a uno shock iniziale che ancora attanaglia il paese”. E non è tutto. “L’Iran sta ora operando secondo un’economia di armamenti”, aggiunge la ricercatrice. “Il regime comprende che il conflitto potrebbe durare giorni o settimane, quindi non ha fretta di utilizzare tutte le munizioni a disposizione – ne conserva una parte per fasi successive della guerra”. Per quanto riguarda invece la quantità di munizioni detenute dal regime, Elaluf si mostra più cauta. “Le stime parlano di diverse migliaia di missili, ma non vi è certezza assoluta”, sottolinea. “Alcuni ritengono che il regime disponga di circa 2.000 missili balistici, ma secondo me il numero reale è più alto“, sottolinea poi. “Anche se non vediamo ancora l’intera portata del suo arsenale, non significa che non esista. Israele deve considerare non solo ciò che conosce, ma anche ciò che ignora. Si tratta di un regime che agisce in modo clandestino, spesso nascondendo in profondità nel terreno componenti ed equipaggiamenti. È quindi plausibile che possieda più di quanto dichiara ufficialmente. Ad esempio, un arsenale significativo di droni armati”. Come prova della tesi da lei sostenuta, Elaluf cita le dichiarazioni del regime durante i colloqui con gli Stati Uniti, in cui si è affermata più e più volte l’intenzione esplicita di nascondere un’importante dose di uranio arricchito. “Se il regime riesce a nascondere l’uranio arricchito, può sicuramente occultare anche componenti legate al programma balistico”, spiega. “Dopotutto, il programma missilistico balistico è un moltiplicatore di potenza per il progetto nucleare, poiché le bombe atomiche devono essere montate su missili balistici”. Secondo un rapporto pubblicato dall’Istituto David, l’Iran dispone di diversi missili significativi:
Shahab-3: un missile balistico a medio raggio, capace di colpire a circa 1.350 km, con una testata di 700–1.200 kg.
Ghadr: un missile balistico con gittata tra 1.800–2.000 km.
Emad: un missile balistico a propellente liquido con raggio d’azione di circa 2.500 km.
Fateh-1: un missile a corto raggio, monostadio, con testata convenzionale da circa 500 kg.
Haj Qasem: un missile da crociera antinave con raggio superiore a 1.000 km.
Sejjil: un missile balistico a due stadi a propellente solido con raggio di circa 2.300 km.
Kheibar Shekan: un missile balistico ipersonico avanzato.
“Sì, il regime possiede anche missili ipersonici: i più avanzati oggi in circolazione”, afferma Elaluf. “Missili estremamente difficili da rilevare e tracciare, perché il loro volo non è lineare ma a zig-zag, con una velocità variabile che rende difficile l’intercettazione. L’IDF ha a disposizione il sistema Arrow 3 che fornisce una copertura nello spazio profondo, ma la minaccia resta significativa”. Attualmente, l’Iran produce autonomamente la maggior parte dei missili in questione, ma fa anche affidamento su diversi paesi alleati che le forniscono le tecnologie necessarie per sviluppare armi avanzati. “Sappiamo oggi che il regime ha legami molto stretti con la Corea del Nord e la Cina nel campo nucleare e missilistico”, osserva Elaluf. “Di fatto, ogni tecnologia in mano a questi due paesi finisce prima o poi anche nelle mani dell’Iran”. Inoltre, il programma nucleare iraniano si basa su un’infrastruttura logistica distribuita in tutto il Paese. “Ci sono siti per la conversione dell’uranio in gas, e altri per la produzione di plutonio”, rivela Elaluf. “L’Iran eccelle nell’occultamento e nella disinformazione. Pertanto, Israele deve migliorare le proprie capacità di intelligence. Finora gli attacchi dell’IDF sono stati di alta qualità, ma si tratta solo dell’inizio – colpire tutti i siti nucleari, a causa della loro dispersione e mimetizzazione, è una sfida complessa”. Secondo la ricercatrice, i missili più pericolosi nell’arsenale iraniano sono proprio quelli balistici, basati su tecnologia nordcoreana e cinese. “Sono capaci di trasportare testate nucleari, anche se il loro montaggio non è affatto semplice”, spiega. “È un’operazione molto complessa che richiede competenze avanzate. Il Professor Fereydoon Abbasi, ex capo dell’Organizzazione per l’Energia Atomica dell’Iran, recentemente eliminato in un attacco aereo, aveva dichiarato che l’Iran non solo ha la capacità di produrre una bomba atomica, ma anche di montarla su un missile entro poche ore”. Lo stesso Professor Abbasi ha inoltre dichiarato che l’Iran è in grado di lanciare una “bomba sporca” – un ordigno con elementi radioattivi, ma non classificato ufficialmente come arma nucleare secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. “È proprio questa la strategia adottata dall’Iran negli anni: evitare l’accusa diretta”, spiega Elaluf. “Non usare un’arma nucleare convenzionale, ma una bomba sporca che non rientra nei criteri formali, pur potendo causare danni enormi”. La conclusione è semplice: se l’Iran continuerà a sentirsi messa spalle al muro, potrebbe decidere di impiegare armi più avanzate. “Tutto dipende dagli sviluppi e dal fatto che gli Stati Uniti si uniscano direttamente alla guerra”, osserva la ricercatrice. “Di fatto, se Israele alzerà il livello, anche l’Iran lo farà. Nella cultura iraniana, perdere è in primis una questione di onore. Già nel 2015, Khamenei scriveva nel suo libro che aspirava a stabilire un’egemonia mediorientale al posto di quella occidentale. Il progetto nucleare è lo strumento per trasformare l’Iran in una potenza regionale. Il primo passo, però, è sradicare quella spina nel fianco del Medio Oriente chiamato lo Stato di Israele”.
Incontriamo Emanuele Ottolenghi, uno dei maggiori esperti di finanza, terrorismo e reti criminali internazionali. Autore di La Bomba Iraniana (Lindau) e I Pasdaran (FDD) è Senior Advisor di 240 Analytics, impresa di elaborazione dati sul rischio terrorismo e il suo finanziamento.
- Professor Ottolenghi, partiamo dal cuore del suo lavoro: in che modo l’Iran finanzia i suoi principali proxy nella regione – Hamas, Hezbollah e i ribelli Houthi – e quali sono i principali canali di trasferimento del denaro? «Principalmente con trasferimenti di denaro contante, utilizzo del sistema bancario locale, e piattaforme di pagamento elettroniche al di fuori del sistema bancario tradizionale. Poi ci sono aiuti diretti – fornitura di armi e altri mezzi materiali – che comunque costituiscono un trasferimento di valore. Inoltre ci sono mezzi di finanziamento aggiuntivi, provenienti dall’estero, che avvengono tramite ONG, imprese controllate da gregari nella diaspora. Infine c’è il finanziamento che deriva dal riciclaggio del denaro sporco derivante da traffici illeciti, sempre attraverso canali formali e informali assortiti. Per i grandi volumi, il riciclaggio si appoggia a imprese di facciata che trasferiscono valore attraverso commercio di beni di consumo. Le transazioni finanziarie di appoggio passano da più canali – inclusi i circuiti bancari internazionali oltre che i sistemi di pagamento elettronici, le reti di Hawala tradizionali, e le criptovalute».
- Nelle sue ricerche lei mette in luce l’utilizzo sempre più diffuso di strumenti non convenzionali per eludere i controlli. Le criptovalute, in particolare, giocano un ruolo crescente nei finanziamenti alle organizzazioni terroristiche? «Esatto. Ci sono già state azioni sanzionatorie da parte delle autorità americane contro reti vincolate al regime iraniano e ai suoi gregari di Hezbollah che utilizzavano criptovalute. Sono strumenti non regolamentati e non particolarmente monitorati. E’ facile coprire le tracce dei loro movimenti. Quindi sono uno strumento attraente per attività finanziarie illecite. Esiste un rischio – la forte fluttuazione dei loro valori – ma con l’aumentare del peso delle criptovalute nella finanza mondiale diventerà uno strumento sempre più frequente anche per chi non rispetta la legge».
- Può darmi una stima attendibile delle armi che l’Iran ha fornito a Hamas, Hezbollah e agli Houthi nell’ultimo decennio? «L’arsenale missilistico e di droni di Hezbollah e degli Houthi non esisterebbe senza l’aiuto iraniano. Dall’Iran arriva l’intelligence per identificare e colpire le navi che transitano all’imbocco del Mar Rosso. A Hamas, Houthi, e Hezbollah l’Iran ha fornito addestramento oltre che il know how per costruire tunnel e sviluppare una strategia di combattimento asimmetrico. Gli armamenti seguivano rotte diverse – attraverso Iraq e Siria via terra o cielo per Hezbollah, per esempio – o con navi mercantili che deviavano il loro corso, passato il canale di Suez, per consegnare armamenti via porti siriani. La caduta del regime di Assad in Siria ha stravolto queste rotte lasciando i gregari mediterranei di Teheran in seria difficoltà».
- Dalle sue indagini emergono connessioni sorprendenti tra gruppi terroristici e organizzazioni criminali tradizionali. C’è un coinvolgimento documentato della criminalità organizzata italiana, come ‘Ndrangheta o Camorra, nel riciclaggio di denaro o nel traffico di armi legati all’Iran e ai suoi proxy? «Certamente. Hezbollah deriva parte del suo finanziamento dai servizi intermediari che offre alla criminalità organizzata per riciclare il loro denaro sporco. Fonte principale di questi proventi è il traffico di cocaina dall’America Latina e fino a poco tempo fa anche quello del Captagon proveniente dalla Siria. Tra gli assidui clienti di queste mercanzie si incontra tutta la criminalità organizzata europea, compresa la nostra. Non c’è dubbio che Hezbollah giochi un ruolo in questi traffici e ci sono inchieste giudiziarie documentate degli ultimi vent’anni a dimostrarlo».
- Che tipo di relazione strategica lega l’Iran alla Russia sul fronte energetico e militare? In particolare, quali legami ha Teheran con gli oligarchi del gas e del petrolio russi, e come questi rapporti si traducono in vantaggi per le rispettive reti di influenza globale? «Si tratta di un’alleanza strategica che in primo luogo permette ai due paesi di aiutarsi a vicenda nell’evadere sanzioni internazionali. I russi dipendono da forniture militari iraniane – compresi i droni usati per terrorizzare la popolazione civile in Ucraina – e gli iraniani dipendono dai russi – per esempio per i loro sistemi antiaerei. Ma la cosa più importante dal punto di vista strategico è che sono due paesi con ambizioni egemoniche e imperiali nei confronti dei loro vicini e che ambiscono a diminuire l’influenza occidentale e sconvolgere l’ordine internazionale a loro beneficio. Da qui sorge un allineamento strategico che va ben oltre il commercio e la cooperazione in ambito militare ed energetico».
- La Cina continua ad acquistare enormi quantità di petrolio iraniano. In che modo questo flusso commerciale permette all’Iran di finanziare indirettamente i gruppi armati affiliati? «Senza la vendita del petrolio l’Iran farebbe molta fatica a continuare a sostenere le sue avventure imperiali nella regione, comprese le ingenti spese per sostenere e approvvigionare i suoi gregari. Ciò lo rende molto vulnerabile in questo momento: se Israele colpisse alcuni nodi strategici dell’industria petrolifera iraniana come il terminale dell’isola di Khartoum potrebbe metterne in ginocchio l’intera economia».
- Guardando alle prospettive future: quali rischi corre l’Europa se non riesce a contrastare con efficacia i canali finanziari e logistici che tengono in piedi la rete iraniana del terrore? «Intanto c’è il rischio terrorismo sul suolo europeo. Non sarebbe la prima volta e il nostro atteggiamento arrendevole, che gli iraniani hanno sempre saputo manipolare, per esempio con il rapimento di nostri connazionali poi cinicamente usato come pedina di scambio. Poi ci sono i canali di finanziamento che non solo finanziano il terrorismo ma arricchiscono i criminali e alimentano i fenomeni di degrado e rischio legati alla criminalità organizzata. Il problema principale per noi europei è che continuiamo a trattare il problema della criminalità organizzata e del finanziamento al terrorismo come due fenomeni separati. Questo lo si vede anche dal punto di vista degli strumenti investigativi: spesso gli inquirenti non perseguono la pista terrorismo nelle inchieste di mafia perché non hanno gli strumenti di analisi per vedere e capire quel legame».
- Quali strumenti – investigativi, normativi, diplomatici – sarebbero oggi più urgenti da attivare? «Occorre una maggior integrazione di dati e analisi tra forze dell’ordine e intelligence. Occorre anche fare maggior uso di strumenti come le sanzioni che gli americani usano da anni con discreto successo. Il settore privato, principalmente quello finanziario, deve potenziare i suoi strumenti di autotutela contro fenomeni di finanza illecita. Il pericolo qui è che il nostro settore finanziario, commerciale, e immobiliare diventi sempre più preda di schemi illeciti. E naturalmente non va dimenticato che questi flussi finanziari vanno poi ad alimentare conflitti destabilizzanti che nuocciono ai nostri interessi».
Israele: almeno nove morti e centinaia di feriti nell’attacco iraniano di questa notte
di Luca Spizzichino
È di almeno nove morti e oltre 280 feriti il bilancio dell’attacco missilistico lanciato da Teheran contro Israele alle prime luci dell’alba di lunedì. Decine di missili sono stati sparati dall’Iran verso obiettivi civili in diverse città israeliane, tra cui Tel Aviv, Petah Tikva, Bnei Brak e Haifa.
L’attacco, iniziato poco prima delle 4:00 del mattino, ha preso di mira diverse città israeliane. A Petah Tikva, un missile ha colpito un grattacielo residenziale, uccidendo quattro persone. Tra le vittime, tre anziani — due donne e un uomo, tutti nella settantina — sono morti nonostante si fossero rifugiati in una stanza sicura (mamad), che è stata colpita direttamente dal missile balistico iraniano.
“Abbiamo trovato i corpi sotto un cumulo di detriti, nonostante si fossero messi al sicuro”, ha riferito il paramedico MDA Alon Weiss. Poco dopo, i soccorritori hanno estratto senza vita un uomo di 80 anni dai resti di un altro edificio colpito a Bnei Brak, dove è stata danneggiata anche una scuola.
A Haifa, tre persone inizialmente date per disperse sono state trovate morte sotto le macerie in un quartiere residenziale colpito da un altro missile. A Tel Aviv, due edifici hanno subito impatti diretti, causando oltre 100 feriti, tra cui un bambino di 10 anni in gravi condizioni e un neonato che è stato subito soccorso dagli amici della madre e preso in carico dai paramedici. Una delle esplosioni è avvenuta vicino alla sede dell’ambasciata statunitense. L’ambasciatore americano Mike Huckabee ha confermato che “non ci sono feriti tra il personale USA, ma ci sono stati danni lievi all’edificio a causa dell’onda d’urto.”
In seguito all’attacco, il Comando del Fronte Interno ha rilasciato aggiornamenti per la popolazione in tutto il Paese, invitando a rimanere in prossimità dei rifugi e a evitare assembramenti. In molte aree, da Gerusalemme al Litorale, dal Gush Dan alla Valle del Giordano, l’allerta resta alta. Le autorità militari hanno inoltre esortato i cittadini a non condividere immagini o video degli impatti per evitare di fornire informazioni utili al nemico.
L’IDF ha risposto con attacchi aerei su obiettivi strategici in Iran, tra cui siti missilistici e strutture dei Guardiani della Rivoluzione a Teheran. I media iraniani hanno riportato l’attivazione della difesa aerea nei pressi di siti sensibili come Isfahan, Qom e Parchin. Secondo fonti iraniane, anche l’impianto sotterraneo di arricchimento dell’uranio di Fordow sarebbe stato preso di mira.
Dopo il primo attacco contro obiettivi in Iran nella notte di venerdì, gli esperti militari sono rimasti impressionati. Sabato, lo storico militare John Spencer ha dichiarato che sarà necessario riscrivere i libri di testo, poiché Israele sta scrivendo la storia militare.
Il britannico ha elencato i punti salienti: 20 comandanti di alto rango eliminati, tra cui il capo dell'esercito, nove scienziati nucleari di spicco uccisi, la difesa aerea paralizzata, le rampe di lancio dei missili colpite per limitare la controffensiva e gli impianti nucleari protetti colpiti. “Mai visto prima”, ha affermato Spencer.
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Preparazione e astuzia Israele aveva preparato con grande maestria il colpo contro l'Iran per anni. Il Mossad aveva segretamente installato dei droni vicino a Teheran. Nella notte dell'attacco iniziale sono stati attivati e hanno distrutto le rampe per i missili destinati ad attaccare Israele. Già in ottobre Israele aveva distrutto parte della difesa aerea in seguito al grande attacco iraniano.
Inoltre, i vertici militari iraniani si erano lasciati cullare: dato che nel fine settimana era previsto il sesto round di negoziati sul nucleare, nessuno a Teheran si aspettava un attacco. I generali uccisi dormivano nelle loro case private invece che nei rifugi.
L'offensiva di autodifesa è stata tuttavia possibile solo grazie ai recenti sviluppi nella regione: Israele ha indebolito in modo decisivo le cellule terroristiche dell'Iran ai confini del Paese (Hamas, Hezbollah) e nello Yemen (Houthi). In precedenza si temeva che questi gruppi terroristici avrebbero reagito con rappresaglie in caso di attacco all'Iran.
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Attacco al centro del terrorismo Nella notte tra giovedì e venerdì è stato sferrato un attacco al centro del terrorismo, e questo è un bene. La distruzione di Israele fa parte della “ragion di Stato” della Repubblica Islamica. Secondo l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, il Paese ha ormai arricchito uranio per nove bombe atomiche. Secondo le informazioni israeliane, scienziati nucleari hanno condotto con successo esperimenti sulla progettazione di armi atomiche; inoltre, Teheran progettava di fornire armi nucleari a gruppi terroristici.
L'attacco non è quindi arrivato un giorno troppo presto. Un'arma atomica nelle mani del regime di Teheran sarebbe già abbastanza terribile; nelle mani di gruppi terroristici che agiscono liberamente sarebbe apocalittico. Già all'inizio del suo mandato nel 2009, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva sottolineato che il terrorismo nucleare era “la minaccia più immediata ed estrema per la sicurezza mondiale”: “Un terrorista con un'arma nucleare può scatenare una distruzione massiccia”.
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Logoramento Ma non è necessario ricorrere al peggiore dei casi per comprendere l'attacco israeliano. Il leader iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei, ha descritto il suo punto di vista nel libro “Palestina”, pubblicato nel 2011: per sradicare il ‘cancro’ di Israele è necessaria una “lunga fase di guerra a bassa intensità”, ovvero una guerra di logoramento. La vita degli ebrei in Israele deve essere resa così insopportabile da costringerli ad andarsene.
Questo tipo di guerra è stato ampiamente osservato negli ultimi anni. Israele ha dovuto affrontare continui attacchi missilistici e altri attacchi terroristici da parte di gruppi terroristici controllati dall'Iran, che nessuna altra nazione tollererebbe. Anche se dal 2011 è in funzione il sistema di difesa missilistica Iron Dome per ridurre al minimo i danni, la vita è comunque rimasta sotto costante minaccia, come nel caso degli attacchi missilistici di Hamas nel maggio 2021.
Con una bomba atomica, l'Iran agirebbe con maggiore sfrontatezza. Teheran era già riuscita a rafforzare la sua politica anti-israeliana e a sostenere gruppi terroristici come Hamas con i fondi provenienti dall'accordo nucleare del 2015. Il massacro terroristico del 7 ottobre è stato reso possibile anche da questi finanziamenti. Tra i maggiori sostenitori dell'accordo sul nucleare c'era la Germania della cancelliera Angela Merkel, della “Unione Cristiano-Democratica” (CDU).
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Negoziati come specchietto per le allodole A proposito dell'accordo sul nucleare, alcuni criticanoIsraele dicendo che avrebbe dovuto puntare sui negoziati in corso. Ma i colloqui di questo tipo sono sempre stati solo fumo negli occhi. Da decenni l'Iran gioca al gatto e al topo con la comunità internazionale. Già nel 2006 l'AIEA era ormai allo stremo delle forze, tanto da sottoporre la questione al Consiglio di sicurezza dell'ONU. Nel 2003 aveva affermato in un rapporto secondo cui l'Iran svolge attività nucleari segrete da 18 anni.
Il nuovo rapporto, che denuncia violazioni negli ultimi 20 anni, è quindi solo l'ultimo capitolo di un vecchio dramma, con la differenza che nel frattempo l'Iran ha compiuto notevoli progressi nel suo programma nucleare. Chiunque abbia un briciolo di buon senso sa che Teheran sta abusando dei negoziati per guadagnare tempo al fine di costruire la bomba atomica. Nessuno può chiedere a Israele di aspettare pazientemente.
La minaccia non riguarda solo Israele, ma l'intero ordine liberale. L'esportazione della rivoluzione fa parte della ragion di Stato dell'Iran. Israele è in prima linea nella lotta tra civiltà e barbarie e sta compiendo grandi sacrifici: nei primi giorni di guerra, numerosi civili sono stati uccisi in Israele dai missili iraniani.
Nonostante tutte le battute d'arresto, l'apertura dell'offensiva rimane un successo. Tuttavia, l'esito di questa operazione non è affatto chiaro. Per considerare il risultato un successo per Israele, sarebbe necessario almeno un colpo decisivo contro gli impianti nucleari e contro la minaccia proveniente da Teheran.
Meglio ancora sarebbe un disinnesco duraturo del conflitto, ovvero la caduta del regime. Se il popolo iraniano dovesse cogliere l'attimo e sollevarsi contro il regime, i leader occidentali dovrebbero dimostrare coraggio e schierarsi dalla parte di questo popolo.
(Israelnetz, 16 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L'Iran conta le ore che mancano alla “distruzione di Israele”
L'Iran non fa mistero di voler distruggere Israele. Ad aprile (2018), il governo di Teheran intende organizzare per la prima volta un festival che segnerà simbolicamente il tempo che manca alla distruzione dello Stato ebraico.
TEHERAN – L'Iran vuole organizzare un festival per celebrare la distruzione di Israele. Martedì l'evento è stato presentato in una conferenza stampa a Teheran. Il festival, chiamato “Festival della clessidra”, sarà dedicato alla “prossima distruzione” di Israele attraverso l'arte e i media. Lo ha annunciato l'ex vice ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian.
Il “vicino collasso” di Israele sarebbe basato su un piano segreto. Esso esisterebbe dal 2015. All'epoca, la guida spirituale Ayatollah Khamenei aveva annunciato che dal 2040 Israele non esisterà più. Amir-Abdollahian, che è anche segretario generale della “Conferenza internazionale per il sostegno alla Intifada palestinese”, ha affermato di non poter rivelare i dettagli del piano per la distruzione di Israele.
Il segretario generale del festival, Mahdi Komi, ha dichiarato che “gli organizzatori collaboreranno con 2.400 organizzazioni non governative anti-israeliane in Europa, Nord America, America Latina e Asia orientale”. In questo modo il festival sarà pubblicizzato in tutto il mondo.
• Collaborazione mondiale con organizzazioni anti-israeliane Il festival inizierà il 21 aprile. Secondo il quotidiano online “Times of Israel”, sul sito web dedicato all'evento si legge: “Il Festival Internazionale della Clessidra è stato fondato con l'obiettivo di raccogliere e presentare produzioni antisioniste di sostenitori della giustizia, monoteisti e musulmani di tutto il mondo, al fine di denunciare le misure brutali e contrarie ai diritti umani del regime di occupazione sionista e dei suoi sostenitori”.
Gli interessati sono invitati a inviare contributi su temi quali “il regime sionista assassino di bambini”, “Israele, un cancro” o “Israele, un regime artificiale, razzista e colonialista”. Questi possono essere, ad esempio, film d'animazione, app per smartphone, poster o giochi online.
I contributi inviati saranno valutati. Il vincitore di ogni categoria riceverà 1.800 dollari. Il vincitore assoluto riceverà 2.700 dollari.
(Israelnetz, 2 marzo 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il leader iraniano, l'Ayatollah Khamenei, parla ancora una volta apertamente della distruzione di Israele. I suoi ultimi tweet hanno richiamato l'attenzione dei politici occidentali. Nel frattempo, Israele e l'Iran sono impegnati in scontri virtuali.
di Ulrich W. Sahm
GERUSALEMME / TEHERAN – I leader politici iraniani continuano a esprimere il loro desiderio di distruggere Israele e di “cancellarlo dalla mappa”. Con vignette e festival a tema ribadiscono la loro intenzione. Questa politica apertamente dichiarata dall'Iran è uno dei motivi dei ripetuti avvertimenti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite e a quasi tutti gli ospiti politici stranieri.
L'esempio più recente sono le dichiarazioni su Twitter del leader iraniano Ayatollah Ali Khamenei questa settimana. Mercoledì ha parlato della “distruzione del regime sionista”. In occasione dell'odierna Giornata anti-israeliana di Al-Quds – che in Israele coincide con la Giornata di Gerusalemme – ha pubblicato una serie di 25 tweet. In essi ha scritto tra l'altro: “Il regime sionista è mortale, un cancro e un danno per la regione. Sarà senza dubbio sradicato e distrutto”.
• Israele: nessuno dovrebbe metterci alla prova Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto le dichiarazioni venerdì sera. Chi minaccia Israele di distruzione si espone proprio a questo pericolo, ha scritto Netanyahu su Twitter. Il ministro della Difesa israeliano ed ex capo dell'esercito Benny Gantz vede nella minaccia iraniana un “segno di debolezza”. Ha inoltre dichiarato: “Come persona che conosce bene la questione iraniana e che ha preparato le capacità operative dell'esercito israeliano, non consiglierei a nessuno di metterci alla prova”.
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha paragonato le dichiarazioni di Khamenei all'appello di Adolf Hitler al genocidio. “Questa depravazione dovrebbe smentire qualsiasi idea che l'Iran appartenga alla comunità delle nazioni. Siamo al fianco della Germania e di Israele contro questa forma di odio più antica e malvagia e diciamo ‘Mai più’”.
• UE: la sicurezza di Israele è di fondamentale importanza Altri politici occidentali avevano già reagito al tweet di mercoledì. Il capo della diplomazia dell'UE Josep Borrell ha dichiarato di condannare “con la massima fermezza” l'invito a ‘combattere’ Israele. “La sicurezza di Israele è della massima importanza e l'UE sarà al fianco di Israele”. Il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer (CDU) ha scritto: “Quando Khamenei invita a ‘eliminare’ Israele, mette a repentaglio la pace e la sicurezza di tutti noi. La sicurezza di Israele non è negoziabile per noi”.
L'ambasciatore israeliano in Germania, Jeremy Issacharoff, ha tuttavia criticato Borrell. Le sue dichiarazioni non sono state sufficienti, poiché si è parlato solo di “combattere” Israele. “Khamenei non solo ha messo in discussione il diritto all'esistenza di Israele, ma ha anche scritto espressamente di ‘eliminare’ il regime sionista. Il significato di questa affermazione non è riconoscibile nella reazione dell'UE, che dovrebbe essere più che semplici parole”.
Il portavoce per la politica estera del gruppo parlamentare FDP, Bijan Djir-Sarai, ha chiesto una “nuova strategia per l'Iran” alla luce delle dichiarazioni di Khamenei. Rivolgendosi al ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas (SPD), ha posto la domanda: “Per quanto tempo ancora si intende tollerare la politica aggressiva del regime dei mullah?”.
• Attacchi informatici ai siti web Ma non si tratta solo di scontri verbali. Ultimamente si sono intensificati i cyberattacchi reciproci tra Israele e Iran. Secondo esperti israeliani, dietro un attacco su vasta scala contro le infrastrutture idriche israeliane ci sarebbe l'Iran. A quanto pare, l'attacco è stato individuato in tempo e respinto con successo. Non sono stati riportati danni.
Poco dopo, il 9 maggio, secondo un articolo del Washington Post, Israele avrebbe sferrato un massiccio attacco contro i porti iraniani. Anche in questo caso non si sarebbero registrati danni degni di nota. I militari israeliani hanno confermato in modo velato l'attacco, affermando che i danni sono stati “deliberatamente e pianificatamente” ridotti al minimo.
• Fantasticherie di distruzione sui media Nel frattempo, diverse aziende hanno segnalato alla radio israeliana che il loro sito web era stato hackerato dall'Iran. Le autorità ufficiali non sono state in grado di aiutarle. Uno dei siti hackerati appartiene all'organizzazione israeliana “Regavim”, che difende i diritti dei coloni. Il sito è stato ripristinato, ma è rimasto inaccessibile per ore. Al suo posto, su uno sfondo nero, era scritto in ebraico e in inglese: “Il conto alla rovescia per la distruzione di Israele è iniziato molto tempo fa”. Un link rimandava a un filmato con riprese aeree di Tel Aviv e Haifa. Si sentono poi delle esplosioni, mentre i grattacieli appena mostrati sono in fiamme e infine crollano.
Filmati simili, per lo più brevi sequenze, erano già stati inviati anni fa a destinatari israeliani. Una volta era visibile un mosaico con la scritta “Olocausto”, mentre aerei nemici si avvicinavano e sganciavano bombe atomiche su Tel Aviv. Il messaggio era che gli ebrei di Israele dovevano prepararsi a un secondo Olocausto.
(Israelnetz, 22 maggio 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israele: l'Iran ha ingannato l'Agenzia per l'energia atomica
Secondo il governo israeliano, a metà degli anni 2000 l'Iran avrebbe sottratto documenti segreti all'Agenzia per l'energia atomica e li avrebbe utilizzati per i propri scopi. L'Iran respinge queste accuse come false.
GERUSALEMME (inn) – Secondo il governo israeliano, l'Iran avrebbe spiato e ingannato l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA). Martedì il primo ministro Naftali Bennett (Jamina) ha presentatodei documenti risalenti al periodo tra il 2004 e il 2006 che proverebbero tale accusa. I documenti provengono dall'archivio segreto sull'energia nucleare dell'Iran, che Israele ha sequestrato nel 2018 durante un'operazione dei servizi segreti esteri Mossad.
Bennett ha dichiarato che l'Iran avrebbe rubato documenti segreti all'AIEA. Grazie a questi documenti, il regime avrebbe potuto scoprire quali prove l'agenzia sperava di trovare sul programma nucleare. Sulla base di queste informazioni, Teheran avrebbe falsificato rapporti e nascosto prove per eludere le indagini dell'AIEA.
• “Grave violazione della sicurezza interna” Il “Wall Street Journal” ha pubblicato già il 25 maggio un articolo dal contenuto simile. Il quotidiano americano ha fatto riferimento agli stessi documenti che avrebbe ricevuto da “un servizio segreto mediorientale”.
L'esperto di armi nucleari David Albright ha valutato nell'articolo gli eventi descritti come “una grave violazione della sicurezza interna dell'AIEA”. Il presidente e fondatore dell'Istituto per la Scienza e la Sicurezza Internazionale ha inoltre dichiarato: “L'Iran ha così potuto fabbricare risposte che ammettono ciò che l'AIEA già sa, rivelare informazioni che avrebbe comunque scoperto e allo stesso tempo nascondere meglio ciò che l'AIEA ancora non sa”.
• Iran: “I sionisti diffondono menzogne” Il giorno dopo la pubblicazione dell'articolo, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian è intervenuto al Forum economico mondiale di Davos. Alle accuse (nel video al minuto 26:30) ha risposto: “Purtroppo i sionisti diffondono molte menzogne”. Israele avrebbe affermato già molti anni fa che l'Iran era sul punto di costruire una bomba atomica. Tuttavia, la costruzione di una tale bomba non sarebbe nemmeno in linea con i valori iraniani.
Bennett ha affrontato la questione nel suo video di martedì e ha contraddetto questa affermazione: è l'Iran che mente. “L'Iran sta mentendo ancora una volta al mondo. E il mondo deve assicurarsi che non la passi liscia”.
Nel frattempo, non ci sono progressi nei negoziati sul nucleare. L'inviato speciale americano per l'Iran, Rob Malley, ha recentemente definito “scarse” le possibilità di un ritorno all'accordo sul nucleare. Solo lunedì l'AIEA ha riferito che l'Iran dispone di una quantità di uranio arricchito sufficiente per costruire una bomba atomica. Martedì l'aviazione israeliana ha simulato attacchi contro obiettivi lontani, che gli osservatori interpretano come esercitazioni in vista di un attacco contro gli impianti nucleari iraniani.
La settimana di Israele: il momento decisivo della guerra
di Ugo Volli
• Israele contro l’Iran L’attacco israeliano all’Iran è ovviamente l’evento più importante dell’ultimo periodo, anzi dell’intera guerra. Non occorre qui richiamarne i dettagli. Basti dire che dalla prima mattina di venerdì l’aeronautica israeliana e il Mossad hanno eliminato i vertici dell’esercito e delle guardie rivoluzionarie (la torva milizia degli ayatollah), hanno neutralizzato le difese antiaeree tanto da aver ottenuto la totale superiorità aerea anche sopra Teheran, hanno colpito tre aeroporti di grandi dimensioni, eliminato buona parte dei missili balistici su cui l’Iran contava per reagire, hanno iniziato il lungo e difficile lavoro di eliminazione della macchina produttiva dell’armamento nucleare iraniano, compito reso particolarmente lungo e difficile per il fatto che essa è dispersa in numerosi siti e ovunque protetta da profondi tunnel nelle montagne e sottoterra, soprattutto perché Israele non ha i bombardieri capace di portare bombe gigantesche B52 e B2 che oggi sono solo disponibili agli Usa. Insomma lo smantellamento del potere aggressivo del regime degli ayatollah da parte del solo Israele, senza aiuti stranieri diretti, è iniziato con straordinaria efficacia.
• L’Iran non riesce a rispondere La reazione iraniana è stata debole e poco efficace: immediatamente dopo l’attacco uno stormo di 100 droni, tutti abbattuti, poi alcune raffiche di 50-100 missili balistici l’una, che hanno fatto danni materiali, alcuni feriti e anche due o tre vittime, ma senza rilievo strategico. Si ritiene che all’Iran, dopo i primi bombardamenti israeliani restino circa 1500 missili, quanto basta per attacchi di questa intensità per una decina di giorni, ma è per loro sempre più difficile schierarli e lanciarli senza che l’aviazione israeliana li distrugga a terra. È probabile comunque che nelle prossime notti vi siano altri allarmi e altri lanci, di cui una piccola percentuale potrebbe colpire il territorio israeliano. I gruppi terroristici che l’Iran aveva costruito anche come antemurale e arma di rappresaglia sono tutti più o meno impossibilitati a intervenire: Hezbollah ha dichiarato che non parteciperà ai combattimenti, Hamas è pressato a Gaza, gli Houthi hanno sparato un missile e i gruppi sciiti dell’Iraq qualche drone, che non ha fatto danni.
• Gli schieramenti internazionali La ragione e il diritto di Israele sono chiari a tutte le persone minimamente lucide. A parte l’amministrazione Trump che sapeva dell’attacco, appoggia a parole e con rifornimenti e soprattutto non ostacola né ricatta Israele, in Europa Germania, Francia, Gran Bretagna (le ultime due pochissimo amiche di Israele) hanno dichiarato che l’atomica iraniana è inaccettabile e che lo Stato ebraico ha diritto all’autodifesa. I paesi arabi hanno fatto dichiarazioni rituali contro l’attacco, ma hanno dato una mano a Israele nel respingere i missili iraniani (Arabia Saudita e Giordania) o hanno bloccato i manifestanti arrivati per creare torbidi al confine di Gaza (Egitto). E tutti guardano in realtà con un sospiro di sollievo allo smantellamento dell’arsenale nucleare di un nemico aggressivo e imperialista. Solo chi è accecato dall’antisemitismo, dall’odio per l’Occidente o dallo schieramento pregiudiziale a favore dell’integralismo islamico (almeno a parole) come Russia, Cina e vari paesi autoritari del Sudamerica ma soprattutto la sinistra europea (Spagna, Norvegia) e in particolare quella italiana, ha condannato l’azione israeliana.
• Unanimità in Israele Il governo israeliano, che aveva evitato proprio giovedì una insidiosa mozione di scioglimento del parlamento presentata dall’opposizione, che rischiava di essere approvata dai charedim, ora gode dell’appoggio di tutto lo schieramento parlamentare. Una prova di più che questa non è affatto la “guerra di Netanyahu”, come dicono anche personaggi ignoranti o in malafede del sistema politico europeo che pure si presentano ipocritamente come amici di Israele. È la guerra di tutto il popolo di Israele, guidata in maniera molto competente e astuta da un governo democraticamente eletto, per eliminare la minaccia terroristica. Ora la guerra è arrivata alla “testa del serpente” e se questo attacco avrà successo, potrà portare come conseguenza anche la pace che nessuno più degli israeliani desidera.
• La strategia Israele aveva tre obiettivi principali nell’attacco, una volta stabilita la superiorità aerea: disabilitare completamente il programma nucleare; distruggere la potenza convenzionale; ottenere un cambio di regime a Teheran, facendo sì che gli iraniani si liberassero del regime clerico-fascista degli ayatollah e riprendessero la loro libertà, come ha auspicato anche Netanyahu in un messaggio alla nazione persiana. Il secondo obiettivo è in parte raggiunto, ma richiederà ancora molto lavoro per essere realizzato in maniera sufficiente, com’è accaduto con la Siria. Bisogna ricordare che l’Iran ha circa otto volte la popolazione di Israele e quasi ottanta volte la sua superficie: questa enorme differenza di dimensione rende molto più lungo e difficile il compito di trovare armi e truppe nascoste. Il lavoro sul primo punto è iniziato bene, con danni molto gravi all’impianto atomico di Natanz; ma ve ne sono molti altri ufficiali e segreti, molto ben protetti. Lo smantellamento di Fordow è per esempio appena iniziato. È probabile che in certi casi ci sarà bisogno di forze speciali sul terreno, perché le bombe aeree non possono penetrare oltre un certo spessore. Per entrambi questi compiti la pianificazione israeliana, che è molto lucida e scientifica, ha previsto “almeno due settimane di bombardamenti”. Netanyahu ha allargato ancora, dicendo che Israele lavorerà “per tutto il tempo che ci vuole”. Potrebbe anche accadere che gli ayatollah decidano di tentare di colpire gli Usa, che hanno parecchie basi alla loro portata. Ma questo naturalmente provocherebbe una reazione americana che avvicinerebbe la loro fine.
• In attesa della rivolta Il terzo tema naturalmente è quello decisivo. Ci sono segni di sfaldamento del potere degli ayatollah, voci di fughe all’estero e contraddizioni politiche. Ma non può essere Israele a produrre la rivolta degli iraniani. Si sa che ci sono gruppi giovanili urbani (soprattutto donne) che hanno già tanto eroicamente testimoniato il dissenso negli anni scorsi e potrebbero tornare in piazza. Ci sono gruppi importanti colonizzati dallo stato iraniano: arabi sunniti sulla riva del Golfo, azeri nel nord, beluci (molto ben organizzati) all’estremo oriente del paese. Se e quando li vedremo prendere l’iniziativa, forse l’ora del regime sarà suonata. Ci potrebbe essere anche un colpo di stato di militari che non vogliono vedere a pezzi il paese. A seconda delle reazioni cambieranno anche gli obiettivi dell’azione israeliana. In caso di rivolta l’aviazione potrà aiutare gli insorti bombardando i miliziani del regime; se non vi sarà questa reazione, Israele si troverà probabilmente a dover mettere alle strette il regime attaccando le sue risorse economiche, innanzitutto pozzi e raffinerie di petrolio, porti civili, impianti elettrici e di trasporto. Comunque non bisogna aspettarsi una soluzione rapida. Siamo al momento decisivo della guerra, ma sarà un momento che ci terrà in tensione a lungo.
Dai bunker ai cieli di Teheran. L’antica lotta per sopravvivere
di Fiamma Nirenstein
I bambini sono i più bravi: quando sei ancora semisvestito e scendi nel rifugio alle tre di notte, fanno due a due gli scalini polverosi e ripidi, scendono in una stanza buia dove al massimo c’è un materasso per terra, stanno tranquilli con gli occhi spalancati, non piagnucolano ne chiedono; se gli offri dell’acqua o un biscotto ti degnano di un cenno della testa, in genere negativo. Aspettano il bum: ecco, arriva, ne arrivano tre o quattro, i bambini chiedono senza mostrare ansia dove sono, se abbiamo colpito il missile, se è arrivato fin sul nostro terreno. La radio non dice tutto, per non indirizzare il nemico. Se dopo si comincia a fare qualche preparativo per uscire, i bambini ti ricordano di aspettare i dieci minuti secondo la regola e di guardare sul telefonino se il “pikud ha oref”, il fronte interno, ha confermato l’ordine. Alla tv schiere di giornalisti in genere impegnati nella politica interna uno contro l’altro, quasi tutti contro il Primo Ministro, adesso sono per un numero di ore impensabile impegnati a raccontare appassionatamente l’incredibile avventura di un piccolo Paese che ha dovuto affrontare la pletora dei dittatori più aggressivi del mondo per sopravvivere. Senza nessuna retorica, sono fieri dei piloti; sul teleschermo intanto appaiono anche i mozziconi degli edifici di Ramat Gan, e si ricordano i nomi di tre morti e venti feriti. A canale 12 il giornalista super di opposizione seduto accanto a un generale in divisa, spiega come in poche ore è stata ripulita la strada dai missili più fatali e pericolosi con un’acrobazia aerea da leggenda di duemila chilometri; ricorda la distruzione dell’impianto atomico da parte di Begin in Iraq e da parte di Olmert in Siria. Il coro di proteste internazionali che si levò contro queste operazioni indispensabili era guidato dagli USA, la parola d’ordine era la stessa: sopravviviamo. La gente di Israele sa una cosa che il mondo ormai ignora nei suoi più imi precordi: che sopravvivere viene per primo, e che bisogna farlo con maestria, mirando giusto. Si deve ricordare che cosa è l’Iran e che cosa ha deciso, e qui ogni massaia lo sa benissimo: il 7 di ottobre fu preparato con la sua intensa collaborazione strategica, e poi i suoi Hezbollah erano pronti a completare l’invasione dei macellai, e di fianco la Siria e l’Iraq stringevano, pronti a completare l’operazione storica della distruzione di Israele. E di lato, sempre la stessa mano, il vecchio ayatollah iraniano circondato dalle Guardie della rivoluzione accanite e fanatiche nella distribuzione accurata di compiti nella distruzione di Israele, nel genocidio pianificato del popolo ebraico. Soldi a palate, fabbriche di armi letali, geniali costruzioni cibernetiche, scienziati, arricchimento palese e nascosto di uranio, assassini allenati dal Sud America a Gaza solo nell’uccisione di ebrei. Alleanza con la Russia di Putin, strusciamento con la Cina. Adesso per Israele, alla vigilia della bomba atomica, ci voleva un miracolo di bravura, ma bisognava chiudere: così non si poteva andare avanti. Una volta Golda Meyer spiegò a Kissinger che l’arma segreta degli ebrei è che non hanno nessun altro posto dove andare. Di più: non hanno nessun altro posto che sia il loro. Ieri una signora anziana la cui casa è stata distrutta commentava “Mia nipote di tre anni e mezzo mi ha chiesto il perché fuori della porta del botto spaventoso, e io le ho detto che forse da qualche parte era caduto qualcosa. Siamo rimasti a dormire nel rifugio fino alla mattina, tranquilli, chiusi, e ora ecco, la casa è distrutta, e noi si vive”. La capacità di resistenza nell’affrontare anche questa guerra così funambolica e distruttiva contro gli ayatollah dopo due anni di Gaza, in cui i ragazzi e anche i padri di famiglia entrano e escono su un terreno in cui si rischia la morte, in cui Israele ha perso mille soldati, il lavoro, i figli, l’economia; la forza delle donne di reggere da sole famiglie con tanti bambini… è la componente che i nemici di Israele non sono capaci di prendere in considerazione. E’ il fantastico allenamento del popolo ebraico alla sopravvivenza persino nelle condizioni più estreme, la sua capacità di lavorare la terra mentre legge la Torah e fa la guerra anche dopo la Shoah. C’è addirittura qualche povero illuso che disegna nei suoi interventi l’idea di una politica suicida di Israele, di Netanyahu. Niente è più sbagliato: così ha errato l’Iran con Sinwar quando ha interpretato il conflitto politico interno israeliano come un segnale di via al 7 ottobre; mai avrebbe immaginato, Khamenei, che i cercapersone avrebbero suonato la fine del suo maggior proxy, Nasrallah. Immaginava invece che la mostruosa determinazione di Hamas a sacrificare tutta la sua gente costruendo sulla cialtroneria antisemita la leggenda “genocida” avrebbe creato un inghippo internazionale molto difficile per Israele: era vero. Pensava che i rapiti fossero una trappola sanguinante, geniale, Era vero anche questo. Ma se pensava con questo che il popolo ebraico avrebbe scelto di morire nelle sue tenaglie senza affrontare la radice del male, ha commesso lo sbaglio della sua vita. Ogni bambino prima dell’età scolastica sa già dire “am Israel hai”, il popolo d’Israele vive. E’ nella linfa genetica di un popolo che per sopravvivere ha dovuto imparare la strada dei miracoli. Non è la più facile, ma è quella che è stata già inaugurata e sperimentata nei secoli così tante volte, e che lo Stato d’Israele ha reso pane quotidiano superando senza tregua l’assedio di un odio ideologico e religioso senza remissione. Adesso, se si vede come Giordania, Siria, Arabia Saudita, Egitto, fermano nel cielo i missili iraniani, sembra aver trovato un suo punto.
Perché Dio ha creato il mondo? - 5Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Sofferenza d'amore Sul far della sera (Genesi 3:8), quando il sole volge al tramonto, l’Eterno Dio decise di andare a trovare Adamo ed Eva nella parte abitabile della terra (Proverbi 8:31), che era il giardino di Eden, creato appositamente per l’uomo affinché lo lavorasse e lo custodisse (Genesi 2:15). Non andava lì per sorvegliare gli abitanti del giardino, come fanno le guardie municipali che quando scende il buio si sparpagliano per le strade del comune a tener d’occhio quelli che hanno comportamenti sospetti. No, Dio andava lì per trovare la sua gioia tra i figli degli uomini (Proverbi 8:31) in un rapporto d’amore con le sue creature. Voleva godersi il suo riposo (Genesi 2:2), dopo il duro lavoro della creazione.
Ma non fu possibile. Quando i due si accorsero che stavano per ricevere una visita, non si fecero trovare in casa. Li raggiunse però la voce. Tremenda, quella voce. Faceva paura. Eppure Dio non voleva far paura. Al contrario, era lì per comunicare e ricevere gioia, come accade quando s’incontrano due che si amano. Forse si aspettava che gli corressero incontro, invece no. Non c’erano.
Fu lì che Dio provò la prima delle sue sofferenze d’amore dopo il compimento della creazione. La domanda “Adamo, dove sei?” non è indagatrice, ma accorata. Ne sottintende un’altra: “Adamo, perché non ci sei?” L’incontro nel giardino di Eden avrebbe dovuto significare il pieno avvolgimento della creatura in ciò che è l’essenza del Creatore: l’amore. E’ per questo che Dio aveva concesso ad Adamo spazio d’azione e autorità: affinché l’uomo potesse far giungere a Dio una risposta d’amore da una posizione di piena libertà e dignità.
Ma la risposta non arrivò. La gioia, quella particolare gioia in mezzo agli uomini che Dio aveva pregustato durante la creazione, non ci fu. Dio continuò ad essere nella sua essenza amore, ma la forma in cui questo si manifestò nel seguito fu necessariamente diversa: nell’amore di Dio per la creazione e le creature era entrata la sofferenza, in forma di delusione e gelosia. Delusione, perché Adamo aveva fatto un uso improprio della libertà ricevuta; gelosia, perché Adamo aveva stabilito un rapporto di fiducia con il serpente, invece che con Dio.
A questo punto qualcuno forse penserà che questo modo di leggere i racconti biblici è puramente soggettivo e fantasioso; e che si fa un uso illecito di antropomorfismi per descrivere una realtà divina che trascende infinitamente quella umana; e qualcun altro dirà, come il teologo protestante Karl Barth, che si può parlare di Dio soltanto come il “Totalmente Altro”, cioè come Colui che è totalmente al di là e al di sopra di ogni possibile rappresentazione umana. Diciamo subito che approcci di questo tipo sono decisamente da respingere: affrontare temi biblici con categorie intellettuali astratte è un modo “umano, troppo umano” di parlare di Dio. Invece del “Totalmente Altro”, si arriva a parlare di “qualcosa d'altro”, non del Dio che ha fatto i cieli e la terra e si rivela nei fatti della storia riportati nella Bibbia.
L’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Da questo consegue che la maggior parte delle espressioni con cui usiamo parlare di cose importanti del nostro essere umani, come amore, pace, libertà, giustizia e altre ancora, sono a ben vedere dei teomorfismi che esprimono modi di pensare, sentire e agire che appartengono originariamente a Dio e si sono trasferiti a noi nei nostri rapporti tra uomini.
Si può prendere ad esempio la gelosia, di cui si è parlato sopra. Il sentimento di gelosia che si prova nei rapporti d’amore fra uomini è la trasposizione di un sentimento che prova Dio nel suo rapporto d’amore con gli uomini. La gelosia è un carattere di Dio:
“Tu non adorerai altro dio, perché l'Eterno, che si chiama: ‘il Geloso’, è un Dio geloso” (Esodo 34:14). “Non ti prostrare davanti a tali cose e non le servire, perché io, l'Eterno, il tuo Dio, sono un Dio geloso che punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano” (Esodo 20:15). “Pensate che la Scrittura dichiari invano che lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi ci brama fino alla gelosia?” (Giacomo 4:5)
Dunque è del tutto accettabile, in un rapporto rispettoso con la Bibbia, immaginare che dopo il “peccato originale” l’amore di Dio abbia perso un po’ di quella “esuberante gioia” (Proverbi 8:30) che Dio aveva quando la creazione era “in corso d’opera”, e abbia assunto un aspetto di sofferenza in forma di gelosia.
Ma anche se è gelosia, sempre di amore si tratta. Dunque le decisioni prese da Dio dopo il fattaccio del frutto proibito (Genesi 3:14-24) non vanno intese come punizioni inferte da un giudice inflessibile ai trasgressori, ma come atti d’amore di un Dio che lascia il suo riposo per mettersi a lavorare intorno a un progetto di recupero di quel creato nella cui elaborazione e preparazione aveva infuso tanta sapienza, speranza e amore.
Tra le decisioni di Dio presentate nel capitolo 3 della Genesi, ne indichiamo due: 1) La terra fu maledetta; 2) Adamo ed Eva furono cacciati dal giardino di Eden.
La prima decisione indica che la morte corporale di Adamo ed Eva fu provocata dalla maledizione del materiale terreno con cui erano stati costruiti: “… tornerai nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai”.
Con la seconda decisione il Creatore chiude ogni possibilità di incontro ravvicinato tra Dio e l’uomo: il luogo adibito a questo scopo era stato fissato nel giardino di Eden, ed esso è stato irrevocabilmente sigillato. Si può dire che è come se un marito geloso, dopo aver accertato l’infedeltà della moglie, la cacci di casa e cambi la serratura della porta. Non si entra più. Forse in seguito si potrà ancora comunicare, ma per lettera, o per telefono, o per l’interposizione di un amico, ma sempre e soltanto a distanza.
Ma Dio è amore. E continua ad amare la sua creatura. Che fare? Dio riprende a pensare e ad agire. E dà il via al suo secondo progetto: quello redentivo. Ed è proprio di questo che parla l’intera Bibbia, dal quarto capitolo della Genesi in poi.
Essendo frutto dell’amore di Dio, anche il progetto di recupero doveva prevedere uno spazio di libertà dell’uomo. Ma essendo l’uomo una creatura, lo spazio di libertà a lui concessa può aprirsi soltanto in conseguenza di un suo SÌ di risposta alla parola rivoltagli dal Creatore. In momenti opportuni, Dio cercherà sempre qualcuno a cui rivolgere la parola adatta, nel desiderio di ricevere in risposta un SÌ, che a differenza del NO ricevuto da Adamo possa permettere la prosecuzione del programma.
Cerchiamo allora di seguire il Signore nel suo nuovo e decisivo lavoro d’amore.
• Anarchia Dopo il peccato di Adamo, si direbbe che il Signore abbia deciso di stare un po’ a vedere come sarebbero andate avanti le cose. Si propone di osservare quello che avrebbero fatto i discendenti di Adamo lasciati a loro stessi. Lascia che Caino uccida il fratello ed emette quella “ordinanza” che tanto piace ai pacifisti: “chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui” (Genesi 4:15). Lascia fare dunque: nessuna regola, ciascuno può agire secondo coscienza, cioè fare quello che vuole. Massima libertà? Così potrebbe pensare qualcuno, dimenticando però che dopo il peccato l’uomo non è affatto libero, ma è sottoposto al dominio di Satana, che ha pieno diritto su di lui dal momento che il primo uomo, da cui tutti gli altri discendono, ha creduto alla sua parola, non a quella di Dio. Così, sotto l’impulso di Satana e dei suoi angeli - che arrivarono perfino ad unirsi in legami carnali con le donne (Genesi 6:1-2) - la terra divenne un tale porcile da costituire, dopo la delusione d’amore di Adamo ed Eva, un altro momento di sofferenza per il Signore:
“E l'Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra, e che tutti i disegni del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo. E l'Eterno si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo. E l'Eterno disse: “Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti” (Genesi 6:5-7).
Dio dunque aveva deciso di distruggere tutto ciò che vive sulla faccia della terra, ma prima di dar corso al suo proposito cercò tra gli uomini qualcuno che, a differenza di Adamo, avrebbe creduto alla sua parola e l’avrebbe messa in pratica. E lo trovò in Noè, che come sta scritto “trovò grazia agli occhi dell’Eterno” (Genesi 6:8), e poté sopravvivere con la sua famiglia all’immane tragedia del diluvio.
All’uscita della famiglia di Noè dall’arca, avviene un momento bellissimo nella storia del rapporto d’amore tra Dio e l’uomo: un elemento importante per il proseguimento del progetto redentivo. E’ Noè che prende l’iniziativa:
E Noè costruì un altare all'Eterno; prese di ogni specie di animali puri e di ogni specie di uccelli puri, e offrì olocausti sull'altare (Genesi 8:20).
Questa costruzione di Noè è in assoluto il primo altare della storia eretto in adorazione a Dio. Non è l’esecuzione di un ordine dall’Alto: è la spontanea decisione di un uomo sopravvissuto al giudizio che in piena libertà esprime a Dio la sua riconoscenza per la salvezza ricevuta. E lo fa eseguendo, su quell’altare improvvisato, alcuni sacrifici che sapeva essere graditi a Dio. E’ un gesto d’amore, che costituisce per Dio il primo momento di quella gioia in mezzo agli uomini che Egli avrebbe voluto provare già nel giardino di Eden:
“E l'Eterno sentì un odore soave; e l'Eterno disse in cuor suo: “Io non maledirò più la terra a motivo dell'uomo, poiché i disegni del cuore dell'uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto. Finché la terra durerà, semina e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai” (Genesi 8:22-24).
Nella gioia per quel soave odore che gli arriva dal basso, Dio s’impegna in cuor suo a non colpire più la terra come aveva fatto prima, ma a conservarla “a tempo indeterminato”, cioè fino al compimento del suo progetto redentivo, che come ora sappiamo, ha come obiettivo la creazione di “un nuovo cielo e una nuova terra” (Apocalisse 21:1).
• Un patto che mette ordine Abbandonata l’idea di sbarazzarsi definitivamente della razza umana, Dio si muove ora nella direzione opposta: decide di coinvolgersi personalmente nella storia degli uomini. E stabilisce con Noè il primo patto Dio-uomo della storia dopo la caduta.
E’ un patto che conserva il creato e limita il male, senza tuttavia estirparlo. In un certo senso, si può dire che è il primo patto di “salvezza per grazia mediante la fede”: la grazia si manifesta nell’offerta di Dio all’uomo di una possibilità di salvare se stesso e il genere umano, e la fede nella decisione di Noè di credere alla promessa di Dio, anche se appariva inverosimile e ridicola ad occhi umani.
Ma dopo l’esperienza fatta con la concessione all’uomo della massima “libertà”, bisognava porre un limite alla malvagità umana, al fine di difendere la vita stessa della società. Dio allora cambia le regole di comportamento tra gli uomini e il loro rapporto con la natura. La parola “nessuno tocchi Caino", tanto cara ai pacifisti, è sostituita da “il sangue dell'uomo sarà sparso dall'uomo” (Genesi 9:6). Da quel momento infatti Dio dà all’uomo l’autorità di usare la forza punitiva anche mettendo a morte il colpevole. Per dirla in termini sintetici e attuali: introdusse la pena di morte. In questo modo si propone di difendere la società strutturata, non l’individuo nei suoi “inalienabili diritti umani”, come diremmo noi oggi.
All’uomo è ripetuto l’ordine di crescere, moltiplicarsi, spandersi sulla terra e riempirla (Genesi 9:1-7), ma non gli è chiesto di sottometterla. La caduta aveva fatto perdere all’uomo la sua autorità, passata ora nelle mani di Satana, che per questo motivo nella Bibbia è indicato come il principe di questo mondo (Giovanni 12:31).
• L’uomo cerca un suo “ordine” Dopo il patto con Noè, la popolazione sulla terra riprende a crescere, e a differenza di prima del diluvio, quando regnava anarchia, malvagità e disordine, gli uomini adesso vivono tutti insieme, parlano la stessa lingua e si capiscono. Ma invece di osservare l’ordine di Dio e spandersi sulla terra, si muovono “d’amore e d’accordo” verso oriente. Arrivati nella pianura di Scinear, li coglie la paura di tornare a disperdersi e perdere così quella meravigliosa unità mondiale che avevano raggiunto. E hanno un’idea. Un’idea che fino a quel momento era venuta solo a Caino: costruirsi una città (Genesi 4:17). Ma avrebbe dovuto essere una città speciale, unica, destinata a diventare il centro del mondo, con una torre alta, molto alta, tanto alta da arrivare fino al cielo. E con il cielo a portata di mano, il possesso della terra sarebbe stato garantito: chi mai avrebbe potuto disperderli sulla faccia della terra? Chi avrebbe tolto loro quel suolo e quella meravigliosa, produttiva unità? Le premesse sono più che promettenti. Gli uomini della pianura di Scinear hanno una tecnologia avanzata: usano bitume invece di calcina, mattoni cotti al sole invece di semplici pietre. E in più, non sono dei pelandroni, ma gente attiva, laboriosa, pronta ad impegnarsi. "Orsù - si dicono l'un l'altro - edifichiamoci una città e una torre di cui la cima giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama, affinché non siamo più dispersi sulla faccia di tutta la terra" (Genesi 11:4). Da notare che gli uomini della pianura di Scinear non parlano mai di Dio, neppure per negarlo: ciò che a loro interessa è il progetto, l'opera delle loro mani. Che c’è di male? In fondo, loro vogliono lavorare per un affratellamento degli uomini intorno a un progetto comune. Se c'è un Dio, perché mai dovrebbe avere qualcosa da dire?
E invece Dio ha qualcosa da dire. Come un solerte operaio si mette anche Lui al lavoro e dice a Sé stesso: "Orsù, scendiamo". E sappiamo come va a finire: gli uomini non si capiscono più fra di loro, smettono di edificare la città e sono costretti a disperdersi sulla faccia della terra, proprio come Dio voleva.
Rimase però in loro quell’anelito globalista all’unità sociale universale che li aveva mossi all’inizio, e cercarono di soddisfarlo almeno in parte con la fondazione di quelle innovative sottosocietà che costituirono le “nazioni, nei loro diversi paesi, ciascuno secondo la propria lingua” (Genesi 10:5).
Ma di queste sottosocietà nazionali non si trova traccia nel progetto creativo originario di Dio.
Alle 21:00 ora locale del 13 giugno 2025, il cielo sopra l’Iran è diventato un campo di battaglia. Nel giro di pochi secondi, la notte è stata illuminata da esplosioni. Le difese aeree iraniane, colte di sorpresa, sono state abbattute una dopo l’altra. L’operazione, una delle più audaci e coordinate della storia militare e d’intelligence contemporanea, ha visto l’esercito israeliano colpire decine di obiettivi sensibili nel cuore del territorio iraniano. Teheran, fulcro del potere del regime, da Qeytarieh e Niavaran fino ai complessi militari di Shahid Chamran e Shahid Daqiqi, fu investita da un fuoco incrociato senza precedenti. Non si è trattato solo di un attacco militare: è stata una dimostrazione chirurgica di superiorità informativa e capacità operativa, in risposta a quelle che Israele ha definito “le infinite linee rosse superate dal regime iraniano”. L’operazione si è svolta simultaneamente in dodici province iraniane. Tra i bersagli figurano il reattore nucleare di Natanz, le strutture di acqua pesante di Arak, i depositi missilistici di Parchin, e basi militari a Hamedan, Borujerd, Tabriz, Kermanshah, Piranshahr e Qasr-e Shirin. Le prime valutazioni suggeriscono la distruzione completa di numerose installazioni strategiche e incendi diffusi nei pressi delle stesse.
• L’ombra del Mossad Secondo il Washington Post, agenti del Mossad erano operativi in Iran da mesi. Travestiti da operai o tecnici delle telecomunicazioni, avevano piazzato sistemi di puntamento laser e armi di precisione a ridosso di obiettivi militari strategici. Quando è scattato l’attacco, droni già nascosti all’interno del territorio iraniano si sono alzati in volo contemporaneamente, colpendo le difese aeree e mettendole fuori uso in pochi minuti. Contemporaneamente, caccia stealth F-35 israeliani sono decollati da basi in Azerbaigian e nel Golfo Persico, hanno violato lo spazio aereo iraniano e hanno colpito direttamente il cuore di Teheran. Quartieri come Niavaran, Qeytarieh, Mehrabad, Chitgar, Nobonyad, Ozgol e Shahrara si sono trasformati in zone di combattimento. Un missile di precisione ha colpito una torre a Kamraniyeh, dove – secondo fonti riservate – si stava tenendo una riunione d’emergenza tra le autorità di sicurezza. A Sattarkhan, il complesso Orchide ha tremato violentemente. A Sa’adat Abad, un’esplosione nel centro accademico di Meydan Ketab ha fatto saltare in aria migliaia di finestre. Tra i bersagli dell’attacco figurano anche figure chiave del programma nucleare e della leadership militare iraniana. Secondo fonti affidabili, tra i morti ci sarebbero: Hossein Salami, comandante delle Guardie della Rivoluzione (IRGC), Mohammad Bagheri, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Gholam Ali Rashid, comandante del quartier generale Khatam al Anbiya, Amir Ali Hajizadeh, comandante dell’aerospazio del IRGC, oltre a un alto consigliere strategico della Guida Suprema. Inoltre, è stata confermata l’eliminazione di Fereydoun Abbasi, uno degli scienziati chiave del programma nucleare, nonché di alti ufficiali dell’intelligence e della sicurezza militare.
• Diplomazia silenziosa, guerra esplicita L’attacco è avvenuto a pochi giorni dai negoziati cruciali previsti a Mascate, capitale dell’Oman. Molti analisti ritengono che Israele, consapevole delle divisioni all’interno dell’Occidente e della natura ambigua del recente rapporto dell’AIEA, abbia deciso di intervenire prima che la diplomazia offrisse al regime iraniano una nuova finestra di manovra. L’amministrazione Trump, alla guida degli Stati Uniti, ha dichiarato ufficialmente di non essere coinvolta nell’operazione, ma ha lanciato un severo monito all’Iran contro qualsiasi ritorsione verso obiettivi americani. Lo stesso Donald Trump ha scritto su X: “L’America costruisce le armi migliori. Israele ne ha molte. L’Iran deve scegliere il dialogo. In caso contrario, i prossimi attacchi saranno ancora più brutali.” Teheran, finora, ha risposto con un silenzio opaco. Le uniche dichiarazioni provengono dai comunicati del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, che promettono “vendetta al momento opportuno”. Un silenzio che potrebbe essere dettato tanto dallo shock, quanto dal tentativo di evitare un collasso dei colloqui di Mascate, che il ministro degli Esteri omanita ha confermato essere ancora in agenda.
• Cifre, lacrime e politica Secondo stime non ufficiali, almeno decine persone sono morte e centinaia sono rimaste ferite nella sola provincia di Teheran; molte erano civili. Edifici residenziali situati a meno di 200 metri da installazioni militari sono stati colpiti senza preavviso. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si riunirà oggi alle 15 (ora di New York) su richiesta dell’Iran. Tuttavia, difficilmente la riunione produrrà effetti concreti, data l’ambiguità della reazione occidentale: nessuna condanna ufficiale, ma un silenzio che suona come un tacito assenso. Nel frattempo, la politica interna israeliana subisce una svolta. Il governo Netanyahu, sotto pressione da parte dei partiti ultraortodossi per la riforma del servizio militare, ha sfruttato la tensione esterna per rinviare il voto parlamentare. Per i detrattori di Netanyahu, l’attacco rappresenta una fuga in avanti. Per lui, è stata l’occasione per riaffermare la propria leadership.
• È solo l’inizio? Le domande cruciali restano aperte. Il regime Islamico rallenterà il proprio programma nucleare? O, come già avvenuto in passato, reagirà con maggiore determinazione? Siamo all’alba di una guerra aperta tra Iran e Israele? Il tempo darà le risposte. Ma una cosa è certa: per la prima volta in quarant’anni, la Repubblica Islamica ha affrontato un attacco su vasta scala in pieno giorno, senza poterlo negare né nascondere. Nel mezzo, il popolo iraniano , intrappolato tra le sanzioni internazionali e la repressione interna, ha pagato ancora una volta il prezzo di decisioni prese altrove. Case, le strutture, sogni: tutto in fiamme. E forse proprio da questo dolore può nascere una nuova domanda: non è tempo di scrivere il destino in modo diverso? Forse sì. Forse la notte del 13 giugno non è stata solo una notte di fiamme. Forse è stata la notte in cui l’Iran ha guardato il proprio cielo, vulnerabile, e ha iniziato a chiedersi: perché rispondere al mondo solo con armi? Perché costruire tunnel sotterranei mentre le case restano indifese? Perché il silenzio della diplomazia è stato sostituito dal fragore dei missili. Alcune notti non svaniscono dalla memoria storica. Il 13 giugno 2025 è una di queste. Una notte in cui il cielo dell’Iran si è acceso, non per una festa, ma per una guerra. Una notte in cui la diplomazia si è spenta, e le armi hanno parlato. Una notte che potrebbe segnare l’inizio di un nuovo capitolo nella lunga e tormentata storia del Medio Oriente. Un capitolo in cui nulla sarà più come prima. Per un iraniano che ama la propria patria e sogna il ritorno della democrazia, questa è una notte di dolore e di speranza. Dolore profondo per un attacco che colpisce la nostra terra, il cuore della nostra identità. Speranza fragile, ma viva, che dopo quarantasei anni possa finalmente finire il lungo incubo della dittatura islamica. Eppure… quanto sarebbe stato più nobile, più degno, se questa tirannia fosse caduta sotto il peso del nostro stesso popolo, per mano di veri patrioti, figli di questa nazione, e non sotto i missili di una potenza straniera. Oggi è Israele a salvarci e domani? Chi sarà a “salvarci”da una nuova dittatura? La libertà non si regala: si conquista. E il destino dell’Iran dovrebbe essere scritto dal suo popolo, non dagli eserciti altrui.
Iran, l’analisi dello storico. Gli ayatollah tremano. A rischio la presa sul Paese
L’opposizione potrebbe riuscire ad approfittare del vuoto di potere. In Medio Oriente contano i rapporti di forza e le alleanze strategiche.
Israele ha vinto? In Medio Oriente contano i rapporti di forza. La competizione con l’Iran coinvolge le due maggiori potenze dell’area, al centro di alleanze con Russia e Turchia, Usa e Cina. Questa storia iniziò negli anni Ottanta; fino a quel momento erano alleati, lo Scià tentò una politica di liberalizzazione, a Tel Aviv dominavano i sionisti socialisti. L’alleanza saltò quando giunsero gli Ayatollah e crearono il primo regime islamico moderno. Dopo il crollo dell’Iraq di Saddam Hussein, tentarono un progetto imperiale sciita. Invece Tel Aviv, che aveva ottenuto la pace con i paesi arabi, era coinvolta in interminabili scontri con i palestinesi. Negli anni Novanta iniziò la sfida. Teheran fondò l’Asse della Resistenza, il Cerchio di fuoco di Quasem Soleimani per stritolare Israele con Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, i terroristi in Iraq e Yemen, l’alleanza con Assad a Damasco e Putin nel mondo. Israele aveva superiorità tecnologica, gli alleati Usa, ora i paesi arabi come amici (ma tutti ben poco disposti a usare le armi) ma il dramma palestinese di fronte; erano le sue armi nucleari a garantire i rapporti di forza. L’equilibrio reggeva, anche se l’eliminazione di Soleimani per ordine di Trump anticipò la svolta (ora è toccato al successore Esmail Qaani). Il 7 ottobre e la drammatica escalation successiva ruppero questo schema. Hamas e Hezbollah sono sconfitti; Assad è caduto; il Libano contiene i fondamentalisti; gli Houti sono in ritirata; l’Iraq sta a guardare. Ora Israele, con l’attacco in corso, vuole cambiare i rapporti di forza per sempre: eliminando la minaccia dell’atomica e dei missili balistici iraniani, stabilirà una definitiva superiorità militare; gestendo il consenso di paesi arabi (e Libano) e il silenzio dei turchi (ora in Siria), contenti della sconfitta dell’Iran, otterrà il decisivo rispetto per il più forte. Infine, se Israele può vincere, il rischio è totale per gli Ayatollah. Teheran è al vertice della produzione petrolifera e di gas, un attacco alle raffinerie ne determinerebbe il crollo. Soprattutto è un’autocrazia repressiva sul terreno di diritti, rappresentanza, libertà femminili: basa la sua legittimità sul controllo della forza interna ed esterna. Se li perde, l’opposizione potrebbe approfittarne, cambiando anche la storia della regione islamica.
Oggi non si tollera che Israele ci sia per difendersi
di Iuri Maria Prado
Non è chiaro a tutti ciò che sta succedendo. È chiaro a pochissimi. Come non fu chiaro a tutti quel che succedeva quel giorno del 1940. Come fu chiaro a pochissimi quel che succedeva quel giorno del 1940. Gli Stati Uniti oggi sono il “nuovo mondo” evocato da Churchill con il discorso delle lacrime, del sudore e del sangue. Gli Stati Uniti ancora fuori, ancora lontani, ancora non in armi contro la Germania nazista. E Israele oggi è l’Inghilterra, con la differenza che Israele non è un impero, non è l’Impero britannico. Israele è un minuscolo Paese di rifugiati; un minuscolo Paese di rifugiati con un esercito che fu messo insieme nel 1948 con il 25% di sopravvissuti dei campi di sterminio. Quasi tre ebrei su dieci che combatterono per l’esistenza dell’unico posto rimasto per gli ebrei erano sopravvissuti dei campi di sterminio. Erano gli ebrei che passarono dal campo di sterminio alla guerra contro i Paesi che avrebbero ucciso un altro milione di ebrei, gli ebrei dei Paesi arabi, anche loro destinati alla distruzione se non ci fosse stato Israele – appena nato – a salvarli. Perché nessuno avrebbe salvato quel milione di ebrei, come nessuno salvò i sei milioni di ebrei d’Europa. Ora questo Paese degli ebrei che hanno resistito alla storia della loro persecuzione, del loro sterminio, del loro genocidio; ora questo Paese di rifugiati, di figli e di nipoti di rifugiati, questo Paese dei superstiti del tempo in cui l’Europa e il resto del mondo chiudevano le porte in faccia agli ebrei rastrellati e ammassati per lo sterminio; ora questo Paese lasciato solo ancora una volta, unica casa per il popolo ebraico ancora una volta perseguitato; ora questo Paese non combatte perché vuole, ma perché deve. Combatte esattamente come combatteva nel 1948, ma contro forze ancora più diffuse e potenti. Perché l’Europa che fu della Shoah, il mondo ora dell’Onu, di Amnesty International, della Croce Rossa, di Medici Senza Frontiere, della Corte Internazionale di Giustizia, della Corte Penale Internazionale, l’Europa delle repubbliche democratiche fondate sull’antifascismo, e qui da noi gli antichi e i nuovi antisemiti travestiti da antisionisti, e tutti i giornali, e tutte le televisioni, e gli Ordini dei giornalisti, e i Comitati di redazione, ora tutto questo mondo sta a guardare mentre gli ebrei di Israele sanno – le ricordate queste parole? – sanno che devono vincere malgrado qualunque terrore, sanno che devono vincere per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza. Ma c’è una differenza rispetto al tempo di quel discorso di Churchill. Hitler aveva meno alleati rispetto a quelli di cui godono i tanti che oggi vogliono uccidere gli ebrei o sono disposti ad accettare che gli ebrei siano uccisi. Israele allora non c’era, e se ci fosse stato gli ebrei non sarebbero stati distrutti. Oggi non si tollera che Israele ci sia per difendersi, perché l’ipotesi che gli ebrei siano un’altra volta distrutti non importa a nessuno, o comunque più o meno oscuramente, più o meno inconfessatamente, è un’ipotesi accettata da tutti. Questo sta succedendo oggi.
L’attacco israeliano in Iran della notte scorsa era atteso. Dopo il richiamo del giorno precedente da parte americana di evacuare il personale non strettamente necessario dell’ambasciata di Baghdad e i familiari del personale militare da diverse basi nel Golfo, nonostante Donald Trump avesse fatto presente che il round negoziale con l’Iran previsto domenica prossima in Oman, fosse ancora in calendario, si capiva che era solo questione di breve tempo per l’intervento militare.
Giovedì, il Consiglio di amministrazione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) aveva formalmente stabilito che l’Iran non stava rispettando i suoi obblighi nucleari per la prima volta in venti anni. Secondo il rapporto, l’Iran ha accumulato 408,6 chilogrammi di uranio arricchito fino al 60 per cento. Un aumento di 133,8 chilogrammi – quasi il 50 per cento – dall’ultimo rapporto dell’agenzia di febbraio. Il materiale arricchito a questi livelli potrebbe essere portato al 90 per cento necessario per un’arma nucleare.
Gli attacchi israeliani hanno preso di mira i programmi iraniani di arricchimento nucleare, di armamento nucleare e di missili balistici.
Tra gli obiettivi colpiti ci sono il Complesso di arricchimento di Natanz nella provincia di Esfahan, un impianto di arricchimento sotterraneo, l’Organizzazione per le industrie aerospaziali in piazza Nobonyad a Teheran che coordina la produzione missilistica iraniana, il quartiere Lavizan, quartiere nordorientale di Teheran, presunto sito nucleare non dichiarato.
L’attacco ha anche decapitato lo Stato maggiore delle foze armate iraniane e il vertice dei Pasdaran, nonché diversi scienziati addetti al programma nucleare. Tra le vittime eccellenti, Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate della Repubblica Islamica dell’Iran, la più alta carica militare del Paese, Hossein Salami, Maggior Generale, comandante del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, Mohammad Ali Jafari, ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Mohammad Mehdi Tehranchi, fisico teorico iraniano, professore dell’Istituto di ricerca laser e plasma e il Dipartimento di Fisica dell’Università Shahid Beheshti, membro del consiglio di amministrazione e presidente dell’Università Islamica Azad, Fereydoon Abbasi, 67 anni, capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, Ali Shamkhani, consigliere dell’ayatollah Ali Khamenei.
L’attacco di ieri notte è solo il primo di una serie di attacchi programmati, come ha chiarito Benjamin Netanyahu nel suo discorso subito dopo l’incursione, atti a rimuovere la minaccia esistenziale iraniana nei confronti dello Stato ebraico.
Israele non poteva più aspettare.
L’autodifesa di Israele dall’Iran su cui si gioca il destino del mondo
di Ugo Volli
• La tappa decisiva della guerra
Il massiccio e penetrante attacco israeliano all’Iran apre la fase decisiva della guerra che si è aperta il 7 ottobre 2023. Essa non è mai stata la guerra di Gaza, come scrivono i giornali, e neppure la guerra di Israele con Hamas, che in definitiva è solo un burattino, come Hezbollah, gli Houti e tutti gli altri terroristi in Medio Oriente. La guerra è sempre stata, da quando fu concepita una decina di anni fa, preparata, organizzata e finanziata dagli ayatollah: una guerra dell’Iran per distruggere Israele. Non si tratta di una supposizione o di un’affermazione propagandistica, ma di numerose, continue, quotidiane dichiarazioni dei dirigenti iraniani, di azioni pratiche, di manifestazioni di massa, di iniziative come il cartellone luminoso che in “Piazza Palestina” a Teheran, pretendeva di marcare il conto alla rovescia per la fine dell’entità sionista, dell’armamento delle forze armate iraniane, delle loro azioni. Vale la pena di chiarire che per il piano strategico degli ayatollah la distruzione di Israele e il genocidio dei suoi abitanti erano solo una tappa, ma quella decisiva, per conquistare il consenso di tutti i musulmani, rovesciare i regimi sunniti per loro eretici, prendere il potere sulla Mecca e guidare la conquista islamica di tutto il mondo secondo quanto prescritto da Maometto.
• Una guerra degli ayatollah, non del popolo iraniano
Israele da qualche tempo è arrivato ad accomodamenti più o meno formali con i vicini arabi che avevano cercato di distruggerlo con quattro guerre fra il 1948 e il 1973 (Egitto, Giordania, paesi del Golfo, in qualche modo Arabia e anche di recente durante questa guerra Siria e Libano). Non aspira ad altro che alla convivenza pacifica e sicura nella sua regione, come qualunque stato normale al mondo. Sa che da tempo il suo peggior nemico è il regime clerico-fascita iraniano. Non c’è odio fra Israele e popolo iraniano, anzi una tradizionale amicizia, che ha radici ai tempi dell’Impero persiano di Ciro (al British Museum è conservato il suo editto che consente la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, 25 secoli fa). Più di recente c’era un’alleanza di fatto con lo Scià Reza Palhavi; c’è sempre stata solidarietà con i tentativi dei giovani iraniani di liberarsi dalla dittatura). Netanyahu ha spesso rivolto al popolo iraniano messaggi di amicizia, ed è chiaro che i bombardamenti attuali non mirano a colpire la cittadinanza ma solo i dirigenti del regime. E non c’è conflitto territoriale: la distanza fra Israele e Iran è paragonabile a quella fra Roma e Stoccolma. La guerra è dovuta a una volontà ideologica e al disegno imperialistico degli ayatollah.
• Un attacco giustificato sul piano giuridico e morale
Israele ha dunque tutto il diritto di difendersi dall’Iran con le armi e nei tempi che ritiene opportuni. Non solo perché è stato il regime degli ayatollah a progettare, organizzare, armare, finanziare la guerra che contro lo Stato ebraico conducono da due anni i suoi satelliti, a partire da Hamas. E non solo perché già due volte nei mesi scorsi l’Iran ha direttamente bombardato Israele, ricevendo reazioni limitate per imposizione dell’amministrazione americana di Biden, Ma soprattutto perché l’Iran era sul punto di superare la soglia nucleare che rende uno stato atomico virtualmente inattaccabile. Ormai era pronto quasi tutto, c’era il combustibile (uranio arricchito) per 10 bombe nucleari e altro se ne stava approntando a tutta velocità; c’erano i missili capaci di portare la Bomba su Israele (e va aggiunto, anche sull’Europa); c’era la delicata e complessa componente di innesto per implosione necessaria per far esplodere la carica nucleare; c’erano stati forse degli esperimenti di esplosione sotterranea. Come ha dichiarato per la prima volta il consiglio dell’Agenzia Atomica, l’Iran stava violando le regole del trattato di non proliferazione nucleare ed era pronto a mettere in opera il proprio armamento atomico. Se l’avesse raggiunto, avrebbe avuto un’arma di distruzione di massa capace di distruggere il nucleo di un paese piccolissimo come Israele. L’Iran ha dichiarato più volte di essere disposto a farlo e ha fatto anche girare alcuni video dimostrativi.
• Il destino del mondo
Per questa ragione Israele non ha attaccato di sorpresa l’Iran, come scrivono i giornali, ma ha agito in autodifesa durante una guerra che l’Iran gli aveva dichiarato da tempo. L’amministrazione Trump, che pure non vuole essere coinvolta direttamente nell’attacco, ha capito perfettamente questo punto, non ha impedito a Israele di usare tutta la sua forza e gli ha dato appoggio logistico e informativo. Se l’azione di Israele avrà successo, si potrà aprire un nuovo periodo di pace in Medio Oriente. Il regime degli ayatollah potrà essere rovesciato o quantomeno fortemente depotenziato, tutto il terrorismo da esso finanziato e armato per forza si spegnerà, ci saranno le condizioni per estendere i patti di Abramo e la “Via del cotone”, rotta commerciale e spazio di innovazione fra India, Arabia ed Europa. Il grande disegno cinese di accerchiare l’Occidente e stabilire la propria egemonia con la Russia in Europa, con l’Iran in Medio Oriente e direttamente in Africa, subirà un arresto fondamentale. Ci saranno conseguenza anche sull’Ucraina, perché l’Iran è alleato di Mosca e importante suo fornitore d’armi. Insomma da quel che succede in queste ore in Medio Oriente dipende il destino del mondo e la pace anche in Europa.
Crisi del governo Netanyahu: lo scontro sulla leva degli haredim può portare allo scioglimento della Knesset
I partiti ultraortodossi Shas e Giudaismo Unito nella Torah (UTJ) si preparano a sostenere la proposta di legge per sciogliere la Knesset, la cui lettura preliminare è prevista per oggi, mercoledì 11 giugno 2025 alle 11, ora israeliana. Salvo un cambiamento significativo nella posizione del deputato del Likud Yuli Edelstein riguardo la legge sulla leva obbligatoria, il voto favorevole appare certo.
di Anna Balestrieri
A poche ore da un voto che potrebbe portare allo scioglimento della Knesset, la coalizione di governo israeliana è in piena crisi. Il nodo centrale resta la legge sulla coscrizione obbligatoria per gli uomini ultraortodossi, che i partiti haredi rifiutano con fermezza. Nonostante le pressioni per trovare un compromesso, le posizioni oscillano tra il tentativo di modificare il contenuto della legge a quello di evitare il voto decisivo sulla fine del governo.
• Crisi nella coalizione israeliana: Haredim pronti a votare per lo scioglimento della Knesset I partiti ultraortodossi Shas e Giudaismo Unito nella Torah (UTJ) si preparano a sostenere la proposta di legge per sciogliere la Knesset, la cui lettura preliminare è prevista per oggi, mercoledì 11 giugno 2025 alle 11, ora israeliana. Salvo un cambiamento significativo nella posizione del deputato del Likud Yuli Edelstein riguardo la legge sulla leva obbligatoria, il voto favorevole appare certo. Le tensioni nascono dalla sentenza dell’Alta Corte di Giustizia che ha revocato le esenzioni dal servizio militare per gli uomini haredi. Di conseguenza, l’esercito ha iniziato a inviare le convocazioni di coscrizione, provocando forti proteste da parte dei partiti religiosi, che chiedono al premier Netanyahu una legge che garantisca l’esenzione per gli studenti delle yeshivot.
• La proposta di Yuli Edelstein La proposta avanzata da Edelstein, che prevede sanzioni per chi non si presenta alla leva, è considerata inaccettabile dai leader haredim. I giornali legati ai partiti ultraortodossi riferiscono che senza un accordo immediato, il patto di coalizione con il Likud non potrà continuare. Secondo fonti interne, il leader di Shas Arye Dery sta tentando fino all’ultimo di evitare la rottura, ma all’interno di Agudat Israel la decisione sembra già presa. Un rinvio del voto, auspicato dalla coalizione, è visto con scetticismo dai partiti religiosi, stanchi di rimandi e trattative infruttuose. Anche se la mozione superasse il primo voto, resterebbero da affrontare altri tre passaggi parlamentari. Tuttavia, il clima è teso e la possibilità di nuove elezioni si fa sempre più concreta.
• La posizione dei partiti ultraortodossi I partiti ultraortodossi chiedono di eliminare o posticipare le sanzioni contro chi non si arruola, come la sospensione dei sussidi per gli asili nido e i tagli ai finanziamenti per le yeshivot. Ma il deputato del Likud Yuli Edelstein continua a opporsi a qualsiasi compromesso che non preveda obiettivi chiari di arruolamento e misure concrete per farli rispettare. La spaccatura non riguarda solo la coalizione: anche nel fronte haredi vi sono divisioni. I rabbini, sia ashkenaziti che sefarditi, vogliono rompere subito con il governo, mentre i parlamentari, in particolare il leader di Shas Arye Dery, cercano di evitare lo scioglimento della Knesset. Dery sta operando dietro le quinte per fermare il voto, consapevole che nuove elezioni potrebbero compromettere la sua influenza. Netanyahu, pur poco coinvolto nella questione della coscrizione, è molto attivo nel tentativo di impedire che la proposta di scioglimento arrivi al voto, temendo che possa innescare la fine anticipata della legislatura. Per convincere i partiti religiosi a temporeggiare, il premier ricorre anche alla retorica della minaccia iraniana e dell’instabilità regionale. Tre sono gli scenari possibili per oggi: il raggiungimento di un compromesso sulla legge di coscrizione; l’approvazione del disegno di legge per lo scioglimento, spinti dalle pressioni rabbiniche; oppure, il più probabile, un nuovo rinvio mascherato da “negoziati” per guadagnare tempo. Ma la tensione resta altissima, e l’equilibrio della coalizione sembra appeso a un filo.
«Papà ti voglio bene. Mi dispiace dirlo, ma ora aspetto solo il tuo funerale». Dopo 614 giorni di attesa, la famiglia Yakov potrà finalmente dare l’ultimo saluto a Yair, 59 anni, ucciso il 7 ottobre 2023 dai terroristi palestinesi nel kibbutz Nir Oz. Il suo corpo è stato portato a Gaza e per un anno e otto mesi i figli Or, Yagil e Shir hanno atteso di poter dare al padre una degna sepoltura. «Grazie alle Idf e allo Shin Bet per il recupero, spero che porteremo gli altri ostaggi a casa in un accordo che non metta in pericolo i soldati», ha commentato Yagil, ringraziando le forze di sicurezza per il recupero della salma del padre. Il corpo di Yair è stato recuperato a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, insieme alla salma di un altro ostaggio ancora non identificato, membro del kibbutz Nir Oz. L’operazione è il risultato di un lavoro di intelligence portato avanti per mesi, riferiscono i quotidiani locali. Entrambe le salme sono state trasferite in Israele e identificate presso l’Istituto di medicina legale di Abu Kabir. «Spero che la loro sepoltura possa offrire un momento di consolazione alle famiglie e alla comunità di Nir Oz», ha dichiarato il presidente israeliano Yitzhak Herzog. «Onoriamo il coraggio e l’impegno dei soldati e dell’intelligence che continuano a lottare per riportare tutti i nostri ostaggi a casa». Yair Yaakov, conosciuto da tutti come “Yaya”, era un uomo di kibbutz, di terra, di famiglia, ha raccontato la sorella Yarden. Lavorava nell’officina del kibbutz Alumim, amava la musica e la semplicità: il sole, una birra fresca con gli amici. La sua casa a Nir Oz era la sua fortezza, quella stessa casa fatta esplodere dai terroristi il 7 ottobre, l’unica del kibbutz a subire quel destino. “Oggi lì si trova un enorme cratere”, ha sottolineato Yarden. Quella mattina del 7 ottobre, mentre l’attacco al kibbutz Nir Oz infuriava, Yair ha cercato di mettere in salvo la sua compagna, Meirav Tal, chiudendosi con lei nel rifugio antimissile e opponendosi con tutte le forze all’irruzione dei terroristi. Dall’altra parte della porta, gli uomini di Hamas lanciavano granate e sparavano a ripetizione. Meirav ha lasciato una registrazione disperata alla famiglia: «Sono dentro casa, sparano contro il rifugio. Yaya sta tenendo la porta. Aiutatemi, ci hanno sparato, Yaya è ferito». È stata l’ultima testimonianza di quel momento. I terroristi sono riusciti a entrare facendo esplodere il muro del rifugio e hanno portato via entrambi. Intanto, in un’abitazione vicina, i figli di Yair, Or e Yagil, venivano rapiti dalla casa della madre. Anche loro sono stati portati a Gaza. Sono stati rilasciati a fine novembre 2023, dopo 51 giorni di prigionia, nell’ambito del primo accordo di cessate il fuoco. Meirav è stata liberata il giorno seguente. Ma Yair, fin da subito, risultava disperso. I famigliari hanno sperato e pregato per avere buone notizie, ha ricordato la sorella. Poi, a febbraio, è arrivata la notizia più temuta: Yair era stato ucciso il 7 ottobre, e il suo corpo era ancora detenuto a Gaza. Il 15 febbraio, dopo l’annuncio ufficiale della sua morte, Yagil, 13 anni, ha scritto un messaggio di addio al padre: «Papà, papà, eri tutto per me. Mi manchi, e non solo a me, ma a tutti. Quando sono venuti a darci la notizia, stavamo per andare a un concerto. Poi mamma è tornata indietro e non capivo il perché. Mi ha detto che stava arrivando l’ufficiale. A quel punto avevo già un brutto presentimento, ma speravo che non fossi tu, papà. Mi manchi tantissimo, non capisci quanto». Un messaggio concluso con una richiesta al padre: «Ti voglio bene più di ogni altra cosa. Veglia su di noi dal cielo, tu e il nonno».
Tensione alle stelle tra Stati Uniti, Iran e Israele
Muscat ospiterà nuovi colloqui nucleari mentre cresce l’allarme per un possibile attacco israeliano
di Anna Balestrieri
Nel fine settimana Muscat, capitale dell’Oman, ospiterà un nuovo e delicato round di colloqui tra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare della Repubblica Islamica. Lo ha confermato il ministro degli Esteri omanita Badr Albusaidi, annunciando che si tratterà della sesta tornata di negoziati, con un incontro previsto domenica tra l’inviato speciale USA Steve Witkoff e il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi. Il clima intorno al tavolo è tutt’altro che disteso. Secondo diverse fonti americane, Israele sarebbe pronto a lanciare un attacco preventivo contro le infrastrutture nucleari iraniane, nel timore che Washington e Teheran siano vicine a un’intesa che non risponderebbe alle preoccupazioni israeliane sull’arricchimento dell’uranio. Sebbene gli Stati Uniti non appoggino ufficialmente un’azione militare israeliana, la tensione è palpabile anche sul versante americano. NBC e CBS riportano che il Dipartimento di Stato e il Pentagono hanno autorizzato l’evacuazione di alcuni funzionari e delle loro famiglie dalla regione, temendo ritorsioni iraniane contro il personale statunitense in Iraq. Teheran, intanto, fa sapere attraverso fonti citate dal New York Times di essere pronta a reagire immediatamente in caso di attacco, con un piano simile a quello attuato nell’ottobre 2024, quando lanciò circa 200 missili balistici contro Israele. In quella occasione, la maggior parte dei missili fu intercettata, ma ci furono vittime e feriti. L’Iran ha inoltre avvertito che, in caso di raid israeliano, considererebbe gli Stati Uniti corresponsabili e colpirebbe anche obiettivi americani nella regione. Sul fronte diplomatico, Steve Witkoff, intervenuto in un evento a New York, ha ribadito con forza che l’Iran non deve mai ottenere la capacità di sviluppare armi nucleari. Ha definito la Repubblica Islamica una minaccia esistenziale non solo per Israele, ma per l’intero mondo libero, sottolineando l’importanza di un fronte internazionale compatto contro Teheran. In un momento di alta tensione, Muscat potrebbe rappresentare l’ultima occasione per evitare un’escalation militare. Ma il tempo stringe e le dichiarazioni pubbliche, da entrambe le parti, lasciano intendere che le possibilità di compromesso siano sempre più fragili.
Pierre-André Taguieff è uno dei più autorevoli intellettuali europei contemporanei nel campo della scienza politica e della storia delle idee. Appassionato fin da giovane di cultura ebraica, Taguieff si è affermato come uno dei più importanti studiosi di antisemitismo, razzismo e antirazzismo. Direttore di ricerca presso il CNRS (Centre national de la recherche scientifique), ha insegnato per molti anni all’Institut d’études politiques di Parigi. Ha accettato di rispondere alle domande de L’Informale.
- Prof. Taguieff, Sentiamo spesso dire «non sono antisemita, ma antisionista». Come possiamo definire l’antisionismo contemporaneo? Lei usa il termine «antisionismo radicale», cosa intende? La sua domanda merita una risposta articolata: è opportuno distinguere i quattro significati principali del termine «antisionismo» che, nelle controversie, spesso interferiscono e si sovrappongono. Elenchiamoli brevemente: 1) L’opposizione al progetto sionista così come è stato definito alla fine del XIX secolo, sulla scia del grande precursore Moses Hess (Roma e Gerusalemme. L’ultima questione delle nazionalità, 1862), da Leo Pinsker nel 1882 (Auto-emancipazione), poi da Theodor Herzl che, nel 1896, pubblica Der Judenstaat. Si tratta quindi del rifiuto dell’idea sionista, cioè del movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico; 2) la critica alla politica israeliana, una critica che può essere sistematica o meno. Nel primo caso, essa esprime la volontà di delegittimare lo Stato di Israele qualunque cosa faccia; nel secondo caso, si riduce a una critica politica di questa o quella decisione o azione, che può essere giustificata o meno; 3) La denuncia del «sionismo mondiale», che spesso assume una forma complottista e ricicla gli stereotipi associati alla figura mitica dell’«ebreo internazionale» o a quella dei «Saggi di Sion», dotati di un potere smisurato. Il mito antiebraico per eccellenza, quello della «cospirazione ebraica internazionale», si è trasformato in «cospirazione sionista mondiale»; 4) La negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele, nonché il progetto e la volontà di distruggere questo Stato-nazione ritenuto illegittimo per sostituirlo con uno Stato palestinese o uno Stato islamico. Questa è la caratteristica principale di ciò che io chiamo antisionismo radicale o assoluto. È nota la minacciosa profezia del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna, citata nel preambolo della Carta di Hamas, resa pubblica nell’agosto 1988, «Israele sorgerà e rimarrà in piedi finché l’Islam non lo eliminerà, come ha eliminato i suoi predecessori». La profezia viene regolarmente ripetuta dai predicatori musulmani che partecipano alla propaganda palestinese. È principalmente in riferimento a questo antisionismo islamista sterminatore che si può definire l’antisionismo radicale non solo come la principale figura contemporanea della giudeomisia, ma anche come una forma contemporanea di razzismo, particolarmente perversa e sottile, poiché si richiama all’antirazzismo e all’anticolonialismo. Se infatti il sionismo è una «forma di razzismo» associata a un’impresa coloniale e se Israele è uno «Stato razzista» o uno «Stato di apartheid», allora la distruzione di quest’ultimo è un obiettivo prioritario della lotta antirazzista. Per i nemici incondizionati dello Stato di Israele, il significato politico della parola «antisionismo» si è così ridotto all’accoppiamento di due posizioni di principio: l’antirazzismo e l’anticolonialismo. L’evidenza ideologica si è affermata: essere antirazzisti e anticolonialisti significa necessariamente essere antisionisti.
- Avrà notato anche lei, che l’odio verso Israele assume tratti religiosi. Da dove deriva questa avversione ossessiva? L’antisionismo sterminatore funziona anche e soprattutto come antisionismo redentore, svelando la dimensione teologico-religiosa, persino gnostica, attraverso la visione manichea che presuppone, del jihadismo antiebraico. Le sinistre rivoluzionarie, dette «radicali», che credono ancora che la violenza sia «l’arma dei poveri», proiettano sui jihadisti palestinesi, seguaci della presunta «religione dei deboli», le loro utopie e le loro aspettative messianiche di un grande cambiamento purificatore. E, di conseguenza, criminalizzano e demonizzano i «sionisti», fino a nazificarli trasformandoli in esecutori di un «genocidio». Questa operazione, diciamo la nazificazione dei «sionisti», era stata identificata e analizzata già alla fine degli anni ’60, dopo la guerra dei Sei Giorni, da due grandi autori, il filosofo Vladimir Jankélévitch e lo storico Léon Poliakov.
- Non solo politica quindi… No. Qui non siamo semplicemente nel campo politico, perché il progetto di distruggere Israele assume per i suoi promotori un significato apocalittico e redentore. Diciamo che credono di poter salvare il genere umano – qualunque sia la loro definizione di esso – eliminando il «cancro» che lo minaccia di morte. Ricorrono spesso alla metafora medica e patologizzante del «cancro» per giustificare l’operazione chirurgica che, secondo loro, salverebbe il genere umano. Vogliono così, senza saperlo, annullare quello che bisogna chiamare il «miracolo» della nascita di Israele. I nemici di Israele sognano una seconda Shoah, commessa questa volta in nome dei «diritti umani» e di un «antirazzismo» perverso, diventato il rifugio e l’alibi dei nuovi nemici degli ebrei. Dall’inizio degli anni ’70, le propagande anti-israeliane – in primo luogo quella arabo-musulmana e quella sovietica – infatti convergerono per rendere ideologicamente accettabile l’equazione «sionismo = razzismo», in linea con l’equazione «sionismo = colonialismo», lanciata all’epoca della decolonizzazione. Con l’ascesa al potere in Iran dell’ayatollah Ruhollah Khomeini – noto per il suo odio «teologico» verso gli ebrei –, la demonizzazione del sionismo e di Israele, estesa a quella degli ebrei designati come nemici dell’Islam, ha occupato un posto centrale nella propaganda islamista, che metteva in primo piano la questione palestinese e invocava il jihad contro gli ebrei. «Incarnazione del male», gli ebrei sono descritti da Khomeini come un «gruppo astuto e ingegnoso» che lotta per il «dominio ebraico» sui musulmani e «vede la distruzione dell’Islam come una tappa essenziale per il raggiungimento dei propri obiettivi». L’amalgama polemico tra «sionismo» e «imperialismo» è una costante della retorica «antisionista» diffusa dalla propaganda sovietica, poi ripresa dall’estrema sinistra, da una parte della sinistra e dai paesi arabi, nonché dall’Iran.
- Quale ruolo gioca la sinistra occidentale in questo apocalittismo politico? Come dicevo, l’antisionismo radicale può essere definito come uno pseudo-antirazzismo razzista, il cui obiettivo è la totale delegittimazione di Israele, preliminare alla sua distruzione. L’israelicidio è la verità della propaganda antisionista. Piuttosto che di antisemitismo, neoantisemitismo, antigiudaismo o giudeofobia, sarebbe meglio parlare in questo caso di «giudeomisia», come ho proposto, poiché non si tratta di paura (phóbos) ma di odio (mîsos), inoltre, l’opposizione tra «semiti» e «ariani» non è più attuale. Con l’antisionismo radicale, l’odio verso gli ebrei si è globalizzato ed è entrato in una nuova era. E questo proprio nel momento in cui l’odio verso l’Occidente, che potremmo chiamare «esperomisia» (Esperia, in greco «terra del tramonto»), sta per succedere all’esperofobia, la vecchia paura dell’Occidente imperialista e colonizzatore. Nel gioco delle passioni negative politicizzate, l’odio prevale sulla paura, un odio che sogna di far scomparire il suo oggetto. Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare all’indomani del processo di Norimberga, la storia dei progetti di «giudeocidio» non è finita. L’antisionismo radicale trae quindi gran parte del suo potere di seduzione dalla sua riuscita strumentalizzazione del neo-antirazzismo. Ma quest’ultimo si inscrive a sua volta nello spazio «neo-sinistrorso», in formazione dagli anni ’90. È in questo spazio politico-culturale di estrema sinistra che è stato intellettualizzato. Chiamo «neo-sinistroidi» i nuovi sinistroidi che, pur affermandosi classicamente come anticapitalisti e anti-imperialisti, si caratterizzano per la loro critica radicale al repubblicanesimo alla francese (ridotto a una forma di nazionalismo), dal loro rifiuto della laicità (che alimenterebbe e maschererebbe l’islamofobia), dai loro pregiudizi islamofili (l’Islam percepito come la «religione dei poveri» o degli «oppressi») o addirittura «islamismofilia» (l’islamismo esaltato come movimento di resistenza nato dalla rivolta delle vittime dell’islamofobia), dal loro antirazzismo razzista (che io chiamo «neo-antirazzismo») che consiste nell’accusare «i bianchi» di tutte le disgrazie dei popoli «non bianchi», al loro neo-femminismo misandrico (contro «l’eteropatriarcato») e intersezionale, fino al sostegno al postcolonialismo e al decolonialismo, modo per loro di rimanere marxisti, e a una gnosi ecologista incentrata su visioni apocalittiche accompagnate da una ricerca permanente dei colpevoli delle disgrazie del pianeta (il nemico davanti all’intera umanità), infine dal loro antisionismo radicale (il sionismo ridotto a colonialismo, imperialismo e razzismo), inseparabile dal loro odio per l’Occidente (denunciato come intrinsecamente sfruttatore, predatore e genocida).
- Assistiamo, dunque, al sovrapporsi e all’intrecciarsi di due forme di odio… Esatto. Ormai, l’odio per gli ebrei e l’odio per l’Occidente si intrecciano, al punto che si può affermare che giudeomisia fa rima con espersomisia come giudeofobia faceva rima con esperofobia. Essendo associati i due obiettivi principali, gli ebrei e gli occidentali; è in atto il passaggio dalla paura all’odio. L’odio verso l’Occidente giudaico-cristiano è oggi inseparabile dall’odio verso Israele e il «sionismo mondiale».
- Oggi, dunque, è possibile odiare gli ebrei in nome dei valori democratici e dei diritti umani. L’accettazione dell’odio antiebraico è stata accompagnata da un grande ribaltamento dei ruoli assegnati ai «sionisti» e ai loro nemici: questi ultimi, nella loro lotta finale contro «l’entità sionista», hanno potuto rivendicare l’antirazzismo, l’anticolonialismo e l’antifascismo, quindi valori riconosciuti come democratici o umanistici. La causa palestinese si è confusa con la causa antisionista per essere elevata a «causa universale». È in nome della morale universale, dei diritti umani e del diritto internazionale, che viene ora giustificato e celebrato il progetto di eliminare lo Stato di Israele. Contrariamente al genocidio nazista, compiuto in nome della difesa della «razza ariana» contro il «pericolo ebraico», l’israelicidio programmato dagli antisionisti radicali trova la sua legittimazione nell’imperativo primario della nuova morale umanitaria di ispirazione vittimistica: difendere e salvare dal «genocidio» questo popolo di vittime ereditarie che sarebbero «i palestinesi». La struttura che accoglie questo odio antiebraico accettabile è un democratismo iperbolico il cui motore è soprattutto passionale, definibile come un misto di empatia e compassione nei confronti delle presunte vittime dei «sionisti», a loro volta nazificati. Come si può osare difendere i «dominanti», gli «oppressori», i «razzisti» e i «colonialisti» contro i «dominati», gli «oppressi», i «razzializzati» e i «colonizzati»? I «sionisti» si sono trasformati in «fascisti», se non addirittura in «nazisti», che, dalla risposta militare israeliana al mega-pogrom del 7 ottobre 2023, sono accusati di commettere un «genocidio dei palestinesi». Da quando è diventata credibile e diffusa a livello mondiale, questa grande inversione vittimistica è sufficiente a rendere non solo accettabile, ma altamente desiderabile il progetto di un israelicidio. Si riconosce l’idea guida: con l’antisionismo «democratico» e «umanista» o «umanitario», le barriere imposte dal senso di colpa sono state gradualmente eliminate, lasciando campo libero all’odio omicida che si esprime comodamente in nome della giustizia, del rispetto dei diritti umani e della pace. Nel discorso antisionista globalizzato, il bersaglio ebraico è stato allo stesso tempo ridefinito: la denuncia del «sionismo mondiale», incarnazione della chimera nota come «lobby ebraica» universale, ha marginalizzato quella del sionismo come forma detestabile di nazionalismo avvolto dall’etnocentrismo e dalla xenofobia. Il «sionismo», così come è ora demonizzato, ha assunto la figura estremamente inquietante di un pan-sionismo o di un pan-giudaismo, ovvero di un imperialismo o di un suprematismo ebraico senza confini. Coloro che credono nell’esistenza di questa iperpotenza espansionista e spietata, tanto più dannosa in quanto invisibile ai comuni mortali, sono presi dal terrore. È così che l’odio totale genera una grande paura.
- Ancora una volta i Protocolli. Quale ruolo giocano ancora nel panorama attuale? Dopo la sconfitta della coalizione araba all’inizio di giugno 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni, si è assistito a un’intensificazione dell’uso politico dei Protocolli e dei testi complottisti da essi derivati. Era necessario spiegare la sconfitta delle armate arabe da parte del piccolo Stato di Israele senza mettere in dubbio il coraggio dei combattenti né la competenza dei loro capi. Il mito del grande «complotto sionista», che implicava l’intervento di una presunta superpotenza «sionista», permetteva di salvare l’onore dei «fieri arabi». I Protocolli furono quindi utilizzati nella lotta contro Israele e il «sionismo mondiale», espressione polemica che designava l’entità chimerica che, nella mitologia «antisionista», ha preso il posto del «giudaismo mondiale» o della «giudaicità internazionale» denunciati un tempo dagli ideologi cattolici o protestanti tradizionalisti e dai propagandisti nazisti, tutti seguaci della visione cospirazionista della Storia. Nel 1985, nell’Iran dell’ayatollah Khomeini, l’Organizzazione per la Propaganda Islamica pubblica a Teheran una ristampa dell’edizione libanese del novembre 1967, con lo stesso titolo: Protocolli dei Saggi di Sion. Testo completo conforme all’originale adottato dal Congresso sionista a Basilea (Svizzera) nel 1897. In tutti i testi che, ispirandosi ai Protocolli, denunciano la «cospirazione sionista mondiale», quest’ultima ha un obiettivo finale: il dominio del mondo da parte degli ebrei. In altre parole, «ebrei» e «sionisti» funzionano come sinonimi. La «cospirazione ebraica internazionale» e la «cospirazione sionista mondiale» hanno lo stesso riferimento.
- Come si spiega il successo di un falso così grossolano? È necessario sottolineare l’importanza dei miti antiebraici nella storia delle configurazioni antiebraiche. La mia tesi è la seguente: se il mito della cospirazione sionista mondiale è al centro dell’antisionismo radicale, è perché questo mito, apparso nel corso del XX secolo, si colloca all’incrocio di tutti gli altri miti antiebraici. Li attrae e li ingloba o li integra. Funziona nei loro confronti come una calamita e un operatore di sintesi di tutti i tipi di accuse mosse contro gli ebrei. Le passioni antiebraiche sono inseparabili dai racconti in cui gli ebrei sono demonizzati, patologizzati o criminalizzati, definiti da attributi essenzialmente negativi. Ora, «un mito è in un certo senso invulnerabile», perché «è impermeabile alle argomentazioni razionali e non può essere confutato dai sillogismi», come osservava Ernst Cassirer in Il mito dello Stato.
- I “Protocolli” sono transitati in terra islamica, producendo un mix esplosivo di odio religioso e cospirazionismo. Cosa può dire a riguardo? La tematica cospirativa antiebraica di origine europea è stata poi integrata e ritradotta nel discorso islamista, dando vita al mito del complotto sionista mondiale, elemento centrale della propaganda antisionista a partire dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948. Così, nel suo opuscolo La nostra lotta contro gli ebrei, pubblicato all’inizio degli anni Cinquanta e diventato un testo di riferimento per la maggior parte dei movimenti islamisti, il Fratello Musulmano Sayyid Qutb definisce gli ebrei come cospiratori, bugiardi e criminali, identificandoli come i più antichi e temibili nemici dell’Islam.
- Come si diventa odiatori degli ebrei? Si entra nell’antisemitismo attraverso uno dei miti antiebraici che, diventando oggetto di fede, spinge a credere in altri miti. Sono tante le porte d’accesso all’immaginario antiebraico, al credere giudeofobo, tanti i passaggi verso lo spazio della giudeofobia. Attraverso un meccanismo di conferma, le credenze antiebraiche, accumulandosi, si rafforzano a vicenda. Aprire una porta significa trovarsi nella condizione di aprirne altre. Certo, è raro osservare che un antisemita convinto enunci tutta la sequenza delle accuse trasformate in dogmi di fede. Così, ad esempio, presso antisemiti anticristiani come Eugen Dühring o Louis-Ferdinand Céline, non si trova l’accusa di deicidio. Più spesso, il soggetto antiebraico seleziona e gerarchizza, in base al contesto storico-sociale, alle proprie inclinazioni ideologiche e alle circostanze, i temi accusatori, attingendo liberamente e pragmaticamente al repertorio di stereotipi disponibili. I racconti antiebraici si presentano come combinazioni variabili di temi, credenze e rappresentazioni. Il soggetto astratto e ripugnante, il contro-tipo che tutti questi racconti accusatori contribuiscono a costruire, è «l’ebreo»: cioè il popolo ebraico essenzializzato, o più esattamente la sua rappresentazione, accompagnata da un insieme di tratti negativi. È per questo che si parla, seguendo Leo Pinsker e Raymond Aron, di «odio astratto», che, demonizzando una categoria di popolazione, impone una visione manichea del mondo. Si ricordi la tesi fondamentale di Sartre nelle Riflessioni sulla questione ebraica (1946): «L’antisemitismo è una concezione del mondo manichea e primitiva, in cui l’odio verso l’ebreo occupa il posto di grande mito esplicativo». Il contro-tipo, «l’ebreo», è così costruito da coloro che lo odiano e lo temono come il nemico satanico del genere umano e di Dio, il criminale per eccellenza, lo sfruttatore o truffatore per vocazione, il bugiardo per natura, il parassita e il cospiratore nato. I teorici rivoluzionari dell’ultimo terzo del XIX secolo arricchirono lo stock di queste accuse demonizzanti contro i «Semiti» o gli «Ebreo». Il blanquista e comunardo Gustave Tridon, nel suo libro postumo Del molochismo ebraico (1884), accusa gli ebrei di praticare un cannibalismo rituale – «Il tempio semitico è un lupanare che si bagna nel sangue» e la Pasqua ebraica, o Pesach, sarebbe stata all’origine «un banchetto di cannibali» – di essere privi di sentimento patriottico e di aver introdotto l’intolleranza nelle società umane – «L’intolleranza è l’eredità semitica al nostro mondo».
- Lei ha parlato di israelicidio, cosa intende? A partire dagli anni Cinquanta, si è assistito a una lenta reinvenzione di una visione antiebraica del mondo, all’invenzione di una giudeofobia post-nazista paradossale, poiché ricicla molte credenze e rappresentazioni dell’antisemitismo nazista, integrandole nella visione cosiddetta «antisionista». Questa nuova configurazione antiebraica appare dunque al contempo post-nazista e neo-nazista. La creazione dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948, nonostante il rifiuto arabo e musulmano che si è tradotto in una serie di conflitti armati, è stata denunciata come una «catastrofe» o un crimine dai nemici del progetto sionista. La ri-demonizzazione degli ebrei si è attuata attraverso la demonizzazione di Israele e del «sionismo» immaginato in modo complottista come «sionismo mondiale», cioè come manifestazione e mascheramento di un progetto ebraico di dominio universale. Parallelamente, mentre i palestinesi sono stati mitizzati come vittime, parte di un popolo martire, i «sionisti» sono stati criminalizzati dalle propagande antisioniste. Per gli ideologi islamo-palestinisti, l’israelicidio si iscrive in un programma di sterminio più ampio, nient’altro che un giudeocidio da compiersi in tutte le regioni del mondo. La lotta nazionalsocialista contro l’«ebraismo mondiale» è stata ritradotta nella retorica della propaganda islamista come lotta contro il «sionismo mondiale». L’«ebreo internazionale» si è trasformato in rappresentante del «sionismo mondiale» Ma, in questa prospettiva, tutti gli ebrei, israeliani o meno, dichiaratamente sionisti o meno, sono immaginati come membri di uno stesso gruppo transnazionale, concepito come una setta conquistatrice, la cui esistenza rappresenta una minaccia mortale per l’umanità e che, di conseguenza, va eliminata con ogni mezzo. L’antisionismo radicale o sterminatore rappresenta la più recente forma storica assunta dall’odio contro gli ebrei, che lo si chiami antigiudaismo, giudeofobia, antisemitismo o «giudeomisìa». Il suo obiettivo è legittimare la distruzione di Israele e realizzare una «pulizia etnica» antiebraica della «Palestina liberata», banalizzando l’assimilazione polemica di Israele a uno «Stato razzista» o di «apartheid», «colonialista», «criminale» e «genocidario», mentre «sionizza», cioè demonizza, tutti gli ebrei, considerati come nemici dell’umanità che devono quindi essere sterminati. L’antisionismo radicale è una macchina per l’eradicazione.
- Genocidio non è quello compiuto da Israele a Gaza, ma quelle desiderato dai suo nemici. La risposta militare di Israele al mega-pogrom del 7 ottobre 2023 come un’operazione di denazificazione della Striscia di Gaza. Ma il rovesciamento vittimario non ha tardato a emergere nei discorsi della propaganda antisionista. Gli ambienti di sinistra occidentali affiliati all’islamo-palestinismo, in particolare nel mondo accademico e culturale, hanno iniziato ad accusare Israele — vittima di un massacro d’ispirazione genocidaria e quindi in stato di legittima difesa — di compiere un «genocidio» nella Striscia di Gaza. In assenza di una volontà genocidaria che possa essere provata, l’accusa rientra nella propaganda di guerra, in cui ogni menzogna è ammessa. Il 29 dicembre 2023, ciò nonostante, il Sudafrica ha presentato alla Corte internazionale di giustizia (CIJ) dell’Aia un ricorso contro lo Stato di Israele per «atti genocidari commessi contro il popolo palestinese». La nazificazione del «sionismo» e di Israele è così ripartita con nuova forza. In conclusione possiamo dire che il genocidio è l’orizzonte dell’antisionismo, divenuto una visione del mondo strutturata dalla demonizzazione del nemico unico (l’ebreo-sionista) e da un programma di «purificazione» del genere umano, che implica la distruzione della «entità cancerogena» chiamata Israele.
Gli ultraortodossi non temono che i loro figli muoiano in guerra, temono che vivano come non-ultraortodossi
di Yehuda Dov
GERUSALEMME — Il Professor Yuval Elbashan è il preside del dipartimento di Giurisprudenza dell’Ono Academic College, ed è stato responsabile dell’integrazione di migliaia di ultraortodossi nel mondo accademico. Scrittore secolare e attivista sociale, Albashan ha ricevuto diversi premi per il suo lavoro nel rafforzamento della società israeliana. Nel seguente articolo, discute la possibilità dell’integrazione degli ultraortodossi nelle IDF e respinge l’assunzione che temano che i loro figli muoiano in combattimento. Non esiste compito nazionale più urgente o importante dell’integrazione degli ultraortodossi nelle IDF. È moralmente giusto ed è una necessità di sicurezza. Perché questo accada, non solo gli ultraortodossi devono cambiare, ma anche le IDF—e tutti noi. Questa è la verità. Scrivo questo basandomi su decenni di esperienza nell’integrare gli ultraortodossi nei sistemi legali e accademici di Israele. Mi ci è voluto molto tempo per riconciliare la dissonanza tra coloro che hanno scelto di vivere una vita di ardua osservanza religiosa per il bene della continua esistenza del popolo ebraico, e il loro rifiuto di prendere parte al dovere più sacro di tutti—senza il quale, a mio avviso, il popolo ebraico non sopravviverà. All’inizio, ho risolto questo conflitto semplicemente dubitando della sincerità degli ultraortodossi. Presumevo che “loro” non credessero veramente in “Questa è la Torah: un uomo che muore in una tenda” (Numeri 19:14)—ma piuttosto trovassero conforto nascondendosi in quella tenda per evitare di adempiere agli obblighi che si applicano a tutti noi. Col tempo, sono arrivato a comprendere il mio errore — che veramente non c’è conflitto. Gli ultraortodossi credono genuinamente che una vita non vissuta secondo il loro modo sia peggiore della morte. Ecco perché si rifiutano di mandare i loro figli nell’esercito — non perché temono che potrebbero morire in combattimento (come i nostri figli), ma perché temono che se sopravvivono, potrebbero vivere come i nostri figli — come non-ultraortodossi. E proprio come noi ci rifiuteremmo di mandare i nostri figli in battaglia senza un giubbotto protettivo per i loro corpi, loro si rifiutano di mandare i loro figli nell’esercito senza un “giubbotto ideologico” per proteggere le loro anime. Questo è esattamente il motivo per cui è stata istituita la “Brigata Hashmonaim“. Il Capo delle Risorse Umane delle IDF, Maggior Generale Yaniv Asor, è riuscito a ottenere l’approvazione tacita di molti rabbini impegnandosi che l’esercito garantirà che “un ultraortodosso che entra—esce come ultraortodosso“. Pertanto, non ci sono non-ultraortodossi nella brigata — né donne, né ebrei secolari, né ebrei nazional-religiosi. Nella fase iniziale, solo per necessità, sono inclusi comandanti nazional-religiosi, incaricati di addestrare la prima generazione di combattenti ultraortodossi — pur essendo obbligati a non portare l’ideologia di Rav Kook nella brigata. Simbolicamente e praticamente allo stesso modo, anche i telefoni utilizzati devono essere kosher. Il “giubbotto ideologico” è ulteriormente rafforzato attraverso il battaglione di riserva della brigata, composto da ex soldati di combattimento che ora conducono stili di vita ultraortodossi. Servono come modelli di riferimento e aiutano a mantenere le norme religiose. Questi sono solo alcuni esempi dei tremendi sforzi delle IDF, dando una reale possibilità al mainstream ultraortodosso di arruolarsi—non solo a coloro che l’hanno lasciato o ne sono stati espulsi (come in altre unità combattenti). Ma anche in questa fase iniziale, ci sono coloro che cercano di sabotare lo sforzo. Per esempio, quando è stato rivelato che alcune mogli di soldati sono state reclutate per sostenere le famiglie di altri combattenti, i puristi dell'”uguaglianza” hanno gridato di nuovo, chiedendo perché questo beneficio non fosse esteso a tutte le spose militari. Hanno ignorato il fatto che queste sono famiglie ultraortodosse, che in questa fase di integrazione mancano di sistemi di supporto civile e non possono essere aiutate da tipiche ufficiali del welfare femminili a causa di barriere culturali. Per loro, non importava. Il punto principale, dal loro punto di vista, era un’altra “prova” che gli ultraortodossi ottengono “qualcosa di diverso”, e basandosi su quello, è arrivata una rinnovata richiesta di cancellarlo — presumibilmente nel nome della “uguaglianza”. Non solleverei questo se non fosse per il fatto che questa è la stessa strategia usata da coloro che hanno cercato (e in larga misura sono riusciti) di uccidere l’idea dell’accademia ultraortodossa. Quell’iniziativa mirava a permettere agli uomini e alle donne ultraortodossi di ottenere un’educazione accademica in istituzioni separate e private adatte al loro modo di vita — così da poter poi unirsi alla forza lavoro generale. Piccoli ma altamente influenti e irresponsabili gruppi di interesse hanno imposto varie linee guida (come il divieto di giorni separati per genere nelle biblioteche universitarie in quelle istituzioni private), portando a un calo nella partecipazione accademica ultraortodossa. La maggior parte di coloro che rimangono non proviene dalla comunità ultraortodossa mainstream. Il prezzo è pagato non solo dagli uomini e dalle donne ultraortodossi, che sono costretti a rimanere in mercati del lavoro isolati con prospettive limitate—ma dalla società israeliana nel suo insieme, che ha bisogno di loro. Non dobbiamo permettere a queste forze di agire similmente quando si tratta del servizio militare. Gli ultraortodossi porteranno la barella del servizio militare solo quando quella barella sarà separata e su misura per le loro spalle. Se alle eccellenti persone della Caserma Hashmonaim sarà permesso di continuare il loro lavoro senza interferenze, potrebbe proprio accadere—e allora, anche se su barelle separate, tutti marceranno insieme come l'avanguardia davanti ai vostri fratelli, tutti i guerrieri” (Deuteronomio 3:18.)
(Vinnews.com, 8 giugno 2025)
In 10 tappe le storie della Roma che ha protetto gli ebrei durante il nazifascismo
Un percorso in dieci tappe, per raccontare la Roma che durante l’occupazione nazifascista non solo non ha denunciato ma con coraggio ha protetto ebrei e perseguitati politici. È il progetto avviato nei giorni scorsi, promosso dall’associazione “Best Practices Award. Mamma Roma e i suoi figli migliori”. «Un percorso che permetterà ai romani di conoscere storie poco note di coraggio e ospitalità che proponiamo nell’anno dell’80° della liberazione d’Italia e del Giubileo. Una scelta che vuole evidenziare il ruolo delle parrocchie romane in quegli anni», dichiarano Paolo Masini e Maria Grazia Lancellotti, promotori del progetto e, rispettivamente, presidente di Roma BPA e referente della rete di scuole “Memorie, una città, mille storie”. A raccontare queste storie infatti saranno proprio le case dei romani e le parrocchie, attraverso le voci narranti di tanti attori e attrici che si sono messi a disposizione del progetto. Tra questi Valerio Mastandrea, Elio Germano, Monica Guerritore, Neri Marcorè, Enzo Decaro, Massimo Wertmuller, Corrado Augias, Giovanni Scifoni, Angela Finocchiaro, Marco Paolini, Roberto Ciufoli, Andrea Calabretta. Ogni tappa sarà preceduta da interventi di storici, testimoni e protagonisti. L’ultima tappa è in programma per il 16 ottobre, anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma, con le proiezioni sul muro del Museo della Shoah alla Casina dei Vallati, nel quartiere che fu teatro del rastrellamento feroce degli ebrei romani. Sarà l’occasione per conoscere le storie di coraggio dei romani che hanno consentito a molti ebrei di salvarsi. Un luogo che «ha visto atrocità ma che vuole ora ricordare anche le azioni positive che ci sono state, che è la mission del progetto stesso», spiegano i promotori. In ogni appuntamento sarà raccontata una storia differente, legata al luogo in cui avviene l’evento: dal partigiano che nascose una famiglia di ebrei al Quarticciolo, ai coraggiosi parroci delle differenti chiese che diedero protezioni a studenti, renitenti alla leva e perseguitati,. Un percorso in cui vite differenti si intrecciano, per pochi giorni o a volte per molti mesi.
(ROMASette, 11 giugno 2025)
Molto coraggio, infinita pazienza e forte volontà comunicativa occorrono per provare a mantenere un filo di dialogo in una realtà tanto infame di progetto genocida e odio armato contro il popolo ebraico. Un filo che rischia di venire spezzato da un oceano di menzogne assassine, da una muraglia di falsità fabbricate da menti che superano la guerra psicologica di Goebbels.
Come fondatore e responsabile del Gruppo Sionista della Campania e collaboratore di periodici che difendono la causa di Israele e valorizzano lo splendore della cultura ebraica, sono un condannato a morte per quello che sono. Vivo in semiclandestinità, e per potermi riunire e pregare con gli ebrei in sinagoga devo avere la protezione di due soldati armati che si sono spostati dal portone del palazzo alla porta della Comunità. Mia figlia è molto preoccupata, mi dice di stare attento, ma comprende bene le ragioni ebraiche.
Ogni limite è stato superato, ogni residua inibizione è stata abbattuta. L’antisemitismo/antisionismo non si vergogna più, infuria e impazza con tracotanza, parola armata, atti di omicidio e genocidio, fiume tossico di demonizzazione e de-umanizzazione.
L’adunata plateale a Roma del 7 giugno è stata una dichiarazione di guerra agli ebrei e al loro Stato, diretta continuazione del famigerato discorso di Trieste di Mussolini sull’ “Ebraismo nemico mondiale”. Dal palco, comizi incendiari per uccidere gli ebrei con la parola, per favorire chi li uccide con le armi, arrostisce i bambini nei forni, stupra le donne come atti di guerra fino a spezzarne il bacino, strangola con le nude mani bambini rapiti e dopo ne sevizia i corpi, uccide una bambina autistica e sua nonna perché rallentano la marcia dei mostri infernali.
Gli organizzatori esibiscono il vessillo della sinistra, sono di sinistra, e sono diventati al cento per cento i rappresentanti osceni del fascismo antisemita di oggi. Dal momento che uno sciagurato ex presidente del Consiglio (per caso e per la necessità di avere un vice dei vice per dirimere le baruffe) ha dichiarato che il 7 ottobre 2023 è una “retorica”, l’intera piattaforma dell’adunata si smaschera da sé come antisemitismo genocida senza più remore. Anche i rappresentanti più moderati e concilianti delle comunità ebraiche hanno ovviamente definito tale raduno come antisemita.
L’intifada universale della caccia all’ebreo nel mondo e la potente videocrazia che si fa voce di Hamas, jihadisti e Iran hanno preparato le munizioni all’urlo del palco. È con il linguaggio martellante ossessivo di immagini falsificate, o direttamente false, che si è creato un conformismo ottuso di menti servili. Intanto, con il delirio del 7 giugno, l’intera auto-rappresentazione democratica e riformista della sinistra va in frantumi, ed evidenzia che la sinistra oggi ha preso il posto, per gravità antiebraica, della destra degli anni Trenta del Novecento. Viene liquidata la consapevolezza che il cuore strategico e ideologico del nazifascismo è stato la pianificazione e realizzazione della Shoah, a sua eterna infamia. Questo le consente di assolvere, giustificare o glorificare il nazislamismo antisemita di oggi.
La piattaforma del 7 giugno prepara il terreno per nuovi 7 ottobre, e per una tendenza a una nuova Shoah, che potrà essere più sadica e selvaggia della prima.
Vorrei credere che questa nera realtà turbi il tuo cuore e la tua mente, e possa essere occasione di una scintilla di riflessione e risveglio morale. Nel mondo, l’antisemitismo si espande e si estremizza: in Francia le famiglie ebree tolgono i figli dalla scuola pubblica e li mandano solo nelle scuole ebraiche (minacciate da attentati), i cimiteri ebraici sono ripetutamente profanati e molte sepolture vengono spostate in Israele (dove possono essere soggette ai missili terroristi). Nelle università americane ed europee si pratica la caccia all’ebreo, e molti studenti ebrei devono nascondere la loro identità. Giorno per giorno, uno stillicidio nefasto dell’odio e della cultura della morte sul piano mediatico: così la realtà del popolo ebraico, con i suoi bambini ammazzati e bruciati vivi, diventa il popolo che ammazza i bambini. L’urlo ossessivo impone cifre e mostruosità completamente false.
Le masse credono a Hamas.
Nella storia plurimillenaria dell’antisemitismo/antigiudaismo i bambini ebrei sono stati rapiti e convertiti con la forza, sfracellati sulla roccia dalle SS davanti alle madri, eliminati nelle camere a gas, stuprati davanti alle madri nel 7 ottobre, strangolati con le nude mani nei tunnel di Gaza. Proprio per occultare tale infinito orrore, la guerra ibrida dell’islamonazismo ha fabbricato la leggenda nera degli ebrei di Israele che ammazzano i bambini per uno scopo deliberato. Una leggenda che indurisce i cuori, chiude le menti, fanatizza gli idioti, strumentalizza i trogloditi della demenza digitale.
Se tu conoscessi la realtà degli eventi, la voce degli ebrei perseguitati e minacciati di sterminio, la crudeltà estrema della macchina di guerra della propaganda nazislamica, ti verrebbero dei forti dubbi, un senso scientifico della ricerca della verità e forse, lo spero, un sussulto di coscienza civile.
Il primato dell’etica, segno distintivo e costitutivo della grande civiltà ebraica che, insieme a quella greca classica, è matrice feconda dell’intera civiltà umana universale e del messaggio biblico dell’amore per la prossimità, vengono visti dai neonazisti dell’imperialismo islamico come segni di debolezza, e sfruttati nelle loro tattiche di guerra. Per questo hanno preso e torturato gli ostaggi, hanno costruito una macchina infernale di guerra e sterminio sotterranea, con l’uso cinico e spietato di schiavi e scudi umani, come carne da macello nella loro cultura della morte, nel loro totalitarismo di infinita disumanità. Da qui un intero mondo alla rovescia, fabbricato da mostri infernali che a definirli barbari significa nobilitarli; la mafia, con tutti i suoi crimini odiosi, è un’associazione di gentiluomini a confronto.
Più in basso di così non si poteva andare. Ma è accaduto, e si preparano nuovi abissi morali e fisici, di orrore e di morte.
Individua molto bene la terrificante svolta che sta avvenendo Iannis Roder, noto storico francese, responsabile della formazione presso il Mémorial de la Shoah e di programmi educativi sulla memoria dell’Olocausto, membro di una commissione istituita dal presidente Macron per contrastare la disinformazione e l’odio online.
Roder, su Le Point, ha sviluppato una riflessione chiarificatrice. Perché si è arrivati a demonizzare Israele come genocida, andando oltre le illegali sentenze della Corte penale internazionale sul Primo Ministro e Ministro della Difesa israeliani? La trasformazione della tragedia di Gaza in un genocidio consente di definire l’esercito israeliano come nazista, e fabbricare un nuovo Olocausto genera l’effetto di superare il periodo del senso di colpa verso gli ebrei. Si è creata una realtà malefica che incita a de-umanizzare gli ebrei senza dare l’impressione di essere antisemiti:
“Se l’Olocausto è superato da un Olocausto considerato non meno grave di quello legato alla Shoah, se Israele può essere vilipeso e accusato di uccidere i ‘nuovi ebrei’ proprio come l’antico Israele fu accusato di avere ucciso Gesù, si può tornare a essere antisemiti senza considerare più l’antisemitismo come un male assoluto da combattere, trovando anzi una via elegante per provare a rendere presentabile il nuovo antisemitismo”.
E ancora: “La sinistra dovrebbe sapere meglio della destra cosa significhi ridurre di nuovo ogni ebreo al gruppo a cui appartiene, cancellarlo in quanto individuo” (Edith Bruck, 26 gennaio 2024).
Nazificare Israele con l’accusa di genocidio vuol dire fare un passo decisivo per legittimare la sua scomparsa. Le nuove SS di Hamas vengono ribaltate dall’accusa a Israele. “Essere ebrei – disse Albert Einstein nel 1946 – ci ha insegnato che l’odio può diventare legge, e che il silenzio può diventare complicità.” La pulizia etnica effettiva, quella contro gli ebrei, viene legittimata, e Hamas, il nuovo Isis – viene salutato con i colori “romantici” di un nuovo Che Guevara. Stanno preparando sul piano ideologico una via tragica che conduce a una nuova Soluzione Finale.
Dal palco di Roma si è sentito dire: “Siamo dalla parte giusta della storia”. Ignorano la confutazione scientifica dello storicismo da parte dell’epistemologa di Karl Popper. Ma questo è troppo raffinato per quei cani da guardia e nuovi pretoriani di un regime antisemita, di un antisemitismo di regime. La frase vuol dire che l’antisemitismo di sinistra non è una scelta tattica ma strategica, di cambiamento paradigmatico, con l’autodistruzione dei margini e delle velleità riformiste. Demagogia scatenata, illimitata. Si sa, da Platone in poi, che la demagogia è la via naturale della tirannia.
Il senso complessivo dell’adunata è stato la distruzione di un residuo antifascismo filoebraico a favore di un aggressivo fascismo antiebraico.
Si tratta anche di un attacco ai valori costituzionali proclamati, perché si schierano con l’antisemitismo totalitario del nuovo nazifascismo. E poiché esercitano la dannazione di Israele e non manifestano per i bambini e i civili ucraini massacrati e rapiti dal barbaro regime criminale di Putin, ed evitano di prendere posizioni sul regime dell’Iran che pratica la guerra contro il suo popolo e arma il terrore antiebraico, questo vuol dire che la sinistra antisemita, come collocazione geopolitica, sta dalla parte dei totalitarismi e delle autocrazie, contro le democrazie.
Una nuova realtà che dovrebbe aprire la tua mente. Una certa, auspicabile possibilità di dialogo si può costruire solo a partire da uno sgomberare il campo dalle credenze ottuse nella voce di Hamas e soci. Con tale disintossicazione sarà possibile discutere e affrontare naturali divergenze di opinione e prospettiva. Invece, quando hai definito terroriste esplicite azioni antiterroriste dell’autodifesa israeliana, o quando hai postato foto di equiparazione tra vittime di Auschwitz e di Gaza nel tipico stile della propaganda hitleriana e islamica, non ci siamo proprio. Comprenderai che non sarà possibile un’amicizia in presenza di posizioni e atteggiamenti antisemiti. Thomas Mann scriveva che l’antisemitismo è il facile “socialismo degli imbecilli”, nel senso che il novanta e passa per cento della popolazione non è ebraica. Da qui la comodità di avere gli ebrei come capro espiatorio.
E ora affido la mia anima alla serenità, perseveranza, speranza. Quando di Shabbat o nei giorni di festa vado nella Sinagoga di Napoli, dopo aver superato la vigilanza di due soldati armati e del servizio di sicurezza della Comunità, sento ogni volta il valore immenso di una plurimillenaria civiltà spirituale. La preghiera (tefillah) come dialogo con Dio, la lettura della Torah nella sua infinita proliferazione di senso, il rinnovamento costante del Patto con Dio. Una bellezza carica di senso, una tradizione vivente, un continuo rinnovamento, una fedeltà illimitata, “un modello autocritico” (Jonathan Sacks), una vitalità perenne, la forza di una identità intangibile.
Osservo gli ebrei delle famiglie storiche, di lunga tradizione, e penso: costoro hanno resistito a persecuzioni di generazione in generazione, alla condanna del “deicidio” e oggi del “genocidio”, alla deportazione a Babilonia, alle leggi razziste, alla Shoah e al 7 ottobre, che hanno salutato l’alba del Risorgimento sionista, che amano Israele. E mi prende un senso di infinita ammirazione esistenziale. Quando poi cantiamo l’Hatikvah (fino alla liberazione dell’ultimo ostaggio) con fervore grande e spirito combattivo, si comprende che gli ebrei della diaspora e di Israele sono un solo popolo, che la vita ebraica è indistruttibile, che i mostri infernali falliranno, che l’esistenza-resistenza del nobile popolo ebraico appartiene alla sfera dell’eternità, alla legge morale di Dio.
Non so se potrai comprendere, mi rendo conto che è difficile farlo dall’esterno. Ma dovresti sapere che l’esistenza ebraica non è tanto una fede interiore, ma è un’azione etica.
I media siriani mostrano una minore ossessione per Israele
Sotto il nuovo regime, la stampa siriana ha cambiato atteggiamento nei confronti di Israele. È quanto emerge da uno studio condotto da un think tank israeliano.
GERUSALEMME / DAMASCO - Sotto il nuovo regime, la stampa siriana ha cambiato atteggiamento nei confronti di Israele. Lo dimostra uno studio dell'Istituto per (JPPI) di Gerusalemme. Lo studio giunge alla conclusione che il nuovo presidente ha notevolmente ridotto l'attenzione dei media statali sull'ostilità verso Israele. Al più tardi con l'incontro del presidente Ahmed al-Scharaa con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a Riad, il leader siriano ha trovato il suo posto nella comunità internazionale. Per valutare l'orientamento del nuovo regime nei confronti di Israele, i ricercatori del JPPI hanno condotto un'analisi approfondita di centinaia di articoli di opinione e commenti pubblicati sui principali quotidiani statali siriani. I quotidiani “Al-Hurrija” (La libertà) e “Al-Thawra” (La rivolta) erano entrambi precedentemente associati al regime di Assad e ora fungono da piattaforme ufficiali del nuovo governo. I ricercatori hanno utilizzato strumenti basati sull'intelligenza artificiale per valutare il tono e il sentimento nei confronti di Israele in queste pubblicazioni. Hanno inoltre misurato il volume complessivo della copertura mediatica su Israele prima e dopo il cambio di regime, sulla base delle pubblicazioni dell'agenzia di stampa ufficiale siriana SANA, che continua a operare sotto il nuovo governo. Il confronto si è concentrato sui periodi compresi tra gennaio e maggio di quest'anno e gli stessi mesi dell'anno precedente.
• Il risultato più importante Sotto il nuovo presidente, la copertura mediatica su Israele è diminuita in modo significativo. Mentre sotto Bashar al-Assad Israele era presente in fino al 43% dei servizi della SANA, sotto Al-Sharaa questa percentuale è scesa al 7%. I ricercatori hanno anche analizzato il tono della copertura mediatica confrontando gli articoli di opinione dei due periodi. In “Al-Thawra”, nell'ultimo anno di Assad al potere, quasi il 25% degli articoli di opinione (147 su 595) riguardava Israele, con oltre il 95% classificato come “molto negativo”, un altro 4% come ‘negativo’ e solo lo 0,7% come “leggermente negativo”. Al contrario, sotto Al-Sharaa solo il 5% degli articoli di opinione riguardava Israele. Gli analisti del JPPI sottolineano che un recente studio sui media egiziani ha rilevato che il 30% degli articoli di opinione si concentrava su Israele, sei volte di più che in Siria sotto Al-Sharaa. Oltre al cambiamento in termini di volume, sembra esserci stato anche un leggero cambiamento nel tono. Nell'era Al-Sharaa di “Al-Thawra”, il 65% degli articoli era classificato come “molto negativo”, il 12% come ‘negativo’ e il 6% come “leggermente negativo”, mentre il 18% era classificato come “neutro” – quest'ultima categoria non esisteva l'anno precedente sotto Al-Assad.
• Nonostante l'ostilità dei media, Al-Sharaa sembra aperto alle relazioni con Israele Nel quotidiano filo-governativo “Al-Hurrija”, il tono nei confronti di Israele è rimasto prevalentemente negativo: negli articoli scritti e pubblicati dopo il cambio di regime, il 78% degli articoli era “molto negativo”, l'11% ‘negativo’ e l'11% “leggermente negativo”. Nonostante il notevole calo del volume dei servizi, il tono rimane profondamente ostile. Negli articoli “molto negativi”, Israele è descritto come un'entità coloniale e aggressiva che mira a conquistare la Siria, seminare il caos ed espandersi a spese delle nazioni della regione. Jaakov Katz, direttore del Glazer Information Center del JPPI, ha concluso: "Il nuovo governo siriano si sta avvicinando all'Occidente, come dimostrano il recente incontro di Al-Sharaa con il presidente Trump e la decisione degli Stati Uniti di revocare le sanzioni contro la Siria. Al-Sharaa ha lasciato intendere di essere aperto alle relazioni con Israele e le sue mosse per attenuare l'ostilità dei media nei confronti di Israele rafforzano questo messaggio attraverso una politica concreta". Katz valuta così i cambiamenti: “Il forte calo dell'attenzione dei media su Israele – e in una certa misura anche dell'ostilità – segna un notevole allontanamento dall'approccio dell'ex presidente Assad”.
(Israelnetz, 11 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Zaher Birawi, giornalista palestinese-britannico residente a Londra, è tornato sotto i riflettori internazionali dopo essere stato identificato come uno dei principali promotori della Freedom Flotilla Coalition, l’organizzazione che ha coordinato la recente missione dell’imbarcazione “Madleen” verso la Striscia di Gaza. La missione della Madleen, presentata dalla Freedom Flotilla Coalition come un gesto simbolico per rompere il blocco navale israeliano su Gaza, ha attirato l’attenzione mondiale anche per la presenza a bordo di figure note come Greta Thunberg e l’attore Liam Cunningham. Secondo fonti israeliane, l’operazione è stata definita una “provocazione mediatica”, mentre per Birawi rappresenta un atto di “solidarietà, sfida e determinazione a rompere l’assedio”. Il viaggio si è concluso con l’intervento dell’IDF in acque internazionali e l’arresto dei dodici attivisti a bordo. Gli attivisti della Madleen sono stati tutti rimpatriati. Ma chi è Zaher Birawi? Secondo quanto riportato dal Telegraph, Birawi si è definito “membro fondatore” della Freedom Flotilla Coalition, e ha partecipato personalmente alla cerimonia di partenza della Madleen da un porto siciliano, documentando l’evento in diretta. La sua presenza nel movimento propal non è nuova, ma ciò che lo rende una figura altamente controversa sono le accuse, provenienti da Israele e da ambienti politici britannici, che lo collegano direttamente ad Hamas. Israele ha ufficialmente designato Birawi come operatore di Hamas in Europa già nel 2013. È inoltre presidente dell’EuroPal Forum, ente con sede a Londra, che è stato incluso nella blacklist israeliana delle organizzazioni terroristiche nel 2021. Birawi, però, ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento in attività illecite. Nel 2023, l’onorevole Christian Wakeford, deputato laburista alla Camera dei Comuni, ha utilizzato la protezione parlamentare per accusare pubblicamente Birawi di essere un operatore di Hamas residente a Barnet, a nord di Londra. Wakeford ha ricordato che Birawi è iscritto come trustee della ONG Education Aid for Palestinians, registrata nel Regno Unito, e ha condotto a Londra un evento nel 2019 intitolato Understanding Hamas. “È un rischio per la sicurezza nazionale che operativi di Hamas vivano nel Regno Unito, soprattutto se qualcuno ha ottenuto la cittadinanza britannica attraverso documenti falsi” ha dichiarato Wakeford. Nonostante le accuse, Birawi non è mai stato condannato da alcuna autorità giudiziaria. Nel 2021 ha ottenuto un risarcimento da una banca dati finanziaria che, secondo lui, lo aveva erroneamente inserito in una lista legata al terrorismo. Birawi ha inoltre accusato Israele e alcune fonti giornalistiche di aver diffuso informazioni distorte e politicizzate a suo carico, e ha più volte dichiarato che la sua attività è orientata esclusivamente alla difesa dei diritti umani e alla solidarietà con la popolazione di Gaza. Tuttavia, una foto del 2012 lo ritrae con Ismail Haniyeh. Sebbene tale foto venga spesso citata per rafforzare le accuse di vicinanza al gruppo islamista, Birawi non ha mai confermato l’esistenza di un rapporto diretto con la leadership di Hamas.
(Shalom, 11 giugno 2025)
GERUSALEMME - Le accuse israeliane secondo cui Hamas utilizza gli ospedali della Striscia di Gaza come copertura per le sue operazioni terroristiche sono “fortemente esagerate”, ha sottolineato alla fine dello scorso anno il procuratore della Corte penale internazionale Andrew Cayley. Questa valutazione è stata condivisa da molti nella comunità internazionale. Nel fine settimana, le forze di difesa israeliane hanno fornito prove inconfutabili che Cayley e compagni avevano torto. Completamente torto. Il 13 maggio, l'esercito israeliano ha condotto un attacco mirato all'ingresso dell'ospedale europeo, colpendo una struttura sotterranea senza causare danni significativi all'ospedale stesso. L'obiettivo era il comandante militare di Hamas Mohammed Sinwar, fratello del leader di Hamas ucciso Yahya Sinwar. Per settimane l'esercito israeliano ha impedito ai palestinesi di entrare nel luogo. Nei giorni scorsi, le forze armate israeliane sono finalmente arrivate, hanno scavato il terreno e recuperato i corpi di Sinwar e dei suoi uomini. L'esercito ha scoperto un bunker di comando e controllo di Hamas sotto l'ospedale. Come si può vedere nel video seguente, il bunker si trova proprio sotto l'ingresso del pronto soccorso dell'ospedale. Ai sensi dell'articolo 21 della Prima Convenzione di Ginevra, la presenza di questo bunker militare di Hamas revoca lo status di protezione dell'ospedale. Il portavoce delle forze armate israeliane ha documentato dettagliatamente la struttura, nella speranza di zittire i critici di Israele. Sarà sufficiente per costringere finalmente critici come Andrew Cayley ad aspettare le prove prima di ripetere le menzogne di Hamas? Improbabile.
(Israel Heute, 10 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Mohammed era a Netzarim il giorno della sparatoria. Ci racconta le bugie dei terroristi
di Micol Flammini
Mohammed viveva a Gaza City, ora è sfollato come tutti. Prima del 7 ottobre era uno studente, è riuscito a finire gli studi durante i primi mesi di guerra, ma non ha mai trovato un lavoro. Racconta di aver preso parte alle proteste contro Hamas. Appare subito una contraddizione nel ragazzo: non ha paura di andare in strada a urlare contro il regime, ma non vuole che il suo volto venga mostrato fuori dalla Striscia. Non ha paura del dissenso, teme piuttosto che si sappia di aver portato il suo dissenso fuori dai confini di Gaza.
Mohammed racconta che il cibo nella Striscia è un’arma: “Hamas sfrutta le famiglie più povere, quelle che non hanno modo di pagare gli aiuti”. Alcuni cittadini di Gaza hanno confermato che i terroristi si appropriano del cibo, delle medicine e del carburante che entrano con gli aiuti umanitari. Rivendono tutto, chi può paga e porta a casa i generi di prima necessità dentro a buste con la scritta “not for sale”, non in vendita. Invece Hamas li vende eccome e chi non può comprare viene incentivato a pagare con i propri figli: “Sfrutta la povertà per reclutare. Hamas dice: ‘Se vuoi del cibo dacci tuo figlio. Ti aprirai le porte del paradiso’”. Per questo, quando si è diffusa la notizia che dentro la Striscia sarebbero stati aperti dei nuovi punti per la distribuzione di aiuti umanitari, un’iniziativa gestita da Israele e dagli Stati Uniti, i civili hanno accolto la notizia con quel poco di speranza che la situazione concede. Subito è iniziata una campagna denigratoria molto forte contro l’associazione chiamata Gaza humanitarian foundation (Ghf). Alla cattiva fama dell’iniziativa ha contribuito l’opacità dei finanziamenti della fondazione che soltanto ora stanno emergendo. “Hamas non voleva che funzionasse. Ha iniziato una campagna mediatica di demolizione davvero forte”, dice Mohammed, tra gli abitanti di Gaza che hanno sperato potesse esserci un cambiamento. “La verità è che dall’inizio è parso chiaro che la Ghf non fosse organizzata a sufficienza. Sembrava che non si aspettasse tanta gente”. La Ghf aveva in programma di aprire in tutto otto centri per il ritiro degli aiuti. Finora è riuscita a farne funzionare quattro, ma ha dovuto più volte chiudere: “All’inizio non sapevamo neppure dove fossero questi punti di ritiro, non conoscevamo le regole di distribuzione”. Dopo alcuni giorni in cui i centri di raccolta della Ghf sono rimasti chiusi, questa settimana hanno riaperto e ieri ha dovuto chiudere di nuovo per degli spari tra la folla. Mohammed enuncia tutti i difetti che l’associazione dovrebbe migliorare: “Innanzitutto manca di organizzazione. Era chiaro che non si aspettasse tanta gente, ma i gazawi speravano in un meccanismo che tenesse fuori Hamas. Inoltre non c’è un sistema che regoli quanto può ricevere ogni famiglia. Chiunque si metta in fila ritira, finché c’è da ritirare. Ci sono famiglie che hanno mandato qualcuno a fare la fila più di una volta, e questo non va bene”. Mohammed racconta che invece alcune associazioni umanitarie dentro la Striscia chiamano quando c’è qualcosa da ritirare, hanno i dati delle famiglie. “Il fatto che chiunque si metta in fila possa ricevere è buono e la quantità di aiuti è molto generosa. Però la distribuzione con i nomi funziona meglio”. Alcune agenzie internazionali hanno accusato la Ghf di voler schedare i civili, secondo il racconto di Mohammed c’è una condivisione dei dati minore rispetto ad altri centri di distribuzione. “Non boccio la Ghf, ma deve funzionare al meglio. Se si toglie a Hamas la distribuzione degli aiuti, si priva il gruppo della capacità di reclutare nuovi ragazzi”. Secondo Mohammed, il gruppo non si aspettava che i gazawi si sarebbero messi in fila per riscuotere gli aiuti da un’organizzazione nuova: “Le lunghe code davanti ai punti di ritiro della Ghf sono state uno schiaffo in faccia a Hamas”.
Il primo giugno, Mohammed è andato a ritirare gli aiuti. Verso le 12 si trovava nella zona di Netzarim. Tra la folla in coda ha visto dei cadaveri. Quel giorno diverse testate hanno ripreso la notizia di colpi sparati dai soldati israeliani contro i civili. Secondo immagini e racconti dei gazawi, tra cui Mohammed, quella sparatoria non c’è stata: “Ho visto uomini con il fucile in mano che hanno iniziato a sparare. L’esercito israeliano è lontano dai punti di distribuzione, in cui invece sono gli americani a dover garantire la sicurezza. Hamas quel giorno ha cercato di far fallire la Ghf, provando a dimostrare che era pericoloso andare a ritirare il cibo in quel modo”. E pericoloso lo è davvero, estenuante anche. Per Mohammed però rimane un esperimento da implementare in fretta nell’interesse dei civili.
La modernità di Israele nell’agrifood preziosa per contrastare la desertificazione che verrà in Italia: romperci i rapporti fa male all’ambiente
Lo Stato ebraico è il futuro quando parliamo di agricoltura, ma le nostre regioni hanno fermato i negoziati. Il Paese è da sempre attento alle istanze green, conta 946 startup e la sua cooperazione è irrinunciabile.
Hanno fatto crescere agrumeti nel deserto. Hanno trasformato il mare in acqua dolce da bere. Hanno inventato il pomodoro Pachino! Ok, il “pollice verde” degli israeliani è noto. Ma andiamo oltre il luogo comune. Perché, nella condizione di emergenza climatica e alimentare in cui versa la popolazione mondiale, quello che nasce nelle startup specializzate nell’agrifood rigenerativo tra Tel Aviv e Haifa – discendenti dirette degli agronomi dei kibbutz – può rappresentare una soluzione sostenibile.
Sionismo e modernizzazione agricola vanno di pari passo. Il rumeno Aaron Aaronsohn viene ricordato sia perché fondatore del Nili, il gruppo patriottico ebraico che spia gli inglesi durante la prima guerra mondiale, sia come scopritore del grano selvatico; risultato fondamentale nello studio dell’origine genetica dell’agricoltura cerealicola. Il russo Menachem Ussishkin era un dirigente del Keren Kayemet LeYisrael (Kkl), la più antica organizzazione ecologica al mondo e, al tempo stesso, svolse un ruolo da protagonista nelle opere di bonifica delle terre della futura Israele, promuovendo le prime coltivazioni moderne.
Sono tanti i padri dell’agrifood avanzato che oggi ruota intorno agli hub delle università israeliane. Secondo l’Israel Innovation Authority, il Paese conta 946 startup. Di queste, 49 sono state avviate dal 2023, quindi in piena guerra. Tra loro, il 25% ha già ricevuto finanziamenti, pubblici e privati, per 15,36 milioni di dollari. Su un totale di 9,5 miliardi di dollari raccolti dal 2018 a oggi. Cinque le aree principali di attività: climate smart agriculture, energia pulita, nuove tecnologie alimentari, mobilità sostenibile e infrastrutture idriche eco-efficienti. Tutti settori utili a contrastare il cambiamento climatico.
Secondo il World Resources Institute, nel 2024, il processo di deforestazione è cresciuto tornando ai livelli del 2016. La desertificazione, unita alle operazioni di sfruttamento del suolo, quanto agli incendi di vaste dimensioni – vedi in California all’inizio di quest’anno – sono fenomeni che richiedono interventi strutturali. Piantumazione, ricostruzione dei bacini idrici e ripristino ecologico sono passaggi fondamentali per il recupero di un ecosistema. Ne è un modello quello realizzato dal Kkl per la foresta di Ben Shemen, andata a fuoco nel 2019 e oggi tornata a essere un polmone verde del Paese.
Il costante aumento demografico incide sulla sempre minore disponibilità alimentare, quanto anche sul crescente sfruttamento delle risorse naturali per la produzione di cibo. Israele è centro di ricerca dei novel food – carne coltivata, ma non solo – e sviluppo di soluzioni per ridurre l’uso sproporzionato e non necessario di antibiotici negli allevamenti. Progetti come Arventa Vet, finanziato anche da Horizon 2020 dell’Ue, hanno un impatto virtuoso sia sul benessere animale, sia sull’utilizzo e la lotta allo spreco di risorse naturali. Prima fra tutte l’acqua. Per il Paese infatti, come per l’intero Medio Oriente, il controllo dell’oro blu è la vera questione economica alla base di tutti i conflitti. I sistemi di irrigazione di precisione, per esempio N-Drip, permettono la razionalizzazione dell’utilizzo delle acque, fino a un risparmio del 70% delle risorse, quanto la riduzione del consumo energetico e di fertilizzanti.
Ed è proprio sulla questione acqua che Israele ha cooperato, finora con successo, con molti Paesi europei del Mediterraneo, Italia in prima fila. Il nostro territorio è vittima di un processo, lento ma in crescita, di desertificazione. È per questo che le Università di Torino e Firenze, ma anche la Regione Puglia si erano risolte a un ecosistema innovativo che sa – si parlava di luoghi comuni – come strappare terra fertile al deserto. La partnership degli atenei di Torino e Tel Aviv prevedeva lavori congiunti e lo scambio di ricercatori in campi quali sviluppo di tecnologie per il trattamento delle risorse idriche (acqua potabile, acque industriali e di scarico, desalinizzazione), ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche. Sappiamo come è andata a finire.
Conviene? È questa la domanda che bisogna porsi di fronte al boicottaggio degli enti pubblici europei nei confronti di Israele. Il mondo imprenditoriale non è ancora stato contagiato da queste serrate ideologiche. Conviene a Greta Thunberg, così come all’intero movimento dei verdi in Europa, rigettare le buone pratiche di una società le cui soluzioni per affrontare il cambiamento si stanno dimostrando efficaci, in favore di un matrimonio improbabile tra la causa palestinese e quella ambientale? Conviene all’Unione europea, dove il Green Deal è in ritirata, voltare le spalle a un Paese dove libertà d’impresa, finanziamenti a nove zeri e trasferimento tecnologico non restano un sogno, ma sono la realtà di tutti i giorni?
Il presidente argentino Milei a Gerusalemme: “Sosterrò sempre il popolo d’Israele”
di Michelle Zarfati
Il presidente argentino Javier Milei è atterrato in Israele lunedì sera e si è immediatamente diretto verso il Muro Occidentale a Gerusalemme, segnando l’inizio della sua seconda visita ufficiale nel Paese da quando è entrato in carica. Come per il suo viaggio precedente, Milei ha scelto di iniziare la sua visita dal Kotel, dove dovrebbe tornare giovedì sera per concludere il suo soggiorno con una cerimonia formale insieme al Primo ministro Benjamin Netanyahu.
Il presidente è stato accompagnato da una delegazione argentina di alto livello, tra cui il ministro degli Esteri Gerardo Werthein, il segretario generale Karina Milei, l’ambasciatore argentino in Israele, il rabbino Shimon Axel Wahnish e altri funzionari.
Milei è stato accolto sul sito da Rabbi Shmuel Rabinowitz, rabbino del Muro Occidentale e dei luoghi sacri di Gerusalemme e da Mordechai Eliav, direttore della Fondazione per il Patrimonio del Muro Occidentale. Entrambi hanno elogiato Milei per il suo fermo sostegno al popolo ebraico e allo Stato di Israele. Durante la visita, Milei ha recitato un salmo con il rabbino e ha offerto una preghiera speciale per il ritorno degli ostaggi ancora detenuti a Gaza.
“Vi ringrazio per la calorosa accoglienza – ha detto Milei durante la preghiera – Sosterrò sempre il popolo di Israele con tutto il mio cuore perché questa è la cosa giusta da fare anche per l’Occidente”. Il presidente argentino resterà nello Stato Ebraico per tre giorni. Il suo itinerario include un discorso alla Knesset e un annuncio formale di una nuova rotta di volo diretta tra Tel Aviv e Buenos Aires, la prima da quando il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann fu catturato in Argentina nel 1960. Ci si aspetta anche che ribadisca il suo impegno a spostare l’ambasciata argentina a Gerusalemme, una promessa che aveva già fatto durante la sua ultima visita. “Milei è un vero amico d’Israele, con il cuore e l’anima”, hanno detto i funzionari israeliani prima del suo arrivo ufficiale.
WASHINGTON – I politici e gli operatori dei media israeliani sottolineano spesso che ai sette fronti dell'attuale conflitto se ne aggiunge un ottavo, ovvero il mondo dell'opinione pubblica. Secondo uno studio pubblicato il 3 giugno dall'istituto di sondaggi americano Pew, Israele ottiene scarsi risultati in questo ambito.
Gli autori hanno intervistato persone in 24 paesi sulla loro posizione nei confronti di Israele. Secondo lo studio, in 20 paesi più della metà degli adulti ha un'opinione negativa dello Stato ebraico. Ciò vale in particolare per Australia, Grecia, Indonesia, Giappone, Paesi Bassi, Spagna, Svezia e Turchia: circa il 75% o più degli abitanti di questi paesi ha un'opinione negativa di Israele, in Turchia addirittura il 93%.
• La Germania nella media La media di tutti i paesi è pari al 62% di opinioni negative contro il 29% di opinioni positive. La Germania si colloca nella media con valori pari al 64% contro il 31%. Lo stesso vale per la Francia (63/28), il Regno Unito (61/30), l'Italia (66/29) e il Canada (60/33). In Europa, l'Ungheria è il paese con il minor grado di avversione nei confronti di Israele (53/36). L'Austria e la Svizzera non figurano tra i paesi oggetto dell'indagine.
Una visione prevalentemente positiva di Israele è quella degli abitanti della Nigeria (59% contro 32%), del Kenya (50/42) e dell'India (34/29). Gli Stati Uniti sono relativamente indecisi, con il 53% di opinioni negative e il 45% di opinioni positive, ma il Paese rientra nel gruppo con le maggiori differenze tra giovani (critici nei confronti di Israele) e anziani (favorevoli a Israele).
• Gli israeliani ritengono che il loro Paese sia poco rispettato In media, solo il 21% degli intervistati ritiene che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) stia facendo la cosa giusta in materia di politica mondiale. Il 69% non è d'accordo. La percentuale di critici di Netanyahu è particolarmente alta in Spagna (84% contro 11%), ma è superata dai turchi (94/2).
Gli esperti hanno anche chiesto agli israeliani come si sentono trattati. Il 58% ha risposto che il mondo non rispetta il loro Paese o lo rispetta troppo poco. Il dato non è cambiato rispetto all'anno precedente, ma la percentuale di chi ha risposto “per niente rispettato” è aumentata di 9 punti, passando dal 15% al 24%, rispetto a chi ha risposto “non particolarmente rispettato”.
Per lo studio sono state intervistate 28.333 persone tra l'8 gennaio e il 26 aprile. Nella maggior parte dei paesi, tuttavia, il sondaggio è iniziato solo dopo la fine della tregua, il 18 marzo.
«Una moschea, una sinagoga, una chiesa affiancate. Il futuro del Medio Oriente è questo. Negli Emirati Arabi Uniti sta succedendo». Loay Alshareef pronuncia parole di pace e speranza. E il pubblico del Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma lo applaude, conquistato dalla simpatia e dal calore del 42enne blogger saudita che da anni “combatte” online contro la delegittimazione di Israele nei paesi arabi e per creare ponti tra arabi ed ebrei. Battaglie spesso scomode. Anche rischiose? «Negli Emirati, dove vivo, no. C’è un forte senso di tolleranza ed è stato il primo stato islamico a inserire l’educazione alla Shoah nei programmi scolastici», racconta Alshareef. «Paradossalmente rischio in Europa, in Occidente».
Alshareef è ospite dell’Ucei in collaborazione con Il Pitigliani e risponde alle domande di Daniel Mosseri, il direttore di Pagine Ebraiche. Da giovane è stato un islamista radicale, sottolinea, cresciuto in un sistema educativo «in cui ci veniva insegnato che gli ebrei sono i nemici dell’Islam, che la cultura ebraica è una cultura della quale non fidarsi, che se un ebreo ci offre un bicchier d’acqua è perché vuole avvelenarci». Poi nel 2010 ha vissuto presso una famiglia ebraica a Parigi e la sua percezione è cambiata. Si è gradualmente interessato al mondo ebraico, ha superato con il tempo alcuni pregiudizi radicati e avviato «un percorso per superare alcune contraddizioni presenti nel Corano, dove sono espressi a volte concetti dispregiativi nei confronti degli ebrei così come dei cristiani, ma che sono da collocare nel loro contesto storico: è necessaria una transizione dalla lettura letterale del testo sacro a qualcosa di altro». Lui ci è riuscito, restando fedele alla sua religione, «e se ci sono riuscito io, considerando il modo in cui sono stato cresciuto e il fatto che fino all’età di 27 anni non ho mai incontrato un ebreo di persona, vuol dire che l’obiettivo è alla portata di tutti».
Servirà però uno sforzo educativo enorme, riconosce Alshareef. Il modello, sostiene, sono gli Emirati e tutti gli altri paesi che stanno cercando una via alternativa all’odio «attraverso gli accordi di Abramo: altri governi faranno quel passo al momento giusto, quando cioè la dolorosa guerra di Gaza sarà finita». E se è sacrosanto il diritto a una vita dignitosa per i palestinesi, per Alshareef prima di ogni considerazione su un loro possibile Stato indipendente è bene anteporre un ragionamento sulla leadership chiamata a rappresentarlo. Tale leadership dovrà per l’appunto «riconoscere Israele e volere una convivenza pacifica, perché abbiamo già visto a Gaza, da dove Israele è uscito nel 2005, cosa può essere uno Stato palestinese senza il rispetto di questi punti: Hamas va sconfitto». Dal pubblico è intervenuta la presidente Ucei Noemi Di Segni, dichiarando il proprio apprezzamento per le riflessioni e i messaggi del blogger arabo: «Il nostro sogno è che le tue parole arrivino alle persone con le quali dal 7 ottobre abbiamo provato a confrontarci, riscontrando spesso una sorta di blocco mentale: c’è un problema diffuso nel prendere atto della realtà».
Francia: un rabbino aggredito due volte in meno di una settimana da un ragazzo palestinese
Elie Lemmel, 63 anni, era seduto al tavolino di un bar a Neuilly-sur-Seine, sobborgo residenziale a ovest di Parigi, quando è stato colpito alla testa con una sedia da un giovane di origine palestinese residente in Germania. Lemmel era già stato aggredito la settimana scorsa a Deauville da tre uomini in stato di ebbrezza che lo avevano colpito.
di Nina Prenda
Un rabbino è stato aggredito per la seconda volta in meno di una settimana. Si chiama Elie Lemmel, ha 63 anni ed era seduto al tavolino di un bar a Neuilly-sur-Seine, sobborgo residenziale a ovest di Parigi, quando è stato colpito alla testa con una sedia da un giovane di origine palestinese residente in Germania. L’intervento di un cameriere, che ha assistito alla scena, ha evitato conseguenze più gravi e ha permesso di fermare l’aggressore, arrestato poco dopo. Secondo fonti di polizia, l’aggressore è un giovane di origine palestinese residente in Germania, beneficiario di una forma di protezione simile a quella concessa ai richiedenti asilo. Il rabbino Lemmel ha riportato una ferita alla testa, giudicata non grave. «Non oso immaginare cosa sarebbe potuto accadere a una persona più fragile o a un bambino», ha dichiarato ai giornalisti, tornando nel locale per ringraziare pubblicamente il cameriere. Lemmel era già stato aggredito la settimana scorsa a Deauville, nel Calvados, da tre uomini in stato di ebbrezza che lo avevano colpito. «Mi sono ritrovato a terra, ho immediatamente sentito il sangue scorrere», ha raccontato. Era frastornato e incerto su cosa fosse esattamente accaduto, inizialmente pensando che qualcosa fosse caduto da una finestra o dal tetto, prima di rendersi conto di essere stato aggredito. «Purtroppo, dato che porto la barba e la kippah, ho sospettato che probabilmente fosse quello il motivo, ed è davvero un peccato», ha aggiunto. Lemmel ha spiegato di essere abituato a «sguardi poco amichevoli, qualche parola spiacevole, persone che passano sputando per terra», ma di non essere mai stato aggredito fisicamente prima di questi due episodi. La procura di Nanterre ha comunicato di aver aperto un’indagine sull’aggressione di Neuilly per violenza aggravata dal fatto che sia stata commessa per motivi religiosi. Un uomo trattenuto per interrogatorio presso la stazione di polizia di Neuilly-sur-Seine è stato sottoposto a una valutazione psichiatrica che ha richiesto il suo ricovero, si legge nella nota. Secondo i documenti di identità in lingua tedesca trovati in suo possesso, l’uomo di 28 anni sarebbe nato nella città di Rafah, nella Striscia di Gaza. «Questo gesto ci disgusta», ha scritto su X l’ex Primo Ministro Gabriel Attal riguardo l’aggressione a Lemmel avvenuta venerdì. «L’antisemitismo, come tutte le forme di odio, è un veleno mortale per la nostra società». L’evento si aggiunge ai fatti della scorsa settimana, quando quattro istituzioni ebraiche sono state imbrattate con vernice verde a Parigi. «Aggredire una persona per la sua fede è una vergogna. L’aumento degli atti antireligiosi richiede la mobilitazione di tutti», ha dichiarato su X il Ministro dell’Interno Bruno Retailleau.
Israele conferma di avere ucciso Mohammed Sinwar, il capo di Hamas a Gaza
Grazie agli esami del dna è arrivata la conferma che uno dei corpi ritrovati nel tunnel sotto l'ospedale europeo a Khan Younis è del leader terrorista, eliminato a metà maggio in un raid israeliano. "Ecco dove sono finiti i fondi europei", dicono le Idf.
Le Idf e lo Shin Bet hanno confermato che il corpo estratto dalle forze israeliane in un tunnel nel sud di Gaza durante il fine settimana è quello del leader di Hamas Mohammed Sinwar. Secondo quanto riporta il Times of Israel – che poche ore prima aveva visitato il tunnel che si trova sotto l'ospedale europeo a Khan Younis, nel sud della Striscia, e che era utilizzato da Hamas come centro di comando – il corpo del comandante terrorista è stato prelevato sabato, diversi giorni dopo che le truppe avevano raggiunto l’ospedale. Sono stati recuperati anche diversi altri cadaveri, appartenenti ad altri membri di Hamas. L’esercito afferma che, in seguito a un processo di identificazione, è stato confermato che uno dei corpi appartiene a Sinwar, ucciso in un attacco israeliano il 13 maggio. Nell’attacco sono morti anche Muhammad Shabana, comandante della Brigata Rafah, e Mahdi Quara, comandante del Battaglione Khan Younis. Sempre nel tunnel, l’esercito dice di aver trovato diversi oggetti appartenenti a Sinwar e Shabana, tra cui le loro carte d’identità. Sono state trovate anche armi. Mohammed Sinwar era succeduto nella guida di Hamas nella Striscia al fratello Yahya, fra i principali ideatori della strage del 7 ottobre 2023, ucciso da Israele nell'ottobre 2024. Il tunnel profondo 8 metri dove si nascondevano i terroristi faceva parte di un'enorme rete sotterranea che collegava le brigate Rafah e Khan Younis di Hamas. Gli attacchi israeliani, che hanno sollevato enormi colonne di fumo e detriti in aria al momento dell'attacco, hanno preso di mira due sezioni del tunnel per intrappolare i comandanti nel mezzo, secondo l'esercito. Secondo le IDF, gli attacchi aerei hanno colpito alcune zone del tunnel all'esterno del complesso ospedaliero e l'ospedale ha continuato a funzionare anche dopo gli attacchi. Secondo l'esercito, gli attivisti di Hamas sono morti soffocati tra le macerie. "I terroristi che abbiamo eliminato sono importanti", ha detto un comandante dell'unità di ricognizione Golani, "ma non quanto le armi e i dati di intelligence che abbiamo portato via da qui. Abbiamo trovato una base militare sotto un ospedale, punto. Non c'è altro modo per dirlo. Abbiamo anche trovato informazioni sugli ostaggi". "Hamas usa gli ospedali in modo cinico", ha aggiunto il portavoce delle Idf Effie Defrin. "Ecco dove sono finiti i fondi europei". Al momento è in corso l'operazione Gideon's Chariots, un'ampia operazione di terra volta a prendere il controllo della maggior parte della Striscia e a sfollare la maggior parte dei civili di Gaza. Lo scopo dell'operazione di terra in corso "è quello di riportare indietro gli ostaggi e rovesciare il regime di Hamas", ha detto domenica Defrin.
Vi prego di dedicare qualche minuto per onorare l'eroe israeliano Chen Gross (33), caduto pochi giorni fa nella Striscia di Gaza.
Redazione di Israel Heute
Elogio funebre per il soldato caduto Chen Gross da parte del team Spector dell'unità di élite Maglan
Chen Gross ha prestato servizio nell'unità d'élite Maglan. In sua memoria, il suo amico e commilitone Michael Silem ha pronunciato oggi parole commoventi sulla sua tomba. Qui trovate la traduzione in italiano di questo discorso, scritto da un commilitone di un riservista caduto, che esprime lo stato d'animo attuale di molti combattenti israeliani. Se volete davvero capire cosa significa Israele, chi è la giovane generazione TikTok e perché amiamo così tanto i nostri combattenti, allora leggete questo discorso. Per favore!
Quando siamo partiti, ho visto nei titoli superficiali dei giornali – come per ogni caduto (come se in questo Paese ci fosse qualcosa di più importante) – che su di te c'era scritto: membro dell'unità di pronto intervento di Hinanit. E, onestamente, questo mi ha fatto arrabbiare. Non ho nulla contro l'unità di pronto intervento di Hinanit, ma, sul serio, avrebbero potuto scrivere ben altro su Chen Gross. Si sarebbe potuto scrivere: “Un uomo selvatico”. Tre parole. Brevi e concise. Si sarebbe potuto scrivere: “L'uomo con le mani più abili del mondo. Uno che sapeva riparare e costruire qualsiasi cosa. Auto, moto, trattori... basta che glielo portavi”. Niente ti ha mai scoraggiato. Si sarebbe potuto scrivere: “Il miglior soldato della migliore squadra dell'esercito”. Sì, esattamente. Niente chiacchiere, ma realtà vera e propria sul fronte di battaglia. Si sarebbe potuto anche dire: “Lascia circa 70 donne e innumerevoli ammiratrici. A quanto pare anche la tua calvizie faceva colpo”. Si sarebbe potuto dire: “Il miglior amico che si possa desiderare”. Niente ti ha mai scoraggiato. Se ti chiedevano: “Vieni con noi in gita?”, tu rispondevi: “Certo”. “Paracadutismo?” - Certo. “Allenamento?” - Certo. “Piantare alberi?” - Certo. Se qualcuno del gruppo chiedeva: “Chi vuole fare jogging prima del servizio di riserva?”, alle cinque del mattino ti seguivamo ansimando, con te in gilet, al tuo ritmo disumano. Il tuo motto era sempre: “Non sfidarmi”. E noi sapevamo che dicevi sul serio. Eri il cuore più grande che conoscessimo. I baffi più grandi. L'uomo degli uomini. Che uomo eri. Se le madri di Israele sapessero che uomo eri, un figlio su tre si chiamerebbe Chen Gross, nella speranza che il nome trasmettesse un briciolo di virilità al neonato. Solo due settimane fa, quando tutti sono tornati da Gaza per riposarsi, tu sei rimasto. Hai guidato un enorme escavatore che non avevi mai guidato prima, solo per lavorare ancora un giorno nella missione. Zohar, dell'unità, mi ha detto: “Mi vergogno dei miei baffi. Guarda Chen Gross, lui si merita i suoi baffi!”. E Dani, del team, ha detto: “Quanto può essere alfa una persona?!”. Odiavi le chiacchiere, le chiacchiere inutili ti facevano orrore. Nelle ultime settimane molti comandanti sono venuti a trovarci, probabilmente volevano sapere chi fosse questa banda di tipi strani di cui tutti parlano. E come sempre non hai voluto presentarti. Ti avrebbe solo infastidito. “Lasciatemi lavorare”, avresti sicuramente detto. E quanto eri arrabbiato... wow. Un altro titolo: l'uomo più irascibile che esista. Non c'era niente che rendesse più felice il gruppo che vederti esplodere, quasi fare a pezzi qualcuno, che fosse un ufficiale di alto rango o un semplice soldato, e poi la tua frase leggendaria: "Arrabbiato? Io? Ma non sono affatto arrabbiato. Non hai idea di come sono quando sono VERAMENTE arrabbiato“. E tutti noi avevamo un po' paura che avessi ragione. Ma, onestamente, non ti abbiamo mai visto davvero arrabbiato. Mi chiedevi sempre: ”Sto migliorando, vero?“ E io rispondevo ”sì", per paura. Ma sul serio, Chen, migliorare? Ma dai. Hai fatto tutto con il cuore. Mai a metà, nemmeno al 90%. Ed era proprio questo che ti rendeva così speciale: esigevi l'eccellenza e la perfezione da te stesso e da tutti quelli che ti circondavano. Credo che fosse proprio questo a unirci. Tu eri al 100%, io forse al 60 o 70. Se avessimo discusso, alla fine mi avresti dato il 70 per cortesia e poi avresti detto ai ragazzi alle mie spalle: “È al massimo un 40”. Circa due anni fa ho detto al team: “Prima o poi ci sarà una guerra in Libano. E noi, che manovriamo con le truppe regolari, crolleremo sulle salite ripide con i bagagli pesanti”. Ho inviato a tutti un programma di allenamento con un test sviluppato dall'ufficiale di fitness dello Stato Maggiore. DOVEVI fare questo test. Mi hai fatto impazzire. Dato che purtroppo ho un tapis roulant in palestra, hai fatto il test da me e mi hai costretto a partecipare. Io ho ottenuto un “sotto la media”, tu un “buono”, ma non il massimo, e questo ti ha fatto arrabbiare. Naturalmente hai presto raggiunto il punteggio massimo e hai continuato a trascinarmi agli allenamenti. Dopo aver superato il test, hai costruito un enorme attrezzo ginnico per fare il test con ancora più peso sulla schiena. Quando le persone in palestra mi chiedevano: “Che cos'è? Chi è quello?”, rispondevo: “Non ne ho idea, non l'ho mai visto prima”. E dentro di me scoppiavo di orgoglio. La nostra battuta era: “Se mi faccio male, Chen mi mette sulle spalle e mi porta in giro per tutto il Libano”. Facile. Ed è stato proprio così quando abbiamo guidato la nostra unità durante l'esercitazione in Libano e tu hai guidato la nostra squadra come se fosse una gita scolastica. Abbiamo scalato ripide salite, ansimando per non crollare, e tu ti sei inginocchiato con calma, con il fucile in posizione, in perfetta postura. Ancora una parola sulla nostra squadra, questa squadra speciale con questo comandante speciale. Ci ha fatto dire: «Vi voglio bene. Ho fatto tutto per proteggervi. Ci vediamo l'anno prossimo». La nostra squadra, composta da uomini provenienti da moshavim, insediamenti e città, ebrei e non ebrei, nuovi immigrati e sabra, come Abramo, che non chiede quando gli viene detto: “Vieni!”, ma risponde semplicemente: “Hineni - Eccomi”. Smettete di chiederci perché siamo ancora nella riserva. Non chiedeteci se torneremo. Non diteci che abbiamo “fatto la nostra parte” e che ora dovremmo lasciare il campo ad altri. E soprattutto: non parlate in nostra presenza di passaporti stranieri o di emigrazione – mostrate rispetto. Questo Paese è stato pagato con molto sangue. Chi non ha i polmoni pieni della polvere di Gaza, chi non ha il torcicollo per aver indossato per notti intere elmetto e visore notturno, che stia zitto. Se quello che volete dire non dà forza ai combattenti al fronte, allora è meglio che stiate zitti. Siate un po' come Chen Gross. Chen Gross non ha parlato molto. Ha semplicemente fatto ciò che doveva essere fatto. Ha capito la verità semplice e chiara, la verità che deriva da migliaia di anni di esperienza ebraica: “Se qualcuno viene per ucciderti, alzati subito e uccidilo per primo”. Questa è la verità che ti guarda da ogni casa minata, da ogni pozzo e da ogni tubo di combattimento a Gaza: vogliono ucciderci. Per troppi anni noi ebrei abbiamo represso questa frase. Sia a causa della lunga diaspora, sia per paura di ciò che avrebbe detto il cosiddetto “mondo civilizzato”. La nostra generazione ora dice: basta. Non lo permetteremo più. Chi dice di volerci uccidere, deve morire. Non ‘forse’. Non “più o meno”. Se rimandiamo, neghiamo, chiudiamo gli occhi, lo pagheremo caro. Quindi non chiedeteci “perché”. Se serve una ruota, quella ruota sono io. Evoi politici, di destra e di sinistra,voi giornalisti, opinionisti: state zitti. Venite ad ascoltare Irit e Adi (i suoi genitori). Non dite una parola. Ascoltate e basta. Perché l'educazione e i valori che hanno trasmesso ai loro figli sono più preziosi di tutto ciò che voi avete mai rappresentato. E a tutti quelli che si tirano indietro, a tutti quelli che stanno in disparte e si perdono in considerazioni morali, ai nostri fratelli ultraortodossi che hanno deciso di non prestare servizio: la storia vi giudicherà. Abbiamo passato così tanto come popolo. Voi sarete, nella migliore delle ipotesi, una nota a piè di pagina. E Chen Gross sarà ricordato come un combattente coraggioso, il sale della terra, che con il suo impegno e il rischio che ha corso ha effettivamente salvato molti soldati e civili. Non ti dimenticheremo mai. Team Spector. Noi continuiamo ad andare avanti.
(Israel Heute, 9 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
«Il compito di ogni sanitario è tutelare la vita umana, senza distinzioni ideologiche o geopolitiche. L’assenza di ogni riferimento alle vittime israeliane, ai feriti, agli ostaggi ancora detenuti, e la non distinzione tra civili gazawi e terroristi legati a Hamas, è inaccettabile».
Lo denuncia in un comunicato stampa l’Associazione Medica Ebraica, presieduta dal 2017 da Rosanna Supino, qualificando come «strumento divisivo, che alimenta odio e disinformazione» l’appello delle rete Sanitari per Gaza sottoscritta al momento da decine di migliaia di appartenenti ai vari ordini professionali (dai medici agli infermieri, dai chimici ai fisici). Il testo proposto all’attenzione dei professionisti del settore è «apparentemente animato da intenti etici», scrive l’Ame, ma assume in realtà «una connotazione politica fortemente ideologica, evidenziando una carenza di equilibrio e di profondità».
«L’intero appello si fonda su dati forniti da Hamas, senza verifica indipendente, né confronto con fonti pluralistiche», sottolinea ancora l’Ame. E «anche se riteniamo che ogni vita persa sia una tragedia, riteniamo anche che la serietà e la affidabilità delle cifre sia indispensabile in qualunque relazione sia essa scientifica o divulgativa». Anche perché, si aggiunge nella nota, nel denunciare la «devastazione deliberata delle strutture sanitarie», il gruppo Sanitari per Gaza «non parla dell’uso sistematico da parte di Hamas di infrastrutture civili, tra cui ospedali e scuole, per scopi militari, con la costruzione di tunnel sotterranei». Ragione per la quale «l’uso cinico dei civili come scudi umani, unito alla mancata restituzione degli ostaggi israeliani, solleva seri interrogativi su chi effettivamente stia sacrificando le vite innocenti». L’Ame si dichiara infine solidale «con quei palestinesi che, nonostante l’oppressione di Hamas, cercano giustizia e libertà con coraggio e dignità» e «proprio per questo, ogni appello che pretenda di fondarsi su principi etici deve essere guidato da rigore, onestà intellettuale e senso di responsabilità».
Il gazawi smaschera i pro-Pal: “Hamas affama i civili di Gaza”
di Ilaria Myr
“Quello che Hamas sta facendo è mantenere la popolazione di Gaza nella fame, perché fare perdurare la sua sofferenza è la sola cosa che può tenerli al potere e mantenere viva la sua falsa narrativa. Ma la popolazione di Gaza è stufa di avere paura e sta ribellandosi contro Hamas, che non può fermarla”. È un attacco diretto quello che il gazawi Hamza Howidy, esule in Germania, fa nei confronti di Hamas e della sua strategia di affamare la popolazione della Striscia per mantenersi saldo al potere. Una condanna forte, senza mezzi termini, la sua, e tanto più importante quanto più si diffondono fake news sull’utilizzo della fame come arma da parte di Israele e la parola “carestia” è diventata ormai seconda soltanto a “genocidio” fra quelle utilizzate per condannare Israele contro Hamas. Quella di Howidy è una delle voci palestinesi dissidenti che, a rischio della propria vita, parla apertamente delle responsabilità del gruppo terroristico islamista che ha attaccato Israele il 7 ottobre 2023. “Questa settimana è stato istituito un nuovo gruppo di aiuto americano, che in sole 48 ore ha consegnato oltre 840mila pasti direttamente alla popolazione, tagliando completamente fuori Hamas – continua Howidy in un post su Instagram – Nel panico, Hamas ha creato falsi account sui social media fingendo di essere il gruppo di aiuti e ha postato messaggi falsi, dicendo che le distribuzioni erano cancellate, minacciando e manipolando le persone di non prendere il cibo. Ma quando hanno visto dei funzionari dell’organizzazione uscire da un magazzino ad Al Maghwani con sacchi di farina, in centinaia sono andati a prenderseli anche loro. Hamas ha rubato il cibo alla gente. Quindi la gente se l’è ripreso”. Come Ahmed Fouad AlKhatib, Hamza racconta sui social – e negli incontri organizzati nel mondo – i soprusi che la popolazione palestinese subisce da parte di Hamas da quando nel 2007 ha preso il potere. “Quando Hamas ha preso il potere con un colpo di Stato, vedevo persone buttate giù dai tetti dei palazzi e non capivo cosa stesse succedendo – ha raccontato ad aprile in un incontro al Senato – Abbiamo sopportato per 18 anni, finché, con un gruppo di amici, abbiamo fondato il movimento Vogliamo vivere (Bidna Naish). Da allora sono stato arrestato e torturato due volte”. Dopo aver lasciato Gaza un mese prima del 7 ottobre, Hamza ha ripreso il suo attivismo dall’esilio, con l’intento di far sapere al mondo che non tutto il popolo gazawi sostiene Hamas: “Anche prima del 7 ottobre, Gaza era in ebollizione – testimonia – Ovunque andassi (caffè, taxi, aule scolastiche) la gente sussurrava la stessa cosa. Non possiamo vivere così. Non sotto assedio. Non sotto Hamas. Ma invece di ascoltare, Hamas ha raddoppiato. Più tasse. Più corruzione. Più silenzio imposto dalla paura. La gente stava soffocando. La vita quotidiana è diventata un incubo e chi ha osato parlare ne ha pagato il prezzo. Ora ci chiamano traditori perché chiediamo un futuro?”. Per queste sue convinzioni, Hamza rischia la vita ogni giorno, condannando anche l’Occidente che non dà spazio alle voci come la sua, e che, con lo slogan “Globalizzare l’Intifada”, sta portando anche ad atti gravi, come l’uccisione di Sarah Lynn Milgram, “un’attivista per la pace che lavorava per una Ong palestinese-israeliana”, e Yaron Lishinsky: i due giovani diplomatici israeliani freddati davanti al Museo ebraico di Washington al grido di “Palestina libera”. La sua, come quella di altri che racconteremo su queste pagine, è una voce che va ascoltata. Ma purtroppo, oggi, quelli come lui e Ahmed vengono “silenziati” dal mondo, perché scomodi.
(Il Riformista, 8 giugno 2025)
La settimana di Israele. Prosegue la conquista di Gaza
di Ugo Volli
• La guerra immaginaria e quella reale Ci sono due guerre in corso in Medio Oriente, una reale e una virtuale o piuttosto propagandistica. La guerra reale è un’aggressione decisa dall’Iran, provocata da Hamas con la strage, gli stupri, i rapimenti e i missili del 7 ottobre 2023, si svolge su sette fronti, è una guerra difficile e dolorosa per tutti, per gli abitanti di Gaza e del Libano ma anche per Israele che venerdì ha perso di nuovo quattro ragazzi che facevano il servizio militare di riserva, uccisi da una casa imbottita di esplosivi. Nella guerra propagandistica un movimento reazionario, clericale, omofobo, antifemminista come Hamas è diventato la bandiera di tutti i progressisti, Israele fa la guerra solo per realizzare il genocidio di Gaza, dato che è “crudele” (così La Stampa) ma alla fine la Palestina sarà “libera dal fiume al mare” e i milioni di ebrei che vi abitano si dissolveranno, perché non potranno restare lì, né Hamas che è così buono si potrà macchiare della colpa di sterminarli.
• Il numero dei morti Della guerra propagandistica la parte del leone la fa il numero di morti a Gaza: “più di 50.000 morti, tra cui 15.000 bambini” secondo Elly Schlein (15 maggio); “quasi 54 mila persone fino al 21 maggio 2025, tra cui oltre 15 mila sono bambini, più di 8 mila donne, quasi 4 mila anziani e oltre 22 mila uomini” [il totale fa 49.000, non 54.000, o anche perché gli anziani saranno uomini o donne; ma l’aritmetica in queste cose è un'opinione] secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA); per Lancet a giugno del 2024 “il numero di morti a Gaza, contando anche le “morti indirette” [???], poteva aver raggiunto almeno le 186mila” persone; “oltre 48.000 vittime palestinesi” (dati aggiornati a marzo 2025) (Oxfam); “più di 50.000 bambini sono stati uccisi o feriti dall’ottobre” 2023 (Unicef); da ottobre 2023 sono quasi 60 mila i morti (Emergency). Anche se i numeri non tornano e compongono una sordida tombola, la fonte è sempre quella, il “Ministero della salute di Gaza”, che è semplicemente un organo della propaganda di Hamas. Peccato che a un’analisi più ravvicinata, come quella che ha svolto il ricercatore israeliano Ido Halbany tutti questi numeri non reggano affatto. L’elenco comunicato da Hamas fino a marzo 2025 contiene 50.021 deceduti, ma fra essi molti sono doppi o con dati errati o contraddittori. Dei 42.431 nomi di morti elencati in maniera formalmente valida, 28.424 sono uomini di cui 24.249 fra i 18 e i 55 anni, cioè in età militare; i minorenni (sotto i 18 anni, fra cui è probabile che ci siano comunque combattenti) sono 13.633 e 14.007 le femmine. Questi numeri comprendono anche i morti per malattia, incidente o per i razzi terroristi ricaduti su Gaza. Mostrano comunque che nel mondo reale naturalmente Israele cerca di eliminare non i bambini che sono innocui, bensì i terroristi combattenti e lo fa con notevole precisione, perché i maschi in età militare di cui si denuncia la morte sono 24 mila e donne e minori insieme totalizzano poco di più, 27 mila con gli anziani poco più di 30 mila. E un rapporto fra presunti combattenti e presunti civili di 1 a 1,2 : un dato da tener presente, soprattutto considerando che Hamas dichiara che gli abitanti di Gaza sono circa 2 milioni. Le vittime civili sarebbero dunque circa l’1,5 per cento.
• La situazione a Gaza L’Operazione “Carri di Gedeone” sta lentamente privando Hamas di sempre più risorse: nelle ultime settimane scorse, un rapito vivo (Edan Alexander) e i corpi di altri quattro sono stati riportati in Israele, senza pagare riscatti. L’ultimo è la salma del tailandese Nattapong Pint, sequestrato il 7 ottobre e ucciso nei primi mesi di prigionia. Ora nelle mani dei terroristi restano 55 rapiti, di cui fra i 20 e i 23 sono ancora vivi. Inoltre il nuovo meccanismo di distribuzione del cibo sta erodendo il controllo di Hamas sugli abitanti della Striscia di Gaza, anche quello esercitato con la mediazione delle organizzazioni internazionali. Sono nate milizie per difendere il cibo dalle ruberie di Hamas e Israele giustamente fornisce loro armi leggere, anche se naturalmente il loro curriculum è tutt’altro che specchiato. Infine, dall’inizio dell’operazione, Hamas ha perso il controllo su vaste aree della Striscia di Gaza che ora sono sotto il pieno controllo di Israele (Rafah, dove sembra che le forze israeliane abbiano recuperato ieri il cadavere del capo terrorista Muhammad Sinwar, parti di Khan Yunis, la Striscia di Gaza settentrionale, la parte orientale di Gaza City e la parte orientale della Striscia di Gaza centrale). In queste zone molti edifici, sospetti di essere usati dai terroristi come rifugio o sbocco di fortificazioni sotterranee, sono stati distrutti.
• Gli altri fronti Israele continua a sorvegliare attentamente il confine settentrionale e a reagire alle minacce. In particolare ha colpito una fabbrica di droni allestita da Hezbollah alla periferia meridionale di Beirut, segno del fatto che questo gruppo terroristico non vuole smettere le sue minacce terroristiche. Anche dalla Siria dono arrivati di nuovo due missili, cui le forze armate israeliane hanno risposto con bombardamenti sui lanciatori e su altre minacce potenziali. Sono arrivati di nuovo dei missili balistici dallo Yemen e anche in questo caso Israele ha reagito e lo farà di nuovo. Ma il punto nevralgico è sempre l’Iran, da cui queste minacce dipendono. Si è saputo in questi giorni di un ordine iraniano alla Cina per una quantità molto ingente di materiali chimici che miscelati producono combustibili per missili. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha rivelato che l’Iran non solo non collabora in maniera adeguata, ma ha messo in moto le sue centrifughe più avanzate per produrre l’esplosivo atomico. Alti funzionari iraniani hanno rivelato di averne accumulato già per dieci bombe. Israele è pronto per le azioni necessarie a distruggere questo programma; ma deve attendere il consenso e magari la partecipazione degli americani. Insomma la decisione è in mano a Trump, che mostra crescente impazienza per l’arroganza degli ayatollah, ma ancora non si è deciso. Speriamo che non lo faccia troppo tardi.
SALMO 128 3 La tua moglie sarà come una vigna fruttifera all'interno della tua casa.
SALMO 23 5 Tu prepari davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici.
2 SAMUELE 9 13 Mefiboset dimorava a Gerusalemme perché mangiava sempre alla mensa del re. Era zoppo da entrambi i piedi.
EZECHIELE 41 22 L'altare era di legno, alto tre cubiti, lungo due cubiti; aveva degli angoli; le sue pareti, per tutta la lunghezza, erano di legno. L'uomo mi disse: “Questa è la tavola che sta davanti all'Eterno.
EZECHIELE 44 16 Essi entreranno nel mio santuario, essi si accosteranno alla mia tavola per servirmi, e compiranno tutto il mio servizio.
MALACHIA 1 7 Voi offrite sul mio altare cibi contaminati, ma dite: 'In che modo ti abbiamo contaminato?'. Lo avete fatto dicendo: 'La mensa dell'Eterno è spregevole'. 8 Quando offrite una bestia cieca per sacrificarla, non è forse male? quando ne offrite una zoppa o malata, non è forse male? Presentala dunque al tuo governatore! Te ne sarà grato?
ISAIA 53 3 Disprezzato e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore, familiare con la sofferenza, pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia, era disprezzato, e noi non ne facemmo nessuna stima.
1 CORINZI 10 21 Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni.
GIOVANNI 6 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
MALACHIA 1 6 “'Un figlio onora suo padre e un servo il suo signore; se dunque io sono padre, dov'è l'onore che mi è dovuto? Se sono signore, dov'è il timore che mi spetta?' dice l'Eterno degli eserciti a voi, o sacerdoti, che disprezzate il mio nome, eppure dite: 'In che modo abbiamo disprezzato il tuo nome?'.
1 SAMUELE 1 3 E quest'uomo, ogni anno, saliva dalla sua città per andare ad adorare l'Eterno degli eserciti e a offrirgli dei sacrifici a Silo; e là c'erano i due figli di Eli, Ofni e Fineas, sacerdoti dell'Eterno. 10 Lei aveva l'anima piena di amarezza e pregò l'Eterno piangendo a dirotto. 11 Fece un voto, dicendo: “O Eterno degli eserciti! se hai riguardo all'afflizione della tua serva, e ti ricordi di me, e non dimentichi la tua serva, e dai alla tua serva un figlio maschio, io lo consacrerò all'Eterno per tutti i giorni della sua vita, e il rasoio non passerà sulla sua testa”.
GENESI 2 1 Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto l'esercito loro.
ESODO 7 4 E Faraone non vi darà ascolto; e io metterò la mia mano sull'Egitto, e farò uscire dal paese d'Egitto le mie schiere, il mio popolo, i figli d'Israele, mediante grandi giudizi.
ESODO 12 41 E al termine di quattrocentotrent'anni, proprio il giorno che finivano, tutte le schiere dell'Eterno uscirono dal paese d'Egitto.
1 SAMUELE 1 17 Allora Eli replicò: “Va' in pace, e l'Iddio d'Israele esaudisca la preghiera che gli hai rivolto!”.
MALACHIA 2 1 “Ora, questo ordine è per voi, o sacerdoti! 2 Se non date ascolto, se non prendete a cuore di dare gloria al mio nome”, dice l'Eterno degli eserciti, “io manderò su di voi la maledizione e maledirò le vostre benedizioni; sì, già le ho maledette perché non prendete la cosa a cuore. 6 La legge di verità era nella sua bocca, non si trovava perversità sulle sue labbra; camminava con me nella pace e nella rettitudine e ne allontanò molti dall'iniquità. 7 Poiché le labbra del sacerdote sono le custodi della scienza, e dalla sua bocca si ricerca la legge, perché egli è il messaggero dell'Eterno degli eserciti. 8 Voi invece vi siete sviati, avete fatto inciampare molti nella legge, avete violato il patto di Levi”, dice l'Eterno degli eserciti. 9 “Anche io vi rendo spregevoli e ripugnanti agli occhi di tutto il popolo, perché non osservate le mie vie e avete dei riguardi personali quando applicate la legge”.
MALACHIA 3 1 “Ecco, io vi mando il mio messaggero che preparerà la via davanti a me e subito il Signore, che voi cercate, l'Angelo del patto, che voi desiderate, entrerà nel suo tempio. Ecco egli viene”, dice l'Eterno degli eserciti; 2 “ma chi potrà sostenere il giorno della sua venuta? Chi potrà rimanere in piedi quando egli apparirà?”. Infatti egli è come il fuoco del fonditore, come la potassa dei lavandai. 3 Egli si siederà, come chi affina e purifica l'argento, e purificherà i figli di Levi, li raffinerà come si fa dell'oro e dell'argento; ed essi offriranno all'Eterno offerte con giustizia.
ROMANI 12 1 Io vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, che è il vostro culto spirituale. 2 Non conformatevi a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà.
La manifestazione di oggi a Roma è un esercizio di perversione, una pericolosa china che porta in sé una ondata di violenza antisemita come sempre basata su menzogne che criminalizzano gli ebrei, il solito sistema inaugurato nei secoli: gli organizzatori e gli sventolatori di bandiere terroriste ne porteranno l'onta e la responsabilità della trasformazione in violenza. Felici quasi tutti i media, sulla carta, dagli schermi, sui social, aumenteranno le fanfare di un'ossessiva e conveniente legittimazione del niente cosmico, delle bugie siderali, dell'ignoranza e dall'opportunismo politico da cui la manifestazione nasce. Oggi ripeteranno felici in coro con gli oratori incapaci ormai di distinguere fra vero e falso, bene e male, i termini «genocidio» e «pulizia etnica», «occupazione», «razzismo», etc. Sono quelli che hanno detto che in 24 ore sarebbero morti 14mila bambini palestinesi, e poi non hanno smentito mai la cretinata; che hanno ripetuto senza vergogna che i soldati mirano alla testa dei bambini; che all'ospedale Al Ahli erano state uccise 500 persone; che i soldati hanno violentato e ucciso le donne palestinesi all'ospedale al Shifa; che sparano su chi va a prendere il cibo Milioni sono le menzogne, come quella che accusa Israele di affamare a scopo bellico: come si può pensarlo, dato che fino a marzo venivano introdotti 600 camion al giorno? Ma la fame è stata causata dal furto e utilizzo degli aiuti umanitari da parte di Hamas, e quindi il sistema ora è cambiato Orribile l'indifferenza sulle sofferenze dei rapiti, incredibile come i ragazzi e i padri di famiglia, gli eroi uccisi in guerra dalla parte d'Israele (di cui quattro ieri), siano considerati vittime di nessun conto, ignorati, mai nominati dalla stampa italiana. Fra i dimostranti, oggi, chi vorrà essere generoso dirà che non vuole la distruzione di Israele, ma condannerà a morte la politica di Netanyahu, di cui niente sa se non che è «di destra» e anche che è «vendicativo» e che deve accettare una tregua definitiva. Ma non gli importa che Israele insista per evitare semplicemente il prossimo 7 ottobre e altri assalti definitivi. Ogni giorno si insiste che «tanti ebrei criticano Netanyahu». E perché, non è sempre così nelle democrazie? Menomale. Peccato se poi quegli ebrei diventano complici del nemico. La manifestazione di oggi è parte della strana velenosa fioritura di un nuovo culto della morte nella società occidentale in crisi: vi si moltiplicano i perfetti ignoranti, le menti woke, le pretese islamiste. E i profittatori politici. Ma ci sono tanti che ricordano, le comunità agricole e la festa di giovani maciullati il 7 di ottobre, si sottraggono al rovesciamento di bene e male che ha buttato Israele dalla parte dei cattivi e ha adottato come eroi i terroristi che odiano la nostra civiltà, quelli che dicono noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita, uccisori di ebrei cristiani omosessuali e donne, macellai di bambini e famiglie. Molti sanno che in questa manifestazione si ripetono bugie, dal fatto che Israele sia un paese coloniale a che abbia sparato a chi andava a prendere da mangiare ai camion. La gente che rifiuta il culto della morte sa che cosa è Israele, sa che dalla scuola all'esercito si insegna la pace; vuole che sopravviva, combatta, batta il mostro e recuperi gli ostaggi. Un mare di odio armato con miliardi di fake news a pagamento dalla Fratellanza Musulmana, dell'Iran, del Qatar impone l'idea che sia in corso una strage senza precedenti, ma gli studi condotti sui dati forniti dai palestinesi ci dicono che il bilancio dei morti militari e civili è di uno a uno, il dato più positivo mai visto in una guerra; la grande maggioranza è formata da maschi dai 15 ai 70 anni, quindi combattenti, e non da donne e bambini; sanno che le gallerie, in cui mai si è permesso alla gente di rifugiarsi sboccano quasi sempre in ospedali, camere per bambini, moschee trasformati in retrovie terroriste. La gente è per Hamas uno strumento, l'ha detto più volte. La piazza di oggi è drogata di bugie, ma paradossalmente Israele è là per difendere anche il suo diritto a esprimersi. A Gaza, chi prova a dire una parola di protesta, viene fatto a pezzi.
L'attività dei centri di distribuzione rimane bloccata
RAFAH – Venerdì è stata una giornata di confusione per quanto riguarda l'attività dei centri di distribuzione nella Striscia di Gaza. La “Fondazione umanitaria di Gaza” (GHF) aveva inizialmente comunicato in mattinata che l'attività era stata nuovamente sospesa. Nel pomeriggio, tuttavia, ha poi dichiarato che due dei centri erano stati aperti, ma che erano stati nuovamente chiusi.
Nei giorni scorsi si erano verificati episodi di violenza nei centri, con alcuni civili uccisi mentre si recavano nei centri. In risposta, la GHF aveva chiuso i quattro centri mercoledì.
Giovedì pomeriggio la fondazione ha riaperto due dei centri a Rafah. Secondo le proprie dichiarazioni, ha distribuito quasi 25.000 pacchi alimentari, pari a circa 1,4 milioni di pasti. L'obiettivo è quello di distribuire 4,5 milioni di pasti al giorno. Nella Striscia di Gaza vivono circa 2 milioni di persone.
A causa delle vittime, i media internazionali hanno accusato l'esercito israeliano, citando l'organizzazione terroristica Hamas. Quest'ultimo ha risposto che i soldati avevano solo sparato colpi di avvertimento contro sospetti o civili che avevano lasciato le aree designate nei centri di distribuzione.
• Palestinesi: Hamas spara sui civili Mercoledì l'esercito ha anche pubblicato la registrazione di una telefonata tra un ufficiale di collegamento e un palestinese della Striscia di Gaza. Quest'ultimo ha affermato che i terroristi di Hamas hanno sparato sia ai soldati che ai civili. “Non vogliono che la gente riceva aiuti, vogliono ostacolare il piano affinché gli aiuti non arrivino a loro, in modo da poterli rubare. Vivono di aiuti”.
Per questo motivo, secondo lui, Hamas vuole che gli aiuti arrivino nella zona attraverso le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali. Vuole solo la rovina e sta prendendo in giro la popolazione. I terroristi sono “animali umani”. “Non hanno alcuna compassione per il loro stesso popolo”.
• Armi per le milizie Nel frattempo, Israele avrebbe iniziato ad armare bande nella Striscia di Gaza per rafforzare la lotta contro Hamas. Lo hanno confermato giovedì le forze di sicurezza dopo le dichiarazioni dell'oppositore Avidgor Lieberman (Israel Beiteinu).
Lieberman ha dichiarato alla televisione israeliana che il capo del governo Benjamin Netanyahu (Likud) ha autorizzato il trasferimento di armi al clan Abu Shabab senza coinvolgere il gabinetto di sicurezza. Si tratta di una milizia che si oppone al dominio di Hamas nella Striscia di Gaza.
L'ufficio del governo ha confermato i fatti. In accordo con i circoli di sicurezza, Israele sta utilizzando i clan nella lotta contro Hamas, ha affermato Netanyahu. Ha inoltre criticato Lieberman per aver reso pubblici i fatti, sostenendo che ciò giova solo a Hamas.
• Beduini in lotta contro Hamas Il leader della suddetta milizia è Jasser Abu Schabab. Il 32enne è un beduino nato a Rafah appartenente alla tribù dei Tarabini. Secondo le sue stesse dichiarazioni, ha creato la milizia con l'obiettivo di proteggere i civili da Hamas e dai “ladri di aiuti umanitari”.
All'inizio della guerra, i suoi uomini rubavano gli aiuti umanitari perché Hamas li saccheggiava e non li distribuiva. Da quando è stato istituito il nuovo sistema di distribuzione, l'obiettivo della milizia è proteggere gli aiuti umanitari.
• Avvertimento contro la divisione Il sostegno alla milizia incontra tuttavia riserve nella regione. L'ambasciatore di un Paese arabo ha avvertito in un'intervista al “Times of Israel” che ciò potrebbe approfondire la divisione tra i palestinesi. Il diplomatico ha parlato in forma anonima.
Nella sua critica ha paragonato la situazione al periodo precedente al 7 ottobre: Netanyahu avrebbe rafforzato Hamas per indebolire l'Autorità palestinese. Il sostegno ai clan dimostrerebbe che Netanyahu “dal 7 ottobre ha imparato poco”.
(Israelnetz, 7 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
GERUSALEMME - Non mi interessa molto la politica: non mi sono mai piaciute le strategie, i giochi, le rivalità e la mentalità da bulldozer che servono per guadagnare terreno politico. Ma apprezzo coloro che sono stati investiti da Dio (e dagli elettori) dell'autorità di agire nell'interesse pubblico. Negli ultimi anni ho notato un cambiamento nel clima politico: è degenerato in un sistema che ha perso il rispetto fondamentale per la gerarchia. L'opinione pubblica israeliana ha assistito a politici rispettabili (senza fare nomi) che usano la lingua come un'arma per distruggere i propri avversari nel modo più irrispettoso possibile. Nel farlo, si sono trasformati da leader autorevoli in bambini immaturi che litigano, si insultano e persino imprecano. Si comincia con il togliere i titoli agli altri politici e rivolgersi a loro solo con il nome di battesimo, aggiungere aggettivi inutili, attribuire colpe e tenere discorsi al limite della blasfemia per influenzare l'opinione pubblica e smontare l'avversario. Non importa quale canale si guardi, la destra e la sinistra stanno combattendo una guerra di parole, e queste parole si diffondono ad altri membri della Knesset, dirigenti, amministratori delegati, educatori, comandanti, soldati e cittadini comuni come me. Sono imbarazzata e mi vergogno che i miei politici, che pensavo avrebbero messo da parte il loro orgoglio per il bene del popolo, scelgano la via più ignobile nella disputa. Sono (quasi) altrettanto delusa quando gli elettori seguono l'esempio e demonizzano l'altra parte con le stesse parole. I responsabili non hanno alcun timore di Dio o almeno un minimo di rispetto umano per chi ricopre cariche più elevate della loro?
• L'unto del Signore Dopo che il profeta Samuele aveva unto Davide re d'Israele mentre Saul era ancora sul trono, Davide continuò a servire come pastore, musicista per il re Saul quando questi era tormentato da spiriti maligni, portatore d'armi di Saul (che ironia) e guerriero dopo aver sconfitto Golia. Resistette alla tentazione di incoronarsi re prematuramente, anche se vedeva che la sua popolarità tra il popolo gli avrebbe permesso di farlo facilmente. Poi arrivò la prova definitiva del suo carattere: Saul, il “comandante supremo”, temeva che Davide salisse al trono e cercò quindi di ucciderlo. Questo avrebbe potuto essere il pretesto perfetto per David per porre fine alla vita di Saul; ma per proteggere se stesso ed evitare uno scontro con il re, fuggì per non essere costretto a combattere contro re Saul. Molto nobile? Più di molti altri. Ma anche Davide, dopo essere stato spinto fino allo sfinimento, si trovò in un vicolo cieco o, in questo caso, in una caverna. Dopo esser fuggito per anni davanti al sanguinario Saul, la soluzione a tutti i problemi di Davide, era letteralmente a portata di mano. Saul dormiva nella caverna dove David e i suoi uomini si nascondevano; lì David, sospinto dai suoi uomini, tagliò un lembo del mantello di Saul. Anche se non lo uccise, fu preso dai rimorsi, rimproverò i suoi uomini e non permise loro di fare del male a Saul:
«Il Signore mi ha proibito di fare questo al mio signore, l'unto del Signore, e di alzare la mano su di lui, perché è l'unto del Signore» (1 Samuele 24).
Quando Davide si trova di fronte al re Saul con le parole: «Avrei potuto farlo, ma non l'ho fatto», si mostra ancora umile e chiama Saul «padre», umiliandosi rispetto a lui e lasciando il giudizio sulle azioni di Saul a Dio, che è il re di tutto. Anche dopo la morte di Saul sul campo di battaglia, Davide pianse e fece cordoglio per lui e onorò la sua discendenza. C'è un luogo e un tempo in cui l'opposizione richiede una reazione forte e violenta contro i propri nemici, ma non contro il proprio re.
Quando Golia e i Filistei si opposero a Israele, Davide riservò i suoi insulti e la sua aggressività più feroci per ottenere giustizia e vendetta contro questo gigante alto 2-3 metri. Qui Davide poté dare libero sfogo alla sua indomita natura guerriera contro chiunque si opponesse al Signore degli eserciti, senza compromettere il suo carattere: combatté il male e lo sconfisse. Ma non si può combattere il fratello con lo stesso spirito con cui combatte il male. Il nome di Davide divenne grande sulla terra perché sapeva governare la sua anima e conosceva la differenza. Ciò che separa i grandi dagli indegni (o immaturi) è la capacità di usare le parole con saggezza. Con le nostre parole persuadiamo, eleviamo, manipoliamo, respingiamo, correggiamo, incoraggiamo, abbassiamo, e chi controlla la propria lingua controlla la propria anima, e solo allora può controllare gli altri.
• Una dose di realtà Il modo in cui entreremo nella storia dipende in gran parte dal fatto che ci comportiamo: se con la dignità dei re o se non temiamo né uomini né Dio e la nostra lingua è lo strumento della nostra rovina. Ciò non significa che non ci sia modo di opporsi, protestare o rifiutare, ma senza lo Spirito di Dio che guida la lingua, un cambiamento è molto improbabile, poiché l'ira dell'uomo non produce frutti buoni o duraturi, mentre la giustizia di Dio (con la preghiera) porta al pentimento e al cambiamento. E ci sono altri leader biblici che si sono comportati con onore e con un carattere gradito a Dio in un ambiente corrotto o pagano:
Il profeta Daniele, quando portò cattive notizie ai re di Babilonia,
Giuseppe, quando interpretò i sogni del faraone dopo essere stato falsamente accusato,
Gesù, quando fu accusato davanti a Ponzio Pilato: rimase in silenzio perché sapeva che era Dio a averlo posto come suo sovrano, eppure confidava nel suo Padre celeste, il re supremo dell'universo.
Ma ora dobbiamo affrontare la questione in modo pratico: siamo esseri umani con emozioni, e i politici stanno dimostrando comportamenti pericolosi; la fiducia è svanita e il 7 ottobre dimostra quanto i leader abbiano fallito nel proteggere il loro popolo. Il dolore nella società israeliana è profondo: come reagire quando si crede che l'omicidio o il rapimento di una persona cara sia opera dei propri politici? Forse addirittura di quelli che si sono votati?
Non ho una soluzione per la rabbia e la delusione; non giustifico né prendo posizione: la corruzione deve essere combattuta e, se è implacabile e causa divisioni nel popolo, abbiamo il diritto di eliminarla in modo democratico. Ci irrita pensare che Dio avrebbe messo al potere un leader che disprezziamo, che ha debolezze, peccati e orgoglio, ma la realtà è che siamo stati noi, come popolo, a scegliere i re, non Dio attraverso i profeti, e ci siamo dati un Saul e molti “Saul” dopo di lui. Se leggiamo il libro dei Giudici, vediamo quanto sia raro che un re come Davide regni senza corruzione. Potremmo pensare che non sia giusto che regni la corruzione mentre noi restiamo seduti come spettatori impotenti con le mani legate dietro la schiena, ma non siamo legati: la preghiera e l'umiltà sono molto più efficaci della mancanza di rispetto. Qualunque terreno conquistiamo con la forza, sarà solo di breve durata, quindi la pazienza è la virtù dei re. La “politica senza lotta” di Davide nei confronti di Saul serviva a proteggere la sua futura posizione di re rispettabile di cui il popolo poteva fidarsi, che non aveva strappato la corona con la forza, ma se l'era guadagnata con l'onore che spetta a un nobile. Dio ha un modo per allontanare coloro di cui non è soddisfatto; il nostro compito è quello di sostenere i nostri politici con un approccio che funzioni davvero e resistere alla tentazione di rovesciare “l'unto di Dio”.
(Israel Heute, 6 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nel cuore del Negev occidentale, un tesoro nascosto da secoli ha finalmente visto la luce: un mosaico bizantino di 1.600 anni è stato esposto al pubblico per la prima volta, nel complesso del Consiglio Regionale di Merhavim. La scoperta, avvenuta circa 35 anni fa nei pressi del Kibbutz Urim, ai margini del sito archeologico di KhirbatBe’erShema, è ora al centro di un’iniziativa culturale che mira a restituire alla comunità un frammento prezioso della sua storia.
L’iniziativa fa parte del programma nazionale “Le antichità a casa tua”, promosso dall’Autorità israeliana per le antichità insieme al Ministero del Patrimonio. Dopo decenni di abbandono e deterioramento, l’opera è stata svelata al pubblico, restaurata e sistemata in una nuova area protetta e accessibile. “Negli anni successivi alla sua scoperta, le condizioni del mosaico si erano notevolmente degradate”, ha spiegato Ami Shahar, responsabile della conservazione. “Grazie a un lungo lavoro di restauro, oggi possiamo finalmente mostrarlo nella sua interezza”.
L’opera, considerata uno dei mosaici più belli mai rinvenuti in Israele, è composta da 55 medaglioni riccamente decorati. Le scene rappresentate spaziano dalla caccia agli animali esotici, dalla vita quotidiana a raffigurazioni mitologiche. Le tessere, in pietra policroma, vetro e ceramica, testimoniano l’abilità di un artista di altissimo livello. “È un’opera straordinaria del periodo bizantino,” ha raccontato l’archeologo Shaike Lender, che partecipò agli scavi originali. “La qualità dei dettagli è impressionante”.
Il mosaico decorava un grande monastero, parte di un insediamento fiorente grazie alla produzione vinicola. Gli scavi hanno restituito un torchio, magazzini e grandi giare per lo stoccaggio, a conferma della vocazione agricola e commerciale del sito. Il monastero si trovava lungo l’antico tracciato nabateo-romano delle spezie, tra Halutza e il porto di Gaza, un asse fondamentale per i commerci, ma anche una linea di confine tra il deserto e le zone abitate. Una posizione strategica che offriva riparo ai viaggiatori e proteggeva dagli attacchi delle tribù beduine.
Dopo la scoperta, il mosaico fu ricoperto per proteggerlo. Solo oggi, a distanza di decenni e grazie a un attento lavoro di recupero, è di nuovo visibile. Collocato in una nuova area recintata e sicura, è pronto ad accogliere i visitatori. “È una gioia poter finalmente condividere con il pubblico un’opera tanto spettacolare,” ha commentato Shahar.
L’inaugurazione ufficiale si è tenuta il 25 maggio e ha visto la partecipazione di studenti, residenti e autorità locali. Tra attività archeologiche, laboratori creativi e momenti di educazione ambientale, l’evento ha celebrato la riscoperta di un patrimonio e il valore della condivisione culturale. “È importante rivelare gemme storiche nella regione di Otef Gaza, affinché diventino attrazioni per i visitatori e aumentino l’afflusso in questa area vitale”, ha sottolineato Eli Escusido, direttore dell’Autorità per le antichità.
Il sito, ora trasformato in un giardino archeologico, sarà visitabile grazie a un percorso dotato di cartelli esplicativi e aree di sosta. Shay Hajaj, capo del Consiglio Regionale di Merhavim, spiega come “questo bellissimo mosaico sarà conservato qui e diventerà un punto di riferimento per visite e apprendimento”, chiarendo come un pezzo di storia antica sia stato restituito al presente per ispirare il futuro.
Dal 7 ottobre in Israele esistono due tipi di vita quotidiana. Quella vecchia, con il lavoro, lo studio, le faccende domestiche, gli appuntamenti, le bollette. E quella nuova, con le notizie sui soldati caduti, gli ostaggi, l'allarme missili e le storie personali che non si dimenticano facilmente. Entrambe coesistono. E noi continuiamo a vivere, in qualche modo. Il nostro figlio più piccolo studia in una scuola di musica. Canta, fa prove, registra. Mentre noi a casa seguiamo le notizie, lui è a lezione insieme alla nipote di Eli Sharabi, che è stato tenuto in ostaggio dall'Hamas per mesi. Il fratello di Eli, Yossi, è stato ucciso durante la prigionia. Qui la vicinanza agli eventi è ovunque. Non sono notizie lontane, riguardano le persone che incontri. A scuola, a casa, in treno. Nostra figlia va al lavoro e frequenta anche corsi di formazione continua. Fa il suo lavoro con coscienza e pensa ai prossimi passi della sua vita. Durante il suo tirocinio all'Accademia di Design aveva una collega che, insieme alla sorella, è stata uccisa alla festa Nova. E a volte ricorda la sua amica d'infanzia, il cui fratello minore era anche lui al festival. Lui non è tornato.
• Ricordi personali
Fa parte della vita quotidiana: ricordi personali che affiorano all'improvviso, silenziosi, senza grandi parole. E poi la vita continua. Come molti in Israele, anche i nostri tre figli hanno un legame personale con gli eventi del 7 ottobre. Questo dimostra quanto sia davvero grande la portata di questa catastrofe: quasi tutti conoscono qualcuno che è stato colpito. Uno dei vicini del nostro figlio maggiore era alla festa Nova, anche lui non è più tornato. Mio figlio vive con sua moglie e due cani a Tel Aviv. Lavora come programmatore e vive la sua vita quotidiana. Quando a Tel Aviv suonano le sirene, vanno nel bunker. I cani vengono con loro, sembrano essersi abituati. Ci vediamo nel fine settimana. A volte a casa loro, a volte a casa nostra a Modi'in. Mangiamo insieme, parliamo, ma per lo più non di politica. Ci concentriamo su ciò che sta accadendo. Viviamo la nostra vita privata all'interno di questa realtà che sembra impossibile. Continuo a lavorare per Israel Heute. La nostra redazione si riunisce ogni due settimane a Gerusalemme, per il resto lavoriamo ancora da casa. Leggo testi, scrivo articoli, redigo notizie, quasi sempre riguardanti la guerra, gli ostaggi, il governo, le proteste. E poi di nuovo cose di tutti i giorni: porto fuori la spazzatura, passo l'aspirapolvere, rispondo alle e-mail, aspetto la fattura dell'artigiano, mi arrabbio per l'aumento dei prezzi al supermercato. Ogni mattina accompagno prima nostro figlio alla stazione, poi nostra figlia, ovviamente in orari diversi. La sera li vado a riprendere. Ormai mi definisco il “taxi di famiglia”. Quando sono alla cassa del supermercato e osservo le persone, mi chiedo spesso come abbiano vissuto il 7 ottobre. Cosa sanno, cosa portano con sé? Forse hanno perso qualcuno. Forse qualcuno della loro famiglia sta ancora aspettando il ritorno di un ostaggio. Forse loro figlio è stato arruolato. Si va avanti con la vita quotidiana, ma questa sensazione è sempre presente. Ti accompagna, silenziosa ma costante.
• La sera del seder Recentemente abbiamo festeggiato la Pasqua ebraica. Abbiamo trascorso la sera del Seder a casa con tutta la famiglia allargata. Per qualche ora è stato come se potessimo dimenticare la realtà là fuori. Abbiamo apparecchiato la tavola, acceso le candele, cantato i canti tradizionali. Abbiamo letto la Haggadah e raccontato, come ogni anno, della liberazione dalla schiavitù, dell'esodo dall'Egitto, del cammino verso la libertà. Ma questa volta era diverso. Mentre parlavamo della storica fuga, non potevo fare a meno di pensare agli ostaggi a Gaza. Sono ancora lì, nell'oscurità e nella paura. Per loro l'esodo non è ancora iniziato. E molti altri – uomini, donne, bambini – hanno perso la vita solo perché erano ebrei. Le parole della Haggadah, che di solito fanno parte di una tradizione festiva, hanno improvvisamente assunto un significato diverso. È stata una bella serata, ma una serata in cui tutto ciò che era successo era presente a tavola. Abbiamo mangiato, riso e cantato insieme, ma non è stato possibile ignorare l'altra realtà.
• L’atmosfera nel paese
Nelle ultime settimane sono aumentati anche gli allarmi missilistici, sempre a causa degli Houthi. Quando suona la sirena, ci riuniamo tutti nella stanza di nostro figlio. È il nostro rifugio. Dagli anni '90 in Israele è obbligatorio avere una stanza di questo tipo in ogni appartamento. Per noi è semplicemente la sua stanza, fino a quando non suona l'allarme missilistico. Ciò che mi preoccupa di più è l'atmosfera nel Paese. Dopo il 7 ottobre siamo stati uniti per un breve periodo. C'era un senso di coesione, di rispetto reciproco. Ma ora sono tornate le vecchie tensioni. Ci sono di nuovo manifestazioni. Si litiga, si accusano, si urla, come se nessuno avesse imparato nulla. Come se questa guerra non fosse stata una prova comune, ma solo una pausa nella vecchia disputa. Alcuni dicono che è un segno di normalità. Forse. Ma sembra sbagliato. Perché la guerra non è finita. Gli ostaggi non sono liberi. I soldati continuano a combattere. E noi litighiamo di nuovo come prima, come se nulla fosse successo. Eppure, in sottofondo, si percepisce che nulla è davvero normale. La vita dopo il 7 ottobre è cambiata. Ma è la nostra vita e deve andare avanti. Noi teniamo duro: alla nostra famiglia, alla musica, alle conversazioni, al lavoro, alle piccole cose che ci danno sostegno. E alla speranza che forse impareremo ancora qualcosa. E che un giorno riusciremo a ritrovare la nostra unità, nonostante tutto. E che presto tutti gli ostaggi torneranno a casa. Anche quelli che non sono più in vita. Che possano finalmente riposare in pace.
(Israel Heute, 6 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Gli ultraortodossi insistono su una regolamentazione delle esenzioni dal servizio militare
GERUSALEMME – Da alcuni giorni il futuro del governo israeliano è incerto. Come già in precedenti crisi governative, il problema riguarda la regolamentazione del servizio militare degli ultraortodossi. I credenti osservanti lamentano che il governo stia ritardando il voto su una legge che prevede delle deroghe. Nel giugno 2024, la Corte Suprema aveva stabilito all'unanimità, con una decisione storica, che le deroghe per gli ultraortodossi non hanno alcun fondamento giuridico. La nuova legge dovrebbe servire a crearne uno. In risposta alla sentenza, a luglio l'esercito ha iniziato a reclutare con maggiore intensità gli ultraortodossi, ma con scarsi risultati. Ad aprile, su 19.000 cartoline di precetto, solo 232 uomini hanno iniziato il servizio militare. Attualmente in Israele vivono circa 80.000 ultraortodossi soggetti all'obbligo di leva.
• Il governo sotto pressione Secondo la volontà dei due partiti ultraortodossi, Ebraismo Unito della Torah e Shas, la Knesset avrebbe dovuto approvare la legge entro la fine della festa di Shavuot, il 3 giugno. I partiti avevano già fissato delle scadenze, ma poi le avevano lasciate scadere. Mercoledì, tuttavia, il Consiglio dei Saggi della Torah ha dato istruzioni al leader del partito Degel HaTora, Moshe Gafni, di uscire dalla coalizione. Degel HaTora forma insieme ad Agudat Israel l'alleanza politica Ebraismo Unito della Torah (UTJ), che è rappresentata con sette seggi alla Knesset. Secondo quanto riferito, anche Agudat Israel sta spingendo per la fine della coalizione. L'UTJ non può però far cadere il governo da solo, poiché quest'ultimo dispone di una maggioranza di 8 voti alla Knesset. Lo Shas, con 11 seggi il più forte dei due partiti ultraortodossi, vuole però attendere gli sviluppi dei prossimi giorni. I partiti dell'opposizione Yesh Atid, Israel Beiteinu e I Democratici vogliono proporre mercoledì prossimo lo scioglimento della Knesset. L'ordine del Consiglio dei Saggi della Torah è stato dato dopo un incontro tra i rappresentanti religiosi e il presidente della commissione difesa, Juli Edelstein, martedì sera. L'incontro sembra non aver soddisfatto i fedeli osservanti. Il politico del Likud ed ex presidente della Knesset chiede una maggiore partecipazione degli ultraortodossi al servizio militare e sanzioni per i renitenti. In caso contrario, la proposta di legge non sarà approvata dalla commissione.
• Opinioni contrastanti La questione del servizio militare per gli ultraortodossi è da molti anni oggetto di dibattito in Israele. Tuttavia, alla luce del massacro terroristico del 7 ottobre e della guerra di Gaza, essa assume un'urgenza ancora maggiore. In particolare, la chiamata alle armi dei riservisti grava sulle famiglie e sulle imprese. Partiti come Yesh Atid e Israel Beiteinu sostengono tradizionalmente che la difesa del Paese debba essere distribuita su tutte le spalle, quindi anche sugli ultraortodossi. Ciò è tanto più vero in quanto la percentuale di ultraortodossi in Israele è in forte crescita grazie alla natalità elevata. I credenti osservanti continuano a insistere su deroghe a favore dello studio della Torah. A dicembre, l'ex rabbino capo sefardita Yitzhak Yosef aveva suscitato scalpore affermando che era proibito arruolarsi nell'esercito. Egli aveva anche lamentato che alcuni ultraortodossi che lo avevano fatto avevano perso la fede.
• Pubblicata una registrazione segreta Il capo del governo Benjamin Netanyahu sembra tenere d'occhio questo aspetto. Mercoledì, l'emittente televisiva “Kanal 13” ha pubblicato la registrazione segreta di una conversazione tra lui e il rabbino Moshe Hirsch. Nella conversazione, avvenuta a marzo, Netanyahu ha affermato che unità dedicate agli ultraortodossi dovrebbero preservare la loro fede e il loro stile di vita. Netanyahu ha spiegato che l'esercito sta attualmente creando le condizioni per integrare gli ultraortodossi, “in modo che chi arriva come haredi possa ripartire come haredi”. Ha poi aggiunto: “Non vogliamo solo proteggere lo Stato di Israele, ma anche il mondo della Torah”. Netanyahu ha tuttavia messo in guardia dal procedere troppo in fretta con la legge, perché potrebbe fallire per motivi procedurali. Inoltre, l'esercito avrebbe bisogno di più tempo per prendere le misure necessarie. Durante il colloquio, Netanyahu ha anche affermato che l'ex ministro della Difesa Joav Gallant e l'ex capo dell'esercito Herzi Halevi si erano opposti a questi sforzi. Poiché entrambi non sono più in carica, la strada sarebbe libera per una regolamentazione legislativa. Il sito di notizie “Times of Israel” ha tuttavia sottolineato che sia Gallant che Halevi erano favorevoli a unità ultraortodosse e alla promozione dei credenti osservanti. Halevi, ad esempio, si era espresso a favore della creazione di una scuola talitica nella Valle del Giordano per i soldati ultraortodossi di stanza nell'est del Paese. Secondo diversi media, Netanyahu sta attualmente cercando di mediare tra le posizioni con una “maratona” di incontri. Vuole evitare la fine del governo nel bel mezzo della guerra. Le prossime elezioni regolari sono previste per ottobre 2026.
(Israelnetz, 5 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Milano si prepara ad accogliere un dibattito pubblico sul conflitto israelo-palestinese con la manifestazione “Due Popoli. Due Stati. Un destino”, in programma nel pomeriggio al Teatro Franco Parenti, promossa da Azione e Italia Viva. Un appuntamento, al quale però non parteciperà Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano.
«Come ho detto, capisco le motivazioni dell’evento, ma non condivido alcune delle posizioni espresse», spiega Meghnagi a Pagine Ebraiche. «Non sarò in sala, ma incontrerò i promotori dell’iniziativa prima dell’inizio, per un confronto diretto. Niente dibattiti pubblici, ma un dialogo franco e costruttivo». Al tavolo saranno presenti esponenti di Azione, Italia Viva e del Partito democratico.
Il presidente degli ebrei milanesi sottolinea il valore del dialogo, anche con interlocutori critici: «Il mio ruolo istituzionale è quello di confrontarmi con tutte le forze politiche che lo desiderano, anche quando ne contesto le posizioni. Non condivido quanto è stato detto su Israele da alcuni dei partecipanti, ma penso sia fondamentale mantenere aperto un canale di comunicazione».
Rimane la forte preoccupazione rispetto a certa narrativa: «Si può criticare il governo di Benjamin Netanyahu, ma associare Israele al genocidio è non solo falso, ma estremamente pericoloso. Lo dimostra l’impennata dell’antisemitismo registrata a livello globale». Simili accuse, rileva Meghnagi, non si limitano a colpire lo stato di Israele, ma finiscono per ricadere sull’intero popolo ebraico, attribuendo una responsabilità collettiva per crimini non commessi. Una distorsione retorica, conclude, «che alimenta l’odio antisemita da riconoscere e contrastare con assoluta fermezza».
Esporre la bandiera palestinese dai balconi non significa preoccuparsi per la sorte dei bambini della Striscia, ma schierarsi con chi vuole distruggere Israele. È questo il gioco dei terroristi: usare le vittime civili per rinfocolare l'antisemitismo latente.
di Silvana De Mari
Lo scopo della strage del 7 ottobre era scatenare una dura reazione dello Stato ebraico, che avrebbe inesorabilmcnie causato morti tra la popolazione
Chi adesso sventola i vessilli pro Pal non ha invece battuto ciglio per l'uccisione di donne e fanciulli a opera dei miliziani islamici
Non date da mangiare al drago. Non buttate benzina sul fuoco. Qual è la definizione di orco? L'orco è colui che ha come scopo l'uccisione dei bambini; quando può li uccide con particolare ferocia, felice di causare dolore. Dopo averli uccisi festeggia. L'uccisione del bambino e il dolore sono lo scopo dell'orco. L'azione dell'orco non è un atto di guerra.
I bombardamenti di Dresda e Berlino, per citare i due più terribili, avevano lo scopo di causare una resa. I morti che hanno provocato erano il mezzo per ottenere un fine. Nei campi di sterminio la morte era il fine. Israele combatte dal 7 ottobre una guerra che non voleva e che è stata provocata. Gli zuzzerelloni di turno stanno scrivendo che il 7 ottobre non è mai esistito, ma che in realtà Israele se lo è cercato o se lo è fatto da solo, per il piacere di subire bombardamenti da Ovest, Gaza, Nord, Libano, Est, Iran e Sud Yemen, di avere l'economia distrutta e di mandare i propri soldati a morire. Scrivono che il 7 ottobre era la scusa per occupare Gaza. Israele aveva già Gaza: se ne sono andati nel 2005, nella speranza della pace, lasciando dietro di sé infrastrutture favolose, desalinizzatori, impianti di irrigazione, serre, che sono state poi distrutte in quanto «sioniste». Durante la presenza israeliana a Gaza sono stati costruiti scuole, ospedali, strade e la popolazione è raddoppiata grazie al benessere.
Coloro che hanno massacrato il 7 ottobre sono stati in tutto e per tutto orchi. Hanno bruciato, stuprato, deriso il dolore. Hanno ucciso bambini, sventrato donne incinte. Hanno rapito due fratellini, rispettivamente di 10 mesi e 4 anni, rapiti insieme alla loro mamma, per poi essere strangolati un mese dopo il loro rapimento. Qual è stato lo scopo del massacro del 7 ottobre? Scatenare la risposta israeliana, che era inevitabile. O forse no? Se tutto il mondo, Papa, vescovi, cardinali, parroci e frati, ogni singolo giornalista, ogni singolo blogger, ogni singolo attore, ogni singolo regista e soprattutto ogni personaggio politico da Vladimir Putin all'ultimo deputato 5 stelle, si fossero alzati in piedi compatti con le bandiere israeliane in mano, per esprimere la loro indignazione e la vicinanza al Paese ferito, forse Israele si sarebbe fermata. Se ogni singolo occidentale si fosse offerto come ostaggio in cambio dei due fratellini rapiti, forse Hamas sentendosi disapprovata avrebbe restituito gli ostaggi e Gaza sarebbe in piedi. Non è successo niente di tutto questo. Non solo le condoglianze sono state poche, svagate e sussurrate con poche parole di circostanza, ma al contrario, sono iniziate immediatamente le accuse di genocidio.
L'accusa di genocidio è una costante quando si parla di Israele. Mentre guerre atroci insanguinano il mondo nell'indifferenza generale, da sempre gli occhi sono puntati su Israele. Anche nel 1982 Israele è stato accusato di genocidio: come sempre non aveva cominciato la guerra, e come sempre era stato considerato irrilevante che si stesse difendendo. Israele aveva risposto al fuoco del Libano e come in tutte le risposte militari aveva causato morti civili. Lo scopo della guerra era far cessare gli attacchi dal Libano, ma ugualmente gli zuzzerelloni di turno hanno accusato Israele di genocidio, e hanno buttato una bara davanti alla sinagoga di Roma, accusando quindi tutti gli ebrei del mondo, inclusi quelli di Roma, dell'inevitabile risposta israeliana presentata come qualcosa di arbitrario e crudele. Poche settimane dopo la sceneggiata della bara, un'accusa a tutti gli ebrei di essere assassini, quella bara è stata riempita, con la morte di Stefano Taché, bimbo ebreo di 2 anni ucciso davanti alla moschea di Roma.
Per i palestinesi tutti gli ebrei sono colpevoli a prescindere, ma anche tutti i cittadini di un qualsiasi Stato che ha relazioni diplomatiche con Israele. Questa è la giustificazione del terrorismo internazionale. Non esiste un terrorismo tibetano, come non è esistito un terrorismo armeno. Gli ebrei reduci dai campi di sterminio non hanno fatto saltare bus scolastici a Berlino. Il terrorismo contro civili non nasce dal dolore di un popolo: nasce dalla cultura di morte in cui quel popolo è immerso.
Lo scopo del 7 ottobre era scatenare la reazione israeliana. La risposta israeliana inevitabilmente avrebbe causato morti civili, e quelle morti civili, soprattutto bambini, erano e sono la benzina fondamentale per far rinascere l'antisemitismo europeo, farlo zampillare così da rendere accettabile l'idea della distruzione di Israele, e rendere un inferno la vita di ogni ebreo nel mondo. Le vittime civili devono essere il più possibile, soprattutto donne e bambini. Lo hanno spiegato chiaramente i capi di Hamas. Questo è il motivo per cui ai civili è vietato l'ingresso nei 500 chilometri di tunnel che costituiscono una terrificante città della morte e della guerra sotto casa, ma che sono anche ottimi rifugi antiaerei.
Cosa dobbiamo fare per evitare questi morti?
Quello che adesso tutti stanno facendo, cioè parlarne, è il miglior sistema per aumentare questi morti. Il male sfrutta la parte migliore di noi, in questo caso la compassione per i bambini. Innumerevoli persone dai loro balconi o sulla loro pagina Facebook stanno esponendo la bandiera palestinese se pensando che esporre quella bandiera voglia dire: mi dispiace per i bambini palestinesi uccisi. Il fatto che quasi nessuno abbia esposto la bandiera israeliana il 7 ottobre vuol dire chiaramente che dei bambini israeliani non importa nulla o, peggio, che ritengono gli ebrei mentitori, cioè che si sono inventati la morte dei loro figli pur di poter uccidere. I significati della bandiera palestinese, soprattutto se esposta da gente che non ha esposto quelle israeliana il 7 ottobre, sono tre: voglio la distruzione dello Stato di Israele, articolo uno di Hamas; voglio lo sterminio di ogni ebreo nel mondo, articolo sette di Hamas; ho trovato lodevole l'assassinio di civili inermi israeliani.
Secondo alcuni la cosa da fare è esporre entrambe le bandiere, quella della Palestina e quella di Israele. In realtà anche questo è sbagliato perché vorrebbe comunque continuare a tenere l'attenzione sul conflitto del Medio Oriente, conflitto fortunatamente molto meno sanguinoso di altri, e questa azione è il motore di tutto. Qualcuno ricorda i morti causati da Putin in Cecenia? Avevano fatto l'attentato di Beslan, 300 bambini uccisi. Qualcuno ricorda il numero dei morti nella guerra in Iraq? Avevano le armi di distruzione di massa. No, forse non ce le avevano. Qualcuno ricorda accuse di genocidio?
La nostra attenzione, e la nostra compassione, è la benzina della distruzione del Medio Oriente e dell'assassinio dei suoi bambini. Nella sola giornata del 29 maggio, sono stati pubblicati ben 61 articoli sulla stampa nazionale dedicati a Gaza e dintorni: la parte stranamente divertente è che sono accompagnati dalle parole «per vincere l' indifferenza» o« per vincere il silenzio». Il silenzio? 61 articoli? È quindi evidente che l'indifferenza è quella delle nazioni che non hanno ancora fatto una coalizione per distruggere Israele.
Dato che la nostra compassione è diventata il motore del male dobbiamo trincerarci nell'indifferenza, o almeno dobbiamo manifestarla. Dobbiamo dichiarare ad alta voce che non ci importa, non ci è mai importato né mai ci importerà delle sofferenze dei palestinesi. E falso? A maggior ragione dobbiamo dichiararlo perché è l'unica maniera perché quel popolo possa uscire da quelle sofferenze. È inutile che ammazziate altri bambini israeliani perché i vostri possano essere esposti ai bombardamenti: non ci interessa.
(La Verità, 2 giugno 2025)
Mentre piovono bombe, si marcia per la pace: tra Gaza e Tel Aviv, dolore senza tregua
di Anna Balestrieri
Le tensioni in Israele continuano a crescere con nuovi sviluppi militari e proteste civili. In un’escalation inaspettata, gli Houthi yemeniti hanno rivendicato un attacco diretto contro il cuore delle infrastrutture civili israeliane, l’aeroporto Ben Gurion, mentre Gaza continua a contare le vittime di una guerra che sembra non conoscere tregua. Parallelamente, in Israele, cresce la mobilitazione contro il conflitto con una marcia simbolica da Tel Aviv fino al confine con la Striscia, tra richieste di pace e controversie sull’identificazione con le vittime.
• Attacco missilistico Houthi all’aeroporto Ben Gurion Secondo quanto riportato dall’emittente yemenita Al Masirah, le forze armate yemenite fedeli agli Houthi hanno lanciato un missile balistico ipersonico “Palestine-2” contro l’aeroporto Ben Gurion, nei pressi di Tel Aviv. Il portavoce militare Yahya Sariya ha dichiarato che “l’operazione ha avuto successo” e che l’attività dell’aeroporto è stata sospesa. L’azione avrebbe anche impedito, per il secondo giorno consecutivo, l’atterraggio di un aereo cargo militare statunitense in Israele. Il gesto viene presentato come “un sostegno al popolo palestinese oppresso”, con un significato strategico e simbolico che intensifica ulteriormente la regionalizzazione del conflitto in corso a Gaza.
• I morti dalle due parti A Gaza la conta dei morti continua drammaticamente a salire. Purtroppo gli unici dati a disposizione sono quelli del Ministero della Salute della Striscia, controllato da Hamas, impegnato ormai dall’inizio della guerra a diffondere informazioni false per danneggiare la reputazione di Israele. Da parte israeliana, durante la settimana si sono contati quattro caduti tra i soldatiche servono nell’esercito. Lunedì, tre soldati israeliani sono stati uccisi nel nord della Striscia di Gaza, nella zona di Jabalya, a causa dell’esplosione di un ordigno piazzato lungo la strada logistica che stavano percorrendo con un Humvee. Le vittime sono il sergente maggiore Lior Steinberg (20 anni, di Petah Tikva), il sergente maggiore Ofek Barhana (20 anni, di Yavne) e il sergente maggiore Omer Van Gelder (22 anni, di Ma’ale Adumim), parente di un altro soldato ucciso sei mesi fa in Libano. Altri due soldati sono rimasti feriti in modo moderato. Le forze IDF sono intervenute per evacuare i feriti, operando in un’area disseminata di esplosivi, senza scontri attivi durante l’operazione. I cinque militari stavano partecipando a un’operazione per distruggere infrastrutture terroristiche sotterranee e di superficie. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir ha ordinato l’espansione dell’offensiva di terra a Gaza e la creazione di nuovi centri di distribuzione umanitaria. Secondo Zamir, Hamas ha perso il controllo dell’enclave. L’esercito israeliano ha annunciato che martedì è stato ucciso in combattimento nel nord della Striscia di Gaza il sergente maggiore della riserva Alon Farkas, di 27 anni. Nello stesso episodio, un altro soldato è rimasto gravemente ferito. Farkas, originario del Kibbutz Kabri nel nord di Israele, era studente di ingegneria all’Università Ben Gurion. Dall’inizio della guerra il 7 ottobre 2023, sono caduti 861 soldati israeliani. Dalla fine della tregua il 18 marzo 2025, sono stati uccisi 12 soldati e un ufficiale della polizia di frontiera a Gaza, oltre a due soldati morti in incidenti stradali operativi (uno a Gaza, l’altro sulle alture del Golan).
• Aiuti umanitari nel mirino: strade bloccate e nuove vittime L’esercito israeliano ha messo in guardia i residenti della Striscia dal recarsi verso i centri di distribuzione degli aiuti, dichiarando che le strade che vi conducono sono ora considerate “zone di combattimento”. Questo avvertimento segue la morte di almeno 27 palestinesi, colpiti ieri mentre aspettavano il cibo fornito dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta dagli Stati Uniti. La GHF ha sospeso temporaneamente la distribuzione per “lavori di aggiornamento, organizzazione e miglioramento dell’efficienza” e ha dichiarato di essere in trattativa con le Forze di Difesa Israeliane per rafforzare le misure di sicurezza intorno ai propri punti di distribuzione. Lo smistamento degli aiuti umanitari è stato oggetto di una serie di accuse infondate all’esercito israeliano.
• Bombardamenti israeliani contro obiettivi siriani A conferma della complessità e dell’espansione del conflitto, le Forze di Difesa Israeliane (Idf) hanno colpito stamattina obiettivi militari in Siria, nella zona meridionale del Paese, in risposta a un attacco missilistico lanciato ieri dalle alture del Golan. “Il regime siriano è responsabile di ciò che accade nel suo territorio”, ha dichiarato l’esercito israeliano in un comunicato, “e continuerà a sopportarne le conseguenze finché permetterà attività ostili contro Israele”.
• La protesta si muove: marcia per la pace da Tel Aviv a Gaza In mezzo a questo scenario bellico, una voce diversa si è alzata dalla società civile israeliana. Un gruppo di manifestanti anti-guerra ha dato il via a una marcia di tre giorni da Tel Aviv fino al confine con la Striscia di Gaza, chiedendo un accordo per il rilascio degli ostaggi ancora trattenuti da Hamas e la fine delle ostilità. Si tratta dell’ultima di una serie di marce di protesta organizzate negli ultimi anni da attivisti israeliani. In passato, marce simili avevano portato i manifestanti da Tel Aviv a Gerusalemme, culminando in sit-in di massa davanti alla Knesset. Nonostante i numeri iniziali siano modesti, gli organizzatori prevedono che la partecipazione crescerà sensibilmente nei prossimi giorni, soprattutto in prossimità del confine. Sono attesi anche diversi parenti degli ostaggi. Per venerdì è prevista una “White March” guidata da una vasta coalizione di organizzazioni di sinistra, coordinata dal movimento ‘Standing Together’. Tuttavia, la marcia non è stata accolta senza polemiche. Alcuni manifestanti sono stati contestati per aver esposto immagini di bambini palestinesi uccisi nei bombardamenti su Gaza, invece che ritratti degli ostaggi israeliani, come i fratellini Bibas, assassinati da Hamas. Il dibattito sull’identificazione delle vittime — e su chi abbia diritto di rappresentare il dolore — rimane così uno dei nodi più delicati in una società israeliana divisa, scossa e affaticata da mesi di guerra.
Al Jazeera detta l'agenda, i media riportano bufale Al Jazeera detta l'agenda, i media riportano bufale
di Ugo Volli
A inizio giugno si è diffusa nei media di tutto il mondo, a partire dalla BBC, la notizia lanciata dalla "Mezzaluna Rossa Palestinese", secondo cui l'Esercito israeliano aveva ucciso oltre 30 cittadini di Gaza presso uno dei nuovi centri di distribuzione di aiuti. Ma da dove viene questo numero? Da Hamas, come sempre. Parlando all'AFP, il portavoce di Hamas, Mahmud Bassal, aveva dichiarato: "Il numero dei martiri del massacro al centro di aiuti americano di Rafah è salito ad almeno 22, con oltre 120 feriti, inclusi bambini". Poi ha portato il numero a 31. Si è diffuso anche il solito filmato con immagini raccapriccianti. Peccato che non fosse vero niente, e la BBC è stata costretta ad ammettere di essersi accorta che il video era stato girato in un altro luogo e in tempo diverso, e soprattutto che i filmati dell'impresa americana dei soccorsi mostravano che non c'era stata nessuna sparatoria. Ma su tutti i giornali del mondo era apparsa in prima pagina la fake news sugli israeliani assassini, e le smentite erano state pubblicate tardi e solo nelle pagine interne.
Era sabato, invece, quando rom Fletcher, sottosegretario delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, aveva dichiarato alla solita BBC che "ci sono l4mila bambini che moriranno nelle prossime 48 ore se non riusciremo a raggiungerli". Poche ore dopo, l'Onu stessa è stata costretta a smentire: non c'è nessuna previsione di questo tipo. Anche qui, titoloni in tutto il mondo per la fake news e silenzio sulla smentita.
Veniamo in Italia, all’1 giugno. "Hamas apre alla tregua. Israele dice no", era il titolo in caratteri cubitali del quotidiano La Stampa. Repubblica, Domani e Avvenire titolavano in maniera simile. Esattamente il contrario della verità. Come ha chiarito lo stesso giorno proprio l'inviato americano Steve Witkoff, Israele aveva ufficialmente accettato la sua proposta e invece Hamas aveva risposto con una lettera riproponendo le sue vecchie condizioni. Il che costituiva chiaramente un rifiuto. Anche in questa occasione la fonte degli "autorevoli" quotidiani italiani era Hamas, magari attraverso quell'ufficio stampa del terrorismo che è Al Jazeera. Di qui arriva quotidianamente il numero di morti a Gaza (peraltro tutti qualificati come civili, per tre quarti donne e bambini, come se a Gaza non ci fosse una guerra e Israele non fosse lì per distruggere le truppe terroriste): cifre più volte smentite da indagini indipendenti ma sempre rilanciate dai media come verità assolute. Le smentite e le dichiarazioni israeliane sono sistematicamente ignorate dalla stampa, come se non ci fossero.
Quelle che ho elencato sono solo le ultime "gaffe" dei media internazionali e italiani. Ma si tratta di uno stillicidio quotidiano, iniziato almeno la sera del 17 ottobre 2023, quando ancora le operazioni terrestri non erano incominciate e tutta la stampa internazionale riportò la notizia di un bombardamento israeliano sull'AlAhli Arabi Baptist Hospital con almeno 500 vittime. Poi venne fuori che l'ospedale era intatto e l'esplosione era avvenuta in cortile, che i morti non erano 500 ma una ventina, soprattutto che non c'era stato nessun bombardamento israeliano ma la ricaduta di un missile difettoso sparato da Gaza contro Israele. Bisogna chiedersi il perché di questa soffocante campagna di stampa contro Israele, che fa dei media tradizionalmente più autorevoli (BBC, New York Times, Washington Post, o in Italia Repubblica, Stampa, Corriere) contenitori sistematici di fake news molto peggiori dei famigerati social. Non è naturalmente una congiura, è qualcosa di peggio: la sincera, diffusa convinzione che il compito dei media sia non informare in questo campo come in altri, ma educare il pubblico a pensare in modo giusto. Cioè a favore degli islamisti, contro l'Occidente e soprattutto contro Israele. Perché si consolidi una pace bisognerà che si de-radicalizzino non solo i palestinesi - che per lo più appoggiano i peggiori crimini terroristi - ma anche i giornalisti e gli accademici occidentali, che in grande maggioranza fanno lo stesso.
Hamas ha già vinto la sua guerra: delegittimare Israele e accreditarsi in Occidente, così ha ribaltato fatti e verità
di Rodolfo Belcastro
In tempi di guerra, ogni parola è un atto politico. Ogni immagine, ogni frame, ogni omissione contribuisce a modellare il campo simbolico e morale del conflitto. E nella guerra in corso tra Israele e Hamas, una battaglia si è già conclusa, ed è quella dell’informazione. Nonostante la sproporzione militare evidente tra le parti, Hamas ha saputo mettere in campo una strategia comunicativa tanto sofisticata quanto spietata, che ha piegato la narrazione globale a suo favore. Non ha sconfitto Israele sul terreno, ma lo ha sconfitto nel tribunale dell’opinione pubblica. Quello che osserviamo non è un effetto collaterale della guerra: è parte integrante della strategia di Hamas. Il gruppo terrorista islamista ha sempre saputo che la vera forza non risiede nelle armi – rudimentali o tecnologiche – ma nella capacità di indirizzare il giudizio morale delle masse globali. E per farlo si è dotato, negli anni, di una rete estesa di alleati informali e formali: Ong internazionali che operano nella Striscia senza reale autonomia; opinion maker occidentali pronti a legittimare ogni resistenza purché anti-israeliana; attivisti embedded con l’agenda del gruppo; e soprattutto la galassia dei social, dove i contenuti virali contano più della verifica e della responsabilità editoriale. Hamas ha così trasformato la sofferenza della popolazione palestinese – innegabile e drammatica – in un’arma comunicativa. Le immagini dei bambini feriti, delle madri in lacrime, delle macerie sono state rimosse dal contesto, decontestualizzate, a volte artefatte, e rilanciate con un’unica cornice: quella del colonialismo israeliano, della repressione sionista, dell’apartheid. Una narrazione potente, semplificata, a tratti mitologica, che ha avuto l’effetto di occultare la realtà: ovvero che il conflitto è stato riacceso da un attacco terroristico deliberato, pianificato da mesi, con lo scopo dichiarato di uccidere civili, rapire bambini, umiliare e provocare Israele e interrompere un processo di pacificazione dell’area mediorientale. Mentre gli Accordi di Abramo disegnavano infatti un nuovo scenario di cooperazione tra Israele e il mondo arabo, rompendo decenni di stallo diplomatico, Hamas ha risposto con la sola logica che conosce: la violenza. Eppure il Sabato Nero è già stato rimosso. Il dato più inquietante è che questa strategia ha funzionato anche grazie alla complicità di attori che si ritengono terzi o imparziali. Alcune Ong hanno rilanciato numeri e denunce provenienti da fonti controllate da Hamas senza alcuna verifica indipendente. Alcune testate giornalistiche – anche di grande prestigio – hanno rinunciato a contestualizzare, a confrontare le fonti, a interrogare le responsabilità. E nelle università, nei campus, nei talk show, si è affermata una forma di infantilismo morale che trasforma ogni espressione di vicinanza a Israele in una colpa, mentre si legittima ogni grido di odio e ogni ambiguità nei confronti del terrorismo. Si è creato un vasto movimento di consenso a cui hanno aderito – più o meno spontaneamente – personaggi pubblici, influencer, opinionisti. E siccome di consenso spesso la politica si nutre, in molti hanno cavalcato questo mainstream. La guerra dell’informazione non è un gioco. È uno dei fronti decisivi di questo conflitto. E chi oggi rilancia contenuti manipolati, narrazioni distorte, accuse infondate, contribuisce attivamente a una campagna di delegittimazione che mira non solo a Israele, ma al concetto stesso di democrazia liberale in Medio Oriente. Hamas non vuole solo distruggere lo Stato ebraico: vuole distruggere la sua legittimità, la sua narrazione, la sua ragione d’essere. La lucidità, in questo scenario, è un dovere morale. Non significa giustificare ogni azione militare, né chiudere gli occhi davanti alle vittime civili. Significa però comprendere che dietro le quinte di questo dramma umanitario c’è un’efficace e potente strategia di comunicazione che ha trasformato la verità in un campo di battaglia. E in quel campo, oggi, Hamas ha vinto. Non con i razzi. Ma con i post, i video virali, i silenzi complici e le mezze verità rilanciate da un sistema informativo troppo spesso prigioniero delle proprie ideologie. Per questo, oggi più che mai, servono voci capaci di resistere alla propaganda. Voci che rifiutino la semplificazione e rivendichino la complessità. Perché la pace, quella vera, non si costruisce sulla menzogna. E nemmeno sulla rimozione sistematica della realtà.
“Letters for life”, lettere per la vita, presenta una parte della corrispondenza privata del Rebbe Lubavitch, Rabbi Menachem M. Schneerson, attraverso l’approccio diretto e accessibile del giovane rabbino Levi Y. Shmotkin. È una lettura piacevole e profonda volta ad esplorare il benessere emotivo a partire dalle risposte che il Rebbe ha dato negli anni ai quesiti di ebrei di tutto il mondo che a lui si erano rivolti. Rebbe Schneerson è noto per aver rivestito un ruolo centrale nel mondo ebraico dopo la Shoah. È sopravvissuto ai pogrom russi e alle persecuzioni naziste prima di trasferirsi a New York. Quotidianamente nel suo ufficio e attraverso la corrispondenza rispondeva ai quesiti più diversi di interlocutori, di ogni età e livello di osservanza. Il testo è frutto di un lavoro di oltre cinque anni del rabbino Shmotkin che ha trovato nelle parole del Rebbe grande sollievo ed energia per affrontare un periodo difficile nella prima metà dei suoi vent’anni. Shmotkin ha cercato di presentare ai suoi lettori alcuni strumenti pratici per affrontare la vita con serenità e confidenza. Il rabbino, oggi ventisettenne, ha presentato il testo in oltre 60 città e ha da poco iniziato un tour europeo che ha visto tra le sue mete anche Roma. Qui il testo è stato presentato al Tempio Beth Eliyahu di Roma nell’ambito di una conversazione filosofica tra l’autore e Rav Zalmen. Shmotkin ha cercato di evidenziare alcuni temi e concetti ricorrenti che si possono rilevare nelle risposte del Rebbe suddividendoli in paragrafi finalizzati ad aiutare il lettore ad affrontare argomenti riconducibili alla sfera emotiva e psicologica attraverso le parole del Rebbe. E così, tra le pagine di Shmotkin si parla di come costruire buone abitudini, di come superare l’oscurità interiore, il malcontento, le preoccupazioni o ancora di come avere il coraggio di cambiare. Si tratta di temi che emergono nelle risposte del Rebbe rivolte ad interlocutori molto diversi tra loro. È il caso di una lettera indirizzata ad un adolescente vissuto negli anni Cinquanta o ad una donna che chiede consigli per migliorare il suo umore, o ancora ad una signora che stava maturando un forte senso di colpa per una vicenda di cui si riteneva colpevole. Nella conversazione con Rav Zalmen, Shmotkin ha parlato dell’importanza di essere presenti come esseri umani nelle relazioni interpersonali, della solitudine, del pericolo dell’autocommiserazione e della dipendenza che essa può provocare nelle persone. Secondo il rabbino Shmotkin, nella visione del Rebbe era fondamentale entrare in contatto con un livello più alto di noi stessi. «Spesso si ha la sensazione che la Torah sia un insieme di indicazioni pratiche, riti e divieti. Ciò può rendere l’atteggiamento verso le tradizioni un po’ distante e freddo. A volte, chi studia di più scopre una dimensione più spirituale, vasta e profonda, ma raramente si hanno gli strumenti per accedere all’insegnamenti psicologici, emotivi e comportamentali, offerti dalla stessa Torah. Linee guida, aiuti, consigli umani e pratici di cui abbiamo bisogno, soprattutto in periodi di incertezze, dipendenze e fragilità d’animo come questi anni» spiega Rav Zalmen secondo cui «il Rebbe ha sempre mostrato verso il prossimo, ebreo e non, un amore e un’empatia cristallini. Tale approccio si è poi tradotto in consigli e indicazioni pratiche basate sulla Torah che pochi maestri nelle generazioni hanno dimostrato di conoscere e di spiegare ad un pubblico più vasto». Rav Zalmen invita a leggere il lavoro di Shmotkin ritenendo che il messaggio del Rebbe «può aiutarci a renderci più consapevoli del fatto che anche i nostri problemi più intimi e personali trovano risposte e luce nelle nostre tradizioni e insegnamenti millenari. Tocca a noi trovare l’umiltà di ascoltarli».
(Shalom, 5 giugno 2025)
Italia ebraica – I presidenti di Comunità: «Un errore sospendere i rapporti con Israele»
di Adam Smulevich
C’è preoccupazione tra i rappresentanti delle Comunità ebraiche italiane per la decisione di alcune amministrazioni regionali e cittadine di centrosinistra di sospendere i rapporti con il governo israeliano. Una mossa che, è opinione comune, non sarà di nessun aiuto alla pace, al dialogo e alla convivenza. Ma anzi causerà nuove incomprensioni e fratture.Il primo a muoversi in tal senso è stato venerdì scorso Michele Emiliano, il presidente della Regione Puglia. «Il suo atto ci ha lasciati perplessi», spiega Daniele Coppin, consigliere e portavoce della Comunità ebraica di Napoli, referente per tutto il Meridione. «E se da una parte non sembra avere effetti giuridici, trattandosi piuttosto di un invito, è l’aspetto simbolico con le sue conseguenze a essere problematico. Una interpretazione estensiva dello stesso, indipendentemente dalla volontà, rischia di essere discriminatoria verso i cittadini israeliani e per esteso gli ebrei». Dopo la Puglia, potrebbe essere il turno della Campania? Per Coppin, il governatore Vincenzo De Luca «è sempre stato molto sensibile al mondo ebraico, ma ultimamente sembra avere sposato una narrativa allineata alle posizioni propal; non abbiamo avuto nessun segnale che possa procedere nella stessa direzione, ma non lo si può escludere».
Dopo Emiliano l’istanza è stata fatta propria dal presidente dell’Emilia-Romagna Michele De Pascale e da Matteo Lepore, il sindaco di Bologna. «Interrompere i rapporti è un errore, non aiuta il dialogo ma anzi favorisce l’incomprensione», sottolinea il presidente della Comunità ebraica bolognese Daniele De Paz. «La guerra è arrivata a un punto insostenibile, ma servono piattaforme diverse per esprimersi da quelle attuali: certo non può essere la modalità “Palestina libera dal fiume al mare” di molte iniziative propal». Secondo De Paz, per “abbassare la temperatura”, almeno qui in Italia, servono alcuni azioni nette. Il presidente degli ebrei bolognesi ne parlerà nei prossimi giorni con lo stesso De Pascale e si è già confrontato nel merito con l’arcivescovo cittadino Matteo Zuppi. «La prima è chiedere a tutti di fermarsi, da Israele ai terroristi di Hamas», dichiara De Paz. «C’è poi l’esigenza di portare avanti una rappresentazione pubblica che stia sopra le parti e nasca dal dialogo. Non siamo in Medio Oriente, non possiamo permetterci di importare l’odio generato dal conflitto, ma cercare il più possibile di trovare delle formule di ascolto e confronto. Non è facile, ma dobbiamo provarci».
Fortunato Arbib, il presidente della Comunità ebraica di Ferrara, è sgomento. «Tra le competenze che spettano a un presidente di regione non mi pare ci sia quello di interrompere i rapporti con uno stato», riflette. «Purtroppo anche in politica non si presta sufficiente attenzione alle conseguenze di ciò che si dice e fa; c’è molta violenza verbale in in circolazione e il rischio, come vediamo da notizie dalle quali siamo sopraffatti, è che possa diventare violenza anche fisica». Secondo Arbib, nato e cresciuto a Tripoli, costretto alla fuga per i pogrom e le violenze nel paese arabo, «c’è un pericoloso accanimento contro Israele che non considera la storia che ci ha portati fino a oggi». Ed è, a suo dire, un accanimento «irresponsabile».
«Come al solito», sostiene Riccardo Joshua Moretti, il presidente della Comunità ebraica di Parma, «quando qualcuno scatena una provocazione c’è subito chi indipendentemente da tutto si mette in fila: questa situazione ne è una prova». Secondo Moretti, a monte «c’è un problema più ideologico che oggettivo: sono pensieri e azioni unilaterali, dello stesso genere che vediamo rappresentato in molte manifestazioni. Gaza è ormai la capitale ideologica di un pensiero e ne paghiamo le conseguenze anche come ebrei italiani».
È dello stesso avviso Nicoletta Uzzielli, la presidente della Comunità ebraica di Modena: «Stupisce che prima di procedere non si sia dato ascolto al nostro pensiero; il periodo storico è difficile e con atti del genere la situazione può solo complicarsi. Servirebbe una maggior predisposizione all’ascolto del mondo ebraico, con la sua varietà di vedute: sarebbe un esercizio utile, in un momento di forte crescita dell’odio».
Missili dai ribelli Houthi e dalla Siria: nuove minacce alla sicurezza israeliana
di Anna Balestrieri
La tensione lungo i confini israeliani continua ad aumentare, con attacchi missilistici provenienti sia dallo Yemen sia dalla Siria. Per il terzo giorno consecutivo, un missile balistico lanciato dai ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, è stato intercettato dalle difese aeree israeliane.
• La serie di attacchi L’allarme è scattato la sera del 3 giugno intorno alle 21:00 in ampie aree del Paese, tra cui Gerusalemme, il centro di Israele, diverse colonie in Cisgiordania e alcune zone del sud. Secondo quanto riferito dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), non si registrano feriti né danni materiali. Il missile, che secondo i ribelli era diretto verso l’aeroporto Ben Gurion, ha causato l’interruzione temporanea del traffico aereo per circa 25 minuti. Frammenti dell’intercettazione sono stati rinvenuti nella città di Modiin.
• I missili dalla Siria Solo venti minuti prima, due razzi erano stati lanciati dalla Siria in direzione delle Alture del Golan, segnando il primo attacco da quel fronte in oltre un anno. In risposta, l’esercito israeliano ha colpito postazioni militari nel sud della Siria, attribuendo la responsabilità diretta al presidente siriano Ahmed al-Sharaa. “Il regime siriano è responsabile di quanto accade sul suo territorio e ne pagherà le conseguenze”, ha dichiarato l’IDF in un comunicato. Il ministro della Difesa Israel Katz ha annunciato che la risposta israeliana sarà “totale”. La Siria, da parte sua, ha negato ogni responsabilità, affermando di voler contenere l’operato di gruppi armati non statali e ha condannato i raid israeliani, denunciando gravi perdite umane e materiali. L’episodio rappresenta una nuova fase dell’instabilità regionale.
• L’escalation di aggressività degli Houthi Da marzo, quando Israele ha ripreso le operazioni militari contro Hamas nella Striscia di Gaza, gli Houthi hanno lanciato almeno 45 missili balistici e 10 droni contro Israele. Benché molti siano stati intercettati o siano caduti fuori bersaglio, un attacco a luglio 2024 aveva causato la morte di un civile a Tel Aviv e diversi feriti, portando Israele a colpire per la prima volta obiettivi in Yemen. Gli attacchi missilistici si sono intensificati anche in seguito ai raid israeliani dello scorso mese contro aeroporti e porti yemeniti sotto controllo Houthi, inclusi lo scalo di Sanaa e le infrastrutture portuali di Hodeida e Salif, in risposta all’attacco del gruppo terroristico all’aeroporto Ben Gurion. Il gruppo Houthi ha iniziato a colpire Israele e obiettivi marittimi nell’area nel novembre 2023, in risposta alla guerra scoppiata dopo l’attacco del 7 ottobre di Hamas. Una tregua siglata a gennaio 2025 aveva portato a una temporanea sospensione degli attacchi, ripresi con forza dopo la ripresa delle ostilità. Mentre la comunità internazionale segue con preoccupazione l’evolversi degli eventi, Israele si trova nuovamente a dover fronteggiare minacce su più fronti, con la prospettiva concreta di un conflitto prolungato a bassa intensità su ogni confine.
Quando lo studio della Torah diventa un cavallo di battaglia politico
L'escalation non è stata una sorpresa, ma la sua portata è storica. Per la prima volta dalla fondazione dello Stato di Israele, un capo di Stato maggiore in carica minaccia l'arresto di studenti ultraortodossi della yeshiva che si sottraggono al servizio militare obbligatorio. La reazione non si fa attendere.
GERUSALEMME - Decine di migliaia di riservisti vengono nuovamente chiamati alle armi, molti di loro per la seconda volta dall'inizio della guerra. Le tensioni nella società israeliana si acuiscono. Ma ci sono anche soldati ortodossi come Haim Treitel. Da un lato ci sono giovani uomini e donne che mettono da parte la famiglia, il lavoro e gli studi per difendere il loro Paese, spesso in condizioni difficilissime e per mesi. Dall'altro lato, un numero crescente di uomini ultraortodossi si sottrae al servizio militare per convinzione religiosa, con il sostegno dei propri leader politici e spirituali. Di fronte alla guerra in corso, una domanda scomoda si pone con nuova urgenza: per quanto tempo un Paese in stato di emergenza può mantenere una così fondamentale disuguaglianza tra i suoi cittadini?
• Ondata di arresti
Il capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha annunciato a maggio un'ondata di arresti contro gli ultraortodossi che non si presentano alla visita medica nonostante l'ordine di arruolamento. Le fazioni ultraortodosse in Parlamento hanno capito subito cosa questo comportasse. Per la prima volta dalla fondazione dello Stato di Israele, gli studenti della yeshiva, il cui studio della Torah è considerato lo scopo della loro vita, potrebbero essere sanzionati perché nessuna legge garantisce il loro status speciale. Attualmente sono stati inviati circa 20.000 ordini di arruolamento a giovani ultraortodossi. Il capo di Stato Maggiore ne prevede altri 60.000. Di conseguenza, ogni giovane ultraortodosso che ha raggiunto l'età di leva riceverà questa comunicazione. Tuttavia, la leadership spirituale degli ultraortodossi ha invitato a ignorarla. Il rabbino capo sefardita e leader spirituale del partito ortodosso Shas, Rabbi Yitzhak Yosef, ha addirittura detto: “Strappate i decreti di arruolamento, gettateli nel water e tirate lo sciacquone!”. In alcuni settori delle fazioni ultraortodosse in Parlamento c'è grande rabbia nei confronti del capo di Stato Maggiore. Alcuni lo accusano di comportarsi come un attore politico che vuole far cadere il governo, come è stato detto al ministro della Difesa Israel Katz. Ma si tratta di accuse infondate. Dal punto di vista del capo di Stato Maggiore, non è sostenibile richiamare nuovamente decine di migliaia di riservisti senza reclutare contemporaneamente nuovi gruppi per adempiere al servizio militare obbligatorio. Non da ultimo, anche la Corte Suprema lo ha ripetutamente richiesto. Agli ultraortodossi non importa se il capo di Stato maggiore ha ragione o meno. Ritengono di non poter sostenere un governo sotto il quale “gli studenti della yeshiva vengono arrestati e incarcerati solo perché studiano la Torah”. Hanno segnalato chiaramente a Netanyahu che se anche un solo studente della yeshiva verrà arrestato, lasceranno immediatamente il governo.
Per molti ultraortodossi, lo studio della Torah non è solo un percorso formativo personale, ma un servizio spirituale di importanza nazionale. Credono che lo studio intensivo della Torah offra protezione spirituale al popolo di Israele. Questo è importante almeno quanto la protezione fisica fornita dall'esercito. Ai loro occhi, uno studente della yeshiva difende il Paese in modo metafisico, attraverso l'osservanza dei comandamenti, la preghiera e lo studio assiduo. Paragonabili ai sacerdoti che non andavano in guerra, ma servivano solo nel santuario, gli studenti della Torah si considerano un'élite spirituale il cui compito è quello di influenzare il destino collettivo di Israele attraverso una grande vicinanza a Dio. L'ortodossia israeliana rifiuta lo Stato laico israeliano sotto molti aspetti. In particolare, l'ideale del “nuovo ebreo”, forte, combattivo e laico, è molto sgradito in questi ambienti. Il servizio militare rappresenta in questo senso uno stile di vita che essi considerano profano, sacrilego o addirittura pericoloso per la loro fede. L'esercito è visto come un luogo in cui i giovani uomini sono indotti ad adottare valori secolari. Lì sarebbero esposti a influenze non kosher, come ad esempio una promiscuità tra i sessi. Anche l'accettazione incondizionata di una nuova autorità è vista con occhio critico. Molti rabbini temono che il servizio militare possa mettere in pericolo spiritualmente gli studenti della yeshiva e persino allontanarli dalla fede. In molti casi, i rabbini non riconoscono affatto allo Stato di Israele l'identità corrispondente alla promessa messianica. Piuttosto, lo Stato è solo una struttura profana che viene tollerata solo finché protegge la vita ortodossa secondo la Torah. Uno Stato che non rispetta i comandamenti di Dio non può avanzare richieste religiose a chi teme Dio.
• Potere politico
I partiti ultraortodossi sfruttano il loro ruolo nelle mutevoli coalizioni di governo per rimuovere ripetutamente l'argomento del servizio militare obbligatorio dall'ordine del giorno. Il loro potere politico si basa in parte sul fatto che considerano lo studio della Torah una “linea rossa”: chiunque la tocchi mette in pericolo il governo. Nonostante tutte le minacce e le crisi degli ultimi mesi, gli ultraortodossi hanno sempre ceduto nei momenti decisivi e hanno sostenuto Netanyahu nell'approvazione del bilancio dello Stato e di altre leggi. Invece di agire, si sono limitati a proteste simboliche come l'assenza alle sedute plenarie. A porte chiuse hanno dichiarato: "Non c'è alternativa. Dopo le dimissioni non ci aspetta un governo più piacevole, anzi». Altri hanno affermato: «Chi vuole nuove elezioni a causa della legge sul servizio militare obbligatorio? È proprio quello che ci manca». Eppure tutti i partiti ultraortodossi sono d'accordo: se uno studente di yeshiva viene costretto a presentarsi alla visita di leva, il governo cade. Il leader del partito Shas, Arie Deri, ha recentemente chiarito in un'intervista: “Non appena un solo studente della yeshiva, sia nella sua yeshiva che a casa sua, verrà arrestato, per noi sarà una linea rossa. Non potremo più far parte di questo governo”. Deri ha sottolineato espressamente: “Non è una minaccia, non è una dichiarazione politica, è una posizione fondamentale e irrevocabile. Gli studenti della Torah sono la nostra anima”. Deri sa che alcuni sosterranno che il procuratore generale o la Corte Suprema vogliono rovesciare il governo Netanyahu arrestando ebrei ortodossi. Per questo ha ribadito la sua posizione: «Anche se il procuratore generale, il cui obiettivo è rovesciare la destra, spinge l'esercito e la polizia ad arrestare queste persone, non lo accetteremo in silenzio. Non appena ciò accadrà, rovesceremo il governo».
• Haim Treitel: la Torah nel cuore, il fucile in mano
La foto di copertina dell'ultimo numero della rivista Israel Heute è stata scattata da un giovane fotografo ortodosso di Gerusalemme. È stato lui a mettermi in contatto con il soldato: Haim Treitel, 20 anni. Già prima del 7 ottobre 2023, Haim aveva deciso di compiere un passo insolito per un ebreo ortodosso, arruolandosi volontario nell'esercito israeliano. L'ho chiamato, ma sono riuscito a raggiungerlo solo a tarda sera. Haim mi ha raccontato quanto fosse stata difficile questa decisione. A 17 anni, all'insaputa dei genitori, si era comprato uno smartphone. Da sempre era interessato alla politica e desiderava comprendere meglio il mondo. Quando gli ho chiesto cosa lo avesse spinto ad arruolarsi nell'esercito, mi ha risposto: “Mi hanno spinto molti pensieri, ma soprattutto volevo far parte del popolo israeliano. L'ebraismo ultraortodosso ha ben poco in comune con l'ebraismo della società israeliana. Tra i due mondi esiste una tensione insanabile”.
• La porta digitale sul mondo
La leadership spirituale degli Haredim non tollera gli smartphone nella loro comunità, così come non accetta l'esercito. Secondo i rabbini, entrambi seducono gli studenti della Torah. Ma è proprio la porta digitale sul mondo che ha aperto gli occhi a Haim. Ha capito in modo completamente nuovo cosa significa far parte del popolo di Israele, ovvero che si ha la responsabilità di proteggerlo. Come Haim, anche altri giovani trovano il coraggio di uscire dal ristretto mondo religioso. Haim ha sei fratelli. È l'unico della sua famiglia a prestare servizio nell'esercito israeliano. Suo fratello minore gli ha fatto capire che anche lui vuole diventare soldato. Gli ho raccontato che mia sorella è ultraortodossa e ha nove figli, ma nessuno di loro ha prestato servizio nell'esercito. Conosco bene questo conflitto e posso dire che tutti i tentativi di persuasione sono inutili. Si può essere convinti solo di propria iniziativa, come ha fatto Haim. “Mio padre è rimasto scioccato quando gli ho detto che volevo arruolarmi nell'esercito”, racconta Haim. “Ha cercato di dissuadermi in tutti i modi: ‘Prima sposati, poi vediamo’ o ‘Impara qualcosa che ti permetta di guadagnare bene’. Ma niente ha potuto fermarmi. Volevo diventare un combattente. Oggi presto servizio nella brigata Givati”. Alla domanda di suo padre se non avesse paura di morire, Haim ha risposto semplicemente: “No”. Alla fine suo padre gli ha dato la sua benedizione e da allora è sempre stato al suo fianco durante il giuramento e le altre cerimonie dell'unità, insieme ai suoi fratelli. Haim mi ha raccontato che più di sei mesi fa è stato ferito nella Striscia di Gaza, nella zona di Jabalia. Un cecchino palestinese lo ha colpito alla gamba. Oggi sta bene, ma ha ancora bisogno di fisioterapia.
• Un prezzo alto Quando Haim torna nel suo quartiere ortodosso durante il fine settimana, di solito non indossa l'uniforme, solo la sua arma. Non vuole provocare. “Spesso vengo insultato o urlato per strada, ma non mi dà più fastidio”. Molti dei suoi amici ortodossi, dice, vorrebbero arruolarsi nell'esercito, ma hanno paura. Gli studenti della Torah ammirano i giovani soldati che hanno la loro stessa età e sanno usare le armi. “Sono uomini, ma nel loro mondo tutto questo rimane astratto. In realtà vorrebbero farlo, ma alla fine prevale la paura”. Uno studente della Torah ha molto da perdere: la sua famiglia, il suo posto nella yeshiva, la possibilità di un matrimonio adeguato. «Quale famiglia ortodossa», chiede Haim, «vorrebbe dare la propria figlia a un soldato?» Il prezzo da pagare per un passo del genere è alto. Solo pochi sono disposti a pagarlo. La maggioranza della società ortodossa, dice Haim, non capisce la realtà del Paese. I loro rabbini vietano Internet e gli smartphone per proteggerli dal mondo esterno. Invece di affrontare onestamente la sfida, molti si limitano a ripetere scuse banali: “L'esercito non ci vuole” o “L'esercito vuole solo secolarizzarci”. Spinti da questa paura, gli ultraortodossi manifestano per strada, su ordine dei loro leader spirituali. “Meglio morire che servire”, scandiscono. Ma Haim contraddice con forza questo atteggiamento: "Il mondo in cui siamo cresciuti è sbagliato. Vogliamo una Torah con Derech Eretz – imparare la Torah, ma allo stesso tempo lavorare e servire nell'esercito“. ”Derech Eretz“, letteralmente ”la via del mondo", significa che lo studio della Torah non può essere separato dalla vita pratica, dal lavoro e dalla responsabilità sociale. Solo la Torah, senza impegno morale, professionale o civico, sarebbe incompleta. Abbiamo parlato fino a tarda notte. Haim è visibilmente orgoglioso di aver intrapreso questa strada. Questo lo rende parte di una piccola minoranza di studenti della Torah che si oppongono alla linea ufficiale dei loro rabbini. Seguiranno sempre più persone, dice, ma ci vorrà tempo. Perché non si tratta solo di una decisione tecnica, ma di una rivoluzione interiore, contro un intero sistema di valori.
(Israel Heute, 4 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nel libro “Testimoni di un secolo”, Ugo Intini parla di un incontro con Shimon Peres – con cui aveva intessuto un lungo rapporto di amicizia – e ricorda di avergli rivolto una domanda: “Sei sicuro che il senso di colpa per la Shoah possa consentire in eterno agli israeliani di fare ciò che agli altri non è consentito?”. E descrive la faccia del suo interlocutore, “avvolta di tristezza”. Io non concordo con l’autore, perché non mi pare che Israele abbia mai abusato del senso di colpa degli europei; tuttavia, prendendo come punto di riferimento la domanda, verrebbe da dire che dopo il 7 ottobre e gli eventi che hanno seguito quella tragica giornata è finita ogni possibilità per lo Stato ebraico di avvalersi del credito acquisito con 6 milioni di morti. Anzi, siamo arrivati al punto che Israele viene accusato di “genocidio” nei confronti dei palestinesi, come se le operazioni militari nella Striscia di Gaza saldassero il conto con la storia e – perché no? – anche con i regimi nazifascisti del secolo scorso, dal momento che lo Stato ebraico viene accusato di comportamenti analoghi inflitti alle “vittime civili innocenti” di Gaza e dintorni. E Benjamin Netanyahu, detto Bibi, diventa un nuovo Hitler.
Ormai gli ebrei non sono più nemmeno titolari del Giorno della memoria: il 27 gennaio, da quando si è riaperto il conflitto in Medio Oriente, è stato requisito dagli amici di Hamas, si inneggia alla Palestina libera dal fiume al mare, si sventolano i drappi palestinesi e si costringono gli ebrei a chiudersi in casa per non creare disordini, perché la loro presenza (si pensi al caso della Brigata ebraica) costituirebbe una provocazione. E i (presunti?) misfatti del premier e del suo governo ricadono su tutti i cittadini e le istituzioni di Israele, persino sugli ebrei della diaspora.
In Italia anche il governo e la maggioranza di centrodestra hanno saltato il fosso della condanna di Israele, consentendo alle opposizioni (che hanno toccato il fondo del disonore) di criticare sia il ritardo sia l’ambiguità con cui la maggioranza si è mossa. Perché non ci si salva l’anima dando un colpo al cerchio e uno alla botte, ovvero intimando a Israele di fermarsi, ricordando, però, che tutto è nato dal pogrom del 7 ottobre, e denunciando le responsabilità di Hamas. Perché se è vera - e lo è - la seconda parte del discorso, non è sensata la prima. Perché mai Israele dovrebbe fermarsi se non ha ancora conseguito gli obiettivi dell'azione militare di risposta al massacro dei civili nei kibbutz? Non ha liberato tutti gli ostaggi e non ha vinto la guerra.
Netanyahu ha sicuramente delle gravi responsabilità. Contro il suo popolo prima di tutto. Al potere da molti anni, la sua amministrazione non si è accorta che a un tiro di schioppo dai confini Hamas lavorava alla costruzione di una città sotterranea: un’opera che richiede anni di lavoro, traffici di automezzi, movimentazione di materiali e di manodopera. Un Paese che vanta i Servizi segreti migliori al mondo non è stato in grado di rivolgere quell’attenzione ai lavori nel sottosuolo che in una qualsiasi città della provincia profonda è il passatempo degli umarell. Come ha potuto il governo non prevedere un attacco – il 7 ottobre – in cui erano mobilitati mezzi e uomini armati, che devono necessariamente prepararsi in anticipo richiamando inevitabilmente l’attenzione? E come ha potuto consentire una sorta di rave party, con migliaia di giovani, nel deserto senza adeguate misure di sorveglianza e difesa?
Anche nella fase della reazione il governo israeliano ha seguito due obiettivi tra loro incompatibili: la restituzione degli ostaggi e lo sradicamento di Hamas nella Striscia. Questa linea di condotta ha proceduto a fasi alterne: il perseguimento del secondo obiettivo era condizionato dalle occasioni di negoziato attinenti al primo; così il mercanteggiamento sugli ostaggi è divenuto una polizza vita per Hamas, mentre cresceva l’isolamento di Israele in Occidente.
L’establishment israeliano ha sottovalutato la campagna mediatica con cui era stato preso di mira, come se stentasse a rendersi conto di quanto accadeva nel mondo e di come nazioni civili e amiche potessero farsi ingannare da una sequela di menzogne. Ha capito solo tardi che era finito il “tempo dell’innocenza” e che era ricomparso in superficie il fiume carsico dell’antisemitismo. Per Israele – sempre più solo – è il momento di fare una scelta. Un popolo che piange 6 milioni di morti deve mettere in conto il sacrificio di qualche decina di ostaggi per portare a termine il solo obiettivo che può garantirgli un futuro: la sconfitta totale di Hamas.
“Dal fiume al mare”. La messa in discussione dell’esistenza dello Stato di Israele
di Stefano Piperno
Un nuovo elemento di riflessione si è presentato inopinatamente nel conflitto tra Israele e Hamas, spia del limite oltre il quale non era immaginabile si potesse arrivare.
L’avvitamento senza apparente sbocco della situazione ha introdotto il seguente elemento inaudito: in accordo con la tesi del movimento terroristico, la messa in discussione dell’esistenza stessa dello Stato di Israele da parte dell’opinione pubblica più radicale, la stessa che continua ad agitare il concetto di genocidio, rappresenta gli israeliani come neo-nazisti, ha rimosso la mattanza del 7 ottobre e la giustifica come atto di logica ritorsione alla ghettizzazione cui Israele avrebbe costretto gli abitanti di Gaza, sorvolando sulla determinazione con cui Sharon nel 2004 impose il ritiro dalla striscia mandando l’esercito a rimpatriare con la forza i coloni riottosi.
È tragicomica una simile proposizione, mai realizzatasi per vie legali e pacifiche, ma solo con mezzi bellici, per citare alcuni esempi: l’Impero Ottomano, la Polonia e la Jugoslavia., oltre ovviamente quello cui mira Putin con “l’operazione speciale” in Ucraina ai giorni nostri.
Spesso è avvenuto il contrario: cioè la creazione di Stati che non esistevano ad opera di potenze vincitrici, il Medio Oriente disegnato dagli Anglo-francesi dopo la Prima Guerra Mondiale ne è l’esempio più eclatante, seguito da molti Stati post-coloniali in tutti i continenti (emblematico il caso di India e Pakistan, costato una migrazione biblica e milioni di morti, per motivi etnico-religiosi non dissimili dal caso ebraico-mussulmano).
È evidente che uno Stato riconosciuto dal diritto internazionale e membro permanente dell’ONU, esiste “per se ipse”, quindi solo la vittoria militare di Hamas potrebbe cancellare Israele dalle carte geografiche.
Bisognerebbe dunque che qualcuno facesse presente ai sostenitori della inverosimile tesi queste circostanze che hanno solide basi storiche.
Gli antisionisti, non dall’invasione di Gaza, ma da sempre hanno ritenuto che la Shoah non giustificasse la trasformazione del “focolare ebraico” in Palestina, promesso dalla dichiarazione Balfour, in uno Stato che si insediasse in territorio arabo.
Le contrarietà di una parte non trascurabile dell’opinione pubblica internazionale verso la politica di Israele è via via cresciuta in occasione delle ripetute crisi e guerre che hanno coinvolto lo Stato ebraico, dopo un periodo di sostanziale appoggio che va dal ‘48 al ‘67.
Senza riassumere i vari tentativi di soluzione del problema, spesso saltati sul filo di lana, è bene ricordare che ci hanno rimesso la vita uomini come Rabin, Sadat e forse lo stesso Arafat, per dire quanto forte da ambo le parti sia l’opposizione all’ipotesi di convivenza sullo stesso territorio di due culture tanto dissimili, anche se la presenza di oltre 2 milioni di arabi cittadini israeliani con pienezza di diritti, dovrebbe far riflettere.
C’è chi continua a sostenere la soluzione dei due Stati secondo la risoluzione dell’ONU, chi si rifà alla tesi di Amos Oz che sosteneva la necessità di un vero e proprio divorzio consensuale con una rigida separazione tra ebrei e mussulmani, come in Irlanda del Nord tra cattolici e protestanti, chi in fine auspica l’annientamento di Hamas, ipotizzando una sudditanza coatta della popolazione di Gaza all’organizzazione terroristica, ipotesi tutta da verificare, perché suscitano più di un dubbio le manifestazioni di giubilo della popolazione dopo il 7 ottobre, la mancanza di opposizione al regime di Hamas e la perdita di ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese presieduta dall’anziano Abu Mazen.
Resta comunque il timore che storicamente situazioni simili si sono sempre risolte con delle guerre che hanno mostrato con chiarezza vincitori e vinti.
Molti sono i dubbi che sono suggeriti da un approccio freddo, razionale e realistico, che riguardano il perché un esercito tra i più forti del mondo, suffragato da armamenti preponderanti, dal monopolio dello spazio aereo, una intelligence tra le più considerate, dopo un anno e mezzo non sia riuscito a liberare gli ostaggi e disarmare i miliziani di Hamas.
Questo fornisce argomenti a chi insinua che Netanyahu prolunghi la guerra per biechi motivi personali, ma per quanto male si possa pensare di lui è da escludere che il numero di vittime tra la popolazione di Gaza e di giovani reclute israeliane sia un prezzo che sia disposto a pagare all’infinito.
Un altro dubbio riguarda il futuro di Gaza e dei suoi abitanti, infatti il governo Netanyahu ha accettato, dopo quasi un mese dal 7 ottobre, la sfida di Hamas, senza però avere un piano per il dopoguerra, con l’unica soluzione possibile dell’occupazione della striscia, assumendo il rischio di futuri attentati e rivolte, l’esatto contrario di quello cui aspira la stragrande maggioranza dei cittadini israeliani (secondo recenti sondaggi il 70%): sicurezza e pace.
Mentre tutto questo avviene sotto i nostri occhi sgomenti, politica e comunicazione, sono venute meno ai loro ruoli istituzionali, cavalcando senza ritegno le pulsioni di pancia di un pubblico privo di memoria storica e facile preda del chiacchiericcio inconsistente di chi ha scelto a priori carnefici e vittime e propone soluzioni diplomatiche cui nessuno seriamente attende.
Da rimarcare le perentorie prese di posizione dei politici europei, parole al vento per placare le ansie e l’indignazione dei cittadini.
La Storia è come un fiume con molte anse, spesso il suo corso torna indietro prima di arrivare al mare, stiamo vivendo una fase di arretramento e il mare è lì che aspetta.
Perché siamo dalla parte di Israele e ci mettiamo la faccia: non intendiamo tacere di fronte al dilagare dell’odio antisemita mascherato da antisionismo.
Questa non è solo una raccolta firme, non è l’ennesimo appello. Vuole essere un manifesto, nel senso proprio del termine: una dichiarazione esplicita di persone di ogni provenienza politica e culturale, di ogni fede e ispirazione, unite nell’intento di dare una voce alle ragioni di Israele. Perché lì è insita, profondamente, la ragion d’essere dell’Occidente e di quei valori di libertà e democrazia che oggi sono minacciati. E perché chi minaccia l’integrità e la sovranità dello Stato di Israele, per le ragioni che ne portarono alla costituzione, minaccia il diritto di ciascun ebreo nel mondo a vivere in sicurezza. «Per primi vennero gli ebrei…», sappiamo come è andata a finire.
• Il perché della raccolta firme Per questi motivi un gruppo di persone si è messo in moto, confrontandosi, consultandosi. E lungo quella strada, dalle preoccupazioni per le imminenti manifestazioni del 6 e 7 giugno, e per tutte le altre che si succederanno, e che inesorabilmente si riveleranno semplicemente espressioni dell’odio per Israele e dunque antiebraico, hanno voluto mettere nero su bianco il loro punto di vista. Netto. Con una iniziativa che doveva inizialmente maturare in tempi più diluiti, e che poi, nell’urgenza dell’agenda che corre, è diventata un’altra cosa: la raccolta di adesioni di chi, in tempi mai tanto difficili, mette nome e cognome, storia e vita al fianco di Israele. Senza paura. L’idea all’inizio sembrava ardita, nel clima che si respira; invece progressivamente è cresciuta, fino a diventare una valanga, mettendo insieme – a ieri pomeriggio – 620 sottoscrittori, ma le adesioni continuano a fioccare ora dopo ora. Personalità della politica, della cultura, dell’università, del mondo delle imprese e delle professioni. Commercianti, avvocati, giornalisti. Donne e uomini uniti dall’esigenza di dare voce – contro tutto e tutti – alla fiera e libera democrazia israeliana, con il Riformista che è diventato veicolo di questo piccolo grande sommovimento di coscienze.
Le adesioni sono arrivate, prima alla spicciolata, poi più spedite, mano a mano che la raccolta prendeva forma, con il coordinamento della chat WhatsApp animata da sette-persone-sette (Fiamma Nirenstein, Nicoletta Tiliacos, Niram Ferretti, Iuri Maria Prado, Bruno Spinazzola, Aldo Torchiaro, Claudio Velardi), che avevano deciso che era venuto il momento di darsi una mossa. E così sono arrivati Massimo De Angelis e Paolo Sorbi, cattolici pro Israele, le tante firme raccolte da Bruno Gazzo, Presidente della Federazione Associazioni Italia-Israele. E quelle portate dal gruppo Reim, da Udai – emergenza 7 ottobre, dall’Associazione Italia-Israele capitanata da Celeste Vichi. Dal bellissimo gruppo sardo Chenàbura – Sardos pro Israele. Dal gruppo Punto su Israele, ai giornalisti di Radio Radicale, al Gruppo Panem et circenses, all’Associazione Setteottobre.
Né fame né occupazione illegale a Gaza Imprecisioni e inesattezze di Mattarella
Il Presidente della Repubblica ha usato dichiarazioni discutibili per condannare la reazione militare di Israele l'ldf vuole sradicare Hamas dalla Striscia. E non c'è carestia: il cibo viene distribuito direttamente alle famiglie.
di Ugo Volli
Ha fatto molta impressione la presa di posizione del Capo dello Stato sul Medio Oriente, proclamata solennemente nell'incontro con il corpo diplomatico in occasione della festa nazionale. Il Presidente Mattarella ha ribadito la sua preoccupazione per la diffusione dell'antisemitismo, il fatto che la sicurezza di Israele sia "imprescindibile" e la condanna per il "sanguinario attacco di Hamas contro vittime israeliane inermi, con ostaggi odiosamente rapiti e ancora trattenuti, che vanno immediatamente liberati". Proprio come aveva già detto molte volte, anche un mese fa nel messaggio al Presidente Herzog per l'anniversario della proclamazione dello Stato di Israele. Già in quella dichiarazione Mattarella aveva anche espresso posizioni che si potevano leggere come critiche nei confronti delle azioni politiche di Israele. Ma queste esortazioni erano collocate nell'ambito di una "amicizia radicata nella ferma adesione ai valori democratici [...] un ricco partenariato, in ambito politico, culturale ed economico [che] continuerà costantemente a offrire nuove opportunità di collaborazione". Ora invece il linguaggio è diventato molto più duro, e discutibile: "Che venga ridotta alla fame un'intera popolazione, dai bambini agli anziani, è disumano. È inaccettabile il rifiuto di applicare le norme del diritto umanitario nei confronti dei cittadini di Gaza. S'impone subito il cessate il fuoco.
In qualunque caso è indispensabile che l'Esercito israeliano renda accessibili i territori della Striscia all'azione degli organismi internazionali, rendendo possibile la ripresa di piena assistenza umanitaria alle persone". E ancora: "I palestinesi hanno diritto al loro focolare entro confini certi ed è grave l'erosione dei territori attribuiti all'Autorità nazionale palestinese, così come è illegale l'occupazione di territori di un altro Paese, che non può essere presentata come misura di sicurezza: si rischia di inoltrarsi sul terreno della volontà di dominio della barbarie nella vita internazionale". Con tutto il rispetto per il Presidente, queste affermazioni sono inesatte e preoccupanti. A Gaza non c'è mai stata la fame e soprattutto non c'è ora, quando Israele ha organizzato con gli Stati Uniti una grande operazione di distribuzione di cibo direttamente alle famiglie, saltando la mediazione corrotta delle organizzazioni internazionali, che permettevano ad Hamas di speculare e trarre grandi profitti dai doni della comunità internazionale, accumulando ingenti scorte, che sono state rivelate in questi giorni. I diritti umanitari dei civili sono stati rispettati come non era mai accaduto in alcuna guerra. Quanto al tema della "erosione dei territori attribuiti all'Autorità nazionale palestinese", si tratta di una grave inesattezza. Gli insediamenti israeliani sono tutti collocati nell'area che gli Accordi di OsIo attribuiscono all'esclusiva amministrazione dello Stato di Israele, in attesa di una sistemazione definitiva. Se l'occupazione dei "territori di un altro Paese" è quella di Gaza, è chiaro che essa è necessaria per eliminare il terrorismo.
Ma come si può parlare di "un altro Paese" e allo stesso tempo di un "focolare" che dovrebbe costituirlo? E alludere a "disumanità", "barbarie" e "volontà di dominio" significa cadere nella trappola della propaganda di Hamas, e ignorare gli sforzi continui dell'Esercito israeliano per limitare i danni alla popolazione civile in una guerra durissima che Israele non ha voluto, e che ora deve combattere per sottrarre i propri cittadini alla barbarie vera: quella di Hamas.
Nel 1922, Walther Rathenau, ebreo, industriale, inventore, sociologo, ministro degli Esteri tedesco, venne ucciso da un gruppo terrorista. Il suo assassinio venne scrupolosamente preparato dalla stampa dell’estrema destra antisemita. Una vera e propria campagna d’odio che armò le mani dei Freikorps che passarono all’azione. Alcuni anni dopo, nel 1936, lo statista francese Léon Blum, ebreo e socialista, subì un violentissimo pestaggio da parte di alcuni militanti dell’Action Française e dei Camelots du Roi, due organizzazioni reazionarie. L’aggressione, anche in questo caso, era stata preceduta da una martellante campagna antisemita contro «l’ebreo Blum».
Adesso, in seguito al recente omicidio politico di Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, funzionari presso l’ambasciata israeliana a Washington DC, un gruppo di anziani ebrei di Boulder, in Colorado, è stato preso di mira da un grave atto di terrorismo filopalestinese. Mohamed Sabry Soliman, 45 anni, ha lanciato delle molotov contro un gruppo di ebrei, perlopiù anziani, che manifestavano per richiamare l’attenzione sugli ostaggi israeliani ancora prigionieri a Gaza.
Le vittime sono sei, hanno un’età compresa tra 67 e 88 anni, e sono state trasportate d’urgenza in ospedale con gravi ustioni. La polizia è intervenuta e ha ammanettato Soliman, in stato di agitazione e con ancora in mano degli ordigni incendiari. Durante l’aggressione, è stato sentito gridare «Palestina libera».
È ormai chiaro che la caccia agli ebrei e ai sostenitori di Israele è aperta. Si tratta del risultato diretto della campagna diffamatoria in corso promossa dai media mainstream, da leader politici soprattutto di sinistra, dall’élite accademica, che dall’ottobre 2023, non fanno che demonizzare lo Stato d’Israele, accusandolo di «genocidio» e «crimini contro l’umanità». Una vera e propria istigazione a delinquere, che fabbricando crimini inesistenti («genocidio dei palestinesi») ne realizza di concreti.
Perché a Gaza è in atto una guerra tragica e terribile ma non un genocidio
di Gustavo Micheletti
Il termine “genocidio” porta con sé un peso storico e giuridico che richiede una definizione precisa per evitare fraintendimenti. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite del 1948, «per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.». La definizione di “genocidio” è riconosciuta a livello internazionale ed è utilizzata in ambito giuridico, come base per i procedimenti nei tribunali internazionali. La premessa chiave affinché si possa procedere con un’imputazione di “genocidio” è l’intenzione di distruggere un gruppo specifico. Quest’intenzione non può essere evinta dal numero dei civili morti o da altri effetti devastanti e strazianti che sono spesso connessi con una guerra, perché altrimenti ognuna potrebbe essere considerata un genocidio. Ciò che rende un atto o una strategia bellica un “genocidio” non è solo la gravità delle azioni, ma l’intenzione deliberata di eliminare un gruppo specifico in quanto tale: non quello di sconfiggerlo in un conflitto, ma quello di sterminarlo al là dei vantaggi che ciò potrebbe procurare per uscirne vincitori. Questa intenzione è il cuore della sua definizione, che ne distingue il significato da quello di altre espressioni che ricorrono spesso per definire alcuni momenti o aspetti di tanti conflitti, come per esempio “crimini di guerra o contro l’umanità”, “massacri” o “devastazioni”. Ma se per qualificare un atto come “genocidio” deve essere provato che l’intento specifico o prioritario era distruggere un gruppo protetto (nazionale, etnico, razziale o religioso), quando tali distruzioni sono gli effetti, anche devastanti, di una strategia bellica l’uso di questo termine risulta inappropriato. Ad esempio, un’invasione per motivi territoriali o economici non è automaticamente genocidio, a meno che l’obiettivo primario non sia proprio quello di eliminare un gruppo specifico. In ogni guerra, naturalmente, possono verificarsi singole azioni che rientrano nella definizione di “genocidio”, come ad esempio dei massacri mirati, ma gli attacchi militari a obiettivi strategici che comportano massicce perdite civili non soddisfano di per sé il criterio dell’intenzione genocida, che invece, per esempio, si verificò in Ruanda nel 1994, quando in un contesto di conflitto ci fu il chiaro intento di sterminare i Tutsi. Dunque, quando l’intenzione principale delle azioni belliche è legata a obiettivi militari, politici o di rappresaglia, piuttosto che a un piano deliberato di sterminare un gruppo nazionale, etnico o religioso, non si può parlare di “genocidio”, che è una cosa diversa da una “strage” e o da un “massacro”. Stragi e massacri sono stati compiuti da tutti paesi belligeranti durante ogni conflitto. Durante il secondo conflitto mondiale gli Alleati condussero massicci bombardamenti sulle città tedesche di Dresda e di Amburgo causando centinaia di migliaia di morti civili. Queste azioni furono devastanti, ma erano considerate parte della strategia militare per indebolire la Germania nazista, non un tentativo di distruggere i tedeschi come gruppo etnico. I bombardamenti e le successive occupazioni alleate non avevano l’obiettivo di eliminare i tedeschi come popolo, ma di sconfiggere il regime nazista e porre fine alla guerra. Alcuni atti specifici, come le uccisioni di massa o le condizioni di vita imposte durante una guerra, potrebbero teoricamente rientrare nella definizione di “genocidio”, come per esempio l’affamare una popolazione o il creare condizioni di vita distruttive, ma sempre se non hanno una funzione militare o tattica imposta dalle circostanze belliche per il conseguimento di una vittoria militare. Per esempio, le azioni sovietiche e alleate erano motivate da obiettivi militari, politici o di rappresaglia, non da un piano sistematico di sterminio etnico. Mentre l’Olocausto perpetrato dai nazisti contro gli ebrei aveva un intento genocida chiaro, con politiche sistematiche atte a sterminarli, le azioni contro i tedeschi, pur brutali e forse non sempre strettamente necessarie per la vittoria finale, non mostrano un’analoga pianificazione per distruggere il gruppo etnico in sé. L’impressione che si possa legittimamente parlare di “genocidio” per descrivere la situazione che si è creata a Gaza dipende probabilmente dall’elevato numero di morti tra i civili e delle morti indirette connesse con la tipologia particolare del conflitto. Ma se volessimo arbitrariamente adottare un criterio quantitativo per stabilire se si può essere legittimati a usare questo termine per descrivere quanto sta accadendo, scopriremmo che tale uso sarebbe stato appropriato anche in altri casi in cui invece non è stato ritenuto altrettanto legittimo. Sebbene infatti quello a Gaza sia un conflitto che si svolge in un’area densamente popolata, dove un esercito regolare deve affrontare dei combattenti addestrati a compiere azioni di tipo terroristico, le pur elevate percentuali di morti tra i civili che ne sono conseguite non si discostano molto da quelle che hanno caratterizzato altre guerre non meno gravide di conseguenze tragiche durante l’ultimo secolo. In linea generale, le guerre del XX secolo e dell’inizio del XXI secolo hanno visto un aumento significativo della percentuale di civili tra le vittime rispetto ai conflitti precedenti, dove i militari costituivano una chiara maggioranza. Questo cambiamento è dovuto a diversi fattori, come l’uso di bombardamenti aerei e di armi pesanti in aree urbane, come “genocidi” e carestie indotte dalla guerra, o la difficoltà di distinguere i combattenti dai non combattenti. La prima Guerra Mondiale (1914-1918) provocò circa 16-20 milioni di morti tra militari e civili. La percentuale di questi ultimi è stimata intorno al 15-20% del totale. La maggior parte dei morti erano militari, ma i civili soffrirono per carestie, malattie, come per esempio l’’influenza “spagnola”, e trasferimenti forzati. In Italia, ad esempio, si stimano circa mezzo milione di morti civili in più rispetto alla media a causa di malattie e crisi alimentari. La carestia e le malattie, come la malaria e la tubercolosi, contribuirono significativamente ad accrescere il numero delle morti dei civili, ma la percentuale rimaneva inferiore rispetto a quella dei militari. La Seconda guerra mondiale (1939-1945) provocò tra i 70 e gli 85 milioni di morti, pari a circa il 3% della popolazione mondiale dell’epoca (2,3 miliardi). I civili rappresentavano circa il 60-70% delle vittime totali, con 50-55 milioni di morti civili rispetto a 21-25 milioni di militari. Le cause principali includevano bombardamenti strategici, “genocidi” come l’olocausto, crimini di guerra, carestie, come ad esempio la carestia del Bengala, con i suoi 2,1 milioni di morti, o malattie più o meno direttamente connesse con la guerra. La proporzione di civili tra le vittime è poi aumentata ulteriormente, raggiungendo in media l’85% nei conflitti più significativi. Nella Guerra in Vietnam (1955-1975) i civili rappresentano circa il 50-70% delle vittime totali (1-3 milioni di morti complessivi), soprattutto a causa di bombardamenti e operazioni in aree densamente popolate. Durante la guerra nella ex Jugoslavia (1991-1995) ci furono circa 250.000 morti, di cui i due terzi (circa 66%) erano civili. In Ruanda, dove si può parlare di “genocidio”, nel 1994 ci furono circa 500.000-1.000.000 di morti, prevalentemente civili Tutsi, che furono circa il 90% delle vittime. Secondo il progetto Costs of War della Brown University, nella guerra in Afghanistan (2001-2021) i civili morti (circa 46.000) rappresentavano il 50-60% delle vittime totali, con molte morti indirette dovute a fame e malattie. Emergency ritiene che nei conflitti moderni i civili costituiscano circa il 90% delle vittime. Questo sarebbe dovuto all’uso di armi pesanti in aree urbane, al collasso delle infrastrutture sanitarie e alla mancanza di accesso a cibo e acqua. Secondo il Segretariato della Dichiarazione di Ginevra (2008), in molti conflitti contemporanei il rapporto tra morti indirette (per fame, malattie, ecc.) e morti dirette è di circa 4:1. Questo significa che per ogni morte causata direttamente dai combattimenti, quattro sono dovute a conseguenze indirette, specialmente in contesti di povertà preesistente. Il conflitto in corso a Gaza, che è iniziato, almeno per quanto riguarda la devastante fase attuale, con l’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, ha indubbiamente causato un numero elevato di vittime tra i civili. Secondo il Ministero della Sanità della Striscia di Gaza e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), al 4 dicembre 2024 si contavano 44.580 morti e 105.739 feriti. Inoltre, si stimavano oltre 10.000 dispersi sotto le macerie, portando il totale delle vittime probabili a circa 47000 o più. Si tratta tuttavia di dati controversi a causa della difficoltà di distinguere i combattenti dai non combattenti. Alcune fonti internazionali, come per esempio l’ONU o The Guardian, Ha’aretz, indicano che la percentuale di civili tra le vittime a Gaza è superiore a quella di tutti i conflitti mondiali del XX secolo. Secondo quanto viene suggerito dai rapporti di organizzazioni umanitarie le vittime civili sono almeno il 70-80% della cifra complessiva, con una proporzione particolarmente alta di donne e bambini (circa 50% delle vittime totali). Ma secondo altre stime a Gaza sarebbero morti (all’ottobre 2024) circa 1,2 civili per ogni combattente di Hamas, una cifra significativamente più bassa rispetto ad altri conflitti urbani, come per esempio quelli in Iraq (4,2:1). La distruzione delle infrastrutture sanitarie, il blocco di cibo e acqua e lo sfollamento di gran parte della popolazione di Gaza, che complessivamente ammonta a circa 2 milioni di persone, ha sicuramente aumentato le morti indirette e secondo alcune previsioni nei prossimi anni queste potrebbero raggiungere le 500.000 unità, ma la percentuale di civili morti a Gaza (stimata mediamente tra il 70-80%, con alcune fonti che suggeriscono cifre più alte) rimane tuttavia in linea con i conflitti moderni. Se ad esempio è significativamente più alta rispetto alla Prima Guerra Mondiale (15-20%) e alla Seconda Guerra Mondiale (60-70%), è più bassa rispetto ai conflitti verificatisi in Siria, in Iraq e in Afghanistan, dove i civili rappresentano il 70-90% delle vittime. La proporzione di civili morti a Gaza sembra nel complesso superare di poco la media di tutti i conflitti degli ultimi cento anni, con una differenza tutto sommato modesta se si tiene conto che l’esercito israeliano deve combattere contro terroristi mimetizzati tra gli stessi civili, vestiti come loro, dislocati spesso in scuole e ospedali o in reticoli di tunnel cui è impossibile accedere senza correre il rischio elevato d’incorrere in imboscate. Si tratta di difficoltà simili a quelle che in genere vengono affrontate da corpi speciali di polizia quando devono contrastare l’azione di qualche gruppo terrorista, che solitamente è formato al massimo da alcune decine di persone. In genere, gli eserciti regolari non sono chiamati ad affrontare questo tipo di difficoltà, che comportano un sacrificio di civili mediamente superiore a quello di qualsiasi guerra tradizionale, ma in alcune aree del mondo queste situazioni si sono verificate negli ultimi decenni sempre più spesso e sempre con grandi perdite tra i civili. Sebbene il conflitto a Gaza si distingua per la velocità con cui si provocano tali perdite (circa 44.580 morti in 14 mesi, ovvero oltre 3.000 al mese), questo ritmo è paragonabile ai momenti più intensi di conflitti come la guerra in Siria o l’invasione dell’Iraq, pur costituendo un unicum per la concentrazione in un’area geografica così ristretta (la Striscia di Gaza ha solo 365 km²). Nonostante una maggiore precisione degli attacchi rispetto ad altri conflitti, questa circostanza rende infatti più probabile l’uccisione di civili, sia in virtù dell’uso di armi pesanti in un’area densamente popolata sia perché vengono usati sistematicamente come scudi umani e non è facile distinguerli dai guerriglieri di Hamas. Riassumendo, quindi, nel corso dell’ultimo secolo, la proporzione di civili tra le vittime di guerra è aumentata costantemente, passando dal 15-20% nella Prima Guerra Mondiale, al 60-70% nella Seconda Guerra Mondiale, fino all’85-90% nei conflitti moderni. La guerra in corso a Gaza si allinea a questa tendenza, con una proporzione di civili stimata tra il 70-80% (o più, secondo alcune fonti), ma si distingue per l’intensità e la rapidità delle morti in un’area densamente popolata. Il numero di vittime (circa 44.580 morti al dicembre 2024, di cui oltre 30.000 civili) e le proiezioni di morti indirette (fino a 500.000 nei prossimi anni) rendono il conflitto devastante, ma non più di quanto lo sono stati altri negli ultimi decenni. Se la guerra, per sua natura, è una macchina di distruzione che non risparmia nessuno, nell’ultimo secolo città e villaggi si sono sempre più trasformati in teatri di morte e disperazione. Questa tendenza sembra ormai consolidata e il caso di Gaza non sembra fare eccezione, anche se le difficoltà nel verificare le informazioni, in gran parte fornite dal Ministero della Sanità controllato da Hamas, un’organizzazione nota per la sua incessante attività di disinformazione, rendono particolarmente difficile ogni valutazione che si proponga di essere obiettiva. Le cifre fornite da Hamas, che controlla le istituzioni sanitarie di Gaza, sono spesso accettate da organizzazioni internazionali come l’OMS per mancanza di alternative, ma la loro accuratezza è messa in discussione da analisti indipendenti. La propaganda di Hamas, che include la diffusione di informazioni non verificate per amplificare la percezione della sofferenza della popolazione, complica ulteriormente il quadro. Nonostante ciò, il numero assoluto di vittime e la distruzione delle infrastrutture non lasciano dubbi sulla portata distruttiva della guerra in corso, pur confermando che essa è simile ad altre che si sono verificate negli ultimi decenni e per le quali non ci sono state reiterate accuse di “genocidio”. Il conflitto a Gaza si inserisce quindi in una tendenza secolare che vede i civili pagare il prezzo più alto delle guerre moderne. Se la Prima Guerra Mondiale segnò l’inizio di questa transizione e la Seconda Guerra Mondiale la consolidò, i conflitti del XXI secolo, inclusa Gaza, rappresentano l’apice di una violenza che colpisce indiscriminatamente. La combinazione di un alto numero di morti in un breve periodo, la presenza di cause indirette e le difficoltà nel verificare i dati rende Gaza un caso estremo, ma non isolato, nel panorama delle guerre contemporanee. Nonostante questo sconfortante scenario, a Gaza non si può tuttavia parlare di “genocidio”, perché l’intento del governo israeliano non è quello di eliminare la sua popolazione – obiettivo questo che sarebbe, oltre che scellerato e criminale, anche insulso e controproducente – ma quello di eliminare tutto il gruppo dirigente di Hamas privandolo di quel controllo totale sulla Striscia che ha avuto fino a pochi mesi fa. Per conseguire un simile obiettivo si rende necessaria una strategia militare complessa e irta di difficoltà, che corre anche il rischio di rivelarsi politicamente svantaggiosa, in quanto sta mettendo in discussione molte relazioni internazionali d’Israele con paesi tradizionalmente amici e con l’opinione pubblica occidentale. La necessità di adottare una strategia militare complessa e non priva di tragiche implicazioni sembra oggi essere ignorata anche da chi sembra proporsi di fornire una versione obiettiva dei fatti denunciando ogni crimine internazionale. Amnesty International, per esempio, dopo aver analizzato il modello generale della condotta dello Stato di Israele a Gaza, ritiene che si configuri un intento genocida. Nonostante l’obiettivo militare dichiarato da Israele di sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi, secondo Amnesty il diritto internazionale indica “che uno Stato può agire con intento genocida perseguendo allo stesso tempo altri obiettivi. Anche se Israele perseguiva obiettivi militari, la totalità delle prove indica che l’unica deduzione ragionevole che si può trarre dal modello di condotta di Israele a Gaza è che stava anche cercando di distruggere la popolazione palestinese a Gaza in quanto tale, il che significa che la sua offensiva militare e le relative azioni e omissioni a Gaza sono state condotte con intento genocida”. E qui Amnesty international, evocando il diritto internazionale, assume le due premesse su cui si fonda la sua grave accusa in modo arbitrario e illegittimo. Le due premesse sono le seguenti: 1) “il diritto internazionale indica che uno Stato può agire con intento genocida perseguendo allo stesso tempo altri obiettivi”; 2) “la totalità delle prove indica che l’unica deduzione ragionevole che si può trarre dal modello di condotta di Israele a Gaza è che stava anche cercando di distruggere la popolazione palestinese a Gaza in quanto tale, il che significa che la sua offensiva militare e le relative azioni e omissioni a Gaza sono state condotte con intento genocida”. Per quanto concerne il punto (1), è vero che uno Stato può agire con intento genocida perseguendo al tempo stesso altri obiettivi, ma non quando i comportamenti indiziati di costituire genocidi sono ritenuti necessari o funzionali alla propria strategia militare di autodifesa. Per quanto concerne invece il punto (2), non esiste affatto una “totalità” di prove coerenti tra loro nell’attribuire ad Israele simili responsabilità. Esistendo prove contrastanti, non si può infatti sostenere che la loro “totalità” supporti la tesi genocidaria, a meno che non ci si riferisca solo alle prove fornite o ammesse da Hamas. Ma al punto (2) c’è anche un altro aspetto da considerare, là dove si sostiene che Israele sta “anche cercando di distruggere la popolazione palestinese a Gaza in quanto tale”. Per fare quest’affermazione così grave, bisognerebbe prima dimostrare che Israele disponga di altre strategie alternative sia per liberare gli ostaggi senza cedere a ricatti che favorirebbero la posizione di chi lo vuole distruggere, sia per eliminare coloro che hanno attuato il massacro del 7/10, che può ragionevolmente considerare come nemici da sconfiggere. In assenza della prova dell’esistenza di un’altra strategia non meno efficace nel perseguire i suoi legittimi obiettivi, non si può affatto dimostrare che l’offensiva militare israeliana a Gaza sia stata condotta “con intento genocida”. Si può avere quindi l’impressione che Amnesty international tenda dedurre in modo arbitrario e strumentale l’esistenza di un’intenzione genocidaria: omettendo d’indicare quali potevano essere le azioni militari alternative per conseguire gli obiettivi che Israele legittimamente si prefiggeva, come privare Hamas del pieno controllo su Gaza, Amnesty dimostra di adottare argomentazioni capziose e parziali. Senza tenere in minima considerazione il grave danno politico che Israele sta ricavando dall’adozione di una strategia che, se non fosse stata strettamente necessaria, nessun capo di governo dotato di un minimo di buon senso si sarebbe mai sognato di adottare, sembra essersi agevolmente dimenticata che l’eccidio del 7/10 e l’uso sistematico di civili come scudi umani costituiscono la causa principale della presente situazione e che entrambi questi fatti sono frutto di una precisa scelta strategica programmata per anni da Hamas. Come hanno infatti più volte dichiarato suoi autorevoli esponenti lo spargimento di sangue palestinese era necessario per provocare prima l’isolamento internazionale di Israele e poi la sua definitiva sconfitta, con relativa cancellazione dalle carte geografiche. Oggi, in una certa misura, questa cinica strategia criminale di Hamas si sta rivelando vincente: Israele è di fatto, dopo circa un anno e mezzo dal 7/10/23, più isolato e più debole sotto il profilo delle relazioni internazionali; ma se riuscisse nell’intento di sottrarre ad Hamas il pieno controllo della Striscia di Gaza il successivo processo di pace che potrebbe seguirne, concludendosi con la nascita di uno Stato palestinese che riconosca finalmente ad Israele il diritto di esistere, sarebbe virtualmente in grado di porre fine a una guerra che dura da quasi ottant’anni, con un futuro risparmio di vittime innocenti e di tragedie che sarebbe complesso calcolare esattamente, ma che risulterebbe nel corso degli anni assai superiore alle vittime che potrebbero esserci se Hamas restasse nella piena disponibilità di Gaza. Ovviamente, si tratta di un percorso complesso e ricco di difficoltà, ma una volta conseguito l’obiettivo di liberare Gaza da Hamas due nuovi governi, sia in Israele sia presso l’ANP, potrebbero essere in condizione di portarlo avanti con qualche probabilità di successo. Piuttosto che auspicare un simile processo di pace, coloro che oggi manifestano per le strade e le piazze del mondo occidentale sventolando le bandiere palestinesi preferiscono spesso agitare lo slogan “dal fiume al mare”, ribadendo così di auspicare la fine dello Stato d’Israele. Costoro rivelano in questo modo, pur spacciandosi per difensori della causa palestinese, di voler appoggiare la strategia di Hamas, ovvero di un’organizzazione antisemita e terrorista, premiando l’azione criminale del 7/10, e con questa finalità arrivano persino a usare in modo improprio, cinico e strumentale il termine “genocidio”. In realtà, se la pace è ancora possibile, ad essa si potrà arrivare solo quando l’Autorità Nazionale Palestinese, dopo la fine del potere di Hamas a Gaza e memore delle reali responsabilità di questa tragedia, sceglierà di percorrere l’unica strada in grado di condurvi: riallacciare un dialogo con un nuovo governo israeliano per arrivare a un trattato tra due Stati che si riconoscano reciprocamente il diritto di esistere; o almeno questo è quanto si potrà ragionevolmente sperare dopo che Israele non sarà più costretto a convivere con un’organizzazione politica in grado di militarizzare un intero popolo e un intero territorio confinante e che ha per statuto il primario obiettivo dichiarato di provocare la sua distruzione.
Hamas non comanda più ma si tiene gli ostaggi. Israele demolisce i tunnel"
di David Zebuloni
Mentre le piazze d'Italia e d'Europa si riempiono di manifestanti che gridano a vanvera Free Palestine, in Medio Oriente si discute davvero il destino della Striscia di Gaza e, con grande sorpresa (ma anche ostinata negazione) dei pacifinti, gli unici coinvolti in causa che dimostrano di non desiderare la liberazione dell’idealizzata Palestina, sono proprio i vertici di Hamas.
Che tuttavia starebbero perdendo il controllo militare poiché «ladri e bande stanno sequestrando i camion degli aiuti, saccheggiando le case e terrorizzando i residenti», spiegano fonti informate all’emittente panaraba satellitare di proprietà saudita Al Arabiya. Crollata «gran parte del sistema governativo», Hamas starebbe quindi disperatamente tentando di arruolare i capi dei clan di Gaza per continuare i combattimenti e riprendere il potere all'interno della Striscia, ma senza grande successo.
Di pari passo, anche le sue capacità militari vengono smantellate. Ieri le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno localizzato e demolito un tunnel, attribuito ad Hamas, lungo 700 metri a una profondità di circa 30 metri, nell’area di Khan Younis, nel sud di Gaza. Inoltre, nella stessa area, sono stati individuati e colpiti con un drone tre terroristi che stavano tentando di piazzare ordigni esplosivi, mentre altre decine di jihadisti sono stati uccisi e sono andate distrutte più di 100 infrastrutture utilizzate dai gruppi islamisti.
Dopo la recente eliminazione dell’erede del capo terrorista di Hamas Yahya Sinwar, suo fratello minore Mohammad, l’esercito israeliano e l’agenzia di sicurezza interna Shin Bet hanno annunciato di aver eliminato a Gaza anche Khalil Abd al Nasser Muhammad Khatib, considerato il comandante di un’unità del battaglione Al Mawasi del movimento islamista, responsabile della morte di 21 militari israeliani uccisi in un attacco nel sud della Striscia il 22 gennaio 2024.
È la risposta concreta al rifiuto dell’organizzazione terroristica ai mediatori americani. Benché Israele avesse accettato le condizioni della Casa Bianca per una tregua, Hamas si è rifiutato di collaborare, rinunciando ancora una volta alla possibilità di risparmiare il suo popolo dalle sorti di una guerra infinita.
«La risposta di Hamas è totalmente inaccettabile, e ci porta solo indietro», ha dichiarato l’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, in un post condiviso sulla rete sociale X. «Hamas dovrebbe accettare la proposta che abbiamo presentato come una base per colloqui che possono prendere il via subito, dalla prossima settimana: è l’unico modo per concordare un cessate il fuoco di 60 giorni», ha poi aggiunto Witkoff.
Bassem Naim, esponente di alto livello del gruppo islamista, ha dichiarato a questo proposito: «Non abbiamo respinto la proposta di Witkoff. Abbiamo concordato con Witkoff una proposta, che considero accettabile come proposta di negoziazione, e siamo arrivati alla risposta dell’altra parte, che non era d'accordo con nessuno dei punti che avevamo concordato».
In risposta, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha detto di aver ordinato all'esercito di proseguire la lotta contro Hamas a prescindere da qualsiasi negoziato.
«Insomma», ha dichiarato Katz, «o Hamas rilascia gli ostaggi, o verrà distrutto».
Da parte sua, Israele considera la risposta dei terroristi alla proposta della Casa Bianca come un «rifiuto di fatto», ovvero come un’imposizione a non collaborare e rifiutare ogni soluzione al conflitto, peraltro, da loro generato e perpetrato.
Come parte dell’accordo firmato Witkoff, dieci ostaggi israeliani vivi detenuti a Gaza sarebbero rilasciati, e altri 18 corpi di ostaggi morti consegnati alle loro famiglie in cambio di un numero concordato di prigionieri palestinesi. Secondo quanto riferito dalla rete di propaganda palestinese Al Jazeera, quindi con il necessario beneficio del dubbio, l'accordo in questione prevede il rilascio degli ostaggi israeliani in tre fasi durante il periodo di cessate il fuoco di 60 giorni.
L’altra minaccia da affrontare proviene dallo Yemen.
Ieri è stato intercettato un missile balistico lanciato dal movimento yemenita filo-iraniano Houthi che aveva fatto attivare le sirene d'allarme nel centro del Paese, nell'area di Gerusalemme e in Cisgiordania.
La settimana di Israele: la mossa vincente di Gaza
di Ugo Volli
• Il fronte nord
Non bisogna farsi travolgere dal disfattismo e dall’ondata d’odio che la propaganda antisemita diffonde nel mondo: Israele sta vincendo. Alcune notizie poco considerate o addirittura occultate dai media lo fanno vedere chiaramente. Incominciamo dal fronte settentrionale. In Libano sta accadendo una cosa inconcepibile anche solo un anno fa: esponenti governativi parlano in televisione della necessità di normalizzare i rapporti con Israele, ma soprattutto le forze armate libanesi stanno attivamente lavorando per distruggere basi militari e depositi di armi di Hezbollah nella zona di confine e lo fanno guidati dalle informazioni di intelligence che provengono da Israele. Vi è cioè una collaborazione fra servizi di informazione israeliani e forze armate del Libano per spiantare i resti di Hezbollah. Nel frattempo continuano incursioni aeree israeliane sulle basi terroriste più arretrate, verso il confine con la Siria, sui capi che provano a riannodare le fila del terrorismo e sui rifornimenti provenienti dall’Iran. Qualcosa di analogo avviene in Siria. Non vi sono più notizie di tentativi di strage ai danni dei drusi, che si sono messi sotto la protezione di Israele; voci insistenti parlano di colloqui diretti in corso fra Israele e il nuovo regime siriano, fortemente volute da Trump. Ma allo stesso tempo Israele agisce militarmente contro basi e installazioni che ritiene possano presentare un pericolo: l’ha fatto per esempio venerdì lungo la costa di Latakia. abbastanza vicino al confine turco.
• Giudea e Samaria
Continua paziente e scrupolosa anche l’azione antiterrorismo nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Ogni tanto ci sono delle esplosioni di violenza, degli attentati anche particolarmente odiosi come quello che ha ucciso due settimane fa la trentenne incinta di nove mesi Tzeela Gez mentre veniva accompagnata dal marito in ospedale per partorire, e che ha fatto morire dopo dieci giorni di agonia anche il suo bebé. Ma in generale nei Territori non si è sviluppata quella sollevazione su cui contavano i terroristi e la calma si è mantenuta anche fra gli arabi israeliani. Il merito va innanzitutto alle forze che sorvegliano le località a rischio e reprimono velocemente ogni atto terroristico. Ma vi è di più: per Israele si tratta di un grande successo politico oltre che militare, perché testimonia il fatto che, nonostante tutta la propaganda, la grande maggioranza della popolazione araba nei territori preferisce vivere una vita normale, usando una condizione socio-economica assai migliore degli abitanti dei paesi vicini, piuttosto che darsi alla guerriglia.
• Gaza
Ma la mossa decisiva di questo periodo è avvenuta a Gaza. Non si tratta del procedere lento e sistematico dell’operazione “Carri di Gedeone”, che mira al controllo di tutto il territorio della striscia per spiantarvi Hamas, distruggere tutte le fortificazioni sotterranee in cui si nasconde e liberare i rapiti. Un po’ per i soliti freni internazionali e di nuovo anche americani nonostante le frequenti dichiarazioni filo-israeliane di Trump; un po’ per la difficoltà operativa di agire in un ambiente urbano cercando di non danneggiare i civili ma di non essere colpiti dai terroristi mescolati fra loro e asserragliati nelle costruzioni; un po’ perché come dicono gli ufficiali israeliani le guerre sono due, una alla superficie e una sotterranea: per tutte queste ragioni l’azione della fanteria procede con prudenza e dunque non può essere veloce.
• I centri di distribuzione
La mossa vincente è invece civile, sono i quattro centri di distribuzione degli aiuti alimentari impiantati, difesi e riforniti e a quanto pare anche pagati da Israele ma gestiti da una società americana, che distribuiscono ormai almeno un milione di pasti giorno direttamente, senza che i rifornimenti passino per le organizzazioni internazionali collegate all’Onu o per Hamas (spesso le due cose coincidono), ma venendo invece consegnati alle famiglie e davvero gratis, senza le grandi tangenti che prelevava Hamas e quelle minori ma significative, degli operatori internazionali, senza accumuli speculativi, insomma in maniera giusta e ragionevole. Gli antisemiti della stampa e della politica internazionale hanno voluto presentare questa operazione di soccorso come una macchina repressiva, una parte del “genocidio”, addirittura qualcuno ha scritto commentando una foto che mostrava le transenne costruite per ordinare la coda di migliaia di percipienti che si tratterebbe addirittura dell’“immagine attuale di Auschwitz”. Tanto può l’odio e il fanatismo. Hamas naturalmente ha cercato in tutti i modi di impedire il funzionamento dei centri con assalti fisici e fake news. Ma i gazawi accorrono ed esprimono gratitudine all’America e a Israele. Si è costituita perfino per la prima volta una milizia per difendere i soccorsi dai taglieggiamenti di Hamas.
• Perché è importante
Dal 2007 e anche per tutta la guerra Hamas ha agito a Gaza come Stato di fatto: ha gestito ospedali, anagrafe, tribunali, ordine pubblico, e anche i rifornimenti alimentari, sempre non nell’interesse dei suoi amministrati ma di se stesso e della sua “lotta”. Le incursioni israeliane di questi mesi non hanno scardinato il meccanismo statuale di Hamas. Durante la guerra sono naturalmente diventati cruciali i soccorsi di cibo, che sono sempre stati molto abbondanti. Ma Hamas li sequestrava tutti, li accumulava per dare ai media internazionali il pretesto anti-israeliano di una fame diffusa, e anche per far crescere il prezzo degli alimenti, anche se i soccorsi erano gratuiti, e poi li vendeva come e quando riteneva opportuno. Ciò era una fonte essenziale del capitale con cui pagare le armi e gli stipendi dei terroristi e anche un mezzo di ricatto per tutti i suoi sudditi. Ora la nuova distribuzione scardina questo meccanismo, toglie ai terroristi il principale sostegno economico e ne mina anche il carattere di governo, tanto che la gente ha iniziato ad assaltare i ben forniti magazzini suoi e degli enti dell’Onu (che spesso, ripetiamolo, sono la stessa cosa). Se questi centri di rifornimenti si stabilizzeranno e non saranno eliminati con la violenza o con qualche clausola di un accordo di tregua, in breve il potere di Hamas su Gaza sarà seriamente compromesso, aprendo forse la strada a una pace vera.
«Che Gee-ro d’Italia», scandisce Sylvan Adams. Il patron della Israel Premier Tech non nasconde la soddisfazione per il risultato della sua squadra al Giro d’Italia che si concluderà nel pomeriggio con la “passerella” dell’ultima frazione romana (si passerà anche davanti al Tempio Maggiore). La sola squadra professionistica israeliana di ciclismo non era mai arrivata così in alto in graduatoria nella principale corsa a tappe d’Italia. Merito del quarto posto conquistato del suo capitano e uomo di classifica Derek Gee alle spalle di Simon Yates, Isaac Del Toro e Richard Carapaz. Quarto posto con vista podio, per il quale ha lottato anche ieri fino all’ultima salita.
«È un canadese come me, ecco perché», sorride Adams. «Scherzi a parte, lui e il team hanno fatto qualcosa di grande», spiega l’altleta incontrando a Roma, a poche ore dal via della tappa conclusiva, il ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi, la presidente Ucei Noemi Di Segni, il presidente della Comunità ebraica romana Victor Fadlun e una delegazione dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia guidata dal suo vicepresidente Ioel Roccas. Con loro c’erano anche Ron Baron, fondatore e comproprietario della IPT, e il ceo della stessa Ido Shavit.
Canadese di nascita, naturalizzato israeliano, Adams ha espresso al ministro l’orgoglio di «portare il nome di Israele sulla maglia, lungo le strade del Giro, come avviene ormai da otto anni consecutivi». Non è stata un’edizione semplice per via delle violenze non solo verbali di alcuni attivisti propal, che in alcuni casi sono arrivati a mettere in pericolo l’incolumità degli atleti. Come a Napoli, dove un vero e proprio agguato “on the road” ha rischiato di provocare una caduta di gruppo. «Tappa dopo tappa, abbiamo incontrato gli stessi volti dietro questa protesta. Il segno evidente che c’è un’organizzazione alle spalle che ne finanzia le attività», ha accusato Adams. I valori dello sport hanno in ogni caso trionfato, anche stavolta.
«Lo sport è una delle chiavi che costruiscono futuro e condivisione», ha rimarcato Adams che ha raccolto la convinta adesione di Abodi, con il quale si è confrontato sul riemergere dell’antisemitismo, sulla sfida di difendere i valori occidentali dai suoi molti nemici, sulla necessità di contrastare le istanze per il boicottaggio di squadre e atleti israeliani che si fanno largo anche sulla scena europea. Il ministro ha annunciato l’intenzione di opporsi in modo netto a tali campagne. Adams ha puntato il dito contro il governo del Qatar, sponsor del terrorismo e costante elemento di destabilizzazione. L’imprenditore ha poi invitato il ministro in Israele e ricordato come la squadra ha mosso i primi passi nel mondo del ciclismo ad alto livello, proprio in Italia. Tutto è iniziato nel maggio del 2018, con la storica partenza del Giro da Gerusalemme. L’Israel Premier Tech si chiamava allora Israel Cycling Academy e partecipava con una wild card. Oggi è tra le squadre di élite del panorama ciclistico, 16esima forza del ranking mondiale. a.s.
Lo Shin Bet sventa 85 tentativi di attacchi informatici iraniani contro alti funzionari israeliani
di Nina Prenda
La guerra tra Iran e Israele non si disputa solo nei cieli a suon di missili, droni o proxies ma riguarda anche lo spionaggio informatico. Non è la prima volta, infatti, che con successo Israele riesce a bloccare tentativi di furto di dati attuati dalla Repubblica Islamica. Lo Shin Bet, l’agenzia di intelligence per gli affari interni israeliana, in collaborazione con la National Cyber Directorate, ha ostacolato con successo 85 tentativi di attacchi informatici orchestrati da attori iraniani che hanno preso di mira cittadini israeliani, tra cui figure di alto livello nei settori della difesa, della politica, a livello accademico e dei media. Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì 29 maggio, gli attacchi hanno riguardato principalmente tentativi di phishing tramite applicazioni come WhatsApp, Telegram ed e-mail. Gli aggressori hanno creato storie di copertina su misura per ogni bersaglio, allineandosi con i loro campi professionali per apparire autentici ed evitare sospetti. Un metodo di attacco diffuso ha incluso perfino l’invio di falsi link di Google Meet progettati per rubare le credenziali di accesso per gli account Google. Questo approccio ha consentito l’accesso non autorizzato alle informazioni personali, tra cui e-mail, password, dati sulla posizione e foto memorizzate nel cloud. Inoltre, ci sono state segnalazioni dell’uso di software ingannevoli e file scaricabili destinati a installare spyware sui computer delle vittime. Un funzionario dello Shin Bet ha sottolineato che questi attacchi informatici fanno parte della campagna in corso dell’Iran contro Israele, con l’obiettivo di danneggiare direttamente gli individui attraverso l’estrazione di informazioni sensibili. Il pubblico è invitato a rimanere vigile, evitare di cliccare su link sconosciuti e aderire a pratiche online sicure. I funzionari dello Shin Bet hanno riaffermato l’impegno dell’organizzazione a continuare a collaborare con tutte le agenzie di sicurezza per identificare e neutralizzare in modo proattivo le attività ostili.
«Gli adolescenti israeliani sono più forti di tutti gli altri al mondo»
di Carl Brunke
RAMAT GAN - Con le loro magliette, i jeans e le scarpe da ginnastica, i 13 studenti sembrano adolescenti normali come tanti altri nelle società occidentali. Ma cosa c'è di normale in Israele? «Abbiamo costruito tre nuovi rifugi», dice Rotem Lezter, direttore del liceo Ebin di Ramat Gan, vicino a Tel Aviv. Qui frequentano la scuola 780 giovani, seguiti da 97 insegnanti in 26 classi. Grazie a due licei gemellati nella città tedesca di Weinheim, c'è un vivace scambio di studenti.
Durante l'incontro con 13 ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 e i 17 anni, la guerra di Gaza diventa subito argomento di discussione. A 18 anni inizia il servizio militare triennale. "Ci penso ogni giorno. L'esercito è più importante che mai e niente è più importante del Paese“, afferma Schahar con convinzione, ma anche con preoccupazione: ”Il servizio militare è ovviamente una cosa pericolosa".
Tra i giovani israeliani, parole come queste non suonano pretenziose, ma piuttosto mature. Difendere il loro Stato ebraico è per loro una cosa ovvia, un dovere fondamentale per la sopravvivenza.
Maya prova «sentimenti contrastanti» e guarda con un po' di scetticismo al suo periodo nell'esercito. Rani si rammarica di «non poter aiutare fisicamente» a causa di un infortunio alla spalla destra. «Nell'esercito proteggerò la mia gente come ingegnere informatico», afferma con sicurezza.
• Elevata pressione psicologica Il liceo Ebin fa parte dell'Ort Israel Sci-Tec School Network, un consorzio di 250 scuole specializzate in tecnologia e intelligenza artificiale. Inoltre, nell'ambito del programma “Connected”, il liceo assiste i sopravvissuti all'Olocausto e fornisce loro assistenza quotidiana nel mondo digitale, ad esempio per utilizzare le app mediche sui loro smartphone. “Dopo il 7 ottobre 2023 abbiamo visitato gli anziani ancora più spesso. Ha fatto bene a loro e anche a noi”, dice David.
Il massacro e i rapimenti, il destino degli ostaggi e delle loro famiglie hanno cambiato Israele. "È troppo, la pressione psicologica è troppo alta. Qui non ci sono periodi tranquilli. È incredibile come i nostri studenti riescano a sopportare tutto questo. I giovani in Israele sono più forti di tutti gli altri adolescenti del mondo“, dice un'insegnante. E un collega aggiunge: ”Per noi non c'è altro posto e non c'è altra strada“.
Alla domanda su cosa si aspettano dalla Germania, gli studenti rispondono: ”Sostegno, fiducia e fede. Credeteci!".
Perché Dio ha creato il mondo? - 4Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Un Dio che agisce
Abbiamo detto che il personaggio principale della Bibbia è Dio; e abbiamo sottolineato che ogni riflessione sugli scritti biblici deve sempre cominciare da ciò che sta all’inizio, cioè da Dio che agisce. Per capirlo basta aprire la Bibbia alla prima pagina: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra”. Il racconto non comincia con una profonda riflessione sul problema del bene e del male, dell’amore e dell’odio, della gioia e del dolore, e così via filosofando, ma il quadro si apre facendoci vedere un Dio che agisce. Dio disse, Dio fece, Dio vide, Dio creò. E così fu. Sei giorni di duro lavoro, ma ne valeva la pena, perché alla fine il giudizio che ne dà lo stesso Operatore è ottimo: “Dio vide tutto quello che aveva fatto ed ecco, era molto buono”.
Ai sei giorni di lavoro attivo se ne aggiunse un settimo, che indubbiamente si distingue dai precedenti:
“Il settimo giorno, Dio compì l'opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l'opera che aveva fatta. E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso si riposò da tutta l'opera che aveva creata e fatta” (Genesi 2:2-3).
Dio giudica perfetta l’opera che aveva creata e fatta nei primi sei giorni e la completa con un settimo giorno che ha come centro di attenzione non le varie cose create, ma la persona stessa del Creatore. Se le descrizioni degli atti creativi sono viste come fotografie, si può dire che nell’ultimo giorno il Signore si è fatto un selfie. Nelle altre foto si vedono oggetti creati, mentre in quest’ultima si vede il Creatore che riposa. “Riposo di Dio ”potrebbe essere la scritta in calce alla foto, che è la più importante di tutte, perché dà senso a tutte le altre.
Nel seguito Dio stesso parlerà del mio riposo in cui alcuni non entreranno (Salmo 95, Ebrei 4), e questo accenna al fatto che Dio connette il suo riposo di Creatore con quello che si svolge sulla terra tra le sue creature. E il fatto che Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò sottolinea ancora una volta il fatto che nella creazione, e in tutto ciò che ne consegue, al centro della scena c'è il Creatore. Il termine astratto “creazione” non si trova mai nell’Antico Testamento, e attira l’interesse più sulle cose fatte che su Chi le fa.
• Un Dio che pensa
Abbiamo visto che “nel principio” Dio si presenta come un operatore che agisce, lavora e ottiene un risultato più che soddisfacente.
Ma prima di lavorare, Dio che cosa faceva? “Preparava una verga con cui frustare quelli che fanno domande come questa”, fu la fulminea risposta che diede una volta Lutero. Ma forse il riformatore in questo non aveva ragione: dipende dallo spirito con cui si fa la domanda. Potrebbe esprimere il desiderio di conoscere più a fondo l’Operatore che ha compiuto un’opera così grandiosa, attratti dall’ammirazione per la persona, prima ancora che per gli oggetti da lui creati.
Una risposta alla domanda fatta potrebbe essere: Dio pensava. Sì, pensava al lavoro che avrebbe fatto in quei primordiali sei giorni, perché la creazione, prima di apparire nella sua concretezza, è esistita nella mente di Dio come progetto. Ed è proprio nel progetto, prima ancora che nella sua messa in opera, che si manifesta la personalità del Creatore nella sua infinita sapienza:
“Con la sapienza l’Eterno fondò la terra, e con l’intelligenza rese stabili i cieli” (Proverbi 3:19).
Dalla sapienza di Dio è scaturita la creazione. E se la creazione ha avuto un inizio, la sapienza di Dio no. Il Progettista ha preceduto in tempo e importanza l’Operatore.
Tra tutti gli esseri creati, l’uomo ha ricevuto la capacità di indagare le opere create da Dio, e anche di provare a risalire nel tempo fino a tentare di arrivare alle origini dell’opera, ma oltre questo non può andare. Alla mente del Progettista l’uomo non ci arriva. Neppure con le sue più sofisticate tecniche filosofico-scientifiche. E quando si arrischia a farlo, scivola fatalmente su un piano di stoltezza che può farlo arrivare fino alla follia:
Chi ha preso le dimensioni dello Spirito dell'Eterno o chi è stato il suo consigliere per insegnargli qualcosa? (Isaia 40:13).
Il pensiero di Dio non si raggiunge per opere, ma solo per rivelazione. Con le nostre umane capacità possiamo esaminare gli oggetti creati, conoscerli, manipolarli, trasformarli, ma con quali strumenti potremo arrivare a conoscere il pensiero di Dio? Il “come” delle cose fatte possiamo capirlo, ma il “perché” sono state fatte così, chi è in grado di spiegarlo?
L'uomo stende la mano sul granito, rovescia dalle radici le montagne. Pratica trafori dentro le rocce, e il suo occhio scorge quanto vi è di prezioso. Frena le acque perché non fuoriescano e trae fuori alla luce le cose nascoste. Ma la sapienza, dove trovarla? Dov'è il luogo dell'intelligenza? L'uomo non ne conosce la via, non la si trova sulla terra dei viventi (Giobbe 28:9-13).
C’è un passo nella Bibbia che allude a ciò che è prima della creazione:
L'Eterno mi ebbe con sé al principio dei suoi atti, prima di fare alcuna delle sue opere più antiche (Proverbi 8:22)
Di chi si tratta? E’ detto poco sopra: “Io, la sapienza, sto con l'accorgimento e trovo la scienza della riflessione” (Proverbi 8:2). Dunque si tratta di Dio stesso nella veste del sapiente che riflette, e non solo.
Il passo intero continua così:
22 L'Eterno mi ebbe con sé al principio dei suoi atti, prima di fare alcuna delle sue opere più antiche. 23 Fui stabilita fin dall'eternità, dal principio, prima che la terra fosse. 24 Fui generata quando non vi erano ancora abissi, quando ancora non vi erano sorgenti straripanti di acqua. 25 Fui generata prima che i monti fossero fondati, prima che esistessero le colline, 26 quando egli ancora non aveva fatto né la terra né i campi né le prime zolle della terra coltivabile. 27 Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso, 28 quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso, 29 quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra, 30 io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto; 31 mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini (Proverbi 8:22-31).
Per sei giorni Dio si è mosso in veste di operatore, affaticandosi nella costruzione del complesso edificio del creato, ottenendo alla fine un risultato che Egli stesso, in veste di esaminatore, ha giudicato molto buono. Ma l’opera è risultata molto buona perché il progetto era stato pensato molto bene. Prima che come operatore, Dio ha agito come progettista; prima di formare il creato, ha elaborato un progetto a cui ha messo mano con una sapienza che possedeva fin da prima dell'inizio dei lavori.
Nel versetto 22, dove si dice che “L’Eterno mi ebbe con sé”, il verbo qanah usato nell’originale ha un significato generico di possesso con molte sfumature. Dopo il parto di Caino, Eva dice: “Ho acquistato (qanah) un uomo con l'aiuto dell'Eterno” (Genesi 4:1). Si può allora usare questo verbo italiano anche nel versetto 22 e tradurre, con riferimento alla sapienza: “l’Eterno mi acquistò all’inizio dei suoi atti”. E’ come se al momento opportuno Dio avesse "acquistato" un valido progettista, associandolo a Sé col compito di dare forma al progetto e seguire i lavori fin dall’inizio, passo dopo passo, cosa che poi il progettista-architetto ha puntualmente eseguito, confermando una sapienza che non gli proveniva dall’esperienza ma che aveva “fin dall’eternità” (v. 23).
Il nostro brano sposta dunque l’attenzione dall’opera della creazione al pensiero da cui è scaturita, e più precisamente all’ideatore che l’ha pensata. Non è forse sempre da grandi idee che si producono nel mondo tutte le grandi opere umane? E se con un’attenta indagine tecnica e storica dei documenti che riguardano una grande opera, come per esempio la torre di Pisa, si potrebbe arrivare a conoscere chi ne è stato il progettista e quale ne sia stata l’idea originaria, chi può risalire dall’esame degli oggetti creati al pensiero originario del Creatore? Chi ha consultato l’Eterno prima che desse il via alla creazione? C’è qualcuno che sa rispondere?
“O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e incomprensibili le sue vie! Poiché: “Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato il suo consigliere? O chi gli ha dato per primo, e gli sarà contraccambiato?” Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen” (Romani 11:33-36).
• Un Dio che ama
Continuando a fissare la nostra attenzione sul personaggio principale della Bibbia, possiamo chiederci: qual è la parola che esprime al meglio l’aspetto essenziale della personalità di Dio? La prima risposta che forse viene in mente è “amore”. Ed è quella giusta.
“Dio è amore”, scrive due volte l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera (1 Giovanni 4:8,16). Nell’Antico Testamento non si trova una formulazione come questa, ma resta il fatto che Israele, come popolo e nazione, ha la priorità in fatto di esperienza dell’amore di Dio, perché Israele è l’unica nazione a cui Dio abbia fatto un’esplicita “dichiarazione d’amore”:
“Ma ora così parla l'Eterno, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele! “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio! Quando passerai per le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco, non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà. Poiché io sono l'Eterno, il tuo Dio, il Santo d'Israele, il tuo salvatore; io ho dato l'Egitto come tuo riscatto, l'Etiopia e Seba al tuo posto. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te; io ricondurrò la tua discendenza dall'oriente e ti raccoglierò dall'occidente. Dirò al settentrione: 'Da'!' e al mezzogiorno: 'Non trattenere; fa' venire i miei figli da lontano e le mie figlie dalle estremità della terra, tutti quelli cioè che portano il mio nome, che io ho creato per la mia gloria, che ho formato, che ho fatto'” (Isaia 43:1-7).
E inoltre:
“Così parla l'Eterno: ‘Il popolo scampato dalla spada ha trovato grazia nel deserto; io sto per dare riposo a Israele’. Da tempi lontani l'Eterno mi è apparso. ‘Sì, io ti amo di un amore eterno; perciò ti prolungo la mia bontà’” (Geremia 31:2-3).
In queste citazioni l’amore di Dio si manifesta come un’opera che pone rimedio al male: Israele viene ricondotto in patria da tutti i luoghi dove si trova in esilio e trova grazia nel deserto scampando dalla spada del nemico.
Anche per il credente in Cristo, la prima esperienza che fa dell’amore di Dio consiste nel perdono dei peccati, che fa scampare dal male della perdizione eterna. Poi è vissuta anche come benedizione per il presente e promessa di salvezza eterna per il futuro.
Si pone allora una domanda: esiste la possibilità di parlare di amore senza nominare il male? Per noi uomini, per quanto buoni e santi possiamo essere, la risposta è “no”. Solo Dio può farlo. L’uomo ha ottenuto quello che non avrebbe dovuto ricercare: la conoscenza del bene e del male (Genesi 3:22), e come conseguenza il male gli si è irreparabilmente appiccicato addosso, quali che siano le forme in cui parla del bene, soprattutto quando nomina implicitamente Dio parlando con disinvoltura di “amore”.
Seguiamo ora Dio in azione nella sua opera creativa.
Quando si fermò ad esaminare il risultato ottenuto, era il sesto giorno, e fino a quel momento nessun male era stato compiuto o nominato. Il giorno dopo Dio “si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta” (Genesi 2:1-3), e qualunque sia la spiegazione che si voglia dare del fatto, nei giorni successivi il male fece la sua apparizione negli atti compiuti dall’uomo. E se ne dovette parlare.
Qualcuno allora forse si chiederà se sia stato proprio quell’aggiuntivo giorno di riposo che Dio si è concesso ad essere l’inizio di tutti i mali venuti dopo. Potrebbe essere questo l’errore di progettazione di Dio? Non è così. Quel settimo giorno faceva parte del progetto: era il “fattore di rischio” messo in programma affinché si realizzasse un autentico rapporto d’amore fra il Creatore e le creature. Messo davanti a una proposta alternativa, l’uomo aveva la possibilità di credere o no alla parola d’amore ricevuta da Dio. Poiché un autentico rapporto d’amore si fonda sulla fiducia, l’uomo dimostrò di voler dare più fiducia al serpente che a Dio. E con ciò si collegò al serpente, o per meglio dire al suo mandante.
Tutto questo disturbò il riposo di Dio. Il settimo giorno, che nell’opera attiva della creazione è stato l’ultimo, doveva essere il primo di un “eterno riposo” di Dio. E’ significativo che l’espressione “eterno riposo”, che per noi mortali ha un suono che richiama sì l’eternità, ma un’eternità di morte, nel piano di Dio intendeva un’eternità di vita, in un rapporto d’amore tra Creatore e creature. Ed è un pensiero che Dio ha avuto prima della creazione, quando elaborava un progetto che per l’uomo prevedeva, in caso di una sua risposta positiva, un ambiente in cui il male sarebbe stato soltanto un cartello attaccato a una porta che non si sarebbe mai aperta e non avrebbe creato alcun desiderio di aprirla.
Possiamo rileggere allora gli ultimi due versetti del testo citato sopra:
… ero presso di lui come un artefice; ero sempre esuberante di gioia giorno dopo giorno, mi rallegravo in ogni tempo in sua presenza; mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini” (Proverbi 8:30-31).
Qui il soggetto è Dio che agisce assistito dalla sua eterna sapienza, che non solo gli fornisce elementi per compiere un’opera creativa tecnicamente perfetta, ma anche lo allieta col pensiero di quando potrà rallegrarsi nella parte abitabile della sua terra e trovare gioia tra i figli degli uomini. E’ da qui che deve cominciare la riflessione sull’amore. La presentazione della sapienza di Dio che qui fa la Bibbia non è la personificazione di astratti concetti umani di giustizia, pace, libertà, ma pura e gratuita rivelazione che Dio fa di Sé agli uomini come destinatari del suo progetto creativo di amore. Un amore che è fonte di gioia: Dio si rallegra nell’esecuzione di ciò che è nella sua mente; si rallegra fin dall’inizio, giorno dopo giorno. E pensa al compimento finale del suo progetto, quando troverà la sua piena gioia tra i figli degli uomini.
Il tentativo ci fu. La parte abitabile della sua terra fu in origine il giardino di Eden, dove il Signore andava ad incontrare Adamo ed Eva. Ma quella volta non li vide. Non si mise a cercarli, non mandò angeli a scovarli. Usò la voce, quella stessa voce con cui aveva detto ad Adamo: “Del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare”. E pacatamente chiese: “Adamo, dove sei?” Adamo si fece vedere e rispose. Fu quell’atto, non certo le sue penose parole di autogiustificazione, a far sì che la storia d’amore di Dio per l’uomo potesse proseguire, anche se in modo molto, molto diverso.
Il riposo di Dio si era interrotto. Dio avrebbe dovuto ricominciare a lavorare.
Video rilasciato dal Ministero della Difesa di Tel Aviv
Nel corso dell’operazione “Iron War” la Direzione di Ricerca e Sviluppo per la Difesa (DDR&D) del Ministero della Difesa israeliano (IMOD), l’Aeronautica Militare israeliana (IAF) e RAFAEL Advanced Defense Systems hanno avviato un programma di sviluppo accelerato per implementare sistemi di intercettazione rivoluzionari. Gli operatori della IAF Aerial Defense Array hanno utilizzato prototipi di sistemi laser ad alta potenza sul campo, intercettando con successo decine di minacce nemiche. Questi sistemi si basano su innovazioni tecnologiche sviluppate nel corso di decenni presso RAFAEL, in stretta collaborazione con la divisione R&S del DDR&D. I sistemi laser impiegati fanno parte del portafoglio di sistemi d’arma a energia diretta di RAFAEL, sviluppati in collaborazione con l’IMOD, e completano il più potente sistema IRON BEAM, attualmente in fase di sviluppo, la cui consegna alle IDF è prevista entro la fine dell’anno. Durante tutta la guerra in corso, l’IAF, compresi i soldati dell’Aerial Defense Array, ha studiato ed utilizzato i sistemi laser sul campo, ottenendo eccezionali percentuali di intercettazione che hanno salvato vite civili e protetto le risorse nazionali. Lo Stato di Israele è stato il primo Paese al mondo a dimostrare reali capacità operative di intercettazione laser su larga scala. I sistemi di intercettazione laser forniranno un ulteriore livello all’interno del sistema di difesa aerea multistrato di Israele.
• Iron Beam Da parte sua l’IRON BEAM ad alta potenza (HELWS) da 100 kW prodotto dalle linee di produzione di RAFAEL è destinato a cambiare radicalmente il paradigma della difesa aerea, consentendo intercettazioni rapide, precise ed economiche, ineguagliate da qualsiasi sistema esistente. Il sistema laser in questione è in grado di ingaggiare e neutralizzare rapidamente ed efficacemente un’ampia gamma di minacce da una distanza di centinaia di metri a diversi chilometri . Aggregandosi alla velocità della luce, Iron Beam ha un caricatore illimitato, con un costo per intercettazione quasi nullo e causa danni collaterali minimi. Iron Beam ricorre ad un laser a fibra per ingaggiare e distruggere un bersaglio in volo entro 4-5 secondi dallo sparo ad una distanza massima di 7 km (la portata massima teorica di sistema sarebbe di 10 km). La batteria è costituita da un radar da difesa aerea, un centro di comando e controllo e da una coppia di High Energy Laser (HEL)
Parigi, imbrattati con vernice siti di istituzioni ebraiche
All'alba un uomo vestito di nero è stato filmato dalle telecamere di sorveglianza mentre cospargeva di vernice verde i 4 edifici. Tutte le azioni sono avvenute nello stesso quartiere, il Marais.
Quattro siti di istituzioni ebraiche o frequentate da ebrei a Parigi sono stati questa notte imbrattati con vernice verde. La pittura è visibile questa mattina anche sui muri del Memoriale dell'Olocausto. Attorno alle 4:30 di questa mattina, un uomo interamente vestito di nero, è stato filmato dalle telecamere di sorveglianza mentre cospargeva di vernice i 4 edifici. Lo ha reso noto la radio RTL. Davanti a uno dei quattro siti danneggiati è stato ritrovato un barattolo di vernice verde.
Tutte le azioni sono avvenute nello stesso quartiere, il Marais: la sinagoga di rue des Tournelles, il memoriale dell'Olocausto, la sinagoga Agoudas Hakehilos e il ristorante "Chez Marianne". "Con gli atti 'militanti', sappiamo dove si comincia ma non dove si finisce", ha denunciato su X il sindaco dei quattro arrondissement di Paris Centre, Ariel Weil. Condanna "con la massima forza" il gesto anche la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, che ha annunciato una denuncia del Comune.
L’occidente è sempre più lontano, Israele è sotto attacco. Basta bombe, basta morti a Gaza. Molti governi pensano a nuove sanzioni per mettere sotto pressione Gerusalemme allo scopo di fermare la guerra nella Striscia. Le manifestazioni per la Palestina sono ormai libere di poter esprimere l’odio verso lo Stato ebraico, represso fino a oggi dalla retorica della falsa memoria per la Shoah. Si sentono liberi di dire che Israele sta facendo ai palestinesi quello che Hitler ha fatto agli ebrei, utilizzandogli contro financo Marzabotto. Possono ricongiungersi alle “avanguardie” degli squadristi pro-Pal che nelle università impediscono ai figli di Abramo di parlare.
Arrivano a sostenere che l’accusa di antisemitismo è un ricatto che impedisce loro di battersi per l’occupazione di quella terra, difendendo però chi vieta l’ingresso nei ristoranti e nei pubblici esercizi agli ebrei e cancellando il 7 ottobre dalle loro dichiarazioni. Così come dalla loro memoria. L’antisemitismo dilaga, si impossessa delle università, delle scuole, delle strade, dei muri delle città, delle piazze, dei media. La propaganda dell’Islam radicale invade le opinioni pubbliche occidentali. Hamas è l’unica fonte ufficiale per la stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione. E l’Europa, dopo anni di retorica contro il razzismo, guarda tutto ciò senza alcuna capacità di reagire, senza la forza di contrastare l’ondata di odio. Le leadership del vecchio continente, sotto la pressione delle élite accademiche e intellettuali che condizionano l’opinione pubblica, hanno abbandonato da tempo lo Stato ebraico al suo destino e fanno la voce sempre più grossa a sostegno della causa palestinese. Non si chiede più la liberazione degli ostaggi, non si chiede più il disarmo di Hamas, non si rivendica più il diritto all’esistenza di Israele.
Così arriviamo a questo drammatico momento della vicenda mediorientale senza avere nessuna voce in capitolo. Abbiamo lasciato per anni che fiumi di finanziamenti andassero ad armare e rafforzare Hamas, facendo si che i ricchi paesi arabi che foraggiano il terrorismo comprassero le nostre università, i nostri sport, le nostre città e contrastassero i loro stessi governi nel tentativo di isolare i Fratelli Musulmani. Subito dopo il 7 ottobre, sotto la pressione dei partiti ormai condizionati dalla propaganda dell’Islam radicale, abbiamo abbandonato Israele a sé stessa, lasciandola da sola a combattere contro Hamas, Hezbollah, Houthi e Iran. Eppure, quel terrorismo vuole cacciare gli ebrei dal Medio Oriente e vuole anche distruggere le democrazie occidentali, uccidere i cristiani in africa e i musulmani che provano ad opporsi. La sopravvivenza dello Stato ebraico è la nostra sopravvivenza, eppure…
Se l’Europa fosse stata al fianco di Israele nella sua guerra contro il terrorismo, se avesse combattuto unita per la sicurezza di Gerusalemme come ha fatto per Kyiv, oggi avrebbe la forza politica di condizionare le scelte di Netanyahu. Se avesse affrontato la realtà ammettendo che i nemici di entrambe le guerre sono gli stessi, che attaccano con le stesse armi, con le stesse potenti relazioni diplomatiche, con gli stessi droni, il vecchio continente oggi avrebbe la forza politica di mettere un punto fermo, proponendo una soluzione per liberare i palestinesi da Hamas, dall’odio antisemita, dalla cultura della morte e del martirio. Se avessimo condannato con forza la vergogna del considerare Israele l’aggressore e non la vittima, oggi potremmo fermare questa guerra.
Chiedere di fermare la guerra senza dare una soluzione per la sicurezza degli israeliani è velleitario e rende i governi occidentali funzionali agli scopi alla propaganda di Hamas. Ma siamo ancora in tempo. L’Europa e la Gran Bretagna possono oggi assumere un’iniziativa con la Lega Araba e gli Stati Uniti per non lasciare soli gli ebrei d’Israele. Far entrare a Gaza un’amministrazione ANP, disarmare e smantellare Hamas con forze militari dei paesi sunniti, iniziare la ricostruzione nella Striscia sciogliendo Unrwa e ricostruendo scuole palestinesi che formino una generazione pacifica. Israele è una democrazia ancora forte. Gli israeliani sapranno scegliere la leadership in grado di garantire la loro sicurezza e svolgere un ruolo propulsivo nel processo di stabilizzazione del Medio Oriente. Ora, anche se esausti, hanno bisogno di questo. E l’occidente devastato deve salvare sé stesso dagli incubi di un passato che sta prepotentemente tornando.
(Il Riformista, 31 maggio 2025) ____________________
«L’occidente è sempre più lontano, Israele è sotto attacco». Anche questo articolo vede Israele come un baluardo dell’Occidente, e accusa quest’ultimo di non fare abbastanza per supportare il suo “baluardo”. E mette in un fascio la guerra di Ucraina con quella di Gaza, e auspica lo sforzo unito di Europa, Gran Bretagna, Lega Araba e Stati Uniti per “condizionare Netanyahu”. Chi coltiva questi sogni di un Occidente regno del bene che deve salvare Israele per salvare se stesso, continua ad essere per Israele parte del problema,non della soluzione. La democrazia occidentale ormai è intessuta di antisemitismo, e si avvicina il momento in cui non riuscirà più a dissimularlo. M.C.
GERUSALEMME- Israele è un piccolo Paese con risorse umane ed economiche limitate. I conflitti militari prolungati hanno un costo elevato, poiché la maggior parte dei combattimenti è condotta da riservisti che devono lasciare le loro famiglie e i loro posti di lavoro per difendere la nazione.
Tuttavia, anche dopo quasi 600 giorni di guerra, la maggior parte di loro considera sacro il proprio dovere, dopo che gli eventi del 7 ottobre 2023 hanno ricordato a uno Stato ebraico sempre più compiaciuto che ci sono ancora nemici che vogliono davvero annientare la vita ebraica.
I soldati cittadini di Israele, spina dorsale delle forze di difesa israeliane, continuano ad ardere con incrollabile determinazione per sconfiggere Hamas e ottenere la vittoria totale nella Striscia di Gaza, al fine di garantire che gli eventi del 7 ottobre non si ripetano mai più. Ma dopo quasi due anni di guerra incessante, questi leoni di Giuda sono esausti, le loro famiglie sono provate e le risorse di Israele sono pericolosamente esaurite. La Bibbia dice: “Il popolo d'Israele si leverà come un leone” (Esodo 23:24), ma anche i leoni si stancano quando la caccia non finisce mai.
(Israel Heute, 30 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Amnesia e indifferenza sul 7 ottobre di chi chiede la resa d’Israele
di Iuri Maria Prado
Le manifestazioni dei prossimi giorni “contro la guerra di Gaza” e “per fermare Israele” sono organizzate e promosse da chi non capisce che cosa è successo dal 7 ottobre a questa parte o, peggio, non se ne preoccupa.
I cinquemila miliziani e civili palestinesi che il 7 ottobre del 2023 invadevano Israele dicevano al mondo che massacrare gli ebrei in massa era nuovamente possibile. I loro smartphone e le loro bodycam, restituendo le immagini dei massacri, delle decapitazioni, dei bambini bruciati vivi, raccontavano che 80 anni dopo la Shoah non era più solo una vaga ambizione, ma una possibilità effettiva, sterminare 1200 ebrei e rapirne 250.
Raccontavano che era possibile farlo, solo che ci fosse qualcuno disposto a farlo e nessuno disponibile a impedirglielo.
Era un nuovo inizio, il 7 ottobre. L’inizio di una nuova era della persecuzione degli ebrei. Una nuova era che non cominciava con quei massacri, ma con la diffusione dell’idea che essi “non venivano dal nulla”, come disse il Segretario Generale dell’Onu.
La guerra è una cosa orribile sempre, a prescindere da chi la faccia e per chiunque la subisca. Ma Israele non combatte la propria guerra. Combatte la guerra scatenata da Hamas, una guerra organizzata sul presupposto che la distruzione di Israele valesse la pena della distruzione di Gaza.
Manifestare “contro la guerra di Gaza” e “per fermare Israele” (“fermare Netanyahu” è un modo comodo per dire la stessa cosa) significa pretendere che Israele e gli ebrei debbano accettare, nella noncuranza della comunità internazionale, la sopravvivenza di un nemico che vuole distruggerli.
Significa pretendere la resa di Israele a quella minaccia. Perché nessuno, salvo Israele, salverà Israele da quella minaccia. Perché nessuno, salvo Israele, ha mai salvato Israele dalla minaccia cui lo Stato ebraico, dalla sua fondazione, è stato sottoposto.
E ai manifestanti dei prossimi giorni noi diciamo, ancora, di meditare su questo: che nessuno ha mai salvato gli ebrei, se non gli ebrei stessi. Israele, che in quelle manifestazioni sarà più o meno esplicitamente indicato come il nemico, è nato essendo, e per essere, l’ultimo posto per gli ebrei. Perché non ne esisteva nessun altro.
Chiedere che un Paese in guerra rispetti le leggi di guerra è giusto e doveroso. Ma le manifestazioni dei prossimi giorni non hanno l’intenzione, e tanto meno avranno l’effetto, di impedire la commissione di crimini di guerra (che Hamas commette sistematicamente e per statuto).
Quelle manifestazioni hanno l’intenzione, o in ogni caso avranno l’effetto, di armare l’opinione pubblica contro il diritto di Israele di vincere la guerra contro chi vuole distruggerlo.
E avranno l’effetto, proprio mentre affermano di prenderne le distanze, di portare in piazza un risentimento antisemita che ha trovato nuove denominazioni (il cosiddetto “antisionismo”, la “critica al governo criminale di Israele”, la condanna del “genocidio”) per dispiegarsi in libertà. L’Europa che fu della Shoah si accorse dopo, troppo tardi, di esserlo stata.
Dopo l’attentato al Museo Ebraico, una nuova realtà a Washington: “Il terrorismo può colpire ovunque”
“Ci aspettiamo che il governo agisca in modo deciso contro chiunque minacci la nostra esistenza con atti terroristici. L’attentato avvenuto a Washington rappresenta un’escalation significativa della violenza antisemita, e dobbiamo rispondere di conseguenza”. Parola di Eric Fingerhut, presidente delle Federazioni Ebraiche del Nord America.
di David Zebuloni
Seicento giorni esatti fa, il 7 ottobre 2023, la vita di milioni di ebrei in Israele e nel mondo è cambiata per sempre. Un preoccupante sondaggio condotto dall’American Jewish Committee ha già rivelato che la maggior parte degli ebrei adulti negli Stati Uniti ha modificato il proprio comportamento nell’ultimo anno per il timore di subire violenze e odio a sfondo antisemita. Un timore assolutamente fondato e reso tragicamente reale la scorsa settimana, quando due giovani impiegati dell’ambasciata israeliana a Washington sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco. “L’attentato terroristico avvenuto fuori dal Museo Ebraico di Washington ha scosso le nostre comunità, questo crimine orribile è una vera tragedia per tutto il popolo ebraico”, ha dichiarato Eric Fingerhut, presidente delle Federazioni Ebraiche del Nord America, in un’intervista a Makor Rishon. “Stiamo facendo tutto il possibile per proteggere gli ebrei americani da ogni minaccia e per permettere loro di vivere una vita comunitaria sicura e dignitosa”. Una sfida tutt’altro che semplice. “Da alcuni anni ormai percepiamo che la minaccia contro la comunità ebraica negli Stati Uniti va intensificandosi, ed è per questo che abbiamo già aumentato in modo significativo i livelli di sicurezza nei siti ebraici sensibili”, ha sottolineato Fingerhut. “Di recente abbiamo anche promosso alcuni piani di sicurezza avanzati per tutte le comunità ebraiche del Nord America”. Eric Fingerhut è stato senatore nel parlamento dello Stato dell’Ohio dal 1997 al 2006 e nel 2004 è stato candidato del Partito Democratico al Senato degli Stati Uniti. Durante il suo mandato alla Camera dei Rappresentanti, è stato promotore di quattro proposte di legge a favore dei legami tra Stati Uniti e Israele. Dal 2019 ricopre il ruolo di presidente e amministratore delegato delle Federazioni Ebraiche del Nord America. “Dopo il 7 ottobre abbiamo chiesto il sostegno del governo americano e l’abbiamo ottenuto: lavoriamo in piena collaborazione con le autorità di sicurezza locale”, ha rivelato l’ex senatore americano. “Tuttavia, ora ci aspettiamo che il governo faccia di più per proteggere gli ebrei d’America. Che agisca in modo deciso contro chiunque minacci la nostra esistenza con atti terroristici. L’attentato avvenuto a Washington rappresenta un’escalation significativa della violenza antisemita, e dobbiamo rispondere di conseguenza”. Dall’atroce attacco di Hamas nei Kibbutzim nel sud d’Israele a oggi, i livelli di odio, violenza e antisemitismo negli Stati Uniti sono aumentati in modo esponenziale. “Le manifestazioni pro-palestinesi si sono diffuse molto rapidamente in tutto il Nord America, non solo nei campus delle grandi università”, ha raccontato Fingerhut. “Oggi si sentono ovunque accuse contro Israele di genocidio a Gaza: davanti ai municipi, davanti alle scuole e, ovviamente, sui social network”. Nonostante ciò, l’ondata di antisemitismo che ha investito gli Stati Uniti non ha realmente sorpreso Eric Fingerhut. “Fin dal primo momento in cui le strade e le piazze si sono riempite di violenti manifestanti, era a noi chiaro che le proteste pro-palestinesi non erano contro Israele, ma contro tutti gli ebrei. Non a caso, già nel novembre 2023, appena un mese dopo il terribile massacro di Hamas, abbiamo organizzato a Washington una marcia contro l’antisemitismo. Avevamo subito riconosciuto la nuova tendenza, e cercato di agire di conseguenza”. Numerosi movimenti antisemiti avevano già preso di mira gli ebrei americani, ma nell’ultimo anno pare che questi siano passati dalle parole ai fatti, rappresentando ora una minaccia concreta all’esistenza delle numerose comunità ebraiche sparse per il Nord America. “Riteniamo che atti di terrorismo possano verificarsi ovunque, e in qualsiasi momento”, ha affermato Fingerhut. “Ieri è successo a Pittsburgh, oggi a Washington, domani potrebbe accadere in Texas o in California”. Nel frattempo, le comunità ebraiche cercano di organizzarsi di conseguenza. “I sistemi di sicurezza che oggi proteggono le nostre comunità sono più sofisticati e innovativi che mai”, ha chiarito l’ex senatore. “Abbiamo anche modificato le linee guida sulla sicurezza che da sempre caratterizzano la vita comunitaria. Ad esempio, per partecipare a qualsiasi evento ebraico è necessario registrarsi in anticipo – non è più possibile presentarsi spontaneamente. Anche i luoghi dove si svolgono gli eventi, devono soddisfare standard di sicurezza molto elevati”. La Federazione delle Comunità Ebraiche del Nord America è un’organizzazione ebraico-sionista che unisce 146 federazioni ebraiche e circa 300 comunità ebraiche indipendenti negli Stati Uniti e in Canada. L’organizzazione protegge e migliora il benessere degli ebrei in 70 Paesi nel mondo, ma non solo. Durante l’operazione Spade di Ferro, la Federazione ha aiutato Israele a finanziare la ricostruzione dello Stato dopo la distruzione e ha donato diverse centinaia di milioni di dollari a favore di cause umanitarie. “Ogni comunità ebraica negli Stati Uniti sente un legame profondo con lo Stato ebraico – un legame fortissimo che non si può spezzare”, ha concluso Fingerhut. “Siamo assolutamente impegnati al fianco di Israele, per la sua sicurezza e per il suo sviluppo. Oggi e per sempre”.
Il Sionismo italiano torna protagonista: eletta la delegazione per il 39º Congresso Mondiale
di Luca Spizzichino
Con un’affluenza del 76,3% e 1.388 votanti su oltre 1.800 registrati, si sono concluse le elezioni per il rinnovo della delegazione italiana al 39º Congresso Sionista Mondiale, in programma a Gerusalemme nell’ottobre 2025. Un momento storico per la Federazione Sionistica Italiana (FSI), che ha rilanciato le proprie attività dopo anni di inattività, con l’ambizione di costruire una piattaforma ampia, pluralista e realmente rappresentativa del panorama sionista italiano.
Alla consultazione hanno preso parte sette liste, espressione di diverse tradizioni politiche e culturali. Il risultato ha visto Meretz Italia – Hashomer Hatzair, con 469 voti, affermarsi in alleanza con Arzenu, che ha ottenuto 120 voti, come prima forza, seguita da Likud Italia con 516 voti e Mizrachi Benè Akiva Italia con 245. A seguire, Herut, Over the Rainbow – ADI e Shas Italia, quest’ultima ritiratasi dopo aver inizialmente presentato la propria adesione.
“La Federazione esisteva già molti anni fa, ma col tempo si era spenta” spiega Raffaele Turiel, presidente della Federazione Sionistica Italiana. “Su stimolo della World Zionist Organization, ci siamo chiesti: perché l’Italia non dovrebbe avere, come ogni altro Paese, una propria federazione attiva? Così l’abbiamo ricostruita, ma soprattutto abbiamo costruito un’idea nuova: non più una somma di individui, ma un contenitore comune per i movimenti sionisti italiani”. E aggiunge: “Abbiamo messo insieme storie, valori e reti. Il nostro compito ora è dare una missione precisa a questa Federazione: costruire progetti concreti, coinvolgere i giovani, trovare risorse, inserirci nel dibattito mondiale sul futuro del sionismo”. Un punto centrale, per Turiel, è la necessità di “intercettare le esigenze reali della comunità ebraica italiana e creare ponti autentici con Israele. La Federazione non deve solo rappresentare: deve agire dove altri non arrivano”.
Un voto che ha rappresentato molto più di una semplice conta: “Per la prima volta abbiamo avuto una piattaforma trasparente, un regolamento chiaro, un comitato elettorale indipendente. È stato un segnale importante per tutta la comunità,” ha dichiarato Beatrice Hirsch, presidente del Comitato Elettorale. “Non solo un traguardo, ma un punto di partenza”.
Sono stati eletti: Laura Gutman Benatoff (Meretz Italia – Hashomer Hatzair, in alleanza con Arzenu), Rav Moshe Hacmun (Likud Italia) e Raffaele Turiel (Mizrachi Benè Akiva Italia). Tre personalità con esperienze, orientamenti e sensibilità diverse, ma accomunate da una volontà chiara: rilanciare il sionismo italiano e renderlo un ponte vivo tra Israele e la diaspora.
“Il risultato ottenuto in queste elezioni rappresenta una vittoria storica per la sinistra ebraica italiana.” afferma Laura Gutman Benatoff, rappresentante di Meretz Italia – Hashomer Hatzair. “Per la prima volta, l’ebraismo umanista si è fatto sentire forte e chiaro. È un segnale inequivocabile: c’è un desiderio diffuso di un Israele democratico, pluralista e giusto”. Il suo impegno ora guarda al Congresso: “Siamo stati numerosi come mai prima. Ogni voto è stato un atto di fiducia. Lavoreremo da subito con i movimenti progressisti eletti negli altri 25 Paesi. Costruiremo una coalizione internazionale coerente e forte, affinché la nostra voce abbia un peso politico reale. È solo l’inizio”. E aggiunge: “La nostra visione è chiara: uno Stato ebraico e democratico, con giustizia indipendente, diritti uguali per tutti e un impegno concreto per una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese. E vogliamo che nessuno dimentichi i 58 ostaggi ancora a Gaza: il loro ritorno deve essere una priorità nazionale e morale”.
Diversa la lettura di Rav Moshe Hacmun, rappresentante di Likud Italia, che ha ottenuto il maggior numero di voti, 516. “Queste elezioni riflettono la grande fiducia che gli ebrei italiani ripongono nel nostro movimento e nelle liste di centro-destra, che complessivamente hanno raccolto 787 voti”, dichiara. “Non è solo un successo politico: è il frutto di anni di lavoro educativo e identitario, portato avanti con coerenza nel movimento Eli Hay, a Roma e Milano”. Per Hacmun, il voto è anche “una testimonianza di riconoscenza verso i nostri valori: rafforzare i legami con Israele, promuovere l’aliyah, sostenere una politica di sicurezza nazionale, unire religiosi e laici in una visione comune del popolo ebraico”. Ma il messaggio centrale è un appello all’unità: “Le elezioni sono finite. Ora uniamoci. Non possiamo permetterci di restare divisi. È il momento di lavorare insieme per rafforzare l’ebraismo italiano e costruire un ponte ancora più solido con lo Stato d’Israele”.
Prossimo appuntamento: ottobre 2025, Gerusalemme, per il 39º Congresso Sionista Mondiale. Lì si riuniranno 525 delegati da 43 Paesi per discutere il futuro delle relazioni tra Israele e la diaspora, e il ruolo delle federazioni sionistiche nel mondo. L’Italia, con la sua delegazione rinnovata e pluralista, torna a far sentire la propria voce.
Anche se la storia degli ebrei in terra d’Israele è una delle storie più popolari dell’umanità ed è stata incorporata nelle credenze religiose di oltre metà della razza umana, è di moda negare il legame degli ebrei con la terra d’Israele. E tuttavia, allo stesso modo, viene condannato strenuamente il fatto che i discendenti dei conquistatori musulmani che oggi si definiscono “palestinesi”, alcuni dei quali sono arrivati in Israele solo un secolo fa, siano coloni e colonizzatori. L’identità “palestinese” è politicamente sacrosanta, pur non avendo alcun fondamento storico o linguistico in un passato più remoto delle guerre e delle invasioni islamiche che hanno di gran lunga preceduto la presenza ebraica in Israele. Non solo è stata inventata nella storia, ma lo si è fatto così di recente che molti oggi ricordano quando fu concepita, e si lega a infinite contraddizioni. Non esiste una vera storia “palestinese”. Esiste soltanto il progetto ideologico del “palestinismo” e la sua storia revisionista che ha ribaltato la storia, trasformando i conquistatori arabi musulmani che invasero e perseguitarono gli ebrei negli abitanti autoctoni che furono cacciati dagli ebrei. Il “palestinismo” è il generale Custer che indossa un costume indiano e afferma che i suoi antenati erano stati in America per migliaia di anni prima che i Sioux li cacciassero. Il revisionismo storico del palestinismo insiste sul fatto che gli ebrei che sono stati in Israele per 3.400 anni sono coloni europei, mentre gli arabi musulmani che hanno deciso di definirsi “palestinesi” sessant’anni fa erano gli abitanti originari della terra. La loro unica base per questa argomentazione, altrimenti completamente astorica, è la scelta di un nome dal suono “biblico”. Ma il nome “Palestina” deriva originariamente dai Filistei, coloni europei provenienti dalla regione dell’Egeo. Il nome fu imposto molto più tardi dai conquistatori romani che cercavano di eliminare ogni traccia della presenza ebraica da Israele. Chiamare Israele “Palestina” è un termine che avrebbero usato i coloni stranieri, il cui unico legame con la terra derivava dai loro legami con imperi stranieri. Anziché affermare di essere originari di quella terra, l’assunzione di una falsa identità “palestinese” è un’ammissione involontaria di estraneità. È ciò che farebbe un estraneo inetto che cerca di integrarsi. Il marchio “palestinese” non è un’antica rivendicazione autoctona della terra, ma è il nome di un gruppo di coloni europei che condussero una guerra contro gli ebrei, più di un millennio e mezzo prima della nascita dell’Islam, che venne poi riapplicato da un altro gruppo di conquistatori europei più di 500 anni prima della comparsa dell’Islam, e poi ripreso dagli invasori musulmani i cui antenati erano stati mercenari al servizio di Roma e non avevano alcuna memoria storica antecedente all’Impero Romano. È difficile immaginare un nome più strettamente associato agli invasori stranieri di “palestinesi”. Consapevole di questo problema, Yasser Arafat, nato in Egitto, iniziò a rivendicare la propria discendenza dai Cananei, in particolare dai Gebusei. Anche questa rivendicazione, altrettanto insensata, di discendenza da un popolo antico risale addirittura agli anni Sessanta. Rashid Khalidi, il mentore di Obama autore di questa affermazione, è nato a New York, figlio dell’ex ministro degli Esteri della Giordania. Ma se i “palestinesi” sono davvero Cananei, perché non definirsi tali? Non ha la stessa risonanza storica tra gli americani e gli europei che sono stati i destinatari del marchio “palestinese”. Sebbene il Corano non menzioni né la “Palestina” né la “Terra di Canaan”, implica però che Allah abbia ordinato agli ebrei di intraprendere un jihad e scacciare i Cananei. Gli islamisti più religiosamente devoti si risentono profondamente dell’ipotesi di Arafat di essere mai stati Cananei. “Il popolo palestinese non ha alcun diritto storico sulla Palestina (…) la nostra storia è semplice e non è antica. La nostra storia risale solo a 1.440 anni fa. E 1.440 anni fa non avevamo alcun tipo di diritto. Assolutamente nessuno“, ha affermato l’imam Issam Amira in un discorso tenuto nella moschea che occupa il Monte del Tempio, sostenendo che i “palestinesi” possono rivendicare diritti solo sulla base dell’Islam. “Non va detto che i palestinesi hanno radici cananee. Possiamo tornare alle parole di Yasser Arafat che ha perso la nostra causa (…) l’unica cosa che è permesso dire è: ‘Oh palestinesi, siete musulmani’”. Quando non presentano le loro ragioni all’opinione pubblica occidentale, i “palestinesi” fanno orgogliosamente risalire la loro discendenza a quella che oggi è l’Arabia Saudita, dalle famiglie Qays e Yaman. Vogliono tutti essere collegati alle antiche dinastie maomettane e non ai pagani Filistei o ai Cananei. La base della rivendicazione musulmana su Israele è la stessa di quella sull’Iraq, sul Pakistan o su qualsiasi altro Paese musulmano. L’Islam riconosce solo il diritto religioso di conquista, non qualsiasi tipo di origine autoctona, sia che si tratti di Israele, del Nord Africa, dell’India, dell’Afghanistan o di qualsiasi altra area in cui gli abitanti autoctoni furono massacrati, sottoposti a pulizia etnica e ridotti in schiavitù dagli invasori islamici. I musulmani predicano agli occidentali i diritti autoctoni dei “palestinesi”, ma rifiutano i diritti autoctoni di ogni gruppo che hanno conquistato, dagli indù e i buddisti in Asia ai berberi in Nord Africa e ai copti in Egitto. Dov’è che i musulmani hanno mai riconosciuto i diritti autoctoni di una minoranza non musulmana che hanno conquistato a discapito del loro stesso popolo? Quando si tratta di Israele, i musulmani chiedono l’adesione a un principio che non rispettano, e lo chiedono sulla base di una storia inventata che loro stessi non hanno mai preso sul serio. Se esiste davvero un antico popolo “palestinese” in qualche modo distinto da tutti i suoi parenti arabi musulmani, cos’è che lo rende tale? Dov’è la sua antica storia precedente agli anni Sessanta? Anche un rapido esame della storia recente dimostra che si trattava di un’etichetta di convenienza politica. Erano “palestinesi” quando i britannici amministravano il Mandato della Palestina? Eppure, quando parte del Mandato fu trasformata nel Regno di Giordania, quei “palestinesi” divennero giordani. Nel 1948, la Giordania attaccò Israele e annesse varie aree, tra cui Ramallah, e i “palestinesi” della futura capitale dell’Autorità Palestinese divennero giordani. Non avevano alcun interesse a creare uno Stato “palestinese”. Solo quando Israele liberò Gerusalemme e altre parti del suo territorio, i giordani divennero improvvisamente “palestinesi” e rivendicarono uno Stato. Nulla di tutto ciò avrebbe senso se essi, come gli ebrei, fossero stati membri di un popolo antico con un’identità coerente risalente a migliaia di anni fa, ma per i coloni arabi musulmani la Giordania e la Palestina erano solo nomi geografici che avevano ereditato, non identità. Hajj Amin al-Husseini, meglio conosciuto come il Mufti di Hitler, e una delle figure cardine della causa genocida “palestinese” che si alleò con i nazisti nella speranza di sterminare tutti gli ebrei, faceva parte della famiglia al-Husayni che si era trasferita in Israele nel XVIII secolo e rivendicava la propria discendenza dal nipote di Maometto in Arabia Saudita. I loro grandi rivali, i Nashashibi, anch’essi “palestinesi” erano curdi comparsi nel XV secolo. Il “palestinismo” sostiene che i coloni arabi musulmani hanno un legame profondo e antico con la terra. Questo non dovrebbe riflettersi nella geografia e nei nomi delle loro città? Il nome attribuito dai coloni musulmani a Gerusalemme è Al-Quds o Città Santa, perché questo era l’unico modo in cui gli arabi musulmani d’Arabia potevano descrivere una città di cui avevano sentito parlare, ma che non avevano mai visitato. Ciò che gli ebrei chiamano Giudea e Samaria, i coloni arabi musulmani chiamano ad-difa’a al-gharbiya ossia Cisgiordania. Questi nomi non mostrano alcun legame storico con la terra. Il termine arabo per Betlemme è “Bayt Lehem” o una traduzione dell’ebraico “Beit Lehem”. Nablus fa parte del grande e antico patrimonio palestinese? Ma Nablus non è arabo, è la storpiatura in arabo di Neapolis, che in latino significa “città nuova”. Proprio come “Palestina”, è un altro prestito romano da parte di coloni stranieri che non hanno antiche radici in Israele. Ramallah, la capitale dell’Autorità Palestinese, è la traduzione araba della vicina e antica città ebraica di Beit El. Era scarsamente abitata sotto il dominio musulmano e risale al XVI secolo, quando un gruppo di arabi cristiani attraversò l’attuale Giordania in fuga dalle persecuzioni musulmane. Sotto il dominio giordano, fu invasa dai musulmani e oggi è a maggioranza musulmana. Se la capitale del vostro popolo fu fondata da cristiani provenienti dall’altra sponda del fiume nel XVI secolo e il suo nome fu preso da un’antica città ebraica e di fatto non fu la vostra capitale fino a prima degli anni Novanta, e poi lo divenne solo perché ne cacciaste i suoi abitanti originari negli anni Cinquanta, allora la vostra antica civiltà in realtà non esiste. I “palestinesi” non sono soltanto un popolo inventato. Sono un popolo malamente inventato, senza storia, senza passato e il cui unico talento è quello di rubare l’identità degli antichi popoli autoctoni che i loro antenati invasori provenienti dall’Arabia conquistarono, perseguitarono e schiavizzarono. Quando il popolo ebraico autoctono si è affrancato, i conquistatori sono passati a fingere di essere i conquistati, gli oppressori hanno interpretato il ruolo degli oppressi e gli invasori si sono spacciati per autoctoni per giustificare i loro piani genocidi di conquistare, opprimere e invadere nuovamente Israele.
(L'informale, 29 maggio 2025 - trad. Angelita La Spada)
A proposito di quelli che “noi amiamo Israele” e “abbiamo molti amici ebrei”
di Iuri Maria Prado
Vi sarà capitato di ascoltare – nei discorsi su Israele, sulla guerra di Gaza, sul conflitto arabo-israeliano, sulle politiche del governo israeliano, eccetera – vi sarà capitato, dicevo, ascoltare i discorsi di chi sente l’urgenza di precisare che “ama Israele”. Dice: “Io amo Israele”, “Noi che amiamo Israele”, “Io che amo la democrazia israeliana”, “Noi che amiamo la democrazia israeliana”.
Ora, innanzitutto è significativamente buffo che queste dichiarazioni di amore siano sistematicamente, puntualmente, immancabilmente anteposte a requisitorie sul fascismo di Israele, sui crimini di guerra che commetterebbe Israele.
Vale a dire: “Io amo, amo, amo Israele, e però il genocidio…”; “noi amiamo, amiamo, amiamo la democrazia israeliana, e però la pulizia tecnica…”. Eccetera. Ma a parte questo: ma se si parla di – che so? – di Armenia, questi che cosa fanno? Dicono “Noi amiamo l’Armenia”? Se si parla – boh – di Canada, che cosa fanno? Dicono “noi amiamo tanto la democrazia canadese”? Se si parla di Spagna che cosa fanno? Cominciano ogni discorso dicendo “Noi amiamo la Spagna”, “Noi amiamo la democrazia spagnola”?
Perché lo fanno con Israele?
È molto semplice. Dicono così come dicono che loro “amano il popolo ebraico”, “amano gli ebrei”, e notoriamente loro hanno tanti amici ebrei. Ma gli ebrei giusti ovviamente. Gli ebrei come devono essere: gli ebrei buoni, gli ebrei democratici, che oggi significa gli ebrei che dicono che Bibi è un pazzo criminale e che Israele commette crimini di guerra.
E così Israele: loro “amano, amano, amano” Israele, loro difendono il diritto di esistere di Israele ma a un patto: e cioè a patto che Israele dia prova di moralità. Non amano il diritto degli ebrei di avere uno Stato con un esercito che lo difende, amano il dovere degli ebrei e di Israele di essere come vogliono gli altri.
E appunto lo fanno solo con gli ebrei e con Israele, non lo fanno con il Canada e con i canadesi, non lo fanno con l’Armenia e con gli armeni. Lo fanno solo con Israele e con gli ebrei, perché sono sostanzialmente antisemiti, tanto più antisemiti quanto più dichiarano di amarli tanto tanto tanto.
(InOltre, 29 maggio 2025)
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«Io non sono antisemita, però...»
Quando uno dice: "Non è per il denaro, ma per il principio",
è per il denaro, dice Leo Longanesi.
Quando lo spiritoso dopo una battuta contro qualcuno dice: "Scherzo",
non è uno scherzo, e infatti quel qualcuno non si diverte.
Quando l'oratore prima della conferenza dice: "Sarò breve",
sa che sarà lungo, e teme che gli uditori si addormentino.
Quando uno dice: "Io non sono antisemita, però...",
è un antisemita, e teme che qualcuno se ne accorga.
La comunità drusa, che rappresenta solo l’1,6% della popolazione israeliana, è spesso un gruppo trascurato della società. Eppure ha un impatto profondo e positivo sull’intera nazione grazie alla sua lealtà, ospitalità e ai suoi numerosi contributi a favore di Israele. La religione drusa risale all’XI secolo, quando si separò da una branca dell’Islam sciita. È considerata eretica dalla maggior parte dei musulmani, il che ha portato a forti persecuzioni contro i suoi seguaci. Oggi, i drusi vivono principalmente in Israele, Siria e Libano. Ci sono circa 145.000 drusi in Israele, divisi tra la catena del Carmelo, l’Alta Galilea e le alture del Golan. A differenza di altre minoranze non ebraiche in Israele, i drusi sono soggetti al servizio militare obbligatorio. Questa politica è da loro accolta con favore come espressione della loro lealtà allo Stato di Israele. Molti drusi prestano servizio non solo nelle Forze di Difesa Israeliane, ma anche nella polizia, nella magistratura e nella Knesset. L’Ambasciata Cristiana Internazionale di Gerusalemme (ICEJ) ha coltivato buoni rapporti con la comunità drusa israeliana nel corso di diversi decenni. In una recente cerimonia in Galilea, abbiamo potuto nuovamente osservare la vita di questo popolo fiero e affascinante, che ha evidenziato ancora una volta non solo le sue sfide, ma anche la sua visione per il futuro. Quest’anno, l’ICEJ ha finanziato la ristrutturazione di un corso di robotica per una scuola elementare drusa a Yarkah e ha sponsorizzato 47 borse di studio per gli studenti. Molti dei beneficiari delle borse di studio svolgono anche attività di volontariato durante gli studi e ognuno incontra settimanalmente un mentore dedicato per tutta la durata del programma. Gli ambiti di studio sono diversi e includono psicologia, ingegneria civile, elettronica e software, diplomazia, assistenza sociale, informatica, terapia occupazionale, economia e commercio, odontoiatria e giurisprudenza, solo per citarne alcuni. Durante la cerimonia di premiazione dei vincitori delle borse di studio per i drusi, i leader locali e altri donatori hanno sottolineato l’importanza cruciale dell’istruzione e la responsabilità condivisa tra le generazioni. “Non dimenticate mai da dove venite e chi vi ha offerto questa opportunità di studio”, ha detto agli studenti il signor Amer, presidente del consiglio regionale di Hurfeish. “Questi donatori credono in voi e vi augurano successo. In ogni luogo che visitate, dimostrate l’eccellenza della nostra comunità drusa. Cogliete ogni opportunità per imparare e per crescere”. “La nostra visione è quella di formare una generazione di leader provenienti da diverse comunità israeliane, tra cui drusi, arabi ed ebrei”, ha affermato Aya Ha’asiya del Ministero dell’Istruzione. “Investire nella vostra istruzione è fondamentale perché plasma il vostro futuro. Continuate a sognare. Continuate a studiare… Sappiate che siete i nostri futuri leader e che siamo orgogliosi di voi”. Un tema ricorrente durante la serata è stato il profondo rispetto reciproco intergenerazionale, tra comunità e tra partner. Il leader druso Mofied Amer ha voluto sottolineare i loro profondi e duraturi legami con l’ICEJ. “L’ICEJ è sempre stato un alleato solidale della comunità drusa”, ha affermato. “Il loro sostegno include l’investimento nei nostri giovani, il miglioramento delle aule e l’assistenza agli studenti drusi nel loro percorso educativo. Consideriamo questo come un caloroso abbraccio da parte dell’ICEJ”. Jannie Tolhoek e Pnina Zubarev del nostro staff di Gerusalemme sono rimaste profondamente commosse dall’accoglienza amichevole ricevuta in qualità di rappresentanti di un’organizzazione cristiana. “I drusi sono un popolo davvero fedele e generoso”, ha spiegato Pnina. “Hanno accolto pienamente la vita in Israele e sono profondamente impegnati per il suo successo, arrivando persino a sacrificarsi e a servire nell’esercito”. “Ciò che mi ha colpito di più è stato il loro profondo rispetto intergenerazionale”, ha aggiunto. “I giovani onorano sinceramente gli anziani, e questi ultimi sentono la responsabilità di trasmettere i propri valori e di sostenere la generazione successiva. Durante la cerimonia, un anziano ha detto: ‘Come noi ci prendiamo cura di voi, allo stesso modo ora voi dovete prendervi cura della prossima generazione’. Questa mentalità è rara nel mondo di oggi; è come se noi l’avessimo persa, mentre loro ce l’hanno”. “Ci hanno accolto con calore, amore e generosità. Ci siamo sentiti come parte di una grande famiglia. Non si vede sempre questo livello di ospitalità e cura reciproca in altre parti del Paese. Qui c’è un forte senso di identità, non basato sulla nazionalità, ma sulla fede e sulla comunità. La loro lealtà è rivolta alla nazione di Israele… non solo esteriormente, ma con tutto il loro cuore. Si percepiscono l’orgoglio e la responsabilità che portano con sé”, ha concluso Pnina. “In piedi e stringendo la mano agli studenti, guardavo negli occhi la prossima generazione di medici, avvocati, ingegneri, infermieri, specialisti in robotica”, ha commentato Jannie a proposito della visita. “È stato profondamente toccante vedere ogni persona che stiamo aiutando con queste borse di studio, contribuire a migliorare la comunità drusa e di tutta Israele”. Questa cerimonia ha chiarito una cosa: sebbene i drusi vivano tranquilli sulle colline del nord di Israele, la loro presenza ha un effetto a catena su tutta la nazione. La loro lealtà, il profondo rispetto per la tradizione e l’investimento nell’istruzione li rendono una comunità nascosta ma vitale. Grazie per il vostro sostegno al nostro fondo “Futuro e Speranza”, che consente a noi cristiani di raggiungere e avere un impatto su tutti i settori della società israeliana.
(Icej Italia ODV, 29 maggio 2025)
Hamas sta attraversando la crisi più grave dalla sua fondazione
La perdita della funzionalità dello Stato nella Striscia di Gaza, il crescente isolamento in Giudea e Samaria e la crescente pressione dei governi regionali, in particolare in Libano, stanno creando un vuoto di potere geopolitico.
GERUSALEMME - Il quotidiano arabo Asharq Al-Awsat ha riferito che “Hamas sta attualmente attraversando una delle crisi più gravi della sua storia, forse la più grave dalla sua fondazione nel 1987”. Fonti interne all'organizzazione hanno dichiarato che la massiccia reazione israeliana all'attacco del 7 ottobre e le ingenti perdite subite dalla Striscia di Gaza hanno fatto precipitare Hamas in una crisi sistemica globale: economica, amministrativa, politica e interna all'organizzazione. Fonti locali nella Striscia di Gaza riferiscono che Hamas non è in grado di pagare gli stipendi ai propri dipendenti. Negli ultimi quattro mesi, ai dipendenti dell'apparato civile è stato versato un solo stipendio, pari a circa 900 shekel, il che ha provocato un notevole malcontento pubblico. I fondi di bilancio per i ministeri e i servizi di pubblica utilità sono stati quasi completamente congelati e molti comitati di emergenza non funzionano più. Anche il cosiddetto braccio militare di Hamas, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, non pagherebbe gli stipendi ai propri combattenti da almeno tre mesi e non sarebbe in grado di procurarsi le attrezzature necessarie. Le famiglie delle vittime, dei feriti e dei dispersi, che tradizionalmente ricevevano sostegno finanziario da Hamas, non riceverebbero attualmente alcun aiuto. Secondo le stesse fonti, all'interno delle strutture governative di Hamas regna un vuoto di potere totale. I tentativi di riorganizzare le autorità governative locali nella Striscia di Gaza sarebbero sistematicamente ostacolati da attacchi mirati dell'esercito israeliano. A parte un apparato di comando militare in gran parte indebolito, soprattutto nel nord e nel sud della Striscia, l'organizzazione non funzionerebbe quasi più come autorità governativa. Ma in Israele si teme che Hamas non rinuncerà a tutte le carte vincenti di cui dispone, ovvero che non rilascerà tutti gli ostaggi. "Hamas non restituirà tutti i rapiti in una volta sola. Giocherà, ma terrà sempre alcuni rapiti in pugno“, ha dichiarato ieri un alto ufficiale dell'esercito all'esperto di sicurezza e giornalista Yossi Yehoshua. ”Ciò che spinge Hamas a decidere è la pressione militare di Israele, che finora ha riportato tutti gli altri ostaggi israeliani". A differenza degli anni precedenti, in cui Hamas godeva di un ampio sostegno pubblico o almeno di un controllo deterrente sulle critiche, ora la rabbia dell'opinione pubblica è più forte che mai. I palestinesi non solo aggrediscono verbalmente i terroristi di Hamas, ma in alcuni casi anche fisicamente, un fenomeno che non si verificava dall'ascesa al potere di Hamas nella Striscia di Gaza nel 2007. Secondo fonti della sicurezza israeliana, anche nel cuore biblico della Giudea e Samaria Hamas sta attraversando una grave crisi. Gli arresti su larga scala da parte delle forze armate israeliane e dell'Autorità palestinese avrebbero smantellato cellule terroristiche armate, prosciugato le fonti di finanziamento e portato a un blocco operativo. Tra la popolazione cresce la preoccupazione che Israele possa trasferire il modello militare della Striscia di Gaza alle zone della Giudea e Samaria, in particolare a Jenin e Tulkarem, aumentando ulteriormente la distanza da Hamas. Anche in Libano, dove Hamas ha potuto operare relativamente liberamente negli ultimi anni, l'influenza dell'organizzazione si è fortemente indebolita dopo il cessate il fuoco di novembre. Il nuovo governo libanese mira a limitare le attività dei gruppi terroristici palestinesi armati e invia a Hamas un chiaro messaggio che non saranno più tollerate operazioni terroristiche dal territorio libanese. Parallelamente, la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza continua ad aggravarsi. La nuova consegna di aiuti statunitensi, che avrebbe dovuto iniziare oggi, è stata rinviata per motivi logistici da parte dell'azienda statunitense responsabile. Fino a nuovo avviso, la distribuzione degli aiuti continuerà come finora, accompagnata da grandi preoccupazioni che Hamas possa impossessarsi delle forniture. Questa preoccupazione sembra essere confermata da nuove notizie: la notte prima dell'altro ieri, i terroristi di Hamas avrebbero fermato i trasporti umanitari al valico di Kerem Shalom, rubandone il carico e lasciando deliberatamente un solo camion per provocare un panico di massa degno di un film. Secondo fonti palestinesi, la maggior parte dei camion sarebbe stata saccheggiata nella zona di Khan Yunis. Queste azioni si inseriscono in una campagna propagandistica mirata condotta da Hamas nelle ultime settimane. L'obiettivo è quello di esercitare pressioni internazionali su Israele affinché ponga fine ai combattimenti, senza soddisfare la condizione fondamentale posta da Israele: il rilascio degli ostaggi. Parte della campagna consiste nell'accusare pubblicamente Israele di affamare sistematicamente la popolazione di Gaza, mentre i sostenitori armati di Hamas rubano con la forza i beni di prima necessità. Secondo fonti interne ad Hamas, l'organizzazione potrebbe essere ricostituita al termine dei combattimenti. Ma la strada per arrivarci sarà lunga, lenta e completamente dipendente da fattori politici e regionali che al momento sono del tutto incerti. Israele deve distruggere Hamas una volta per tutte, anche per dimostrare a tutti gli altri nemici che non vale la pena attaccare Israele. E nel frattempo, Israele deve liberare i suoi fratelli dalla prigionia con tattica e saggezza.
(Israel Heute, 29 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Lo scudo di luce che porta Israele nell’età delle guerre stellari
di Ugo Volli
• Quattordici anni fa Iron Dome La data di ieri sarà ricordata sui manuali di storia (almeno quelli di storia militare) del futuro. Come dovrebbe essere ricordata quella del 7 aprile 2011, che invece molti hanno dimenticato. Il 7 aprile di quattordici anni fa infatti, fu dichiarato operativo il sistema antimissile Iron Dome (in ebraico Kippat Barzel, cioè cupola di ferro), capace di bloccare i missili a corta gittata come quelli che usava e usa ancora Hamas. Proprio un missile Grad lanciato da Gaza fu l’oggetto della prima intercettazione riuscita di Iron Dome, sempre il 7 aprile 2011. Ci si può solo immaginare come sarebbero state sanguinose le guerre terroristiche degli ultimi anni senza Iron Dome (e i sistemi successivi per missili a più lunga distanza, “David Sling”, cioè la “fionda di Davide” e “Arrows” , “frecce”) che sono stati usati per i missili balistici provenienti dall’Iran e dallo Yemen.
• Il nuovo sistema laser Ieri, 28 maggio 2025, c’è stato un progresso analogo. Le forze aeree israeliane hanno dichiarato operativo il sistema Iron Beam (trave di ferro) almeno nella sua versione leggera, chiamata Iron Blade (lama di ferro); ma il nome più chiaro è quello in ebraico “Maghen or”, cioè scudo di luce. Si tratta sempre di un sistema di intercettazione di missili, ma basato non su razzi che vanno a colpire il proiettile ostile e lo fanno esplodere, come facevano i sistemi precedenti, bensì su laser che lo distruggono grazie all’energia elettromagnetica che veicolano. Il laser, che molti conoscono perché lo hanno visto usare nei puntatori da conferenza o in certi giochi, sono raggi di luce coerente, cioè con una sola lunghezza d’onda, che hanno la proprietà di disperdersi molto poco, a differenza della luce normale di pile elettriche anche molto potenti. Per questa ragione possono veicolare molta energia. I normali puntatori laser da conferenza, che si comprano liberamente ma vanno usati con cautela per non fare danni se puntati direttamente negli occhi della gente, hanno una potenza fra 1 e 5 milliwatt. Una lampadina elettrica normale ha potenza fra i 25 e i 100 watt, alcune migliaia di volte tanto. “Maghen or” sviluppa una potenza di almeno 100.000 watt (la sua versione leggera 40.000), cioè 20 milioni di volte superiore, e se si focalizza su un missile è in grado di penetrare il metallo e farlo esplodere. Se vogliamo visualizzare il nuovo strumento in termini cinematografici, siamo vicini a “Starwars”.
• I problemi tecnici Detto così, sembra una cosa semplice da farsi. In realtà produrre un laser così potente e renderlo usabile per periodi relativamente lunghi e anche trasportabile da un aereo come Israele è riuscito a fare, è molto difficile. Bisogna poi che il raggio funzioni immediatamente a comando, senza periodi di latenza; che non si faccia disperdere da nuvole o fumi (è una questione di lunghezza d’onda ma anche di “ottica adattiva”, una tecnologia che consente di regolare i fasci laser in tempo reale), che sia capace di seguire la traiettoria di un missile che va a migliaia di chilometri all’ora per il tempo sufficiente (alcuni secondi), che sia gestibile da un radar e così via. Problemi complicatissimi sul piano tecnico, su cui lavorano parecchi stati, ma che Israele ha risolto per primo. Già alla fine dell’anno scorso, ha dichiarato il Ministero della difesa, “Maghen Or” ha abbattuto quattro droni di Hezbollah e in seguito è stato usato con successo in altre occasioni, anche da aerei da caccia. Ora è ufficialmente operativo.
• La rivoluzione della difesa I vantaggi sono parecchi: Il raggio laser viaggia alla velocità della luce, cioè colpisce subito senza tempi di lancio; impiega circa 4 secondi a distruggere un bersaglio e poi può passare al successivo; non esaurisce mai i proiettili né richiede tempo per essere ricaricato, perché non ha bisogno di razzi antimissile. Soprattutto un suo colpo costa tipicamente intorno ai 2 dollari contro gli 80.000 dollari del razzo Tamir usato da Iron Dome (per lo più in coppia, per cui ogni abbattimento costa 150.000 dollari). Per ora il sistema è efficace a una distanza di una decina di chilometri, per cui non è adatto ai missili balistici ipersonici. Ma naturalmente è probabile che questo limite sia esteso con la sperimentazione. Mentre nei quindici anni da Iron Dome la difesa era favorita sull’attacco, ma a costi molto alti e asimmetrici (un tipico missile di Hamas costa circa fra i 500 e i mille dollari, cento volte meno di un Tamir), ora le cose dovrebbero cambiare fondamentalmente, rendendo difficile e inutile il terrorismo dei missili. Un vantaggio accessorio, ma certo non indifferente per l’economia israeliana, è che esso è tutto prodotto in casa, non deve nulla agli americani e può essere facilmente venduto ai governi amici. Insomma, anche su questo piano vince la capacità innovativa della tecnologia e dell’economia privata israeliana (il sistema è prodotto dall’industria militare israeliana di punta, la Rafael).
È stato formato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in un reparto speciale dei carabinieri. Marco Mancini, a lungo a capo del controspionaggio italiano, ai vertici dell’Aise e del Dis, è un profondo conoscitore dello scenario mediorientale, dove ha operato spesso in missioni che naturalmente non ci può raccontare.
- Marco Mancini, lei qualche anno fa è stato anche a Gaza. È tra i pochi che, oltre a parlarne, in quei maledetti tunnel c’è anche stato. Che valutazione fa della guerra di Israele al terrorismo? «Ci sono due guerre. Una viene combattuta ancora da Hamas con 40.000 miliziani armati. Una guerra difficilissima da vincere perché si svolge sottoterra. E in quei maledetti tunnel, sparsi lungo 732 chilometri, le forze armate israeliane, incluse le truppe d’élite, non riescono ancora ad arrivare. Sopra, in superficie, c’è un’altra guerra che invece consente a Tsahal di avanzare sul territorio. Tra mille insidie e scudi umani, inclusi i bambini messi sempre intorno agli arsenali del terrorismo».
- La guerra in superficie e quella sotterranea. Due popoli, due strati… «Due strati ci sono, uno sull’altro, appunto. Per i due Stati, vedremo. Però tutti gli israeliani hanno diritto a vivere in prosperità e sicurezza e tutti i palestinesi, allo stesso modo, a un futuro di pace, liberi dal giogo di Hamas. Abu Mazen, il leader eletto dei palestinesi, ha autorevolmente definito Hamas come “un gruppo terroristico di figli di cani”. Nonostante sia stata neutralizzata tutta la famiglia Sinwar e decapitato l’intero vertice – con l’eliminazione di dieci capi dei terroristi in una singola, recente azione – Hamas ha gioco facile nell’arruolare nuove leve. Mentre Israele sta pagando un prezzo carissimo del quale si parla poco: dall’inizio del conflitto oltre 17.000 soldati israeliani sono stati uccisi e il bilancio dei feriti arriva a 70.000. Senza contare il bilancio degli orrendi massacri del 7 ottobre».
- Ci sono vittime anche nel tentativo di esplorare quei tunnel dei terroristi? «Purtroppo sì. Una unità scelta di undici soldati e soldatesse israeliane ha trovato la morte all’interno di un tunnel a Gaza: sono entrati per qualche decina di metri ma era una trappola. Hamas ha fatto saltare il tunnel alle loro spalle, uccidendoli tutti in un colpo solo. L’IDF sta utilizzando anche i cani molecolari, addestrati a fiutare l’esplosivo nascosto in quelle gallerie. Inutile dire che abbaiano spesso, perché Hamas ha speso milioni e milioni di dollari per i suoi arsenali pronti a saltare in aria».
- Anche gli ostaggi del 7 ottobre sono in quelle gallerie sottoterra? «Ci sono 53 ostaggi nelle mani di Hamas. 18 o forse 19 sono ancora vivi, gli altri sono tutti morti. Tutti nei tunnel. Per finirla con la guerra a Gaza basterebbe un gesto semplice: il rilascio di tutti gli ostaggi. Se Hamas lo fa, finisce la guerra».
- Ma non lo faranno perché la pace non conviene ai terroristi, hanno bisogno di portarla avanti a lungo. «E nonostante questo, il governo israeliano ha liberato 1750 prigionieri riconducibili ad Hamas e a Hezbollah».
- Hamas è una organizzazione criminale, le risulta che gestiscano il racket degli aiuti spendendoli come arma di ricatto e di reclutamento? «È una organizzazione terroristica classificata in tutto il mondo come tale. Per molti, troppi anni ha spadroneggiato sul territorio di Gaza, controllandolo palmo a palmo e imponendo la sua legge: ha espropriato beni e terreni, trattenuto gli aiuti internazionali, taglieggiato il commercio. Hanno ancora un potere molto forte all’interno della Striscia e minacciano chiunque provi a minarlo. Tutti a Gaza li temono, pochi osano ribellarsi apertamente. Anche se una manifestazione contro di loro, per la prima volta, si è vista».
- Vertici decapitati, struttura indebolita, diversi arsenali sequestrati. Potrebbero accettare una tregua, se non la pace? «I “signori della guerra” non sono mai prossimi ad accettare la pace: perderebbero tutto. Ma i civili palestinesi non possono stare più tra l’incudine e il martello: vivere a Gaza, sotto la minaccia di Hamas da un lato e il fuoco di Israele dall’altro, non è più sopportabile. E d’altronde quella Striscia è ormai ridotta a brandelli. Va tutta ricostruita, non solo non ci sono più case ma neanche scuole, strade, infrastrutture energetiche, prospettive di lavoro…»
- E quindi? «La prospettiva di abbandonare la Striscia, fantapolitica fino a pochi mesi fa, si sta facendo sempre più concreta. E in un incontro segreto, tenutosi – credo – in Svizzera, emissari dei servizi americani e russi ne hanno anche parlato tra loro, in queste ultime settimane».
- Ci dica di più. Gaza sarebbe in procinto di svuotarsi, di veder emigrare i suoi abitanti? «Ci sono due milioni di palestinesi esausti, a Gaza. Viene data loro più di una opzione: metà potrebbe andare in Siria – dove Al Jolani ha assicurato a Donald Trump, nel recente incontro avuto a Riad, di essere pronto a prenderli – e metà andrebbero in Libia, dove Haftar ha avuto pieno mandato da Putin di completare le sue operazioni e mettere anche Tripoli sotto controllo. E infatti sta riprendendo la guerriglia tra tribù e milizie, in Libia. A Damasco e a Tripoli servono un milione di migranti ciascuno, parlanti arabo e pronti a lavorare per ricostruire le città in rovina dopo i conflitti interni e un domani a combattere, se serve. I palestinesi in fuga da Gaza dunque fanno gola a entrambi».
- Scusi Mancini, lei non è più al vertice dell’intelligence ma ha informazioni di prima mano e di primo livello. Da dove le arrivano? «Per molti anni, agendo in Medio Oriente e nell’ex blocco sovietico, ho messo in piedi una rete di amicizie interessanti che continuo a sentire. Mi continua a stare a cuore la sicurezza del nostro Paese».
CHAN JUNIS – Il meccanismo di distribuzione degli aiuti alimentari per la Striscia di Gaza sostenuto da Israele e dagli Stati Uniti è partito lunedì con alcune difficoltà. Martedì si sono verificati brevi momenti di caos. Gli operatori ritengono comunque che il nuovo sistema sia un successo.
L'obiettivo principale del nuovo meccanismo è quello di impedire i saccheggi da parte dell'organizzazione terroristica Hamas. A tal fine è stata istituita l'organizzazione Gaza Humanitarian Foundation (GHF), che a sua volta si avvale dei servizi di due organizzazioni, Safe Reach Solutions (SRS) e UG Solutions, per l'intervento sul posto.
Gli operatori distribuiscono gli aiuti umanitari, soprattutto pacchi alimentari, in luoghi prestabiliti. Questi vengono ritirati da rappresentanti delle famiglie selezionati in anticipo. L'esercito israeliano garantisce la sicurezza, affiancato da mercenari di una società di sicurezza privata americana.
Finora sono stati istituiti quattro di questi centri di distribuzione e altri sono in programma. Secondo la GHF, in questo modo entro la fine della settimana sarà possibile fornire aiuti a circa un milione di palestinesi, ovvero circa la metà degli abitanti della Striscia di Gaza.
• Breve momento di caos Martedì si sono verificati disordini in una stazione di distribuzione, dove numerosi palestinesi sembravano aver preso d'assalto la stazione. L'esercito ha sparato colpi di avvertimento. L'ONU ha poi parlato di “scene strazianti”. Gli operatori hanno tuttavia comunicato che il caos è durato solo circa 20 minuti.
Altri video sui social media hanno mostrato i palestinesi che applaudivano gli operatori dei centri di distribuzione. Alcuni hanno festeggiato gli Stati Uniti. Alcuni hanno detto che era la prima volta che ricevevano cibo gratis. Finora, secondo loro, Hamas avrebbe venduto i beni a prezzi eccessivi.
La GHF ha inoltre accusato Hamas di aver minacciato di morte le organizzazioni umanitarie disposte a collaborare. “È chiaro che Hamas si sente minacciato dal nuovo modello operativo”, ha dichiarato lunedì la GHF.
• ONU: nessuna cooperazione Le Nazioni Unite avevano già annunciato che non avrebbero collaborato con la GHF. Secondo l'organizzazione internazionale, il meccanismo viola i principi umanitari. I palestinesi dovrebbero infatti percorrere lunghe distanze per ricevere i beni.
Poiché i centri di distribuzione si trovano principalmente nel sud della Striscia di Gaza, l'ONU teme inoltre che i palestinesi vengano espulsi dal nord. Tre dei centri si trovano nella parte meridionale della Striscia di Gaza, nella regione costiera, un altro nel corridoio centrale di Nezarim.
• Questione del finanziamento Nel frattempo, per l'opposizione israeliana non è ancora chiaro da dove provengano i fondi per il GHF. Il leader dell'opposizione Yair Lapid (Yesh Atid) ha dichiarato lunedì sera alla Knesset che il governo sta finanziando segretamente il GHF. Il GHF e l'SRS sarebbero solo “società di comodo”. “Se si tratta di denaro israeliano, se proviene dal bilancio dello Stato, allora lo Stato di Israele non dovrebbe e non può nasconderlo”.
Lapid ha collegato la sua tesi alle dimissioni a sorpresa del direttore generale della GHF, Jake Wood, avvenute domenica. Lapid ha dichiarato che Wood si è reso conto di essere stato ingannato. Wood stesso ha motivato le sue dimissioni affermando che non era possibile attuare il meccanismo senza violare i principi di umanità e neutralità.
Il deputato della Knesset Avigdor Lieberman, leader del partito di opposizione “Israel Beiteinu”, ha sollevato accuse simili a quelle di Lapid. Martedì ha dichiarato che i fondi per la GHF provengono dal Ministero della Difesa e dal Mossad, i servizi segreti israeliani all'estero.
L'ufficio del governo ha respinto l'accusa. “Israele non finanzia gli aiuti umanitari per la Striscia di Gaza”, ha affermato il portavoce del governo Omer Dostri. Anche il ministro delle Finanze Bezalel Smotritsch (sionismo religioso) ha negato le dichiarazioni di Lapid e Lieberman.
(Israelnetz, 28 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Hamas giustizia quattro uomini mentre cerca di affermare il controllo sugli aiuti umanitari nella frammentata Striscia di Gaza
di Nina Prenda
Lunedì 26 maggio Hamas ha giustiziato quattro uomini con l’accusa di aver saccheggiato alcuni dei camion di soccorso che hanno iniziato a entrare a Gaza, secondo fonti che hanno familiarità con l’evento. La distribuzione degli aiuti nella Striscia rimane controversa in alcuni punti: un leader palestinese di un clan nel sud di Gaza ha sfidato il gruppo terroristico riguardo alla guardia dei convogli. Una fonte ha detto che i quattro uomini sono stati coinvolti in uno scontro tra Hamas e i membri della banda, che avrebbero cercato di dirottare il camion di soccorso. “I quattro criminali, che sono stati giustiziati, sono stati coinvolti nei reati di saccheggio e causa la morte di membri di una forza incaricata di proteggere i camion di soccorso”, ha detto una fonte a Reuters. Altri sette sospetti sono stati inseguiti, secondo una dichiarazione rilasciata da un “gruppo ombrello” guidato da Hamas che si identifica con il nome di “Resistenza palestinese”. Nella Striscia di Gaza ci sono organizzazioni che tentano di avere il comando o rivendicarne il controllo. Hamas, che ha preso il potere a Gaza nel 2007, ha a lungo represso i segni del dissenso tra i palestinesi a Gaza, ma negli ultimi mesi ha affrontato proteste considerevoli per la guerra e le sfide al suo controllo da parte di gruppi armati, ad alcuni membri dei quali è stato risposto sparando alle gambe in pubblico. Yasser Abu Shabab, un leader di un grande clan nell’area di Rafah, che ora è sotto il pieno controllo dell’esercito israeliano, ha detto che stava costruendo una forza per garantire le consegne di aiuti in alcune parti della Striscia. Ha pubblicato immagini dei suoi uomini armati che ricevono e organizzano il traffico di camion di soccorso. Hamas, che non è in grado di operare nell’area di Rafah dove Abu Shabab riesce ad esercitare qualche forma di controllo, lo ha accusato di aver saccheggiato camion di aiuti internazionali nei mesi precedenti e di mantenere i legami con Israele. Su una pagina Facebook che porta il suo nome, Abu Shabab ha negato di aver agito come alternativa al governo o ad altre istituzioni e ha respinto le accuse di saccheggio. Sulla pagina Abu Shabab è descritto come un “leader di base che si è opposto alla corruzione” e che ha protetto i convogli di aiuti. Ma un funzionario della sicurezza di Hamas ha definito Abu Shabab uno “strumento usato dall’occupazione israeliana per frammentare il fronte interno palestinese”. Alla domanda se l’Onu stesse lavorando con Abu Shabab, un portavoce dell’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite OCHA ha detto che non ha pagato nessuno per sorvegliare i camion di soccorso. “Quello che facciamo è parlare regolarmente con le comunità, costruire fiducia e impegnarci con le autorità sull’urgente necessità di più aiuti per arrivare attraverso più rotte e più incroci”, ha detto il portavoce. Israele ha accusato Hamas di rubare aiuti e ha affermato che gli aiuti devono essere strettamente controllati per impedire loro di aiutare il gruppo terroristico, che detiene ancora 58 ostaggi. Funzionari militari israeliani hanno detto che le squadre di sicurezza messe in atto da Hamas sono lì per prendere in consegna le forniture, non per proteggerle. Israele lunedì ha confermato che la distribuzione dell’assistenza nell’ambito della Fondazione umanitaria di Gaza era iniziata, lanciando un sistema che Israele dice che ha lo scopo di impedire che gli aiuti vengano deviati al gruppo terroristico di Hamas.
Ciclismo – Derek Gee scala la classifica e punta il podio
Si sa, l’appetito vien mangiando. E le parola podio, a questo punto, non è più un tabù. Nel 2023 il canadese Derek Gee è stato proclamato ciclista “più combattivo” del Giro d’Italia, nel 2024 è arrivato nono al Tour de France e nel 2025 e tutto lascia immaginare un ulteriore salto di qualità. Alla partenza della 17esima tappa dell’edizione numero 108 del Giro, un Giro molto incerto e combattuto, la classifica dice che il capitano della Israel Premier Tech è al quarto posto in graduatoria a un minuto e 31 secondi dalla maglia rosa, il messicano Isaac Del Toro, e che il podio oggi appannaggio dell’ecuadoriano Richard Carapaz dista un minuto esatto. Sono gli effetti del “terremoto” in classifica delle scorse ore, con tre italiani nelle prime tre posizioni (Scaroni, Fortunato e Pellizzari) della tappa conclusasi sul traguardo trentino di San Valentino Brentonico, ma soprattutto l’uscita di scena dei due principali contendenti per la vittoria finale: lo sloveno Primoz Roglic (ritiratosi) e lo spagnolo Juan Ayuso (indietro ora di 14 minuti). Tutto è ora possibile, tutto è in discussione, con tante cime ancora da scalare. Anche nella frazione odierna, tra Tonale e Mortirolo. La squadra israeliana e il suo capitano si godono intanto la ribalta, in un Giro segnato da numerose (e a volte pericolose) intemperanze da parte di attivisti propal.
«Abbiamo visto asili nido minati con ordigni esplosivi»
Un alto comandante delle forze armate israeliane riferisce sul ruolo decisivo dei blindati D9 nelle incursioni nella Striscia di Gaza per combattere gli ordigni esplosivi disseminati da Hamas.
GERUSALEMME - Durante la grande offensiva delle forze armate israeliane (IDF) nella Striscia di Gaza, l'operazione “Gideon's Chariots”, iniziata il 16 maggio con la mobilitazione di decine di migliaia di riservisti e l'impiego di tutte le brigate di fanteria e corazzate regolari, sono stati utilizzati in modo massiccio e decisivo veicoli tecnici pesanti, in particolare i bulldozer corazzati D9. Questi veicoli imponenti svolgono un ruolo cruciale nella neutralizzazione degli ordigni esplosivi improvvisati (IED, Improvised Explosive Device) distribuiti da Hamas in tutta la Striscia di Gaza e delle trappole esplosive piazzate dai terroristi. Il contesto operativo nella Striscia di Gaza è caratterizzato da una densità senza precedenti di trappole esplosive e ordigni esplosivi, una tattica che Hamas ha affinato e notevolmente ampliato. Un alto comandante delle forze armate israeliane ha spiegato martedì a JNS la natura di questa minaccia: “Durante questi lunghi combattimenti abbiamo capito che Hamas, come Hezbollah, è in definitiva un esercito di guerriglieri classici. Come eserciti di guerriglia, usano la popolazione per nascondersi e usano le infrastrutture – asili, scuole, infrastrutture di organizzazioni internazionali, organizzazioni umanitarie – e usano queste infrastrutture per tendere trappole”. L'ufficiale ha poi approfondito la portata del problema degli IED, spiegando: ”Fanno un uso molto, molto intenso degli IED. Non è una novità per noi; già durante l'operazione Piombo fuso nel 2008 abbiamo trovato IED prodotti in serie da Hamas con etichette, numeri di serie e dati di produzione. Ora ci imbattiamo negli stessi IED, solo in quantità molto, molto maggiori”. L'ufficiale ha sottolineato la totale mancanza di ritegno morale da parte di Hamas nell'uso di questi dispositivi. “Vediamo che minano semplicemente tutto e che non conoscono limiti o barriere morali in questo senso. Abbiamo visto asili minati, anche con pozzi di tunnel; abbiamo visto scuole; abbiamo visto luoghi che dovrebbero essere utilizzati per gli aiuti umanitari – in tutti questi luoghi abbiamo trovato ordigni esplosivi e pozzi di tunnel”, ha spiegato. Secondo l'ufficiale, Hamas utilizza principalmente tre tipi di ordigni esplosivi: tutte le strutture o gli oggetti immaginabili, le strade e le vie di comunicazione (comprese le strade asfaltate utilizzate dai civili, analogamente alla minaccia che devono affrontare le forze armate americane in Afghanistan e in Iraq) e campi di ordigni esplosivi improvvisati (IED) posizionati in prossimità di obiettivi operativi importanti per l'esercito israeliano, come i pozzi dei tunnel. Ha aggiunto che i terroristi di Hamas fanno consapevolmente affidamento sul codice morale delle forze armate israeliane e sfruttano questa conoscenza a proprio vantaggio. In questo ambiente insidioso, il bulldozer D9 si è dimostrato indispensabile. L'alto comandante ha descritto il D9 come “uno strumento molto versatile e molto utile sul campo di battaglia. Può essere utilizzato per una vasta gamma di applicazioni militari, che si tratti di preparare il terreno, aprire varchi o liberare e sgomberare”. La sua funzione più importante nell'attuale offensiva è la lotta contro la minaccia degli IED. “Nel contesto della lotta contro le trappole esplosive, il bulldozer fornisce all'elemento combattente e manovrabile - che si tratti di carri armati, veicoli corazzati per il trasporto di truppe (Namer) o fanteria - una sorta di schermo di ricognizione davanti alla truppa. Trattandosi di un veicolo grande, protetto e alto, consente un primo incontro con la trappola esplosiva, invece che con un soldato”, ha spiegato la fonte. Il D9 dispone di capacità speciali per individuare pericoli nascosti: ”Il D9 ha una lama anteriore e uno strappatore posteriore con cui può creare attrito con il terreno. In questo modo è possibile localizzare e combattere gli IED sepolti. D'altra parte, la potenza di questo veicolo permette anche di modificare il terreno, prevenendo così le minacce e riducendo i rischi per le forze di sicurezza in entrambe le dimensioni [sopra e sotto terra]”. Il D9 viene utilizzato anche per scoprire aree nascoste come cumuli di detriti o vegetazione fitta che non possono essere facilmente scansionate, in modo che i soldati possano poi utilizzare altri mezzi per ripulirle dalle minacce o, se necessario, aprire il fuoco. Sebbene il D9 sia uno strumento primario, le forze armate israeliane sono tatticamente flessibili. “Cerchiamo di non limitarci a un modello operativo specifico, perché questo permetterebbe al nemico di imparare e prepararsi alle nostre azioni”, ha affermato l'ufficiale. Riguardo alla vasta rete di sorveglianza di Hamas, ha detto: “Sappiamo che il nemico ci osserva sempre; hanno installato molte telecamere in tutta la striscia, anche in siti umanitari o sedi di organizzazioni internazionali, perché sanno che non attaccheremo questi luoghi, quindi mettono lì le telecamere”. “Inoltre, hanno un gran numero di osservatori - bambini, donne, anziani - gruppi di popolazione che sanno per certo che non attaccheremo, e questi due fattori li aiutano a imparare i modelli operativi delle nostre forze armate”. In definitiva, le forze armate israeliane dispongono di una serie di strumenti che possono utilizzare in qualsiasi operazione di combattimento, ha affermato. “A seconda di come valutano la situazione e di come analizzano il terreno e il nemico, scelgono quale strumento utilizzare per primo e quale per secondo, adattandosi costantemente alle diverse circostanze”, ha spiegato l'ufficiale dell'IDF. Anche le capacità tecniche delle forze armate israeliane stanno evolvendo dal punto di vista tecnologico. L'ufficiale ha menzionato gli sforzi per il controllo remoto e l'automazione di varie piattaforme, che non si limitano ai veicoli tecnici, ma sono osservabili anche nel campo dei droni e dei velivoli. Nel novembre 2024, Israel Aerospace Industries (IAI) ha confermato l'uso dei suoi sistemi terrestri senza pilota nelle recenti operazioni dell'esercito. La versione senza pilota del D9 dell'IAI, denominata RobDozer (o Panda nella terminologia dell'IDF), è stata utilizzata per missioni ad alto rischio, tra cui lo sgombero di strade, la costruzione di ponti e la lotta contro ordigni esplosivi, spesso come parte di una “forza di combattimento robotica” che può includere anche veicoli blindati senza pilota M113. Il sistema di automazione di IAI funge da “cervello” per unificare questi strumenti senza pilota e integrarli nell'ambiente di combattimento con equipaggio. Il 24 maggio, funzionari del comando meridionale dell'IDF hanno dichiarato che le forze armate israeliane stanno avanzando lentamente e sistematicamente nell'ambito dell'operazione “Gideon's Chariots” per evitare ordigni esplosivi, con bulldozer come il D9 che spesso precedono i movimenti delle truppe. Il comandante ha sottolineato che il D9 non è l'unico strumento utilizzato a questo scopo: “Ci sono altri strumenti nell'arsenale; ci sono anche mezzi aerei che utilizziamo e ci sono anche mezzi che il soldato in prima linea può utilizzare per individuare o neutralizzare un ordigno esplosivo. Naturalmente ci sono anche forze speciali di tecnica di combattimento e Yahalom (unità speciale) il cui compito è quello di individuare e neutralizzare gli IED”. Riguardo ai progressi compiuti, il comandante ha dichiarato: “Oggi ci troviamo in una situazione completamente diversa rispetto al 7 ottobre [2023]. L'esercito e lo Stato di Israele stanno investendo molte risorse nello sviluppo di mezzi tecnologici e attrezzature da combattimento più avanzati, sia per i soldati in prima linea che per i livelli più sistemici, al fine di far fronte a questa minaccia”. Ha aggiunto: “In definitiva, comprendiamo che questo – l'IED – è uno degli strumenti più importanti di un esercito terroristico come Hamas. E si stanno investendo enormi sforzi e risorse per fornire davvero un'ampia gamma di strumenti a tutti i livelli operativi, dai soldati in prima linea ai quartier generali di brigata e divisione”.
(Israel Heute, 28 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Fame o fedeltà, cibo a Gaza usato come arma di ricatto
Mentre Hamas minaccia la popolazione, la comunità internazionale accusa Israele
di Rodolfo Belcastro
Mentre la popolazione di Gaza sprofonda in una delle crisi umanitarie più gravi degli ultimi decenni, si fa sempre più chiaro chi abbia davvero interesse a mantenere questa emergenza in stato permanente. Hamas non solo continua a ostacolare sistematicamente ogni tentativo di distribuzione autonoma degli aiuti, ma impone alla popolazione palestinese una scelta crudele: la fame o la fedeltà. È il cibo l’arma più efficace nelle mani dell’organizzazione terroristica islamista. Un’arma usata per ricattare, controllare e punire, un metodo di gestire il potere “mafioso”.
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Folle affamate e disperate
È di ieri l’inizio ufficiale della consegna di aiuti alimentari organizzata dagli Stati Uniti attraverso la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), con il supporto di Israele. Nei nuovi punti di distribuzione aperti a Tal al-Sultan e nel corridoio di Morag, nell’area di Rafah, migliaia di civili si sono riversati per cercare di accedere a razioni di sopravvivenza. Le immagini circolate sui social media mostrano folle affamate e disperate che cercano di raggiungere i pacchi accatastati in un fortino sabbioso vicino al mare. Per contenere l’assalto e gestire la distribuzione degli aiuti, le guardie di sicurezza private ingaggiate dalla GHF – contractor della Safe Research Solutions – sono state costrette a sparare colpi di avvertimento in aria.
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15 km a piedi per un pacco e i posti di blocco di Hamas
Dietro il caos, però, non c’è solo la disperazione. Ci sono ostacoli deliberatamente imposti. La stessa GHF ha spiegato che è proprio Hamas ad aver creato posti di blocco per impedire alla popolazione di raggiungere i centri di distribuzione. In media, per ottenere una scatola contenente tre pacchi di pasta, due chili di riso, un chilo di lenticchie rosse, scatolette di ceci e pomodori – razioni sufficienti per pochi giorni – occorrono 15 chilometri a piedi in un territorio dissestato e privo di mezzi. Tutto questo per sfuggire al controllo capillare dell’organizzazione che governa Gaza con il pugno di ferro.
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La distribuzione ‘parallela’ dei terroristi
Il Ministero degli Interni di Hamas ha definito la GHF un’iniziativa destinata al fallimento, rilasciando un comunicato che invita la popolazione ad “agire responsabilmente”. E mentre attacca duramente il meccanismo indipendente sostenuto da Israele e Stati Uniti, avvia improvvisamente la distribuzione gratuita di cibo nella zona umanitaria di Al-Mawasi. Come mai? Da dove proviene quel cibo? Perché adesso sì, e prima no? La risposta è lampante: Hamas aveva le risorse, ma le ha tenute come strumento di potere. Ora le libera per non perdere il controllo e contrastare un’alternativa che sfugge alla sua egemonia.
Ancora più inquietante la minaccia diretta del braccio armato dell’organizzazione: “Chi prenderà cibo dalla GHF sarà accolto con cura”. È un avvertimento mafioso, un’intimidazione rivolta a civili affamati che cercano di sopravvivere. Non è un caso isolato. Già nei giorni scorsi a Nuseirat, nel cuore della Striscia, si è verificato uno scontro a fuoco tra miliziani di Hamas e cittadini palestinesi per l’accesso alla farina. Hamas non distribuisce, controlla. E quando perde il controllo, risponde con la violenza.
La realtà è che Hamas teme di perdere il suo monopolio sugli aiuti. Non è una guerra per la liberazione, ma una lotta per la supremazia interna. Per anni ha intercettato e condizionato i flussi di beni umanitari, trasformando l’assistenza in privilegio politico. La retorica sulla sovranità e sull’occupazione serve solo a mascherare la paura di perdere il potere su una popolazione che sopravvive vendendo sul mercato nero le razioni distribuite selettivamente.
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Superare le narrazioni semplificate
La GHF ha distribuito finora 8mila pacchi – circa 462mila pasti – con il supporto di tre agenzie internazionali: la International Human Rights Commission, la Rahma e la Multifaith Alliance, queste ultime due americane. Sono le uniche ad aver accettato di collaborare, mentre le Nazioni Unite e molte Ong continuano a rifiutarsi, accusando Israele di distogliere l’attenzione dalla riapertura dei valichi. È una posizione ideologica miope: l’ostilità verso un attore politico, per quanto legittima, non dovrebbe mai giustificare l’abbandono dei civili. In parallelo, l’Italia ha inviato 15 camion di aiuti attraverso il programma “Food for Gaza”, distribuiti dal World Food Programme.
Il controllo degli aiuti avviene spesso attraverso intimidazioni, minacce e con la violenza diretta da parte di Hamas. Il monopolio sulle risorse umanitarie è esercitato non solo sul piano politico, ma anche con metodi repressivi, con conseguenze devastanti per una popolazione già stremata dalla guerra e dalla fame. Oggi più che mai, occorre superare le narrazioni semplificate: è tempo che la comunità internazionale e il dibattito pubblico superino la visione semplicistica secondo cui ogni forma di aiuto è automaticamente positiva e ogni critica a Israele necessariamente legittima. La questione è più complessa, e oggi è più evidente che il principale ostacolo alla sopravvivenza quotidiana dei palestinesi di Gaza è proprio Hamas.
Il consiglio di sicurezza nazionale israeliano ha esortato caldamente i propri cittadini durante i viaggi in Canada a «evitare di esporre simboli ebraici e israeliani in pubblico», a causa potenziali attacchi terroristici. Lo riporta il sito Jewish News.
L’organo che si occupa dell’analisi e della sicurezza generale, considerata la crescita vertiginosa dell’antisemitismo in tutto il mondo, ha aggiornato l’alert, innalzando il livello di rischio per l’incolumità di israeliani o ebrei che si trovano in Canada in questo momento. Oltre alla raccomandazione di evitare di mostrare simboli ebraici, il consiglio invita tutti loro a “rimanere estremamente vigili quando si trovano in pubblico”.
• Le manifestazioni anti-israeliane promuovono la violenza Il documento puntualizza che “negli ultimi 18 mesi, ci sono stati diversi attacchi contro istituzioni e centri ebraici, inclusi incidenti con sparatorie, bottiglie molotov e minacce contro israeliani e/o ebrei nel paese”. Inoltre, le manifestazioni anti-israeliane come quelle in programma nelle città di Toronto e Waterloo, spesso incitano e sfociano in atti di violenza contro ebrei e israeliani. “Negli ultimi giorni, i discorsi che riguardano questi eventi sono diventati più radicali, compresi quelli che potrebbe essere intesi come un invito a fare violentemente del male agli israeliani e agli ebrei presenti a queste manifestazioni”.
• Gli ebrei canadesi si sentono meno sicuri Nel 2024 si è registrato in Canada un aumento dell’antisemitismo del 970%, un dato estremamente allarmante, diffuso dal Ministero israeliano per gli Affari della Diaspora e la lotta all’antisemitismo, che combacia perfettamente con il sondaggio del Centro canadese per gli affari israeliani ed ebraici (CIJA), dove riportata che l’82% degli ebrei del paese si sente meno sicuro, dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023 in Israele. Infatti, dopo l’attentato del 7 ottobre la comunità ebraica canadese è stata protagonista di violenti attacchi: dagli spari contro una scuola femminile ebraica a Montreal, verificatisi in tre differenti episodi, alle accuse di un tribunale di Toronto ad un uomo incriminato di “sostenere il genocidio” contro gli ebrei.
Come risponde la politica a questi fatti significativamente allarmanti? Il primo ministro canadese Mark Carney ha da poco pubblicato una dichiarazione congiunta, con il primo ministro britannico Keir Starmer e il presidente francese Macron, dove si chiede al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di cessare nell’immediato l’operazione militare in corso a Gaza o di subirne le conseguenze. Non si è fatta attendere la replica di Netanyahu che risposto dicendo ai politici di “essere dalla parte sbagliata della giustizia, dell’umanità e della storia”.
Ofra Keidar aveva 70 anni e una forza che sembrava illimitata. Era una donna pratica, concreta, instancabile. Chi l’ha conosciuta la ricorda sempre in movimento, determinata e devota alla sua famiglia e al kibbutz Be’eri, dove aveva vissuto per quasi sessant’anni. Keidar amava l’attività fisica, il giardinaggio, gli animali, il nuoto. Ma più di tutto, amava prendersi cura della terra, delle persone, dei suoi cari. Per quarant’anni ha lavorato nel caseificio del kibbutz, allevando vitelli, senza mai fermarsi, nemmeno dopo la pensione. «Era fisicamente così forte che era difficile starle dietro», ha ricordato un collega. Arrivava al lavoro ogni mattina all’alba, anche quando non era più tenuta a farlo.
Con il marito Sami, che condivideva il suo stesso spirito, Ofra aveva cresciuto tre figli: Elad, Oren e Yael, la più fragile. Yael ha una disabilità intellettiva, ma grazie all’impegno dei suoi genitori, ha imparato a leggere, scrivere e parlare, sfidando ogni previsione medica. «Ogni settimana la portavano da Be’eri a Gerusalemme per la terapia», ha raccontato il fratello, Oren. «Ora Yael comunica, tutto grazie alla determinazione di mia madre».
Il 7 ottobre 2023, come ogni mattina, Ofra era uscita per la sua consueta passeggiata all’alba. Sami era a casa con Yael, in visita come ogni fine settimana. I terroristi l’hanno intercettata a pochi chilometri dal kibbutz, mentre erano in moto. Le hanno sparato e poi, nel loro rientro a Gaza, hanno portato via il suo corpo. «Era ingenua, pensava fossero beduini che cercavano di rubare. Gli ha urlato: “Basta, smettetela”», ha raccontato Oren. La famiglia conosce questi dettagli perché Ofra era al telefono con il figlio Elad quando è iniziato l’attacco. In quell’ultima telefonata, registrata da Elad, si sente la donna implorare i terroristi di risparmiarla. Non lo hanno fatto. Come non è stato risparmiato il marito Sami, malato di Parkinson e per questo incapace di raggiungere in tempo il rifugio antimissile.
La loro figlia Yael, 43 anni, è sopravvissuta. Rimasta sola per oltre dodici ore, si è nascosta sotto un tavolo nella stazione di polizia del kibbutz, mentre fuori si sentivano gli spari e il fumo dell’incendio appiccato dai terroristi cominciava a entrare dalle finestre. Ha chiamato i fratelli, Elad e Oren, implorando di essere salvata. «Ho detto: “Venite a salvarmi, per favore”, e loro mi hanno detto: “Yael, non possiamo”», ha raccontato. Alla fine, alcuni soldati hanno sentito la sua voce, l’hanno tirata fuori. Era completamente ricoperta di fuliggine, disidratata, in stato di shock.
Oggi è tornata a vivere a Sderot nella struttura di assistenza in cui risiedeva prima dell’attacco, ma ogni fine settimana torna a trovare i fratelli. La sua storia è al centro del documentario Dear Mom, diretto da Dana Levy, Maor Alters, Gala Kaplan in cui Yael, consapevole delle proprie disabilità cognitive, ripercorre la perdita, la solitudine e il ritorno a una quotidianità diversa. «Ora mi prendo cura dei cani in un canile. Mi piace quando abbaiano, e anche quando mangiano gli insetti: mi fa ridere», racconta nel documentario.
All’inizio di dicembre, dopo quasi due mesi dal 7 ottobre, il kibbutz di Be’eri ha annunciato la morte di Ofra Kedar. Il suo corpo è ancora prigioniero a Gaza. Per molti giorni, ricorda Yael nel documentario, “Dicevo: ’Dov’è la mamma, dov’è?‘. Gridavo: ’Mamma, dove sei?’. Pensavamo fosse stata rapita. Ho chiesto a mio fratello Oren: ‘E la mamma?’. E loro non sapevano nulla, proprio nulla. Gli ho detto: ‘Voglio sapere perché l’hanno rapita, perché hanno ucciso la mamma. Che cosa ha fatto? Non capisco’. Ancora non capisco. E nemmeno papà. Papà era malato. Perché hanno fatto del male a papà?”.
Oren ora è il tutore di Yael. Lui non si aspetta un ritorno della salma della madre. «Temo rimarrà dispersa. Non so se la troveranno mai». La priorità, ha spiegato di recente in un’intervista ad Haaretz, sono gli ostaggi ancora in vita (20 secondo fonti israeliane) da 600 giorni prigionieri di Hamas. “Mia madre mi avrebbe detto di smettere di rimuginare sul passato. Era una donna pragmatica che non amava i sentimentalismi. Non era il tipo che dimostrava affetto con abbracci e baci, ma faceva tutto per noi”.
Yael continua a parlare di lei ogni giorno. «Mia madre è la mia vita», ha spiegato al sito ynet. «Mi coccolava, mi preparava il caffè con la macchinetta, mi chiamava “Orsa russa” perché dormivo tanto, e “Leone” per i miei capelli. Mi manca tanto. Le chiedevo sempre: “Mamma, mi vuoi bene?”. E lei mi rispondeva: “Ti voglio bene, figlia mia”. Ora le parlo lo stesso, ogni mattina». d.r.
Un capolavoro dell’arte e della spiritualità ebraica è tornato a casa. La Torah di Shem Tov, uno straordinario manoscritto del XIV secolo realizzato in Spagna dal cabalista Rabbi Shem Tov ben Abraham Ibn Gaon, sarà d’ora in poi esposta al pubblico presso la Biblioteca Nazionale di Israele a Gerusalemme.
Terminata nel 1312 nella città castigliana di Soria, quest’opera monumentale rappresenta una sintesi unica della Torah Masora (tradizione di trasmissione testuale), Kabbalah e arte ebraica. Riccamente illustrato, il codice contiene elementi decorativi raffinati come archi gotici, cornici dorate, animali fantastici e motivi ispirati alle tradizioni artistiche islamiche e cristiane, adattati secondo la sensibilità ebraica. Dopo il completamento del manoscritto, Rabbi Shem Tov emigrò nella Terra d’Israele, dove proseguì la sua attività fino alla morte, avvenuta attorno al 1330. Nei secoli successivi, la Torah cambiò più volte proprietà: si trovò nel Medio Oriente, poi in Nord Africa, dove le furono attribuite proprietà mistiche, come aiutare le donne durante il parto. Nel XX secolo fu acquistata dal collezionista David Solomon Sassoon, poi passò in mani europee fino ad arrivare, nel 1994, al collezionista svizzero Jaqui Safra.
Nel 2024, il manoscritto è stato messo all’asta da Sotheby’s e acquistato dai collezionisti Terri e Andrew Herenstein, che lo hanno generosamente concesso in prestito a lungo termine alla Biblioteca Nazionale di Israele. “È emozionante accogliere questo capolavoro proprio in occasione di Shavuot, la festa che celebra il dono della Torah” ha dichiarato Sallai Meridor, presidente della Biblioteca. “La Torah di Shem Tov torna nella terra in cui il suo autore voleva che si trovasse: Israele. E oggi, a Gerusalemme, entra a far parte del nostro patrimonio comune”.
La Torah di Shem Tov è attualmente parte della mostra permanente “Un Tesoro di Parole” nella Galleria William Davidson. Il manoscritto sarà inoltre digitalizzato ad altissima risoluzione, per consentire al pubblico globale di accedervi per studio, ricerca o semplice ammirazione della sua bellezza senza tempo.
La tesi secondo cui l’esercito israeliano affamerebbe e ucciderebbe, addirittura «per gioco», i bambini «palestinesi» ha una sola funzione: consente a chi la sostiene di odiare gli ebrei con la coscienza tranquilla. Ai «filopalestinesi» non importa nulla dei bambini arabi, se non quando la loro morte diventa uno strumento per amplificare la loro ostilità a Israele, rendendola più esplicita e sguaiata. A Gaza, come nella cosiddetta «Cisgiordania», i bambini sono sempre morti, ma perivano per mano di Hamas o di al-Fatah, pertanto non suscitavano alcuna indignazione. Dato che ogni atto militare dei «palestinesi» viene rapidamente rubricato sotto la nobile categoria di «resistenza», nessun urlatore dello slogan «Palestina libera» si è mai preoccupato di denunciare la trasformazione dei fanciulli arabi in combattenti o in attentatori suicidi. Il primo utilizzo di bambini-soldato risale al 1969. L’al-Fatah di Arafat armò due tredicenni che, il 9 settembre del medesimo anno, assaltarono con bombe a mano la sede della compagnia aerea israeliana El Al a Bruxelles. Nel 2002, durante la seconda Intifada, la sedicenne Ayat, uccise una sua coetanea ebrea facendosi esplodere. Nel 2005, un’altra ragazza, la quindicenne Noura, cercò di accoltellare dei soldati israeliani a un check-point. Sono solo alcuni esempi. L’elenco, purtroppo, è molto più lungo. Le varie sigle terroristiche – da al-Fatah ad Hamas, dalla Jiahd Islamica Palestinese alle Brigate dei martiri di al-Aqsa – negano ogni coinvolgimento, parlando di atti «spontanei» e «volontari». Ma si tratta di una menzogna: il reclutamento dei fanciulli per scopi bellici e terroristici è una prassi consolidata, che rientra nella strategia militare degli jihadisti. La stessa Jihad Islamica ha ammesso, in un caso del 2002, di avere insegnato a un sedicenne a guidare per poterlo utilizzare come pilota kamikaze di un’autobomba. Hamas non ha impiegato i bambini solo nelle sue azioni terroristiche, ma anche come forza lavoro schiavile per scavare i rifugi sotterranei dei miliziani e i tunnel che questi impiegano per entrare di straforo in Israele. Nel 2012, si stimavano in 160 i bambini deceduti nelle operazioni di scavo, schiacciati da pietre e colate di detriti, asfissiati a diversi metri sotto terra o pestati a morte dai membri di Hamas quando incapaci di reggere i massacranti turni di lavoro. I bambini «palestinesi» crescono immersi in un clima di odio, di disprezzo degli ebrei, di radicale disumanizzazione del «nemico sionista». I testi scolastici contengono istigazioni all’odio e al martirio, teorie del «complotto ebraico» e celebrazione della violenza. La loro anima viene costantemente storpiata da adulti assetati di sangue, il tutto nel silenzio delle organizzazioni umanitarie e dei «filopalestinesi» occidentali. La TV palestinese Al Aqsa, controllata da Hamas, diffonde interviste ai figli di genitori kamikaze. Nel 2007, ai bambini Dohah e Mohammed, figli di Rim Al-Riyashi, una donna che tre anni prima si fece saltare per aria a un posto di blocco tra Israele e Gaza, venne fatta recitare in diretta una poesia inneggiante al martirio della madre, definita «una bomba di fuoco». I fanciulli sono sempre in prima linea nelle manifestazioni pubbliche di Hamas. Indossano il sudario dei martiri, cinture esplosive, sulla fronte la fascia nera dei kamikaze, impugnano mitra e coltelli. È diventata celebre una foto di Yahya Sinwar, pianificatore della strage del 7 ottobre, mentre espone fiero un bambino che impugna un mitra a una folla festante e plaudente di «civili palestinesi». Nessun «propal» si è mai indignato per i civili siriani, tra cui innumerevoli bambini e ragazzi, assassinati brutalmente degli alleati dei «palestinesi» in Siria, ossia dall’esercito di Assad, da Hezbollah e dai pasdaran iraniani. Ad Aleppo, sembra che questi «nemici del colonialismo sionista» scaldassero un’enorme piastra di metallo e vi gettassero sopra i detenuti affinché confessassero crimini reali o presunti. Qualcuno sarebbe tentato di affermare che non importa chi uccida un bambino, se Hamas o Israele, poiché la morte di un fanciullo è sempre una tragedia, ma si tratterebbe di una scandalosa equivalenza morale. Le azioni dell’IDF hanno certamente causato la morte di bambini e ragazzi, ma si è trattato di decessi accidentali, «danni collaterali» inevitabili nel contesto di un conflitto dove le abitazioni civili vengono sistematicamente utilizzate come basi militari. Ben diversa, nonché moralmente riprovevole e ingiustificabile, è la trasformazione di giovani e giovanissimi in carne da cannone. L’ONU, con l’UNICEF e l’UNWRA in testa, fanno acriticamente propri i dinieghi di Hamas, chiudendo gli occhi sui crimini contro l’infanzia commessi con atroce regolarità dai «resistenti palestinesi», preferendo concentrarsi sui presunti abusi compiuti da Israele – «abusi» perlopiù inventati dalla propaganda islamista permanente, oppure fatti volutamente distorti al fine di farli apparire come «violazioni dei diritti umani». I bambini indottrinati, sfruttati e uccisi da Hamas, come si diceva, non suscitano indignazione perché non legittimano alcuno sfogo antiebraico e anti-israeliano. Nessun «filopalestinesi» ha mai urlato (e mai urlerà) «i bambini, signora mia, i bambini!», di fronte ai massacri compiuti in Sudan, Siria o Nigeria. Se non è antisemitismo questo, è difficile capire cosa lo sia.
Improvvisamente, le sofferenze dei palestinesi nella Striscia di Gaza e la fame che li affliggono sono diventate un tema centrale, in linea con la posizione dell'opinione pubblica saudita e dei media influenzati dal principe ereditario.Israel Heute conosce la fonte americana molto vicina a Donald Trump. A quanto pare, per un investimento saudita di 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti valgono ora nuove regole politiche. Inoltre, durante la visita di Trump in Qatar, è stato firmato un accordo economico globale che, secondo fonti ufficiali, ha un valore di oltre 1,2 trilioni di dollari. In questo contesto, anche se non del tutto appropriato, un ministro che desidera rimanere anonimo mi ha detto: “Trump sta passando da Messia a Giuda Iscariota”. E solo pochi giorni dopo, anche il mio amico e collega Avshalom Kapach ha fatto lo stesso paragone.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Trump non ferma nemmeno la conferenza che la Francia e l'Arabia Saudita intendono tenere il mese prossimo a New York con l'obiettivo di promuovere una soluzione a due Stati. I sauditi e i francesi stanno cercando di mettere fuori gioco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e intendono invitare anche altri politici israeliani, non solo esponenti dell'opposizione. Le stesse fonti di alto livello hanno parlato in termini sprezzanti di Netanyahu e hanno deriso le sue dichiarazioni irrealistiche durante l'ultima conferenza stampa, in particolare in relazione al kibbutz Ein HaShlosha e al riferimento alle infradito dei terroristi. “Ma è ancora con noi?”, ha chiesto uno dei fedelissimi di Trump. Nel tentativo di minimizzare la portata del sabato mattina – in cui il denaro del Qatar avrebbe aiutato Hamas a sviluppare quelle capacità militari che alla fine hanno reso possibile il massacro del 7 ottobre – Netanyahu ha affermato nella sua prima conferenza stampa dopo 160 giorni che i terroristi di Hamas avrebbero attaccato Israele con “infradito, kalashnikov e camioncini” , ovvero con mezzi economici e facilmente reperibili, senza alcun finanziamento dal Qatar. Questa versione dei fatti è imprecisa e fuorviante. Secondo numerose indagini, testimonianze e riprese video, Hamas ha utilizzato anche droni, missili anticarro e altri missili portatili, lanciando l'attacco con migliaia di razzi. Inoltre, l'attacco altamente coordinato ha evidenziato una pianificazione meticolosa e un addestramento mirato. Ma anche questo ha poco senso: in Medio Oriente i musulmani amano combattere con le infradito. Lo si vede in Siria, nello Yemen e in altre zone di crisi. Il primo ministro ha anche cercato di attribuire la responsabilità del fallimento nella difesa del confine il 7 ottobre all'IDF e ad altre autorità di sicurezza. Tra le altre cose, ha affermato che un'indagine futura dovrà chiarire perché l'aviazione sia stata mobilitata solo “ore” dopo l'inizio dell'attacco, “chi ha detto di farlo e chi ha detto di non farlo”. Netanyahu ha perfettamente ragione, e questo deve essere verificato. Ma anche il suo governo e lui stesso devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni! Non può dare tutta la colpa ai terroristi di Hamas o al fatto che non è stato svegliato in tempo la mattina dello Shabbat prima dell'alba. Netanyahu è al vertice di Israele dal 2009 e tutti capiscono che anche lui ha la sua parte di responsabilità nel fiasco nazionale dell'ottobre 2023. Nella stessa conferenza stampa, Netanyahu ha affermato che “il kibbutz Ein HaShlosha non aveva ricevuto alcuna istruzione di non mobilitarsi e che quindi non era successo nulla e nessun terrorista era entrato nel kibbutz”. Assolutamente falso! Poco dopo, il kibbutz ha pubblicato una dichiarazione in cui esprimeva «sorpresa e sgomento» per la «palese inesattezza» del primo ministro. Secondo la dichiarazione, decine di terroristi avevano fatto irruzione nel kibbutz e quattro dei suoi membri erano stati uccisi. Netanyahu si è poi scusato, affermando che le sue parole erano state «fraintese». Ciò che voleva dire era che “proprio l'assenza di un ordine da parte del sistema di sicurezza di non agire ha spinto le persone nel kibbutz ad agire”. Questa e altre dichiarazioni hanno sorpreso molti nel Paese e all'estero. Tornando alle fonti di Washington, è importante sottolineare che non tutti nell'entourage di Trump la pensano così su Netanyahu e Israele. Naturalmente, ciò riflette anche le lotte di potere e di influenza che circondano Trump. Il vicepresidente americano J.D. Vance ha annullato nei giorni scorsi una visita a Gerusalemme che avrebbe dovuto avere luogo subito dopo l'inaugurazione della statua di Papa Francesco in Vaticano. Ma il solo fatto che nell'entourage di Trump ci siano voci così critiche nei confronti di Netanyahu dimostra che Netanyahu ha un problema, e che Israele ha un problema. Poiché Trump è considerato un uomo d'affari politico, più interessato al denaro che all'ideologia, a Dio e a Israele, alcuni a Gerusalemme temono che possa tradire Israele, perché si aspetta di più dagli altri in Medio Oriente. Non so se sia davvero così. Ma è quello che dicono alcuni dietro le quinte, e conoscono il termine cristiano per tradimento: Giuda Iscariota. Che Trump agisca come Giuda dipende dal fatto che si considerino le sue priorità – denaro, potere e affari – un tradimento di una “missione superiore”, come quella nei confronti di Israele. In termini teologici, si potrebbe dire che chi antepone i profitti a breve termine alla verità, alla lealtà e alla giustizia si avvicina pericolosamente allo spirito di Giuda. Ma sul campo politico la situazione non è sempre così chiara come nel Vangelo. Giuda Iscariota – ovvero l'uomo di Kariot (איש קריות) – era uno dei dodici discepoli di Gesù ed è noto nella tradizione cristiana come colui che tradì Gesù. Il suo nome è diventato simbolo di tradimento. Giuda tradì Gesù ai sommi sacerdoti per 30 monete d'argento. Identificò Gesù durante l'arresto notturno nel giardino del Getsemani con un bacio, il cosiddetto “bacio di Giuda”. Mi sorprende sempre che Giuda Iscariota simboleggi il traditore per eccellenza per gli ebrei, nonostante abbia tradito Gesù, che gli ebrei considerano un falso messia. In un certo senso è una contraddizione: un ebreo tradisce colui che l'ebraismo non riconosce affatto come Messia. È proprio per questo che menziono questo punto in relazione a Trump.
(Israel Heute, 27 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
“Gaza è lontana dalla carestia”, assicura un responsabile dell'esercito israeliano
“Non c'è carestia a Gaza, non ci siamo nemmeno vicini”, ha assicurato un alto responsabile dell'esercito israeliano durante una riunione sulla situazione umanitaria a Gaza tenutasi lunedì dai servizi di sicurezza israeliani, secondo quanto riportato martedì dal canale televisivo israeliano N12. ‘C'è disagio [a Gaza], ma non carestia’, ha tuttavia ammesso il militare.
I responsabili dell'esercito israeliano hanno dichiarato ai media che le principali carenze a Gaza riguardano i servizi medici e il cibo, ma sono aggravate dal problema del saccheggio degli aiuti umanitari. Secondo quanto riportato da N12, citando le dichiarazioni dei responsabili militari, dalla ripresa degli aiuti a Gaza la scorsa settimana si sono già verificati 110 episodi di saccheggio.
Questi ultimi hanno tuttavia dichiarato che, per quanto a loro conoscenza, nessuno di questi saccheggi è stato commesso da Hamas, ma piuttosto da civili di Gaza, bande armate e clan organizzati. Lunedì Hamas ha giustiziato quattro uomini per aver saccheggiato alcuni dei camion con gli aiuti che avevano iniziato a entrare nella Striscia di Gaza, mentre un capo clan della parte meridionale della Striscia ha lanciato una sfida al gruppo terroristico riguardo alla custodia dei convogli.
N12 ha riferito che durante la riunione è stata affrontata la questione dei centri di distribuzione degli aiuti, in particolare il fatto che tra mercoledì e venerdì dovrebbero aprire i battenti tre nuovi centri di distribuzione degli aiuti umanitari. Lunedì avrebbe dovuto aprire un centro di distribuzione degli aiuti a Rafah, ma è stato rinviato per motivi logistici.
TEL AVIV – La Gaza Humanitarian Foundation inizia oggi la sua missione a Gaza. Si tratta della Fondazione nata a febbraio e registrata a Ginevra dall’ex marine americano Jack Wood cui il governo israeliano ha affidato l'impegno di occuparsi del controllo e delladistribuzione di aiuti umanitari a 1,2 milioni di persone (cioè la metà degli abitanti della Striscia) all’interno di aree sigillate - “ripulite dal terrore” le chiamano loro - e controllate da mercenari americani armati - come già anticipato da Repubblica. Ma nel frattempo – è notizia della notte – si è dimesso a sorpresa il ceo Wood e con un comunicato decisamente inquietante: “Il programma di aiuti non può essere attuato nel rispetto dei principi umanitari di neutralità, equità e indipendenza, principi cui non rinuncio”. Non solo: Wood ha esortato Israele “ad ampliare significativamente la distribuzione di cibo a Gaza con tutti i mezzi possibili” e ha invitato tutte le parti coinvolte “a continuare a esplorare modalità innovative per la distribuzione senza ritardi, distrazioni e discriminazioni”.
• La fondazione Ha ottenuto l’ok a procedere dell’esecutivo del premier Benjamin Netanyahu a inizio maggio. Per ricevere gli aiuti i gazawi devono però recarsi in una delle quattro aree di distribuzione appositamente realizzate nell’ultimo mese tra i corridoi di Netzarim e Morag. Secondo i media israeliani, la pianificazione operativa è stata finalizzata solo nel fine settimana da rappresentanti del governo, Idf e altre agenzie di sicurezza. Eppure, lo ha scritto sabato il Washington Post in una lunga inchiesta, solo la scorsa settimana il capo di stato maggiore delle Idf, generale Eyal Zamir, aveva ammesso in riunioni a porte chiuse di essere all’oscuro di molte cose: compresa la suddivisione di responsabilità fra militari e contractors. Rispetto al piano annunciato per ora si procederà in maniera, diciamo, provvisoria. Perché nonostante il progetto preveda che gli aiuti vengano distribuiti agli abitanti solo tramite la registrazione a un sistema di riconoscimento elettronico simile a quello che Israele già utilizza in diverse aree della Cisgiordania, per ora ai capifamiglia che si presenteranno non sarà chiesto di sottoporsi a controlli: una “misura di rafforzamento della fiducia nella popolazione”, sebbene, ammettono, qualcuno “potrebbe abusarne”. Le scatole saranno “semplicemente disposte su grandi tavoli”. Il contenuto determinato in base a un valore calorico medio calcolato in Israele per nucleo familiare. Ci sarà dunque farina, olio, barrette proteiche, prodotti in scatola, zucchero, alimenti per neonati e alimenti per esigenze dietetiche particolari.
I centri saranno operativi 24 ore su 24 e avranno staff umanitario locale e internazionale che lavorerà su tre turni. Ma non personale delle Nazioni Unite, che fin dall’inizio ha bocciato il progetto: "Secondo il diritto internazionale, il cibo deve essere portato alla popolazione e non la popolazione al cibo, tanto meno se c’è personale armato” dicono. Il sistema di controllo e selezione dei beneficiari, hanno inoltre spiegato, “viola la Convenzione di Ginevra”. E il sistema agevolerebbe il piano di sfollare del tutto i civili dalla Striscia di Gaza settentrionale. Gli israeliani obiettano che è già stato fatto in Somalia, Sudan e Yemen (tutti posto nient’affatto pacificati). Secondo il piano, decine di camion raggiunteranno quotidianamente i complessi, circondati da alti terrapieni difesi dai contractors americani armati. L’Idf si terrà a distanza: occupandosi della sorveglianza aerea e di intelligence, e monitorando da lontano gli spostamenti verso i siti e le attività al loro interno. Tutto questo, naturalmente, per ora è solo sulla carta. Nel frattempo la distribuzione degli aiuti resta complicata: sabato notte altri cinque camion sono stati saccheggiati e il contenuto – farina, zucchero, semi di sesamo – rivenduto a prezzi gonfiati a Deir el-Balah e nel campo profughi di Nuseirat. D’altronde, spiegano gli israeliani, è proprio per rompere la catena che foraggia principalmente Hamas che si è deciso di prendere il controllo degli aiuti. Perché ormai è con le scorte sottratte che l’organizzazione ancora paga i suoi uomini, rivendendo il resto a prezzi esorbitanti, arricchendosi quanto basta da mantenere il potere.
• Il piano israeliano Del piano che sta per essere messo in atto, secondo le ricostruzioni, si discute fin dall’inverno 2023: da poco dopo l’inizio della guerra, cioè. Fu in ambiti Cogat, l’unità del Ministero della Difesa israeliano che gestisce gli aiuti a Gaza, che s’iniziò a ipotizzare «bolle umanitarie sterili» per confinare i civili all’interno di aree determinate, mentre le Idf proseguiva la sua guerra contro Hamas. Secondo un’inchiesta pubblicata sabato sul New York Times, se ne continuò a discutere in incontri privati tra funzionari, militari e imprenditori israeliani. Il gruppo si era dato anche un nome: Mikveh Yisrael Forum. Sono stati loro a optare per l’idea di aggirare le Nazioni Unite – considerate ostili agli israeliani - e ingaggiare mercenari privati . Nel corso del 2024, hanno cercato sostegno tra i leader politici israeliani e comandanti militari. Del gruppo, scrive sempre il NYT faceva parte Yotam HaCohen, consulente strategico e assistente del Generale di Brigata Roman Goffman_ comandante del Cogat e oggi consigliere del premier; Liran Tancman, imprenditore tecnologico e riservista dell’unità di intelligence dei segnali 8200 delle IDF, che ha chiesto l’utilizzo di sistemi di identificazione biometrica all’esterno dei centri di distribuzione per controllare i civili palestinesi; Michael Eisenberg, venture-capitalist ad alto rischio americano israeliano.
• I contractors A metà del 2024, i funzionari israeliani hanno condiviso i loro piani con un gruppo di consulenti americani del settore privato guidati da Phil Reilly. Un ex ufficiale della CIA che negli anni 80 addestrava i Contras (le milizie di destra in Nicaragua). Post 11 settembre, fu poi uno dei primi agenti statunitensi ad atterrare in Afghanistan, dove divenne capo della locale stazione Cia a Kabul. Salvo lasciare l’incarico per lavorare come esperto di sicurezza privata per Orbis, una società di consulenza con sede in Virginia. Con Reilly c’erano altri cinque individui, israeliani e americani, che presero in carico la pianificazione e stabilirono la creazione di una nuova società - guidata proprio dall’ex Cia - chiamata Safe Reach Solutions. Registrata a novembre – subito dopo le presidenziali americane – in Wyoming. L’azienda già opera all’interno di Gaza: lo scorso gennaio, ha preso in carico la gestione di posti di blocco durante il cessate il fuoco, in aree da cui l’esercito si era ritirato, perquisendo i veicoli diretti a nord (in Israele l'iniziativa è stata vista come un esperimento su piccola scala per un futuro modello di sicurezza che potrebbe essere esteso più ampiamente).
La Gaza Humanitarian Foundation è nata un mese dopo, soprattutto come gruppo di raccolta fondi: registrata – lo dicevamo all’inizio - a Ginevra a febbraio da Jake Wood. Curiosamente, nota il New York Times, una società con quel nome è stata registrata anche in America (nel Delaware) poco prima. E dallo stesso avvocato che si era occupato di registrare pure Safe Reach Solutions, James H. Cundiff.
Il piano verrà gestito in collaborazione con un’altra società di sicurezza statunitense UG Solutions: basata in Nord Carolina, fondata anche questa da un’ex militare in pensione, Jameson Govoni: che - lo ha raccontato ad Abc – si occupava in passato di addestrare soldati per operazioni speciali di sorveglianza e ricerca di cellule terroristiche nel mondo. A Gaza si occuperà di pianificazione e logistica e solo una settimana fa cercava collaboratori su Linkedin «cittadini statunitensi che parlassero fluentemente l’arabo, avessero esperienza sul territorio e capacità di destreggiarsi su territori sensibili», recitava l’annuncio. Finora, le due aziende avrebbero assunto oltre 100 ex militari statunitensi che potranno entrare a Gaza con fucili d'assalto, pistole Glock e coltelli, come da un elenco pubblicato online. Il piano finale ne prevede però mille.
• I finanziamenti e le connessioni Non è chiaro chi stia finanziando l’intera faccenda. Wood ha affermato che la fondazione ha ricevuto fondi iniziali da imprenditori non israeliani, ma si è rifiutato di rivelarne i nomi. Ha poi detto che un paese dell’Europa occidentale ha donato oltre 100 milioni di dollari. Quel che risulta evidente dai documenti pubblicati sabato dal Washington Post è che chi ha ipotizzato l’intero progetto era consapevole delle potenziali obiezioni che sarebbero state sollevate. Tanto da aver messo per iscritto delle risposte preliminari. In un documento riservato di 198 pagine datato novembre 2024, sei mesi prima che Israele e gli Stati Uniti approvassero pubblicamente Ghf, cioè, si affermava dunque necessità di reclutare gruppi di aiuti internazionali e dirigenti di buona reputazione «con credibilità nel mondo umanitario». Nessuna delle principali agenzie Onu ha però finora accettato di collaborare. Hanno anche stilato liste di influencer arabi da coltivare per una campagna sui social. E nel memo si parla di corteggiare paesi occidentali come la Germania e la Francia. Ma sono soprattutto i legami col governo israeliano che ci si è preoccupati di minimizzare, nonostante, scrive il WP, la "forte collaborazione”.
La Ghf - è scritto nel documento - non avrebbe dovuto in nessun momento apparire come "fantoccio dello Stato ebraico”. Un grande aiuto è arrivato a quel punto dall’amministrazione Trump: a inizio maggio, l’ambasciatore Usa in Israele Mike Huckabee, ha annunciato l’accordo sugli aiuti, affermando che era “del tutto inesatto definirlo un piano israeliano”: i centri di distribuzione “saranno gestiti dalla Fondazione e diretti dagli Stati Uniti”, ha detto ai giornalisti pure l'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon. Nel frattempo, l’amministrazione Trump ha organizzato incontri con funzionari delle Nazioni Unite nella speranza di raggiungere un compromesso che potesse soddisfare sia i gruppi umanitari che Israele, ma i colloqui si sono presto arenati: “Era già tutto deciso, non c’era spazio a discussione» denunciano fonti Onu. Solo domenica l’Associated Press ha pubblica una lettera datata 22 maggio e firmata Jake Wood dove la fondazione ammetteva di non essere pronta: “Riconosciamo di non avere le capacità tecniche o l’infrastruttura sul campo per gestire le distribuzioni in modo indipendente”. E affermava di aver concordato con Israele di consentire alle altre organizzazioni umanitarie di continuare ad occuparsi di aiuti non alimentari: dalle forniture mediche a quelle per l’igiene intima e ai materiali per costruire da gestire e distribuire secondo il sistema già esistente. Si dice pure che, per quanto riguarda il cibo, ci sarebbe stato un periodo di sovrapposizione del lavoro fra Fondazione e Onu, almeno fin quando i siti di distribuzione non diventeranno 8. Wood scriveva pure di aver parlato coi Ceo di sei organizzazioni umanitarie: Save the Children, International Medical Corps, Catholic Relief Services, Mercy Corps, Care e Project HOPE. Qualcosa dev’essere andato particolarmente storto se l’ex marine ha deciso di non metterci la faccia proprio il giorno della partenza.
• La minaccia di Hamas Nel pomeriggio inoltrato il Ministero degli Interni di Hamas ha diffuso un comunicato in cui condanna il nuovo piano di distribuzione degli aiuti organizzato dalla Fondazione, definendolo “un'iniziativa pericolosa, finalizzata a servire obiettivi di sicurezza israeliani e a indebolire le organizzazioni internazionali nella Striscia”. E ha invitato i residenti a non collaborare con il nuovo meccanismo, minacciando: "Chi collabora pagherà, saranno adottate le misure necessarie". Anche perché, secondo Hamas, "il meccanismo sarà utilizzato per raccogliere informazioni come la scansione dell'iride" e "Israele sfrutterà gli aiuti per reclutare collaboratori”.
L’intelligence tedesca accusa ufficialmente il BDS di antisemitismo
Nel rapporto annuale sulle minacce al sistema democratico e alla sicurezza nazionale della Germania, la sezione berlinese del movimento filopalestinese BDS è stata definita ‘un movimento estremista comprovato ed ostile alla Costituzione’, e che ‘la sua ideologia, che nega il diritto all’esistenza di Israele, gioca un ruolo centrale all’interno del movimento anti-Israeliano presente a Berlino’.
di Pietro Baragiola
Martedì 20 maggio, l’Ufficio federale per la protezione della Costituzione tedesca (BfV), responsabile del monitoraggio dei gruppi estremisti e della loro segnalazione al Ministero degli Interni, ha pubblicato il suo rapporto annuale sulle minacce al sistema democratico e alla sicurezza nazionale della Germania. In questo nuovo rapporto la sezione berlinese del movimento filopalestinese BDS è stata definita ‘un movimento estremista comprovato ed ostile alla Costituzione’, aggiungendo che ‘la sua ideologia, che nega il diritto all’esistenza di Israele, gioca un ruolo centrale all’interno del movimento anti-Israeliano presente a Berlino’. Il materiale raccolto ha evidenziato come il BDS chieda la fine dello Stato di Israele e come i suoi associati abbiano partecipato frequentemente a manifestazioni anti-israeliane sfilando cartelli con immagini antisemite, alimentando l’odio antiebraico e glorificando il massacro del 7 ottobre, ritenendolo ‘una lotta di liberazione contro il colonialismo dei coloni’ o ‘una fuga dalla prigione a cielo aperto di Gaza’. “L’obiettivo del BDS è mettere in discussione il diritto di Israele ad esistere, isolandolo dalla comunità internazionale e agevolandone l’eliminazione” ha spiegato il Ministro degli interni tedesco Nancy Faeser che, già l’anno scorso, aveva accusato il movimento di avere legami con l’estremismo laico palestinese. Volker Beck, presidente della Società tedesco-israeliana, ha elogiato le dichiarazioni della BfV nei confronti del BDS affermando che ‘tutte le forme di antisemitismo devono essere combattute con la stessa coerenza’. “È importante diffondere i risultati di questo rapporto in modo che la banalizzazione o addirittura la simpatia di alcune istituzioni nei confronti del BDS cessino di esistere” ha affermato Beck al quotidiano ebraico tedesco The Jüdische Allgemeine. Già nel 2019 la Germania è stata il primo paese a condannare il BDS come antisemita ma il tutto si è spento in un nulla di fatto. Oggi il nuovo rapporto è accompagnato dai dati registrati dall’Associazione federale tedesca dei dipartimenti per la ricerca e l’informazione sull’antisemitismo (RIAS) che ha evidenziato quanto i crimini dell’odio a Berlino siano aumentati vertiginosamente nel giro dell’ultimo anno.
• I dati del RIAS Secondo lo studio del RIAS, nel 2024 gli incidenti antisemiti sono stati circa 2521 (quasi 210 al mese), un aumento del 98,5% rispetto al 2023. Solo nei primi sei mesi il numero di episodi a Berlino aveva già superato il totale dell’intero 2023, raggiungendo il numero più alto mai registrato in un solo anno. Gli studiosi hanno affermato e verificato che il 44% di questi attacchi, caratterizzati da violenze fisiche scatenate da simboli ebraici o dall’uso dell’ebraico in luoghi pubblici, è direttamente collegato agli eventi del 7 ottobre e all’odierno conflitto. Il RIAS ha documentato anche un aumento delle manifestazioni pubbliche con inviti alla violenza, alla banalizzazione della Shoah e alla giustificazione degli attacchi terroristici di Hamas, promossi sia online che offline. “In queste campagne, il termine “sionista” è stato utilizzato più volte per reintrodurre tropi antisemiti di lunga data sotto le spoglie di critiche politiche” ha spiegato Faeser. “La propaganda diffusa attraverso i social network funge da motore chiave della radicalizzazione, prendendo sempre più di mira i giovani e persino i bambini.”
• Le manifestazioni berlinesi del BDS Secondo quanto riportato dal quotidiano tedesco BILD, le manifestazioni che hanno generato più scalpore nell’ultimo anno a Berlino rientrano un sit-in di protesta alla stazione centrale della città, un blocco stradale e l’occupazione dell’università FU. 40 persone hanno guidato quest’ultima protesta e, sebbene sia stata velocemente sedata grazie all’intervento tempestivo delle forze dell’ordine, i manifestanti sono riusciti a distruggere mobili, computer e altre proprietà dell’università, spruzzando slogan pro-Hamas sulle scale e sulla facciata dell’ufficio del preside. “I dipendenti che si trovavano nell’edificio sono stati minacciati fisicamente e psicologicamente da coloro che sono entrati” ha dichiarato Henry Marx, segretario di Stato berlinese per l’istruzione superiore e la ricerca. “Gli occupanti mascherati e armati di asce, seghe, piedi di porco e mazze, hanno cercato di allontanare con la forza i dipendenti dai loro uffici”. Nelle settimane seguenti alcuni di questi manifestanti sono stati individuati e schedati, portando le autorità tedesche ad emettere ordini di espulsione nei confronti di due cittadini irlandesi, uno polacco e uno statunitense residenti a Berlino, per la loro partecipazione a queste ed altre proteste anti-Israele e pro-Hamas. “Questi individui rappresentano una minaccia all’ordine pubblico” ha affermato Faeser. “Dobbiamo fermare il prima possibile la spirale di escalation in Medio Oriente poiché porta ad un odio ancora più disgustoso nei confronti degli ebrei del nostro Paese.” La Germania non è l’unica nazione ad aver agito contro il BDS. Come affermato dalla Jewish Virtual Library, Spagna, Canada e Paesi Bassi sono, infatti, tra i Paesi che hanno approvato leggi anti-BDS e ad oggi hanno adottato decreti esecutivi o risoluzioni volte a scoraggiare il boicottaggio contro Israele.
Tensioni diplomatiche tra Israele e l’Occidente: Netanyahu accusa i leader di incoraggiare Hamas
Netanyahu accusa i leader di Regno Unito, Francia e Canada di sostenere Hamas dopo le critiche all'offensiva militare israeliana e le richieste di cessate il fuoco
Le tensioni diplomatiche tra Israele e alcuni storici alleati occidentali hanno raggiunto un nuovo punto critico. A riportare la notizia è il The Guardian. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha apertamente accusato Keir Starmer, Emmanuel Macron e Mark Carney – rispettivamente leader di Regno Unito, Francia e Canada – di “incoraggiare Hamas” per aver chiesto un cessate il fuoco immediato a Gaza e la rimozione delle restrizioni agli aiuti umanitari. In un video pubblicato giovedì sera su X, Netanyahu ha espresso il suo sdegno per le pressioni internazionali, affermando che Hamas mira alla distruzione dello Stato ebraico e che le richieste occidentali di una tregua non farebbero altro che rafforzare il gruppo islamista. Londra, Parigi e Ottawa hanno criticato con forza l’operato di Israele a Gaza, definendolo “atroce” e minacciando azioni concrete nel caso non venga cambiata rotta. Il Regno Unito ha già sospeso i negoziati per un nuovo accordo di libero scambio e ha imposto sanzioni ad alcuni coloni israeliani, in risposta a retoriche definite “mostruose” da parte di ministri israeliani, che hanno invocato la “pulizia” di Gaza. Il contesto è ulteriormente aggravato dall’uccisione di due diplomatici israeliani a Washington DC, evento che Netanyahu ha citato per sottolineare i pericoli a cui Israele è sottoposto. L’attacco, definito “antisemita” da Starmer, ha suscitato reazioni di solidarietà da parte dei governi occidentali, ma non ha smorzato le critiche verso la condotta militare israeliana. Il ministro delle Forze Armate britannico, Luke Pollard, ha ribadito venerdì la posizione del Regno Unito: piena condanna degli attacchi contro Israele, ma anche la necessità urgente di un cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi da parte di Hamas e l’accesso immediato agli aiuti umanitari per la popolazione civile di Gaza. «È l’unico modo per garantire un futuro sicuro sia agli israeliani che ai palestinesi», ha affermato Pollard, sottolineando il rispetto per il diritto di Israele all’autodifesa, ma nel pieno rispetto del diritto internazionale umanitario. Il confronto tra Israele e i suoi alleati sembra destinato a protrarsi, con posizioni sempre più inconciliabili tra chi invoca una risposta militare dura al terrorismo e chi chiede il rispetto dei diritti umani e un’immediata soluzione diplomatica per fermare la crisi umanitaria in corso a Gaza.
Cerimonie commemorative e sfilate con bandiere ricordano la liberazione di Gerusalemme, della Giudea e della Samaria nella Guerra dei Sei Giorni del 1967.
GERUSALEMME - Oggi, lunedì 26 maggio 2025, Israele celebra il 58° anniversario della riunificazione di Gerusalemme e della liberazione della Giudea e della Samaria nella Guerra dei Sei Giorni. Il Jerusalem Day (Yom Yerushalayim) è tradizionalmente celebrato il 28 Iyar del calendario ebraico, in ricordo del ritorno del popolo ebraico ai suoi luoghi più sacri dopo quasi 2000 anni. I festeggiamenti sono iniziati già la sera prima con una preghiera pubblica al Muro del Pianto e lo srotolamento solenne di un'enorme bandiera israeliana nella città vecchia. La mattina è seguita una preghiera speciale nelle sinagoghe di tutto il Paese. Il programma prevedeva anche una trasmissione televisiva nazionale per gli alunni delle scuole elementari. Il momento clou della giornata è la tradizionale marcia delle bandiere (Rikudgalim), durante la quale decine di migliaia di giovani e famiglie sfilano per il centro di Gerusalemme, dalla Grande Sinagoga alla Porta di Damasco fino al Muro del Pianto. Nonostante la guerra in corso con Hamas, anche quest'anno le autorità hanno dato il via libera alla parata. Per garantire la sicurezza sono stati dispiegati migliaia di poliziotti. Due cerimonie ufficiali si terranno inoltre al Cimitero Nazionale di Gerusalemme sul Monte Herzl:
alle 11:00 si commemoreranno gli ebrei etiopi morti durante il viaggio verso Israele.
Alle 14:00 seguirà la cerimonia in memoria dei caduti della Guerra dei Sei Giorni e della guerra dell'Attrito (1967-1970).
In un videomessaggio, l'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, ha reso omaggio alla Giornata di Gerusalemme. Ha sottolineato il profondo legame tra il popolo ebraico e la sua capitale, che si estende su oltre 3.500 anni di storia. Huckabee ha ricordato la decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale eterna di Israele e di trasferirvi l'ambasciata degli Stati Uniti. “La vostra lotta è la nostra lotta. I vostri nemici sono i nostri nemici. La vittoria di Israele è la nostra vittoria e insieme vinceremo e pregheremo per la pace di Gerusalemme”, ha affermato Huckabee.
• Contesto: storia e significato della Giornata di Gerusalemme La Giornata di Gerusalemme è stata celebrata ufficialmente per la prima volta nel 1968, un anno dopo la Guerra dei Sei Giorni. Nel 1998 la Knesset l'ha dichiarata festa nazionale con una legge. I due rabbini capo di Israele le hanno inoltre conferito lo status di giorno commemorativo religioso, come espressione di gratitudine per la storica vittoria e la realizzazione del sogno secolare degli ebrei di tornare a Gerusalemme. In molte sinagoghe, in questo giorno si recita la preghiera dell'Hallel, in parte con benedizione, in parte senza, a seconda della tradizione. I sionisti particolarmente religiosi celebrano questo giorno con grande gioia, mentre i gruppi ultraortodossi spesso non lo festeggiano.
• Gerusalemme oggi: popolazione e crescita Con circa 1.046.300 abitanti, Gerusalemme è la città più grande di Israele. Circa il 60,5% della popolazione è ebrea e il 39,5% è araba. Quasi un terzo della popolazione totale appartiene alla comunità ebraica ultraortodossa. Secondo l'ultimo rapporto dell'Ufficio centrale di statistica israeliano (Central Bureau of Statistics, CBS), pubblicato in occasione della Giornata di Gerusalemme, nel 2024 la città è cresciuta di circa 17.900 persone, principalmente grazie al tasso di natalità naturale. Tuttavia, il numero di persone che hanno lasciato Gerusalemme è stato superiore a quello dei nuovi arrivati: la città ha registrato un saldo migratorio interno negativo di circa 7.800 persone.
• Tra celebrazioni e realtà politica La marcia delle bandiere è considerata il simbolo centrale della riunificazione di Gerusalemme, ma il suo percorso attraverso la Porta di Damasco e i quartieri adiacenti continua ad attirare l'attenzione internazionale. Mentre molti israeliani celebrano questa giornata come espressione di unità nazionale, altri la percepiscono come politicamente controversa. Anche quest'anno le autorità si stanno adoperando per garantire la sicurezza di tutti i partecipanti. Quest'anno il 28 Iyar cade il 26 maggio, sei settimane dopo il Seder di Pesach e una settimana prima di Shavuot.
(Israel Heute, 26 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nel vortice di accuse, appelli internazionali e narrazioni spesso parziali che dominano il discorso sulla questione israelo-palestinese, esiste una costante: l’idea secondo cui la pace in Medio Oriente sarebbe possibile se solo Israele accettasse di creare uno Stato palestinese. È un presupposto ricorrente nei corridoi diplomatici, nei media e nelle aule universitarie occidentali. Ma è anche una narrazione che resiste alla realtà dei fatti. Quello che molti ignorano, o scelgono di ignorare, è che Israele ha già offerto uno Stato ai palestinesi almeno cinque volte nel corso del Novecento e dei primi anni Duemila, e ogni volta si è scontrato con un rifiuto. Non un rifiuto negoziale, ma un rifiuto esistenziale: il rigetto stesso dell’idea di uno Stato ebraico. Tutto comincia con la Commissione Peel, istituita dal governo britannico per indagare sulle tensioni tra arabi ed ebrei nella Palestina mandataria. La soluzione proposta fu pionieristica: la creazione di due Stati, uno arabo e uno ebraico. Agli arabi veniva destinato l’ottanta per cento del territorio, agli ebrei un’esigua striscia di terra. I sionisti accettarono, pur tra mille perplessità. Gli arabi respinsero la proposta e ripresero la rivolta. Dieci anni dopo, la Risoluzione 181 dell’Onu ribadiva l’idea della doppia sovranità: uno Stato arabo e uno ebraico. Ancora una volta gli ebrei dissero sì, mentre gli arabi risposero con la guerra. Le truppe di cinque nazioni arabe (Egitto, Siria, Libano, Transgiordania e Iraq) invasero Israele il giorno dopo la sua nascita ufficiale, il 15 maggio 1948. L’intento era chiaro: cancellare il neonato Stato ebraico dalla mappa. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, in cui Israele prese il controllo di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, il governo israeliano discusse internamente se restituire i territori in cambio della pace. Ma la risposta arrivò chiara dal vertice della Lega Araba a Khartoum: «No alla pace, no al riconoscimento, no ai negoziati». Israele restituì comunque il Sinai all’Egitto dieci anni dopo, nel quadro degli Accordi di Camp David del 1978. Ma con i palestinesi, ogni apertura fu ignorata o boicottata. Nel luglio del 2000, sotto l’egida del presidente americano Bill Clinton, il premier israeliano Ehud Barak offrì a Yasser Arafat uno Stato palestinese su oltre il novantaquattro per cento della Cisgiordania, tutta Gaza, e con capitale a Gerusalemme Est. Mai prima di allora un’offerta era stata così ampia. Clinton stesso, alla fine del summit, disse: «Arafat è venuto qui per dire no a tutto». Non solo Arafat rifiutò: al suo rientro scoppiò la seconda Intifada, con una feroce ondata di attentati suicidi nelle strade di Israele. Nel 2008 fu Ehud Olmert a rilanciare. La sua proposta andava ancora oltre quella di Barak: scambi di territorio per compensare gli insediamenti, controllo congiunto sui luoghi sacri di Gerusalemme, ritorno parziale dei rifugiati palestinesi. Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas non rispose mai ufficialmente. Ancora una volta, un’occasione perduta. Nel frattempo, nel 2005, Israele attuò il ritiro unilaterale da Gaza, smantellando ventuno insediamenti e dislocando oltre novemila coloni israeliani. In cambio della rinuncia totale al territorio, non ricevette pace, ma missili. Gaza fu conquistata da Hamas, che trasformò la Striscia in una base di lancio terroristica. Gli investimenti in infrastrutture si trasformarono in tunnel per il contrabbando e l’attacco. L’opportunità di dimostrare che uno Stato palestinese sarebbe stato possibile fu sprecata dalle stesse autorità palestinesi. Una domanda che resta sospesa: oggi, come nel 1937, nel 1947, nel 1967, nel 2000 e nel 2008, la questione non è territoriale, ma identitaria. Israele è disposto a condividere la terra. I vertici palestinesi sono disposti a condividere l’esistenza? Lo storico David Brog osserva: «Ogni volta che Israele ha detto sì a uno Stato palestinese, i palestinesi hanno risposto con un no. A volte accompagnato da bombe». Se davvero si vuole la pace, è tempo di invertire la narrazione: non si deve chiedere a Israele nuove concessioni, ma ai palestinesi un primo, storico “sì” alla convivenza. Israele è una democrazia, uno Stato di diritto, e l’unico Paese del Medio Oriente dove cristiani, musulmani, ebrei e drusi convivono sotto la stessa legge. È lo Stato nazionale del popolo ebraico, e il solo Stato ebraico al mondo. Riconoscerne l’esistenza non è una concessione politica: è un atto minimo di giustizia storica. In un’epoca in cui l’antisemitismo torna a minacciare le democrazie, il dovere dell’informazione non è quello di appiattirsi sull’opinione dominante, ma di restituire complessità. E una verità spesso scomoda: la pace non si costruisce su slogan, ma su verità e responsabilità reciproche.
(LINKIESTA, 26 maggio 2025) ____________________
Ottimo articolo, sintetico e chiaro. Ne proponiamo la diffusione in formato PDF.
Greenblatt (ADL): “L’omicidio al Museo ebraico di Washington? Era solo questione di tempo”
Sul Time il presidente dell’Anti Defamation League ha pubblicato un articolo pieno di dolore e accuse alla società americana per l’aumento dell’antisemitismo. E accusa: «Dove sono le voci di coloro che affermano di combattere l’odio in tutte le sue forme? Dove sono coloro che parlano contro altri bigottismi ma rimangono in silenzio quando gli ebrei sono presi di mira? Questo silenzio è assordante».
di Ilaria Myr
«I segnali d’allarme erano ovunque. Il potenziale di violenza era inequivocabile. Eppure, in qualche modo, due giovani innocenti sono morti». Inizia così l’articolo scritto da Jonathan Greenblatt, presidente dell’Anti Defamation League venerdì 23 maggio sul Time, dopo l‘uccisione di Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, una giovane coppia che lavorava all’ambasciata israeliana, uccisi mentre uscivano da un evento per giovani diplomatici organizzato dall’American Jewish Committee al Capital Jewish Museum mercoledì sera. Il colpevole, Elias Rodiguez, li ha uccisi al grido di “Palestina libera”. «È un canto che abbiamo sentito più volte in America negli ultimi 18 mesi. Non solo in occasione di eventi politici, ma anche davanti a sinagoghe, scuole, ospedali e istituzioni culturali che hanno una sola cosa in comune: sono legate alla comunità ebraica – continua Greenblatt -. Non sorprende quindi che il sospetto fosse presumibilmente coinvolto in una serie di cause radicali; i ricercatori dell’Anti-Defamation League (ADL) hanno collegato Rodriguez, residente a Chicago, con un alto grado di certezza, a un manifesto con il titolo “Escalate For Gaza, Bring The War Home”. Questo conferma ciò che sospettavamo. Non si trattava di violenza casuale. Si trattava di antisemitismo mirato. Si è trattato di un attacco, non solo contro la comunità ebraica di Washington, ma contro tutti gli ebrei americani, anzi contro tutti gli americani. Ciò che è così esasperante e triste è che, per molti versi, era solo questione di tempo che si verificasse un episodio omicida come questo». I dati parlano chiaro: nel 2024 l’ADL aveva registrato 9.354 incidenti antisemiti in tutti gli Stati Uniti, con un aumento del 5% rispetto al 2023, a sua volta un anno record. Questo include un aumento del 21% delle aggressioni violente. Ciò rappresenta un aumento dell’893% nell’ultimo decennio. Ma l’omicidio dei due ragazzi a Washington è solo l’ultimo di una serie di gravi atti antisemiti. Dopo il primo Seder di Pesach la casa del governatore della Pennsylvania Josh Shapiro era stata incendiata mentre la sua famiglia dormiva da un uomo che aveva definito Shapiro un “mostro” e incolpandolo della morte dei palestinesi nella guerra tra Israele e Hamas. Il presunto colpevole avrebbe poi ammesso alle autorità di provare “odio” per Shapiro e che lo avrebbe attaccato con il suo martello se ne avesse avuto l’occasione. Greenblatt ricorda che l’FBI ha arrestato Forrest Pemberton di Gainesville, in Florida, in seguito a un blocco del traffico durante il quale sarebbero state trovate diverse armi da fuoco nel suo veicolo rideshare. Secondo le autorità, l’uomo intendeva recarsi presso gli uffici dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), un gruppo di difesa pro-Israele, nel sud della Florida, con l’intento di fare del male alle persone, forse con un attacco suicida. Non solo. Nella stessa settimana, gli agenti dell’FBI di Fairfax (Va) hanno arrestato un cittadino egiziano e studente della George Mason University, Abdullah Ezzeldin Taha Mohamed Hassan. Secondo la denuncia penale, Hassan gestiva diversi account pro-ISIS e Al Qaeda che promuovevano la violenza contro gli ebrei. Secondo quanto riferito, stava pianificando un attacco con vittime di massa al consolato israeliano di New York. «Non passa giorno in cui non si assista a un atto terrificante. Bambini ebrei vittime di bullismo negli spazi pubblici. Studenti ebrei affrontati nei campus universitari. Ebrei molestati mentre si recano alla sinagoga. Aziende e case ebraiche vandalizzate con triangoli rossi, svastiche o slogan politici. O gli ebrei assaliti e derisi sui social media con fervore implacabile. Abbiamo una crisi di antisemitismo in questo Paese. Questo antico odio cova da entrambe le parti dello spettro politico. È incubato e cresciuto nei pozzi neri dei social media. È alimentato da persone che giustificano l’antisemitismo come semplice “antisionismo”, che liquidano la nostra indignazione come un tentativo di servire un’altra agenda e che si contorcono su se stessi rivendicando il diritto alla libertà di parola, anche quando questa parola sconfina nell’incitamento alla violenza, nell’antisemitismo e nelle molestie. E ha delle conseguenze. Quando la retorica antisemita viene normalizzata, tollerata o amplificata nel nostro discorso pubblico, si crea un ambiente in cui la violenza contro gli ebrei diventa non solo probabile ma inevitabile. Quando la società permette che le menzogne sullo Stato ebraico che commette un genocidio dilaghino, quando voci di spicco liquidano la retorica incitante come “gloria ai martiri” o “globalizzare l’Intifada” come libera espressione giovanile, e quando l’opinione pubblica confonde in qualche modo l’essere anti-Hamas con l’essere anti-palestinese, questo ha delle conseguenze». Anche le piattaforme dei social media meritano un maggiore controllo, precisa Greenblatt. All’indomani del tentato pogrom contro i tifosi sportivi ebrei ad Amsterdam, lo scorso novembre, Hasan Piker, uno degli streamer più seguiti su Twitch, ha passato ore a minimizzare l’attacco. All’inizio del mese, il rapper Kanye ‘Ye’ West ha trasmesso in streaming una nuova canzone intitolata “Heil Hitler” e l’ha promossa su X, dove ha accumulato milioni di visualizzazioni. Da qui l’appello accorato di Greenblatt. «In tempi come questi, abbiamo bisogno di alleati che stiano dalla parte della comunità ebraica. Dove sono le voci di coloro che affermano di combattere l’odio in tutte le sue forme? Dove sono coloro che parlano contro altri bigottismi ma rimangono in silenzio quando gli ebrei sono presi di mira? Questo silenzio è assordante. Smettete di scusarlo. Smettete di voltarvi dall’altra parte. Questo attacco deve servire da campanello d’allarme per la nostra nazione per affrontare una volta per tutte questa marea crescente di odio. (…) Il momento di agire è adesso. La posta in gioco non potrebbe essere più alta».
- Credo che sia inevitabile cominciare questa intervista facendo riferimento all’uccisione dei due giovani funzionari dell’ambasciata israeliana avvenuta a Washington e assassinati da un estremista di sinistra che prima di ucciderli ha urlato, “free Palestine”, e dopo averli uccisi, “l’ho fatto per Gaza”. Cosa hai da dire in merito? Innanzitutto voglio dire che mi ha molto impressionato il modo in cui lui ha gridato “free palestine”, perché era un modo professionale, esattamente come lo si scandisce nelle manifestazioni. L’omicida è un giovane bianco di origini ispaniche o latinoamericane, proveniente da Chicago che, come si sa, ha un passato e un presente nei movimenti woke e di ispirazione marxista. Ha sparato sulle sue vittime in quanto ebrei, perché non credo che sapesse chi fossero, si trattava infatti di due funzionari subalterni che non avevano un ruolo di rilievo all’interno dell’ambasciata. Il contesto dell’attentato era quello di un evento al Museo ebraico di Washington. Ormai ci sono degli eserciti che dentro lo slogan “free palestine” mettono dei contenuti molto ben definiti e che si definiscono ogni giorno di più. Si tratta di eserciti le cui parole d’ordine radicali prendono corpo nelle grandi istituzioni che dovrebbero essere a tutela dei diritti umani, come l’ONU per esempio e dove la criminalizzazione costante di Israele conduce inevitabilmente all’antisemitismo. Quando si inizia a dire che gli ebrei uccidono i bambini, li uccidono con gusto, praticano il genocidio, come si fa a meravigliarsi se poi aumenta l’antisemitismo e se si giunge a un episodio estremo come quello avvenuto a Washington? Aggiungo che “Free Palestine” significa di fatto “destroy Israel”, non ha altro significato se non questo. Quando poi si specifica, “from the river to the sea”, ovvero dal Giordano al Mediterraneo, il senso dello slogan si chiarisce inequivocabilmente.
- Si tratta di uno slogan programmaticamente genocida. Assolutamente, come, nelle sue intenzioni è stato programmaticamente genocida il 7 ottobre. Per altro va sottolineato che proprio ieri uno dei leader superstiti di Hamas, essendo stati sostanzialmente decimati, ha dichiarato che dobbiamo avere ben chiaro che i jihadisti di Hamas uccisi dall’IDF verranno rimpiazzati dai 25 mila bambini che le donne di Gaza hanno messo al mondo durante il periodo della guerra, smentendo oltretutto con questa dichiarazione la tesi assurda che a Gaza sia in corso un genocidio. In altre parole, ci ha informato che sono già pronte nuove leve per rimpolpare la macchina omicida di Hamas. Non solo, ha evidenziato come tutto ciò vada inteso come esempio per tutto il mondo islamico nel suo insieme, per l’Umma.
- Da attenta osservatrice e studiosa del fenomeno dell’antisemitismo, ti aspettavi una recrudescenza così grande come quella a cui stiamo assistendo o sei meravigliata? Come sai, ho scritto diversi libri su questo argomento. Ho cominciato vent’anni fa a occuparmi del fenomeno, e credo di essere stata la prima ad usare il termine “israelofobia”. Mi sembrava cioè evidente che l’odio per gli ebrei venisse rivestito con una nuova veste. Il fatto che l’antisemitismo stesse diventando soprattutto odio per Israele è stata la cosa più difficile da fare accettare, anche per chi si occupa professionalmente di questi temi. La difficoltà di recepire questa nuova forma di antisemitismo sta nel fatto che viene mascherata come critica legittima allo Stato ebraico. Devo dire che per smascherarla ha aiutato molto Natan Sharansky con le categorie da lui introdotte delle tre d, ovvero la delegittimazione, la demonizzazione e il doppio standard. Quando ci troviamo al cospetto di una di queste tre categorie, di due o di una sola, non si tratta più di critica legittima, ma di antisemitismo. Si, che quello a cui stiamo assistendo potesse accadere me lo aspettavo perché sapevo che si può odiare lo Stato di Israele, invece non mi aspettavo la nazificazione di Israele e la conseguente vittimizzazione dei palestinesi su una scala così ampia anche se si tratta di una costruzione ideologica già in corso almeno dalla fine degli anni ’60 originata dall’Unione Sovietica e che ha avuto come cinghia di trasmissione anche quella delle socialdemocrazie europee.
- A proposito della nazificazione di Israele non dimentichiamo che già nel 2002 Jose Saramago, autore di un feroce articolo contro Israele intriso di stereotipi antisemiti, paragonò la condizione dei palestinesi in Cisgiordania ad Auschwitz. Certo, il terreno era già stato preparato, ma che si arrivasse al punto di immaginare che l’esercito israeliano, unico esercito del mondo che fa spostare la popolazione civile in un teatro di guerra e si occupa di fornire gli aiuti umanitari, nonostante il saccheggio sistematico di Hamas, sia composto da assassini sadici di bambini, questo va oltre ciò che potevo prevedere. Si tratta di un rovesciamento totale della verità, organizzato e foraggiato sistematicamente.
- Personalmente ritengo che riguardo alla propaganda contro Israele ci troviamo di fronte alla più grande e oliata macchina di inversione della verità dal dopoguerra ai giorni nostri. Non mi viene in mente niente di così pervasivo, isterico, sistematico, ossessivo. Sì, ci troviamo di fronte a una grande forza di trasformazione e contagio delle menti. Su questo non ci sono dubbi. Fu Ben Gurion a dire che quando ci si trova al cospetto di una Shoah c’è subito chi pensa di poterne fare un’altra. Oggi ci troviamo in questo scenario, anche se Israele non soccombe ma combatte, resiste nonostante il vituperio internazionale per altro aiutato anche da personaggi nostrani come Yair Golan, Ehud Olmert, Ehud Barak e altri, che pur di attaccare Netanyahu sono disposti a fornire argomenti ai nemici di Israele.
- A proposito di odio, tu sei stata oggetto recentemente di un violento attacco antisemita da parte di un impiegato della regione toscana, Giuseppe Flavio Pagano
che ti ha definita “demone” e “verme nazista”. Come lo hai vissuto? Premetto che è dal 2001, dall’inizio della seconda intifada, che quando vengo in Italia non posso muovermi senza la scorta a causa del numero elevato di minacce ricevute all’epoca per il mio lavoro di documentazione sul terrorismo palestinese. La minaccia è lo strumento preferito di questa galassia. L’attacco di cui parli è particolarmente disgustoso nell’uso delle parole impiegate, che hanno qualcosa di appiccicoso e di bigotto, però non sono intimidita o spaventata, ci sono abituata. Interpreto questo episodio come la forma di persecuzione che deve subire un ebreo nel nostro tempo, con la differenza che oggi, rispetto al passato, abbiamo a disposizioni strumenti che prima non erano presenti, come la tutela legale. Naturalmente poi c’è la possibilità di intervenire negli spazi pubblici, fare sentire la propria voce anche se, rispetto a quella che prende le parti del palestinismo, la nostra è sicuramente una voce minoritaria, ciò nonostante non bisogna scoraggiarsi ma continuare a combattere contro le menzogne. Credo che essere ebrei oggi significhi partecipare a una grande battaglia per la verità e per la sopravvivenza.
- Nel tuo ultimo libro scritto con Nicoletta Tiliacos, La guerra antisemita contro l’Occidente già il titolo si riferisce a come l’antisemitismo sia un attacco all’Occidente e ai valori che esso incarna, che porta iscritti nel suo dna, vorresti sinteticamente darne qualche accenno? Guarda, più sinteticamente di così non saprei farlo. Dirò però questo, l’altro giorno davanti a Montecitorio c’è stata una manifestazione propal da parte di ragazzi e ragazze che appartengono alla galassia lgbt, e penso al destino che avrebbero se fossero a Gaza o in Iran che sponsorizza Hamas da anni. Questo piccolo episodio è emblematico di come l’antisemitismo e l’odio per Israele che ne è un proseguimento, sia una spada puntata contro i valori stessi dell’Occidente. Detto questo, allargando la visuale va detto che chi si schiera contro Israele lo fa a vantaggio di chi potendo farlo li impiccherebbe alle gru a Teheran o gli sparerebbe in testa a Gaza, e in linea con lo svuotamento di senso di istituzioni come l’ONU che sulla carta dovrebbero difendere i diritti umani e che è invece diventato, dal 1967 in poi, una fucina di risoluzioni anti israeliane che si producono una dopo l’altra mentre si seguita a non sanzionare mai la Cina, la Turchia o il Marocco per le loro violazioni flagranti del diritto internazionale, non la presunta e fasulla violazione di Israele in merito ai territori della Cisgiordania. Per non parlare della negazione dei diritti umani violati degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas, per i quali nessuna delegazione dell’ONU o della UE ha mai interpellato Hamas per liberarli, limitandosi a dichiarazioni formali di pura circostanza. Anche la Croce Rossa se ne è disinteressata fino a quando è stata costretta a farlo. Persino sui piccoli bambini Bibas non si è detto quasi nulla, e questo perché erano bambini ebrei e non palestinesi. È spaventoso.
- Come finirà a Gaza? Io mi fido dell’esercito e del suo programma. Non mi fido del contesto internazionale. Penso che si sia sulla strada giusta. Si sta cercando soprattutto di separare la popolazione civile dal contesto terroristico che se ne fa scudo, spostandola fisicamente in zone dove possa essere maggiormente salvaguardata. Questo dovrebbe aiutarci nel riuscire a riavere indietro gli ostaggi che, a me pare una cosa fondamentale, e quindi di battere Hamas. Hamas deve essere disarmato e rinunciare al dominio su Gaza. È un programma semplice e chiaro, ovviamente non facilmente attuabile. Attualmente dentro Gaza abbiamo sei divisioni operative. Fino a quando Hamas resterà a Gaza si concimeranno solo guerre future e nuovi 7 ottobre. Io mi fido in quanto abbiamo ottenuto risultati clamorosi. Ci dicevano tutti che combattere Hamas era un conto ma con Hezbollah la storia sarebbe stata assai diversa. Non solo Hezbollah è stato fortemente lesionato come mai prima ma si è riusciti a eliminare Nasrallah. Veniva pronosticato uno scenario apocalittico che non si è verificato. L’area in cui stiamo operando non è più quella di prima. Stiamo ancora combattendo a Gaza, che è un territorio molto difficile e Hamas è un nemico diabolico, che ha saputo strumentalizzare al massimo la sofferenza della sua popolazione per aizzare l’opinione pubblica contro Israele.
• Le ragioni della durata La settimana scorsa, come e più di quelle precedenti, è stata segnata da un doppio volto: quello della guerra sul campo, che Israele combatte ormai da oltre un anno e mezzo, e quelle della guerra mediatica e giudiziaria contro gli ebrei e il loro Stato, che precede di gran lunga il 7 ottobre 2023 ma si è acutizzata di nuovo in questo periodo. Sul primo piano la guerra è lenta e complessa, anche perché gestita da una “testa della piovra” che agisce da lontano ed è difficile colpire (l’Iran) ed è stata messa in atto dai suoi satelliti a Gaza, in Libano, in Siria, in Iraq, in Yemen, in Giudea e Samaria. Questi gruppi non manovrano come eserciti classici, anche se sono armati, addestrati e finanziati come tali e se talvolta gestiscono un territorio che per certi versi somiglia a uno stato. Ma essi applicano sistematicamente la strategia della guerriglia urbana, nascondendosi dietro ai civili e alle istituzioni che dovrebbero tutelarli (scuole, moschee, soprattutto ospedali) e usando le tecniche moderne (soprattutto quelle missilistiche) per tentare di colpire la popolazione civile e quella della guerra psicologica e comunicativa per indebolire lo Stato ebraico. A causa di queste tattiche la guerra non si può risolvere con una battaglia campale e anche l’eliminazione di un numero notevole di capi e truppe non basta a risolverla, almeno a Gaza, perché bisogna prendere atto che essi trovano facilmente nuove reclute in una popolazione fanatizzata.
• Buoni risultati militari Sul piano militare l’ultimo periodo è positivo per Israele. Si è confermata la scelta delle autorità libanesi di non consentire a Hezbollah di trascinare ancora il paese in guerra ed Israele ha potuto eliminare senza problemi alcuni loro comandanti e depositi di armi. In Siria sembra confermata la decisione del regime di Al Jolani di non provocare Israele, rinunciando allo sterminio dei drusi che sembrava preparare e non osteggiando i presidi dell’esercito israeliano fra il Golan e l’Hermon. L’accordo con Trump per l’annullamento delle sanzioni americane è condizionato infatti al comportamento non aggressivo della Siria e in prospettiva prevede l’adesione agli accordi di Abramo. Israele ha stretto con la Turchia, che è il padrino di Al Jolani, un patto di consultazione telefonica per evitare scontri involontari, che in sostanza sancisce il carattere demilitarizzato delle regioni siriane al confine con Israele, rendendo improbabile per il momento ogni aggressione da quel lato. Gli Houthi continuano a sparare periodicamente missili contro località civili israeliane, ma sono stati duramente colpiti e probabilmente lo saranno di nuovo, sicché la loro minaccia è ridimensionata. Resta l’Iran, su cui Israele attende il probabile fallimento delle trattativa con gli Usa per cercare di distruggerne la minaccia nucleare. E resta naturalmente Gaza. Dopo il fallimento delle trattative dovuto al rifiuto di Hamas delle condizioni americane per por fine alla guerra (disarmo e smantellamento delle forze terroriste, liberazione di tutti i rapiti) la pressione israeliana aumenta e ormai ci sono cinque divisioni (parecchie decine di migliaia di soldati) che stanno entrando in tutta la Striscia, mentre si perfeziona l’allestimento patrocinato dagli Usa di aree sicure e sistemi di rifornimenti della popolazione civile che non siano appropriati da Hamas come in precedenza. In sostanza, è in vista la distruzione vera della minaccia militare di Hamas.
• L’incitamento all’odio Proprio questi due sviluppi positivi (disarmo forzato dell’Iran e sconfitta definitiva di Hamas) hanno scatenato la macchina dell’odio in Occidente, ormai sempre più consapevolmente non diretta a una generica solidarietà con le sofferenze della popolazione di Gaza, ma al sostegno del terrorismo di Hamas, alla volontà di distruzione di Israele e direttamente all’antisemitismo. Se restava un dubbio sulla buona fede di chi manifestava o faceva dichiarazioni “per la pace” a Gaza, ormai la malafede è diventata evidenza. Vi è uno schieramento chiaramente anti-israeliano e sempre più scopertamente antisemita che va dagli estremisti dei centri sociali e dei gruppi islamisti ai sindacati e ai partiti della sinistra, fino ai governi che intendono premiare il terrorismo riconoscendo “lo Stato di Palestina” (si sono pronunciati così Francia, Gran Bretagna, Canada dopo Belgio, Irlanda, Spagna ecc.) e che vorrebbero rivedere gli accordi economici europei con Israele, realizzando un boicottaggio statale (hanno votato in questo senso 15 dei 27 paesi dell’UE).
• L’antisemitismo in azione E per questi attori istituzionali sembra non contare il fatto che sempre più frequentemente emerga il carattere criminale e terrorista della “lotta” contro Israele, come mostra anche l’orribile omicidio di due funzionari dell’ambasciata israeliana di Washington, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, ma anche una miriade di episodi meno sanguinosi, boicottaggi, minacce, violenze fisiche, danneggiamenti, scritte d’odio, che ricordano il clima di epoche buie. Il giornalismo, i media e la politica ci mettono la loro parte, incitando all’odio di Israele e tentando di ricattare gli ebrei, condizionando il loro diritto di parola e perfino di esistenza all’adesione alla campagna d’odio. Comunissimo è l’uso di menzogne costruite per indebolire l’autodifesa di Israele e la solidarietà internazionale e la simpatia popolare che nonostante tutto la circonda: dalla diffamazione personale di Netanyahu (“pazzo criminale” secondo Conte) alla riproposizione della calunnia del sangue nei confronti dei soldati, dall’invenzione di fake news (la più frequente nella settimana scorsa è quella che inventava ogni giorno una frattura fra Usa e Israele) ai vecchi insulti di stile nazista. Qualcuna di queste menzogne emerge e porta conseguenze, com’è stato il caso, questa settimana, della sospensione dalla funzione del procuratore della corte internazionale dell’Aya, Karim Khan, che sembra avesse promosso il mandato di cattura contro Netanyahu per coprirsi dall’indagine per abusi sessuali ai danni delle sue collaboratrici. Ma la ripetizione continua e non prende atto delle smentite fattuali. A tutta questa offensiva di comunicazione è necessario resistere, spiegando il buon diritto all’autodifesa di Israele e i suoi grandi sforzi per condurre questa guerra non voluta nella maniera più umana possibile. E alla fine sarà la vittoria di Israele a modificare il panorama politico del Medio Oriente, travolgendo i terroristi e i loro sostenitori, anche in Occidente.
Perché Dio ha creato il mondo? - 3Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• L’agire di Dio Si dice talvolta che nell’evangelizzazione il credente deve saper esporre “il piano della salvezza”, dove con ciò s’intende la presentazione di quello che Dio ha fatto in Gesù Cristo per offrire all’uomo il perdono dei peccati, e il successivo invito ad accettare tale offerta e ottenere così una sicura salvezza eterna. Un annuncio del Vangelo presentato in questo modo è stato decisivo in molti casi per portare qualcuno alla conversione, ma è chiaro che non esprime “tutto il consiglio di Dio” (Atti 20:27).
Una chiave di lettura fondamentale dell’approccio olistico alla Bibbia che si vorrebbe fare in questo studio può essere espresso con una semplice formulazione: il personaggio principale della Bibbia è Dio. E’ da Lui che si deve sempre cominciare. Ovvio? Banale? Se ne riparlerà nel seguito, ma un primo accenno si può fare accostando i termini salvezza e consiglio usati poco sopra: la salvezza di cui si parla si riferisce all’uomo, mentre il consiglio si riferisce a Dio. Che cosa viene prima? la salvezza o il consiglio?
Per fare un veloce sguardo sul messaggio biblico nella sua totalità, si possono leggere i primi due capitoli della Bibbia (Genesi 1-2) e saltare subito dopo agli ultimi due (Apocalisse 21-22), e chiedersi: che cosa è avvenuto tra l’inizio e la fine di questo racconto? In entrambi i casi si parla di Dio e di uomini, ma mentre Dio agisce in sovrana libertà, gli uomini reagiscono nella circoscritta libertà loro concessa, e ne subiscono le inevitabili conseguenze. Nel seguito, questo schema di rapporti si ripete in continuazione, anche se in forme diverse, e va da sé che per capire i fatti che poi accadono, la riflessione non può che cominciare da ciò che sta all’inizio: cioè da Dio che agisce.
• I due progetti Abbiamo già visto che l’originario progetto di Dio prevedeva la creazione di un habitat perfetto, popolato da una società di giusti, al cui centro si trova un santuario in cui Dio abita in mezzo agli uomini. L’esercizio che Adamo, capostipite dell’umanità, ha fatto della libertà a lui concessa, ha compromesso la forma originaria del progetto, facendo penetrare in tutta la creazione il virus di una fatale malattia che la Bibbia chiama “morte”:
“Come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e per mezzo del peccato la morte, così la morte si è estesa a tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Romani 5:12).
I segni di questa malattia mortale sono presenti dappertutto, nella forma di una corruzione presente in tutti i campi. Il Signore comunque ha consentito al suo progetto creativo di andare avanti, preparando un’opera di recupero salvifico che, anche se avrà bisogno di secoli, sarà comunque portata a compimento: il tempo è un problema per noi, non per Dio. Dal quarto capitolo della Genesi in poi, la Bibbia è interamente dedicata alla presentazione di questo progetto di recupero.
Nel seguito chiameremo “primo progetto”, o “progetto creativo”, o più semplicemente “creazione”, l’originario piano di Dio, e “secondo progetto”, o “progetto redentivo”, o semplicemente “redenzione”, il piano di salvezza elaborato da Dio dopo la caduta dell’uomo. Quando il progetto è in esecuzione, useremo anche il termine “programma”.
E’ chiaro che a noi interessa soprattutto il progetto redentivo, perché è quello che ci riguarda in questo tempo; e poi… siamo uomini, e come uomini pensiamo soprattutto ai nostri interessi personali. Ma se, oltre allo star bene adesso e in eterno, qui in terra e su nel cielo, e oltre al progetto di salvezza in cui siamo inseriti, dirigiamo la nostra attenzione sul progettista che l’ha ideato; se siamo interessati a conoscerlo meglio; se siamo stati afferrati da quella parola di Gesù che dice: “'Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua e con tutta la mente tua” (Matteo 22:37), allora forse saremo interessati anche a conoscere più a fondo chi è davvero Colui che ci ama, e ora noi vogliamo amare; e forse cercheremo di sondare, nei limiti del possibile e del lecito, quali sono i pensieri e i sentimenti che spinsero il Creatore a formulare quel grandioso programma di creazione prima che l’uomo lo facesse deviare. Perché è lì, all’origine di tutte le cose, che Egli ha cominciato a esprimere Se stesso, per darne poi conoscenza alle sue creature.
Per il momento ci limiteremo a notare soltanto le differenze più evidenti tra i due progetti.
Il progetto creativo parte con un inizio in cui tutto è molto buono. Nell’ordine compare dapprima l’habitat, costituito da “i cieli e la terra” dell’incipit biblico, poi la società, potenzialmente presente nella coppia Adamo-Eva, poi il santuario, costituito dal Giardino di Eden.
Il primo Adamo è stato tratto dal primo habitat,cioèdalla terra “molto buona” che Dio aveva creato fino a quel momento. Attraverso il soffio di Dio nelle sue narici, l’uomo è diventato un’anima vivente (1Corinzi 15:45). Nell’immaginaria ipotesi di ciò che sarebbe avvenuto se la prima coppia non avesse peccato, l’habitat sarebbe rimasto perfetto in ogni sua parte; la società sarebbe rimasta anch’essa perfetta perché i ribelli sarebbero stati immediatamente distrutti; il santuario sarebbe rimasto a disposizione degli uomini come centro della terra e luogo d’incontro nella relazione d’amore tra il Creatore e la creatura.
Il progetto redentivo opera invece su un mondo contaminato dal male in ogni sua parte, e tuttavia mantenuto in piedi dalla provvidenza di Dio, perché su quella terra maledetta è destinato a cadere un giorno il seme di vita che porterà guarigione eterna al mondo, cioè la salvezza nel senso pieno della parola.
Quello che l’apostolo Paolo chiama ultimo Adamo è spirito vivificante (1Corinzi 15:45), è stato formato (non creato) con il soffio dello Spirito di Dio non più nella terra inerte, ma nel corpo vivente di una giovane donna ebrea. Tra i due Adami ci sono dunque differenze, ma sono confrontabili, perché in entrambi i casi sono espressione di “Colui che opera ogni cosa secondo il consiglio della propria volontà” (Efesini 1:11).
Con questo abbiamo appena toccato il tema che dottrinalmente si chiama “incarnazione”, ma qui vogliamo soltanto limitarci a sottolineare che in Gesù Dio è venuto a compiere quello che fin dall’inizio è stato il suo proposito: venire ad abitare in mezzo agli uomini:
“E la Parola si è fatta carne ed ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Giovanni :1:14).
L’habitat finale del secondo progetto è costituito dal “nuovo cielo e nuova terra” dell’Apocalisse (cap. 21). Esso appare per ultimo, e solo allora sarà perfetto in ogni sua parte, perché sarà liberato dalla vanità a cui ora è sottoposto a causa del peccato dell'uomo (Romani 8:18-25).
La società finaleche lo popolerà, secondo le poche cose che si dicono negli ultimi due capitoli della Bibbia, sarà una società di tutti giusti, perché giustificati dall’opera di Cristo, e in essa ci saranno popoli, nazioni e re della terra (Apocalisse 21:24-26). Sarà il Regno eterno di Dio che Gesù consegnerà nelle mani del Padre “dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza” (1 Corinzi 15:24). Esso sarà preceduto dal Regno messianico milleniale promesso a Israele nell'Antico Testamento, che si svolgerà in un habitat e con una società non ancora totalmente redenti.
Il santuario finale sarà costituito dalla nuova Gerusalemme, in cui non ci sarà alcun tempio dove incontrare il Signore, perché “l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio” (Apocalisse 21:22).
Abbiamo messo a confronto diretto, in modo schematico e necessariamente approssimativo, l’inizio e la fine dell'intero programma di Dio, accostando i primi due capitoli della Genesi con gli ultimi due dell’Apocalisse, anche per sottolineare che il corretto esame di tutto quello che si trova in mezzo deve essere fatto seguendo lo svolgersi del discorso lungo le linee di azione di Dio, dall’inizio alla fine, senza saltellare di qua e di là con occasionali e arbitrarie interpretazioni di singoli passi, staccati non solo dal contesto linguistico, ma in certi casi anche dal centro del messaggio biblico.
• Chi saranno i cittadini della nuova società? Detto in poche parole: chi saranno i salvati? La domanda è seria, perché se il nuovo mondo sarà realizzato soltanto alla fine della storia, i suoi abitanti proverranno tutti da quello che è stato il vecchio mondo, così come si svolge dalla creazione in poi. Abbiamo detto che se Adamo non avesse peccato, nel progetto creativo i cittadini della società voluta da Dio sarebbero stati soltanto coloro che avrebbero superato il test a cui il Signore li avrebbe sottoposti; qualcosa del genere è previsto anche nel progetto redentivo: gli abitanti della finale società saranno soltanto coloro che hanno risposto Sì al Signore, anche se la chiamata di Dio potrà arrivare al singolo in modi diversi a seconda del momento storico in cui vive. Anche se è vero che tutti gli uomini sono peccatori fin dalla nascita, perché partecipi di un mondo in cui è entrata la corruzione della morte, non per questo Dio li vede tutti allo stesso modo: il racconto di Caino e Abele fa capire che Dio osserva e valuta l’atteggiamento di ogni uomo rispetto a Lui in base a quello che egli ha ricevuto, sa e decide.
E’ chiaro comunque che in ogni caso la salvezza sarà donata da Dio al peccatore soltanto in virtù dell’opera giustificante di Gesù sulla croce, perché “in nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è alcun altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini, per mezzo del quale dobbiamo essere salvati” (Atti 4:12). E’ quello che in termini teologici si esprime dicendo che la salvezza si ottiene per grazia mediante la fede, sempre e in ogni caso.
Può sorprendere, a proposito di salvezza personale, che l’Antico Testamento sembri poco interessato a indicare in modo chiaro chi sarà eternamente salvato e chi no. Non potremmo dirlo con certezza neppure per Adamo ed Eva. Fino all’arrivo di Gesù, la Bibbia non dice quello che gli uomini devono fare per poter salire un giorno dalla terra e andare in cielo, ma piuttosto informa su quello che Dio ha fatto, e in seguito farà, per avvicinarsi dal cielo agli uomini che vivono sulla terra. Se ne dovrà riparlare.
GERUSALEMME - Gli israeliani religiosi e conservatori lamentano spesso di essere ignorati nell'assegnazione di incarichi di alto livello nell'apparato di sicurezza. Allo stesso tempo, in alcuni settori dell'opinione pubblica prevale l'errata convinzione che gli israeliani religiosi non prestino affatto servizio militare, confondendo tutti coloro che indossano la kippah con gli ultraortodossi, che di norma rifiutano il servizio militare. Il generale David Zini rompe questo schema in due modi. Giovedì, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha nominato Zini nuovo capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni israeliani. Netanyahu ha citato le impressionanti qualifiche di Zini e la sua lungimiranza come motivi determinanti per la nomina. Tuttavia, anche lo stile di leadership intransigente di Zini e la sua profonda comprensione del carattere religioso del conflitto dovrebbero andare a vantaggio suo e dello Stato di Israele. Zini è un combattente tra i combattenti. Ha prestato servizio come soldato d'assalto nel prestigioso Sayeret Matkal(unità di ricognizione dello Stato Maggiore), ha comandato un battaglione della Brigata Golani, ha guidato l'unità d'élite Egoz e ha fondato la brigata di comando dell'IDF, che è fortemente impegnata nell'attuale guerra. Da ultimo è stato capo del comando addestramento dell'esercito israeliano. Particolarmente rilevante nella situazione attuale: già nel marzo 2023, sei mesi prima dell'attacco di Hamas, Zini aveva redatto un rapporto in cui criticava la disposizione errata dell'IDF intorno alla Striscia di Gaza. Quasi ogni sezione era vulnerabile ad attacchi a sorpresa, avvertiva. Tragicamente, il suo avvertimento profetico non è stato preso sul serio in tempo. Zini è anche una persona profondamente religiosa. Figlio di un noto rabbino di Ashdod, indossa la kippah e, secondo quanto riferito, ha undici figli. La sua famiglia discende da rabbini sefarditi provenienti dall'Algeria, in netto contrasto con i candidati ashkenaziti, per lo più laici, che considerano la sicurezza di Israele da una prospettiva “occidentale”, quella stessa prospettiva che oggi è spesso criticata come un “concetto fallito
(Israel Heute, 24 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L'ennesima strage causata dall'odio per Israele è il frutto della propaganda di Hamas, che prova a sdoganare pure il nazismo. Per fortuna alcuni palestinesi si scandalizzano.
di Silvana De Mari
Chi sono i mandanti del delitto di Washington? Due giovani funzionari dell'ambasciata israeliana, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, sono stati abbattuti come cani davanti al Museo ebraico della città. Yaron aveva appena comprato un anello per Sarah, si sarebbero sposati a Gerusalemme. Nel museo si stava tenendo un evento umanitario che aveva come scopo l'aiuto alla popolazione di Gaza. L'omicida si è dichiarato un protettore della popolazione della Striscia, un vendicatore di torti. Il mandante è l'antisemitismo social, che grazie alla sapiente e costosissima propaganda di Hamas è esploso fino a livelli omicidi.
L'antisemitismo social si è riversato nelle strade: la ristoratrice di Napoli che caccia gli israeliani, la merciaia che nega loro l'accesso, i latrati e le violenze dei cortei pro Pal sono i primi timidi esempi. L'apogeo è stato raggiunto alle commemorazioni del 25 aprile, quando la bandiera della Brigata ebraica è stata oltraggiata e le bandiere degli alleati in Medio Oriente di Adolf Hitler sono state esaltate. Il massimo è il vergognoso episodio all'università di Torino con l'aggressione agli studenti ebrei, a uno
dei quali è stato strappato il nastro giallo in memoria permanente degli ostaggi. Per inciso: porto anche io quel nastro, quindi la prossima volta che fate la lista degli amici degli ebrei e di Israele, mi raccomando, mettete anche il mio nome. Innumerevoli sprovveduti stanno rilanciando l'antisemitismo più bieco e quindi tutti sono ufficialmente i mandanti dell'antisemitismo che risorge dalle sue ceneri come un'orrida fenice.
Mi dichiaro un'esperta in antisemitismo da social. Alcuni miei post, nei quali pubblicavo la fotografia dei bambini con i capelli rossi e della loro madre, rapiti il 7 ottobre per essere strangolati il mese successivo, hanno ottenuto alcune migliaia di insulti. L'antisemitismo è sempre appartenuto alla cultura europea. Siamo la stessa civiltà che dopo secoli di pogrom ha sterminato 6 milioni di ebrei, sul proprio territorio. Poi, certo, tutti allineati e coperti il 27 gennaio a ricordare la cosa, ma tutti hanno colto la meravigliosa offerta di Hamas, l'assoluzione del genocidio hitleriano.
Tra le varie forme di sconvolgente idiozia che stanno dilagando sui social c'è quella di pubblicare fotografie di bambini scheletrici, nella grande maggioranza dei casi si tratta di bambini affetti da enterocoliti necrotizzanti e da fasi terminali di malattie oncologiche. E possibile recuperare le loro foto su Google e spacciarle per fotografie di bambini di Gaza affamati dal nemico sionista. Nulla è più squallido della commistione tra la memoria di Auschwitz e la sua negazione. Hitler ha tolto decenza all'antisemitismo: dopo il 1945 nessuno osava più dichiararsi fieramente antisemita. Inventandosi che antisemitismo e antisionismo siano cose diverse, si può rilanciare il gioco. «Sporco ebreo» è moralmente ignobile, mentre «Sporco sionista» diventa magnificamente morale. Hamas con il sacrificio del popolo palestinese buttato allo sbaraglio, ridà onore all'antisemitismo.
Ci spiegano che Israele« non aspettava altro che un 7 ottobre per fare un genocidio». Se Israele volesse fare un genocidio, potrebbe farlo in sei giorni perché ha la capacità tecnica di farlo, non solo perché Hamas non ha la contraerei, ma perché tutta l'acqua che arriva a Gaza passa da Israele. Basterebbe che Israele chiudesse i rubinetti. Israele ha un'enorme potenza di fuoco e addirittura una potenza nucleare poteva bombardare a tappeto dall'alto, risparmiando i propri soldati. Al contrario ha fatto operazioni di fanteria perdendo 3.000 uomini proprio per minimizzare le perdite civili di Gaza.
Nella corsa a chi è il più antisemita del reame una speciale menzione spetta a tutti coloro che stanno pubblicando il video fatto in Siria il 22 agosto del 2013 dopo un bombardamento chimico. Fu colpita una scuola. Nel video si vedono i cadaveri allineati dei bambini: sono bambini uccisi con un bombardamento chimico, quindi non hanno segni di ferite. Nel video, ogni tanto nella parte alta a sinistra, si illuminava una scritta in caratteri arabi con la data, 22 agosto 2013. Tutti continuano a specificare che è lo Stato sionista a causare queste stragi a Gaza, incapaci persino di leggere la data. Peccato che nel 2013 nessuno di loro abbia protestato per i terrificanti massacri in Siria.
«Free Palestìne» è il nuovo grido degli assassini. Sui social scrivono che sono gli stessi sionisti ad aver assassinato i due funzionari per passare da vittime. Sono gli stessi che scrivono che il 7 ottobre è stata una burla. Al contrario, è nel mondo arabo che si comincia a prendere le distanze da questa follia. Addirittura nel mondo palestinese. Ahmed Fouad Alkhatib, palestinese, attivista per i diritti umani, blogger, ricercatore senior per il Medio Oriente dell'Atlantic council, ha scritto su X: «Liberate la Palestina dai folli uomini armati che propugnano la "liberazione della Palestìna"!». «L' omicidio criminale e la tragica uccisione di due membri del personale dell'ambasciata israeliana al Capitai jewish museum, durante un evento per giovani diplomatici dell'American jewish community (Ajc) a Washington Dc a cui avrei voluto partecipare con un collega, se non fosse stato per un
viaggio a New York, sono un orribile promemoria di un discorso israeliano e palestinese ormai in frantumi».
«Il vile aggressore, Elias Rodriguez, ha urlato: "Free free Palestine". Sebbene ci siano molte voci legittime che sostengono i diritti e le aspirazioni palestinesi, la questione e la causa palestinese sono tragicamente e dolorosamente diventate un terreno fertile per terroristi violenti e feccia squilibrata in tutto il mondo. Come può la popolazione di Gaza o della Palestina trarre beneficio da un atto di violenza così atroce e casuale? L'antisemitismo deve essere respinto; gli slogan e la retorica divisiva possono avere, e di fatto hanno, conseguenze mortali. Questo è davvero il momento giusto per chiarire che, indipendentemente dal problema o dalla causa che divide le varie comunità, dobbiamo opporci in modo chiaro e unito alla violenza politica di qualsiasi tipo. Chiunque cerchi di giustificare ciò che è accaduto o di fare acrobazie mentali in difesa di questo atto indifendibile è un autentico apologeta del terrorismo». Mentre la gallina di turno pubblica le foto delle stragi di Bashar Al Assad in Siria per invocare la distruzione di Israele dal fiume al mare, esistono uomini di buona volontà che cercano di costruire la pace.
Emergenza antisemitismo: lettera aperta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Carissimo Presidente Mattarella, mi rivolgo a lei, attento e severo custode della Costituzione, da cittadino italiano di origine ebraica, scampato alla morte mentre era nel ventre di sua madre, sfuggita fortunosamente alla cattura dei nazisti il 16 ottobre del 1943, per chiederle se il silenzio delle Istituzioni rispetto a recenti innumerevoli episodi di antisemitismo sia accettabile o debba invece essere oggetto del richiamo della suprema magistratura dello Stato.
Una domanda spontanea e non capziosa per dare tranquillità all’intera esigua, inerme, minoranza ebraica italiana, che pure ebbe grandi meriti nella costruzione dello Stato unitario nel Risorgimento e nella lotta partigiana per la riconquista della libertà, con un cospicuo numero di martiri.
Senza entrare nel merito del conflitto attualmente in atto in Medio Oriente, né della irrisolta diatriba tra antisionismo e antisemitismo, sono certo che lei sia a conoscenza di alcuni eclatanti episodi degli ultimi giorni, ma per esigenze di chiarezza glieli rammento.
I cartelli comparsi negli esercizi commerciali a Napoli, con conseguente discreto consiglio del prefetto agli ebrei di non indossare la kippah.
In una libreria Feltrinelli di Milano sono state rinvenute delle copie di un libro del premio Nobel Singer sulle quali sono stati incollati degli sticker antiebraici.
Al Salone del libro di Torino, a parte i tentativi di irruzione di propal, due conferenzieri ebrei hanno dovuto rinunciare ai loro interventi.
Questi sono solo alcuni dei più recenti, preceduti, come lei sa, dalle discriminazioni in varie scuole e università, dalle minacce a Sami Modiano e alla senatrice a vita Liliana Segre, da tempo sotto scorta.
Il nostro è uno Stato democratico che si alimenta della libertà di opinione, di stampa e di parola, mi chiedo se sia giusto soggiacere quando una parte, pur minoritaria, dell’opinione pubblica passa alle vie di fatto, impedendo ad altri di espletare i propri diritti di liberi cittadini o peggio trattandoli da quinte colonne di uno Stato straniero, cui tutti hanno diritto di rivolgere le proprie critiche, sia ben chiaro.
Presidente, lei sa quanto me che i primi provvedimenti assunti contro gli ebrei in Italia nel ‘38 riguardarono scuola e cittadinanza, forse sono ipersensibile, ma vedo spirare un brutto vento.
È chiedere tanto un suo intervento, pubblico, ufficiale, chiarificatore in proposito?
Rammento il suo riferimento a Stefano Gaj Tachè da lei definito ”un nostro bambino italiano” e l’incontro con i genitori del piccolo martire innocente, ucciso dal fondamentalismo, principale responsabile dell’odio che impedisce la pace tra Israele e i profughi arabi che attendono una soluzione dal 1948.
La prego intervenga come sa, lei che ha subito nei suoi affetti familiari le conseguenze dell’odio, dall’alto della sua funzione, ma anche della sua riconosciuta umanità ed equanimità. Con deferenza Stefano Piperno
Londra: un uomo toglie le mezuzot dalle case di ebrei
di Michelle Zarfati
Un uomo tenta di staccare una mezuzah
Nella zona di Golders Green, nel nord-ovest di Londra, un uomo è stato ripreso dalle telecamere mentre rimuoveva mezuzot dai telai delle porte di abitazioni di cittadini ebrei. Le immagini, che mostrano l’individuo estrarre un coltello per staccare con forza gli oggetti sacri, un gesto che ha suscitato profonda preoccupazione nella comunità ebraica locale, una delle più grandi e ortodosse del Regno Unito.
La mezuzah è un piccolo rotolo di pergamena con versetti biblici, custodito in un contenitore decorativo e fissato agli stipiti delle porte come simbolo di fede e protezione. La rimozione deliberata di questi oggetti è percepita come un atto di profanazione e intimidazione. Il gruppo di sorveglianza comunitaria Shomrim sta collaborando con la polizia locale per raccogliere prove e identificare il responsabile. Questo episodio si aggiunge a una serie di incidenti simili avvenuti negli ultimi mesi nella stessa area, tra cui atti vandalici contro attività commerciali ebraiche e aggressioni verbali e fisiche. La comunità ebraica locale ha espresso crescente preoccupazione per l’aumento degli episodi di antisemitismo e chiede maggiore protezione e vigilanza da parte delle autorità.
Jakub Klepek, amico di Yaron Lishinsky, vittima dell’attentato a Washington, racconta: “Ho perso un fratello”
di David Zebuloni
“Qui è tutto fantastico, davvero, proprio come avevo sognato. Sto lavorando ad alcuni progetti molto interessanti, soprattutto riguardo gli Accordi di Abramo e i processi di normalizzazione. Sono colmo di gratitudine. Ho anche una nuova fidanzata, quindi la mia vita non è affatto male”. Questo è stato l’ultimo messaggio inviato da Yaron Lishinsky al suo caro amico Jakub Klepek. Questa notte Yaron, 30 anni, e la sua compagna Sarah Lynn Milgram, 26 anni, sono stati assassinati in un attacco terroristico a colpi d’arma da fuoco davanti al Museo Ebraico a Washington. Entrambi lavoravano presso l’ambasciata israeliana della capitale americana. “Ho conosciuto Yaron per la prima volta all’università Reichman a Herzlya, dove abbiamo frequentato insieme un master in Scienze Politiche”, racconta Jakub con voce tremante, ancora incapace di credere alla tragedia che lo ha colpito. “Io ero il rappresentante della classe e lui era uno studente brillante ed energico, pieno di iniziative originali – ci siamo subito legati. Di solito ci incontravamo nel campus o a Gerusalemme, dove lui abitava. Amava leggere, era la sua più grande passione, e conosceva tutte le librerie migliori della città”. Lishinsky è cresciuto a Norimberga, in Germania, come cristiano evangelico, e all’età di 16 anni, mosso dal suo grande sentimento sionista e dal suo profondo legame con il popolo ebraico, ha deciso di trasferirsi in Israele. “Era così orgoglioso di far parte dello Stato di Israele, e io amavo condividere con lui pensieri, emozioni, intuizioni, idee”, continua Jakub. “Il modo in cui guardava la realtà mi affascinava. Era un fervente sostenitore degli Accordi di Abramo, un argomento che lo appassionava moltissimo”. Jakub Klepek, 27 anni, è nato e cresciuto in Polonia dove ancora oggi lavora come attivista nel campo della diplomazia pubblica e politica. In particolare, tratta la radicalizzazione dello hate speech e dell’antisemitismo sui social network. “Quando sono arrivato in Israele ero un po’ confuso – faticavo a comprendere la complessa realtà politica locale”, racconta Jakub sinceramente. “Yaron è stato il primo ad aiutarmi a capire cosa stava succedendo intorno a me. Era più di un amico per me, era come un fratello maggiore”. Oggi il giovane Klepek ricorda soprattutto il sorriso dell’amico perduto. “Era la cosa che più lo caratterizzava”, dice nostalgico. “Yaron era una persona sorridente e ottimista. Era anche molto diplomatico, sapeva sempre come comportarsi in ogni situazione. Era un uomo pieno di valori e molto rispettabile, nonostante la giovane età. Io non mi apro facilmente, ma Yaron era una delle poche persone con cui mi sentivo a mio agio a parlare di tutto. Sapevo che mi avrebbe accolto senza mai giudicarmi. Che si sarebbe preso cura di me e avrebbe agito per il mio bene. Mi fidavo di lui come ci si fida di un fratello maggiore”. Poco prima di finire gli studi in Israele e tornare in Polonia, Jakub ha incontrato Yaron per l’ultima volta. “Forse è il ricordo più intenso che ho di lui”, ricorda. “Eravamo seduti nella Città Vecchia di Gerusalemme, bevevamo un caffè nero e parlavamo del futuro. Volevamo fondare insieme un’azienda che aiutasse le persone a volare in sicurezza ovunque nel mondo. In quell’occasione, Yaron mi ha anche raccontato di aver superato tutte le fasi di selezione ed essere stato accettato per lavorare all’ambasciata israeliana a Washington. Era così felice”. Sì, Lishinsky ha realizzato il suo sogno servendo negli ultimi anni come assistente di ricerca per il Medio Oriente e il Nord Africa nel dipartimento politico di una delle ambasciate israeliane a Washington. Nel suo ruolo, era responsabile dell’aggiornamento continuo del personale diplomatico su eventi e tendenze nella regione, della redazione di ricerche geopolitiche, della gestione dei rapporti con rappresentanze straniere e think tank locali, e dell’assistenza nell’organizzazione di delegazioni in visita da Israele. A Washington, Yaron aveva anche trovato l’amore: Sarah Lynn Milgram z”l, con cui progettava di sposarsi a breve. La notte dell’attacco, Jakub si trovava in Germania. “Ero stato invitato a partecipare a una conferenza a Berlino e quando mi sono svegliato la mattina in hotel, ho acceso la TV e ho scoperto dell’attentato terroristico avvenuto a Washington”, racconta. “Il notiziario parlava di due giovani vittime. Non ho avuto il tempo di capire di chi si trattasse, ero molto di fretta e non sospettavo minimamente che Yaron fosse coinvolto nella tragedia. Poi, ho ricevuto una sua foto in uno dei tanti gruppi WhatsApp di cui faccio parte. Ero sotto shock. Rifiutavo ancora di credere che fosse lui. Pensavo fosse un errore. Ho scritto ad altri amici del corso universitario, e loro hanno confermato che si trattava di Yaron”. Ore dopo la tragedia, Jakub ancora fatica a credere che il peggio sia davvero accaduto. Cerca risposte a molte domande, ma non riesce a trovarle. “Sono molto confuso in questo momento, cerco soprattutto di capire cosa provo, e dentro di me scopro un dolore nuovo che non avevo mai provato prima”, confida. “Sono da anni coinvolto nel mondo dell’Hasbara e conosco bene la dura realtà con cui Israele deve confrontarsi. So cosa sia il lutto, ma questa è la prima volta che il lutto mi colpisce personalmente. Ed è sconvolgente”. Una cosa è certa per Klepek: il suo caro amico non verrà mai dimenticato. “Yaron era giovane, ma è riuscito a lasciare un’importante eredità morale”, vuole sottolineare. “Chiunque gli stava vicino conosceva bene i suoi valori, i suoi sogni, le sue aspirazioni. Io, noi, tutti gli amici, faremo il possibile per continuare il percorso di Yaron e dare significato a questa perdita così orribile e così assurda. Non ci arrenderemo, e certamente non ci piegheremo. Ci rialzeremo più forti e più uniti. Non dimenticheremo mai il nostro Yaron”.
Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner analizza la rottura tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu: aspettative deluse, falliti negoziati per il rilascio degli ostaggi e crescente influenza delle forze isolazioniste a Washington.
di Itamar Eichner
GERUSALEMME - All'inizio tutto andava per il meglio. Le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump hanno entusiasmato la destra israeliana. Ha promesso di aprire le “porte dell'inferno” su Hamas, ha annunciato di voler combattere l'antisemitismo nelle università e ha dichiarato che l'unica soluzione per Gaza era quella di trasferire tutti i gazawi in un paese terzo e trasformare la zona in un paradiso immobiliare. Ma lentamente le cose sono cambiate. La domanda sorge spontanea: perché? La risposta è complessa. Innanzitutto va detto che Trump non ama i perdenti. In Benjamin Netanyahu ha visto proprio questo: un perdente. Preferiva invece il principe ereditario Mohammed bin Salman dell'Arabia Saudita. A Netanyahu preferiva anche l'emiro del Qatarche gli ha persino regalato un aereo per la sua Air Force One. Trump ha una visione: estendere gli accordi di Abraham, raggiungere una normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, concludere un accordo nucleare con l'Iran, porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina e vincere il Premio Nobel per la Pace. Ma Putin e Zelenskyj lo hanno lasciato a bocca asciutta. E in Medio Oriente è stato Netanyahu a deluderlo, con la sua ostinazione a continuare la guerra a Gaza e a non parlare del “giorno dopo”. Questo ha allontanato i sauditi da una normalizzazione. Non possono tendere la mano a Israele finché la guerra continua, e certamente non finché Netanyahu non accetta una formula per un futuro Stato palestinese. Trump ha capito che se avesse aspettato Netanyahu, tutti i suoi piani sarebbero rimasti nel cassetto. Questo non gli va bene. Così ha deciso di lasciare Netanyahu alle spalle. Nel suo entourage si dice che Israele reagisce troppo lentamente e dice no a tutto. La metafora è chiara: un treno sta lasciando la stazione. Se Israele vuole salire, può farlo più tardi. Ma non si aspetterà. Dietro le quinte, nel campo di Trump infuria una lotta di potere per chi ha maggiore influenza sulla politica mediorientale. Da una parte ci sono i classici repubblicani filoisraeliani: il consigliere per la sicurezza Robert O'Brien, il segretario di Stato Marco Rubio e l'ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee, fervente sostenitore degli insediamenti. E poi ci sono gli isolazionisti: il vicepresidente JD Vance, che ha annullato la sua visita in Israele quando è diventato chiaro che Israele voleva estendere i combattimenti a Gaza e che lui avrebbe potuto essere strumentalizzato. E Steve Witkoff, l'inviato speciale personale di Trump, forse la persona più vicina al presidente. Witkoff è un personaggio particolare. Chi ha parlato con lui riferisce che considera la sua missione di liberare gli ostaggi quasi un compito mistico. La morte di suo figlio lo ha legato profondamente alle famiglie degli ostaggi. Ha promesso loro di fare tutto il possibile per riportare a casa i loro figli. E in effetti, con l'aiuto di un uomo d'affari americano di origini arabe come mediatore, è riuscito a ottenere il rilascio del soldato americano-israeliano Edan Alexander dalla prigionia di Hamas. Witkoff credeva che questo avrebbe spianato la strada a un accordo più ampio. Ma si è scontrato con un muro insormontabile: Hamas ha chiesto agli Stati Uniti garanzie chiare per la fine della guerra. Netanyahu si è rifiutato. Hamas ha capito che la tattica di Netanyahu è quella di ridurre il numero degli ostaggi senza porre fine alla guerra. Un fidato collaboratore di Netanyahu ha ammesso che in Israele è opinione comune che l'ultimo ostaggio potrà essere liberato solo con un'operazione militare, non con un accordo. Dal punto di vista di Hamas, infatti, gli ostaggi sono la loro ultima assicurazione sulla vita. Non li avrebbero liberati senza garanzie da parte degli Stati Uniti sulla fine della guerra. Hanno persino chiesto che Witkoff firmasse l'accordo. Volevano una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Israele ha rifiutato. I rappresentanti del governo statunitense hanno accusato Israele di aver fatto fallire i negoziati rifiutando un accordo globale. Israele respinge queste accuse e sottolinea di aver accettato un accordo, a condizione che Hamas deponga le armi, lasci Gaza e liberi tutti gli ostaggi. Nel frattempo, la delegazione israeliana è stata richiamata da Doha. I colloqui sono sospesi e Israele intensifica la guerra a Gaza. Ma la domanda rimane: ha senso che alla fine muoiano più soldati che ostaggi liberati? In Israele si guarda ora con preoccupazione ai negoziati tra Stati Uniti e Iran. Negli ultimi giorni Trump sembra aver inasprito la sua posizione, rifiutando di concedere all'Iran la possibilità di arricchire l'uranio in modo indipendente. Teheran, dal canto suo, ha dichiarato che ciò è inaccettabile. Rimane la domanda: Trump manterrà la sua minaccia di bombardare gli impianti nucleari iraniani se l'Iran non accetterà di smantellare il suo programma nucleare? Secondo alcune fonti, Israele si starebbe preparando a un attacco militare contro l'Iran se non si raggiungesse un accordo. Forse gli Stati Uniti attaccheranno insieme a Israele. Ma forse alla fine Washington raggiungerà un accordo e Israele lo rifiuterà. Netanyahu sarà allora disposto ad attaccare l'Iran contro la volontà di Trump? I dubbi sono leciti. Sembra che oggi le forze isolazioniste nel campo di Trump abbiano più influenza dei tradizionali amici di Israele. E non bisogna dimenticare che Trump persegue una politica estera orientata all'economia, che dovrebbe portare successi economici alla sua famiglia e agli Stati Uniti.
(Israel Heute, 23 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nel cuore dell’antica Gerusalemme, una scoperta straordinaria ci riporta indietro di oltre 2.000 anni. Durante recenti scavi nella Città di David, all’interno del Parco Nazionale delle Mura di Gerusalemme, è emerso un anello d’oro con una gemma rossa. Si tratta del secondo ritrovamento di questo genere in meno di un anno, un evento che sta illuminando i frammenti di vita risalenti all’epoca ellenistica nella città santa.
La scoperta è avvenuta durante scavi archeologici condotti dalla Israel Antiquities Authority (IAA) in collaborazione con l’Università di Tel Aviv e il sostegno dell’Associazione Elad. Il gioiello è stato rinvenuto insieme ad altri oggetti di grande valore – orecchini in bronzo e oro e una perla decorata – nascosti sotto le fondamenta di un grande edificio. Gli archeologi ritengono che questi tesori non siano stati persi o abbandonati, ma sepolti intenzionalmente.
Secondo la dottoressa Marion Zindel e l’archeologo Yiftah Shalev, la posizione degli oggetti sotto il pavimento dell’edificio suggerisce una pratica rituale ben precisa. In epoca ellenistica, infatti, era diffusa l’usanza per cui le giovani promesse spose seppellivano oggetti d’infanzia e gioielli nelle fondamenta delle nuove case, come simbolo del passaggio all’età adulta, riflettendo nel rito la speranza di un futuro prospero.
“È la prima volta che troviamo a Gerusalemme un insieme così ampio di gioielli in oro di questo periodo,” ha dichiarato Efrat Bocher del Centro di Ricerca su Antica Gerusalemme. “Una tale manifestazione di ricchezza è molto rara”. Gli ornamenti riflettono il gusto estetico dell’epoca, in cui l’oro veniva impreziosito da pietre colorate come la granata. Lo stile mostra chiaramente l’influenza delle culture orientali, in particolare indiana e persiana, grazie all’apertura dei canali commerciali seguita alle conquiste di Alessandro Magno.
Rivka Lengler, presente al momento del ritrovamento, ha raccontato come l’esperienza l’abbia resa parte della sua stessa storia, spiegando come abbia avuto la sensazione di poter toccare e connettersi con le persone che vivevano la terra migliaia di anni fa.
Anche Eli Escusido, direttore della IAA, ha sottolineato il valore simbolico della scoperta: “La ‘Gerusalemme d’oro’ non è solo una canzone, ma un fatto storico sotto i nostri piedi. La scoperta degli anelli d’oro è una prova tangibile della ricchezza, della bellezza e dell’importanza di Gerusalemme anche migliaia di anni fa”.
Questo secondo anello ritrovato in meno di un anno conferma, quindi, l’importanza di Gerusalemme come crocevia culturale e centro prospero anche in epoca ellenistica. Ogni oggetto ritrovato permette di ampliare la nostra conoscenza storica e ricuce un legame intimo con le persone che hanno vissuto, amato e sperato in questa città millenaria. E sotto ogni pietra, forse, si cela ancora una storia pronta a essere raccontata.
Un tentativo terrificante di rendere cool l’antisemitismo”
Il database CyberWell condanna il nuovo brano di Ye, “Heil Hitler”
di Pietro Baragiola
«La nuova canzone Heil Hitler di Ye (il rapper noto anche come Kanye West) rappresenta un ultimo terrificante tentativo di ‘rendere cool il razzismo’». Lo ha detto, martedì 13 maggio. Tal-Or Cohen Montemayor, fondatrice e direttrice esecutiva di CyberWell, l’organizzazione no profit che funge da primo database mondiale per la lotta all’antisemitismo online. Il video musicale del brano, pubblicato in rete l’8 maggio in occasione dell’80° anniversario della sconfitta della Germania nazista, include persino un frammento audio di un discorso di Adolf Hitler ed oggi ha superato le 10 milioni di visualizzazioni su X. “Ye ha sfruttato la carica algoritmica e l’ampia portata delle piattaforme di social media per normalizzare e diffondere l’odio verso gli ebrei attraverso la cultura pop, raggiungendo milioni di persone” ha affermato Montemayor sul sito di notizie Algemeiner. “È necessaria una risposta decisa da parte delle diverse piattaforme di streaming per risolvere una volta per tutte il problema dell’antisemitismo digitale”. Da quando Elon Musk ha acquistato Twitter nel 2022, ribattezzandolo X, si è posizionato come ‘paladino della libertà di espressione’, liberalizzando così l’uso di discorsi volti all’incitamento dell’odio e alla diffusione di disinformazione sulla sua piattaforma. Il comportamento decisamente antisemita di Ye ha spinto molti personaggi pubblici come l’attore David Schwimmer e organizzazioni come la Campaign Against Antisemitism e la StopAntisemitism a criticare apertamente X per non aver ancora estromesso definitivamente il rapper. “Ye ha il doppio dei follower su X rispetto a tutti gli ebrei sulla terra messi insieme” ha affermato un portavoce di StopAntisemitism ad Algemeiner. “La sua ossessione per noi non è solo folle ma pericolosa. Deve essere rimosso dalla piattaforma prima che la sua retorica violenta si trasformi in azioni dello stesso tipo”.
• L’antisemitismo di Ye 47 anni, 24 Grammy e 37 milioni di follower, Ye era uno dei musicisti più popolari e influenti al mondo prima di abbracciare pubblicamente le idee filonaziste. Da allora ha perso il sostegno dell’industria musicale e, secondo quanto afferma, la custodia dei figli dall’ex moglie Kim Kardashian, continuando a diffondere antisemitismo nonostante le occasionali promesse di smettere. A febbraio il suo account su X è stato disattivato dopo aver inondato il social con sfoghi antisemiti in cui egli stesso si definiva ‘nazista’. In questa occasione il sito web del suo celebre marchio di sneakers, Yeezy, è stato chiuso da Shopify per ‘violazione dei termini’ dopo aver scoperto che il rapper aveva messo in vendita diverse magliette bianche con la svastica per le quali aveva persino acquistato spazi pubblicitari durante il Super Bowl. Già nel 2022 Ye era stato bannato per quasi otto mesi da X per aver violato le regole che vietano l’incitamento alla violenza sulla piattaforma. In seguito a questo comportamento ha perso una serie di partnership con marchi e opportunità professionali, in particolare con il gruppo Adidas con cui aveva un accordo da 2 miliardi di dollari all’anno. La fine di questa partnership decennale è costata molto ad Adidas che però, sotto la guida di Bjorn Gulden, ha deciso di vendere le scorte di Yeezy e donare il ricavato a gruppi che lottano contro l’odio e la discriminazione: 200 milioni all’Adidas Foundation e i restanti 50 ad associazioni come l’Anti-Defamation League e la Foundation to Combat Antisemitism sostenuta da Robert Kraft. Queste reazioni ai suoi commenti non hanno impressionato Ye che negli ultimi mesi aveva già preannunciato l’uscita del brano Heil Hitler affermando: “normalizzerò il parlare di Hitler. Era davvero un umano innovativo”. Il nuovo video musicale ha come protagonisti decine di uomini di colore, vestiti con pelli di animali e maschere, che cantano il titolo della canzone mentre West rappa sul fatto di sentirsi incompreso e sulla sua battaglia per la custodia dei figli contro l’ex moglie. “Amico, queste persone mi hanno portato via i miei figli, poi mi hanno congelato il conto in banca” canta Ye. “Ho tanta rabbia dentro di me, non ho modo di sfogarla. Penso di essere bloccato nel Matrix. Così sono diventato un nazista. Sì, stronza, sono io il cattivo. All my niggas Nazis, nigga, heil Hitler”. Il brano si conclude con un lungo estratto di un discorso di Hitler del 1935 che Ye ha anche ripostato sul suo account X: “che pensiate che il mio lavoro sia giusto, che crediate che io sia stato diligente. Che io abbia lavorato, che io abbia lottato per voi in questi anni, che io abbia usato il mio tempo in modo dignitoso al servizio del mio popolo. Ora votate, se sì, allora difendetemi come io ho difeso voi”. Secondo quanto anticipato dal team di Ye la canzone Heil Hitler sarà inclusa nel suo prossimo album Cuck insieme ad altri brani controversi come Gas Chambers, WW3 e Hitler Ye and Jesus. “Questo album è un esempio palese di antisemitismo ed è disgustoso” ha dichiarato il CEO dell’American Jewish Committee Ted Deutch in un comunicato rilasciato in questi giorni. “Ye sta approfittando dell’odio verso gli ebrei e l’industria musicale deve farsi sentire per condannare questa oscenità”. Nonostante molti pareri contrari, diversi personaggi pubblici hanno sostenuto il nuovo brano di Ye, tra cui il podcaster Joe Rogan che lo ha definito ‘piuttosto orecchiabile’, il comico e attore Russel Brand che ne ha elogiato il ‘buon ritornello’ e il suprematista bianco e negazionista dell’Olocausto Nick Fuentes, che è apparso in più occasioni affianco a Ye mentre indossa una collana con svastica tempestata di diamanti. Fuentes ha anche utilizzato il proprio profilo X per complimentarsi con il rapper per il nuovo brano, affermandosi entusiasta: “immaginate 50.000 persone in uno stadio in piedi che cantano ogni parola”. Una visione che CyberWell si augura di non veder mai diventare realtà.
• L’attività di CyberWell Il database di CyberWell ogni giorno collabora con le principali piattaforme di social media per identificare e rimuovere i contenuti di natura antisemita. I suoi programmi basati sull’intelligenza artificiale scansionano i social in inglese e arabo alla ricerca di post che promuovono la negazione dell’Olocausto e l’odio o la violenza contro gli ebrei. Una volta trovati questi contenuti, gli analisti li segnalano ai moderatori delle piattaforme su cui vengono individuati. Sulla base di queste segnalazioni, Spotify e SoundCloud hanno rimosso il brano di Ye dai loro siti ma versioni alternative e modificate sono state condivise dai fan e possono essere tutt’ora presenti. Lo stesso vale anche per YouTube e Apple Music, dove un fan di Ye ha ripostato la canzone con il titolo HH ma, dopo giorni di ricerca, è stata finalmente rimossa. “Abbiamo rimosso il contenuto e continueremo a cancellare i re–upload” ha dichiarato un portavoce di YouTube a NBC News. Su Reddit, invece, diverse versioni della canzone sono state condivise in subreddit dedicati a Ye e ad altri rapper. Un portavoce del sito ha informato NBC News che Reddit sta lavorando attivamente per rimuovere tutti i contenuti e i post che riguardano il nuovo brano: “l’odio e l’antisemitismo non hanno assolutamente posto su Reddit. Abbiamo regole severe contro i contenuti che incitano all’odio. In linea con queste stiamo rimuovendo la canzone e qualsiasi celebrazione del suo messaggio”. Anche se YouTube, Reddit e TikTok hanno compiuto tentativi rapidi e chiari per demonetizzare gli account di Ye e rimuovere la canzone su larga scala, altre piattaforme come Facebook, Instagram e X non sono riuscite a fare granché per moderare questi contenuti. Montemayor ha condannato apertamente queste piattaforme per la loro esitazione nel rimuovere il brano nonostante violi chiaramente le loro politiche sulla negazione e distorsione dell’Olocausto: “la risposta, o la mancanza di risposta, da parte di alcune piattaforme a questo ultimo attacco di odio è una prova del nove per capire quanto prendano sul serio la questione dell’antisemitismo e della sicurezza delle piattaforme.” Concludendo la sua dichiarazione, la fondatrice di CyberWell ha promesso il suo impegno nel continuare ad assistere tutte le piattaforme streaming nell’ottimizzare la loro risposta al video di Ye, fornendo una guida chiara sulle moderne manifestazioni dell’antisemitismo e come comportarsi per debellarlo dal mondo digitale.
Il conformismo e l’uomo massa ovvero delle loro declinazioni lessicali
di Gustavo Micheletti
Esiste forse una parola della lingua italiana che, più di altre, condensa la tendenza umana ad aderire acriticamente all’opinione prevalente, e questa parola è «conformismo». Tuttavia, per quanto sia efficace, da sola non riesce a restituire la varietà di sfumature morali, psicologiche e culturali che connotano tale atteggiamento. In certi contesti, infatti, il conformismo si fa «gregarismo», ovvero sottomissione cieca al gruppo, alla massa.
Elias Canetti, nella sua opera Massa e potere, spiega bene come l’individuo, annullato nella folla, possa perdere ogni senso critico assumendo un’identità collettiva capace di ogni eccesso gregario. Altre volte, tende invece a incarnare le vesti più vischiose della piaggeria, come quando l’adesione non è solo passiva, ma compiacente, calcolata, volta a ottenere consenso o a evitare il rischio dell’esclusione. Non meno diffusa è l’«acquiescenza», che non ha bisogno di motivazioni ideologiche: essa si limita ad accettare, ad arrendersi al clima culturale dominante, per stanchezza, tornaconto, viltà o semplice desiderio di quieto vivere.
Queste declinazioni del conformismo trovano un potente riflesso filosofico in ciò che Hannah Arendt definisce come la «banalità del male». Durante il processo ad Adolf Eichmann, osservando l’imputato, la Arendt non scorgeva in lui un mostro, ma un uomo mediocre, ordinario, incapace di pensiero autonomo. Era un burocrate diligente che aveva eseguito ordini con scrupolo, senza interrogarsi sulle conseguenze etiche delle sue azioni.
Il “male” infatti non si manifesta solo in figure diaboliche o scellerate, ma soprattutto in uomini comuni che smettono di pensare, di riflettere, e che non riescono a giudicare senza incasellare in formule riduttive, indifferenti o sprezzanti verso quanto non è espressione dello spirito del tempo o del proprio habitat sociale. In questo senso, la «banalità del male» è la forma estrema del conformismo: quella in cui l’individuo delega completamente la propria responsabilità morale alla struttura, all’ideologia, al contesto ideologico e culturale.
Pier Paolo Pasolini, in vari suoi Scritti corsari e nelle sue Lettere luterane, ha denunciato con grande coraggio intellettuale un nuovo tipo di conformismo: non quello clericale e conservatore, ma quello consumistico e progressista, che travolge ogni resistenza critica in virtù del desiderio di appartenere, di essere accettati da una maggioranza che asseconda dei paradigmi introiettati in genere in maniera piuttosto acritica. È un conformismo più insidioso, perché si traveste da libertà e da modernità. Anche Pasolini, come la Arendt, ha intuito che il “male” può assumere tratti normali, quotidiani, socialmente gratificanti.
Quando le proprie posizioni su temi politici e sociali non sono più oggetto di una scelta razionale e quando non scaturiscono da un confronto argomentato, ma sono semplicemente effetto di imitazione, ogni deviazione dal politicamente corretto può diventare sospetta e perfino sovversiva.
La società, in questi casi, premia chi si confonde nel paesaggio delle mode culturali e ideologiche. Il «collaborazionismo» rappresenta forse, in tali circostanze, la forma più attiva e strategica di questa adesione: non più solo passiva sottomissione, ma partecipazione interessata, calcolo, alleanza con chi sa lusingare le masse anche a costo di calpestare la verità o la giustizia.
In tutti questi casi, ciò cui si rinuncia è l’autonomia del pensiero, che per quanto non esista in forma assoluta può sussistere in misura significativamente diversa e che dovrebbe invece essere sollecitata ed esercitata per non divenire una virtù intellettuale astratta e fittizia, oltre che improbabile e sempre più remota.
Come ricordava Simone Weil, il primo atto di libertà è il silenzio interiore, il tempo per riflettere, e oggi quel tempo sembra ormai frammentato, anche grazie alla diffusione di internet e dei social networks, in mille schegge incapaci di coordinarsi in modo razionale, in mille frasi fatte e stereotipati pregiudizi. Inoltre, nel frastuono collettivo, quel silenzio è spesso temuto o ridicolizzato.
La cultura politica contemporanea, pur celebrando per altri versi l’individuo, spinge in realtà verso forme di «omologazione» sempre più sofisticate. E così il “male” non appare più come l’eccezione, ma come la norma che può dormire sonni tranquilli nella falsa coscienza collettiva, camuffato spesso da nobili ideali, o da buonsenso, o dal “così fan tutti”.
Riconoscere questo meccanismo è oggi un esercizio essenziale di consapevolezza. Non per ergersi a giudici degli altri, ma per non cedere noi stessi alla tentazione rassicurante dei buoni propositi rassicuranti, soprattutto quando essi corrono in realtà il rischio di rivelarsi cinici o ciechi riguardo ai modi in cui potrebbero realizzarsi. In un simile contesto, e cioè in tempi di menzogna universale, come suggeriva George Orwell, dire la verità è già un atto rivoluzionario.
A completamento di questo quadro, meritano di essere richiamate anche le riflessioni di José Ortega y Gasset e Gustave Le Bon, due pensatori che hanno scandagliato con rigore la psicologia delle masse. Gustave Le Bon, nella Psicologia delle folle, osserva come l’individuo, una volta immerso nella massa, perda il senso di sé, si lasci trascinare dall’inconscio collettivo e venga privato dell’autocontrollo.
Ne nasce una folla dominata dall’irrazionalità, dal contagio emotivo, dalla suggestionabilità e dall’intolleranza. La massa diventa facilmente orientabile da fattori esterni, specie dal prestigio di chi riesce a imporsi come figura carismatica, e la concreta possibilità di derive populiste e demagogiche di ogni tipo è allora in agguato dietro l’angolo.
Ortega y Gasset, facendo riferimento anche al saggio di Le Bon, ne La ribellione delle masse introduce il concetto di «uomo-massa», un individuo che, pur appartenendo a qualsiasi classe sociale, si caratterizza per la mancanza di disciplina interiore e per l’incapacità di affrontare responsabilmente le sfide della vita. Secondo Ortega, l’uomo-massa si sente pieno di diritti ma privo di doveri, un aspetto questo sottolineato in un altro contesto teorico anche da Simone Weil, e tende a imporre la propria mediocrità come norma, soffocando le minoranze eccellenti che sono invece le portatrici della cultura e del progresso. È un atteggiamento spirituale e culturale che minaccia la qualità della vita pubblica e più in generale qualsiasi forma di reale condivisione dei valori democratici.
Sia Le Bon sia Ortega denunciano l’impoverimento dell’individuo di fronte alla potenza livellante della folla e dell’opinione dominante anticipando, seppur in forme diverse, quel vuoto malleabile della coscienza che Hannah Arendt avrebbe poi descritto come la radice della banalità del male.
Anche nelle loro opere, come in quella della Arendt, torna infatti il nodo decisivo: la diffusa perdita di capacità critiche tende a produrre anche la rinuncia alla responsabilità personale e l’abdicazione all’esercizio di quella che Jurgen Habermas chiama «ragione comunicativa», esercizio che è invece assolutamente necessario implementare se si vuole evitare la subordinazione d’interi popoli alle varie forme di autoritarismo che oggi minacciano la loro propensione a convivere da cittadini liberi, in modo autenticamente democratico e civile.
In nome di un imprecisato senso di appartenenza – che è tanto più pericoloso in quanto risulta di per sé efficace e gratificante, dato che costituisce la conseguenza implacabile di quell’essenziale spirito gregario sui cui effetti deleteri Nietzsche ci aveva avvertito con largo anticipo – proprio mentre la «ragione comunicativa» viene vieppiù dismessa si assiste a l’iperbolico sviluppo di quella che, sempre Habermas, chiama «ragione strumentale», e se l’implementazione di quest’ultima non costituisce di per sé un fatto negativo, la susseguente perniciosa illusione che possa garantire comunque all’umanità sorti sempre più «magnifiche e progressive» potrebbe contribuire all’abbandono di ogni residuale capacità critica e rivelarsi un fatale errore di prospettiva.
Che cosa vi aspettavate, razza di pelosi ipocriti che non siete altro, allevati e pasciuti nei media, nella cultura e nella politica d’Italia e dell’Occidente? Che non ci fosse qualcuno pronto a raccogliere il testimone degli insulti, delle minacce, degli incitamenti alla violenza antisionista e antisemita e passare all’azione per sparare e uccidere? A Washington è accaduto semplicemente quello che doveva accadere, perché quando si semina odio si raccoglie tempesta. E poco importa se a uccidere due ragazzi ebrei che stavano per recarsi a Gerusalemme la prossima settimana a dichiararsi il loro amore, sia stato un «pazzo» – come vi piace dire in queste ore per mettere a tacere la vostra coscienza, se ancora ne possedete una – oppure il terminale organizzato di una catena terroristica.
• Il clima d’odio mai così visibile Quello che è certo è che il velenoso fiume carsico di giudeofobia, che scorre nel sangue malato dell’umanità da duemila anni, non è mai stato così visibile, diffuso e pervasivo come negli ultimi mesi. Una realtà che va oltre le statistiche. Un clima di odio e di paura che coinvolge la quotidianità di milioni di persone, lambisce le istituzioni e interroga la nostra coscienza collettiva. Nel 2024, nella sola Italia, sono stati censiti 877 episodi di antisemitismo, quasi il doppio rispetto al 2023. Di questi, 600 sono cresciuti nelle fogne dell’online, veicolati da hashtag e slogan che glorificano il terrorismo e demonizzano Israele e il popolo ebraico. Mentre i 277 episodi «materiali» vanno dalle aggressioni fisiche (da 32 a 68 in un anno), alle scritte e ai simboli nazisti su edifici e cimiteri, alle minacce dirette a studenti, docenti e membri delle comunità ebraiche, a boicottaggi e discriminazioni nei luoghi pubblici e nelle università. Il 94% degli ebrei italiani dichiara di aver subito almeno un episodio di antisemitismo nell’ultimo anno. In alcune città, studenti ebrei e israeliani hanno dovuto nascondere la propria identità o cambiare scuola per paura di ritorsioni. La distribuzione dei periodici delle comunità ebraiche avviene in modo clandestino, per evitare reazioni ostili.
• L’esplosione nelle manifestazioni pubbliche L’antisemitismo è esploso poi nelle manifestazioni pubbliche, dove la critica (legittima) alla politica israeliana si trasforma in odio antiebraico alimentato da gruppi estremisti, dal falso storico che equipara il «sionismo» al razzismo o al colonialismo, e da guitti politici alla Conte che soffiano sul fuoco per un voto in più da recuperare nella melma. Nel mondo, dopo il 7 ottobre 2023, l’escalation globale dell’antisemitismo ha riguardato – dicono i tanti dossier – la Francia, la Germania, il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, l’Argentina, la Svizzera, la Spagna, con aggressioni fisiche, vandalismi a sinagoghe e cimiteri, minacce, discriminazioni, boicottaggi, oltre alla solita valanga di odio online. In Svizzera, i casi sono aumentati del 42,5% nel 2024 rispetto all’anno precedente; in Francia, gli episodi sono più che quadruplicati; in Germania, tra ottobre 2023 e gennaio 2024, si sono registrati quasi tanti episodi quanti in tutto il 2022. Negli Stati Uniti, nei campus universitari si moltiplicano le intimidazioni, e le minacce contro studenti ebrei sono all’ordine del giorno. Perché il salto di qualità dell’antisemitismo dei nostri tempi è che non occupa più soltanto i margini della società, ma si è infiltrato nei rami alti, dalle Università alle scuole, ai social network, ai media, ai luoghi di lavoro, per sfociare nei salotti buoni in cui è obbligatorio pronunciare la frase chiave: «Io antisemita? Nemmeno per idea, starei con Israele però stanno esagerando, però Netanyahu…». Le stesse cose che sentivo dire da ragazzo, quando gli odiati erano Golda Meir, e poi via via i Begin, i Barak e gli Sharon: tutti urticanti e fastidiosi solo perché combattevano per la sopravvivenza di Israele.
• Aspettando le prossime vittime Ora la guerra di Gaza ha fatto riemergere le radici profondissime di un odio che si alimenta delle più nefaste teorie cospirazioniste e negazioniste e di quella retorica della «colpa collettiva» che è la più atroce delegittimazione dell’identità ebraica. Per questo non ci stupisce affatto l’episodio di Washington, «ordinaria» messa in pratica di subculture primitive. E, mentre aspettiamo le prossime vittime e le prossime giaculatorie delle anime belle, non possiamo fare altro che continuare la nostra piccola battaglia quotidiana in difesa di quegli elementari e basilari principi di civilizzazione che portano scritti a caratteri cubitali la parola «Israele».
Attentato antisemita a Washington: uccisi due diplomatici israeliani
di Luca Spizzichino
Due giovani funzionari dell’Ambasciata di Israele negli Stati Uniti sono stati assassinati mercoledì sera nei pressi del Capital Jewish Museum, nel cuore di Washington DC. L’attentato è avvenuto al termine di un evento organizzato dall’American Jewish Committee (AJC), come ha confermato il CEO Ted Deutch in una nota. “Una serata di diplomazia e dialogo si è trasformata in un incubo. Questo è un attacco all’intera nostra comunità. Piangiamo due amici e partner preziosi” ha dichiarato Deutch, che ha aggiunto: “Siamo sconvolti dalla brutale uccisione di due giovani impegnati nella costruzione di ponti tra Israele e il mondo. L’odio antisemita non può trovare spazio in una società libera. La memoria di Sarah e Yaron sarà per sempre un simbolo di impegno, pace e speranza”.
Le vittime sono Yaron Lischinsky, 28 anni, e Sarah Milgrim, funzionari della missione diplomatica israeliana. Entrambi erano presenti alla serata in rappresentanza dell’ambasciata. I due, che, secondo l’ambasciatore israeliano Yehiel Leiter stavano per fidanzarsi, sono stati raggiunti da colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata mentre lasciavano l’edificio. Sarah Milgrim lavorava nel dipartimento per la diplomazia pubblica. Aveva conseguito due lauree magistrali in studi internazionali e sviluppo sostenibile. Il suo impegno nella promozione del dialogo interreligioso e nella cooperazione ambientale era al centro della sua attività professionale. Yaron Lischinsky, invece, lavorava nel dipartimento politico dell’ambasciata. Laureato in Relazioni Internazionali e specializzato in Diplomazia e Strategia, era un convinto sostenitore degli Accordi di Abramo e dell’importanza del dialogo interculturale nel Medio Oriente.
Il Capo della Polizia Metropolitana di Washington, Pamela Smith, ha definito l’attacco “un crimine d’odio alimentato da antisemitismo”. Ha aggiunto che le autorità federali stanno collaborando per chiarire ogni aspetto dell’attentato. Il responsabile dell’attacco è stato identificato come Elias Rodriguez, 30 anni, residente a Chicago. Secondo la polizia, l’uomo ha aperto il fuoco contro un gruppo di partecipanti all’evento, gridando slogan antisemiti e filopalestinesi. Dopo aver sparato, è entrato nel museo dove è stato fermato dalla sicurezza e ha ammesso la propria responsabilità gridando “Free Palestine”. Rodriguez, secondo fonti investigative, era legato a un gruppo estremista di estrema sinistra con posizioni radicali contro Israele. In passato aveva partecipato a proteste organizzate dalla Party for Socialism and Liberation, una formazione marxista-leninista. Proprio il giorno dell’attentato, il gruppo aveva pubblicato online una petizione per boicottare Israele, parlando di “genocidio contro i palestinesi”.
L’attacco ha immediatamente suscitato la condanna unanime delle istituzioni americane e israeliane. Il presidente Donald Trump ha definito l’episodio “un orrore assoluto”, affermando che “queste uccisioni basate sull’antisemitismo devono finire adesso”. Anche la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, spesso critica verso le politiche israeliane, ha condannato con fermezza l’attacco: “Assolutamente nulla giustifica l’omicidio di innocenti. L’antisemitismo è una minaccia per tutta la nostra società. Deve essere affrontato e sradicato ovunque.”
Il Presidente israeliano Isaac Herzog ha espresso “profondo cordoglio” alle famiglie, ricordando che “Israele e Stati Uniti resteranno uniti contro l’odio e il terrorismo”. Danny Danon, ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, ha definito la sparatoria un “atto depravato di terrorismo antisemita”. “Fare del male alla comunità ebraica significa oltrepassare una linea rossa. Siamo fiduciosi che le autorità statunitensi intraprenderanno azioni forti contro il responsabile di questo atto criminale. Israele continuerà ad agire con determinazione per proteggere i propri cittadini e rappresentanti, ovunque nel mondo”, ha aggiunto. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso profondo shock per l’attentato antisemita, che è frutto della “selvaggia istigazione” contro Israele e ha ordinato un rafforzamento della sicurezza nelle missioni diplomatiche del Paese in tutto il mondo.
(Shalom, 22 maggio 2025)
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L’onda di odio che fomenta gli assassini
I mandanti morali della loro uccisione, coloro che armano le mani di esaltati, psicotici, uomini ordinari intenti a un giorno o a una notte di ordinaria follia, sono coloro che da mesi e mesi, continuano a ripetere che Israele è uno Stato genocida, che affama i bambini, che ama uccidere i bambini, che con deliberata e sadica efferatezza gli spara in testa a bruciapelo come scrive in un suo libro, chiamiamolo libro, la giornalista glamour Rula Jebreal, che li uccide per hobby come ha detto Yair Golan, ex ufficiale di alto rango dell’IDF, ora politico di quarta fila in una formazione di estrema sinistra, per poi, dopo la profonda indignazione suscitata in Israele dalle sue parole, arrampicarsi penosamente sugli specchi affermando che no, lui non voleva dire che l’esercito israeliano uccide i bambini per sport, ma voleva attaccare il governo in carica.
Qui in Italia, abbiamo solo da scegliere tra chi ogni giorno provvede a sostenere la narrativa di un Paese mostruoso che affama e uccide i bambini (quelli che sono stati uccisi con vero sadico diletto da i jihadisti di Hamas, tra cui il piccolo Bibas, strangolato a mani nude).
Tra di loro, Alessandro Orsini, che è stato denunciato dalla Comunità ebraica di Roma per istigazione all’odio razziale per i suoi deliranti post contro Israele.
Qualcuno poi, convinto effettivamente che gli israeliani uccidono i bambini per diletto, che siano demoni, prende in mano un fucile o una pistola, e spara contro i “demoni”. I demoni ebrei. E su questa falsariga appare tra le abituali sconcezze pubblicate ogni giorno sui social, un post a firma di dejalanuit ovvero, Giuseppe Flavio Pagano responsabile comunicazione della biblioteca delle oblate di Firenze, in cui Fiamma Nirenstein viene paragonata a un demone e insultata in quanto “verme nazista”.
Il copione è sempre quello. Prima si deumanizza con le parole, poi dopo, l’ebreo ridotto a scarto o mostro, si provvede a eliminarlo, come è successo a Washington.
Se l’obiettivo della guerra contro Hamas, iniziata da Israele a seguito dell’eccidio da esso perpetrato il 7 ottobre 2023, era di sconfiggere il nemico, come è di prassi l’obiettivo di ogni guerra, dopo diciassette mesi non è stato raggiunto. È inutile consolarsi sottolineando che Hamas è stato fortemente depotenziato, che i suoi principali leader sono stati uccisi, che la sua struttura militare operativa è stata ridotta notevolmente, che non è più in grado di lanciare migliaia di razzi su Israele, che non governa più tutta la Striscia ma solo parte di essa. Hamas è ancora in piedi e ancora in grado di combattere nonostante le vaste perdite e la ingente diminuzione della sua capacità aggressiva. La vittoria, dunque non può essere ancora proclamata.
Se l’altro obiettivo della guerra era la liberazione dei 251 ostaggi detenuti da Hamas, nonostante la maggioranza di essi sia stata liberata, senza contare quelli uccisi, nella Striscia ne permangono su 58, ancora 21 vivi. Anche questo obiettivo non è stato raggiunto totalmente.
Allo stesso tempo, a Gaza, ridotta in buona parte ad un ammasso di macerie, la popolazione si trova a doversi confrontarsi con le inevitabili condizioni drammatiche della guerra. Dopo avere provveduto con regolarità ad inviare centinaia di camion contenenti viveri, per due mesi Israele aveva deciso di sospenderli a causa del loro saccheggio sistematico da parte di Hamas. Questa decisione ha inevitabilmente provocato l’accusa che si esso volesse affamare la popolazione attraverso una carestia programmata. Niente di più falso, ma è un’altra delle accuse che si assommano a quelle già lanciate e che si raggruppano tutte sotto il cappello dell’accusa principale, di volere genocidiare gli abitanti della Striscia.
Ieri il ministro degli Esteri della Gran Bretagna, David Lammy, ha lanciato contro Israele una durissima requisitoria, che segue le aspre critiche della Francia e le dichiarazioni dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea, Kaja Kallas di volere rivedere gli accordi di cooperazione commerciale tra la UE e Israele, se la situazione a Gaza non migliorerà. Da Washington, nonostante la Casa Bianca non abbia messo Israele sotto torchio come faceva quando il presidente era Joe Biden, sembra non spirare un vento del tutto favorevole. Trump, non è un mistero per nessuno, desidera che la guerra abbia termine e non ha disponibilità a trascinarla a oltranza.
Sono molteplici e intersecate le ragioni che non hanno ancora permesso a Israele di vincere la guerra più lunga dalla sua fondazione ad oggi. Dalla presenza degli ostaggi che ha impedito un attacco massiccio volto alla conquista dell’enclave, dalla riluttanza del comando militare israeliano a porsi questo obiettivo, dalla difficoltà operativa incontrata su un terreno, dalle interferenze americane sotto l’Amministrazione Biden, volte a commissariare il conflitto imponendogli le proprie priorità, dai negoziati con Hamas, l’ultimo voluto da Trump, che hanno ulteriormente allungato i tempi, dal rifornimento continuo di viveri, mai visto in nessun altro teatro di guerra, che ha avvantaggiato Hamas. Tutto questo ha fatto sì che la guerra si trascinasse fino ad oggi. Ma è un trascinamento che non può durare ancora a lungo.
Israele può scrollare le spalle di fronte al montare della pressione internazionale nei suoi confronti, dell’aumento esponenziale dell’odio e della propaganda atta a rappresentarlo come uno Stato criminale, ci ha fatto il callo, ma non può esimersi, arrivato a questo punto, dal chiudere una guerra che è durata troppo a lungo.
La natura umorale e ondivaga di Trump è una ipoteca troppo grossa, e il momento in cui l’unico vero alleato che per Israele conta, gli Stati Uniti, inizino ad aggiungersi al coro di chi chiede la fine della guerra, potrebbe non essere lontano. Finirla senza avere sconfitto Hamas, sarebbe l’esito peggiore, anche se, nel frattempo, gli ultimi ostaggi avessero fatto ritorno a casa.
Scritta in ebraico: "Gli israeliani sionisti non sono benvenuti qui"
Un cartello scritto in ebraico e appeso alla porta di una merceria nel pieno centro di Milano con una scritta in ebraico: “Gli israeliani sionisti non sono benvenuti qui”. Lo ha notato Roberto Della Rocca, membro della Camera di commercio israelo-italiana, che ha condiviso la foto sui suoi profili social.
Acclariamo che la moda partita dalla pugnace trattora di Napoli, di selezionare la propria clientela in base a demeriti di nascita, si sta dunque diffondendo. Per il momento riguarda gli israeliani e da ultimo la fantomatica categoria degli israeliani “sionisti”.
In attesa che colpisca anche i ciclisti e i bevitori di Sambuca, dobbiamo rimarcare che, tra le tante stupidaggini che si sono potute leggere su Israele, questa dell’israeliano “sionista” è una delle più stupide ma, in vero, denota tutto quell’indicibile che si nasconde dietro alla propaganda propal malamente rimasticata in occidente.
Scimmiottare la propaganda dei nemici d’Israele e prendersela con il sionismo (“Entità sionista”, sionisti, sionismo sono termini usati da Hamas, dall’Iran e da altri potenziali distruttori d’Israele) testimonia una volta ancora la grande confusione (o l’ipocrisia?) che regna nel diffuso antisemitismo orecchiante che ha trovato nello sdoganamento della criminalizzazione d’Israele la sua tana libera tutti.
Eppure non ci vuole molto a capire che il sionismo può dispiacere solo a chi ritiene una sciagura la nascita e l’esistenza dello Stato d’Israele, resi possibili proprio dal movimento sionista. E non dovrebbe essere complicato comprendere, conoscendo un po’ di storia, che il sionismo ha esaurito la propria missione il giorno stesso in cui Israele è nato.
Per cui solo iscrivendosi tra i nemici giurati d’Israele dà il diritto a considerarlo come un’entità sionista da cancellare dal “fiume al mare”. Ohibò! Esattamente quello che accade nella ruminante propaganda propal di seconda mano che affolla il dibattito pubblico occidentale e ora si va estendendo anche a qualche bottega.
Accade che il conformismo e il perbenismo agiscano come leve potenti e, poiché a parlare male degli ebrei si fa peccato ma a parlar male d’Israele si può e anzi si “deve”, ecco farsi strada la consuetudine furbastra dei distinguo: c’è l’ebreo buono, in genere già morto in un lager, e c’è l’ebreo cattivo, vivo e in carne ed ossa che si ostina a non dissociarsi dai crimini d’Israele. Non bastava.
Occorreva sofisticare il concetto ed estenderlo anche agli israeliani buoni e a quelli cattivi: i sionisti. I primi possono entrare, i secondi no.
(InOltre, 22 maggio 2025)
“Non silenziosi, ma silenziati”: la resistenza taciuta dei Palestinesi contro Hamas
di Sofia Tranchina
Continuano nella Striscia di Gaza le mobilitazioni popolari contro l’autorità di Hamas, segnalando un persistente dissenso interno nonostante le gravi condizioni di sicurezza e la militarizzazione del territorio. Lunedì 19 maggio, a Khan Younis, nel contesto di un imminente attacco su larga scala annunciato dall’esercito israeliano – che ha dichiarato l’area zona di combattimento attivo in vista di un’“offensiva senza precedenti” e ha emesso un avvertimento straordinario di evacuazione – centinaia di cittadini palestinesi sono scesi ancora una volta in piazza chiedendo la fine del conflitto armato e la destituzione del governo de facto di Hamas. Le manifestazioni, che si sono estese a più aree urbane del sud della Striscia, sono state caratterizzate ancora una volta da slogan espliciti come “Fuori Hamas” e richieste per una governance civile e non armata, auspicando una riorganizzazione istituzionale in grado di rappresentare i bisogni reali della popolazione. Il gruppo islamista è divenuto espressione quotidiana di un autoritarismo repressivo e autoreferenziale, e i palestinesi, esausti da un anno e mezzo di guerra, con morti, distruzione e insicurezza alimentare, mostrano una crescente esasperazione nei suoi confronti. Hamas, come documentato da innumerevoli fonti indipendenti, ha implementato una strategia deliberata di militarizzazione della vita civile: tunnel sotto scuole e ospedali, utilizzo sistematico della popolazione come scudo umano, repressione della stampa e delle voci dissidenti. Questa logica strumentale del martirio collettivo ha avuto come unico esito il consolidamento del proprio controllo, a discapito della sopravvivenza della popolazione, e ha compromesso la stessa causa palestinese, e il dialogo con la comunità internazionale. L’intento dei protestanti non è, evidentemente, di assolvere Israele dalle fondamenta etiche che dovrebbero guidare l’uso della forza militare in un contesto di estrema asimmetria, né dalle gravi responsabilità che ha nei confronti dei civili gazawi vittime del conflitto. «Radere al suolo un territorio con oltre 2 milioni di persone per colpire circa 15.000 terroristi, al fine di raggiungere 23 ostaggi vivi e 35 corpi — che prego Dio vengano salvati e liberati al più presto — sembra qualcosa di ampiamente sproporzionato, incredibilmente irresponsabile», scrive l’attivista palestinese Ahmed Fouad Alkhatib, aggiungendo: “Ma — e non fatevi ingannare — Hamas ha preso decisioni che ci hanno portati fin qui; Hamas è un partner malvagio nella distruzione dei sogni e delle aspirazioni del popolo palestinese». Ahmed Fouad Alkhatib ha sottolineato anche le differenze abissali tra le condizioni del dissenso in Israele e quelle nella Striscia: criticare il governo israeliano comporta costi sociali; opporsi a Hamas significa mettere a rischio la propria vita. Nonostante ciò, i gazawi persistono nelle loro richieste di demilitarizzazione, assistenza umanitaria e sovranità civile. Il fatto stesso che tali richieste vengano articolate in contesti di estrema vulnerabilità, sotto minaccia costante, restituisce soggettività politica ai gazawi, non come strumenti di una causa, ma come agenti di cambiamento che rivendicano i propri diritti. La crescente dissonanza tra una parte significativa della società civile palestinese e l’apparato autoritario di Hamas si è inasprita a seguito dell’intensificarsi delle operazioni militari, dell’acuirsi delle condizioni umanitarie e della sistematica negazione di diritti fondamentali perpetrata dal gruppo islamico. Le violazioni della libertà di stampa sono state documentate dal Committee to Protect Journalists (CPJ). Giornalisti come Tawfiq Abu Jarad e Ibrahim Muhareb hanno subito minacce, pestaggi e intimidazioni da parte di Hamas per aver tentato di documentare proteste e condizioni di vita nella Striscia: «Quando il giornalista gazawo Tawfiq Abu Jarad ha ricevuto una telefonata da un agente della sicurezza di Hamas che lo avvertiva di non coprire una protesta, ha subito obbedito: era già stato aggredito una volta da forze affiliate a Hamas». Secondo le testimonianze raccolte, le autorità di Hamas non esitano ad equiparare il giornalismo critico allo spionaggio, legittimando così la repressione e contribuendo a instaurare un clima di autocensura generalizzata. Il raro giornalismo indipendente a Gaza sopravvive in condizioni estreme, tra minacce dirette e l’omertà imposta dalla paura.
•L’inerzia dell’occidente “propalestinese”
In questo scenario, appare paradossale l’inerzia di parte del mondo accademico, dei movimenti sociali e dei media, spesso pronti a mobilitarsi contro le violazioni dei diritti umani in altri contesti, ma reticenti nel riconoscere le dinamiche autoritarie interne ai contesti che si presume di difendere. Questa reticenza non solo indebolisce la credibilità morale delle istituzioni e degli attori coinvolti, ma contribuisce anche a perpetuare un’ingiustizia che silenzia le vittime quando esse non rientrano nei canoni ideologici dominanti. Il silenzio o la marginalizzazione operata riguardo alle manifestazioni diventa ingombrante. La mancata copertura e l’assenza di reazioni sollevano interrogativi sull’onestà intellettuale con cui viene affrontata la questione palestinese, e in particolare sulla capacità dell’opinione pubblica di elaborare una comprensione complessa e disallineata dagli schemi dicotomici a cui siamo abituati L’attivista Hamza Howidy, figura di riferimento del movimento Bidna Naish, afferma che le manifestazioni rappresentano “una maggioranza”, che non è “silenziosa”, ma “silenziata”. Vengono escluse dal dibattito internazionale le voci dissidenti, che invece andrebbero protette e valorizzate proprio per la loro capacità di sfidare il pensiero dominante. «I cosiddetti giornalisti “indipendenti” di testate filo-palestinesi come The Intercept, DropSite News, Zeteo, Democracy Now, Al Jazeera, The Guardian, Amnesty International o Human Rights Watch non documentano la brutalità di Hamas contro manifestanti o giornalisti palestinesi a Gaza», scrive Ahmed Fouad Alkhatib. «Hamas promuove solo una manciata di reporter altamente selezionati per raccontare la guerra esclusivamente da una prospettiva antisraeliana e che non osano mai criticare l’organizzazione. Gli altri, devono autocensurarsi per sopravvivere». La solidarietà con il popolo palestinese, se intesa come espressione di un’etica politica coerente e non come riflesso ideologico, impone di distinguere chiaramente quello che è un regime autoritario che esercita il potere tramite coercizione, propaganda e repressione. Le manifestazioni di Khan Younis chiedono di restituire complessità al discorso sulla Palestina, con rigore analitico, coscienza morale e responsabilità storica, e smascherare le narrazioni che riducono il conflitto a un teatrino ideologico.
GERUSALEMME – «Ogni sera, verso le sette e mezza o le otto, il Rebbe esce in macchina. Si muove lentamente nella foresta e alcuni dei suoi discepoli seguono la macchina a piedi. Scende dalla macchina in un punto designato in anticipo e cammina con i suoi seguaci lungo i sentieri della foresta fino al tramonto. All’ora della preghiera, verso le dieci, torna a casa…».
È il 1916 quando Franz Kafka, in una lettera a Max Brod, descrive la vivida impressione di un incontro con un rabbino del movimento chassidico e la sua corte. Un documento inedito, esposto fino al 30 giugno prossimo alla Biblioteca Nazionale d’Israele (Nli) nell’ambito dell’esposizione Kafka: metamorfosi di un autore. In occasione dei cento anni dalla morte dello scrittore praghese (con uno slittamento di qualche mese rispetto alla data inizialmente prevista), la Nli ha tracciato un percorso il cui punto focale è il rapporto di Kafka con l’ebraismo e la sua identità ebraica. Diari, lettere, disegni, bozze: una parte del patrimonio di carta che Brod salvò dalla distruzione, disattendendo la richiesta dell’amico in punto di morte, risalta nel coinvolgente allestimento che abbiamo visitato con la guida di una delle curatrici, Karine Shabtai.
Shabtai si sofferma su alcuni dei documenti più interessanti in dotazione alla Nli, che nel 2019 ha ricevuto dalla Corte Suprema d’Israele l’incarico di custodire l’archivio Kafka. Vicino alla celebre Lettera al padre, ecco gli esercizi di ebraico su un quadernino del 1920 pieno di vocaboli con traduzione tedesca a fianco. «Aveva iniziato a dedicarcisi alcuni anni prima », spiega la curatrice. «Le parole più antiche le trascriveva direttamente dal Tanakh, l’insieme dei testi sacri ebraici». La sua insegnante si chiamava Puah Ben Tovim, una giovane “sabra” nativa di Gerusalemme, giunta a Praga per studiare matematica. Insegnava per sostenere le sue spese e Kafka la conobbe attraverso Hugo Bergmann, il grande filosofo amico fin dai tempi delle elementari. Anche lungo questo filone ricorre nella mostra il tema dell’identità. «Cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla in comune con me stesso e dovrei stare molto tranquillo in un angolo, contento di poter respirare », scrisse Kafka. Certo è che per un periodo cullò comunque il pensiero di emigrare nell’allora Palestina mandataria. Qui, secondo Brod, avrebbe voluto vivere come «un semplice artigiano».
Kafka: metamorfosi di un autore, il cui curatore principale è Stefan Litt, non si sottrae alle domande spinose. «A chi appartiene Kafka?», ad esempio. In uno spazio apposito è affrontata la controversia legale citata in precedenza, arrivata al termine di un dibattito acceso e spesso polarizzante. Da una parte chi, come la Biblioteca Nazionale d’Israele, sottolineava come le sue opere andassero considerate «patrimonio nazionale ebraico» e rivendicava di essere il posto giusto per valorizzarle. Dall’altra chi ne enfatizzava il carattere tedesco o, in senso più ampio, universale. Una sezione tra le più stimolanti è poi dedicata a come fu recepito in Israele e in Medio Oriente. Le prime traduzioni in arabo di suoi racconti, racconta Shabtai, risalgono alla fine degli anni Sessanta. Un fenomeno che interessò in particolare Egitto, Siria, Libano e Giordania, «aprendo una discussione sulle posizioni di Kafka rispetto alla sua identità ebraica e al sionismo». Se ne continua a parlare. Anche a Gerusalemme.
(moked, 21 maggio 2025)
“Il nostro impegno per un Israele democratico e una diaspora forte”. Il passato e il presente di Hashomer Hatzair e Meretz Italia
In vista del Congresso Sionistico Mondiale, che si terrà a ottobre, parla Laura Gutman Benatoff, candidata per il gruppo Meretz Italia – Hashomer Hatzair. “Un patto generazionale”
di Ester Moscati
A ottobre si terrà a Gerusalemme il 39° Congresso sionista mondiale e l’Italia invierà al Congresso tre delegati, eletti dalla Federazione Sionistica Italiana a fine maggio tra le sette compagini che hanno proposto dei candidati. Il Sionismo ha avuto nel corso della sua storia diverse anime e origini: dal sionismo religioso a quello socialista, passando per il sionismo liberale, quello revisionista e, più recentemente, il post-sionismo e il neo-sionismo. I sette gruppi che si sono messi in gioco per portare a Gerusalemme i propri rappresentanti sono, in ordine alfabetico, Arzenu Italia, Herut Italia, Likud Italia, Mizrachi Benè Akiva, Meretz Italia – Hashomer Hatzair, Over the rainbow Italia – ADI, Shas Italia. Tante ispirazioni diverse, unite dall’amore per Israele e dalla preoccupazione per il suo futuro.
- Come e quando nasce Hashomer Hatzair in Italia? L’Hashomer Hatzair porta con sé oltre 112 anni di storia: nato nel 1913 in Galizia, ha attraversato i momenti più cruciali della storia ebraica del Novecento. Non è stato solo un movimento giovanile, ma una forza attiva contro l’antisemitismo, un protagonista nella creazione dello Stato di Israele e un elemento vitale della Resistenza durante la Shoah. Nel 1992, in Italia, l’unione tra ex bogrim dell’Hashomer Hatzair e militanti di Mapam ha dato vita a Meretz Italia, creando un ponte tra generazioni e tradizioni. Oggi il nostro movimento è una realtà vibrante in 26 paesi, con una missione che rimane immutata: promuovere giustizia sociale, educazione ebraica di qualità e un sionismo umanista. In Italia, attraverso i diversi kenim, non ci limitiamo a trasmettere tradizioni ebraiche, ma coltiviamo un’identità ebraica progressista che rafforza il legame vitale tra diaspora e Israele.
- Quale linea politica seguite in relazione ai recenti eventi in Israele? Il 7 ottobre 2023 ha segnato una ferita profonda per Israele e l’intero popolo ebraico. Il massacro perpetrato da Hamas ha spezzato oltre mille vite e lasciato famiglie devastate dalla perdita dei propri cari portati in ostaggio a Gaza. Oggi i Democratim, l’alleanza tra Meretz e il Partito Avodah, sono guidati da Yair Golan – ex Vice Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane, un leader che unisce visione politica, esperienza e coraggio. Ha inoltre servito come vice ministro dell’Economia nel governo Bennett-Lapid del 2021 per Meretz e come membro della Knesset dal 2019 al 2022. Durante l’attacco del 7 ottobre, Golan ha dimostrato cos’è la vera leadership: non appena è stato avvertito di ciò che stava accadendo, ha indossato la sua uniforme, è salito in auto e ha raggiunto il sud di Israele. Dopo aver ricevuto chiamate da genitori preoccupati per i loro figli che si nascondevano dai terroristi di Hamas sul terreno del festival musicale Nova, ha consultato Google Maps e si è diretto in quella direzione, riuscendo a salvare diversi giovani. Nonostante fosse praticamente da solo, ha scelto di agire senza attendere ordini, dimostrando come nei momenti di crisi l’iniziativa personale possa fare la differenza. Le sue azioni in quelle ore drammatiche riflettono esattamente i valori che guidano il nostro movimento. La nostra visione politica è chiara: vogliamo preservare un Israele democratico con una giustizia indipendente, dove tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, e che cerchi una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese e israelo-arabo. Il pogrom ha colpito in modo particolare i kibbutz, cuore pulsante dell’identità israeliana. I kibbutzim Artzi, legati all’Hashomer Hatzair, rappresentano il 32% di tutti i kibbutzim del paese – il nostro movimento è stato quindi colpito nel suo nucleo più profondo. Questa non è politica astratta per noi: è personale. Anche la mia famiglia è stata toccata direttamente – mia cugina e i suoi quattro figli, residenti nel kibbutz Be’eri, sono sopravvissuti fisicamente all’attacco, ma portano ferite psicologiche profonde che nessuno può ignorare. Oggi siamo in prima linea nella ricostruzione delle comunità colpite, sostenendo ogni passo di questo difficile cammino. Ma una verità rimane salda: nessuno di noi – in Israele o nella diaspora – potrà sentirsi davvero in pace finché ognuno dei 58 ostaggi ancora trattenuti non sarà tornato a casa. Il loro ritorno è e rimane una priorità nazionale e morale assoluta.
- Perché hai scelto di candidarti al Congresso Sionista Mondiale? Qual è il tuo legame con Israele? Il mio legame con Israele ha radici profonde nella storia della mia famiglia. I miei nonni, sopravvissuti ad Auschwitz, mi hanno tramandato una verità essenziale: quando uscirono dai campi, fu Israele ad accoglierli, offrendo loro non solo una casa e una cittadinanza, ma la possibilità concreta di ricostruire una vita dignitosa. Queste testimonianze hanno forgiato in me un senso di appartenenza e gratitudine che va oltre la semplice identità. A 18 anni ho fatto una scelta consapevole, diventando una sionista attiva: mi sono trasferita in Israele per studiare all’Università di Tel Aviv. Questa scelta di vita era guidata dalla volontà di contribuire alla costruzione di un Israele democratico, pluralista e in costante dialogo con la diaspora. La mia candidatura nasce dal profondo legame con l’Hashomer Hatzair, movimento che ha plasmato la mia identità ebraica e che continua a vivere nella generazione successiva. I miei tre figli ne fanno parte attivamente: mia figlia maggiore è una bogheret ‘senior’ del ken di Milano, mio figlio è madrich (istruttore) e quest’estate proseguirà la sua formazione in Israele presso i kibbutz Mishmar HaEmek e Sasa, mentre la mia figlia più piccola ha appena iniziato con entusiasmo il suo percorso di formazione come madricha (istruttrice). Con un’altra candidata del movimento di Roma, sosteniamo con passione la gioventù impegnata in Italia, consapevoli che le decisioni del Congresso Sionista possono avere un impatto concreto sulle nostre comunità. Il nostro impegno è chiaro: lavorare affinché i fondi vengano reinvestiti nei movimenti giovanili e rappresentare efficacemente i loro interessi presso l’Agenzia Ebraica. Puntiamo a formare una nuova generazione di leader che si impegnino per un Israele democratico, portando avanti una visione progressista del sionismo e del nostro patrimonio ebraico nella diaspora.
- Qual è la vostra visione per il futuro? Votare per Meretz e Hashomer Hatzair significa scegliere di difendere i valori profondi dell’ebraismo come cultura e identità del nostro popolo. Significa investire in un futuro dove la ricca tradizione ebraica continui a vivere attraverso le nuove generazioni, mantenendo vivo il dialogo tra Israele e diaspora. Non stiamo solo chiedendo il vostro voto: vi invitiamo a unirvi a un movimento che da oltre un secolo combatte per un ebraismo umanista, per la giustizia sociale e per un Israele democratico e inclusivo. In un momento storico così complesso, la vostra partecipazione attiva è più che un diritto: è una responsabilità verso il futuro delle nostre comunità. Il momento di agire è adesso. Costruiamo insieme il futuro dell’ebraismo progressista – in Israele e nella diaspora.
Trump nomina 4 rabbini ortodossi tra i consiglieri della nuova Commissione per la Libertà Religiosa
Quattro rabbini ortodossi sono tra le 26 persone nominate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per consigliare la sua neoformata Commissione per la Libertà Religiosa. Altri due attivisti ebrei di gruppi di difesa di destra fanno parte della commissione, che Trump ha annunciato all’inizio di questo mese. I critici della commissione hanno sostenuto che essa asseconda le preoccupazioni dei cristiani evangelici e riflette un ampio sforzo dell’amministrazione Trump per erodere la separazione tra chiesa e stato. Trump ha espresso scetticismo riguardo a questo stesso principio, anche durante l’evento nel Giardino delle Rose della Casa Bianca nella Giornata Nazionale della Preghiera dove ha annunciato la commissione. “Separazione? È una cosa buona o cattiva? Non sono sicuro,” ha detto, aggiungendo: “Stiamo riportando la religione nel nostro paese. È una cosa importante.“ All’epoca, Trump nominò diverse persone nella commissione, tra cui una serie di leader e influencer cristiani, nonché l’ex seconda classificata di Miss USA Carrie Prejean Boller e il personaggio televisivo Dr. Phil. Tra i nominati c’era anche un leader ebreo, il rabbino Meir Soloveichik, studioso senior presso il Tikvah Fund, un think tank ebraico politicamente conservatore, e rabbino della Congregazione Shearith Israel, una sinagoga ortodossa che è la più antica congregazione ebraica degli Stati Uniti. Giovedì, Trump ha annunciato tre comitati consultivi per aiutare il lavoro della commissione. I loro membri includono altri quattro rabbini e due leader ebrei. Tutti i rabbini sono affiliati all’ortodossia, che rappresenta l’8% dell’ebraismo americano ma costituisce una porzione significativa del sostegno ebraico a Trump. Mentre la grande maggioranza degli ebrei americani disapprova l’operato di Trump come presidente, gli ebrei ortodossi hanno mostrato un forte sostegno: più del 71% approva il lavoro che sta facendo, mentre meno del 20% lo disapprova, secondo un recente sondaggio. Gli ebrei nominati nei comitati consultivi della Commissione per la Libertà Religiosa includono Jason Bedrick, il primo ebreo ortodosso eletto al parlamento del New Hampshire. Ora ricercatore presso il Centro per la Politica dell’Istruzione della Heritage Foundation, si descrive come un “ebreo testardo” sul suo account X, dove spesso sostiene la libertà di scelta scolastica. Il rabbino Mark Gottlieb è il capo dell’istruzione di Tikvah e preside fondatore del Programma Tikvah Scholars. È stato anche uno dei firmatari della Dichiarazione di Phoenix, che chiede la scelta dei genitori nell’istruzione americana e l’insegnamento agli studenti dei “principi fondanti dell’America e delle radici nelle più ampie tradizioni occidentali e giudaico-cristiane“. È stata prodotta dalla Heritage Foundation, un think tank conservatore. Alyza Lewin è presidente del Louis D. Brandeis Center for Human Rights Under Law, un gruppo legale pro-Israele attivo nelle cause nei campus, e cofondatrice e partner di Lewin & Lewin, uno studio legale. Nel 2014, Lewin ha discusso davanti alla Corte Suprema per il riconoscimento di Israele come luogo di nascita sui passaporti statunitensi, che l’amministrazione Trump ha approvato nel 2020. Il rabbino Yaakov Menken è il vicepresidente esecutivo della Coalition for Jewish Values, un gruppo conservatore intransigente che afferma di rappresentare più di 2.500 “rabbini ortodossi tradizionali” e si oppone ai valori progressisti che a suo dire costituiscono il “wokeism”. Menken ha dichiarato in un comunicato che il suo gruppo è stato “un sostenitore vocale delle protezioni della libertà religiosa per i gruppi cristiani e altri, comprendendo che qualsiasi minaccia alla loro libertà religiosa potrebbe facilmente essere usata anche contro le nostre libertà“. Il rabbino Eitan Webb è il fondatore e direttore del Chabad di Princeton e cappellano ebraico dell’Università di Princeton dal 2007. Nel 2017, Webb ha ospitato un discorso di un legislatore israeliano di destra dopo che la Hillel di Princeton aveva cancellato la sua apparizione a causa di accuse secondo cui avrebbe fatto dichiarazioni razziste. Il rabbino Chaim Dovid Zwiebel è il vicepresidente esecutivo di Agudath Israel of America, un gruppo ombrello ortodosso Haredi. Ad aprile, Zweibel è andato a Washington per fare pressione sui membri del Senato e della Camera affinché sostenessero un disegno di legge sul credito d’imposta per aiutare i genitori a pagare l’iscrizione dei loro figli a scuole private. Una versione di questo disegno di legge è inclusa nella proposta di bilancio del Congresso. “In un momento in cui molti segmenti della società americana si stanno allontanando dalla pratica e dall’identità religiosa, è particolarmente importante che rimaniamo vigili nel proteggere la nostra prima libertà – la libertà religiosa,” ha dichiarato Zweibel in un comunicato. Trump ha effettuato le nomine lo stesso giorno in cui la Commissione degli Stati Uniti sulla Libertà Religiosa Internazionale ha annunciato la partenza di un importante membro ebreo, prima che la commissione si rinnovi a maggio 2026. Susie Gelman è una filantropa ebrea di lunga data e attivista pro-Israele che, fino a poco tempo fa, presiedeva il consiglio dell’Israel Policy Forum, un gruppo di difesa centrista che fa pressione per una soluzione a due stati. Nel 2016, Gelman ha espresso preoccupazione per le posizioni dell’amministrazione Trump entrante su Israele. “Il lavoro della Commissione ha tratto grande beneficio dai suoi inestimabili contributi e dalla sua visione derivante da anni di esperienza di lavoro con le comunità religiose, in particolare la comunità ebraica,” ha dichiarato in un comunicato il presidente della commissione, Stephen Schneck. Rimangono due ebrei tra i sette commissari rimanenti, che hanno il compito di monitorare la libertà religiosa all’estero. Si tratta di Soloveichik e Ariela Dubler, un’avvocatessa e preside della Abraham Joshua Heschel School di New York.
È pazzesco! Ultraortodossi ballano con bevande energetiche
L'umorismo ebraico è presente in tutte le tribù di Israele, anche dove meno te lo aspetti. Anche gli ultraortodossi hanno senso dell'umorismo.
di Michael Selutin
I cosiddetti ultraortodossi, o charedim in ebraico, finiscono spesso sui giornali per il loro rifiuto di prestare servizio militare. A volte anche per altri eventi negativi, ma mai perché sono divertenti. Eppure anche nel loro cuore batte il famoso umorismo ebraico, che però raramente viene espresso in pubblico.
Un esempio del fatto che anche gli ebrei in abiti neri sanno divertirsi e intrattenere il pubblico è il gruppo satirico “Bardak”. Il loro nome significa ‘confusione’ o “caos” ed è proprio questo il programma del gruppo comico, che prende di mira in modo umoristico la vita dei charedim.
Danza per un amico che sta per sposarsi
Bardak è stato fondato da Efi Skakovsky e Meni Wakshtock, entrambi studenti di yeshiva ortodossa, che hanno poi scoperto il loro talento per la commedia. "Il loro stile è caratterizzato da un umorismo osservazionale che si ritrova nelle situazioni quotidiane della cultura israeliana. Gran parte del loro lavoro si concentra sulla comunità charedi, ma i loro contenuti affrontano anche temi più generali legati alla cultura, alla politica e alle dinamiche sociali israeliane. Il loro approccio è generalmente spensierato, evitano posizioni politiche esplicite e cercano di colmare i divari culturali con un umorismo comprensibile", scrive Sam Sokol a proposito di Bardak.
I bambini non devono digiunare
I suoi sketch sono recitati in ebraico e in parte in yiddish, ma per lo più sono comprensibili anche senza parole. Tuttavia, molte delle sue battute sono piuttosto “battute per addetti ai lavori”, che fanno ridere soprattutto i membri della sua comunità.
In un video, ad esempio, un gruppo di giovani uomini prova una danza per il loro amico che sta per sposarsi. È usanza ebraica rallegrare lo sposo con dei balli e nella comunità charedica ci sono alcuni uomini di talento che vivono solo per questo momento. (Al mio matrimonio, un vecchio rabbino ha improvvisamente iniziato a ballare la break dance per me. Non ero divertito, ma preoccupato per la sua salute).
Tornando al video, il giovane insegna ai suoi amici i passi della danza attribuendo a ogni movimento un significato religioso. Ad esempio, per un movimento dice “legare i tefillin (tikkunim)”, per un altro “andare al mikveh il venerdì” e così via. È particolarmente divertente quando spiega un movimento a un amico che lo interpreta in modo diverso perché è sefardita.
Un altro video tratta del vecchio problema del fatto che i bambini non devono digiunare durante il giorno di digiuno. Mentre la sinagoga è piena di uomini affamati, a volte ci sono dei bambini seduti lì che mangiano con gusto. I rumori del cibo e l'odore degli snack rendono molto difficile concentrarsi sulle preghiere. Il carismatico comico di Bardak descrive molto bene questa situazione imbarazzante, ma guardate voi stessi.
(Israel Heute, 21 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Riporto, un po’ in ritardo, quello che mi ha scritto Carmela, una sorella in fede già presente altre volte su queste pagine, per farmi conoscere il modo in cui ha vissuto sabato scorso il televoto di Eurovision Song 2025, forse perché sa che non guardo la televisione. Non le ho chiesto il permesso di farlo, ma sono convinto che non mi denuncerà.M.C.
Carissimo fratello Marcello,
il Signore benedica grandemente te e tutta la tua famiglia! Seduta comodamente in poltrona col cuore che mi batteva aspettando i risultati del televoto, sabato sera, ho esultato vedendo Israele al primo posto! Mi è venuto in mente un versetto del Salmo 23 “Tu apparecchi la mensa al cospetto dei miei nemici”! Ed è stato proprio così! Serpeggiava tra le presentatrici un senso di inquietudinee di insicurezza per quel risultato inaspettato e anche tra i conduttori italiani sgomento e incredulità… non sapevano cosa dire ed erano molto rammaricati. Per non parlare del pubblico, ammutolito! C’è stato un momento in cui tutti erano schiacciati, salvo poi esultare per il risultato finale. Io, invece, un po’ amareggiata ma col cuore colmo di gioia! In fondo anche il secondo posto è stato ottimo! Per me, Israele, sempre al primo posto!!! So che è stata solo una competizione canora ma quando si parla di Israele, in tutti gli ambiti, mi sembra che c’è sempre una battaglia che si combatte! Raphael Yuval non ha fatto breccia per il suo passato da scampata all’eccidio, non è stata apprezzata per le sue doti canore dal mondo pieno di livore ed invidia! Ma ”Il Signore si è riservato tante persone che non hanno piegato il ginocchio davanti a baal”! Inutile dire che tutto è finito lì! Ieri mi aspettavo dei commenti che non sono arrivati! Pur di non parlare bene di Israele non si parla proprio, solo quando c’è da parlar male ci si attacca anche ad un cavillo insignificante! Il Signore c’è! Lunga vita a Israele!!! Parlare bene di Israele è di primaria importanza per me! Un forte abbraccio a te e a Lidia! In Cristo. Carmela
Nuova fase offensiva e nuovi aiuti umanitari a Gaza
Nel pieno della nuova offensiva Carri di Gedeone, Israele ha deciso di ripristinare gli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, dopo oltre due mesi di blocco totale. La mossa, disposta dal primo ministro Benjamin Netanyahu senza votazione in gabinetto, arriva dopo forti pressioni americane e su richiesta dell’esercito, scrivono i media locali.
«Israele consentirà l’ingresso di una quantità base di cibo per prevenire una crisi umanitaria», ha spiegato l’ufficio del capo del governo. Determinante per questo passo, scrive ynet, l’allarme lanciato dal maggiore generale Rassan Alian, che nelle ultime 24 ore ha avvertito l’esecutivo: «Il cibo finirà entro il 21 maggio. Se non interveniamo ora, anche l’operazione militare dovrà fermarsi». Secondo Ynet, Alian ha anche risposto al ministro Itamar Ben Gvir – contrario alla riapertura – spiegando che «l’accesso ai magazzini è quasi impossibile» per la popolazione ed è necessario intervenire per evitare una carestia.
La distribuzione sarà gestita da organizzazioni internazionali e aziende americane, senza il coinvolgimento diretto di Israele né il controllo di Hamas. Una gestione provvisoria, in attesa che entri in funzione la Gaza Humanitarian Foundation, un meccanismo coordinato da Washington e Gerusalemme, pensato per distribuire gli aiuti in modo sicuro e senza interferenze da parte di Hamas.
Sul fronte dei negoziati, l’inviato speciale americano Steve Witkoff ha proposto un cessate il fuoco di circa due mesi in cambio del rilascio di 9-10 ostaggi. Nell’intesa ci sarebbe anche la scarcerazione di 300 detenuti palestinesi. Hamas ha respinto l’iniziativa, ribadendo di volere la fine della guerra con garanzie internazionali.
Sul fronte militare, l’operazione israeliana è entrata in una nuova fase, con cinque divisioni impegnate dentro Gaza. «Divideremo la Striscia, sposteremo la popolazione e avanzeremo fino alla sconfitta di Hamas», ha affermato il portavoce militare Effie Defrin.
(moked, 20 maggio 2025) ____________________
«... l’inviato speciale americano Steve Witkoff ha proposto un cessate il fuoco di circa due mesi in cambio del rilascio di 9-10 ostaggi.» Vomitevole. Si mercanteggia con la vita di persone in carne ed ossa. Witkoff potrebbe specificare quali ostaggi vuole, se uomini o donne, se giovani o vecchi, se sani o malati. E' importante saperlo, perché il valore di scambio di quelli che restano potrebbe variare in funzione del loro stato di salute. A Witkoff probabilmente verrà richiesto di affinare la raccolta-dati per la trattativa in corso. "America first" e business prima di tutto. Vomitevole. M.C.
ROMA - In una libreria di Tel Aviv, uno scrittore francese di fama mondiale corre in un rifugio antiaereo mentre suonano gli allarmi che annunciano i missili in arrivo dallo Yemen. Non è la scena di un romanzo, ma un momento vissuto da Michel Houellebecq giovedì scorso in Israele.Erano le 21:10 quando, come tutti i lettori riuniti per la serata, Houellebecq scese nel seminterrato del rifugio antiaereo per proteggersi da un attacco missilistico houthi. Una pianista israeliana, Ofra Yitzhaki, ha iniziato a suonare Maurice Ravel a un centinaio di persone a conoscenza delle norme di sicurezza. “La resilienza della gente qui è affascinante e dice qualcosa di profondo sull’umanità”, dice Houellebecq. Nell’ora più solitaria per lo stato ebraico,lo scrittore di “Sottomissione” e “Serotonina” non si è tirato indietro, mentre da un anno si registrano scrittori che rifiutano la traduzione in ebraico delle proprie opere (da Sally Rooney ad Alice Walker) e che firmano appelli per boicottare Israele (compresa la francese Annie Ernaux). “Dovrei capire il mondo in cui vivo e pensavo che in Europa ci fosse un movimento positivo verso gli ebrei, ma quello che è successo è completamente l’opposto”, ha detto Houellebecq nella conferenza stampa in occasione della vittoria del Premio Gerusalemme.
“Si è semplicemente aperto un abisso” ha detto Houellebecq da Gerusalemme. “Se provo a parlare con un sostenitore di Hamas, non so nemmeno come approcciarlo, il dialogo è impossibile”.
Il presidente israeliano, Isaac Herzog, si è rivolto a Houellebecq durante la cerimonia di premiazione: “Lei è diventato sinonimo dello scrittore fedele alla libertà di pensiero. Gerusalemme è una città di spirito, di passione, di ricchezza culturale e di diversità umana. E’ chiaro che per lei la libertà è un valore supremo e, così facendo, lei dà libero sfogo al suo spirito”.
Houellebecq si è poi presentato con la spilla gialla degli ostaggi alla serata organizzata dal Museo dell’arte di Tel Aviv in collaborazione con l’Istituto francese in Israele. Al di là del successo commerciale, gli israeliani sembrano avere un rapporto speciale con Houellebecq, e questo rapporto è reciproco. In una foto, scattata nei giorni successivi al 7 ottobre, si vede la prima raccolta di saggi di Houellebecq, “Rester vivant”, su un tavolo carbonizzato in una casa bruciata nel kibbutz Be’eri. Houellebecq, che ha ricevuto la foto da un lettore israeliano, ha risposto: “La mia prima impressione è stata quella di vedere una cupa ironia nel titolo dei libri, ma in questa foto si può anche leggere un messaggio di speranza”. Houellebecq ha visitato Be’eri la scorsa settimana. Lì ha incontrato i membri del kibbutz, particolarmente colpiti dagli attacchi del 7 ottobre. Dopo aver parlato con loro, Houellebecq ha dedicato il suo libro “Rester vivant” a Roni Baruch, un residente di Be’eri che ha perso i due figli nel massacro di Hamas: Edan, caduto combattendo contro i terroristi; e Sahar, rapito dai terroristi dalla sua casa e poi ucciso durante un tentativo israeliano di liberarlo a Gaza. Quello di Houellebecq è l’ultimo libro che Edan ha letto prima di morire.
“Antisemitismo mostruoso” Con il Premio Gerusalemme,Houellebecq è il terzo scrittore francese dopo André Schwarz-Bart nel 1967 e Simone de Beauvoir nel 1975, insieme al romeno Eugène Ionesco e al ceco Milan Kundera, a ricevere il prestigioso riconoscimento. “L’impronta delle religioni monoteiste è in me” ha detto Houellebecq nel ricevere il premio. “Ogni scrittore occidentale, che gli piaccia o no, porta l’impronta delle religioni monoteiste. Nessuno scrittore, e soprattutto nessuno scrittore occidentale, può essere indifferente a Gerusalemme”.
Houellebecq in Israele ci era già stato due volte più di dieci anni fa: nel 2011 arrivò a Gerusalemme augurando “ogni bene a Israele dal profondo del cuore”. Ma l’Israele del dopo 7 ottobre è un paese diverso, mentre lui non è cambiato nel suo rapporto con il piccolo stato ebraico. “E’ mostruoso” ha detto al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Si riferisce all’antisemitismo europeo. “E’ mostruoso che invece di mostrare solidarietà e compassione, ci sia una cultura di antisemiti. E’ inconcepibile. E’ qualcosa che davvero non capisco, e che mi spaventa davvero, in Francia. C’è davvero qualcosa che non riesco a capire”.
Al canale Kan 11, Houellebecq ha detto anche che sta con Israele “perché cerca di comportarsi in maniera morale in guerra, che è difficile, iper difficile”. Attacca la “demente” visione woke per cui “non puoi criticare i trans ma neanche gli islamisti” e dice che questo woke ha “dentro di sé i germi della propria distruzione”. Fa l’esempio del MeToo, “silente sugli stupri di Colonia” (a opera di centinaia di immigrati la notte di Capodanno del 2016). “Sono degli idioti”. Spesso utili a Hamas.
Dopo il secondo posto di Israele all’Eurovision partono le contestazioni
Il direttore del Contest risponde: “Nessun broglio né favoritismo”
di Luca Spizzichino
C’è chi vince, chi arriva al secondo posto e chi contesta perché è rimasto a bocca asciutta. Dopo il secondo posto conquistato da Yuval Raphael all’Eurovision, naturalmente è arrivato il momento di quella che chiameremmo “eurocontestazione”, ovvero il fronte di attacco contro Israele che a suon di accuse strampalate e insinuazioni degne dei peggiori complottisti cerca (ovviamente senza successo) di far scendere lo Stato ebraico dal podio a riflettori ormai spenti. La pagina vergognosa si aggiunge ai sospiri di sollievo, alle malcelate esultazioni, da parte di molti che hanno condotto la serata, quando hanno appreso che Israele non si era classificato al primo posto.
A guidare la battaglia contro i mulini a vento è la Spagna, dove l’emittente pubblica RTVE ha chiesto all’European Broadcasting Union (EBU) una revisione del sistema di voto, con particolare riferimento a quello online. Secondo RTVE, il risultato non rifletterebbe l’opinione generale del pubblico iberico, in gran parte contrario alla partecipazione di Israele. Un dettaglio, questo, che ignora completamente il principio alla base dell’Eurovision: si vota la canzone, non la geopolitica.
A rincarare la dose è arrivata VRT, emittente fiamminga responsabile della trasmissione in Belgio, che ha chiesto “massima trasparenza” e persino minacciato il boicottaggio delle future edizioni se le loro “preoccupazioni” non verranno prese sul serio.
In mancanza di prove, le accuse appaiono come un classico caso di chi fatica ad accettare un’evidenza e si rende anche un po’ ridicolo davanti a tutto il mondo. Quando Israele partecipa e perde, va bene. Ma quando ottiene un buon risultato, ecco spuntare “reti di voto”, “campagne coordinate” e richieste di inchiesta. Il tutto con l’aggiunta di una certa dose di moralismo fuori tempo massimo, che mal si concilia con lo spirito dell’evento.
A spegnere le fiamme della polemica ci ha pensato Martin Green, direttore esecutivo dell’Eurovision, che in una nota ha ribadito l’affidabilità del sistema di televoto: “Il sistema attuale è tra i più avanzati al mondo, dotato di sofisticati meccanismi di verifica, sicurezza e analisi. Non esistono elementi che indichino brogli o favoritismi, nemmeno nel caso dei 12 punti attribuiti a Israele dagli spettatori spagnoli.” Green ha ricordato che il sistema è costantemente monitorato da esperti esterni e validato da controlli incrociati, e che ogni anno viene aggiornato proprio per garantire imparzialità e trasparenza. Il vero problema, forse, non è il sistema di voto, ma l’incapacità di alcuni di accettare che un artista israeliano possa aver emozionato milioni di spettatori.
Con l’aria che tirava all’arrivo di Yuval c’era da aspettarselo: d’altra parte tra quel gesto di minaccia di linciaggio che ha accolto l’artista e il tentativo di linciaggio mediatico, non vi è differenza alcuna. Malgrado tutto Israele è arrivato al secondo posto, una vittoria che con la portata delle forze dispiegate da tanti paesi per l’attuale campagna antisemita, è ancor più forte e importante.
Ho terminato il mio mese da ebreo, trascorso a vedere l’effetto che fa, anche perché per capire che effetto fa essere ebreo non occorre neppure esserlo, basta essere riconosciuto per tale. Poi, come è noto, dal riconoscimento all’imputazione il passo può essere brevissimo e così quello dall’imputazione alla condanna e dalle parole ai fatti. Per sembrare ebreo – nel mio caso, senza esserlo – è bastato indossare la kippah in tutti i luoghi pubblici – per strada, sul treno, sulla metropolitana, al cinema, al ristorante, al supermercato… – cioè in tutti i luoghi in cui chiunque non mi conoscesse avrebbe potuto scambiarmi per un anonimo rappresentante del solo gruppo umano, dai cui membri sia pacificamente legittimo esigere un requisito di speciale meritevolezza individuale, per scriminare la colpa di un’appartenenza di rinomata perfidia.
La meritevolezza dei dissociati, quando non dei rinnegati. La meritevolezza di non essere come gli ebrei cattivi, che sono la regola e di cui i buoni sono la sempre sospettabile eccezione. La meritevolezza di denunciare la stessa esistenza di Israele come progetto di colonialismo genocidario fin dal 1948, anzi dal famigerato piano Balfour del 1917 per la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina durante il mandato britannico.
A vedere l’effetto che fa sono stato fortunato. Qualche sguardo di muto rimprovero o di aperto disprezzo, uno sfottò pacifico, anche se insultante. Tutto qui.
Nessuno mi ha mai chiesto di tenermi a distanza, per non creare problemi, come i bravi cittadini romani di via Torlonia che, mentre io iniziavo il mio mese da ebreo, hanno avviato una raccolta di firme e preparato un esposto al Prefetto per chiedere la sospensione dei lavori del Museo della Shoah, così da non essere esposti alle minacce e alle violenze che quel monumento di provocatoria ebraicità istiga anche a danno degli incolpevoli non ebrei.
Non sono neppure mai stato aggredito come i giovani ebrei che a Torino – mentre terminavo il mio mese con la kippah – hanno provato a organizzare nel Campus universitario Einaudi una conferenza sulla libertà di parola – la propria libertà di parola – alla fine annullata dai vertici dell’Università per ragioni di ordine pubblico. Libertà di parola negata, dunque, di nuovo.
Del resto, nel circolo vizioso della normalizzazione antisemita, se gli ebrei sono il bersaglio della violenza, diventano essi stessi la causa del disordine e il problema da risolvere. Già sei ebreo e pure ti agiti? Se gli ebrei stessero calmi… Da farci un altro, ennesimo decreto sicurezza. Troncare gli ebrei, per sopire gli antisemiti.
Dicevo l’effetto che fa: che effetto mi ha fatto? Dividerei l’interrogativo in due parti.
La prima: come mi sono sentito “fuori” da ebreo? Sempre un po’ in pericolo, ma mai troppo, per ragioni in larga misura contingenti e fortunate. Vivo a Roma, a poco meno di due chilometri dal Ghetto. Lavoro nel centro di Roma. Frequento in genere luoghi in cui la presenza ebraica è, se non visibile, metabolizzata o mollemente ingoiata, come Roma ingoia con noncuranza quasi ogni cosa. Eppure mi è capitato spesso farmi domande che normalmente non mi faccio, tipo: stasera è il caso che prenda la metropolitana a mezzanotte, oppure è più sicuro che prenda un taxi? Oggi incontro in un locale pubblico un po’ “alternativo” una persona anziana: è il caso che faccia l’ebreo o per non coinvolgerla involontariamente in qualche incidente è meglio che mi metta in tasca la kippah? Lo sapevo già, ma ho concretamente avvertito, fisicamente e psicologicamente, cosa significa vivere da ebreo visibile ed è stata un’esperienza istruttiva, che consiglio a tutti i non ebrei.
La cosa però più istruttiva è stato scoprire come mi sono sentito “dentro”: mi sono sentito come gli ebrei che devono giustificare di non essere come gli altri ebrei, che evidentemente per molti procurano all’ebraismo e a Israele un disprezzo meritato. E mi sono sentito nella trappola dell’autocensura.
Se per essere preso sul serio devo sputare su un ebreo cattivo, non voglio essere preso sul serio così. Se per essere riconosciuto in buona fede nella mia lotta contro l’antisemitismo devo ammettere che questo antisemitismo è un effetto collaterale delle azioni del governo israeliano a Gaza e in Cisgiordania – affermazione che non è solo storicamente falsa, ma è la quintessenza della vulgata antisemita, per cui sono gli ebrei la causa dell’odio antiebraico – non dico che per reazione mi verrebbe da difendere pure i fascisti messianici e gli epigoni ministeriali di Yigal Amir, ma di certo mi viene da tacere, per non cadere nella trappola antisemita per eccellenza: quella – come dicevo all’inizio – per cui si possono difendere alcuni ebrei, che sono buoni solo se dimostrano di non essere cattivi. Trappola in cui i nazisti di Hamas e i loro zelanti agenti sotto mentite (e a volte pure involontarie) spoglie sono riusciti a far cadere buona parte del mondo progressista europeo e la quasi totalità di quello italiano.
Però, per non cadere in questa trappola, il prezzo rischia di essere altrettanto salato: quello di finire in una autocensura uguale e contraria verso personaggi e politiche che ritengo rovinose per gli ebrei e per Israele (non aggiungo altro all’articolo di Stefano Piperno, di cui condivido tutto, dolore compreso).
Solidarizzare con gli ebrei e con Israele mentre per una larga fetta dell’umanità antisemitismo e antisionismo sono non solo legittimati, ma rappresentano il non plus ultra della correttezza politica e dell’intransigenza umanitaria, significa trovarsi di fronte a questa alternativa apparentemente obbligata. Non è una cosa semplice e soprattutto non vi sono “soluzioni” che non rischino di apparire esse stesse politicamente e intellettualmente equivoche, sia per gli amici che per i nemici.
(Inoltre, 19 maggio 2025)
Il nome Shalom mi suscita nostalgia e mi ricorda la mia bella infanzia. “Shalom”. Questa parola non significa solo pace, ma anche ciao, arrivederci, completezza.
di Anat Schneider
Shalom in ebraico
Quando ero una bambina di circa 7 anni, nelle scuole israeliane era consuetudine organizzare una grande festa in onore del Giorno di Gerusalemme. La classe veniva divisa in gruppi, ognuno dei quali rappresentava un diverso gruppo etnico che viveva in Israele. Insieme ad alcuni amici, io rappresentavo gli yemeniti. L'insegnante che lavorava con noi ci insegnò una canzone intitolata “Shir Ad”, con un testo di Natan Alterman (un grande poeta ebreo). La canzone parla di una famiglia molto numerosa, con molti figli e figlie, che arriva in Israele dallo Yemen. La famiglia arriva nella grande città e cerca di attraversare la strada su un passaggio pedonale. Ecco i nomi dei membri della famiglia, così come compaiono nella canzone mentre attraversano la strada:
Nessim attraversa – con l'aiuto di Dio. Dopo di lui Nisima, la madre – Dio abbia pietà di lei. Nehemia, Gedalja, Zacharias e Asarja attraversano, Salim, Saadia, Michael, Hanan, Hanania. Ci sono Jeruham e Rahamim, grazie a Dio sono gemelli, Baby Shalom ride nel sonno, e io sono sua sorella Miriam, Poi il piccolo asino Bileam...
Io interpretavo Miriam che si prende cura della sua sorellina e cantavo la frase: “Baby Shalom ride nel sonno, e io sono sua sorella Miriam”. Da allora, il nome Shalom mi suscita nostalgia e mi ricorda la mia bella infanzia, le meravigliose feste che celebravamo nel Giorno di Gerusalemme, e mi restituisce per un attimo l'innocenza che con il passare degli anni va gradualmente scomparendo. Basti pensare a quanto significato e profondità racchiudono queste poche lettere: “Shalom”. La parola non significa solo pace, ma anche ciao, addio, completezza. Contiene un grande segreto di felicità e fede nella vita. Quando i bambini di sei anni in Israele iniziano la prima elementare, la prima parola che imparano a leggere e scrivere è “Shalom Kita Aleph”:
“Shalom Kita Aleph – Pace [sia con te], ciao prima elementare.” Questa parola racchiude in sé tesori e promesse. La pace è la preghiera profonda di ogni persona ragionevole che comprende il valore e la bellezza della vita.
Pace interiore, con me stesso
Pace con le persone che mi circondano, con la mia famiglia, con il mio coniuge
pace all'interno della nazione, tra i partiti e tra le confessioni e le etnie
pace mondiale tra tutti i popoli e tutte le nazionalità
pace tra gli uomini
Nel nome della città di Gerusalemme si nasconde questa meravigliosa parola: pace. Gerusalemme, Yerushalayim, può essere interpretato come “città della pace/totalità”. Quando regna la pace, ci sentiamo completi. E funziona anche al contrario: quando ci sentiamo completi, regna la pace. Non a caso la parola pace è contenuta nella parola Gerusalemme. La pace a Gerusalemme è la fonte della pace nel mondo. “E Melchisedek, re di Salem, portò pane e vino, ed era sacerdote dell'Iddio Altissimo. “ (Genesi 14,18) ("Salem" significa ‘completo’ e si riferisce a Gerusalemme) Aspetto con ansia e prego per il momento in cui Melchisedek, un ‘re completo’, tornerà da noi. Aspetto il giorno in cui pregheremo insieme a lui sul pane e sul vino e avremo una nuova profezia che dice: «Pace, pace, e la pace È» (Geremia 6,14). Amen.
(Israel Heute, 20 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nell'ospedale Sheba di Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, in un reparto speciale vengono curati anche soldati gravemente feriti e traumatizzati durante le operazioni contro Hamas nella Striscia di Gaza. Incontro con una vittima di guerra.
di Carl Brunke
RAMAT GAN (Israele) - “Returning to Life” (Ritorno alla vita) è scritto sul cartello all'ingresso del reparto. Attualmente 50 soldati israeliani feriti nella guerra di Gaza sono qui in riabilitazione per poter tornare alla vita. Alcuni rimangono in clinica fino a un anno. Shahar è uno di loro. Il maggiore della riserva ha 38 anni e ne dimostra dieci di più. Non c'è da stupirsi. “Ero in pessime condizioni, sanguinavo dappertutto. È un miracolo che io sia qui”, dice.
Qui si trova il grande ospedale Sheba a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv. L'area si estende su 80 ettari, sei ospedali con 120 reparti e 11.000 dipendenti, di cui 3.000 infermieri. Nella classifica della rivista statunitense “Newsweek”, Sheba si è classificato all'ottavo posto tra i migliori ospedali del mondo. Sotto il comando di Shahar c'erano 100 soldati di un'unità di infiltrazione. Una volta all'anno i riservisti si riunivano per un'esercitazione. Fino al 7 ottobre 2023. Il giorno del massacro di Hamas che ha cambiato tutto. “Non siamo stati sorpresi che ci provassero. Siamo stati sorpresi che sia successo”, dice. Da allora è stato in missione a Gaza per un totale di 230 giorni. Fino al 10 ottobre 2024. “Nel nord di Gaza stavamo viaggiando su un veicolo militare quando siamo stati colpiti da un razzo dei terroristi di Hamas. Il mio compagno Daniel è morto sul colpo”, racconta Shahar. Quando il veicolo ha colpito una mina ed è esploso, il mitragliere è rimasto ucciso e Shahar è rimasto ferito in modo grave. “Ero in pessime condizioni. Sanguinavo dappertutto. Ero solo e indifeso”. Shahar è stato fortunato. Nelle vicinanze si trovava un'unità israeliana che lo ha portato fuori dalla zona di pericolo. È stato trasportato in elicottero in un ospedale di Gerusalemme, dove è stato operato immediatamente. Da oltre sei mesi, il corridoio dei soldati dell'ospedale Sheba è diventato una sorta di casa per lui. Nelle zone relax ci sono divani e poltrone che hanno visto giorni migliori. Come i soldati che vi riposano. Chi conosce Israele non si stupisce dei mobili segnati dall'uso. In molti luoghi il Paese ha conservato il carattere provvisorio e lo spirito del kibbutz. Ma naturalmente questa superficiale impressione è ingannevole. Sheba dispone di un ospedale sotterraneo di cinque piani per i casi di guerra e con “Sheba Beyond” sta promuovendo la digitalizzazione in campo medico. “Nel Negev stiamo progettando una clinica basata esclusivamente sull'intelligenza artificiale”, afferma Steve Walz, portavoce di Sheba, sottolineando la coesione tra il personale ebraico e quello arabo (25%): ‘La guerra resta fuori, a Sheba tutti lavorano fianco a fianco e mano nella mano’. • Anche i pazienti palestinesi sono benvenuti Il professionista delle pubbliche relazioni di New York conosce bene il suo mestiere. Anche i pazienti della Cisgiordania vengono curati a Ramat Gan, pagati dall'Autorità Palestinese (AP) o da organizzazioni non governative (ONG). Al contrario, i pazienti delle famiglie reali degli Stati arabi che non intrattengono relazioni diplomatiche con Israele pagano direttamente a Sheba le loro fatture. In una grande sala comune, le terapiste lavorano con gli uomini feriti. Un ragazzo di massimo 25 anni è seduto a un piccolo tavolo da cucina e sta imparando a mangiare di nuovo con coltello e forchetta. Ai primi tentativi non riesce ancora a infilzare un pezzo di pollo. Qui nessuno prova vergogna o timidezza. Il destino comune unisce. Shahar si è in parte ripreso. La gamba destra gli dà ancora problemi. ‘Andrà meglio. Quando sarò completamente guarito, voglio tornare nell'esercito’. E tornare al suo lavoro in una start-up a Tel Aviv. “Come riservista non devo tornare nell'esercito. Ma ho una missione e la porterò a termine”, afferma con convinzione. Shahar vuole difendere il suo Paese, lo Stato ebraico di Israele. Anche per i suoi amici della compagnia che ha perso a Gaza. “Penso che un giorno tornerò a Gaza”. Molti dei soldati feriti ricoverati nelle cliniche di Sheba condividono questo atteggiamento, conferma Steve Walz. La moglie di Shahar non ha nulla da obiettare: «Anche lei è nell'esercito e sa con chi è sposata. Inoltre, ora ho ancora più esperienza. Odiavo Hamas e continuo a odiarlo». Quando Shahar parla in questo modo, emerge con particolare chiarezza una differenza tra tedeschi e israeliani: gli uni non vogliono mai più essere carnefici, gli altri non vogliono mai più essere vittime. Nota: per proteggere la sua identità, pubblichiamo solo il nome di battesimo del soldato israeliano e non mostriamo alcuna sua foto.
(Israelnetz, 19 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Usa: per la maggioranza degli elettori ebrei Trump sta sbagliando in politica estera
Il sondaggio tra gli elettori ebrei registrati ha rilevato che il 52% degli intervistati afferma che la parola “antisemita” descrive molto o abbastanza bene il presidente degli Stati Uniti, e quasi il 70% ha detto lo stesso per le parole “fascista” e “razzista”. Inoltre, il 74% degli intervistati disapprova il lavoro che Trump sta facendo come presidente, e il 49% afferma che i tagli ai finanziamenti alle università hanno aumentato l’antisemitismo.
di Nina Prenda
Circa la metà degli ebrei americani descrive il presidente Donald Trump come antisemita, mentre solo una minoranza pensa che le sue misure nei campus stiano riducendo l’antisemitismo, secondo un nuovo sondaggio condotto dalla società di sondaggi GBAO Strategies. Gli ebrei americani sono anche ampiamente critici nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu, e alcuni di loro dicono di sentire un attaccamento minore a Israele rispetto a prima dell’attuale guerra Israele-Hamas, iniziata con le atrocità guidate da Hamas del 7 ottobre 2023, secondo il sondaggio. Il sondaggio tra gli elettori ebrei ha rilevato che il 52% degli intervistati afferma che la parola “antisemita” descrive molto o abbastanza bene il presidente degli Stati Uniti. Inoltre, il 74% degli intervistati disapprova il lavoro che Trump sta facendo come presidente, mentre il 26% approva. Quasi il 70% ha detto che le parole “fascista” e “razzista” lo descrivono molto o un po’ bene. Sondaggi precedenti hanno costantemente riportato bassi indici di approvazione per Trump da parte degli elettori ebrei, che si sono appoggiati fortemente ai democratici per decenni. Il sondaggio ha rilevato che una grande maggioranza degli intervistati prevede di sostenere i democratici nelle elezioni di medio termine del prossimo anno. Ma la descrizione “antisemita” è notevole proprio perché Trump ha fatto una grande campagna per combattere l’antisemitismo. Da quando è tornato in carica, la sua amministrazione ha intrapreso una serie di azioni di alto profilo con l’obiettivo dichiarato di combattere l’antisemitismo, tra cui ottenere miliardi di dollari di finanziamenti dalle università e cercare di limitare la capacità d’azione degli attivisti studenteschi stranieri. Il sondaggio ha rilevato che solo una frazione degli intervistati pensa che tali azioni riducano l’antisemitismo, mentre una quota molto più grande ha affermato che le azioni aumentano l’antisemitismo. Il 49% degli intervistati ha affermato che i tagli ai finanziamenti alle università hanno aumentato l’antisemitismo, mentre il 25% ha affermato che i tagli riducono l’antisemitismo e il 26% che non hanno alcun impatto. Il 61% degli intervistati crede che l’arresto dei manifestanti filo-palestinesi voluto dall’amministrazione Trump aumenti l’antisemitismo, mentre il 20% sostiene che riduca l’antisemitismo e un altro 20% che non ha alcun impatto. Nel complesso, il 77% degli elettori ebrei è preoccupato per l’antisemitismo nei campus universitari, mentre ancora di più sono preoccupati per l’antisemitismo negli Stati Uniti più in generale. Ma il 64% disapprova il lavoro che Trump sta facendo per combattere l’antisemitismo, mentre il 36% approva. Il sondaggio è stato condotto da un nuovo gruppo apartitico chiamato Jewish Voters Resource Center, che mira a raccogliere e diffondere dati sugli elettori e sulle questioni ebraiche. GBAO, che in passato ha condotto sondaggi per gruppi ebrei liberali, ha condotto il sondaggio su 800 elettori ebrei dal 22 aprile al 1° maggio. Ha un margine di errore del 3,5%. Il sondaggio ha anche rilevato che il 74% degli elettori ebrei disapprova il lavoro che Donald Trump sta facendo in politica estera, mentre il 26% approva. Il sondaggio ha rilevato che solo il 34% degli intervistati ha opinioni favorevoli su Netanyahu, mentre il 61% ha opinioni sfavorevoli su di lui. Infine, il 72% degli intervistati ritiene anche che la ripresa dell’azione militare a Gaza renda più probabile che gli ostaggi vengano uccisi e il 28% afferma che li rende più propensi a essere rilasciati.
Operazione del Mossad: recuperati oltre 2.500 documenti su Eli Cohen
di Luca Spizzichino
Con un’operazione segreta all’interno della Siria, il Mossad ha recuperato oltre 2.500 documenti classificati riguardanti la figura di Eli Cohen, la spia israeliana giustiziata pubblicamente a Damasco nel 1965. La scoperta arriva in concomitanza con il 60° anniversario della sua morte ed è destinata a riscrivere parti importanti della sua storia.
Secondo quanto annunciato domenica dallo stesso Mossad, i materiali erano custoditi in un luogo estremamente protetto, sotto la supervisione dei servizi segreti siriani. Nonostante il deterioramento dell’autorità del regime di Bashar al-Assad, l’operazione ha richiesto una pianificazione meticolosa ed è stata portata a termine solo di recente. Tra i documenti recuperati figurano i passaporti falsi utilizzati da Cohen, le chiavi originali del suo appartamento a Damasco, comunicazioni ricevute dai vertici del Mossad, relazioni di sorveglianza siriane e, tra i ritrovamenti più toccanti, una copia originale del testamento scritto di suo pugno prima dell’esecuzione e una serie di registrazioni audio su cassette.
Grande rilievo assumono anche i documenti che testimoniano la campagna diplomatica condotta dalla moglie di Cohen, Nadia, per salvargli la vita: lettere, appelli e tentativi rivolti sia ai leader siriani che alla comunità internazionale. In segno di rispetto e riconoscimento, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il direttore del Mossad, David Barnea, hanno recentemente incontrato Nadia Cohen, ribadendo l’impegno dello Stato di Israele a riportare finalmente in patria i resti dell’agente. Resta però il mistero: perché, nonostante il ritrovamento dell’intero dossier siriano, il corpo di Eli Cohen non sia stato ancora localizzato.
Già nel dicembre 2022 il Mossad aveva declassificato nuovi dettagli sul suo arresto, rivelando l’intercettazione dell’ultimo cablogramma inviato da Cohen il 19 gennaio 1965, in cui riferiva di un incontro segreto tra il presidente siriano Amin al-Hafez e i vertici militari del Paese. Per decenni ci si è interrogati se Cohen sia stato tradito dall’eccesso di zelo dei suoi superiori o da imprudenze personali. Ma il direttore del Mossad Barnea ha messo a tacere queste ipotesi: “Eli Cohen non fu catturato perché trasmise troppo, né perché disobbedì ai protocolli. Fu un esempio di coraggio e dedizione assoluti. A volte, anche i migliori possono cadere vittime della determinazione del controspionaggio nemico”. Addestrato intensamente, Cohen fu inviato in Argentina per costruire una solida identità di copertura come uomo d’affari con legami con la Siria. A Damasco riuscì a penetrare nei più alti circoli del potere grazie al suo carisma e alle sontuose feste che organizzava, guadagnandosi la fiducia di ufficiali e ministri.
Il suo contributo all’intelligence israeliana fu fondamentale: molti storici gli attribuiscono un ruolo cruciale nella vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Tuttavia, l’intensificarsi delle lotte interne al regime siriano e l’introduzione di tecnologie sovietiche anti-spionaggio nel 1963 segnarono l’inizio della fine per l’agente. “Eli Cohen resta una fonte di ispirazione per generazioni di agenti del Mossad. La sua eredità vive nel nostro impegno quotidiano”, ha concluso Barnea.
Yuval Raphael ha ottenuto il secondo posto assoluto all’Eurovision Song Contest 2025, trionfando nel televoto con ben 297 punti. A vincere il prestigioso microfono di cristallo è stato l’austriaco JJ con la ballata “Wasted Love”. Per Israele si tratta della settima volta tra i primi cinque posti nella storia della competizione.
Nonostante le polemiche e i numerosi appelli per escludere Israele dalla gara, il pubblico europeo ha scelto di premiare la performance di Raphael. I fischi di protesta sono stati sovrastati da applausi e standing ovation. Chiudendo la sua esibizione con: “Am Yisrael Chai!”
Le giurie nazionali si sono mostrate più caute: Israele ha ricevuto il massimo punteggio, i celebri “douze points”, solo dall’Azerbaigian, ma ha raccolto consensi significativi anche da paesi insospettabili come l’Irlanda, che ha assegnato 7 punti allo Stato ebraico, nonostante il forte clima anti-israeliano presente nel Paese. L’Italia ha assegnato 0 punti a Israele tramite la giuria, ma 8 punti dal televoto, a conferma di un ampio sostegno da parte del pubblico.
Poco dopo l’annuncio dei risultati finali, in un commento rilasciato a caldo, Raphael ha ribadito il suo affetto per il pubblico israeliano: “Amo il popolo d’Israele più di ogni altra cosa al mondo”.
Durante la sua esibizione, la sicurezza ha sventato due tentativi di protesta sul palco. Una coppia olandese ha cercato di interrompere la performance: la donna ha spruzzato vernice rossa su un agente, e entrambi sono stati arrestati. Per motivi di sicurezza, l’intera delegazione israeliana ha lasciato temporaneamente la Green Room.
Sui social, Raphael ha pubblicamente ringraziato la sua scorta personale. Le minacce, del resto, non erano nuove né infondate: lo scorso anno, la cantante Eden Golan aveva ricevuto così tante intimidazioni che il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, si era recato personalmente a Malmö per supervisionarne la protezione. Anche alcuni canali pubblici europei, come RTVE (Spagna) e VRT (Belgio), hanno trasmesso messaggi a favore della causa palestinese durante la diretta. Il messaggio spagnolo recitava: “Quando i diritti umani sono in pericolo, il silenzio non è un’opzione.”
Il coro della sconfitta – così i media israeliani giocano a favore di Hamas
La menzogna secondo cui agli americani importa degli ostaggi più che al governo israeliano, l’aiuto al nemico nella pubblicazione dei suoi video di terrore psicologico, il modo in cui Hamas manipola i nostri media, e al contrario di tutto questo: le vedove piene di spirito del battaglione 8207
di Kalman Liebskind
Questa è la narrazione che è passata come un filo conduttore questa settimana nei giornali, nei programmi radiofonici e nelle trasmissioni televisive: Donald Trump si preoccupa dei suoi cittadini, e quindi Eidan Alexander, che ha un passaporto americano, è stato liberato dalla prigionia. Il governo israeliano non si preoccupa dei suoi cittadini, e quindi gli altri 58 ostaggi, che non hanno un passaporto americano, sono rimasti a Gaza. Su Kan 11 hanno fatto di più, quando all’inizio del notiziario hanno mostrato sullo schermo le foto dei 23 ostaggi tenuti in vita, con sopra un grande titolo rosso “Loro non hanno un passaporto americano“. E questa squallida campagna politica, che cerca di raccontarci che agli americani importa dei nostri ostaggi più di quanto importi al governo israeliano, deve essere smantellata. Prima di tutto, forse qualcuno ha dimenticato – Eidan Alexander non è il primo ostaggio ad essere liberato. Finora il governo israeliano ha portato alla liberazione di quasi 200 ostaggi. La grande maggioranza di questi ostaggi liberati non sono cittadini americani. Sono cittadini israeliani. E a differenza di Donald Trump – che ha ricevuto Eidan Alexander gratuitamente, e dubito fortemente che avrebbe pagato qualcosa all’organizzazione terroristica di Hamas se fosse stato necessario – per gli altri ostaggi il governo israeliano ha dovuto pagare prezzi molto alti, e ha scelto di pagarli. Era giusto pagare tali prezzi? Questa è un’altra discussione, con opinioni in entrambe le direzioni, ma ora non stiamo trattando opinioni ma fatti. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano ha rilasciato molti terroristi che hanno ucciso circa 650 israeliani, uomini e donne, neonati e anziani. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano ha mandato molti soldati a rischiare le loro vite, alcuni dei quali sono caduti in battaglia per raggiungere questo obiettivo sacrosanto. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano era pronto a fermare la guerra, a ritirarsi da luoghi che avevamo conquistato con molto sangue, e a permettere ai terroristi di tornarvi per prepararsi al prossimo round. Quindi chi ha pagato di più per gli ostaggi, gli americani o noi? Vi immaginate Trump che rilascia centinaia di terroristi, le cui mani sono macchiate del sangue di molti americani, come abbiamo fatto noi? Quante altre menzogne possono ancora iniettarci, solo per adempiere al sacro compito politico di combattere questo governo? E se parliamo degli americani, bisogna dire un’altra cosa al riguardo. Gli americani sono una delle ragioni principali per cui l’organizzazione terroristica che tiene i nostri ostaggi è ancora in piedi. Gli americani, quegli stessi americani che ora tutti dobbiamo ringraziare e ammirare per le loro azioni, sono quelli che hanno esercitato una forte pressione su di noi e ci hanno ordinato di rifornire Hamas, di permettere loro di sopravvivere, e di far capire loro che nulla è urgente. Gli americani sono quelli che hanno imposto un embargo sulle armi che ci ha reso difficile colpire i terroristi con più forza e più presto. E in generale, se l’intera storia inizia e finisce con il fatto che gli americani si preoccupano degli ostaggi che sono loro cittadini più di quanto noi ci preoccupiamo degli ostaggi che sono nostri cittadini, e con un piccolo hocus-pocus sono riusciti a fare ciò che noi non abbiamo fatto, come mai Eidan Alexander è rimasto nei tunnel per 584 giorni? Perché gli americani non hanno fatto questa magia prima? Quindi dopo aver presentato i fatti, possiamo anche aggiungere una valutazione ragionata: dopo che il nostro livello politico ha preso la decisione di rientrare nella Striscia in forze, e dopo che l’IDF ha reclutato così tanti soldati per questa operazione, Hamas ha deciso che valeva la pena gettare un osso agli americani, anche se significava rilasciare senza compenso un soldato dell’IDF, anche solo per fare uno sforzo per fermare la disgrazia che stava per abbattersi. In altre parole, non sono stati gli americani, che come detto non hanno pagato nulla, a portare a questa liberazione, ma è stata ancora una volta la pressione delle Forze di Difesa Israeliane. E in generale, questo sforzo di trasformare ogni evento, persino la felice liberazione di un soldato di Golani, in qualcosa di acido e deprimente, diventa insopportabile. Che m’importa se questa liberazione è avvenuta a seguito di un dialogo tra americani e Hamas? Che m’importa se questa liberazione è avvenuta “sopra la testa del governo israeliano”? Abbiamo decine di persone in prigionia, e dato le richieste di Hamas – gli sforzi per liberarli affrontano sfide non semplici. E data questa situazione complessa, chiunque porti un’idea su come liberare anche un solo ostaggio, senza compenso, non importa chi sia o quale cittadinanza abbia – sia benedetto. Se la Repubblica Dominicana riuscisse a portare alla liberazione di un soldato dell’IDF dalla prigionia gratuitamente, sopra la testa del governo israeliano, e lo facesse solo perché questo soldato ha commosso i dominicani quando ha visitato il loro paese una volta, e tutto questo accadesse sfruttando il fatto che il portavoce di Hamas è un secondo cugino del ministro del turismo dominicano, dovrei essere sconvolto da questo? Ma dico, siete impazziti?
• Cosa pensavate che sarebbe successo? Questa storia non è saltata fuori dal niente. Dagli studi televisivi si sente da molto tempo il canto della sconfitta, mentre si cerca incessantemente di abbassare il morale e seminare tra noi un senso di depressione. Inizia con spiegazioni che la guerra è un fallimento, che nulla sta avendo successo, che avremmo potuto fare le cose molto più velocemente. Continua con sforzi supremi per convincere che solo pochi si presenteranno alle armi, che la motivazione sta diminuendo, che stiamo annaspando, che stiamo affondando nel fango di Gaza, che non si possono inviare ordini di richiamo ai riservisti quando gli ultraortodossi non si presentano, che non c’è senso in questa guerra, che è tutto politico, che metteremo in pericolo gli ostaggi, e che non c’è motivo di combattere ora se possiamo farlo tra un anno o due. Su Kan 11 ho visto un calcolo economico che spiega che la guerra ci costa molti soldi, e che se solo avessimo risparmiato questi soldi, avremmo potuto creare qui un paese meraviglioso, con classi meno affollate, con più macchinari per la risonanza magnetica e con un budget più alto per strade e ferrovie. Ho visto questi calcoli e mi sono ricordato dei loro fratelli maggiori, che in passato hanno controllato quanto ci costano gli insediamenti, ma non si sono mai seriamente chiesti se valesse la pena realizzare il costoso piano di disimpegno, e non si sono mai seriamente chiesti quanto ci sono costati gli accordi di Oslo, e quanto ci è costato dover inseguire per anni i terroristi che abbiamo portato in patria dalla Tunisia, e quanto ci sono costate le guerre che ci hanno portato il ritiro dal Libano, e cosa più importante – non si sono seriamente chiesti se, alla luce di questi costi, tutto ciò valesse la pena. Ma sapete cosa mi ha fatto più ridere quando ho visto sullo schermo di Kan 11 questi calcoli di “cosa avremmo potuto fare con questi soldi se non avessimo combattuto”? Che gli stessi identici testi sono pronunciati da coloro che vogliono chiudere l’ente radiotelevisivo pubblico. Anche loro spiegano, con le stesse identiche parole, che con 800 milioni in più ogni anno avremmo potuto investire di più nelle aule scolastiche, nelle macchine per la risonanza magnetica, nelle strade e nelle ferrovie. E come sostenitore della televisione pubblica, posso dire che non ho idea di come sia un paese che non investe in tale televisione, ma ho un’idea di come sia un paese che non investe nella guerra contro Hamas. E conosco bene il prezzo di questa guerra, i cicli interminabili di richiami in servizio, la moglie che rimane a casa alla fine della gravidanza mentre il marito è chiamato in servizio, i bambini piccoli che di tanto in tanto si trasferiscono a casa del nonno e della nonna, perché il loro padre è a Khan Younis, e gli ordini di richiamo che piovono come un diluvio una volta dopo l’altra. Ma che scelta abbiamo? Abbiamo già visto cosa succede quando si vive accanto a un’organizzazione terroristica con motivazioni omicide, senza la volontà e la disponibilità a fare ciò che serve per distruggerla. Alla fine, tutta questa campagna per abbattere lo spirito ha lo scopo di convincerci tutti a fermarci, ad arrenderci e a soccombere. Cosa potrebbe mai succedere se ci fosse Hamas a tre minuti di corsa dal kibbutz Nir Oz? L’importante è che non ci costi denaro, l’importante è che non facciamo il servizio di riserva, l’importante è che ci sia finalmente la pace qui. C’è qui un coro di un gruppo che si è stancato della strada da percorrere, e i media israeliani dirigono questo coro. Basta, trasmettono, siamo stanchi. Non abbiamo più la forza di combattere per ciò che è nostro. Vogliamo la pace e ci raccontiamo che se solo dessimo al nemico ciò che chiede, ci darebbe questa pace. E questo è esattamente ciò che ci siamo raccontati alla vigilia del 7 ottobre, quando pensavamo che se solo avessimo fornito a Yahya Sinwar una buona economia e posti di lavoro, i suoi uomini avrebbero dimenticato che siamo condannati a morte. E cosa pensate che succederà se ci ritiriamo adesso? Hamas capirà di aver sbagliato? Che questa non è la strada? I suoi uomini andranno a crescere i nipoti all’ombra del tramonto sulla spiaggia di Dir al-Balah? Abbandoneranno il loro desiderio di distruggere lo stato ebraico? C’è più 6 ottobre di questo? Non meritiamo una discussione più seria, dal modo in cui i nostri media stanno conducendo la discussione sulla questione di quanto sia necessario e importante sconfiggere definitivamente chi è responsabile del più grande massacro della nostra storia? E in generale, come si può da un lato opporsi alla continuazione della guerra e sostenere che non ha legittimità, e dall’altro gridare perché non abbiamo intrapreso una tale guerra prima del 7 ottobre, e come abbiamo permesso a questo mostro del terrore di esistere senza combatterlo, in giorni in cui è del tutto chiaro che non c’era alcuna legittimità per intraprendere una tale guerra? E quando e come, diavolo, la necessità di sconfiggere Hamas è diventata un argomento controverso? Non sto parlando di Gideon Levy, che ha spiegato questa settimana su “Haaretz” che “la distruzione di Hamas è un obiettivo criminale”. Sto parlando del mainstream israeliano sionista. Quello che vuole sconfiggere il nemico. Quello che vuole inviare al mondo arabo il messaggio che chi ci fa ciò che Hamas ha fatto, non la farà franca. Quello che vuole permettere ai kibbutzim e ai moshavim di confine di tornare a una vita serena, di coltivare grano, di crescere bambini, e non di occuparsi del conto alla rovescia verso il prossimo round.
• Questa non è una richiesta di pace Il video pubblicato da Hamas lo scorso sabato, in cui si vedono gli ostaggi Yosef Haim Ohana ed Elkana Bohbot, era straziante. Da un lato – ogni video del genere è un altro segno di vita incoraggiante. Dall’altro – le dure condizioni, il terribile stato mentale e il grande dolore dei filmati colpiscono profondamente l’anima. Ho espresso in passato la mia opinione contro la pubblicazione di questi video. Anche perché si tratta di una manipolazione maligna con cui non ho alcun desiderio di collaborare. Anche perché i testi pronunciati dagli ostaggi sono formulati meticolosamente dall’organizzazione terroristica crudele che ha invaso i nostri insediamenti, ci ha massacrato, ci ha stuprato, ci ha ucciso e ha rapito la nostra gente. Hamas non pubblica questi video per rallegrarci e trasmetterci i saluti dai nostri ostaggi. Li pubblica per esercitare su di noi il terrore psicologico. E cosa facciamo in risposta? Collaboriamo con questo terrore. Nell’ultimo video, pubblicato sabato scorso, si sente Yosef Haim Ohana mentre parla ai “nostri fratelli piloti”. “Sono molto orgoglioso di quelli di voi che hanno deciso di smettere di salire e di mettere a rischio le nostre vite, e hanno firmato ciò che hanno firmato. Ma quelli che sono ancora in grado di salire e bombardare qui noi, i prigionieri civili, cosa raccontate alle vostre famiglie? Cosa raccontate alle nostre famiglie? Cosa?“ Non bisogna essere un grande genio per capire che il nostro nemico è molto preoccupato dalla possibilità che i piloti dell’aeronautica militare continuino a bombardarlo. Non si preoccupa del benessere di Yosef Haim Ohana e di Elkana Bohbot. Si preoccupa della sicurezza dei suoi assassini. E visto questo, un media israeliano che pubblica queste cose collabora con il nemico. Non c’è altro modo di presentare le cose. Volete mostrare qualche secondo in modo che possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo perché il nostro uomo è vivo? Va bene. Ma vedere come quasi tutti i media – Canale 12 e Canale 13, Walla, Mako e Ynet, “Maariv” e i24 – presentano la propaganda del nemico al completo, e trasmettono tre minuti e 19 secondi distillati di messaggi di Hamas, è un evento inconcepibile. Una nota positiva di responsabilità va, in questo contesto, all’ente radiotelevisivo pubblico (disclosure completa, ecc.), che dopo un breve periodo in cui il video completo era in onda, ha deciso di editarlo e di lasciarne solo 26 secondi. Il messaggio è chiaro: un segno di vita importante – vale la pena pubblicarlo. Un appello emotivo di un’organizzazione terroristica, che cerca, con mezzi manipolativi, di convincere i piloti dell’aeronautica militare a non combatterla – no. Ho menzionato questo argomento qui più di una volta, ma per qualche motivo non riceve abbastanza spazio nel discorso pubblico. Hamas, senza nemmeno cercare di nasconderlo, ci manipola come burattini. Prendete solo il semplice fatto che quasi tutti i loro video di ostaggi vengono pubblicati da questi assassini nei fine settimana, di solito il sabato pomeriggio. Perché succede questo? Non perché queste sono le ore in cui il loro reparto digitale è libero, ma perché queste sono le ore prima delle proteste regolari del sabato sera, e Hamas ha interesse ad alimentarle con energie. Non ho alcuna pretesa di pensare, Dio mi guardi, che i manifestanti siano interessati a promuovere gli interessi di Hamas, ma è del tutto chiaro che Hamas è convinto che sia questo che stanno facendo. E quindi, il video di Yosef Haim Ohana e di Elkana Bohbot è stato pubblicato sabato scorso, e anche il video precedente di Elkana Bohbot è stato pubblicato di sabato, e così anche il video di Maxim Harkin, e il video precedente di Harkin e di Bar Kuperstein, e il video di Eidan Alexander, e il video di Matan Tsengauker, e nel passato più lontano il video di Liri Albag, e tra questi, venerdì pomeriggio, è stato pubblicato il video di Matan Angerst. E poiché, come abbiamo imparato, questa organizzazione terroristica non è stupida, è chiaro che è convinta che le proteste contro il governo sulla questione degli ostaggi la aiutino, e che la pressione sul governo affinché si arrenda e le dia ciò che vuole, la trasmetta. Dovrebbe questo far sì che qualcuno che vuole protestare non lo faccia? Non entro in questo. Viviamo in un paese libero, e che ognuno faccia ciò che ritiene giusto fare. Penso solo che sia giusto parlare di questa questione. Hamas, con le sue azioni e i suoi video, grida ad alta voce: “Voglio che continuiate a fare pressione sul vostro governo, perché questo è buono per me. Voglio che continuiate a pubblicare i video di propaganda che diffondo, perché questo mi aiuta”, e questa realtà non dovrebbe essere ignorata. Perché in pratica, qual è la differenza – nell’azione, non nelle intenzioni – tra la campagna che Hamas ci chiede di condurre, e la campagna che noi nei media stiamo conducendo? Ci chiede di trasmettere i video? Noi li trasmettiamo. Ci chiede di incoraggiare le proteste attraverso i video? Noi le incoraggiamo. Ci chiede di convincerci a rinunciare all’espansione della campagna contro di esso? Anche noi cerchiamo di convincere in questo. Ci chiede di spiegare che dobbiamo pagargli qualsiasi prezzo chieda? Questo è esattamente ciò che chiedono i nostri media. Di nuovo, sottolineiamo l’ovvio, Hamas è un nemico e i nostri media non lo sono, ma il fatto che la sua campagna e la nostra campagna si sovrappongano non dovrebbe causare almeno un po’ di disagio?
• Su numeri e storie Innumerevoli affermazioni si sentono sul fatto che la guerra non è stata gestita bene, e forse ancora non è gestita bene, e che se fosse stata gestita diversamente – forse saremmo già oltre. È vero? Non lo so. È del tutto chiaro che l’estrema cautela con cui abbiamo operato in vaste aree della Striscia per non danneggiare la vita degli ostaggi, ha danneggiato la nostra capacità di usare lì il fuoco con l’intensità che avremmo voluto usare, ma nella complessa realtà con cui ci confrontiamo questa è stata probabilmente la decisione giusta. E su questo concetto di fondo, è chiaro che non si può avvertire continuamente che gli ostaggi potrebbero rimanere feriti, e poi chiedere perché la guerra dura così tanto tempo. È anche chiaro che non si può attaccare Netanyahu con l’affermazione che non ha fatto nulla per sconfiggere l’organizzazione terroristica prima del 7 ottobre, e contemporaneamente chiedergli di fermare la guerra e ritirarsi, ora, quando Hamas è in piedi. Decidete, o questa organizzazione terroristica deve essere distrutta o no. Non si può avere entrambe le cose. Torno all’affermazione secondo cui la guerra non è stata gestita bene finora. Supponiamo, solo per il dibattito, che sia un’affermazione corretta. Ignoriamo i ritardi causati dalle pressioni americane e il modo in cui Joe Biden ci ha costretti a fornire aiuti alimentari a Hamas parallelamente alla sua guerra contro di noi, e per il dibattito partiamo dal presupposto che il governo ha gestito la guerra fino ad oggi in modo catastrofico. Come questa ipotesi ci porta alla conclusione che bisogna fermarsi? Come convince qualcuno che il giuramento che abbiamo fatto di cancellare Hamas, dopo aver visto le orribili immagini dagli insediamenti di confine, non è più rilevante? Immaginate un inseguimento della polizia dopo un’unità di assassini di una grande organizzazione criminale, che ha appena commesso un triplice omicidio, e questo inseguimento procede zoppicando. Una pattuglia entra nella strada sbagliata, una seconda pattuglia si ribalta durante la guida, una terza pattuglia si confonde e i suoi poliziotti sparano per errore nella direzione opposta. Qualcuno consiglierebbe alla polizia, in tali circostanze, di interrompere l’inseguimento, solo perché tutto è iniziato storto, e di lasciare che gli assassini fuggano dove vogliono fuggire? Abbiamo un’entità armata che si aggira liberamente. Un’entità pericolosa. Un’entità che potrebbe uccidere innocenti. Quindi lasciarla libera perché l’inseguimento nella sua prima fase non è stato gestito bene? Scrivete articoli contro chi ha gestito la guerra finora, chiedete di sostituirlo alle prossime elezioni, rilasciate interviste contro di lui alla radio. Ma come può la conclusione di qualcuno da una guerra, che secondo lui non è ben gestita, essere che è meglio lasciare questa organizzazione terroristica in pace? E questo va ricordato: dall’altra parte di questa campagna mediatica ci sono soldati che sono stati chiamati alla bandiera e si sono presentati. E non li invidio e ciò che stanno passando, quando da un lato ricevono l’ordine di attaccare il nemico, e sanno bene perché devono farlo, e cosa ci ha fatto questo nemico, e cosa bisogna fare per sventare le sue intenzioni, e dall’altro lato si avvicinano al loro orecchio i media israeliani, che deprimono il loro morale, che cercano di convincerli che ciò che stanno facendo è politico, costoso e senza speranza, e che se cadranno in battaglia sarà una morte inutile. Ho visto che attacco c’è stato la settimana scorsa contro Amit Segal, quando ha riferito del 102% di presenze per la riserva. Una serie di giornalisti ci ha dato una lezione in 5 unità di matematica (punteggi per l’esame di maturità NdT) per spiegare che il conteggio non è corretto, che il calcolo è errato, e che la metodologia è confusa. E io, che non so cosa sia giusto e cosa no, e so solo che i miei amici mi raccontano di buone percentuali di presenze nella loro unità, cerco di capire da dove viene la motivazione per questa discussione. A quale bisogno risponde? Perché quando vedo dei bravi israeliani presentarsi in massa per la riserva, e tra loro un gruppo della mia stretta famiglia, mi riempio di orgoglio. E mi chiedo qual è la storia di quelli che questo disturba tanto che il loro primo istinto li manda a trovare centinaia di motivi che mostrino che il numero non è corretto, che la motivazione non è così alta, che i riservisti non vengono davvero più. Qual è la vostra storia? Cosa state cercando di promuovere quando siamo in guerra contro questo nemico assetato di sangue?
• Donne forti che infondono coraggio Ma c’è anche un’altra realtà. Una realtà al di là delle onde radio e degli studi televisivi. Questa settimana sei vedove dell’IDF, che hanno perso i loro mariti in questa guerra, hanno inviato una lettera di incoraggiamento commovente ai combattenti del battaglione dei loro coniugi, che sono stati nuovamente richiamati per la riserva negli ultimi giorni. “Cari soldati e famiglie del battaglione 8207“, hanno scritto loro, “in questi giorni, in cui siete tornati di nuovo a combattere, i nostri cuori sono con voi, vi accompagniamo con orgoglio ed emozione. Voi, coraggiosi combattenti che avete perso sette dei vostri migliori amici, che nonostante il dolore e la mancanza continuate a stare in piedi e non vi scoraggiate dal combattere per la nostra cara terra, non lasciate che le emozioni confondano la strada, e continuate nella missione e nella fede“. Hanno continuato: “Vogliamo incoraggiarvi e dire: siamo orgogliose di voi, crediamo in voi e confidiamo in voi. Siamo sicure che i nostri mariti, caduti in battaglia, vi guardano dall’alto, e vedono la strada che avete fatto da allora, vi proteggono e sono felici di voi, dello spirito, del cameratismo della perseveranza e dell’unità. Firmato: Tal Avitbul – moglie di Eliav z”l, Reut Shabtai – moglie di Guy z”l, Shir Almaliach – moglie di Gilad z”l, Rachel Goldberg – moglie del rabbino Avi z”l, Smadi Moyal – moglie di Shaul z”l, Shiri Tal – compagna di Amit Hayot z”l”. (Maariv – 16 maggio 2025)
Perché Dio ha creato il mondo? - 2Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Il primo santuario
Dio aveva dato ad Adamo ed Eva l’ordine di crescere, moltiplicarsi e riempire la terra: gli uomini dunque avrebbero dovuto spargersi su tutta la terra. Ma prima ancora che fosse formata Eva, Dio aveva assegnato ad Adamo un “giardino”, cioè un particolare territorio che Adamo avrebbe dovuto lavorare e custodire: il giardino di Eden. Sarebbe stato questo il centro del mondo, il luogo a cui avrebbe dovuto riferirsi l’intera umanità che sarebbe discesa dalla prima coppia; lì Dio si sarebbe incontrato con gli uomini, riconoscendo ad Adamo, come primo uomo creato, la posizione di legittimo rappresentante di tutta la società umana da lui discesa.
Il giardino di Eden sarebbe stato dunque il luogo dell’incontro fisicamente avvertibile fra Dio, nella sua santità d'amore, e l’uomo, nella sua natura di creatura ubbidiente. Con un linguaggio usato in seguito nella Bibbia, si potrebbe dire che il giardino di Eden avrebbe dovuto essere il luogo in cui la creatura veniva ad adorare il suo Creatore. Cioè un santuario.
Sappiamo bene che cosa è successo poi in quel santuario su istigazione del serpente; ma non è su questo che ora vogliamo soffermarci, ma piuttosto su quello che accadde in seguito:
“E udirono la voce dell'Eterno Dio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Dio, fra gli alberi del giardino. E l'Eterno Iddio chiamò l'uomo e gli disse: 'Dove sei?” (Genesi 3:8-9).
La presentazione di un Dio che cammina nel giardino e chiede all’uomo di dirgli dov’è, come se non fosse capace di saperlo da solo, induce al sorriso: “ecco la presentazione in forma infantile di una profonda realtà spirituale che non si può esprimere in altro modo”, pensa l’uomo evoluto di oggi nella sua protervia intellettuale, questa sì davvero infantile agli occhi di Dio.
Le cose invece sono andate proprio così, come dice la Bibbia. E tutto fa pensare che non fosse la prima volta che Dio si presentava ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden in forma corporalmente riconoscibile da loro. L’amorevole incontro tra Dio e la sua creatura era concreto, corporale, e dunque non continuo. Continua sarebbe stata la comunione d’amore, che in certi momenti sarebbe stata vissuta in forma di una particolare vicinanza fisica, come avviene in un matrimonio ben riuscito.
• Ma le cose non sono andate così Sta scritto che nel giardino affidato all’uomo “l’Eterno Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli alla vista e il cui frutto era buono da mangiare” (Genesi 2:9). Al centro di questo giardino, dunque proprio nel mezzo del primo santuario, Dio fece spuntare due piante speciali: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.
Il frutto del primo albero sarebbe stato per l’uomo il nutrimento che gli avrebbe permesso di proseguire in una vita senza limite, mantenendo così in eterno quel rapporto d’amore che Dio voleva instaurare con la sua creatura.
Quanto al secondo albero, è quasi sicuro che per Adamo rappresentò un enigma: “conoscenza del bene e del male”, che significa? Adamo era nato e cresciuto in un avvolgente bene totale: in lui e intorno a lui tutto era buono. Che cosa poteva significare per lui la parola “male”? Che cos’è il male? Ma se anche non poteva capire il significato di quella parola, poteva ben capire che cosa voleva Dio da lui con l’ordine che gli aveva dato riguardo al frutto di quell'albero: “Non ne mangiare”, aveva detto. E perché? mi chiedo subito io. Non è detto però che se lo sia chiesto anche Adamo, perché lui non era ancora immerso nel peccato, come invece sono io, insieme a tutti gli altri uomini mortali. Per Adamo tutto era buono: sia il permesso di mangiare, sia l’ordine di non mangiare. Se l’ha detto Dio, che c’è da discutere?
• Qualcosa è andato storto. Conosciamo tutti la storia del “peccato originale”. Quello che di solito si sottolinea è la disubbidienza della creatura rispetto all’ordine del Creatore, e la parte che ha giocato il serpente nell’indurre l’uomo alla trasgressione.
Qui invece vogliamo riflettere sulla parte del Creatore, e chiederci come mai il progetto di Dio non ha funzionato. Eppure alla fine del suo lavoro Dio aveva detto che tutto era “molto buono”. Come mai allora da quella meravigliosa opera creativa sono scaturite conseguenze disastrose: guerre, morti, calamità, disgrazie? Non ci sarà stato qualche errore di progettazione? Perché Dio ha fatto spuntare nel giardino quel pericoloso albero della conoscenza del bene e del male? Perché, dopo averlo messo proprio al centro del giardino, bene in vista, ha imposto all’uomo di non mangiarne il frutto? Perché, pur conoscendo la pericolosità del serpente, ha permesso che entrasse liberamente nel giardino e prendesse la parola? Perché, dopo che con sua menzognera arte seduttiva aveva cominciato a parlare, non ha inviato qualche angelo a esporre l’interpretazione autentica delle parole di Dio?
Sono domande legittime, di cui si può cercare risposte nella Bibbia, tenendo presente però che vale il principio secondo cui “nella Bibbia o si capisce il tutto o non si capisce niente”. E’ uno slogan, ma può servire ad abbozzare quello che s’intende per “approccio olistico alla Bibbia”.
• Partiamo dunque dall’inizio “Dio è amore”, sta scritto nella prima lettera dell’apostolo Giovanni (4:8,16), ed è un’affermazione che dev’essere vista al principio di tutta l’opera di creazione. Dio ha voluto formare un mondo abitato da una società di uomini in cui Egli potesse esprimere la sua natura d'amore. E l’amore, per essere pienamente compiuto, deve essere contraccambiato; e per essere contraccambiato, chi riceve l’offerta d’amore deve essere libero di rispondere sì o no. In altre parole, la libertà è il terreno basilare su cui può avvenire lo scambio d’amore.
Ma lo scambio d’amore fra Dio e l’uomo non può essere simmetrico. L’amore di Dio è attivo, e l’amore dell’uomo è reattivo. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Giovanni 4:19), dice la Bibbia. L’amore attivo di Dio ha un dono e una parola, perché l’amore è collegato alla verità e la verità è collegata alla parola. Dio aveva detto ad Adamo:
«Mangia pure (dono) da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai (parola di verità)» (Genesi 2:16-17).
In sostanza, all’uomo è stata offerta la possibilità di vivere una relazione d’amore in una posizione di libera e fiduciosa sottomissione a Dio; il serpente invece è riuscito a far credere all’uomo che la sua relazione d’amore con Dio sarebbe stata piena soltanto se vissuta in posizione di parità: “… sarete come Dio” (Genesi 3:5). Ma questo non è possibile: chi ci prova, muore.
Con la loro pretesa di autonomia, Adamo ed Eva hanno rotto il legame spirituale che li collegava al Datore della vita. Non sono morti sul colpo, subito dopo aver preso il frutto dell’albero, ma è come se avessero contratto immediatamente una malattia mortale. Dovevano fisicamente morire, era inevitabile, perché Dio l’aveva chiaramente detto, ma tra il compimento del “reato” e le sue annunciate conseguenze, il Creatore si è riservato uno spazio di tempo per prendere le sue decisioni.
Esamineremo più avanti la nuova formulazione che Dio volle dare al suo progetto dopo la fatale scelta di Adamo ed Eva, ma ora vogliamo provare ad immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se Adamo ed Eva non avessero dato ascolto alle parole del serpente e avessero deciso di attenersi strettamente all’ordine di Dio.
• L’ipotetica conseguenza di una “ubbidienza originale” a Dio La presenza del serpente nel giardino di Eden fa capire che la creazione è avvenuta sotto gli sguardi di Satana, capo di una ribellione angelica che ha prodotto una caduta precedente a quella dell’uomo. Al ribelle Satana Dio ha concesso di entrare nel giardino e rivolgere all’uomo una parola che avrebbe costituito per lui il decisivo test d’esame: Sì o No alla parola d’amore di Dio. Una “prova d’amore” dunque, espressa in parole, come fece Gesù con Pietro presso il mar di Tiberiade: “Simone di Giovanni, mi ami tu?” (Giovanni 21:1-9). Se Adamo, insieme a Eva, avesse risposto Sì a Dio, come poi fece Pietro con Gesù: la comunione d’amore che genera vita sarebbe fruttuosamente proseguita: la coppia avrebbe potuto accedere all’albero della vita, da cui avrebbero ricevuto entrambi vita eterna fisica, senza altri test aggiuntivi. E’ normale dire questo, perché come è bastato un unico No per provocare la caduta di tutto il programma di Dio, così sarebbe bastato un unico Sì per il mantenimento del programma originario nella forma prevista. Lo spirito che il Signore aveva soffiato nelle narici di Adamo per farlo vivere, sarebbe passato anche ai suoi discendenti di generazione in generazione. Come adesso diciamo che ogni bambino è malvagio fin dalla nascita, in quel caso si sarebbe detto che ogni uomo è buono fin dalla nascita, perché porta i segni della fedeltà a Dio dei suoi progenitori. E come oggi diciamo che anche se tutti nascono originariamente “cattivi”, non per questo tutti saranno dannati, così per il fatto che tutti sarebbero nati originariamente “buoni”, non per questo tutti sarebbero stati “salvati”, cioè mantenuti in eterna comunione con Dio.
Se Adamo avesse risposto Sì a Dio, Satana avrebbe indubbiamente perso una battaglia, ma questo non sarebbe stata la sua definitiva sconfitta nella guerra con Dio. Sarebbe avvenuto il contrario di ciò che avviene al presente dopo la caduta. Oggi ogni uomo nasce malvagio, ma Dio gli concede, rivolgendogli la parola adatta nel momento opportuno, la possibilità di dire Sì a Lui ed essere salvato. Nel mondo scaturito dall’ubbidienza di Adamo a Dio, ogni uomo sarebbe nato buono, ma Satana avrebbe avuto la possibilità di rivolgersi all’uomo divenuto adulto e mettere in dubbio la verità della Parola di Dio ricevuta attraverso i suoi genitori: sarebbe stato dunque sottoposto a un test simile a quello per cui era passato Adamo. Se l’avesse superato, sarebbe stato mantenuto nella “santa società” in cui Dio dimora; in caso contrario sarebbe stato gettato fuori e consegnato nella mani di Satana, di cui aveva seguito il consiglio.
La società voluta da Dio sarebbe stata dunque sempre costituita da tutti e soli santi; e quando fosse stato raggiunto il numero stabilito dal programma, Dio avrebbe condannato definitivamente Satana, in forme che non sappiamo e non dobbiamo immaginare.
Alla fine di tutto si sarebbe realizzato l'obiettivo contenuto nel progetto originario di Dio, come espresso nelle parole dell’Apocalisse:
«Ecco l’abitazione di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:3).
Quanto sopra immaginato, come puro esercizio letterario, può essere convincente o no, ma ha il solo scopo di far riflettere, per differenza, su ciò che poi si è effettivamente verificato nella storia biblica.
• Ma Adamo ha detto No Adamo si è lasciato convincere dal serpente e ha detto No a Dio. In quel momento, avendo rotto la comunione vitale col suo Creatore, è spiritualmente morto. Avrebbe potuto continuare a vivere fisicamente, ma questo per lui avrebbe significato entrare definitivamente nella schiera di Satana, condividendone il destino eterno preparato da Dio. Per questo il Signore ha impedito ad Adamo di prendere del frutto dell’albero della vita: affinché non entrasse a far parte dell’esercito dei demoni, condividendone la sorte eterna.
La morte fisica di Adamo è stata dunque una condanna preannunciata, ma nella forma in cui Dio l’ha eseguita è stata una grazia, perché Dio non ha voluto che l’uomo entrasse a far parte dell'esercito di Satana e il progetto creazionale dovesse essere definitivamente abbandonato.
E’ da questo momento che si possono cominciare ad applicare le ben note parole del Vangelo di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo…”. Sì, perché Dio ha cominciato ad amare il mondo fin da quando l’ha pensato e progettato; e chi ama davvero, non si rassegna facilmente ad accettare che l’oggetto del suo amore si rovini con le sue mani, dicendo che “tanto è colpa sua, peggio per lui”; chi profondamente ama cerca in tutti i modi di salvare l’oggetto del suo amore, nel desiderio di poterlo riottenere, sia pure in condizioni diverse.
Così ha fatto il Signore: ha tanto amato il mondo (in senso pieno: habitat-società-santuario) che per riaverlo ha “faticato” molto più di quanto avesse fatto nella prima creazione. Ma invece di riaverlo in forma rattoppata, alla fine lo riotterrà in una forma molto più gloriosa di quella originaria.
Questo però a Dio è costato molto. Davvero molto:
‘Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16).
Il chiunque di questo versetto sottolinea che ogni uomo può essere salvato, senza distinzione di qualsiasi tipo, ma non bisogna trascurare, tenendo presente l’intero messaggio biblico, che avere la vita eterna significa ottenere la grazia di entrare a far parte viva del glorioso progetto salvifico di Dio. Ed è appunto su questo che nel seguito vogliamo riflettere.
TEL AVIV – Nuova notte di pesanti bombardamenti sulla striscia di Gaza, iniziati pochi minuti dopo il lancio di volantini con l’avvertimento alla popolazione: «Siete in zona pericolosa, evacuate immediatamente verso sud». Ad essere state colpite sono le aree di Jabalya e Beit Lahiya a nord e Deir al-Bala e Khan Younis al centro della Striscia. In mattinata, ulteriori attacchi in elicotteri sono stati segnalati sull’area meridionale di Rafah. Blindati delle Idf sono avanzando verso il sudest di Deir el-Balah, nel centro della Striscia, protetti da un pesante fuoco di copertura. Nelle ultime 24 ore ci sono stati almeno 115 morti, di questi 58 solo stanotte e almeno 10 stamattina. L’Idf annuncia: «È la prima fase dell’operazione Carri di Gedeone, abbiamo già preso il controllo di alcune aree».
• Il nome Si tratta del piano approvato dall’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu a inizio maggio che prende il nome da un episodio biblico tratto dal Libro dei Giudici: quello dove il profeta (e leader militare) Gedeone riesce a terrorizzare e sbaragliare i nemici – i Medianiti - con uno sparuto gruppo di uomini armati di torce e vasi di coccio per farli sembrare di più. Simbolo della capacità di Dio di fare grandi cose anche con pochi mezzi. Un parallelo bizzarro visto che l’esercito israeliano di mezzi ne ha, eccome. L’escalation per ora consiste in massicci bombardamenti. Fino a poche settimane i ranghi militari si erano opposti: anche perché il piano richiede la mobilitazione di migliaia di riservisti. Ma in realtà gli ultimi dettagli operativi sono stati messi a punto già lo scorso 6 maggio da Eyal Zamir, capo di Stato maggiore dell'Idf e Ronan Bar, capo dello Shin Bet.Se proseguirà secondo i piani, è preliminare a una più vasta offensiva via terra mirata a distruggere definitivamente Hamas, prendere «il controllo operativo» della Striscia, concentrare la popolazione civile ulteriormente a sud. E, sia pur scivolata all’ultimo punto della lista d’intenti, liberare gli ostaggi.
• L’operazione L’operazione ha preso il via, almeno nella sua fase preliminare appunto, subito dopo la partenza di Donald Trump dalla regione. E nonostante i negoziati di Doha siano ancora in corso, benché in evidente stallo. Continueranno fino a domani, ma la presenza israeliana, scrivono i giornali locali, è ormai «meramente formale». E una fonte interna ai negoziati ha detto ad Axios: «L'impressione è che gli israeliani siano venuti a Doha per ostacolare i colloqui e trovare una giustificazione per incrementare la guerra». Di sicuro, l’inviato americano Steve Witkoff ha lasciato il Qatar già ieri.
• Le tensioni con gli Usa Cnn nota che la nuova offensiva israeliana si inserisce in un contesto di crescenti divergenze tra il governo americano e quello israeliano. Trump ha infatti dichiarato la settimana scorsa di voler porre fine alla «brutale guerra» di Gaza e non ha visitato Israele durante il tour in Medio Oriente di questa settimana: scelta che, come ha scritto Yedioth Ahronoth, ha sconcertato gli israeliani lasciandoli «confusi e offesi». Non solo. Il presidente americano ha anche ottenuto da Hamas il rilascio dell’ultimo ostaggio israeliano-americano la scorsa settimana. E gli Houthi hanno accettato di smettere di attaccare le navi americane nel Mar Rosso, continuando allo stesso tempo ad attaccare Israele con droni e razzi (finora sempre intercettati). Durante il tour Trump ha anche riconosciuto che la gente a Gaza sta morendo di fame e ha affermato che gli Stati Uniti si occuperanno della situazione nella Striscia, dove il nuovo blocco imposto da Israele lo scorso 4 marzo sta impedendo l’ingresso di aiuti da oltre un mese. In cosa consiste il piano americano, nessuno lo sa. Secondo una rivelazione di Nbc gli americani avrebbero un piano per spostare un milione di palestinesi in Libia e l’amministrazione ne avrebbe già discusso con le autorità libiche, offrendo in cambio lo sblocco di miliardi di dollari di fondi che gli Stati Uniti hanno congelato a Tripoli oltre un decennio fa. Nessun accordo formale è stato raggiunto e comunque un portavoce dell’amministrazione ha già smentito: «La situazione sul campo è insostenibile per un piano del genere». Intanto, però, pure i media israeliani sottolineano da giorni quanto fra i due paesi si sia scavato un solco profondo. Tanto che Haaretz addirittura titola: «Il messaggio di Trump a Netanyahu: sei licenziato!». Notando che «ogni foto o dichiarazione del presidente Usa nei paesi arabi visitati, ha bruciato la carne di Netanyahu». Sempre secondo il quotidiano «Trump ha capito prima di essere rieletto che gli interessi dello Stato di Israele non coincidono necessariamente con quelli del suo premier». Per ora Netanyahu tace. E il Washington Post interpreta il suo silenzio come remota ultima possibilità di un accordo. Channel 12 in mattinata ha d’altronde pure affermato che “C'è un'apertura per le negoziazioni e la possibilità di interromperli in qualsiasi momento se ci fossero elementi che potrebbero far saltare l'accordo". La riunione di gabinetto di domani sarà il momento della decisione finale: affondo su Gaza o ulteriore attesa. Manco a dirlo, i familiari degli ostaggi ancora prigionieri nella Striscia si oppongono fermamente all’operazione: stasera torneranno a protestare a Tel Aviv.
Il corrispondente di Israel Heute parla della nuova politica mediorientale di Trump, degli accordi americani con Hamas, i ribelli Houthi e l'Iran, e dell'isolamento di Gerusalemme in politica estera.
di Itamar Eichner
L'isolamento della politica estera di Israele è particolarmente evidente in questo momento, con la visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo.< Nelle ultime settimane sono saliti alla ribalta due attori centrali in Medio Oriente: il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Insieme al presidente degli Stati Uniti, stanno tracciando la nuova rotta nella regione, sia attraverso la normalizzazione della leadership siriana sotto Ahmad al-Sharaa, sia attraverso i negoziati sul programma nucleare iraniano. Israele, invece, rimane completamente escluso. Completamente isolato. Da un lato, Gerusalemme è alle prese con una crisi interna e una coalizione di governo sempre più fragile. Dall'altro, la guerra a Gaza si protrae, mentre cresce il dibattito sulla sua utilità: una parte crescente dell'opinione pubblica israeliana chiede la fine dei combattimenti. Questo articolo pone la domanda: il presidente Trump ha scaricato Israele? La risposta è complessa e ambigua.
• L’inizio sembrava promettente All'inizio del suo mandato, Donald Trump sembrava un presidente di sogno per Israele: aveva promesso di aprire “le porte dell'inferno” su Hamas, ma si è trattato solo di parole, come si è poi scoperto. Tuttavia, poco dopo la sua vittoria elettorale, con il suo aiuto è stata attuata la prima fase dell'accordo sugli ostaggi, che ha portato alla liberazione di 38 ostaggi, tra cui 25 ostaggi israeliani vivi, come Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, che erano già stati catturati prima della guerra, cinque soldatesse, Arbel Yehud, cinque ostaggi thailandesi e otto salme, tra cui quelle dei membri della famiglia Bibas. Dopo il suo insediamento, Trump ha revocato l'embargo sulle armi contro Israele, ha posto fine ai finanziamenti statunitensi all'UNRWA, ha revocato le sanzioni contro i coloni israeliani e ha imposto sanzioni contro la Corte penale internazionale e il procuratore capo Karim Khan. Benjamin Netanyahu è stato il primo capo di Stato straniero ad essere invitato a un incontro alla Casa Bianca. In quell'occasione Trump ha avanzato la proposta di trasferire all'estero gli abitanti di Gaza, un sogno della destra israeliana. Si è diffuso l'euforia. I commentatori di destra hanno letteralmente ballato negli studi televisivi.
• Le prime crepe La rottura è iniziata con i colloqui diretti tra il responsabile degli ostaggi di Trump, Adam Boehler, e Hamas, uno shock per Israele. Ufficialmente è stato poi dichiarato che Boehler aveva agito di propria iniziativa, era stato licenziato e che gli americani avevano riconosciuto il loro errore. Tuttavia, l'accordo di successo che ha portato al rilascio di Edan Alexander ha dimostrato a posteriori che Boehler agiva con il pieno mandato di Trump. Israele è rimasto nuovamente sconvolto: un soldato israeliano è stato rilasciato dopo 584 giorni solo grazie alla sua cittadinanza statunitense. Anche se Israele non ha dovuto dare nulla in cambio, il messaggio è stato doloroso: gli altri ostaggi senza passaporto americano hanno meno valore? Israele ha reagito prontamente: ha accolto calorosamente Edan Alexander e subito dopo ha uccisoMohammed Sinwar, apparentemente insieme ad altri leader di Hamas, probabilmente il colpo più efficace dall'inizio della guerra. Precedenti uccisioni mirate avevano gravemente compromesso i negoziati per il rilascio degli ostaggi.
• Cresce la confusione Gli Stati Uniti hanno dichiarato di aver liberato Edan Alexander perché era l'ultimo cittadino americano prigioniero a Gaza e che questo era l'inizio di un accordo più ampio. Ma in Israele crescono il nervosismo e lo scetticismo. Se nei prossimi giorni non verrà raggiunto un accordo sugli ostaggi basato sul piano Witkoff originale, Israele intende avviare l'offensiva terrestre “Gideon's Chariots” subito dopo la partenza di Trump. Un altro segnale è stato il sorprendente invito di Netanyahu a un secondo incontro alla Casa Bianca. Ufficialmente si trattava dei dazi che Trump aveva imposto a Israele e che, nonostante tutte le contromisure, non sono stati ancora revocati. In realtà Trump ha approfittato dell'occasione per annunciare, al fianco di Netanyahu, l'avvio di negoziati diretti con l'Iran sul nucleare. Ancora una volta Israele è rimasto scioccato. Inizialmente si diceva che gli Stati Uniti avrebbero consentito all'Iran un uso civile, tra cui l'arricchimento dell'uranio fino al 3,67%. Israele non si fidava delle promesse di Teheran. Poi è stato chiarito che si sarebbe insistito sullo smantellamento delle centrifughe. Ma le dichiarazioni sono rimaste contraddittorie. A volte Trump parlava di un possibile accordo, altre volte diceva che l'Iran doveva scegliere tra la diplomazia e le bombe.
• Accordo con gli Houthi e omissione di Israele Reuters ha riferito che gli Stati Uniti sarebbero disposti a rinunciare alla normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita se quest'ultima ottenesse in cambio un programma nucleare civile. Sebbene durante la visita di Trump a Riad non sia stato firmato alcun accordo in tal senso, la notizia ha suscitato inquietudine. Forse si è trattato di una manovra mirata per sondare il terreno, forse di un tentativo di affossare i piani. È seguito l'annuncio di Trump di aver concordato con i ribelli Houthi la fine degli attacchi alle navi statunitensi in cambio della sospensione dei raid aerei da parte degli USA. Israele era sbalordito: per i negoziati segreti, per l'accordo, per la mancata partecipazione. Il più stretto alleato dell'America non era stato informato. Ancora più scandaloso: l'accordo non prevedeva la fine degli attacchi contro Israele. Gli Houthi hanno quindi intensificato i loro attacchi, fino all'impatto vicino al Ben Gurion, che ha portato a massicce cancellazioni di voli. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno dichiarato chiusa la questione.
• Israele rimane fuori, visibilmente e simbolicamente Il viaggio storico di Trump in Medio Oriente lo ha portato in tre Stati del Golfo, ma Israele è stato ostentatamente escluso. Anche alla firma degli accordi a Riad, Doha e Abu Dhabi Israele era assente. Trump sembra accecato dal denaro e ha ignorato completamente la posizione di Israele. Il punto più basso: l'incontro con il presidente siriano Ahmad al-Sharaa, un uomo che Israele bolla in tutto il mondo come estremista islamico. Trump ha revocato le sanzioni contro di lui e lo ha accolto come parte della “famiglia delle nazioni”. In Israele si è cercato di minimizzare l'umiliazione: meglio che al-Sharaa si avvicini all'Occidente piuttosto che a Teheran. Sebbene vi fosse un tacito riconoscimento del suo moderato cambiamento di posizione, il colpo di mano degli Stati Uniti è stato possibile grazie al sostegno di due attori: Mohammed bin Salman e Recep Tayyip Erdoğan, i nuovi amici di Trump.
• L’equilibrio militare in pericolo A ciò si aggiunge la disponibilità degli Stati Uniti a fornire aerei da combattimento F-35 all'Arabia Saudita e alla Turchia, una minaccia diretta alla superiorità militare qualitativa di Israele, che costituisce il fondamento del partenariato strategico con gli Stati Uniti. Trump sembra accecato dal denaro saudita. Sui social media, i suoi collaboratori hanno pubblicato video di palazzi del Golfo, entusiasti del marmo e dei lampadari di cristallo: una testimonianza imbarazzante di ammirazione superficiale. Che ne è dei valori comuni?
• Trump: “Il mio viaggio rafforza Israele” Durante il volo di ritorno, i giornalisti hanno chiesto a Trump se le sue mosse non avrebbero danneggiato Israele. La sua risposta: “Al contrario, il mio viaggio rafforza Israele”.
Forse non ha tutti i torti. Da un lato, Trump sta conducendo colloqui diplomatici con Teheran, ma allo stesso tempo sta inasprendo le sanzioni, il che è sicuramente nell'interesse di Israele. Dall'altro, però, non riesce a chiamare Erdoğan a rispondere delle sue provocazioni contro Israele. Anche nei confronti del Qatar, Trump rimane sorprendentemente silenzioso, nonostante l'emirato sostenga Hamas, dia rifugio ai suoi leader e permetta ad Al Jazeera di diffondere impunemente propaganda antisemita. Trump ha persino accettato un aereo da 400 milioni di dollari dai qatarioti, nonostante l'evidente conflitto di interessi. Molti dei suoi collaboratori lavorano o hanno lavorato con enti qatarioti.
• E che dire degli F-35? La consegna alla Turchia non è imminente. Ankara vuole essere riammessa nel programma F-35, dal quale è stata esclusa sotto Biden, ma per farlo deve soddisfare numerose condizioni, il che rimane in discussione. Netanyahu ha dichiarato alla commissione per gli affari esteri e la sicurezza della Knesset che Israele sta lavorando attivamente per impedire questo passo.
• Trump è un amico o no? Ufficialmente si dice che Trump è il miglior amico di Israele e che non abbandonerà Gerusalemme. Ma dal suo entourage si sentono voci diverse: delusione per Netanyahu, per la sua agenda personale e la sua mancanza di volontà di cogliere opportunità storiche come la normalizzazione con l'Arabia Saudita o un accordo sugli ostaggi. Si critica Israele per la sua lentezza nel reagire e per la sua incapacità di vedere il quadro generale. A Washington si dice che il treno di Trump è già partito. Chi vuole ancora salire, deve farlo adesso. Nei prossimi giorni o settimane si vedrà se i colloqui con l'Iran porteranno a un accordo o finiranno con un fallimento. A quel punto potrebbe presentarsi per la prima volta una situazione di emergenza per Trump: agirà davvero e distruggerà militarmente il programma nucleare iraniano?
Se Trump scegliesse questa strada, Israele sarebbe di nuovo al suo fianco. Se si arrivasse a un accordo, Israele si troverebbe in una posizione difficile: se Netanyahu lo ritenesse pericoloso, difficilmente potrebbe opporsi pubblicamente, come ha fatto in passato con l'accordo di Obama. Trump lo sa e ignora le obiezioni di Israele. Nell'entourage di Netanyahu, Trump viene trattato con estrema cautela. Nessuno osa criticarlo, perché Trump non è Biden. Ma la delusione è palpabile. Resta solo da sperare che sia Teheran stessa a far fallire i negoziati, in modo che Israele non si trovi di fronte a un nuovo accordo nucleare che rimanda la minaccia e trasforma l'Iran in una potenza emergente.
(Israel Heute, 16 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
“A Torino si è superata una linea rossa. Contro di noi violenza fisica”
di Luca Roberto
“A Torino abbiamo vissuto il momento più basso nelle università italiane. In un anno e mezzo siamo passati dalle intimidazioni alla violenza fisica. Si è superata una linea rossa”. Il presidente dell’Unione dei giovani ebrei d’Italia (Ugei) Luca Spizzichino giovedì era al Campus Einaudi per partecipare a un evento sul Manifesto per il diritto allo studio. L’appuntamento però si è trasformato in un’aggressione a suon di “fuori i sionisti dall’università”. “Mi hanno strappato la spilletta per gli ostaggi, hanno cercato di farmi cadere. Io ho mantenuto la calma, ma è assurdo che non si riesca a porre argine a questa deriva aberrante”.
Nelle stesse ore in cui manifestanti pro Palestina cercavano di fare irruzione al Salone del libro, dall’altra parte di Torino a un gruppo di studenti apartitici veniva impedito di parlare di “diritto allo studio”. Pietro Balzano, studente della Statale di Milano e autore del Manifesto che quel diritto lo rivendica, al Foglio racconta l’aggressione subita. “Mi hanno strappato la camicia, mi hanno sputato addosso. Credo che quello che sia successo sia la conseguenza di quello cui abbiamo assistito nel giro dell’ultimo anno e mezzo. I violenti sanno di non essere puniti e alzano sempre di più la posta. Bastava davvero poco perché la situazione diventasse ancor più grave”. Già lo scorso marzo agli organizzatori dell’evento era stato impedito di tenerlo all’interno del Campus Einaudi dell’Università di Torino. “Siamo passati dalle intimidazioni alla cancellazione, fino al terzo step che è stata l’aggressione fisica. Mi chiedo: qual è la prossima tappa?”, dice ancora Balzano.
La premeditazione dell’attacco, raccontano i due testimoni, la si evince anche dal fatto che all’ora in cui avrebbe dovuto prendere il via l’evento, l’aula assegnata dall’Università era già stata occupata dai collettivi. Per di più i vertici universitari hanno negato alla Digos l’ingresso nelle aule, “anche se un intervento delle forze dell’ordine per cercare di calmare le acque c’è stato ed è stato tempestivo”, spiega ancora Spizzichino. Da presidente dell’Ugei in questo anno e mezzo ha osservato l’evolversi della situazione negli atenei, “ma mai mi sarei immaginato di vedere le immagini che ho visto a Torino”, confessa con un certo sconforto. “Sono scene che per lo più abbiamo visto nei campus americani, in Francia, in Germania, nel Regno Unito. Eppure oramai pure da noi, anche perché queste derive non vengono affrontate come si deve, è stata completamente sdoganata la violenza fisica. Ora però chiediamo una reazione forte da parte delle università contro queste derive estremiste e antisemite. A partire dall’adozione della definizione di antisemitismo stabilita dall’Ihra. Ogni silenzio di troppo è una forma di complicità”. Non risulta che il rettore dell’Università di Torino Stefano Geuna abbia condannato quanto accaduto al Campus Einaudi. Eppure, come spiega ancora al Foglio il presidente dell’Ugei, “non abbiamo alcuna intenzione di indietreggiare. Alla violenza, agli schiaffi, rispondiamo con la calma della parola. Perché per noi è troppo importante contrastare queste derive fasciste con la compostezza e il rispetto dei valori democratici. Gli studenti ebrei continueranno a rivendicare il diritto di poter parlare, contro chi vorrebbe imporre metodi antidemocratici”. Anche Balzano, dal canto suo, nonostante lo choc per l’aggressione subita sta già stilando la lista delle prossime presentazioni del Manifesto. “I nostri eventi sono una specie di crash test sullo stato della democrazia italiana. A ora questi test li abbiamo falliti, visto che quanto successo a Torino non è degno di un paese civile come l’Italia. Ma non ci faremo spaventare e non ci fermeremo”. Anche la camicia strappata dai pro Pal lo studente della Statale se la terrà a mo’ di monito. “Spesso mi chiedono che c’entra il diritto allo studio con l’antisemitismo. Ma quello che abbiamo vissuto dimostra proprio che quando prevale l’odio, il diritto allo studio scompare”.
Durante i primi anni della Guerra Fredda, il maresciallo Josip Broz Tito fu un improbabile alleato per Harry Truman e l’Occidente anticomunista guidato dagli Stati Uniti. Tito salì al potere in Jugoslavia da comunista, ovviamente, e si comportò come tale: fattorie collettive, processi farsa paranoici e altri tratti tipici delle dittature comuniste arrivarono in Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma Tito voleva essere più di una semplice marionetta di Mosca, e Truman sfruttò la crepa nella sfera sovietica. Gli Stati Uniti fornirono a Tito armi e aiuti nonostante la sua leadership non democratica e il suo desiderio di essere corteggiato sia dall’Est che dall’Ovest perché, geograficamente, così facendo estendevano la sfera d’influenza della NATO e limitavano la prossimità sovietica. Considerando il ruolo che la NATO avrebbe svolto nel corso del successivo mezzo secolo, il compromesso di Truman era chiaramente difendibile, anche se costoso. Gran parte del dibattito sull’attuale rapporto tra Stati Uniti e Qatar, un nemico-amico strategicamente posizionato ma in ultima analisi inaffidabile, riecheggia il discorso su Truman e Tito. Ma al Qatar manca l’ingrediente principale che rende un simile Stato degno di rischio: non offre alcun vantaggio evidente. Ciò non significa che non ci siano vantaggi nei nostri rapporti con il Qatar. Ma la natura sproporzionata degli scambi commerciali implica che l’alleanza richiederà sempre una giustificazione. Non c’è bisogno di chiedersi perché abbiamo voluto porre la Jugoslavia sotto l’egida della sicurezza occidentale nel 1951. Bastava guardare una mappa. Il Qatar, d’altro canto, cerca di rientrare in una categoria di alleati completamente diversa, composta da paesi che occasionalmente minano la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma non abbastanza da annullare il vantaggio di averli dalla nostra parte. Si potrebbe sostenere, ad esempio, che questa categoria includa l’Arabia Saudita, sede della visita del Presidente Trump tre giorni fa. Abbiamo relazioni strategiche con ogni tipo di Stato, e non tutti condividono i nostri valori o necessariamente i nostri obiettivi strategici. Ma questi stati hanno una cosa che manca al Qatar: la capacità di tenere a freno i problemi che causano. Il Qatar può occasionalmente aiutarci strategicamente, ma non è quasi mai in grado di controllare il caos che scatena. Il meglio che il Qatar possa fare è fermare (o mettere in pausa) i problemi che è in grado di creare. Ed è lecito chiedersi se questo sia davvero sufficiente. Ad esempio, considerate il sostegno del Qatar a Hamas. Il motivo per cui i leader israeliani credevano di potere convivere con una situazione in cui il Qatar garantiva che Gaza non rimanesse senza fondi era perché quei fondi avrebbero dovuto essere forniti con delle condizioni. Il Qatar avrebbe mantenuto a galla Hamas come costo per mantenere stabile il tenore di vita della popolazione di Gaza. (Se avete visto i post sui social media che dicevano “questo è ciò che Israele ha distrutto”, saprete che non solo Gaza non era una prigione a cielo aperto, ma aveva anche molto da perdere dall’invasione di Israele.) In cambio, i qatarioti si sarebbero assicurati che il livello di terrorismo fosse mantenuto stabile a un livello gestibile. Sotto Hamas, Gaza non sarebbe mai diventata una colonia di pace, ma porre un limite alla minaccia di Hamas valeva il prezzo – almeno, questa era la scommessa. Il 7 ottobre ha distrutto questa narrativa. A quanto pare, i qatarioti non stavano tenendo a freno l’estremismo di Gaza; stavano invece usando il denaro per tenere a galla Hamas mentre pianificava la massiccia violenza da pogrom di quel giorno. Prima del 7 ottobre, si poteva dire: “Sì, i qatarioti finanziano Hamas, ma…”. Ormai non c’è più alcun “ma” nell’equazione. Un altro esempio sarebbe l’inondazione di denaro da parte del Qatar nelle università d’élite americane. Queste donazioni a volte raggiungono cifre inimmaginabili e consolidano una certa tolleranza nei confronti dell’estremismo nei campus quando si tratta di Israele e degli ebrei. Ma si è scoperto – sebbene sicuramente molti in queste istituzioni si aspettassero gli eventi degli ultimi 18 mesi e molti di loro approvino le rivolte – che l’argomentazione accademica contro Israele era anche l’argomentazione accademica contro l’America. Anche gli studenti di Harvard vogliono che Harvard venga distrutta, e lo dicono apertamente. Lo stesso vale per la Columbia e le altre università. Poi c’è la questione più ampia di cosa si possa controllare. Pianta una carota, dichiara Bellomy in The Fantasticks, e otterrai una carota. Ma il Qatar ha piantato tra le menti giovani e impressionabili i semi dell’odio per se stessi, dell’antisemitismo e del malcontento paranoico. Quel genio non tornerà nella bottiglia, nemmeno se il Qatar volesse ricacciarvelo. I qatarioti non sanno come giocare al gioco della geopolitica. Hanno solo soldi e amano spenderli. Il caos che generano è molto più pericoloso per l’Occidente di qualsiasi risultato ottengano con i loro occasionali gesti di buona volontà.
La settimana in Israele: la visita di Trump in Medio Oriente
di Ugo Volli
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Gli incontri
L’evento più significativo per l’intero Medio Oriente negli ultimi giorni è stata la visita del presidente americano Trump che ha toccato l’Arabia Saudita (13-14 maggio), il Qatar (14 maggio) e gli Emirati Arabi Uniti (15 maggio), ma non Israele (né l’Egitto, la Giordania e altri alleati storici). Oltre che con i governanti dei paesi ospiti (il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’emiro del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani e il principe ereditario di Abu Dhabi Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan), Trump ha parlato il 14 maggio a Riad,con il leader siriano Ahmed al-Sharaa detto Joulani e in videoconferenza con Erdogan. Era previsto anche un incontro con il leader dell’Olp Mohammed Abbas, di cui però non si è avuta conferma.
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Gli accordi evitati e quelli conclusi
Questa assenza dell’Olp dal calendario degli incontri è particolarmente significativa, perché alla vigilia del viaggio presidenziale si era diffusa l’ipotesi che Trump intendesse riconoscere unilateralmente uno stato palestinese, contraddicendo tutta la politica sua e delle amministrazioni americane precedenti e suscitando forti timori in Israele. Ciò non è avvenuto. Altri due temi che preoccupavano Israele erano stati presentati come oggetto delle trattative con l’Arabia: innanzitutto l’assenso alla realizzazione del suo progetto nucleare (civile, ma come sempre in questi casi, potenzialmente trasformabile in militare), senza che fosse concessa in cambio la normalizzazione con Israele; e poi un piano condiviso per la pacificazione di Gaza che escludesse il controllo israeliano. Per quel che se ne sa essi non sono stati trattati o almeno non se ne è avuto notizia. Altri temi critici sono stati invece portati a termine: innanzitutto una vendita senza precedenti di armi all’Arabia (ma sembra senza gli F35, negati anche alla Turchia, cioè senza intaccare la superiorità strategica dell’aviazione israeliana) e la rimozione delle sanzioni alla Siria, che in cambio si sarebbe impegnata a non prestarsi ad attacchi a Israele, a rispettare le minoranze (alawiti e drusi che sono stati perseguitati duramente dal nuovo regime) e ad aderire agli accordi di Abramo, “appena consolidato il potere” (così ha dichiarato Trump).
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Le ragioni del viaggio
Il viaggio era dedicato soprattutto ai temi economici, che stanno molto a cuore a Trump. Molti ironizzano su questa concezione “affaristica” dei rapporti internazionali, e accusano spesso a torto o a ragione il presidente di interesse personale. Ma essi non si rendono conto che Trump è stato eletto presidente (degli Usa, non di Israele o dell’Europa) per rimettere a posto una situazione economica che preoccupa moltissimo i suoi elettori: la deindustrializzazione e la burocratizzazione degli States, il debito pubblico gonfiato a dismisura, il controllo cinese su risorse essenziali. Il piano di Trump è di raddrizzare questa deriva nel giro di alcuni anni, anche a costo di peggiorare il disequilibrio a breve, come sta accadendo. I dazi servono a questo, a riportare il lavoro in America e anche i contratti di molte centinaia di miliardi di euro che il presidente ha ottenuto in questo viaggio vanno nella stessa direzione. Il che non significa che la strategia politica non gli interessi, o che non intenda proteggere Israele; ma che la sua priorità sono i problemi economici americani. Inoltre Trump è sincero nella sua volontà di evitare le guerre o di concluderle, se sono in corso, è davvero un pacifista; ma in maniera estremamente realistica, non ignorando i rapporti di forza e gli obiettivi di potenza.
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I negoziati
Questo vale per le due trattative aperte che riguardano il Medio Oriente: quella con Hamas e quella con l’Iran. In entrambi i casi Trump non ha scrupoli a parlare con quelli che considera nemici e anche a fare scambi con loro. È così che ha ottenuto da Hamas la liberazione dell’ultimo rapito americano ancora in vita Edan Alexander (che è anche il primo soldato di Israele rapito il 7 ottobre e rilasciato da Hamas). Ma ora i terroristi si lamentano di non aver ricevuto in cambio né rifornimenti né concessioni sul futuro di Gaza (e infatti la trattativa è ferma a causa della loro pregiudiziale inaccettabile per Israele di una fine della guerra senza resa né consegna delle armi). E anche l’altra trattativa, quella sul nucleare iraniano, è ferma, perché tra molte voci contraddittorie, è chiaro che gli ayatollah non intendono disarmare, cedere il loro uranio e le loro centrifughe, impegnarsi a non aggredire gli altri paesi, il che naturalmente è assai lontano dalle loro intenzioni.
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La distruzione del vertice di Hamas a Gaza
Vedremo presto se alla conclusione del viaggio alcuni di questi risultati saranno cambiati o addirittura rovesciati: Trump è maestro nell’arte della comunicazione, almeno se la si intende come tener fissa su di sé l’attenzione dei media e del pubblico. Intanto bisogna dire che non ha avuto obiezioni di fronte al “tentativo” (probabilmente riuscito, ma finché non ci sono le prove materiali bisogna dire così) dell’aeronautica israeliana di eliminare l’attuale capo di Hamas a Gaza, Mohammed Sinwar, il fratello minore di Yahya Sinwar e degli altri comandanti terroristi che gli stavano vicino. Se è riuscito come sembra, questo è un colpo importante che decapita di nuovo l’organizzazione terroristica. Bisogna dire anche che Sinwar e gli altri si nascondevano, tanto per cambiare, in un tunnel scavato sotto un ospedale di Khan Yunis, cioè cercavano di usare pazienti e malati come scudi umani. Tutti coloro che continuano a parlare di crimini umanitari di Israele a Gaza non tengono minimamente conto che innanzitutto questo uso di ospedali, scuole, moschee ecc. è tecnicamente un crimine di guerra.
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La prossima operazione di terra
Per quel che ne sappiamo Trump non ha fatto neppure obiezioni all’operazione “Carri di Gedeone” che dovrebbe iniziare subito dopo la sua partenza dal Medio Oriente. Si tratta finalmente della presa di tutta di Gaza usando le forze di terra: un’operazione che coinvolge decine di migliaia di soldati ed è concepita per distruggere sistematicamente e definitivamente le infrastrutture e le truppe di Hamas, lasciando alla popolazione civile scampo in una zona di sicurezza al confine dell’Egitto, dove saranno anche forniti i rifornimenti alimentari in modo che i terroristi non possano impadronirsene. Se sarà possibile condurla fino in fondo, questa sarà davvero la liquidazione dei gruppi terroristici a Gaza. Per ora le cronache parlano di un’intensificazione delle operazione preliminari come i bombardamenti sulle fortificazioni sotterranee individuate.
Palestina? Gaza? Parliamone con il Diritto internazionale alla mano
Dopo gli ultimi assalti antisemiti dei pro-Hamas è bene fare un briciolo di chiarezza sui numeri e su quello che dice il Diritto Internazionale sull'esistenza della Palestina
di Maurizia De Groot Vos
A prescindere dal fatto che condivida o meno la linea attualmente tenuta dal Governo Netanyahu nella guerra contro Hamas, dopo gli ultimi assalti antisemiti al grido di “Palestina libera” o addirittura “Gaza libera” mi sento il dovere di evidenziare alcuni elementi fattuali e di Diritto internazionale. Sarò lunga. Partiamo dagli elementi fattuali e numerici. Siccome si parla tanto spesso della “innocente popolazione di Gaza” cerchiamo di capire se è davvero così.
• L’innocente popolazione di Gaza Il web del dopo massacro del 7 ottobre 2023 era pieno di video nei quali si vedeva con chiarezza le manifestazioni di giubilo della popolazione di Gaza per il pogrom e massacro appena compiuti. Oggi molti di quei video, dove addirittura si oltraggiavano cadaveri, sono spariti dalla circolazione ma sono tutti ben chiari nella mente di chi come me rimase basito da tanta collettiva crudeltà. Qualcosa sfuggita alla censura lo troviamo qui. Difficile affermare che la popolazione di Gaza fosse innocente. Prima del 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza operavano circa mille ONG, un numero davvero incredibile di operatori umanitari. Oltre a questi, vi erano ben 36 ospedali (TRENTASEI). Ora, è possibile che tra queste mille ONG nessuno si sia accorto che Hamas stava costruendo centinaia di Km di tunnel sotto Gaza? È possibile che nessuno si sia accorto che sotto ognuno dei 36 ospedali Hamas stesse costruendo grandi centri operativi e di comando? Ma poi, possibile che su due milioni di persone nessuno abbia sentito i lavori della “metropolitana di Gaza”? E dopo il sequestro degli ostaggi, possibile che nessuno di queste due milioni di persone abbia visto dove li nascondevano e si sia fatto avanti? Nemmeno uno? Davvero? Lasciamo stare il numero delle vittime di cui conosciamo solo quello proveniente da una fonte: Hamas. Ma possibile che siano solo donne e bambini? Gli uomini dov’erano? E i miliziani? L’IDF, ben più attendibile di Hamas, afferma di aver ucciso circa 30.000 terroristi ma di questi nei numeri di Hamas non vi è traccia. E tra i bambini che Hamas dice essere stati uccisi, ci sono anche i bambini soldato di Hamas? E a proposito di quelle mille ONG di cui sopra, nessuna di loro ha mai detto niente di questi bambini soldato. Come mai? Hamas ha dichiarato guerra a Israele, nel modo più crudele e vigliacco possibile. La popolazione di Gaza non ha mai rinnegato la leadership di Hamas. MAI. Non è innocente. Per questo sono d’accordo con l’attuale linea del Governo Netanyahu? NO, ma questo è un altro discorso.
• Il Diritto internazionale I veri confini di Israele secondo il Diritto Internazionale Chi oggi contesta Israele farneticando di Diritto internazionale violato, parlando di occupazione e di liberare la Palestina dovrebbe sapere che: La Convenzione di Montevideo del 1933 delinea quattro criteri per la statualità:
Popolazione permanente: Israele ha una popolazione definita e continua, con comunità ebraiche e arabe residenti nel suo territorio fin dalla sua fondazione.
Territorio definito: i confini di Israele furono stabiliti dal Mandato britannico sulla Palestina del 1922, che includeva l’odierno Israele, la Cisgiordania e Gaza. Questi confini furono ereditati ai sensi dell’uti possidetis juris (discusso di seguito).
Governo efficace: Israele ha mantenuto un governo stabile e democratico sin dal 1948, con il controllo del suo territorio e la capacità di stipulare trattati (ad esempio, accordi di pace con Egitto e Giordania).
Capacità di relazioni estere: Israele intrattiene relazioni diplomatiche con 165 stati ed è membro dell’ONU, dell’OMC e dell’OCSE.
Israele soddisfa tutti i criteri per la sovranità ai sensi della Convenzione di Montevideo ed è stato riconosciuto da 165 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite a dicembre 2020. I suoi confini, fondati sul Mandato britannico del 1922 e confermati dalle Nazioni Unite nel 1949, sono giuridicamente incontestabili. Al contrario, la Palestina non soddisfa i requisiti fondamentali per la sovranità, non gode di un ampio riconoscimento internazionale e non ha mai esercitato una sovranità effettiva su alcun territorio. Andando nel dettaglio:
Mancato rispetto dei criteri di Montevideo
Nessun territorio definito: i confini rivendicati dalla Palestina (Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est) non sono mai stati concordati a livello internazionale. Il Piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 (Risoluzione 181) non era vincolante e fu respinto dagli stati arabi.
Nessun governo efficace: Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese sono entità reciprocamente ostili. Gaza è sotto il controllo di Hamas dal 2007, mentre l’autorità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania è subordinata alla cooperazione israeliana in materia di sicurezza.
Mancanza di sovranità: la Palestina non ha mai controllato i propri confini, il proprio spazio aereo o la propria valuta. Rimane economicamente e militarmente dipendente da Israele e dagli aiuti esteri.
• Per farla breve, a livello di Diritto internazionale la Palestina non esiste La Palestina è un’aspirazione politica, non una realtà giuridica. La recente revisione della Corte Penale Internazionale (aprile 2025) sulla posizione della Palestina sottolinea questa distinzione: la sovranità di Israele non può essere costruita con la retorica o le risoluzioni delle Nazioni Unite. La comunità internazionale deve riaffermare la sovranità di Israele e respingere i tentativi di delegittimarla attraverso false narrazioni sulla sovranità palestinese. Concludendo, i cosiddetti pro-pal (o pro-Hamas) chiedono la libertà di uno stato che non esiste né sulla carta né a livello di Diritto internazionale. La Palestina è una aspirazione, non una realtà. Parlano di un genocidio che non c’è usando a sproposito la parola “genocidio”. Prendono per oro colato numeri non verificabili che hanno come unica fonte un gruppo terrorista islamico. Non condannano mai Hamas, nemmeno quando mette nero su bianco che usa vecchi, donne e bambini come scudi umani e che lo fa apposta per mettere in difficoltà Israele. Come osservato da eminenti esperti di Diritto Internazionale, l’autodeterminazione non equivale automaticamente alla sovranità nazionale – una lezione che i palestinesi e i loro sostenitori devono ancora comprendere.
I veri neofascisti all’assalto degli ebrei: torna l’odio razziale in Italia
di Stefano Piazza
Da quando Giorgia Meloni ha assunto l’incarico di Presidente del Consiglio, le opposizioni – in difficoltà e prive di una chiara direzione – non perdono occasione per agitare lo spettro «del ritorno del fascismo». Al loro fianco si schiera un eterogeneo insieme di sedicenti intellettuali, ex capi di governo, deputati, senatori, celebrità del mondo dello spettacolo, giornalisti e ampie porzioni dell’informazione mainstream, che offrono regolarmente spazio a figure come Alessandro Di Battista e Rula Jebreal, contribuendo alla diffusione di falsità su Israele e sul conflitto innescato da Hamas il 7 ottobre 2023. La parola d’ordine come da precise direttive di chi ha orchestrato e pagato questa gigantesca operazione di propaganda è: «Genocidio». Come osserva l’esperta di comunicazione Elisa Garfagna «L’accusa di genocidio da parte di Hamas è una mossa retorica che si ripete da 20 mesi e che è volta a delegittimare Israele e a suscitare la condanna internazionale. L’uso strumentale del termine “genocidio” inoltre rischia di sminuire la gravità di questo crimine contro l’umanità come ad esempio la Shoah. In maniera del tutto speculare, l’accusa di “politica della fame” serve a dipingere Israele come responsabile della crisi umanitaria, omettendo il ruolo fraudolento di Hamas nella gestione degli aiuti e nel conflitto. Ormai è chiaro che la guerra via terra è affiancata da una guerra di parole difficile da smontare, anche a causa della viralità che tale propaganda assume sui canali sociali». In questo clima di follia collettiva si è arrivati all’assurdo che, in alcuni Comuni – come nel caso di Lodi – venga richiesto, per accedere a spazi pubblici, di firmare una dichiarazione in cui si attesta «di non essere fascisti». Una contraddizione evidente, perché oggi in Italia esiste una forma aggressiva di neofascismo che si manifesta proprio attraverso l’intolleranza dell’estrema sinistra, dei centri sociali e dei movimenti pro-Hamas, che da oltre un anno agitano le piazze con cortei in cui si tollera ogni eccesso e dove le forze dell’ordine vengono sistematicamente aggredite nell’indifferenza generale. In molte università, attivisti filo-Hamas hanno conquistato spazi decisionali grazie alla passività – o alla complicità – di rettori e docenti, impedendo la libera espressione e minacciando chiunque esprima opinioni divergenti.
Per Celeste Vichi, avvocato e Presidente dell’Unione Associazioni Italia Israele: «È nella connivenza complice dei rettori e di tutta quell’accademia che boicotta il libero pensiero e censura persino la parola antisemitismo nei convegni, nei corsi, nei rapporti scientifici con Israele. È anche dover presentare un libro accompagnati dalle forze dell’ordine perché messo all’indice.Sono gli stessi che accusano gli ebrei nel mondo di fare abiura, chiedendo loro di rinnegare lo Stato ebraico. Israele e la sua esistenza rappresentano oggi la nuova colpa da espiare. È la summa divisio tra ebrei buoni ed ebrei cattivi: abiura e ti salverai, convertiti e vivrai. Non è cambiato niente nella storia: ideologie diverse, modalità di coercizione identiche. Il nazifascismo è qui, e se non ripariamo al più presto, ne pagheremo tutti le conseguenze».
• Un giorno nero per Torino Ieri, al Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si è verificato un nuovo grave episodio di aggressione preordinata contro la libertà di parola e i principi fondanti dell’università e della democrazia. L’incontro dal titolo “Per le Università Come Luogo di Democrazia e di Contrasto all’Antisemitismo”, promosso da diverse sigle aderenti al Manifesto Nazionale per il Diritto allo Studio — tra cui l’Unione Giovani Ebrei d’Italia, Studenti per le Libertà, Studenti Liberali e Studenti per Israele — è stato interrotto con violenza da un gruppo strutturato di sostenitori di Hamas. Gli aggressori hanno fatto irruzione nell’aula dove l’iniziativa era prevista, gridando slogan come “Intifada” e puntando a impedire agli studenti ebrei e a chi li sostiene di prendere la parola, attraverso insulti, minacce, sputi e persino aggressioni fisiche. Alcuni degli organizzatori dell’evento sono stati persino colpiti, intimiditi e pubblicamente offesi. È stato inoltre rubato un telefono cellulare, gesto che denota la volontà non solo di intimidire, ma anche di cancellare eventuali prove della violenza commessa. E’ normale tutto questo? No ed è ora di dire basta.
Ogni tentativo di confronto civile è stato annientato fin da subito da atti di prepotenza, trasformando un luogo di apprendimento e confronto in uno scenario di coercizione, dove la violenza ha messo a rischio la sicurezza fisica di studenti, relatori, organizzatori e partecipanti che desideravano semplicemente assistere in modo pacifico alla conferenza. Il volto del nuovo totalitarismo si manifesta oggi nelle fila dei militanti pro-Hamas, che rimuovono le spille in favore degli ostaggi e che da mesi strappano gli striscioni che ne chiedono il rilascio. Un gesto che non è solo simbolico: è l’espressione di un clima di odio che si nutre della retorica antisionista, spesso presentata come distinta dall’antisemitismo, ma che nei fatti ne riproduce le stesse dinamiche e gli stessi obiettivi. Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) ha così commentato l’accaduto: «Ai nostri ragazzi abbiamo trasmesso entusiasmo per lo studio e fiducia nel sistema universitario, nel quale coltivare amicizie e alimentare dialogo rispetto ai temi che ogni generazione si trova ad affrontare. Con questo spirito, i rappresentanti dei giovani ebrei italiani si sono recati oggi all’Università di Torino, con la kippà in testa e con l’intento di svolgere un sereno incontro e dibattito sui temi del diritto allo studio, della democrazia all’interno delle università e dell’antisemitismo. Sono stati invece aggrediti e cacciati, con violenza e veemenza. A loro va il nostro abbraccio e incoraggiamento a riprendere fiato dopo l’aggressione subita e a continuare ad avere fiducia nel dialogo.Un Paese democratico, una sede universitaria, un salone del libro – luoghi preposti allo studio e al confronto delle idee – non possono ospitare e legittimare persone che, con violenza e soprusi, negano ad altri di manifestare il proprio pensiero in nome della difesa di diritti e della pretesa di democrazia.Ribadiamo ancora una volta che la sicurezza non potrà mai essere sufficientemente garantita, pur con tutto il supporto delle forze dell’ordine, se ogni generazione non farà propria la cultura della convivenza, eliminando qualsiasi forma di prevaricazione e indifferenza». Sempre ieri, altri simpatizzanti di Hamas si sono ritrovati davanti all’ingresso del Lingotto per contestare la presentazione del libro di Nathan Greppi, ma sono stati allontanati. Ma il fatto stesso che il giornalista abbia dovuto presentare il suo libro «La cultura dell’odio» addirittura sotto scorta e con la presenza delle forze dell’ordine in assetto antisommossa rappresenta la conferma più eloquente delle tesi illustrate nel suo volume.
Yuval Raphael durante l’esibizione alla seconda semifinale dell’Eurvision 2025
Israele si classifica per la finale dell’Eurovision Song Contest 2025.Yuval Raphael, la rappresentante di Israele sopravvissuta alla strage del 7 ottobre, accederà alla finale dell’Eurovision in onda il 17 Maggio alle ore 21 in diretta da Basilea, Svizzera. In Italia, la trasmissione potrà essere seguita su Rai 1. La presenza di Yuval Raphael alla competizione canora aveva suscitato polemiche fin dalla vigilia: al suo arrivo a Basilea era stata contestata e aggredita tra la folla, dove sventolavano una dozzina di bandiere palestinesi ed è stato anche mimato un gesto di sgozzamento nei suoi confronti. Critico anche Nemo, vincitore dell’Eurovision 2024, che ha sostenuto la richiesta di escludere dalla gara Israele: “Le sue azioni contraddicono profondamente i valori che l’Eurovision dovrebbe difendere, di pace, unità e diritti umani”, aveva affermato il cantante. Durante la seconda semifinale svoltasi la sera di giovedì 15 maggio, l’esibizione della cantante israeliana, la quattordicesima in gara, è stata caratterizzata da diverse contestazioni rivolte contro l’artista. Urla, schiamazzi, fischi contro la rappresentante dello Stato ebraico, e una persona si è elevata rispetto alla folla alzando verso di lei la bandiera della Palestina. La stessa bandiera da cui Yuval sfuggì, quando il 7 ottobre 2023 riuscì a salvarsi dai terroristi palestinesi fingendosi morta sotto altri cadaveri durante il massacro del Nova Musica Festival. La pagina Wikipedia di Yuval Raphael – adesso corretta – sembrava un fake: c’era scritto che lei “essendo un’ottima terrorista israeliana, il suo hobby preferito è andare a rave organizzati fuori dai campi di concentramento, in cui vengono uccise ogni giorno centinaia di persone dallo Stato ebraico”, un riferimento capovolto della strage perpetrata da Hamas ai danni del sud di Israele. Già l’anno scorso la rappresentante israeliana Eden Golan aveva subito insulti, fischi e attacchi prima e durante l’esibizione, in un clima di odio mai visto alla kermesse canora.
• La parzialità dei conduttori italiani L’esibizione di Yuval è stata diversa rispetto alle altre non solo per gli insulti ricevuti prima e durante la performance, ma anche per il comportamento dei conduttori italiani. A commentare l’edizione italiana dell’Eurovision Song Contest 2025 ci sono Gabriele Corsi e Big Mama. Quest’ultima è rimasta silente, dall’inizio alla fine, durante la presentazione e la partecipazione di Yuval alla competizione. Big Mama si è astenuta non solo dal fare commenti ma anche dal ruolo per cui era stata chiamata: presentare. Gabriele Corsi, pertanto, ha fatto il minimo indispensabile da solo. I conduttori italiani hanno riempito tutti gli altri artisti di complimenti. Hanno rivelato curiosità, commentato gli outfit, hanno sempre espresso gradimento e parole gentili per tutti. Per tutti, tranne che per Yuval. Con lei si sono limitati ad una presentazione essenziale, la stretta necessaria. Il silenzio è stato notato e apprezzato dagli utenti propal sui social. Una pioggia di commenti ne è scaturita, come “Big Mama in lutto durante la presentazione di Israele, we feel you”, “Big Mama non ha detto più nulla per tutto il tempo in cui c’era Isram***a” oppure “Brava Big Mama che non si è proprio filata la sionista di me****”. Ancora: “Il fantastico silenzio di Big Mama prima e dopo l’esibizione di Israele”. Infine: “Bellissimi i mancati commenti di Gabriele e Big Mama sull’esibizione di Israele. Siamo con voi ragazzi!”. Un clima d’odio, discriminazione e razzismo caratterizza anche quest’anno la partecipazione di Israele all’Eurovision Song Contest. Ma Yuval ha una risposta per tutti: “I love you! Thank you, merçi, todà”, come ha detto alla fine della sua esibizione. E manda una marea di cuoricini anche per chi le augura la morte, da cui è riuscita brillantemente a sfuggire durante la strage del 7 ottobre 2023 proprio ad un festival musicale celebrando la più grande passione della sua vita, quella con cui oggi rappresenta Israele
I viaggiatori israeliani devono prestare attenzione
L'aereo è il mezzo di trasporto più sicuro. Tuttavia, per i passeggeri con passaporto israeliano o destinazione Israele, valgono particolari considerazioni di sicurezza per i viaggi aerei internazionali. In particolare, le rotte aeree che attraversano paesi che non riconoscono Israele o che sono in tensione politica con il paese possono diventare problematiche per i viaggiatori. In caso di condizioni meteorologiche estreme, un problema tecnico o un'emergenza medica, l'aereo potrebbe essere costretto ad atterrare in uno Stato ostile.
In tali situazioni, gli esperti, come il responsabile della sicurezza aerea della compagnia aerea Arkia, Gadi Amal, raccomandano cautela. I passeggeri con passaporto israeliano o identità ebraica dovrebbero comportarsi con discrezione, non mostrare documenti in ebraico e, se possibile, contattare direttamente l'ambasciata israeliana o il ministero degli Esteri. In caso di emergenza, è possibile anche un intervento diplomatico tramite paesi terzi, come la Svizzera o la Germania.
• Le compagnie aeree israeliane evitano gli “Stati nemici”
Il punto di partenza di un recente dibattito su questo tema in Israele è, tra l'altro, una scena della serie televisiva israeliana “Teheran”. In essa, una coppia israeliana viene prelevata con la forza dalle forze di sicurezza dopo un atterraggio di emergenza in Iran. Anche se si tratta di finzione, il problema di fondo rappresentato è estremamente reale.
Infatti, le compagnie aeree israeliane evitano di sorvolare paesi che non riconoscono lo Stato di Israele e sono ufficialmente considerati “Stati nemici”. Tra questi figurano l'Iran, la Siria, l'Iraq, lo Yemen e il Libano. Le rotte delle compagnie aeree israeliane sono pianificate con un software speciale che tiene conto fin dall'inizio delle zone politiche soggette a restrizioni.
• Cautela con le compagnie aeree straniere
La situazione è diversa per molte compagnie aeree straniere, in particolare quelle asiatiche, arabe o africane. Le loro rotte attraversano regolarmente spazi aerei critici.
Per i passeggeri israeliani che viaggiano con un secondo passaporto, ad esempio europeo, questo non è sempre immediatamente evidente. In passato si sono verificati casi isolati in cui i passeggeri si sono resi conto solo durante il volo o durante uno scalo non previsto di trovarsi nel territorio di uno Stato ostile a Israele.
L'esperto di sicurezza aerea Amal raccomanda in linea di principio di viaggiare con compagnie aeree israeliane. Per i viaggiatori che decidono comunque di volare con una compagnia aerea straniera, è consigliabile verificare in anticipo la rotta prevista. Applicazioni come Flightradar24 o FlightAware consentono di tracciare le rotte storiche di voli simili per evitare spiacevoli incidenti.