Il resto di Giacobbe sarà fra le nazioni,
in mezzo a molti popoli,
come un leone tra le bestie della foresta,
come un leoncello fra i greggi di pecore,
il quale, quando passa, calpesta e sbrana,
senza che alcuno possa scampare.
Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
SALMO 145
Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
GENESI 2
L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
ISAIA 53
Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
GIOVANNI 20
Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
PROVERBI 8
Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
GENESI 2
E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
GIOVANNI 3
Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
1 CORINZI 15
Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
GENESI 3
E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
ISAIA 7
Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
GIOVANNI 12
“Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
ESODO 3
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni;
e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
ESODO 29
Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
GIOVANNI 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.
ATTI 4
E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
LUCA 2
Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.
MATTEO 2
Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
ATTI 8
Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
E vi fu grande gioia in quella città.
ATTI 13
Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
ROMANI 15
Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.
Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo,
per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio.
Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.
FILIPPESI, cap. 2
Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione,
rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.
Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso,
cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,
ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;
trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;
infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.
Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute,
perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo,
tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.
Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi;
e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.
Buona cosa è celebrare l'Eterno,
e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
proclamare la mattina la tua benignità,
e la tua fedeltà ogni notte,
sul decacordo e sul saltèro,
con l'accordo solenne dell'arpa!
Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
Come son grandi le tue opere, o Eterno!
I tuoi pensieri sono immensamente profondi.
L'uomo insensato non conosce
e il pazzo non intende questo:
che gli empi germoglian come l'erba
e gli operatori d'iniquità fioriscono,
per esser distrutti in perpetuo.
Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
ecco, i tuoi nemici periranno,
tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.
Ma tu mi dai la forza del bufalo;
io son unto d'olio fresco.
L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi che si levano contro di me.
Il giusto fiorirà come la palma,
crescerà come il cedro sul Libano.
Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
fioriranno nei cortili del nostro Dio.
Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
saranno pieni di vigore e verdeggianti,
per annunziare che l'Eterno è giusto;
egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.
Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
ATTI 10
Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni:
vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno.
Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse
non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.
MARCO 10
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».
PROVERBI 10
Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.
Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!
GIONA
Capitolo 1
La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Capitolo 4
Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.
O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!» Io cerco il tuo volto, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!
Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
ECCLESIASTE 2
Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.
ECCLESIASTE 12
Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.
1 PIETRO 1
E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.
1 CORINZI 15
Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
«O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.
E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.
E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.
Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
"Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti
che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo
ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce
e il mio carico è leggero.
Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.
Capitolo 4
Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che langoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto allinesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le buone parole con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.
Marcello Cicchese
novembre 2018
Testo delle letture
1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.
2.E l'Eterno disse a Satana:
3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
2 E prese a dire così:
3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!
3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?
9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?
19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!
24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.
24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?
27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.
31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!
1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!
19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!
9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!
42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.
32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.
33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».
34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».
35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».
36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!
37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.
38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»
42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».
42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.
42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.
Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
Giovanni 14:27
Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
Io non vi do come il mondo dà.
Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
Giovanni 16:33
Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
Nel mondo avrete tribolazione;
ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.
Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
da lui viene la mia salvezza.
Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
e cercherete tutti insieme di abbatterlo
come una parete che pende,
come un muricciuolo che cede?
Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
prendono piacere nella menzogna;
benedicono con la bocca,
ma internamente maledicono. Sela.
Anima mia, acquétati in Dio solo,
poiché da lui viene la mia speranza.
Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
Confida in lui ogni tempo, o popolo;
espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
Dio è il nostro rifugio. Sela.
Gli uomini del volgo non sono che vanità,
e i nobili non sono che menzogna;
messi sulla bilancia vanno su,
tutti assieme sono più leggeri della vanità.
Non confidate nell'oppressione,
e non mettete vane speranze nella rapina;
se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
Dio ha parlato una volta,
due volte ho udito questo:
Che la potenza appartiene a Dio;
e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi,
senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi;
di notte ancora, e non ho posa alcuna.
Eppure tu sei il Santo,
che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
I nostri padri confidarono in te;
e tu li liberasti.
Gridarono a te, e furono salvati;
confidarono in te, e non furono confusi.
Ma io sono un verme e non un uomo;
il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque;
lo salvi, poiché lo gradisce!
Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno;
m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina,
e non v'è alcuno che m'aiuti.
Grandi tori m'han circondato;
potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
apron la loro gola contro a me,
come un leone rapace e ruggente.
Io son come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa si sconnettono;
il mio cuore è come la cera,
si strugge in mezzo alle mie viscere.
Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi s'attacca al palato;
tu m'hai posto nella polvere della morte.
Poiché cani m'han circondato;
uno stuolo di malfattori m'ha attorniato;
m'hanno forato le mani e i piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e m'osservano;
spartiscon fra loro i miei vestimenti
e tirano a sorte la mia veste.
Tu dunque, o Eterno, non allontanarti,
tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
Libera l'anima mia dalla spada,
l'unica mia, dalla zampa del cane;
salvami dalla gola del leone.
Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.
Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
O voi che temete l'Eterno, lodatelo!
Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe,
e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
Poich'egli non ha sprezzata
né disdegnata l'afflizione dell'afflitto,
e non ha nascosta la sua faccia da lui;
ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea;
io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
Gli umili mangeranno e saranno saziati;
quei che cercano l'Eterno lo loderanno;
il loro cuore vivrà in perpetuo.
Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno
e si convertiranno a lui;
e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
Poiché all'Eterno appartiene il regno,
ed egli signoreggia sulle nazioni.
Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno;
tutti quelli che scendon nella polvere
e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
La posterità lo servirà;
si parlerà del Signore alla ventura generazione.
31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
Ezechiele 8:1-13
E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.
Ezechiele 14:1-11
Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
La pazienza di Dio e la nostra speranza Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza
(Romani 8.25).
Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Il corpo della nostra umiliazione Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Il rinnovamento della mente Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.
Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e il mondo,
da eternità a eternità tu sei Dio.
Tu fai tornare i mortali in polvere
e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
Perché mille anni, agli occhi tuoi,
sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
e come una veglia nella notte.
Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
Son come l'erba che verdeggia la mattina;
la mattina essa fiorisce e verdeggia,
la sera è segata e si secca.
Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
e siamo atterriti per il tuo sdegno.
Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
o, per i più forti, a ottant'anni;
e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
Chi conosce la forza della tua ira
e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
che acquistiamo un cuore saggio.
Ritorna, o Eterno; fino a quando?
e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
Saziaci al mattino della tua benignità,
e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
e degli anni che abbiamo sentito il male.
Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
e la tua gloria sui loro figli.
La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.
Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.
Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015
Gaza, verso la resa dei conti: Israele si prepara a una svolta strategica
di Samuel Capelluto
Dopo mesi di attesa, trattative e pressioni, il governo israeliano sembra aver preso una decisione che potrebbe ridefinire l’intero conflitto: procedere con la conquista totale della Striscia di Gaza e la sconfitta militare di Hamas. Lo riportano fonti autorevoli dell’ufficio del Primo Ministro, secondo cui “il dado è tratto”. Secondo le stesse fonti, il gabinetto di sicurezza si riunirà a breve per ratificare la decisione.
La svolta arriva dopo il fallimento dei negoziati per il rilascio degli ostaggi. Il Capo di Stato Maggiore, Zamir, si era opposto a un’operazione estesa nelle aree centrali della Striscia – come Deir al-Balah, Nuseirat e la città di Gaza – per il timore che la presenza di ostaggi e civili potesse trasformare l’intervento in un rischio incalcolabile. L’IDF aveva proposto una strategia alternativa: raid mirati, accerchiamento e logoramento. Ma il tempo stringe.
Secondo il governo, l’ipotesi di salvare gli ostaggi attraverso un’intesa con Hamas si è dissolta. La convinzione, condivisa anche da Washington, è che Hamas non voglia più negoziare. Donald Trump, in contatto con Netanyahu, avrebbe dato il via libera per un’operazione su larga scala, convinto che solo dopo il crollo di Hamas sarà possibile iniziare un processo di ricostruzione duraturo a Gaza.
La posizione del governo è chiara: “Non c’è più tempo per strategie graduali. Gli ostaggi rischiano la vita ogni giorno. Hamas va sconfitto con forza, anche nei luoghi più sensibili”. L’operazione, se approvata, coinvolgerà probabilmente migliaia di riservisti e porterà l’IDF a entrare in aree finora evitate per ragioni umanitarie e di sicurezza.
Ma la decisione divide. All’interno stesso di Israele si è aperto un intenso dibattito. Alcuni esponenti della sinistra, tra cui figure di Meretz e Avodà, hanno chiesto al Capo di Stato Maggiore di non eseguire l’ordine, temendo per la sorte degli ostaggi. Le famiglie di alcuni rapiti parlano apertamente di “condanna a morte” per i loro cari.
Il Primo Ministro Netanyahu, però, resta fermo: “Hamas non vuole un accordo. Vuole spezzarci con i suoi video dell’orrore. Io sono determinato a eliminarlo e a liberare i nostri figli.”
Anche il Ministro Smotrich ha chiarito: “Non ci sarà più alcuna trattativa parziale. Solo una resa totale: rilascio incondizionato degli ostaggi, disarmo di Hamas, smilitarizzazione di Gaza ed espulsione dei suoi leader.”
In parallelo, voci palestinesi indicano che Hamas, in colloqui riservati, starebbe valutando l’ipotesi di una smilitarizzazione graduale della Striscia, sotto garanzie internazionali. Ma per ora, non si tratta di una posizione ufficiale – e a Gerusalemme nessuno sembra più disposto a scommettere sul dialogo.
Nel frattempo, l’IDF si prepara. Nove brigate operano già all’interno della Striscia, ma potrebbero aumentare sensibilmente. Il piano, secondo indiscrezioni, prevede anche la possibilità di colpire la leadership di Hamas all’estero, se necessario.
Israele si trova dunque a un bivio: proseguire con cautela e il rischio di stallo, o passare all’azione e assumersi la responsabilità di un cambiamento storico. Una cosa è certa: la determinazione a sconfiggere Hamas non è mai stata così alta. E forse, proprio questo messaggio – prima ancora delle bombe – è quello che oggi Israele vuole far arrivare a Gaza.
Israele sta conducendo una “guerra di Dio” o contro se stesso?
In Israele non infuria solo una guerra nella Striscia di Gaza. È in corso una profonda e esistenziale disputa sul futuro del Paese, sul carattere dello Stato, sulla responsabilità, sul senso della realtà e sul rapporto tra strategia, morale e fede.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - “Un esercito in piedi è un esercito vulnerabile. Non importa quanto sia forte: una guerra senza obiettivi politici porta alla sconfitta. La guerra che stiamo combattendo attualmente è un inganno”. Nella loro dichiarazione, gli esperti di sicurezza avvertono: “Questa guerra ha smesso di essere una guerra giusta. Sta portando Israele alla perdita della sua sicurezza e della sua identità”. Parlano di un vicolo cieco militare e strategico: "Stiamo soprattutto cercando di limitare i danni. I nostri successi sono già stati sepolti. Non c'è alcun esempio nella storia di un esercito che abbia vinto una guerra di guerriglia. Nella Striscia di Gaza la situazione è statica. Senza movimento, l'esercito perde forza". Un gruppo di ex alti funzionari della sicurezza ha lanciato un drammatico appello al governo e all'opinione pubblica israeliana. Tutti gli esperti citati sono concordi: il governo israeliano sta commettendo un grave errore strategico e sta conducendo il Paese in un pericoloso vicolo cieco. Con riferimento all'attuale offensiva terrestre “Gideon's Chariots”, iniziata a marzo, gli ex capi della sicurezza esprimono un giudizio disilludente: “L'operazione non ha portato quasi nessun progresso. Abbiamo un numero elevato di vittime e i successi militari sono limitati. Il danno internazionale, invece, è enorme”. Soprattutto sulla questione degli ostaggi non è stato ottenuto nulla. “Questa guerra non serve più a riportare a casa gli ostaggi, ma è diventata un mezzo per perseguire obiettivi messianici. Il governo è stato ormai preso in ostaggio da una minoranza piccola ma radicale che impone decisioni irrazionali”. Solo due giorni prima, diverse centinaia di artisti israeliani, tra cui musicisti, attori, scrittori e registi, hanno firmato una lettera aperta in cui chiedono la fine della guerra nella Striscia di Gaza. Secondo loro, Israele sta commettendo crimini di guerra e violando principi umanitari fondamentali. I firmatari chiedono un cambiamento di rotta politica verso una soluzione diplomatica. Il loro appello sta scatenando accesi dibattiti nell'opinione pubblica israeliana: per alcuni è un'espressione di coraggio civile, per altri una pericolosa delegittimazione del proprio esercito in piena guerra. D'altra parte, però, c'è un governo che non esita a rivendicare la narrativa biblica per la propria politica. Le operazioni sono ora chiamate “carri di Gedeone”, come se non si volessero raggiungere solo obiettivi militari, ma anche aprire un capitolo della storia della salvezza. Il Gedeone biblico era un uomo umile che esitò quando Dio lo chiamò a combattere contro Midian. Solo dopo che Dio gli diede un segno, osò fare il passo, e anche allora non con una grande massa, ma con un piccolo gruppo di eletti. La vittoria di Gedeone non fu una dimostrazione di potere, ma un miracolo. Il gruppo degli ex capi della sicurezza ritiene che il governo di Netanyahu sia stato “dirottato da una minoranza piccola ma radicalmente religiosa”, come si legge nell'appello. “Un gruppo che sembra credere che la volontà di Dio sia dietro ogni sua mossa militare”. Ma anche questo è biblicamente fuorviante. Nei profeti troviamo innumerevoli avvertimenti ai re e ai principi che si basano sul potere invece che sulla giustizia. La differenza tra la guerra divina e l'arroganza umana sta nel motivo e nell'obiettivo. Gli ex capi di Stato Maggiore, i capi del Mossad e dello Shin Bet, così come i capi della polizia, rappresentano una leadership pragmatica, spesso di stampo laico. La loro visione del mondo era incentrata sulla sicurezza, a volte sulla realpolitik, ma raramente caratterizzata da un profondo radicamento nella storia biblica di Israele o nell'identità religiosa. Molti nel campo religioso accusano queste élite di governare Israele come «un paese occidentale qualsiasi», senza comprendere che Israele ha una vocazione divina e una storia profetica. L'attuale guerra può ora essere vista come una svolta spirituale. Molti sostenitori dell'attuale governo religioso di destra vedono nella guerra contro Hamas non solo un conflitto militare, ma una lotta tra la luce e le tenebre, tra la verità biblica e i nemici di Dio. Per loro non si tratta di una guerra ordinaria, ma di una battaglia spirituale per il ritorno di Israele al suo destino divino e per il completo ritorno nella terra promessa, come la vedevano Abramo, Giosuè o i profeti. Dicono: “Non c'era giustizia perché abbiamo dimenticato la nostra vocazione”. Ciò significa che per loro non si tratta solo di sicurezza, ma di un ritorno a ciò che Israele dovrebbe essere: un popolo santo in una Terra Santa. Secondo questa visione, la paura di molti ex ufficiali e delle élite liberali di un “governo messianico” deriva dalla loro incapacità di comprendere la fede come risorsa strategica e nazionale. Essi vedono la religione solo come un rischio, ma non come una fonte di forza. La fede nelle promesse, nella terra di Israele, nella storia divina del popolo ebraico – tutto questo era loro estraneo. Per questo non si fidano di coloro che ora fanno politica e guerra in nome della fede, della Bibbia e della speranza messianica. Ora possiamo porre la domanda opposta: la via religiosa è automaticamente giusta? Ma anche se si attribuisce al governo religioso una comprensione più profonda della dimensione biblica, rimane la domanda: questa spiritualità viene davvero tradotta in giustizia, misericordia e timore di Dio, o serve al potere? Perché anche nel testo biblico vediamo ripetutamente che le parole pie e la retorica messianica non bastano. I profeti – Isaia, Geremia, Amos – criticavano proprio quei re che credevano di agire in nome di Dio, ma falsificavano la volontà di Dio e dimenticavano la responsabilità sociale o morale. Sì, è possibile che il governo religioso abbia nel suo nucleo una visione spirituale e più profonda del destino di Israele. Ma proprio per questo deve misurarsi doppiamente con i criteri biblici: giustizia, compassione, veridicità. Se soddisfa questi criteri, può davvero essere l'inizio di una svolta profetica. In caso contrario, nonostante le pretese religiose, fallirà come tanti re nella storia biblica. Invece di comprendere la lotta per la sopravvivenza di Israele, queste lettere offrono nuovi titoli ai nemici e conferiscono nuova legittimità alla campagna di condanna globale. La storia dimostrerà se il governo Netanyahu aveva ragione con la sua linea o se sono stati gli ex capi della sicurezza ad avere il coraggio di invitare alla prudenza. Firmano l'appello:
Tutti chiedono al governo israeliano di “porre fine a questa guerra senza speranza e riportare indietro gli ostaggi in un unico passo”.
(Israel Heute, 5 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Finalmente un articolo in cui si fa intervenire l’elemento “Dio”. E che c’entra Dio? diranno subito molti, tra cui i firmatari dell’appello. Siamo seri, qui si parla di guerra, di politica, insomma di questioni tra uomini. Tirar fuori la carta “Dio” è scorretto, non vale, dicono i superlaici. Che però senza volerlo o senza farsi accorgere tirano fuori la carta di quello che si può chiamare l'occidental-god, il dio occidentale del diritto all’illimitata felicità per singoli. A lui bisogna sottomettersi, dicono gli ex capi della sicurezza, che hanno “il coraggio di invitare alla prudenza”. Coraggio della prudenza? Strano, perché un detto popolare dice invece che “la prudenza è paura che cammina in punta di piedi”. M.C.
«L’Occupazione ci ha corrotto. Io sono assolutamente convinto del fatto che la maledizione di Israele sia nata con l’Occupazione dei territori palestinesi nel 1967».
Così afferma David Grossman a La Repubblica, prima di fare propria anche l’accusa di «genocidio» mossa a Israele dai suoi nemici jihadisti e dai loro fiancheggiatori. Grossman vorrebbe che Israele arretrasse sulle linee pre-1967, ossia alle «frontiere di Aushwitz» (come le chiamò Abba Eban), quelle che non potrebbero più garantire allo Stato ebraico la sua attuale sicurezza. Ma questo allo scrittore non interessa. A lui preme mettere fine alla «Occupazione» dei «territori palestinesi», che «palestinesi» non sono mai stati: né per il diritto internazionale né per la storia. Alla domanda sul riconoscimento dello «Stato palestinese» da parte di Macron, risponde:
«Credo sia una buona idea e non capisco l’isteria che l’ha accolta qui in Israele. Magari avere a che fare con uno Stato vero, con obblighi reali, non con un’entità ambigua come l’Autorità palestinese, avrà i suoi vantaggi. È chiaro che dovranno esserci condizioni ben precise: niente armi. E la garanzia di elezioni trasparenti da cui sia bandito chiunque pensa di usare la violenza contro Israele».
Grossman, completamente colonizzato nel pensiero e nel linguaggio dalla retorica «pacifista», non si rende conto che l’erezione di uno «Stato palestinese» non metterebbe fine al conflitto, tutt’altro, lo esacerberebbe come non mai. Non ha ancora compreso − e insieme a lui tutta l’intelligencija progressista israeliana − che ai «palestinesi» non importa nulla di ottenere uno Stato, loro vogliono la distruzione di quello ebraico. La creazione di uno «Stato palestinese» sulle colline della Giudea e Samaria, come ha dichiarato Yoram Ettinger, rischierebbe di innescare «un effetto a rimbalzo che potrebbe devastare gli interessi occidentali in accordo con i regimi pro-occidentali nella penisola araba e in Giordania».
Grossman, inoltre, glissa su una questione fondamentale: a chi dovrebbe essere affidato il governo dello «Stato palestinese»? Alla corrotta Autorità Palestinese, che non ha mai rispettato nemmeno gli Accordi di Oslo; oppure a qualche leader di Hamas opportunamente ripulito e incravattato per i media occidentali, sul modello dell’ex jihadista al-Jolani? O magari, in accordo col suo spirito «democratico», lo scrittore vorrebbe far votare i «palestinesi»; peccato che questi, quando hanno potuto votare in elezioni legislative, abbiano scelto Hamas, un’organizzazione islamista e terrorista che, ieri come oggi, trae la sua popolarità dal rifiuto di scendere a compromessi duraturi con lo Stato ebraico.
Grossman è ancora legato alla fallimentare formula «terra in cambio di pace», che animò il catastrofico «processo di pace» di Oslo, avviato nel 1993, il quale si basava sull’impegno di entrambe le parti a rinunciare alla violenza come mezzo per risolvere la controversia; ma i «palestinesi» non hanno mai abbandonato la violenza e nel 2000 scatenarono la terribile Seconda Intifada.
I «palestinesi» violarono gli Accordi di Oslo proprio grazie alla generosità israeliana. Quando il governo di Ehud Barak si offrì di soddisfare il 95% delle loro richieste, inclusa la cessione di parti di Gerusalemme al loro controllo – una possibilità un tempo considerata impensabile – tali concessioni misero Yasser Arafat di fronte all’unico risultato che non desiderava: la pace con Israele. Infatti, Arafat respinse la proposta israeliana, accompagnando il suo rifiuto con una nuova esplosione di terrorismo.
Israele, per risolvere definitivamente l’annoso conflitto, dovrebbe seriamente «occupare» i territori oggi amministrati dai «palestinesi» e sottoporre la loro popolazione a un «lavaggio del carattere» sul modello della «denazificazione» imposta dagli Alleati ai tedeschi. Solo bonificando il venefico retroterra culturale e religioso dei «palestinesi» sarà possibile edificare una pace solida e durevole.
(L'informale, 5 agosto 2025) ____________________
Tra letterati, artisti e sportivi
ci sono persone di grandi capacità
che sanno dire con grande serietà
le più grandi stupidità.
David Grossman, insieme ad Abraham Jeoshua e Amos Oz, è una di queste. M.C.
Il sindaco di Arad bandisce gli spettacoli degli artisti che hanno firmato la petizione per la fine della guerra
La città di Arad, nel sud di Israele, ha preso una decisione radicale: i suoi palcoscenici pubblici non saranno più accessibili agli artisti che hanno firmato una petizione che chiede la fine della guerra a Gaza. Il sindaco, Yaïr Maayan, ha confermato lunedì che il comune vieterebbe qualsiasi esibizione di queste personalità culturali, accusate di “incitamento all'odio contro i soldati dell'esercito israeliano”.
“Abbiamo scelto di stare dalla parte dei soldati israeliani e dello Stato di Israele”, ha affermato, paragonando questi artisti ai riservisti che si rifiutano di prestare servizio. La decisione fa seguito a una votazione del consiglio comunale e riflette, secondo lui, la volontà di proteggere l'onore dell'esercito di fronte a quelli che considera attacchi ingiustificati.
La petizione in questione, firmata da oltre 1.000 artisti israeliani, tra cui figure emblematiche come Chava Alberstein, Gidi Gov e Oshik Levi, denuncia la situazione umanitaria a Gaza. I firmatari esprimono la loro vergogna per quella che descrivono come una carestia orchestrata da Israele ed evocano il rischio di uno sfollamento forzato dei palestinesi.
“Scriviamo questo con immenso dolore, rabbia e vergogna”, si legge nella lettera, riportata da Ynet. L'appello mira a ottenere un cessate il fuoco, il ritorno degli ostaggi e una soluzione politica al conflitto.
Ma l'iniziativa ha suscitato vive reazioni, in particolare da parte del cantante e attore Idan Amedi, ferito durante il servizio militare. In un messaggio virulento, accusa i firmatari di ignorare la realtà sul campo: “Siete privilegiati che diffondono menzogne. Andate a combattere un giorno in un tunnel, e poi potrete parlare”.
Da parte sua, Eyal Sher, direttore del Festival di Israele e uno dei promotori della petizione, ha cercato di riportare il dibattito al centro della questione. Egli assicura che l'obiettivo non è quello di dividere la società, ma di promuovere valori di compassione e responsabilità collettiva: “Questo messaggio mira a incoraggiare la pace, la liberazione degli ostaggi e la ricostruzione della nostra società”.
Gaza, video del COGAT smentisce accuse di carestia: mercati affollati e aiuti in arrivo
di Luca Spizzichino
Il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (COGAT) ha diffuso lunedì un video che mostra mercati affollati nella Striscia di Gaza, ricchi di prodotti freschi e alimentari. L’iniziativa è stata presentata come una risposta diretta alla narrazione di Hamas, che accusa Israele di causare deliberatamente una carestia nell’enclave.
Nel filmato si vedono banchi colmi di frutta e verdura, oltre a pasticcerie aperte e funzionanti. “Gli aiuti arrivano ogni giorno, via terra e via aria”, ha dichiarato il COGAT, accusando Hamas di diffondere “una narrativa falsa di carestia” mentre “ruba gli aiuti umanitari per rivenderli a prezzi esorbitanti”. “La dura verità”, si legge nel comunicato, “è che Hamas affama la propria popolazione. Il cibo c’è, gli aiuti ci sono. Ma Hamas li tiene lontani da chi ne ha più bisogno”. Il video è stato pubblicato a seguito della diffusione, da parte di Hamas, di filmati che ritrarrebbero ostaggi israeliani in condizioni fisiche gravemente compromesse. Secondo il gruppo terroristico, ciò dimostrerebbe che anche loro stanno subendo gli effetti della presunta carenza di cibo nella Striscia. Tuttavia, Israele e diversi partner internazionali continuano a negare l’esistenza di una carestia.
Nel frattempo, l’esercito israeliano ha confermato che, grazie alla cooperazione con Emirati Arabi Uniti, Giordania, Egitto, Germania, Belgio e Canada, sono state intensificate le operazioni per migliorare la risposta umanitaria. In particolare, sono stati lanciati dal cielo 120 pacchi di aiuti in varie zone della Striscia di Gaza. Anche la Gaza Humanitarian Foundation ha continuato a trasferire cibo nella Striscia, malgrado i numerosi episodi di appropriazione indebita da parte di Hamas, che avrebbe sottratto gli aiuti destinati ai civili e attaccato i siti di distribuzione. Hamas ha accusato Israele e GHF di essere responsabili della morte di oltre mille persone in questi luoghi, accuse che entrambe le parti hanno fermamente smentito.
ll COGAT ha inoltre annunciato l’approvazione di un nuovo meccanismo per l’ingresso controllato di beni essenziali a Gaza. Il piano prevede che una selezione di commercianti locali sia autorizzata a vendere beni di prima necessità, tra cui alimenti, prodotti per l’infanzia, frutta, verdura e articoli per l’igiene. Tutti i beni saranno soggetti a ispezioni ai valichi e i pagamenti avverranno tramite bonifici bancari tracciati, secondo quanto riferito dal COGAT. L’obiettivo dichiarato è garantire un afflusso costante ma monitorato di prodotti di base, limitando al contempo l’appropriazione indebita da parte di Hamas.
Nella serata di domenica 3 agosto si è tenuta una toccante conversazione in diretta con Ela Haimi, moglie di Tal Haimi, rapito il 7 ottobre 2023 mentre difendeva il suo kibbutz Nir Yitzhak, al confine con Gaza. L’evento, moderato dalla giornalista Tal Schneider, ha rappresentato molto più di una testimonianza personale: è stato un appello accorato e lucidissimo per la restituzione di tutti gli ostaggi — vivi o morti — e per la fine dei combattimenti.
Ela ha ricostruito la figura del marito con parole semplici e dense, ricordando come, nelle prime ore di quella mattina tragica, Tal lasciò la famiglia per unirsi ai compagni in difesa del kibbutz. Un gesto che sintetizza il suo spirito impavido e il suo attaccamento alla comunità. Il cognome “Haimi” — ha sottolineato Ela — significa Haim sheli, “vita mia” in ebraico, una sorta di presagio involontario per il destino eroico del marito. Ela ha condiviso dettagli intimi della sua nuova quotidianità: tornata a vivere nel kibbutz solo a luglio, con quattro figli — l’ultimo nato a maggio 2024, frutto di una gravidanza seguita con partecipazione da tutto il Paese — si muove tra le esplosioni in sottofondo e la gioia dei bambini nel sentirsi finalmente a casa. “Possono correre nel kibbutz senza dirmi dove vanno”, racconta, anche se il neonato appare ancora spaesato. Ma per lei, casa sarà di nuovo tale solo quando anche il corpo di Tal potrà riposare lì.
Nella foto, le 4 generazioni Haimi nel kibbutz: il primo a sinistra, Aaron, il nonno di Tal, è tra i fondatori
Il racconto ha assunto i toni di un’esortazione civile: “Solo quando tutti gli ostaggi saranno tornati potremo tornare alle nostre vite”, ha affermato, sottolineando che il ritorno deve essere totale, in un’unica soluzione, e non parziale o scaglionato. Il rischio, ha detto, è di perdere ogni traccia, specialmente dei corpi. Ha citato i recenti video degli ostaggi David e Braslavski — immagini che “ricordano la Shoah” — per ribadire che il tempo stringe. L’intervistatrice ha ricordato i disagi vissuti da Ela e dai suoi figli in questi mesi: quattro scuole cambiate, tre hotel diversi, una vita sballottata e precaria. “È troppo per un bambino”, ha detto Ela con la voce rotta, raccontando come spiegare l’assenza del padre sia quasi impossibile. “Non è vero che è morto se non c’è il corpo”, le dicevano i figli. Per questo, ha organizzato un funerale simbolico con il solo elmetto di Tal: un gesto disperato per offrire loro un senso di chiusura. Ela ha condiviso anche il dolore straziante del ricordo quotidiano di Tal come marito e padre: un ingegnere meccanico dal carattere mite, devoto alla famiglia, sempre pronto a risolvere qualsiasi problema pratico e a concludere la giornata leggendo libri ai bambini. Una vita semplice, fatta di gesti silenziosi e affetto costante, che oggi appare ancora più lontana, quasi irreale, a confronto con la nuova quotidianità segnata dall’assenza, dallo sradicamento e dalla guerra. “È cambiato tutto, nulla sarà più come prima” — ha detto Ela — alludendo non solo alla perdita personale, ma al crollo dell’intero tessuto familiare e comunitario. Nel giorno di Tisha Be-Av, la giornata ebraica del lutto e della distruzione, Ela ha legato il 7 ottobre a una delle grandi catastrofi della storia del popolo ebraico. La sua testimonianza ha avuto la forza di un discorso universale sul dolore, sulla memoria e sull’urgenza della pace. A chi ha domandato come aiutare, Ela ha risposto: “Comportatevi come se fosse vostro padre, vostro figlio e siate attivi. Unitevi ad ogni protesta Run for their lives vicino a voi. Parlatene in continuazione sui social media, è un problema di ognuno di noi. Che tornino è fondamentale per ognuno di noi. Le nostre comunità in tutto il mondo sono la nostra forza.” Non una semplice intervista, ma una dichiarazione d’amore e resistenza. Un appello che nessuno — politico, cittadino o spettatore — può permettersi di ignorare.
(Bet Magazine Mosaico, 4 agosto 2025)
Fronti irrigiditi nell'accordo sugli ostaggi – Israele di fronte a una decisione drammatica
Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner parla del fallimento dei negoziati, del nuovo ruolo degli Stati Uniti e della prova di forza tra calcoli militari e pressioni politiche.
di Itamar Echner
GERUSALEMME - A 666 giorni dall'inizio della guerra, Israele si trova forse di fronte al momento più difficile: si trova infatti a un bivio drammatico che deciderà se puntare su un accordo globale per porre fine alla guerra e ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi – un obiettivo che al momento sembra quasi irrealizzabile – o se decidere di ricorrere a misure drastiche per sconfiggere definitivamente Hamas, anche a rischio di mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Proprio in questa fase decisiva, Hamas e la Jihad Islamica pubblicano video raccapriccianti in cui gli ostaggi israeliani appaiono come prigionieri nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è esagerato dire che gli ostaggi in queste immagini sembrano vicini alla morte. La famiglia di Rom Breslawski ha voluto mostrare questi video al presidente degli Stati Uniti Donald Trump e al suo inviato Steve Witkoff affinché capissero con chi ha a che fare Israele. Il messaggio di Hamas è chiaro: vogliono imporre una sorta di “equazione della fame”: voi affamate la popolazione di Gaza? Allora noi affameremo i vostri ostaggi. Un chiaro ricatto attraverso la minaccia. Hamas sa esattamente dove si trova il punto debole di Israele: il destino degli ostaggi. In Israele si parla di una politica mirata di fame da parte di Hamas e della Jihad islamica nei confronti degli ostaggi israeliani, con l'obiettivo di aumentare la pressione psicologica su Israele. Tra Israele e gli Stati Uniti c'è accordo sul fatto che non ci debbano più essere accordi parziali, ma solo un accordo globale che comprenda la fine della guerra, il disarmo di Gaza e lo smantellamento di Hamas. Ma se già un accordo parziale è fallito, come potrà riuscire un accordo globale? In Israele si ritiene che le possibilità di un accordo globale siano molto scarse, poiché non si prevede che Hamas accetti le condizioni poste da Israele: il rilascio di tutti gli ostaggi, il mantenimento delle truppe israeliane nel corridoio di Philadelphi e la creazione di una cintura di sicurezza militare intorno alle comunità al confine con Gaza, l'esclusione della liberazione dei comandanti dell'unità Nukhba di Hamas che non sono ancora stati condannati, nonché il rifiuto delle quote di liberazione richieste da Hamas (ad esempio 200 condannati all'ergastolo in cambio di 10 ostaggi, il che potrebbe portare a una carenza di prigionieri da scambiare per altri ostaggi). Israele insiste sul disarmo di Hamas e sulla smilitarizzazione della Striscia di Gaza. Un'espulsione simbolica dei leader di Hamas e la formazione di un governo tecnocratico a Gaza potrebbero essere accettabili, ma senza il disarmo Netanyahu non avrebbe nulla da offrire al suo schieramento politico. L'auspicio è ora che gli Stati Uniti assumano la guida dei negoziati per un accordo globale. Tuttavia, si è consapevoli che ciò richiederà molto tempo. Già in occasione di un accordo parziale si era parlato di una tregua di 60 giorni durante la quale si sarebbero negoziate le condizioni per la fine della guerra. Ma i nostri poveri ostaggi non hanno più tempo. Non è un'esagerazione: secondo i video dell'Hamas, sono molto vicini alla morte. Allo stesso tempo, il governo statunitense chiede a Israele di aumentare drasticamente gli aiuti umanitari a Gaza. Gli americani non vogliono vedere immagini di bambini affamati. Il presidente Trump sta lavorando parallelamente a un proprio piano umanitario. In Israele si è consapevoli che, dal punto di vista americano, fino a un possibile accordo Israele può fare tutto il necessario per sconfiggere militarmente Hamas. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha deliberatamente deciso di non convocare il gabinetto di sicurezza e difesa questa settimana. Rimanda la decisione per coordinarsi con gli americani. La riunione dovrebbe tenersi nel corso della settimana – la data non è ancora stata fissata – e dovrà prendere decisioni di ampia portata. Un altro motivo del ritardo è la disputa tra i vertici militari e il governo: mentre i ministri di destra chiedono un'invasione totale della Striscia di Gaza, l'esercito mette in guardia dai rischi enormi per gli ostaggi. Netanyahu ha promesso a Bezalel Smotrich che, in caso di fallimento dell'accordo, procederà ad annessioni simboliche, probabilmente nella zona di confine settentrionale. Ma vista l'attuale situazione politica estera di Israele, una mossa del genere sarebbe un suicidio politico. Spingerebbe tutti gli Stati finora titubanti a seguire l'esempio della Francia e a riconoscere la Palestina a settembre. L'esercito vuole piuttosto circondare la città di Gaza e i campi profughi centrali e avverte: un'occupazione dell'intera città trascinerebbe Israele in un vortice, in un pantano nero di caos e guerra. Fino a quando Israele non prenderà una decisione, si vuole dare ancora qualche giorno ai mediatori – in particolare a Steve Witkoff – per rilanciare il dialogo con nuove formule per una soluzione globale. Nel frattempo, Hamas sta prendendo in giro Israele. Ha ottenuto ciò che voleva: un massiccio aumento degli aiuti umanitari, che Hamas rivendica per sé, senza rilasciare in cambio nemmeno un ostaggio. La leadership di Hamas si sente in ascesa, ha lasciato Doha, si è trasferita in Turchia e ha interrotto i contatti con i mediatori, con un messaggio chiaro: venite a cercarci. Allo stesso tempo, Hamas vede Israele sempre più isolato a livello internazionale, diventare una nazione paria. La sua campagna della fame ha avuto un enorme successo. Israele è accusato di affamare la popolazione civile, anche se è stato dimostrato che alcune delle immagini di bambini affamati erano false e che i bambini in questione soffrivano di gravi malattie. L'amara verità: il mondo ne ha abbastanza. Vuole che questa guerra finisca, e il prima possibile. Anche i leader di Hamas hanno lasciato Doha e si trovano ora in Turchia. Un funzionario della sicurezza israeliano si è detto pessimista: “Non c'è alcun accordo in vista e al momento tutto sembra irrealistico”. Hamas chiede come condizione fondamentale per tornare al tavolo dei negoziati l'ingresso quotidiano di 600 camion, più di quanto previsto da un accordo parziale. Le possibilità di raggiungere un accordo globale sono minime, ma forse si potrà almeno riprendere il dialogo. L'inviato speciale Steve Witkoff ha incontrato i familiari degli ostaggi per un colloquio carico di emozioni durato quasi tre ore. In tale occasione ha sottolineato sia la determinazione del presidente Donald Trump sia il suo impegno personale a riportare a casa tutti i 50 ostaggi rimasti. “L'obiettivo non è quello di espandere la guerra, ma di porvi fine”, ha affermato Witkoff. “Riteniamo che i negoziati debbano essere rilanciati secondo il principio ‘tutto o niente’: porre fine alla guerra e riportare a casa tutti i 50 ostaggi contemporaneamente. Solo così si può fare”. Witkoff ha aggiunto: "La nostra priorità assoluta è riportare a casa tutti gli ostaggi. Il presidente Trump ritiene che tutti debbano essere liberati e che chi è ancora in vita debba tornare vivo. Sappiamo chi è ancora vivo e qualcuno sarà ritenuto responsabile se non torneranno vivi. Gli Stati Uniti sostengono questa dichiarazione. La maggioranza degli israeliani vuole che gli ostaggi tornino a casa e lo stesso vale per la maggioranza dei palestinesi a Gaza, perché desiderano la ricostruzione. Questo è il progetto più importante che il presidente Trump mi ha affidato e lavorerò per realizzarlo fino al mio ultimo respiro“. Witkoff ha sottolineato che il presidente Trump gli ha espressamente chiesto di raccogliere tutti i desideri personali delle famiglie durante questo incontro. ”Abbiamo un piano per porre fine ai combattimenti e questo piano riporterà tutti a casa".
(Israel Heute, 4 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Vent’anni dopo l’evacuazione, gli ex bambini di Gush Katif tornano a Gaza in divisa
di Michelle Zarfati
Vent’anni dopo il disimpegno unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza, molti ex residenti di Gush Katif — evacuati da bambini nel 2005 — stanno facendo ritorno nelle stesse aree, stavolta come soldati riservisti dell’IDF. Il ritorno in quei luoghi ha risvegliato ricordi d’infanzia e sensazioni contrastanti: nostalgia per la vita perduta e dolore per ciò che è cambiato. Lo ha raccontato il notiziario Ynet, che ha intervistato i soldati.
Gal Cohen, oggi 28enne, aveva solo sette anni quando la sua famiglia fu evacuata dalla comunità di Nisanit. Oggi, da soldato, ha rivisto la spiaggia dove giocava da bambino. “Non avevo mai provato nostalgia. Ma quando siamo arrivati sulla spiaggia, ho detto ai miei commilitoni: ‘Ecco dove sono cresciuto’. Allora giocavo con la sabbia, oggi ci torno per una missione di sicurezza” ha raccontato Cohen.
Anche per Yochai Vilozny, 37 anni, il legame con il passato è rimasto intatto. Cresciuto a Moshav Katif, dove suo padre era rabbino, oggi vive a Carmi Katif con la sua famiglia. “Sapevo che sarei tornato. Non pensavamo sarebbe stato così, ma il desiderio non ci ha mai abbandonati”. Entrato a Gaza in divisa, ha ricordato i giorni da adolescente: “Mi sentivo di nuovo quel ragazzo di 17 anni che correva tra le dune.
Shilo Biton, che aveva sette anni al momento dell’evacuazione da Kfar Darom, ha ricordato con emozione la perdita del padre in un attentato. Mobilitato il 7 ottobre 2023, è entrato a Gaza il 6 novembre, anniversario della morte del padre. “È stato un ritorno carico di significato. Un cerchio che si chiude, tra dolore e fede”.
Yehuda Bartov, ex residente di Neve Dekalim e ora a Yad Binyamin, ha raccontato come la sua famiglia non abbia mai smesso di sognare il ritorno: “Abbiamo ancora la sabbia di Gush Katif in casa”. Durante il servizio militare, ha ritrovato la sinagoga del villaggio di Gadid e ha inviato le foto alla famiglia.
Il disimpegno del 2005 vide l’evacuazione di oltre 8.000 israeliani da 21 insediamenti della Striscia di Gaza, poi passata sotto controllo dell’Autorità Palestinese e infine conquistata da Hamas nel 2007 dopo un colpo di stato che concluse la guerra civile tra le due fazioni palestinesi. Nonostante il passare degli anni e le nuove vite costruite in altre aree del sud di Israele, molti ex abitanti mantengono un forte legame emotivo, spirituale e ideologico con quella terra.
Yuli Edelstein pubblica il disegno di legge sul servizio militare obbligatorio per gli ortodossi prima della sua destituzione
Il deputato Yuli Edelstein, presidente uscente della commissione Affari esteri e Difesa, ha pubblicato lunedì mattina il disegno di legge sulla coscrizione militare, poche ore prima che il Likud confermasse la sua sostituzione con Boaz Bismuth.
L'iniziativa arriva dopo mesi di stallo. Edelstein si era opposto alla promozione di una legge di esenzione dal servizio militare che riteneva squilibrata, rifiutandosi di presentare un quadro conforme alle richieste dei partiti ortodossi. Questi ritardi hanno provocato tensioni all'interno della coalizione e hanno portato il primo ministro Netanyahu a decidere di sostituirlo.
Il progetto rivela per la prima volta le sanzioni civili che colpiranno gli ortodossi che rifiutano di prestare servizio nell'esercito israeliano: soppressione delle riduzioni sulle tasse comunali e sui trasporti pubblici, restrizioni per l'ottenimento della patente di guida, limitazioni alle uscite dal territorio, esclusione dai programmi di sovvenzioni e perdita del diritto all'alloggio sociale nel progetto “Premio per l'acquirente”.
Una settimana e mezzo fa, 29 deputati del Likud avevano votato a favore della nomina di Boaz Bismuth, dopo che Netanyahu aveva pubblicamente sostenuto questa mossa.
Il deputato ortodosso Moshe Gafni, leader del partito Degel HaTorah, ha reagito con veemenza: “Yuli Edelstein presenta oggi questa legge dopo aver rifiutato di pubblicarla tre settimane fa, sperando di rimanere presidente della commissione. Oggi ha dovuto capire che era stato estromesso”. Egli denuncia un progetto che definisce inaccettabile “per un ebreo”.
Immagini che non avremmo mai voluto vedere perché rivelatrici di un sadismo inquietante, una crudeltà difficile da concepire. Immagini prodotte da Hamas sulla pelle prima di Rom Braslavski, la cui famiglia non ha acconsentito alla loro circolazione in forma integrale, e poi di Evyatar David. Due giovani israeliani rapiti il 7 ottobre 2023 dal gruppo terrorista palestinese e tenuti in condizioni disumane, al buio, in spazi minuscoli, sottoterra, affamati. Evyatar è scheletrico, l’ombra di un essere vivente. Hamas gli fa dire che a Gaza non c’è cibo ma per smentire la propaganda basta un solo fotogramma. Quello del suo aguzzino mentre gli porge una scatoletta di cibo. Il suo braccio è forte, di una persona in salute, che mangia. Che mangia e che affama un giovane, colpevole di essere israeliano, di essere ebreo. Avevamo detto «mai più». Gli ostaggi devono essere salvati oggi, non domani. dan.mos.
(moked, 3 agosto 2025) ____________________
"Gli ostaggi devono essere salvati oggi, non domani." Sì, ma come? "Voglio, voglio, voglio che gli ostaggi tornino a casa", sembra che dicano certi israeliani, che su questo non vogliono sentire ragioni. Ma che si può rispondere ai bambini? M.C.
Il 7 ottobre ha segnato un prima e un dopo nella storia del nostro popolo. Come un fulmine a ciel sereno, quello che doveva essere il giorno più gioioso dell’anno – Simchat Torà – si è trasformato nel più buio dei lutti. In Israele come nella Diaspora, le nostre vite sono cambiate per sempre. Molti di noi si trovano ancora a fare i conti con un dolore che sembra non avere fine. L’atmosfera di lutto di Tishà beAv sembra rispecchiare perfettamente il nostro stato d’animo collettivo. Come ha magistralmente esposto Rav Daniel Glatstein lo scorso anno in una sua profonda lezione, esiste un legame misterioso e profondo tra quella tragica mattina del 7 ottobre e il significato più intimo di Tishà beAv. Il paradosso è straziante: il 7 ottobre la gioia si è trasformata nell’orrore più assoluto. Simchat Torà è diventato Tishà beAv. Ma proprio in questo paradosso, i nostri Saggi ci insegnano, si nasconde una verità profonda sulla natura stessa dell’esistenza ebraica. È significativo notare come esistano paralleli strutturali tra i periodi di lutto e quelli di gioia nel nostro calendario. Le tre settimane che precedono Tishà beAv – dal digiuno del 17 di Tammuz fino al 9 di Av – sono specularmente riflesse nelle tre settimane che ci conducono da Rosh haShanà verso Simchat Torà. Allo stesso modo, i nove giorni di Sukkot, Sheminì Atzeret e Simchat Torà nella Diaspora trovano il loro corrispettivo nei primi nove giorni del mese di Av, i più intensi nel lutto. Questa simmetria non è casuale. Come spiega il Maharal di Praga, nel loro nucleo più profondo, gioia e lutto sono due facce della stessa medaglia. Ma c’è di più. I nostri Saggi ci insegnano che proprio Tishà beAv, il giorno più tragico del calendario ebraico, porta in sé il seme della redenzione finale. Proprio nei momenti di massima oscurità si prepara la luce più brillante. Da parte nostra cosa possiamo fare? Attendere la salvezza. Alcuni commentatori considerano questa attesa come la primissima mitzvà della Torà, e secondo il Talmud sarà una delle sei domande fondamentali che ci verranno poste alla fine della nostra vita: “Hai atteso la redenzione?” Ma cosa significa veramente “attendere la redenzione”? Non si tratta di una passiva rassegnazione o di una fuga dalla realtà. L’attesa della gheulà è, al contrario, un modo attivo di vivere, una lente attraverso cui interpretare gli eventi della storia e il nostro ruolo in essa. In questo Tishà beAv, mentre digiuniamo e ci addoloriamo per le distruzioni del passato e del presente, ricordiamo che stiamo anche piantando i semi della redenzione futura. Ogni lacrima sincera, ogni tefillà autentica è parte del processo che porterà alla gheulà finale.
Perché Dio ha creato il mondo? - 9Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Il progetto redentivo come riconquista del creato Il sottotitolo “Un approccio olistico alla rivelazione biblica” dato a questa trattazione fa già capire che si vuol esporre il risultato di una rilettura dell’intera Bibbia, fatta nel desiderio di individuarne il suo significato unitario nel contesto di precise scelte interpretative. Facciamo allora un’esposizione sommaria del quadro interpretativo assunto, insieme all’indicazione di alcuni incroci dottrinali per cui questa rilettura passerà.
Diciamo allora che si condivide in partenza il pensiero secondo cui il primo mondo creato da Dio è quello angelico; e che tra il primo e il secondo versetto della Genesi sia avvenuta la caduta di Satana e degli angeli che l'hanno seguito. Il mondo su cui avrebbe dovuto regnare Satana è stato invaso dalle acque e l'abisso è diventato un luogo di prigionia per angeli ribelli. La creazione in cui viviamo noi esseri umani non è dunque stata creata dal nulla, ma è il risultato di un'azione di Dio che separa il vecchio e crea il nuovo. La schiera degli angeli ribelli non è stata distrutta ma relegata in regioni che la Scrittura chiama abisso (Luca 8:31) e luoghi celesti (Efesini 6:12), che sono in qualche modo "confinanti" con il mondo dell'uomo. Da queste zone le creature diaboliche possono, nei limiti imposti da Dio, uscire temporaneamente, inserirsi tra gli uomini in forma più o meno visibile e agire su di loro.
Per la prima volta questo è avvenuto nel giardino di Eden, con le parole del serpente rivolte ad Eva. La risposta dell'uomo a quell'invito ha aperto le porte del creato all'azione di Satana e delle sue schiere. L'originario progetto creativo era condizionato all'accettazione di un limite invalicabile; conteneva quindi, fin dall'inizio, la dichiarazione di ciò che sarebbe accaduto in caso di superamento di tale limite: la morte.
Dopo il peccato dunque la morte è entrata nel mondo in modo "naturale", cioè non come atto punitivo di Dio, ma come conseguenza di una scelta dell'uomo. Il limite invalicabile posto da Dio all'uomo con il divieto del frutto dell'albero era la condizione affinché si potesse realizzare l'abitazione del Creatore in mezzo alle creature, in un rapporto d'amore che mantenesse le giuste distanze e i differenti ruoli. Il tentativo dell'uomo di superare questo limite ha provocato qualcosa come la rottura di una diga; l’aspirazione indebita ad uguagliare Dio ha fatto entrare in tutto il creato la morte. Si è rotto il diaframma che separava il mondo creato per l'uomo dalle regioni della presenza diabolica; ed è entrata la corruzione, cioè tutto ciò che porta il segno della morte.
Dio però non ha distrutto il mondo dopo il peccato di Adamo, ma lo ha allontanato da Sé e ha deciso di salvarlo dall'interno, proponendosi di porre in esso un nuovo capostipite, un “nuovo Adamo” (1 Corinzi 15:42-48), che da una parte potesse pagare il debito contratto con Dio dal primo Adamo, e dall'altra generasse una nuova società in un nuovo habitat privo di ogni forma di corruzione. Diciamo subito che questo “ultimo Adamo” (1Corinzi 15:45) è Gesù, Figlio di Dio e Messia d'Israele.
L’agire di Dio dopo il peccato non è dunque punizione, ma atto di grazia, cioè inizio di un nuovo progetto di riconquista del creato, che certamente non avrebbe potuto evitare le conseguenze mortali del primo, ma ne avrebbe anzi esteso le conseguenze fino al punto di far nascere dallo stato di morte una nuova creazione, più gloriosa ancora della prima. La nuova creazione non sarebbe dunque avvenuta ex novo, ma come frutto di un processo di morte che avrebbe subìto e risolto le conseguenze negative del primo progetto, a cui sarebbe seguito un processo di risurrezione che avrebbe generato una nuova vita.
È proprio questo che può dare senso compiuto al fatto di Gesù, cioè alla sua venuta, morte e risurrezione, che è certamente il punto centrale e fondamentale del piano salvifico di Dio, ma deve essere inserito nel complesso del suo progetto redentivo, senza fare di esso un mero strumento di salvezza eterna per singoli.
Il progetto redentivo può dunque essere visto come un piano di riconquista di un territorio caduto nelle mani del Nemico. All'interno del "territorio occupato”, Dio cerca qualcuno che "sia per Lui", cioè che ascolti la sua parola, creda alla verità di ciò che annuncia e manifesti concretamente la sua fede eseguendo le Sue istruzioni e accettando così di mettere in gioco la sua stessa vita. Dio trova questa persona in Abramo, a cui promette, come prima cosa, di fare di lui una grande nazione.
Perché questo riferimento a una realtà politica come la nazione nell'annuncio di una grandiosa opera di salvezza universale? Nella prima creazione le nazioni non esistevano, esse sono sorte come conseguenza della moltiplicazione delle lingue voluta da Dio per impedire agli uomini, persistenti in un atteggiamento di ribellione, di attuare un progetto di autogoverno mondiale e autoglorificazione che sarebbe caduto inevitabilmente nelle mani del Nemico. Il tentativo ribellistico è stato sventato dal Signore, ma le nazioni che sono sorte come conseguenza di peccato, governate da uomini in ribellione aperta con Dio, sono entrate inesorabilmente a far parte del campo d’azione del Nemico, che da quel momento le userà come sue pedine, stabilendo per ciascuna di esse un “governo ombra” gestito da suoi “uomini”.
Dio comincia allora mettere in atto il suo progetto redentivo promettendo ad Abramo di fare di lui una grande nazione. Mancavano forse le nazioni in quel momento della storia? Non erano forse abbastanza grandi? No, il problema non era questo: le nazioni c’erano, ma erano tutte contaminate dal peccato. Non erano kosher. Erano nazioni impure. Non perché ci fossero troppi peccatori rispetto alla media consentita, ma perché come entità sociali nuove rispetto al progetto creazionale originario, erano espressione di una volontà che si opponeva fondamentalmente al Dio Creatore del cielo e della terra. Essendo in origine conseguenza di un’ispirazione del Nemico, sono rimaste sempre sotto questa ispirazione e sono necessariamente entrate a far parte del suo esercito.
Ma per il margine di libertà che Dio concede agli uomini anche dopo la caduta di Adamo, le nazioni, frutto di volontà umana, sono ormai presenti sulla terra, e poiché la Riconquista (così chiameremo qualche volta il progetto redentivo) deve avvenire sulla terra, il Signore ha pensato di fondare una nazione che non provenisse dal peccato della pianura di Scinear, ma fosse espressione della Sua volontà: una nazione kosher. Ed è al Sinai che Dio ha deciso di rendere chiara la sua intenzione agli israeliti:
“Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani, e come io vi ho portato sopra ali di aquila e vi ho condotto a me. Ora dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Esodo 19:4-6).
• Concepimento e gravidanza del figlio di Dio Come già detto, dal capitolo 12 in poi il libro della Genesi è il racconto di come Dio inizia ad adempiere la promessa fatta ad Abraamo: “Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione”. In questo racconto sono contenuti anche i primi segni delle benedizioni che Dio porterà poi a tutte le famiglie della terra, ma resta il fatto che per loro natura queste benedizioni resteranno sempre in qualche modo collegate alla grande nazione a cui Dio ha dato il nome di Israele.
La nazione non nasce per via politica, come accordo di più gruppi sociali esistenti, ma per via genetica, come seme di Abraamo. A Giacobbe infatti Dio annuncia che una nazione uscirà dai suoi lombi (Genesi 35:11). Uscirà dai lombi di Abraamo, ma Dio stesso se ne assumerà la paternità: infatti tramite Mosè Dio fa sapere al Faraone (quello che “non aveva conosciuto Giuseppe”) che “Israele è mio figlio, il mio primogenito” (Esodo 4:22).
Se dunque Israele è figlio di Dio, la sua nascita come nazione può essere paragonata alla nascita di Adamo come uomo. Nel corso della storia il Signore si rivolge a Israele con queste parole: “Ma ora così parla l’Eterno, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele! Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio!” (Isaia 43:1), dove il termine “formato” (ברא) è lo stesso usato per indicare la formazione di Adamo: “L’Eterno Dio formò (ברא) l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2:7). Come Adamo è stato il primo e unico uomo creato direttamente da Dio, così Israele è stata la prima e unica nazione formata direttamente da Dio.
Il paragone tra la nascita della nazione e quella di un uomo può essere perfezionato dicendo che Israele è stato concepito nella terra di Canaan al tempo dei patriarchi, e che la sua gravidanza, a cui è seguito il parto, si è svolta in Egitto nei quattrocento anni di schiavitù sotto i Faraoni.
Il libro della Genesi racconta il concepimento in Canaan e si conclude con l’annuncio del trasferimento della gravidanza in Egitto.
Il libro dell’Esodo si apre con il racconto degli ultimi momenti di una gravidanza difficilissima e continua con i primi momenti di un parto molto travagliato, seguito da una crescita molto movimentata del nuovo popolo in marcia verso la terra destinata alla nuova nazione.
Da quel momento il racconto nella Bibbia prosegue con la comparsa di una figura gigantesca nella storia di Israele e del mondo: Mosè.
• Dalla parte del popolo Volendosi esprimere con un linguaggio politico, potremmo dire che alla fine del periodo patriarcale Dio riuscì, operando con la persona di Giuseppe, a piazzare un suo uomo nelle più alte sfere di governo dell’Egitto. La nazione ospitante ne trasse pieno beneficio, come anche la famiglia abramitica, che nell’arco di circa quattrocento anni poté enormemente espandersi perché “i figli d'Israele furono fecondi, si moltiplicarono abbondantemente, diventarono numerosi e si fecero oltremodo potenti, e il paese ne fu ripieno” (Esodo 1:7).
A questo punto la tribù familiare di Abramo, cresciuta nel grembo egiziano, era diventata un popolo. Il periodo della gestazione volgeva dunque al termine e il Signore doveva pensare a come far avvenire il parto.
La situazione era matura, perché gli egiziani ormai “avevano preso in avversione i figli d’Israele” (Esodo 1:12-14): non li sopportavano più e li maltrattavano in mille maniere.
Viene allora in primo piano un nuovo Faraone, il quale decide, primo nella storia, di tentare di risolvere alla radice "il problema ebraico” mediante sterminio. Fallito un primo tentativo di infanticidio per affogamento dei maschi, il monarca tenta un altro sistema, poi applicato anche in tempi più recenti: ammazzarli tutti con una mole insopportabile di lavoro. Tentativo non del tutto riuscito, ma il risultato fu che ”i figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano grida" (Esodo 2:23).
Interviene allora il Signore. Poiché quel Faraone non aveva conosciuto Giuseppe, pensò bene di fargli conoscere un altro suo uomo: Mosè. Ma in che senso il Faraone “non aveva conosciuto Giuseppe”? Non certo nel senso che non l’aveva mai incontrato di persona, visto che li separavano centinaia di anni. Neppure si può credere che non avesse mai sentito parlare della storia di Giuseppe, perché quel potente blocco di ebrei che tanto lo infastidiva certamente ne parlava fin troppo. Era il loro eroe d’origine, entrato in forma gloriosa nella storia d’Egitto, di cui adesso anche loro, discendenti di Giuseppe, facevano parte in modo organico. “Siamo egiziani quanto voi!”, avrebbero potuto dire con fierezza gli ebrei d’Egitto, un po’ come fanno oggi quelli della diaspora. Quindi si può pensare che il Faraone non riconoscesse a Giuseppe il posto che gli ebrei potevano richiedere fosse loro riconosciuto, con tutte le conseguenze che ne seguono. Forse è per questo che quando Mosè gli fece la sua richiesta cominciando con le parole: “Così dice l’Eterno, l’Iddio d’Israele, ecc.”, la pronta risposta del Faraone fu: “Io non conosco l’Eterno” (Esodo 5:1-2), nel senso che non riconosco alcun posto al Dio dei discendenti di Giuseppe nella storia d’Egitto.
E’ interessante il confronto fra i due uomini di cui Dio si servì per rapportarsi con l’Egitto: uno per far entrare Israele, l’altro per farlo uscire. Entrambi erano stati condannati a morte: il primo dai suoi fratelli ebrei, il secondo dai suoi nemici egiziani. E ciascuno di loro sperimenta una sorta di risurrezione per un intervento imprevedibile di Dio che li porta ad occupare un posto di rilievo nella nazione pagana.
Nel caso di Mosè, essere figlio della figlia del Faraone non è cosa di poco conto. Mosè però non ne approfitta: sa di appartenere al disprezzato e maltrattato popolo ebraico e intimamente si schiera dalla sua parte. Un giorno vede un prepotente egiziano che malmena alcuni suoi fratelli e l'uccide. Di solito questo fatto non è giudicato bene, soprattutto perché con la successiva fuga dell’intraprendente eroe il risultato dell'azione è nullo.
Ma forse è proprio questo atto impulsivo che permetterà a Mosè di essere scelto da Dio come strumento della sua opera di redenzione. Perché se è vero che con il suo atto violento Mosè non dà prova di sottomissione a Dio, perché in quel momento non l'aveva ancora incontrato e neppure lo conosceva, resta il fatto che si è messo decisamente dalla parte del suo popolo, cosa che il Signore ha certamente gradito, e l’ha convinto ad affidargli in un secondo momento un compito di fondamentale importanza nella sua opera di redenzione.
Nel Nuovo Testamento si riconosce esplicitamente la fede in Dio che Mosè manifestò mettendosi dalla parte del suo popolo, ponendolo addirittura in collegamento con l’abbassamento di Gesù:
“Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del Faraone, preferendo di essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato, stimando l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto" (Ebrei 11:24-26).
Il Mosè adulto si presenta dunque alla storia d’Israele con un impulsivo atto di solidarietà in difesa suo disprezzato popolo, ma il suo impegnativo e sofferto percorso di servizio comincerà soltanto dopo il suo inaspettato incontro con Dio nei pascoli erbosi del monte Sinai.
Il vero volto della disumanità e la sorte degli ostaggi israeliani
di Paolo Crucianelli
Il suo nome è Rom Braslavski. È vivo. Ma chi ha visto il video diffuso dalla Jihad islamica, che non può essere archiviato come semplice “materiale di propaganda”, ha percepito qualcosa di molto diverso dal semplice essere vivi. Ha percepito l’orrore, l’angoscia, la disperazione che solo un’immagine autentica può rivelare.
• Chi è Rom Braslavski Rom ha 21 anni. Quando è stato rapito ne aveva 19. Era arruolato nell’Idf, ma non era un comandante, un torturatore, un carnefice, come chi lo detiene vuole far credere. È un ragazzo israeliano, cresciuto tra TikTok e leva obbligatoria. Un giovane come i nostri figli. È detenuto da 664 giorni nelle gallerie sotterranee di Gaza, dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas. Rom è nella cosa che più si avvicina all’inferno di dantesca memoria. Lui è un soldato, è vero, ma un semplice soldato di leva, come tutti i suoi coetanei in Israele. Quel terribile giorno non era in servizio, non era nemmeno in divisa: stava solo ballando al Nova Festival, insieme a una moltitudine di ragazzi.
Il video mostra Rom scheletrico, seduto a fatica, le clavicole sporgenti; un relitto umano. Il volto scavato, lo sguardo assente. Parla, ma le parole non sono le sue, sono quelle che è stato costretto a pronunciare. Chiunque abbia visto i frame riconosce l’indelebile impronta della prigionia. Questo non è un prigioniero nutrito e trattato con rispetto, come pretenderebbe certa propaganda che si ostina a dipingere Hamas e la Jihad islamica come “resistenze popolari”. Questo è un ragazzo nelle stesse condizioni dei sopravvissuti ai lager nazisti. E invece è reale. È oggi. È ora.
(Il Riformista, 2 agosto 2025)
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Il 7 ottobre continua. Il pogrom è in corso d’opera
“Mai più”, si diceva, celebrando (pardon, ricordando) la Shoà. Ma era un fatto del passato. Finito, fermo, irripetibile. Il “mai più” era dunque pleonastico, inutile, per questo si è diffuso sempre di più nel tempo, rarefacendosi al punto da confondersi con l’aria che si respira.
Ma è proprio questo il guaio, avrà pensato il Nemico del popolo di Dio. Bisogna trovare qualcosa che non resti fermo e irripetibile nel passato, ma si mantenga e si sviluppi nel presente fino ad assumere i tratti dell’imperitura eternità.
Ed è arrivato il 7 ottobre, che si può confessare come un evento che ha uno spiacevole passato, ma permette di godere un piacevole presente gustando uno spettacolo da riattizzare ogni tanto con formali esecrazioni del male che ci fu per alimentare continuamente la sua prosecuzione nel male che c’è.
Si assiste al pogrom in corso d’opera con valutazioni e giudizi diversi sul contenuto dello spettacolo, e non ci si accorge di essere diventati parte in causa del pogrom, partecipi attivi di un orrendo super-spettacolo, talvolta con orribili giudizi che volendo essere di natura morale ricadranno pesantemente su chi, soprattutto se capi di governo o presidenti di nazioni, li avranno temerariamente pronunciati. M.C.
(Notizie su Israele, 2 agosto 2025)
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Israele e Gaza: i dubbi e le perplessità sulle parole del presidente Mattarella
di Iuri Maria Prado
Ore 20 circa del 30 luglio. Non posso dire che non so che cosa troverò domani (ieri per chi legge n.d.r.) sui giornali a proposito del discorso fatto oggi dal presidente della Repubblica in relazione alla guerra di Gaza.
So perfettamente che cosa troverò sui giornali. Non solo nulla di nemmeno pallidamente critico, ma un profluvio di citazioni e riferimenti al capo dello Stato che denuncia le atrocità di Gaza e le responsabilità di chi le commette, cioè Israele.
Leggiamo ciò che ha detto il presidente della Repubblica:
“L’incredibile bombardamento della Parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza è stato definito un errore. Si è parlato di errori anche nell’avere sparato su ambulanze e ucciso medici e infermieri che recavano soccorso a feriti, nell’aver preso a bersaglio e ucciso bambini assetati in fila per avere acqua, per l’uccisione di tante persone affamate in fila per ottenere cibo, per la distruzione di ospedali uccidendo anche bambini ricoverati per denutrizione”.
“È difficile” – prosegue il presidente della Repubblica – è difficile “in una catena simile, vedere una involontaria ripetizione di errori e non ravvisarvi l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente”.
Con tutto il rispetto per la presidenza della Repubblica: non c’è stato un “bombardamento” di quella chiesa. C’è stato un danneggiamento, con morti e feriti, di una chiesa in una zona di guerra, un danneggiamento con morti e feriti dovuto a un colpo che accidentalmente ha appunto colpito quella chiesa.
Accidentalmente vuol dire non colpevolmente? No. Accidentalmente vuol dire che non possano esserci responsabilità, persino criminali, per quel colpo? Assolutamente no. Possono esserci. Ma non si tratta del “bombardamento” di una chiesa, perché quel termine evoca una intenzionalità che non c’è.
E con tutto il rispetto per la presidenza della Repubblica: non c’è nessuna prova, neppure un indizio, del fatto che l’esercito israeliano abbia “preso a bersaglio e ucciso bambini assetati in fila per avere acqua”, ma questa è l’accusa che rivolge il presidente della Repubblica: che Israele prende “a bersaglio i bambini assetati in fila per avere acqua”.
Il presidente della Repubblica che denuncia l’ostinazione di Israele di “uccidere indiscriminatamente” partecipa in questo modo alla campagna mistificatoria che senza prove, senza riscontri e in base a un’incolpazione sostanzialmente denigratoria imputa a Israele non solo la commissione di crimini, ma la deliberazione di commetterli e la pratica inesausta di commetterli.
È una responsabilità grave.
(Il Riformista, 1 agosto 2025) ____________________
"... non ravvisarvi l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente". Ma ha davvero detto questo il Presidente della Repubblica? E' un fatto gravissimo. M.C.
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Lettera di un cittadino italiano di religione ebraica a Sergio Mattarella
Lettera scritta da Vittorio Pavoncello indirizzata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Ill.mo Signor Presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
sono un semplice cittadino italiano, di religione ebraica, appartenente a una famiglia che vive a Roma da millenni.
Mio nonno, mio omonimo, Vittorio Pavoncello, fu deportato e ucciso ad Auschwitz per la sola colpa di essere ebreo.
Le scrivo dopo aver ascoltato con attenzione le Sue parole pronunciate alla cerimonia del Ventaglio al Quirinale. Il Suo appello sulla tragedia di Gaza e sulla Russia ha avuto un tono netto e autorevole, ma in particolare le frasi sull’operato militare di Israele hanno colpito profondamente me e molti membri della mia comunità.
Quando Lei afferma che non si tratta di incidenti fortuiti, ma di un’“ostinazione a uccidere indiscriminatamente”, attribuendo volontarietà agli attacchi contro ambulanze, ospedali e bambini in fila per l’acqua e il cibo, si tratta di parole di una gravità enorme, cariche di conseguenze istituzionali e morali.
Proprio per questo sento il dovere di condividere con Lei alcune riflessioni:
Per Israele: dichiarare che si tratti di attacchi volontari a civili significa rivolgere una condanna pesante e diretta, che va oltre la critica politica.
Per la comunità ebraica: in Italia, purtroppo, la distinzione tra Stato di Israele e popolo ebraico è ancora poco chiara. Parole così forti rischiano di alimentare confusione e di dare spazio a discorsi antisemiti, alla luce di quanto recentemente accaduto a Milano e al moltiplicarsi di episodi antisemiti in Italia.
Per la percezione pubblica: quando una dichiarazione viene pronunciata dal Presidente della Repubblica, diventa un segnale potentissimo per la società. Se non accompagnata da una netta distinzione tra Israele come Stato e gli ebrei come popolo, può involontariamente generare un clima ostile verso una minoranza che ha già conosciuto discriminazione e persecuzione.
Signor Presidente, proprio Lei, nel Suo discorso di insediamento, volle ricordare il piccolo Stefano Gaj Taché, vittima innocente dell’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, dicendo: “Un bambino italiano, di due anni, ucciso per la sola colpa di essere nato ebreo”.
Quelle parole toccarono profondamente la nostra comunità perché riconoscevano la radice di quell’odio: non contro un governo, ma contro un popolo intero.
Oggi, di fronte a dichiarazioni così forti sull’operato di Israele, sentiamo la stessa urgenza di proteggere quella linea di demarcazione tra critica politica e stigma verso gli ebrei. La memoria di Stefano, così come quella delle vittime della Shoah, ci ricorda quanto fragile possa essere il confine tra accuse rivolte a uno Stato e pregiudizi contro un popolo.
Signor Presidente, sono tempi difficili. Proprio Lei, che ha più volte ammonito l’Italia contro ogni deriva antiebraica, può comprendere quanto sia delicato l’equilibrio tra la denuncia di una tragedia e la protezione di una comunità che sente ancora il peso della Shoah sulle proprie spalle.
La mia non è una difesa cieca di governi o azioni militari, ma una richiesta di attenzione: la chiarezza nelle parole istituzionali è vitale. Le critiche a un governo non devono mai sfociare, neanche indirettamente, in una percezione negativa verso un intero popolo o una fede millenaria.
Con deferente stima, Vittorio Pavoncello
Per la prima volta, l’archivio del Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund (KKL-JNF) rende pubbliche rare fotografie storiche che documentano la commemorazione di Tisha B’Av, il giorno ebraico del lutto, presso il Muro Occidentale (Kotel) a Gerusalemme, e nelle sinagoghe di tutto il territorio israeliano. Le immagini, custodite nel Central Zionist Archive di Gerusalemme, coprono diverse epoche e testimoniano l’intima continuità della tradizione ebraica e il legame profondo del popolo ebraico con i suoi luoghi sacri.
Ma c’è di più: questi scatti raccontano anche una trasformazione ideologica. Attraverso l’obiettivo si intravede come il movimento sionista abbia reinterpretato Tisha B’Av, convertendolo da semplice giorno di lutto a potente simbolo di rinascita nazionale. Già nel 1927, un memorandum del KKL-JNF intitolato “Distruzione e Rinascita” affermava: “La determinazione a ricostruire Sion nacque proprio nel momento della distruzione nazionale”. In quest’ottica, il KKL-JNF avviò iniziative per coinvolgere tutte le correnti dell’ebraismo nel progetto sionista, lanciando campagne di raccolta fondi rivolte anche alle comunità ultra-ortodosse. Con opuscoli in Yiddish, citazioni da fonti religiose e immagini della vita ebraica tradizionale, il messaggio si faceva inclusivo e potente. Materiali come il volantino Fun Churban – Tzu Geulah (“Dalla distruzione alla redenzione”) invitavano alla partecipazione attiva nella redenzione della terra d’Israele.

Tra i documenti pubblicati figurano fotografie storiche di fedeli seduti a terra presso il Muro del Pianto, vecchie pubblicazioni del KKL-JNF, e poster bilingue delle attività dell’organizzazione. In particolare, un volantino proveniente dall’ufficio londinese del KKL-JNF mostra un comitato sinagogale impegnato nella pianificazione del futuro di Israele, sotto lo slogan: Torah e Avodà.
“Queste immagini offrono uno sguardo raro sulla vita della comunità ebraica nella Terra d’Israele” spiega Ifat Ovadia-Luski, presidente del KKL-JNF. “Documentano non solo l’osservanza di Tisha B’Av, ma anche il profondo legame con la terra e la tradizione, e come il movimento sionista abbia saputo intrecciare memoria e rinascita nazionale”. Quest’anno, Tisha B’Av cadrà dal tramonto di sabato 2 agosto fino alla sera di domenica 3 agosto, rinnovando un rito che guarda al passato con dolore e al futuro con speranza specialmente in questo momento della storia del popolo d’Israele.

La guerra che si sta combattendo a Gaza ha delle proporzioni ridicole se la si compara alle guerre combattute in passato. Le guerre jugoslave furono ben più violente, così come è decisamente più terribile quella in atto in Ucraina.
A Gaza, il numero di vittime civili è tra i più bassi mai registrati in un conflitto urbano, vengono garantiti regolari aiuti umanitari, sul campo operano organizzazioni internazionali, non si sono verificati episodi di brutalità gratuita come, per esempio, a Srebrenica nel ’95 o a Bucha nel ’22, eppure la si continua a presentare come una «ecatombe» e uno «sterminio».
Perché? La risposta è semplice: antisemitismo, anzi, «giudeomisia», come dice Taguieff, odio verso gli ebrei considerati come «nemici del genere umano». Alle spalle di questa ossessione per Gaza c’è la volontà di poter odiare, senza più freni inibitori né pudore, gli ebrei, ancora una volta trasformati in entità diaboliche.
Gaza è il nuovo mito antiebraico, una riformulazione dell’antica «accusa del sangue» rivolta contro gli israeliti, di usare il sangue dei cristiani come ingrediente dei cibi e delle bevande prescritti per la festa di Pesach. Come la precedente, anche l’attuale accusa non è fondata sui fatti, è una pura invenzione omicida. Quanti denunciano il «genocidio di Gaza» non stanno raccontando la realtà della Striscia, ma solo rivelando l’immagine che hanno degli ebrei, ancora imbevuta di superstizioni, stereotipi, luoghi comuni.
Il mito del «genocidio di Gaza» assolve, nel XXI secolo, il medesimo ruolo che nel XX secolo ebbero i Protocolli dei Savi di Sion: fornire una «licenza per un genocidio» − questo sì autenticamente voluto e preparato − a danno del popolo ebraico. Gaza non è la pletora della solidarietà universale nei confronti dei «palestinesi», ma quella, altrettanto universale, dell’odio verso gli ebrei.
Nel suo delirante saggio, Il mito del XX secolo, Alfred Rosenberg scrisse del «mito del sangue, che sotto l’egida della svastica scatena la rivoluzione mondiale della razza». Gaza è il mito del XXI secolo, che sotto l’egida del quadricolore «palestinese» ha scatenato una «Intifada globale» in nome di un popolo presuntivamente «oppresso» dagli ebrei e in cerca di riscatto − dopotutto, anche i nazisti cercavano la rivincita degli Ariani sugli «sfruttatori» Semiti. Gaza è la forma contemporanea di Moloch, davanti al quale si intende compiere l’olocausto del popolo ebraico; il pretesto per una nuova Shoah.
Partiranno il 12 agosto da Vicenza in bicicletta, con destinazione Auschwitz. Mille e trecento chilometri sulle strade d’Europa per onorare la memoria di Torquato e Franco Fraccon, padre e figlio partigiani cattolici, onorati da Yad Vashem, deportati e uccisi nei lager nazisti nel 1945. A compiere questo viaggio saranno Lucia Farina, nipote dei Fraccon, il marito Antonino Stinà, Paolo Massignan (figlio di Luigi “Gino” Massignan, compagno di prigionia dei Fraccon) e Meme Pandin. Un percorso attraverso confini, storie famigliari e luoghi della memoria, per ricordare e far conoscere alle nuove generazioni ciò che accadde e chi decise di non voltarsi dall’altra parte.
Il progetto, intitolato “1945–2025. 80 Memoria: Vicenza – Mauthausen – Auschwitz”, si inserisce nelle iniziative per l’80° anniversario della Liberazione ed è patrocinato dai Comuni di Vicenza e Venezia e dalla Comunità ebraica di Venezia. I protagonisti hanno presentato l’iniziativa al Liceo Stefanini di Mestre, dove un albero nel giardino dell’istituto ricorda proprio Torquato Fraccon.
«Abbiamo accolto con molto piacere questa iniziativa», sottolinea a Pagine Ebraiche Paolo Navarro Dina, vicepresidente della Comunità ebraica di Venezia. «In un momento come questo, con l’aumento di episodi di antisemitismo in Italia, dare un segnale sull’esercizio della memoria è fondamentale. Abbiamo aderito alla proposta con convinzione perché è necessario, oggi, far capire cosa significano questi 80 anni dalla Liberazione. Serve mantenere viva la lezione della lotta per la libertà e contro ogni forma di antisemitismo e di odio».
Il viaggio inizierà dalla casa dei Fraccon, in via dei Templari, nel quartiere Commenda di Vicenza. Prima tappa sarà il carcere di San Biagio, dove Torquato, Franco, la madre e le sorelle furono reclusi. Da lì i quattro ciclisti proseguiranno verso il centro storico, davanti a Palazzo Leone Montanari, dove si trovano due pietre d’inciampo dedicate a padre e figlio Fraccon. L’itinerario si concluderà poi con una tappa il 20 agosto al memoriale di Mauthausen e poi con l’arrivo, il 27 agosto, ad Auschwitz-Birkenau.
• L’eroismo di padre e figlio Torquato Fraccon, nato nel 1887 a Pontecchio Polesine, fu un cattolico impegnato, fin da giovane vicino all’Azione Cattolica e al movimento democratico cristiano. Dopo la Prima guerra mondiale lavorò alla Banca Cattolica del Veneto. Non nascose mai il proprio dissenso verso il fascismo: fu aggredito, sorvegliato, intimidito. Dopo l’8 settembre 1943 entrò nella rete della resistenza vicentina. Organizzò fughe verso la Svizzera, fornì documenti falsi a perseguitati politici, ebrei e prigionieri alleati. Tra le persone che aiutò a trovare rifugio nella Confederazione elvetica, ci fu il professor Giulio Reichenbach, docente universitario ebreo, che riuscì a fuggire con la famiglia nel dicembre 1943.Nel gennaio 1944 Torquato fu arrestato un prima volta con il figlio Franco, diciottenne. Furono rilasciati entrambi dopo interrogatori e torture, ma nell’ottobre dello stesso anno vennero nuovamente catturati, insieme alla moglie e alle figlie. Detenuti a Padova, padre e figlio non cedettero e non raccontarono nulla della rete di Resistenza di cui facevano parte. Furono deportati a Mauthausen, dove Franco fu assassinato nel marzo del 1945. Il padre Torquato morì l’8 maggio, tre giorni dopo la liberazione del campo. Entrambi furono insigniti della Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria. Nel 1955 l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane assegnò loro una medaglia d’oro al merito. Nel 1978 Yad Vashem riconobbe Torquato Fraccon come Giusto tra le Nazioni.
• Il significato del viaggio Durante la conferenza stampa, la presidente del Consiglio comunale di Venezia, Ermelinda Damiano, ha sottolineato il valore civile del progetto: «Questo viaggio ha unito due città e sarà la testimonianza concreta dell’impegno di tutti noi per tenere viva la memoria. È un’esperienza che parla di una famiglia che ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. I Fraccon hanno aiutato perseguitati, salvato vite, agito in nome della giustizia. E oggi tutto questo viene riportato all’attenzione dei giovani, proprio qui, in una scuola, luogo di educazione e responsabilità».
Domenica scorsa l’inviato Rai Giovan Battista Brunori, da due anni corrispondente dal
Medio Oriente, ha firmato un reportage che ha fatto deflagrare un vaso di Pandora mediatico e politico. Le immagini trasmesse sono inequivocabili: tonnellate di aiuti umanitari destinate alla popolazione palestinese, stipate da giorni al valico di Karem Shalom, lasciate a marcire sotto un sole implacabile. Secondo quanto documentato, i camion carichi di generi alimentari avevano già superato la frontiera israeliana.
• Le accuse dopo il servizio di Brunori
Lo Stato ebraico, infatti, aveva rimosso le restrizioni e consentito il passaggio degli aiuti, eliminando ogni pretesto di ostacolo da parte propria. Eppure, dall’altro lato del confine, il nulla: nessuna organizzazione internazionale, a partire dalle Nazioni Unite, si è presentata a ritirare quei beni fondamentali. Una distanza di pochi chilometri ha separato cibo e acqua dalla popolazione palestinese affamata, senza che nessuno intervenisse. All’interno dell’enclave, Brunori raccoglie le parole di un portavoce dell’esercito israeliano che, davanti alle telecamere, pone la domanda più semplice quanto scomoda: «Perché le Nazioni Unite non distribuiscono questo cibo?». Quello che dovrebbe essere il cuore della notizia è stato rapidamente messo in ombra dalle reazioni politiche e istituzionali. Il consigliere di amministrazione della Rai, Roberto Natale, ha accusato il servizio di «fare da megafono alla propaganda israeliana». Ancora più grave l’uscita del Movimento 5 Stelle, che ha parlato di «complicità con un criminale di guerra».
• Contraddittorio bandito Questo episodio, oltre a denunciare una gestione scandalosa degli aiuti umanitari, mette a nudo una verità più scomoda: il nostro sistema mediatico è ostaggio di una narrazione polarizzata, dove il contraddittorio non solo è bandito, ma viene criminalizzato. Il
reportage di Brunori ha mostrato fatti che avrebbero dovuto indignare e spingere all’azione. Invece ha acceso un fuoco incrociato di accuse e processi mediatici, dove lo spazio per una voce fuori dal coro è stato messo sotto attacco. Difendere la libertà di chi racconta significa difendere la possibilità di un giornalismo libero, che non si piega alle pressioni né alle narrazioni di comodo. Perché senza voci indipendenti, la verità resta ostaggio del potere.
Meghnagi: “L’antisemitismo cresce dappertutto, anche a Milano. Ma dobbiamo continuare a essere fieri di quello che siamo e non dobbiamo avere paura”
di Ilaria Myr
«La Comunità ebraica di Milano si è subito costituita parte civile contro i delinquenti che hanno aggredito il padre francese ebreo e il figlio di sei anni all’Autogrill Villoresi il 27 di luglio e siamo molto soddisfatti della velocità con cui stanno procedendo le indagini. Poche ore fa abbiamo infatti saputo che sono state individuate quattro delle persone che hanno assalito anche fisicamente l’uomo, mentre il bambino terrorizzato piangeva sotto shock. Tutto ciò è imperdonabile e mi auguro che la giustizia non perdoni».
Parla con molta determinazione Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano, dopo l’episodio scioccante che ha visto un uomo ebreo francese assalito da sedicenti sostenitori della causa palestinese semplicemente perché fisicamente riconoscibile in quanto ebreo. Un fatto che purtroppo si aggiunge ai moltissimi, sempre più frequenti, che vedono ebrei aggrediti in Europa, e non solo, in nome della difesa dei diritti palestinesi. Qualche giorno prima dei fatti all’Autogrill, per esempio, 50 adolescenti ebrei francesi erano stati fatti scendere molto brutalmente da un aereo Vueling perché, a detta del capitano “mettevano a rischio la sicurezza”, mentre più testimoni hanno confermato che stavano solo cantando in ebraico. Per non parlare dei continui episodi, che riportiamo anche su questo sito, di attacchi a israeliani in vacanza solo perché israeliani.
Che si sia israeliani o ebrei si è sempre bersagli legittimi per chi fomenta l’odio e usa la violenza – ben diverso da sostenere una causa – in nome della questione palestinese: a dimostrazione che l’antisionismo è la nuova faccia dell’odio antiebraico.
Purtroppo negli ultimi mesi anche a Milano è un susseguirsi di episodi e fatti contro Israele e gli ebrei. Dopo il cartello apparso su una merceria in centro che diceva “Israeliani sionisti non sono i benvenuti” e i manifesti apparsi a fine giugno nel quartiere ebraico su cui era scritto “Israeli not welcome”, questa settimana ne sono apparsi altri firmati da Azione Territorio Metropolitano per la Palestina in cui si denuncia il “genocidio” a Gaza, che però utilizzano senza alcun permesso e connessione il logo dell’azienda di trasporti milanesi ATM, che ha subito proceduto a rimuoverli.
«Oggi sono apparsi degli adesivi in via Raffaello Sanzio e ieri in via Buonarroti con su scritto “ieri vittime oggi carnefici” – continua Meghnagi -. Ma sappiamo che questi, come i manifesti di giugno, sono messi dai giovani dei centri sociali, che si preparano e pianificano queste azioni. Per questo devo ripetere la mia condanna a quella sinistra che, con distinguo e dichiarazioni, sta favorendo l’odio contro gli ebrei».
Per questo motivo proprio di recente sono venuti in visita alla Comunità ebraica di Milano alcuni consiglieri del Comune di Milano per portare la propria solidarietà e prendere impegni per azioni efficaci conto l’antisemitismo.
Meghnagi però non risparmia anche quei media che invitano ospiti a dire falsità su Israele senza un contraddittorio preparato, come martedì 29 luglio Francesca Albanese che su La 7 ha dichiarato che i soldati israeliani sparano alle teste e ai testicoli dei bambini palestinesi per rendersene conto. Oppure gli attacchi che sta subendo il giornalista Rai Giovan Battista Brunori che di recente ha fatto un servizio al valico di Kerem Shalom, testimoniando che tonnellate di aiuti umanitari sono fermi al sole senza che nessuno li ritiri: per questo reportage il consiglio di amministrazione della Rai Roberto Natale ha accusato il servizio pubblico di fare da “megafono alla propaganda israeliana” e il Movimento 5 Stelle ha parlato di “complicità con un criminale di guerra”.
Nonostante questo clima sempre più incandescente e difficile, il presidente della Comunità ebraica milanese invita i suoi iscritti a non avere paura. «Dobbiamo continuare a condurre la nostra vita, certo con attenzione, ma senza avere timore né tantomeno vergognarci, ma anzi essendo fieri di quello che siamo – dichiara convinto -. Abbiamo la protezione continua e costante delle forze dell’ordine e dei migliori aiuti legali. Chiederemo sicuramente di assisterci ancora di più e di applicare con più durezza leggi contro l’antisemitismo».
(Bet Magazine Mosaico, 31 luglio 2025)
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha recentemente avvertito un importante donatore ebreo che la sua base MAGA sta iniziando a rivoltarsi contro Israele. Lo riporta il Financial Times.
“La mia gente sta iniziando a odiare Israele”, avrebbe detto Trump al donatore anonimo, citando un esperto di Medio Oriente, anch’egli anonimo, con contatti all’interno dell’amministrazione Trump.
Il rapporto descrive il donatore come “di spicco”.
“Ci sono persone alla Casa Bianca che stanno osservando lo sviluppo di questa narrativa nell’ala destra, nel mondo MAGA, che è molto anti-israeliana, molto anti-ebraica”, avrebbe detto l’esperto.
I commenti arrivano mentre Israele è oggetto di crescenti critiche, anche da parte di Trump e di altri repubblicani, a causa delle immagini di fame che emergono da Gaza.
Lunedì, la deputata di estrema destra Marjorie Taylor Greene della Georgia, una fedele sostenitrice di MAGA che ha diffuso teorie cospirative antisemite e chiede regolarmente la fine degli aiuti esteri, ha definito ciò che sta accadendo a Gaza “genocidio”.
“È la cosa più vera e più facile da dire che il 7 ottobre in Israele è stato orribile e che tutti gli ostaggi devono essere restituiti, ma lo stesso vale per il genocidio, la crisi umanitaria e la fame che stanno avvenendo a Gaza”, ha scritto su X.
Martedì, l’ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee ha negato l’esistenza di una frattura tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu, definendola una “falsa” narrazione dei media.
“La disconnessione è con i media [che] vogliono che ci sia un messaggio anti-Israele che continuano a trasmettere; ma è un messaggio falso”, ha detto Huckabee.
(Rights Reporter, 31 luglio 2025) ____________________
Notizie di questo tipo stanno arrivando da tempo anche da altre fonti. Qualcuno ha davvero pensato che Israele potesse contare fino in fondo sugli Stati Uniti?
L’ex ostaggio Emily Damari contro Starmer per l’annuncio sul riconoscimento della Palestina
di Samuel Capelluto
La Gran Bretagna ha ufficialmente annunciato che, se la situazione a Gaza non cambierà, procederà con il riconoscimento di uno Stato palestinese entro settembre. A poche ore dall’annuncio, anche altri dieci Paesi hanno espresso l’intenzione di seguire la stessa strada: Malta (che formalizzerà a settembre), Andorra, Islanda, Nuova Zelanda, San Marino, Australia, Canada, Finlandia, Lussemburgo e Portogallo. Si tratta di un fronte occidentale sempre più compatto, che risponde all’appello dell’ONU e dell’Unione Europea per una soluzione “a due Stati”.
Ma proprio da Londra arriva una delle reazioni più nette. Emily Damari, cittadina britannico-israeliana che è stata ostaggio di Hamas per 471 giorni, ha attaccato il premier britannico Keir Starmer in un post virale su X:
“Questa decisione non promuove la pace — premia il terrorismo. Invia un messaggio pericoloso: che la violenza merita legittimità. Dare riconoscimento a uno Stato mentre Hamas controlla ancora Gaza significa rafforzare gli estremisti e distruggere ogni speranza di pace autentica. Vergognatevi”.
Emily Damari
Emily Damari
è diventata uno dei volti simbolo degli ostaggi israeliani. La sua lunga prigionia, durata quasi un anno e mezzo nelle mani di Hamas, l’ha trasformata in una voce ascoltata nell’opinione pubblica anglosassone. Con doppia cittadinanza e un’esperienza diretta dell’orrore, Damari rappresenta oggi quel ponte morale, tra Israele e l’Occidente, che rifiuta di cedere al cinismo diplomatico.
Nel suo messaggio, Damari ha sottolineato come il riconoscimento dello Stato palestinese — in un momento in cui Hamas continua a detenere ostaggi e a bombardare Israele — non sia un atto di pace, ma un incoraggiamento al terrorismo. La sua denuncia si fa portavoce di un sentimento diffuso in Israele: l’Europa, secondo molti, non riesce più a distinguere tra vittima e carnefice.
In un mondo in cui le capitali occidentali sembrano affrettarsi a offrire legittimità a una leadership palestinese divisa, corrotta e violenta, la voce di Emily Damari risuona come un monito: senza verità e giustizia, non ci sarà mai pace.
Olanda, Europa e Israele: la frattura morale si allarga
di Samuel Capelluto
Di fronte al rifiuto dell’Olanda di consentire l’ingresso ai ministri israeliani Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, si apre una nuova crepa nelle relazioni tra Israele e parte dell’Europa. Ma dietro l’episodio diplomatico, c’è molto di più: una divergenza di valori, una crisi di visione, una domanda scomoda che l’Europa preferisce ignorare.
Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha convocato per un richiamo ufficiale l’ambasciatrice olandese a Gerusalemme. Secondo Sa’ar, “la pressione internazionale su Israele ha già portato Hamas a irrigidire le sue posizioni nei negoziati, danneggiando le possibilità di raggiungere un accordo”. In un momento in cui i terroristi trattengono ancora ostaggi israeliani, Israele si trova accusata proprio da chi dovrebbe sostenerla. “Il mondo dovrebbe esercitare pressione su Hamas, non su Israele”, ha detto il ministro. “Stiamo lavorando duramente per far entrare aiuti umanitari, in condizioni complesse. Parlare di ‘politica della fame’ è una menzogna pericolosa”.
Ben Gvir ha commentato con fermezza la decisione olandese, affermando che continuerà a difendere la sicurezza dei cittadini israeliani, indipendentemente dalle restrizioni politiche esterne. Secondo il ministro, chi chiede a Israele di fare concessioni a Hamas non può essere considerato un vero alleato.
Anche Smotrich ha espresso disappunto per la scelta del governo olandese, sottolineando che la priorità rimane la sicurezza del popolo ebraico. A suo avviso, l’Europa sta smarrendo la capacità di garantire la protezione delle proprie comunità ebraiche, mentre chiede a Israele di abbassare la guardia.
Nel frattempo, in alcune capitali europee si firma una lettera congiunta che condanna Israele, senza una parola di condanna per Hamas. Una lettera che, secondo Sa’ar, “è stata già rimpianta da più di un ministro europeo degli Esteri”, perché ha solo rafforzato Hamas e reso più difficile il raggiungimento di una tregua.
Israele chiede verità. E mentre continua a lanciare aiuti umanitari sopra Gaza, mentre permette a centinaia di pazienti palestinesi di ricevere cure fuori dalla Striscia, mentre combatte un nemico che usa i bambini come scudi umani, Israele viene giudicata da chi non sa più distinguere tra vittima e carnefice.
L’Europa dovrebbe chiedersi: quale valore difendiamo quando premiamo chi realmente incita al genocidio (del popolo ebraico) e condanniamo chi si difende?
Israele non cerca approvazione. Cerca giustizia. E continua a combattere — con le armi, con gli aiuti umanitari, con la sua stessa esistenza —in un contesto sempre più ostile.
In un mondo che spesso si volta dall’altra parte, il popolo ebraico difende solo il diritto di esistere, di difendersi.
Odio antisemita nelle università, l’appello dell’Unione giovani ebrei contro il boicottaggio accademico
di Luca Spizzichino
Nelle ultime settimane abbiamo assistito, con crescente inquietudine, al moltiplicarsi di mozioni di boicottaggio nei confronti di università israeliane. I casi più recenti sono quelli dell’Università di Pisa, dove il rettore Riccardo Zucchi ha annunciato la fine della collaborazione con la Reichman University e la Hebrew University; dell’Università di Firenze, dove cinque dipartimenti hanno deciso di aderire a quella che è stata definita una forma di “boicottaggio accademico”; e, più recentemente, della Scuola Normale Superiore di Pisa che, pur non avendo in essere accordi con enti di ricerca o istituzioni universitarie israeliane, ha visto il Senato accademico stabilire che l’ateneo “si impegna a valutare con la massima attenzione ogni accordo istituzionale e collaborazione scientifica che possa riguardare lo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari” o che “risultino implicati, direttamente o indirettamente, nelle violenze e nell’occupazione a danno delle popolazioni civili di Gaza e della Cisgiordania”. Queste iniziative, mascherate da attivismo politico, troppo spesso si traducono in pratiche di esclusione identitaria e discriminazione. E quando l’università, lo spazio che per definizione dovrebbe garantire libertà di pensiero, confronto critico e cooperazione internazionale, si trasforma in luogo di divisione e delegittimazione, non possiamo rimanere in silenzio. Per questo, come Unione giovani ebrei d’Italia abbiamo deciso di aderire con convinzione all’appello contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani. Tutto il Consiglio Ugei ha firmato questo appello, e invitiamo chiunque abbia a cuore il valore della libertà accademica e della dignità individuale a fare lo stesso.
In una democrazia, il dissenso è un diritto sacrosanto. Ma esiste una linea sottile, che in troppi contesti è stata ormai oltrepassata, tra critica legittima e discriminazione. Quando si arriva a boicottare un’università per la sua appartenenza a un determinato Stato, allora si entra nella pericolosa logica della colpa collettiva. E a pagarne il prezzo non sono solo le istituzioni, ma le persone: studenti, ricercatori e docenti che vengono etichettati, emarginati, esposti alla gogna pubblica. Troppo spesso, se ebrei o israeliani, vengono trattati come bersagli politici, a prescindere dalle loro idee.
Tutto questo lo abbiamo già visto, troppe volte. Lo abbiamo letto nei rapporti sull’antisemitismo, lo abbiamo ascoltato nelle testimonianze di studenti che si sono sentiti esclusi, emarginati, censurati nei loro stessi atenei. E lo abbiamo vissuto in prima persona al Campus Einaudi di Torino, durante un evento dedicato al diritto allo studio e all’antisemitismo, dove siamo stati aggrediti fisicamente e verbalmente. Chiunque abbia a cuore il destino delle nostre università e del nostro Paese deve porsi oggi una domanda essenziale: vogliamo davvero che i luoghi della conoscenza diventino spazi di esclusione ideologica e che la protesta prenda il volto della discriminazione? La risposta deve essere un “no” fermo e responsabile. Il dialogo non si costruisce mettendo a tacere l’altro, ma ascoltando. L’educazione non è militanza selettiva, ma apertura al confronto. E la libertà accademica non è un privilegio, ma un principio irrinunciabile che va difeso con forza.
La pace, anche in Medio Oriente, non si costruisce boicottando le università, ma mettendo in contatto studenti, idee, progetti, culture. E contrastare l’antisemitismo oggi significa anche avere il coraggio di riconoscerlo quando si presenta con nuovi volti e nuove parole. L’università italiana deve dimostrare di essere all’altezza della sua missione civile e costituzionale. Come giovani ebrei italiani, siamo pronti a fare la nostra parte.
“Emmanuel Macron è l'utile idiota di Hamas e del Qatar”, secondo Emmanuel Navon
Durante il suo intervento su i24NEWS, Emmanuel Navon, esperto di relazioni internazionali, ha duramente criticato la decisione della Francia e della Gran Bretagna di riconoscere uno Stato palestinese, definendola “malafede” dettata da pressioni interne. Secondo lui, questi paesi agiscono sotto l'influenza delle loro popolazioni musulmane e dei loro elettori di sinistra, come dimostra il rapporto pubblicato da Le Figaro sui Fratelli Musulmani in Francia.
Il documento raccomandava esplicitamente il riconoscimento di uno Stato palestinese per placare i musulmani e i Fratelli Musulmani, un messaggio che Macron ha seguito e che Starmer ora fa proprio.
Emmanuel Navon sostiene che questo riconoscimento è solo una scusa per calmare le tensioni interne, senza alcun legame con la sicurezza in Medio Oriente. E si chiede: come potrebbe la creazione di un ventiduesimo Stato arabo nel cuore di Israele portare la pace in una regione dilaniata da guerre civili tra sciiti e sunniti, come in Siria, Libia, Libano o Iraq? Questi conflitti non hanno nulla a che vedere con l'assenza di uno Stato palestinese in Giudea-Samaria o a Gaza. Del resto, quando questi territori erano controllati dalla Giordania e dall'Egitto, nessuno sosteneva che un tale Stato avrebbe pacificato la regione. Per Emmanuel Navon, Macron parla in malafede o per totale incomprensione del Vicino Oriente.
Egli solleva una questione cruciale: se Hamas vincesse le elezioni in questo Stato riconosciuto, la Francia lo riconoscerebbe ancora? Nel 2006, durante le uniche elezioni dell'Autorità palestinese, Hamas ha trionfato, uno scenario non teorico. I sondaggi mostrano un sostegno maggioritario a Hamas in Giudea-Samaria, anche per i massacri del 7 ottobre. Mahmoud Abbas evita le elezioni da allora per questo motivo. Navon paragona l'OLP a Hamas: «bianco e nero», tranne che Hamas non nasconde le sue carte. L'OLP, creata nel 1964, mira alla «liberazione» di tutta la Palestina, con Gaza e la Cisgiordania come primo passo, secondo il suo piano del 1974. «Pensare che l'OLP sia più affidabile è un errore», sottolinea.
“Emmanuel Macron è l'utile idiota di Hamas e del Qatar”, secondo Emmanuel Navon
Durante il suo intervento su i24NEWS, Emmanuel Navon, esperto di relazioni internazionali, ha duramente criticato la decisione della Francia e della Gran Bretagna di riconoscere uno Stato palestinese, definendola “malafede” dettata da pressioni interne. Secondo lui, questi paesi agiscono sotto l'influenza delle loro popolazioni musulmane e dei loro elettori di sinistra, come dimostra il rapporto pubblicato da Le Figaro sui Fratelli Musulmani in Francia.
Il documento raccomandava esplicitamente il riconoscimento di uno Stato palestinese per placare i musulmani e i Fratelli Musulmani, un messaggio che Macron ha seguito e che Starmer ora fa proprio.
Emmanuel Navon sostiene che questo riconoscimento è solo una scusa per calmare le tensioni interne, senza alcun legame con la sicurezza in Medio Oriente. E si chiede: come potrebbe la creazione di un ventiduesimo Stato arabo nel cuore di Israele portare la pace in una regione dilaniata da guerre civili tra sciiti e sunniti, come in Siria, Libia, Libano o Iraq? Questi conflitti non hanno nulla a che vedere con l'assenza di uno Stato palestinese in Giudea-Samaria o a Gaza. Del resto, quando questi territori erano controllati dalla Giordania e dall'Egitto, nessuno sosteneva che un tale Stato avrebbe pacificato la regione. Per Emmanuel Navon, Macron parla in malafede o per totale incomprensione del Vicino Oriente.
Egli solleva una questione cruciale: se Hamas vincesse le elezioni in questo Stato riconosciuto, la Francia lo riconoscerebbe ancora? Nel 2006, durante le uniche elezioni dell'Autorità palestinese, Hamas ha trionfato, uno scenario non teorico. I sondaggi mostrano un sostegno maggioritario a Hamas in Giudea-Samaria, anche per i massacri del 7 ottobre. Mahmoud Abbas evita le elezioni da allora per questo motivo. Navon paragona l'OLP a Hamas: «bianco e nero», tranne che Hamas non nasconde le sue carte. L'OLP, creata nel 1964, mira alla «liberazione» di tutta la Palestina, con Gaza e la Cisgiordania come primo passo, secondo il suo piano del 1974. «Pensare che l'OLP sia più affidabile è un errore», sottolinea.
Inoltre, Emmanuel Navon denuncia anche l'ipocrisia delle condanne arabe del 7 ottobre all'ONU, influenzate dalla Francia. Il Qatar, che finanzia Hamas, condanna il proprio protetto: un messaggio di malafede. Questi paesi non condannano l'immoralità degli attacchi, ma le loro conseguenze controproducenti. La Francia e la sua leadership stanno diventando gli “utili idioti” di Hamas e del Qatar, favorendo un'ideologia jihadista che minaccia l'Occidente. Per Emmanuel Navon, questo approccio ingenuo o cinico esacerba le tensioni, senza risolvere le radici del conflitto.
E alla fine cominciarono a molestare gli ebrei. Ma sempre in buona fede
di Filippo Piperno
Ci sono persone che, conclamandosi in buonafede, dicendosi solo degli oppositori di Netanyahu e del suo governo, negando qualsiasi pregiudizio antiebraico, hanno propagandato convintamente la balla del genocidio palestinese.
Una balla, quella del genocidio, costruita ad arte dalla propaganda palestinese da almeno 40 anni e non da oggi. Una balla sublime dal punto di vista semantico perché consente alla cattiva coscienza del mondo di mondarsi dal genocidio degli ebrei e ai più estremisti e arrabbiati di poter dire che in fondo gli ebrei quel genocidio se lo erano anche meritato, “alla luce di quanto sta avvenendo a Gaza”. Insomma, un capolavoro.
Il progetto di criminalizzazione sistematica del governo d’Israele è stato per di più eseguito in modo maldestro e approssimativo (perché vogliamo riconoscere per tesi la loro buona fede), confondendo tra lo Stato d’Israele, i suoi cittadini ed il governo, pretendendo che gli ebrei della diaspora si dissociassero dai “crimini” d’Israele, certificando così l’equazione tra Israele ed ebrei.
Di errori nella narrazione ce ne sarebbero altri ma limitiamoci a questi. Costoro, sempre in buona fede, hanno irriso e insolentito quanti paventavano la pericolosità di certe argomentazioni ed il clima che contribuivano a creare.
Si sono fatti beffe di chi lamentava la rinascita di un “pericolo antisemita”. Hanno bellamente ignorato che la loro campagna in buona fede potesse essere strumentalizzata da chi in buona fede non era e da quanti non possedevano la sottigliezza del loro argomentare.
Oggi, negli autogrill, all’entrata di qualche esercizio commerciale, per la strada si cominciano a raccogliere i frutti di questa maldestra campagna di criminalizzazione del governo d’Israele con annessi gli ebrei di ogni età, credo e nazionalità. Sempre auspicando che non sia solo l’inizio di qualcosa di peggiore e irreparabile.
Oggi, dunque, fa un po’ effetto leggere i messaggi di condanna per l’aggressione di un padre e di un figlio di sei anni colpevoli di essere ebrei da parte di chi ha, in buona fede, contribuito a costruire questo clima attraverso un approssimativo progetto di criminalizzazione del governo d’Israele che ha finito, ma in buona fede, per coinvolgere tutti gli israeliani e tutti gli ebrei.
(InOltre, 30 luglio 2025) ____________________
Probabilmente l’autore non crede alla buona fede delle persone che indica, ma dice di volerla assumere “per tesi”. È difficile condividere questa indulgenza, almeno nella maggioranza dei casi, perché l’odio autentico non è troppo difficile da riconoscere, soprattutto da chi lo subisce o da chi è profondamente onesto. E avvertire l’esalazione di questo odio che viene dal profondo, molto profondo, unito a tenere frasi di commozione per i poveri bambini palestinesi è un disgusto davvero difficile da sopportare. M.C.
Gaza: saccheggiati più della metà dei camion di aiuti egiziani
Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano britannico Al-Araby Al-Jadeed, di proprietà del Qatar, più della metà dei camion con aiuti umanitari egiziani entrati domenica nella Striscia di Gaza sono stati saccheggiati da ignoti e il loro contenuto è stato successivamente venduto nei mercati locali.
Dei 130 camion, 73 sono stati saccheggiati nei pressi dell’asse Morag, che separa Rafah da Khan Younis ed è controllato dall’IDF, secondo quanto riportato dall’articolo.
Secondo il rapporto, solo 37 camion sono arrivati ai magazzini della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese e del gruppo di aiuto del Comitato Egiziano.
Domenica è stata la prima volta che l’Egitto ha inviato aiuti a Gaza attraverso il valico di Rafah da quando Israele ne ha assunto il controllo nel maggio 2024. Era il primo giorno della nuova politica di aiuti di Israele, che prevede “pause umanitarie” di 10 ore nei combattimenti per consentire l’ingresso di ulteriori aiuti. La politica è stata adottata a seguito delle crescenti pressioni internazionali sulla crisi alimentare a Gaza.
In un’intervista rilasciata all’inizio di questa settimana al Times of Israel, l’ex inviato umanitario statunitense David Satterfield ha affermato che, a differenza degli aiuti delle Nazioni Unite, che sono in gran parte contabilizzati, gli aiuti delle società della Mezzaluna Rossa sono più esposti al furto da parte di Hamas e delle bande criminali.
“La catena di custodia, dall’ispezione da parte di Israele ai siti di distribuzione, mantenuta e documentata dall’ONU e dalle principali organizzazioni internazionali, è stata e continua ad essere gestita con attenzione, poiché queste organizzazioni sono tutte responsabili nei confronti degli Stati che le finanziano, compresi gli Stati Uniti”, ha affermato Satterfield.
“Sebbene i saccheggi e l’autodistribuzione compromettano questa responsabilità, la maggior parte degli aiuti entrati a Gaza grazie a questi attori è stata contabilizzata”, ha continuato. “L’assistenza della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese, al contrario, non ha alcuna responsabilità internazionale”.
Gaza, quando la menzogna è virale e la verità silenziosa
di Samuel Capelluto
Da mesi l’opinione pubblica internazionale è inondata da immagini drammatiche di bambini emaciati, madri disperate e scene di caos attorno ai centri di distribuzione degli aiuti nella Striscia di Gaza. Il messaggio è sempre lo stesso: Israele affama i palestinesi. Ma è davvero così? O siamo di fronte all’ennesima campagna di disinformazione orchestrata da Hamas e rilanciata da media e organismi internazionali compiacenti?
A smentire con forza questa narrazione è il reverendo Dr. Johnnie Moore, presidente della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), una ONG americana che da mesi distribuisce cibo direttamente alla popolazione di Gaza. “Non c’è alcuna indicazione che l’IDF violi il diritto internazionale o i suoi obblighi”, afferma Moore, sottolineando che le accuse di stragi nei pressi dei centri di aiuto della fondazione sono “propaganda di Hamas, ripulita e rilanciata da voci amiche nei media e nelle organizzazioni internazionali”.
Moore rivendica che negli ultimi due mesi la GHF ha distribuito 100 milioni di pasti a circa 800.000 gazawi, senza che un solo camion sia stato rubato o che un singolo pasto sia finito nelle mani sbagliate. “Il nostro sistema è stato progettato per evitare che Hamas si impossessi degli aiuti. A differenza dell’ONU, i nostri lavoratori locali sanno a chi stanno consegnando il cibo. Non lo diamo ai membri di Hamas”, afferma.
Secondo Moore, proprio l’efficacia del modello GHF ha scatenato la reazione ostile dell’ONU, che — accusa — ha ostacolato l’espansione delle operazioni per motivi politici. “Hanno preferito boicottarci e sabotarci, invece di collaborare per salvare vite. È una vergogna. Ci sono 950 camion fermi a Gaza che l’ONU si rifiuta di distribuire, mentre continua a parlare di crisi umanitaria”, denuncia Moore.
Nel frattempo, anche Israele ha moltiplicato gli sforzi per facilitare l’ingresso degli aiuti. Lo stesso primo ministro Netanyahu ha dichiarato: “Israele continuerà a collaborare con le agenzie internazionali, così come con gli Stati Uniti e i paesi europei, per garantire un ampio flusso di aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza”.
Il portavoce dell’IDF ha poi aggiunto in una dichiarazione ufficiale dal sud di Israele: “Continuiamo a guidare l’ingresso di aiuti umanitari mentre combattiamo. Non c’è affamamento nella Striscia di Gaza. Operiamo secondo il diritto internazionale, monitoriamo quotidianamente lo stato nutrizionale della popolazione e agiamo di conseguenza. Le immagini scioccanti diffuse negli ultimi giorni fanno parte di una campagna di menzogne. Gaza resta l’arena principale della guerra. Lì sono ancora trattenuti 50 ostaggi, vivi o caduti. Continueremo a combattere finché non avremo raggiunto tutti gli obiettivi della guerra.”
E infatti, non è Israele a ostacolare gli aiuti. È Hamas. Il gruppo terroristico saccheggia i convogli, li rivende o li usa per reclutare combattenti. Usa la fame come arma. Usa i civili come scudi. E quando la comunità internazionale chiude gli occhi, diventa complice.
Israele non combatte il popolo palestinese. Combatte chi lo opprime. In mezzo a una delle guerre più difficili della sua storia, continua ogni giorno a distinguersi: non solo sul campo di battaglia, ma anche nei valori. Mentre Hamas trasforma il dolore in propaganda, Israele continua a salvare vite.
Mentre altri moltiplicano le falsità, Israele sceglie la via della trasparenza e del diritto.
La forza di Israele non è solo nei mezzi militari. È nel non perdere mai la propria coscienza, anche quando tutto intorno brucia. Chi cerca davvero giustizia, dovrebbe partire da qui.
La forza di Israele non è solo nei mezzi militari. È nel non perdere mai la propria coscienza, anche quando tutto intorno brucia. Chi cerca davvero giustizia, dovrebbe partire da qui.
L’antisemitismo è in crescita. Si moltiplicano gli episodi, si sovrappongono. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Qui in Italia, tutto sommato ce la caviamo ancora bene, tutto sommato. Qualche bel cartello contro Israele e gli israeliani, mica ce l’abbiamo con gli ebrei, affisso in un ristorante partenopeo o in una merceria milanese, e poi si alza il tiro e si aggredisce insultandolo un turista ebreo francese in un autogrill alle porte di Milano. Non come a Washington dove si ammazzano gli ebrei o a Boulder in Colorado dove si ustionano, qui siamo brava gente. Fino a quando vedremo, però ancora bene, e poi lo sappiamo, ce lo hanno detto il direttore de Il Fatto Quotidiano, l’irridente Marco Travaglio e Vincenzo De Luca, la macchietta stentorea che guida la regione Campania, l’antisemitismo è colpa di Netanyahu.
Oggi, sul Riformista, in un editoriale magistrale, Claudio Velardi scrive, “Ora, chi mette in atto comportamenti del genere pensa davvero di star combattendo Netanyahu? A meno che non li si ritenga tutti degli strateghi raffinati, è evidente che chi compie questi atti non sta colpendo uno Stato. Sta colpendo una identità. Non si sta opponendo a una politica, ma a un popolo. Sta dicendo, ‘Tu sei ebreo, dunque sei colpevole. Dunque sei il nemico’”.
È il “nuovo” antisemitismo à la page, come sottolinea Fiamma Nirenstein su Il Giornale, “Ormai vi siete abituati all’antisemitismo, lo declinate più o meno elegantemente a seconda dello strato sociale, una volta all’ONU, una volta all’autogrill”.
Ma non dobbiamo abituarci e non possiamo abituarci. È già successo, tempo fa, quando nell’assuefazione e nell’indifferenza, si precipitava dentro il baratro.
Ormai la bandiera palestinese è diventata un gadget non più da centro sociale occupato ma glamour, ogni occasione è buona per esporla e poi è un tonico, fa stare bene chi la espone, attori, attrici, musicanti, tutti dalla parte “giusta” della storia, anche se no, non si aggrediscono gli ebrei negli autogril, tuttavia dovrebbero andare a Gerusalemme a chiedere ragione…
Sono uno studioso di guerra, non c'è alcun genocidio a Gaza
Le azioni militari di Israele sono dirette contro i terroristi. La morte di civili è tragica, ma nella Striscia di Gaza fa parte della strategia di Hamas.
(JNS) Nella sua rubrica sul New York Times intitolata “Sono uno studioso di genocidio. Riconosco il genocidio quando lo vedo”, Omer Bartov ha accusato Israele di commettere genocidio a Gaza. In qualità di professore di studi sul genocidio alla Brown University, dovrebbe saperlo meglio. Il genocidio non si definisce con qualche commento estrapolato dal contesto, con stime delle vittime o delle distruzioni o con l'immagine della guerra riportata dai titoli dei giornali o dai social media. Si definisce con l'intenzione concreta di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Si tratta di un ostacolo giuridico molto difficile da superare. Bartov non ci ha nemmeno provato.
Non sono un giurista né un attivista politico. Sono un esperto di guerra. Ho guidato soldati in combattimento. Ho addestrato per decenni unità militari alla guerra urbana e mi sono occupato per anni di storia militare, strategia e diritto bellico. Dopo gli attacchi terroristici guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023, sono stato quattro volte a Gaza, dove ho accompagnato le forze armate israeliane. Ho intervistato il primo ministro israeliano, il ministro della Difesa, il capo di Stato Maggiore delle forze armate israeliane, i vertici del Comando Sud e decine di comandanti e soldati al fronte. Ho verificato i loro ordini, osservato il loro processo di attacco e visto come i soldati hanno corso rischi reali per non ferire i civili. Nulla di ciò che ho visto o esaminato assomiglia a un genocidio o a un intento di questo tipo.
Bartov sostiene che cinque dichiarazioni di politici israeliani dimostrano un intento genocida. Inizia con la dichiarazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu del 7 ottobre, secondo cui Hamas e i terroristi palestinesi avrebbero pagato «un prezzo alto» per il massacro di 1.200 persone e il rapimento di altre 251. Questo non è un appello al genocidio. Lo direbbe qualsiasi capo di Stato dopo il peggior attacco terroristico nella storia del proprio Paese.
Cita anche le dichiarazioni di Netanyahu secondo cui Hamas sarebbe stata distrutta e i civili avrebbero dovuto lasciare le zone di combattimento. Questo non è una prova del desiderio di sterminare un popolo. È ciò che fanno i soldati professionisti quando combattono contro un nemico che si nasconde tra i civili.
Bartov presenta il riferimento di Netanyahu a “Ricordatevi di Amalek” come una prova inequivocabile. Ma questa è un'espressione della storia e della tradizione ebraica. È incisa nel memoriale dell'Olocausto di Israele – Yad Vashem: The World Holocaust Remembrance Center a Gerusalemme – e appare anche sul memoriale dell'Olocausto all'Aia. In entrambi i luoghi serve come monito a rimanere vigili di fronte alle minacce e non come invito al genocidio.
Il professore sottolinea anche che l'ex ministro della Difesa israeliano Yoav Galant ha usato il termine “animali umani” per descrivere i combattenti di Hamas. Questo non è un crimine di guerra. Dopo il massacro, gli stupri e le atrocità commesse contro i civili il 7 ottobre, molti capirebbero o addirittura condividerebbero questa reazione.
Non riuscendo a vedere alcuna intenzione in coloro che guidano effettivamente la guerra, Bartov si rivolge a politici di estrema destra come Bezalel Smotrich e Nissim Vaturi. Queste persone non comandano truppe, non danno ordini e non prendono decisioni sul campo di battaglia. Ho studiato gli ordini effettivi. Si concentrano sullo smantellamento dell'organizzazione terroristica Hamas, sul salvataggio degli ostaggi rimasti e sulla protezione della popolazione civile di Gaza, ove possibile. La loro retorica è irrilevante per il caso giuridico.
Israele ha adottato misure eccezionali per limitare i danni alla popolazione civile. Avverte degli attacchi tramite SMS, telefonate, volantini e annunci radiofonici. Apre corridoi sicuri e interrompe le operazioni per consentire ai civili di lasciare le zone di combattimento. Monitora la presenza di civili fino al livello dei singoli edifici. Ho visto operazioni ritardate o annullate perché c'erano bambini nelle vicinanze. Ho visto soldati israeliani sotto il fuoco nemico ricevere l'ordine di non rispondere perché avrebbero potuto ferire dei civili.
Israele ha fornito più aiuti umanitari a Gaza di quanto qualsiasi esercito nella storia abbia mai fornito a una popolazione nemica in tempo di guerra. Più di 94.000 camion con oltre 1,8 milioni di tonnellate di aiuti umanitari sono entrati nel territorio. Israele ha fornito assistenza agli ospedali, riparato le condutture dell'acqua, migliorato l'accesso all'acqua potabile e permesso a oltre 36.000 pazienti di lasciare Gaza per ricevere cure all'estero.
Le forze armate israeliane hanno coordinato milioni di dosi di vaccini, fornito carburante agli ospedali e alle infrastrutture e facilitato il flusso di cibo e medicinali attraverso le Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie e i partner privati. La sola Gaza Humanitarian Foundation, un'organizzazione statunitense-israeliana, ha fornito più di 82 milioni di pasti – da 1 a 2 milioni al giorno – indebolendo al contempo il controllo di Hamas sugli aiuti umanitari. Questo non è genocidio. È una politica umanitaria responsabile e storica in tempo di guerra.
Bartov cita senza discutere il bilancio delle vittime fornito dalle autorità sanitarie di Hamas. Egli afferma che sono state uccise 58.000 persone, tra cui 17.000 bambini. Tuttavia, queste cifre provengono da un'organizzazione terroristica. Esse confondono civili e combattenti e considerano bambini tutti i minori di 18 anni, nonostante Hamas utilizzi adolescenti e bambini più piccoli come combattenti. Le cifre non sono state verificate in modo indipendente e contengono informazioni palesemente false, tra cui nomi, età e sesso. Le vittime civili sono tragiche, ma a Gaza fanno anche parte della strategia di Hamas.
Nessuna operazione militare viene giudicata solo in base al numero di vittime o alle distruzioni. Se applicassimo la logica di Bartov, ogni guerra di grande portata dovrebbe essere definita genocidio. Nella guerra di Corea sono morti in totale 2 milioni di civili, una media di 54.000 al mese. Nelle guerre in Iraq e Afghanistan sono state uccise centinaia di migliaia di persone. La lotta contro l'ISIS ha raso al suolo diverse città e ucciso decine di migliaia di persone. Nessuna di queste guerre è stata considerata un genocidio. La guerra viene valutata in base alle azioni dei comandanti, agli obiettivi fissati dai leader e al rispetto delle leggi di guerra da parte dei militari, non in base a statistiche estrapolate dal contesto.
La guerra è un inferno. È disumana, distruttiva e orribile. Ma non è automaticamente un crimine. Le nazioni non possono attaccare i civili. Devono rispettare le regole della distinzione e della proporzionalità e prendere tutte le precauzioni possibili per evitare vittime civili. Israele lo fa. L'ho visto con i miei occhi.
A Rafah, quest'estate, Israele ha preparato le evacuazioni per settimane. Ha istituito nuove zone di sicurezza e ha aspettato che i civili fossero evacuati prima di attaccare gli obiettivi di Hamas. Durante questa operazione è stato ucciso il comandante in capo di Hamas, sono stati liberati ostaggi e il numero di vittime civili è stato ridotto al minimo. Questo è stato un chiaro esempio dell'intenzione e delle misure straordinarie di Israele per proteggere la popolazione civile, mentre solo Hamas veniva attaccato – una parte della storia che viene ignorata da coloro che riducono la guerra a titoli di giornale e numeri.
Quello che sta accadendo a Gaza è tragico. Ma non è un genocidio. E non è illegale.
Il genocidio richiede un intento chiaro e dimostrabile di distruggere un popolo attraverso azioni prolungate e deliberate. Questo onere della prova non è stato soddisfatto. Bartov e altri non ci hanno nemmeno provato.
Allo stesso modo, le leggi della guerra non vietano la guerra in sé. Le leggi della guerra richiedono che nelle operazioni militari si distingua tra combattenti e civili, che la forza sia proporzionata all'obiettivo e che i comandanti prendano tutte le precauzioni possibili per proteggere la vita dei civili. Ho osservato che le forze armate israeliane stanno facendo proprio questo. Ho visto moderazione, aiuti umanitari e il rispetto consapevole delle norme giuridiche, spesso con perdite tattiche.
Questa non è una campagna di sterminio. È una guerra contro Hamas, un esercito terroristico che si è deliberatamente trincerato in zone civili.
Il diritto è importante. La precisione è importante. E soprattutto, la verità è importante.
(Israel Heute, 29 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
“È uno schiaffo in faccia alle vittime del 7 ottobre”: Israele risponde alla decisione di Macron di riconoscere lo Stato palestinese
di Pietro Baragiola
Il presidente francese Emmanuel Macron ha pubblicato un post sulla piattaforma X (giovedì 24 luglio) annunciando che Parigi intende riconoscere la legittimità dello Stato palestinese alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite prevista per settembre, fatto che ha attirato le critiche di numerosi ministri israeliani.
“Una mossa del genere premia il terrorismo e rischia di creare un altro proxy iraniano, proprio come è successo con Gaza” ha affermato il primo ministro Benjamin Netanyahu. “Uno Stato palestinese in queste condizioni sarebbe un trampolino di lancio per annientare Israele, non per vivere in pace al suo fianco.”
Se non si discosta da questa decisione la Francia, che al momento ospita la più grande comunità ebraica d’Europa, diventerà il più importante paese occidentale a riconoscere lo Stato palestinese. Ad appoggiarla ci sono già 140 nazioni come la Spagna, la Norvegia e l’Irlanda, mentre la maggior parte dei ministri occidentali, tra cui il premier italiano Giorgia Meloni, continuano ad opporsi, affermando la necessità di una soluzione negoziata a due Stati e definendo ‘controproducente’ il riconoscimento di uno Stato palestinese prima della sua costituzione.
Il tweet, pubblicato in francese, inglese, arabo ed ebraico è stato affiancato da una lettera rivolta al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas in cui Macron spiega la sua intenzione di convincere altri Paesi europei ad aderire alla sua causa, ma a soli tre giorni dalla notizia le critiche sono state molto numerose e Israele sta già preparando una contromossa.
• Le risposte al tweet di Macron Come ritorsione alla decisione del presidente francese, diversi membri di spicco del governo israeliano hanno chiesto l’annessione della Cisgiordania a Gerusalemme.
“Questa è una degna risposta alla vergognosa decisione di Macron” ha affermato il ministro della Giustizia Yariv Lenin su X, sostenuto dall’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett.
C’è anche chi non ha esitato a commentare con ironia la mossa di Macron, come il ministro della Diaspora Amichai Chikli che ha twittato una gif del presidente francese mentre viene schiaffeggiato dalla moglie o come il ministro per la Protezione ambientale Idit Silman che ha postato una foto generata dall’AI in cui Macron bacia l’ex leader di Hamas Yahya Sinwar sopra la didascalia “bacio alla francese”.
Il leader dell’opposizione Yariv Lapid ha utilizzato il suo profilo social per denunciare questi commenti ‘infantili’, invitando il governo israeliano ad investire il proprio tempo nell’elaborare una strategia a lungo termine per porre fine al conflitto. “Ritengo comunque che la decisione della Francia sia stata un errore morale e diplomaticamente nocivo in quanto i palestinesi non dovrebbero essere ricompensati per il 7 ottobre e per aver sostenuto Hamas” ha aggiunto Lapid.
Persino il segretario di Stato americano Marco Rubio ha concordato con i commenti di Lapid, ritenendo la decisione di Macron ‘avventata’ e ‘utile solo alla propaganda di Hamas per ostacolare la pace’.
“È uno schiaffo in faccia alle vittime del 7 ottobre”, ha scritto Rubio su X, aggiungendo che gli Stati Uniti respingono con forza la decisione del presidente francese.
In molti però ritengono che la mossa della Francia sia puramente simbolica se non verrà accompagnata dalla cooperazione di Israele, in quanto uno Stato palestinese può esistere solo come risultato dei negoziati tra le due parti in conflitto.
Per questo motivo, il ministro degli esteri francese Jean-Noel Barrot ha invitato le principali organizzazioni ebraico-americane a discutere della situazione al nuovo incontro delle Nazioni Unite che si sta tenendo in questi giorni a New York.Invito che, però, è stato rifiutato.
• Il rifiuto delle organizzazioni ebraiche Sono sette le organizzazioni ebraiche statunitensi che hanno rilasciato una dichiarazione ufficiale, rifiutando l’invito di Barrot: la Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations, l’Anti-Defamation League, l’American Jewish Committee, l’American Israel Public Affairs Committee, B’nai B’rith International, UJA- Federation of New York e il World Jewish Congress.
“Siamo delusi dal fatto che le nostre organizzazioni siano state invitate a discutere una politica che sembra già essere stata definita, invece di essere consultate in anticipo in qualità di partner impegnati per una pace sostenibile” afferma la dichiarazione congiunta. “Con questo passo unilaterale, la Francia non solo incoraggia gli estremisti ma mette a rischio la sicurezza degli ebrei in tutto il mondo, allontanando le voci moderate.”
Il rifiuto di queste organizzazioni è dipeso anche dal fatto che Macron solo pochi mesi prima aveva dichiarato che non avrebbe mai preso una decisione del genere prima della resa di Hamas e del rilascio degli ostaggi in suo possesso.
“Le misure unilaterali della Francia non faranno altro che spingere Israele a prendere ulteriori provvedimenti” ha confermato il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar su X. “L’iniziativa francese compromette la possibilità di raggiungere un accordo sugli ostaggi e il cessate il fuoco e ciò non favorirà in alcun modo alla stabilità della regione.”
A fomentare questi sospetti è stata anche la dichiarazione dei portavoce di Hamas che hanno elogiato la mossa di Macron come ‘un passo positivo nella giusta direzione’.
Barrot ha respinto tali commenti, chiarendo che considera l’Autorità palestinese, e non Hamas, come il leader di un futuro Stato palestinese.
“Hamas ha rifiutato la soluzione dei due Stati, dunque, riconoscendo la Palestina, la Francia dimostra che questo movimento terroristico ha torto” ha spiegato il ministro degli esteri francese durante la sua intervista alla Jewish Telegraphic Agency. “Ci schieriamo dalla parte della pace contro la guerra”.
Secondo Barrot, in occasione della riunione delle Nazioni Unite a New York i Paesi Arabi condanneranno per la prima volta Hamas, chiedendone il disarmo e definitivo isolamento, una mossa volta ad attirare un maggior numero di Paesi europei a riconoscere lo Stato palestinese. Durante l’evento sarà anche presentata una proposta postbellica con una soluzione a due Stati che copra la sicurezza, la ricostruzione e il governo in Medio Oriente, compatibile con gli accordi di Abramo negoziati dal presidente americano Trump.
William Daroff, amministratore delegato della Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations, ha affermato che la decisione di respingere l’invito di Barrot può non rappresentare una politica permanente e se in futuro i leader delle comunità ebraiche vedranno che gli obiettivi del governo francese rispecchieranno i loro, allora ci sarà modo di fissare un punto di incontro tra le parti.
L’oscena nuova banalità del male che moltiplica le ragioni di Israele
di Claudio Velardi
Poniamo, per assurdo, che abbiano ragione loro. Che le accuse più folli rivolte a Israele da professionisti dell’indignazione, attivisti da corteo e pacifisti a senso unico, siano tutte vere. Poniamo che Israele abbia pianificato lo sterminio sistematico dei palestinesi. Che l’esercito israeliano spari volontariamente ai bambini, alle madri, ai civili inermi. Che impedisca l’arrivo di acqua e cibo per affamare un intero popolo. Che distrugga ospedali, ambulanze, scuole. Che colpisca deliberatamente i giornalisti per impedire che si racconti la verità. Che abbia come obiettivo finale non la difesa, ma la pulizia etnica di Gaza. Che tutto questo sia parte di un piano sionista, coloniale, razzista, suprematista.
Che Israele sia uno Stato canaglia, un regime di apartheid, una reincarnazione contemporanea del nazismo. Che Netanyahu sia un criminale peggiore di Putin o di Hitler. Tutte cose scritte, dette, urlate nei cortei, affisse sui muri delle università, dei negozi e dei luoghi di lavoro.
Poniamo che i fatti siano questi, abbracciando senza vergogna l’intera impalcatura accusatoria dell’anti-israelismo più radicale. Poi proviamo a chiederci che rapporto c’è tra ogni possibile nefandezza di Israele e il fatto che un bambino ebreo con la kippah non viene fatto entrare in una piscina pubblica in Francia. O che una donna ebrea viene aggredita per strada a Berlino, con l’urlo “assassina”. O che aumentano i ristoranti che rifiutano clienti “sionisti”, ovvero ebrei. Che le sinagoghe vengono vandalizzate, le scuole ebraiche sono presidiate dai militari, nelle università si consiglia agli studenti ebrei di restare a casa per “evitare tensioni”. O che, giusto l’altro ieri, in un autogrill vicino Milano, un uomo e suo figlio con la kippah sono stati aggrediti verbalmente e fisicamente al grido di “Free Palestine” e “assassini”.
Ora, chi mette in atto comportamenti del genere pensa davvero di star combattendo Netanyahu? A meno che non li si ritenga tutti degli strateghi raffinati, è evidente che chi compie questi atti non sta colpendo uno Stato. Sta colpendo un’identità. Non si sta opponendo a una politica, ma a un popolo. A una storia. A una memoria. Sta dicendo: “Tu sei ebreo, dunque sei colpevole. Dunque sei il nemico”. E quindi sta — più o meno consapevolmente — adottando l’antisemitismo come approccio, come attitudine profonda, come una propria intima forma mentis.
• L’antisemitismo pervasivo e tossico
Questo antisemitismo quotidiano, ordinario, apparentemente spontaneo, è molto più pervasivo e tossico di quello ideologico, organizzato, teorizzato. Peggiore dell’odio freddo di chi scrive che Israele non ha diritto a esistere, che la terra va restituita “dal fiume al mare”, che il progetto sionista è criminale in sé. Perché chi grida queste cose — per quanto deliranti — almeno finge di combattere un’idea. Ma chi caccia un padre e un bambino da un bar, chi insulta una donna ebrea in metropolitana, non combatte un’idea: proietta su una persona, su un volto, su un nome, una quota di odio atavico, ancestrale, irrazionale. Gli editorialisti che girano la faccia dall’altra parte e gli untorelli politici che seminano odio, dovrebbero sapere che stanno davvero giocando con il fuoco. Se nel 2025 l’antisemitismo diventa diffuso e fisiologico, manifestandosi nei gesti comuni, nei linguaggi del quotidiano, nei riflessi della cosiddetta gente normale; se diventa un’abitudine sociale, un automatismo culturale, un odio che non si annuncia ma si pratica, significa che la lezione di Hannah Arendt si fa di nuovo viva, attuale, tremenda, che è la nuova banalità del male che avanza. Chi caccia un bambino con la kippah da un locale non è un criminale ideologico. Non è un fanatico da manuale. Non ha letto Herzl né conosce la storia di Israele.
• L’oscena banalità del male
È l’uomo qualunque, che compie quel gesto senza pensarci troppo, con l’approvazione implicita del contesto. Non si sente colpevole. Crede di stare dalla parte della giustizia, dei diritti, della pace, mentre sta praticando l’antisemitismo senza nemmeno rendersene conto. Mette in scena il Male impersonale, “giusto”, compiuto nel nome del Bene, con la coscienza tranquilla. E proprio per questo più pericoloso. Più infame e autentico. Perché non nasce da un’ideologia. Nasce dal profondo.
Ma se è così, bisogna anche capire che più si demonizza Israele, più si colpiscono gli ebrei nei mercati, nei bar, nei quartieri, più si dà ragione a Israele. Anzi: più si dà ragione alla sua autodifesa più implacabile, intransigente, identitaria, più diffidente verso il mondo. Quella che dice: ci odieranno comunque, anche se fossimo innocenti, anche se fossimo santi. Ci odieranno perché siamo ebrei. E dunque non possiamo che difenderci. Sempre, e con ogni mezzo. L’oscena banalità del male, quindi, non solo legittima ma moltiplica le ragioni di Israele. E anche quelle di Netanyahu. Perché dice, semplicemente: avevamo ragione ad aver paura. E abbiamo ragione a chiuderci, a difenderci, a non fidarci. Abbiamo ragione a costruire uno Stato forte, armato, determinato a sopravvivere. E chi gliela toglie più, quella ragione?
Come un bambino malato è diventato un'arma contro Israele
Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner svela la verità dietro l'immagine del bambino palestinese emaciato: non è prova di carestia, ma parte di una campagna di propaganda globale.
GERUSALEMME - Un'immagine sconvolgente di un bambino palestinese emaciato, che il 23 luglio 2025 ha fatto il giro del mondo come presunta prova di una “carestia a Gaza”, si rivela fuorviante a un esame più attento. La foto è stata scattata dal fotografo Ahmad Jihad Ibrahim al-Arini a Gaza e diffusa dall'agenzia di stampa turca Anadolu. È apparsa per la prima volta sulla prima pagina del quotidiano britannico Daily Express. Nel giro di poche ore, i principali media come CNN, The Guardian, The New York Times e la BBC hanno ripreso la foto, dipingendo un quadro di fame diffusa nella Striscia di Gaza.
Tuttavia, un'approfondita ricerca del giornalista britannico David Collier dimostra che l'immagine non racconta la storia di una carestia, ma quella di un bambino gravemente malato, strumentalizzato da Hamas e dai media occidentali a fini propagandistici.
La foto virale mostra Muhammad Zakariya Ayoub al-Matouq, di circa 18 mesi, che sembra soffrire di grave malnutrizione. Ma altre immagini non pubblicate rivelano che suo fratello di tre anni, Jud, e la madre, Huda Yassin al-Matouq, sono ben nutriti.
Queste immagini, che sono state deliberatamente nascoste, mostrano che solo Muhammad è malato, mentre la sua famiglia è in buona salute. I media hanno volutamente ignorato il fratello sano, tagliandolo fuori o rendendolo irriconoscibile per rafforzare l'immagine di una fame diffusa.
Secondo l'indagine di Collier, Muhammad è nato il 23 dicembre 2023 con gravi malattie genetiche, tra cui paralisi cerebrale (cerebral palsy) e carenza di ossigeno nel sangue (ipossiemia), probabilmente causate da un disturbo genetico recessivo ereditario. Un referto medico dell'organizzazione umanitaria Basma di Gaza, firmato dal dottor Sa'id Muhammad al-Nasan il 20 maggio 2025, lo conferma. Muhammad ha bisogno di integratori alimentari speciali sin dalla nascita. Le sue condizioni non sono il risultato della fame, ma l'espressione di una malattia cronica.
Ciononostante, i media come la BBC hanno omesso questi fatti medici. In un'intervista di 64 secondi con la madre, quest'ultima ha menzionato i gravi problemi di salute del figlio e la sua fisioterapia, ma il giornalista ha omesso tutto ciò e ha presentato le condizioni di Muhammad come conseguenza della fame. Secondo Collier, questa pratica giornalistica solleva gravi interrogativi sull'integrità dei media e sul fatto che essi servano consapevolmente o inconsapevolmente Hamas.
Anche sulla morte del padre di Muhammad, Zakariya Ayoub al-Matouq, circolano versioni distorte. Media come The New York Times hanno riferito che è stato ucciso il 28 ottobre 2024 mentre cercava di procurarsi del cibo. Tuttavia, le ricerche di Collier dimostrano che è stato ucciso nei pressi di al-Kassasib Street a Jabaliya in un attacco mirato dell'IDF, in concomitanza con i combattimenti tra Hamas e l'esercito israeliano in quella zona. Questa settimana sono morti sei soldati israeliani. Hamas stessa ha pubblicato filmati dei combattimenti nella zona. Queste prove rendono dubbia l'affermazione secondo cui il padre sarebbe morto mentre cercava semplicemente del cibo, un altro tassello nella narrativa propagandistica di Hamas.
Collier sottolinea che Hamas abusa sistematicamente della popolazione civile come strumento di propaganda. Il controllo degli aiuti umanitari è una fonte di reddito lucrativa per l'organizzazione terroristica. Per questo motivo cerca di screditare il programma di aiuti congiunto di Stati Uniti e Israele (GHF). Le ripetute affermazioni secondo cui gli attacchi israeliani avrebbero ucciso centinaia di civili nei centri di distribuzione degli aiuti rimangono ancora oggi senza prove, nonostante la fitta sorveglianza e la documentazione nella Striscia di Gaza.
Collier muove invece gravi accuse alle organizzazioni delle Nazioni Unite e alle ONG che operano a Gaza: alcune di esse avrebbero collaborato con Hamas, ad esempio imponendo condizioni eccessive ai trasporti di aiuti, con conseguente deterioramento dei carichi. In singoli casi, l'ONU ha persino chiesto a Hamas di garantire la protezione degli operatori umanitari, una misura che rafforza il controllo dell'organizzazione sui beni di prima necessità. Per Collier, questo è un chiaro segno che queste istituzioni non agiscono in modo neutrale, ma promuovono un'agenda politica che mantiene Hamas al potere.
Il rapporto non solo mette in luce il fallimento di molti media, ma anche la loro bancarotta morale. Per motivi ideologici, ignoranza o paura, si sono trasformati in portavoce di Hamas. Invece di smascherare le informazioni false, media come la BBC o The Guardian sono diventati essi stessi parte della macchina della disinformazione. Una dichiarazione di fallimento giornalistico e morale che alla fine danneggia anche la popolazione di Gaza.
La madre di Muhammad, che cercava solo aiuto per suo figlio, ha detto apertamente la verità a tutti. Ma i giornalisti, che hanno sfruttato le sue condizioni come strumento di propaganda e hanno taciuto sulla sua malattia, non hanno mostrato alcun interesse a fornire sostegno o chiarimenti. Secondo Collier, li interessava solo una domanda: “Come può questa immagine danneggiare Israele?” Giovedì scorso, il quotidiano italiano Il Fatto Quotidiano ha pubblicato in prima pagina l'immagine di un bambino apparentemente affamato con il titolo “È un bambino?”, un chiaro riferimento all'opera di Primo Levi sull'Olocausto “Se questo è un uomo”. Il reportage conteneva un'intervista a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi, che accusava l'Italia di “complicità nella politica di fame di Israele”.
(Israel Heute, 28 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Aggressione verbale a un rabbino con il figlio piccolo in un Autogrill di Milano al grido di “Assassini” e “Free Palestine”
di Anna Balestrieri
In un Autogrill nei pressi di Milano, un rabbino accompagnato dal figlio piccolo è stato oggetto di un’aggressione verbale da parte di un gruppo di persone che hanno urlato contro di loro slogan legati alla causa palestinese, tra cui “Free Palestine” e “Assassini”. L’episodio, riportato da alcuni testimoni sui social, ha assunto toni sempre più violenti, con espressioni come “Tornate a casa vostra” e “Finirete all’inferno”, con un crescendo di toni e violenza verbale rivolte al religioso e al bambino, colpevoli unicamente di una visibile identità ebraica. Un uomo si è avvicinato minacciosamente alla famiglia ricordando “Qui non siamo a Gaza, qui siamo in Italia, siamo a Milano. Assassini”. Il bambino, che avrà avuto circa otto anni, assisteva attonito.
• La reazione all’aggressione Il rabbino ha tentato di rispondere alle offese proteggendo il figlio visibilmente spaventato, ma il clima è rapidamente degenerato. Nel video da lui girato, commenta “voilà l’Italie” e risponde con voce ferma “Am Israel Chai” alle urla scomposte del gruppo minaccioso che li ingiuria.
La vicenda solleva preoccupazioni profonde sul livello crescente di tensione e intolleranza presente anche in luoghi pubblici del nostro Paese. Confondere l’appartenenza ebraica con una presa di posizione politica, o peggio con una colpa collettiva, è un segnale allarmante che ricorda pagine buie della nostra storia. L’antisemitismo, in qualunque forma si manifesti, è inaccettabile. Non è una posizione ideologica, né una “opinione”: è un reato.
È fondamentale che le autorità facciano chiarezza sull’accaduto, identifichino i responsabili ed intervengano con determinazione. Ma è altrettanto essenziale che la società civile – in tutte le sue espressioni – respinga senza ambiguità ogni forma di odio razziale, a maggior ragione quando prende di mira bambini e famiglie inermi.
Nel dibattito pubblico sul Medio Oriente, la libertà di espressione deve restare salda. Ma non può mai diventare un alibi per l’intolleranza o la violenza. La democrazia non può tollerare chi la usa per negare la dignità e la sicurezza altrui.
Andrea Sparaciari, giornalista de La Notizia e collaboratore del mensile FQ Millenium, ha scritto su Twitter una frase che non lascia spazio a interpretazioni:
“Se sanno che i loro genitori possono impunemente uccidere donne e bambini, figurati quanti problemi si fa un branco di ragazzini a mettere a rischio la sicurezza di un volo aereo…”
Il riferimento è al recente episodio del volo Vueling, da cui sono stati fatti sbarcare 50 adolescenti francesi di origine ebraica. Un caso su cui è stata aperta un’inchiesta, ma che qui interessa meno dei presupposti ideologici impliciti nel tweet di Sparaciari. Secondo lui, il comportamento dei ragazzini andrebbe ricondotto al fatto che i loro genitori “uccidono impunemente donne e bambini”. Non che siano responsabili di non educare bene i loro figli: uccidono impunemente donne e bambini. Una frase diretta, che attribuisce responsabilità criminali precise.
Ora, poiché non esistono elementi o accuse individuali a carico dei genitori coinvolti, e dato che Sparaciari non parla di singoli casi ma fa un riferimento generalizzato, bisogna decostruire il ragionamento implicito nel suo tweet. Il sillogismo è chiaro quanto inquietante:
I ragazzi prima di essere francesi sono ebrei.
Quindi i loro genitori non importa che siano francesi sono innazitutto ebrei.
Gli ebrei, in quanto tali, sono colpevoli di uccidere donne e bambini perché ogni ebreo è responsabile di quanto avviene a Gaza.
Non si tratta di una critica a Israele o a una specifica politica militare. Non si parla di ideologia, di complicità o di silenzio, infatti, non abbiamo assolutamente idea neanche delle posizioni politiche di questi genitori che non sono neanche israeliani ma francesi: Sparaciari scrive che i “genitori” uccidono, in prima persona, “impunemente”. La frase si fonda su un’accusa collettiva rivolta a un’intera identità, trasformando la condizione di ebreo in una prova sufficiente di colpevolezza. È questo il nucleo del pensiero antisemita: l’associazione automatica tra ebraicità e crimine, tra nascita e colpa.
Che tale concetto venga espresso pubblicamente da un giornalista è un segnale allarmante. Non solo per il contenuto, ma per l’indifferenza con cui si bypassa ogni distinzione tra individuo e collettivo, tra accusa e identità, tra fatti e pregiudizio. E questo, purtroppo, non è più un lapsus o una provocazione maldestra: è una deriva.
Ma non è tutto: il tweet di Andrea Sparaciari aderisce in modo inquietante ad alcuni dei principi fondamentali della propaganda elaborati da Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich.
Non conosciamo Sparaciari, e non esprimiamo un giudizio né sulle opinioni né sull’individuo. Non è una questione ideologica o personale, ma di parole da lui usate e rese pubbliche su Twitter il 25 luglio.
Vediamo, a rigor di semplice analisi concettuale e semantica, limitatamente al tweet, in che modo rispecchi alcuni elementi centrali dei principi di Goebbels:
Semplificazione estrema: ridurre tutto a un unico nemico
Goebbels insisteva sulla necessità di semplificare la realtà in una narrazione binaria: buoni contro cattivi. Nel tweet, Sparaciari riduce l’intera questione — un comportamento problematico da parte di alcuni adolescenti — a un’unica causa: il fatto che i loro genitori (perché ebrei) sarebbero assassini impuniti. Nessuna complessità, nessun contesto: un collegamento diretto, brutale, tra etnia e crimine.
Colpa collettiva: attribuire responsabilità a un intero gruppo
Secondo la logica di Goebbels, la propaganda funziona meglio quando si incolpa un’intera categoria sociale, etnica o religiosa. Sparaciari non parla di individui, ma di un intero gruppo: i genitori ebrei — non israeliani, non soldati, non politici — ma semplicemente “ebrei”. Tutti colpevoli, per natura, e quindi anche i figli sarebbero moralmente corrotti. È la stessa logica utilizzata dalla propaganda antisemita nazista: l’ebreo come colpevole “per nascita”.
Appello all’odio e alla disumanizzazione
Goebbels sapeva che per rendere accettabile l’odio, bisognava togliere umanità all’altro. Parlare di “un branco di ragazzini” non è un’espressione neutra: disumanizza, riduce a bestiame, prepara il terreno a un giudizio collettivo. L’uso del termine “impunemente uccidono donne e bambini” ha la funzione di evocare una figura diabolica, crudele, al di là di ogni redenzione. Non si tratta più di individui, ma di archetipi da odiare.
Proiezione: accusare gli altri di ciò che si sta facendo
La propaganda goebbelsiana spesso accusava gli ebrei di essere pericolosi, corrotti, criminali, proprio per giustificare le politiche violente del regime. Nel tweet, Sparaciari accusa i genitori ebrei di impunità e crudeltà, quando in realtà è lui stesso ad avanzare una calunnia collettiva senza prove, contribuendo alla normalizzazione dell’odio.
Ripetizione e saturazione mediatica
Goebbels puntava sulla ripetizione di slogan semplici e scioccanti. Anche se il tweet è una singola frase, il suo impatto è costruito come un “titolo da propaganda”: breve, potente, immediato. In un contesto social come Twitter, dove tutto viene rilanciato, amplificato e condiviso, anche un singolo messaggio può diventare uno slogan virale.
La menzogna strategica: affermare ciò che non è vero per plasmare la percezione
Goebbels sosteneva che una menzogna ripetuta abbastanza a lungo finisce per essere creduta. La verità, per lui, era irrilevante: ciò che contava era l’effetto della narrazione. Il tweet di Sparaciari contiene una menzogna implicita ma gravissima: l’accusa infondata che “i genitori” — identificati esclusivamente in quanto ebrei — uccidano impunemente donne e bambini. Non si tratta di un’opinione, ma di una falsità travestita da constatazione. È una menzogna costruita per colpire l’emotività, per suscitare indignazione e giustificare il disprezzo verso un intero gruppo. È, esattamente come nella propaganda nazista, l’uso della bugia come arma.
In sintesi, il tweet non è solo offensivo: è strutturato secondo le stesse logiche tossiche che la propaganda totalitaria ha affinato nel Novecento. Quando si incolpa un intero popolo di crimini non commessi, e lo si fa senza prove, senza pudore e con linguaggio disumanizzante, non si sta semplicemente “commentando un fatto”: si sta riproducendo, consapevolmente o meno, l’ossatura ideologica dell’odio.
(InOltre, 28 luglio 2025)
Italia-Israele – «Aiutare il dialogo tra i nostri Paesi»
Alla Ben Gurion University del Negev, in Israele, un’aula gremita ospita ogni settimana oltre cento studenti iscritti al corso Discovering Italy: A Journey through Its History, Society, and Culture, ideato e tenuto in inglese dalla professoressa Cristina Bettin, storica, docente di Italianistica e presidente dell’Associazione degli Accademici e Scienziati Italiani in Israele (Aissi). Il corso esplora la storia, la società e la cultura italiane dalle origini ai giorni nostri, con un approccio multidisciplinare.
«In Israele non esistono programmi strutturati dedicati alla storia italiana», spiega Bettin, «eppure l’interesse per l’Italia è enorme. Gli studenti qui impazziscono per la nostra cultura. Così ho pensato di creare un corso generale che toccasse tutti gli aspetti fondamentali: storia, arte, letteratura, musica, società. Non si può studiare qui storia medievale italiana, o storia romana, in modo sistematico. Questo corso nasce proprio per colmare quella mancanza».
Il percorso è organizzato in modo cronologico, con lezioni settimanali dedicate a diversi periodi storici. «Ogni settimana affronto un’epoca e ne esploro tutte le dimensioni: dall’Impero romano alla Shoah italiana, dal Rinascimento al Futurismo. Con uno spazio sempre aperto alla Jewish experience, con attenzione alla microstoria, agli ebrei italiani, alla Brigata Ebraica, ai Giusti, a tutto ciò che di solito non si studia in Israele».
All’interno del corso è previsto l’intervento di esperti italiani e internazionali, tra i quali anche il regista Fred Kudjo Kuwornu. «È importante che gli studenti sentano voci diverse, che allarghino lo sguardo oltre i manuali», osserva Bettin. Per la docente, portare questo tipo di contenuto accademico, e soprattutto ospiti, a Beersheva, nel sud d’Israele, è una sfida. «Tutti vogliono venire a Tel Aviv o Gerusalemme. Ma io voglio che la cultura italiana arrivi anche qui, nella periferia. Chi studia a Beersheva spesso resta escluso da eventi culturali. Il corso è anche una risposta a questa disuguaglianza».
L’entusiasmo degli studenti non basta a nascondere le difficoltà legate alla guerra. Molti sono stati richiamati per il servizio militare. «In questo momento diversi ragazzi sono a Gaza. Non potranno sostenere l’esame nella sessione regolare e dovranno farne una straordinaria. Eppure partecipano, mi scrivono, si scusano se non riescono a venire. Si impegnano. Hanno voglia di imparare, nonostante tutto». Un’altra sfida riguarda i rapporti con l’Italia. «Oggi abbiamo solo quattro accordi attivi, tutti in ambito ingegneristico. In scienze umane non c’è nulla. I miei studenti vorrebbero andare in Italia per un semestre, ma non esistono Erasmus disponibili. Senza una borsa, è impossibile permettersi un soggiorno di studio». Come presidente Aissi, Cristina Bettin lavora per rafforzare i legami accademici tra i due paesi. «Abbiamo costruito una rete con oltre ottanta ricercatori italiani. Organizziamo webinar bilingui – in inglese e in italiano – per mantenere vivo il dialogo. Parliamo di archeologia, fisica, giustizia, startup. Abbiamo molto seguito anche dall’Italia».
Oggi invitare docenti italiani in Israele è più difficile. «Non tutti vogliono o possono venire. Alcuni temono ripercussioni nei loro ambienti accademici. Altri non ricevono il supporto delle loro università, non necessariamente per motivi ideologici, ad esempio per la mancanza di coperture assicurative. Non è semplice, purtroppo ». Nonostante tutto, la professoressa mantiene un atteggiamento propositivo. «Non credo che tutto il mondo accademico sia contro Israele. Ma servono strumenti concreti. Come Aissi stiamo facendo il massimo. Abbiamo contatti, costruiamo progetti comuni, cerchiamo di avviare workshop o pubblicazioni congiunte. Facciamo quel che possiamo, con le risorse che abbiamo. E la porta è aperta a ogni collaborazione».
La settimana di Israele. La fine delle trattative su Gaza
di Ugo Volli
• La malafede di Hamas È stata molto poco sottolineata dai giornali italiani, ma è probabile che la decisione di Hamas di mandare a monte le trattative con Israele per un cessate il fuoco rappresenti una svolta nella vicenda di Gaza. Quel che è successo è semplice. Hamas aveva ricevuto dai mediatori (Egitto e Qatar, certamente più amici del movimento “palestinese” che di Israele) una nuova e “definitiva” versione della proposta americana. La novità del documento era che, in cambio della liberazione della metà dei rapiti ancora vivi, Israele rinunciava anche alla sua presenza nel corridoio che taglia trasversalmente la parte sud della Striscia. Questo presidio sembrava necessario per consentire di allestire una zona di sicurezza in cui gli abitanti di Gaza avrebbero ricevuto aiuti alimentari dalla fondazione americana GHF. Un’iniziativa importantissima per Israele, ma l’esercito ha capito di poter difendere i punti di distribuzione anche ritirandosi ulteriormente. Era dunque un’offerta che superava tutte le condizioni precedenti, tanto da suscitare contestazioni in seno al governo israeliano. Hamas però “non ha perso l’occasione di perdere un’occasione”, secondo la famosa battuta di Golda Meir, e ha replicato indurendo le sue richieste, cioè in sostanza chiedendo che Israele si ritirasse del tutto da Gaza e gliene consegnasse il governo, ha rifiutato ogni forma di disarmo, ha aumentato il numero di detenuti da liberare in cambio dei rapiti. In sostanza ha chiesto la resa di Israele. Era una controproposta così surreale che gli stessi mediatori l’hanno definita inaccettabile e si sono rifiutati di trasmetterla ad Israele, mentre il rappresentante americano Witkoff se n’è tornato a casa dichiarando finita la trattativa perché “non c’è nessuno con cui negoziare, Hamas non è in buona fede”. Trump ha commentato: “È chiaro che Hamas non vuole un accordo e preferisce morire. Ora tocca a Israele concludere il lavoro”.
• La strategia del terrorismo Quella di Hamas è una posizione così poco corrispondente alla situazione sul terreno, dove Israele continua ad avanzare e ad eliminare catene di comando e infrastrutture terroristiche, che è necessario analizzarla con cura. Vogliono davvero morire i terroristi di Hamas? Individualmente molti sono disposti a farlo per la loro causa, di questo va dato loro atto, anche se naturalmente negli scontri agiscono in modo da salvaguardarsi il più possibile. Ma collettivamente Hamas non ha affatto voglia di morire, è anzi convinta di poter vincere e si muove con molta accortezza e abilità politica verso i suoi fini. E l’ha fatto anche questa volta.
• Il primo obiettivo di Hamas: il pubblico israeliano La strategia della guerriglia presuppone la consapevolezza di non poter vincere sul piano militare; non a caso i movimenti palestinisti, tutti dediti al terrorismo, nascono sulla base delle sconfitte degli eserciti arabi contro Israele. L’obiettivo della guerra asimmetrica (o terroristica) dunque non è mai da individuare sul piano militare (specificamente non lo era il 7 ottobre e non lo è ora), ma va compreso su quello politico. In primo luogo, i terroristi mirano a uno scopo interno allo schieramento dei loro nemici: disarticolarlo, produrre conflitti, terrorizzare il pubblico generale, opponendolo al governo, dividere la politica dall’esercito, produrre nel pubblico richieste di compromessi, pacificazioni o addirittura rese. Questo primo obiettivo di discordia faceva parte delle condizioni precedenti al 7 ottobre (basta ricordare che il movimento di protesta contro la riforma giudiziaria giunse al punto non solo di invadere il parlamento, ma di promuovere il rifiuto della leva e del servizio dei militari di riserva, in particolare in settori strategici come l’aviazione e i reparti per la guerra elettronica). Ma dal 7 ottobre funziona soprattutto sfruttando il dolore delle famiglie dei rapiti, che vogliono salvare i loro cari a ogni costo, anche al prezzo di compromettere di nuovo la sicurezza del paese con una pace senza condizioni. Mentre ciò è più che comprensibile per i parenti, chi governa lo Stato deve evidentemente pensare al futuro e può chiudere la guerra solo quando potrà dare la garanzia che prevedibilmente non saranno possibili nuove incursioni, pogrom e rapimenti. La strategia di Hamas di prolungare la guerra mira anche a esacerbare questo conflitto e finora ha avuto un certo successo in questo ambito.
• La guerra dei media Il secondo obiettivo politico dei terroristi è l’isolamento internazionale di Israele, la sua condanna generalizzata, l’attribuzione allo Stato (e in genere al popolo) ebraico della colpa per la distruzione di Gaza anche se provocata dalla tattica degli scudi umani di Hamas; per la morte di numerosi civili, la quale era stata dall’inizio non solo messa in conto ma pubblicamente auspicata dai dirigenti terroristi; e per la fame della popolazione, anche se essa pure è provocata da Hamas, sia per trarre profitto economico e potere politico dal filtro che esso esercita dal monopolio sul flusso degli aiuti, sia per suscitare l’indignazione delle persone per bene per la pretesa atrocità delle operazioni dell’esercito israeliano. Una gigantesca campagna di stampa, costruita per lo più su un pompaggio continuo di terribili notizie e immagini false è condotta con lo scopo di deturpare l’immagine di Israele e di fare dei tagliagola di Hamas i difensori dell’umanità, della pace, dei bambini, dei diritti del popolo palestinese.
• Le conseguenze politiche Bisogna ammettere che su questo piano della propaganda Hamas ha vinto largamente la sua guerra. Se non ci fosse in Israele un governo guidato con determinazione da Netanyahu e negli Usa una presidenza Trump non disposta a cadere nei loro trucchi, avrebbero già vinto la battaglia iniziata il 7 ottobre. Questa secondo la tattica della guerriglia, infatti, è solo una tappa di una “lunga marcia” per la distruzione di Israele. Quali che siano i danni subiti da loro e dalla popolazione, se i terroristi riuscissero a uscire da questa guerra restando a Gaza con l’organizzazione ancora funzionante e le armi sufficienti a controllare la Striscia, probabilmente pure col consenso della popolazione fanatizzata che li porterebbero prima o poi a controllare anche l’Autorità Palestinese, allora avrebbero vinto sul piano politico pur perdendo su quello militare. Per questo reazioni “umane” come le ricorrenti denunce dei media della distruzione e della fame di Gaza, dell’“omicidio dei bambini” (che riattiva le calunnie medievali contro gli ebrei) e soprattutto le prese di posizione politiche come il riconoscimento da parte del Francia dell’oggettivamene inesistente “Stato di Palestina” promesso da Macron o anche la lettera dei 28 capi di stato contro le “atrocità di Gaza” sono insieme un grande successo di Hamas e un incoraggiamento a continuare la guerra, anche al costo di subire nuove perdite militari.
• Una battaglia difficile ma necessaria Israele è riuscita a modificare il quadro strategico del Medio Oriente, eliminando le proiezioni imperialistiche dell’Iran soprattutto in Libano e in Siria. Questa rottura delle trattative sui rapiti lo indurrà a concentrare la propria potenza su Gaza per cercare di dare il colpo di grazia a Hamas. È ragionevole, per una nazione attaccata a tradimento su sette fronti da parte di uno schieramento di paesi cento volte più estesi e dieci volte più numerosi, pensare di regolare la situazione prima di tutto sul piano militare. Da questo punto di vista, probabilmente, oltre a finire Hamas, sarà ancora necessario per Israele chiudere i conti con l’Iran, che conserva una certa potenza militare a sostegno di una politica aggressiva che non si è moderata. Ma il problema della propaganda d’odio suscitata da Hamas e ripresa con entusiasmo da tutti i nemici dell’Occidente e gli antisemiti in Europa e negli Usa fino a coinvolgere buona parte della popolazione, non riguarda solo Israele, ma anche gli ebrei cittadini di altri stati. Gli atti antisemiti che si moltiplicano ogni giorno in Francia, Spagna, Belgio, Grecia, Usa e altrove mostrano che la guerra islamista a Israele riguarda tutti gli ebrei. È difficilissimo, in una tempesta di menzogne come quella che viviamo, cercare di restaurare un minimo di verità su quel che accade a Gaza e intorno a Israele. Ma questo è il nostro compito non solo per difendere lo Stato ebraico, ma anche per tutelare noi stessi e la democrazia nei nostri paesi.
L'odio di CainoL'odio di oggi contro Israele, per la natura e l’intensità con cui si presenta, non trova spiegazioni umanamente ragionevoli. Oppure ne trova a iosa e di tutti i tipi, il che è la stessa cosa.
di Marcello Cicchese
«Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: “Ho acquistato un uomo con l'aiuto dell'Eterno”. Poi partorì ancora Abele, suo fratello. E Abele fu pastore di pecore; e Caino, lavoratore della terra. E avvenne, di lì a qualche tempo, che Caino fece un'offerta di frutti della terra all'Eterno; e anche Abele offrì dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. E l'Eterno guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. E Caino ne fu molto irritato, e il suo viso fu abbattuto. E l'Eterno disse a Caino: “Perché sei irritato? perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene non rialzerai il volto? ma, se agisci male, il peccato ti sta spiando alla porta, e i suoi desideri sono rivolti verso di te; ma tu lo devi dominare!” (Genesi 4:1-6).
È l’inizio della storia degli uomini dopo il “peccato originale”. Non è un bell’inizio. Come sappiamo dal seguito, il primo essere umano corporalmente generato da un uomo e una donna è un assassino; e il primo uomo che sperimenta la morte fisica è un uomo ucciso.
Ma perché Dio gradì l’offerta di Abele e non quella di Caino? Non lo sappiamo, Dio non lo dice. E questo un po’ ci irrita. Proprio come è capitato a Caino. Forse dipende dall’idea che abbiamo di Dio. Forse pensiamo a un Dio che osserva gli uomini come un arbitro osserva i giocatori di una partita. Se l’arbitro fischia, vuol dire che qualcuno ha commesso un fallo e deve arrivare una punizione. E chi è punito, squadra o giocatore, pretende spiegazioni.
Nel nostro caso non ci sono spiegazioni: Dio non le dà, ma neanche Caino le pretende. E non si sa perché. A questo punto abbiamo due possibilità: o ci mettiamo a protestare contro Dio perché non si spiega, oppure… ci viene il dubbio che forse abbiamo qualcosa da imparare. E cominciamo a riflettere.
Notiamo allora che il contrasto verte sulla modalità con cui i due fanno un’offerta a Dio. Un fatto “religioso” dunque, pensa l’evoluto uomo occidentale, non un fatto “serio”, come potrebbe essere per esempio una contesa sulla proprietà di un terreno agricolo. Il Dio della Bibbia però appare più attento ad osservare come l’uomo si comporta verso di Lui, prima di osservare come gli uomini si comportano fra di loro.
Dopo la delusione di Adamo ed Eva, che scelsero di dare fiducia al serpente invece che al Creatore; dopo il dolore che Dio provò nell’osservare gli uomini che nella loro “libertà” si rotolavano in un porcile morale (Genesi 6:5); la prima soddisfazione che Dio ricevette dall’uomo fu l’odore soave che gli arrivò dall’altare che spontaneamente Noè aveva costruito in suo onore dopo essere uscito dall’arca (Genesi 8:21). Un fatto di religiosa devozione dunque: spontaneamente offerto dall’uomo a Dio
Eccezionali sono poi parole che Dio ordinò a Mosè e ad Aaronne di dire al Faraone: “Così dice l’Eterno, l’Iddio di Israele: ‘Lascia andare il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto’” (Esodo 5:1). Dio chiede che il popolo gli celebri una festa in suo onore: un fatto di religiosa devozione dunque, che Dio richiede al suo popolo.
Da notare che Dio non si mostra scandalizzato dal rapporto di schiavitù con cui gli egiziani opprimono gli ebrei; non dice al Faraone di lasciar andare il suo popolo affinché goda della libertà di cui è privato; non parla di “diritti umani”, ma invoca il suo diritto: diritto che Egli ha sul suo popolo.
Dopo la caduta di Adamo ed Eva, Dio non ha interesse a misurare il grado di malvagità con cui gli uomini si rapportano tra loro, ma è attento al modo in cui l’uomo guarda a Lui dalla posizione in cui è caduto. L’atto di culto sinceramente espresso è il termometro con cui Dio misura il grado di attenzione dell’uomo verso di Lui.
Ecco dunque perché la questione Caino-Abele ruota intorno a un’offerta resa a Dio in suo onore. La Bibbia dice soltanto che Dio gradì l’offerta di Abele e non gradì l’offerta di Caino. Non è detto perché, e anche se si possono fare congetture sul tipo di offerte, una senza sangue e l’altra con il sangue, il fatto che non è detta in modo esplicito la ragione fa capire che non è lì che si deve porre l’attenzione. Se si pensa a Dio non come a un arbitro o a un giudice, ma come a un maestro, allora la differenza di gradimento può semplicemente esprimere una diversa valutazione dei risultati ottenuti dallo svolgimento di un compito: uno ha fatto bene, l’altro deve migliorare.
Così infatti si possono intendere le parole affettuose che Dio rivolge a Caino dopo aver notato la sua irritazione: “Perché sei irritato? perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene non rialzerai il volto?” (Esodo 4:6-7).
A Caino però non interessa la possibilità di un recupero: per lui qualcosa si è rotto in termini di primato. È lui il primogenito ed è stato lui il primo a presentare l’offerta: se Dio non gradisce la sua offerta, allora Caino dimostra a Dio di non gradire Lui uccidendo Abele, la cui offerta Dio ha gradito. L’odio di Caino per Abele è odio per Dio.
Dello stesso tipo è l’odierno odio del mondo per Israele.
Non si tratta di stabilire punto per punto analogie fra i due fatti, ma di riconoscere la ragione profonda di una situazione che presenta caratteri di sovrumana eccezionalità. Fino a pochi mesi fa mai si sarebbe potuto immaginare un’ondata così alta e violenta di odio contro gli ebrei.
Odio. Così dev’essere denominato questo mondiale accanimento, lasciando anche cadere i termini ormai consunti di antisemitismo e antisionismo. Perché di puro odio si tratta, cioè di un sentimento omicida che si appaga soltanto nella sparizione dell’oggetto odiato. Si odiano gli ebrei in senso lato, ma l’astio è più precisamente diretto contro l’ebreo collettivo, cioè contro l’elemento unificante che in questo momento della storia è costituito dallo Stato d’Israele.
È odio, bisogna ripetere. Odio che non sopporta l’esistenza dell’oggetto odiato. È odio di Caino, che non accetta la scelta di Dio. Perché Dio ha scelto Israele, e questo per molti è intollerabile.
Non stiamo qui a esporre le ragioni di una presa di posizione così netta: sono conseguenza di quello che si scrive da anni su queste pagine. Ma se ne possono trarre alcune osservazioni.
L'odio di oggi contro Israele, per la natura e l’intensità con cui si presenta, non trova spiegazioni umanamente ragionevoli. Oppure ne trova a iosa e di tutti i tipi, il che è la stessa cosa. E’ un odio che non dipende da fatti avvenuti o da fatti che avvengono o dal timore di fatti che potrebbero avvenire, ma dipende da una volontà che si dirige contro un’altra volontà: quella di Dio. È dunque una volontà di natura diabolica. Perché chi si oppone fin dall’origine alla volontà di Dio è lo stesso che ha preso la parola in Eden nella forma di un serpente; è lo stesso che ha spinto Caino ad uccidere il fratello; è lo stesso che spinge gli uomini ad odiare e voler distruggere Israele.
Da questo seguono alcune conseguenze.
È vano per Israele sperare che con atteggiamenti amorevoli ed esemplari verso il resto del mondo possa ottenere da esso maggiore consenso. Essere i primi a soccorrere nazioni in difficoltà per calamità terrestri; essere i primi a trovare medicine per combattere malattie; essere i primi a cercare soluzioni pacifiche in situazioni di contrasto fra popoli, non dovrebbe forse contribuire a riscuotere maggiori simpatie da chi sta intorno e favorire così un pacifico collocamento di Israele tra le nazioni? Sì, dovrebbe, se fosse soltanto una questione di rapporti umani, ma poiché le cose sono conseguenza di una scelta voluta da Dio, ogni accentuazione, voluta o non voluta, del primato di Israele, o anche soltanto della sua singolarità, aumenta l’irritazione degli altri. E l’odio ne è conseguenza, come nel caso di Caino.
È pericoloso per Israele immaginarsi come pioniere delle nazioni nella lotta contro il male, come per esempio è accaduto per breve tempo nella lotta sanitaria contro il Covid. Questo significa cadere in una trappola diabolica. Soprattutto quando, come in questo caso, la presentazione stessa del male è una trappola.
È ancora più pericoloso per Israele immaginare se stesso come pioniere del mondo nell’individuazione di nuovi valori morali, come per esempio la difesa dei cosiddetti “diritti umani”, in cui è inserito anche il diritto alla determinazione autonoma e variabile del sesso: il diritto transgender. È cominciato tutto con Tel Aviv “capitale dei gay”. L’avevamo scritto anni fa: «Essere riuscito a far sì che il mondo considerasse Tel Aviv la capitale degli omosessuali e nello stesso tempo scegliesse Tel Aviv come capitale d'Israele al posto di Gerusalemme è un capolavoro del Diavolo».
Il capolavoro sta anche in questo: che il transessualismo è andato avanti fino a livelli ripugnanti di perversione e nello stesso tempo ha espulso Israele dalla cordata accodandosi al comune odio antiebraico.
Per i sionisti laici potrebbe essere venuto il momento di riconoscere che il transgender è un movimento blasfemico diretto contro Colui che ha creato l’uomo maschio e femmina, e ha creato anche la nazione ebraica distinta dalle altre nazioni. Se non ci si mette decisamente dalla parte di Dio, si scivola inevitabilmente dalla parte del suo Avversario, con tutte le conseguenze per Israele. Tertium non datur
Il sionismo laico, che ha sperato di poter inserire una nazione ebraica tra le altre e con pari dignità, ha avuto una funzione storica sostenuta da Dio stesso, ma ha ormai esaurito il suo compito. Per sua natura, Israele non può continuare a vivere tranquillamente in mezzo agli altri mettendo Dio tra parentesi.
Perché, come abbiamo detto all’inizio, il Dio della Bibbia appare più attento a osservare come l’uomo si comporta verso di Lui, prima di osservare come gli uomini si comportano fra di loro.
Vueling contro Vueling. La compagnia aerea è finita nella bufera dopo aver scaricato a forza un gruppo di cinquanta giovani ebrei francesi all’aeroporto di Valencia. Ufficialmente perché quei boy scout che tornavano a Parigi da un campo estivo in Spagna – di età compresa tra i 10 e i 15 anni – “rappresentavano una minaccia per la sicurezza del volo”. Secondo gli interessati, ancora sotto shock, il motivo è diverso. E a suo modo grave: intonavano canzoni in ebraico.
• Vueling, ombre su ombre Di questi tempi, viene detto, è una provocazione. L’ammanettamento fin troppo sbrigativo della professoressa, ventunenne, che guidava il gruppo – descritta dai testimoni come una persona civile e pacata – aggiunge ombre su ombre. E anche a voler concedere il beneficio del dubbio alla replica che fa la compagnia Vueling, va detto che è la stessa compagnia a non aiutarsi. Perché da due giorni il customer care della low cost spagnola sta contattando i passeggeri del volo uno a uno per chiedere di cancellare foto e video dell’accaduto. Le riprese a bordo sono vietate per norme sulla sicurezza aerea, ne va della privacy degli altri passeggeri, e poi ci sono dei minori coinvolti: non si devono vedere i loro volti. Scaricarli sulla pista dell’aeroporto, però, sì.
• La ricerca del video A voler cercare qualche video che davvero incastri quei rumorosi passeggeri, però, non se ne trovano. Niente dimostra che c’è stata una azione di disturbo vera e propria, a bordo: nessuna ragazzata, nessun illecito uso dei materiali in dotazione dell’aeromobile, come recita un algido mattinale distribuito da Vueling. Che prega di ripetere la nota del suo ufficio legale ma si rifiuta di rispondere alle domande che abbiamo posto già 48 ore fa ai responsabili dell’ufficio stampa. Vueling non aiuta Vueling: fa muro. Intima ai passeggeri la cancellazione di foto e video. Intimorendoli, quasi, dal parlarne. Ecco cosa detta la compagnia aerea spagnola: «Durante il volo VY8166, Valencia-Parigi, un gruppo di adolescenti ha adottato un comportamento dirompente e un atteggiamento di sfida, violando quanto previsto dall’articolo 41 della legge 21/2003, sulla sicurezza aerea».
• La notizia del comandante Una ricostruzione totalmente diversa da quella delle testimonianze raccolte dai telegiornali francesi. Il verbale del vettore aereo è impietoso: «Gli equipaggi di volo hanno l’obbligo di intervenire in qualsiasi situazione che possa compromettere la sicurezza dei passeggeri». Di cosa si starebbe parlando, posto che nessuno dei passeggeri ha notato niente? Quell’alto rischio in cosa consisterebbe, posto che nessuno ne ha avuto sentore? La nota stampa parla di «atteggiamento apertamente di sfida verso la sicurezza e disobbedienza ripetuta alle istruzioni dell’equipaggio. Il comandante si è visto obbligato a richiedere l’intervento della Guardia Civil». C’è da rimanere a bocca aperta. Anche perché, ad aggiungere sale sulla ferita, la notizia che ieri ci è stata confermata: il comandante in questione è Iván Chirivella, pilota della Vueling che ha adottato la linea dura con i temibili quattordicenni ebrei ma in passato aveva condiviso il velivolo con personalità addirittura più pericolose: era stato lui ad addestrare due dei terroristi dell’11 settembre 2001, Mohamed Atta e Marwan al-Shehhi.
• Vola l’odio Vueling dovrebbe sperare di trovare riscontri alle sue accuse. E invece sta chiedendo di cancellare qualsiasi prova utile. La questione finirà in tribunale: le famiglie dei ragazzi hanno deciso di denunciare l’accaduto, mentre si moltiplicano gli appelli – anche della politica – affinché venga fatta piena luce. La notizia, riportata in beata solitudo dal Riformista per l’Italia, era ieri su radio e Tg di mezza Europa. Un testimone ha mandato un dettagliato racconto: si dice incredulo per l’accanimento contro quei bambini – o poco più che bambini, si sa che a quattordici anni ci si sente già grandi – ed è pronto a testimoniare in aula. Il tribunale della rete però ha già deciso: «Erano bambini sionisti, chissà cosa cantavano. Morte agli arabi?». E non servono vettori low cost: l’odio è il motore che fa volare sempre più in alto la fantasia dei più.
Questa foto non è stata scattata a Gaza, né nel 2025. È un’immagine d’archivio, risalente al 2016, scattata nello Yemen nel pieno della guerra civile.
Il 20 luglio 2025, il quotidiano la Repubblica ha pubblicato un articolo sulla presunta crisi di fame nella Striscia di Gaza. In apertura, campeggiava una fotografia drammatica: una donna dallo sguardo stremato stringe tra le braccia un bambino visibilmente malnutrito. La didascalia era chiara: “Una madre a Gaza nel 2025”.
Solo che quella foto non è stata scattata a Gaza, né nel 2025. È un’immagine d’archivio, risalente al 2016, scattata nello Yemen nel pieno della guerra civile. A pubblicarla per la prima volta fu il New York Times, in un contesto del tutto diverso.
Il suo riutilizzo da parte di la Repubblica, senza alcuna indicazione della sua reale origine, non è un semplice errore. È un atto di manipolazione consapevole, volto a generare un impatto emotivo, rinforzare una narrativa politica e indurre il lettore a credere a una realtà visiva che non corrisponde ai fatti.
• Una questione di fiducia In un’epoca in cui le immagini influenzano profondamente la percezione pubblica, falsare l’origine di una fotografia significa minare il principio stesso dell’informazione: l’affidabilità. Quando un grande quotidiano nazionale sceglie deliberatamente di usare immagini fuori contesto senza spiegarlo al lettore, la fiducia si spezza. E con essa si incrina uno dei pilastri della democrazia.
• Gaza: che cosa dicono i fatti Da mesi, numerose organizzazioni umanitarie — tra cui l’ONU, la FAO e Save the Children — hanno lanciato l’allarme sulla situazione umanitaria a Gaza. Segnalano carenze di cibo, difficoltà logistiche nella distribuzione degli aiuti e una popolazione sempre più dipendente dagli approvvigionamenti esterni. In alcuni rapporti si è parlato apertamente di rischio fame, in particolare nelle aree più colpite dai combattimenti.
Tuttavia, queste stesse organizzazioni riconoscono la complessità del contesto e non tutte parlano di “carestia conclamata”. Alcune fonti parlano di una situazione grave ma ancora sotto la soglia tecnica di fame generalizzata. Altri, come Save the Children, denunciano gravi ostacoli posti da Hamas alla distribuzione equa degli aiuti umanitari.
In questo quadro già difficile, l’uso di foto false contribuisce a confondere ulteriormente il pubblico e delegittima il lavoro di chi, sul campo, cerca di documentare i fatti con precisione.
• La posizione ufficiale di Israele Il 22 luglio, in risposta alle crescenti accuse da parte di governi europei e della Casa Bianca, l’IDF (Esercito israeliano) ha pubblicato un comunicato ufficiale: “Non esiste una crisi di fame a Gaza. Sappiamo con precisione quante calorie contenga ogni camion che entra nella Striscia, e quante persone può sostenere. I nostri dati, basati sul monitoraggio quotidiano condotto da COGAT (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori), non indicano una carestia in corso.”
Sempre secondo le autorità israeliane, parte delle immagini diffuse sui social e dai media internazionali — compresa quella utilizzata da la Repubblica — proverrebbero in realtà dallo Yemen, e sarebbero utilizzate da Hamas per costruire un racconto di vittimismo funzionale alla propria propaganda.
• Un esposto all’Ordine dei Giornalisti contro Repubblica Per denunciare questa manipolazione dell’informazione da parte di Repubblica è stato presentato un esposto all’Ordine dei Giornalisti: lo scopo non è censurare l’informazione né di negare che a Gaza la popolazione stia vivendo gravi difficoltà. Il punto non è il contenuto dell’articolo, ma il metodo: l’uso di una foto falsa, senza avvertire il lettore, per generare empatia e orientare l’opinione pubblica. Questo è inaccettabile. Chi informa ha il dovere della precisione. Chi pubblica immagini ha la responsabilità di non mentire con gli occhi degli altri.
In democrazia, il diritto a informarsi correttamente vale più di qualsiasi schieramento. Per questo invitiamo a firmare l’esposto presentato all’Albo dei Giornalisti controla Repubblica. Non per prendere posizione su Gaza, ma per difendere qualcosa di più ampio: la verità, anche visiva, nell’informazione.
Perché quando la realtà viene truccata, l’informazione smette di essere un diritto.
Nel 1799 un uomo di nome Joseph Frey fu battezzato in una chiesa luterana nella Germania settentrionale. Niente di strano, direte voi. Ma Joseph proveniva da una famiglia ebrea molto devota, e questo evento si rivelò un punto di svolta nella lunga storia del cristianesimo.
In un certo senso, probabilmente contribuì anche all'attuale conflitto mediorientale, poiché aprì gli occhi dei non ebrei alla promessa restaurazione di Israele, sia della terra che del loro Signore.
Quando Giuseppe abbracciò la fede in Cristo, infatti, non accettò la norma degli ultimi quindici secoli, assimilandosi alla cultura cristiana non ebraica e rinunciando alla sua eredità ebraica, ma disse: «Fin qui e non oltre».
Giuseppe era convinto che Yeshua – Gesù – non fosse il fondatore di una nuova religione, ma il Messia di Israele a lungo promesso; e che non avesse abbandonato l'ebraismo, ma fosse entrato nella sua pienezza, proprio come ha spiegato Mordechai Veberman nel mio recente articolo “Yeshua rivelato”.
Nel 1799 era un'idea radicale – e lo è ancora oggi. La Chiesa primitiva era nata come movimento ebraico, radicato nelle Scritture ebraiche e permeato dall'identità ebraica. Ma nel IV e V secolo questo legame si era in gran parte spezzato. Gli ebrei che in seguito credevano in Gesù erano tenuti ad abbandonare la loro eredità, il loro popolo e spesso anche il loro nome. Ma Frey rifiutò questo quadro.
Nel giro di dieci anni fondò a Londra l'attuale Church's Ministry among Jewish People (CMJ), una missione mondiale che incoraggia gli ebrei ad accettare il loro Messia senza rinnegare il loro retaggio.
E fu proprio la CMJ, insieme ad altre organizzazioni, tra cui importanti evangelici del XIX secolo, a contribuire in modo determinante a spingere il governo britannico ad adottare la cosiddetta Dichiarazione Balfour del 1917, in cui prometteva di fare tutto il possibile per restituire al popolo ebraico il territorio allora noto come Palestina.
Erano infatti convinti, sulla base di scritture profetiche, che gli ebrei di tutto il mondo sarebbero presto tornati dal loro lungo esilio e che era di fondamentale importanza riportare il Vangelo a coloro che ce lo avevano dato, soprattutto alla luce della promessa (Romani 11:26; Zaccaria 12:10; Apocalisse 1:7), che indicano che negli ultimi giorni prima del Suo ritorno un gran numero di ebrei si sarebbe convertito al loro Messia.
Sebbene la CMJ si concentrasse sul Vangelo, l'organizzazione era anche molto pratica nel suo amore per l'antico popolo di Dio. Si stabilì circa 100 anni prima della rinascita dello Stato moderno in Israele, fondò una scuola, un ospedale e una scuola professionale e si impegnò persino nella formazione agricola dei nuovi arrivati ebrei che avevano scarse conoscenze in materia.
Erano chiaramente guidati dalla Parola di Dio, che diceva, ad esempio, che “il deserto e la terra arida si rallegreranno; il deserto gioirà e fiorirà” (Isaia 35,1).
Il loro complesso della Christ Church nella città vecchia di Gerusalemme, oggi luogo di pace in mezzo alla guerra, ospita tre comunità che celebrano le loro funzioni in ebraico, inglese e arabo. La funzione in arabo viene trasmessa nella finestra 10/40, che copre gran parte del mondo musulmano. Secondo il reverendo Aaron Eime, direttore britannico della CMJ, che vive a Gerusalemme da 26 anni, “ci sono persone che seguono il messaggio da paesi lontani come l'Uzbekistan e si confrontano con esso”.
Inoltre, ogni giorno gruppi di israeliani e altri turisti visitano l'Heritage Centre della struttura, dove incontrano credenti messianici che spiegano loro la ricca storia del loro movimento e come Yeshua ha cambiato la loro vita. Il centro gestisce anche un Mercy Fund che si occupa delle persone bisognose della zona, tra cui arabi ed ebrei.
Daryl Fenton, direttore di CMJ Israel, mi ha detto: “In una città segnata dalle divisioni, questi incontri non sono insignificanti.
Fanno parte di uno sforzo lento e costante per seminare la pace, radicato nella verità e fondato sull'ospitalità”.
Israele è oggi la patria delle prime comunità di seguaci di Gesù di lingua ebraica dai tempi biblici. I credenti messianici si riuniscono in tutto il paese, molti dei quali con cristiani arabi tra le loro fila. E nonostante la guerra, che purtroppo ha alimentato così tanto antisemitismo, anche nel Regno Unito cresce l'interesse per le radici ebraiche.
Quando gli ebrei di Gerusalemme erano in difficoltà nei primi tempi della Chiesa, l'apostolo Paolo spiegò come i Macedoni e gli Achei li avevano aiutati volentieri (allora soffrivano la povertà, oggi soffrono il terrore costante) – vedi Romani 15:27. Siamo ancora in debito con loro e la nostra gratitudine deve manifestarsi!
Nel frattempo, ci giungono da tutto il mondo nuove testimonianze di ebrei che diventano discepoli di Gesù, anche dall'Australia, dove una donna di nome Adi era rimasta sconvolta e depressa dai terribili eventi del 7 ottobre 2023.
Adi, un'israeliana cresciuta in Australia, da giovane adulta si era arruolata volontaria nell'esercito israeliano per il profondo amore verso il suo popolo e voleva tornare a combattere allo scoppio della guerra, ma ora aveva dei bambini piccoli da accudire.
L'odio la consumava. «Mi trovavo in un luogo buio e avevo bisogno di un miracolo per voler tornare a vivere. Ho pregato: ‘Ti prego, Dio, anche solo per il bene dei miei figli’“.
Non ci volle molto perché Dio le rispondesse. ”Un giorno, mentre ero abbattuta e sola, ho sentito una voce che diceva: ‘Vieni, ti darò pace’".
In qualche modo sapeva che era Gesù, così ha cercato su Internet e ha chiamato l'ufficio di “Ebrei per Gesù”. Si è unita a una comunità ed è diventata convinta che Yeshua è il Messia ebraico! È stata guarita dal suo odio e anche suo marito è diventato credente.
Il Messia è venuto! Di questo si tratta!
* Charles Gardner è autore di “Israel the Chosen” (Israele, il popolo eletto), disponibile su Amazon; “Peace in Jerusalem” (Pace a Gerusalemme), disponibile su olivepresspublisher.com; “To the Jew First” (Prima ai Giudei), “A Nation Reborn” (Una nazione rinata) e “King of the Jews” (Re dei Giudei), tutti disponibili presso Christian Publications International.
(Israel Heute, 25 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Shimrit Maman, la prima donna alla guida dell’Agenzia Spaziale Israeliana
di Jacqueline Sermoneta
È la prima donna a dirigere l’Agenzia Spaziale Israeliana (Isa), l’agenzia civile che opera sotto il ministero dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia. Shimrit Maman è stata nominata presidente, assumendo così la direzione della politica spaziale dello Stato ebraico. Succede a Dan Blumberg per un mandato di tre anni.
“La dott.ssa Shimrit Maman è una scienziata autorevole e rispettata con una comprovata esperienza nella promozione di collaborazioni intersettoriali e internazionali, nell’avvio e nella gestione di programmi spaziali innovativi e nella guida di processi di coinvolgimento strategico con un’ampia gamma di partner – ha affermato la ministra per l’Innovazione, la Scienza e la Tecnologia, Gila Gamliel – Sono certa che guiderà l’Agenzia spaziale israeliana verso una nuova era di innovazioni scientifiche e tecnologiche e rafforzerà la posizione internazionale di Israele come potenza spaziale”.
La nomina arriva in un momento in cui Israele si sta concentrando sempre di più sulla tecnologia spaziale, grazie alla quale ha ottenuto numerosi successi, fra i quali il recente lancio in orbita del satellite Dror-1, il più avanzato mai realizzato, che coprirà tutte le esigenze di comunicazione satellitare dello Stato ebraico per almeno i prossimi 15 anni.
Un altro importante risultato raggiunto è stato ciò che è considerato il primo scontro avvenuto nello spazio ovvero quando il sistema di difesa a lungo raggio Arrow è riuscito ad abbattere un missile balistico Houthi al di fuori dell’atmosfera terrestre.
Maman ha diretto l’Ufficio israeliano del Programma UN-SPIDER (United Nations Platform for Space-based Information for Disaster Management and Emergency Response) per il monitoraggio satellitare dei disastri naturali e la gestione rapida delle emergenze e ha ricoperto l’incarico di rappresentante di Israele presso il Comitato delle Nazioni Unite sugli Usi Pacifici dello Spazio extra-atmosferico (COPUOS). Attualmente, è direttore del Centro di immagini planetarie e della Terra dell’Università Ben-Gurion del Negev.
Ma il ruolo più significativo è quello di pioniera nella lotta per la partecipazione delle donne allo spazio. Ha guidato ‘SheSpace’, un’iniziativa di fama internazionale per ispirare e sostenere le donne che desiderano entrare nel settore spaziale.
“Sono entusiasta dell’opportunità di guidare l’Agenzia spaziale israeliana – ha detto Maman – e di dare vita, insieme ai partner in Israele e in tutto il mondo, alla prossima generazione di operazioni spaziali israeliane”.
L'ossessione per lo Stato ebraico ha sostituito la razionalità con una propaganda letale.
di Melanie Phillips
Negli ultimi giorni, il sentimento anti-israeliano e antisemita si è trasformato in una vera e propria follia. Ogni poche ore sembra emergere un nuovo scandalo.
A Londra, un famoso presentatore ebreo è stato seguito per strada da un uomo che gridava “fascista sionista feccia”. A una donna che stava cenando in un ristorante ebraico della città è stato chiesto se fosse ebrea e poi le è stato rovesciato addosso il cibo.
Sull'isola greca di Rodi, una folla armata di coltelli ha aggredito un gruppo di giovani ebrei. Circa 50 bambini ebrei francesi di ritorno da un campo estivo in Spagna sono stati cacciati da un aereo all'aeroporto di Valencia dopo aver cantato canzoni in ebraico; la loro accompagnatrice è stata arrestata e spinta a terra.
L'ossessione della BBC di demonizzare e delegittimare Israele ha assunto connotati patologici. Questa settimana ha dedicato ampio spazio al suo programma radiofonico di punta, “Today”, ad accuse sempre più grottesche e leggende di omicidi rituali che dipingono Israele come uno Stato malvagio e assassino, tra cui l'affermazione di un medico britannico che lavora nella Striscia di Gaza secondo cui l'esercito israeliano starebbe giocando a un gioco in cui ogni giorno prende di mira una parte diversa del corpo dei ragazzi in fila per il cibo.
L'emittente britannica non è riuscita a nascondere il proprio entusiasmo quando i giornalisti e gli intervistati hanno annunciato all'unisono che “la resa dei conti” era imminente, con la fine della guerra di Gaza, dopo la quale sarebbero stati rivelati i “crimini di guerra” di Israele e la richiesta di uno Stato palestinese sarebbe diventata schiacciante.
Questa offensiva propagandistica si basa su tre grandi calunnie: che l'IDF uccide deliberatamente i gazawi in fila per il cibo, che Israele sta affamando la popolazione della Striscia di Gaza e che la “violenza dei coloni” contro gli arabi in Giudea e Samaria è in aumento.
Tutte e tre le affermazioni hanno lo scopo di trasformare Israele da vittima di un genocidio a Stato assassino che non ha più diritto di esistere. Questa ondata di propaganda è orchestrata da Hamas insieme ai suoi alleati alle Nazioni Unite e all'intera scena umanitaria globale, diffusa dai media e ripetuta da politici malintenzionati o ignoranti.
Basta un attimo di riflessione per rendersi conto di quanto sia assurdo accusare l'IDF di uccidere deliberatamente persone in fila per il cibo. Dopo tutto, gli israeliani hanno contribuito a creare la Gaza Humanitarian Foundation (GHF) e ne supervisionano il lavoro per garantire la distribuzione sicura di cibo ai civili. Perché mai dovrebbero voler uccidere questi civili?
Nel caso di alcuni abitanti di Gaza uccisi nei pressi dei punti di distribuzione degli aiuti, si è trattato chiaramente di una conseguenza involontaria dei colpi di avvertimento sparati in aria dai soldati per fermare una folla, apparentemente infiltrata da Hamas, che sembrava intenzionata ad assalire le truppe israeliane.
È Hamas che ha deliberatamente ucciso centinaia di abitanti di Gaza per impedire loro di raggiungere i punti di distribuzione gestiti da americani e israeliani, perché è proprio grazie al furto di questi aiuti che Hamas è rimasta al potere.
Per sopravvivere, gli aiuti devono invece essere distribuiti dal suo alleato all'ONU. Ecco perché Hamas, nell'ambito dei negoziati di cessate il fuoco, chiede che la distribuzione degli aiuti sia effettuata dall'ONU e dalla Mezzaluna Rossa Palestinese.
Questa settimana i media hanno pubblicato immagini sconvolgenti di bambini emaciati come prova di una carestia nella Striscia di Gaza. Ma gli adulti nelle stesse immagini erano chiaramente ben nutriti. È probabile che solo i bambini soffrano la fame mentre gli adulti sono sazi?
Gli israeliani sostengono che queste immagini, diffuse regolarmente da anni con la falsa accusa di mostrare la brutalità israeliana, in realtà ritraggono bambini affetti da malattie degenerative o genetiche.
Potrebbe esserci una crescente fame nella Striscia di Gaza, ma dare la colpa a Israele è grottesco. Il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha accusato Israele di bloccare gli aiuti umanitari. Questo è completamente falso.
Secondo il COGAT, il dipartimento di assistenza dell'IDF, recentemente sono arrivati nella Striscia di Gaza quasi 4.500 camion con aiuti umanitari, tra cui farina per panifici, e 2.500 tonnellate di alimenti per neonati e alimenti speciali ad alto contenuto calorico per bambini.
Il punto cruciale, però, è che 950 di questi camion sono bloccati all'interno della Striscia di Gaza perché le Nazioni Unite e le loro organizzazioni si rifiutano di distribuire il cibo e gli aiuti umanitari che trasportano. La GHF ha implorato l'ONU di distribuire queste scorte nella Striscia di Gaza, ma invano.
Questo perché l'ONU lavora fianco a fianco con Hamas, che usa la fame come arma di guerra, proprio come usa la popolazione civile di Gaza come scudo umano e carne da cannone.
Questa strategia ripugnante si basa sul calcolo infernale che più gazawi muoiono, più l'Occidente condannerà Israele. Il presunto segnale morale dell'Occidente contro un presunto “affamamento” israeliano diventa così una condanna a morte per la popolazione di Gaza.
Nel frattempo, la macchina per delegittimare Israele ha inventato un'altra potente arma: la “violenza dei coloni”. Questa denigra gli abitanti ebrei della Giudea e della Samaria come aggressori e terroristi nei confronti dei loro vicini arabi.
Come spesso accade, la realtà è esattamente l'opposto. Certo, una minoranza di giovani radicali “giovani delle colline” ha vendicato gli attacchi contro gli arabi – questo è da condannare. Tuttavia, la maggior parte della violenza in queste zone è perpetrata dagli arabi locali contro gli abitanti ebrei, che sono vittime di aggressioni quasi quotidiane.
Secondo un rapporto dell'ONG Regavim, il 90% degli incidenti classificati dalle Nazioni Unite come “violenza dei coloni” erano in realtà qualcosa di completamente diverso: scontri tra arabi e l'IDF, autodifesa ebraica contro attacchi arabi o persino attività pacifiche come visite guidate al Monte del Tempio a Gerusalemme o escursioni a siti storici.
Questa settimana è stato rivelato che l'affermazione secondo cui i “coloni” avrebbero dato fuoco alla chiesa bizantina di San Giorgio a Taybeh, vicino a Ramallah, era falsa. L'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, che aveva visitato la chiesa e aveva inizialmente dichiarato che la profanazione di un luogo di culto era un crimine contro l'umanità e contro Dio, ha ritirato la sua dichiarazione. Ha confermato che la chiesa era intatta, come si poteva vedere fin dall'inizio dalle mura di pietra intatte. Tuttavia, questa falsa affermazione, avanzata da sacerdoti e attivisti, si era diffusa in tutto il mondo.
Invece di contribuire a fare chiarezza, sostenere Israele nella lotta contro i nemici islamisti dell'umanità e proteggere gli ebrei della diaspora dall'odio fomentato da questa campagna mediatica, i politici britannici ed europei continuano a gettare benzina sul fuoco.
Una dichiarazione congiunta del ministro degli Esteri britannico David Lammy e dei suoi omologhi di altri 27 Stati ha accusato Israele di “uccisione disumana di civili, tra cui bambini, che cercavano solo acqua e cibo”, di “negare aiuti umanitari essenziali alla popolazione civile” e di un'escalation della “violenza dei coloni”.
Come si spiega questa spaventosa caduta dalla ragione nell'abisso della propaganda mortale? Come è possibile che nel Regno Unito i fatti sulla guerra di Gaza siano accolti con incredulità, che “sionista” sia diventato un insulto e che l'antisemitismo sia considerato poco più che una manovra diversiva ebraica per nascondere i presunti “crimini” israeliani?
Ci sono molte ragioni: ideologia, ignoranza, wishful thinking. E la convinzione diffusa che l'ONU e l'industria dei diritti umani – ormai dotate di uno status quasi religioso – agiscano con assoluta integrità e siano incapaci di mentire o di commettere ingiustizie.
Ma agiscono anche impulsi più profondi e oscuri: il bisogno di smascherare gli ebrei come i cattivi, di attribuire loro un potere unico e distruttivo sul mondo e di negare loro il ruolo di vittime.
Ecco perché in Occidente le minacce provenienti dalla Russia, dalla Cina o dall'Iran, le atrocità commesse contro i drusi in Siria o i cristiani in Africa, le carestie in Sudan, sembrano tutte secondarie rispetto all'ossessione sfrenata e malvagia per il piccolo Israele. Questa ossessione è espressione di una malattia della civiltà che non distrugge lo Stato ebraico, ma l'Occidente stesso.
(Israel Heute, 25 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israele mostra gli aiuti bloccati a Gaza: “L’ONU non li distribuisce, Hamas ostacola”
di Luca Spizzichino
Circa 800 camion carichi di generi alimentari, medicinali e beni di prima necessità risultano da giorni fermi sul lato palestinese del valico di Kerem Shalom. A mostrarli alla stampa internazionale è stato il Colonnello Abdullah Halabi, capo della Divisione del COGAT per Gaza, che ha puntato il dito contro le Nazioni Unite e altre organizzazioni umanitarie, accusandole di non svolgere adeguatamente il proprio compito nella distribuzione degli aiuti.
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Mentre Israele continua a essere accusata dalla comunità internazionale, le stesse Nazioni Unite ammettono di non avere piena visibilità su ciò che accade ai valichi. Jens Laerke, portavoce dell’OCHA, ha affermato che l’ONU “non ha accesso” al valico di Kerem Shalom e che “molte missioni vengono respinte o ostacolate”. Inoltre, alcune agenzie umanitarie rifiutano di collaborare con strutture alternative di distribuzione perché sostenute dallo Stato ebraico.
Le pressioni internazionali, in particolare da parte dell’Unione Europea, hanno spinto Israele a riaprire il valico di Zikim, nel nord della Striscia, e a consentire l’ingresso di aiuti anche attraverso la Giordania e l’Egitto. È stato inoltre autorizzato l’ingresso di carburante per garantire il funzionamento delle infrastrutture critiche gestite dall’ONU. Tuttavia, Hamas continua a tentare di sabotare queste aperture per conservare il controllo sull’assistenza.
“Vediamo le immagini drammatiche che arrivano da Gaza, ma non è Israele a causare la catastrofe. Al contrario, stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per evitare ulteriori sofferenze”, ha dichiarato un alto funzionario della sicurezza israeliana. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha convocato una riunione d’urgenza con i vertici della sicurezza, del Ministero degli Esteri e del Consiglio per la Sicurezza Nazionale per affrontare la crisi umanitaria in corso. “Stiamo combattendo Hamas, non la popolazione civile”, ha ribadito un alto ufficiale. “Israele non è la causa del disastro, ma sta facendo di tutto per evitarlo”.
Il 7 ottobre dei drusi: «Il silenzio non è più un’opzione»
Israeliani e drusi accomunati nella tragedia. Il 7 ottobre 2023 nel primo caso, il 15-16 luglio 2025 nel secondo. Comune la sorte di oltre un migliaio di civili uccisi da terroristi armati, comune il mandante di tali eccidi: il fanatismo islamico di matrice sunnita. A trucidare oltre 1.200 fra uomini, donne e bambini nei kibbutzim al confine con Gaza e a Sderot sono stati i terroristi di Hamas, temibile braccio armato palestinese della Fratellanza Musulmana. A Sweida e dintorni – nel sud della Siria – a uccidere oltre mille civili drusi sono stati clan beduini di fede sunnita supportati, secondo le denunce della comunità drusa siriana, dalle forze regolari siriane che rispondono al nuovo uomo forte di Damasco, quell’Ahmad al-Shara (già noto come al-Joulani) oggi ricevuto da Donald Trump ed Emmanuel Macron quale uomo di pace ma fino a ieri leader del Fronte al-Nusra, declinazione siriana di al Qaeda. Cittadini drusi e cittadini ebrei, che vivono fianco a fianco in Israele, vittime della stessa guerra di religione, un odio per il diverso che non si ferma davanti al civile indifeso, sia questo una donna ebrea in un kibbutz o un anziano druso ricoverato in ospedale.
Del 7 ottobre conosciamo già i dettagli, le violenze indicibili largamente ignorate dalla comunità internazionale. Comunità che oggi fa lo stesso con i drusi salvo poche eccezioni.
Documenta l’orrore avvenuto in Siria e interrotto dall’intervento di Israele il rapporto “Atrocità sistematiche contro i drusi a Sweida” a cura del Druze Documentation Nexus. pubblicato sul sito dell’istituto Memri. Nel rapporto vengono dettagliati i crimini compiuti da parte delle forze del regime siriano insieme ad alcune milizie terroristiche e alle tribù beduine locali e si fornisce anche una prima lista con i nomi di 245 vittime tra drusi e cristiani. Oltre mille morti, centinaia di feriti e rapiti. Violenze sessuali, umiliazioni e torture mirate. Blocchi medici. E come già in Israele ai tempi del 7 ottobre, decine di migliaia di persone sfollate. «Il silenzio non è più un’opzione. I drusi e altre minoranze chiedono solo per il diritto di vivere in pace sulla loro terra ancestrale», si legge all’inizio del rapporto, nel quale si sollecitano le istituzioni internazionali a intervenire con fermezza. Vengono chieste in particolare quattro azioni: l’istituzione di una inchiesta urgente su mandato delle Nazioni Unite «per indagare su crimini contro l’umanità», l’accesso umanitario immediato «per valutare e rispondere ai bisogni dei sopravvissuti», l’adozione di sanzioni e provvedimenti da applicare contro individui e organismi «che operano all’interno del governo di Al-Joulani, in quanto complici delle violenze», l’attivazione da parte della comunità internazionale di «meccanismi di protezione per le minoranze vulnerabili in Siria, per prevenire il ripetersi di tali episodi».
«Tacciano le armi, le operazioni militari in Gaza e il lancio di missili verso Israele. Siano liberati gli ostaggi e restituiti i corpi. Si sfamino gli affamati e siano garantite cure ai feriti. Si permettano corridoi umanitari. Si cessi l’occupazione di terre destinate ad altri. Si torni alla via del dialogo, unica alternativa alla distruzione. Si condanni la violenza».
La dichiarazione congiunta del presidente della Comunità ebraica bolognese Daniele De Paz e dell’arcivescovo della città Matteo Zuppi, che è anche il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha incassato nelle scorse ore l’adesione della senatrice a vita Liliana Segre.
In fondo all’appello in cui si chiedono di rafforzare «in tutti i modi vie coraggiose di pace» avrebbero dovuto esserci tre firme e non le due comunicate. Almeno questa era l’intenzione di Zuppi e De Paz, spiega il secondo a Pagine Ebraiche. «Volevamo coinvolgere tutte le tre comunità religiose che dal 2021 partecipano al progetto per una casa dell’incontro e del dialogo tra religioni e culture», sottolinea. Però Yassine Lafram, il presidente della comunità islamica cittadina, che è anche il presidente dell’Ucoii, «ha deciso di non aderire, nonostante le molte sollecitazioni di Zuppi». A tenerlo distante, secondo de Paz, «l’assenza della parola “genocidio” associata a Gaza: una formulazione alla quale ci siamo opposti in modo netto e che neanche Zuppi condivide». Malgrado questa defezione, la scelta è stata quella di parlare lo stesso all’opinione pubblica, «perché c’era bisogno di dare un segnale» anche a causa delle «molte sollecitazioni che si sono consolidate sul territorio dopo la sospensione dei rapporti con Israele da parte della regione Emilia-Romagna, la scelta analoga del Comune, la mozione dell’università nella stessa direzione; sono eventi scatenanti che producono un fortissimo disagio nella società, in un momento segnato da toni sempre più accesi verso le comunità ebraiche».
Nella dichiarazione si attesta che «la giustizia per il popolo palestinese, come la sicurezza per il popolo israeliano, passano solo per il riconoscimento reciproco, il rispetto dei diritti fondamentali e la volontà di parlarsi». De Paz svela di aver ricevuto messaggi di contestazione duri «ma le testimonianze di sostegno sono state molte di più di quelle di chi ha cercato di mettermi in cattiva luce, anche nel mondo ebraico». Zuppi e Lafran sono rappresentanti di comunità a livello nazionale. «Ma», precisa De Paz, «mi sono rivolto a loro per il ruolo svolto sul territorio».
(moked, 24 luglio 2025) ____________________
Non ci sono parole per commentare una presa di posizione come questa, firmata dal presidente della Comunità ebraica bolognese, dall'arciverscovo di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale italiana Matteo Zuppi, con l'adesione della senatrice a vita Liliana Segre, ma senza l'adesione del presidente della comunità islamica bolognese perché non si nomina il "genocidio". E' proprio vero, come qualcuno ha detto, che la questione ebraica è una cosa troppo seria da lasciare che a interessarsene siano soltanto gli ebrei e i loro nemici. M.C.
50 bambini ebrei rimossi da volo Vueling La compagnia invoca «questione di sicurezza»
«Cinquanta bambini ebrei francesi, di età compresa tra 10 e 15 anni, cantavano canzoni ebraiche. L’equipaggio di Vueling ha dichiarato che Israele è uno stato terrorista e ha costretto i bambini a scendere dall’aereo».
Lo denuncia Amichai Chikli, il ministro israeliano della Diaspora, in un intervento su X in cui pubblica il video di una donna arrestata dalla polizia spagnola all’imbarco del volo che avrebbe dovuto portare i giovani da Valencia a Parigi. Quella donna, sottolinea il ministro, «è la direttrice del campo estivo Kinneret».
L’episodio è stato tra gli altri commentato dalla parlamentare francese Caroline Yadan, che ha rilanciato un articolo della stampa israeliana sulla vicenda. Scrive Yadan, sempre su X: «Cinquanta bambini ebrei sono stati rimossi da un aereo. La loro direttrice ventunenne è stata ammanettata con violenza. Se i fatti riportati in questo articolo fossero veri, la compagnia aerea spagnola Vueling dovrebbe risponderne in tribunale».
La compagnia low cost ha smentito in una nota questa ricostruzione, sostenendo che i giovani sono stati fatti sbarcare per via del loro comportamento «molto aggressivo» e che l’iniziativa è stata presa «per garantire la sicurezza di tutti i passeggeri». Vueling aggiunge di rifiutare categoricamente «qualsiasi forma di discriminazione, senza eccezioni». L’organizzazione Acom – Acción y Comunicación sobre Oriente Medio, che promuove il rafforzamento delle relazioni tra Spagna e Israele, ha annunciato l’intenzione di procedere per vie legali. Secondo Acom, «questo inaccettabile incidente conferma, ancora una volta, il preoccupante declino della sicurezza degli ebrei in Spagna».
È un discorso molto difficile da fare, ma qualunque persona voglia mantenere un minimo di lucidità deve chiedersi che cosa sono le immagini che ci arrivano da Gaza e che vengono sparate in prima pagina sui giornali (non solo italiani) e perché improvvisamente arrivano decine di foto.
Sono immagini di madri dolenti con bambini smagriti e sofferenti in braccio, con gli occhioni grandi, gambe e braccia a penzoloni. Sono immagini che fanno molto male, ma sono vere? Chiunque può capire, mettendoci un po’ d’attenzione, che sono immagini accuratamente preparate, pose studiate, sguardi in camera, corpi esposti alla luce come su un set.
• Foto filtrate da Hamas Allora non si tratta di negare il dolore, il dramma della guerra e dei bambini, è questione di capire chi ci mostra che cosa e perché. Quelle immagini non arrivano da fotoreporter indipendenti, vengono filtrate da Hamas, dalle sue agenzie media, da Al Jazeera, però questo nessuno lo dice mai. Nessuno si chiede chi ha scattato queste foto, quando, a chi, perché, per veicolare quale messaggio.
• Anche la pietà può essere manipolata E allora, vedete, purtroppo anche la guerra ha una regia e anche la pietà può essere manipolata. Certo che soffrono i bambini, come in ogni guerra, e le loro sofferenze ci toccano al cuore, ma se diventano icone, strumenti, comparse, allora tutto diventa più tragico, più sporco, più disumano, perché vuol dire che alle spalle di tutto questo c’è chi lavora cinicamente sui nostri sentimenti.
Allora io vi chiedo solo di pensarci, di non fermarvi alla superficie, alla prima impressione. Fatevi qualche domanda in più.
Il Libano mette al bando Al-Qard Al-Hassan, la banca di Hezbollah
di Luca Spizzichino
La Banca Centrale del Libano ha emesso una circolare con cui vieta a banche e istituzioni finanziarie di condurre transazioni con una struttura creditizia legata a Hezbollah e considerata da anni il pilastro finanziario dell’organizzazione terroristica. Lo riferisce Reuters.
La decisione segna un passo significativo nel contrasto al sistema economico parallelo che Hezbollah ha consolidato in Libano dagli anni ’80. Fondata proprio in quel decennio, Al-Qard Al-Hassan serve circa 300.000 persone ed è stata più volte definita dagli Stati Uniti come la “spina dorsale finanziaria” non solo di Hezbollah, ma anche di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese. Washington ha imposto sanzioni sull’istituto già nel 2007, seguita dall’Arabia Saudita nel 2021 e da Israele nell’ottobre 2024, quando il governo israeliano ha anche colpito alcune filiali dell’organizzazione con raid mirati. La mossa della Banca Centrale arriva in un momento di fragilità per Hezbollah, dopo i duri colpi subiti da Israele durante l’autunno 2024, culminati con l’eliminazione del leader Hassan Nasrallah, che era considerato il vero regista delle attività di Al-Qard Al-Hassan.
Secondo l’esperto di intelligence Haig Melkessetian, ex operativo dei Dipartimenti della Difesa e di Stato degli Stati Uniti, l’annuncio libanese sarebbe stato influenzato anche dalla recente conferenza del Law Enforcement Coordination Group (LECG), nato da una collaborazione tra Stati Uniti ed Europol e che coordina da un decennio gli sforzi internazionali per smantellare le reti finanziarie di Hezbollah. Durante la conferenza, è stato evidenziato il crescente stato di difficoltà economica del gruppo sciita libanese, che potrebbe spingerlo a intensificare le attività di raccolta fondi in America Latina, Africa e altrove. Il Dipartimento di Stato americano ha sottolineato l’importanza di azioni concrete per bloccare i “meccanismi finanziari e gli schemi criminali” del gruppo. Tuttavia, Melkessetian avverte che il provvedimento contro Al-Qard Al-Hassan è solo un primo passo. Il vero ostacolo alla riforma del sistema finanziario libanese, secondo l’ex analista, sarebbe il presidente del Parlamento Nabih Berri, in carica ininterrottamente dal 1992. “È l’ultimo residuo di una corruzione sistemica che il Libano sembra voler finalmente abbandonare”, afferma Melkessetian, sostenendo che il Tesoro statunitense dovrebbe sanzionare anche Berri per colpire davvero al cuore il sistema finanziario parallelo di Hezbollah. “Berri si presenta come amico dell’Occidente, ma in realtà sta cercando di ostacolare le riforme nominando suoi uomini all’interno della Banca Centrale, per proteggere le sue responsabilità passate”, spiega Melkessetian. “È come se la mafia mettesse un poliziotto corrotto a capo di un’indagine dell’FBI”.
Nel mirino ci sarebbero inoltre anche altri attori bancari: tra cui il Middle East & Africa Bank (MEAB), 15° istituto per volume di depositi in Libano, accusato di aver facilitato l’accesso di Al-Qard Al-Hassan al sistema bancario internazionale e che, secondo Melkessetian, avrebbe agito come canale di intermediazione per aggirare le sanzioni internazionali.
“I bambini piangevano, mia figlia temeva che ci facessero del male”: il dramma dei turisti israeliani bloccati al porto di Siro
di David Zebuloni
“Siamo in vacanza con la famiglia – siamo salpati per la Grecia, ma non ci hanno permesso di scendere dalla nave”. Con queste parole inizia il racconto di Yariv Lev, 44 anni, di Petah Tikva, padre di tre figli. “Al porto ci attendevano decine di manifestanti pro-palestinesi, che ci hanno impedito di sbarcare”, racconta in un’intervista a Makor Rishon.
L’episodio è avvenuto la mattina di martedì 22 luglio, quando una nave da crociera israeliana è attraccata sull’isola greca di Siro. Tuttavia, invece di ricevere una calorosa accoglienza con bandiere greche, i 1.600 passeggeri israeliani si sono trovati davanti a una scena sconvolgente: decine di manifestanti agitavano bandiere palestinesi bloccando l’accesso al porto.
Per evitare il rischio di un’escalation, è stato deciso di non consentire ai passeggeri di scendere dalla nave. “Non era una protesta spontanea quella, ma una manifestazione ben pianificata”, sottolinea Yariv. “I manifestanti sapevano del nostro arrivo e sono venuti appositamente per impedirci di mettere piede sull’isola”.
Secondo quanto riportato, al porto erano presenti anche forze dell’ordine locali, nel tentativo di contenere la situazione. I loro sforzi si sono rivelati insufficienti: i manifestanti si sono rifiutati di andarsene e hanno continuato a impedire ai turisti israeliani di sbarcare e di godersi la vacanza.
“Abbiamo sentito cori ostili contro Israele, ma non siamo rimasti in silenzio”, racconta Yariv. “Abbiamo preso le bandiere israeliane, ci siamo riuniti sul ponte superiore della nave e abbiamo organizzato una contro-manifestazione. Abbiamo sventolato con orgoglio le nostre bandiere, finché l’equipaggio non ci ha invitati a fermarci e a spostarci in un’area più sicura”.
Secondo Yariv, la tensione ha colpito duramente soprattutto i bambini. Molti di loro sono scoppiati in lacrime, inclusi i suoi tre figli: Liraz, Nofar e Peleg. “Erano molto delusi”, racconta. “Volevano solo scendere, fare una passeggiata, godersi un po’ di vacanza, ma non è stato possibile”.
Particolarmente sofferta è stata la reazione della figlia più piccola di Yariv, che ha vissuto il momento con grande paura. “Era molto spaventata”, ricorda. “Temeva davvero che i manifestanti potessero salire a bordo e farci del male. Non riusciva a capire perché non potessimo semplicemente sbarcare come previsto. Per lei è stato un momento davvero molto difficile”.
Per ore, la famiglia Lev e oltre mille turisti israeliani sono rimasti chiusi nella nave, senza sapere cosa sarebbe accaduto. “Eravamo bloccati, senza alcuna risposta”, conferma Yariv. “Non sapevamo se saremmo tornati in Israele o se avremmo proseguito per un’altra destinazione. Eravamo certi che avremmo dovuto aspettare a lungo. Ci sentivamo completamente impotenti. Nessuno ci dava risposte chiare, la sensazione era di totale mancanza di controllo”.
Dopo ore di attesa, è finalmente arrivata la tanto anelata notizia: la nave avrebbe lasciato Siro per dirigersi verso Limassol, a Cipro. “Ce l’hanno comunicato tramite l’altoparlante”, racconta Yariv. “Subito si sono levate grida di gioia, cori di ‘Am Israel Chai’ e applausi da ogni parte”.
Quando la nave ha ripreso la navigazione, i passeggeri si sono riversati sul ponte per celebrare la fine della tensione. “C’è stata una grande festa in piscina”, conclude Yariv. “L’atmosfera è di pura gioia”. Un epilogo sicuramente felice per questa disavventura, ma anche un amaro promemoria: il clima di odio che cresce nel mondo non ha risparmiato nemmeno un piccolo porto greco, lontano chilometri e chilometri dai confini d’Israele.
Appena a sud dell’Artico una sinagoga ha un approccio unico allo Shabbat
‘Probabilmente non troverai una comunità come la nostra da nessun’altra parte’. Ora celebra il suo centenario, la Sinagoga di Trondheim è finora sopravvissuta ai nazisti, all’antisemitismo moderno, all’isolamento geografico – e ad alcune sfide halakhiche particolari.
TRONDHEIM (Norvegia)— Se mai ci fosse stata una sinagoga che si è guadagnata il diritto di organizzarsi una festa di compleanno, è questa elegante e intrigante casa di preghiera nella Norvegia centrale, a sole 220 miglia a sud del Circolo Polare Artico. Nel corso del secolo passato, la Sinagoga di Trondheim ha resistito all’isolamento dal resto del mondo ebraico; all’Olocausto, che ha sterminato metà della sua comunità; alle sfide legate all’osservanza dello Shabbat a causa della sua latitudine molto settentrionale, e al persistente antisemitismo che è solo peggiorato da quando è iniziata la guerra contro Hamas a Gaza nel 2023.
Quest’autunno, la sinagoga celebrerà il suo centenario con una celebrazione di tre giorni, culminando con un evento il 26 ottobre a cui dovrebbero partecipare membri della famiglia reale norvegese, il primo ministro del paese, il sindaco di Trondheim e altre personalità. “Ci saranno discorsi, canzoni e, naturalmente, racconteremo la storia della comunità“, dice John Arne Moen, presidente della Comunità Ebraica di Trondheim. “Siamo ai margini del mondo ebraico, viviamo vicino al circolo polare. Probabilmente non troverai una comunità come la nostra da nessun’altra parte al mondo.“
Con una popolazione di circa 200.000 abitanti, Trondheim è la terza città più grande della Norvegia, dopo Oslo e Bergen. Situata sulle rive di un fiordo che è un’insenatura nel Mare di Norvegia, la città fu fondata nell’anno 997 e fu la capitale della Norvegia durante l’Era Vichinga. Il sito più famoso della città è la Cattedrale di Nidaros, completata nel 1300 nel luogo di sepoltura del Re Olav II, a cui è attribuito il merito di aver portato il Cristianesimo in Norvegia.
• La storia improbabile della vita ebraica a Trondheim La storia improbabile della vita ebraica a Trondheim iniziò alla fine del XIX secolo, quando gli immigrati ebrei iniziarono ad arrivare da Polonia e Lituania, solitamente perché non potevano permettersi di andare in America. Molti lavoravano come mercanti ambulanti. Nel 1900, c’erano più di 100 ebrei che vivevano a Trondheim e fu stabilita la prima sinagoga della città. Durante i successivi 20 anni, la comunità crebbe fino a più di 300 membri, richiedendo la necessità di una sinagoga più grande.
Nel 1923 una vecchia stazione ferroviaria in Arkitekt Christies Gate 1 fu acquistata con il sostegno finanziario di circa 200 ebrei di Oslo e convertita in sinagoga. Fu inaugurata nel 1925 e rimane – insieme alla sinagoga di Oslo – una delle sole due sinagoghe del paese. L’edificio, progettato in stile Neoclassico, è caratterizzato da una facciata azzurra con finestre ad arco e modanature bianche. All’interno, il santuario a due piani presenta anch’esso un motivo blu. Originariamente, le donne sedevano nel balcone durante le funzioni. Ora, il balcone non viene più utilizzato; uomini e donne siedono insieme al piano principale.
• L’occupazione nazista e l’Olocausto La Germania occupò la Norvegia dal 1940 al 1945. I nazisti confiscarono la sinagoga e la utilizzarono come caserma, sostituendo le Stelle di Davide nelle finestre con svastiche. Si crede che 165 ebrei locali – circa la metà della popolazione ebraica di Trondheim dell’epoca – morirono nell’Olocausto, alimentato dalla decisa collaborazione delle autorità locali. La maggior parte delle vittime fu deportata in treno al campo di sterminio di Auschwitz in Polonia, dove solo pochi sopravvissero.
I primi sforzi per commemorare gli ebrei assassinati di Trondheim furono intrapresi dai resti della comunità che sopravvisse. Ma a metà degli anni ’90, la città intraprese la propria iniziativa memoriale, scegliendo Cissi Klein – che aveva 13 anni quando fu presa dalla sua scuola, deportata ad Auschwitz e uccisa all’arrivo – per diventare un simbolo delle vittime naziste di Trondheim.
Una statua di Cissi si trova in un parco tranquillo a breve distanza dalla Sinagoga di Trondheim. Costruito nel 1997 come parte delle commemorazioni del millennio della città, il memoriale si trova fuori dal palazzo dove Cissi viveva con i suoi genitori e fratello. Una strada accanto al parco è stata nominata in suo onore.
• Una sfida halakhica unica Oggi, Moen stima che ci siano 200 ebrei che vivono a Trondheim; circa tre quarti sono membri della sinagoga. I servizi dello Shabbat si tengono tipicamente ogni due venerdì. Il rabbino capo della Norvegia, Michael Melchior, vive in Israele ma viaggia periodicamente a Oslo e Trondheim per condurre le funzioni (Il padre di Melchior è stato il rabbino capo della Danimarca per lungo tempo.) Quando Melchior non è in città, le funzioni sono solitamente condotte da Asher Serussi, nato in Israele, un leader religioso nella comunità che vive a Trondheim da 30 anni. Serussi descrive la Sinagoga di Trondheim come “ortodossa ma molto flessibile e moderna.“
“La maggior parte delle persone qui non sono ebrei osservanti“, ha detto. “I nostri membri sono interessati alla cultura e alle tradizioni ebraiche, ma non mantengono la kashrut e non osservano lo Shabbat. Si divertono molto quando abbiamo celebrazioni per le festività. Allora qui è tutto pieno.“
Per i più religiosi che seguono la halakha, o legge ebraica tradizionale, la questione su come gestire gli orari di inizio e fine dello Shabbat è stata un argomento di dibattito fin da quando la congregazione fu fondata nel 1905. Secondo la halakha, lo Shabbat inizia pochi minuti prima del tramonto e dura fino a circa un’ora dopo il tramonto del giorno seguente. Ma Trondheim è situata così a nord che la quantità di luce diurna può variare tra 20 ore in estate e solo quattro ore in inverno. Quindi cosa deve fare una congregazione ortodossa in un paese conosciuto come “la terra del sole di mezzanotte”?
Altre comunità nelle latitudini molto settentrionali gestiscono la questione in vari modi. Alcune impostano l’orologio dello Shabbat basandosi sull’ora di Gerusalemme, mentre altre dividono il giorno equamente in due segmenti di 12 ore. Alcune iniziano lo Shabbat al momento tradizionale, anche se questo significa accendere le candele intorno a mezzanotte.
Moen dice che la congregazione ha sviluppato il proprio approccio nei suoi primi anni di esistenza che sembrava essere accettabile per i suoi membri e benedetto dalla maggior parte dei rabbini ortodossi che hanno esaminato la questione. Per la Sinagoga di Trondheim, lo Shabbat inizia alle 17:30 di venerdì e finisce alle 18:30 di sabato, indipendentemente dal periodo dell’anno e dalla presenza o meno di luce solare o oscurità polare. “È stata la nostra regola per 120 anni”, dice Moen. “Siamo cresciuti con essa. Siamo l’unica sinagoga ortodossa al mondo che lo fa in questo modo.“
• L’aumento dell’antisemitismo porta alla paura della violenza fisica Le relazioni tra Norvegia e Israele sono tese – l’anno scorso la Norvegia ha riconosciuto formalmente la Palestina come stato sovrano. Per quanto riguarda l’antisemitismo, Serussi dice che mentre è stato a lungo una parte accettata della società norvegese, le cose sono peggiorate da quando è iniziata la guerra a Gaza. Secondo un recente rapporto del Ministero degli Affari della Diaspora d’Israele, c’è stato un forte aumento degli incidenti antisemiti in Norvegia dall’ottobre 2023, con il 69% della comunità ebraica che ha personalmente sperimentato ostilità legata alla propria identità ebraica.
Nel 2024, il cimitero ebraico di Trondheim è stato vandalizzato e qualcuno ha lanciato una molotov contro la sinagoga. L’attacco non ha causato danni e l’autore non è mai stato trovato. “Stiamo dicendo alla nostra comunità di non mostrare simboli ebraici quando camminano per le strade“, ha detto Serussi. “Quindi stiamo prendendo alcune precauzioni. Sentiamo che non è come i giorni normali.“
• Il museo e il futuro della comunità Progettato in parte per combattere l’antisemitismo, c’è un piccolo museo nello stesso edificio della sinagoga. Il Museo Ebraico di Trondheim ha aperto nel 1997 e attira 7.000 visitatori all’anno, molti dei quali sono bambini delle scuole locali. Vengono in gita per imparare sull’Olocausto e sulla storia della vita ebraica a Trondheim. Una mostra particolarmente commovente dedicata all’Olocausto racconta le storie di diverse vittime della città e include uno scaffale con 165 grucce vuote, ognuna rappresentante uno degli ebrei che perirono durante la guerra.
Il seminterrato del museo ha un piccolo mikveh, o bagno rituale, che non è stata utilizzata da prima dell’occupazione tedesca. Su sollecitazione di due famiglie ortodosse che ora vivono a Trondheim, il mikveh è in fase di restauro e Serussi dice che l’obiettivo è averla funzionante nei prossimi uno o due anni.
Trondheim non è il posto più facile da raggiungere per i viaggiatori. La maggior parte dei voli nel suo piccolo aeroporto provengono da Oslo e altre città nazionali. Ma Trondheim attira un buon numero di visitatori sulle navi da crociera. Holland America e Hurtigruten (con base norvegese) sono due delle compagnie di crociere più grandi che offrono itinerari che includono soste portuali a Trondheim.
La Sinagoga di Trondheim una volta si proclamava orgogliosamente come “la sinagoga più a nord del mondo“. Nuovi luoghi di culto più settentrionali a Fairbanks, Alaska, e Arkhangelsk, Russia, hanno da allora soppiantato Trondheim. Titoli geografici a parte, Moen dice che nonostante le sue molte sfide, la Comunità Ebraica di Trondheim ora si trova su basi solide e guarda avanti per continuare a soddisfare i bisogni spirituali e culturali dei residenti e turisti mentre si dirige verso il suo secondo secolo.
“Siamo sopravvissuti alla Shoah e ora stiamo crescendo“, ha detto Moen. “Abbiamo molti giovani e non abbiamo visto così tanta attività nella nostra comunità da prima della guerra. Abbiamo una bella sinagoga. Se vuoi un posto per pregare, la sinagoga è aperta a qualsiasi ebreo che voglia venire.“
Squali manta e balene in aumento nel Golfo di Eilat
Negli ultimi giorni, un numero inusualmente alto di squali manta, squali balena e balenottere è stato avvistato nel Golfo di Eilat. Lo riporta l’organizzazione “Sharks in Israel”, che monitora gli incontri con squali e mante da oltre dieci anni.
Almeno quattro grandi mante giganti e diversi squali balena sono stati ripresi quest’estate. Di particolare interesse è stato l’avvistamento di una mobula, un batoide affine alla manta ma appartenente a una specie diversa, osservata solo per la seconda volta nella regione.
La ricercatrice Dott.ssa Adi Barash, direttrice dell’associazione e post-doc allo Steinhardt Museum of Natural History, ha commentato che questi avvistamenti potrebbero essere legati al deterioramento delle condizioni del Mar Rosso, esacerbato dalla pesca intensiva, dal turismo, dalla navigazione e dalle complesse dinamiche politiche nella regione.
Meron Segev, fotografo per Sharks in Israel, ha raccontato a Ynet: “Stavo facendo il bagno all’alba e mi sono imbattuto in una manta oceanica gigantesca. Ha girato la pancia bianca verso di me, cosa che mi ha abbagliato e reso difficile fotografarla. Non è stato facile, ma è stata un’esperienza incredibile”. È già stata confermata la presenza di almeno quattro mante distinte nelle ultime settimane; una, inoltre, era stata osservata anche nel 2020 e nel 2022, suggerendo un possibile comportamento riproduttivo. Tre anni fa un giovane esemplare era stato avvistato in acque basse vicino alla spiaggia nord di Eilat.
Anche gli squali balena, i pesci più grandi al mondo, sono stati filmati a Eilat: gli individui avvistati misurano generalmente tra i 6 e i 7 metri. Shir Bar dell’Inter-University Institute for Marine Sciences ha spiegato: “Fino a qualche tempo fa si presumeva che fossero molto giovani questi esemplari. Ma abbiamo recentemente associato uno avvistato quest’anno a Eilat a un esemplare visto a Sharm El-Sheikh nel 2012: era quindi un adulto, non un giovane”.
Barash ha riflettuto molto sull’aumento degli avvistamenti: “Non si può dire con certezza, ma spesso seguono il plancton. Abbiamo registrato molte nuove specie nel golfo. E ora, grazie alle fotocamere e ai social media, possiamo imparare molto – e in fretta”.
Lettere dal Libano – L’odissea delle armi di Hezbollah
di Hazem El Amin*
Ogni volta che l’inviato americano Tom Barrack atterra a Beirut, riemerge il dibattito sulle armi di Hezbollah, con l’aggiunta di un nuovo elemento. Inizialmente, la discussione si concentrava sulla presenza di armi a sud e a nord del fiume Litani, poi sulla distinzione tra armi pesanti e leggere. A un certo punto, ha incluso anche le armi nei campi profughi palestinesi. L’ultima novità di questa annosa questione è arrivata sulla scia degli scontri a Suwayda, introducendo un nuovo presunto ruolo per le armi di Hezbollah: proteggere il Libano dalle “tribù arabe” che hanno “invaso” il governatorato di Suwayda.
Quest’ultima missione, respingere potenziali incursioni delle tribù beduine, pone Hezbollah in una posizione che probabilmente non avrebbe mai voluto: combattere al fianco dell’esercito israeliano, che aveva già lanciato la propria campagna per contrastare questi attacchi.
Questo paradosso logico ma irrealistico fa parte dell’attuale narrativa che circonda le armi di Hezbollah. La recente guerra tra Israele e Hezbollah ha causato una grande confusione sullo scopo e la legittimità di questo arsenale. È diventato sempre più difficile per Hezbollah convincere chiunque che le sue armi possano dissuadere Israele dal bombardare, per non parlare di distruggere, il Libano. L’idea che Hezbollah possa occupare la Galilea, un tempo propagandata dal gruppo, non fa più nemmeno ridere. La retorica militante – le canzoni, le dichiarazioni sui missili e sulla prontezza – è diventata solo rumore vuoto.
Oggi le armi di Hezbollah non hanno più una storia. Sono solo armi. È vero, a differenza degli israeliani, noi libanesi non sappiamo molto delle loro condizioni, dei luoghi in cui sono conservate o di quante persone le trasportano, ma sappiamo, e sentiamo, che non hanno più una missione chiara. Anche i rivali libanesi di Hezbollah, che spesso sono stati bersaglio di questo arsenale, ora percepiscono che le armi stanno arrugginendo e sono incapaci di modificare l’equilibrio politico interno. La questione va oltre un semplice attacco israeliano. Il crollo del regime di Assad in Siria ha reso quasi impossibile la ricostruzione della capacità militare di Hezbollah.
Si tratta di armi senza un progetto, né nazionale né regionale. Solo armi. Quindi, quando Tom Barrack afferma che le armi di Hezbollah sono un problema libanese, intende proprio questo. Non sono più una preoccupazione israeliana o siriana. Si potrebbe persino sostenere che non sono più un problema per tutti i libanesi, ma solo per alcuni. I sunniti libanesi, ad esempio, non sono più intimiditi dalle armi di Hezbollah; ora sono schierati con qualcosa di più forte dello stesso Hezbollah. Anche se le armi possono ancora destabilizzare i cristiani libanesi, essi sanno anche che i cambiamenti regionali hanno indebolito la minaccia che esse rappresentano nei loro confronti.
È probabile che Hezbollah, tra le altre perdite, abbia perso la capacità di sfruttare le sue armi in cambio di vantaggi politici interni, in altre parole, di scambiare armi con potere costituzionale o politico. Il valore di queste armi è diminuito. E quando erano preziose, Hezbollah ha scelto di dare priorità alla loro funzione regionale, optando per il dominio dello Stato libanese dall’esterno delle sue strutture amministrative e politiche formali. Oggi, tuttavia, quelle fazioni libanesi che un tempo erano disposte a pagare il prezzo delle armi di Hezbollah non credono più che valgano la pena.
Nonostante questo vicolo cieco, l’alleanza Amal-Hezbollah sta combattendo la sua ultima battaglia in Libano, anche se nessuno può dire con certezza dove sta andando o quale sia il suo orizzonte.
Quando Hezbollah rischia il futuro del Libano e il futuro della comunità sciita per difendere armi che non hanno più alcuna utilità politica, l’unica spiegazione può essere che la sua leadership sta aspettando un fallimento in Siria.
Quando tale fallimento sembrava imminente, come dimostrato dalla caduta di Ahmad al-Sharaa a Suwayda, è improvvisamente emersa una nuova missione per le armi: proteggere il Libano dalle tribù invasori. Ma questa missione richiede un cambiamento rispetto a quella originaria: combattere Israele. E ora, Israele stesso ha intrapreso la stessa missione a Suwayda!
Quindi, combattere le tribù potrebbe ora significare combattere al fianco di Israele.
La seconda funzione dell’aggrapparsi alle armi risiede nel loro ruolo nella creazione di una base sociale strettamente legata a Hezbollah, una base che si sente superiore alle altre comunità libanesi. Rinunciare alle armi segnerebbe l’inizio di una nuova fase: esplorare la possibilità di una più ampia rappresentanza politica sciita al di là dell’attuale alleanza Hezbollah-Amal.
Tom Barrack aveva ragione quando ha detto che le armi di Hezbollah sono un problema libanese.
* Scrittore e giornalista libanese
Hamas spara sui civili in fila per il cibo? Non importa, è comunque colpa dell'ldf
Polito sul Corriere se la prende con Israele: «In ogni caso ha la responsabilità politica»
di luri Maria Prado
“E’ certo importante ma non decisivo - scriveva Antonio Polito sul Corriere della Sera di ieri - stabilire se sulle persone in fìla per il pane si spari deliberatamente o per errore, o se addirittura non siano affatto i soldati israeliani a sparare". Anche solo immaginare un simile costrutto - figurarsi metterlo nero su bianco - denuncia che il pregiudizio si è impadronito dell'intelligenza che lo ha generato. Perché la stampa - a cominciare dal Corriere - è da mesi impegnata a fare esattamente il contrario: e cioè a escludere persino l'ipotesi che gli incidenti ai margini dei centri di distribuzione - trasfigurati puntualmente nei ricetti del deliberato assassinio della gente "in fila per il pane" - possano essere attribuiti a qualcosa di diverso. È - senza mai poter essere null'altro, nulla di spiegabile altrimenti - lo stillicidio di una pratica sicaria che attira gli affamati in quei punti di distribuzione degli aiuti e poi "li prende a mitragliate", come l'altro giorno scriveva sempre il Corriere della Sera.
In questa situazione è davvero coraggioso uscirsene con l'argomento secondo cui è "importante ma non decisivo" stabilire se quelle persone sono uccise deliberatamente dall'esercito israeliano, come si scrive ogni giorno dappertutto, o invece in modo accidentale o addirittura per responsabilità altrui, come nemmeno per sogno è possibile leggere da nessuna parte. Non sorprende, dunque, che un ragionamento del genere finisca per evocare la "geometrica potenza" (dicitura dell'apologìa del terrorismo brigatista) quando discute delle responsabilità del "governo di Gerusalemme". Arriva a questo, Polito. I soldati israeliani come i terroristi che in una via romana rapivano Aldo Moro dopo averne sterminato la scorta. E ovviamente un'impostazione così contaminata non ha timore se difetta un tantino di originalità: "Israele Stato terrorista" si legge un po' ovunque, a cominciare dai cartelli nelle manifestazioni che finiscono a disegnare stelle gialle e svastiche sulle case degli ebrei. Perché distinguersi, perché mettersi di traverso quando una battaglia - quella contro il terrorismo israeliano - è tanto giusta e popolare? Così come è popolare discutere di genocidio, un argomento su cui Antonio Polito si esercita osservando che non avrebbe mai pensato di dover difendere lo Stato ebraico dall'accusa di commetterlo. Che, tradotto, significa che il genocidio c'è. E pace se Polito, che non avrebbe mai pensato di dover difendere Israele da quell'accusa, nell'adempiere al dovere di difenderlo ha pensato bene di non difenderlo punto e basta.
Tutto ciò che accade nella Striscia, conclude Polito, "è in ogni caso responsabilità politica di Israele", perché "quella terra è comunque occupata e controllata dalle forze armate di Gerusalemme". Le responsabilità di Hamas, lì, non ci sono: come non ci sono nell'articolo di Polito.
“Vogliono annientarci”: il grido di aiuto dei drusi in Siria ai loro famigliari in Israele
“Gli attacchi sono coordinati: alcuni avvengono tramite incursioni armate, altri con l’impiego di mezzi pesanti – spiega Fadi Maklida, tra i fondatori del movimento Mizan – Generazione Drusa per l’Uguaglianza -. È un’invasione in piena regola, un massacro sistematico accompagnato da slogan jihadisti recuperati dai tempi dell’ISIS e di Jabhat al-Nusra”.
di David Zebuloni
Spari riecheggiano per le strade, le forze del regime irrompono nelle abitazioni private, anziani vengono umiliati pubblicamente. Il sud della Siria è di nuovo in fiamme, e la situazione nella provincia drusa di Suwayda appare sempre più fuori controllo. Gli scontri, inizialmente circoscritti, si sono trasformati in vere e proprie battaglie sanguinose tra le milizie sunnite affiliate al regime di Damasco e le formazioni armate locali della comunità drusa.
“Gli attacchi sono coordinati: alcuni avvengono tramite incursioni armate, altri con l’impiego di mezzi pesanti”, spiega l’avvocato Fadi Maklida, tra i fondatori del movimento Mizan – Generazione Drusa per l’Uguaglianza, in un’intervista a Makor Rishon. “È un’invasione in piena regola, un massacro sistematico accompagnato da slogan jihadisti recuperati dai tempi dell’ISIS e di Jabhat al-Nusra. Frasi come ‘Esercito di Maometto’ e insulti alla fede drusa si levano a giustificare atrocità in nome della religione. È una profanazione del nome del Profeta e dell’Islam stesso”.
Secondo Maklida, le ragioni del conflitto sono più ideologiche che militari. “Il pretesto ufficiale è che i drusi si rifiutano di consegnare le armi, ma si tratta di una giustificazione costruita ad arte”, afferma deciso. “In realtà, l’obiettivo è indebolire la comunità drusa e costringerla a piegarsi a un regime islamista fondato sulla shari’a”.
La brutalità delle operazioni è documentata da numerosi video circolati sui social negli ultimi giorni. In essi si vedono forze del regime siriano radere con violenza la barba agli anziani drusi – un atto considerato un oltraggio gravissimo alla dignità e all’identità religiosa della comunità. “Agli occhi dei jihadisti, i drusi sono infedeli,” continua Maklida. “Già in passato avevano espresso la volontà di ‘riportarli sulla retta via’, ovvero convertirli con la forza all’Islam secondo la loro interpretazione”.
Il baffo è infatti un simbolo culturale e religioso tra i drusi: gli uomini di fede sono tenuti a non radersi, e solo in fasi avanzate della loro vita spirituale possono farsi crescere la barba. “Radere questi simboli equivale a un atto di annientamento culturale, simile a quanto fecero i nazisti tagliando le ciocche degli ebrei senza alcuna ragione”, denuncia Maklida. “La paura è ovunque. Riceviamo continuamente notizie da drusi dispersi in Siria: le dimensioni reali del massacro sono ancora sconosciute e molti sono irraggiungibili”.
Tra le voci che portano alla luce la sofferenza dei drusi siriani c’è anche quella di Marwan Jabar, 16enne di Daliyat al-Karmel e influencer con centinaia di migliaia di follower su Instagram. “Parte della mia famiglia vive ancora in Siria”, racconta. “Mi mandano video strazianti, chiedono aiuto. Io posso solo ripubblicare questi drammatici contenuti, far sapere al mondo cosa sta accadendo. Il mio profilo è diventato la loro voce”.
I racconti sono agghiaccianti. “Mi dicono che li stanno finendo, che vengono torturati, che vogliono sterminarli. Le milizie di Jolani hanno ucciso bambini e ragazzi, hanno sequestrato case di famiglie druse. Ma Suwayda è la loro terra, il potere deve restare nelle mani druse”. Secondo Jabar, alcuni cittadini hanno imbracciato le armi per difendersi, mentre altri si sono chiusi in casa, terrorizzati. “Molti abitanti del luogo sono armati, anche le donne sanno usare le armi. Vogliono difendere la loro terra, ma da soli non ce la fanno. L’offensiva contro di loro è troppo potente”.
Proprio per contenere la minaccia, Israele è intervenuta militarmente. Le Forze di Difesa Israeliane hanno pubblicato il video dell’attacco a un carro armato siriano, motivandolo con la necessità di “impedire l’arrivo di mezzi corazzati nella zona”, sottolineando che la loro presenza nel sud della Siria potrebbe rappresentare una minaccia diretta anche per Israele. Due carri armati del regime sono stati colpiti da droni e aerei da caccia dell’aeronautica israeliana. Immediata la reazione di Damasco, che ha condannato l’azione come “una grave violazione della sovranità siriana”.
Intanto, anche la realtà nelle comunità druse si fa sempre più tesa. Per questo motivo il Magen David Adom (il servizio nazionale di emergenza medica, protezione civile, ambulanze e banca del sangue dello Stato di Israele) ha innalzato il livello di allerta del servizio di emergenza al massimo grado. Tutti i mezzi di soccorso, con a bordo dipendenti e volontari qualificati, sono infatti pienamente operativi e pronti a intervenire in caso di necessità.
“Parlo a nome di tutti i drusi israeliani nel ringraziare l’esercito israeliano per essere intervenuto, ma la missione non è finita: serve altro aiuto”, dice con urgenza Jabar. “Dopo l’attacco israeliano, il regime è diventato ancora più crudele. Non possiamo lasciarli soli. Non possiamo permettere il loro annientamento”. Anche Maklida rilancia l’appello. “Senza un intervento deciso di Israele, i drusi sono in pericolo di estinzione”, afferma. “La loro capacità di difendersi è estremamente limitata: le armi leggere dei drusi non possono competere con le armi pesanti del regime. Un’azione israeliana decisa è per loro vitale. Senza Israele, non esisteranno più drusi in Siria”.
Più religiosi, meno ebrei. Il paradosso dell’ebraismo americano
Nonostante siano più religiosi sulla carta, gli ebrei americani sembrano essere molto meno ebrei dei loro omologhi britannici
di David Graham
• Gli ebrei americani parlano a Dio. Gli ebrei britannici parlano tra loro. Con circa sei milioni di anime, la popolazione ebraica degli Stati Uniti rappresenta due su cinque ebrei in tutto il mondo. Supera di gran lunga la comunità ebraica del Regno Unito, che è 20 volte più piccola. Ma quando si tratta di identità ebraica, la dimensione non è tutto. Nonostante siano più religiosi sulla carta, gli ebrei americani sembrano essere molto meno ebrei dei loro omologhi britannici.
• Fede religiosa vs appartenenza e comportamento Iniziamo con la fede. Solo uno su sei ebrei americani dice di non credere in Dio. Nel Regno Unito, è notevolmente più alto, al 25%. Ma mentre potrebbero essere credenti più forti, la fede made in America non si traduce automaticamente in risultati ebraici significativi. In termini di appartenenza, gli ebrei americani hanno molte meno probabilità dei loro omologhi britannici di essere membri di una sinagoga (il 64% non appartiene rispetto al 29% nel Regno Unito). E comportamentalmente, hanno solo la metà delle probabilità degli ebrei britannici di frequentare regolarmente la sinagoga (20% vs. 41% nel Regno Unito).
• Mentre gli ebrei americani mostrano livelli impressionanti di fede religiosa, gli ebrei britannici mostrano livelli molto maggiori di appartenenza e comportamento. Guardando più da vicino a queste differenze, possiamo vedere che gli ebrei americani che partecipano alle funzioni hanno molte più probabilità di dire di farlo perché “lo trovano spiritualmente significativo” (92% vs. Regno Unito 56%). E la ragione principale che gli ebrei americani danno per non andare più spesso? “Non sono religioso”. Questo da parte del 67% degli ebrei americani rispetto al 44% degli ebrei britannici. Ma per gli ebrei britannici, la ragione principale per partecipare non è affatto spirituale: è che “sentono un senso di appartenenza”. Gli ebrei britannici vanno in sinagoga perché è lì che c’è la loro gente. Questo è un punto affascinante e importante. L’ebraismo in America ha assunto una connotazione più “cristiana”: radicata nella fede, nella preghiera e nella spiritualità personale. In Gran Bretagna, l’impegno ebraico è spesso visto come un’esperienza più sociale, culturale e collettiva.
• La devozione religiosa americana non si è tradotta in un’identità ebraica più profonda Eppure questa devozione religiosa americana non si è tradotta in un’identità ebraica più profonda. Su qualsiasi numero di misure, l’ebreo americano medio risulta carente. Sono meno attaccati a Israele (58% vs. 73%), meno propensi a mantenere una casa kosher (17% vs. 40%), più propensi al matrimonio misto e molto meno propensi a dire che la maggior parte dei loro amici sono ebrei. Meno ebrei americani hanno frequentato scuole ebraiche. Meno vivono in quartieri ebraici. Meno condividono la vita ebraica con altri ebrei. Perché? Forse perché in America, l’individuo regna supremo. La religione è vista come una questione privata e, per molti, sembra che sia virtualmente divorziata dall’essere ebreo, almeno nel senso sociale-comunitario della parola. L’America è una società iper-personalizzata, dove essere ebreo è solo una scelta di vita tra molte altre e, vista in questo modo, chiaramente non riesce a competere efficacemente. Inoltre, nel Regno Unito, la vita ebraica è geograficamente più concentrata, socialmente interconnessa e intrisa di tradizione condivisa. Perché l’identità ebraica prosperi, ha bisogno di tutti e tre i pilastri: non solo la fede ma anche l’appartenenza e il comportamento. È un paradosso: più fede religiosa, eppure meno ebreo. Mentre vale la pena notare che il 50% degli ebrei britannici dice che credere in Dio è importante per la loro identità ebraica, alla fine, essere ebreo non significa solo credere, ma anche appartenere – a un popolo, una storia, una comunità – e comportarsi in modi ebraici, non perché è una scelta di vita ma perché è una grande parte di ciò che fanno gli ebrei e di chi sono gli ebrei. Sembra che i britannici possano avere qualcosa di piuttosto importante da discutere con i loro cugini americani, e forse anche qualcosa da insegnare.
Belgio: quando i concerti diventano focolai di odio per Israele
di Nathan Greppi
Negli ultimi giorni, si sono verificati in Belgio diversi episodi d’odio nei confronti degli israeliani, aventi come comune denominatore l’essersi verificati durante dei concerti.
• Propal contro Amir Il cantante franco-israeliano Amir Haddad, che ha rappresentato la Francia all’Eurovision Song Contest 2016, venerdì 18 luglio ha tenuto un concerto al festival Francofolies nella città di Spa, in Belgio, che secondo l’EJ Press è stato caratterizzato da una certa tensione in seguito alle accuse di “sostegno all’azione militare israeliana a Gaza” da parte di una dozzina di artisti, tra cui la franco-svizzera Yoa, che ha annullato la sua esibizione. Hanno denunciato il fatto che Amir abbia espresso il suo sostegno all’IDF dopo gli attacchi di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023. Lui stesso ha fatto il servizio militare in Israele. “Le mie convinzioni sociali, politiche e umanitarie sono incompatibili con il condividere il palco con un’artista che nega il genocidio in corso in Palestina e ha partecipato a eventi a sostegno dell’esercito israeliano”, ha dichiarato Yao sui social. In tutta la città sono stati lanciati slogan ostili, come “Spa complice” e “Amir macchina per uccidere”. Ma nonostante le polemiche, gli organizzatori hanno deciso di proseguire con lo spettacolo. Secondo Marc Radelet, addetto stampa del festival, durante il concerto un adolescente che portava una bandiera palestinese è stato brevemente messo da parte dalla sicurezza, così come una bandiera israeliana è stata confiscata in precedenza. Amir non si è lasciato abbattere e ha chiarito le cose durante il suo discorso. “Sono passati alcuni giorni da quando ho scoperto che l’amore può dividere le persone. Eppure mi sono sempre sentito vicino a chi soffre, a chi piange, a chi dubita, a chi chiede scusa. I dolori del mondo passano attraverso di voi come passano attraverso di me”, ha detto, aggiungendo: “Rispetto chi si oppone a me, ma penso che per poter andare avanti dobbiamo ascoltarci a vicenda, dobbiamo essere in grado di dialogare. Il dialogo è chiaramente preferibile agli anatemi e ai boicottaggi. Credo sia importante usare la nostra posizione di artisti per dare l’esempio”. Ha concluso dicendo: “La mia unica risposta all’odio è l’arte e la musica. Poiché siamo tutti qui insieme stasera, vorrei che cantassimo con una sola voce, e che quella canzone si levi al di sopra del tumulto”. I suoi fan presenti hanno chiesto che la musica fosse separata dai dibattiti politici. “Lasciamo da parte le opinioni e godiamocela”, ha detto uno di loro all’emittente belga RTBF. Gli organizzatori hanno difeso la loro decisione di far sì che Amir continuasse a esibirsi come da programma. Hanno detto di non essere in grado di “valutare moralmente il suo percorso personale”, se non attraverso le sue canzoni che trattano “temi universali e condivisi come l’amore, la celebrazione, la ricerca di sé e la resilienza”.
• Bob Vylan in Belgio Un altro festival musicale in Belgio, il Rock Herk, ha recentemente suscitato polemiche quando gli organizzatori sono stati esortati dall’EJA (European Jewish Association) a non far suonare il duo punk-rap britannico Bob Vylan, in seguito alle controverse dichiarazioni della band ad un concerto a Glastonbury nel Regno Unito. In quell’occasione, il duo ha urlato slogan come “Morte all’IDF”, “Palestina libera” e “Dal fiume al mare”. “Non si tratta di mettere a tacere le critiche verso Israele, ma di mettere a tacere un fiero e indomito sostenitore dell’incitamento all’odio contro gli ebrei”, ha scritto il presidente dell’EJA, Rav Menachem Margolin, in una lettera agli organizzatori del festival. “Non è obbligatorio sostenere Israele. Si può, anche scegliendo di farlo, sostenere la causa palestinese. Viviamo in una democrazia. Ma l’incitamento all’odio è una cosa completamente diversa. Quello che sta facendo Bob Vylan è istigare all’omicidio”, ha aggiunto. Ma gli organizzatori hanno confermato il concerto.
• Israeliani arrestati Un altro episodio riguarda due soldati dell’IDF che sono stati arrestati e interrogati dalle autorità belghe in seguito a una denuncia presentata dalla Hind Rajab Foundation (HRF), un’organizzazione legale antisraeliana che persegue azioni legali contro i militari israeliani, ha confermato lunedì il Ministero degli Esteri israeliano. Secondo HRF, i ragazzi che stavano prendendo parte al festival musicale Tomorrowland nella città di Boom, in Belgio, sarebbero stati accusati di aver commesso crimini di guerra, ma sono stati rilasciati poco dopo l’indagine. Le Forze di Difesa Israeliane e il Ministero degli Esteri sono in contatto con i due soldati. La denuncia legale è stata presentata da HRF e dal Global Legal Action Network (GLAN). HRF ha affermato che i due individui stavano sventolando al festival le bandiere della Brigata Givati dell’IDF, che secondo loro sarebbe stata “coinvolta nella distruzione sistematica delle infrastrutture civili a Gaza e nel compimento di atrocità di massa contro la popolazione palestinese”. Secondo la ricostruzione del Jerusalem Post, nel complesso l’atmosfera del festival Tomorrowland è stata descritta come amichevole nei confronti degli israeliani. Giovani israeliani si sono filmati mentre sventolavano le loro bandiere, e chiacchieravano con palestinesi che indossavano la kefiah. Israeliani e iraniani presenti a Tomorrowland sono stati fotografati mentre sventolavano insieme la bandiera israeliana e quella iraniana. La sede centrale dell’HRF si trova a Bruxelles, la capitale del Belgio, il che garantisce all’organizzazione un vantaggio nello svolgimento delle proprie attività nel paese.
• La reazione dell’European Jewish Association L’Associazione Ebraica Europea (EJA) esprime profonda preoccupazione per il comportamento delle autorità belghe nei confronti di due partecipanti israeliani a un festival tenutosi in Belgio, che sono stati interrogati da funzionari belgi a seguito di una denuncia secondo cui, in quanto soldati dell’IDF, avrebbero commesso crimini di guerra. Il presidente dell’EJA, il rabbino Menachem Margolin, ha osservato che l’indagine politicamente motivata riflette una bussola morale distorta e sbagliata, poiché i soldati dell’IDF operano nell’ambito dei loro doveri legali di difesa del Paese – doveri paragonabili a quelli di qualsiasi soldato in servizio in una nazione democratica. Nel frattempo, l’individuo che ha presentato la denuncia è noto per il suo sostegno pubblico a Hezbollah, un’organizzazione terroristica responsabile della morte di numerosi civili. “Concedere legittimità a tali attori mina la credibilità delle istituzioni belghe preposte all’applicazione della legge e incoraggia l’estremismo”, ha dichiarato il rabbino Margolin. “Ancora una volta, siamo testimoni di un preoccupante doppio standard. Non vediamo la stessa ansia di avviare indagini quando si tratta di personaggi di regimi come l’Iran, la Turchia o la Cina, o persino di democrazie occidentali coinvolte in conflitti esteri. Perché viene sempre preso di mira Israele?”. Il deputato belga Michael Freilich, che ricopre anche il ruolo di inviato speciale dell’EJA per la lotta all’antisemitismo, ha aggiunto che il Belgio deve rimanere un Paese in cui gli ebrei e gli israeliani si sentano al sicuro e benvenuti, non un luogo in cui vengano perseguitati politicamente con la scusa dei diritti umani.
Senza Israele non ci sarebbe eco. La narrativa palestinese funziona solo all'ombra dello Stato ebraico.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - La verità è scomoda, ma inevitabile: senza lo Stato ebraico di Israele come presunto oppressore, occupante o nemico, il “problema palestinese” non avrebbe quasi alcuna rilevanza a livello internazionale. Non è solo la miseria dei palestinesi ad attirare la compassione globale, è il loro ruolo di avversari di Israele che li rende un “progetto morale” per molti. Se il destino dei palestinesi fosse inserito in un altro contesto geopolitico, ad esempio come minoranza etnica interna in un paese arabo o come gruppo di rifugiati in Africa, sarebbe degno al massimo di una nota a margine.
“Sapete perché noi palestinesi siamo famosi? Perché voi (gli israeliani) siete nostri nemici”, chi è che l'ha detto? Uno dei più importanti poeti nazionali palestinesi, Mahmud Darwish (1941-2008), in una conversazione con una giovane israeliana. "L'interesse per noi deriva dall'interesse per la questione ebraica. Sì, l'interesse è per voi, non per noi. Quindi abbiamo la sfortuna che Israele sia nostro nemico, perché Israele gode di un sostegno illimitato nel mondo. E allo stesso tempo abbiamo anche la fortuna che Israele sia nostro nemico, perché gli ebrei sono al centro dell'interesse mondiale per la questione ebraica. Quindi: voi ci avete sconfitto e ci avete dato la gloria. Ci avete sconfitto e ci avete dato la fama. Perché il mondo è più interessato a voi che a noi. E su questo non ho illusioni».
Mahmoud Darwish è stato una figura centrale della poesia araba moderna e le sue poesie hanno influenzato generazioni di palestinesi. Darwish era più di un poeta: era la voce poetica dei palestinesi. Le sue opere riflettono il dolore per la perdita della patria, la lotta per l'identità, la vita in esilio e, allo stesso tempo, una profonda umanità. Nato nel 1941 ad al-Birwa, in Galilea, fuggì con la sua famiglia in Libano a seguito della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la Nakba (catastrofe) palestinese.
Significativo è il fatto che i palestinesi sono l'unico popolo al mondo per il quale le Nazioni Unite hanno creato un'organizzazione umanitaria esclusiva: l'UNRWA, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi. Tutti gli altri gruppi di rifugiati nel mondo, che si tratti di Rohingya, sudanesi, sfollati interni siriani o rifugiati ucraini, sono assistiti dall'UNHCR, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Solo i palestinesi hanno un'istituzione speciale. Questa posizione speciale non è segno di maggiore bisogno, ma di strumentalizzazione politica.
Mentre milioni di persone in tutto il mondo soffrono in condizioni brutali – in Corea del Nord, Eritrea, Venezuela o nelle zone di guerra civile in Africa – non ricevono né risoluzioni regolari delle Nazioni Unite né dibattiti settimanali nei parlamenti occidentali.
Nessun organo a New York o Ginevra si riunisce regolarmente per discutere dei campi di lavoro forzato in Cina o dell'uccisione dei cristiani in Nigeria. Nessun popolo al mondo gode di un'attenzione così esclusiva come i palestinesi. Basta un posto di blocco israeliano e subito si leva un grido di protesta all'ONU. Un attacco aereo mirato contro i terroristi di Hamas e i ministri degli Esteri occidentali si precipitano davanti ai microfoni come se fosse in corso un genocidio. Mentre i terroristi di Hamas impediscono ai civili nella Striscia di Gaza di accedere agli aiuti umanitari, la rabbia dell'Occidente si scaglia proprio contro Israele, come se fosse lui la causa della fame. Mentre i cristiani in Iraq, i curdi in Siria o gli uiguri in Cina vengono sistematicamente oppressi o assassinati, nel caso dei palestinesi prevale un allarmismo quasi isterico. Quello che per altri è un tragico destino, qui viene dichiarato una priorità della politica mondiale.
Perché? Perché al centro c'è lo Stato ebraico, come ha ammesso lo stesso scrittore palestinese Mahmud Darwish. Israele non solo è al centro dell'attenzione mondiale, ma è anche l'unico Stato liberale e democratico del Medio Oriente in cui, nonostante ciò – o proprio per questo – ogni atto di difesa necessaria viene messo sotto accusa morale. Israele, l'eterodinamico dell'Occidente, è diventato la pietra di paragone del buonismo globale. I palestinesi ne traggono vantaggio.
Traggono vantaggio dal fatto che la loro narrativa si è fusa con la lotta contro il sionismo. Vengono etichettati come “vittime della storia coloniale”, mentre i loro leader politici hanno rifiutato per decenni, sotto la propria responsabilità, ogni opzione realistica di pace e allo stesso tempo hanno dirottato miliardi di aiuti in missili, tunnel e propaganda.
Senza Israele, il destino dei palestinesi sarebbe insignificante per i media. Sarebbero un altro punto dimenticato sulla mappa mondiale della sofferenza. Lo Stato ebraico, loro nemico giurato, è allo stesso tempo il loro più grande amplificatore di risonanza – e sapete una cosa? Forse anche una benedizione. Riconoscere questa verità non significa minimizzare la sofferenza. Significa solo comprendere il palcoscenico politico su cui questa sofferenza viene messa in scena.
(Israel Heute, 22 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L'informazione dell'Occidente ignora i morti israeliani e parla solo di donne e bambini palestinesi, e i jihadisti?
di Marco Del Monte
Dal 7 ottobre 2023 sta andando in scena "il mondo al contrario": in un battibaleno gli aggrediti sono diventati nazisti e aggressori, il tutto aggravato dal fatto che l'aggressore sarebbe Israele, che sta mettendo in atto un genocidio pur avendo patito la Shoah. Con un po' di raziocinio e anche da quello che risulta in documenti ritrovati nei cunicoli di Gaza si capisce che era già stato tutto organizzato e pianificato.
Dati alla mano è chiaro che Israele è una superpotenza locale che dispone di armi nucleari e non si può battere sul campo, perciò la strategia per sconfiggerlo è cambiata radicalmente. Si tratta infatti del diverso valore che gli uni e gli altri danno alla vita umana. Gli ebrei la celebrano ogni settimana e in ogni festa comandata, non ammettono il suicidio e il martìrio volontario, mentre gli islamisti dicono esplicitamente di amare la morte rituale, categoria nella quale si iscrive chi si fa saltare in aria per uccidere il maggior numero possibile di ebrei.
Chi ha prefigurato ed organizzato questa guerra è partito proprio da questa diversa filosofia di vita, tradotta in un algoritmo: il numero di morti israeliani, uccisi nelle maniere più atroci e la presa di ostaggi avrebbero provocato una reazione di Israele dura e sanguinosa, al punto tale da "nauseare" il mondo cosiddetto civile. Il bersaglio è stato centrato in pieno e oggi, con "soli" cinquantamila morti (notare che il numero è fornito da Hamas) Israele viene accusato di genocidio. Ma viene accusato pure di praticare l'apartheid, quando in Israele il Presidente di una corte di giustizia e il Rettore dell'Università di Haifa sono due arabe israeliane. Per quanto riguarda i rapporti con alcune popolazioni locali, i drusi israeliani e anche quelli fuggiti dalla Siria prestano servizio nell'Idf, dove raggiungono anche gradi elevati. In questa guerra sono morti in battaglia anche dei colonnelli drusi. La dimostrazione sta anche nel fatto che in questi giorni Israele ha quasi rinunciato ad intessere relazioni con la nuova Siria, proprio per difendere i drusi, cercando di fermare un conflitto che in pochi giorni ha già fatto più di duecentocinquanta morti, nel silenzio generale, dell'ONU in particolare.
La reazione, subito etichettata come eccessiva, ha provocato un alto numero di vittime; l'informazione nei paesi occidentali ignora completamente i morti israeliani e parla sempre di prevalenza di donne e bambini, come se ci fossero solo questi. Dove siano finiti i jihadisti combattenti, che si mostrano in luccicanti divise solo nei giorni di festa (visto che le indossano solo negli show in favore di telecamere) nessuno lo sa. Il numero dei morti fornito dal ministero della salute di Hamas non fa distinzione tra civili e uomini armati, per cui la confusione è totale e la propaganda gioca proprio su questo. L'argomento è pesante, ma va trattato con razionalità, per avere contezza che l'accusa di genocidio è qualcosa di aberrante e destituita di fondamento. È triste essere costretti a parlare di vite spezzate con la calcolatrice in mano.
Il primo elemento che configura un genocidio non è il numero di morti provocato, ma la volontà di eliminare un'etnia e allora vanno considerati tutti gli elementi in gioco. Molti membri di Hamas (tra cui Yahya Sinwar) e loro famigliari sono stati curati negli ospedali israeliani e Sinwar è stato addirittura operato per un tumore al cervello, cosa che gli ha salvato la vita. Chi avrebbe potuto accusare di omicidio il chirurgo che l'ha operato nel caso fosse morto "sotto i ferri"?
Oltre questi dati di fatto, Israele, come detto, possiede l'arma nucleare e, se avesse veramente voluto lo sterminio dei Gazawi, avrebbe potuto utilizzare soltanto un paio di "bombe sporche" provocando un milione di vittime, senza perdere un solo militare (invece ne sono morti più di ottocento).
I dati, come detto, sono forniti dal Ministero della Salute di Hamas, ma questo fa sorgere un altro dubbio sull'organizzazione della "cosa pubblica" e cioè ci si deve porre la domanda su come mai esista un tale Ministero, ma non si è mai sentito parlare di governo. Dal 2005 a Gaza non c'è un ebreo e non è mai venuto in mente a nessuno che poteva essere proclamato uno Stato sovrano che avrebbe certo evitato la tragedia in atto. Il problema è che per sedici anni Hamas ha governato un'entità allo sbando, con l'unico obiettivo di distruggere Israele costruendo una Gaza multipiano, difficile da localizzare ed espugnare.
Ci hanno messo un bel po’ il Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica, Avvenire, il Sole24Ore, l’Ansa e non si sa più quanti altri ad accorgersi di Yazan: il bambino di due anni penosamente ischeletrito le cui immagini giravano da almeno dieci giorni senza che nessuna di quelle gloriose testate se ne curasse.
Avevano bisogno di quella più artistica e ben confezionata – con gli occhi della mamma verso il vuoto mentre tiene in braccio il piccolo, quell’essere fatto solo di pelle e ossa ed ormai esausto di forza – avevano bisogno di questa icona coreograficamente più efficace per mettere in pagina la sofferenza di Gaza.
E in realtà neppure, perché l’uso porno-doloristico di quell’immagine – adoperata a mani basse e in solerte unanimità da quella stampa così occhiuta sulla fame nella Striscia – non serve a onorare quella sofferenza, ma ad addebitarla alla crudeltà di chi pretesamente la provoca.
Vale a dire Israele, che deliberatamente starebbe attuando il programma di sterminio per fame messo a punto – con qualche inefficacia, pare – sin dal pomeriggio del 7 ottobre 2023.
Di fatto, parecchie fotografie del piccolo Yazan atrocemente smagrito, come dicevo, circolavano da giorni e giorni. L’archivio Getty Images ne ha fatto un florilegio. In una si vede il piccolo con un uomo (il padre?) che lo sostiene per gli omeri e tre fanciulli in salute (i fratelli?) seduti accanto. In un’altra mangia una specie di focaccia.
Ma, appunto, non erano abbastanza evocative – o forse evidenziavano dettagli inopportuni – non erano abbastanza efficaci da meritare l’attenzione invece dedicata all’immagine di cui faceva abuso domenica scorsa quel consorzio giornalistico.
L’esigenza che si trattasse di fame, e di fame prodotta deliberatamente dallo Stato genocidiario, ha fatto accantonare qualsiasi interrogativo sulla mancanza di una diagnosi medica che attribuisse a quella causa – cioè la mancanza di cibo – l’orribile dimagrimento del bambino, che inopinatamente non affligge i familiari.
Che possa trattarsi di una patologia è ipotesi che non renderebbe meno atroce la condizione di sofferenza di quel bambino, ma renderebbe la sua storia meno suadente, e sostanzialmente inservibile al fine desiderato. Una storia che non è raccontata per proteggerlo e tentare di salvarlo, ma per essere sbattuta in faccia all’opinione pubblica affamata di genocidio.
Questa è la verità di quella fotografia. Questa è la verità dell’uso osceno che se ne è fatto.
I mercati scommettono su Israele nonostante la guerra
A quasi due anni dall’inizio del conflitto con Hamas, e dopo un’escalation culminata in uno scontro diretto con l’Iran, l’economia israeliana continua a sorprendere per solidità e capacità di attrarre capitali. «Un’anomalia» nel panorama globale, l’ha definita sul Financial Times Ruchir Sharma, presidente di Rockefeller International. «Dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 il mercato azionario che ha avuto la performance migliore al mondo è stato… Israele», ha scritto Sharma, sottolineando lo stupore per un dato in netto contrasto con lo scenario bellico. Dopo un calo iniziale, l’indice della Borsa di Tel Aviv si è ripreso completamente in appena quattro settimane, segnando da allora un balzo dell’80%. Anche con l’apertura del fronte iraniano, i mercati hanno continuato a puntare sullo stato ebraico, «ritenendo che il conflitto sarebbe finito presto, con Israele vincente sia sul piano militare che economico».
La fiducia non nasce solo dai numeri della Borsa, ma da un percorso economico lungo decenni. Israele, ricorda Sharma, è «uno dei pochi paesi a essere passato da economia in via di sviluppo a economia avanzata», l’unico in Medio Oriente classificato come sviluppato sia dal Fondo monetario internazionale sia dall’indice globale MSCI. Una transizione resa possibile da riforme strutturali iniziate negli anni Ottanta, con la riduzione della spesa pubblica dal 50 al 40% del Pil e un contenimento del debito sotto il 70%.
Decisivo, in questo processo, è stato l’investimento in tecnologia. Israele destina oggi oltre il 6% del Pil alla ricerca e sviluppo – più di qualsiasi altro paese al mondo e più del doppio della media globale – e circa la metà di questi fondi arriva da multinazionali straniere. «Il loro lavoro ha creato l’Iron Dome e la rete di razzi intercettori», scrive Sharma, «che hanno distrutto più dell’85% dei missili e una quota ancora maggiore dei droni lanciati contro Israele nei recenti conflitti».
Le ricadute tecnologiche del comparto difesa hanno contribuito a fare di Israele un protagonista globale nella cybersicurezza e nell’innovazione. Il paese conta 73 start-up attive nell’intelligenza artificiale generativa, il terzo numero più alto al mondo, e circa il 50% delle sue esportazioni è costituito da prodotti e servizi hi-tech. Una struttura produttiva, osserva Sharma, «più simile a quella della California che a quella del Medio Oriente».
Più cauto il giudizio dell’economista Howard Rosen, che in un’analisi sul Times of Israel mette in guardia sui rischi legati all’aumento della spesa pubblica in tempo di guerra. Tra il 2023 e il 2025, la spesa per la difesa ha già superato i 100 miliardi di shekel (24,5 miliardi di euro), mentre quella civile, tra ricostruzione e assistenza ai feriti, potrebbe far salire la spesa complessiva al 38% del Pil. «Il deficit potrebbe toccare il 14,5% e il debito superare il 66%», scrive Rosen, «con il rischio di una spirale come quella degli anni ’80». Secondo lui, la fiducia dei mercati non basta: servono riforme per contenere le uscite e tutelare i servizi essenziali. «Senza una gestione oculata della spesa pubblica e senza riforme, il miracolo rischia di diventare una trappola».
D’altro lato, il governo di Gerusalemme guarda con favore alla fiducia degli investitori. A maggio 2025, riporta Ynet, la Banca d’Israele ha segnalato un aumento record degli investimenti esteri. «I rischi per il nostro paese stanno diminuendo», ha dichiarato Avi Hasson, responsabile di un’organizzazione che promuove il settore tech israeliano. Grazie ai colpi inferti a Hezbollah e all’Iran, lo stato ebraico, aggiunge, «ha rafforzato la propria posizione».
Quanto sono reali gli accordi di pace in Medio Oriente?
Termini come “accordo di pace” o “normalizzazione” riflettono una mentalità occidentale che però non corrisponde alle realtà politiche e culturali di un contesto arabo.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Nella nostra regione, gli accordi sono considerati dall'altra parte come uno strumento temporaneo, sempre basato sul potere, sull'onore e sugli interessi. Le concessioni sono interpretate come una debolezza. Israele non dovrebbe farsi illusioni al riguardo e non dovrebbe contare sul fatto che gli accordi siano considerati vincolanti in modo permanente anche dalla controparte. È invece fondamentale agire con forza, anche attraverso un'efficace deterrenza.
Nei media occidentali, compresi quelli israeliani, i termini normalizzazione e accordo di pace sono spesso usati come sinonimi. Ma sono davvero una via verso la pace in Medio Oriente? Non rivelano piuttosto la fondamentale incomprensione dell'Occidente nei confronti della cultura araba?
Gli accordi di pace sono un costrutto occidentale che non è necessariamente in armonia con il mondo arabo. Sin dall'epoca coloniale, l'Occidente ha cercato di imporre al resto del mondo il concetto di Stato nazionale con le sue norme politiche. Tuttavia, le lealtà tribali e le leggi nomadi che caratterizzano questa regione da secoli non hanno potuto essere spezzate.
• Concetti islamici Nella tradizione islamica esistono diversi concetti che spesso vengono erroneamente equiparati al concetto occidentale di pace.
Sulh – trattato di pace: si tratta di un accordo in cui è possibile che vi sia una riserva segreta. Un esempio è il trattato di Hudaybiyya, che Maometto poi violò.
Hudna – tregua: Questa misura tattica viene adottata per guadagnare tempo necessario per rafforzarsi.
Taqiyya – Paura, cautela, inganno: si nascondono le proprie vere intenzioni adattandosi temporaneamente.
L'uso moderno del termine normalizzazione, in arabo “Tatbi'a”, è respinto nel mondo arabo, in particolare in relazione a Israele. Anche in Egitto e Giordania, che hanno accordi di pace ufficiali con Israele, quest'ultimo è ancora considerato un nemico in molti luoghi. Nel corso della guerra “Spade di ferro” e degli sviluppi in Giudea, Samaria e nella Striscia di Gaza, le richieste di annullamento di questi accordi sono diventate sempre più forti.
Gli accordi di pace in Medio Oriente sono quindi un'illusione? Il concetto occidentale di pace stabile e duratura non ha alcun fondamento nella regione, non perché Israele non voglia la pace, ma perché l'Islam non conosce un vero accordo di pace con i “miscredenti”. Lo studioso di Islam Prof. Moshe Sharon lo spiega così: “Nell'Islam non esiste il concetto di pace con i non musulmani. La pace può esistere solo all'interno della comunità islamica. Una pace duratura con i non musulmani è impossibile, perché significherebbe rinunciare al principio della jihad e al dovere di conquista”.
Anche tra gli Stati arabi musulmani non esistono accordi di pace nel senso occidentale del termine. Non c'è alcun “accordo di pace” tra l'Egitto e la Libia dopo la guerra del 1977. Non esiste alcun accordo di pace tra l'Iran e l'Iraq, né tra il Kuwait e l'Iraq. Non c'è alcun trattato di pace tra la Giordania e la Siria, anche se entrambi i paesi, dopo decenni di relazioni complesse, sono stati spesso sull'orlo della guerra.
• Pace adesso? Israele deve essere cauto. Slogan come “pace adesso” possono essere popolari in Occidente, ma in Medio Oriente sono solo un segno di debolezza e ingenuità. Chi vuole imporre la pace, come un tempo le potenze coloniali volevano imporre i confini politici, è destinato a fallire. Un accordo di pace con l'Arabia Saudita legato alla creazione di uno Stato palestinese non solo è irrealistico, ma anche pericoloso. Israele non ha bisogno di un accordo ufficiale con Riad, ma dovrebbe piuttosto puntare su una cooperazione silenziosa e pragmatica basata sul rispetto reciproco, sugli interessi comuni e sulla deterrenza.
L'Arabia Saudita, uno Stato governato dalla sharia, che pratica le esecuzioni pubbliche, discrimina le donne e nega l'accesso ai luoghi sacri ai non musulmani, non è comunque una destinazione turistica per i turisti israeliani. Perché Israele dovrebbe fare concessioni per raggiungere un accordo che non durerà a lungo?
Israele deve tenere conto delle realtà della regione e smettere di proiettare concetti occidentali di pace sul Medio Oriente. Solo un Israele forte, unito e determinato può affermare il proprio posto nella regione. Non deve segnalare alcuna disponibilità a «compromessi dolorosi a qualsiasi prezzo», perché proprio questo invita a ulteriori ricatti e ostilità.
Il mondo arabo rispetterà Israele solo quando capirà che non può sconfiggerlo. In questa regione l'onore ha più peso di qualsiasi trattato scritto.
Già secoli fa lo scrittore romano Vegezio lo esprimeva in modo appropriato: "Chi vuole la pace, prepari la guerra. Chi vuole la vittoria, non tema l'addestramento duro dei suoi soldati. Chi vuole il successo, combatte le sue guerre con strategia, senza affidarsi al caso. Nessuno osa minacciare un avversario la cui superiorità militare è indiscussa".
Israele dovrebbe imparare dal passato ed evitare gli errori della politica occidentale, perché la vera sicurezza in Medio Oriente non è garantita dagli accordi di pace, ma dalla forza, dalla deterrenza e da una profonda comprensione delle realtà della regione.
(Israel Heute, 21 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La squadra israeliana alle Olimpiadi di matematica 2025
La squadra israeliana di matematica ha appena ottenuto il miglior risultato della sua storia alle Olimpiadi internazionali di matematica, che si sono svolte quest'anno in Australia. Per la prima volta da quando il Paese partecipa a questa competizione nel 1979, tutti e sei i partecipanti hanno vinto una medaglia.
Il bilancio è eccezionale: quattro medaglie d'oro, una d'argento e una di bronzo. Questo risultato colloca Israele al sesto posto su 110 paesi partecipanti, con 639 concorrenti provenienti da tutto il mondo. Si tratta della 66ª edizione di questa prestigiosa competizione creata nel 1959.
I medagliati d'oro sono Raz Dvora (quarto anno, liceo Shalit di Rehovot), Itan Greinzeid (quarto anno, liceo Ahad Ha'am di Petah Tikva), Shahar Blumentsvayg (terzo anno, liceo Atid Lamadaim di Lod) e Yotam Bodnik (terzo anno, liceo Shalit di Rehovot). Nadav Dan Tamari (quarto anno, liceo Ohel Shem di Ramat Gan) ha ottenuto l'argento, mentre Ariel Doron (quarto anno, Kfar Hayarok di Ramat Hasharon) ha conquistato il bronzo.
Il ministro dell'Istruzione Yoav Kisch si è congratulato per questi risultati: “In una settimana, gli studenti israeliani ricordano al mondo ciò che è possibile quando un sistema educativo crede nell'eccellenza e agisce con costanza per coltivarla”. Ha sottolineato che, dopo il successo in chimica, la squadra di matematica ha stabilito “un nuovo standard con quattro medaglie d'oro e una classifica senza precedenti”.
Questo successo è il risultato della collaborazione tra il Ministero dell'Istruzione, il Centro dei Scienziati del Domani della Fondazione Maimonide e l'Istituto Weizmann. La squadra è stata preparata sotto la direzione del dottor Dmitri Novikov e dell'allenatore principale Lev Radzivilovsky, affiancati dal dottor Dan Carmon e dal suo team tecnico.
Yoram Ariav, presidente del Centro per gli scienziati del futuro, lo considera “un risultato storico e stimolante che pone Israele all'avanguardia delle nazioni mondiali”. Il professor Alon Chen, presidente dell'Istituto Weizmann, sottolinea che questi risultati testimoniano “l'enorme potenziale della giovane generazione israeliana” e costituiscono “molto più che medaglie: una pietra miliare verso il futuro”.
La stagione olimpica proseguirà prossimamente con le competizioni internazionali di fisica e biologia.
EasyJet estende la sospensione dei voli da e per Israele fino al marzo 2026
I portavoce dell’azienda avevano precedentemente annunciato che tutte le rotte da e per Tel Aviv sarebbero state ripristinate alla fine di ottobre 2025 ma una nuova decisione interna ha prolungato la sospensione fino al 28 marzo 2026. Le altre compagnie che hanno prolungato la sospensione sono: Delta e Air India fino al 31 agosto; British Airways e Ryanair fino al 25 ottobre e KLM fino a nuovo avviso.
di Pietro Baragiola
Martedì 15 luglio la nota compagnia aerea EasyJet ha annunciato ufficialmente che non riprenderà i voli verso Israele prima del prossimo anno. I portavoce dell’azienda avevano precedentemente annunciato che tutte le rotte da e per Tel Aviv sarebbero state ripristinate alla fine di ottobre 2025 ma una nuova decisione interna ha prolungato la sospensione fino al 28 marzo 2026.
Lo spazio aereo israeliano è stato chiuso il 13 giugno con lo scoppio della guerra con l’Iran lasciando così decine di migliaia di Israeliani bloccati all’estero. Le linee sono state ripristinate solo 12 giorni dopo con la fine dei combattimenti raggiunta grazie ad un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti.
Eppure, nonostante l’Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza aerea (EASA) abbia revocato l’avviso che raccomandava ai piloti di evitare i cieli sopra Israele e molte compagnie abbiano ripreso i voli verso Tel Aviv, EasyJet non è tra quelle.
Ci scusiamo per gli eventuali disagi causati e rimaniamo impegnati a riprendere i voli da e per Tel Aviv a partire dall’anno venturo” ha affermato la compagnia aerea nella dichiarazione rilasciata via email ai suoi clienti.
• I voli rinviati EasyJet però non è l’unica ad aver rinviato i propri voli verso Israele e in molti hanno seguito il suo esempio. Tra le numerose compagnie che hanno rinviato i propri voli per motivi di sicurezza vi sono: l’americana Delta e Air India che hanno esteso la sospensione fino al 31 agosto; British Airways e Ryanair fino al 25 ottobre e l’olandese KLM che ha sospeso tutti i voli da e per l’aeroporto di Ben Gurion fino a nuovo avviso motivando con “la situazione di sicurezza in corso”.
Molte altre compagnie aeree, invece, hanno già ripreso i loro voli verso Israele come: la francese Air France, la greca Aegean Airlines e la spagnola Air Europa.
Anche il gruppo Lufthansa (che comprende Lufthansa, SWISS, Austrian Airlines, Brussels Airlines ed Eurowings) intende riaprire le rotte il 1° agosto mentre l’americana United Airlines riprenderà i voli da New York a Tel Aviv a partire dal 21 luglio, 10 giorni prima del previsto.
• L’espansione del Ben Gurion Per far fronte all’aumento del traffico di passeggeri previsti nei prossimi mesi, il governo israeliano ha preparato nuovi progetti per l’aeroporto di Ben Gurion. All’inizio di questa settimana, la Ministra dei trasporti Miri Regev insieme all’Autorità Aeroportuale Israeliana ha annunciato il lancio di piani di espansione di Ben Gurion in modo da “affrontare le sfide in materia di sicurezza e operatività”.
Nel mese di luglio sono attesi circa 1,5 milioni di passeggeri e 1,9 milioni in agosto. Questo traffico è ancora ben inferiore ai 2,5 milioni e ai 2,8 milioni registrati nell’estate 2023, prima dello scoppio del conflitto con Hamas, ma rimane comunque un aumento notevole rispetto alla situazione attuale.
A partire dal 3 agosto, Ben Gurion riaprirà il Terminal 1 utilizzato principalmente dalle compagnie aeree low cost per i voli internazionali e dalle compagnie aeree israeliane come la EL AL, Arkia, Israir e la Georgian Airways.
Il 14 agosto, invece, aprirà un nuovo terminal di sicurezza e check-in all’avanguardia nel Terminal 3, il principale terminal internazionale dell’aeroporto, che si estenderà su una superficie di 3,900 metri quadrati. Costruita con un investimento di 50 milioni di NIS (14,9 milioni di dollari), la nuova area comprenderà 22 banchi check-in e sistemi avanzati di controllo di sicurezza e smistamento bagagli.
Solo nel mese di agosto sono previsti circa 500 voli internazionali in questo terminal.
“Siamo lavorando duramente per riportare le compagnie aeree in Israele e, allo stesso tempo, stiamo mettendo all’opera progetti che consentiranno all’aeroporto Ben Gurion di accogliere un maggior numero di passeggeri, mantenendo un elevato livello di servizio” ha dichiarato il direttore generale del Ministero dei Trasporti Moshe Ben Zaken. “Questa è l’infrastruttura di cui Israele ha bisogno per gli anni a venire”.
• Notizie significative (e non) Come in tutte le guerre, anche in quella di Gaza la maggior parte del tempo passa in movimenti di truppe, piccoli scontri, incidenti minori, senza che vi siano cambiamenti decisivi, quelli che per il giornalismo sono notizie. Così è andata anche l’ultima settimana. Grande attenzione mediatica è stata dedicata ai danni (fra cui purtroppo a quanto sembra tre morti) provocati a una chiesa di Gaza dai detriti di un colpo imperfetto di un carro armato israeliano. La chiesa non è stata colpita direttamente né distrutta, l’attività liturgica continua. Il colpo ha fatto cadere un pezzo del frontone, che involontariamente e sfortunatamente è finito su alcuni fedeli. Tutt’altra cosa dall’assalto con le bombe da parte di islamisti a una chiesa di Damasco che fece 27 morti il 22 giugno o dalle stragi che i gruppi armati dell’Isis compiono quotidianamente ai danni dei cristiani in Africa centrale, un vero e proprio genocidio programmato. Ma si sa, “no Jews no news”, se non si possono incolpare gli ebrei la notizia non è interessante.
• A Gaza l’avanzata continua Resta il fatto che a Gaza le cose procedono lentamente, anche se con costanza. L’esercito israeliano conquista terreno secondo la nuova strategia di occupazione (ormai è al 65%) e continua a eliminare i capi che individua; i terroristi di Hamas non hanno la forza di sostenere battaglie ma tentano aggressivamente di tendere agguati ai soldati e ogni tanto purtroppo riescono a colpirli; la Gaza Humanitarian Foundation prosegue nel distribuire soccorsi alimentari alla popolazione (milioni di pasti al giorno) con l’appoggio di Israele e soprattutto sottraendo gli aiuti al pizzo di Hamas, nonostante i tentativi dei terroristi di creare disordini e impedire alla popolazione di ricevere i soccorsi.
• Perché la guerra non finisce Ormai insomma è evidente che Israele ha vinto anche questa battaglia. Perché dunque non finisce questa guerra, come tutti, gli israeliani prima di chiunque altro, vorrebbero? La ragione è che perché una guerra finisca bisogna che gli sconfitti depongano le armi e Hamas non è disposto a farlo, preferisce continuare a insidiare l’esercito israeliano con la guerriglia, anche se paga un costo notevole in termini di combattenti uccisi e ne fa pagare uno anche più grave agli abitanti di Gaza. Perché non si arrende, anche se ha ricevuto offerte informali assai generose (esilio e non morte per i capi, amnistia per i combattenti che si consegneranno)? Perché questa ostinazione continua anche dopo che i maggiori capi dei terroristi sono stati eliminati, testimoniando di una volontà diffusa in tutto il gruppo? Una ragione è la cultura islamica dell’“onore” che lo impedisce. Un’altra è l’idea maoista che una guerriglia che perde le battaglie contro un esercito superiore ma non si scioglie, in realtà sta vincendo. E poi c’è la questione dei rapiti. Finché potrà ricattare la società israeliana con coloro che ha sequestrato, Hamas ritiene di avere le carte per sopravvivere. Il fatto è che chi è lucido in Israele, a partire da Netanyahu ma inclusi anche settori importanti dell’opposizione, sa benissimo di non poter permettere una fine della guerra che permetta la continuità di Hamas al governo di Gaza, perché questo non solo vorrebbe dire sprecare i sacrifici fatti finora, ma far sì che nel giro di qualche anno i terroristi siano di nuovo in grado di assaltare Israele quando lo riterranno più opportuno, con la certezza di altre stragi e un’altra guerra, probabilmente ancora più difficile di quella in corso. E questa sarebbe un incoraggiamento non solo per Hamas, ma per tutti coloro che odiano lo Stato ebraico. Israele non può permetterselo. Le trattative dunque e anche le eventuali tregue sono soprattutto mosse di relazioni pubbliche, che non possono interrompere davvero il braccio di ferro in corso.
• Siria Durante la settimana appena trascorsa vi sono stati altri episodi significativi al di fuori di Gaza. Uno è il problema dei curdi in Siria, che Israele sta cercando di aiutare possibilmente senza farsi coinvolgere in una guerra sul terreno. Le ragioni dell’aiuto sono la fraternità coi drusi molto importante anche all’interno di Israele e la necessità di impedire che si solidifichi al confine del Golan una zona di guerriglia come quella del Libano meridionale. La situazione è resa complicata dal fatto che il presidente autonominato della Siria, Al Jolani (un nome che allude al Golan…) gioca due parti in questa storia. Da un lato è in ultima istanza lui il capo delle truppe sunnite e beduine che hanno devastato con violenza criminale nei mesi scorsi le terre alawuite e ora vogliono fare lo stesso con i drusi; dall’altro si atteggia a capo di stato che vuole ristabilire la legge in Siria e in quanto tale è stato assai troppo facilmente accreditato dalla diplomazia internazionale, fino a incontrare Macron e Trump, che ora premono su Netanyahu. Il risultato è un meccanismo di tira-e-molla fra tregue e combattimenti, che rischia di lasciar sterminare i drusi o di obbligare Israele all’intervento.
• Governo in crisi Un secondo tema caldo è la crisi del governo israeliano. Con varie formule e in varia misura i partiti “charedim” hanno dichiarato di voler uscire dal governo e forse dalla maggioranza. La ragione è che reclamano una legge che confermi l’esenzione dalla leva degli studenti talmudici. È una condizione che fu decisa da Ben Gurion alla fondazione dello stato e confermata dai governi di tutti gli schieramenti politici. La corte suprema ha però obiettato che essa manca di base giuridica e c’è una forte corrente di opinione pubblica, anche fra i sostenitori della maggioranza di governo, che vorrebbe che tutti i ragazzi charedim, non solo i volontari che ci sono, condividessero i rischi e il costo della guerra. Negli accordi di fondazione del governo (prima della guerra) la legge per l’esenzione almeno parziale era prevista. I partiti charedim ora la pretendono, parte del Likud e dei sionisti religiosi non vogliono concederla. Se Netanyahu non riuscirà a trovare una mediazione, il governo cadrà. Ma questo può avvenire solo quando il parlamento è in sessione e ormai manca solo una settimana alla pausa estiva che durerà fino a dopo le feste ebraiche, alla fine di ottobre. La questione è dunque rimandata, ma non sciolta. Potrebbe portare a elezioni fra gennaio e febbraio dell’anno prossimo. Ma il parlamento scade comunque in autunno del 2026 e ormai il clima elettorale incombe. Nel frattempo chissà quante svolte e sorprese ci attendono, magari anche lo sbando definitivo di Hamas e la pace.
Accento romano e piatti italiani: il segreto di Pakino e di Rafter Chef
Fino a una decina di anni fa la vita di Raffaele Terracina, romano di Trastevere, classe 1966, si divideva tra il settore dell’abbigliamento e l’attività di scenografo e coreografo. Poi la svolta. Nel 2016, insieme alla moglie, Lidia Calò, direttrice del Dipartimento educativo della Comunità ebraica, decide di fare l’aliyah. «D’altronde è quello che avevano già fatto, uno dopo l’altro, i nostri tre figli Sarah, Michal e Samuel», racconta. «Li abbiamo educati allo stesso modo in cui siamo stati formati noi, con il medesimo percorso: scuola ebraica, Hashomer Hatzair, una forte impronta sionista». E così Israele è stato «un approdo abbastanza inevitabile, anche se reinventarsi a 50 anni è stato arduo».
Terracina risponde da Gerusalemme, dove sei anni fa ha aperto Pakino: due pizzerie che sono anche bistrot, un pezzo di Belpaese nel cuore della capitale d’Israele. Tutto, spiega, è nato un po’ per caso. Nei suoi primi mesi israeliani, mentre studiava in un corso (ulpan) per migliorare la conoscenza dell’ebraico, ha avuto l’opportunità di lavorare in una pizzeria nel quartiere Rechavia.
Era stata una delle figlie a suggerirglielo, perché «niente meglio della pratica per prendere confidenza con la lingua». L’intuizione è stata giusta e nuove strade si sono aperte. «Come si dice, da cosa è nata cosa. Mi sono appassionato al mestiere, ho trovato un socio in Alberto Moscati, un romano come me, ed è nato Pakino».
I locali sono al momento due, entrambi a Gerusalemme, anche se c’è l’ambizione di aprire in futuro anche a Tel Aviv e Netanya. «Servono braccia, ma sono ottimista», sottolinea Raffaele, conosciuto in città anche come Rafter Chef. Terracina è un entusiasta: «Finché c’è il divertimento, finché c’è la passione, tutto gira di conseguenza». Nel menù di Pakino, oltre alla pizza, «ci sono tanti piatti di pasta tipici della tradizione italiana, tutti fatti a mano, come le fettuccine alla puttanesca; e poi il supplì alla romana, rigorosamente con l’alloro; e le melanzane alla parmigiana, che vanno a ruba; gli israeliani sono pazzi per la cucina italiana, anche se non tutti i miei colleghi in Israele sembrano rispettarne l’autenticità: c’è ad esempio chi la cacio e pepe la fa con il parmigiano. Inconcepibile».
Poi i dolci, un must quelli tipici della tradizione ebraico-romana. «I dolci di piazza Giudia», sospira Terracina, cui Roma (e la Roma) «un po’ mancano, a volte». L’ultima sua collaborazione in ambito cinematografico risale al 2016, per il remake del kolossal Ben Hur, girato in parte a Cinecittà. Per il piccolo schermo invece ha allestito alcune scene della fiction Rai Un medico in famiglia. Ma quello è il passato. Il presente è Israele, «una vita appagante, ricca di stimoli».
Finite le scuole superiori, Terracina “scoprì” il paese insieme ad altri ragazzi dell’Hashomer prestando servizio nel kibbutz Sasa, in Alta Galilea, al confine con il Libano. «Però mentre loro rimasero per un periodo più lungo, io dovetti tornare poco dopo in Italia per via della chiamata al servizio militare».
Uno dei prossimi progetti in cantiere è la creazione di un canale YouTube di cucina italiana, affiancato da una pagina Instagram. «Sarà in italiano ed ebraico insieme, un ebraico un po’ imperfetto quale è il mio. Agli israeliani, ho scoperto vivendo qui, piace moltissimo la nostra pronuncia». Intanto, a gennaio, a Tel Aviv, Rafter Chef e il suo socio hanno illustrato la loro attività a una delegazione dell’Accademia Italiana della Cucina, fondata nel 1953 da Orio Vergani. Un viaggio nei sapori della gioventù di entrambi tra baccalà fritto, pasta e ceci, concia e panzerotti. a.s.
Perché Dio ha creato il mondo? - 8Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Gli strani racconti del libro della Genesi Poi Giuseppe morì, in età di centodieci anni; e fu imbalsamato e posto in una bara in Egitto (Genesi 50:26). Con queste parole termina il primo libro della Bibbia.
Essendo posto all’inizio di quella che ebrei e cristiani considerano rivelazione di Dio, è lecito chiedersi dov’è la sua importanza. Se si esclude che sia pura favola, oppure semplice “mito fondativo”, come anche molti ebrei credono, e si ritiene invece che sia resoconto di fatti realmente avvenuti e riportati in modo adatto sotto il controllo di Dio stesso, qualcuno si potrebbe chiedere qual è l’interesse di venire a conoscere i complicati rapporti e gli strani avvenimenti di una tribù familiare di beduini mediorientali di millenni fa. Un ebreo non vi trova agganci diretti con precise indicazioni della Torà; un cristiano non vi trova particolari spunti esortativi per la sua vita spirituale. Al contrario, oltre alla stranezza dei costumi usuali di quel tempo, con quelle intricate vicende di poligamia e concubinaggio che mettono in imbarazzo i lettori di oggi, anche in fatto di moralità universalmente accettata non si può proprio dire che i personaggi di quella storia avessero un comportamento esemplare.
Partiamo dal capostipite Abramo. Dopo aver ricevuto direttamente da Dio una solenne investitura, con la promessa di fare di lui una grande nazione, e di rendere grande il suo nome, e di benedirlo, e di farlo essere fonte di benedizione per tutte le famiglie della terra, ci saremmo aspettati da lui un inizio di carriera che desse un segnale di nobiltà e grandezza d’animo. Abramo invece si comporta da normalissimo uomo di buon senso pratico.
In Canaan arriva la carestia, e se continua così - pensa Abramo - si rischia di morire di fame. Da uomo pratico cerca una soluzione e la trova: trasloca in Egitto per soggiornarvi (Genesi 12:10), dunque per rimanerci in forma stabile. Ma non aveva detto il Signore che a lui e alla sua progenie avrebbe dato il paese di Canaan? Dunque era Canaan la terra che gli era stata promessa, non l’Egitto. Abramo certamente lo sapeva, ma in mancanza di precise indicazioni in merito, prende la decisione che gli sembra in quel momento più adatta ai suoi interessi familiari: va dove si può non morire di fame. Abramo aveva già costruito due altari in onore dell’Eterno : uno a Sichem e uno a Betel, ma bisogna pur vivere. E in Egitto si sopravvive, in Canaan invece no.
Abramo dunque scende in Egitto. Una volta arrivati, si rende conto che per sopravvivere non basta non morire di fame, bisogna anche non morire uccisi. Ed è quello che potrebbe capitargli a causa della moglie Sarai, che è straordinariamente bella. Gli abitanti del luogo se ne sarebbero certamente accorti, e allora, per impadronirsene, il modo più semplice per loro poteva essere, secondo i costumi del luogo, quello di uccidere il marito. Cioè lui, Abramo. Decide allora di far dire alla moglie che lui è suo fratello, dunque di sua proprietà, sotto la sua custodia; in questo modo gli eventuali pretendenti della “sorella” avrebbero dovuto contrattare con lui il prezzo della cessione. La trattativa avrebbe potuto essere tirata in lungo, a tempo indefinito, cercando nel frattempo una soluzione.
Per sua sventura però accade che su Sarai mettono gli occhi anche i notabili del Faraone, probabilmente attraverso uomini sguinzagliati alla ricerca di belle donne da aggiungere all’harem. E con le autorità non si contratta: bisogna ubbidire e basta. Abramo deve cedere Sarai al Faraone, che è talmente contento di questa new entry nel suo harem da ricolmare Abramo di “pecore, buoi, asini, servi, serve, asine e cammelli” (Genesi 12:15-16).
A questo punto bisogna spostare l’attenzione su Dio. Abramo si era messo nei guai, costringendo così il Signore a entrare direttamente in scena. Il suo intervento non è pedagogicamente rivolto ad Abramo, ma politicamente rivolto al Faraone: gli fa capire che Sarai è la moglie di Abramo con un metodo efficace: lo colpisce con una tale quantità di piaghe da convincerlo a restituire subito Sarai al marito. Dopo di che, come per liberarsi di uno scomodo intruso, il Faraone spinge Abramo fuori dall’Egitto, lasciandogli anche tutti i beni che gli aveva donato in cambio di Sarai. Così Abramo, che era venuto in Egitto per soggiornarvi, è “ripescato” dal Signore e riportato “in patria” insieme a sua moglie.
La cosa si ripete, in forma moralmente ancora più grave, con Abimelec, re di Gherar (Genesi 20: 1-18). Questa volta è lo stesso Abraamo (nuovo nome datogli da Dio) a mentire dicendo a tutti che Sara (nuovo nome datole da Dio) è sua sorella. Così quando il re manda a prenderla, Dio deve immediatamente intervenire. E lo fa con decisione: rende sterili tutte le donne della casa di Abimelec e costringe il re sotto minaccia a restituire Sara ad Abraamo “perché è profeta”, dice il Signore. E poiché è profeta, sarà proprio Abraamo, il mentitore, a ricevere l’incarico di pregare Dio per la guarigione della casa reale.
Quale generico insegnamento morale si potrebbe trarre da episodi come questi? Si potrebbe trarne forse l’esortazione a non dire bugie, e sottolineare che ci possono essere conseguenze sgradevoli. Ma Abraamo, che è l’uomo scelto da Dio per benedire le genti, non avrebbe dovuto essere lui a dire a tutti, e in modo particolare alle autorità di governo, che non si deve mentire? Avviene invece il contrario: è il re pagano che chiama da parte il profeta e gli fa una bella ramanzina:
“Poi Abimelec chiamò Abraamo e gli disse: “Che ci hai fatto? E in cosa ti ho io offeso, che tu abbia fatto venire su di me e sul mio regno un peccato così grande? Tu mi hai fatto cose che non si devono fare. Poi Abimelec disse ancora ad Abraamo: “A che miravi, facendo questo?” (Genesi 20:9-10).
“Tu mi hai fatto cose che non si devono fare”, dice il re pagano, mostrando così di avere una concezione morale dei rapporti tra uomini più alta di quella di Abraamo. Quasi umoristica appare la risposta:
“E Abraamo rispose: “L'ho fatto, perché dicevo fra me: 'Certo, in questo luogo non c'è timore di Dio; e mi uccideranno a causa di mia moglie'“ (Genesi 20:11).
Si può immaginare il commento derisorio di qualcuno: il prescelto da Dio riceve una lezione di morale da chi era considerato privo di timor di Dio. Ma la cosa più sconcertante è proprio l’atteggiamento di Dio, che non punisce il mentitore, ma anzi lo innalza agli occhi di chi crede alla sua menzogna, il quale viene punito per averci creduto e averne voluto trarre un “onesto” vantaggio personale.
Ho detto “sconcertante”, ma appare così soltanto a chi cerca nella totalità del testo biblico quello che non c’è e non sa vedere quello che c’è.
• Quello che non c’è
Nel libro della Genesi manca del tutto la componente dell’istruzione morale, sia per i personaggi dei racconti, sia per i lettori del testo. In termini colti, è assente la categoria teologica della legge, sia in senso ebraico, sia in senso cristiano. Non c’è un Dio che parla affinché gli uomini ubbidiscano; c’è un Dio che parla agli uomini affinché dei fatti avvengano. E in questi fatti sono coinvolti uomini normali che vivono nel loro stato di umana carnalità, ma che Dio non rimprovera, né minaccia, né tanto meno punisce. Dio li ha scelti come strumenti per il suo servizio, e sapeva bene di che pasta sono fatti. E l’ha messo in conto. Sta proprio in questo l’abilità bellica del Signore: portare avanti un’azione di recupero del creato servendosi di uomini che sono ancora sotto il dominio del Nemico, ma ai quali Egli fa arrivare la sua parola con l’indicazione delle mosse da fare per portare avanti la guerra. Appare in visione o rivolge la parola ai patriarchi e a Mosè, ma sono istruzioni di lavoro per il proseguimento dell’opera, non ordinamenti sociali o precetti morali di comportamento personale: da questi capitoli infatti non si potrebbe trarre nessuna universale regola di condotta valida per tutti i tempi e tutti gli uomini. Gli ebrei direbbero che questa non è halachah (normativa religiosa), ma pura haggadah (racconto).
Vana sarebbe dunque la ricerca di esempi halachici, o spiritualmente edificanti, in senso sia positivo che negativo. I personaggi che compaiono nei coloriti racconti del libro sfuggono all’inquadramento in precise categorie morali. Accade così che spesso personaggi storicamente trasmessi come “buoni” risultano a chi legge meno simpatici di quelli cattivi, come nel caso di Giacobbe rispetto a Esaù, che appare essere un tipo gagliardo, esperto nella caccia, buona forchetta e anche generoso, non vendicativo: dunque certamente più simpatico di Giacobbe sul piano umano. E’ imbarazzante, per esempio, la scena della riconciliazione tra i due fratelli (Genesi 32:1-21): Giacobbe vi fa una pessima figura.
Anche nel racconto di Abele e Caino, non è facile mettersi subito dalla parte del personaggio “buono”. Viene in mente un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli, in cui un popolano della Roma ottocentesca esprime comprensione per il povero Caino:
Nun difenno Caino io, sor dottore, ché lo so ppiú dde voi chi ffu Ccaino: dico pe ddí che cquarche vvorta er vino pò accecà l’omo e sbarattajje er core.
Capisch’io puro che agguantà un tortore e accoppacce un fratello piccinino, pare una bbonagrazia da bburrino, un carciofarzo de cattiv’odore.
Ma cquer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle e a le su’ rape je sputava addosso, e nnò ar latte e a le pecore d’Abbele,
a un omo com’e nnoi de carne e dd’osso aveva assai da inacidijje er fiele: e allora, amico mio, tajja ch’è rosso.
Qualcuno dirà forse che bisogna stare attenti a presentare le cose in questo modo, perché si rischia di mettere Dio in cattiva luce. Ma questo avviene proprio quando cerchiamo di capire Dio illuminandolo con la nostra lampada, invece di essere noi a porci sotto la luce della lampada di Dio, così come essa si presenta letteralmente nella totalità della Sacra Scrittura.
• Quello che c’è Dal capitolo 12 in poi, il libro della Genesi è il racconto di come Dio inizia ad adempiere la promessa fatta ad Abraamo: “Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione”. Detto in altro modo, e attenendoci alle sole parole del testo, è la descrizione del procedimento seguito da Dio per generare la progenie di Abraamo con cui inizierà a formare il popolo della nazione attraverso cui avrebbe benedetto tutte le famiglie della terra.
Alcuni passaggi possono confermare questa lettura.
“L’Eterno disse: “Nasconderò io ad Abraamo quello che sto per fare, dato che Abraamo deve diventare una nazione grande e potente e in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra?” (Genesi 18:17).
Davanti al dubbio se distruggere o no le città corrotte di Sodoma e Gomorra, il Signore si ricorda del suo impegno a far diventare Abraamo una nazione, ed è da questo che fa dipendere la sua scelta operativa di quel momento.
Dio apparve ancora a Giacobbe, quando questi veniva da Paddan-Aram; e lo benedisse. Dio gli disse: “Il tuo nome è Giacobbe; tu non sarai più chiamato Giacobbe, ma il tuo nome sarà Israele”. E lo chiamò Israele. Poi Dio gli disse: “Io sono l'Iddio Onnipotente; sii fertile e moltiplicati; una nazione, anzi una moltitudine di nazioni discenderà da te, e dei re usciranno dai tuoi lombi; e darò a te e alla tua progenie dopo di te il paese che diedi ad Abraamo e a Isacco” (Genesi 35:9-12).
A Giacobbe, progenie di Abraamo, Dio conferma che da lui discenderà una nazione e, inoltre, una moltitudine di nazioni, dunque con una distinzione tra i due casi. Quell’una nazione è quella che poi prenderà il nome di Israele. E’ per questa nazione che Dio rivolge a Giacobbe l’invito: sii fertile e moltiplicati, che ha la stessa forma dell’invito fatto a Noè: “Crescete, moltiplicatevi, e riempite la terra” (Genesi 9:1). In questo caso, invece della terra c’è da “riempire” il popolo che dovrà formarsi.
Dio inoltre conferma che a quella nazione darà “il paese che diedi ad Abraamo e a Isacco”, cioè la terra su cui si trova ora Giacobbe quando Dio gli appare.
Molto più avanti negli anni, Dio appare un’altra volta a Giacobbe:
Dio parlò a Israele in visioni notturne, e disse: “Giacobbe, Giacobbe!”. Ed egli rispose: “Eccomi!”. E Dio disse: “Io sono Dio, l'Iddio di tuo padre; non temere di scendere in Egitto, perché là ti farò diventare una grande nazione. Io scenderò con te in Egitto, e te ne farò anche sicuramente risalire; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi” (Genesi 46:2-3).
Contrariamente a quella volta in cui Dio aveva “ripescato” Abraamo, che per paura di morire di fame in Canaan si era trasferito in Egitto, questa volta è Dio stesso che invita Giacobbe a scendere in Egitto, promettendogli che là lo avrebbe fatto diventare una grande nazione.
Ma per formare una nazione ci vuole un popolo, e la famiglia allargata di Abraamo non è un popolo.
Che fare? È un problema. Ma è un problema di Dio. E’ Lui che aveva detto ad Abraamo: “farò di te una grande nazione”, dunque è Lui che deve darsi da fare. E avendo detto di te, con questo s'intendeva che la nazione sarebbe cresciuta geneticamente come progenie di Abraamo. Nel libro della Genesi si vede infatti come questa progenie si allarga gradualmente fino a diventare una tribù familiare.
Ma lo sviluppo della progenie in questa forma per generazioni e generazioni avrebbe inevitabilmente portato a una totale dispersione nel mondo della discendenza di Abraamo, senza poter più recuperare l’originaria unità, e quindi senza poter formare una nazione.
Ecco allora la soluzione: la progenie di Abraamo crescerà e si manterrà unita nel grembo della più potente nazione del mondo di quel tempo: l’Egitto. E’ lì infatti che i 70 componenti della tribù familiare di Abraamo di quel momento scendono (Genesi 46:27) e si moltiplicano, per arrivare a trasformarsi, nell’arco di quattrocento anni (!), nel popolo di una nuova nazione.
Ripercorrendo allora i passaggi temporali, si vede Dio che scende di persona in Egitto, prima con Giuseppe (Genesi 39:3, 21), poi con Giacobbe (Genesi 46:2-3), per curare “da vicino” lo svolgimento del programma di formazione della nazione. Questo prevedeva non soltanto la sopravvivenza della famiglia di Abraamo, ma anche la sua crescita fino a diventare un “popolo numeroso”. Questo può essere confermato dalle parole con cui Giuseppe rassicura i fratelli che temono la sua vendetta dopo la morte di Giacobbe:
“E Giuseppe disse loro: 'Non temete; poiché sono io forse al posto di Dio? Voi avevate pensato del male contro di me; ma Dio ha pensato di convertirlo in bene, per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso'” (Genesi 46:3-4).
Sapendo come poi sono proseguite le cose, non si può che ammirare la sapienza di Dio, che ha usato prima un Faraone per accogliere la famiglia di Abraamo e farla crescere in Egitto fino a farla diventare un popolo; e ha usato poi un altro Faraone per costringerlo a far uscire quel popolo, affinché andasse formare una vera nazione, con la sua propria terra: la terra di Canaan, come Dio aveva promesso ad Abraamo.
Del resto, Dio l’aveva detto chiaramente a Giacobbe: “Io scenderò con te in Egitto, e te ne farò anche sicuramente risalire”. Cosa che Giacobbe ha personalmente sperimentato, anche se soltanto da morto.Ma nella risalita dall’Egitto del corpo di Giacobbe è preannunciata la risalita della nazione di Israele dall’Egitto in direzione di Canaan.
I confini sempre più sfumati tra antisemitismo e antisionismo
Ieri a Roma, presso la Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati, si è svolto un convegno promosso da Azione e coordinato dal consigliere comunale di Milano Daniele Nahum, dal titolo “Antisemitismo e antisionismo: due facce della stessa medaglia?”.
Al centro del convegno è stato posto il legame tra il “vecchio” antisemitismo etnico-religioso e il “nuovo” antisemitismo politico-ideologico sullo sfondo delle crescenti tensioni nell’area mediorientale, della tragedia di Gaza e – soprattutto – dell’effetto che il pogrom del 7 ottobre 2023 ha suscitato in tutti i mondi politici, culturali e religiosi storicamente più sensibili all’odio anti-ebraico.
Come ha spiegato Nahum introducendo i lavori, il rischio è oggi che l’attenzione per la guerra a Gaza e le polemiche sulle responsabilità dell’attuale governo israeliano rispetto alla situazione nella Striscia e in Cisgiordania porti a considerare la recrudescenza di fenomeni di odio e di violenza contro gli ebrei come una conseguenza della congiuntura internazionale e a giustificare il ritorno degli stereotipi antisemiti come un inevitabile effetto collaterale delle cosiddette colpe di Israele.
La Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, Noemi Disegni ha spiegato come, per quanto per gli ebrei possa essere comprensibile la persistenza di un antisemitismo viscerale e fondato su pregiudizi atavici, sia incomprensibile e intollerabile l’antisemitismo di parte delle élite accademiche e culturali che oggi ripropongono i cliché del passato, riattualizzandoli e conferendo loro una dignità morale e una giustificazione politica.
Il presidente dell’Ugei (Unione dei giovani ebrei d’Italia), Luca Spizzichino, recentemente aggredito all’Università di Torino proprio nel corso di un convegno che aveva organizzato sull’antisemitismo, ha sostenuto che, cambiando mezzi e modi, antisionismo e antisemitismo sono uniti dall’obiettivo di impedire agli ebrei di essere e di sentirsi parte della società e di essere accettati e riconosciuti nei propri diritti, se non attraverso il sacrificio della propria stessa identità.
Sono poi seguiti gli interventi di Pasquale Angelosanto, Coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gadi Luzzatto Voghera, Direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec), David Meghnagi, docente di psicologia clinica presso l’Università degli Studi Roma Tre, Milena Santerini, docente di pedagogia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Dina Porat, già Chief Scientist del Dipartimento di Storia Ebraica presso l’Università di Tel Aviv.
Da queste relazioni è emerso che l’antisemitismo rimane oggi come ieri non un mero sentimento, ma un linguaggio politico largamente utilizzato per fini di consenso. Gli addebiti al nuovo “ebreo collettivo” (espressione utilizzata da molti dei relatori), oggi rappresentato dallo stato di Israele, sono grosso modo gli stessi che in precedenza colpivano il popolo ebraico: l’abitudine al complotto e il desiderio di dominio; la dissimulazione della violenza nella recriminazione vittimistica; l’incapacità di avere rapporti leali e non strumentali con l’umanità non ebraica. Da qui deriva la ricorrente richiesta agli ebrei di doversi giustificare, rinnegando parte della propria identità, per essere accettati. Da qui deriva anche il disconoscimento o riconoscimento condizionato del diritto all’esistenza di Israele, come se l’identità politica ebraica, alla pari di quella culturale e religiosa, dovesse essere ripulita, prima di potere essere considerata compatibile con altre identità.
Le “tre D” che qualificano l’antisemitismo – diffamazione, delegittimazione, doppio standard – si applicano integralmente all’antisionismo. Israele è uno stato su cui si può mentire per finalità apertamente diffamatorie, e le cui responsabilità – come quelle contestate durante la guerra di Gaza – non sono addebitate a chi esercita i poteri di governo, ma allo stato in quanto tale, a pregiudizio del suo stesso diritto a esistere.
L’antisionismo è diventato anche la maschera democraticamente legittimata dell’antisemitismo. Se l’antisemitismo era un’idea razzista, segnata da questo peccato originale, l’antisionismo lo trasforma in un’ideologia anti-razzista, facendo coincidere Israele con un avamposto del vecchio potere coloniale occidentale e i palestinesi come i rappresentanti dell’intero Sud del mondo discriminato e sfruttato.
A seguire, l’ex direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, ha indagato le radici dell’antisionismo di sinistra, che ha portato nell’immediato dopoguerra socialisti e comunisti, alleati degli ebrei perseguitati nel periodo fascista, e sostenitori con l’Urss della costituzione dello Stato di Israele nel 1948, a sposare sempre più fortemente la causa araba e palestinese in funzione anti-imperialista e al fondo anti-occidentale.
Il convegno si è chiuso con un dialogo tra il senatore del Partito democratico Graziano Delrio e il Segretario di Azione Carlo Calenda, d’accordo nel giudizio circa la scarsa consapevolezza della sinistra su ciò che il 7 ottobre ha rappresentato per gli ebrei di tutto il mondo: non un semplice attentato terroristico, ma la radicale messa in discussione del “Mai più”, con cui si pensava di avere lasciato alle spalle l’orrore della Shoah. Entrambi hanno inoltre insistito sulla necessità di riconoscere nel sionismo un ideale risorgimentale, analogo a quello che tra Ottocento e Novecento ha unito molti popoli attorno ai principi di indipendenza nazionale e libertà politica.
Sia per Del Rio sia per Calenda il giudizio molto severo che merita il governo Netanyahu, nel momento in cui diventa un verdetto negativo sulla legittimità e democraticità dello stato ebraico, incentiva uno scontro che favorisce la polarizzazione estremistica e allontana la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Perché Israele ha bombardato la Siria dopo gli scontri drusi-sunniti
La deterrenza militare che fa tremare Al Jolani
di Luciano Tirinnanzi
«Avevamo due opzioni: una guerra aperta con l’entità israeliana a spese del nostro popolo druso, della sua sicurezza e della stabilità della Siria e dell’intera regione, oppure dare agli anziani drusi e agli sceicchi l’opportunità di tornare in sé e dare priorità all’interesse nazionale». A chiarire il perché del ritorno alla calma in Siria è lo stesso presidente ad interim Ahmed al Sharaa, già noto con il nome di battaglia Al Jolani, quando, al fianco di Al Qaeda, brigava per dare la spallata definitiva al governo degli Assad. Ora che è lui a governare, ha compreso che la violenza sui civili non conduce che alla rovina. Dopo le oltre 250 vittime negli scontri scoppiati questa settimana tra drusi locali e beduini sunniti appoggiati dalle Forze di Damasco, e soprattutto dopo l’intervento militare di Israele – che ha attaccato lo stesso palazzo presidenziale – al Sharaa ha avuto un assaggio della logica che sottende alle azioni del governo Netanyahu: ogni scontro al confine sarà considerato un atto ostile. Questa è la linea rossa israeliana, e varcarla significa accettare una ritorsione immediata. Ecco allora che il passo indietro di Al Jolani è un bagno di realtà per la nuova Siria. Sebbene gli attacchi di Israele possano apparire come un’aggressione indebita, o peggio rispecchiare la necessità di «distrarre l’opinione pubblica dalle operazioni a Gaza» (come per l’Iran, questa è una lettura davvero banale e semplicistica), in realtà rivelano qualcosa in più. Chiarito che i drusi sono un gruppo etno-religioso arabo la cui fede incorpora credenze dell’Islam, dell’ebraismo e del cristianesimo, e detto che sono distribuiti tra Siria, Libano e lo stesso Israele, la loro difesa da parte di Gerusalemme è presto spiegata: in Israele vivono circa 150mila drusi che, a differenza della maggior parte degli arabi con passaporto israeliano, sono soggetti alla leva militare obbligatoria. Anzi, rappresentano una componente essenziale per le Forze armate israeliane: molti di loro sono ufficiali di alto rango dell’Idf, membri dei reparti speciali o comunque funzionari di prim’ordine della pubblica sicurezza. Ecco dunque che per Gerusalemme (un po’ come i turcomanni siriani per la Turchia) difendere «i fratelli drusi» è funzionale al mantenimento di un’unità d’intenti interna, ed è strategico per mantenere una zona cuscinetto al confine con un Paese altamente instabile: i drusi siriani sono, dunque, un piede israeliano all’interno della Siria. Bisogna poi considerare che il nuovo governo siriano è ancora agli albori: l’esercito e le Forze di sicurezza sono debolissimi e faticano ad affermare il proprio controllo su un territorio interetnico e interconfessionale, sommatoria di quella che era e rimane una no man’s land, con sacche tanto di assadisti quanto di jihadisti ancora sparsi a macchia d’olio su tutto il Paese, Damasco compresa. Del resto, gestire le macerie di una guerra civile decennale che ha fatto oltre 400mila morti non è banale. Ecco anche perché, all’indomani della caduta dell’ex dittatore Assad lo scorso dicembre, Israele ha lanciato un’ondata di attacchi aerei devastante, distruggendo oltre 400 siti militari in sole 48 ore e annichilendo sia la contraerea sia la flotta navale e aeronautica. L’intento era palese: impedire qualsiasi rapida ricostruzione di un esercito che possa un giorno minacciare la sicurezza al confine. Dal punto di vista siriano, invece, come spiega l’analista Lorenzo Trombetta, autore del saggio geopolitico Damasco (in uscita a novembre per Paesi Edizioni), il motivo dell’attacco ai drusi era «prendere il pieno controllo della regione di Sweida, da secoli considerata dalle altre forze tribali locali un ostacolo allo sviluppo delle loro attività economiche. In più, i drusi durante la guerra civile non si sono mai schierati apertamente contro Assad, preferendo attendere – noi diremmo “democristianamente” – gli esiti dello scontro. Questo, insieme a un retaggio ideologico che dipinge i drusi come “miscredenti”, è sufficiente agli occhi dei radicali sunniti per muovergli guerra». Gli attacchi israeliani, in definitiva, rappresentano un deterrente militare tanto quanto un avvertimento
Gli attacchi missilistici stanno riducendo le aree protette di Israele, lasciando migliaia di profughi interni senza rifugio.
di Neli Shoifer
Natalie Grinberg non avrebbe mai immaginato di diventare una profuga nel proprio Paese. Insieme al marito, ai figli gemelli di nove anni e ai due cani, è fuggita da Tel Aviv dopo che il suo quartiere è stato colpito da missili iraniani.
Davanti a un semplice hotel che ora funge da campo profughi provvisorio, Natalie riflette sulla svolta surreale della sua vita. “Abbiamo sempre pensato che i profughi del nord e della Striscia di Gaza fossero persone povere e tragiche che avevano perso le loro case, i loro averi, la loro sicurezza... ma ora mi trovo nella stessa situazione e mi chiedo: sono una profuga? È questa la mia vita adesso?”
Per mesi, città come Tel Aviv e Ramat Gan sono state un rifugio per chi fuggiva dal nord devastato dalla guerra e dal sud bombardato. Ma i recenti attacchi missilistici dall'Iran hanno distrutto questa fragile illusione. Il centro di Israele è diventato un campo di battaglia e anche le regioni più urbane e sviluppate del Paese sono sotto attacco.
• Una nazione di sfollati Secondo il Centro per l'amministrazione locale, circa 15.000 persone sono state ufficialmente evacuate dopo che gli attacchi iraniani hanno colpito le infrastrutture civili. La stragrande maggioranza – nove su dieci – proviene dall'area metropolitana di Gush Dan, che comprende Tel Aviv, Petach Tikva, Ramat Gan e Bnei Brak. Oltre 1.000 edifici sono stati danneggiati o distrutti.
Con una mossa straordinaria, le comunità del nord bombardato, come Metula e Kiriat Schmona, hanno invitato le famiglie del centro a soggiornare per alcuni giorni per riprendersi. Nonostante le loro sofferenze, questi luoghi sono stati risparmiati dai recenti attacchi iraniani.
Secondo “UN Watch”, dall'ottobre 2023 più di 200.000 israeliani sono stati sfollati a causa di attacchi missilistici indiscriminati. Gli abitanti delle località ufficialmente designate come “zone di evacuazione” ricevono aiuti statali. Per molti altri, soprattutto nelle comunità direttamente colpite ma non ufficialmente riconosciute, la sopravvivenza comporta costi personali notevoli.
L'Associazione israeliana dei costruttori riferisce che oltre il 50% delle abitazioni israeliane non dispone di un rifugio privato. Gli abitanti devono ricorrere a bunker pubblici, spesso in cattive condizioni.
• Aumento dei canoni di locazione A causa delle condizioni inabitabili di molti rifugi, del pericolo di raggiungerli durante le sirene e della distruzione su vasta scala, negli ultimi tre anni i canoni di locazione per gli appartamenti con rifugio privato sono aumentati dell'11%. La domanda è aumentata anche nelle città considerate relativamente sicure.
Secondo un recente rapporto del Ministero delle Finanze, tra ottobre 2023 e maggio 2025 lo Stato ha speso circa 3,1 miliardi di euro per alloggi e assistenza ai civili sfollati. Solo nei primi cinque mesi del 2025 sono stati spesi circa 586,5 milioni di euro. Queste cifre non includono i costi dei lavori di ricostruzione dopo i recenti attacchi iraniani. Anche le spese per la difesa sono aumentate notevolmente, passando dal 4,3% del prodotto interno lordo nel 2022 all'8,4% nel 2024. Mentre l'economia nel suo complesso rimane stabile, questi costi gravano pesantemente sui servizi pubblici e sui contribuenti.
Una conseguenza del programma di austerità del governo è l'annuncio della sospensione del sostegno finanziario agli sfollati fino ad agosto 2025, ad eccezione dei casi di estrema difficoltà. Questa misura ha incontrato una forte opposizione da parte dei leader locali.
Inoltre, non è ancora chiaro quando saranno stanziati i fondi promessi per la ricostruzione del nord. Di conseguenza, la regione dipende attualmente in larga misura dagli aiuti filantropici, senza che sia visibile un piano realistico a lungo termine.
• “Non è sicuro. Non è giusto”. Uno dei critici più accesi è Uri Epstein, capo del consiglio regionale di Scha'ar HaNegev. Dopo la decisione del governo del 29 giugno di classificare come “sicure” alcune zone della regione di confine con Gaza, ha preso la parola. “Chi ha preso questa decisione non era qui il 7 ottobre e non c'è nemmeno adesso”, afferma. “Gli abitanti di Nachal Os dovrebbero tornare in una zona militare chiusa a soli 600 metri dal confine con Gaza. È inabitabile. Le conseguenze della mancanza di coordinamento e della confusione ricadono su una comunità che ha subito uno dei peggiori crimini nella storia di Israele e il cui membro Omri Miran è ancora tenuto in ostaggio da Hamas”.
Con un importante passo giuridico, i sindaci e i leader delle comunità delle città al confine con Gaza e il Libano hanno presentato ricorso alla Corte Suprema israeliana per chiedere la sospensione delle decisioni sul ritorno. L'obiettivo è quello di ritardare la rivalutazione delle aree come zone sicure e costringere lo Stato a rispettare i suoi impegni finanziari, in particolare per la ricostruzione di strade, asili e altre importanti infrastrutture civili. Finora la Corte ha deciso di non intervenire.
Le autorità locali criticano il governo per aver spinto le persone a tornare troppo presto per motivi di costo, mentre importanti misure di protezione e servizi pubblici rimangono incompleti o non finanziati.
• Quando le regioni sicure non sono più sicure In questa guerra nessuna parte di Israele è stata risparmiata. Persino Eilat, la città più meridionale di Israele, a 304 chilometri da Gerusalemme, è diventata un bersaglio. Dopo aver accolto 50.000 profughi, la città stessa è stata attaccata con missili e droni provenienti dall'Iran, dall'Iraq, dalla Siria e dallo Yemen. La maggior parte è stata intercettata, ma alcuni hanno causato danni ingenti.
Tel Aviv, un tempo rifugio, è oggi parte della linea del fronte. Nel momento più caldo del conflitto, la città ha offerto protezione a oltre 15.000 sfollati. Oggi sono gli stessi abitanti della città a essere sfollati.
• La domanda che nessuno osa porre Se i razzi cadono a nord, a sud e al centro, dove possono andare gli israeliani? Cosa succederà in caso di un prossimo attacco, probabilmente massiccio, dell'asse? Nonostante il cessate il fuoco nel nord e un accordo in vista a Gaza, i cittadini sanno per esperienza decennale che i terroristi non rispettano gli accordi diplomatici.
Il futuro è incerto. L'unica certezza è che Israele sta per affrontare una crisi non solo militare, ma anche civile, di proporzioni senza precedenti.
(Israelnetz, 18 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Gaza, gli “attacchi contro i civili che Israele sta portando avanti da mesi” non esistono
di Iuri Maria Prado
Si sapeva poco o nulla, ieri mattina, del presunto attacco israeliano che avrebbe colpito la chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza. Un vuoto di informazioni che non impediva a giornali e agenzie di stampa di dare per certo ogni dettaglio dell’attacco israeliano, a cominciare dal fatto che avesse fatto due vittime e una pluralità di feriti. Quei mezzi di informazione, sul fresco della notizia, parlavano ora di “bombe”, ora di un drone, ora vagamente di un “raid”. Più tardi, dopo che i suoi uffici avevano rilasciato un comunicato secondo cui non c’erano state vittime, il Cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, denunciava invece la morte di due persone per effetto del colpo di un tank contro la chiesa. Un effetto, precisava Pizzaballa, del cui carattere non intenzionale lui non era sicuro (per capirsi, alludeva all’ipotesi che l’esercito israeliano avesse mentito comunicando che si sarebbe trattato di un incidente non voluto).
Sul fronte delle vittime, ieri, per ore, giornali online e agenzie di stampa continuavano a riferire di due morti, in particolare “due donne”, il cui decesso sarebbe stato certificato “dal personale medico dell’ospedale Al Ahli di Gaza”. Una certificazione magari anche rispondente, alla fine, ma di origine abbastanza improbabile alla luce della notizia (possibilmente infondata, ma comunque incompatibile) che ieri dava, per esempio, Vatican News (poi seguita da tutti): e cioè che le vittime sarebbero “Saad Issa Kostandi Salameh, portinaio della parrocchia, e una donna di nome Foumia Issa Latif Ayyad”. Naturalmente è possibile che l’agenzia vaticana avesse preso un granchio, così come è possibile che il personale medico avesse scambiato il portinaio per una donna, o che avessero capito male quelli che ne riportavano i referti. Alcuni, poi, come Euronews, tagliavano corto spiegando che il portinaio era in realtà anche lui una donna (“Le due donne morte sono Saad Issa Kostandi Salameh e Foumia Issa Latif Ayyad”), e che a colpire la chiesa era “un raid aereo”.
Che fosse successo qualcosa a quella chiesa era abbastanza probabile mentre quei mezzi di informazione si esibivano in quella girandola di notizie contraddittorie, smentite e contro-smentite. Il problema è che era il vento di quella girandola, e non una decente base di accertamento (che non c’era), a smuovere le dichiarazioni dei politici sulla vicenda. A cominciare da quelle della presidente del Consiglio, la quale alle 10 del mattino riteneva di condannare non già l’incidente di cui si sapeva poco o nulla, bensì “gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta portando avanti da mesi”. Una dichiarazione in stile sudafrican-onusiano che fa poco onore a chi, del tutto legittimamente, avrebbe potuto manifestare solidarietà alla parrocchia e alla comunità religiosa, rincrescimento per le possibili vittime e anche disappunto nei confronti degli ipotetici responsabili, ma senza lasciarsi andare a quella pretestuosa requisitoria di incolpazione del Paese che combatte contro chi vuole distruggerlo.
Non esistono gli “attacchi contro la popolazione civile che Israele sta portando avanti da mesi”. E non sarebbe il caso di una chiesa colpita (nemmeno se fosse colpita intenzionalmente) a farli esistere. Sulla guerra di Gaza è possibile avere – e manifestare – ogni opinione. Sarebbe utile per tutti se le opinioni si formassero, e fossero manifestate, tenendo conto del fatto che è una guerra. Con le tragedie, gli errori e gli orrori di ogni guerra. Che devono essere denunciati e puniti, quando sono accertati. Ma senza dimenticare la responsabilità di chi quella guerra ha scatenato, trasformando Gaza e le sue chiese in un campo di battaglia.
L’appartamento del rabbino Yhia Lahiani e della sua famiglia, a Grenoble, nel sud-est della Francia, è stato completamente distrutto da un incendio doloso nella serata di sabato 5 luglio. Il rogo è divampato poco dopo che la famiglia si era allontanata per recarsi a una cena di Shabbat in sinagoga. Tre esplosioni successive hanno squarciato la quiete del quartiere e distrutto in pochi minuti la loro abitazione.
A raccontare l’accaduto sono stati i familiari stessi. “Qualcuno ha cercato di uccidere la mia famiglia”, ha dichiarato la figlia, Sarah Perets Lahiani, alla francese Radio Shalom. Pochi minuti prima dell’esplosione, ha detto, le sue sorelle e uno dei loro figli si trovavano ancora nell’appartamento: “È un miracolo che fossero già in sinagoga”. Gli investigatori avrebbero trovato tracce di accelerante – probabilmente cherosene – sulle pietre del giardino davanti all’abitazione. Secondo le prime ricostruzioni, ignoti avrebbero dato fuoco alla zona del barbecue dove si trovava una bombola di gas, contribuendo a innescare l’esplosione che ha devastato anche l’appartamento del piano superiore. Un vicino ha riferito che il figlio avrebbe visto dei giovani lanciare oggetti verso la casa pochi istanti prima del rogo. Sarah Perets Lahiani ha espresso tutta la sua frustrazione per il rifiuto delle autorità francesi di qualificare l’attacco come antisemita. “Continuano a parlare solo di ‘incendio doloso’, ma nessuno vuole usare la parola ‘antisemitismo’. Questo ci ferisce profondamente. Perché altrimenti proprio la casa del rabbino è andata in fiamme durante lo Shabbat e proprio all’ora del pasto?” ha chiesto.
La distruzione ha lasciato la famiglia senza nulla. “Mio padre mi ha chiesto un vestito. Era sotto shock. Ci sono voluti due giorni perché realizzasse che non aveva più neanche i vestiti” ha raccontato Sarah. La comunità ebraica locale si è mobilitata per aiutare la famiglia, offrendo indumenti, alloggio e supporto emotivo. Anche Eric Hattab, referente regionale del CRIF, si è attivato in loro favore.
“La metà della comunità ebraica è già andata via. Le famiglie con bambini non si sentono più al sicuro. C’è chi parte per Israele, chi per altre città, chi per gli Stati Uniti o il Canada. Temiamo per i nostri figli, nelle scuole, per strada” ha sottolineato il rabbino capo di Grenoble, Nissim Sultan, tracciando un bilancio amaro. Dopo il 7 ottobre, l’atmosfera si è ulteriormente inasprita. “Non era più ‘Rabbi Jacob’, era ‘ebreo bastardo’” racconta Sarah. Gli pneumatici dell’auto del padre sono stati bucati più volte. Una telecamera vicino alla scuola ha ripreso un giovane armato. “E dopo l’incendio – aggiunge – sono passati dei ragazzi urlando ancora ‘ebrei bastardi’. Ma per le autorità è tutto un caso, un’esagerazione”.
I dati confermano l’esodo: nei primi sei mesi del 2024, oltre 6.400 cittadini ebrei francesi hanno presentato domanda di aliyah verso Israele. Un aumento vertiginoso rispetto allo stesso periodo del 2023. Caroline Yadan, deputata dell’ottava circoscrizione dei francesi all’estero, è drastica: “Gli ebrei non si chiedono se andarsene, ma quando”. Il rabbino Yaacov Bitton, da Sarcelles, profetizza: “Agli ebrei restano dieci anni in Francia. Poi sarà finita”.
Nel 2024, in tutto il mondo, 4.476 cristiani, in media più di 12 al giorno, sono stati "uccisi per motivi legati alla fede". Altri 4.744 cristiani sono stati arrestati o detenuti illegalmente e 7.679 chiese e altre strutture cristiane sono state attaccate, spesso distrutte. Globalmente, la persecuzione globale dei cristiani ha raggiunto livelli senza precedenti. "Oltre 380 milioni di cristiani sperimentano alti livelli di persecuzione e discriminazione a motivo della loro fede", secondo la World Watch List 2025 (WWL), pubblicata all'inizio di quest'anno dall'organizzazione internazionale per i diritti umani Open Doors. Ogni anno, la WWL stila una classifica delle 50 nazioni in cui i cristiani sono maggiormente perseguitati per la loro fede. I dati sono raccolti da migliaia di operatori locali ed esperti esterni. L'ultima edizione della WWL copre il periodo che va dal 1° ottobre 2023 al 30 settembre 2024. Secondo la World Watch List, in tutto il mondo, un cristiano su sette (14 per cento) è perseguitato. In Africa, la percentuale sale a uno su cinque (20 per cento). In Asia, la percentuale è addirittura di due su cinque, il che significa che il 40 per cento di tutti i cristiani è perseguitato. La lista segnala tre gradi di persecuzione: "estrema", "molto alta" e "alta". I primi 13 Paesi dei 50 presenti nella lista sono caratterizzati dalla peggiore forma di persecuzione: "estrema". E sono: 1) Corea del Nord, 2) Somalia, 3) Yemen, 4) Libia, 5) Sudan, 6) Eritrea, 7) Nigeria, 8) Pakistan, 9) Iran, 10) Afghanistan, 11) India, 12) Arabia Saudita e 13) Myanmar. Le forme di persecuzione subite lì spaziano dall'aggressione, allo stupro, alla prigionia e persino all'omicidio, se si viene identificati come cristiani o se si frequentano chiese (solitamente clandestine). Al primo posto troviamo la Corea del Nord: "Se la tua fede cristiana viene scoperta in Corea del Nord, potresti essere ucciso immediatamente. Se non vieni giustiziato, verrai deportato in un campo di lavoro e trattato come un criminale politico, punito con anni di lavoro forzato ai quali pochi sopravvivono. E non sarai l'unico: le autorità nordcoreane probabilmente arresteranno anche i tuoi familiari, e li puniranno, anche se non sono cristiani. In Corea del Nord, non esiste una vita ecclesiale. È impossibile riunirsi per il culto o la preghiera, e persino il culto e la preghiera in segreto comportano grandi rischi. Spie del governo potrebbero denunciarti, nel caso avessero il minimo sospetto che tu sia cristiano, e così potrebbero fare i tuoi vicini o i tuoi insegnanti". Non sorprende che la maggior parte della "persecuzione estrema" inflitta ai cristiani in nove di questi 13 Paesi peggiori continui a derivare dall'oppressione islamica o a verificarsi in nazioni con una larga maggioranza di musulmani. Sostanzialmente, questo significa che circa il 70 per cento della peggiore persecuzione inflitta ("estrema") in tutto il mondo avviene sotto l'egida, o in nome, dell'Islam. Questa tendenza influenza l'intera classifica: il resto dei livelli di persecuzione "molto alta" o "alta" che i cristiani subiscono in 37 dei 50 Paesi presenti nella lista (ovvero il 74 per cento, deriva anch'esso dall'oppressione islamica o si verifica in nazioni con una popolazione a maggioranza musulmana o con una larga maggioranza di musulmani. Molte di queste nazioni sono governate da una qualche forma di sharia (legge islamica). A imporre la persecuzione può essere il governo o la società o, più frequentemente, entrambi, sebbene le società, in particolare i familiari indignati dai parenti convertiti, tendano ad essere più zelanti nell'applicazione della sharia. Ciò significa che, sebbene la persecuzione in Corea del Nord sia peggiore, c'è almeno una luce alla fine del tunnel: i maltrattamenti dei cristiani sono interamente collegati al regime di Kim Jong-un. "Riconoscere qualsiasi divinità al di fuori della famiglia Kim è considerato una minaccia per la leadership del Paese", osserva il report. Una volta scomparsa la famiglia Kim, il che è inevitabile, la Corea del Nord potrebbe diventare come la Corea del Sud, dove il Cristianesimo è fiorente. Al contrario, la persecuzione dei cristiani da parte dei musulmani è perenne, esistenziale e trascende di gran lunga questo o quel governante o regime. La persecuzione "dell'altro" nell'Islam fa parte della sua storia, delle sue dottrine e della sua struttura socio-politica, da qui la sua tenacia e onnipresenza. Qui di seguito, in sintesi, i pericoli dell'essere cristiani nei nove Paesi musulmani in cui si verificano livelli "estremi" di persecuzione. Al secondo posto nella lista figura la Somalia, dove si ritiene che ci siano poche centinaia di cristiani: "(...) seguire Gesù è una questione di vita o di morte. Al-Shabab, un violento gruppo militante islamista (...) impone una forma rigorosa di sharia (legge islamica) ed è impegnato a sradicare il Cristianesimo dalla nazione. Spesso i suoi militanti hanno ucciso i cristiani somali quando li trovavano. I pericoli sono aumentati nel corso degli anni, perché i militanti si sono concentranti sempre più nella ricerca ed eliminazione dei responsabili cristiani". Al terzo posto lo Yemen: "Il Paese è ora diviso in territori governati da tre diverse forze governative [musulmane], oltre ad alcune aree controllate da al-Qaeda e dallo Stato Islamico. Nessuna delle forze coinvolte è favorevole ai cristiani, e la costituzione ufficiale sostiene la sharia (legge islamica) senza garantire alcuna libertà di religione. L'1 per cento degli yemeniti che appartengono a religioni minoritarie è gravemente emarginato. Gli aiuti umanitari vengono distribuiti principalmente attraverso gruppi musulmani locali e moschee, che si presume discriminino chiunque non sia considerato un musulmano devoto. Chi viene denunciato come cristiano o coinvolto in attività cristiane potrebbe essere soggetto a severi controlli, detenzione arbitraria, tortura, maltrattamenti e persino omicidio". Al quarto posto la Libia: "(...) seguire Gesù è un rischio enorme per chiunque. I cristiani libici con un passato musulmano affrontano pressioni violente da parte delle loro famiglie e comunità affinché rinuncino alla loro fede. I cristiani stranieri, specialmente quelli provenienti dall'Africa subsahariana, sono presi di mira da gruppi militanti islamisti e gruppi criminali. Questi gruppi rapiscono e a volte uccidono brutalmente i cristiani. Anche se tale minaccia non si concretizza, i cristiani subsahariani affrontano molestie e minacce da parte di musulmani radicali. I cristiani che esprimono apertamente la loro fede o cercano di condividerla con altri rischiano l'arresto e violenti opposizioni". Al quinto posto il Sudan: "Il Sudan stava compiendo un cammino verso la libertà religiosa, ma un colpo di Stato e una devastante guerra hanno infranto queste speranze. I cristiani sono di nuovo in pericolo. (...) Il conflitto ha offerto agli estremisti islamici maggiori opportunità per prenderli di mira. Più di 100 chiese sono state danneggiate e dei cristiani sono stati rapiti e uccisi. I cristiani sudanesi che hanno abbracciato la fede provenendo da un contesto musulmano subiscono forti reazioni da parte delle loro famiglie e comunità. Questi credenti tendono a mantenere la loro fede segreta, persino ai propri figli. I cristiani affrontano inoltre difficoltà eccezionali nella crisi alimentare, poiché le comunità locali li discriminano e si rifiutano di offrire loro supporto". La Nigeria si piazza al settimo posto: "La violenza jihadista continua a intensificarsi in Nigeria, e i cristiani sono particolarmente esposti ad attacchi mirati da parte di militanti islamisti, tra cui i combattenti Fulani, Boko Haram e ISWAP (Islamic State West Africa Province) (...) Gli attacchi sono di una brutalità sconvolgente. Molti cristiani vengono uccisi, uomini in particolare, mentre le donne sono spesso rapite e prese di mira con violenze sessuali. In Nigeria, vengono uccisi per la loro fede più cristiani che in qualsiasi altro Paese al mondo. [Complessivamente, 3.100 cristiani nigeriani 'hanno pagato il prezzo più alto per la loro fede' nel 2024.] I militanti distruggono anche case, chiese e mezzi di sussistenza. Nell'Africa subsahariana oltre 16,2 milioni di cristiani sono stati costretti a lasciare le loro case a causa della violenza e dei conflitti. Tra questi un alto numero di nigeriani. In milioni vivono ora in campi per sfollati. I cristiani che abitano negli stati settentrionali nigeriani, in cui vige la sharia (legge islamica), possono anche affrontare discriminazioni e oppressioni perché ritenuti cittadini di seconda classe. I convertiti dall'Islam spesso vengono rifiutati dalle loro stesse famiglie e subiscono pressioni per rinunciare alla nuova fede. Sovente devono fuggire dalle loro case per paura di essere uccisi". La carneficina cristiana è così endemica in Nigeria che, solo di recente, il 13 aprile, Domenica delle Palme, 54 cristiani sono stati massacrati dopo le celebrazioni religiose in un solo villaggio. E per quanto grave sia la situazione in Nigeria, "purtroppo, altri cristiani sono stati uccisi fuori dalla Nigeria, molti in Paesi dell'Africa subsahariana come la Repubblica Democratica del Congo, il Burkina Faso, il Camerun e il Niger". Il report continua affermando: "Diversi Paesi dell'Africa subsahariana hanno registrato un aumento della violenza contro i cristiani. Attualmente, 8 dei 10 luoghi con il più alto tasso di mortalità per i cristiani si trovano nell'Africa subsahariana, e tutti (tranne la Nigeria) hanno registrato più omicidi per motivi religiosi rispetto al periodo di riferimento della World Watch List del 2024". Il Pakistan è all'ottavo posto: "Le famigerate leggi sulla blasfemia in Pakistan vengono spesso utilizzate per colpire i gruppi minoritari. I cristiani ne sono colpiti in maniera spropositata. Circa un quarto di tutte le accuse di blasfemia riguarda i cristiani, che costituiscono solo l'1,8 per cento della popolazione. Tali leggi comportano la pena di morte. Sebbene questo genere di sentenze vengano raramente eseguite, le persone accusate di blasfemia sono vulnerabili agli attacchi o agli omicidi da parte della folla. Nel giugno 2024, un uomo anziano è stato ucciso da una folla dopo essere stato accusato di aver dissacrato il Corano. (...) Le chiese storiche (...) sono molto sorvegliate e spesso prese di mira con attentati dinamitardi. Il numero di ragazze cristiane (o appartenenti ad altre religioni minoritarie) rapite, abusate e forzate a convertirsi all'Islam (spesso con il supporto di alcuni tribunali) è in aumento. (...) Tutti i cristiani subiscono discriminazioni istituzionalizzate. Le occupazioni considerate umili, sporche e degradanti, come la pulizia delle fogne o il lavoro nelle fornaci di mattoni, sono riservate dalle autorità ai cristiani. Molti sono definiti "chura", un termine dispregiativo che significa sporco. I cristiani possono anche essere intrappolati in lavori forzati". Al nono posto l'Iran: "I convertiti dall'Islam al Cristianesimo non sono riconosciuti e affrontano gravi violazioni della libertà religiosa principalmente da parte del governo e, in misura minore, dalla società e dalle loro famiglie. Il governo considera questi convertiti una minaccia, credendo che siano influenzati dai Paesi occidentali per minare l'Islam e il regime. Sia i responsabili che i normali membri dei gruppi cristiani vengono spesso arrestati, perseguiti e condannati a lunghe pene detentive per 'crimini contro la sicurezza nazionale'. Le comunità storiche riconosciute, come i cristiani armeni e assiri, sono protette dallo Stato ma trattate come cittadini di seconda classe. Fanno fronte a numerose disposizioni legali discriminatorie e non possono celebrare il culto in persiano né interagire con i convertiti cristiani. Coloro che sostengono i convertiti possono anch'essi essere incarcerati". L'Afghanistan si colloca al decimo posto: "La maggior parte dei cristiani afghani sono convertiti dall'Islam; praticare apertamente la propria fede cristiana è sostanzialmente impossibile. In Afghanistan, abbandonare l'Islam (...) e la conversione è punibile con la morte secondo la legge islamica. Applicazione sempre più rigorosa da quando i talebani hanno preso il controllo del Paese nel 2021. Se i convertiti vengono scoperti, la famiglia, il clan o la tribù potrebbero cercare di preservare il proprio 'onore' attuando pressioni, violenze o persino omicidi. Se la fede di un convertito viene scoperta dal governo una delle poche scelte è quella di cercare di fuggire. Le donne e le minoranze etniche subiscono pressioni aggiuntive, quindi i cristiani appartenenti a questi gruppi vivono sotto pressioni inimmaginabili". Al 12mo posto l'Arabia Saudita: "Diventare cristiani in Arabia Saudita è estremamente rischioso. Non solo è illegale abbandonare la fede islamica, ma i nuovi credenti affrontano anche una forte opposizione da parte delle loro famiglie e comunità. (...) Per questi motivi, la maggior parte dei cristiani sauditi tende a seguire la propria fede in modo silenzioso e segreto. Tale scelta può includere la decisione di non rivelare la propria fede nemmeno al coniuge o ai figli, per paura che i membri della famiglia allargata o il personale scolastico possano scoprire l'abbandono dell'Islam. Non esistono edifici o incontri di chiesa legali. (...) La maggior parte dei cristiani che vivono in Arabia Saudita è composta da lavoratori temporanei provenienti da altri Paesi. È loro vietato condividere la fede con i sauditi e le riunioni di culto sono limitate. Violare queste regole può comportare l'arresto e l'espulsione". In particolare, i nove Paesi musulmani sopra elencati dove il grado di persecuzione è "estremo" sono diversi sotto molti aspetti: razziali, sociali, economici e governativi. Alcuni sono ricchi (Arabia Saudita), mentre altri sono incredibilmente poveri (Somalia); qualcuno è evoluto (Iran), mentre altri sono tutt'altro che evoluti (Yemen); sono rappresentati da una varietà di forme di governo (repubbliche, monarchie, teocrazie); e in essi figurano diverse etnie: arabi, africani subsahariani, pakistani, persiani e afghani. L'unico elemento comune, il denominatore comune, è l'Islam. La diversità aumenta se si esamina la lista completa delle 50 nazioni, che include anche Paesi sinici e turchi, come Maldive (al 16mo posto), Uzbekistan (al 25mo), Turchia (al 45mo) e Brunei (al 48mo), che condividono poco in comune a parte l'Islam. Il Kirghizistan, che non entrava nella top 50 dal 2013, è rientrato prepotentemente al 47mo posto: "C'è stato un netto aumento della violenza contro la Chiesa, molte chiese registrate e istituzioni cristiane sono state costrette a chiudere e la pressione sui cristiani è aumentata in quasi tutti gli ambiti della vita". Al di fuori del mondo musulmano, tuttavia, l'ostilità verso il Cristianesimo è di fatto diventata una pandemia. Come osserva il rapporto: "Diversi Paesi presenti nella World Watch List hanno registrato un aumento della violenza anticristiana. Sebbene i contesti fossero differenti: Stati autocratici rigidamente controllati o Paesi instabili a causa di governi deboli o guerre civili, il risultato è stato lo stesso, prendere di mira le comunità cristiane, distruggere vite, case e chiese, e fare ingenti pressioni sui credenti". L'aumento del nazionalismo indù ha reso l'India (all'11mo posto) un focolaio di persecuzioni: "In India, gli estremisti indù considerano tutti i cristiani come estranei e mirano a purificare la nazione da Islam e Cristianesimo, spesso utilizzando violenza estrema. Tale ostilità è spesso alimentata dall'Hindutva, una corrente del nazionalismo indù secondo la quale gli indiani debbano essere induisti e che nessun'altra fede possa essere tollerata. Questa mentalità è stata causa di violenti attacchi in tutto il Paese e ha prodotto impunità per coloro che li perpetrano, specialmente nei luoghi in cui anche le autorità sono sostenitori dell'induismo radicale. In tali aree, i cristiani che frequentano chiese domestiche rischiano attacchi da parte di folle estremiste che prendono di mira i servizi religiosi. Inoltre, 12 Stati hanno approvato leggi anti-conversione, che minacciano la libertà religiosa individuale dei credenti". Anche nel buddista Myanmar ( che occupa il 13mo posto), l'ultima nazione a rientrare nella top 13 dei Paesi con il più alto tasso di persecuzione, i cristiani subiscono livelli "estremi" di persecuzione: "Dal colpo di Stato militare del febbraio 2021, i cristiani hanno incontrato maggiore violenza e maggiori restrizioni. Credenti sono stati uccisi e chiese attaccate in maniera indiscriminata. Eventi accaduti anche negli Stati con la maggiore presenza cristiana, come Chin, Kayah e Kachin, e in regioni con minoranze cristiane significative, tra cui le regioni di Sagaing, Yagon e Irrawaddy. Più cristiani che mai sono stati cacciati dalle proprie abitazioni e hanno trovato rifugio presso chiese o campi per sfollati. Alcuni sono stati costretti a nascondersi nella giungla, dove spesso vengono privati del cibo e delle cure mediche. Le forze governative hanno continuato ad attaccare in modo sproporzionato villaggi e chiese cristiane. Hanno anche ucciso operatori umanitari e pastori cristiani, durante attacchi aerei. Al di là del conflitto, i convertiti al Cristianesimo si trovano perseguitati dalle loro famiglie e comunità buddiste, musulmane o tribali perché hanno abbandonato la loro precedente fede. Le comunità che mirano a rimanere 'solo buddisti' rendono la vita impossibile alle famiglie cristiane". Anche in nazioni che sembrerebbero amichevoli o almeno neutrali nei confronti del Cristianesimo, come Cuba, Nicaragua e Messico, i cristiani vengono abusati per la loro fede da una serie di attori e per svariate ragioni. Nella Cuba comunista (al 26mo posto): "I leader e gli attivisti cristiani che denunciano il regime possono essere interrogati, arrestati e imprigionati. Subiscono anche campagne di diffamazione, restrizioni ai viaggi e molestie (che possono includere violenza fisica sulle persone e danni agli edifici delle chiese)". Sebbene non comunista, in Nicaragua (al 30mo posto): "L'ostilità verso i cristiani continua a intensificarsi: coloro che si oppongono al presidente Ortega e al suo governo sono considerati come agenti destabilizzanti. (...) Leader cristiani sono stati molestati e arrestati, proprietà cristiane sequestrate, scuole, stazioni TV e associazioni caritatevoli cristiane chiuse, mentre le chiese sono monitorate e intimidite". In Messico (al 31mo posto), i cartelli della droga prendono di mira i cristiani, soprattutto se si esprimono contro le loro attività o cercano di allontanare i giovani da loro; nel sud del Messico, soprattutto "in alcune comunità indigene, chi decide di abbandonare le credenze ancestrali per seguire Gesù affronta ostracismo, multe, incarcerazione e dislocamenti forzati". Forse la tendenza più preoccupante è che la persecuzione dei cristiani continua a crescere ogni anno, ed è quasi raddoppiata dal 1993, anno in cui la WWL fu pubblicata per la prima volta. All'epoca, solo 40 Paesi ottennero punteggi sufficientemente alti da giustificare un monitoraggio adeguato. Oggi, quasi il doppio di quel numero si qualifica, sebbene la lista comprenda solo i primi 50. Quanto tempo ci vorrà prima che questa tendenza in corso si metastatizzi anche in quelle nazioni occidentali un tempo osannate per le loro libertà religiose?
(Gatestone Institute, 18 luglio 2025 - trad. di Angelita La Spada)
«Le sanzioni all’Albanese sono fondate sulla legge»
L’esperto di diritto internazionale: «Gli Stati Uniti sono tenuti a tutelare le loro imprese dalle iniziative ostili».
di Claudia Osmetti
David Elber è una di quelle persone abituate a usare le parole con la precisione chirurgica di chi sa che anche una virgola fa la differenza. Ha la formazione di uno storico, la preparazione di un ricercatore e la puntualità di un analista che prima valuta, s’informa e poi parla. Da anni si occupa di antisemitismo, è coautore del recentissimo Ritorno a Sion: breve storia dello Stato di Israele dalle origini a oggi (Marcianum press) ed è un esperto di diritto internazionale.
- Dottor Elber, si sente ripetere che le sanzioni Usa verso Francesca Albanese vìolino il diritto internazionale. È così?
«É una falsità. Non esiste un trattato che precluda a uno Stato di imporre sanzioni a società o organizzazioni o anche individui. Non si può neanche invocare il diritto all’immunità, altra cosa che è stata sollevata, non essendo Albanese un funzionario dell’Onu». - Cosa ha mosso gli Stati Uniti?
«Albanese ha accusato e ha ventilato l’ipotesi di prendere provvedimenti non solo verso Israele ma anche verso realtà statunitensi come alcune compagnie legate al ministero della Difesa americana. Le dico di più. Questa sanzione si avvale di una legge statunitense del 2002».
- Ben prima dell’era trumpiana...
«Esatto. Si tratta dell’American service members protection act, è riferita in modo specifico al Tribunale penale internazionale e prevede, da 23 anni, cioè non da questa amministrazione, la possibilità di prendere provvedimenti anche di carattere sanzionatorio».
- Senta, ma di cosa parliamo quando parliamo di diritto internazionale? Perché a me sembra che sia l’utile giustificazione di chi accusa Gerusalemme e basta. Israele-viola-il-diritto-internazionale, Netanyahu-è-un-criminale-di-guerra: in concreto, cosa vuol dire?
«Niente. Si tratta di una falsa accusa che si smonta velocemente proprio nei termini che indica lei: chi la lancia non cita mai a quale diritto internazionale si riferisce. A quale legge? A quale articolo? A quale trattato? Lo fa sempre in modo generale».
- Mi viene in mente Laura Boldrini, un mese fa, a Rafah ,che impartiva lezioni sul diritto umanitario...
«È la stessa cosa. Il diritto umanitario è un’alterazione semantica delle leggi di guerra che già esistevano. Non è mai stato codificato».
- Faccio l’avvocato del diavolo. Va bene in punta di diritto, ma nella realtà di un conflitto come si coniuga?
«La verità è che il diritto internazionale e il diritto umanitario vengono invocati soltanto quando c’è di mezzo Israele. In Crimea, nelle mille guerre di cui non ci si occupa nessuno li ricorda».
- La Corte penale internazionale ha ribadito la procedibilità delle accuse a Netanyahu. Cosa ne pensa?
«A proposito delle violazione del diritto internazionale...».
- In che senso?
«Israele non fa parte della Convenzione di Roma con cui è stato istituito il Tribunale penale internazionale. Che di conseguenza non ha nessuna autorità, non può decidere mandati di arresto sulle autorità israeliane».
- E dei tre membri della Commissione d’inchiesta permanente alle Nazioni unite che si sono dimessi in questi giorni?
«Me lo lasci dire: quella Commissione è un altro obbrobrio che non ha giustificazione nel diritto internazionale. La sua presenza afferma che Israele, per il Consiglio per i diritti umani, è ontologicamente criminale. Ma il discorso diventa complesso».
- Perché?
«Pensi a chi fa parte di questo Consiglio: è composto da 47 Paesi che vengono nominati ogni tre anni, caso strano son sempre gli stessi. Israele non ha mai fatto parte del Consiglio per i diritti umani, come non ha mai fatto parte del Consiglio di sicurezza o di tantissime altre commissioni. Nessun israeliano ha mai fatto parte della Corte di giustizia internazionale, se vogliamo dirla tutta. Accusano Israele di apartheid, è all’Onu che c’è l’apartheid».
- Il diritto internazionale, il 7 ottobre del 2023, dov’era?
«Non esisteva per tante figure all’Onu che dicono che essendo Hamas un’organizzazione terroristica, definizione che viene usata solo quando fa comodo, Israele non possa invocare l’articolo 51 della Carta dell’Onu per autodifesa. Cosa che è una balla clamorosa».
- Come mai?
«In quell’articolo non c’è alcuna specifica sulla natura dell’aggressore. Si dice, semmai, che lo Stato aggredito, può difendersi. È quello che è successo dopo l’11 settembre del 2001 quando non una ma almeno due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza hanno ribadito il concetto. Com’è che quando c’entra Israele tutto questo non vale più?».
Il cesenate Davide Caprelli ha realizzato la colonna sonora per un cartone animato dedicato ai bambini nei lager vittime degli esperimenti di Mengele.
di Raffaella Candoli
Dopo la composizione di musiche per il teatro, di colonne sonore per il cinema, per documentari e sigle televisive, con riconoscimenti di rilievo in Italia e all’estero, Davide Caprelli, accompagna con le sue creazioni anche un cartone animato di recente produzione. Il versatile compositore cesenate, insegnante di scuola superiore, laureato in pianoforte al Conservatorio Maderna, è stato infatti chiamato dal centro i produzione video e cinematografica Larcadarte di Palermo, a realizzare la soundtrack di "Storia di Sergio". Si tratta di un toccante film di animazione per la regia di Rosalba Vitellaro, tratto dal libro delle sorelle Andra e Tatiana Bucci (sopravvissute alla Shoah), e della scrittrice e giornalista Alessandra Viola, pubblicato da Rizzoli, che racconta la storia di venti bambini ebrei vittime degli esperimenti di Josef Mengele, tra cui appunto Sergio, che durante le persecuzioni razziali della seconda guerra mondiale, fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Unico bimbo italiano tra tanti piccoli sfortunati cui toccò la medesima sorte, Sergio De Simone, a sei anni fu separato dalla famiglia e alloggiato in un kinderblok, una delle baracche riservate ai bambini usati per gli esperimenti medici dei nazisti, in quel caso per "studiare" gli effetti della tubercolosi e poi barbaramente impiccati. Il cartoon ’Storia di Sergio’ segue ’La stella di Andra e Tati’, il primo film di animazione europeo a narrare la tragedia dei campi di concentramento. "Le sorelle Bucci – ha dichiarato Mario De Simone, fratello di Sergio, nato dopo la guerra – sono instancabili, ed io con loro, nella volontà di onorare la memoria e mantenere vivo il ricordo di Sergio, al cui nome è dedicata una Fondazione. Oggi più che mai con le loro testimonianze intendono contrastare la diffusione, soprattutto tra i giovani, di ideologie e comportamenti ispirati ai tragici eventi dell’ultimo conflitto mondiale, promuovendo la memoria storica e i valori della Costituzione democratica". "La soundtrack – dice dal canto suo Caprelli -, è il frutto di una lunga gestazione; raccontare la sofferenza dei bambini è uno dei temi più complessi da affrontare, sia a parole che in musica. Ho cercato un tema che potesse unire la speranza di questi bambini di incontrare nuovamente le loro madri, così in modo ingannevole era stato loro detto, e la malvagità di questa terribile bugia che doveva indurli a salire sul treno, mentre invece sarebbero andati incontro a sofferenze e alla morte. La musica del film è disponibile sui principali store digitali di musica".
Nella Parashà di Pinchas, che leggeremo questo Shabbat, assistiamo ad un momento storico e decisivo, il momento in cui D-o informa Moshè della fine del suo ruolo. Moshè, il primo leader del popolo d’Israele, che liberò il popolo dalla schiavitù in Egitto, che fece da mediatore tra D-o e il popolo nell’evento unico dell’Apocalisse sul Monte Sinai e che lo guidò nel deserto per 40 anni, riceve il seguente messaggio: “Sali su questo monte di Avarim e contempla la terra che Ho dato ai figli d’Israele. Dopo averla vista, anche tu sarai riunito al tuo popolo, come fu riunito tuo fratello Aharon” (Bamidbar 27:12-13). Come detto, D-o attraverso queste parole informa Moshè: il tuo ruolo è terminato. Hai guidato il popolo fedelmente per gli ultimi 40 anni e ora, poco prima che il popolo raggiunga la sua destinazione ed entri nella Terra d’Israele, sei chiamato a farti da parte. Ti è data l’opportunità di vedere la terra da lontano, dal Monte Avarim, dal Monte Nevò, ma non ci potrai entrare. Possiamo concludere da questo versetto che Moshè abbia fallito nel suo ruolo? Che abbia intrapreso un lungo viaggio ma non abbia raggiunto la destinazione? Che il viaggio di Moshè sia stato vano? Potremmo giudicare la storia di Moshè in questo modo se Moshè, ricevuto questo comandamento, avesse reagito con rabbia o con un senso di opportunità persa. Se questa fosse stata la reazione di Moshè, potremmo in effetti concludere che sì, a suo avviso, si sia trattato di un fallimento. Ma Moshè risponde diversamente. Chiede a D-o che il popolo non rimanga senza guida usando delle espressioni particolari e degne di essere approfondite: “Il Signore, il D-o degli spiriti di ogni essere vivente, costituisca a guida della comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nell’entrare, li faccia uscire e li faccia rientrare, perché la comunità del Signore non sia come un gregge senza pastore” (Bamidbar 27:16-17). Questo versetto dimostra come Moshè non considerava la fine del suo ruolo un fallimento. Moshè comprese di trovarsi di fronte a una sfida su come reagire all’annuncio di cui D-o lo aveva informato. Avrebbe potuto concentrarsi sulla sua storia personale, rimanere deluso per il fatto di non poter entrare nella Terra d’Israele, sentirsi offeso, umiliato, piangere o discutere. Ma Moshè non fece nulla di tutto ciò. Scelse di concentrarsi sulla storia del popolo. Sentiva di avere la responsabilità di guidare il popolo, e questa responsabilità non lo abbandonò nemmeno per un istante. Certo, avrebbe presto cessato il suo ruolo di leader, e questo avrebbe potuto essere deludente e molto triste, ma al momento era ancora al suo posto, ed era sua precisa responsabilità garantire che il popolo non rimanesse “come pecore senza pastore”. La conclusione del ruolo di Moshè come leader del popolo ebraico non fu un fallimento, ma bensì la conquista di un’altra vetta. Tramite le sue azioni e tramite le sue parole, Moshè dimostrò di aver svolto il suo ruolo nel miglior modo possibile, con totale fedeltà e dedizione, ignorando la sua storia personale e concentrandosi sull’aspetto della guida del popolo, sulla leadership, sul bisogno collettivo. Come descritto dai Chachamim nel Midrash: “Per far conoscere la lode dei giusti, affinché, quando se ne vanno, mettano da parte i propri bisogni e si dedichino al bisogno del pubblico” (Sifri Numeri 138). Dalle parole che usa Moshè, inoltre, possiamo comprendere come egli concepisse il suo ruolo. Quando descrive le sue aspettative sul prossimo leader, dice: “…chi uscirà e entrerà prima di loro, chi li condurrà fuori e chi li introdurrà”. Cosa significa? I Chachamim del Midrash interpretano la prima parte della frase come segue: “Non come fanno gli altri leader, che mandano le loro truppe e arrivano alla fine, ma… ‘chi uscirà e entrerà prima di loro’ – in prima linea, ‘chi uscirà e entrerà prima di loro’ – in prima linea” (Sifri Bamidbar 139). L’esempio personale è il modo per guidare il popolo. E cosa significa il seguito della frase “e chi li condurrà fuori e chi li introdurrà”? Non sempre l’esempio personale ma distaccato è sufficiente. Il leader non può sperare che il pubblico lo segua solo con il suo esempio personale. Il leader ha la responsabilità di garantire che, effettivamente, il pubblico lo segua. Il leader deve essere non solo “davanti al popolo”, ma anche “con il popolo”, deve essere lì con loro, vicino. Rav Hirsch, commentando le parole “Il Signore, il D-o degli spiriti di ogni essere vivente” scrive che lo stesso D-o che dà origine a ogni spirito che entra nel suo corrispondente involucro terreno, è D-o che assegna l’anima, lo spirito, a ciascuna persona, ogni essere vivente. «Poiché da Me», dice Isaia. 57, 16, “lo spirito entra nel suo guscio, e Io ho formato le anime“, Rabbì Eliezer aggiunge tuttavia: tieni presente questo: finché all’uomo è data la vita, la sua anima è preservata nella mano del suo Creatore e Proprietario, poiché è detto: nella cui mano è l’anima di ogni essere vivente. Se è morto, sarà custodito tra i tesori di D-o, poiché è detto: la tua anima sarà custodita nel tesoro della vita. Secondo questo, D-o è duplice: è Colui attraverso il quale lo spirito diventa carne in ogni carne, ed è Colui attraverso il quale lo spirito rimane in ogni carne. Egli invia lo spirito nel corpo terreno e, finché lo spirito rimane in questa connessione terrena, lo mantiene in questa connessione, proteggendolo, rafforzandolo e nutrendolo con talento e progresso, ed è quindi personalmente vicino a ogni spirito nella vita terrena per questa vita terrena in una modalità molto più grande di quando, dopo il suo pellegrinaggio terreno, l’anima è preservata nel “patto della vita” con tutte le altre anime raccolte per un nuovo futuro. Una verità che Rabbì Eliezer considerava così significativa e importante per la nostra coscienza qui sulla terra, da esortarci a tenerla sempre presente come punto di riferimento per il nostro cammino della nostra vita. Ne consegue che D-o, in quanto Colui che essendo in ogni dove risiede nella terra d’Israele, conosce e sovrintende a tutti gli spiriti da Lui inviati nei corpi terreni, sa come trovare l’uomo adatto a succedere a Moshè; Può nominarlo. Anche se non c’è più bisogno di Mosè e di Aharon, c’è ancora bisogno di un uomo che realizzi il compito divino che ora sta giungendo a compimento, l’entrata del popolo di Israele nella terra promessa.
Questa invocazione di Moshè, oltre a dimostrare ancora una volta quanto fosse un grandissimo leader ineguagliato nella storia, l’unico meritevole del dono della profezia “faccia a faccia con D-o”, cela anche un’esortazione ed un insegnamento per tutti noi. D-o, creatore del mondo, e, come dice Moshè, che assegna gli spiriti in ogni essere vivente, sa benissimo chi possa essere capace e degno di essere leader e chi possa guidare il popolo. Tuttavia, proprio per questa Sua immensa conoscenza, D-o sa anche di cosa è capace ogni anima e di come, potenzialmente, ogni anima abbia la capacità di elevarsi, di mettere in campo le peculiarità della persona cui è stata assegnata. Non occorre essere leader per dare il meglio di noi stessi, non occorre essere leader per migliorarci, non occorre essere leader per ispirare il prossimo con il buon esempio e con la condotta corretta, guidata dai valori ebraici della Torà e delle mitzvot. Il vero influencer, non è colui che ha centinaia di migliaia se non milioni di seguaci (o di like), ma è colui che attraverso il suo buon esempio ispira anche qualche centinaio di persone, o anche qualche decina o anche meno. Attraverso un circolo virtuoso, questa persona sarà capace, a catena, di creare una rete di positività, di luce, di benessere che potrà influenzare a sua volta la società e la comunità in cui vive.
E’stato il nostro 7ottobre”, dicono i drusi che chiedono aiuto a Israele
di Micol Flammini
Sono rari i momenti in cui la politica israeliana si unisce e ieri è stato uno di questi, con una tempistica ancora più inaspettata visto che il governo ha perso la maggioranza in Parlamento per l’uscita dei partiti ultraortodossi contrari alla leva per gli studenti haredim. In mattinata il ministro della Difesa Israel Katz aveva annunciato di aver ordinato all’esercito di attaccare gli uomini e le armi del regime siriano. Prima che parlasse, il suo predecessore, Yoav Gallant, aveva scritto su X che il governo israeliano non stava facendo abbastanza per i drusi. Poi sono arrivati gli attacchi israeliani contro Damasco, al Sharaa si è dovuto nascondere, ricordando la fuga della Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, Ali Khamenei, che vive tuttora nascosto per paura di essere scovato dagli israeliani. Dalla maggioranza all’opposizione, tutti in Israele hanno condiviso l’azione a sostegno dei drusi, il leader del Partito democratico israeliano, contrario al protrarsi della guerra nella Striscia di Gaza, ieri ha mostrato i colori della bandiera dei drusi per testimoniare la solidarietà con la minoranza in Siria. Se da Suwayda i drusi hanno iniziato a fuggire, ieri dal confine tra Israele e Siria circa mille drusi, tra coloro che vivono nel territorio israeliano, sono partiti per andare a difendere le loro famiglie minacciate dal regime siriano. I legami da una parte all’altra del confine sono stretti, sono famigliari, e nonostante l’appello del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a tornare indietro, chi ha varcato il confine ha continuato a marciare. Chi è rimasto in Israele ha cercato di contattare parenti e amici a Suwayda: “Mi hanno raccontato della violenza, della caccia all’uomo. E’ stato un 7 ottobre per noi”, racconta Khalifa Khalifa, druso, analista esperto di medio oriente, ex consigliere dell’esercito israeliano. Al telefono Khalifa continua a ringraziare Israele per essere l’unico stato democratico a non essersi lasciato abbindolare dai cambiamenti cosmetici di al Sharaa. L’analista ritiene che solo Tsahal sia disposto ad aiutare i drusi, l’unico capace di capire la Siria. Altri analisti sono invece scettici e credono che gli attacchi al centro di Damasco possano creare una divisione profonda e pericolosa tra la popolazione siriana e Israele.
Israele si sente il demiurgo dei cambiamenti dentro al territorio siriano: la caduta di Bashar el Assad non sarebbe stata possibile senza la guerra di Tsahal contro Hezbollah in Libano. Se il gruppo libanese armato e finanziato dall’Iran non fosse stato decimato da Israele, al Sharaa non avrebbe potuto compiere la sua marcia sbaragliando l’esercito siriano per nulla pronto a combattere. Damasco è passata da un regime all’altro e Israele vuole dettare le regole al nuovo arrivato, e ha continuato a compiere azioni militari dentro al territorio siriano per due motivi: spogliare i nuovi gruppi armati degli arsenali del regime di Assad e far capire che qualsiasi sgarro militare sarebbe stato punito. Israele vuole che il sud della Siria sia demilitarizzato, vuole tenere gli uomini di Sharaa lontani dai suoi confini e ieri colpendo luoghi molto significativi di Damasco ha dimostrato di essere disposto ad arrivare ovunque e a usare ogni mezzo. “Questo è l’unico modo per evitare la pulizia etnica contro i drusi”, commenta Khalifa.
Dopo il 7 ottobre Israele ha cambiato il suo principio di azione: non aspetta le minacce, le previene e così si sta comportando in Siria, un paese con cui gli Stati Uniti spingono per la normalizzazione dei rapporti, a cui non tiene soltanto Donald Trump, ma anche il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman che ha ospitato nel suo palazzo l’incontro storico tra il presidente americano e il nuovo autoproclamato presidente siriano. Per Trump la normalizzazione è tanto importante da aver deciso di togliere le sanzioni alla Siria, senza imporre filtri. “Trump ha fretta e non si rende conto che la spina dorsale di questo governo è fatta di jihadisti che aspettano soltanto che cali l’attenzione per togliersi la giacca e la cravatta, gli abiti di scena, e continuare i massacri contro tutte le minoranze”, dice Khalifa, convinto che le tenebre sulla Siria saranno un problema anche per Israele, non soltanto per i drusi di Suwayda che si rifiutano di cedere le armi all’esercito centrale di al Sharaa. Per bloccare lo scontro tra Israele e Siria, gli Stati Uniti si sono mossi subito, chiedendo a Tsahal di fermarsi e all’esercito siriano di ritirare le forze da Suwayda. Washington si aspetta che, dopo il cessate il fuoco tra drusi e Damasco, la tensione diminuisca, ma come con la guerra contro Teheran, non è detto che Israele ascolti l’Amministrazione americana.
• L’attacco siriano ai Drusi Un nuovo focolaio di guerra si è aperto ai confini di Israele, in Siria, e sta progressivamente coinvolgendo le forze israeliane. Si tratta dell’attacco che prima beduini e irregolari sunniti talvolta coi simboli dell’Isis (il sanguinoso “Stato Islamico” che dieci anni fa occupava buona parte della Siria e dell’Iraq), poi direttamente l’esercito siriano, stanno portando ai drusi. L’attacco mira particolarmente la città drusa più importante, Suwadya, che si trova a sudest di Damasco, un centinaio di chilometri a est del Golan, vicino al territorio del confine con la Giordania, ma si espande anche agli altri villaggi drusi sparsi in tutta la Siria meridionale. Durante l’invasione sono state documentate numerose atrocità, con un centinaio di morti. Durante la giornata di ieri, il governo israeliano ha accolto gli appelli provenienti dai dignitari drusi sia in Siria sia in Israele e ha prima mandato messaggi al dittatore siriano Ahmad al-Shara (detto al-Jolani) chiarendo che non avrebbe sopportato che i drusi fossero molestati e che la zona meridionale della Siria doveva restare demilitarizzata. In seguito ha iniziato ad attaccare con bombardamenti aerei le truppe siriane e beduine che cercavano di conquistare Suwayda. Non avendo ottenuto risposte soddisfacenti, ha portato la minaccia sulla capitale Damasco, all’inizio colpendo solo in maniera simbolica alcuni luoghi del potere e poi bombardando il ministero della difesa e il palazzo presidenziale. Dato che durante la presa del potere di Al-Shara l’esercito israeliano ha lavorato per eliminare razzi, antiaerea e aviazione siriana, Israele non ha problemi ad approfondire l’offensiva anche, se ve ne sarà bisogno, facendo passare il confine alle truppe che sta spostando sul Golan.
• Una minoranza abituata alle persecuzioni I drusi nascono come eresia dell’Islam sciita in Egitto circa mille anni fa. In seguito la loro religione si è decisamente staccata dall’Islam, accogliendo elementi ebraici, cristiani, perfino induisti; il suo contenuto è noto solo superficialmente dagli stessi drusi, perché mantenuto segreto salvo che a pochi iniziati. Perseguitati da subito e per tutto il corso della loro storia, obbligati a frequenti migrazioni nel Medio Oriente, spesso costretti alla clandestinità, rifugiati sulle montagne della Siria, del Libano, della Giordania e di Israele (sul Carmelo, in Galilea e sul Golan), eccellenti guerrieri, i drusi sono ormai più un popolo che solo una religione, anche se etnicamente arabi. Oggi sono circa un milione in tutto, mantengono in generale la politica di essere fedeli allo Stato cui appartengono, finché questo sussiste e ne rispetta i diritti. Per esempio, i drusi israeliani, a differenza degli altri arabi, fanno il servizio militare e spesso si arruolano nei corpi d’élite e raggiungono posizioni di responsabilità; ma quelli del Golan fino alla guerra civile sono rimasti fedeli alla Siria.
• Perché sono attaccati Anche se immediatamente accettato dalla comunità internazionale quando ha sostituito l’impresentabile regime degli Assad, il governo di Ahmad al-Shara è tutt’altro che rassicurante. Il suo capo e molti quadri sono ex combattenti dell’Isis sostenuti dalla Turchia e sotto i decorosi abiti occidentali e le dichiarazioni pacifiche molti intravvedono una nuova forma della jihad islamista, intollerante di chiunque non appartenga all’Islam sunnita: insomma una minaccia dissimulata di lungo periodo. Poco dopo essere andati al potere e aver ottenuto lo scioglimento delle organizzazioni di autodifesa delle varie comunità della Siria, le milizie di Ahmad al-Shara attaccarono con estrema violenza gli insediamenti alawuiti (una variante degli sciiti, gruppo minoritario insediato sulla costa del Mediterraneo nel nordovest della Siria, cui apparteneva la famiglia Assad), facendo stragi tali da distruggere in sostanza queste comunità. Le persecuzioni ai danni di quel che resta dei cristiani in Siria sono state numerose, anche in questi ultimi giorni; ora è la volta degli Drusi, assaliti dalle stesse truppe e con le stesse modalità degli alawiti. Dopo di loro, se il progetto di distruggere le minoranze e di unificare religiosamente ed etnicamente il paese con la forza non sarà fermato, probabilmente toccherà ai curdi, stanziati nel nordest del paese. Non a caso essi hanno già proclamato la loro alleanza coi drusi e chiesto alleanza a Israele.
• Perché Israele li difende Vi sono due ragioni dell’intervento israeliano, che è stato rapido e deciso, nonostante le trattative semi-segrete in corso per la normalizzazione col regime siriano, fortemente sponsorizzare dall’amministrazione Trump. La prima è il legame con i drusi israeliani, che sempre sono stati fedeli allo Stato ebraico (e anche i caduti militari drusi a Gaza sono stati parecchi). Essi richiedono con forza a Israele un intervento e in folti gruppi i loro giovani addestrati da Israele hanno già attraversato la frontiera per combattere a fianco dei loro “fratelli”. La seconda e principale è che Israele non vuole avere ai propri confini forze jihadiste che potrebbero prima o poi tentare aggressioni anche in stile 7 ottobre. La zona autonoma drusa è dunque un importante cuscinetto di sicurezza, che il regime siriano sta cercando di cancellare. Al-Shara si era impegnato coi drusi a mantenerla e il fatto che alla prima occasione abbia violato gli impegni presi (o non sia stato in grado di tenere sotto controllo i propri miliziani, secondo un’interpretazione più benevola) è un campanello d’allarme per Israele. L’operazione in corso dunque difende non solo la sopravvivenza di un gruppo vicino allo Stato ebraico minacciato di genocidio, ma costituisce anche un segnale molto preciso a chi (per esempio la Turchia) pensasse di iniziare un nuovo periodo di minacce e di logoramento di Israele: la nuova carta geografica del Medio Oriente che Israele sta costruendo non deve contenere minacce del genere.
Il report che incastra gli uomini dell'Anp Partecipano al terrorismo contro Israele
Il rapporto del Palestinian Media Watch fa luce sul ruolo delle Forze di sicurezza dell'Autorità palestinese Molti alti ufficiali hanno compiti di comando nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa e glorificano i terroristi.
di Davide Romano
Quando si parla di Medio Oriente, l'ideologia prevale sempre rispetto alla realtà sul campo. Tutti sanno che, se in questi decenni ci fossero state elezioni in Cisgiordania, le avrebbe vinte Hamas a causa della corruzione della Anp. Ciononostante, ancora oggi le grandi istituzioni internazionali puntano a lasciare Gaza nelle mani del corrottissimo Abu Mazen, invece di puntare sull'autogoverno delle famiglie e dei clan palestinesi secondo le loro tradizioni. Follia pura. Il mondo intero pervicacemente dimentica che l'Autorità palestinese non solo è corrotta, ma fomenta il terrorismo. A questo proposito, è appena uscito il rapporto del Palestinian Media Watch di Itamar Marcus, che documenta come le Forze di sicurezza dell'Autorità palestinese (Pasf), finanziate dall'Occidente, non solo falliscono nel combattere il terrorismo ma partecipano attivamente ad esso. Diversi alti ufficiali Pasf ricoprono infatti contemporaneamente ruoli di comando nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, organizzazione terroristica internazionalmente riconosciuta.
Il documento presenta casi emblematici di questa ambiguità. Il 1 ° maggio 2025 il terrorista Pasf Naji Arrar, rilasciato dopo 18 anni di carcere, è stato accolto con una cerimonia ufficiale dalle Pasf in uniforme. Il governatore di Ramallah, Laila Ghannam, ha pubblicamente posato per delle foto con il terrorista.
Le Pasf non solo onorano i terroristi al rilascio, ma li sostengono economicamente durante la detenzione. Il Maggiore Generale Majed Faraj, capo dell'Intelligence generale PA, ha ordinato pagamenti speciali alle famiglie di 28 "martiri" e 10 prigionieri Pasf nel marzo 2025, definendo i terroristi "i più onorevoli" e "supremi". Il Brigadiere Generale Anwar Rajab, attuale portavoce Pasf, ha scritto nel 2023 che "i membri delle Forze di sicurezza sono sempre stati sui campi di battaglia, molti cadono come martiri e riempiono le prigioni israeliane".
La partecipazione di membri Pasf in operazioni terroristiche è la norma. Le statistiche pubblicate da Fatah mostrano che oltre il 65% dei "martiri" in Cisgiordania è membro del movimento politico e delle Forze di sicurezza. Il rapporto documenta come PA e Fatah producano poster e banner celebrativi per onorare i membri Pasf morti combattendo Israele. Nell'agosto 2023 Fatah ha pubblicato un poster con 30 "Martiri delle Forze di sicurezza palestinesi", di cui 23 identificati come terroristi. Fatah esalta apertamente il doppio ruolo con lo slogan: "Di giorno Forze di sicurezza, di notte combattenti che si sacrificano".
Il rapporto conclude che le Pasf sono dunque "profondamente e fondamentalmente coinvolte nel terrorismo". Tutto questo non è condannato dall'Autorità palestinese o da Fatah, ma glorificato come parte essenziale ed eroica del loro ruolo. I terroristi-ufficiali non sono emarginati, ma onorati con funerali militari quando uccisi e accolti come eroi quando rilasciati. L'idea di far governare l'Autorità palestinese anche su Gaza non è dunque solo folle, ma pericolosa per chiunque volesse la pace in quella martoriata terra. È pazzesco vedere quante istituzioni internazionali puntino ancora sui terroristi palestinesi per cercare la pace. L'epoca dell'Olp, di Hamas e degli altri gruppi che rappresentano il peggio della società palestinese deve finire. È tempo di voltare pagina e lasciare i palestinesi liberi di governarsi da soli, non più oppressi da movimenti totalitari e terroristi calati dall'alto. Mai come oggi siamo a un passo dal far nascere un nuovo Medio Oriente dove a governare sia chi conta le teste, non chi le taglia.
Il peso dei clan arabi in Cisgiordania e a Gaza, Chorev: “La pace con Israele è già realtà” ma Hamas rema contro
Da anni lo Stato ebraico ha un’intesa pacifica con le comunità arabe della Samaria e della Giudea. Il ricercatore: “Coordinamento perfetto con la leadership degli insediamenti”.
di Andrea B. Nardi
Il dottor Harel Chorev è ricercatore senior, storico esperto dei territori arabi in Cisgiordania (Samaria e Giudea) e in particolare dei clan, specie del clan Jabari, retto dallo Sceicco Wadee’ al-Jaabari, detto Abu Sanad, che di recente ha proposto di riconoscere Israele e instaurare rapporti pacifici.
- Che ne pensa della proposta dello Sceicco Jaabari di riconoscere lo Stato di Israele e di instaurare rapporti di pace? «Penso che non si tratti di riconoscere Israele. La cosa importante è che lo Sceicco e i suoi colleghi capoclan, in quattro, stiano offrendo una pace che già esiste con Israele in Cisgiordania, ossia Samaria e Giudea. Israele da tempo è perfettamente coordinata con la leadership degli insediamenti arabi e con persone con cui hanno rapporti di lunga data. Non è una cosa di ieri. Questa famiglia ha avuto una lunga tradizione di legami con Israele. Anche se ogni tanto ci sono terroristi, Hamas, o cose simili che compiono attentati terroristici. Ma in generale, direi che hanno un rapporto speciale con Israele. La vera questione è: ha qualche possibilità di funzionare? E la mia risposta è probabilmente no, perché significherebbe che gli arabi dei territori stanno rinunciando alla loro identità “palestinese”, al loro sentimento nazionale, e non vedo come possa funzionare. Ma lasciamo stare i termini di sentimenti e identità; dal punto di vista pratico, invece, questi clan non possono resistere a un movimento nazionale di massa, che sia Hamas, o Fatah o l’Autorità Palestinese: Fatah domina totalmente l’Anp. I clan non hanno alcuna possibilità contro di esso. Quindi non vedo la possibilità che la cosa maturi. E devo anche dire che nel 2011, e nel 2012, gli stessi clan hanno offerto più o meno la stessa cosa e non ha funzionato allora. Non credo che funzionerà adesso».
- Che ruolo hanno i clan e gli sceicchi nella popolazione della Cisgiordania? Anche a Gaza hanno lo stesso ruolo? «I clan sono l’unità sociale di base sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza; sono molto importanti nella politica locale, ma anche in ogni aspetto della vita, nel benessere economico, nel matrimonio e così via. Di solito gli occidentali non sono consapevoli della loro importanza, e quindi vedono i movimenti politici come se fossero tutto, ma la verità è che ogni cosa nella vita dell’individuo è gestita dalla sua famiglia allargata, o clan o hamula, in arabo».
- I clan sono pacifici oppure no? Hanno attività illegali (narcotraffico, contrabbando, violenze)? «Ogni clan è diverso: ci sono clan noti per le loro attività criminali, altri noti per avere al loro interno molti dottori e persone istruite, ci sono clan di autisti di autobus; c’è una differenza tra un clan e l’altro, e più il clan è grande, e più, probabilmente, vedrete attività diversificate svolte da questo clan. Quindi non si può generalizzare: hanno attività legali che sono molto importanti in quel senso di risoluzione dei conflitti nella sfera palestinese, il diritto consuetudinario noto come sulkha. È il meccanismo principale per risolvere i problemi e le questioni in luogo del sistema statale. Anche nella routine quotidiana i clan sono importanti, perché – a differenza del sistema moderno in Occidente, dove i tribunali si occupano di individui – qui quando hai un problema è un problema interfamiliare: se hai ucciso qualcuno di una famiglia diversa, devi risarcire la famiglia nel suo insieme, hai danneggiato la famiglia nel suo insieme e viceversa, e quindi solo il diritto consuetudinario – noto come sulkha – può risolvere questo tipo di questioni. Questo ci mostra quanto siano importanti i clan come rete di sicurezza per l’individuo; ciò che si vede ora nella Striscia di Gaza ne è un tipico riflesso: quando l’intera organizzazione e il governo sono in crisi, storicamente all’interno della società araba le persone si rivolgono sempre ai loro clan, che rappresentano la loro rete di sicurezza, che si prenderà cura del loro benessere e così via».
- Che rapporti hanno con gli islamisti radicali, con Hamas…? «Le relazioni con gli elementi radicali come Hamas e altri movimenti politici e ideologici sono complesse e c’è una differenza tra un clan e un altro: ci sono clan che si identificano con Fatah, ci sono clan che si identificano con Hamas (come il clan Kasme a Hebron), ci sono clan che hanno sia Fatah che Hamas e altre identificazioni politiche. Spesso dipende da quanto è grande il clan, perché ci sono clan di decine di migliaia di membri, 20, 30, 40mila persone che si considerano un unico clan, anche se in realtà sono un gruppo di diverse famiglie organizzate sotto lo stesso nome di clan».
- Che rapporti hanno i clan con la popolazione israeliana? «Il clan Jarber, che ora vedete sui titoli dei giornali mentre offre la pace a Israele nell’ambito di questo cosiddetto piano emiratino, ha relazioni di lunga data con Israele dal 1967, quando vissero, direi, l’età dell’oro sotto lo sceicco Muhammad. Ali al-Jabari era il sindaco di Hebron e collaborava con Israele, ed essi, in sostanza, hanno tratto grandi benefici da questa connessione, considerandosi abbastanza forti da avere una propria politica indipendente per Israele, il che è generalmente positivo dal punto di vista israeliano. Ma ci sono altri clan noti per i loro problemi con Israele, ci sono clan noti per le loro radici ebraiche, sebbene oggi siano musulmani, come gli Elmakham della zona di Hebron, che hanno costantemente bisogno di dimostrare di essere più musulmani degli altri musulmani a causa delle loro note radici ebraiche, quindi ci sono terroristi che escono da questa famiglia. Tutto appartiene all’identità collettiva di quei clan: non vieni giudicato in base ai tuoi meriti come individuo, ma piuttosto in base alla reputazione della tua famiglia. Se provieni da una “buona” famiglia, questo è tutto ciò che devo sapere su di te; probabilmente sarai anche una brava persona, anche se hai una cattiva reputazione. È la famiglia a contare, questo è tutto».
- Il governo israeliano come si comporta con la popolazione araba pacifica non violenta e non militante? «Bene: Israele non ha alcun interesse a disturbare o molestare le popolazioni pacifiche, e penso che sia qualcosa che è stato ulteriormente sviluppato dalla Seconda Intifada, perché fino alla Seconda Intifada inclusa Israele era solita utilizzare molte misure collettive, non necessariamente punitive, ma se aveva un problema con un villaggio, lo chiudeva, bloccava gli ingressi al villaggio, e controllava tutti. Cose che fondamentalmente tendevano a dire alla popolazione: “Non fate come loro”. Ma questa politica è cambiata dalla consapevolezza che a volte è stato controproducente».
Questo cimitero in Iran prende il nome dalla santa persiana Serach
I musulmani iraniani chiamano i loro connazionali ebrei kalimi. La parola deriva da kalimullah e può essere tradotta con “il profeta che parlava con Dio”. Secondo la concezione sunnita e sciita, questo si applica al profeta Mosè e spiega perché anche nell'Islam egli sia oggetto di grande venerazione. Tra la popolazione iraniana prevale inoltre l'idea, per noi un po' strana ma molto diffusa, che gli ebrei autoctoni siano più vicini all'Islam rispetto agli ebrei di altri luoghi.
L'ebraismo in Iran risale a Ciro II. Il re persiano pose fine all'esilio babilonese degli ebrei con la conquista di Babilonia. Circa 75.000 ebrei iraniani sono emigrati finora in Israele. Circa la metà è arrivata subito dopo la fondazione dello Stato, l'altra metà è emigrata dopo la rivoluzione iraniana del 1979.
Secondo Jehuda Gerami, rabbino capo dell'Iran dal 2011, nel 2022 vivevano in Iran circa 20.000 ebrei. La comunità ebraica rappresenta quindi la minoranza ebraica più numerosa in un Paese a maggioranza musulmana. Oltre a Teheran, uno dei centri della comunità ebraica è Isfahan, antica capitale della dinastia safavide.
A 20 chilometri a sud-ovest di Isfahan si trova Pir-i-Bakran, chiamata anche Linjan. Questo tranquillo luogo ospita il cimitero ebraico più antico dell'Iran e un memoriale dedicato alla santa locale Serach Bat Ascher.
La più antica Sinagoga dell'Iran ricorda Serach Bat Ascher
Molti miti e leggende circondano questa figura femminile biblica, anche in Iran. Nel luogo in cui Serach Bat Ascher, nipote del patriarca biblico Giacobbe, passò in Iran, fu eretto un memoriale chiamato “Santuario del profeta Giacobbe”. Nel corso del tempo questo luogo è diventato una sinagoga. Anche i musulmani venerano la nipote di Giacobbe, chiamando rispettosamente la santa locale chanume Sarah, in italiano “Signora Sarah”. Si recano in pellegrinaggio a Pir-i-Bakran per recitare preghiere personali.
Da un devastante incendio, la sinagoga e il cimitero portano il suo nome, scritto con la lettera ebraica Chet. Secondo la tradizione ebraica, l'ottava lettera dell'alfabeto ebraico simboleggia la “vita”.
La vita di Serach è strettamente legata alla migrazione degli Israeliti in Egitto, alla schiavitù, alla liberazione e al ritorno in “Erez Israel”. La Torah la menziona in Genesi 46,17, quando i discendenti di Giacobbe si trasferiscono in Egitto: E i figli di Ascher: Jimna, Jischwa, Jischwi, Beri e loro sorella Serach. E i figli di Beria: Heber e Malkiël. (Bibbia di Eberfelder)
Un'altra menzione si trova in Numeri 26,13, nell'elenco degli Israeliti nelle steppe di Moab: di Serach, la tribù dei Serachiti; di Shaul, la tribù degli Shauliti. (Bibbia di Elberfeld)
I midrash, interpretazioni di testi religiosi nel giudaismo rabbinico, dedicano ampio spazio alla nipote di Giacobbe. Dopo che Giuseppe si era ricongiunto con i suoi fratelli e li aveva mandati in Canaan per portare il padre in Egitto, Giuseppe raccomandò ai fratelli di non spaventare il padre anziano.
• Giacobbe viene informato che Giuseppe è vivo Secondo il Midrash Ha-Gadol, citato nel Targum Jonatan a Genesi 46,17, fu Serach a informare Giacobbe che suo figlio Giuseppe, che credeva morto, non era stato sbranato da una bestia feroce: «Prese la sua cetra, si sedette accanto a Giacobbe e cantò: Giuseppe, mio zio, è vivo e regna su tutto l'Egitto“. Il Targum Jonathan è una traduzione aramaica della Bibbia ebraica.
Quando Serach portò la lieta notizia a Giacobbe, suo nonno, egli espresse la sua gratitudine con una preghiera per lei: ”Mi hai ridato la vita con la tua bella voce, perciò desidero che tu rimanga in vita per sempre". Il patriarca benedisse sua nipote Serach con la promessa della vita eterna.
La storia del ricongiungimento di Giuseppe con suo padre Giacobbe è entrata anche nella letteratura persiana. Si ritrova nella poesia dei poeti Hafiz, Ferdowsi, Nezami, Saadi e altri.
Il passo biblico Genesi 46,17 annovera Serach tra i 70 membri della famiglia, mentre i rabbini ne contano solo 69. Una certa logica suggerisce che il patriarca Giacobbe fosse il settantesimo membro della famiglia che si trasferì in Egitto. Un midrash sostiene invece che Serach fosse il settantesimo membro del seguito.
Seguendo l'interpretazione rabbinica e anche un'antica tradizione, Serach non fu annoverata tra i settanta discendenti perché, dopo la morte dei suoi genitori naturali, era stata adottata dal figlio di Giacobbe, Ascer, e quindi non era considerata una discendente. Questa interpretazione si trova nel libro Sefer ha-Yashar, nella sezione settimanale Va-Yeshev (capitolo 14).
• Ruolo chiave nella conferma della funzione di Mosè I rabbini attribuiscono a Serach un ruolo chiave nella conferma di Mosè come salvatore che avrebbe condotto gli Israeliti dall'Egitto alla libertà. Il Midrash Rabbah (Schemot Rabbah 5,13) spiega che Serach Bat Asher era ancora viva al tempo dell'Esodo dall'Egitto.
In Genesi 50,25 leggiamo: E Giuseppe fece giurare i figli d'Israele e disse: «Quando Dio vi avrà visitato, portate le mie ossa da qui!
Il Midrash stabilisce il seguente nesso: il segreto della redenzione era stato rivelato ad Abramo, che lo trasmise a Isacco, Isacco a Giacobbe e Giacobbe a Giuseppe.
Ascer trasmise il segreto alla figlia adottiva Serach. Secondo il Midrash, fu Serach ad aiutare Mosè a trovare il luogo di sepoltura di Giuseppe, per mantenere la promessa di portare le sue ossa fuori dall'Egitto.
• Midrash: Serach ebbe una lunga vita Altri Midrashim trattano di questa sorprendente figura femminile biblica. Uno di essi narra che era ancora viva ai tempi del re Davide (Bereshit Rabbah 94,9). Quando Joab, generale di Davide, le chiese: “Chi sei?”, Serach rispose: “Sono una di coloro che cercano il benessere dei fedeli [schelomei emunei] in Israele”.
Secondo l'interpretazione rabbinica, Serach disse a Joab: “Sono una degli Israeliti che si sono trasferiti in Egitto. Ho completato il numero di Israele [schelumai]. Vuoi uccidere tutta la città, anche me che sono una donna importante?”. Serach salvò la vita di tutti gli abitanti della sua città (Kohelet Rabbah 9:18:2).
Una tradizione esegetica continua: Serach non morì, ma entrò in paradiso come vivente, proprio come Enoch (Genesi 5,24): E Enoch camminò con Dio; e non fu più, perché Dio lo prese con sé.La Bibbia racconta lo stesso del profeta Elia. Anche secondo la tradizione cristiana, il profeta Elia vive ancora e difenderà la vera fede in Dio fino alla seconda venuta di Cristo sulla terra.
A questa tradizione dell'immortalità si ricollega un racconto rabbinico in cui Serach appare in un Beit Midrasch (scuola). Il rabbino Jochanan Ben Sakkai interpretò Esodo 14,22: Allora i figli d'Israele entrarono in ⟨terra⟩ asciutta in mezzo al mare, e l'acqua era loro un muro a destra e a sinistra con una rete impenetrabile. Serach, testimone della divisione del Mar Rosso durante la fuga dagli Egiziani: “Io ero lì, l'acqua non era una rete, ma una finestra trasparente”.
La tradizione narrativa relativa alla sua vita straordinariamente lunga si basa su due eventi: uno è la sua menzione tra i 70 discendenti di Giacobbe che si trasferirono in Egitto. Inoltre, era tra gli israeliti dell'Esodo che entrarono in «Eretz Israel».
Inoltre, gli ebrei iraniani tramandano da molte generazioni che Serach Bat Ascher abbia attraversato la Persia e si sia stabilita a Isfahan nel IX secolo secondo il calendario gregoriano. È saldamente radicata nella credenza popolare ebraica locale l'idea che un profondo passaggio sotterraneo conduca dal memoriale di Serach Bat Asher direttamente a Gerusalemme. Il giorno della venuta del Messia, i morti di Pir-i-Bakran saranno tra i primi ad arrivare al Giorno del Giudizio.
(Israelnetz, 17 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Striscia di Gaza settentrionale: nuovi caduti tra i militari israeliani
di Davide Cucciati
Lunedì 14 luglio 2025, tre soldati dell’esercito israeliano sono morti, mentre si trovavano all’interno di un carro armato, in seguito a un’esplosione verificatasi durante una missione nella zona di Jabalya, nel nord della Striscia di Gaza. A darne notizia è stata la stessa Tzahal, come riportato dal Jerusalem Post. Le vittime sono il sergente maggiore Shoham Menahem, di 21 anni, originario del moshav Yardena, il sergente Shlomo Yakir Shrem, di 20 anni, residente a Efrat, e il sergente Yuliy Faktor, 19 anni, di Rishon Lezion. Tutti appartenevano alla 401esima brigata corazzata. Nello stesso incidente è rimasto gravemente ferito anche un ufficiale. Secondo quanto riferito da Army Radio, l’esplosione è avvenuta intorno a mezzogiorno mentre l’unità era impegnata in un’operazione contro una cellula locale di Hamas e le relative infrastrutture terroristiche. In un primo momento si era ipotizzato che a colpire il carro armato fosse stato un missile anticarro. Tuttavia, nelle ore successive, Tzahal ha valutato come altamente probabile che si sia trattato di un incidente operativo causato dall’esplosione accidentale di un proiettile all’interno del mezzo. Le indagini sull’accaduto sono ancora in corso. Pochi giorni prima dell’esplosione a Jabalya, un altro grave attacco ha colpito le forze israeliane nel nord della Striscia. Secondo quanto riferito da Ynet e dal Times of Israel, la sera del 7 luglio cinque soldati sono stati uccisi e altri quattordici feriti, due dei quali in modo grave, in un’imboscata avvenuta nei pressi della città di Beit Hanoun. Le truppe coinvolte operavano a piedi in una zona dove erano presenti anche mezzi corazzati e veicoli del genio militare. Una serie di ordigni esplosivi è stata fatta detonare a distanza, da miliziani di Hamas, colpendo inizialmente un primo gruppo di soldati e poi coloro che accorrevano in soccorso. Un terzo ordigno è esploso mentre una cellula di terroristi palestinesi apriva il fuoco in quello che il Comando Sud ha descritto come un agguato coordinato. I cinque soldati caduti sono il sergente di prima classe Benyamin Asulin, 28 anni, di Haifa, riservista in servizio nella Gaza Division, il sergente maggiore Noam Aharon Musgadian, 20 anni, di Gerusalemme, il sergente maggiore Meir Shimon Amar, 20 anni, anche lui di Gerusalemme, il sergente maggiore Moshe Shmuel Noll, 21 anni, di Beit Shemesh, e il sergente Moshe Nissim Frech, 20 anni, sempre di Gerusalemme. Quattro di loro prestavano servizio nel battaglione Netzah Yehuda della brigata Kfir, un’unità fondata per accogliere soldati haredim e composta ancora oggi prevalentemente da militari osservanti. Come sottolineato da un precedente reportage pubblicato proprio su Mosaico, già a maggio 2025 i militari israeliani affermavano che la zona settentrionale della Striscia di Gaza fosse l’area più insidiosa: “Parlando con due soldati appena usciti dalla Striscia di Gaza, avevo ricevuto un’anticipazione chiara: il nord della Striscia resta l’area più ‘calda’, con scontri più intensi rispetto al sud”. Jabalya e Beit Hanoun, teatri degli ultimi attacchi mortali, confermano tragicamente quell’analisi. Secondo il Times of Israel, il numero totale dei militari israeliani uccisi dal 7 ottobre 2023 è salito a 893. La fonte riporta che sei colonnelli figurano tra le vittime, il numero più alto di ufficiali di grado così elevato uccisi in combattimento negli ultimi decenni. Dei caduti, 329 sono morti durante l’attacco iniziale di Hamas il 7 ottobre, mentre 449 sono stati uccisi durante l’operazione terrestre nella Striscia di Gaza o in operazioni lungo il confine. A questi si aggiungono ventinove soldati uccisi nel nord di Israele da Hezbollah e gruppi affiliati, cinquantuno durante operazioni di terra in Libano, dodici in attacchi terroristici in Giudea e in Samaria e in territorio israeliano e cinque in operazioni antiterrorismo sempre in Giudea e in Samaria. Due soldati sono morti in un attacco con droni partito dall’Iraq, uno in un attacco missilistico balistico proveniente dall’Iran. Vi sono infine almeno 15 caduti per fuoco amico, malfunzionamenti di armamenti e incidenti non direttamente legati ai combattimenti.
Israele bombarda la Siria: "Per difendere i drusi"
E nella Striscia evacuazioni a Gaza City e Jabalia. A rischio il governo Netanyahu
di Chiara Clausi
Israele bombarda la Siria mentre le forze governative di Damasco entrano nella città a maggioranza drusa di Sweida, nel Sud. Il raid arriva dopo due giorni di sanguinosi scontri settari in Siria tra milizie druse e tribù beduine. È un attacco inaspettato quello di Tel Aviv anche perché lo Stato ebraico considerava la nuova leadership siriana, che ha fatto fuggire Bashar al-Assad, un potenziale alleato. Già lunedì l'Idf aveva effettuato alcune incursioni contro carri armati che si stavano avvicinando a Sweida. Israele, occorre ricordare, ha al suo interno popolazione drusa, ad esempio sulle alture del Golan, e per questo motivo ha cercato di presentarsi sempre come suo protettore in Siria.
Netanyahu e Katz hanno spiegato subito la ragione del bombardamento, ovvero che l'ingresso di soldati e armi nell'area di Sweida viola "la politica di smilitarizzazione decisa e mette in pericolo Israele". Circa 100 persone sarebbero state uccise da quando, domenica, sono scoppiati i combattimenti, ma come vedremo il dato è controverso. Il ministro della Difesa siriano Murhaf Abu Qasra ha annunciato un cessate il fuoco, e ha chiarito che è stato raggiunto un accordo con i notabili e i dignitari di Sweida. Tuttavia, un leader spirituale druso ha esortato i guerriglieri locali a resistere. Dall'arrivo delle forze governative in città, infatti, gli scontri hanno contrapposto quest'ultime ai drusi.
È la prima volta che l'esercito di Damasco viene dispiegato a Sweida da quando i ribelli islamisti hanno rovesciato Assad a dicembre. Ma le comunità minoritarie sono sospettose del governo ad interim di Ahmed al-Sharaa, detto Al-Jolani, nonostante le sue promesse di proteggerle. Finora la provincia di Sweida era rimasta in gran parte sotto il controllo delle milizie druse, che hanno resistito alle richieste di unirsi alle forze di sicurezza. Ma perché sono scoppiate le violenze? Sono iniziate domenica quando uomini armati beduini hanno rapito un venditore di frutta e verdura druso sull'autostrada per Damasco. Da quel momento sono cominciati rapimenti e scontri di rappresaglia che si sono estesi in tutto il governatorato di Sweida. L'Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede nel Regno Unito, ha riferito di circa 99 morti dall'inizio dei combattimenti. L'organizzazione però - come anticipato - è stata regolarmente accusata dagli analisti militari siriani di aver diffuso dati falsi e gonfiato il numero delle vittime. I drusi, seguaci di una religione esoterica sciita, si trovano principalmente in Siria, Libano e Israele. La popolazione drusa siriana prima della guerra era stimata in circa 700.000 persone, molte delle quali concentrate nella provincia di Sweida.
Israele intanto è impegnato pure su un altro fronte, la Striscia, dove la battaglia continua a imperversare. L'esercito di Tel Aviv ha esortato la popolazione di Gaza City e Jabalia, nel nord, a "evacuare immediatamente" a sud verso al-Mawasi. Ma anche dentro lo Stato ebraico la situazione è critica, pare che scricchioli la maggioranza di Netanyahu. Il partito israeliano Shas ha annunciato che il Consiglio dei Saggi della Torah si riunirà oggi a Gerusalemme e definirà il suo futuro all'interno del governo. Senza gli 11 seggi di Shas, l'esecutivo potrebbe cadere.
La dichiarazione arriva in seguito alla decisione presa lunedì dall'United Torah Judaism di uscire dalla maggioranza, dopo che il progetto di legge per rendere esenti gli haredim dalla coscrizione non è stato presentato.
Mentre il popolo combatte in prima linea, la leadership si perde in lotte ideologiche e nessuno fa il primo passo verso l'unità.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Il risultato è un quadro paradossale: tutti sentono che non si può andare avanti così, ma ognuno dà la colpa all'altra parte. Nessuno fa il primo passo per riportare la calma. Tutti si lamentano della situazione, ma nessuno si ferma. E mentre in alto si litiga, il popolo ne porta il peso: al fronte, nelle riserve, nella vita quotidiana. A proposito: secondo i dati ufficiali dell'IDF, fino a settembre 2024 sono stati mobilitati circa 300.000 riservisti, il che significa che solo uno su dieci in età di leva (dai 22 ai 45 anni) e appena il 3% della popolazione totale sta attualmente sostenendo il peso maggiore della difesa del Paese. Sì, avete capito bene: solo il 3%! Questo va detto, e ne scriverò in modo approfondito in un altro momento. Mi chiedo: come può un governo che in un momento come questo, invece di invitare all'unità, continua a dividere, parlare di leadership? Non è il momento di fare i conti, quelli li possiamo fare più tardi. È semplicemente incredibile su cosa stiamo litigando. Adesso? Proprio durante la guerra? Un governo responsabile non promuoverebbe una riforma della giustizia nel bel mezzo di una guerra su sette fronti, anche se alcuni punti di questa riforma possono essere giustificati. Tutto ciò che in giorni come questi crea divisioni dovrebbe essere messo da parte. Soprattutto quando i soldati vanno in battaglia ogni giorno, quando le madri pregano per la vita dei loro figli, quando i comandanti hanno sulle spalle decisioni di vita o di morte. In questi momenti, a mio avviso, non c'è spazio per indebolire le istituzioni statali, attaccare la magistratura o creare inutili disordini. Non solo è irresponsabile, ma è anche un rischio strategico. Un governo responsabile non penserebbe mai, nemmeno in sogno, di promuovere una legge che, proprio in tempo di guerra, esenta dall'obbligo di leva 80.000 giovani idonei al servizio militare, ricompensandoli con agevolazioni fiscali, sussidi per l'alloggio e borse di studio a spese dei cittadini che lavorano e prestano servizio. Questo messaggio è devastante, soprattutto ora che l'esercito ha urgente bisogno di 10.000 soldati in più per aiutare i coscritti e soprattutto i riservisti. Questi ultimi stanno crollando sotto il peso della guerra. L'anno scorso, alcuni rappresentanti dei riservisti hanno cercato di convincere il governo a porre fine a questi accordi politici che esentano gli ebrei ortodossi dal servizio militare. Ma non c'è stata alcuna reazione. Per correttezza va detto che gli ortodossi che si sottraggono al servizio militare sono particolarmente visibili perché hanno una rappresentanza forte e influente nel governo, ma non sono gli unici. Ci sono anche numerosi israeliani laici e religiosi che hanno prestato il servizio militare regolare, ma oggi non prestano servizio nella riserva. La verità è che il peso ricade sulle spalle di pochi. L'onere sarebbe notevolmente inferiore se tutto il popolo, uomini e donne tra i 18 e i 45 anni, facesse la sua parte. Io stesso conosco molti giovani che nella vita civile parlano a voce alta di politica, ma quando si fa sul serio preferiscono distogliere lo sguardo. Non prestano servizio di riserva, anche se potrebbero e dovrebbero farlo. Particolarmente evidenti sono i due figli del primo ministro, Yair (33) e Avner (30) Netanyahu, che non sono in servizio. Perché? Invece di prestare servizio, Yair viaggia con papà e mamma a Washington, posa nelle foto con Trump, mentre i suoi coetanei sono in trincea. Questo non è solo un segnale sbagliato, è vergognoso. La leadership inizia con l'esempio. Chi sostiene politicamente la guerra non può sottrarsi moralmente. Chi chiede sacrifici deve anche dimostrare di essere disposto a compierli, in famiglia, non solo a parole. Già nel maggio 2022, la sottocommissione per gli affari esteri e la difesa della Knesset hanno reso noti per la prima volta dati concreti sul servizio di riserva. Il generale di brigata Amir Vadmani, responsabile della pianificazione del personale dell'IDF, parlò allora di circa 490.000 israeliani ufficialmente classificati come riservisti, pari a circa il 17% della popolazione di età compresa tra i 22 e i 45 anni e al 5% della popolazione totale. Il numero effettivo di riservisti attivi era tuttavia nettamente inferiore: solo circa 120.000 prestavano regolarmente servizio, pari a circa il 4% della fascia d'età e appena l'1% della popolazione totale. Nel corso dell'attuale guerra, questo quadro è cambiato: secondo i dati dell'IDF, fino a settembre 2024 sono stati mobilitati circa 300.000 riservisti, pari a circa il 10% della fascia di età idonea al servizio militare o al 3% della popolazione totale. In realtà, sebbene il servizio di riserva sia obbligatorio per legge, nella pratica si basa spesso solo sulla disponibilità volontaria. In realtà, solo una piccola parte della società sostiene attualmente l'enorme peso della difesa nazionale, volontariamente e con grandi sacrifici personali. Ancora più vergognoso è vedere i rappresentanti del popolo che fanno di tutto per tenere insieme la coalizione, anche se questo significa esentare dal servizio interi gruppi di studenti della yeshiva, mentre i loro coetanei si stancano nel fango di Gaza o in Libano sotto il peso del servizio di riserva. Dove trovano il tempo e l'energia per occuparsi di questioni secondarie mentre l'essenziale va a fuoco? Come si può pensare al potere, al controllo, ai privilegi e alla legislazione quando è in gioco la nostra stessa esistenza? E come se non bastasse, questo governo continua a lacerare il tessuto sociale della nostra società. Invece di guarire, lacera. Invece di invocare l'unità, incita all'odio. Invece di guidare il popolo, lo trascina nell'abisso. Abbiamo dimenticato le lezioni della nostra storia? Non di rado abbiamo perso la nostra sovranità non a causa della forza dei nostri nemici, ma a causa delle lotte intestine. Come è possibile che proprio in un momento di prova così esistenziale il governo israeliano si rifiuti di imparare dalla storia e ripeta gli stessi errori? A sua difesa, sostiene che la colpa è tutta dei media di sinistra, dell'élite e del sistema giudiziario. Naturalmente anche questi hanno una parte di responsabilità. Ma il governo dovrebbe essere un modello e, in quanto responsabile, guidare la riconciliazione. Invece di mobilitare tutte le forze per la vittoria, mobilita le sue energie per la lotta interna. Un governo che litiga nel bel mezzo di una guerra contro il proprio popolo ha perso di vista la vera battaglia. In un momento di minaccia esistenziale, il governo non dovrebbe dividere, ma unire. Non fare tattica, ma mostrare responsabilità. Le questioni politiche secondarie devono essere messe da parte. Ora conta ciò che ci unisce, non ciò che ci divide. Anche l'opposizione ha delle responsabilità, ma le sue possibilità sono limitate. Il primo e più grande dovere spetta al governo. È lui che ha il peso della leadership e quindi la responsabilità nei confronti del popolo. Il caos politico a Gerusalemme deve finire una volta per tutte, per il bene della popolazione del Paese.
(Israel Heute, 16 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il deterioramento dei rapporti ebraico-cristiani è uno degli effetti negativi collaterali del conflitto iniziato il 7 ottobre 2023. In gran parte si è trattato di questioni politiche, differenti visioni sul conflitto, giudizi severi e mancanza di empatia. Ma la teologia non è rimasta estranea a questo processo e sono stati segnalati fenomeni regressivi, ritorno a vecchi schemi di contrapposizione. Su una scena già preoccupante è comparso ora un ulteriore affondo, a firma del teologo Vito Mancuso nella Stampa del 13 luglio. Partendo da una critica severa nei confronti di un ministro di Israele, cosa certamente legittima, il teologo si è spinto in un’analisi tanto affrettata quanto sconcertante della natura stessa dell’ebraismo e della Bibbia. Il teologo ha scoperto che l’ebraismo non è solo una religione ma anche una nazione. Cosa a tutti ben nota, peraltro. Solo che per il teologo la religione ebraica contiene degli elementi assolutamente positivi (quelli ripresi da Gesù), laddove la nazione è di per sé negativa. La parte nazionale dell’ebraismo, che con un suo neologismo chiama “israelismo”, è presente nella Bibbia e ne inquina il linguaggio umanitario religioso, chiamando a massacri e distruzioni, come il terribile capitolo 7 del Deuteronomio.
Dunque, l’ebraismo, per il teologo, nel momento in cui è nazione è malato, e questo spiega bene gli eventi attuali e le posizioni di alcuni ministri israeliani che alla Bibbia si richiamano.
Prima di spiegare perché questa analisi sia essa stessa malata e sconcertante, va messa in evidenza la catena logica e dottrinale che la precede e la ispira. Il cristianesimo fin dall’inizio ha avuto un rapporto ambiguo con le sue origini ebraiche, da una parte rivendicandole come annuncio e realizzazione delle promesse bibliche, dall’altro cercando di stabilire una distanza sempre più profonda. La Bibbia ebraica (l’Antico Testamento) serve ad annunciare e confermare l’evento messianico, ma la sua parte normativa, la “Legge”, è negativa, fonte di peccato, e va eliminata; gli ebrei che seguono la legge biblica sono legalisti e ipocriti, e ciechi perché non vedono la realizzazione delle sue promesse. La Chiesa a questo punto è il Vero Israele, mentre quello antico, che si ostina a non credere, ha perso la sua dignità. Il Dio della Bibbia ebraica, come teorizzava Marcione, è quello della giustizia, della vendetta e della guerra; il Dio del cristianesimo è amore, perdono e pace. Ci sono voluti sessant’anni di faticoso dialogo per purificare il pensiero cristiano da queste teorie di contrapposizione che per secoli, in nome del Dio dell’amore, hanno seminato odio e persecuzioni. Ma ora c’è Mancuso e si ricomincia. Se non c’è proprio il Dio della guerra, c’è la nazione che per sua natura ha bisogno della guerra e si inventa un Dio crudele e sterminatore che detta le pagine sanguinolente del Deuteronomio.
Mancuso non contesta ai francesi di essere francesi, agli italiani di essere italiani e così via, e non dice che il loro essere nazione equivale a predicare odio e distruzione, ma agli ebrei l’essere nazione è rinfacciato come un peccato originale, indissociabile da una violenza istituzionale. Si è dimenticato, con svista non veniale per un teologo, che gli ebrei diventano popolo alle pendici del monte Sinai, quando ricevono i dieci comandamenti. Si è dimenticato che per gli ebrei accanto a una Torà scritta esiste una Torà orale, che mette in discussione ogni parola e lettera di quella scritta, in una continua evoluzione dialettica e che spiega in tanti modi possibili e sofferti anche le pagine più problematiche (per la nostra sensibilità evoluta) della Bibbia. Mentre Mancuso pensa che l’israelismo, cioè l’essere nazione, ha contaminato la pura religione ebraica, gli ebrei pensano che la religione ha forgiato la nazione ebraica e le ha dato una missione di civiltà, pace e giustizia per il mondo. Forse non farebbe male a rileggersi, in questa chiave, la profezia di Isaia all’inizio del capitolo 2.
La domanda ora è se questo pensiero sia l’espressione di un nuovo trend del cattolicesimo, o sia solo una scheggia isolata che altri teologi cattolici, si spera, metteranno in discussione.
(Shalom, 16 luglio 2025) ____________________
E' vero purtroppo che nel cristianesimo in senso lato sta crescendo l'astio verso gli ebrei come nazione. Anche in campo evangelico, anche là dove si dà importanza a Israele come nazione, aumentano le insistenze di chi vuole distinguere nettamente tra l'Israele biblico e l'Israele politico di oggi. La questione in fondo è squisitamente teologica, quindi è inutile pensare di affrontarla in poche battute. In ogni caso, è riduttivo affrontarla in termini di cristianesimo contro ebraismo. A questo riguardo vorrei rispettosamente dire a Rav Di Segni che forse è un po' superficiale contrapporre all'ebraismo un cristianesimo marcionico che professa un Dio che è amore, perdono e pace. Non potrebbe essere anche questa una caricatura, corrispondente a quella che presenta il Dio ebraico come crudele e vendicatore? In ogni caso, che ci si creda o no, per l'odio a cui oggi è esposto Israele ci sono cristiani che intimamente soffrono, in modo non direi uguale, che non è possibile, e neanche di più o di meno, ma quanto meno paragonabile a quello di altri ebrei. M.C.
I partiti religiosi in rotta con il governo. Bibi vacilla ma il calendario è con lui
No, il governo di Benjamin Netanyahu non sta per cadere. Ma l’uscita del partito haredi Yahadut HaTorah, seguita ora dalla possibile defezione di Shas, complica la tenuta di una maggioranza già sotto pressione per la guerra a Gaza e per le tensioni interne legate. Il partito haredi ashkenazita, composto dalle fazioni Degel HaTorah e Agudat Yisrael, ha annunciato lunedì sera l’uscita dal governo dopo aver ricevuto la bozza della legge sul servizio militare, giudicata inaccettabile dai leader religiosi e contraria agli impegni presi da Netanyahu. Le lettere di dimissioni dei sette parlamentari di Yahadut HaTorah sono state presentate e diventeranno effettive entro la mezzanotte di mercoledì, lasciando al primo ministro un margine di 48 ore per trovare un compromesso.
Nel frattempo, anche Shas, l’altro partito ha annunciato una “discussione cruciale” sulla permanenza nel governo. Secondo la stampa israeliana, una decisione definitiva potrebbe arrivare nel fine settimana. Se anche il partito guidato da Aryeh Deri dovesse uscire, la maggioranza si ridurrebbe da 61 a 50 seggi, trasformando di fatto l’esecutivo in un governo di minoranza.
• La proposta Edelstein Il punto critico resta la normativa sull’esenzione dal servizio militare. La proposta avanzata da Yuli Edelstein, presidente della Commissione Affari Esteri e Difesa, introduce una serie di misure che i partiti religiosi considerano inaccettabili. Tra queste, l’obbligo per gli studenti delle yeshivot di completare comunque l’intero iter previsto per l’arruolamento – visite mediche, colloqui e assegnazione di un profilo militare – prima di poter ottenere l’esenzione. Un cambiamento sostanziale rispetto al sistema precedente, che garantiva un’esclusione diretta per chi studiava a tempo pieno. A questo si aggiungono la registrazione obbligatoria tramite impronta digitale per monitorare la presenza in yeshiva e sanzioni più severe per i renitenti. Fonti vicine a Edelstein confermano che il deputato del Likud non è disposto a ulteriori concessioni. “Non approverò una legge sull’evasione, solo una legge sull’arruolamento”, avrebbe dichiarato il parlamentare, secondo quanto riporta Kan. Una linea dura che lo pone in rotta di collisione con i partiti haredi.
Sulle colonne di Makor Rishon il giornalista di affari religiosi Akiva Weiss segnala come nel Likud ci sia un certo pessimismo: è difficile che si arrivi a un’intesa nelle prossime 48 ore. Il timore nella coalizione è che Edelstein non intenda cedere su nessun punto chiave. Di fronte a questo scenario, Netanyahu potrebbe trovarsi costretto a navigare per settimane con un governo di minoranza. Una possibilità concreta, se i partiti haredi si limiteranno a uscire dal governo senza unirsi formalmente all’opposizione.
• La sospensione estiva I tempi parlamentari giocano però a favore del primo ministro. Tra otto giorni inizierà la pausa estiva della Knesset, della durata di tre mesi. In questo periodo non ci saranno votazioni e Netanyahu non dovrà dimostrare di avere la maggioranza. Un tempo di “silenzio istituzionale” che potrebbe essere sfruttato per rinegoziare la legge, allentare la tensione interna e provare a far rientrare Yahadut HaTorah e Shas nella coalizione.
L’ipotesi di uno scioglimento della Knesset con il sostegno dei partiti haredi è invece remota, almeno per il momento. Per ottenerla servirebbe il voto favorevole di almeno 61 deputati e un’iniziativa condivisa con l’opposizione, uno scenario che Degel HaTorah e Agudat Yisrael preferiscono evitare. Come sottolinea ancora Weiss, un ritorno alle urne per i partiti haredi potrebbe significare restare fuori dal prossimo governo e trovarsi a fronteggiare dall’opposizione una nuova normativa sulla leva obbligatoria. Una legge che, se approvata da una maggioranza alternativa scontenterebbe il mondo haredi. I sondaggi mostrano che un’ampia maggioranza degli israeliani chiede un provvedimento per aumentare il coinvolgimento degli studenti di yeshiva nel servizio militare.
Crisi di governo: Degel haTorah si ritira dalla coalizione, e Shas ci pensa
Mentre Bibi cerca di tenere in piedi il governo, in mezzo alla guerra e alla tragedia degli ostaggi
di Anna Balestrieri
Mentre gli Stati Uniti spingono per un accordo sugli ostaggi, il premier israeliano Beniamin Netanyahu affronta pressioni crescenti dall’estrema destra e dai partiti religiosi della coalizione. Il rischio di una crisi istituzionale si affianca alla prosecuzione della guerra a Gaza e alle tensioni sul fronte interno.
• Crisi sulla legge sulla leva: Degel HaTorah annuncia il ritiro dalla coalizione È infatti di lunedì 14 luglio la notizia che Degel HaTorah – una delle due componenti principali del fronte haredi – ha annunciato il proprio ritiro dalla coalizione a causa della legge sull’esenzione degli studenti delle yeshivot che, secondo loro, non fa progressi. La decisione è stata comunicata dopo la presentazione di una bozza ritenuta non conforme agli accordi presi con il Likud. “Il testo di legge presentato oggi si discosta da quanto promesso. I parlamentari di Degel HaTorah si dimettono e lasciano immediatamente la coalizione.” Shas, altro partito ultraortodosso, ha per il momento rifiutato di firmare una mozione per lo scioglimento della Knesset, ma ha lasciato intendere che potrebbe uscire dal governo nei prossimi giorni se la legge non avanzerà. Senza Degel HaTorah, la maggioranza si riduce a 61 seggi; senza Shas, scenderebbe a 50, rendendo il governo tecnicamente minoritario. Tuttavia, la pausa estiva offre a Netanyahu un margine di manovra: la Knesset non sarà attiva e non sono previste votazioni imminenti.
• Pressioni, dimissioni minacciate e cinismo politico Durante l’intera giornata di lunedì, Netanyahu ha cercato di ricucire con i partiti haredim, convocando riunioni d’emergenza e tentando di mediare tra i loro rappresentanti e il Likud. In serata, una bozza condivisa sembrava profilarsi, ma alcuni esponenti ultraortodossi hanno subito raffreddato gli entusiasmi, definendo la proposta “problematicamente distante” da quanto promesso. Tutto questo, mentre la morte dei tre soldati era già nota ai vertici politici, come ha sottolineato il deputato d’opposizione Naor Shiri: “Sapevamo dei caduti dalle 12:30. Eppure l’unica priorità del governo è stata trattare con chi rifiuta la leva, per non perdere il potere. È un tradimento dei nostri soldati.”
• Ostaggi e guerra: il tempo come strategia A quasi due anni dall’inizio dell’operazione militare a Gaza, il primo ministro Benjamin Netanyahu torna da Washington senza alcun accordo sugli ostaggi, nonostante le forti pressioni esercitate dal presidente statunitense Donald Trump. Le trattative rimangono bloccate: da un lato, Hamas chiede garanzie americane per la fine del conflitto; dall’altro, Israele insiste nel voler mantenere una presenza militare significativa a Gaza durante l’implementazione di una prima fase dell’accordo. Intanto, il conflitto continua a mietere vittime. Tre soldati israeliani sono rimasti uccisi lunedì 14 luglio nel nord della Striscia, colpiti da un missile anticarro. Nonostante i sondaggi mostrino una maggioranza netta della popolazione favorevole a un accordo complessivo per riportare a casa tutti gli ostaggi e porre fine ai combattimenti, Netanyahu denuncia una manipolazione mediatica, accusando la stampa israeliana di influenzare l’opinione pubblica.
• L’obiettivo di Netanyahu: arrivare alla pausa estiva senza strappi Secondo osservatori politici, la priorità del premier resta la tenuta della propria coalizione. In caso di necessità, sarebbe pronto a cedere alle richieste americane, ma punta a rinviare ogni decisione sostanziale dopo l’inizio della pausa estiva della Knesset, prevista a fine luglio. In quel momento, il governo potrebbe sopravvivere anche senza una maggioranza operativa, almeno temporaneamente. Fonti vicine al governo parlano di un’intesa in due fasi: una prima con il rilascio parziale degli ostaggi (circa dieci dei venti ancora in vita) e la restituzione di alcune salme, seguita da un possibile ritorno alle operazioni militari per contenere le critiche dell’ultradestra.
• L’allarme istituzionale di Herzog e la sicurezza interna La Corte Suprema ha aperto la strada alla nomina del nuovo direttore dello Shin Bet, che potrebbe essere David Zini, vicino all’ala messianica della coalizione. L’opposizione avverte che una tale scelta potrebbe compromettere l’imparzialità dei servizi di sicurezza in vista di future elezioni. In parallelo, è in corso un duro scontro istituzionale tra il governo e la consigliera legale Gali Baharav-Miara, minacciata di rimozione. La procuratrice Baharav-Miara aveva avviato un procedimento contro uno dei consiglieri più vicini a Netanyahu, Yonatan Urich, accusato di furto e diffusione di documenti riservati alla stampa estera. Il premier ha definito le accuse infondate, pur contraddicendo dichiarazioni precedenti in cui affermava di non essere a conoscenza dei fatti. A un’ora dall’audizione prevista per lunedì 14 luglio, la funzionaria ha annunciato che non vi avrebbe preso parte, denunciando l’intero procedimento come una farsa con esito già deciso. “È un’udienza di facciata, che legittima la rimozione del consulente legale per motivi impropri, come l’opposizione ad atti illegali o la promozione di indagini. È un attacco diretto allo stato di diritto.” Anche il presidente Isaac Herzog è intervenuto con toni allarmati: “Siamo su una montagna russa senza freni. Bisogna fermarsi, prima che si cada nel baratro.” Il governo regge, ma su fondamenta fragili: tra ostaggi ancora in mano a Hamas, minacce di crisi parlamentare, e un sistema giudiziario sotto pressione, la stabilità dell’esecutivo appare sempre più precaria.
Regno Unito – Antisemitismo sistemico, l’allarme in un rapporto bipartisan
Dieci raccomandazioni su come affrontare l'emergenza
Ospedali, sindacati, ordini professionali, scuole, festival artistici: l’antisemitismo nel Regno Unito si è insinuato in profondità nelle istituzioni pubbliche e nella società civile. Non si tratta di casi isolati, ma di una condizione diffusa e spesso ignorata, che ha lasciato molti ebrei britannici con la sensazione di non avere più un luogo sicuro al di fuori della propria comunità. È quanto emerge dal rapporto pubblicato dalla Commissione sull’antisemitismo del Board of Deputies of British Jews, presieduta da Lord John Mann, consigliere contro l’antisemitismo del governo laburista di Sir Keir Starmer, e Dame Penny Mordaunt, esponente conservatrice ed ex ministra della Difesa.
Il documento nasce come risposta al forte aumento di attacchi antisemiti registrato dopo le stragi di Hamas del 7 ottobre 2023. Secondo il Community Security Trust, nel 2024 sono stati documentati 3.528 episodi di antisemitismo, il secondo dato annuale più alto mai registrato. «Siamo di fronte a una questione urgente per l’intero Regno Unito» avvertono Mann e Mordaunt, sottolineando come «il 7 ottobre ha portato alla ribalta problemi che già esistevano».
Molti ebrei britannici hanno smesso da tempo di rivolgersi alle istituzioni esterne alla propria comunità. Non si tratta di una sfiducia improvvisa, ma la constatazione che, in molti ambiti, la protezione promessa non si applica a tutti allo stesso modo. Phil Rosenberg, presidente del Board of Deputies, lo riassume così: «Molti settori promuovono forti processi di uguaglianza, diversità e inclusione, che sono molto importanti, ma troppo spesso queste tutele sembrano escludere gli ebrei». E aggiunge: «Per citare il titolo del libro di David Baddiel, troppo spesso sembra che Gli ebrei non contano (Jews Don’t Count)».
Nel rapporto bipartisan viene menzionata la Bbc, invitata, insieme ad altre istituzioni culturali e mediatiche, ad riflettere sul proprio ruolo nella rappresentazione della comunità ebraica. La Commissione sollecita l’emittente pubblica a garantire maggiore equilibrio e consapevolezza nel modo in cui affronta temi legati all’ebraismo, all’antisemitismo e Israele.
Il documento propone poi dieci raccomandazioni operative per affrontare la situazione. Alcune sono definite immediatamente applicabili, come la convocazione di un incontro con i vertici del National Health Service, il servizio sanitario nazionale britannico, per affrontare il problema dell’antisemitismo all’interno del settore. La Commissione parla di una «questione specifica e non risolta» e sollecita l’introduzione di percorsi formativi per tutto il personale sanitario, incentrati sull’antisemitismo contemporaneo.
Uno dei punti più sensibili dell’indagine riguarda la necessità di garantire la neutralità nei servizi pubblici. Vengono citati episodi in cui membri del personale sanitario hanno indossato simboli politici – ad esempio spille con la bandiera palestinese – mentre erano in servizio. Pur sottolineando il diritto alla libertà di espressione, la Commissione sottolinea un dato: «Quando una persona è impiegata per garantire il benessere e la sicurezza degli altri, ha anche il dovere di far sentire tutti in grado di ricevere assistenza».
Nel settore artistico e culturale sono stati registrati casi di esclusione di artisti ebrei da festival ed eventi, in alcuni casi giustificati dagli organizzatori con generici “motivi di opportunità”. Il rapporto sottolinea che il rispetto dei contratti e delle norme antidiscriminatorie dovrebbe essere garantito in ogni circostanza, tanto più quando sono coinvolti fondi pubblici o sponsorizzazioni istituzionali.
In ambito educativo, viene evidenziata l’urgenza di formare gli insegnanti sulle origini storiche e religiose dell’antisemitismo. Viene citata come esempio virtuoso l’iniziativa avviata dalla diocesi di Winchester, volta a fornire strumenti concreti per riconoscere e prevenire stereotipi antiebraici. Si raccomanda che progetti di questo tipo siano valutati e ampliati a livello nazionale, comprese le scuole confessionali.
In generale, molte delle garanzie previste dalla legge per i gruppi vulnerabili non vengono applicate con la stessa intensità alla comunità ebraica, sottolineano Mann e Mordaunt. Il rischio, si legge nel rapporto, è che la società britannica perda credibilità proprio nei suoi strumenti di tutela e inclusione. «L’antisemitismo è razzismo e deve essere trattato come tale», ha dichiarato Lord Mann in un intervento pubblico. «Nessuno dovrebbe subire abusi o discriminazioni mentre svolge la propria attività, che si tratti di perseguire la carriera scelta o di accedere ai servizi pubblici», ha aggiunto Mordaunt.
Il Board of Deputies ha confermato l’intenzione di utilizzare le raccomandazioni come base per un’azione istituzionale coordinata. «Gli ebrei devono contare quanto chiunque altro» si legge nella nota finale del rapporto. «E ci impegneremo affinché le istituzioni pubbliche siano all’altezza di questo principio». d.r.
L’eroe indiano che salvò gli ebrei durante la Shoah
di Michelle Zarfati
Era il 1938, quando Kundan Lal, un facoltoso imprenditore del Punjab, si trovava a Vienna per curare alcuni problemi di salute. Fu lì che incontrò Alfred e Lucy Wachsler, una giovane coppia di ebrei in attesa del loro primo figlio, rendendosi conto personalmente del deteriorarsi della situazione per gli ebrei dopo l’annessione dell’Austria da parte di Hitler.
Così, decise di agire. Senza alcuna autorità, ma con grande determinazione, cominciò a pubblicare annunci su giornali austriaci in cerca di lavoratori da assumere in India: falegnami, tessitori, falegnami e macchinisti. Ma le imprese promesse — “Kundan Cloth Mills”, “Kundan Agencies” — erano soltanto di facciata. Lo scopo era fornire documenti ufficiali necessari per ottenere visti e lasciare l’Europa. Tra il 1938 e il 1939, grazie a quello stratagemma, Lal riuscì a salvare cinque famiglie ebraiche: i Wachsler con il loro figlio neonato, Hans Losch, l’avvocato Fritz Weiss, i fratelli Schafranek e Siegmund Retter, ciascuno con un ruolo professionale riconosciuto nei documenti.
L’arrivo in India fu un momento di speranza ma anche molto duro da affrontare. Ludhiana, nel Punjab, era calda, isolata e priva di una comunità ebraica. Alcuni, come Losch e Weiss, si spostarono subito a Bombay, alla ricerca di opportunità migliori. Altri trovarono il modo di adeguarsi: i Wachsler avviarono un laboratorio artigianale, i Schafranek persino un’industria di compensato, grazie alla generosità di Lal che costruì loro case affiancate. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la condizione dei rifugiati tedeschi — sebbene ebrei — divenne complicata. Visti come “alieni nemici”, i Wachsler e i Schafranek vennero internati vicino a Pune e poi rilasciati in cambio del loro impegno lavorativo. Entro il 1948, quasi tutti riuscirono a emigrare: i Wachsler negli Stati Uniti, altri in Europa e altrove .
Lal, tornato in India, riprese la sua vita, dirigendo una fabbrica di fiammiferi. Fondò poi una scuola per le figlie, e si dedicò alla sua famiglia. Morì nel 1966, lasciando però dietro di sé una storia rimasta sconosciuta fino a quando il nipote Vinay Gupta non ne ha fatto emergere il racconto nel saggio “A Rescue in Vienna”. Una vicenda di umanità silenziosa, che ribalta la percezione del “bystander” indiano, come estraneo alla tragedia europea. Questo racconto mostra come un singolo individuo, privo di ambizioni politiche o militari, ma dotato di coraggio e creatività, abbia saputo riscrivere il destino di molte vite. Un esempio che ci ricorda quanto la solidarietà non abbia bisogno di grandi parole o gesti pubblici, ma solo di determinazione.
Francesca Albanese ha violato gli standard etici Onu, il report che inchioda la relatrice: i rapporti con entità affiliate al terrorismo
Il governo israeliano ha pubblicato un documento di accusa nei confronti di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite. Il testo critica la sua parzialità, denuncia le violazioni degli standard etici Onu e condanna la sua retorica antisemita. Di seguito è riportato un estratto dei passaggi più significativi del report.
di Eleonora Tiribocchi
Questo breve documento – basato su fonti pubbliche, rapporti ufficiali e dichiarazioni documentate – esamina quanto la condotta di Francesca Albanese, in qualità di relatrice speciale dell’Onu, sia fondamentalmente incompatibile con le responsabilità e gli standard etici previsti dal suo mandato. Nominata nel 2022 nell’ambito delle “Procedure speciali” del Consiglio per i Diritti umani dell’Organizzazione, Albanese ricopre una posizione che le conferisce visibilità istituzionale e accesso a piattaforme internazionali. Pur non rappresentando formalmente l’Onu, i titolari di mandato sono percepiti come voci autorevoli legittimate dal sistema delle Nazioni Unite e tenuti a rispettarne i valori fondamentali con imparzialità. Durante il suo mandato, Albanese ha ripetutamente violato le norme di imparzialità, universalità e integrità professionale che sono alla base della sua funzione. Le sue dichiarazioni pubbliche hanno incluso distorsioni sull’Olocausto, la negazione del diritto all’esistenza di Israele e una retorica che minimizza o giustifica la violenza terroristica – un linguaggio in palese contrasto con i princìpi del diritto internazionale dei diritti umani. Le sue azioni hanno suscitato continue condanne da parte di governi democratici, organizzazioni della società civile e istituzioni accademiche, molte delle quali hanno denunciato la sua condotta come antisemita e moralmente inaccettabile. Le reazioni diffuse riflettono non solo la gravità delle sue trasgressioni, ma anche il danno reputazionale arrecato al sistema Onu per i diritti umani.
• Violazioni degli standard etici Onu In quanto esperta nominata dalle Nazioni Unite, Albanese è vincolata dal Codice di Condotta dell’OHCHR (risoluzione 5/2 del Consiglio dei Diritti Umani, articoli 3–6), che impone:
Obiettività, indipendenza, integrità ed equità;
Divieto di incitamento all’odio o alla violenza;
Astensione da atti che compromettano la neutralità;
Obbligo di dichiarare finanziamenti esterni.
Albanese ha più volte violato tali obblighi attraverso dichiarazioni pubbliche, affiliazioni e comportamenti, descritti di seguito.
• Normalizzazione della violenza politica Nel dicembre 2022, Albanese ha tenuto un intervento video a una conferenza a Gaza organizzata dal Consiglio per le Relazioni internazionali-Palestina (CIR Palestine), un think tank affiliato ad Hamas che promuove apertamente la “liberazione totale della Palestina” – espressione ampiamente intesa come eliminazione dello Stato di Israele. Il CIR ha dichiarato che “il popolo palestinese continuerà la sua lotta contro l’occupazione […] con ogni mezzo disponibile e legittimo”; un linguaggio che richiama la Carta di Hamas. Alla conferenza erano presenti alti esponenti di Hamas e della Jihad islamica palestinese, entrambe considerate organizzazioni terroristiche da Usa e Ue. Le dichiarazioni di Albanese – “Israele dice ‘resistenza uguale terrorismo’, ma l’occupazione genera violenza” – sono state trasmesse dai media affiliati ad Hamas e si allineano alla cornice ideologica dell’evento. La sua partecipazione ha conferito legittimità a un contesto che glorifica la violenza armata. Presentandosi accanto a rappresentanti di entità terroristiche e sostenendo una retorica che confonde la resistenza legittima con il targeting di civili – proibito dal diritto umanitario internazionale – Albanese ha violato i princìpi di imparzialità e integrità previsti dal suo ruolo Onu. Inoltre, non ha mai condannato esplicitamente il massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas. Anziché denunciarlo come atto terroristico, lo ha definito una “risposta all’oppressione”; una narrazione condannata da molti governi democratici come moralmente ingiustificabile.
• Legami con entità affiliate al terrorismo Albanese ha partecipato a eventi promossi da Al-Haq e dal Palestinian Return Centre (PRC), organizzazioni indicate da Israele come affiliate a gruppi terroristici. Al-Haq è legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), responsabile di numerosi attacchi contro civili. Il PRC è parte della rete globale di Hamas. Queste affiliazioni violano gravemente il principio di neutralità richiesto ai titolari di mandato Onu.
• Falsificazione del diritto internazionale e negazione del diritto di Israele alla difesa Albanese ha affermato più volte che Israele non avrebbe diritto alla legittima difesa nei territori occupati secondo l’art. 51 della Carta Onu. Tale interpretazione ignora la prassi giuridica e decontestualizza l’opinione consultiva del 2004 della Corte internazionale di Giustizia. La Corte, pur discutendo l’applicabilità dell’art. 51, ha riconosciuto espressamente il diritto e il dovere di Israele di difendere i suoi cittadini da atti di violenza indiscriminata. Albanese omette tali passaggi e avanza una posizione politicizzata e incoerente.
• Finanziamenti esterni non dichiarati Un rapporto di UN Watch del maggio 2025 ha rivelato che Albanese non ha dichiarato finanziamenti ricevuti in occasione della sua visita ufficiale in Australia e Nuova Zelanda (novembre 2023), in violazione dell’art. 6 del Codice Onu. Gli eventi erano ospitati dalla Georgetown University. L’opacità delle fonti solleva dubbi sulla trasparenza.
• Retorica antisemita Secondo la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), adottata da molti Stati, la retorica di Albanese risponde a diversi criteri:
Teorie del complotto: nel 2014 scriveva che “l’America è schiava della lobby ebraica”.
Distorsione della Shoah: equipara Olocausto e Nakba, relativizzando la Shoah.
Negazione del diritto all’esistenza di Israele: descrive Israele come “entità coloniale”.
Silenzio sull’antisemitismo: non ha condannato attacchi contro ebrei dopo il 7 ottobre.
Legittimazione della violenza: ha definito gli attacchi del 7 ottobre come “atti di resistenza”.
• Condanne internazionali Le dichiarazioni di Albanese hanno suscitato condanne senza precedenti:
Usa (3 aprile 2025): condanna per antisemitismo e sostegno ad Hamas.
Germania: condanna per aver paragonato Netanyahu a Hitler.
Paesi Bassi (26 marzo 2025): dichiarazioni pubbliche inaccettabili.
Francia: definisce le sue parole sul 7 ottobre “una vergogna”.
Zona umanitaria a Rafah: l'esercito frena, i ministri insistono
L'idea di una zona di sicurezza umanitaria a Rafah, concepita come rifugio protetto per centinaia di migliaia di civili palestinesi, sta vacillando. Il calendario è utopistico, i costi stanno esplodendo, il sostegno politico sta sgretolandosi.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Netanyahu parla chiaro: “Non è realistico”. Tra necessità strategica, responsabilità morale e pressioni interne, la situazione si sta drammaticamente aggravando. Mentre l'esercito mette in guardia dal sovraccarico, i ministri insistono per ottenere risultati rapidi. E su tutto aleggia la domanda: Israele può conciliare sicurezza e umanità senza perdersi nuovamente in un conflitto di cui nessuno conosce la fine? Israele deve stare molto attento a non perdere di nuovo la strada. In una riunione tesa del gabinetto ristretto di sicurezza, il primo ministro Benjamin Netanyahu si è mostrato chiaramente disilluso. La sua reazione al calendario presentato dall'esercito, che prevede un periodo di costruzione fino a un anno, non ha lasciato dubbi: il progetto è “semplicemente irrealistico”. L'idea era chiara: nel mezzo della guerra in corso contro Hamas, doveva essere creato un corridoio sicuro che proteggesse la popolazione civile, consentisse gli aiuti umanitari e allo stesso tempo creasse una chiara separazione tra terroristi e civili. Ma come spesso accade quando le visioni si scontrano con la realtà, emerge il divario tra le aspirazioni politiche e la fattibilità militare. Non è solo il calendario – un anno invece dei cinque-sei mesi inizialmente previsti – a far infuriare Netanyahu. Anche i costi previsti, pari a diverse decine di miliardi di shekel, e la lentezza nell'attuazione alimentano la frustrazione. Un partecipante alla riunione lo ha espresso chiaramente: “Il primo ministro ha praticamente gettato alle ortiche il piano presentato e ha chiesto un'alternativa immediata e più realistica, più veloce, più economica e realizzabile”. Sul fronte interno, Netanyahu è sottoposto a forti pressioni. Ministri come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich chiedono risultati rapidi, non solo militari, ma anche simbolici. In colloqui interni, Netanyahu ha recentemente cercato di dissipare la loro resistenza a un possibile accordo sugli ostaggi. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha criticato aspramente i tempi proposti, affermando: “Non capisco: quante persone transitano ogni giorno dall'aeroporto Ben Gurion? Come è possibile che ci voglia così tanto tempo per organizzare un'operazione del genere a Rafah?”. Da ricordare. Questa settimana il primo ministro ha incontrato Ben Gvir e Smotrich in colloqui riservati per ottenere il loro consenso e creare così un quadro per un accordo sugli ostaggi senza mettere a rischio la coalizione. Durante la riunione, Netanyahu ha anche trasmesso un chiaro messaggio politico: intende promuovere un accordo sullo scambio di ostaggi che includa una tregua temporanea. Allo stesso tempo, però, ha sottolineato che Israele si riserva il diritto di riprendere i combattimenti in un secondo momento. Ben Gvir su X:Il dibattito sulla creazione della città umanitaria è principalmente una manovra diversiva volta a nascondere l'accordo in fase di definizione. Questa cosiddetta città umanitaria non sarà certamente costruita nell'ambito dell'accordo di capitolazione negoziato con Hamas, che prevede il ritiro delle forze armate israeliane dai territori terroristici conquistati con il sangue dei nostri combattenti, il rilascio di centinaia di terroristi assassini e la concessione a Hamas di ulteriori risorse e tempo per ricostruire le proprie capacità. La manipolazione non può sostituire una vittoria completa. Dietro la disputa sui tempi e sui bilanci si nasconde un dilemma più profondo: come può Israele inviare segnali strategici chiari alla propria popolazione, a Hamas, ai partner regionali e internazionali? Perché la “città umanitaria” non è solo un progetto edilizio, ma anche uno strumento di potere. Ha lo scopo di dimostrare che Israele, anche in condizioni di guerra, si assume la responsabilità umanitaria, ma alle sue condizioni. Il problema è che da Israele si levano voci che descrivono questa città umanitaria nella Striscia di Gaza come un campo di concentramento, come ha recentemente affermato l'ex primo ministro israeliano Ehud Olmert sui media stranieri. E qui lo dico chiaramente: lo fa solo per cieco odio verso il suo ex collega di partito Bibi. Lui, come gli altri critici in patria, sa molto bene da quale DNA sono fatti Israele e l'esercito. Il piano prevede che gli aiuti umanitari, in particolare quelli provenienti dagli Stati Uniti, vengano distribuiti solo dove Israele è presente militarmente. Ciò significa controllo, ed è proprio questo che non piace a Hamas. Il suo timore è che Israele stia sfruttando la tregua solo per riorganizzarsi tatticamente prima di riprendere la guerra. Hamas non ha quasi nessuna fiducia nelle garanzie degli Stati Uniti. La creazione di una zona umanitaria a Rafah potrebbe teoricamente ottenere molto: protezione dei civili, separazione dei fronti, simbolismo della responsabilità internazionale. Tuttavia, se l'attuazione, la strategia e il sostegno politico non sono sincronizzati, il progetto rischia di fallire prima ancora di iniziare. Un alto rappresentante del governo ha sintetizzato la situazione: “Quello che c'è oggi sul tavolo sembra più una scusa per non attuarlo affatto”. Ed è proprio questo che Netanyahu vuole evitare. La sera stessa, Netanyahu ha incaricato i vertici militari di presentare entro oggi una versione ridotta e realistica. Il caso della “città umanitaria” è un esempio lampante di come la pianificazione militare, la pressione politica e le rivendicazioni morali entrino in conflitto, soprattutto in conflitti asimmetrici come quello tra Israele e Hamas. La reazione di Netanyahu può sembrare dura, ma riflette una posizione strategica di fondo: chi vuole sopravvivere a lungo termine in questa regione deve pianificare più rapidamente dei propri avversari e comunicare in modo più chiaro dei propri critici. La Striscia di Gaza è sull'orlo del collasso e Israele sta cercando un modo per bilanciare le aspettative internazionali e gli interessi di sicurezza nazionale. Resta da vedere se una città fatta di tende e container sia la chiave. Il capo di Stato Maggiore israeliano Eyal Zamir ha sottolineato che la preparazione del terreno per la zona umanitaria prevista compromette la capacità dell'esercito di svolgere i suoi compiti principali nella Striscia di Gaza, in particolare la lotta contro Hamas e la liberazione degli ostaggi. Israele deve rimanere vigile, molto vigile, per non ritrovarsi nuovamente impantanato in una missione senza fine, come un tempo nel Libano meridionale, dove ha operato per 18 anni in una zona di sicurezza da sé creata, senza un chiaro piano strategico di uscita. Anche nella Striscia di Gaza c'è ora il rischio che una presenza temporanea si trasformi in un peso permanente. Quello che inizia come un obiettivo tattico – ad esempio la creazione di una zona umanitaria a Rafah – può rapidamente trasformarsi in un vicolo cieco politico: responsabilità quotidiana per centinaia di migliaia di civili, una guerra di logoramento senza fine contro le strutture terroristiche, critiche internazionali per ogni misura adottata e nessuna prospettiva chiara su come e quando l'operazione dovrà terminare. Le lezioni del passato invitano alla cautela: chi controlla una zona in nome della sicurezza senza un piano realistico per il giorno dopo rischia di rimanere bloccato in uno status quo estenuante. Per questo Israele non ha solo bisogno di coraggio per passare all'offensiva, ma anche di lungimiranza strategica e saggezza affinché la lotta contro Hamas non si trasformi in una trappola politica. Una cosa è certa: in questa guerra il tempo non è un lusso. Il tempo è parte integrante della guerra.
(Israel Heute, 14 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Un report rivela l’aumento dell’antisemitismo nel Regno Unito dopo il 7 ottobre 2023
di Nathan Greppi
Un recente rapporto redatto per conto del governo britannico ha messo in luce l’aumento dell’antisemitismo nel Regno Unito dopo il 7 ottobre, e in particolare nella classe media. Gli autori del rapporto, il consigliere del governo per l’antisemitismo John Mann e l’ex-segretario alla Penny Mordaunt, hanno dichiarato di essere rimasti allarmati dalle prove che hanno trovato. Interpellati in anteprima dal quotidiano The Telegraph, mentre la presentazione del loro rapporto avverrà ufficialmente martedì 15 luglio, hanno affermato che, nonostante la loro pluridecennale esperienza politica, sono rimasti sconvolti dalle prove raccolte, soprattutto tra i giovani della comunità ebraica. I due autori, che appartengono ad aree politiche diverse (Mann è un laburista, la Mordaunt una conservatrice), hanno aggiunto di essere rimasti allarmati dalla combinazione di più fattori: da un lato, l’impatto sul vissuto quotidiano delle persone, dall’altro lato la frequenza e la naturalezza con le quali ciò si sta verificando. In particolare, il Telegraphsottolinea che l’antisemitismo è diventato particolarmente pervasivo nella sanità pubblica, nelle università e nelle arti. Uno dei risultati chiave è che molti ebrei si sentono sempre più esclusi, soprattutto in ambito professionale e nella sfera pubblica, dove non si sentono rispettati e inclusi come in passato. Il loro rapporto prevede 10 raccomandazioni su come contrastare l’antisemitismo, incluso il riconoscimento più ampio del fatto che gli ebrei rappresentano un gruppo etnico protetto, come sono attualmente definiti dalla legge, e che la polizia dovrebbe essere coerente nell’affrontare i crimini d’odio antisemiti. Così come il fatto che, secondo loro, andrebbe istituita una qualifica di formazione sull’antisemitismo per i datori di lavoro. L’antisemitismo, hanno dichiarato, è una questione urgente non solo per la comunità ebraica, ma più in generale per tutto il Regno Unito. Hanno spiegato che, man mano che approfondivano la questione, ciò che li ha maggiormente preoccupati è stata la crescente normalizzazione di un impatto sempre più estremo sulla vita dei singoli individui, presi di mira unicamente in quanto ebrei. Il rapporto rileva che molti ebrei in Gran Bretagna vengono percepiti come responsabili delle politiche del governo israeliano, facendone dei bersagli durante le manifestazioni filopalestinesi. Il rapporto sottolinea anche l’incoerenza delle forze dell’ordine quando si tratta di crimini d’odio contro gli ebrei, in particolare durante le proteste. Si afferma che uno dei problemi centrali è il mancato riconoscimento dell’antisemitismo come di una forma di razzismo, che porta a risposte prive di sufficiente fermezza. Secondo le statistiche, nel 2024 risultavano essere circa 292.000 gli ebrei che vivevano nel Regno Unito, facendone il quinto paese al mondo con la maggiore popolazione ebraica (dopo Israele, Stati Uniti, Francia e Canada). Di questi, la quasi totalità vive in Inghilterra, e in particolare nelle grandi città come Londra e Manchester.
Nel fine settimana Wimbledon ha sorriso per la prima volta all’Italia con la storica vittoria di Jannik Sinner nel singolare maschile. Ma prima dell’incoronazione del tennista italiano a re del torneo, il leggendario campo in erba ha regalato anche a Israele una gioia: la vittoria in doppio del tennista paralimpico Guy Sasson.
Sasson, insieme al compagno olandese Niels Vink, ha conquistato il titolo nella categoria quad di doppio in carrozzina, dominando in finale contro Gregory Slade (Regno Unito) e Donald Ramphadi (Sudafrica) con un netto 6-0, 6-2. Per i due, già vincitori del Roland Garros, si tratta del secondo Slam consecutivo, a conferma di una stagione di altissimo livello. «Solo entrare a Wimbledon, vedere la storia, i nomi sulle pareti, sapere d’ora in avanti ci sarà anche il mio nome, è una sensazione incredibile», ha affermato Sasson dopo la vittoria. «Un successo rappresenta raggiungere la vetta della montagna». Sul campo, davanti al pubblico e in diretta sulla BBC, il tennista israeliano ha concluso il suo discorso con una citazione in ebraico dalla Torah: «Il popolo si alza come un leone», seguita da un sentito «Am Yisrael Chai». Citazione presente nel brano della Bibbia letto questa settimana nelle sinagoghe di tutto il mondo, usata come titolo della recente operazione israeliana contro l’Iran.
Per Sasson, 45 anni, la vittoria a Wimbledon è una tappa importante di una carriera cominciata sette anni fa. Nato a Ramat Gan, appassionato di tennis fin da giovane, nel 2015 un incidente con lo snowboard in Francia lo ha lasciato paralizzato dalle ginocchia in giù. Dopo un anno di riabilitazione intensiva, Sasson è riuscito a camminare con l’aiuto di tutori e bastoni. Nel mentre ha ripreso a coltivare la sua passione per il tennis e nel 2019 ha vinto il campionato israeliano in carrozzina. Da allora la sua affermazione sportiva è stata rapidissima: è diventato uno dei migliori al mondo nella categoria quad, conquistando i titoli di singolare all’Open di Francia nel 2024 e nel 2025, e una medaglia di bronzo alle Paralimpiadi di Parigi del 2024. In quell’occasione, dedicò la vittoria a Israele e ai quattro ostaggi liberati da Gaza proprio quel giorno.
Sasson si allena con l’allenatore belga Damien Martinquet e ammette che, vista la differenza d’età con molti dei suoi avversari, spesso poco più che ventenni, è necessaria una disciplina rigorosa. «Quando non ho voglia di andare in palestra, mi ricordo che Niels e Sam sono sicuramente già lì», ha scherzato in un’intervista con il Jerusalem Post. Sam è Sam Schröder, olandese, numero due del mondo, che proprio a Wimbledon, nel torneo singolare, ha eliminato Sasson a quarti di finale per poi conquistare il titolo.
Dopo Wimbledon, l’obiettivo è lo US Open a fine agosto, dove il tennista israeliano spera di proseguire la striscia positiva. Ma prima, «come ogni volta che vinco», ha spiegato Sasson al Jerusalem Post, «festeggerò in uno dei ristoranti dello chef israeliano Assaf Granit. È diventata una tradizione: Parigi, Londra, ovunque mi trovi». Sul suo successo a Londra ha poi concluso: «Questa vittoria non è solo mia. È per tutti quelli che lottano, che si rialzano, che credono».
Dopo la Shoah, tornare a dire certe cose sulla malvagità degli ebrei («il cattivo sangue», per usare un’amara espressione di Bergoglio) e del loro Dio, sembrava impossibile. Hitler, come notava giustamente Bernanos, aveva «disonorato» l’antisemitismo. Ma questo disonore è durato veramente poco, l’espace d’un matin, direbbero i francesi. Dall’inizio della reazione israeliana all’eccidio del 7 ottobre, quello che Francesca Albanese considera un «atto di resistenza», gli ultimi argini sono crollati e con essi anche gli ultimi pudori: l’antisemitismo è tornato a essere moneta corrente, sebbene nelle vesti della rispettabilità «antirazzista» e «umanitaria». Il recente articolo del teologo Vito Mancuso, intitolato I due volti del fanatismo religioso. Nazi-sionisti e nazi-islamisti, è un esempio lampante di quella che Taguieff chiama «giudeomisia», ossia l’odio al calor bianco per gli ebrei in nome di valori presuntivamente «umanistici» e aspirazioni «universaliste». Nel caso di Mancuso, la giudeomisia si innesta sulla sua deplorevole lettura marcionita dell’ebraismo. Ma il più televisivo dei teologici non è una sprovveduto, sa bene di muoversi su un terreno sdrucciolevole, dunque, a differenza di Marcione, non condanna l’ebraismo tout court, ma solo quello che lui chiama il suo «lato oscuro»: l’israelismo, ovvero l’elemento nazionale insito nella religione ebraica. Esisterebbero, dunque, un «ebraismo cattivo», nazionale e identitario, e un «ebraismo buono» perché universale e assolutamente «spirituale» − come questa spiritualità possa essere dissociata dalla storia particolare del popolo ebraico, ovviamente, non viene detto, probabilmente non lo sa nemmeno Mancuso − proprio come esistono degli ebrei «buoni», quelli antisionisti, mercuriani, che non hanno esercitato il loro diritto al ritorno, e degli ebrei «cattivi», i sionisti, che hanno eretto uno Stato nella loro terra d’origine − rivendicare una «terra» e avere una «origine» sono, per Mancuso, due colpe capitali. Nel suo articolo risuona l’eco della condanna che Paolo di Tarso pronunciò contro l’ebreo «secondo la carne», chiuso nel suo particolarismo e nel suo egoismo nazionale, infatuato di se stesso e sordo a ogni richiamo di umana fratellanza. Un discorso che si inscrive alla perfezione nell’attuale «decostruzione» penitenziale dello Stato-nazione, come di ogni identità e tradizione. E fin qui, non ci sarebbe nulla di diverso dalle consuete dabbenaggini che si leggono su La Stampa e altrove, se non fosse che Mancuso si spinge più in là. Per lui, infatti, l’israelismo − ossia l’ebraismo, dato che la distinzione operata dal teologo è decisamente fallace − è la matrice di ogni genocidio, di ogni «pulizia etnica», nonché degli sterminatori per antonomasia: i nazisti, come ci dimostra l’uso del termine «nazi-sionisti». Fondata su una lettura destoricizzata della Bibbia ebraica, in particolare del Deuteronomio nell’articolo in questione, questa «ebraizzazione» del nazismo, procede di pari passo con la «nazificazione» di Israele. Al tempo della Seconda Intifada, intellettuali come Sepúlveda, Breytenbach, Saramago, hanno condannato il «razzista» e «violento» monoteismo ebraico. Secondo questi scrittori, a cui dobbiamo ora aggiungere il teologo Mancuso, le presunte politiche «genocidarie» di Israele sono riconducibili allo stesso ebraismo, che altro non sarebbe che il nazismo dell’antichità. Se «Morte all’ebreo», per ora, rimane ancora uno slogan ritenuto deplorevole, su «morte ai nazi-sionisti con la kippah» si è pronti a discutere, tanti lo ritengo già accettabile, ovviamente per il Bene dell’umanità. L’odio per l’ebreo parla la lingua della filantropia. Il lupo si traveste da agnello per entrare nel gregge. La benevola teologia di Mancuso ci conduce, con la coscienza pulita, all’israelicidio.
(L'informale, 13 luglio 2025) ____________________
L’autore parla della “condanna che Paolo di Tarso pronunciò contro l’ebreo «secondo la carne», chiuso nel suo particolarismo e nel suo egoismo nazionale, infatuato di se stesso e sordo a ogni richiamo di umana fratellanza”. Si rende conto Davide Cavaliere della quantità di sciocchezze che riesce dire in poche parole? “Particolarismo”, “egoismo nazionale”, “infatuato di se stesso”, questa è pura ignoranza. Si spera che nel suo ambiente qualcuno glielo faccia notare. Non è con l’ignoranza arrogante che si difende Israele. M.C.
La settimana di Israele – La visita di Netanyahu a Washington
di Ugo Voll
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Un viaggio di lavoro utile
Il senso generale del viaggio a Washington di Bibi Netanyahu, che è durato quasi tutta la settimana scorsa con numerosi incontri con i maggiori dirigenti americani e ben due colloqui riservati con Trump, è evidente: il coordinamento con gli Usa è fondamentale per lo stato ebraico ed è anche da sempre uno degli impegni personali del primo ministro. Netanyahu è particolarmente competente in questi rapporti, essendo il politico israeliano che conosce meglio gli Usa: ha vissuto in America per una dozzina di anni, prima da ragazzo, poi studiando al MIT e poi ottenendo il dottorato a Harvard, facendo infine il rappresentante di Israele all’Onu nel periodo fra la sua brillante carriera militare e l’inizio della vita politica. Da primo ministro l’ha visitata decine di volte, parlando spesso al Congresso e incontrando tutti i protagonisti politici ed economici. La sua conoscenza dei meccanismi politici e dei protagonisti della vita pubblica di Washington gli ha permesso di esercitarvi da sempre un’influenza unica, sia durante le presidenze amiche come questa, sia quando l’amministrazione non aveva nessuna simpatia per Israele, come durante l’epoca di Obama. Questo viaggio, tenuto appositamente un po’ nascosto ai media, gli è servito non solo ad incontrare il presidente, ma anche a sondare e cercare di influenzare rappresentanti dell’amministrazione e del Congresso.
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Le ragioni del viaggio
Ma perché il leader di una nazione in guerra, che deve gestire una maggioranza di governo traballante, l’ostilità del sistema giudiziario e a quanto pare anche il dissenso dello stato maggiore delle forze armate sulla gestione della guerra a Gaza, decide di dover restare all’estero tanto a lungo, senza che emergano decisioni nuove? Certamente i colloqui si sono incentrati su tre temi: l’Iran, per precedere la possibilità ammessa da Trump che Israele (ma non l’America) possa riprendere i bombardamenti se interverranno indizi di lavori per recuperare il progetto nucleare; la via per realizzare un nuovo Medio Oriente in pace con Israele e aperto al progresso economico e sociale; gli sviluppi della campagna di Gaza. Su questo punto probabilmente c’è stata la maggior necessità di discutere per coordinare la posizioni ed eliminare malintesi.
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È possibile il negoziato?
Trump vuole la fine della guerra di Gaza e la liberazione degli ostaggi, l’ha detto molte volte e ha spesso annunciato il progresso delle trattative con Hamas. Netanyahu è molto meno ottimista, anche se accetta l’idea di un cessate il fuoco per riavere almeno alcuni dei rapiti. Ma, probabilmente, è convinto che Hamas non li libererà tutti se non in cambio della sua sopravvivenza come forza armata e dominante a Gaza, in futuro anche nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese, dove ha il consenso della maggioranza degli arabi e Muhamed Abbas è troppo vecchio e malato per poter tenere a lungo il potere.
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Le difficoltà di una presa completa di Gaza
La soluzione più ovvia per Israele sarebbe occupare tutta la Striscia e distruggere quel che resta dell’organizzazione e dell’infrastruttura terroristica, dopo aver già eliminato quasi tutti i suoi capi, moltissimi uomini e mezzi. Ma ci sono tre ostacoli. Il primo è ben noto, la protezione che tutta la sinistra occidentale, buona parte dei governi e dei media europei e conseguentemente l’opinione pubblica hanno accordato ai terroristi di Gaza, sotto ipocriti pretesti umanitari. La seconda, in genere meno considerata, è il fatto che Hamas, per ragioni ideologiche ma anche pratiche (il suo dominio sugli aiuti alimentari, che le organizzazioni internazionali continuano in sostanza a delegargli), conserva un forte controllo della popolazione ed è in grado di mobilitare se non quadri di alto livello tecnico, almeno numerosi attentatori come quelli che hanno inferto gravi danni nelle ultime settimane alle truppe israeliane, in un inatteso soprassalto di aggressività. La terza, emersa di recente, è la resistenza dello stato maggiore delle forze armate, anche sotto la nuova direzione di Zamir, e a entrare finalmente nelle zone più pesantemente presidiate da Hamas nel centro di Gaza e a occuparle, con la motivazione che in questa maniera si metterebbe a rischio la vita dei rapiti e si costringerebbe l’esercito ad amministrare la vita di due milioni di arabi, mettendolo in pericolo e danneggiando le sue capacità di combattimento.
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La possibilità dei negoziati
Netanyahu potrebbe dunque dover tentare di ottenere con la trattativa quei risultati che è difficile ottenere oggi con un’occupazione militare. Nessuno può dire che questo sia il suo piano, o se invece la trattativa sia solo una diversione tattica per convincere Trump (e Zamir) che l’occupazione di Gaza è inevitabile. È probabile che si tenga aperte le due strade. Anche perché il negoziato può funzionare, come si è visto in Libano quando un cessate il fuoco, da molti percepito come un’imposizione americana che impediva di “portare fino in fondo la guerra”, ha prodotto il primo governo da decenni che sta cercando di disarmare Hamas e osa parlare di pace con Israele. Nel quadro rientra anche il fatto che i partiti di destra del governo non vogliono sentir parlare di trattative e minacciano dimissioni (come peraltro anche gli charedim che non riescono a ottenere la legge sulla leva che esenti i loro studenti). La maggioranza insomma è a rischio. Ma il sistema politico israeliano non ammette la caduta del governo senza un passaggio in Parlamento e da fine mese fino a tutto ottobre le sessioni sono sospese. Dunque Netanyahu deve temporeggiare un paio di settimane per condurre quest’estate nella pienezza dei poteri del governo di guerra l’azione diplomatica o militare che riterrà opportuna e che probabilmente ha concordato con Trump. A quanto pare, ha proposto nel negoziato una mappa circolata sui media in cui durante il cessate il fuoco continuerà la presenza dell’esercito israeliano per la profondità di un paio di chilometri su tutti i bordi di Gaza e soprattutto al Sud, dove in uno spazio sicuro senza presenza terrorista Israele vuole continuare la fondamentale gestione degli aiuti alimentari attraverso la fondazione americana saltando la mediazione di Hamas, che procura fondi e potere ai terroristi. La proposta come prevedibile è stata rifiutata anche per questa ragione, ma probabilmente era solo un ballon d’essai.
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Una nuova struttura tribale?
Fra i vari dati strategici ve ne sono diversi positivi. Il primo è che l’azione segreta continua a colpire i vertici politici, militari e scientifici (cioè atomici) dell’Iran, dove per il momento non vi sono segni di recupero dei materiali nucleari danneggiati nei bombardamenti. La seconda è che non solo tiene duro contro le intimidazioni di Hamas il gruppo armato tribale che si è costituito intorno ai centri di distribuzione americana di aiuti, ma vi è stata un’importante dichiarazione di numerosi capi tribali di Hebron in cui si proponeva a Israele la costituzione in quella città di un emirato indipendente dall’Autorità Palestinese, aderente agli accordi di Abramo e in pace con Israele. Se la riemersione della struttura tribale profondamente iscritta nella cultura araba riuscisse a spezzare i meccanismi tradizionali di rivendicazione di uno “stato di Palestina”, i giochi politici della regione cambierebbero profondamente e ci potrebbe profilarsi davvero una nuova via per la pace.
La parola profetica della Bibbia è una luce sicura che offre orientamento in un mondo sempre più oscuro e confuso.Per questo è necessario studiare il piano di Dio e la profezia biblica, affinché possiamo attraversare con fiducia e sicurezza la notte presente. - Un'esposizione e un incoraggiamento.
di Philipp Ottenburg
Qualche anno fa, nell'ambito della mia formazione alla scuola biblica, dovevo svolgere uno stage in una casa per ritiri in Svizzera. Arrivato nel tardo pomeriggio, scesi dal treno e incontrai il responsabile dello stage, con cui mi recai alla struttura. Il complesso era piuttosto grande, composto da più edifici collegati tra loro da passaggi sotterranei. Il responsabile mi mostrò le varie strutture, conducendomi attraverso cunicoli e corridoi fino ai diversi locali. Davanti a una stanza, mi disse che lì, la mattina seguente, si sarebbe tenuta la colazione alle 7:00.
Non arrivai mai a quella colazione. Il mattino seguente vagai senza orientamento nei bui corridoi sotterranei dell'edificio. Tutto appariva uguale, ed era difficile trovare la strada. Spinto qua e là, mi chiedevo: sarà questa la direzione giusta, oppure quell'altra?
Questa immagine della mia disorientante esperienza nella struttura in cui ero ospite è un'ottima introduzione al nostro tema. Quante volte, anche riguardo alla fine dei tempi, ci troviamo smarriti e bisognosi di una luce che ci guidi?
• Luce nelle tenebre
Cos'è questa luce? Un passo ben noto ci dà la risposta:
«Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori» (2 Pietro 1,19).
La luce nelle tenebre ha un nome: la parola profetica.
Questa luce della profezia biblica è assolutamente certa, immutabile e sicura. L'apostolo Pietro la definisce «totalmente sicura».
Dove, sulla terra, esiste una certezza assoluta? Le certezze che avevamo svaniscono. Ciò che consideravamo scontato, molte cose che ritenevamo inamovibili e normali, oggi non lo sono più. Questo può turbare sia voi che me! Ma cosa rimane di assolutamente certo in questo mondo? La parola profetica.
Viviamo in un'epoca di confusione; colui che porta disordine è all'opera. È un tempo che si fa sempre più oscuro. Un'epoca di corridoi sotterranei. Non sappiamo quale sia la giusta direzione ... Ci sentiamo stressati, inquieti davanti all'incertezza di ciò che ancora deve accadere. Senza energia, svogliati, forse anche nel nostro cammino spirituale e nello studio della Bibbia. I media, in particolare, diffondono spesso panico, le persone sono in preda alla paura ...
Ci lasciamo trascinare interiormente? Siamo forse in una crisi spirituale? Così è difficile resistere fino al rapimento, vivendo nel timore e nell'ansia.
Sorge allora una domanda: come possiamo resistere e rimanere saldi?
Cosa possiamo fare per non perdere il coraggio? Davanti a questi turbamenti interiori, a queste crisi spirituali e momenti di sconforto che tutti possiamo attraversare, la parola profetica rimane incontrovertibilmente sicura. Ma perché?
Meraviglioso e glorioso è lo sguardo rivolto all'Autore, a Dio stesso. Egli è sopra ogni cosa, e lo dimostra:
«Io annuncio la fine sin dal principio, molto tempo prima dico le cose non ancora avvenute; io dico: Il mio piano sussisterà, e metterò a effetto tutta la mia volontà» (Isaia 46,10).
Dio vede Adamo e il ritorno di Gesù in un solo sguardo. Non c'è consigliere o rivelatore migliore di Dio stesso. Nessuno può paragonarsi a Lui. Questa verità diventa particolarmente evidente nel libro dell'Apocalisse:
«Poi il settimo angelo versò la sua coppa nell'aria; e dal tempio uscì una gran voce proveniente dal trono, che diceva: È Compiuto» (Apocalisse 16,17).
Il piano di Dio si realizza con la settima coppa d'ira, quando viene versata, e sfocia nella gloriosa seconda venuta del Figlio. Interessante è l'espressione «È compiuto ... »
È compiuto, sì, ma si trova ancora nel futuro. Tuttavia, per Dio è già una realtà. Tale è la certezza che Egli realizzerà la Sua parola, al punto che tutto ciò che è ancora futuro può essere espresso al passato. Perché? Perché Dio vede l'inizio e la fine in un solo sguardo. Egli vede già l'adempimento di ogni cosa. Per Dio, tutto ciò che è stato profetizzato è già realtà oggi.
Il libro dell'Apocalisse è particolarmente significativo.
Dio avrebbe potuto trasmettere a Giovanni gli eventi futuri come semplice testo scritto o parlato. Ma no, Dio gli mostrò la realtà futura in modo così vivido che egli non solo la vide, ma la visse in prima persona. Non è stato solo fissato il testo, ma anche i movimenti, le azioni, le esperienze vissute: tutto è già stabilito. Tale è la sicurezza dell'adempimento della parola profetica. Ogni gesto è preciso.
Giovanni aveva una partecipazione con i suoi fratelli, come è scritto nel primo capitolo. Potremmo dire: era già presente nel futuro. Non semplicemente spettatore, ma immerso in esso. Esiste una prova maggiore della certezza della parola profetica, di quella che Dio stesso ci offre?
Oppure pensiamo al Monte della Trasfigurazione. Pietro, dopo ciò che ha visto con i suoi occhi, può scrivere: «È certo!». Vide con i propri occhi Elia, Mosè e Gesù avvolto di luce sfolgorante.
Non possiamo rendere le parole divine più solide di quanto già siano. Ma Dio conferma ciò che dice a modo Suo. E questo Dio ci ha donato la luce della parola profetica affinché possiamo comprendere. Per Lui, tutto ciò che deve ancora avvenire è già realtà.
La parola profetica è incontrovertibilmente sicura! Nella Sua parola, Egli mostra come porterà ogni cosa al Suo compimento.
• Prestare attenzione alla parola profetica
Pietro dice riguardo alla parola profetica: «Fate bene a prestarle attenzione». La certezza dona pace. Dio ha tutto nelle Sue mani. Perciò ci chiediamo: Studiamo veramente la parola profetica? Leggiamo la Bibbia anche nella prospettiva della storia della salvezza? Prestiamo attenzione a come Dio agisce con Israele, con le nazioni e con la Chiesa, il corpo del nostro Signore Gesù? Oppure leggiamo la Bibbia solo in modo personale e riferito esclusivamente a noi stessi?
Se così fosse, allora, per usare un'immagine data dalla mia esperienza pratica, raccontata all'inizio di questo articolo, non arriveremo mai a fare colazione. Questo ci disorienta, porta paura, sbalzi emotivi. Applicare gli insegnamenti della Bibbia solo in senso pratico ha conseguenze negative. Certo, anche questo aspetto è importante, ma la Parola di Dio è la guida attraverso l'intera storia del mondo e dell'umanità, con Gesù Cristo come glorioso centro. Anche oggi, essa è il compasso di Dio per noi!
La Bibbia è il piano della salvezza di Dio, il progetto di Colui che tutto vede, che è l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine. E ce lo ha donato. Perché? Affinché conosciamo, affinché perseveriamo, affinché non siamo sballottati da ogni vento! Prestare attenzione significa esaminarla con impegno e dedizione.
Paolo dice a Timoteo:
«Sforzati di presentare te stesso davanti a Dio come un uomo approvato, un operaio che non abbia di che vergognarsi, che tagli rettamente la parola della verità» (2 Timoteo 2,15).
Dobbiamo impegnarci con zelo per presentarci davanti a Dio come persone mature e salde. Esaminiamo la Sua parola per crescere nella conoscenza e diventare uomini e donne di Dio fermi nella fede, anche in questo tempo. Tagliamo rettamente la parola. Ciò significa distinguere a chi appartiene ogni Scrittura: a Israele, alla Chiesa, alla tribolazione, alla seconda venuta di Gesù, al rapimento. Chiediamoci cosa significhi ogni cosa. Questo porta chiarezza.
E con tutto il caos mediatico che ci circonda ... fino a quando avremo bisogno di questa luce della profezia biblica?
• Fino a quando il giorno sorgerà
Abbiamo bisogno della luce finché verrà il chiarore. Come dice Pietro:
«Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori» (2 Pietro 1,19).
Cosa significa qui la parola «giorno»? Il giorno ritorna sempre, vero? «Il giorno» significa la seconda venuta del nostro Signore e il Suo regno sulla terra, il regno messianico. Fino al ritorno di Gesù dobbiamo aggrapparci alla parola profetica, totalmente sicura, e allora il giorno sorgerà. Ma, logicamente, se oggi abbiamo bisogno della luce, cosa significa? Significa notte, notte oscura, come vediamo nel libro dell'Apocalisse riguardo alla fine dei tempi. Quando Cristo nacque, per un breve momento si fece luce. Il sole brillò per un attimo sopra Israele. Una luce splendente apparve. Ma da quando Cristo è asceso al cielo, è nuovamente notte per Israele e per il mondo delle nazioni.
Cristo ritorna come la stella del mattino. Al mattino vi è la prima luce che sorge, quando ancora tutto è avvolto nell'oscurità. Per questo Paolo dice che noi, come corpo di Cristo, siamo «figli del giorno» (1 Tessalonicesi 5,5). Noi, come Chiesa, non apparteniamo a questa notte.
Pietro chiama la parola profetica «luce in un luogo oscuro», un faro che ci guida fino al ritorno del Signore. Prestare attenzione alla parola profetica significa avere orientamento. Anche se il mondo va sottosopra, noi abbiamo una direzione.
Nella grande notte, i pastori trovarono la via e giunsero a Gesù. Furono guidati dalla luce, dalla stella di Betlemme. Rimasero concentrati, tennero lo sguardo fisso sulla luce e giunsero alla meta.
Lo stesso vale per noi. La luce della parola profetica conduce sempre a Cristo.
I pastori trovarono Cristo. E per noi, come Chiesa, come corpo di Cristo, lo sguardo è rivolto al prossimo evento: il rapimento.
Paolo dice: «Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole!» (1 Tessalonicesi 4,18).
Allora saremo sempre con Cristo! Vegliamo sulla luce della profezia biblica.
• Notte nella storia della salvezza
Molte persone hanno paura del buio, soprattutto i bambini. Anche i nostri figli hanno ancora bisogno di una piccola luce per addormentarsi. A volte mi stupisco di quanto rapidamente inizino a piangere non appena spengo la luce, anche se in quel momento dormono profondamente e hanno gli occhi chiusi.
Essere nel buio è scomodo, a volte persino pericoloso.
Ladri e malintenzionati preferiscono agire nell'oscurità. Nell'oscurità non sai cosa ti aspetta: potresti cadere in una buca, urtare contro qualcosa, o persino trovare qualcuno nascosto pronto ad attaccarti. Ma quando la strada è illuminata, tutto cambia. Ci sentiamo al sicuro e sereni.
E una luce del genere ci viene data dalla Parola di Dio, anche nei corridoi bui della nostra vita.
La luce della profezia biblica illumina questi passaggi sotterranei. Rivela chiaramente tutto il male che deve ancora accadere. E sì, intendiamo consapevolmente dire «deve accadere» o «deve necessariamente avvenire». Ma andiamo con ordine. Ci sono diversi ambiti in cui riceviamo luce.
• Le parabole del Regno dei Cieli
Ai tempi di Gesù, quando nacque, visse e percorse il Suo cammino di sofferenza, solo pochi in Israele si ravvidero. Solo una minoranza cambiò mentalità di fronte al Regno che si era avvicinato. I farisei e gli scribi arrivarono persino ad accusare Gesù di compiere miracoli nel nome di Beelzebù. Eppure, segni e prodigi erano direttamente collegati al Regno, e i Giudei sapevano bene che solo il Messia poteva compiere tali opere.
Per tutto l'Antico Testamento, il Regno messianico con Israele era il grande obiettivo di Dio. Questo non cambiò con l'arrivo dei Vangeli.
Dopo 400 anni di silenzio divino, Zaccaria ricevette il primo messaggio rivolto a Israele. Il suo nome significa «Dio si è ricordato», mentre il nome di sua moglie Elisabetta significa «giuramento di Dio». Dio si ricordò del Suo giuramento con Israele.
I Vangeli si collegano perfettamente all'Antico Testamento. Anche in passato solo delle minoranze si erano pentite.
Per questo motivo, Gesù iniziò a parlare in parabole come espressione del giudizio. Ma su cosa parlava esattamente? Qual era il punto centrale?
Il tema principale era Israele, non la Chiesa. Quest'ultima sarebbe nata solo più tardi.
Gesù fu crocifisso come Re dei Giudei. In questo contesto, il Regno dei Cieli - il Regno messianico con Israele - era atteso.
Molti interpretano le parabole del Regno nei Vangeli, specialmente in Matteo 13, in senso positivo. Vengono spesso spiegate come se il Regno si sviluppasse in modo graduale e progressivo.
Ma è davvero questa l'interpretazione corretta?
Il fatto che il Regno dovesse venire era già noto ai profeti. Era una realtà ben conosciuta da tempo. Ezechiele ne parla in modo straordinario. L'Antico Testamento già affermava chiaramente che il Regno messianico sarebbe giunto.
Dov'era allora il mistero? Perché Gesù avrebbe dovuto parlare in parabole di qualcosa che era già noto?
Piuttosto, nelle parabole Gesù rivela sette misteri riguardanti il Regno per il tempo in cui Israele sarebbe stato accecato. Esse mostrano lo sviluppo della notte della storia della salvezza vista da Israele, perché è da lì che un giorno sorgerà l'alba.
Quando il nostro Signore, la luce, fu crocifisso, la notte ricominciò a calare.
La notte iniziò quando Egli ascese al cielo. I credenti giudei pensavano che il Regno sarebbe venuto subito (Atti 1,6).
Esaminiamo alcuni esempi che dimostrano come le parabole non abbiano un significato positivo:
1. La parabola del lievito: «Il regno dei cieli è simile al lievito che una donna prende e nasconde in tre misure di farina, finché la pasta sia tutta lievitata». (Matteo 13,33). Questa non è una cosa positiva. Nella Bibbia il lievito rappresenta sempre il male, la falsa dottrina, l'impurità che si insinua.
Paolo ci ricorda: «Il vostro vanto non è buono. Non sapete che un po' di lievito fa lievitare tutta la pasta?» (1 Corinzi 5,6).
Non c'è motivo per cui dovremmo interpretare il lievito in modo positivo proprio in questa parabola. Un principio fondamentale dell'interpretazione biblica è che la Bibbia spiega la Bibbia. Qui il lievito rappresenta una forza negativa, che crescerà fino alla fine e che renderà il Regno anticristico allettante per le persone. Solo allora Cristo verrà a stabilire il vero Regno dei Cieli.
2. La parabola del granello di senape: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. 32 Esso è sì il più piccolo di tutti i semi, ma, quando è cresciuto, è maggiore degli ortaggi e diventa albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami” (Matteo 13,31). Essa mostra la rapida espansione del Regno anticristico. Il seme di senape non cresce mai tanto quanto descritto nella parabola. Una crescita anormale è negativa.
Il parallelo perfetto lo troviamo in Daniele 4, dove si parla dell'albero di Nabucodonosor. Qui si tratta dell'albero anticristico, che vuole prendere il posto di Dio nel provvedere alle persone. Un'altra particolarità della senape è che cresce molto rapidamente e diventa presto matura per la mietitura.
Inoltre, non si deve mai piantare la senape accanto alle piante di cavolo: la senape è portatrice di una malattia chiamata "ernia del cavolo". Anche questa parabola indica una degenerazione.
3. La parabola del grano e della zizzania «Il Regno dei Cieli è simile a un uomo che seminò buon seme nel suo campo. Ma mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò ... » (Matteo 13,24-30). Questa parabola mostra l'attuale periodo della storia, lo sviluppo del tempo, la messa da parte di Israele fino al raccolto finale.
Notiamo che il Regno è paragonato sia a chi semina il buon seme, sia a chi semina la zizzania.
Entrambi fanno parte di questo quadro. Anche il nemico semina.
Le parabole mostrano lo sviluppo del Regno e la parte negativa, che fino a quel momento era sconosciuta.
Ecco perché la parola profetica ci dà luce sulla notte della storia della salvezza. E in questa luce, vediamo come il male continua a crescere.
• Il Tempo della Notte
La notte ebbe inizio quando Gesù ascese visibilmente al cielo dal Monte degli Ulivi. Questa notte finirà solo quando Egli tornerà visibilmente sullo stesso monte (Apocalisse 19).
Chi si trova in questa notte? L'intero mondo delle nazioni, incluso il popolo di Israele. È il tempo in cui Israele è stato messo da parte, mentre la zizzania continua a crescere-ancora oggi.
È l'epoca in cui viviamo, quella che chiamiamo "tempo della grazia", perché Dio sta radunando un corpo per Suo Figlio (Efesini 1,23).
Ma questa notte della storia della salvezza è anche un tempo in cui il male matura. La zizzania deve crescere. E proprio la luce della parola profetica ci mostra questo processo. Così possiamo orientarci nell'oscurità! Come si manifesta questa notte? La viviamo tutti i giorni. La nostra epoca diventa sempre più oscura. Questa è una realtà. Le persone e i governi agiscono sempre più come strumenti delle forze delle tenebre. Vediamo crescenti ingiustizie, azioni malvagie, divisioni tra le persone.
Ma noi, che conosciamo la Parola di Dio e possediamo la luce sicura della profezia, sappiamo che nulla di tutto ciò è una sorpresa. Possiamo essere persone consapevoli.
Cosa dice la Bibbia su questa epoca?
La Bibbia è molto chiara: Il dio di questo mondo è il diavolo.
Egli governa l'umanità in questo tempo (2 Corinzi 4,4; Galati 1,4). L'attuale epoca è chiamata "secolo malvagio". La caratteristica di questa era è l'oscurità. Lo conferma la luce della profezia biblica:
«Ecco, le tenebre coprono la terra, e una fitta oscurità avvolge i popoli» (Isaia 65,2).
In Efesini 6,12 sono elencate le potenze spirituali delle tenebre, in azione dietro il mondo. Daniele 10 ci mostra la stessa realtà. E in Romani 13,12 leggiamo che la notte è avanzata. Cosa possiamo aspettarci dal mondo? Dai governi? Dalle persone? La Bibbia è chiara. Oggi è un tempo di inganno. Le persone vengono sviate. Vediamo ovunque-sia in ambienti cristiani che religiosi o persino atei-come il mondo sia dominato dall'egoismo, dalla menzogna, dall'amore per il denaro, dalla ricerca del piacere, dall'orgoglio, dall'indifferenza, dall'ambizione egoistica e dalla falsa giustizia.
Le dinamiche politiche ed economiche delle nazioni mostrano quanto la Parola di Dio descriva esattamente la via del peccato dell'umanità. Ma possiamo avere orientamento in questa notte. Possiamo dirlo anche così: Conosciamo i passaggi sotterranei e oscuri in cui ci troviamo. E questo privilegio lo dobbiamo alla luce della Parola di Dio.
Dove agisce per primo Satana?
La Bibbia ci mostra che Satana mira prima di tutto alla mente delle persone:
«Anche voi, voi che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, ai quali un tempo vi abbandonaste seguendo l'andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell'aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli» (Efesini 2,1-2).
Lo spirito di Satana agisce nei figli della disubbidienza.
Se volessimo influenzare la mentalità delle persone, su chi ci concentreremmo? Sui leader influenti:
Politici
Insegnanti
Scienziati
Ed è esattamente ciò che fa Satana. La Bibbia ci offre un chiaro esempio nella storia di Israele. Quando il re e i capi del popolo erano corrotti e senza Dio, l'intero popolo precipitava sempre più nella decadenza morale e nell'apostasia.
Oggi sta accadendo esattamente la stessa cosa. Paolo ci dice che l'iniquità è sempre stata all'opera. Ma prima che venga rivelato l'uomo del peccato, l'Anticristo, essa aumenterà in modo sottile e progressivo. Più ci avviciniamo alla fine di questo tempo malvagio, più chiaramente lo vediamo. Ma non dobbiamo sorprenderci. Come corpo di Cristo, non dobbiamo farci travolgere dall'agitazione. Dobbiamo perseverare! Non siamo chiamati a fermare l'iniquità. Perché dovremmo combatterla? E cosa pensiamo di ottenere?
La nostra chiamata non è fermare quello che Dio ha già stabilito. Egli vede l'inizio e la fine. Potrebbe fermare ogni cosa con un semplice gesto. Ma non lo fa. Perché?
Perché la zizzania deve crescere. Spesso combattiamo perché non conosciamo le Scritture. Se non leggiamo la Bibbia, andiamo incontro a grandi difficoltà. Ma quando studiamo la profezia biblica, comprendiamo che tutto deve accadere così. E questo ci incoraggia.
Anche se le cose peggiorano, il mondo sta solo seguendo il percorso che Dio ha predetto.
Questo ci dà orientamento. Possiamo rimanere in pace, perché vediamo che è Dio a guidare la storia della salvezza.
Più spazio ha Dio nella tua vita, meno spazio ha la paura. Come abbiamo detto: la crescita della zizzania fa parte del piano di Dio. Dobbiamo ricordarlo costantemente, in modo che la realtà del mondo non ci scoraggi. Tutto questo deve accadere.
Le forze delle tenebre un giorno inganneranno tutte le nazioni, spingendole a combattere contro Dio, Suo Figlio e Israele. Ma la parola profetica è sicura. Invece di agitarci, dobbiamo rallegrarci. Perché? Perché possiamo vedere che la Bibbia è vera! E così rimaniamo saldi.
Cristo è il nostro esempio. Nel Getsemani, Egli si sottomise completamente alla volontà di Dio.
L'azione più malvagia degli uomini-la crocifissione era parte del piano divino. E Cristo disse: «Sia fatta la Tua volontà.»
Anche noi diciamo sì al piano di Dio. Gesù lo aveva detto ai Suoi discepoli: «Ecco, vi ho predetto ogni cosa.» (Marco 13,23)
• La mietitura
La zizzania deve crescere fino alla maturazione nella tribolazione, fino a un punto stabilito.
Ma quando inizia la mietitura? Non solo al momento della seconda venuta, anche se essa rappresenta il culmine del processo. Troviamo la mietitura in Apocalisse 14,14-16:
«Poi guardai e vidi una nube bianca; e sulla nube stava seduto uno, simile a un figlio d'uomo, che aveva sul capo una corona d'oro e in mano una falce affilata. Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che stava seduto sulla nube: "Metti mano alla tua falce e mieti; poiché è giunta l'ora di mietere, perché la mèsse della terra è matura". Colui che era seduto sulla nube lanciò la sua falce sulla terra, e la terra fu mietuta.»
La mietitura inizia con i giudizi della grande tribolazione, nella seconda metà, e continua fino al ritorno del Signore. Questo momento è fissato. E vediamo che la mietitura appartiene al Signore. Cristo ha la falce nelle Sue mani. La giustizia è interamente nelle mani del Giusto.
Perciò possiamo rimanere sereni. Perché sappiamo che ogni mossa del diavolo alla fine servirà a glorificare Dio ancora di più.
L'ora più buia fu quando Cristo morì sulla croce, abbandonato da Dio.
Eppure, proprio in quel momento Dio si glorificò più che mai.
C. H. Spurgeon lo riassume perfettamente: «Confidare nel Signore quando si è nella luce è facile. Ma confidare nel Signore nel buio, questa è vera fede.»
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump non ha sollevato obiezioni quando questa settimana il primo ministro Benjamin Netanyahu gli ha comunicato che Israele potrebbe attaccare nuovamente l’Iran se la Repubblica islamica riprendesse il programma nucleare, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal. L’articolo, che riferisce che Trump avrebbe detto al premier di preferire una soluzione diplomatica, aggiunge che il presidente degli Stati Uniti spera di utilizzare la minaccia di ulteriori attacchi per convincere l’Iran a firmare un accordo che gli impedisca di sviluppare una bomba atomica. Tuttavia, l’articolo afferma anche che Netanyahu potrebbe subire pressioni da Trump affinché non attacchi l’Iran per preservare i colloqui diplomatici, citando un alto funzionario israeliano secondo cui Gerusalemme non chiederebbe necessariamente il via libera esplicito degli Stati Uniti prima di attaccare. Il funzionario afferma inoltre che Israele è in grado di impedire all’Iran di dotarsi rapidamente di armi nucleari e dispone di informazioni sui luoghi in cui Teheran potrebbe tentare di riprendere segretamente il suo programma atomico.
Samuel Oppenheimer, l’uomo dietro alla potenza militare degli Asburgo nel Seicento. Un fragile equilibrio fra prestigio e persecuzione.
di Michele Magno
Niente letture "piagnucolose" della diaspora, che è anche storia di innovazione, creatività intellettuale, intraprendenza mercantile.
Nel 1683, con le truppe ottomane alle porte di Vienna, il denaro di Samuel O. impedì la catastrofe. Pur essendo stato lui vilipeso.
Mobilitava flotte di zattere e chiatte per trasportare soldati e artiglieria. La merce più preziosa? L'avena. Niente avena, niente cavalleria.
Wertheimer, il successore di Oppenheimer, continuava a credere in un futuro per gli ebrei nell'impero asburgico nonostante gli abusi.
In Sfere di giustizia (1983), Michael Walzer osserva che il temperamento dell’ebreo della diaspora mal si concilia con una lettura “piagnucolosa” della storia del popolo dell’Alleanza. Perché essa è anche una storia di coraggiosa innovazione, di creatività intellettuale, di intraprendenza mercantile, di sopravvivenza individuale e collettiva contro ogni avversità. Dal canto suo, quasi due secoli e mezzo prima Montesquieu, nello Spirito delle leggi (1748), aveva spiegato il contributo decisivo degli ebrei nella trasformazione del commercio da attività disprezzata, associata all’usura e al prestito su pegno, a professione degna e stimata. In questo senso, la biografia di Samuel Oppenheimer (1630-1703) avrebbero potuto scriverla sia il filosofo della politica americano sia il grande giurista francese.
C’è un episodio della parte finale della sua esistenza che ne riassume idealmente tutto il significato. Vienna, ottobre 1700: la sua fastosa residenza che dava sul Bauernmarkt, il mercato agricolo della capitale austriaca, viene rasa al suolo. Una folla di artigiani inferociti, guidata da un produttore di spade e da uno spazzacamino, aveva deciso di sbarazzarsi del deicida che li stava mettendo con le spalle al muro. Del resto, erano già apparse le prime copie del trattato di Johann Eisenmenger “Entdecktes Judenthum” (“Il giudaismo mascherato”). Una durissima requisitoria contro gli ebrei infanticidi, figli del demonio, infezioni ambulanti, parassiti bipedi, con cui non c’era modo di convivere.
L'incisore Johann Andreas PfeHel ritrae Oppenheimer come un incrocio tra un rabbino e un feldmaresciallo
che indica tutto ciò
di cui dispone
Nato a Heidelberg, lo “Hofjuden”, l’ebreo di corte, era accusato di aver assunto il controllo dell’impero. Girava su una carrozza a quattro cavalli col suo stemma dipinto sugli sportelli, mentre gli onesti cristiani morivano di fame. E, cosa ancora peggiore, si vociferava che fosse in combutta con i turchi. Così la sua dimora, che si levava al di sopra delle bancarelle dei verdurai, fu saccheggiata, ripulita dei suoi offensivi piatti d’oro e candelieri d’argento. Tappeti e arazzi, “troppo voluminosi anche per i carri in attesa, furono squarciati e ridotti a brandelli, calpestati con gli stivali infangati; le porcellane atterrarono in frantumi tra le rape. I vini scorsero giù per le strozze dei rivoltosi […]” (Simon Schama, La storia degli ebrei, vol. I, Mondadori, 2019). Oppenheimer riuscì a fuggire attraverso una galleria espressamente costruita per simili evenienze. Quando la ribellione fu sedata, il cliente e protettore del suo “Oberkriegsfaktor ” (fornitore militare), l’imperatore del Sacro romano impero Leopoldo I, fece impiccare i suoi capi. Non che gli importasse molto degli ebrei, ma i disordini avevano la cattiva abitudine di diffondersi. Appena l’anno prima c’era stata una grave sommossa di contadini contro gli ebrei della Franconia rurale. Ma Oppenheimer non era uno sciocco. Sapeva che chi adesso fingeva di fare giustizia aveva partecipato al complotto per eliminarlo. Gli doveva una cifra enorme, duecentomila fiorini, per l’acquisto di segale, grano e farina, moschetti e carabine, granate e proiettili, pastrani e calzature. Se l’imperatore voleva fare la guerra a Luigi XIV, qualcuno doveva procurargli l’equipaggiamento necessario, e lui l’aveva fornito. Perciò si era appellato alla Hofkammer, la suprema autorità fiscale della monarchia asburgica, per ottenere i rimborsi pattuiti per contratto. Il “Finanzminister” allargò le braccia, gli mostrò le mani vuote e si scusò, ma c’erano ancora soldati sul campo di battaglia e lui non aveva nemmeno un “groschen” (soldo) da restituirgli.
Non era una novità. Dieci anni prima gli dovevano la bellezza di cinque milioni di fiorini e se l’erano tolto di torno. Allora Oppenheimer scrisse direttamente al sovrano, il quale gli rispose che era lui in debito con il regno, e non viceversa. Del resto, i nemici di Samuel erano ovunque. Il cardinale Kollonitsch, che odiava gli ebrei, non gli aveva perdonato il crollo del proprio consorzio di banchieri cattolici. La devastazione della sua casa serviva a ricordare al presuntuoso giudeo che, se non avesse rinunciato alle sue arroganti pretese, la vita gli avrebbe riservato sorprese assai amare. Più amare persino delle prigioni austriache che aveva conosciuto con il figlio Emanuel nel 1697, quando erano stati arrestati con la falsa accusa di aver tramato per uccidere un rivale in affari.
La rovina di Samuel O, come veniva chiamato nelle cancellerie di mezza Europa, è una vecchia storia ebraica, caratterizzata da una resistenza indomabile alle sventure. Gli ebrei di corte dell’epoca barocca erano soltanto l’ultima versione di una vicenda iniziata nei secoli medievali. Grazie a solidi rapporti personali con i correligionari del Vecchio continente, erano riusciti ad assicurarsi merci poco voluminose e pregiate, come le gemme e le spezie, e a immetterle nel mercato con profitti notevoli, ammassando così cospicui capitali. Sia i tassi elevati praticati dai prestatori di denaro cristiani, sia la disapprovazione ufficiale della Chiesa per il prestito a interesse, avevano contribuito a dar loro un vantaggio competitivo sui concorrenti, e per giunta erano in grado di offrire prestiti anticipati in cambio di redditizi appalti di riscossione di imposte e dazi doganali. I rischi, tuttavia, erano enormi. Sapevano per esperienza che in ogni momento i debiti potevano essere ripudiati, le loro proprietà confiscate, essi stessi o i loro eredi spogliati di tutto o incarcerati dal regnante di turno. Eppure continuavano a offrire i propri servigi, perché per ogni ebreo impiccato c’erano tante storie di successo di banchieri e maestri di zecca che sopravvissero ai pericoli diventando straordinariamente ricchi.
Le esigenze dei principi – eserciti, cittadelle e palazzi – non erano cambiate dall’età gotica a quella barocca. Era però cambiata la loro gerarchia. A metà del Seicento gli Asburgo, in Austria come in Spagna, avevano abbandonato la campagna avviata un secolo prima da Carlo V per sgominare l’eresia protestante e riunire la cristianità in una crociata contro i turchi. Cinquant’anni dopo, nessuno immaginava più una riunificazione confessionale. Tuttavia, la guerra tra cristiani era a malapena terminata che già veniva sostituita da un mercantilismo armato. Tra il 1650 e il 1780 era vitale disporre di un patrimonio garantito dall’erario, e guai a quel reame che non ricorreva, se necessario, alla forza per incrementarlo. In realtà, il patrimonio si poteva calcolare anche in popolazione, terre, schiavi, oro, navi, miniere, manifatture. Alcune dinastie predatrici – gli Svevi, gli Hohenzollern di Prussia, i Borboni – tenevano costantemente d’occhio i rivali, pronte ad approfittare dei loro momenti di debolezza o dei loro passi falsi.
Inizia per queste ragioni una costosissima corsa agli armamenti. Vauban, il grande ingegnere militare di Luigi XIV, aveva rivoluzionato le strategie difensive, ma i bastioni a punta di freccia, con i muri più spessi e impenetrabili che si fossero mai visti, avevano un prezzo esorbitante. E, a loro volta, richiedevano una mostruosa artiglieria d’assedio. Le dimensioni degli eserciti triplicarono. Le navi da guerra e i loro cannoni gareggiavano per superarsi nella gittata delle bordate. Tutto ciò accadeva nel periodo in cui la crisi economica dovuta a decenni di conflitti sanguinosi, la riduzione dei territori a deserti bruciati e città semidiroccate, faceva sì che i soliti a pagare – i contadini assoggettati e i latifondisti – non fossero in grado di fornire il gettito fiscale necessario. Ad aggravare la situazione c’era poi il rifiuto dei ceti nobiliari di cedere al re o al margravio persino una piccola quota dei loro beni per finanziare un convoglio di artiglieria pesante o un reggimento di granatieri.
Qui entra in scena Samuel O. Ma non è l’unico. Entra in scena anche la ditta Machado e Pereyra di Amsterdam, che sovvenziona l’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo d’Orange nel 1688, e la successiva campagna contro l’esercito cattolico francoirlandese del suocero, Giacomo II. Entrano in scena anche altri facoltosi personaggi delle comunità ebraiche: Solomon Medina, che sussidia le campagne del duca di Marlborough nella guerra di successione spagnola contro Luigi XIV (1701-1714); la famiglia Gumpertz di Clèves, ebrei di corte e maestri di zecca degli Hohenzollern di Brandeburgo; i due successivi mariti di Esther di Praga, Israel Aaron e Jost Liebmann, che placano la passione per i gioielli più sofisticati di Federico di Prussia; e ancora Berend Lehmann, che si svena per pagare lo sbalorditivo palazzo Zwinger di Augusto il Forte a Dresda. I ministri delle Finanze con l’acqua alla gola degli stati germanici avevano ottimi motivi per preferire gli ebrei agli svizzeri o agli ugonotti. I loro tassi d’interesse non potevano varcare la soglia del sei per cento, e comunque li si poteva obbligare – con le buone o cattive maniere – ad abbassarli ulteriormente. Il rimborso del capitale, peraltro, era rateizzabile ad libitum del debitore. Da ultimo, grazie alle loro relazioni con le famiglie ashkenazite più lontane, dall’Ucraina alla Danimarca, erano in grado di rifornire rapidamente gli eserciti di stoffe olandesi, salnitro boemo e grano polacco.
Fino a quando non cadde in disgrazia, Samuel O era ripetutamente accorso in aiuto dell’imperatore asburgico. Nel 1683, con le truppe ottomane di Kara Mustafa alle porte di Vienna, il suo denaro impedì la catastrofe. Pur essendo stato pubblicamente vilipeso e destituito in favore di un consorzio di banchieri cattolici, intervenne quando i fondi consacrati dal clero cominciarono a mancare. In questo senso, il suo virtuosistico ritratto dell’incisore Johann Andreas Pfeffel (1674-1748) è un caso di autopromozione senza precedenti nell’iconografia ebraica. L’uomo che ha spezzato l’assedio è raffigurato come un incrocio tra un rabbino e un feldmaresciallo, che indica tutto ciò di cui dispone: polvere da sparo e mortai, moschetti, l’elmo solitamente associato alla sovranità e un documento con stampata l’aquila a due teste degli Asburgo.
La millanteria era però compensata dai fatti. Samuel O mobilitava flotte di zattere e chiatte fluviali per trasportare soldati, animali da tiro e artiglieria lungo il Danubio fino alle fortezze assediate dell’Ungheria. Recinti galleggianti di bovini, pecore e pollame percorrevano il fiume fino al loro appuntamento con gli spiedi e i tegami dei soldati. Accampamenti e caserme erano riforniti di pane, munizioni e bende. Sciabole, moschetti, cannoni e pistole, polvere da sparo e palle, micce a combustione lenta e rapida, si materializzavano come per magia. La flotta di Oppenheimer solcava senza sosta i mari settentrionali e meridionali fino a quando non trovava ciò che serviva. Anzitutto, fino a quando non trovava la merce più preziosa in assoluto, quella che determinava l’esito di una battaglia: l’avena. Niente avena, niente cavalleria. Niente avena, niente carri per l’artiglieria. Niente avena, non restava che la resa.
Dopo la morte di Oppenheimer, nel 1703, il suo socio di minoranza Samson Wertheimer (1658-1724) si fece avanti per prenderne il posto. La lettera di nomina lo definiva “industrioso, infaticabile, efficiente, leale e generoso”. Tradotto, si poteva fare affidamento su di lui per ottenere l’anticipo di un milione di fiorini fino a quando l’impero era in guerra. In qualità di banchiere personale della dinastia ungherese degli Esterhazy, Wertheimer si era fatto una reputazione di probità amministrativa e, cosa ancora più importante, di prodigo soccorritore dei potenti. Anche il fatto che fosse stimato come “Grandrabbiner” (rabbino capo) d’Ungheria, Moravia e Boemia, noto per i suoi taglienti sermoni, attestava la sua integrità morale. I suoi interessi erano innumerevoli. Proprietario delle miniere di sale di Siebenbürgen, aveva il monopolio del tabacco nei Balcani. Si poteva contare su Wertheimer per mantenere le ambasciate all’estero, liberare l’imperatrice dai suoi debiti, pagare i fuochi d’artificio dell’incoronazione imperiale di Carlo VI, succeduto a suo fratello Giuseppe nel 1711. A Vienna, Praga, Francoforte, finì per essere considerato un forziere di saggezza e di monete, al punto che Leopoldo gli fece dono del proprio ritratto in segno di riconoscenza.
Nonostante le periodiche espulsioni, gli episodi di violenza, gli abusi e gli attacchi di cui erano oggetto, Wertheimer continuava a credere in un futuro per gli ebrei nell’impero asburgico. Era diventato, infatti, l’erede della lunga tradizione dei “resh galuta” (i capi dell’esilio), un protettore degli ebrei in anni molto tempestosi. Tanto che, dopo essere stati cacciati da Eisenstadt nel corso dell’insurrezione ungherese del 1708, li persuase a rientrare in città e a costruire una sinagoga privata mettendo a disposizione la sua casa. Danneggiata da un incendio nel 1795, fu riedificata negli anni Trenta dell’Ottocento in un sobrio stile classico visibile ancora oggi. Nel novembre del 1938, quando i roghi appiccati durante la “notte dei cristalli” (“Kristallnacht”), su istigazione dei tanti austriaci entusiasti dell’Anschluss al Terzo Reich, distrussero la principale sinagoga della città, la sua “shul” (sinagoga in yiddish) si salvò, forse perché era al primo piano della sua abitazione. La sua congregazione non fu altrettanto fortunata. Oggi è un luogo di spettrale devozione: il Museo ebraico austriaco.
Il Foglio, 12 luglio 2025)
Come la Cina influenza le proteste propal negli USA
di Nathan Greppi
Già nel maggio 2024, un rapporto stilato dal NCRI (Network Contagion Research Institute) aveva dimostrato che le proteste filopalestinesi scoppiate negli Stati Uniti dopo il 7 ottobre erano state almeno in parte foraggiate da una rete di persone e associazioni legate al PCC (Partito Comunista Cinese), al fine di destabilizzare la società americana dall’interno.
Oltre un anno dopo, questa teoria ha ricevuto ulteriori conferme a seguito della recente pubblicazione di un report analogo da parte del Program on Extremism della George Washington University. Redatto da Jennifer Baker, ex-agente del FBI con oltre vent’anni di esperienza negli ambiti della sicurezza nazionale e del controspionaggio, il report si intitola CCP Influence in U.S. Pro-Palestinian Activism.
• La galassia filocinese Nello specifico, il rapporto spiega come l’attivismo filopalestinese negli Stati Uniti sia sempre più collegato a delle operazioni del PCC per esercitare la propria influenza negli Stati Uniti. Viene fatto in particolare il nome di Neville Roy Singham, un imprenditore statunitense residente a Shanghai e legato al PCC, che ha costruito una vasta rete che finanzia gruppi di attivisti con un agenda politica antiamericana e antisraeliana.
Le organizzazioni chiave di questa rete, come il Forum dei Popoli, la ANSWER Coalition e l’Assemblea Internazionale del Popolo, hanno ampiamente sostenuto la campagna “Shut It Down for Palestine” (SID4P), lanciata sull’onda dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. L’evidenza suggerisce che questi gruppi, alcuni dei quali legati ad organizzazioni terroristiche come il FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina), beneficiano di finanziamenti e promozioni in linea con la narrazione portata avanti dalla Cina, che si vuole presentare come un difensore della giustizia globale. Il rapporto delinea come queste organizzazioni siano unite tra loro da un’ideologia condivisa, la cooperazione logistica e l’allineamento agli obiettivi della guerra mediatica portata avanti da Pechino.
• La propaganda della Cina Il rapporto analizza anche il modo in cui la Cina si è rapportata alla guerra tra Israele e Hamas. Pur dichiarandosi ufficialmente a favore della Soluzione dei due Stati, il governo cinese ha criticato duramente l’operazione militare israeliana a Gaza, specialmente per bocca del presidente Xi Jinping. E nonostante la repressione interna che il governo cinese porta avanti da anni nei confronti dei musulmani uiguri, Xi ha cercato di dipingersi come un amico degli arabi e dei musulmani, palestinesi in primis.
Ci sono stati anche casi di media cinesi che hanno promosso narrazioni complottiste e stereotipi antisemiti: nell’ottobre 2023, in un programma dell’emittente statale China Central Television (CCTV) si è sentito dire che “gli ebrei, che sono il 3% della popolazione americana, controllano il 70% delle sue ricchezze”.
Antisemitismo negli USA: un quarto degli americani ritiene “comprensibili” le violenze contro gli ebrei
di Luca Spizzichino
Un nuovo sondaggio condotto dal Center for Antisemitism Research dell’Anti-Defamation League rivela un dato allarmante: quasi un americano su quattro considera “comprensibili” le recenti aggressioni violente contro cittadini ebrei negli Stati Uniti. Il rapporto arriva dopo tre gravi episodi di antisemitismo, tra cui un incendio doloso presso la residenza del governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, e gli attentati di Washington D.C. e Boulder, Colorado.
Il sondaggio, effettuato il 10 giugno su un campione rappresentativo di 1.000 adulti americani tramite Ipsos Observer Omnibus, mette in luce una preoccupante normalizzazione dell’odio antiebraico. Il 24% degli intervistati ha definito le violenze “comprensibili”, mentre percentuali simili le hanno bollate come “false flag”, ovvero operazioni montate ad arte per generare sostegno verso Israele. Secondo la ricerca , il 15% ha definito gli attacchi “necessari”, il 14% non li considera crimini d’odio e il 13% li ritiene “giustificati”.
“È inaccettabile che un quarto degli americani giustifichi o comprenda la violenza mortale contro cittadini ebrei. Questo è un chiaro segnale di quanto le narrazioni antisemite siano penetrate nel discorso pubblico”, ha dichiarato Jonathan Greenblatt, CEO dell’ADL. “Dal 7 ottobre 2023 in poi, abbiamo assistito a un’escalation continua di odio: molestie, aggressioni, e persino omicidi contro ebrei americani”.
Nonostante la diffusione di retoriche violente, il 60% degli americani, indipendentemente da età, orientamento politico o posizione su Israele, riconosce l’antisemitismo come un problema grave. Le preoccupazioni emergono anche all’interno dei partiti: il 25% dei democratici e il 23% dei repubblicani temono l’antisemitismo nei rispettivi schieramenti. La percezione del problema è più forte tra le generazioni più anziane: l’80% della Silent Generation e il 64% dei Baby Boomer lo ritiene una minaccia, contro il 50% di Millennials e Gen Z. Ma è proprio tra i più giovani che emergono dati particolarmente preoccupanti. Il 59% della Gen Z ha una visione favorevole dei movimenti anti-Israele – quasi il doppio rispetto alla media nazionale (29%) – e il 34% ammette di non sapere cosa significhi “antisionismo”.
Il sondaggio dell’ADL ha messo in luce anche il radicamento di stereotipi antisemiti: il 34% degli americani crede che gli ebrei siano più fedeli a Israele che agli Stati Uniti, il 30% ritiene abbiano “troppo potere” in politica e nei media, e il 27% pensa che dovrebbero essere ritenuti responsabili per le azioni del governo israeliano. Significativo anche il dato sul linguaggio delle proteste: il 68% degli americani ritiene che slogan come “Globalize the Intifada” o “From the River to the Sea” aumentino il rischio di violenze contro gli ebrei. Inoltre, il 58% è convinto che il termine “sionista” venga spesso usato come sinonimo di “ebreo” in contesti offensivi.
Nonostante i segnali inquietanti, il sondaggio mostra anche una volontà diffusa di combattere l’antisemitismo: l’82% degli americani sostiene la rimozione dei contenuti d’odio online, e il 77% chiede un maggiore impegno governativo contro l’antisemitismo. “C’è ancora una finestra di opportunità per agire,” ha dichiarato Matt Williams, vicepresidente dell’ADL Center for Antisemitism Research. “La maggioranza degli americani rifiuta l’odio e la violenza contro gli ebrei. Ma il tempo per intervenire è ora, prima che l’antisemitismo diventi un elemento normalizzato del discorso pubblico”.
Lo chiamerò F.C. con le sue iniziali per sua precisa richiesta, ma anche perché più che una persona è l’archetipo di un certo tipo di ebreo secolarizzato e integrato. È nato a Roma nell’immediato dopoguerra, genitori e nonni erano fortunosamente scampati alla cattura il 16 ottobre del ‘43. Il nonno paterno era un affermato avvocato civilista con una clientela composta in maggioranza da correligionari. Suo padre non aveva potuto completare il liceo né laurearsi a causa delle leggi razziali, per cui il nonno avvocato aveva rilevato da un parente anziano una bottega di abbigliamento in una via commerciale, affidandola a lui che l’ha gestita con successo per tutta la vita, coadiuvato da sua moglie. F.C. è cresciuto, maggiore di due fratelli e una sorella, in un appartamento in affitto di un quartiere limitrofo al vecchio ghetto, la famiglia è religiosa, ma non ortodossa, non rispetta le norme alimentari ebraiche e si reca in sinagoga solo per le festività più importanti, ha usi e costumi della media borghesia. Fino all’età scolare non ha precisa cognizione della sua appartenenza, perché amici e parenti sono quasi tutti ebrei, solo qualche volta sente parlare dei “goym” traducibile come i gentili, cioè i non ebrei, in Italia in pratica i cattolici. É in prima elementare alla scuola pubblica che ha l’occasione di verificare la sua diversa identità religiosa, poiché la maestra lo informa, unico ebreo in classe, che a inizio lezioni dovrà alzarsi in piedi come gli altri senza però fare il segno della croce. Questo innescherà molte domande cui soprattutto il nonno darà risposte articolate. Al temine della terza media festeggia il Bar Mitzvah, che dovrebbe farne un ebreo maschio adulto, ma paradossalmente segna il suo progressivo allontanamento dalle pratiche religiose, per approdare a un laicismo ateo, senza però rinnegare le proprie origini, particolarmente sotto l’aspetto culturale, se richiesto risponderà sempre: ”Sono ebreo”. Alle superiori contrae diverse amicizie, alcune delle quali per la vita, un gruppo di amici orientati a sinistra con varie sfumature, dove di religione non si parla. Le uniche frizioni riguardano Israele e le ricorrenti crisi, mentre qualche compagno non del gruppo gli chiede se farà il soldato in Italia o in Israele, restando perplesso e incredulo all’ovvia risposta. Infatti mentre frequenta la facoltà di lettere, viene ammesso al corso allievi ufficiali dei bersaglieri, cosa che farà appena laureato. All’università avrà per compagni di corso alcuni futuri giornalisti e cineasti poi divenuti famosi e conoscerà una ragazza cattolica che diverrà sua moglie. La cosa produrrà mal di pancia nelle famiglie dei futuri sposi, ognuna rivendicando il proprio rito di appartenenza, alla fine il matrimonio civile sarà il compromesso che risolverà i contrasti lasciando tutti scontenti. Tutto questo avviene nella seconda metà degli anni ’60, quando FC ha trovato lavoro, dopo aver terminato il servizio militare, partecipando come ultimo impegno prima del congedo, alla sfilata del 2 Giugno, ritto sulla torretta di un carro armato con le piume al vento e la fascia azzurra. I suoi genitori nutrivano la speranza che il loro “bechor” (in ebraico primogenito maschio) prendesse in mano le redini del ben avviato negozio, per gli altri, ancora impegnati in vari gradi del percorso scolastico, c’erano da parte i denari per iniziare altre attività, per la ragazza, oltre alla cospicua dote, si sperava in un buon partito, infatti era stata iscritta a vari club ebraici giovanili ed inviata a campeggi e vacanze organizzate da quei sodalizi. Ma F.C. fu subito chiaro, della bottega non voleva saperne, aveva altri interessi, fu così che per caso un giorno un industriale fornitore del padre gli disse che un suo amico pubblicitario cercava giovani da inserire nella sua attività, FC accettò entusiasta e partì per Milano, sede dell’agenzia pubblicitaria, dove fece due anni di apprendistato, tornando a Roma ogni fine settimana per stare con la sua ragazza. Fu un periodo proficuo, favorito da un ottimo rapporto con i giovani colleghi con i quali apprendeva il mestiere, ma di tanto in tanto il suo essere ebreo veniva fuori nei discorsi, impregnati più di stereotipi che di pregiudizi, eccone alcuni esempi: “Certo che voi ebrei avete una marcia in più, basta pensare ai premi Nobel, poi vi aiutate molto tra di voi.” “Vedrai che il capo ti manderà in America, tutte le grandi agenzie sono in mano agli ebrei, per te sarà semplicissimo inserirti”. “Ma tu oltre l’inglese parli anche l’ebraico?” “Ho letto che in Italia ci sono 30.000 ebrei iscritti in 21 comunità, ma è certamente sbagliato, sono molti di più”. “Si parla di nuovo di antisemitismo, non conosco persone antisemite, anzi io per esempio ho tanti amici come te”. “Hai anche il passaporto israeliano?” “È vero che Gesù era ebreo?” F.C. qualche volta rispondeva sommariamente, più spesso consigliava qualche libro da leggere, infastidito in cuor suo di certe domande o affermazioni in un contesto in cui i suoi interlocutori erano tutti neo-laureati. A fine stage ottenne il posto di account-manager nella filiale di Roma dell’agenzia, potendo finalmente sposare. Dal matrimonio nacquero una femmina e un maschio, che fu fatto circoncidere, anche se non ebreo, perché per essere tale bisogna essere di madre ebrea, però, pensò FC, non si sa mai cosa penserà da grande. Col passare degli anni, le molteplici guerre e crisi che hanno visto coinvolto lo Stato ebraico, ne hanno mutato il sentimento dell’opinione pubblica, passando da consenso entusiasta a un malcelato malessere fino a un evidente risentimento che ha coinvolto gli ebrei di tutto il mondo in quanto tali, chiamati a scindere pubblicamente le proprie responsabilità dai cittadini israeliani. I drammatici eventi recenti hanno portato a galla l’anti-sionismo, con grande sforzo dei mass-media e delle singole persone di attribuirgli un significato politico, lontano dal puro e semplice antisemitismo, dicotomia attualmente argomento di accese polemiche. F.C. ha a lungo riflettuto su tutto ciò, iniziando a percepire diffidenza anche da parte di persone amiche di vecchia data, in realtà era sempre stato conscio che, oltre gli stereotipi, in molti albergassero pregiudizi inconfessati che sfuggivano involontariamente in mezzo ad altri discorsi, ai quali non aveva mai replicato perché certo che sarebbe stato impossibile rimuoverli. Ora però è certo che mettere in dubbio il diritto di Israele ad esistere e l’infamante accusa di genocidio non avrebbero trovato terreno fertile se il millenario preconcetto antisemita non aleggiasse nell’animo di molti. Con un certo scandalo di correligionari e non, recentemente aveva mostrato in più occasioni la propria contrarietà alla “Giornata della Memoria” da lui definita la fiera dell’ipocrisia, dicendo: “Si piangono i morti inermi, ma si condannano i vivi che non vogliono fare la stessa fine”. Oggi FC è un uomo anziano in pensione da anni, quello che sta avvenendo in Medioriente lo turba e lo preoccupa, è acerrimo nemico di Netanyahu e dei suoi alleati millenaristi e non condivide l’entusiasmo miope di molti ebrei, ma comprende fino in fondo le ragioni dei cittadini israeliani a causa del pogrom del 7 ottobre 2023, nutrendo seri dubbi che un cambio di maggioranza alla Knesset possa far mutare in modo radicale la politica israeliana verso coloro che vogliono cancellare lo stato ebraico, né ha alcuna fiducia che muti l’acquiescenza verso i coloni in Cisgiordania. L’unica tenue speranza che ha consiste nella pace con gli arabi sunniti, senza la quale, dice: “Come potrebbe sopravvivere un popolo di 8 milioni in un fazzoletto di terra grande come la Lombardia, circondato da centinaia di milioni di nemici politici e religiosi?” Questo mi ha detto in un recente colloquio seduti nel suo giardino a un tavolo su cui erano poggiati due bicchieri e una brocca di tè freddo in cui galleggiavano fette di pesca.
(InOltre, 10 luglio 2025)
Quanto è importante il corridoio di Morag per Israele?
Chi oggi chiede che Israele si ritiri dal corridoio di Morag rischia più che solo terreno militare: sacrifica una delle ultime speranze reali di cambiamento nella Striscia di Gaza.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Ciò che molti commentatori, osservatori dell'ONU e giornalisti ben intenzionati non capiscono o non vogliono capire è la dimensione di ciò che si sta sviluppando tra il corridoio di Morag e quello di Philadelphi. Mentre in Occidente si fantasticano “campi di concentramento”, davanti ai nostri occhi sta nascendo una nuova realtà: un modello palestinese alternativo a Hamas. Ed è proprio questo che Hamas vuole distruggere a tutti i costi. Una guida per chi è confuso, con uno sguardo alla strategia, alla sicurezza e alla speranza nella Striscia di Gaza. Molti ritengono che il cosiddetto corridoio Morag non sia così importante da giustificare il fallimento di un accordo per il rilascio degli ostaggi e di un cessate il fuoco. Ma è proprio questo corridoio, a nord della strada di confine egiziana del corridoio di Philadelphi, che attualmente costituisce il principale ostacolo a un accordo di cessate il fuoco. Ma cos'è esattamente questo corridoio di Morag? Perché è così conteso? E perché è così importante per la sicurezza di Israele?
Dall'inizio delle operazioni a Rafah, l'esercito israeliano ha completamente liberato questa zona dalle strutture di Hamas. L'IDF controlla militarmente il territorio e ha distrutto gran parte degli edifici e dei tunnel.
Il corridoio di Philadelphi corre lungo il confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto.
Il corridoio di Morag si trova tra Rafah e Khan Yunis, una striscia di terra strategica che oggi è diventata l'ultima zona libera da Hamas nella Striscia di Gaza meridionale
Nella terra di nessuno tra rovine e macerie sta ora sorgendo un nuovo spazio, non solo geografico, ma anche politico. Qui dovrebbe sorgere anche la città umanitaria, ovvero un centro abitativo per i palestinesi, spesso descritto all'estero come un campo di raccolta negativo.
In questa striscia opera una milizia palestinese guidata da Yasser Abu Shabab. Il comandante beduino, originario della tribù dei Tarabin, ha radunato attorno a sé centinaia di uomini armati. Agiscono in coordinamento non ufficiale ma pratico con l'IDF. Assicurano la distribuzione di generi alimentari da parte dell'organizzazione umanitaria americana GHF “Global Hunger Fund”, scortano convogli di aiuti e, secondo Hamas, conducono persino operazioni mirate in zone in cui le truppe israeliane non osano avventurarsi per motivi tattici.
Per Hamas, Abu Shabab è un incubo. Perché? Perché non è solo un avversario militare, ma sta anche iniziando a costruire un modello civile funzionante, un'alternativa al regime terroristico islamista di Hamas. Nella sua zona di influenza vivono ormai diverse centinaia, forse addirittura migliaia di civili, con scuole funzionanti, approvvigionamenti stabili, un'amministrazione rudimentale e la sensazione di non doversi più sottomettere agli ordini di Hamas.
Nella sua prima intervista a un media israeliano (Ynet) circa tre giorni fa, Yasser Abu Shabab, leader delle “Forze popolari” nella Striscia di Gaza, descrive come sta cercando di costruire un ordine alternativo a Hamas con il sostegno dell'Autorità palestinese, in piena guerra e sotto costante minaccia. “Quando sono fuggito con la mia famiglia ad Al-Mawasi, tra i due corridoi, regnavano la fame, il caos e l'umiliazione”, racconta Abu Shabab. "Hamas controllava tutto, si appropriava degli aiuti umanitari. Non potevo più tacere“. Quando ha visto con i propri occhi che Hamas deviava gli aiuti umanitari destinati alla propria clientela, Abu Shabab ha deciso di agire. ”Ho iniziato a fermare i camion, a prendere il cibo e a distribuirlo io stesso alla gente, ai bambini e alle donne. Per mesi".
«Hamas ci trattava con diffidenza perché abbiamo legami familiari con la tribù dei Tarabin nel Sinai, una tribù che si oppone chiaramente alla Fratellanza Musulmana». Il risultato è stato che «hanno ucciso 52 membri della mia famiglia allargata, compreso mio fratello». Hamas lo ha dichiarato nemico, ma la sua popolarità tra la popolazione è cresciuta. Sempre più giovani si sono uniti a lui.
“Chi aveva armi veniva da me. Chi le nascondeva me le consegnava volontariamente”, racconta. Hamas, invece, sembra sempre più indebolita: “Quando li attacchiamo, scappano come topi”. Abu Shabab commenta anche il dibattito su un possibile cessate il fuoco: "Vogliamo che gli ostaggi israeliani tornino a casa.
Ogni innocente, da qualsiasi parte stia, deve tornare dai propri figli“. Allo stesso tempo, però, mette in guardia da un ritiro troppo affrettato di Israele dai territori liberati da Hamas: ”La popolazione di Gaza ha pagato un prezzo inimmaginabile per questa folle organizzazione terroristica. Non ci fermeremo. Continueremo a combattere fino all'ultimo, fino alla fine di Hamas".
Ciò che sta nascendo qui è più di un semplice corridoio sicuro. È un tentativo di stabilire un'autonomia palestinese indipendente da Hamas e altrettanto indipendente da Fatah e dall'Autorità palestinese di Ramallah, di cui molti palestinesi diffidano. Una sorta di “terza via” nella Striscia di Gaza, nata dal vuoto lasciato dalla guerra.
Proprio in questo contesto, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha annunciato il piano per la creazione di una cosiddetta città umanitaria nella zona di Rafah, una zona che, dopo i controlli di sicurezza, dovrebbe ospitare fino a 600.000 palestinesi e oltre. Le persone che non hanno legami con Hamas dovrebbero trovare lì protezione, assistenza e prospettive. L'obiettivo: una zona sicura senza la presenza terroristica di Hamas, senza armi, senza tunnel, ma con rifornimenti, aiuti per la ricostruzione e un'amministrazione minima.
Il ritiro delle truppe israeliane dal corridoio di Morag, come richiesto da Hamas come condizione per un accordo di cessate il fuoco, vanificherebbe tutto ciò che ho detto prima. Sarebbe un passo indietro, un tradimento nei confronti di coloro che proprio ora hanno il coraggio di intraprendere una strada diversa. Abu Shabab e i suoi uomini sarebbero in pericolo di vita nel giro di poche ore. Hamas riconquisterebbe immediatamente il territorio, insieme agli aiuti umanitari, alle infrastrutture e, soprattutto, alla speranza di qualcosa di diverso. Gli stessi palestinesi parlano sui social network di sentirsi più al sicuro nella zona tra i due corridoi, mentre all'estero questa viene descritta come un “campo di concentramento”.
Non si tratta quindi solo di territorio. Si tratta di un'opportunità storica per dare un nuovo slancio alla Striscia di Gaza, dall'interno, non attraverso l'occupazione o governi in esilio. Un'alternativa locale a Hamas, che sta appena iniziando a formarsi.
La domanda cruciale rimane: vale la pena rinunciare a questo sviluppo per ottenere una fragile tregua? Una tregua che Hamas sfrutterà per riorganizzarsi? Una tregua che potrebbe consentire a un regime terroristico radicale di riprendere piede? Il corridoio di Morag non è un simbolo, è realtà. E forse è uno dei pochi luoghi in cui è già visibile oggi ciò che potrebbe essere possibile domani nella Striscia di Gaza. Chi rinuncia a questo non solo rischia un passo indietro sul piano militare, ma potrebbe anche perdere l'occasione per un vero cambiamento politico.
(Israel Heute, 11 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Gli aiuti dell’UE a Gaza non passeranno più da Hamas
di Amedeo Ardenza
Un passo avanti sugli aiuti alla popolazione gazawi e mezzo sul futuro della Striscia di Gaza. Ieri la Commissione europea ha annunciato che a seguito di «un dialogo costruttivo» con il governo di Gerusalemme sono stati concordati passi significativi di Israele «per migliorare la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza». Un risultato, ha spiegato un portavoce comunitario, frutto del dialogo fra l’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas, e il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar. Le misure previste dall’accordo «saranno attuate nei prossimi giorni, con l’intesa che aiuti su larga scala debbano essere consegnati direttamente alla popolazione e che continueranno a essere adottate misure per evitare qualsiasi deviazione degli aiuti verso Hamas». Più aiuti, dunque, come chiesto dal blocco dei 27, ma nessun favore a Hamas, come preteso da Israele dopo decenni di sostegno europeo a entità ritenute troppo vicine al gruppo terrorista palestinese.
L’accordo sull’asse Bruxelles-Gerusalemme prevede un «sostanziale aumento» dei camion giornalieri di generi alimentari e non alimentari verso Gaza; l’apertura di altri valichi, sia nelle aree settentrionali che meridionali; la riapertura delle rotte di aiuto giordana ed egiziana; la distribuzione di generi alimentari attraverso panifici e mense pubbliche in tutta la Striscia; la ripresa delle forniture di carburante per le strutture umanitarie «fino a un livello operativo»; la protezione degli operatori umanitari; e la riparazione e facilitazione dei lavori sulle infrastrutture vitali, come la ripresa della fornitura di energia all’impianto di desalinizzazione dell'acqua.
Da parte sua l’Ue ha rinnovato l’appello «per un cessate il fuoco immediato e la liberazione di tutti gli ostaggi rimasti» e «sostiene gli attuali sforzi di mediazione di Egitto, Qatar e Stati Uniti».
Su questo fronte, però, il negoziato procede a singhiozzo nonostante lo stesso presidente americano Donald Trump si sia impegnato in prima persona perché le due parti arrivino a un cessate il fuoco in tempi brevi. Ieri, riferiva il Jerusalem Post, gli emissari israeliani a Doha hanno presentato ai mediatori nuove mappe sul possibile ridispiegamento delle Israeli Defense Forces (Idf) dopo l’entrata in vigore della tregua da 60 giorni, mappe che, scrive ancora la testata, indicano una maggiore flessibilità soprattutto per quanto riguarda la presenza israeliana nel sud della Striscia.
Nell'ambito sempre dei negoziati in Qatar, Israele avrebbe concordato in linea di principio che l’Emirato inizi a destinare risorse e fondi alla ricostruzione della Striscia di Gaza già durante il cessate il fuoco.
Lo riferisce il quotidiano Ynet, secondo cui è stata Hamas a esigere questo impegno quale garanzia dell'intenzione israeliana di porre fine alla guerra.
Lo Stato ebraico da parte sua insiste affinché non solo Doha trasferisca i fondi, ma anche altri Paesi (dei quali forse si fida di più). Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita si rifiuterebbero però di aiutare senza prima avere assicurazione che Israele non si limiti a siglare una tregua ma punti, invece, a una pace di durata.
Parlando con un gruppo di famigliari degli ostaggi da Washington DC dove è ancora in visita, ieri il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che sono stati fatti progressi verso un accordo di tregua a Gaza e che lui e il presidente Trump hanno «dei piani» che non possono essere divulgati; quindi ha esortato le famiglie alla pazienza.
Nella regione la tensione resta alta: ieri due palestinesi hanno ucciso un giovane israeliano a Gush Etzion, un insediamento in Giudea, per essere poi eliminati da forze di sicurezza presenti nell’area. Ieri Israele ha ucciso Il comandante delle forze di artiglieria di Hezbollah Nuhammad Murad a sud di Tiro in Libano: «La sua attività costituiva una palese violazione delle intese tra Israele e Libano», hanno scritto le Idf.
Sergey Brin contro l’ONU: «Antisemitismo mascherato da attivismo»
Il cofondatore di Google attacca duramente un rapporto delle Nazioni Unite che accusa Big Tech di sostenere l’offensiva israeliana a Gaza: «Un documento distorto e offensivo».
di Nina Deutsch
Il cofondatore di Google, Sergey Brin, ha accusato le Nazioni Unite di essere «apertamente antisemite» in un messaggio rivolto ai dipendenti di Google DeepMind. Il suo intervento arriva in risposta a un rapporto delle Nazioni Unite che accusa diverse aziende tecnologiche, tra cui Google, di trarre vantaggio dalle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza, fornendo servizi di cloud computing e intelligenza artificiale.
Il documento, redatto dalla relatrice speciale Francesca Albanese, cita espressamente Project Nimbus, un contratto da 1,2 miliardi di dollari firmato nel 2021 da Google e Amazon con il governo israeliano per creare un’infrastruttura digitale autonoma e sicura, isolata da server esterni. Il progetto è stato oggetto di critiche per il possibile utilizzo in attività di sorveglianza e operazioni militari. Secondo il rapporto, tali tecnologie contribuirebbero alla cosiddetta «strategia genocidaria» israeliana contro la popolazione di Gaza.
Brin ha definito l’uso del termine «genocidio» come «profondamente offensivo per molti ebrei che hanno vissuto o ricordano autentici genocidi», aggiungendo che il documento delle Nazioni Unite è «scritto con un pregiudizio evidente». Le sue parole, condivise in una chat interna dell’azienda, hanno colpito molti colleghi, considerato il suo abituale riserbo sulle discussioni pubbliche.
Gli Stati Uniti hanno criticato il rapporto e chiesto formalmente la rimozione di Francesca Albanese, accusandola di antisemitismo e ostilità sistemica nei confronti di Israele. La relatrice ha respinto le accuse, sostenendo che il suo lavoro si limita a documentare il coinvolgimento delle aziende tecnologiche nell’infrastruttura militare israeliana, soprattutto dopo l’attacco lanciato da Hamas il 7 ottobre 2023.
Sergej Brin, nato Sergej Michajlovič Brin in Unione Sovietica nel 1973 da una famiglia ebraica, è fuggito negli Stati Uniti per evitare la persecuzione religiosa. È tornato a essere attivamente coinvolto nelle operazioni di Google a partire dal 2022, con l’obiettivo di guidare la competizione nel campo dell’intelligenza artificiale contro rivali come OpenAI.
Google, da parte sua, ha già chiarito che Project Nimbus non è destinato all’uso da parte delle forze armate israeliane. Tuttavia, il coinvolgimento dell’azienda in progetti governativi legati a scenari di guerra ha sollevato forti polemiche anche all’interno, tra lavoratori e ingegneri che da tempo chiedono maggiore trasparenza e un’etica più rigorosa nello sviluppo dell’AI.
Come riportato dal Washington Post, il dibattito su tecnologia, guerra e responsabilità morale delle grandi aziende si fa sempre più acceso, mentre la linea di confine tra innovazione e complicità si fa ogni giorno più sottile.
L’appello dei docenti contro il boicottaggio di Israele: «Disastro politico, umano e morale»
«Sono già pervenute quasi 2mila adesioni, ma altre centinaia sono in arrivo nelle prossime ore. È un segnale molto importante».
Lo psicanalista David Meghnagi, già coordinatore del Master in Didattica della Shoah all’Università di Roma Tre, è uno dei sei accademici promotori di un appello “contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani”, rivolto in prima istanza alla ministra dell’Università e della Ricerca e alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui). Nell’appello si denunciano con allarme «le mozioni di boicottaggio promosse in alcuni atenei contro università e istituti di ricerca israeliani e il loro corpo docente, di ricerca e studentesco», citando vari episodi avvenuti in questi mesi. Tali iniziative, si legge, «anche quando non consapevolmente antisemite, non solo contrastano con la vocazione dell’università e della ricerca, che devono restare spazi di libertà, confronto critico e cooperazione internazionale, ma contribuiscono anche a portare in superficie forme di antisemitismo latente».
Secondo Meghnagi, interpellato da Pagine Ebraiche, è un tema sul quale la Crui «deve pronunciarsi in modo netto, perché il boicottaggio delle università israeliane è un disastro politico, umano, morale». Morale anche perché, ricorda Meghnagi, le università israeliane «sono in parte figlie della tragedia della persecuzione fascista: molti docenti italiani allontanati dall’insegnamento con la promulgazione delle leggi razziste del ’38 hanno plasmato e rinnovato diverse aree della ricerca israeliana». Fu un gruppo percentualmente molto rilevante, il secondo in assoluto dopo quello tedesco. «Va aperta una riflessione morale su quello che sta accadendo»; incalza Meghnagi. «facendo notare che i nipoti di coloro che allora si sono voltati dall’altra parte, permettendo il suicidio dell’università italiana, partecipano ora al boicottaggio dei nipoti di quanti furono allora perseguitati». È poi inquietante, aggiunge Meghnagi, «che tutto questo avvenga ad appena sette anni distanza dalla “cerimonia del ricordo e delle scuse” durante la quale le università italiane riunite a Pisa affrontarono insieme quel tema, dopo aver aspettato 80 anni».
Gli atenei israeliani possono fare qualcosa per contrastare la deriva in atto? A detta dello studioso, «le università israeliane sono portatrici di un messaggio prezioso, anche in questo difficile periodo, continuando a preservare il valore della convivenza tra diverse componenti culturali e religiose». La sua speranza è che voci arabe e islamiche si facciano sentire in ambito accademico a difesa degli stessi valori. «Spero si pronuncino molto più di adesso, perché sarebbe la premessa per creare le condizioni culturali per uscire dalla tragedia in cui vive il vicino Oriente», sostiene Meghnagi. «Non siamo decisori politici, ma docenti. E come docenti il nostro compito è fornire delle buone pratiche e alimentare l’empatia». In quest’ottica, conclude, «anche psicologi e psicanalisti italiani hanno perso finora un’occasione, concentrandosi nel deumanizzare la realtà d’Israele» .a.s.
Università ebraica di Gerusalemme, l’officina dei geni che cambiò il mondo
di David Meghnagi
L’Università ebraica di Gerusalemme compie 100 anni, e li porta bene. La foto di Einstein con lo sguardo sognante, che gira in bici per il campus, ti segue e ti incoraggia amichevolmente. Dalla terrazza dell’ateneo è possibile guardare in lontananza il luogo più basso del pianeta. La città di Gerusalemme si affaccia sul deserto. Ma il deserto, con il suo silenzio, non è mai stato concepito come assenza totale. Dal midbar (deserto) viene davar, la parola che consola e restituisce un senso al dolore. L’Università, scrisse Freud nel suo toccante messaggio, «è il luogo in cui si insegna il sapere al di sopra di ogni differenza di religione e di nazionalità», in cui gli esseri umani «apprendono fino a che punto può spingersi la loro comprensione del mondo», una «nobile testimonianza del grado di sviluppo cui il nostro popolo è faticosamente pervenuto in duemila anni di traversie sfortunate».
Nonostante i laceranti conflitti che scuotono la regione, l’Università non è mai venuta meno all’appello di Freud. Se non fosse per la follia che dilaga verrebbe da ridere amaramente che ci siano fisici, psicologi e purtroppo anche psicoanalisti che vogliono porre fine a ogni forma di collaborazione con un ateneo in cui il ruolo degli accademici italiani – espulsi dalle Università italiane dopo le Leggi razziali – è stato importante. Giusto per citare alcuni nomi da ricordare: Giulio Racah, fisico espulso dall’Università di Pisa, uno dei padri della fisica israeliana; Guido Tedeschi, giurista dell’Università di Siena a cui si deve lo sviluppo del pensiero giuridico in Israele. Quando Ben Gurion gli chiese di assumere la presidenza dell’Alta Corte, Tedeschi rispose che per lui era più importante formare dei giuristi di qualità. E poi ci sono l’anatomopatologo Salomone Enrico Emilio Franco; Roberto Bachi, statistico e demografo; Guido Mendes, tisiologo; Umberto Cassuto, orientalista; Enzo Bonaventura, psicologo sperimentale e pioniere della psicoanalisi italiana, che morì assassinato insieme ad altre 68 persone in un agguato mortale nell’aprile 1948. Tre generazioni di studiosi uccisi in un solo giorno.
Per non parlare di Enzo Sereni (fratello di Emilio), che fondò un kibbutz e non si rassegnò mai, come tanti, all’idea che non fosse possibile costruire un rapporto di convivenza con il mondo arabo e islamico. Sul finire della guerra, Enzo Sereni, che il Comune di Roma ha deciso di ricordare con una via, si fece paracadutare in Italia per unirsi alla lotta partigiana e portare aiuto agli ebrei braccati dai nazisti. La storia dell’Università ebraica è anche un pezzo di storia italiana, da riscoprire come tale per gettare un ponte tra un passato che non passa e un futuro possibile di convivenza.
Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Palestinesi, accusandola di condurre una “guerra politica ed economica” contro Washington e Gerusalemme. L’annuncio è stato dato direttamente dal Segretario di Stato Marco Rubio, che ha definito inaccettabili gli sforzi della relatrice speciale per coinvolgere la Corte Penale Internazionale contro funzionari, aziende ed esponenti politici americani e israeliani.
“Non tollereremo oltre la campagna di guerra politica ed economica di Francesca Albanese contro Stati Uniti e Israele,” ha dichiarato Rubio in un post su X. “Continueremo a intraprendere tutte le azioni necessarie per contrastare il lawfare e difendere la nostra sovranità e quella dei nostri alleati”.
L’iniziativa arriva in un momento delicato, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si trova in visita a Washington per negoziati con l’amministrazione Trump riguardo a un possibile cessate il fuoco a Gaza e un accordo per la liberazione degli ostaggi. La decisione di Rubio ha raccolto immediatamente il sostegno di diversi rappresentanti israeliani, come ha riportato il Jerusalem Post. Il Ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha commentato con entusiasmo: “Un messaggio chiaro. È ora che l’ONU presti attenzione!”. Anche l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Danny Danon, ha applaudito l’iniziativa: “Albanese ha superato da tempo il confine tra difesa dei diritti umani e propaganda antisemita. Le sue dichiarazioni e azioni danneggiano profondamente la credibilità delle Nazioni Unite”.
Le accuse nei confronti di Francesca Albanese spaziano da posizioni ritenute antisemite — come l’aver parlato di una “lobby ebraica” che controllerebbe gli Stati Uniti — a una presunta legittimazione di Hamas e del ricorso alla lotta armata da parte dei palestinesi. In un’intervista del 2022, ripresa dal Times of Israel, aveva paragonato l’azione di Israele a quella dei nazisti. Più recentemente, ha descritto le azioni di Israele a Gaza come “genocidio” e ha invitato gli Stati membri dell’ONU a prendere misure concrete contro lo Stato ebraico, comprese sanzioni internazionali.
(Shalom, 10 luglio 2025)
La viceministra Haskel: Italia tra i paesi più vicini a Israele
Il governo italiano? «Uno dei più vicini a Israele, hanno capito perfettamente la situazione e per questo li ringrazio»
Sharren Haskel è la viceministra israeliana degli Esteri. È di ritorno in Israele dopo una tre giorni a Roma nel corso della quale ha incontrato ministri, parlamentari, esponenti della maggioranza e di parte dell’opposizione, rappresentanti del mondo ebraico e dell’associazionismo. Una missione proficua, fa capire incontrando alcuni giornalisti nella sede della missione israeliana, affiancata dall’ambasciatore Jonathan Peled. Haskel ha risposto a domande su vari temi, a partire dal recente conflitto dei “12 giorni” con l’Iran e dai negoziati per una tregua a Gaza e per il rilascio di parte degli ostaggi. La viceministra ha rivendicato «il grande successo» dell’operazione in Iran, che avrebbe riportato il progetto nucleare di Teheran indietro di almeno due anni. «Si apre per tutti una grande opportunità», ha dichiarato. «Ed è il momento che emergano delle leadership in grado di stabilizzare la situazione in Medio Oriente». Stabilità della quale il regime degli ayatollah «è il più grande nemico, come si vede nella guerra che stiamo combattendo da quasi due anni con i suoi proxies». L’Iran è un pericolo globale, ha proseguito la viceministra, «perché ha tentacoli in tutto il mondo, è infiltrato in Europa e in America Latina: noi siamo in prima linea». Israele «non ha avuto alternative», ha spiegato. «Negli ultimi mesi il regime ha impresso un’accelerazione drammatica sia rispetto al programma nucleare, sia alla produzione di missili balistici; quando il regime grida “morte a Israele!” sappiamo bene cosa intende e non possiamo permetterlo».
Per quanto riguarda i negoziati in corso a Doha, la viceministra ha affermato che «Israele ha sempre detto sì, facendo molte concessioni, perché la nostra priorità è riportare gli ostaggi a casa». Hamas invece «ha sempre rifiutato, ponendo condizioni inaccettabili: non possiamo permettere che riprenda il controllo della distribuzione degli aiuti umanitari». È un punto non negoziabile, ha ribadito, «e malgrado ciò siamo ancora a Doha perché vogliamo un accordo». Sul “day after” per Gaza, quando la guerra sarà finita, «stiamo dialogando con alcuni paesi arabi, che concordano con noi sul fatto che Hamas non possa più avere un ruolo: una delle ipotesi in campo è un controllo internazionale con il coinvolgimento di alcuni di questi paesi». È ancora attuale soluzione “Due popoli, due stati?”. Haskel ha espresso un no netto, sostenendo che chi la avalla in questo momento storico (il riferimento era al presidente francese Emmanuel Macron) «sta di fatto chiedendo di arrenderci ad Hamas, perché la festa nazionale di quello Stato diventerebbe il 7 ottobre».
La situazione nei Territori è spesso incandescente. Haskel ha condannato le violenze di alcuni “giovani delle colline” che di recente hanno attaccato anche soldati dell’esercito israeliano, sostenendo comunque che si tratta di episodi «non così frequenti, certo non su base quotidiana». E in ogni caso, ha aggiunto, «la giustizia farà il suo corso, abbiamo un sistema molto solido che non fa differenza a seconda dell’identità degli imputati: ebrei, musulmani, cristiani è lo stesso per tutti». La viceministra si è poi detta ottimista sul futuro degli Accordi di Abramo: «Altri paesi vorrebbero entrare a farne parte». E anche sulla tenuta dell’economia israeliana: «Siamo di fatto in una nuova guerra d’indipendenza, sottoposti a una minaccia esistenziale; ciò nonostante, anche a livello economico, stiamo mostrando la nostra resilienza».
L’obiettivo è rafforzare le relazioni con l’Italia in vari ambiti, promuovendo ricerca e sviluppo. Haskel ne ha parlato con Anna Maria Bernini, la ministra italiana dell’Università e della Ricerca. Haskel ha posto l’accento con preoccupazione sulla crescente influenza del movimento Bds nel sistema universitario. «Boicottando Israele, perdono tutti», ha sostenuto. «Il Bds è un movimento estremista che punta a distruggere la possibilità di un futuro migliore, anche per i palestinesi. Nelle aziende prese di mira dal Bds, ad esempio SodaStream, ebrei e arabi lavorano fianco a fianco, si conoscono e vanno ai matrimoni e alle feste l’uno dell’altro».
Rav Bahbout rinuncia alla cittadinanza onoraria di Napoli: “L’amministrazione napoletana appoggia assassini criminali e terroristi”
“Non intendo, quindi, essere più cittadino di una città che rappresenta, da parte di chi la amministra, l’esatto contrario di quella che mi conferì la cittadinanza” ha scritto l’ex rabbino capo della città partenopea al sindaco Gaetano Manfredi dopo la decisione del consiglio comunale di interrompere i rapporti con Israele.
di Nina Prenda
Rav Scialom Bahbout, già rabbino capo della città di Napoli e del Sud Italia, ha rinunciato al conferimento della cittadinanza onoraria del capoluogo campano e ha scritto una lettera al sindaco Gaetano Manfredi per declinare l’invito ed esprimere la sua posizione in merito. Deluso ma deciso, compiendo un gesto forte e ricco di significato, Bahbout rigetta il conferimento poiché il Consiglio Comunale della città ha deciso di interrompere i rapporti con Israele.
“Signor Sindaco, la Sua città ebbe a conferirmi la cittadinanza partenopea che accolsi con spirito di orgoglio e responsabilità” così inizia la lettera. Ricordando di essere stato accolto nel 1953, quando giunse a Napoli come profugo dalla Libia, il rabbino riconosce la “responsabilità quale rabbino capo in una realtà dialogante e che guardava al Mediterraneo aspirando giustamente ad un ruolo centrale anche di pacificazione” e la sua intenzione di “corrispondere anche dal ruolo ricoperto all’ accoglienza che ricevetti nel 1953”.
In passato, il ruolo da lui ricoperto è stato motivo di orgoglio, così da lui stesso definito, “perché mi consentiva di essere parte di una comunità che aveva costituito una città aperta e tollerante e che è stata, con il ghetto di Varsavia, unica in Europa a sollevarsi da sola e con le armi contro assassini crudeli, sterminatori e oppressori che avevano lo scopo di assoggettare popoli ed eliminare quello al quale appartengo”.
Eppure oggi qualcosa nella città di Napoli è cambiato. Rav Bahbout esprime la sua profonda delusione per le decisioni del Consiglio Comunale, giacché “un recente voto del Consiglio che Ella presiede promuove un boicottaggio contro l’unica democrazia del Medio Oriente e, sposando facili quanto falsi slogan, calpesta le gloriose, spontanee ed eroiche gesta della città”; ottantadue anni dopo “con tale voto l’amministrazione napoletana ha inteso appoggiare assassini criminali e terroristi che hanno gli stessi scopi e metodi di quelli che furono cacciati dalla popolazione nel 1943 e che ho sopra richiamato”.
È per questa ragione che il rabbino declina il conferimento della cittadinanza onoraria, scrivendo: “Non intendo, quindi, essere più cittadino di una città che rappresenta, da parte di chi la amministra, l’esatto contrario di quella che mi conferì la cittadinanza e che risulta oggi perseguire l’opposto di quei valori di Libertà, Giustizia e Verità che ne fecero un faro tra le genti e non soltanto in occasione delle eroiche quattro giornate per le quali la città venne insignita di medaglia d’oro”. Conclude così Bahbout: “Le comunico quindi la mia volontà a rinunciare alla cittadinanza di Napoli”, chiosa.
Forse c’è anche una stanchezza che logora più delle bombe. È la stanchezza di una nazione che da mesi manda i suoi figli di diciannove anni a morire in un dedalo di vicoli a Gaza, senza che nessuno sappia indicare quale sia la vera meta, quale sia l’uscita dal labirinto. “Il capo di stato maggiore continua a ripetere che non c’è ragione di rimanere lì”, scrive un’amica da Israele, e in quella frase c’è il dramma di un intero popolo. Un popolo che si sente sotto assedio, non solo dai missili che piovono da ogni dove, ma anche dal dito puntato del mondo intero, e che inizia a dire, semplicemente, “basta”.
Di fronte a questo logoramento, le domande strategiche restano sospese a mezz’aria, senza risposta. Qual è il piano del governo Netanyahu, al di là del corretto obiettivo di “estirpare Hamas”? Cosa si è guadagnato davvero dalla guerra lampo con l’Iran se non un “cessate il fuoco”? E dopo mesi di combattimenti a Gaza, Israele è davvero più sicura? Il vuoto di una strategia a lungo termine viene così colmato da un atto di disperata diplomazia personale.
La speranza non è più in un piano, ma nell’intervento di un attore esterno come il presidente Trump, la cui benevolenza va corteggiata con gesti plateali. Lo conferma la notizia, riportata dalla CNN e da altre testate, della lettera che Bibi ha consegnato ieri a Trump per candidarlo al Nobel per la Pace: non un omaggio, ma l’ultima moneta di scambio per ottenere quella parola ‘fine’ che la sua leadership è incapace di prevedere.
E sullo sfondo un Occidente ripiegato su se stesso, perso tra le sue piazze urlanti e i suoi salotti accademici schierati nella quasi totalità con lo slogan “dal fiume al mare”. L’uscita dal labirinto, forse, non si trova a Washington o a Bruxelles, ma sta prendendo forma proprio in quel mondo arabo che per decenni è stato considerato la radice del problema.
Il primo segnale è un cambio di paradigma geopolitico, riassunto nel vecchio adagio: “il nemico del mio nemico è mio amico”, pronunciato poco tempo fa dal principe Mohammed bin Salman. Il vero nemico che unisce non è più lo Stato ebraico. È l’Iran. La prospettiva di un’egemonia persiana, e forse nucleare, sta costringendo le monarchie sunnite a un ricalcolo radicale dei propri interessi. La sopravvivenza dei loro troni vale più della vecchia retorica panaraba. E la stabilità, si rendono conto, passa per una normalizzazione dei rapporti con l’unica altra potenza tecnologica e militare della regione in grado di fronteggiare Teheran: Israele.
Su questo terreno di realismo spietato, stanno germogliando semi che fino a ieri sarebbero stati considerati pura eresia. Non si tratta più solo degli Accordi di Abramo. Dal mondo arabo stesso, come riporta la stampa israeliana, si sta formulando una nuova Iniziativa di Pace Araba. E, ancora più sorprendente, dal basso, dal cuore della Cisgiordania, emergono proposte locali, come quella dello sceicco di Hebron, Wadee’ al-Jaabari, che, scavalcando l’Autorità Palestinese ormai decrepita e corrotta, propone al Wall Street Journal la creazione di un emirato locale pronto a fare la pace.
Queste non sono soluzioni definitive, ma sono crepe nel muro dell’immobilismo. Sono tentativi pragmatici di costruire qualcosa di nuovo sulle macerie di un’ideologia fallita, quella del rifiuto a oltranza. L’idea che la “questione palestinese” possa essere risolta non da un accordo globale imposto dall’esterno, ma da una serie di patti locali e regionali sostenuti da chi ha davvero interesse a pacificare l’area, è un concetto rivoluzionario.
Questa svolta non nasce da un ingenuo idealismo, ma da un realismo che mette sul tavolo una scelta tra due visioni del futuro, incompatibili e antitetiche. Da un lato, c’è un modello di cooperazione basato sul progresso concreto: la sicurezza idrica, l’agricoltura, l’innovazione e l’interdipendenza economica. È la via di chi vuole “costruire e assicurare un futuro condiviso”, allineandosi con partner strategici come Israele, visto sempre più come un pilastro necessario per la prosperità a lungo termine.
All’opposto, c’è la dottrina del caos, incarnata dall’Iran e dai suoi emissari del terrore come Hamas, Hezbollah e Houthi. Il loro unico progetto non è costruire un futuro, ma orchestrare un conflitto senza fine per annientare Israele e muovere guerra all’Occidente. È il regno dei predicatori di morte, un investimento garantito nell’instabilità che una parte del mondo occidentale, con una perversione quasi incomprensibile, sembra voler abbracciare.
I leader arabi, con lungimiranza, stanno semplicemente scegliendo tra un partner che è pilastro di prosperità e un movimento che è “l’antitesi della civiltà”.
E così, mentre in Italia e in Occidente ci si lacera su boicottaggi e liste di proscrizione, la storia si muove altrove. L’uscita dal labirinto potrebbe non essere la porta principale che tutti fissano da settant’anni, ma un passaggio secondario, aperto silenziosamente da chi ha capito che, per sopravvivere alla minaccia più grande, è necessario scegliere il proprio alleato, anche se ieri lo si chiamava nemico.
(InOltre, 10 luglio 2025) ____________________
Analisi di questo tipo mettono sempre da una parte i "barbari" orientali: Hamas, Iran, Hezbolla, Houthi, con qualche accenno alla putiniana Russia, e dall'altra i "civili" occidentali: Israele, America, Europa. Sono analisi prettamente laiche e pertanto superficiali. Il nemico profondo di Israele e degli ebrei si trova, ora come nel passato, in un Occidente percorso da correnti religiose cangianti secondo i tempi. Nella superficiale religiosità laica dei diritti e della libertà si è innestata una religiosità islamica adattata ai tempi e alle circostanze che sta potenziando il sempre latente odio antiebraico occidentale rendendolo più universale, più ecumenico, più resistente. E in sostanza più occidentale. Registro anche, con dolore e umiliazione, il riemergere di un antisemitismo cristiano, anche questo ecumenico, proveniente da zone teologiche diverse che però si ritrovano in una comune svalutazione dello Stato di Israele e degli ebrei di oggi. E anche questo è un fenomeno che avviene in Occidente. M.C.
Cinque soldati israeliani uccisi in un’imboscata di Hamas a Beit Hanoun
di Luca Spizzichino
Lunedì sera cinque soldati israeliani sono stati uccisi e altri 14 feriti, di cui due in modo grave, in un attacco coordinato da Hamas nella città settentrionale di Beit Hanoun, nella Striscia di Gaza. L’imboscata, avvenuta intorno alle 22:00, ha colpito una forza del battaglione Netzah Yehuda della Brigata Kfir, impegnata in un’operazione di avanzamento a piedi in una zona sotto intenso controllo militare israeliano.
Secondo una prima indagine dell’IDF, l’attacco è stato innescato da una serie di quattro-cinque ordigni esplosivi nascosti e fatti detonare in rapida successione. Gli esplosivi, probabilmente piazzati nei due giorni precedenti, avrebbero preso di mira una colonna di soldati in prossimità di carri armati e veicoli del Genio militare israeliano. Le forze di soccorso, intervenute per evacuare i feriti, sono poi finite sotto un intenso fuoco di copertura in quella che i vertici militari hanno definito “un’imboscata ben preparata”, organizzata dopo un’attenta osservazione dei movimenti delle truppe israeliane.
Il battaglione era entrato a Beit Hanoun come parte di una più ampia offensiva congiunta, condotta insieme alla Brigata Paracadutisti della Riserva 646 e alla Divisione settentrionale della Striscia, con l’obiettivo di neutralizzare una roccaforte di Hamas alla periferia della città. L’area era stata sottoposta a pesanti bombardamenti aerei e di artiglieria nei giorni precedenti.
Questo episodio rappresenta la più grave perdita per il battaglione Netzah Yehuda dall’inizio della guerra. Prima di lunedì, il battaglione aveva perso quattro soldati, tre dei quali in un attacco simile avvenuto a maggio. Con questi ultimi caduti, il numero totale di soldati israeliani morti nella guerra sale a 888, di cui 446 uccisi durante le operazioni terrestri a Gaza. Tra le vittime c’è Benyamin Asulin, 28 anni, riservista originario di Haifa, arruolato nella Brigata settentrionale della Divisione Gaza. Con lui hanno perso la vita quattro giovani soldati in servizio attivo del Netzah Yehuda, tutti tra i 20 e i 21 anni: Noam Aharon Musgadian, Meir Shimon Amar e Moshe Nissim Frech, tutti e tre cresciuti a Gerusalemme, e Moshe Shmuel Noll, di Beit Shemesh.
Parlando da Washington, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Questo è un mattino difficile per tutti noi. Il popolo d’Israele china il capo nel dolore e nell’orgoglio, rendendo omaggio ai nostri eroi caduti. Hanno dato la vita nel nome di una missione più grande: sradicare Hamas e riportare a casa i nostri ostaggi”.
“I cinque soldati uccisi erano in prima linea nella lotta per la sicurezza di Israele. Hanno combattuto con valore e sacrificato tutto. La nostra responsabilità è continuare la loro missione” ha aggiunto il ministro della Difesa Israel Katz.
Il codice etico di IDF: un filo collega l’attacco del 7 ottobre e le leggi della guerra
Un filo collega l’attacco del 7 ottobre e le leggi della guerra.
di Joe Shammah
Il kibbutz Be’eri fu fondato il 6 ottobre 1946. Il 7 ottobre è il giorno del fatidico attacco di Hamas del 2023. Le due date sono separate da 77 anni. La fondazione del kibbutz (1946) precede di 2 anni la costituzione (1948) dello Stato di Israele ed è successiva di 2 anni (1944) alla morte di Berl Katznelson. Il nome del kibbutz venne attribuito in suo onore, Be’eri è la versione ebraica di Berl. Katznelson (1887-1944) era un ebreo lituano emigrato nella Palestina ottomana nel 1909. Fondò nel 1920 il sindacato dei lavoratori, Histadrut, e nello stesso anno la cassa mutua malattie, Clalit, entrambi tuttora operativi. Nel 1925 diede vita al quotidiano socialista Davar (Parola) e la casa editrice ‘Am ‘Oved (Popolo Operaio). Anche questi sono attivi tutt’oggi.
Nel 1936-1939 durante la Rivolta Araba al Mandato Britannico, in un periodo fragile per la comunità ebraica, esposta al terrorismo arabo prima della costituzione dello Stato, il Palmach (acronimo di Plugot Maḥatz, Compagnie d’Attacco) garantì l’ autodifesa degli insediamenti ebraici. Katznelson sviluppò allora un codice di norme di guerra e attinse dalla tradizione biblica il nome di “purezza delle armi”. Il codice fu adottato prima dal Palmach, poi da IDF quando vi confluì il Palmach.
Il codice etico di IDF (Israel Defense Forces, in ebraico ZAHAL, Zvà haHaganà LeIsrael) del 1994 fu redatto nella continuazione del pensiero di Katznelson.
È opera di Asa Kasher con contributi di Moshe Halbertal. Affonda le sue radici nella tradizione ebraica: “Se il tuo nemico cade, non festeggiare; se cade, non si rallegri il tuo cuore” (Proverbi 24:17).
Le Laws of War sono state redatte nel 1949, 4 trattati e 3 protocolli, a cui ci si riferisce come Convenzioni di Ginevra.
Katznelson ha anticipato le leggi internazionali di un decennio, permeando IDF di un codice etico che ispira e precede norme di condotta militare di altri eserciti.
Il kibbutz Be’eri è stato devastato da 101 morti, un decimo dei suoi membri, e da 30 rapiti il 7 ottobre.
L’ateneo filo-palestinese di Padova che ripudia Israele e i suoi istituti
di Pompeo Volpe
Il Senato accademico (Sa) dell’Università di Padova ha approvato tre mozioni, successivamente al 7 ottobre, cioè all’eccidio di oltre 1200 civili e al rapimento di circa 250 ostaggi. Il 7 novembre 2023, in una “Mozione per la pace”, «condanna fermamente le atrocità commesse da… Hamas, …esprime sconcerto e preoccupazione per il drammatico evolversi della situazione nella striscia di Gaza dove l’intervento dell’esercito israeliano, colpendo anche obiettivi non militari, sta imponendo alla popolazione palestinese perdite umane e disagi inaccettabili» e «si esprime a favore della risoluzione pacifica del conflitto». Prescindendo dall’aggressione subita da Israele su sette fronti di guerra e dal suo diritto all’autodifesa, nonché dalle responsabilità di Hamas che usa i gazawi come scudi umani, il Sa si presenta quasi equidistante tra i due contendenti, 30 giorni dopo il 7 ottobre, ma si preoccupa dell’intervento “inaccettabile” dell’IDF.
Il 14 maggio 2024, a fronte dell’insistenza di alcuni suoi componenti che vorrebbero un atto di condanna di Israele, la maggioranza del Senato accademico e la rettrice Mapelli si oppongono alla denuncia degli accordi con le Università israeliane, ma fanno passare alcuni elementi di narrazione filo-palestinese. Nella “Mozione sul conflitto nella Striscia di Gaza”, l’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre diventa l’”esacerbazione” del conflitto in corso e la liberazione degli ostaggi è posposta alla richiesta di un immediato cessate il fuoco. Tutta l’attenzione viene rivolta alle «gravissime emergenze umanitarie e a[lle] numerosissime vittime tra la popolazione civile palestinese, tra cui migliaia di bambini… drammatiche notizie provenienti quotidianamente dalla Striscia di Gaza», e all’«ulteriore drammatico evolversi del conflitto condotto con ingiustificabile accanimento dall’esercito israeliano ai danni della popolazione civile palestinese, alla quale vanno sentimenti di vicinanza e solidarietà». Accettando per buona la propaganda di Hamas sul numero e sul tipo di vittime (tra cui migliaia di bambini) e dimenticando il continuo lancio di razzi verso centri abitati israeliani, dalla Galilea al Negev, emergono gli stereotipi del palestinese vittima e dell’israeliano carnefice.
Il 1° luglio 2025, regista la rettrice Mapelli, il Senato accademico dispiega pienamente la narrazione filopalestinese e anti-israeliana omettendo ogni riferimento alle vittime israeliane (dagli ostaggi ancora detenuti, ai morti e ai feriti delle centinaia di missili balistici lanciati dall’Iran). Inizialmente il Sa constata il «proliferare delle violazioni sistemiche (sic) dei diritti umani fondamentali del popolo palestinese» e l’«esacerbarsi dell’azione militare della Stato di Israele a Gaza» e poi «condanna … tutte le ripetute violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani compiute dalla Stato di Israele, certificate dall’ONU, dalla Corte Penale Internazionale e dall’Unione Europea». Ma le violazioni si “certificano”? E ammesso che si certifichino, sono state certificate?
Quando mai è stato condannato Israele nelle sedi opportune? Essendo le violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani a carico di Israele ad oggi inesistenti, fino a quando ascolteremo le falsità divulgate dal Sa dell’Università di Padova? In base a tale, infondata, premessa, il Senato accademico si impegna poi a «farsi promotore … del riconoscimento dello Stato Palestinese … [e] a non intraprendere nuovi accordi istituzionali, né a rinnovare gli accordi in essere, con le istituzioni e gli enti israeliani che contribuiscono al perpetrarsi delle gravissime violazioni del diritto internazionale e al mantenimento dell’occupazione illegale del Territorio Palestinese».
Adesso l’istituzione universitaria si sente autorizzata a negare la sottoscrizione di nuovi accordi per evidenti complicità con le violazioni del diritto internazionale e con il mantenimento dell’occupazione illegale. Nella chiusa della mozione, il Sa raggiunge quindi il suo “Nadir anti-israeliano” tratteggiando un Israele imperialista e colonizzatore: ma qualcuno di loro ha letto i documenti del trattato di Sanremo (1920), del Mandato della Lega delle Nazioni (1922) fino a quelli degli Accordi di Oslo (1993)? Accettando la propaganda di Hamas, affiancando chi vuole semplicemente la distruzione di Israele, praticando il doppio standard (che condanna i presunti bombardamenti indiscriminati condotti dallo Stato ebraico, ma cancella quelli subiti per venti anni da Israele), discriminando Israele e ignorandone il diritto all’auto-difesa e all’esistenza, il Sa non rende un buon servizio alla verità, alla libertà e alla storia dell’Università di Padova, spesso memorabile.
Mentre Benjamin Netanyahu atterra a Washington, sembra che gli ingranaggi della macchina dell’intelligence israeliana si stiano rimettendo in moto، silenziosi, nascosti, lontani dai riflettori mediatici. Non è solo un viaggio diplomatico. È l’inizio di un nuovo capitolo in una guerra invisibile, una battaglia d’intelligence che potrebbe sfociare in un altro terremoto geopolitico in Medio Oriente. Il Mossad e le sue reti di collaboratori, già attive nelle profondità del territorio iraniano, si preparano a uno scenario nuovo. Non se ne parla nei talk show internazionali, né se ne sente l’eco nei corridoi dell’ONU, ma i segnali sono visibili. La visita ufficiale del Primo Ministro israeliano, in un momento critico per la ridefinizione degli equilibri di sicurezza in Medio Oriente, grida una verità inequivocabile: il dossier Iran è tutt’altro che chiuso. Al contrario, è entrato in una fase ancora più nascosta, chirurgica e brutale. Dopo i dodici giorni di guerra tra Iran e Israele, la polvere ancora non si è del tutto posata. Ma ciò che avvolge la regione ora non è quiete, bensì la calma prima della tempesta. È in corso un gioco d’ombre, una partita d’intelligence in cui l’obiettivo non è solo distruggere le installazioni nucleari o le basi militari iraniane, ma qualcosa di molto più ambizioso: sgretolare dall’interno la volontà strategica del regime, logorare psicologicamente i suoi quadri di comando, e aprire crepe nel cuore stesso del potere. Il Mossad, con un curriculum di operazioni audaci nel cuore dell’Iran, sta nuovamente posizionando le sue pedine. Le cellule dormienti si risvegliano. Tecnologie di sorveglianza e comunicazione avanzate vengono dispiegate. Agenti addestrati da anni per questo momento cruciale sono pronti a eseguire un piano che potrebbe, per la seconda volta in un mese, ribaltare completamente gli equilibri. Nel frattempo, ciò che accade nella Striscia di Gaza non è affatto scollegato. Fonti autorevoli parlano di una tregua di due mesi tra Netanyahu e Hamas, mediata da Qatar ed Egitto, sotto pressione americana. Perché ora? Perché l’opinione pubblica mondiale è sempre più ostile verso governo di Israele. Le immagini dei bambini morti sotto le macerie hanno generato un’ondata di condanna globale. Ma Netanyahu, un politico temprato da decenni di crisi, potrebbe ancora una volta usare questo clima a suo favore. La tregua a Gaza potrebbe essere parte di una tattica più ampia: abbassare il livello di tensione mediatica, guadagnare legittimità internazionale con una faccia più “razionale”, e concentrare tutte le forze contro ciò che Israele considera la minaccia esistenziale: Il regime islamico dell’Iran. In questo contesto, il viaggio di Netanyahu a Washington ha un messaggio: ottenere il via libera definitivo dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per sferrare un colpo più duro, più deciso – forse, finale. Trump, tornato alla Casa Bianca con l’intenzione dichiarata di contenere nuovamente l’Iran, sa bene che Netanyahu può essere il suo braccio operativo nella nuova fase della politica di “massima pressione”. La cooperazione tra Tel Aviv e Washington si è rafforzata dopo la guerra recente, e ora, mentre il polverone si deposita, è il momento di pianificare il prossimo attacco. Israele sa che il tempo non gioca a suo favore. Ogni giorno di attesa consente al “regime di Ayatollah” di rafforzarsi e complica il contesto diplomatico. Per questo, la nuova strategia non punta a una guerra convenzionale, ma a una guerra invisibile: smantellare le reti informative, neutralizzare i centri decisionali, e soprattutto, distruggere la fiducia strategica del regime. Questa volta, l’obiettivo potrebbe non essere solo Fordow, Isfahan o Parchin. Forse, il Mossad non cerca più l’esplosione, ma il collasso. Distruzione senza fumo. Attacco senza detonazione. Mandare in tilt i meccanismi interni della sicurezza iraniana, è questa l’arte oscura che ha reso Israele uno degli attori più temuti nel mondo dell’intelligence. Il silenzio dei media, la lentezza sospetta degli analisti occidentali e il focus globale su altre crisi sono tutti segnali rivelatori: il prossimo attacco potrebbe essere già finito prima ancora che qualcuno si accorga che è iniziato. In tutto questo, il popolo iraniano deve essere più vigile che mai. Perché la posta in gioco non è solo il destino di un regime, ma il futuro di un’intera regione. Un regime che ha usato il terrore e la penetrazione per esportare la sua rivoluzione, ora rischia di diventare vittima delle stesse armi. La storia ha un senso dell’ironia feroce. Nel teatro della politica internazionale, chi tace non è sempre inattivo.
Oltre Monte Porzio Catone, se una sezione del Pd riflette la sinistra italiana
di Valentina Belgrado e Aldo Winkler
I fatti sono ormai noti.
Presso il Pd di Monte Porzio Catone, il 3 luglio 2025, è stato organizzato un incontro pubblico sulla situazione di Gaza, dal titolo: “Stop al Massacro”, promosso dall’Anpi Frascati – Grottaferrata, di cui era già evidente l’intento dalla locandina. Questa, nella versione inviata a scopo promozionale dalla Sezione del Pd, non riportava la presenza di Marina Argada in qualità di relatrice per il Bds Italia.
Siamo molto affezionati a quel circolo Pd, dove abbiamo partecipato a diversi eventi culturali che, all’epoca del nostro trasferimento da Roma e Firenze a Monte Porzio Catone, ci permisero di inserirsi nell’allora fervido attivismo di un paese che nel tempo abbiamo frequentato sempre meno.
La nostra partecipazione all’evento è stata senz’altro animata da voglia di comprendere fino a che punto ci si potesse spingere a livello di trattazione unilaterale del conflitto. Infatti, era ovvia già dalla locandina la faziosità di un incontro proditoriamente chiamato “dibattito”, mancando tra i relatori una presenza che potesse esprimere il punto di vista israeliano sul conflitto in corso. Erano diversi poi i motivi di pregiudizio, avendo l’Anpi apposto il proprio logo dedicato all’80° Anniversario della Liberazione fuori contesto e competenza in un evento del genere che, piuttosto, doveva essere territorialmente legato alla Resistenza nei Castelli Romani e al fondamentale contributo degli ebrei italiani raccontato da Pino Levi Cavaglione nel suo diario Guerriglia nei Castelli Romani. Le cartine sull’evoluzione territoriale della Palestina dal 1917 all’epoca attuale non sono neppure commentabili, per quanto notoriamente false in tutti i piani storico-politici che intenderebbero rappresentare, con la cui diffusione il circolo del Pd si è assunto la responsabilità di contravvenire all’obbligo di proporre contenuti atti a non diffondere pregiudizio e falsi storici.
Abbiamo potuto apprezzare l’intervento accorato a cura di Emergency, e quello del delegato di Amnesty International, di cui è stato contestabile il solo uso della parola genocidio, unico rappresentante che ha parlato della tragedia del 7 ottobre e delle difficoltà, anche a livello di reperimento di fonti affidabili e statisticamente riscontrabili, di trattare dati riguardanti una forza di natura terroristica quale Hamas.
Per quanto riguarda gli altri interventi, possiamo soltanto ribadire che presso una sede del Pd — forza politica che si definisce democratica che ha ambizioni di governo — si è consumato un evento di propaganda anti-occidentale, violentemente antisionista, antisemita e anti-storica, che può essere soltanto marginalmente rappresentata da ciò che andiamo brevemente a descrivere, non potendo purtroppo raccontare gli sguardi, le espressioni letteralmente (ma anche oralmente) di schifo che abbiamo subito e il livello di recepimento acritico di ciò che è stato narrato.
Una sezione del Pd si è permessa di consegnare al pubblico un delirio autoriferito sul boicottaggio con elenchi di ditte, supermercati e aziende da boicottare, invitando persino a non assumere medicinali, qualora riconducibili a Israele, e a mettere in crisi, fino a farli fallire, persino piccoli negozi locali che vendono prodotti di origine israeliana. La rappresentante Bds, da noi contestata per aver parlato dello Stato ebraico come “territorio che adesso viene chiamato Israele”, ha replicato sostenendo che Israele è lo Stato più razzista del mondo.
Il termine più adatto a descrivere l’intervento del presidente della Comunità palestinese di Roma è comizio.
Si è trattato di un esercizio dialettico intriso di odio antiamericano, antisraeliano e antiebraico, per quanto il rappresentante palestinese stesso abbia riferito di non avercela contro gli ebrei romani e di aspirare a una sola terra in cui laicamente convivano ebrei, palestinesi e cristiani. Dalla continua ostentazione delle mappe di cui sopra, fino al lungo sproloquio sulla natura di Israele quale Stato creato dagli americani per controllare il mondo e rubare le ricchezze agli arabi, è arrivato a sostenere che il sionismo sia peggio del nazismo, nel silenzio del rappresentante dell’Anpi, inducendo interrogativi evidentemente subdoli su come mai Italia e Germania, complici della Shoah, ora favoreggino Israele, il tutto consumato tra l’approvazione del pubblico. Per giunta, alimentando la consueta falsa narrazione che Israele sia nato come una sorta di risarcimento concesso a seguito della persecuzione nazifascista, e che non ci sia modo di controbattere a un popolo che pretende di avere terre in quanto popolo di Dio.
Essendo terminati gli interventi dei relatori, a seguito dell’insistente richiesta di prendere la parola, credevamo fosse arrivato il momento di controbattere. Ma è stato dato prima spazio ad altri ospiti, e la discussione ha preso a quel punto un’altra piega, esplicitamente antisemita. Un ospite del pubblico è intervenuto per sostenere che gli ashkenaziti controllano le ricchezze del mondo e decidono le guerre. Con il pubblico sempre più convinto e consenziente. Purtroppo, la narrazione seguente non può procedere al plurale – con un noi – perché ci è stato impedito. E proseguo la narrazione come Aldo. Ero ormai pronto per il mio intervento, in cui ho rivendicato la mia origine ashkenazita, ironizzando su una posizione economica tale da consentirci comunque di vivere in affitto e, a quel punto, l’ospite di cui sopra mi ha risposto sostenendo che, in quanto ashkenazita, sarei comunque complice di Netanyahu e, pertanto, assassino. Mentre il pubblico continuava ad applaudire e annuire, Valentina, offesa per queste indegne affermazioni, ha risposto con veemenza allo spettatore e a tutti coloro che, intorno a lui, continuavano a dare cenni di approvazione e sostegno a quelle offese antisemite. È stata sostanzialmente costretta ad abbandonare la sala lei, anziché lo spettatore antisemita, e poi interdetta dal rientrare. Voglio ribadire qui che Valentina non ha mai chiesto di tornare a casa, anzi, ha voluto che restassi lì per portare avanti il mio intervento, in cui il rappresentante palestinese mi ha interrotto a ogni parola proferita. Ho sottolineato alla rappresentante Bds quanto il suo comportamento fosse corresponsabile anche della perdita di impiego di tanti palestinesi, per sentirmi rispondere che sono lavoratori schiavizzati. Il tutto, nella connivente gestione, inadeguata e reticente, del segretario locale del Pd, che vogliamo continuare a ritenere persona equilibrata, in grado di rendersi conto di quanto sia accaduto, anziché continuare a portare avanti il leitmotiv del non essere antisemita, accusa che peraltro mai gli è stata rivolta.
Ora, è necessario uscire dal contesto monteporziano, comprendendo piuttosto quanto questi eventi che propagandano disinformazione e odio si diffondano a livello sempre più capillare, contando sulla possibilità di sobillare audience sempre più allineate alla narrazione mainstream. Al di là delle parole francamente antisemite, è ora di obbligare Pd, Anpi Cgil e associazionismo di sinistra a fare una scelta precisa e netta, in cui non ci siano equivoci e smarcamenti dialettici sui piani del contrasto all’antisemitismo e all’antisionismo.
Siamo stati testimoni di un vile mercimonio in cui Gaza è stata sfruttata, come sempre più spesso accade, come parola magica per inculcare visioni antistoriche non del conflitto in corso, bensì della stessa esistenza, natura e legittimità dello Stato d’Israele, deridendo il dramma del 7 ottobre fino al punto di sostenere che i palestinesi fatti del genere, li subiscano continuamente. I circoli del Pd non possono diventare zone franche in cui si può liberamente promuovere il BDS e propagandare odio antioccidentale e antiebraico: questa esperienza arrivi alle dirigenze nazionali dell’associazionismo coinvolto, perché se ne assumano la dovuta responsabilità.
Intendiamo concludere con un messaggio positivo, approfittando di questo spazio per ringraziare con affetto tutti coloro che hanno sostenuto le nostre posizioni, decisamente maggioritari rispetto ai pochi messaggi di sostegno all’evento. L’Ucei ci ha onorati di parlare di quanto accaduto al Consiglio di domenica 6 luglio, in cui abbiamo avuto modo di incontrare l’onorevole Pina Picierno, cui vogliamo rivolgere un caro saluto per il modo con cui ha voluto onorarci con la sua deliziosa attenzione e disponibilità. Ringraziamo il Nes e Sinistra per Israele per i comunicati stampa che hanno diffuso verso l’esterno questi accadimenti, trattati poi da “Il Tempo”, “Il Riformista” e “Libero”. Sinistra per Israele – due popoli due stati – è stata per me, Aldo, una palestra politica importante e qualificata, con cui comprendere e agire dall’interno su quanto sta accadendo nella sinistra italiana.
Agam ha chiesto ai suoi rapitori un libro di preghiere ebraico. L'hanno derisa, ma poi è avvenuto un miracolo.
di Oriel Moran
Gli ostaggi israeliani che sono stati tenuti prigionieri a Gaza dalle forze di Hamas raccontano della speranza che un potere superiore vegliasse su di loro mentre sopportavano fame, percosse, torture fisiche e psicologiche, interrogatori, abusi sessuali e umiliazioni. C'era una cosa che i loro rapitori non potevano togliere loro: la fede. Ascoltando i liberati, emerge una sorta di filo conduttore che accomuna le loro storie.
• Cosa hanno vissuto le donne L'osservatrice dell'IDF Agam Berger è stata in prigionia per 482 giorni, l'osservatrice Liri Elbag per 477 giorni. Entrambe hanno mantenuto salda la loro fede. Agam ha deciso di osservare lo Shabbath, quando possibile. Una volta, mentre guardavano la televisione israeliana, le due donne capirono che giorno era. Da quella data continuarono a contare i giorni fino a Tisha B'av, e poi osservarono le festività ebraiche successive. A Yom Kippur digiunarono, anche se in generale ricevevano pochissimo cibo. Chiesero un pezzetto di mela e un po' di miele per celebrare Rosh Hashana. Quando a Pesach non vollero mangiare chametz (lievito), fu loro concessa anche un po' di farina di mais. Per Sukkot costruirono piccole decorazioni per le capanne. Conoscevano a memoria la Haggadah. Agam chiese ai rapitori un Siddur (libro di preghiere ebraico). La derisero. In precedenza le avevano portato un Corano, ma lei non voleva leggerlo. Come per miracolo, poco dopo aveva un Siddur tra le mani. Un soldato israeliano aveva lasciato il libro in una postazione. I rapitori lo presero e glielo diedero. Il giorno del suo rilascio, durante il volo di ritorno in elicottero, Agam scrisse su una lavagna: “Nella fede, che ho scelto, in questa fede ritorno”. Un'altra osservatrice dell'IDF, Daniella Gilboa, è stata prigioniera per 477 giorni. Lì ha cantato il tradizionale canto dello Shabbat Malachei Hashalom, che però ha tradotto in arabo perché non le era permesso pronunciare una sola sillaba in ebraico.
Emily Damari è stata in prigionia per 471 giorni. Durante lo Yom Kippur ha ascoltato alla radio le preghiere dello Slichot al Muro del Pianto. Ha sentito che si pregava anche per gli ostaggi. Dopo il suo rilascio, si è recata al Muro del Pianto per pregare. Qualche tempo prima del 7 ottobre 2023, Sapir Cohen ha avuto un brutto presentimento. Sentiva il bisogno di leggere ogni giorno, per un mese, il Salmo 27. Questo salmo è legato alla guerra. Quando è stata rapita, questo salmo, che ormai conosceva a memoria, le ha dato forza. È certa di aver sopravvissuto grazie alla sua fede in Dio, che ha dato un nuovo significato alla sua vita. Sapir è stata tenuta in ostaggio per 55 giorni.
• Cosa hanno vissuto gli uomini Elia Cohen è stato prigioniero per 505 giorni. Ha recitato le preghiere del Tefillin che ricordava. Ha anche pregato sull'acqua per il Kiddush dello Shabbat.
Omer Shem Tov è stato tenuto prigioniero da solo per la maggior parte del tempo, 505 giorni. I fratelli Mia e Itai Regev, rilasciati come ostaggi, hanno raccontato che Omer osservava lo Shabbath a Gaza recitando il Kiddush con un tappo di bottiglia ammuffito e dei salatini. Come kippah si metteva un pezzo di carta igienica sulla testa. Lo stesso giorno in cui Omer Shem Tov ed Elia Cohen sono stati liberati, il nonno di Elia Cohen ha celebrato l'Havdalah (un rituale che separa il sabato dal giorno normale) in ospedale. Ha benedetto il vino, acceso le candele e recitato le preghiere. Gli ostaggi che sono tornati hanno cercato di rispettare l'ultimo desiderio dei loro amici. Hanno onorato in modo particolare coloro che sono stati uccisi durante la prigionia. Ori Danino è riuscito inizialmente a fuggire dal luogo del festival Nova, ma poi ha ricevuto una telefonata dai partecipanti al festival Omer Shem Tov, Mia e Itai Regev, a cui aveva dato un passaggio in auto. Gli hanno chiesto di tornare a prenderli. In realtà erano degli estranei per lui. Ma lui è tornato per aiutarli. Ori è stato poi assassinato. La sua ultima volontà era che Eliah Cohen dedicasse un nuovo rotolo della Torah a una sinagoga in suo nome. Omer Shem Tov ha indossato i tefillin in sua memoria.
• Lehitchasek Alcuni ostaggi sono diventati credenti durante la prigionia, anche se prima non erano particolarmente religiosi. Lehitchasek è un termine che esprime il fatto di diventare “più forte” nell'osservanza religiosa dei comandamenti. Keith Segal (484 giorni di prigionia) iniziò a recitare una delle poche benedizioni che conosceva. Si trattava di una preghiera di Kiddush sul pane Challah. Lo recitava sull'unico pezzo di pane pita che gli veniva dato ogni giorno, poiché non conosceva la preghiera vera e propria per il pasto. Una volta, mentre guardava la televisione, era in onda un programma sui buoni ristoranti di Tel Aviv. Prima di mangiare, il conduttore recitò il “Baruch Mine Mezonot” e così Keith imparò la preghiera giusta per il pasto. Recitava anche lo “Shma Yisrael”. Ohad Ben Ami (499 giorni di prigionia) iniziò a celebrare l'Havdala ogni settimana: "Hitchasakti un po' in prigionia. Durante tutta la mia prigionia ho sentito che c'era qualcuno in cielo che mi proteggeva e dovevo essere forte. Dentro di noi siamo una nazione molto forte, e ciò che ci unisce è la nostra fede in Dio. Questo mi ha sostenuto, grazie a Dio oggi sono qui". Dopo il suo rilascio, Ohad ha ricevuto un set per l'Havdala e ha chiesto di essere istruito sul suo utilizzo.
Alexander “Sasha” Trufanov ha iniziato a pregare durante la prigionia per la sua ragazza, l'ex ostaggio Sapir Cohen. Sapir ha detto commossa: “Sasha ha pregato durante tutto questo tempo affinché io non lo aspettassi e trovassi un altro uomo con cui passare la mia vita. Non pensava che sarebbe sopravvissuto”. La madre di Sasha ha raccontato che durante la prigionia suo figlio ha capito che la sua vita era nelle mani di Dio. Dopo il rilascio, Sasha ha indossato per la prima volta i tefillin.
• La tangibilità della grazia di Dio Forse possiamo capire un po' come Daniella cantava a Dio in arabo a Gaza. Dio capisce tutte le lingue sotto il sole. Oppure pensiamo ad Agam Berger. Quanto era felice con il Siddur, completamente impolverato, ma un libro spirituale scritto in ebraico. Ha onorato il santo nome di Dio “Jud He Vav He” in terra straniera rifiutando il Corano. Pensiamo a Omer Shem Tov ed Elia Cohen. Erano rinchiusi in una prigione profonda diversi metri, tagliati fuori dall'aria fresca e dalla luce del giorno. Eppure capivano che non c'era luogo dove Dio non potesse vederli. Avevano lo stomaco vuoto, ma con timore di Dio posero la mano sul capo e Dio diede loro il necessario, letteralmente sotto gli occhi dei loro nemici. Pensiamo alla nostra vita normale e facciamoci coraggio! Lo stesso Dio che era con coloro che erano in prigionia è con tutti coloro che invocano il suo nome.
(Israel Heute, 8 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L’incontro fra Netanyahu e Trump: coordinamento e progetti
di Ugo Volli
• I colloqui
Quella di ieri sera era la terza visita di Netanyahu alla Casa Bianca nei primi sei mesi della seconda presidenza Trump: un record assoluto, che insieme ai numerosi contatti telefonici, ai frequenti incontri del ministro degli Affari strategici Darmer a Washington e quelli dell’inviato americano per il Medio Oriente Witkoff mostrano il livello di coordinamento fra Israele e Usa in questo momento, anche se continuamente i commentatori ostili a Israele (quasi l’intera stampa “autorevole” in Occidente) cercano di spacciare come notizie la loro speranza di dissidi fra i due leader. Questi incontri però significano più di una semplice solidarietà di schieramento, sono i momenti in cui si prendono le decisioni importanti, di solito non rese immediatamente note o anche coperte da un velo di disinformazione per ingannare il nemico. È così che nell’incontro precedente Netanyahu e Trump quasi certamente decisero i modi e i tempi dell’attacco israeliano all’Iran e dell’intervento americano, anche se le dichiarazioni del presidente americano lo escludevano. Probabilmente questa volta si è parlato di cosa fare se l’Iran riprende il suo progetto nucleare, del modo di eliminare la minaccia degli Houthi non solo su Israele ma sul commercio internazionale che passa dal Mar Rosso e dal Canale di Suez diretto in Europa e America settentrionale e soprattutto di come concludere la guerra a Gaza e liberare i rapiti. Nella conferenza stampa informale condotta insieme dai due leader sono intanto emersi alcuni punti fermi.
• Gaza
In primo luogo, si è riaffermato il pieno coordinamento e la fiducia reciproca rispetto ai negoziati su Gaza. L’accordo sulla liberazione dei rapiti non è ancora concluso ma la trattativa continua. Hamas ha sostanzialmente rifiutato l’ultima offerta formulata dal Qatar, fingendo di accettarla ma aggiungendole condizioni inaccettabili; ma i punti di dissenso fra le parti sono abbastanza limitati. I terroristi sono ancora capaci di far male a Israele, come si è visto purtroppo anche ieri, grazie alla tecnica degli agguati alla mescolanza coi civili e alle fortificazioni sotterranee sopravvissute. Ma è chiaro a tutti che hanno perso, quasi tutti i capi sono eliminati e non controllano più l’80%del territorio. Trump e Netanyahu sono d’accordo che bisogna continuare a trattare e insieme a esercitare pressione su Hamas, proseguendo la disabilitazione del suo apparato militare, fino a che sarà accettato un accordo di tregua.
• La fine della guerra
Per quel che riguarda lo stato finale della Striscia, è emerso un consenso sulla posizione presentata da Netanyahu: Hamas non dovrà avere nessun ruolo a Gaza né altrove, dovrà sciogliersi, i suoi capi principali saranno esiliati, gli altri saranno giudicati o forse amnistiati, la Striscia dovrà essere smilitarizzata. Israele continuerà ad avere la responsabilità della sicurezza, il che significa che potrà intervenire a bloccare ogni rischio di ritorno del terrorismo. Sarà istituita una nuova struttura amministrativa, che sarà affidata non all’Autorità Palestinese, ma più probabilmente alle tribù locali, anche se non è escluso che vi partecipino membri dei gruppi politici. La popolazione non sarà espulsa, ma chi vorrà andarsene sarà libero di farlo. In generale, come ha risposto esplicitamente Netanyahu a una domanda, Israele considera necessario che i palestinesi possano autoamministrarsi ma non può accettare che costituiscano una minaccia. Il che implica che dovrà esserci un cambiamento profondo anche nel funzionamento dell’Autorità Palestinese.
• Il quadro internazionale
Per quanto riguarda l’Iran, gli scopi dell’operazione sono stati raggiunti, bloccandone l’armamento nucleare, che non sarà mai consentito. Se occorresse, Israele potrebbe intervenire di nuovo. Gli Usa sperano che la lezione dell’attacco sia stata compresa e che sia possibile far ripartire le trattative. Comunque anche su questo tema continuerà ad esservi uno stretto coordinamento fra Israele e Stati Uniti in ambito politico e militare. Per quanto riguarda Siria e Libano, Israele e Usa concordano che si è aperta una possibilità di cambiamento nelle relazioni. Israele non ha obiezioni alla decisione americana di togliere le sanzioni alla Siria, anche se considera prematura una completa normalizzazione dei rapporti. Quanto all’Arabia Saudita, sia Israele che gli Usa sperano che l’avvicinamento interrotto in seguito alla guerra prosegua e giunga a una conclusione positiva. In generale il tema dell’estensione di “patti di Abramo” è la prospettiva comune per dare tranquillità e progresso alla regione.
• Le prospettive
Non vi sono state, insomma, in questa visita, o almeno non sono state annunciate decisioni nuove, forse perché la trattativa con Hamas non è proseguita come l’amministrazione americana sperava, tanto che alcune fonti accennano alla possibilità di un nuovo incontro fra i due leader addirittura in settimana. Ma resta la solidità e l’impegno di un’alleanza che sta ristrutturando il Medio Oriente. Gli effetti politici sono in genere assai più lenti delle operazioni militari, ma già l’equilibrio complessivo della regione è profondamente cambiato e questo progresso richiede attenzione e coordinamento.
L’ambasciatore d’Israele in Senato: informazione manipolata contro di noi
«La demonizzazione di Israele è di fatto mainstream». È il pensiero dell’ex ministro degli Affari Esteri e ambasciatore d’Italia in Israele, Giulio Terzi di Sant’Agata. Oggi senatore di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Politiche dell’Unione Europea di Palazzo Madama, Terzi di Sant’Agata ha inaugurato un incontro dedicato a tre libri “contro la disinformazione su Israele” nella sala dell’Istituto Santa Maria in Aquiro del Senato. I tre libri sono La cultura dell’odio. Media, università e artisti contro Israele (ed. Lindau) di Nathan Greppi, La guerra antisemita contro l’Occidente (ed. Giubilei Regnani) di Fiamma Nirenstein e Nicoletta Tiliacos e Ritorno a Sion (ed. Studium) di Claudia De Benedetti, David Elber, Niram Ferretti e Ugo Volli, tutti di recente uscita, e per il senatore vanno letti come argine conoscitivo rispetto «all’ondata di antisemitismo che si sta abbattendo sull’Italia e l’Europa». Per Jonathan Peled, l’ambasciatore d’Israele a Roma, si tratta di «tre letture preziose per favorire la cultura della responsabilità e del rispetto dei fatti in un’epoca in cui la manipolazione dell’informazione è un’arma di propaganda». In questo senso, ha aggiunto, «conoscere e denunciare diventa uno scudo fondamentale». L’ambasciatore ha poi definito gli autori dei saggi dei «soldati della verità», contrapposti «ai cattivi maestri che diffondono pregiudizio e odio». Pure Andrea Cangini, il segretario generale della Fondazione Luigi Einaudi, ha lanciato l’allarme: c’è un grave pregiudizio su Israele «diffuso nei grandi media e nel mondo della cultura» e varie università stanno seguendo a suo dire quest’onda «per conformismo e per paura di minoranze agguerrite e scalmanate». Moderati da Matteo Angioli, segretario del Global Committee for the Rule of Law (Gcrl) “Marco Pannella”, sono intervenuti infine tre autori. «Il confine tra antisemitismo e antisionismo è molto più sottile di quanto in molti vogliano far credere», ha sostenuto Greppi.
Elber ha illustrato le ragioni che hanno portato alla stesura del saggio storico a più mani al quale ha contribuito: «Il popolo ebraico non si può scindere dalla sua terra, si fonda in terra d’Israele e in special modo a Gerusalemme». Nirenstein ha denunciato «un’esplosione di antisemitismo mostruosa», ma anche ravvisato vari motivi di speranza per il Medio Oriente. Secondo la giornalista, «Israele sta portando avanti una politica meravigliosa con il mondo arabo» e questo rapporto «fiorirà sempre di più».
Contro il boicottaggio d’Israele e l’antisemitismo negli atenei italiani
L’appello dei docenti silenziosi
di Alessandro Tedesco
Se il tradimento dei singoli intellettuali ci lascia più soli, le università italiane fanno di peggio: elevano quel fallimento individuale a vero e proprio dogma istituzionale. La storia di Yaël, studentessa israeliana e riservista dell’IDF all’Università Statale di Milano, è più di un caso di cronaca: è il sintomo di una malattia che ha infettato l’accademia italiana. È la storia di una ragazza il cui percorso di studi viene messo in discussione non per demeriti, ma per la colpa di esistere come cittadina di uno stato messo alla gogna. Questa non è una crepa isolata nel sistema, è la prova che la struttura sta cedendo. Il caso di Yaël è solo l’epilogo più noto di una caccia alle streghe che serpeggia in tutta Italia: dal professore dell’Università di Firenze, sottoposto a procedimento disciplinare dopo la denuncia di una studentessa attivista pro-Palestina, al docente aggredito fisicamente a Napoli da collettivi studenteschi per il suo impegno a favore di Israele. È proprio per reagire a questa deriva intollerabile che una rete silenziosa di docenti ha lanciato l’appello “Contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani”. Un manifesto di resistenza intellettuale che, nel denunciare un “clima di intimidazione”, cita a sua volta i casi delle università di Torino, dello IUAV di Venezia e della stessa Statale di Milano, dove studenti e docenti si trovano esposti a “esclusioni” e “delegittimazioni” continue. Di fronte a questo, come ha scritto il professor Francesco Faldini su Pensalibero.it, emerge un dovere ineludibile, perché “un Ateneo dovrebbe contribuire a non radicalizzare narrazioni distorte che favoriscano la ricomparsa di pregiudizi del passato”, altrimenti cessa di essere una palestra di pensiero per diventare un luogo di indottrinamento. Nel loro testo, questi accademici, “docenti silenziosi”, rigettano con forza “ogni forma di boicottaggio” definendolo un “impoverimento dello scambio culturale” e una “negazione della missione stessa dell’università”. Si uniscono attorno a principi solidissimi: che l’università è un luogo di dialogo, non di esclusione; che il boicottaggio è un atto di violenza intellettuale; che l’antisemitismo va combattuto senza ambiguità; e che il dialogo con le istituzioni accademiche israeliane va preservato e rafforzato. Mentre il conformismo ideologico fa rumore nelle piazze e in televisione, questa rete si muove sottotraccia, attraversando l’Italia dalla Sicilia alla Lombardia. È composta da professori universitari che non si sono arresi alla barbarie e che, con tenacia, si scambiano informazioni e offrono sostegno a chi subisce ostracismo. La loro posizione, che in Italia oggi appare come un atto di resistenza, all’estero è la norma. Lo statement del presidente dei rettori tedeschi, ad esempio, va nella direzione opposta a quella dei nostri boicottatori, chiedendo che l’UE sostenga e rafforzi la ricerca in Israele. Questo scarto misura l’abisso in cui sta precipitando parte della nostra accademia, diventata terreno fertile per la propaganda di regimi autocratici e organizzazioni terroristiche. Questa rete silenziosa è una minoranza, non ha i megafoni dei cattivi maestri che oggi riempiono le aule. Ma la sua esistenza è un flebile ma tenace segnale di speranza. È la testimonianza che non tutta l’accademia italiana si è arresa e che da qualche parte c’è ancora chi crede che il compito di un docente non sia imporre una verità, ma fornire gli strumenti per cercarla. Anche quando è difficile, anche quando va controcorrente.
Israele, svolta sulla leva militare: l’IDF lancia un reclutamento di massa degli Haredim mentre cresce lo scontro politico
Gli ordini di leva saranno inviati in più fasi durante il mese di luglio 2025, con appuntamenti di arruolamento distribuiti lungo l’anno di leva 2025–2026. I partiti ultraortodossi Shas e UTJ hanno minacciato di boicottare tutte le votazioni plenarie alla Knesset fino alla consegna del testo finale. Ma per il 2025, l’IDF punta a integrare almeno 4.800 haredim.
di Anna Balestrieri
Israele si trova al centro di una trasformazione epocale in materia di leva militare, con una serie di decisioni senza precedenti che puntano all’arruolamento su larga scala degli ebrei ultraortodossi (Haredim). La controversa riforma, promossa dal governo e sostenuta dalle forze armate, ha scatenato tensioni all’interno della coalizione, critiche da parte dell’opposizione e accese reazioni della società civile.
• Netanyahu cerca di evitare la crisi, Lapid attacca Nel tentativo di prevenire una crisi politica imminente, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha chiesto al presidente della Commissione Difesa della Knesset, Yuli Edelstein, di condividere in anticipo una bozza della legge sulla leva con Ariel Atias, rappresentante politico degli Haredim. La mossa mira a contenere le proteste della componente ultraortodossa della coalizione prima del volo di Atias verso Washington.
Yair Lapid, leader dell’opposizione, ha definito il disegno di legge “una misura pensata per legalizzare l’evasione dalla leva”. Anche le associazioni dei riservisti hanno reagito duramente, accusando il governo di aver tradito le promesse e di “fare politica sulla pelle dei soldati”.
• La minaccia degli Haredim: senza progressi immediati, il governo cade La versione preliminare della legge sulla leva è stata presentata da Yuli Edelstein ad Ariel Atias (Shas) prima della partenza di Netanyahu per Washington, provocando un ritardo nel viaggio del premier. Il testo, più morbido rispetto alle versioni precedenti, è stato condiviso prima ancora con gli Haredim che con i riservisti, scatenando l’indignazione dell’opposizione. Dalla parte opposta, i rappresentanti del mondo ultraortodosso hanno lanciato un chiaro avvertimento: se la nuova legislazione non avanzerà rapidamente, il sostegno al governo potrebbe venir meno. La posta in gioco è la tenuta stessa dell’esecutivo Netanyahu, fondato su una fragile alleanza tra laici e religiosi. Una recente minaccia di caduta del governo era stata sventata solo il mese scorso, grazie a sforzi concertati del premier e della coalizione di governo. Dopo l’accordo preliminare sulla legge, un attacco israeliano contro il programma nucleare iraniano ha scatenato una guerra di 12 giorni, che ha sospeso ogni discussione alla Knesset. Edelstein e Deri erano stati informati in anticipo dei raid, facilitando il loro consenso momentaneo. Gli ordini di leva saranno inviati in più fasi durante il mese di luglio 2025, con appuntamenti di arruolamento distribuiti lungo l’anno di leva 2025–2026. I partiti ultraortodossi Shas e UTJ hanno minacciato di boicottare tutte le votazioni plenarie alla Knesset fino alla consegna del testo finale. La loro opposizione alla bozza resta, ma non intendono far cadere il governo, almeno per ora.
Contenuti specifici della bozza annacquata
Validità limitata: sei anni, o quattro se non vengono raggiunti gli obiettivi di reclutamento.
Sanzioni immediate: divieto di viaggi all’estero, revoca della patente, esclusione da sussidi per università.
Altre sanzioni, come l’esclusione da asili e trasporti pubblici sovvenzionati, posticipate.
Niente più sussidi per famiglie con disertori, ma le misure sono state notevolmente diluite rispetto alla bozza originaria.
• L’IDF avvia la più vasta campagna di reclutamento degli Haredim della storia israeliana Nel frattempo, l’esercito ha annunciato l’avvio di un piano senza precedenti: entro fine luglio 2025 verranno inviati 54.000 ordini di leva ai cittadini haredim considerati idonei al servizio militare, di età compresa tra i 16 anni e mezzo e i 26. L’obiettivo è portarli in servizio attivo entro luglio 2026. Il processo per dichiarare un giovane come disertore sarà ridotto a circa due mesi, contro i diversi mesi richiesti in passato. Questo permetterà arresti molto più rapidi. Si tratta del più vasto tentativo mai compiuto di integrare gli ultraortodossi nell’IDF. Questo avviene in un contesto di forte pressione pubblica e giudiziaria: il numero crescente di caduti e feriti tra le forze regolari, unito al prolungamento dei turni di riserva, ha spinto la Corte Suprema e l’opinione pubblica a chiedere una maggiore equità nella distribuzione del peso della difesa nazionale. Finora, nonostante i richiami, la risposta della comunità haredi è stata minima. La leadership ultraortodossa continua a sostenere che “è proibito arruolare studenti di yeshivà la cui professione è lo studio della Torà”, ritenendo che tale studio costituisca una forma di protezione spirituale per lo Stato.
• Sanzioni individuali e arresti: stretta dell’IDF sui disertori L’IDF ha inoltre richiesto al governo l’introduzione di sanzioni dirette contro i singoli haredim che ignorano le convocazioni. Nel frattempo, però, non ha atteso l’approvazione della nuova legge — ferma in Parlamento e bloccata dalla pausa estiva della Knesset — per dare il via alla campagna. La Polizia Militare e la Polizia di Frontiera saranno autorizzate a istituire checkpoint sia in Cisgiordania che all’interno di Israele, per facilitare l’arresto dei disertori. Già da settembre, l’IDF sarà operativo per arrestare disertori. Chi ignorerà tre convocazioni sarà considerato disertore; chi si sottrarrà per oltre 540 giorni potrà essere incarcerato. In alternativa, per coloro che rientrano in periodi più brevi di diserzione, è prevista la detenzione in unità speciali dell’esercito. Attualmente, sono disponibili tra i 250 e i 300 posti nelle prigioni militari, ma l’IDF sta valutando l’apertura di una nuova struttura detentiva per aumentare la capacità. L’arresto dei disertori avverrà in modo strategico: anziché irrompere nei quartieri haredi o nei villaggi beduini, l’esercito sfrutterà aeroporti, posti di blocco e controlli lungo le principali arterie del Paese, tra cui i valichi in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e la strada per Eilat. Solo all’ingresso delle città ultraortodosse verranno eretti checkpoint, per evitare tensioni nel cuore dei quartieri religiosi. Negli ultimi mesi, circa 140 disertori sono già stati arrestati all’aeroporto Ben Gurion. Si prevede che entro pochi mesi il numero di individui arrestabili possa salire a 35.000, con una netta prevalenza di Haredim. A settembre partirà l’operazione “Nuovo Inizio”, che offrirà una possibilità di regolarizzazione a chi ha disertato in passato: questi potranno arruolarsi senza conseguenze penali, prestando un anno di servizio “in prova”. Se completato con successo, il loro status di disertori sarà annullato.
• Obiettivo 2025: 4.800 Haredim integrati, ma serve il sostegno dei rabbini Per il 2025, l’IDF punta a integrare almeno 4.800 haredim, un numero significativamente superiore rispetto agli anni precedenti. Tuttavia, senza il sostegno aperto di rabbini e politici ultraortodossi, pochi si aspettano che la risposta alle convocazioni possa migliorare sensibilmente. Nonostante le tensioni, alcune unità haredi sono già operative e attivamente coinvolte nei combattimenti. Due compagnie ultraortodosse sono schierate nella Striscia di Gaza e una di esse ha partecipato all’eliminazione di circa 41 terroristi, in operazioni coordinate con l’aviazione. Il Capo di Stato Maggiore, generale Eyal Zamir, ha visitato la Brigata Hashmonaim, composta da soldati haredim, e si è rivolto a loro con parole di stima: “Voi dimostrate che fede e servizio militare possono coesistere. Siete pionieri, un orgoglio per le vostre famiglie e per l’intera società. So che affrontate difficoltà personali, ma la perseveranza premia sempre.” Zamir ha concluso ringraziando i soldati per il loro contributo, sottolineando il valore esemplare del loro impegno. Yair Lapid ha espresso pieno sostegno alle nuove misure dell’IDF, ribadendo che “l’esercito israeliano è l’esercito di tutto il popolo, non di mezzo popolo.” Lo scontro sulla leva militare in Israele rappresenta molto più di un dibattito tecnico: tocca i nervi scoperti dell’identità collettiva, dei diritti e dei doveri nella società israeliana. Tra l’urgenza operativa dell’IDF, le rivendicazioni religiose, le pressioni dell’opinione pubblica e l’instabilità politica, il Paese si prepara a una trasformazione profonda del proprio contratto sociale.
È atterrato giovedì il primo volo di gruppo che inaugura un’estate intensa per Israele: 45 nuovi immigrati provenienti da otto stati americani e province canadesi sono arrivati nel Paese, avviando un’ondata che, secondo le stime, porterà circa duemila “olim” nordamericani entro la fine dell’estate.
A organizzare i voli è l’ONG Nefesh B’Nefesh, in collaborazione con il Ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione, l’Agenzia Ebraica per Israele e altre istituzioni. Nonostante le tensioni regionali e la recente guerra lampo di 12 giorni con l’Iran, il flusso migratorio dall’America del Nord verso Israele prosegue senza sosta. “Anche nei momenti difficili, il popolo ebraico sceglie di venire in Israele” ha dichiarato il ministro dell’Aliyah, Ofir Sofer. “L’aliyah continua è il simbolo della vittoria dello Stato di Israele. Questi nuovi immigrati sono degli eroi”.
I passeggeri del primo volo collettivo provenivano da luoghi diversi come New York, New Jersey, Maryland, Wyoming, Ohio e Ontario. A bordo, uomini e donne di ogni fascia d’età, dai neonati agli anziani ultra-settantenni, con diverse professionalità tra cui ingegneri, avvocati, insegnanti e persino uno chef. Molti di loro si stabiliranno in città principali come Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa, ma altri hanno scelto comunità più piccole, come Safed e aree periferiche designate come prioritarie per l’integrazione.
Nel frattempo, altri 60 immigrati già presenti in Israele hanno completato questa settimana il loro processo ufficiale di aliyah, portando il totale a oltre 100 nuovi cittadini israeliani. Logicamente, l’impatto emotivo di questa stagione è particolarmente sentito. Dal brutale attacco terroristico del 7 ottobre 2023 compiuto da Hamas, l’interesse per l’aliyah è esploso, con oltre 13.500 richieste presentate a Nefesh B’Nefesh.
“Ogni estate è un periodo di rinnovamento e speranza, ma quest’anno ha un valore ancora più profondo” ha affermato il direttore esecutivo dell’ONG, Rabbi Yehoshua Fass. “In uno dei momenti così determinanti della nostra epoca, queste persone stanno scegliendo di tornare a casa. Oltre ad essere un traguardo personale, è anche e soprattutto una potente dichiarazione nazionale, un atto di destino ebraico”.
I nuovi arrivati potranno contare su una vasta rete di servizi e agevolazioni, come contributi per l’affitto in zone di priorità nazionale, corsi di lingua ebraica (ulpan), iniziative per l’integrazione sociale e lavorativa e benefici fiscali.
L’arrivo del primo volo collettivo segna l’inizio di un’estate significativa per Israele, in un contesto segnato ancora dalle conseguenze del 7 ottobre. Nonostante le tensioni e i rischi, la spinta verso l’aliyah non si ferma. Per i nuovi arrivati, è l’inizio di una nuova vita; per lo Stato, un segnale di continuità e determinazione.
Perché la guerra nella Striscia di Gaza dura così a lungo?
Come è possibile che l'operazione israeliana contro l'Iran abbia avuto successo in soli dodici giorni, che la guerra contro Hezbollah sia finita dopo dieci settimane, ma nella Striscia di Gaza non si intraveda alcuna fine?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Nessuna vittoria chiara, nessuna decisione tangibile. Forse questa settimana ci sarà una svolta, quando Benjamin Netanyahu e Donald Trump annunceranno uno scambio di ostaggi e un cessate il fuoco che potrebbero portare alla fine della guerra. Ma il paragone è ingannevole, perché l'operazione contro l'Iran è stata un colpo preciso e nascosto, con obiettivi ben definiti, un territorio limitato e senza ostaggi, ed è quindi stata conclusa rapidamente. Nella Striscia di Gaza, invece, Israele sta combattendo contro un'organizzazione terroristica radicata in zone residenziali, rispettando gli standard umanitari, sotto forte pressione internazionale e lottando allo stesso tempo per la vita degli ostaggi. Hamas usa la propria popolazione come scudo, mentre Israele deve soppesare ogni decisione in base a criteri morali, militari e diplomatici. Questa guerra non è una battaglia classica, ma uno scenario ibrido e permanente: una crisi con ostaggi, una guerra asimmetrica, diplomazia globale e un test quotidiano di stress morale. A differenza delle operazioni rapide come quelle contro l'Iran o Hezbollah nel 2006, Israele deve agire con cautela, perché è l'unica democrazia della regione, perché ha la responsabilità dei propri cittadini e perché ogni sua parola e ogni sua azione sono sotto gli occhi di tutto il mondo. Gli ostaggi israeliani nella Striscia di Gaza sono un vero ostacolo al rapido avanzamento dell'offensiva terrestre. Israele mostra una sensibilità straordinaria per il destino dei suoi fratelli in prigionia, siano essi civili o soldati. Per ragioni tattiche, gran parte della Striscia di Gaza è militarmente inaccessibile perché potrebbero esserci degli ostaggi. Israele rinuncia quindi a bombardamenti su vasta scala o a massicce incursioni terrestri per non mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Leva strategica per Hamas: l'organizzazione terroristica usa gli ostaggi come “ancora di salvezza”, liberandone alcuni per imporre tregue, riorganizzarsi, rifornirsi di armi e stabilizzare il proprio controllo. In nessun altro paese al mondo gli ostaggi hanno un peso strategico così grande come in Israele. Ciò ha diverse ragioni, prima fra tutte il DNA sociale. In Israele ogni soldato caduto o rapito è considerato una questione che riguarda tutto il popolo, non solo una statistica militare. Le famiglie degli ostaggi mobilitano i media, i politici, la società civile. In questo modo viene esercitata una pressione politica sul governo, anche se dal punto di vista militare ciò appare poco saggio. La pressione internazionale ha ritardato la guerra nella Striscia di Gaza più di quanto si rimproveri al capo del governo israeliano Netanyahu all'interno del Paese. Israele opera nella Striscia di Gaza sotto la costante osservazione di un'opinione pubblica mondiale critica.
• Pressione da Washington Il governo Biden ha esercitato fin dall'inizio pressioni su Israele affinché consentisse i consensi umanitari quotidiani, anche nelle zone di guerra attive. Ciò ha ignorato in larga misura il fatto che gran parte di questi aiuti finisce nelle mani di Hamas. Hamas è riuscita a rubare le forniture, rivenderle sul mercato nero a prezzi esorbitanti e persino a tassarle. In questo modo, centinaia di milioni di dollari sono finiti nelle casse di Hamas. Con questi soldi ha reclutato nuovi combattenti, pagato i suoi funzionari e consolidato il suo controllo sulla popolazione civile. Ricordiamo che durante la guerra una sigaretta costava 50 euro!
Biden ha promesso al primo ministro Netanyahu di interrompere immediatamente le forniture di aiuti se Hamas le avesse confiscate o bloccate. Ma questa promessa non è stata mantenuta. Invece di un vero aiuto umanitario, denaro e risorse sono finiti direttamente nelle mani di Hamas. Israele ha annientato gran parte dei suoi combattenti, solo per trovarsi poco dopo di fronte a nuovi terroristi appena pagati, finanziati proprio con quelle forniture che Israele è stato costretto a concedere sotto la pressione internazionale. La volontà ben intenzionata di aiutare la popolazione ha finito per prolungare le sofferenze e garantire la sopravvivenza di Hamas.
• I media distorcono la realtà I media internazionali si concentrano sulle vittime civili, piuttosto che sulle necessità militari. Ciò indebolisce il sostegno diplomatico di Israele. Inoltre, nonostante la sua superiorità militare, Israele dipende fortemente dalla mediazione americana, egiziana e qatariota e deve quindi rispettare il loro margine di manovra nei negoziati. Ciò ha fatto perdere molto tempo.
• La tattica militare di Israele nel sud Il sistema terroristico di Hamas si basava su tre elementi: terroristi, territorio e un vasto sistema di tunnel. L'esercito israeliano sta conducendo una guerra asimmetrica contro una crudele organizzazione terroristica che non conosce regole umane. Hamas opera da uno Stato terroristico sotterraneo. Ciò rende estremamente difficile distruggere in modo duraturo le sue infrastrutture, a differenza, ad esempio, delle postazioni missilistiche in terreno aperto in Iran. I suoi terroristi si mescolano alla popolazione civile, utilizzando scuole, ospedali e moschee come scudi umani. Anche dopo gravi perdite, Hamas riesce a reclutare nuovi combattenti tra la popolazione civile o attraverso incentivi finanziari come gli aiuti umanitari. La Striscia di Gaza è urbanizzata. Una “marcia selvaggia” come nel deserto o in terreno aperto non è possibile. È invece necessario mettere in sicurezza casa per casa, scoprire e neutralizzare tunnel per tunnel, e questo richiede tempo. In confronto, durante l'attacco all'Iran è stato possibile colpire obiettivi militari o nucleari in modo mirato, senza prestare particolare attenzione alla popolazione civile o a lunghe operazioni di terra.
Nel primo anno di guerra, anche a causa del fronte contro Hezbollah nel nord, l'esercito israeliano non ha potuto operare con tutta la sua forza nella Striscia di Gaza. Si è invece limitato a operazioni puntuali per l'eliminazione mirata di terroristi. Tuttavia, dopo ogni ritiro delle truppe israeliane, Hamas ha rapidamente ricostituito le sue file. Nel frattempo, però, la situazione è cambiata. Dopo la fine della guerra nel nord di Israele, l'esercito sta procedendo in modo sistematico nella Striscia di Gaza, occupando territori in modo permanente, distruggendo tunnel e assicurando il controllo. Hamas ha così perso gran parte del suo spazio di ritirata, limitando il suo dominio a circa un quarto della Striscia.
Anche ragioni politiche e strutturali hanno contribuito a ritardare i tempi. La divisione politica in Israele – tra la pressione della coalizione da parte di ministri di destra come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich e le aspettative degli Stati Uniti – porta Netanyahu a temporeggiare. Inoltre, in Israele si sostiene che il governo e Netanyahu stiano deliberatamente ritardando la guerra nella Striscia di Gaza per motivi di sopravvivenza politica. Le critiche popolari sono controverse e dipendono dalla posizione politica di ciascuno in Israele. Tuttavia, a causa di disaccordi, il governo ha ritardato la definizione di obiettivi chiari: “smantellamento di Hamas” contro “liberazione degli ostaggi” o “stabilità regionale”.
• Minaccia su più fronti A differenza dei conflitti precedenti (Iran, Hezbollah), Israele deve fare i conti in qualsiasi momento con escalation nel nord (Libano, Siria), in Cisgiordania e persino nello Yemen. Ciò vincola le risorse. I limiti mediatici e giuridici hanno fortemente limitato la libertà d'azione di Israele attraverso una costante attenzione e iniziative giuridiche internazionali (CPI, ONU, ecc.). Chi vuole davvero la fine di Hamas deve sostenere la strategia di Israele, in particolare la richiesta di distribuire gli aiuti umanitari esclusivamente attraverso canali indipendenti. A Israele bastano pochi mesi per portare a termine l'operazione, a condizione che il mondo glielo permetta. La fine di Hamas non sarebbe una vittoria locale, ma globale.
La guerra nella Striscia di Gaza non è un semplice scontro, ma un conflitto complesso tra democrazia e terrorismo, moralità e cinismo, calcolo strategico e dolore umano. Chi vuole porvi fine non deve puntare solo su cessate il fuoco, ma deve chiedersi cosa rimarrà dopo e chi. Una pace vera inizierà solo con la fine di Hamas, non con la sua riabilitazione. Allo stesso tempo, però, Israele ha il dovere morale di liberare i suoi fratelli e sorelle rapiti dalla prigionia.
(Israel Heute, 7 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Cinque sceicchi di Hebron propongono di uscire dall’Autorità Palestinese per aderire agli Accordi di Abramo
di Anna Balestrieri
Cinque capi tribali della città palestinese di Hebron, situata in Cisgiordania (nota in arabo come Al-Khalil), hanno inoltrato una proposta audace: staccarsi dall’Autorità Palestinese e costituire un piccolo emirato indipendente, al fine di stringere un’intesa di pace con Israele e partecipare agli Accordi di Abramo.
• Una lettera a Israele con richieste precise I promotori hanno formalmente inviato una missiva al ministro israeliano dell’Economia, Nir Barkat, chiedendo di trasmetterla all’attenzione del primo ministro Benjamin Netanyahu. L’iniziativa segna un netto cambiamento rispetto alla politica tradizionale palestinese . Tra i firmatari figura lo sceicco Wadi al-Jaabari, esponente di un’importante famiglia di Hebron, che ha ribadito il desiderio di “cooperazione e convivenza con Israele”. Questa presa di posizione coraggiosa ha segnato una svolta, con al-Jaabari e altri leader tribali che riconoscono ufficialmente Israele come stato ebraico, impegnandosi per la pace.
• Un piano con forte impatto economico La proposta prevede l’assunzione iniziale di 1.000 lavoratori da Hebron su base sperimentale, con l’intenzione di farne arrivare fino a 5.000 in una fase successiva. Secondo i promotori, Barkat avrebbe ipotizzato di arrivare a 50.000 occupati nel tempo. Uno sceicco citato dal Wall Street Journal ha commentato: “Se avremo il supporto dell’amministrazione Trump, Hebron potrebbe diventare come Dubai”, delineando una visione ambiziosa di sviluppo economico e integrazione regionale.
• Critiche agli Accordi di Oslo e all’Autorità Palestinese Nel documento si chiede l’adesione agli Accordi di Abramo con un calendario preciso, giudicando gli Accordi di Oslo falliti e responsabili di “morte, rovina economica e distruzione”. Al‑Jaabari ha criticato duramente l’Autorità Palestinese, affermando che “non è capace di proteggerci” e negando qualsiasi possibilità di uno Stato palestinese nel prossimo millennio: “Dopo il 7 ottobre, Israele non lo permetterà; continuare a puntare su quello Stato ci condurrà al disastro”.
• Un’iniziativa con l’avallo israeliano Secondo i promotori, il ministro Barkat avrebbe esaminato la proposta insieme al governo israeliano, sotto l’egida di un atteggiamento cauto da parte di Netanyahu. Le discussioni tra le parti risalirebbero a febbraio, con diversi incontri ospitati nella residenza del ministro. Barkat ha dichiarato al Wall Street Journal che “il vecchio modello dei due Stati ha fallito” e ha criticato la leadership dell’Autorità Palestinese per la perdita di fiducia sia tra i palestinesi sia in Israele.
• Reazioni contrastanti e potenziali implicazioni Alla domanda se questa posizione potesse essere vista come un tradimento, al-Jaabari ha risposto: “Il tradimento è stato Oslo. Io seguo la mia strada”. Le sue parole mettono in luce profonde spaccature nella società palestinese, tra chi punta su approcci tradizionali e chi vuole sperimentare soluzioni locali più pragmatiche. Questa iniziativa emerge mentre l’amministrazione Trump considera l’ampliamento degli Accordi di Abramo anche a paesi come Siria, Libano e Arabia Saudita. Se portata avanti, l’idea di Hebron potrebbe rappresentare un precedente significativo, dimostrando come la diplomazia locale possa superare impasse geopolitiche. Tuttavia, non mancano interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine e sui rischi di frammentazione territoriale. Per ora si tratta di una proposta inedita e non ancora ufficialmente adottata.
«Ebreo? Meglio se qui non parla» Cosa sta diventando il Pd?
di Aldo Torchiaro
Ogni volta che temiamo di aver capito cosa sia diventato il Pd, nelle sue espressioni periferiche più ancora che in quelle centrali, i fatti si incaricano di avvisarci: bisogna scavare ancora più in basso. Oltre il fondo del barile, dove tutto è ormai concesso. Anche di gridare, finalmente sentendosi liberi di farlo, il profondo, viscerale antisemitismo che evidentemente alberga nella pancia di quel partito.
Quel che è accaduto giovedì sera nel piccolo comune di Monte Porzio Catone, nelle immediate vicinanze di Roma, è solo la punta di un iceberg avvelenato. Sotto la regia dell’ANPI e con la partecipazione di rappresentanti del movimento Bds, che propugna il boicottaggio di prodotti israeliani, si è svolto nel circolo Pd di Monte Porzio Catone un incontro pubblico sulla situazione a Gaza. Peccato che il cosiddetto dibattito si sia rivelato una piattaforma unilaterale di propaganda antioccidentale, antisionista e, non troppo velatamente, antisemita. In un clima tossico sin dall’inizio, ecco che Yousef Salman, che pretende di essere il Presidente della comunità palestinese di Roma, ammalia la platea, gridando al genocidio di Gaza e arrivando presto all’apice della vergogna: mappe false, slogan urlati, teorie complottiste e affermazioni aberranti come “il sionismo è peggio del nazismo”. Il tutto condito dalla risata sprezzante sul 7 ottobre, come se quell’orrendo massacro di famiglie e bambini fosse materia da ridicolizzare. I trenta militanti seduti annuiscono, applaudono. Il segretario del circolo, vicino a Elly Schlein, si compiace di avere riempito la sala e si guarda bene dall’intervenire. Parla invece Martina Argada, del gruppo dei boicottatori Bds. Vengono distribuiti materiali con elenchi di aziende, supermercati, persino farmaci da boicottare perché “collegati a Israele”. Lo Stato ebraico è stato definito “quello che oggi si chiama Israele”, come a dire che prima o poi una soluzione finale al problema si troverà.
In quel contesto, si fa coraggio Aldo Winkler, cittadino di quel comune e membro del direttivo di Sinistra per Israele. Alza la mano e chiede di poter dire la sua. Si qualifica come ebreo. Prova a iscriversi parlare, ma cercano di impedirlo. Lo mettono ultimo, in lista. Pazienta. E quando riesce a prendere la parola, viene zittito, interrotto e attaccato da quattro persone alla volta. La moglie accenna a un malore.
«Andiamo a casa». Lui vuole rimanere, lei esce. Riprova a parlare: «Vengo da una famiglia askenazita, abbiamo vissuto in casa la tragedia dell’Olocausto », prova a accennare, ma si sente dire che “gli ashkenaziti controllano le ricchezze del mondo” e che, con Netanyahu, sarebbe responsabile delle guerre globali. Tra frizzi e lazzi, applausi e cenni di approvazione, Winkler, l’ebreo irriducibile, non si fa mettere nell’angolo. Parla della Resistenza, del partigiano ebreo Pino Levi Cavaglione, che era di Monte Porzio. Parla della Shoah, di cui una volta si conservava la memoria, a sinistra. E di come senta diventato improvvisamente ostile il clima tra quelle mura.
Una volta era un militante anche lui. Adesso non più. È ebreo. E gli altri lo sanno, glielo rinfacciano. Alzano la voce. Si alzano tutti, finisce l’incontro.
Il linciaggio, stavolta, è solo sfiorato. «In quel circolo del Pd ho rivissuto una nuova Difesa della Razza», ci dice al telefono, amareggiato ma combattivo. «Poi però, alla fine, una persona gentile si è avvicinata e, fuori dalla sezione, mi ha espresso solidarietà». Quell’iscritto da solo non basta a salvare l’onore di una comunità che, democratica nel nome, finisce spesso per rappresentare nei fatti l’esatto opposto. Le responsabilità di chi ha organizzato, ospitato, applaudito sono enormi. Ma la colpa più grave è di chi tace.
Israele – Parla lo psichiatra: «Riconoscere il trauma collettivo»
Demian Halpérin è medico, psichiatra, a Tel Aviv. Con il progetto SafeHeart – Lev Batuach, offre supporto psicologico a giovani e famiglie colpite dagli effetti della guerra. Nell’intervista rilasciata ad Antoine Strobel-Dahan per Tenoua il 26 giugno delinea una diagnosi netta: Israele è una società traumatizzata alla sua base. Il trauma non riguarda solo il presente ma affonda in strati più profondi della memoria collettiva e individuale e si alimenta in un tempo che non ha avuto tregua. Le settimane più recenti, seguite all’intensificarsi del confronto con Hezbollah e alla guerra aperta con l’Iran, hanno amplificato un malessere già largamente diffuso nella popolazione israeliana.
La ferita del 7 ottobre non si è mai chiusa. Allora, dice Halpérin, a essere colpiti furono non solo i corpi, ma le fondamenta psicologiche della società: la fiducia nel fatto che lo Stato sapesse proteggere i suoi cittadini, la certezza di vivere in un luogo dove la vita civile potesse scorrere in sicurezza, la convinzione – implicita e profonda – di non dover più subire ciò che era accaduto in passato. Oggi, a molti mesi dall’attacco di Hamas, l’intera popolazione continua a vivere sotto pressione.
Lo stress non colpisce solo i soldati in prima linea. Le famiglie dei riservisti, lasciate ad affrontare l’assenza di padri, madri e figli riportano segnali evidenti di logoramento. Le coppie spesso si trovano a dover fronteggiare una gestione quotidiana sbilanciata, in cui una sola persona porta il peso della cura dei bambini, del lavoro e della tenuta emotiva.
I bambini stessi non sono risparmiati. Halpérin osserva che la loro sofferenza riflette in maniera speculare quella degli adulti. Non c’è distanza tra l’ansia dei genitori e quella dei figli. I più piccoli registrano i cambiamenti negli sguardi, nei toni della voce, nella frenesia degli spostamenti, nelle notizie che trapelano anche quando si tenta di proteggerli. Non servono spiegazioni esplicite: la paura si trasmette comunque. La psiche infantile è porosa e capta i segnali del pericolo senza filtri.
Diversamente da quanto si potrebbe pensare, anche gli anziani non appaiono anestetizzati dal passato. L’idea di una resilienza costruita su esperienze precedenti – guerre, evacuazioni, attacchi missilistici – non regge. La guerra attuale, spiega Halpérin, non ha paragoni. Per l’intensità, per la durata, per la sovraesposizione mediatica, per la discontinuità del conflitto. Ma anche perché la società stessa è cambiata. È più frammentata, più esposta, più dipendente da equilibri precari. In questo contesto, i professionisti della salute mentale rilevano sintomi diffusi: insonnia, ansia generalizzata, difficoltà di concentrazione, depressione reattiva. Si manifesta anche un senso di colpa latente: per essere sopravvissuti, per non essere coinvolti in prima linea, per non riuscire a essere all’altezza delle aspettative proprie o familiari.
Halpérin insiste sul fatto che non si tratta di fenomeni isolati: l’intera società è attraversata da un malessere strutturale. Alla domanda su come affrontare una crisi di queste dimensioni, lo psichiatra risponde con cautela. Israele è, da sempre, una società costruita in reazione a traumi profondi: la Shoah, prima di tutto, ma anche l’esperienza della diaspora e l’ostilità costante dell’ambiente regionale. Questa storia sedimentata si traduce, nel presente, in una difficoltà a distinguere tra minaccia reale e paura amplificata. «Viviamo – dice – con una parte della psiche costantemente in allerta».
Il progetto SafeHeart nasce per offrire strumenti di ascolto e sostegno, in particolare ai giovani. Gli operatori cercano di mantenere uno spazio di calma e continuità nel caos. Ma è chiaro che l’intervento terapeutico, da solo, non basta. La crisi è politica, sociale e culturale prima ancora che clinica. I genitori, spesso in difficoltà, chiedono aiuto non solo per i figli, ma anche per sé. «Ci dicono: non siamo sicuri di riuscire a garantire stabilità», racconta Halpérin. Anche il sollievo provvisorio che si avverte quando l’allarme si attenua è, in realtà, parte del meccanismo traumatico. Non è una vera guarigione, ma una pausa, un respiro tra due tensioni. Il sistema nervoso resta iperattivo, pronto a riattivarsi. Questo stato di attesa prolungata ha un costo, che si somma ai dolori individuali, ai lutti, agli sradicamenti.
Alla fine dell’intervista, Halpérin torna su un punto centrale: riconoscere la natura traumatica della società israeliana non è una forma di giudizio, ma un dato di fatto. Accettare questa diagnosi significa porre le basi per un processo di cura che deve coinvolgere non solo i singoli, ma anche le istituzioni e la cultura pubblica. «Non siamo ancora in grado di elaborare tutto ciò che è successo», afferma. «Ma possiamo cominciare a prenderne atto».
Perché Dio ha creato il mondo? - 7Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Formazione di una nazione speciale Dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino di Eden, i rapporti ravvicinati tra Dio e gli uomini si sono interrotti, e dopo la sparizione dell’Eden per effetto del diluvio, il mondo, che nell’originario progetto creativo era costituito da habitat, società e santuario, è rimasto senza santuario. La terra è stata maledetta, dunque Dio non può discendere fisicamente in essa senza distruggerla con la sua santità. Da quel momento il Creatore si collega alla creatura mediante rapporti a distanza, rivolgendo la parola ad alcuni uomini o, in certi casi, apparendo a loro in visione. Noè ed Abramo hanno avuto l’immenso privilegio di udire direttamente da Dio una parola che non era soltanto un’assicurazione di immediata salvezza personale dal giudizio, ma, soprattutto nel caso di Abramo, una promessa di redenzione del mondo nel futuro attraverso la formazione di una grande nazione discendente da lui.
Le solenni parole di Dio: “Io farò di te una grande nazione”, costituiscono l’atto costitutivo della nuova nazione. Invece di un’Assemblea Costituente, come avviene oggi nei paesi cosiddetti democratici, qui agisce un “Dio Costituente”, le cui delibere non possono essere impugnate. In questo modo Dio lega la costituenda grande nazione alla persona di Abramo, a cui è stato chiesto di apporre la sua firma di accettazione ottemperando alla richiesta iniziale: “'Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò” (Genesi 12:1), cosa che Abramo ha eseguito scrupolosamente: “E Abramo se ne andò, come l’Eterno gli aveva detto” (Genesi 12:4).
A questo punto l’atto giuridico è completo: Dio figura come esecutore: “Io farò…” e Abramo come beneficiario: “… di te”.
Il beneficiario però non deve aspettarsi che l’esecutore gli prepari da qualche parte una nazione già pronta, con tutto ciò che occorre: terra, popolo, struttura amministrativa, in cui a lavoro finito egli entrerà con tutti gli onori e sarà riconosciuto come primo cittadino. La nazione - avverte il Signore - nascerà personalmente da te, e si svilupperà come risultato del lavoro che Io farò su di te e a partire da te.
Paragonando la costituenda nazione a un’opera d’arte in terracotta, si può dire che Dio è il modellatore e Abramo l’argilla. La nazione, che pure esiste fin dall’atto costitutivo, prenderà forma attraverso un lungo lavoro di creativa manipolazione da parte di Dio. Si parla di manipolazione, ma il materiale su cui si fa il lavoro è l’uomo, a cui Dio ha riservato fin dall’inizio il margine di libertà che gli compete come creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
L’artista operante dunque è Dio, e il materiale su cui agisce è un oggetto vivo, desideroso di ascoltare, oppure no, pronto ad ubbidire, oppure no, capace di ringraziare, ma anche di lamentarsi, pronto a rispondere all’amore, ma anche ad essere infedele; e così via in un’altalena di su e giù che metteranno a dura prova l’Artista che s’affatica al suo lavoro. Ma Dio lo sapeva già, e l’ha messo in conto.
La manipolazione di Dio sulla parte umana dell’opera sarà di due tipi: genetico e storico.
• Aspetti genetici e storici nella formazione della nazione Se l’intera popolazione umana sopravvissuta al diluvio nasce e si forma come progenie di Noè, il popolo della nazione voluta da Dio nasce e si forma come progenie di Abramo. L’aspetto genetico nell’opera di formazione della speciale nazione abramitica emerge nella storia dall’importanza che hanno sempre avuto in Israele le genealogie. Esse esprimono la precisa volontà di Dio di accrescere numericamente il popolo e interferire nella sua storia attraverso la generazione di uomini, prima ancora che per il susseguirsi di fatti storici.
Non è forse “manipolazione genetica” quella che Dio opera nel popolo in formazione dando ad ognuno dei tre patriarchi Abramo Isacco e Giacobbe una moglie sterile, per poi farla diventare feconda al momento opportuno? Si prenda ad esempio l’ultima delle tre matriarche:
Dio si ricordò anche di Rachele; Dio l'esaudì e la rese fertile; concepì e partorì un figlio, e disse: “Dio ha tolto la mia vergogna”. E lo chiamò Giuseppe, dicendo: “L'Eterno mi aggiunga un altro figlio” (Genesi 30:22-24).
Rachele chiede un figlio, ma è Dio che “si ricorda” di lei e interviene nel suo corpo donandole Giuseppe.
Questo frutto di manipolazione genetica viene poi usato per operare una grandiosa manipolazione storica nella politica della più grande potenza mondiale del momento:
“Il Faraone disse a Giuseppe: ‘Vedi, io ti stabilisco su tutto il paese d'Egitto’. E il Faraone si tolse l'anello di mano e lo mise alla mano di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino, e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece montare sul suo secondo carro, e davanti a lui si gridava: ’In ginocchio!’. Così Faraone lo costituì su tutto il paese d'Egitto. Poi il Faraone disse a Giuseppe: “Io sono il Faraone! e senza te, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d'Egitto” (Genesi 41:44).
Tutto questo poté avvenire a Giuseppe per il semplice motivo che “L’Eterno era con lui” (Genesi 39:3, 23). Stando alla Bibbia, Giuseppe non ebbe mai una visione di Dio, né mai ricevette da Lui una parola. Ebbe soltanto dei sogni e la capacità di interpretarli. Ma l’Eterno era con lui, senza che Giuseppe forse neppure lo avvertisse. Dio dunque era disceso con Giuseppe in Egitto, e attraverso di lui aveva preso il governo della più grande potenza mondiale del momento.
Non si dica ora che Dio non aveva bisogno di Giuseppe per governare una nazione perché Dio può tutto e comanda su tutti. Certo, Dio può tutto quello che vuole, ma non vuole tutto. Avrebbe potuto far pervenire al Faraone l’ordine di nominare Giuseppe Primo Ministro di Egitto, un po’ come farà in seguito con il “re che non aveva conosciuto Giuseppe” (Esodo 1:8), ma non ha voluto agire così. Ha voluto invece che il re della più forte nazione al mondo lo facesse “spontaneamente”, dopo aver visto quello che era capace di fare un rappresentante significativo di una particolarissima nazione che ancora non compariva nella storia, ma che il Creatore dei cieli e della terra stava formando con pazienza e perseveranza.
Questo è il primo atto di politica internazionale che Dio compie nella storia attraverso la sua nazione in fieri. Ed è una politica vincente.
• In marcia verso la nazione Avevamo detto che dopo il peccato di Adamo ed Eva Dio ha interrotto il suo riposo e si è rimesso a lavorare. Il primo lavoro che Dio si è impegnato a fare è la costruzione di una grande nazione. Ma come si fa a formare ex novo una nazione? Dopo il costitutivo patto con Abramo, la nazione esiste già de jure, ma nella realtà effettuale una nazione è composta di tre elementi: un proprio popolo, una propria terra, un proprio governo. Dal capitolo 12 in poi, il libro della Genesi è interamente dedicato a descrivere il procedimento seguito da Dio per generare il popolo della nazione,
Dopo la stesura del patto di Dio con Abramo, un passo avanti nella formazione della nazione si ha con Giacobbe, che mentre era in viaggio verso Paddan Aram in cerca di moglie fa un’esperienza stranissima:
Giacobbe partì da Beer-Sceba e se ne andò verso Caran. Capitò in un certo luogo dove passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del luogo, la pose come suo capezzale e si coricò lì. Fece un sogno: una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed ecco gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala. L'Eterno stava al di sopra di essa, e gli disse: “Io sono l'Eterno, l'Iddio di Abraamo tuo padre e l'Iddio di Isacco; la terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua progenie; e la tua progenie sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai a occidente e a oriente, a settentrione e a meridione; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua progenie. Ed ecco, io sono con te, e ti guarderò ovunque tu andrai, e ti riporterò in questo paese; poiché io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto”. Appena Giacobbe si svegliò dal suo sonno, disse: “Certo, l'Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo!”; ebbe paura, e disse: “Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!”. Allora Giacobbe si alzò la mattina di buon'ora, prese la pietra che aveva posta come suo capezzale, la eresse come pietra commemorativa e vi versò dell'olio sulla cima. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora, il nome della città era Luz. Poi Giacobbe fece un voto, dicendo: “Se Dio è con me, se mi guarda durante questo viaggio che faccio, se mi dà pane da mangiare e vesti per coprirmi, e se ritorno sano e salvo a casa di mio padre, l'Eterno sarà il mio Dio; e questa pietra che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio; e di tutto quello che tu darai a me, io, certamente, darò a te la decima” (Genesi 28;10-22)
L’espressione "la sua cima raggiungeva il cielo" ricorda subito quella usata dagli uomini di Scinear che volevano costruire una torre "la cui cima raggiunga il cielo". Indubbiamente la scala apparsa a Giacobbe è la risposta di Dio alla torre di Babele. Non si raggiunge il cielo con una laboriosa e abile opera umana, perché soltanto Dio può stabilire un contatto non distruttivo ma vivificante tra il cielo e la terra.
Il preannuncio che il Signore ha voluto dare a Giacobbe con questo sogno mette in evidenza che il progetto redentivo di Dio non si conclude con la generazione dei patriarchi, ma si estende fino a un lontano futuro che non arriverà prima di quattrocento anni, come Dio aveva rivelato ad Abramo in una terribile notte (Genesi 15:7-21).
Come ad Abramo e ad Isacco, Dio annuncia a Giacobbe il suo progetto, che si estende nel futuro a occidente e a oriente e contiene due elementi essenziali: la terra e la progenie. Quanto alla terra, anche a Giacobbe Dio ripete: "Io la darò a te e alla tua progenie"; dunque non solo alla progenie, ma anche a te personalmente, il che esprime in forma indiretta che Giacobbe risusciterà e vedrà il compimento di queste parole.
Inoltre, la terra su cui si appoggia la scala è indubbiamente terra d'Israele. Si capisce allora il feroce antisionismo di oggi, perché se nel passato gli uomini fallirono nel loro tentativo di innalzarsi verso il cielo con una torre che poggiava sulla terra di Scinear, oggi gli uomini cercano di impedire che il cielo faccia scendere sul mondo la benedizione su una scala che
poggia sulla terra d’Israele. Anche Gesù, molti secoli dopo, ha fatto riferimento a un traffico di angeli tra la terra e il cielo: “Poi gli disse: “In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo” (Giovanni 1:51)
La progenie di Giacobbe che sarà come la polvere della terra è certamente il popolo etnico d'Israele, dal quale Dio un giorno farà scaturire il "germoglio di giustizia" che costituisce la vera scala che congiunge in modo salvifico il cielo e la terra. Sta scritto infatti:
“In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia, ed esso eserciterà il diritto e la giustizia nel paese" (Geremia 33:15).
Ma c’è un altro fatto importante in questo racconto:
“E come Giacobbe si fu svegliato dal suo sonno, disse: ‘Certo, l'Eterno è in questo luogo ed io non lo sapevo!' Ed ebbe paura, e disse: 'Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!’” (Genesi 28:16-17).
Per la prima volta nella Bibbia compare qui l’espressione casa di Dio, che in seguito si userà per indicare il tabernacolo prima e il tempio poi. In quel luogo dunque è stato presente per breve tempo il santuario di Dio. Che è stato anche la porta del cielo, cioè il passaggio attraverso cui gli uomini possono avvicinarsi a Dio e rimanere in sua presenza.
Nulla di questo è entrato in funzione nell’esperienza di Giacobbe, ma Dio in quell’occasione ha voluto rivelare qualcosa di Se stesso e del suo piano al suo servitore, il quale naturalmente è stato preso da paura, perché l’uomo peccatore non può avvertire la vicinanza di Dio senza provare spavento, come è avvenuto fin dall’inizio ad Adamo.
Nel viaggio di ritorno da Paddan Aram, sulle rive dello Iabbok, Giacobbe ha una lotta notturna con "un uomo" .
Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui fino all'apparire dell'alba. E quando quest'uomo vide che non lo poteva vincere, gli toccò la giuntura dell'anca; e la giuntura dell'anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. L'uomo disse: “Lasciami andare, perché spunta l'alba”. E Giacobbe: “Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!”. E l'altro gli disse: “Qual è il tuo nome?”, egli rispose: “Giacobbe”. E quello disse: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con Dio e con gli uomini, e hai vinto”. Giacobbe allora gli disse: “Ti prego, palesami il tuo nome”. E quello rispose: “Perché chiedi il mio nome?”. E lo benedisse lì. E Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, “perché”, disse, “ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata”. Il sole sorgeva appena egli ebbe passato Peniel; e Giacobbe zoppicava dall'anca. Per questo, fino a oggi, gli Israeliti non mangiano il nervo della coscia che passa per la giuntura dell'anca, perché quell'uomo aveva toccato la giuntura dell'anca di Giacobbe, al punto del nervo della coscia (Genesi 32:24-32).
Alla fine dello scontro Giacobbe dice: "Ho visto Dio faccia a faccia". Questo è un altro passo avanti nei rapporti fra il Creatore e la creatura: non c’è qui soltanto comunicazione verbale, o apparizione, o vicinanza di luogo come a Betel, ma visione faccia a faccia e contatto fisico, sia pure in forma temporanea e altamente enigmatica.
Perché questa lotta? Sembrerebbe che a cominciare lo scontro sia stato l’uomo sconosciuto, e che Giacobbe abbia cercato in un primo momento di difendersi come da un’aggressione. Ma poi comincia ad avere il sopravvento, e allora l’uomo cerca di sfuggire alla presa e mostra di voler scappare. A questo punto Giacobbe capisce che contro di lui è Dio stesso che combatte, e allora con tutte le sue forze cerca di impedire che l’uomo riesca a divincolarsi e scappare. Vuol essere benedetto, perché avverte che senza quella benedizione per lui sarebbe la fine. La benedizione che aveva strappato al fratello con il traffico commerciale, adesso vuole ottenerla con la forza. E ci riesce. L’uomo misterioso capisce di star soccombendo in quel tipo di lotta con Giacobbe e allora manifesta la sua forza assestandogli un colpo speciale sulla commessura dell'anca, e manifesta la sua autorità cambiandogli il nome. E per la prima volta nella Bibbia compare qui il nome "Israele", applicato prima al patriarca Giacobbe e poi esteso a tutta la nazione da lui discesa.
Una serie di attacchi antisemiti ha sconvolto Melbourne venerdì sera, esacerbando le preoccupazioni della comunità ebraica australiana, che conta 117.000 membri. Verso le 20:00, un uomo ha versato un liquido infiammabile sulla porta della sinagoga di Albert Street, nella zona est della città, prima di appiccare il fuoco, mentre 20 persone, tra cui donne e bambini, stavano consumando la cena dello Shabbat. I vigili del fuoco hanno spento l'incendio senza causare feriti, ma il sospetto, un uomo di circa trent'anni, è ancora in fuga. A un chilometro di distanza, una ventina di manifestanti hanno invaso il ristorante israeliano Miznon, in Hardware Lane, scandendo “Morte alle FDI (Tsahal)”, secondo testimoni citati da Nine News. Un uomo di 28 anni è stato arrestato per ostruzione alla polizia, poi rilasciato. Durante la notte, un terzo incidente ha preso di mira un'azienda a Greensborough, dove sono state incendiate tre auto e imbrattati i muri, un luogo già preso di mira dai militanti filopalestinesi. La polizia del Victoria, mobilitando la sua unità antiterrorismo, sta indagando su questi atti senza ancora qualificarli come terroristici. “Stiamo esaminando le intenzioni e l'ideologia dei responsabili”, ha dichiarato il comandante Zorka Dunstan. Le autorità australiane hanno condannato con forza queste violenze. Il primo ministro dello Stato di Victoria, Jacinta Allan, ha denunciato un atto ‘abietto’ volto a “traumatizzare le famiglie ebree”, sottolineandone il carattere antisemita, particolarmente odioso in pieno Shabbat. Il sindaco di Melbourne, Nicholas Reece, ha definito l'attacco «scioccante», ribadendo che la città promuove la pace e la tolleranza. Alex Ryvchin, co-direttore dell'Executive Council of Australian Jewry, ha chiesto una risposta ferma: «Questi crimini non possono essere perdonati, devono essere affrontati con tutta la forza della legge». Anche Israele ha reagito con forza. Il viceministro degli Esteri, Sharren Haskel, ha definito questi attacchi “terrorismo antisemita”, accusando l'assenza di sanzioni contro l'odio di incoraggiare gli estremisti. «Prendere di mira luoghi di culto ebraici e un ristorante israeliano mira a intimidire un'intera comunità a causa della sua religione», ha dichiarato, esortando l'Australia a consegnare i colpevoli alla giustizia. Questi incidenti si inseriscono in un'escalation di atti antisemiti a Sydney e Melbourne dalla fine del 2024, che includono incendi di sinagoghe e graffiti con svastiche. La polizia sta raddoppiando gli sforzi per identificare i responsabili, in un clima di crescente tensione.
(i24, 5 luglio 2025)
Monte Porzio Catone, è rissa nel circolo-pd dopo il comizio anti-ebraico
di Andrea Muzzolon
Lo chiamano dibattito, ma evidentemente a sinistra non hanno idea di cosa sia il confronto. Quello vero, che mette sullo stesso piano due opinioni diverse. E così a Monte Porzio Catone, in provincia di Roma, si è consumato l’ultimo, ennesimo, comizio anti-ebraico e anti-israeliano. Questa volta, teatro dello show pro-Pal è stato il circolo locale del Pd, intitolato ad Antonio Gramsci, che ha ospitato un confronto dal titolo “Stop al massacro. Vita, terra, libertà per il popolo palestinese”. Se già il titolo non fosse sufficientemente esplicativo, basta scorrere l’elenco dei relatori per capire dove si vuole andare a parare. Si parte con un esponente dell’Anpi, ormai in prima linea nel sostegno alla Palestina, passando per poi quelli di Emergency, Amnesty, fino ad arrivare a un rappresentante della comunità palestinese romana e uno del gruppo Bds, movimento che accusa apertamente Israele di apartheid e colonialismo. C’erano pochi dubbi sul fatto che in breve l’incontro si sarebbe trasformato in un plotone d’esecuzione contro lo Stato ebraico, ma comunque anche alcuni cittadini che non girano con la kefiah hanno deciso di assistere. Certo, mai si sarebbero aspettati uno spettacolo del genere. Fra di loro c’era anche un uomo di origini ashkenazite, un gruppo etnoreligioso ebraico originario della Valle del Reno in Europa centrale.
Non ha potuto credere alle sue orecchie quando dal palco è stato recitato un elenco di ditte, supermercati, perfino medicinali, da boicottare perché legati a Israele. Come da lui raccontato, l’intervento dell’esponente palestinese è stato il solito concentrato di odio contro Gerusalemme e Washington, quest’ultima accusata di aver creato lo Stato di Israele addirittura per conquistare il mondo. Un comizio con tanto di mappe manipolate sull’evoluzione temporale dei confini palestinesi dal 1945 ad oggi. Non sono poi mancati gli accostamenti vergognosi fra “sionismo” e “nazismo”, con tanto di sorrisi beffardi quando è stato nominato il 7 ottobre 2023, data del massacro dei giovani israeliani al rave party.
Per non farsi mancare nulla, c’è stato spazio anche per la repressione di chi la pensava in modo diverso. Proprio l’ashkenazita, residente da anni ai Castelli Romani e frequentatore del circolo dem, ha provato a portare una voce fuori dal coro sul conflitto in atto a Gaza. Di tutta risposta, è stato accusato di essere responsabile dei conflitti mondiali insieme a Netanyahu solo per le sue origini. Ogni sua parola è stata interrotta con violenza da chi sedeva sul palco nel tentativo di zittirlo finché non ha deciso di defilarsi. Il tutto, nel silenzio più totale degli esponenti locali del Pd che gestiscono il circolo. Un canovaccio diventato ormai la normalità nell’indifferenza generale di una sinistra che continua a fomentare pericolosamente l’odio verso Israele e il popolo ebraico.
Libero, 5 luglio 2025) ____________________
L'odio antiebraico è ormai fuori misura. Non ci sono più ragioni umane che potrebbero contrastarlo. E' una libidine spirituale di natura diabolica. Hanno paura. Sono afferrati da una primordiale paura di Dio, la cui ombra vedono continuamente riapparire dietro i fatti inconsueti di Israele e degli ebrei. E' quest'ombra che non vogliono vedere, e il continuo non riuscirci aumenta la loro paura, fino a farla diventare rabbia. M.C.
D'ora in poi ci si ricorderà della “guerra dei 12 giorni”, proprio come ci si ricorda della “guerra dei 6 giorni” del giugno 1967.
di Pastore Gérald Fruhinsholz
GERUSALEMME - Iniziato alle 3 del mattino del 13 giugno 2025, l'attacco di Israele contro l'Iran islamico ha colto di sorpresa il mondo intero. L'obiettivo di Israele era quello di privare l'Iran della sua capacità futura di dotarsi dell'arma atomica, come era già avvenuto con l'Iraq nel 1981 e con la Siria nel 2007. Non è un caso che l'operazione sia stata chiamata “Am kelavi” (il Risveglio del Leone), un'espressione tratta dalla Torah. Come credenti, dobbiamo prendere coscienza del carattere profetico dell'evento che si è svolto sotto i nostri occhi. Dalla guerra del 7 ottobre 2023, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha subito numerose critiche da parte dell'ONU, dalle nazioni e persino all'interno di Israele. Tuttavia, molte voci si sono levate per dire che Dio aveva scelto quest'uomo “per un tempo come questo”. Poco prima dell'attacco, il Primo Ministro aveva inserito questo versetto tra le antiche pietre del Kotel
«È un popolo che si leva come una leonessa e si erge come un leone; non si corica finché non ha divorato la preda e bevuto il sangue dei feriti» (Numeri 23:24).
• L’attualità dei testi Queste parole descrivono la potenza e la determinazione del popolo di Israele, paragonato a un leone pronto a colpire. Fanno parte della profezia di Balaam, che, nonostante i suoi tentativi di maledire Israele, finisce per benedirlo. Balaam riconosce che Dio benedice Israele e lo descrive come un popolo temibile, che non riposa finché non ha compiuto la sua missione. È sempre sorprendente vedere quanto i testi letti ogni settimana – la Parashà della Torah e la Haftarah, tratta dai Profeti – risuonino con l'attualità. Il 13 giugno, Israele ha quindi lanciato un'operazione su larga scala: il più massiccio attacco contro l'Iran dalla guerra Iran-Iraq (1980-1988). Eppure, nella Haftarah di quella settimana, era scritto:
«Non è con la potenza né con la forza, ma con il mio Spirito» (Zaccaria 4:6),
dice l'Eterno degli eserciti. Israele sa che può contare solo sull'aiuto dell'Altissimo. Al Kotel, gli shofar e le trombe hanno già suonato. La Parashà del giorno evocava proprio la dichiarazione di Dio a Mosè di suonare le trombe (Numeri 10:9), conferendo a questa guerra una dimensione spirituale e profetica.
• La testa del serpente Si può definire l'Iran degli ayatollah come «la testa del serpente», un serpente simile a una piovra i cui tentacoli si estendono su tutto il mondo. L'Iran è il principale fornitore di armi e fondi ai suoi proxy: Hamas, Hezbollah e Houthi - nemici diretti di Israele - attraverso il denaro sporco proveniente da un vasto traffico di droga. Tutti i paesi sono colpiti, più o meno direttamente, dall'influenza destabilizzante dell'Iran islamico. Daniele 10 descrive una battaglia celeste tra il Principe di Persia e l'arcangelo Michele. L'angelo Gabriele dice a Daniele, che digiuna e pregava per il suo popolo:
«Il capo del regno di Persia mi ha resistito per ventuno giorni; ma ecco, Michele, uno dei capi principali, è venuto in mio aiuto» (Daniele 10:13).
Questa battaglia spirituale è più attuale che mai. Dio usa Israele come strumento per liberare il mondo dalla minaccia esistenziale rappresentata dal regime dei mullah.
• La pace in Medio Oriente & E' giunto il momento di pregare per la pace annunciata dai profeti. Isaia parla di un Medio Oriente pacificato, ma la Bibbia avverte anche:
«Ci sarà guerra dell'Eterno contro Amalek fino alla fine» (Esodo 17:16).
Hitler con il nazismo, Stalin con il comunismo e oggi i mullah iraniani con il terrorismo islamico incarnano questa figura di Amalek. Solo Dio conosce la fine. Siamo chiamati all'umiltà e alla vigilanza, anche nei momenti di vittoria. Il Leone si è risvegliato, ma è Dio che conduce la battaglia. C'è ancora molto da fare: il regime dei mullah non è caduto; Gaza non è stata liberata e gli ostaggi sono ancora prigionieri; Hamas, gli Houthi, Hezbollah sono ancora attivi... Ma celebriamo questa vittoria di Israele, quella del suo capo, dei suoi servizi segreti, del suo esercito e dei suoi piloti in particolare, durante la «guerra dei 12 giorni» che ha visto molti miracoli. Era Ben Gurion a dire: «Chi non crede nei miracoli non è realista». Siamo con tutto il cuore accanto alle famiglie delle vittime e preghiamo per la pronta guarigione dei feriti.
È ora di portare a casa gli ostaggi, porre fine alla guerra e sconfiggere Hamas una volta per tutte
Se il mondo vuole davvero aiutare, deve finalmente affrontare la verità: la liberazione dei palestinesi (e di tutti noi) inizia con la sconfitta di Hamas
diZina Rakhamilova
Il cessate il fuoco con il regime iraniano è iniziato poco più di una settimana fa, il 24 giugno. Nonostante noi in Israele avessimo appena sopportato quasi due settimane di vero terrore – secondo modalità che ci hanno riportato alla mente la stessa paura e la stessa angoscia provate nelle prime settimane dopo il 7 ottobre 2023 – in pieno stile israeliano gran parte del Paese è tornata quasi immediatamente alla normalità, come se non fosse mai successo. A molti, questo potrebbe sembrare un concetto strano ed estraneo. Come si fa a passare da due settimane di notti insonni – dall’ansia scatenata da ogni rumore forte, dall’ossessione di “cos’altro dovrei mettere nella mia borsa d’emergenza?” – allo svegliarsi la mattina, indossare una camicia pulita e andare in ufficio come se fosse un giorno qualsiasi, spesso passando per le stesse stazioni ferroviarie dove centinaia di persone avevano trascorso la notte precedente accalcate sottoterra, usandole come rifugi antiaerei? E’ perché in Israele non abbiamo scelta. Se smettessimo di vivere la nostra vita a causa del terrorismo, non vivremmo mai veramente. Ma la verità è che qui le cicatrici della guerra non sono sempre visibili. Sì, Tel Aviv può sembrare tornata alla sua vitalità ed energia, ma nessuno di noi è veramente tornato alla normalità. Siamo ancora fisicamente ed emotivamente esausti per le notti insonni. Sussultiamo ancora ad ogni suono inaspettato. Abbiamo amici e parenti che stanno cercando di ricostruire le loro case, alcune ridotte in macerie.
15 giugno: israeliani in un rifugio di condominio a Gerusalemme, in attesa del cessato allarme
Ovunque andiamo, continuiamo istintivamente a individuare il rifugio antiaereo più vicino. Vi sono alcuni quartieri tuttora devastati dai recenti attacchi missilistici del regime iraniano. Può essere che viviamo le nostre giornate come se tutto andasse bene, ma la verità è che nessuno di noi è più lo stesso da quel giorno orribile e traumatico in cui Hamas ha preso d’assalto i nostri confini, ha devastato le comunità civili nel sud e un festival musicale, ha bruciato, decapitato e stuprato in gruppo civili innocenti e ha trascinato in cattività centinaia di persone (vive e morte). Sì, da un certo punto di vista abbiamo visto dispiegare una forza straordinaria da parte delle nostre forze armate. Abbiamo visto la piena potenza e portata delle Forze di Difesa israeliane, non solo contro Hamas, ma contro fronti ancora più formidabili e pericolosi. Nell’operazione dei cercapersone di Hezbollah, agenti israeliani sono riusciti a piazzare detonatori in dispositivi di comunicazione non rilevabili nemmeno ai raggi X, un’operazione che ha rivelato quanto profondamente avessimo infiltrato da tempo le milizie sponsorizzate e al servizio dell’Iran. Negli ultimi due anni, Israele ha eliminato quasi tutti gli alti dirigenti di Hamas dietro al 7 ottobre, insieme a figure chiave della rete terroristica iraniana come Ismail Haniyeh, tolto di mezzo nientemeno che su suolo iraniano. Abbiamo visto, forse più chiaramente che mai, che Israele dispone di un’innegabile superiorità militare, anche rispetto alla testa stessa della piovra: la Repubblica Islamica dell’Iran. Da qualsiasi punto di vista razionale, Israele ha ripristinato la deterrenza che aveva perso il 7 ottobre. Eppure la nostra vitale deterrenza non sembra del tutto ripristinata. Non finché 50 ostaggi rimangono nelle mani di Hamas. Non finché Hamas detiene ancora il potere su Gaza. Non finché la popolazione israeliana continua a convivere con le conseguenze di un trauma che nessuna vittoria sul campo di battaglia può cancellare. Quindi, cosa viene dopo? Per gli israeliani, la priorità rimane chiara: bisogna riportare a casa gli ostaggi e porre fine a questa guerra a Gaza. Secondo i funzionari israeliani, la dirigenza di Hamas è ora in preda al panico, dopo il recente successo militare di Israele contro l’Iran, e la paura che un tempo instillava nella sua popolazione si sta incrinando. Il feroce gruppo terroristico ha governato Gaza per decenni rubando aiuti, accumulando risorse e rivendendole a prezzi da estorsione. Ma la creazione di un nuovo meccanismo di aiuti sostenuto dall’Occidente – la Gaza Humanitarian Foundation – ha finalmente iniziato a rompere quel sistema di controllo. Dalla fine di maggio 2025, la Gaza Humanitarian Foundation (violentemente osteggiata da Hamas e sciaguratamente boicottata dagli organismi internazionale ndr) ha consegnato quasi un milione di pasti al giorno direttamente alla popolazione di Gaza. L’efficacia dell’iniziativa è tale che l’amministrazione Trump ha promesso 30 milioni di dollari per sostenerla. Si immagini come sarebbe potuta essere Gaza se il Qatar, invece di dare a Hamas 30 milioni di dollari al mese, avesse finanziato iniziative come questa. Giornalisti israeliani riferiscono che ora clan palestinesi locali hanno persino iniziato a rivolgersi alle Forze di Difesa israeliane avanzato idee circa la governance in una Striscia di Gaza post-Hamas. Oltre a tutto questo, Israele sembra aver fatto significativi passi avanti nell’intelligence. Solo nelle ultime settimane sono stati recuperati i corpi di otto ostaggi, un altro colpo alla morsa di Hamas e un altro segnale che sta perdendo il controllo. Nel frattempo, l’amministrazione statunitense esprime ottimismo riguardo a un possibile cessate il fuoco e ad un accordo sulla consegna degli ostaggi nelle prossime settimane. Ma qui in Israele sappiamo che non è mai così semplice. Hamas non ha ancora accettato le basilari richieste israeliane: il pieno controllo del Corridoio Philadelphi (fra Gaza ed Egitto ndr) per impedire il traffico di armi, il disarmo di Hamas e l’esilio da Gaza della sua leadership. E’ tutt’altro che sicuro che tutto questo si realizzi. E tuttavia, la situazione attuale sembra indicare un punto di svolta in Medio Oriente. Un vero cambiamento è possibile. Paesi come l’Arabia Saudita (e forse persino Siria e Libano) potrebbero presto normalizzare i rapporti con Israele. Se lo facessero, potrebbero finalmente collaborare con gli Stati Uniti per combattere il terrorismo e portare tranquillità, stabilità e speranza nella regione. Possiamo immaginare un futuro in cui gli stati arabi stabili svolgano un ruolo concreto nel migliorare la vita dei palestinesi, non finanziando il terrorismo né voltandosi dall’altra parte, ma costruendo scuole, ospedali, case e posti di lavoro. Un futuro in cui i palestinesi non siano più pedine nella guerra di qualcun altro, ma esseri umani dotati di dignità, capacità e responsabilità decisionale, e pace. Questo futuro dipende dai nostri leader – in Occidente, in Israele e nel mondo arabo – che devono fare la scelta coraggiosa e audace di reprimere Hamas e costringerla al disarmo. Non c’è futuro per Gaza – né libertà, né pace – finché Hamas rimane al potere. Se il mondo vuole davvero aiutare la martoriata enclave costiera, allora deve finalmente affrontare la verità: la liberazione dei palestinesi inizia con la sconfitta di Hamas. Solo allora israeliani e palestinesi potranno iniziare a guarire dal trauma della guerra e muovere verso una pace condivisa e sostenibile. (Da: Jerusalem Post, 2.7.25)
(israelnet.it, 3 luglio 2025)
Donne in uniforme: i ruoli segreti e strategici dell’IDF
di Michelle Zarfati
Mentre l’opinione pubblica si concentra sui ruoli da combattimento più tradizionali, all’interno delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) esistono posizioni meno note ma di cruciale importanza, oggi sempre più spesso occupate da donne. Dalla guerra elettronica all’addestramento al combattimento ravvicinato, questi incarichi dimostrano come le soldatesse israeliane siano ormai parte integrante anche delle unità più specializzate dell’esercito. Uno di questi ruoli è quello dell’istruttrice di droni, diventata fondamentale nell’attuale conflitto a Gaza. Queste soldatesse non solo conoscono a fondo le tecnologie più avanzate, ma insegnano anche a impiegarle in missioni reali, tra cui la ricognizione, l’individuazione di minacce e il supporto tattico alle truppe sul campo.
Allo stesso modo, le istruttrici di Krav Maga, trasmettono competenze essenziali per la sopravvivenza e l’autodifesa. Insegnano tecniche di combattimento corpo a corpo, disarmo e reazione rapida in scenari estremi, come rapimenti o attacchi improvvisi. Il corso di formazione, pur breve, è intensivo e punta alla padronanza tecnica e mentale. In scenari di addestramento, un ruolo altrettanto strategico è quello dell’operatrice di Hummer da combattimento, incaricata di guidare mezzi blindati durante esercitazioni complesse. Queste simulazioni, spesso notturne e in ambienti urbani, sono essenziali per preparare le unità combattenti a operare in situazioni di crisi.
Nell’IDF si è scelto inoltre di schierare sempre più donne nell’ambito della guerra elettronica, una sfera invisibile ma decisiva del conflitto moderno. Queste operatrici gestiscono sofisticati sistemi di difesa e attacco informatico: disturbano comunicazioni nemiche, neutralizzano droni e proteggono infrastrutture digitali. Durante l’attacco missilistico iraniano dell’aprile 2024, il loro intervento si è rivelato cruciale. Un’altra figura chiave è quella delle simulatrici del “Red Team”, che ricreano fedelmente tattiche, abiti e metodi del nemico per migliorare l’addestramento delle forze israeliane. Dotate di grande creatività e intuizione tattica, queste soldatesse si immergono nel ruolo dell’avversario per testare le reali capacità delle unità sul campo. Anche nel settore navale, non mancano le opportunità: oggi le donne possono diventare ufficiali della Marina israeliana, guidando imbarcazioni armate, coordinando l’equipaggio e gestendo i sistemi di difesa in mare aperto. Il percorso per arrivarci è lungo e impegnativo, e comprende anche una laurea e il prestigioso brevetto di ufficiale. Infine, ci sono le istruttrici di paracadutismo, che non solo accompagnano le truppe nei lanci, ma gestiscono tutta la fase di preparazione, dalla sicurezza all’aspetto psicologico. Addestrate in salti automatici e lanci ad alta quota, contribuiscono a costruire sicurezza e disciplina tra i soldati destinati a missioni speciali. In un contesto militare che continua a evolversi, queste sette posizioni dimostrano come le donne non siano più solo parte dell’esercito, ma protagoniste delle sue trasformazioni più strategiche.
La distruzione, parziale o totale che sia, dell’infrastruttura nucleare iraniana da parte di Israele e degli Stati Uniti rappresenta un successo per quello che, un tempo, si sarebbe definito «mondo libero». Eppure, il successivo «cessate il fuoco» imposto dal Presidente Trump a Israele testimonia, per l’ennesima volta, l’incapacità dell’Occidente di comprendere la natura dell’Islam, sunnita e sciita, e in particolare la sua santificazione della violenza e del «martirio» in adempimento al comando di Allah sul dovere della guerra santa, il jihad. Uno dei più significativi esegeti islamici, lo studioso di fine XIV secolo Ibn Khaldun, nei suoi «Prolegomeni a una storia universale» (al-Muqaddimah), scrisse: «Nella comunità musulmana, la guerra santa è un dovere religioso, a causa dell’universalità della missione musulmana e dell’obbligo di convertire tutti all’Islam, sia con la persuasione che con la forza». È noto che gli islamici dividono il mondo in due categorie: la «Dimora dell’Islam» (dar al-Islam), ossia i territori sottoposti al dominio dell’Islam, e la «Dimora della Guerra» (dar al-harb), il territorio dei non musulmani, che devono essere combattuti e convertiti. Più o meno come Carl Schmitt, il giurista del Terzo Reich, divideva il mondo in «amici» e «nemici» (hostes), facendo dell’individuazione e dell’annientamento di quest’ultimi il fondamento dell’agire politico. Questa ambizione «universalista» del jihad, animò le conquiste e le occupazioni islamiche di territori che erano stati cristiani per millenni. Una volontà di dominio che rappresentò una minaccia per l’Occidente fino a quando l’espansione dell’Europa nei territori extraeuropei, compresi quelli musulmani, non iniziò ad accelerare nel XVIII secolo. Questo cambiamento, avvenuto nel corso di lunghi decenni, ha avuto un profondo impatto sull’Islam e ha suscitato richieste di riforma e un ardente desiderio di tornare ai «fondamenti» della fede (da qui il termine fondamentalismo). «Dall’inizio della penetrazione occidentale nel mondo non europeo – ha scritto lo storico Bernard Lewis – fino ai nostri giorni, le risposte politiche più caratteristiche, significative e originali a tale penetrazione sono state quelle islamiche. Esse si sono concentrate sui problemi della fede e della comunità sopraffatta dagli infedeli». La fede nel mandato divino dell’Islam di conquistare e «redimere» il mondo intero non è stata intaccata dai solventi secolari della modernità, come invece è accaduto al Cristianesimo. Il sogno di dominio mondiale è rimasto vivo nei cuori e nelle menti di molti musulmani. Nel 1924, l’egiziano Hasan al-Banna creò la Fratellanza Musulmana per riportare l’Islam alla sua purezza dottrinale, incentrata sul jihad, al fine di far rivivere l’impero islamico usurpato dagli infedeli occidentali. Hasan al-Banna riteneva che fosse nella natura dell’Islam dominare il creato e imporre le sue leggi a tutte le nazioni del pianeta. Il suo confratello musulmano Sayyid Qutb, «padrino intellettuale» di Osama bin-Laden e di al-Qaeda, sostenne la necessità di far rivivere la comunità musulmana (Umma), ritenuta «decadente» e sepolta sotto il peso di false leggi e false usanze lontane dagli «autentici» insegnamenti islamici. A queste ambizioni catartiche e apocalittiche – così simili a quelle che animavano gli ideologi dei totalitarismi europei (nazismo e comunismo) – non sono estranee nemmeno all’Islam sciita. La Rivoluzione Islamica iraniana e la sua Guida, l’ayatollah Khomeini, hanno rilanciato con successo il sogno di una rigenerazione dell’Islam attraverso una violenza «purificatrice» a danno degli infedeli e, soprattutto, degli ebrei e del loro Stato. La dottrina teologica del clero sciita, ritiene che il ritorno di Muhammad ibn Hossein al-Mahadi – più semplicemente noto come Mahdi, ovvero il «dodicesimo imam» (donde la definizione di Islam duodecimano), figura messianica dell’escatologia islamica destinata ad annunciare la «Fine dei Tempi» – dal suo «divino nascondimento» possa essere accelerata attraverso la guerra e la «conflagrazione mondiale», per usare le parole dell’ex presidente iraniano, Ahmadinejad. La distruzione dell’infrastruttura nucleare iraniana ha frustrato le attese messianiche degli sciiti e deluso tutti quei musulmani sunniti, come i membri di Hamas, che sognavano un «olocausto nucleare» attraverso l’atomica mahadista. Noi occidentali laici, che abbiamo relegato la fede a un fatto privato o a una bizzarra superstizione, spesso non riusciamo a comprendere o a prendere sul serio il ruolo smisurato che queste esaltate fantasie religiose hanno nella politica islamica. Questa mancanza di immaginazione, quando non vera e propria ignoranza, si è rivelata un errore strategico. Lo Stato di Israele, ritenuto erede di quegli ebrei che si opposero a Maometto, fin dalla sua erezione, è stato bersaglio di una violenza sancita e glorificata dalla religione. Israele rimarrà «una democrazia in guerra» finché i fondamentalisti non saranno sconfitti in modo definitivo. La cosiddetta «guerra dei dodici giorni» è stata necessaria per smantellare almeno parte del nucleare iraniano, tuttavia, come si è già detto, la riluttanza del Presidente statunitense a intervenire militarmente, così come la sua affannosa ricerca di un «accordo», hanno impedito a Israele di portare fino in fondo l’azione militare. Per quanto possano, strumentalmente, apprezzare gli appelli di Trump alla pace e alla riconciliazione, i mullah e gli altri ferventi jihadisti non li vedono come espressioni di magnanimità e rispetto per la vita, ma come sintomi della debolezza spirituale degli «infedeli». Ogni respiro concesso agli ayatollah sarà sfruttato e utilizzato per alimentare le loro ambizioni globali. Trump, proprio come i suoi predecessori, Obama e Biden, nonché l’intera leadership europea, è caduto vittima della retorica dell’«impegno diplomatico», una formula che ha assunto una valenza quasi magica, come se, pronunciando semplicemente queste parole, anche il più fanatico degli jihadisti decidesse di diventare ragionevole.
R. Hershel Schachter (Scranton, 1941-) in Insights and Attitudes (p. 206-7) scrive che per tanti anni il Salmo 23 (che comincia con le parole “Salmo di Davide. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce..”) era il più noto presso la popolazione cristiana negli Stati Uniti. Si può aggiungere che questo salmo è ancora il più popolare. Infatti durante il funerale del senatore ebreo Joe Lieberman, quando venne letto questo salmo in inglese, tutti i presenti, ebrei e non ebrei lo seppero recitare a memoria.
R. Schachter aggiunge che qualche ministro di culto protestante voleva vendere la religione alle masse con la motivazione che chi è religioso non avrà contraddizioni nelle vita. Invece, dice r. Schachter, che il suo maestro r. Joseph Beer Soloveitchik, (Belarus, 1903-1993, Boston) non era affatto d’accordo con questa idea.
Re Salomone in Kohèlet (Ecclesiaste, 7:23) affermò che credeva di poter capire tutto, ma dovette confessare che la mitzvà della vacca rossa, il primo argomento di questa parashà, era al di là della sua comprensione. Il motivo è la evidente contraddizione: lo scopo delle ceneri della vacca rossa è di purificare coloro che sono impuri per aver avuto contatti con una cadavere. Con tutto ciò chi usa le ceneri per purificare diventa impuro. La vacca rossa purifica gli impuri e rende impuri i puri!
La verità è che il mondo è pieno di contraddizioni. Quando recitiamo una berakhà(benedizione) iniziamo usando la seconda persona (“Benedetto tu o Signore”) e concludiamo in terza persona (“che fa uscire il pane dalla terra”). Talvolta sentiamo vicina a noi la presenza divina e altre volte, assai lontana. Entrambe le impressioni sono vere.
Un altro esempio è il Salmo 8 (4-5) nel quale re David descrive la dualità della natura umana:”Che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura? Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore agli angeli, e l’hai coronato di gloria e d’onore”. Nel primo versetto l’uomo viene descritto come essere insignificante; nel secondo ad un livello quasi come quello degli angeli!
Anche nella Halakhà vi sono contraddizioni. R. Avraham Borenstein, rebbe di Sochachow (Polonia, 1838-1910) nella sua opera Avnè Nèzer elenca delle contraddizioni halakhiche in almeno trenta dei suoi responsi.
Vivere seguendo e osservando le mitzvòt della Torà non risolve tutte le contraddizioni. È piuttosto vero che ci renderà coscienti di più contraddizioni. La vacca rossa non è il solo esempio di contraddizioni nella Halakhà. È una Chukkà, un decreto. L’intera creazione è tutto un decreto. Per fare un altro esempio, è impossibile spiegare i fenomeni del quantum con i principi tradizionali della fisica. Così scrisse il rav professor Aaron Schreiber in “Quantum Physics , Jewish Law, and Kabbalah”. Certe cose sono note solo all’Eterno e per gli uomini rimarranno oscure.
MENDY & TZVI BLAU di Colel Chabad si uniscono all'allora ministro del welfare Haim Katz alla Knesset per celebrare il lancio del Progetto Nazionale per la Sicurezza Alimentare di Israele, una partnership innovativa che garantisce a decine di migliaia di famiglie in tutto il paese un sostegno alimentare affidabile e nutriente ogni mese
Quando un'organizzazione di successo esiste da quasi 250 anni, aiutando chi è nel bisogno, è comprensibile che si sia riluttanti a cambiarne il nome. Dopo tutto, perché rovinare una cosa buona? È il caso di Colel Chabad, la più antica organizzazione benefica ancora in attività in Israele, fondata nel 1788 dal rabbino Shneur Zalman di Liadi, fondatore del movimento Chabad-Lubavitch. Zalman Duchman, amministratore delegato dell'organizzazione, afferma: “Non siamo un colel tipico, né una casa Chabad tipica. Il nostro marchio esiste da quasi 250 anni e continuerà ad esistere. Siamo un conglomerato di hessed [amorevole gentilezza] al servizio di ogni fascia demografica in Israele”. Colel Chabad è diventata una delle organizzazioni più importanti di Israele, offrendo una vasta gamma di programmi, che includono mense per i poveri, asili nido, centri di riabilitazione medica, cliniche di salute mentale e molto altro ancora. Il suo programma più importante è l'Iniziativa per la sicurezza alimentare, parte della Blavatnik Food Bank of Israel. Ha sviluppato una partnership con il governo israeliano che raggiunge 40.000 famiglie ogni mese, contribuendo a garantire la loro sicurezza alimentare. La sicurezza alimentare è definita come lo stato di avere accesso affidabile a una quantità sufficiente di cibo nutriente e a prezzi accessibili. Il padre di Zalman, il rabbino Sholom Duchman, direttore di Colel Chabad, è stato nominato dal Lubavitcher Rebbe a capo dell'organizzazione nel 1978. Egli spiega l'importanza della collaborazione con il governo. “Quando il Rebbe mi ha affidato personalmente la missione di espandere le attività di Colel Chabad e di prendermi cura dei più vulnerabili in Israele, era chiaro che il nostro mandato era quello di raggiungere tutti coloro che ne avevano bisogno, senza eccezioni. Allora capimmo, e continuiamo a credere oggi, che una partnership strategica con il governo israeliano è la strada più efficace per realizzare questa visione”.
Il RABBINO SHOLOM DUCHMAN, direttore di Colel Chabad, consegna un premio di riconoscimento al presidente Isaac Herzog e a Yael Eckstein, presidente dell'International Fellowship of Christians & Jews, in segno di apprezzamento per il loro sostegno all'iniziativa nazionale per la sicurezza alimentare di Israele. Con Mendy Blau, direttore di Colel Chabad, Israele.
Nei comuni di tutto Israele, da Rahat ad Ashkelon, da Beit Shemesh ad Acri, Colel Chabad è l'organizzazione ufficiale responsabile della supervisione del sostegno alla sicurezza alimentare per tutti i cittadini israeliani bisognosi. “Diamo da mangiare ai poveri, ebrei e non ebrei”, afferma Duchman. Aggiunge Moshe Lavon, vicedirettore generale del Ministero del Welfare e degli Affari Sociali: “Colel Chabad si occupa di tutto ciò che riguarda il cibo per le famiglie bisognose in qualsiasi momento e in qualsiasi momento per tutti i settori, senza distinzione di religione, razza e sesso”. Colel Chabad utilizza tre metodi per fornire cibo a chi ne ha bisogno. In primo luogo, i partecipanti al programma ricevono ogni mese una speciale carta di debito da 500 NIS, che può essere utilizzata nelle principali catene di supermercati per acquistare generi alimentari di prima necessità. In secondo luogo, grazie a una partnership con Leket, l'organizzazione nazionale israeliana che gestisce un banco alimentare, i partecipanti ricevono ogni mese consegne di frutta e verdura fresca. Infine, Colel Chabad fornisce latte in polvere alle madri lavoratrici bisognose in collaborazione con la Fondazione Ted Arison.
Un operatore di COLEL CHABAD conforta una sopravvissuta all'attacco missilistico iraniano su Bat Yam
Mendy Blau, che dirige le attività di Colel Chabad in Israele, spiega la natura unica del progetto di sicurezza alimentare dell'organizzazione. “La particolarità del nostro programma nazionale di sicurezza alimentare”, afferma, “è che si tratta del primo e unico programma governativo in questo settore. In Israele sono molte le organizzazioni caritative che si occupano di sicurezza alimentare, ma l'aiuto che possono fornire è relativamente limitato e solitamente viene erogato in periodi diversi dell'anno, come la Pasqua ebraica e il Rosh Hashanah”. Al contrario, osserva, il programma di Colel Chabad è attivo tutto l'anno. Sebbene il programma sia pienamente operativo da tre anni, dice Blau, Colel Chabad ha condotto test per 10 anni per garantirne il successo. Poiché Colel Chabad fa parte dell'iniziativa nazionale israeliana per la sicurezza alimentare, i suoi rappresentanti fanno parte del dipartimento di assistenza sociale di ogni comune in cui opera. I rappresentanti indagano sulle famiglie registrate presso il dipartimento di assistenza sociale della città per identificare quelle che hanno bisogno di assistenza alimentare. “Non ci occupiamo semplicemente delle famiglie povere”, dice Blau. “Lavoriamo con famiglie che soffrono di estrema insicurezza alimentare, persone che temono di non avere cibo a sufficienza per il giorno successivo”. SECONDO l'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale israeliano (Bituach Leumi), aggiunge, circa 265.000 famiglie in Israele soffrono di estrema insicurezza alimentare e saltano i pasti perché semplicemente non hanno cibo a sufficienza. “Individuiamo queste famiglie e le raggiungiamo con aiuti”, afferma. Attualmente, il programma raggiunge circa 40.000 famiglie e si prevede che ne raggiungerà 50.000 entro la fine dell'anno. Secondo il Quadro politico nazionale israeliano per la sicurezza alimentare, le abitudini alimentari delle persone che vivono in condizioni di insicurezza alimentare e nutrizionale sono caratterizzate da un elevato consumo di alimenti malsani e trasformati e da un basso consumo di alimenti sani. La loro combinazione con il rischio di problemi di salute come diabete, obesità, malattie cardiache e respiratorie ne aumenta l'importanza. Blau spiega che l'assegno mensile di 20 kg di alimenti e verdure che le famiglie ricevono è destinato a prevenire l'insorgenza di questo tipo di malattie. L'iniziativa per la sicurezza alimentare di Colel Chabad non si limita a soddisfare i bisogni fisici dei partecipanti. L'organizzazione offre alle famiglie che partecipano al programma seminari sulla gestione delle finanze, sulla promozione di una corretta alimentazione e sull'educazione ai loro diritti in relazione alla loro situazione finanziaria. Le famiglie che aderiscono al programma di sicurezza alimentare di Colel Chabad possono partecipare per un periodo di due anni. Oltre all'importanza di fornire cibo alle famiglie bisognose, il programma, attraverso varie iniziative delle agenzie di assistenza sociale israeliane, offre formazione professionale e programmi pomeridiali per i bambini a sostegno delle famiglie che lavorano. Una percentuale significativa del sostegno al progetto di sicurezza alimentare di Colel Chabad – il 65% – proviene dal governo israeliano, mentre il 10% proviene dai comuni israeliani. Colel Chabad e l'International Fellowship of Christians and Jews forniscono il restante 25% dei finanziamenti. Blau afferma che molte famiglie che hanno partecipato al programma di sicurezza alimentare sono riuscite a tirarsi fuori da situazioni difficili insieme ai propri figli. Cita il caso di una madre single di Lod che cresceva due gemelli in una situazione di estrema insicurezza alimentare. Grazie alla partecipazione della famiglia al programma e all'assistenza ricevuta, i ragazzi hanno conseguito il diploma di scuola superiore con ottimi voti e hanno prestato servizio nell'IDF con distinzione, uno dei due entrando a far parte dell'élite del corpo di intelligence 8200. “Nessuna di queste cose sarebbe stata possibile per una famiglia in queste circostanze [senza il nostro aiuto]”, afferma. Un secondo caso ha riguardato una donna il cui marito aveva abusato di lei ed era in carcere. La moglie viveva in una casa per donne maltrattate con suo figlio. Colel Chabad l'ha aiutata a iscrivere il bambino a un asilo nido pomeridiano, permettendole di lavorare come cassiera in un supermercato. La donna ora vive in un appartamento con suo figlio. Se la famiglia non fosse stata inserita nel programma di sicurezza alimentare del Colel Chabad, dice Blau, è probabile che la madre sarebbe finita in circostanze poco favorevoli. “Una volta che le persone vogliono prendere in mano la propria vita, possono risolvere i propri problemi e uscire dalla situazione in cui si trovano”, afferma. Un terzo caso in cui il programma si è rivelato fondamentale ha coinvolto una famiglia etiope che viveva a Netanya. Il marito aveva problemi di salute mentale ed era costretto a casa, e il loro figlio era disabile. La famiglia trascorreva la maggior parte del tempo a casa. Grazie alla sua partecipazione al programma, la moglie ha trovato un lavoro fuori casa e ha potuto organizzare l'assistenza per il figlio fuori casa e per il marito a casa. Blau afferma che il programma alimentare, con le numerose iniziative offerte dal Ministero del Welfare, è molto apprezzato da molte famiglie. “Oggi, quando il ministro del Welfare visita i comuni, gli viene chiesto di aumentare il numero di partecipanti al programma perché è molto richiesto”, dice. “Siamo ancora lontani dal poter fornire soluzioni a tutte le famiglie bisognose, ma è un miglioramento significativo rispetto a prima”. MOSHE LAVON, del Ministero del Welfare e degli Affari Sociali, afferma che Colel Chabad svolge un ruolo fondamentale nell'aiutare le famiglie a superare le situazioni di insicurezza alimentare. “Ha dato prova di sé e ha aiutato molte famiglie a uscire dal ciclo della povertà sia attraverso la carta di debito alimentare, che consente loro di conoscere i propri diritti, sia attraverso seminari che aiutano a uscire dal ciclo della povertà”. Blau afferma che Colel Chabad sta sviluppando ulteriori progetti per assistere chi è nel bisogno. Sebbene il programma principale di sicurezza alimentare dell'organizzazione sia rivolto alle famiglie con bambini, presto inizierà un progetto pilota in collaborazione con l'International Fellowship of Christians and Jews e il Ministero del Welfare e degli Affari Sociali per assistere circa 50.000 anziani che affrontano problemi di insicurezza alimentare. Oltre a fornire cibo, le organizzazioni metteranno a disposizione volontari che visiteranno gli anziani e controlleranno il loro benessere. “Dobbiamo essere in grado di aiutare più famiglie”, afferma Blau, “e i 500 NIS che forniamo ogni mese non sono sufficienti. Abbiamo creato la cornice del quadro e abbiamo il governo dalla nostra parte. Dobbiamo solo riempire l'immagine”. Per Blau, che collabora con Colel Chabad in Israele da 34 anni, il messaggio centrale del programma di sicurezza alimentare è il fatto che è realizzato in collaborazione con il governo israeliano. “Lavorare insieme al governo dà potere e forza al programma. Una volta che il programma ha questa forza, possiamo raggiungere persone che altrimenti non avrebbero accesso alle singole organizzazioni. Inoltre, dobbiamo coinvolgere lo Stato in questo importante lavoro. Il Paese deve rendersi conto che è una sua responsabilità”. Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Colel Chabad.
(The Jerusalem Post, 29 giugno 2025)
Dopo 477 giorni di prigionia a Gaza, Liri Albag, ex osservatrice dell’IDF, si prepara a tornare alla vita quotidiana. Rapita il 7 ottobre dal Kibbutz Nahal Oz, all’inizio del suo servizio militare, è stata liberata a gennaio insieme ad altre tre osservatrici: Naama, Daniela e Karina. Oggi Liri intraprende un nuovo percorso, difficile ma consapevole, tornando nell’esercito israeliano. Tuttavia, non riprenderà il suo vecchio ruolo: stavolta, come ha raccontato suo padre Eli Albag in un’intervista a Channel 12 News, assumerà un incarico di maggiore responsabilità.
“Vuole essere parte di qualcosa che abbia davvero un senso, e lo farà” ha detto Eli. Dopo la liberazione, Liri ha affrontato un intenso percorso di riabilitazione, tra cure, viaggi e momenti di esplorazione personale. “Ha intrapreso un cammino di recupero, ha viaggiato all’estero per aprire di nuovo gli occhi sul mondo, ha visitato ogni angolo d’Israele, si è concessa qualche momento di relax” ha spiegato il padre, lasciando intendere quanto fosse fondamentale per lei ritrovare un equilibrio con la normalità, oltre che con sé stessa.
Nonostante l’esperienza traumatica, Liri ha dimostrato una forza interiore che ha stupito persino la sua famiglia. “Mi sono reso conto che è molto più forte di quanto pensassi, è riuscita persino a sorprendermi” ha raccontato Eli, visibilmente orgoglioso. La giovane condivide la sua triste esperienza solo quando si sente pronta: “Non la spingiamo a parlare, è lei a decidere quando e come aprirsi con noi”. La decisione di tornare nell’esercito è stata accolta con pieno sostegno dalla famiglia. “Liri è molto matura e sa esattamente cosa vuole. Abbiamo appoggiato con convinzione la sua scelta”, ha aggiunto Eli.
Il ritorno di Liri dalla prigionia è stato accompagnato dalla visibilità mediatica e da non poche polemiche. Alcune critiche online rivolte a Liri hanno indignato il padre: “Solo quando sarà tuo figlio ad essere rapito potrai capire cosa abbiamo vissuto… sono un branco di ignoranti che non ha idea di cosa significhi essere la famiglia di un ostaggio”.
Sul piano politico, Eli ha espresso sostegno al Primo Ministro Netanyahu, pur riconoscendo la legittimità del dibattito pubblico: “Criticare il Primo ministro è lecito, ma lo è anche riconoscerne i meriti”. Tuttavia, ha sottolineato che c’è una sola vera priorità in questo momento: “La cosa più importante adesso è riportare tutti gli ostaggi a casa”.
La famiglia Albag non ha mai smesso di battersi per la liberazione di Liri e, oggi, continua a farsi portavoce di chi ancora aspetta. In Israele, storie come quella di Liri non sono rare: ogni ferita porta con sé il peso del dolore, ma anche la volontà di andare avanti. La sofferenza non viene nascosta, ma affrontata giorno dopo giorno, nella speranza di trovare il coraggio di ripartire senza lasciare che la paura guidi il futuro.
Nata a Parigi, ebrea e apparsa improvvisamente a Londra. Appassionata di storia e letteratura araba e persiana. Sapeva tutto dei sunniti e degli sciiti. Conosceva le preghiere e i versi di Khomeini. È andata a vivere a Teheran, con tanto di chador e conoscendo a memoria il Corano. L’establishment iraniano l’ha accolta a braccia aperte. Lei faceva la giornalista e scriveva per due testate del regime. Ma Catherine, in realtà, era un agente del Mossad: ha tracciato mappe, svelato nomi, luoghi ed orari. Ha fornito informazioni fondamentali a Israele. Ha permesso operazioni fondamentali come Shabgard (Nightwalker). Questa la sua storia raccontata da Gabriele Paglialonga e pubblicata sulla pagina Facebook ‘Noi che amiamo Israele‘.
• Chi è Catherine, l’agente del Mossad che ha colpito in Iran Una donna che ha distrutto un regime senza sparare un solo proiettile – Solo con la fede. È nata a Parigi. Ebrea. Laica. Libera. Ma il suo sangue portava con sé i venti dello Yemen, il battito dell’esilio, la poesia del silenzio del deserto. Ha studiato il Medio Oriente come un amante legge una lettera – Sunniti e sciiti. Arabi e persiani. Rivoluzione e marciume. Poi – è scomparsa. È riapparsa a Londra. Come una devota musulmana sciita. Chador. Persiano. Hadith. Citava Khomeini come fossero sacre scritture. Si è inchinata verso Qom. Ha pianto con i fedeli khomeinisti. E Teheran le ha aperto le braccia.
• Da Londra a Teheran, poi la misteriosa scomparsa dopo gli attacchi Ma lei era un pugnale. Affilato a Tel Aviv. Avvelenato dalla prosa. Scriveva per Press TV. Per il Teheran Times. I suoi articoli venivano pubblicati sul sito ufficiale della Guida Suprema Khamenei. La sua penna non elogiava: Tracciava mappe. Ogni paragrafo, un codice. Ogni metafora, un aggancio missilistico. La chiamavano Catherine. Sorseggiava té alla menta con le mogli delle Guardie della Rivoluzione islamica (IRGC). Pregava accanto alle figlie degli scienziati. Sussurrava con velata dolcezza: “Dorme bene dopo un tale fardello?“; “Ha mai avuto paura quando viaggiava?“. E loro rispondevano. Con orari. Con nomi. Con segreti. Ogni sospiro che sentiva diventava un funerale. Operazione Shabgard (Nightwalker), 13-14 giugno 2025. L’Iran bruciava: • 8 comandanti dell’IRGC inceneriti nei loro letti. • 7 scienziati nucleari – mai arrivati al lavoro. • 3 fantasmi della Forza Quds – spazzati via dalla terra. Nessun drone. Nessuna cimice nei vicoli. Solo le sue parole. I suoi sussurri. Il suo silenzio. La sua poesia. Quando i missili caddero, lei scomparve. Qom. Isfahan. Karaj. Tracciarono ogni tappeto da preghiera su cui si inginocchiava. Ma lei era sparita. Una squadra del Mossad la sollevò dal letto di un fiume secco sui Monti Zagros. Nessuna impronta. Nessuna chiamata. Solo fumo. Oggi è un fantasma. Il suo blog? Cancellato. Il suo account Twitter? Sparito. Nessuna foto. Nessuna pista. Nessuna traccia. Ma a Teheran, maledicono il suo nome. E a Tel Aviv, lo sussurrano come un mito: “La donna che incendiò Qom senza un fiammifero“. “La scrittrice dei minareti”. “La penna che trafisse la Repubblica“. Non ha combattuto con i pugni, ma con la fede. Non con la violenza, ma con l’intimità. Non ha ucciso nessuno. Eppure migliaia di persone non si sono mai più risvegliate dal sonno. Non è un personaggio. È un promemoria. Che nell’era dei droni e dei dati…Una donna con una penna e una preghiera può ancora riscrivere la storia.
Verso una tregua a Gaza? Segnali di apertura tra Hamas, Israele e Stati Uniti
di Anna Balestrieri
Secondo il quotidiano saudita Asharq, Hamas si dichiara soddisfatto delle garanzie contenute nella proposta di cessate il fuoco recentemente ricevuta. Una fonte informata ha riferito che la proposta prevede l’impegno, da parte dei mediatori, affinché nessuna delle due parti riprenda le ostilità durante il proseguimento delle trattative. Inoltre, si attende che il presidente americano Donald Trump annunci ufficialmente l’accordo una volta ottenuto il consenso di entrambe le parti, assumendone anche il ruolo di garante. Tuttavia, secondo un’altra fonte vicina ad Hamas, la nuova proposta non presenta sostanziali novità rispetto a quella precedente redatta dal mediatore statunitense Steve Witkoff, ma solo modifiche marginali. Hamas dovrebbe fornire la propria risposta entro venerdì.
• Punti chiave della proposta: ritiro e aiuti umanitari Il giornale libanese Al-Akhbar descrive la proposta attuale come centrata su tre elementi principali:
Ritiro dell’IDF alle posizioni precedenti al 2 marzo, prima della rottura dell’ultimo cessate il fuoco. In quel momento, l’esercito israeliano non si era ancora completamente ritirato da Gaza e manteneva il controllo del corridoio di Filadelfia.
Ripristino del meccanismo ONU per gli aiuti umanitari, volto a garantire una distribuzione senza interruzioni. Non viene menzionata esplicitamente la Gaza Humanitarian Foundation, sostenuta da USA e Israele, ma il sistema delle Nazioni Unite verrebbe adottato in modo esclusivo.
Impegno a proseguire i negoziati anche nel caso in cui non si arrivi subito a un’intesa complessiva sulla fine della guerra.
• Israele spinge per l’accordo prima della visita di Netanyahu a Washington Israele è impegnato in un’accelerazione diplomatica per raggiungere un’intesa sul cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi prima del viaggio del premier Netanyahu a Washington, previsto per la prossima settimana. Per la prima volta, secondo fonti israeliane, Tel Aviv sarebbe pronta a discutere un cessate il fuoco complessivo e un accordo per la liberazione di tutti i 50 ostaggi rimasti nelle mani di Hamas. Qualora Hamas accetti il quadro proposto nelle prossime 24 ore, si dovrebbero comunque avviare negoziati a Doha o Il Cairo su temi come:
lo scambio di prigionieri;
il ritiro graduale dell’IDF da Gaza;
e l’ingresso di aiuti umanitari.
Queste trattative, secondo le previsioni, richiederebbero almeno una settimana. Secondo il New York Times, l’accordo sugli ostaggi attualmente in fase di definizione prevede il rilascio di dieci ostaggi vivi e di 18 corpi in cambio della liberazione di terroristi palestinesi. A differenza della proposta americana di maggio, che prevedeva il rilascio di tutti i prigionieri entro il settimo giorno, questo accordo si articolerà in cinque fasi distribuite in 60 giorni. Questa volta, Hamas rinuncerà alle “cerimonie di consegna” filmate che hanno caratterizzato gli scambi precedenti. Tre fonti israeliane senza nome hanno dichiarato al quotidiano americano che “questo sforzo mira a offrire ad Hamas garanzie più solide di un cessate il fuoco temporaneo e potrebbe aprire la strada a una cessazione permanente delle ostilità”. L’accordo seguirà un calendario dettagliato: otto prigionieri vivi saranno rilasciati il primo giorno, seguiti da cinque salme il settimo giorno. Trenta giorni dopo l’inizio, saranno consegnati altri cinque corpi, seguiti da due prigionieri vivi il cinquantesimo giorno e infine da altri otto corpi il sessantesimo giorno. Gli aiuti umanitari inizieranno subito dopo l’approvazione di Hamas, in quantità sufficiente con la partecipazione dell’ONU e della Mezzaluna Rossa. Il ritiro israeliano inizierà il primo giorno nel nord di Gaza, poi il settimo giorno nel sud, secondo le mappe concordate tra le parti.
• Pressioni internazionali e sanzioni mirate Nel frattempo, Israele starebbe spingendo gli Stati Uniti a fare pressione sul Qatar, affinché minacci di espellere i leader di Hamas in caso di mancati progressi. Il tema dei leader del movimento che vivono all’estero con trattamento privilegiato è tornato al centro del dibattito. Secondo Channel 12, sanzioni mirate contro figure chiave, ospitate in paesi come Qatar e Turchia, potrebbero spingere Hamas ad accettare un compromesso. «I leader di Hamas si muovono liberamente nel mondo e non sentono alcuna pressione — per questo non hanno fretta di firmare un accordo», ha dichiarato una fonte della sicurezza israeliana coinvolta nei negoziati.
• Tra apertura e scetticismo Hamas ha recentemente dichiarato di essere aperta a un cessate il fuoco, ma non ha accettato la proposta sostenuta da Trump, che prevede 60 giorni di tregua durante i quali si lavorerebbe a una fine definitiva del conflitto. Il nodo centrale resta quello del diritto di Israele a riprendere le ostilità, un punto su cui Gerusalemme insiste e che Hamas rifiuta, chiedendo un cessate il fuoco permanente. Secondo Kan, Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz avrebbero espresso appoggio alla proposta in incontri a porte chiuse, anche se finora non è arrivata alcuna conferma ufficiale da parte del governo.
• Nuove perdite per l’esercito israeliano a Gaza Il sergente Yaniv Michalovitch, 19 anni, è stato ucciso mercoledì nel quartiere Shujaiyeh di Gaza City, colpito da un missile anticarro. Originario di Rehovot, serviva come carrista nell’Armored Corps dell’IDF. Altri quattro soldati sono rimasti feriti in due distinti episodi: tre nello stesso attacco al carro armato di Michalovitch e uno, appartenente all’unità di ricognizione Egoz, colpito da un cecchino. Domenica scorsa, un altro soldato, il sergente Yisrael Natan Rosenfeld, 20 anni, è morto nel nord della Striscia per l’esplosione di un ordigno. Nato nel Regno Unito, viveva a Ra’anana da 11 anni ed era in servizio nel Battaglione del Genio da combattimento. Giugno si è rivelato il mese più letale per l’IDF a Gaza da inizio guerra: 20 militari caduti, su un totale di 881 vittime militari dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Mentre si moltiplicano i segnali di una possibile svolta diplomatica, il contesto rimane fragile. Il viaggio di Netanyahu negli Stati Uniti potrebbe trasformarsi nel teatro dell’annuncio di un accordo, oppure rivelare ancora una volta l’impasse di un conflitto che da mesi attende una soluzione sostenibile.
(Bet Magazine Mosaico, 3 luglio 2025) ____________________
Dunque l'accordo previsto sarebbe questo:
1° giorno 8 vivi
7° giorno 5 morti
30° giorno 2 vivi + 5 morti
50° giorno 2 vivi
60° giorno 8 morti
TOTALE:
10 vivi + 18 morti
Non è detto quanti ne restano in deposito a Hamas
Certo, dopo 60 giorni i vivi diminuiranno, ma basterà alzare il prezzo.
Ripugnante. M.C.
Ostaggi violentati, corpi profanati: l’ONU documentò l’orrore del 7 ottobre
L’ONU documentò stupri e torture durante l’attacco del 7 ottobre: “Un pattern da crimini contro l’umanità”.
di Luigi Giliberti
• Marzo 2024 Fu un documento pesante come piombo, ma scritto con precisione chirurgica. Il 4 marzo del 2024, l’Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti (SRSG-SVC), guidato da Pramila Patten, pubblicò il primo rapporto ufficiale delle Nazioni Unite sui fatti avvenuti durante l’attacco del 7 ottobre contro Israele. La conclusione, prudente ma inequivocabile, recitava: “Esistono motivi ragionevoli per credere che si siano verificati stupri, stupri di gruppo e altre forme di violenza sessuale sia durante l’attacco sia successivamente, su ostaggi detenuti a Gaza”.
• Una missione di verifica indipendente La missione si svolse tra il 29 gennaio e il 14 febbraio 2024 su invito del governo israeliano. Il team dell’ONU, guidato da Pramila Patten – che ricopriva il ruolo di Inviata Speciale del Segretario Generale per la violenza sessuale nei conflitti dal 2017 – visionò oltre 50 ore di filmati, analizzò centinaia di fotografie e raccolse testimonianze da medici, paramedici, soccorritori, investigatori forensi e membri delle forze dell’ordine israeliane. Pur senza incontrare direttamente le vittime sopravvissute – per ragioni di riservatezza, sicurezza o trauma – il team ONU definì le prove raccolte come “chiare e convincenti”.
• I luoghi delle violenze documentate Furono tre le località in cui vennero riscontrati episodi documentati di violenza sessuale:
Il Nova Music Festival a Re’im
La Strada 232, percorsa dai terroristi durante l’infiltrazione
Il kibbutz di Re’im
In questi siti furono rilevati indizi di stupri, violenze di gruppo, nudità forzata, mutilazioni genitali post-mortem e profanazioni sessualizzate dei corpi. «In almeno tre località, ci sono motivi ragionevoli per ritenere che siano avvenuti atti di violenza sessuale, inclusi stupri e stupri collettivi», si leggeva nel rapporto ufficiale ONU pubblicato sul sito un.org
• Gli ostaggi: un orrore che proseguì Il documento riportava anche “informazioni credibili e consistenti” su abusi sessuali inflitti agli ostaggi israeliani, incluse donne e bambini, rapiti e trasferiti a Gaza. Secondo Patten, alcuni casi suggerivano che gli abusi sessuali fossero proseguiti anche nei mesi successivi all’attacco, configurando una forma di “violenza sessuale prolungata” e possibile uso della tortura a scopo umiliante.
• Mutilazioni e prove circostanziali Gli investigatori raccolsero materiale fotografico e video che ritraeva corpi femminili nudi, legati, mutilati. Alcuni presentavano segni compatibili con penetrazione forzata da oggetti contundenti, anche post mortem. In più casi, i soccorritori dell’organizzazione ZAKA e i medici legali israeliani riferirono di “desecration sessualizzata”. Il team ONU, pur mantenendo uno standard di oggettività, ritenne che la quantità e la coerenza delle testimonianze fossero sufficienti per formulare una valutazione basata su motivi ragionevoli – la soglia minima richiesta per una missione di verifica ONU.
• Le limitazioni dell’indagine Il rapporto precisò che non tutte le accuse furono confermate e che alcune testimonianze si basavano su elementi circostanziali. Tuttavia, Patten sottolineò che l’assenza di sopravvissuti disposti a parlare non negava la realtà dei crimini, poiché molte vittime erano decedute, traumatizzate o ancora in ostaggio. Il team lamentò anche la mancanza di accesso forense completo ai luoghi degli attacchi, spesso già bonificati o contaminati prima dell’arrivo degli investigatori. • Una responsabilità storica Fu il primo rapporto delle Nazioni Unite a riconoscere ufficialmente l’esistenza di un pattern di violenza sessuale da parte di miliziani palestinesi durante l’attacco del 7 ottobre. «La violenza sessuale non è avvenuta in modo accidentale. Il modo in cui i corpi sono stati lasciati, il modo in cui le vittime sono state trattate, l’assenza di pudore, indicano un’intenzionalità chiara», dichiarò Patten in conferenza stampa.
• Reazioni e sviluppi Il rapporto ricevette il plauso del governo israeliano, che da mesi denunciava l’uso del silenzio internazionale come forma di complicità. L’ambasciatore israeliano all’ONU, Gilad Erdan, lo definì “un passo cruciale per combattere la negazione sistemica” dei crimini di Hamas. Nel frattempo, l’Unione Europea inserì Hamas e la Jihad Islamica Palestinese in una nuova lista di soggetti sanzionati, citando esplicitamente il dossier Patten tra le motivazioni.
• Una verità scomoda per molti Nonostante le evidenze raccolte, molte voci nel mondo accademico e mediatico occidentale reagirono con ambiguità o scetticismo, invocando “ulteriori verifiche” o ridimensionando la gravità delle accuse. Eppure, il documento dell’ONU parlò chiaro. E se il termine “pogrom” aveva ancora un significato nel XXI secolo, quello che avvenne il 7 ottobre nei campi, nei kibbutz e sulle strade del sud di Israele lo incarnava in pieno.
Hamas e la distribuzione degli aiuti: confermate le violenze sui civili
di Luca Spizzichino
Hamas starebbe sabotando attivamente la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, ricorrendo alla violenza e alla propaganda contro i civili palestinesi e gli operatori umanitari. È quanto emerge da registrazioni audio diffuse dal COGAT (Coordinatore delle Attività Governative nei Territori), che documentano le testimonianze di residenti gazawi presenti nei centri di distribuzione. Le accuse sono gravi: atti di terrorismo, disinformazione e attacchi armati.
Secondo le testimonianze, Hamas non solo aprirebbe il fuoco contro i civili nei pressi dei centri di distribuzione, ma diffonderebbe anche false notizie, attribuendo gli attacchi all’IDF (Forze di Difesa Israeliane), accompagnandoli con video manipolati e dati falsi sulle vittime. «È Hamas che spara alla gente. Vogliono far credere che sia l’esercito israeliano, ma sono loro», ha dichiarato un testimone. Un altro ha parlato di «banditi che sparano e rubano gli aiuti alla popolazione». Le accuse trovano conferma anche da parte della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), l’organizzazione sostenuta dagli Stati Uniti e attiva nella distribuzione degli aiuti nel territorio. Lunedì, la GHF ha reso noto che Hamas avrebbe offerto taglie in denaro per chiunque ferisca o uccida membri del suo staff, sia americani che palestinesi. Dodici operatori locali sono già stati uccisi, altri sarebbero stati torturati. «Abbiamo ricevuto informazioni credibili secondo cui Hamas ha messo una taglia sui nostri operatori. Le nostre squadre sono state attaccate, e alcuni colleghi potrebbero essere stati rapiti», si legge in un comunicato ufficiale dell’organizzazione. Uno degli episodi più gravi si è verificato sei giorni fa, quando un autobus della GHF con oltre 20 operatori umanitari a bordo è stato assalito da uomini armati di Hamas nella zona di Khan Yunis: cinque dipendenti palestinesi sono stati uccisi e molti altri feriti.
Alla luce di queste rivelazioni, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant hanno ordinato all’IDF di presentare entro 48 ore un piano operativo per impedire che Hamas continui a sottrarre gli aiuti umanitari destinati alla popolazione del nord della Striscia di Gaza.
Le testimonianze dirette dei gazawi, i dati forniti dalla GHF e le intercettazioni dell’intelligence israeliana delineano una strategia sistematica: Hamas non solo ostacola la consegna degli aiuti, ma strumentalizza la sofferenza della popolazione per fini propagandistici, agendo contro gli stessi civili che afferma di voler proteggere.
Da circa sessant’anni s’è diffusa la convinzione che lo Stato di Israele costituisca l’espressione della più bieca prevaricazione dell’Occidente sul Medioriente: lo Stato occupante e colonizzatore di terre non sue. Tale convinzione, profusa a piene mani dall’URSS (che fu la prima a riconoscere de jure lo Stato di Israele tre giorni dopo la sua costituzione) e poi da tutta la sinistra militante, costituisce il principio per il quale lo Stato di Israele deve sparire e la Palestina tornare libera “dal fiume al mare” o viceversa. Tale convinzione ha attecchito come un’edera che scala i muri delle ideologie antioccidentali fino al punto in cui anche il Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, ebbe a dire che gli attacchi di Hamas del 23 ottobre 2023 non vengono dal nulla, quindi: se non giustificabili, almeno comprensibili. Secondo questo cliché anche l’annientamento nucleare di Israele da parte dell’Iran diverrebbe, almeno, comprensibile. Tutto questo è falso perché smentito severamente dalla storia, dunque, non si tratta di uno scontro di vedute o di opinioni schierate politicamente ma si tratta proprio di storia, quella con la “S” maiuscola. Qui è in gioco l’elemento principe atto al conferimento del titolo di verità o realtà fattuale rispetto alla trattazione di un caso, sia questo familiare o mondiale: il fondamento storico. Esso può essere di varia natura, ad esempio può essere di pietra. Quella che oggi è conosciuta come la Spianata delle moschee, con la Moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia risalenti al 705 e al 691, è, in realtà, il sito del primo e del secondo Tempio ebraico: il Beit ha-Miqdash, l’importantissimo luogo della memoria degli ebrei, dove sorge il Muro del pianto. I due templi risalgono all’833 a.C. e al 515 a.C. Ci troviamo vicini alla collina di Sion, conquistata da Re David nel 1010 a.C. quando fece di Gerusalemme la sua capitale, quasi 2000 anni prima della nascita dell’Islam. Sempre nella zona troviamo la valle di Kidron, che nelle Scritture ebraiche e nei Vangeli è chiamata la valle dei Re e/o valle di Giosafat. Proprio qui Gesù dodicenne giunse con Maria e Giuseppe nel suo pellegrinaggio della Pasqua ebraica e qui predicò nel tempio. Tuttavia, l’UNESCO ha deciso di ritenere la zona una pura eredità islamica e così la storica denominazione di “Monte del Tempio” è divenuta “Spianata delle moschee”. Tale inesattezza o falsificazione da parte dell’UNESCO dovrebbe essere evidenziata anche a fronte di un importante documento storico di cui sotto.
• Lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon a Hijaz Al-Husain ibn Ali Himmat. Il Regno Unito, Nazione mandataria per la Palestina, secondo la vulgata corrente, avrebbe conferito agli ebrei un ingiusto privilegio: la realizzazione di un focolare in Palestina dopo aver promesso la stessa terra agli arabi. Tale spregio sarebbe, dunque, avvenuto dopo che gli inglesi avevano illuso il mondo arabo, sotto l’egida dell’impero Turco-Ottomano che, una volta finita la guerra (I° guerra mondiale), avrebbe concesso loro la disponibilità di ampie estensioni territoriali sì da formare la grande Nazione Araba. Normalmente si fa riferimento alla lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon (Alto Commissario britannico) al governatore della regione di Hijaz Al-Husayn ibn Ali Himmat. Tale documento viene nominato anche su tiktok come prova della disonestà inglese ma senza mai dire che nel testo della missiva non si dice affatto che la Palestina sarebbe stata concessa agli arabi secondo gli accordi presi. Essa non viene nominata ma si dice che le zone non ritenute puramente arabe (si citavano le zone ad ovest di Damasco) non avrebbero fatto parte degli accordi. La Palestina rientrava fra queste. Nella lettera si parlava dei distretti di Mersin e di Alessandretta, e zone della Siria che si espandono a ovest del distretto di Damasco, Homs, Hama e Aleppo…, ma non si nominava mai il sangiaccato[1] di Gerusalemme, che era la divisione amministrativa ottomana che copriva la maggior parte della Palestina. Tale sangiaccato comprendeva cinque cazà: Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba. Nel Libro bianco del 1939 (Churchill White Paper) stabilì che la frase in cui si parlava dei “distretti a ovest di Damasco” doveva intendersi come inclusiva del Sangiaccato di Gerusalemme e del vilayet di Beirut (cioè la Palestina). A proposito del Monte del Tempio si ribadisce il concetto di zone non puramente arabe. Nonostante le due diaspore, l’ultima nel 70 d.C. gli ebrei non hanno mai abbandonato completamente le loro terre ma, in quantità più o meno cospicue sono sempre rimasti là dove avevano le loro radici. Gli ebrei non sono giunti nell’inesistente Stato palestinese perché lo ha voluto il Regno Unito, essi non sono i colonizzatori di terre altrui ma sono coloro che, in parte, ritornano nell’antica casa della terra di Israele. Gli ebrei in quei luoghi non sono immigrati ma rimpatriati. Il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito (attraverso la lettera Balfour, la conferenza di Parigi e la Conferenza di Sanremo) non fu quello di inventarsi lo Stato di Israele ma quello di fare sì che la comunità ebraica, già esistente in Palestina e già con le caratteristiche proprie di uno Stato, potesse svilupparsi compiutamente in tale senso. Di seguito quanto scritto in un brano del Libro Bianco inglese del 1922:
«Durante le ultime due o tre generazioni gli Ebrei hanno ricreato in Palestina una comunità, ora di 80 000 persone, di cui circa un quarto sono agricoltori e lavoratori della terra. La comunità ha i suoi organi politici […] I suoi affari sono effettuati usando la lingua ebraica e la stampa ebraica soddisfa le sue necessità. [La comunità ] ha la sua vita intellettuale e mostra una considerevole attività economica. La comunità quindi, con la sua popolazione urbana e rurale, con la sua organizzazione politica, religiosa, sociale, la sua lingua e i suoi costumi, e la sua vita, ha di fatto caratteristiche “nazionali”. Quando viene chiesto cosa significa lo sviluppo di un focolare nazionale ebraico in Palestina, la risposta è che non si tratta dell’imposizione della nazionalità ebraica sugli abitanti palestinesi in toto, ma l’ulteriore sviluppo della comunità ebraica esistente, con l’assistenza degli Ebrei del resto del mondo, in modo che questa possa diventare un centro di cui il popolo ebraico intero possa avere, per motivi di religione e razza, un interesse e un vanto. Ma, per poter far sì che questa comunità abbia le migliori prospettive di libero sviluppo e possa offrire la piena possibilità al popolo ebraico di mostrare le proprie capacità, è essenziale che sia riconosciuto che questo è in Palestina di diritto e non perché tollerato. Questa è la ragione per cui è necessario che sia garantita internazionalmentel’esistenza di un focolare nazionale ebraico in Palestina e riconosciuta formalmente la sua esistenza in base agli antichi legami storici.»
Nel 1922 la Società delle Nazioni emette il mandato britannico per la Palestina e nel preambolo del mandato si afferma:
«Considerato che in tal modo è stato riconosciuto il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e le ragioni per ricostituire la propria patria nazionale in quel paese.»
Tutti gli atti prodotti dalla Società delle Nazioni e dal Regno Unito per giungere alla costituzione dello Stato di Israele partono dal presupposto fondamentale del riconoscimento del legame storico del popolo ebraico con quell’area chiamata Palestina dall’Imperatore Adriano nel 135 d. C, in realtà Terra di Israele ed è questo ciò che è stato riconosciuto a partire dalla dichiarazione di Arthur James Balfour, segretario al ministero degli affari esteri britannico, a Lord Rothschild, capo dell’agenzia sionista per lo Stato di Israele.
• La risoluzione ONU 181 del 29 novembre del 1947 Sappiamo che la risoluzione ONU non rappresenta il comando che determina un obbligo ma “solo” un suggerimento da parte di un organismo sovranazionale legalmente riconosciuto. Come è noto in quella occasione venne raccomandata caldamente la soluzione dei due popoli e due stati. I sionisti accettarono senza riserve e dettero vita allo Stato di Israele. Tuttavia, è opportuno evidenziare il fatto che in tutti i passaggi burocratici internazionali precedenti, quelli di cui sopra, quindi il Mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito, si è sempre parlato di un focolare ebraico in Palestina e non in una parte di questa. A tale proposito la Risoluzione 181 fu penalizzante proprio per gli ebrei. La reazione degli arabi a tale suggerimento e alla proclamazione dello Stato di Israele fu la guerra del 1948 scatenata da Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq contro il nuovo Stato.
• Conclusioni L’illegalità dello Stato di Israele in Palestina è una menzogna di dimensioni colossali sotto tutti i punti di vista. Del resto, chiunque abbia un minimo di cognizione dei Vangeli e/o delle Scritture ebraiche comprende benissimo che gli ebrei e quei luoghi costituiscono quasi la carta d’identità gli uni degli altri. Non si tratta di simpatizzare o avversare nessuno ma solo di riconoscere la verità storica che in molti, troppi, si ostinano a ignorare o a falsificare. Vorrei concludere con alcune considerazioni personali a proposito della risoluzione 181 dell’ONU. Questa non concede niente agli ebrei in quanto il diritto alla costituzione del loro Stato in Palestina è sancito dalla verità storica e da quanto stabilito dalla Società delle Nazioni nelle varie vicende istituzionali. Tuttavia, c’è chi sostiene che gli ebrei avrebbero dovuto accordarsi con gli arabi prima di passare alla costituzione del loro Stato ma questo è del tutto falso. In primo luogo si deve tenere conto di quanto viene messo in risalto da David Elber nel suo “Il Mandato per la Palestina. Le radici legali dello Stato d’Israele”, «la Risoluzione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d’Israele”, ma il risultato della decurtazione di una parte consistente di terra che già sarebbe dovuta appartenere, de jure, allo Stato ebraico dal 1922, data in cui la Gran Bretagna operò la prima partizione del territorio mandatario.» In secondo luogo si tenga presente che gli arabi, anche nelle consultazioni internazionali con l’UNSCOP (Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina), che precedettero l’emissione della Risoluzione 181, avevano reclamato a gran voce e con la violenza il diritto all’istituzione di uno stato arabo su tutta la Palestina e fecero capire in ogni modo la loro indisponibilità ad accettare altre soluzioni. Diritto che non avevano per tutte le ragioni suddette. La risoluzione 181, nel suo preambolo, pone tutta una serie di condizioni inderogabili ai fini della formazione dei due stati e una su tutte è quella che si creino stati democratici. A questa dicitura fa seguito un elenco di richieste che caratterizzano le società democratiche. Non si dimentichi il punto di partenza di questa piccola dissertazione: il mondo era da poco uscito dalle macerie della seconda guerra mondiale e si parlava di autodeterminazione dei popoli e di una nuova e diversa capacità di rapportarsi reciprocamente. La risoluzione 181 propone una concezione dello stato di stampo illuminista, burocratico e lontano da ogni tendenza teocratica, qualcosa che non poteva rientrare nell’orizzonte esistenziale dell’arabo musulmano. A mio parere vi è una questione culturale che sovrasta tutto il resto. Detto in parole povere: gli ebrei avevano la capacità di ragionare in termini politici aconfessionali, i musulmani no. Gli ebrei avevano vissuto per secoli in Occidente, dopo le due diaspore che avevano costretto molti di loro a fuggire e non solo conoscevano le dinamiche culturali occidentali ma le avevano anche acquisite e fatte proprie. In altri termini: per gli arabi musulmani costituirsi in uno stato democratico, secondo i criteri richiesti dall’ONU, avrebbe voluto dire andare contro la propria essenza culturale, quindi, l’esatto opposto del concetto di autodeterminazione di un popolo. Stiamo parlando di etnie avvezze ad assetti “politici” che comprendevano emirati e sultanati sia prima della dominazione Turca-ottomana che, in alcuni casi, durante. Lo Stato palestinese non è mai esistito perché il concetto stesso di “Stato” nel mondo arabo musulmano è incompatibile con quello occidentale. [1] Il sangiaccato di Gerusalemme (Suddivisione amministrativa dell’Impero Ottomano; sopravvive ancora in alcuni paesi arabi)è stato una provincia dell’Impero ottomano fino al 1918. Parte della Palestina, la quale faceva parte del vilayet di Sham (Siria), il sangiaccato di Gerusalemme era formato da cinque cazà (Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba)[1]. Nel 1887 il sangiaccato di Gerusalemme, in quanto sede dei Luoghi Santi, divenne un mutasarriflik indipendente il cui mutasarrif era responsabile direttamente nei confronti del governo centrale di Costantinopoli, dei suoi ministeri e dipartimenti di Stato.
C’è qualcosa in Israele che mette le persone a disagio - e non è ciò che dicono che sia. Indicheranno la politica, gli insediamenti, i confini, le guerre. Ma se si scava sotto la rabbia, si scopre qualcosa di più profondo. Non è un disagio per quello che Israele fa, ma per quello che Israele è. Una nazione così piccola non dovrebbe essere così potente. Punto. Israele non ha petrolio. Nessuna risorsa naturale speciale. Una popolazione a malapena pari a quella di una città americana di medie dimensioni. È circondata da nemici. Disprezzata alle Nazioni Unite. Bersaglio del terrorismo. Dileggiata da celebrità. Boicottata, diffamata e attaccata. Eppure prospera come se non ci fosse un domani: nell’esercito, nella medicina, nella sicurezza, nella tecnologia, nell’agricoltura, nell’intelligence, nella morale, nella pura e incrollabile volontà. Trasformano il deserto in terra coltivabile. Producono acqua dall’aria. Intercettano razzi in volo. Salvano ostaggi sotto il naso dei peggiori regimi del mondo. Sopravvivono a guerre che avrebbero dovuto cancellarli — e vincono. Il mondo guarda tutto questo e non riesce a comprenderlo. E così fanno quello che la gente fa quando assiste a una forza che non riesce a spiegare: presumono che ci sia un imbroglio. Deve essere per gli aiuti americani. Dev’essere per le lobby. Dev’essere per l’oppressione. Per il furto. Per qualche trucco oscuro che ha dato agli ebrei un tale potere. Dev’essere ricatto. Perché guai a pensare che sia qualcos’altro. Guai a pensare che sia reale. Guai a pensare che sia stato conquistato. O peggio, che sia stato destinato. Il popolo ebraico doveva scomparire da tempo. È così che finiscono le storie delle minoranze esiliate, schiavizzate e odiate. Ma gli ebrei non sono scomparsi. Sono davvero tornati a casa. Hanno ricostruito la loro terra, rianimato la loro lingua, fatto rivivere i loro morti — nella memoria, nell’identità, nella forza. Questo non è normale. Non è politico. È biblico. Non c’è nessun trucco che spiega come un popolo torni nella propria patria dopo 2000 anni. Non c’è un percorso razionale dalle camere a gas all’influenza globale. Non c’è alcun precedente storico per sopravvivere a babilonesi, romani, crociati, inquisizione, pogrom e Shoah — e poi presentarsi al lavoro il lunedì mattina a Tel Aviv. Israele non ha senso. A meno che non si creda in qualcosa che va oltre la matematica. Ed è questo che fa impazzire il mondo. Perché se Israele è reale, se questa nazione antica, improbabile e odiata è ancora in qualche modo scelta, protetta e prospera allora forse Dio non è un mito dopotutto. Forse è ancora nella storia. Forse la storia non è casuale. Forse il male non ha l’ultima parola. Forse gli ebrei non sono solo un popolo… ma una testimonianza. Ed è questo che non riescono a sopportare. Perché nel momento in cui si ammette che la sopravvivenza di Israele non è solo impressionante, ma divina - tutto cambia. La tua bussola morale deve essere reimpostata. Le tue certezze su storia, potere e giustizia crollano. Capisci che non stai assistendo alla fine di un impero. Stai testimoniando l’inizio di qualcosa di eterno. E allora lo negano. Lo diffamano. E ne sono furiosi. Perché è più facile chiamare un miracolo “imbroglio” che affrontare la possibilità che Dio mantenga ancora le Sue promesse. E lo faccia in silenzio.
(Daily Telegraph, giugno 2025) Segnalato da Emanuel Segre Amar.
Ebrei persiani in Israele: soffrire per i due fronti della guerra
L’Iran radicale e indistruttibile, così come lo conoscevamo fino all’attacco israeliano nei cieli di Teheran, forse non esiste e non esisterà più. Il regime oggi è vulnerabile, isolato, spaventato. Ma ha reagito, bombardando Israele e le basi americane nel Golfo. Come vivono tutto questo gli israeliani di origine iraniana? Sperando nel crollo del regime, per poter visitare l’antica patria.
di David Zebuloni
L’attacco di Israele all’Iran il 13 giugno ha certamente avuto grandi ripercussioni sugli equilibri non solo mediorientali, ma anche mondiali. Alleanze, forze e sistemi cristallizzati in decenni sono scossi nel profondo. Tra attacchi reciproci, cessate-il-fuoco, pressioni internazionali, la situazione è in continua evoluzione e solo il tempo ci dirà se gli effetti del conflitto saranno positivi o negativi per Israele e per la popolazione. E se l’incubo del nucleare iraniano sia finito per sempre. Quello che è certo è che questo conflitto ha fatto nascere un nuovo moto di speranza in Iran, che ha scosso gli animi stanchi di chi aveva perso fiducia in un futuro di democrazia per la propria patria. E non mi riferisco solo a quei coraggiosi dissidenti iraniani che da anni si battono per la liberazione del loro popolo, ma anche agli ebrei iraniani, oggi sparsi principalmente in Israele, a Milano, a Londra e a New York, che non hanno mai dimenticato, rinnegato o cancellato le loro origini. Ebrei ancora straordinariamente legati alle loro radici, che hanno abbracciato delle nuove culture senza mai dimenticare quella di provenienza. Figli e nipoti di quella storia che oggi cercano la loro voce, lacerati tra passato e presente. Una crisi identitaria che non permette loro di vivere questo conflitto come hanno già vissuto i conflitti con Hamas, con Hezbollah, con gli Houthi. Giovani ebrei israelo-iraniani che oggi faticano a definire “nemico” il loro paese di provenienza, ma che riconoscono la minaccia esistenziale che esso rappresenta per loro. “Credo che, a differenza dei conflitti precedenti, il conflitto in corso contro il regime iraniano suscita in me più curiosità e coinvolgimento, poiché emotivamente vicino”, mi racconta Yael Carmeli, giovane sociologa e ricercatrice universitaria presso la Hebrew University di Gerusalemme. “Sento le conversazioni dei miei genitori e dei miei nonni, e sento che ne parlano diversamente. Che si immedesimano, che si preoccupano particolarmente per il destino degli iraniani. Ecco, questo non può che influire anche sulla mia personale percezione della guerra”. Yael nasce infatti da due genitori di origini persiane. La madre italiana, ma originaria della città di Mashad, e il padre israeliano, ma nato e cresciuto a Teheran. «Non posso non pensare che, se il regime realmente crollerà, potrò finalmente partire in Iran e visitare i luoghi nei quali hanno vissuto i miei antenati – prosegue la ricercatrice. – Personalmente sto seguendo questo conflitto più di quanto abbia fatto con i precedenti. Tuttavia, la paura è assolutamente proporzionale al coinvolgimento. E in questo caso, non una paura per il nostro destino, il destino di Israele e per il popolo ebraico, ma per il precario destino dello stesso popolo iraniano. Provo per loro un inspiegabile e innato senso di solidarietà. D’altronde, non è difficile immedesimarsi in loro: mi assomigliano vagamente, la loro lingua mi è assolutamente famigliare e così anche le loro usanze». E non è tutto. Oltre a simpatizzare per il popolo iraniano e per la sua sacrosanta causa, Yael si rifiuta categoricamente di riconoscere in lui un nemico. «Il regime è il nemico di Israele, ma a differenza di altri popoli sparsi per il Medio Oriente, il popolo iraniano ama e sostiene il popolo ebraico e lo Stato d’Israele. Non posso e non voglio desiderare il loro male, così come loro non hanno mai desiderato il mio. Il nostro. Dunque, non posso fare altro che auspicare alla caduta del regime. E pregare per una pace tra i due popoli». Yaniv Sayeh l’ho conosciuto quando, svariati mesi fa, cercavo degli ebrei iraniani che si fossero recentemente trasferiti in Israele. Dopo una serie infinta di ricerche estenuanti e molto poco producenti, ho finalmente incontrato Yaniv: un giovane ragazzo israelo-iraniano che mi ha spalancato la porta su un mondo a me sconosciuto. In Israele, infatti, esiste oggi una piccola comunità di giovanissimi ebrei nati e cresciuti Teheran, e recentemente fuggiti nello Stato Ebraico in cerca di libertà. Giovani e coraggiosi ebrei disposti a varcare il confine pur di fuggire dalla realtà dittatoriale che vige nella terra degli Ayatollah, consci di dover abbandonare tutto alle loro spalle. Forse, per sempre. Yaniv funge per loro oggi da casa e famiglia. Sostiene questa piccola e schiva neo comunità con grande e mai scontata sensibilità. «Entrambi i miei genitori sono nati a Teheran – mi racconta. – La mia mamma è fuggita dopo la rivoluzione islamica e il mio papà dopo la guerra con l’Iraq. Puoi dunque immaginare quanto la cultura iraniana sia parte di me e della mia famiglia. I miei genitori mi hanno insegnato la lingua persiana e a casa di mia nonna, ogni tavolata viene arricchita con qualche prelibatezza persiana. Suono anche il Tau, uno strumento a corde iraniano, e ultimamente mi sto dedicando allo studio della poesia, della letteratura e della filosofia persiana». Un legame viscerale che oggi viene messo a dura prova. «È difficile per me vedere le mie due patrie in guerra – spiega Yaniv. – Sai, sono cresciuto sui racconti dello Scià buono e dello stravolgimento che ha subito il suo, il nostro paese dopo l’avvento di Khomeini. Per anni in casa abbiamo parlato, anzi discusso, della possibilità che il regime venisse rovesciato. Quando? Come? Per mano di chi? E ora mi domando: ci siamo? Il regime sta crollando? È questo il momento che abbiamo sempre sognato? Sta davvero per succedere? Non ho una risposta a questa domanda, ma so che qualcosa è cambiato. Che qualcosa è diverso. La guerra è sempre triste, sempre dolorosa, sempre sbagliata, ma oggi c’è nell’aria qualcosa in più. Forse, una speranza perduta e ora ritrovata. Desidero da sempre visitare la città di Esfahan e d’un tratto questo sogno non mi sembra più lontano. O irrealizzabile. Spero di non illudermi e spero soprattutto di non rimanere deluso dall’accoglienza iraniana, quando questa guerra sarà finita e si potrà finalmente parlare di pace. Reputo gli iraniani miei fratelli e non vorrei scoprire che questo sentimento sincero non è ricambiato». L’emozione di Yaniv è papabile. «Sono giorni che non penso ad altro. Che immagino mille scenari possibili per la fine di questa guerra. Dai più pessimisti ai più ottimisti – mi confessa. – Ho mille dubbi e perplessità, ma di una cosa sono certo: al termine di questi combattimenti dobbiamo assolutamente essere persone migliori. Popoli migliori. Più vicini, più uniti. Nulla ha avuto senso se, finita questa guerra infinita, il Medio Oriente non diventerà un luogo più libero e sicuro nel quale vivere. Per tutti». Un’altra immancabile voce in questo nostalgico mosaico di vissuti e riflessioni, è quella di Noa Yanai, la mia più cara amica degli anni dell’Università, oggi Chief Marketing Officer di un’importante società di moda. Anche Noa, come me e come gli altri giovani intervistati, ha delle forti origini iraniane. «Non mi dà pace questa guerra contro l’Iran – mi ha confidato una notte al telefono, mentre allattava sua figlia e aspettava il suono della sirena antimissili. – So che è una guerra necessaria. So che gli iraniani stessi desiderano l’aiuto di Israele per liberarsi dei loro tiranni, ma non riesco proprio a scindere le mie due identità». Una vera e propria renaissance identitaria, che non passa inosservata. «Fa sorridere, non sono mai stata tanto legata alle mie origini come in questo periodo – aggiunge poi. – Da bambina pensavo che le nostre usanze fossero goffe e grottesche, oggi invece penso che senza quel passato, il mio presente sarebbe completamente diverso. Che senza le canzoni iraniane di mia mamma e il cibo persiano di mia nonna, oggi non sarei la donna che sono. La madre che sono. Ironico, non trovi? Non conosco nemmeno un iraniano, eppure ho a cuore il destino del loro intero popolo». Non ho fatto in tempo a rispondere: la sirena è suonata, la bambina è scoppiata a piangere e Noa ha riattaccato la chiamata prima che potessi dirle di essere stranamente d’accordo con lei (una vera rarità). No, non è ironico avere a cuore il destino di un popolo che appartiene a un tuo passato remoto. Un paese i cui odori e sapori ti rievocano casa. Una casa che non hai mai visitato, eppure che ti porti dentro. Talvolta, inconsciamente. Inconsapevolmente. Una sorta di memoria cellulare proiettata sulle emozioni. Sogni e ricordi che non vengono trasmessi a parole, ma in piccoli gesti. O melodie lontane. Chissà, forse nello stesso latte materno. Forse, in attesa del suono della sirena, mentre allattava sua figlia, Noa le stava trasmettendo anche le memorie dei suoi antenati. I piatti della nonna, le canzoni della mamma. Le radici che un giorno definiranno la donna che sarà. La mamma che a sua volta diventerà. Lo scrittore sopravvissuto alla Shoah Primo Levi constatò in una delle su opere che “non c’è futuro senza passato”. Molti giovani ebrei iraniani oggi aggiungono: senza pace, non c’è futuro. Un futuro privo di terrorismo, all’insegna della democrazie. Della fratellanza. Un nuovo slogan: Israeliani, Iraniani, Vita, Libertà.
• La profezia di Reza Ciro Pahlavi Nel novembre del 2023, tra le pagine di questa testata venne pubblicata un’intervista che realizzai con l’erede al trono del Pavone, Reza Ciro Pahlavi. Oggi, a distanza di un anno e mezzo da quell’indimenticabile incontro, rileggo le sue parole e quasi non mi capacito della loro attualità. All’epoca, confesso, pensai che il re senza trono e senza corona stesse ostentando un ottimismo forzato, poco autentico. Oggi mi ricredo e chiedo venia: Reza sapeva esattamente quale sarebbe stato il destino del suo popolo e del suo paese. “Se un giorno ci sarà la pace tra Israele e Iran? Assolutamente sì, senza alcuna ombra di dubbio. Non perché lo dico io, ma perché lo dicono milioni di iraniani. Credimi David, non immagini quanto potenziale strategico potrebbe esserci tra i due paesi”, mi spiegò l’erede al trono con fermezza, senza esitare. Poi aggiunse: “La mia non è una speranza o un augurio, ma una piena certezza. L’attuale regime iraniano comprende tutte le peggiori forme di regime che abbiamo conosciuto nell’età moderna. È un regime al contempo totalitario, razzista e fascista. Ecco, la storia ci insegna che i regimi totalitari, alla fine, crollano sempre ed è la pace a regnare”.
GERUSALEMME - In Israele c'è un gruppo di giovani ebrei noto come “Hilltop Youth”. A sentire molti, si direbbe che siano dei mostri in sembianze umane: estremisti dall'aspetto feroce, radicali violenti, criminali che vivono ai margini della nostra società Ma io dico: basta. Gli Hilltop Youth non sono mostri. Vivo in una fattoria che ho contribuito a costruire, all'estremità sud-orientale della Giudea. Conosco questi giovani. Centinaia di loro sono passati di qui come volontari, pastori, operai, aiutanti edili. Sono pionieri e sono la punta di diamante che difende il cuore della nostra patria. Sono diamanti. Sì, a volte sono diamanti grezzi, ma sono comunque diamanti. Sono giovani uomini e donne che, invece di cercare il comfort, hanno scelto le colline battute dal vento della Giudea e della Samaria. Vivono in roulotte che tremano al vento invernale. Piantano alberi. Costruiscono case. Allevano capre e pecore, e anche bambini. E lo fanno perché credono profondamente che questa terra sia l'eredità del popolo ebraico, promessa da Dio, pagata con il sangue e difesa per generazioni. E per anni sono stati il capro espiatorio preferito di Haaretz, della BBC, del Tagesschau e di gran parte della sinistra del nostro Paese. Ma il 7 ottobre 2023 ha cambiato tutto. In quel giorno nero, quando il terrore ha varcato i confini di Israele e massacrato intere comunità nel sud, la nazione si è risvegliata a una dolorosa verità: la Giudea e la Samaria non sono il problema, sono la soluzione. Sono state le comunità della Giudea e della Samaria, situate sulle colline e nelle valli, a proteggere il cuore di Israele dallo stesso incubo che ha colpito il sud. È stata la presenza ebraica in queste zone a impedire che un'ondata di terrore penetrasse più a fondo nel nostro Paese. La geografia della Giudea e della Samaria, controllata dal nostro popolo, era un muro che proteggeva Tel Aviv, Gerusalemme e la pianura costiera dalla distruzione. E proprio ai margini di questo muro si trovano, a volte letteralmente, i Hilltop Youth. Sono la punta di diamante. Sono gli occhi e le orecchie al confine di Israele. Sono i primi a notare movimenti sospetti. I primi a dare l'allarme. I primi a correre in aiuto quando il vigneto di un vicino è in fiamme, quando le strade vengono assaltate, quando i terroristi assediano le case degli ebrei durante la notte. Eppure, invece di ringraziarli o almeno di concedere loro un po' di fiducia, vengono diffamati e condannati. Politici, giornalisti e persino ebrei sono fin troppo pronti, a volte quasi con gioia maligna, a diffamare questi giovani. Li dipingono come il problema. Li gettano in pasto ai lupi, a volte sembra proprio per dimostrare la propria superiorità morale. È un teatro grottesco: «Guardateci», sembrano dire. «Noi condanniamo i nostri. Noi siamo i buoni ebrei. Noi non siamo come loro». Molto comodo. Molto codardo. Tuttavia, alla luce della copertura mediatica prevenuta e propagandistica, è difficile biasimarli. Perché mentre a Tel Aviv o New York è di moda condannarli, questi giovani vivono in luoghi dove la legge a volte non ha potere e non li protegge. Dove le famiglie vengono uccise nelle loro case. Dove l'esercito ha le mani legate da considerazioni politiche. Dove la polizia spesso arriva troppo tardi, o non arriva affatto. Se la legge non li protegge, alcuni credono di doversi proteggere da soli. È così che nascono le milizie popolari, non per odio, ma per paura e per un senso di abbandono insopportabile. E per questo vengono braccati. Perseguitati dal loro stesso Stato. Messi in detenzione amministrativa, senza accuse, senza processo, senza possibilità di difendersi. Privati dei loro diritti perché “sospetti”. Sospetti di credere troppo fermamente in qualcosa. E il mondo applaude. Perché è più facile perseguitare adolescenti ebrei che affrontare la verità: che la Giudea e la Samaria sono la spina dorsale della sicurezza di Israele e che l'espulsione degli ebrei da queste colline provocherebbe un disastro. Se in questo Paese ci fosse un altro gruppo di minori trattato come questi bambini, l'intera nazione sarebbe in subbuglio. Lo scorso Shabbat, un ragazzo di 14 anni della Hilltop Youth è stato colpito da un proiettile ed è ora in fin di vita, solo per essersi opposto allo sgombero del suo avamposto. Il ragazzo ha riportato una ferita da arma da fuoco al braccio, con il proiettile che gli è entrato nel braccio e si è conficcato vicino alla schiena. Ha riportato fratture alla spalla e al braccio, un trauma polmonare causato dall'esplosione e diverse ferite da schegge. Il quattordicenne è stato soccorso sul posto dai paramedici della United Hatzalah e trasportato dal Magen David Adom all'ospedale Hadassah. Incredibilmente, la polizia ha arrestato il paramedico della United Hatzalah e un altro residente che aveva aiutato nell'evacuazione. Entrambi sono stati rilasciati dopo essere stati interrogati. Immaginate se fosse stato un adolescente di sinistra di Tel Aviv a essere ucciso nelle stesse circostanze. Il Paese sarebbe in rivolta. I media esploderebbero, i politici farebbero a gara per condannare l'accaduto e il soldato che ha premuto il grilletto verrebbe probabilmente arrestato prima del tramonto. Ho visto con i miei occhi come questi bambini vengono privati dei loro diritti umani fondamentali. Come vengono vessati, detenuti senza accuse, demonizzati dalla stampa e dipinti come mostri, anche se la stragrande maggioranza di loro, nonostante queste persecuzioni, non nutre odio nei loro cuori. Solo amore. Questi bambini sono adolescenti: hanno 14, 15, 16 anni. Pensate alle sciocchezze che avete fatto a quell'età. Gli errori. L'incoscienza. Fa parte della crescita. Sì, alcuni di loro commettono errori. Ma sono ancora bambini, bambini che preferiscono le cime delle montagne alle discoteche, le capre agli smartphone e il senso della vita a TikTok. Bambini che rifiutano la droga e la ricerca insensata delle tendenze moderne. Molti di loro usano ancora i vecchi cellulari Nokia perché si rifiutano di diventare schiavi dei loro smartphone: una disciplina e una forza interiore che, devo ammettere, io stesso non ho raggiunto. E sono fermamente convinto che la stragrande maggioranza delle persone che leggono questo articolo amerebbe questi bambini se solo li conoscessero personalmente, invece di giudicarli sulla base delle menzogne distorte che vengono diffuse su di loro. Prima di credere alle parole di attori politici e ideologici che dipingono questi giovani come cattivi, vi prego: andate a conoscerli di persona. Guardateli negli occhi. Parlate con loro. Scoprirete anime giovani che bruciano di idealismo, passione e amore per il loro popolo e il loro Paese. Ci sono azioni che vanno troppo oltre? Sì. E dovrebbero essere condannate. Ma condannare l'intera Hilltop Youth, privarla della sua dignità, trattarla come criminali prima ancora di essere giudicati, è un fallimento morale della nostra società. Non sono orde selvagge. Sono idealisti. Sono costruttori. Sognatori. Sono i discendenti di coloro che hanno bonificato le paludi, costruito kibbutz in valli infestate dalla malaria e combattuto eserciti per issare la bandiera di Israele su Gerusalemme. E siamo onesti: non ci vuole coraggio a stare in città e condannarli. Il vero coraggio è stare da soli su una collina, con nient'altro che la propria fede, le proprie mani e la convinzione che questa terra appartiene al proprio popolo. Israele è sempre stato costruito da coloro che si sono rifiutati di seguire la via più facile. I Hilltop Youth possono essere giovani, sfacciati e talvolta sconsiderati, ma portano dentro di sé lo stesso fuoco che ha infiammato i cuori di tutti i pionieri che li hanno preceduti. Non dovremmo sacrificarli così facilmente sull'altare dell'opportunismo politico. Non dobbiamo unirci al coro di coloro che cercano di dimostrare la propria purezza morale condannando la propria carne e il proprio sangue. Riconosciamo invece i giovani delle colline per quello che sono veramente: i pionieri – e i vigilanti – del nostro tempo. Meritano la nostra guida. Meritano la nostra giustizia. E soprattutto, secondo gli insegnamenti del 7 ottobre, meritano la gratitudine e la fiducia che ogni difensore di Israele ha meritato mille volte.
(Israel Heute, 1 luglio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Operazione Rising Lion e il fronte caucasico: Israele, Azerbaijan e l’Iran
La partnership strategica tra Baku e Gerusalemme, forgiata in anni di cooperazione energetica e militare, ha ormai un peso geopolitico cruciale. Per Israele, si tratta non solo di una fonte di approvvigionamento petrolifero – oltre il 40% del greggio israeliano proviene da lì-, ma anche di un potenziale avamposto d’intelligence in una regione chiave. Ma per la repubblica islamica di Iran è fonte di grande preoccupazione.
di Davide Cucciati
Il viaggio di ritorno del ministro israeliano dell’Aliah e integrazione Ofir Sofer non è stato solo un’odissea diplomatica. È diventato, in controluce, il simbolo della fragilità dell’equilibrio geopolitico che lega Israele al Caucaso. Tra il 14 e il 17 giugno 2025, Sofer è rientrato in Israele via mare dopo essere stato evacuato dall’Azerbaijan. La sua missione a Baku, iniziata solo poche ore prima, aveva come obiettivo la partecipazione a un seminario per giovani ebrei organizzato insieme all’Agenzia Ebraica. Venerdì 13 giugno, mentre si trovava ancora in hotel nella capitale azera, Israele ha dato inizio all’“L’Azerbaijan condivide 680 chilometri di confine con l’Iran. Non è un dettaglio. Lapartnership strategica tra Baku e Gerusalemme, forgiata in anni di cooperazione energetica e militare, ha ormai un peso geopolitico cruciale. Per Israele, si tratta non solo di una fonte di approvvigionamento petrolifero – oltre il 40% del greggio israeliano proviene da lì-, ma anche di un potenziale avamposto d’intelligence in una regione chiave.
• Le preoccupazioni dell’Iran L’apertura dell’ambasciata azera a Tel Aviv, avvenuta nel marzo 2023, ha rappresentato il culmine di questo rapporto. Per Teheran, si è trattato di una provocazione. La Repubblica Islamica osserva con crescente preoccupazione i legami tra i due Paesi e teme che Baku possa fungere da piattaforma logistica o informativa per operazioni contro obiettivi iraniani. La tensione si è riflessa perfino in un contesto insospettabile: l’Eurovision Song Contest. Il Jerusalem Post, il 22 maggio 2025, ha riportato che l’agenzia iraniana Fars News, vicina ai Pasdaran, ha lanciato un duro attacco propagandistico contro Azerbaijan e Israele. Il motivo? La cantante israeliana sarebbe di origine azera (ma quest’affermazione non risulta confermata da altre fonti), mentre il rappresentante dell’Azerbaijan era ebreo. “Non una nazione in due Stati, ma due nazioni in uno Stato – lo Stato che divide il mondo islamico”, scriveva l’editoriale di Fars News. L’Iran ha visto in quella partecipazione incrociata la prova definitiva dell’“alleanza segreta e vergognosa” tra i due Paesi e una minaccia diretta all’unità islamica. Israele ha accolto con favore il voto massimo (12 punti) ricevuto da Baku. Il ministro della Difesa Israel Katz ha ringraziato pubblicamente l’Azerbaigian per il gesto e per il sostegno fornito dopo l’attacco del 7 ottobre. In quello stesso contesto, ha ricordato anche il ruolo azero nella mediazione tra Israele e Turchia. Ma la tensione non si limita a scambi mediatici. Israel Hayom, il 18 maggio 2025, ha rivelato che mentre Israele e l’Azerbaigian rinsaldano la loro alleanza, le forze speciali azere e iraniane hanno condotto un’esercitazione congiunta (“Aras 2025”) nella regione del Karabakh. Secondo l’agenzia iraniana Tasnim, unità dei Pasdaran sono entrate in territorio azero attraversando il confine presso Bileh Savar (provincia di Ardabil), per partecipare a manovre che si sono protratte fino al 21 maggio. Si tratta della seconda esercitazione in due anni, ma questa volta si è svolta in un’area simbolicamente sensibile: il Karabakh, riconquistato da Baku nel 2023, ma storicamente legato all’alleanza tra Armenia e Iran. Il generale Vali Madani, comandante iraniano dell’operazione, ha dichiarato: “Questa esercitazione rappresenta un passo significativo per rafforzare la sicurezza lungo il nostro confine e affrontare potenziali minacce.” La vera minaccia, per Teheran, resta l’alleanza tra Israele e Azerbaijan, che non si limita ad armi e petrolio, ma include anche cooperazione diplomatica, rapporti religiosi e logistica strategica. In novembre, una delegazione militare azera aveva già visitato l’Iran per assistere all’esercitazione “Aras 2024”, segno che il doppio gioco tra Teheran e Baku è parte integrante del calcolo geopolitico. Se le foto ufficiali ci mostrano ministri, ambasciatori e comunità in festa, c’è un’altra dimensione del rapporto tra Israele e Azerbaijan che sfugge alle inquadrature diplomatiche. È quella che riguarda l’intelligence, la logistica e le operazioni sul campo. In una guerra che ha ormai travalicato le soglie della clandestinità, l’Azerbaijan è diventato anche una delle piattaforme potenziali per la guerra segreta del Mossad contro l’Iran. Lo ha scritto con chiarezza Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa, all’indomani dell’attacco israeliano: “Nei prossimi anni verranno scritti libri su libri. Il tema: la guerra segreta condotta dal Mossad contro l’Iran in questi anni; guerra che questa notte ha raggiunto il suo apice. Secondo le ricostruzioni, “le squadre del Mossad, e presumibilmente anche team di forze speciali infiltratisi da tempo (dal Kurdistan iracheno, piuttosto che dall’Azerbaijan), sono entrate in azione poco prima del lancio degli attacchi, muovendosi poi in perfetta sincronia con questi”. Il riferimento al territorio azero non è casuale. Da anni si ipotizza che l’intelligence israeliana abbia strutture logistiche, punti di appoggio e vie di fuga attive a nord del confine iraniano. Per questo, la fuga di Sofer da Baku non è stata solo un fatto di cronaca, ma un simbolo di un’alleanza che, tra petrolio e operazioni segrete, ha ridisegnato la mappa del Medio Oriente.
Hamas tortura i cittadini di Gaza per mettere a tacere le proteste
Per aiutare a comprendere che cosa stia accadendo alla popolazione palestinese all’interno della Striscia di Gaza, stretta fra la “macchina da guerra” israeliana e il terrorismo di Hamas, pubblichiamo questo articolo del corrispondente del Telegraph da Gerusalemme. Esso attira l’attenzione sul fenomeno forse più significativo delle ultime settimane, poco ripreso dalla stampa italiana, ossia sugli episodi di resistenza della popolazione palestinese contro la violenza di Hamas all’interno della Striscia. Il gruppo terroristico ricorre a metodi sempre più crudeli per mantenere il controllo di una popolazione disperata
di Henry Bodkin*
Il volto del giovane che fissa la telecamera mentre la folla gli si accalca attorno è forte e provocatorio. Nelle sue mani, il ventiseienne tiene uno striscione con un messaggio incendiario: «Hamas non ci rappresenta». Un video di accompagnamento lo mostra mentre incita gli altri, alimentando apertamente il fuoco del dissenso, mentre molte delle persone attorno a lui distolgono nervosamente il viso per non essere identificate dalle telecamere. Quell’uomo è Ahmed al-Masri, uno degli organizzatori chiave nel nord di Gaza delle proteste che hanno scosso l’enclave ad aprile e maggio. Questa settimana sono emerse le foto dello stesso uomo su una barella, con uno sguardo spaventato e impotente negli occhi e le gambe insanguinate. Secondo diverse fonti che hanno parlato con il Telegraph, Al-Masri è stato rapito da uomini armati di Hamas a Beit Lahia, vicino al confine settentrionale con Israele, dopodiché è stato brutalmente torturato. Gli sono stati deliberatamente spezzati i piedi con grosse pietre e piedi di porco di ferro; lo hanno anche colpito alle gambe. Questa atrocità fa parte di un’ondata crescente di spargimenti di sangue scatenata da Hamas contro i comuni cittadini di Gaza che pretende di rappresentare. Mentre si trova ad affrontare una stretta senza precedenti sulla sua forza militare ed economica a causa della campagna di logoramento di Israele, il gruppo terroristico sta ricorrendo a metodi sempre più crudeli per mantenere il controllo su una popolazione sempre più disperata. Khaled Abu Toameh, docente ed esperto di questioni palestinesi, ha affermato: «Dopo le proteste degli ultimi mesi, hanno iniziato a giustiziare e arrestare persone per intimidire la popolazione e terrorizzarla. Penso che stia funzionando. A un certo punto, le proteste sono scomparse». Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le segnalazioni di persone prelevate mentre erano in coda per ricevere aiuti, torturate negli scantinati o semplicemente giustiziate in pieno giorno. In un video, pubblicato entusiasticamente dagli account dei social media affiliati a Hamas, si vedevano figure mascherate che usavano una lunga sbarra di metallo per fracassare le rotule di un uomo bendato. Le sue urla strazianti e le sue suppliche di pietà sono troppo raccapriccianti per essere descritte adeguatamente. Gran parte di questa violenza viene perpetrata in nome della cosiddetta “unità Sahm”, che in arabo significa “freccia”. Quelli che riescono ad arrivare in ospedale a volte vengono braccati ed eliminati all’interno dei reparti. Nel caso di Al-Masri, la violenza si è verificata in diverse ondate e si è concentrata attorno a una grande struttura medica. Persone a conoscenza della situazione, troppo spaventate dalle rappresaglie per rivelare i loro nomi, hanno dichiarato che il giovane attivista è stato rapito e portato all’ospedale Al-Shifa di Gaza City, dove è stato interrogato e gli è stato intimato di non parlare con i media. Uno di loro ha dichiarato: «Hanno sparato a due persone davanti a lui, poi gli hanno sparato ai piedi. Gli hanno frantumato i piedi con grosse pietre e piedi di porco e poi lo hanno esposto al sole per un’ora. Poi hanno chiamato un’ambulanza e lo hanno portato all’ospedale, dove lo hanno picchiato sui piedi all’interno dell’ambulanza». In un altro tristemente noto episodio, avvenuto all’inizio di questo mese, uomini armati di Hamas avrebbero provocato le vittime che avevano ferito in precedenza, impedendo loro di entrare in un ospedale e lasciandole a contorcersi all’esterno. Secondo gli amici, Al-Masri, che gestisce una farmacia, è stato inizialmente portato all’ospedale principale di Al-Shifa, ma ora è stato trasferito altrove per la sua sicurezza. Ora fanno appello a chiunque voglia aiutarlo a uscire da Gaza, sia per sfuggire a Hamas sia per ottenere le cure adeguate alle sue ferite. «Sta malissimo», ha detto una persona. «Stiamo cercando di fare del nostro meglio per lui, ma la gente ha paura di parlare, perché potrebbe essere la prossima vittima». Alcuni attivisti ritengono che Hamas abbia approfittato del conflitto tra Israele e l’Iran per intensificare la sua campagna intimidatoria, mentre gli occhi del mondo sono puntati altrove. Stanno facendo del loro meglio per inondare le sezioni dei social media viste dall’Occidente con video e fotografie esplicite pubblicate da Hamas negli angoli arabi di Internet e guardate principalmente dalla gente di Gaza. Uno di loro, Howidy Hamza, ha descritto le vittime come «uccise due volte». In primo luogo, da Hamas; in secondo luogo, «da un movimento che si rifiuta di vederli», il movimento pro-Palestina in Occidente, molti dei cui sostenitori, compresi quelli nei campus universitari, considerano Hamas un legittimo organo di resistenza. Lo ha sottolineato questa settimana in un video che mostra un uomo bendato interrogato per presunta «collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese», l’organismo che governa, sotto il controllo israeliano, la Cisgiordania. Poiché tale accusa costituisce un crimine capitale sotto il regime di Hamas, è probabile che l’uomo sia stato giustiziato. Il Telegraph ha appreso i dettagli di un ulteriore omicidio di un organizzatore della protesta, Mohammed Abu Saeed, che guidava il movimento a Khan Younis. I testimoni hanno dichiarato che è stato colpito ai piedi così tante volte che è stato necessario amputarne uno. Durante il suo funerale, uomini armati di Hamas avrebbero aperto il fuoco sul corteo funebre, uccidendo alcuni membri della sua famiglia. Oltre alla violenza fisica, queste campagne diffamatorie contro chi manifesta dissenso sono una tattica fondamentale di Hamas. A Gaza accusare qualcuno di collaborare con Israele è la calunnia peggiore. «Risale ai tempi del mandato britannico», ha detto Toameh. «Se vuoi diffamare qualcuno, lo accusi di collaborare con l’occupante. Migliaia di persone sono morte in Cisgiordania per questo dal 1967». Un attivista, che ha preferito restare anonimo, ha affermato che il gruppo terroristico tenta di indurre la gente a rivolgere accuse, contattandole tramite falsi account sui social media. Sebbene le proteste di aprile e maggio si siano esaurite, Hamas si trova ad affrontare una sfida enorme alla sua autorità con l’introduzione del nuovo sistema di distribuzione degli aiuti. Secondo un piano concordato da Israele e dagli Stati Uniti – e osteggiato da quasi tutti gli altri – un’azienda statunitense, la Fondazione umanitaria di Gaza (GHF) distribuisce aiuti tramite un numero limitato di hub creati appositamente. Il piano, giudicato disumano, è oggetto di sparatorie di massa quasi quotidiane, mentre le truppe israeliane forniscono una protezione esterna per i contractors statunitensi, come indicato da testimoni oculari. Nonostante le numerose crudeltà del sistema, questo sembra aver preoccupato Hamas, che in passato intercettava e poi rivendeva enormi quantità di aiuti che arrivavano nelle comunità tramite camion. «Colpito con bastoni, tubi di ferro e pietre» L’11 giugno, uomini armati hanno teso un’imboscata a un autobus che trasportava lavoratori palestinesi destinati a uno degli hub della GHF in una zona di Al-Mawasi, vicino a Khan Younis, uccidendo otto persone. Uno dei morti era Osama Sa’adu Al-Masahal. Sua sorella, Heba Almisshal, ha dichiarato che dopo la sparatoria, «mio fratello e i suoi compagni sono stati trasportati all’ospedale Nasser, ma non sono stati lasciati in pace». Ha aggiunto: «Gli uomini armati li hanno catturati, li hanno gettati contro il cancello dell’ospedale, hanno impedito a medici e infermieri di prestare soccorso e hanno costretto la gente a colpirli con bastoni, tubi di ferro e pietre». Successivamente si è ipotizzato che Hamas avesse preso di mira i lavoratori perché riteneva che fossero associati a una milizia legata a Yasser Abu Shabab, il leader di un clan nel sud della Striscia che Israele sta armando. Mentre la carestia aumenta, incoraggiando i disperati abitanti di Gaza a mettere in discussione i loro governanti degli ultimi due decenni, il potere di queste famiglie armate, che precedono di gran lunga il gruppo terroristico, è cresciuto. Giovedì sono spuntate le immagini delle conseguenze di uno scontro a fuoco nell’ospedale Nasser, dopo che gli uomini armati di Hamas si erano rifugiati dietro ai familiari infuriati di un giovane che avrebbero appena ucciso. Tre loro veicoli sono stati bruciati. Nonostante tutto questo, Hamas resta di gran lunga il gruppo palestinese più potente a Gaza. Come hanno dimostrato le ultime settimane, le insinuazioni dei ministri israeliani più intransigenti, secondo cui i comuni cittadini di Gaza avrebbero potuto semplicemente “sbarazzarsi” del gruppo terroristico – con l’implicazione che forse in realtà non lo volevano – si sono rivelate crudelmente lontane dal vero. Ciò significa che la popolazione, di cui giovedì sono morte più di cento persone in meno di 24 ore, continua a essere stretta tra la macchina da guerra israeliana e i jihadisti che usano la loro sofferenza per giustificare la propria causa di fronte al mondo.
* Corrispondente da Gerusalemme del Telegraph
L’evento del Riformista: Noi, dalla parte di Israele
A inizio giugno Il Riformista ha lanciato un appello a difesa delle ragioni di Israele, raccogliendo migliaia di adesioni. Partendo dall’appello, il quotidiano diretto da Claudio Velardi ha organizzato lunedì sera a Roma un evento “Dalla parte di Israele” in un teatro cittadino. Sul palco sono saliti rappresentanti politici e delle istituzioni ebraiche, giornalisti, comunicatori, studenti universitari.
«Israele è vittima di una asimmetria informativa. Credo molto in questa battaglia a sua difesa, una battaglia che mi sta facendo ridiventare giovane dopo tanti anni di cinismo», ha esordito Velardi. In quattro panel sono stati affrontati tra gli altri temi come “Giovani”, “Media, emergenza antisemitismo”, “I nuovi nemici della libertà delle donne” e “Prospettive”, con uno sguardo anche al futuro. «Dalla parte di Israele è un titolo stupendo e coraggioso, soprattutto in un momento in cui viene promosso un odio ideologico verso Israele e il suo popolo», ha dichiarato l’ambasciatore israeliano a Roma, Jonathan Peled. «Un odio che rischia di avere profonde conseguenze sociali nei prossimi anni».
Era tra gli altri presente in sala la presidente Ucei, Noemi Di Segni. Mentre sul palco è salito Victor Fadlun, il presidente della Comunità ebraica di Roma. Israele, ha detto Fadlun, «è l’avamposto della società occidentale che parte mondo arabo vuole annientare: questo è il dramma che una parte della nostra società non capisce». Per Stefano Parisi, il presidente dell’associazione Setteottobre, «l’Europa è oggi invasa dalla Fratellanza Musulmana e alcuni paesi che finanziano il terrorismo si stanno comprando le nostre università, le nostre città, le nostre grandi piattaforme culturali come lo sport». Al riguardo, si è chiesto Parisi, «cosa fa la leadership europea?». Secondo la giornalista Fiamma Nirenstein, una delle promotrici dell’iniziativa, «Israele non può essere distrutta perché vive in noi il dettame del Deuteronomio che ci impone di scegliere sempre la vita». È un dettame, ha concluso Nirenstein, «che condividiamo nella cultura giudaico-cristiana».