La Conferenza dei Rabbini Europei risponde a Papa Francesco
“Le affermazioni del Papa sono propaganda subdola”
di Luca Spizzichino
Il dibattito sulle parole di Papa Francesco riguardo alla guerra tra Israele e Hamas si accende ulteriormente, con la Conferenza dei Rabbini Europei (CER) che esprime preoccupazione per le dichiarazioni del pontefice. In una nota del suo Comitato Permanente ha dichiarato di essere “profondamente turbata” da questa affermazione. Citando la definizione di genocidio secondo la Convenzione Internazionale per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, che include “atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso,” i rabbini hanno sottolineato come Israele stia conducendo una guerra difensiva.
“Mentre l’efficacia della guerra di Israele contro Hamas può essere oggetto di dibattito, essa rimane una risposta militare agli attacchi terroristici del 7 ottobre e alla minaccia esplicita di Hamas di replicare tali massacri indiscriminati. Israele è impegnato nel rispetto del diritto umanitario internazionale, mentre Hamas viola sistematicamente ogni norma di tale diritto”, afferma la Conferenza dei Rabbini Europei.
Particolarmente dura è stata la critica all’uso del termine “genocidio,” considerato una “propaganda subdola” che sposta la responsabilità dai perpetratori alle vittime, trasformando lo Stato di Israele in un simbolo di colpa. “Hamas, al contrario, ha manifestato chiaramente, nei suoi atti e nei suoi documenti fondanti, un’intenzione genocida nei confronti del popolo ebraico”, continua la nota.
“La Torah insegna che ‘la vita e la morte sono nelle mani della lingua’ e l’esperienza storica, segnata da un crescente antisemitismo, conferma che ogni parola emessa da una figura di spicco ha immense conseguenze”, si legge infine nella nota.
Anche l’Assemblea Rabbinica Italiana (ARI) si è espressa con fermezza, descrivendo le dichiarazioni del Papa come “apparentemente prudenti”, ma che in realtà “rischiano di essere molto pericolose”. In un comunicato, i rabbini italiani hanno sottolineato che “le parole sono importanti e bisogna stare molto attenti a come usarle, soprattutto se si svolge un ruolo di guida religiosa”. L’ARI ha ricordato come, nel corso della storia, gli ebrei siano stati accusati di crimini infamanti, come il deicidio o l’omicidio rituale, con conseguenze devastanti. Alla luce di questo, hanno avvertito che “considerare le colpe in modo unilaterale e trasformare gli aggrediti in aggressori” è il modo peggiore per perseguire la pace.
(Shalom, 20 novembre 2024)
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“Città libera da ebrei”
Adesivi nelle strade di Apeldoorn, in Olanda, dove neanche la statua di Anne Frank è al sicuro.
di Giulio Meotti
ROMA - Dei 1.549 ebrei di Apeldoorn, in Olanda, deportati dai nazisti tornarono in 150. Sopravvissuti alla Shoah e loro famigliari questa settimana si sono svegliati con degli strani adesivi affissi nelle strade: “Apeldoorn Joden vrij”. Apeldoorn libera dagli ebrei. Donald de Leeuw, uno dei capi della piccola comunità ebraica di Apeldoorn, dice al Telegraaf: “49 membri della famiglia non sono sopravvissuti. Non ho cugini. Ora posso immaginare cosa provassero. Non indosso più la kippah fuori”.
I pazienti dell’ospedale ebraico di Apeldoorn il 21 gennaio 1943 furono caricati dai nazisti sui treni per Auschwitz. Il trasporto di 921 pazienti, tra cui bambini e personale medico, arrivò a Birkenau il 24 gennaio. 869 di loro furono subito mandati subito a morire nelle camere a gas.
Intanto neanche la statua di una delle figlie più famose e tragiche di Amsterdam, Anne Frank, è al sicuro. In una nazione un tempo rinomata per la sua tolleranza e il suo liberalismo, la statua di Anne Frank in un parco pubblico deve ora essere sorvegliata 24 ore su 24 con telecamere intelligenti e luci di sicurezza: si teme che venga nuovamente vandalizzata di vernice rossa e deturpata con le parole “Liberate Gaza”. Intanto Femke Halsema, sindaco di sinistra di Amsterdam, torna indietro sull’uso della parola “pogrom” usata per la notte dell’attacco ai tifosi israeliani del Maccabi. In questo nuovo clima culturale gli ebrei hanno paura. “La gente ha paura: possiamo noi ebrei camminare per strada con una kippah o una stella di David senza essere attaccati? Senza che ci venga chiesto il passaporto, senza che venga gridato ‘caccia agli ebrei’?”, ha detto Menno ten Brink, un rabbino liberale di Amsterdam.
Hanno iniziato con le città “Zionist frei”. Come Leicester, la decima città più grande del Regno Unito. La prima a mettere al bando tutti i prodotti “made in Israel”. Nella città irlandese di Kinvara i negozi, i ristoranti e persino le farmacie non vendono più prodotti israeliani, nemmeno gli antibiotici della Teva, leader israeliana dell’industria farmaceutica. Ora sono passati allo Jüdenfrei.
Il presidente fondatore dell’Associazione ebraica europea, Menachem Margolin, lunedì ha chiesto all’Unione europea di dichiarare un periodo di emergenza di sei mesi per attuare misure speciali per affrontare la minaccia dell’antisemitismo, aumentando sicurezza e fondi per i siti ebraici. Menachem Margolin ha detto da Cracovia: “La situazione del popolo ebraico in Europa oggi è la peggiore dalla Kristallnacht”.
E intanto il capo della polizia di Berlino sembra riportarci ai tempi del nazismo. Barbara Slowik, capo della polizia berlinese, ha detto alla Berliner Zeitung: “Ci sono aree – e dobbiamo essere così onesti a questo punto – dove consiglierei alle persone che indossano la kippah o sono apertamente gay o lesbiche di essere più attente. Ci sono alcuni quartieri in cui vivono persone di origine araba, che hanno anche simpatie per i gruppi terroristici. L’ostilità aperta si articola lì contro le persone di fede e origine ebraica”. Abe Foxman, nato in Polonia nel 1940, sopravvissuto alla Shoah e che ha trascorso mezzo secolo a dirigere l’Anti-Defamation League americana, ha appena detto a Forward: “Penso che l’Europa sarà Jüdenrein”.
Il Foglio, 20 novembre 2024)
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Autorità Palestinese condannata a risarcire le vittime dell’attacco al ristorante Sbarro nel 2001
di David Fiorentini
Il 9 agosto 2001, un attentatore suicida si fece esplodere dentro al ristorante Sbarro a Gerusalemme, ferendo 130 civili e uccidendone 16, di cui 4 bambini. A più di un decennio di distanza, il Tribunale distrettuale di Gerusalemme ha condannato l’Autorità Palestinese (PA) e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a risarcire le famiglie delle vittime dell’attacco con una somma pari a 10 milioni di shekel israeliani, circa 2,5 milioni di euro, per ogni vittima. La storica decisione riprende una sentenza della Corte Suprema israeliana del 2022, secondo cui l’Autorità Palestinese è da ritenere corresponsabile di tutti gli attentati terroristici perpetrati da palestinesi in Israele, a causa delle sue politiche assistenzialistiche nei confronti degli attentatori e delle loro famiglie. Oltre alla conclusione di un percorso legale annoso, la sentenza assume una rilevanza particolare poiché potrebbe diventare un precedente a cui le vittime del massacro del 7 ottobre 2023 potrebbero appellarsi per richiedere risarcimenti alla PA. Proprio nel marzo 2024, la Knesset ha promulgato una legge che impone alle organizzazioni sostenitrici del terrorismo una sanzione di 2,7 milioni di dollari per ogni persona uccisa e di 1,35 milioni di dollari per ogni ferito. Tuttavia, fino ad oggi non erano ancora mai state emesse sentenze basate su questa legge, considerata incostituzionale e nulla dalla PA. Per la prima volta, il giudice Arnon Darel del Tribunale di Gerusalemme ha applicato la nuova normativa, disponendo un ulteriore risarcimento per danni, inclusi dolore e sofferenza, ridotta aspettativa di vita e mancati guadagni, per un totale aggiuntivo di 5,4 milioni di dollari. L’intera ammenda sarà trattenuta dalle entrate fiscali che Israele raccoglie mensilmente per conto della PA dal 2018. “I palestinesi non potranno sostenere le conseguenze finanziarie,” ha affermato Meir Schijveschuurder, avvocato delle vittime, tra cui compaiono i suoi genitori e tre fratelli. La delibera, auspica, “porterà sollievo alle famiglie delle vittime e ridurrà significativamente il terrorismo”.
(Bet Magazine Mosaico, 20 novembre 2024)
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Netanyahu: Hamas non governerà mai più la Striscia di Gaza
Circa la metà dei 101 ostaggi detenuti dai terroristi sono ancora vivi, ha dichiarato il Primo Ministro ai parlamentari.
Hamas continua a ostacolare i negoziati in corso per uno scambio di ostaggi in cambio di un cessate il fuoco, nella speranza di porre fine alla guerra e riconquistare il potere a Gaza, ha dichiarato lunedì il Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset.
“L'unica cosa che Hamas vuole è un accordo che ponga fine alla guerra e il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza per tornare al potere”, ha detto il primo ministro, secondo Walla. “In nessun modo sono disposto a permettere che questo accada”.
Netanyahu ha detto ai parlamentari che il gruppo terroristico palestinese “vede la pressione” esercitata sul suo governo sia a livello nazionale che internazionale e crede di poter ostacolare i colloqui per raggiungere condizioni migliori.
Durante l'incontro a porte chiuse, il Primo Ministro ha affermato di ritenere che circa 50 dei 101 ostaggi detenuti da Hamas siano ancora vivi.
Ha detto ai membri del comitato che, sebbene non vi sia alcuna proposta concreta al momento, negli ultimi giorni sono “emerse diverse idee”.
Il quotidiano Al-Araby Al-Jadeed, con sede in Qatar, ha citato una fonte di Hamas all'inizio della settimana, affermando che la leadership dell'organizzazione islamista aveva interrotto ogni contatto con le persone che detengono effettivamente gli ostaggi a causa delle “strette misure di sicurezza per proteggere l'importante carta negoziale”.
La fonte ha aggiunto che Hamas si è rifiutato di fornire informazioni sul luogo e sullo status degli ostaggi, in particolare di quelli con cittadinanza statunitense, perché non gli è stato offerto un “compenso” dai mediatori.
Secondo Channel 12, Netanyahu ha osservato lunedì che mentre l'operazione delle Forze di Difesa israeliane a Gaza ha distrutto la maggior parte delle infrastrutture “militari” di Hamas, le sue capacità di governo sono rimaste in gran parte intatte.
Secondo quanto riferito, Netanyahu avrebbe incaricato i funzionari di redigere un piano entro il 21 novembre per sostituire Hamas nella distribuzione degli aiuti umanitari.
Sempre lunedì, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che guida il partito del Sionismo religioso, ha dichiarato ai giornalisti che le forze israeliane dovrebbero occupare l'intera parte settentrionale della Striscia fino al rilascio degli ostaggi.
Gerusalemme deve “far capire ad Hamas che se gli ostaggi non tornano, eserciteremo la nostra sovranità e resteremo lì per sempre”, ha detto, aggiungendo: “Allora Hamas avrà la motivazione per lasciarli vivere”.
Il 7 ottobre 2023, circa 1.200 ebrei israeliani sono stati uccisi da Hamas, altre migliaia sono stati feriti e altri 251 sono stati rapiti nella Striscia di Gaza. I colloqui indiretti tra Israele e Hamas, in cui Stati Uniti, Egitto e Qatar agiscono come mediatori, si trascinano da mesi.
La restituzione degli ostaggi, che sono ancora trattenuti dai terroristi di Hamas dopo 409 giorni, rimane “l'obiettivo più importante” nella guerra in corso, ha ribadito il Ministro della Difesa Israel Katz in una dichiarazione di domenica. (JNS)
(Israel Heute, 19 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Se Hezbollah bombarda l’Unifil è l’ora di sloggiare
di Dmitri Buffa
Il presidente argentino Javier Milei, che è il vero rappresentante di una destra liberista e libertaria, senza appesantimenti ideologici nazionalisti o post fascisti, l’antifona l’ha già capita: dal Libano per l’Unifil è l’ora di sloggiare. Si dirà: per lui è facile, aveva solo tre funzionari militari di numero e avevano le valigie già pronte. Ma se Hezbollah, in una mossa disperata e con l’intento di fare ricadere la colpa su Israele, continuasse a bombardare le strutture Onu, che difesa ci sarebbe da parte di questi soldati e soldatini, un po’ raccomandati e super stipendiati che per anni sono stati lì a fare le belle statuine mentre gli sciiti di Teheran si armavano fino ai denti? La risposta è semplice: nessuna difesa. Bisognerebbe estendere loro il sistema Iron Dome che nell’Alta Galilea e in Samaria sta salvando il salvabile all’interno dello Stato ebraico. Ma la cosa sembra altamente improbabile. Nel frattempo il contingente italiano in loco, tanto voluto a suo tempo da Massimo D’Alema come risoluzione propagandistica alle tensioni di quella Regione, comincia a capire cosa provano gli abitanti israeliani delle su menzionate aree ogni giorno che Dio manda in terra. La verità è che Hezbollah, se volesse, in pochi giorni massacrerebbe l’intero schieramento Unifil che non ha né armi né altre chance per difendersi. Nella guerra vera, quella seria non quella delle teorie delle accademie militari, i caschi blu dell’Onu sono sempre stati i primi a darsela a gambe: è successo ad esempio anche all’epoca dei massacri fra tutsi e hutu nella cosiddetta guerra dei grandi laghi nel centro dell’Africa. E se finora questo inutile se non dannoso contingente Unifil a trazione italiana aveva resistito senza perdite era perché, in nome e per conto del famigerato “lodo Moro” e delle sue estensioni all’estero, aveva fatto finta di niente voltandosi dall’altra parte quando vedeva gli Hezbollah piazzare i lanciamissili spesso a poche decine di metri dal fortino in cui è asserragliato. Si tratta allora di prendere una decisione pragmatica, da destra alla Milei e alla Donald Trump, non da missini sull’orlo di una crisi di nervi: andarsene subito dal Libano prima che il morto (o i morti) italiano ci scappi per davvero.
(l'Opinione, 20 novembre 2024)
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Aiuti umanitari per Gaza: saccheggiati 97 camion su 109
L'Institute for the Study of War sostiene che gli uomini armati appartenevano apparentemente a gruppi criminali organizzati che hanno sostituito le forze di polizia di Hamas in gran parte della Striscia di Gaza.
Secondo una dichiarazione dell’UNRWA, il 16 novembre gruppi di uomini armati hanno saccheggiato 97 dei 109 camion di aiuti umanitari entrati nel sud della Striscia di Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom. L’agenzia di stampa Reuters ha citato le parole di Louise Wateridge, rappresentante dell’UNRWA, la quale ha affermato che il convoglio trasportava cibo fornito dalle agenzie delle Nazioni Unite e che aveva ricevuto istruzioni da Israele di partire con breve preavviso per un percorso sconosciuto dal valico di frontiera di Kerem Shalom. Il convoglio è stato poi saccheggiato e alcuni trasportatori sono rimasti feriti durante l’incidente. In uno studio pubblicato dall’Institute for the Study of War (ISW) con sede a Washington, si sostiene che “non è chiaro se questi gruppi armati appartengano a qualche milizia palestinese, ma a quanto pare i gruppi armati facevano parte di gruppi criminali organizzati che hanno sostituito le forze di polizia di Hamas in gran parte della Striscia”. Il canale televisivo di Hamas Al-Aqsa ha affermato che dopo il saccheggio l’organizzazione terroristica ha condotto un’operazione congiunta con i clan locali, nella quale Hamas e i clan hanno ucciso 20 persone coinvolte nel saccheggio dei camion. Fonti del Ministero degli Interni di Hamas hanno detto a Sky News in arabo che “questa operazione non sarà l’ultima. Questo è l’inizio di un’operazione di sicurezza estesa che è stata pianificata da molto tempo e si espanderà per includere tutti coloro coinvolti nel furto dei camion degli aiuti”. Il War Research Institute ha osservato che “il fatto che Hamas sia stato costretto a cooperare con questi gruppi locali (per prendere il controllo dei saccheggiatori n.d.r.) indica che il controllo di Hamas sulla Striscia rimane debole”, e ha aggiunto che Hamas ha combattuto gruppi locali clan e gruppi criminali organizzati tenendoli al guinzaglio per molto tempo. L’Istituto ha citato le parole di un portavoce dell’UNRWA, il quale ha spiegato che ai convogli umanitari non è consentito avere guardie armate e che di solito cercano di viaggiare velocemente per evitare imboscate da parte di gruppi armati. L’analisi dell’Istituto ha rilevato che l’IDF ha recentemente adottato diverse misure per aumentare il flusso di aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza, compresi i piani per riaprire i valichi di frontiera e facilitare il passaggio dei camion degli aiuti verso il nord della Striscia di Gaza, anche se non accompagnano i convogli.
(Rights Reporter, 19 novembre 2024)
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Kibbutz Sasa colpito da Hezbollah, Angelica Calò Livne: Rimaniamo qui
di Daniel Reichel
Dal nord fino al centro d’Israele i razzi di Hezbollah continuano a provocare vittime e danni. Ieri sera a Shfaram, a est di Haifa, una donna di 50 anni, Safa Awwad, è stata uccisa dai missili dei terroristi libanesi. Nello stesso attacco una decina di persone sono rimaste ferite. Poco dopo a Ramat Gan, parte dell’area metropolitana di Tel Aviv, un edificio è stato distrutto. Questa mattina ancora razzi e allarmi al nord. A farne le spese, tra gli altri, il kibbutz Sasa, dove i razzi di Hezbollah hanno danneggiato la biblioteca, una parte del liceo e l’Auditorium. «Per fortuna non ci sono state vittime o feriti. Mio marito Yehuda è lì, io sono rimasta a dormire fuori, ma tra poco torno», racconta a Pagine Ebraiche Angelica Edna Calò Livne.
Sasa è quasi deserto perché la maggior parte dei residenti è stata evacuata. Angelica e Yehuda, responsabile della sicurezza, sono tra i pochi rimasti nel kibbutz. «Tutti vorrebbero tornare, ma devono esserci le condizioni. Deve essere garantita la sicurezza. Si sta parlando di un accordo imminente con il Libano e Hezbollah. Israele ha dato le sue indicazioni e il punto di partenza è la demilitarizzazione della zona a sud del fiume Litani (prossima al confine con Israele, ndr). Si parla di una presenza nell’area delle forze americane, può essere una soluzione, ma per noi è difficile fidarci».
Non c’è rassegnazione nel tono di Calò Livne. «Quella mai. Non lasceremo il campo alla malvagità e alla prepotenza dei terroristi». Ma ammette di porsi molti interrogativi sul futuro. «Noi stiamo a Sasa e ci rimarremo. Però mi chiedo: inviterò qui ancora i miei nipotini?». Racconta di aver ascoltato la notte prima la testimonianza di un 35enne che il 7 ottobre era a Nahal Oz, kibbutz al confine con Gaza e tra i più colpiti dalle stragi di Hamas. «Ha ricordato come il 6 ottobre fosse tutto pronto per festeggiare il giorno seguente il 70esimo anniversario dalla fondazione del kibbutz. Ha sottolineato come molti siano venuti da fuori per festeggiare insieme Simchat Torah e poi l’anniversario. Una cosa comune in tutti i kibbutz». Sarà ancora possibile? La domanda rimane strozzata in gola. «Finché non sarà tutto smilitarizzato è difficile immaginarlo. Hezbollah pensava di compiere un altro 7 ottobre al nord. Vogliamo essere sicuri che questo non possa mai accadere».
Intanto il conflitto continua. «È una situazione insopportabile, ogni giorno ci sono morti civili o tra i nostri soldati e gli ostaggi sono ancora lì, prigionieri a Gaza. Il governo deve fare di tutto per riportarli a casa, non possono passare lì un altro inverno. Non sopravviveranno. Devono essere la nostra priorità».
Dal kibbutz Sasa Calò Livne si sposta di frequente per tenere le sue lezioni in sviluppo del pensiero umanistico attraverso le arti del palcoscenico. «Sono otto ore di lezioni frontali a cui non rinuncio. Voglio che i miei studenti, soprattutto ora, escano con un po’ di respiro. Li vedo e leggo la loro difficoltà nel sopportare questa guerra. Tutti hanno un fratello, un parente, un amico, ucciso, rapito o che rischia la vita nell’esercito». Lavorare con loro è una gratificazione e permette di guardare avanti. Anche i riconoscimenti dall’estero aiutano a sentirsi utili. «La prossima settimana andremo con Yehuda in Sicilia perché mi hanno conferito il premio Pino Puglisi, prete che ha combattuto contro la mafia. Con tutte le notizie contro Israele, è bello sapere che c’è chi riconosce i tuoi sforzi. Io mi sono sempre impegnata per la pace e, nonostante tutto, continuerò a farlo».
(moked, 19 novembre 2024)
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Una sopravvissuta agli attacchi di Hamas si confronta con un attivista a Los Angeles
In un video recentemente pubblicato, l'ostaggio liberato Moran Stela Yanai racconta la sua storia e si confronta con un attivista filo-palestinese.
di Dov Eilon
Durante un dibattito a Los Angeles, nel giugno di quest'anno, Moran Stela Yanai, sopravvissuta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, ha raccontato le sue esperienze di prigionia e si è confrontata con l'attivista filopalestinese Aidan Dewolf, che aveva organizzato un campo di protesta all'UCLA (Università della California). All'evento hanno partecipato anche Mosab Hassan Yousef (“Il Principe Verde”) e il Prof. Dov Waxman, direttore del Centro di Studi su Israele Y&S Nazarian dell'UCLA. Il racconto di Moran Yanai, ripreso in un video recentemente pubblicato, ha fornito una visione della brutalità dell'organizzazione terroristica e ha portato a un intenso dibattito sulla giustificazione di tale violenza. Moran Stela Yanai, una designer di gioielli israeliana di 40 anni, è stata una dei tanti partecipanti al festival rapiti durante l'attacco al Nova festival vicino al Kibbutz Re'im. Durante la prigionia, i terroristi l'hanno scambiata per un soldato a causa del suo abbigliamento verde oliva. Ha riferito di essere stata trattata in modo particolarmente brutale a causa di questa supposizione. La sua famiglia è venuta a conoscenza del suo rapimento attraverso un video pubblicato dagli autori su TikTok, che mostrava Yanai come ostaggio. La nipote dodicenne l'ha riconosciuta dal video e ha informato la famiglia. Yanai ha trascorso 54 giorni di prigionia nella Striscia di Gaza prima di essere rilasciata il 29 novembre 2023 nell'ambito di un cessate il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas. Durante la prigionia, ha appreso dai suoi rapitori il vero piano dell'attacco del 7 ottobre. Secondo questo, Hamas aveva pianificato attacchi su larga scala contro città israeliane come Be'er Sheva, Tel Aviv e Haifa. L'obiettivo era quello di uccidere il maggior numero possibile di civili e di provocare il caos. All'inizio dell'attacco, i terroristi non avrebbero saputo del festival musicale di Nova, che contava circa 3.000 visitatori. Durante il dibattito, Yanai si è rivolta direttamente ad Aidan Dewolf chiedendogli come potesse giustificare le azioni di Hamas alla luce del suo racconto. Dewolf è stato visibilmente messo sotto pressione dalle sue descrizioni dettagliate ed emotive. Ha eluso le domande e ha cercato di indirizzare la discussione verso questioni politiche più generali. Il video dell'evento mostra come abbia reagito in modo visibilmente imbarazzato, evitando di rispondere alle accuse specifiche contro Hamas. Il video dell'evento, che è diventato rapidamente virale sui social media, mostra le tensioni che possono sorgere tra i destini individuali delle vittime come Yanai e le posizioni politiche di attivisti come Dewolf. Mentre Yanai ha descritto le sue esperienze in modo chiaro e oggettivo, Dewolf ha cercato di spostare la discussione su un piano più ampio, che molti osservatori hanno trovato evasivo. La reazione al dibattito è stata enorme. I racconti di Yanai sono stati ampiamente elogiati per aver messo in luce le conseguenze umane della violenza di Hamas. Le reazioni di Dewolf, invece, sono state controverse e sia la sua posizione che le sue argomentazioni sono state messe in discussione. La partecipazione di Yanai al dibattito e le sue testimonianze dirette hanno fornito una visione potente dell'impatto personale del conflitto e delle sfide che sia le vittime della violenza sia gli attivisti politici devono affrontare nel dibattito pubblico. Dopo il suo rilascio e un lungo processo di riabilitazione, Moran Yanai è tornata nella sua città natale, Beersheva.
(Israel Heute, 19 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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I ministri degli esteri europei rifiutano di interrompere il dialogo politico con Israele
di Anna Coen
Lunedì 18 novembre i ministri degli Esteri dell’Unione Europea non hanno appoggiato la proposta del capo della politica estera uscente del blocco di sospendere il dialogo politico regolare con Israele in risposta alla campagna militare in corso dello Stato ebraico contro il gruppo terroristico palestinese Hamas a Gaza. Come riporta il sito Algemeiner, la scorsa settimana il diplomatico di punta dell’UE Josep Borrell aveva proposto la sospensione del dialogo in una lettera ai ministri degli Esteri del blocco in vista della loro riunione di lunedì a Bruxelles, citando “serie preoccupazioni per le possibili violazioni del diritto umanitario internazionale a Gaza”, l’enclave palestinese governata da Hamas. Ha anche scritto: “Finora, queste preoccupazioni non sono state sufficientemente affrontate da Israele”. La proposta è stata accolta da un’ampia resistenza, con diversi ministri che hanno espresso il loro sostegno alla posizione di Israele o hanno sostenuto che interrompere il dialogo con lo Stato ebraico sarebbe controproducente. “Sappiamo che ci sono eventi tragici a Gaza, enormi vittime civili, ma non dimentichiamo chi ha iniziato l’attuale ciclo di violenza”, ha dichiarato il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski ai giornalisti dopo l’incontro di lunedì a Bruxelles, riferendosi al fatto che Hamas ha iniziato il conflitto con l’invasione del sud di Israele lo scorso 7 ottobre. “E posso dirvi che non c’è stato alcun accordo sull’idea di sospendere i negoziati con Israele”. I dialoghi regolari che Borrell ha cercato di interrompere sono stati sanciti da un accordo più ampio sulle relazioni tra l’UE e Israele, che comprende anche ampi legami commerciali, attuato nel 2000. “Alla luce di queste considerazioni, presenterò una proposta che prevede che l’UE invochi la clausola sui diritti umani per sospendere il dialogo politico con Israele”, ha scritto Borrell la scorsa settimana. Una sospensione richiede l’approvazione di tutti i 27 Paesi dell’UE, un risultato improbabile fin dall’inizio. Il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock ha respinto pubblicamente la proposta giovedì scorso. “Siamo sempre favorevoli a mantenere aperti i canali di dialogo. Naturalmente, questo vale anche per Israele”, ha dichiarato il Ministero degli Esteri tedesco in merito ai piani di Borrell. Il Ministero degli Esteri ha aggiunto che, mentre le conversazioni politiche nell’ambito del Consiglio di Associazione UE-Israele forniscono un’opportunità regolare per rafforzare le relazioni e, negli ultimi mesi, discutere la fornitura di aiuti umanitari a Gaza, interrompere questo meccanismo avrebbe poco senso. “L’interruzione del dialogo, tuttavia, non aiuterà nessuno, né le persone che soffrono a Gaza, né gli ostaggi che sono ancora trattenuti da Hamas, né tutti coloro che in Israele sono impegnati nel dialogo”, ha continuato la dichiarazione. Anche il ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp ha dichiarato di non essere d’accordo con la proposta e che l’UE deve continuare il dialogo diplomatico con Israele. “A quanto pare, l’alto rappresentante [Borrell] fa una svolta di 180 gradi. Non riesco a comprenderlo appieno”, ha dichiarato Veldkamp ai giornalisti a Bruxelles. “Secondo i Paesi Bassi, questa porta dovrebbe essere mantenuta aperta e dovremmo avviare una discussione con i ministri israeliani. Presto ci sarà un nuovo alto rappresentante. Sfruttiamo queste opportunità per avviare un dialogo, perché c’è molto da discutere, compresa la catastrofica situazione umanitaria della Striscia di Gaza”. Borrel, il cui titolo formale è Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, lascerà presto la sua posizione, poiché il suo mandato quinquennale come capo della politica estera dell’UE scadrà il mese prossimo. Il suo successore è l’ex primo ministro estone Kaja Kallas.
• L’UE E LA GUERRA A GAZA L’UE è stata divisa su come affrontare la guerra a Gaza. Mentre alcuni Paesi membri, come la Spagna e l’Irlanda, hanno criticato aspramente Israele dallo scoppio del conflitto, chiedendo al blocco di rivedere e persino sospendere l’accordo di libero scambio con Israele, altri sono stati più favorevoli. Per esempio, l’Ungheria, l’Austria e la Repubblica Ceca hanno finora sostenuto ampiamente gli sforzi militari di Israele. “La maggior parte degli Stati membri ha ritenuto che fosse molto meglio continuare ad avere relazioni diplomatiche e politiche con Israele”, ha dichiarato Borrell in una conferenza stampa dopo l’incontro di lunedì -. Ma almeno ho messo sul tavolo tutte le informazioni prodotte dalle organizzazioni delle Nazioni Unite e da tutte le organizzazioni internazionali che lavorano a Gaza e in Cisgiordania e in Libano per giudicare il modo in cui la guerra viene condotta”, ha aggiunto. In precedenza, Borrell aveva detto di non avere “più parole” per descrivere la situazione in Medio Oriente, prima di presiedere la sua ultima riunione programmata dei ministri degli Esteri del blocco. Israele afferma di aver compiuto sforzi senza precedenti per cercare di evitare vittime tra i civili, sottolineando i suoi sforzi per evacuare le aree prima di prenderle di mira e per avvertire i residenti delle imminenti operazioni militari con volantini, messaggi di testo e altre forme di comunicazione. Tuttavia, in molti casi Hamas ha impedito alla popolazione di andarsene, secondo i militari israeliani. Un’altra sfida per Israele è la strategia militare di Hamas, ampiamente riconosciuta, che consiste nel radicare i suoi terroristi all’interno della popolazione civile di Gaza e nel requisire strutture civili come ospedali, scuole e moschee per condurre operazioni, dirigere attacchi e conservare armi. L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Danny Danon ha dichiarato il mese scorso che Israele ha consegnato a Gaza oltre 1 milione di tonnellate di aiuti, tra cui 700.000 tonnellate di cibo, da quando ha lanciato la sua operazione militare un anno fa. Ha anche osservato che i terroristi di Hamas spesso dirottano e rubano le spedizioni di aiuti mentre i palestinesi soffrono. Nelle ultime settimane, il governo israeliano ha aumentato la fornitura di aiuti umanitari a Gaza su pressione degli Stati Uniti, che hanno espresso preoccupazione per le condizioni dei civili nell’enclave devastata dalla guerra. Tuttavia, Borrell ha dichiarato, prima dell’incontro, che la sua proposta intendeva esercitare pressioni sul governo israeliano dopo che questo, a suo avviso, aveva ignorato diversi appelli ad aderire al diritto internazionale nella guerra di Gaza. “Molte persone hanno cercato di fermare la guerra a Gaza… questo non è ancora successo. E non vedo la speranza che ciò accada. Ecco perché dobbiamo fare pressione sul governo israeliano e anche, ovviamente, sulla parte di Hamas”, ha detto Borrell, senza menzionare il rifiuto di Hamas alle recenti proposte di cessate il fuoco.
• BORRELL IL PIÙ INFLESSIBILE CONTRO ISRAELE Nell’ultimo anno Borrell è stato uno dei critici più espliciti dell’UE nei confronti di Israele. Solo sei settimane dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, parlando al Parlamento europeo ha tracciato un’equivalenza morale tra Israele e il gruppo terroristico, accusando entrambi di aver compiuto “massacri” e insistendo sul fatto che è possibile criticare le azioni israeliane “senza essere accusati di non amare gli ebrei”. Il discorso di Borrell ha fatto seguito alla visita in Medio Oriente della settimana precedente. Mentre si trovava in Israele, ha pronunciato quello che il quotidiano spagnolo El Pais ha descritto come il “messaggio più critico ascoltato finora da un rappresentante dell’Unione Europea riguardo alla risposta di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre”. “Non lontano da qui c’è Gaza. Un orrore non ne giustifica un altro”, ha detto Borrell in una conferenza stampa congiunta con l’allora ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen. “Capisco la vostra rabbia. Ma permettetemi di chiedervi di non lasciarvi consumare dalla rabbia. Credo che questo sia ciò che i migliori amici di Israele possono dirvi, perché ciò che fa la differenza tra una società civile e un gruppo terroristico è il rispetto per la vita umana. Tutte le vite umane hanno lo stesso valore”. Mesi dopo, nel marzo di quest’anno, Borrell ha affermato che Israele stava imponendo una carestia ai civili palestinesi di Gaza e che usava la fame come arma di guerra. I suoi commenti sono arrivati pochi mesi prima che il Comitato di revisione della carestia delle Nazioni Unite (FRC), un gruppo di esperti in sicurezza alimentare e nutrizione internazionale, respingesse l’affermazione che il nord di Gaza stesse vivendo una carestia, citando una mancanza di prove. I commenti di Borrell hanno suscitato l’indignazione di Israele. In agosto, Borrell ha spinto gli Stati membri dell’UE a imporre sanzioni ad alcuni ministri israeliani. Lunedì, oltre alla sua spinta a sospendere il dialogo UE-Israele, Borrell ha anche cercato di introdurre un divieto sull’importazione di prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nei “territori palestinesi occupati secondo le regole della Corte internazionale di giustizia”. Per queste posizioni, nel giugno di quest’anno, i leader dell’ebraismo europeo hanno accusato Borrell di aggravare il problema dell’antisemitismo criticando eccessivamente Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 19 novembre 2024)
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Il Papa e il “genocidio”, un pregiudizio cristiano
di Ugo Volli
Il mondo ebraico è stato profondamente colpito e deluso dalla frase dell’ultimo libro di Papa Francesco anticipata dalla Stampa per cui bisognerebbe «indagare» se l’azione militare israeliana a Gaza costituisca un «genocidio». Non si tratta di un’accusa diretta bensì di un interrogativo; ma l’accostamento fra Israele e genocidio per bocca di una autorità spirituale come quella del Papa e non solo degli estremisti filoterroristi e antisemiti suscita indignazione e sconcerto. «Genocidio» è il concetto proposto dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin per definire il tentativo nazista di eliminare il popolo ebraico. Vedersi ribaltare addosso questa accusa da chi governa oggi un’istituzione, la Chiesa, che ha dovuto riconoscere di aver ingiustamente perseguitato gli ebrei per molti secoli e la cui azione durante il genocidio nazista è ancora oggetto di dubbi e polemiche storiche, aumenta ancora la delusione ebraica: come se gli ultimi decenni di dialogo fossero cancellati e tornasse in azione l’antico antigiudaismo cristiano. Nel merito l’accusa è del tutto infondata: Per genocidio, secondo la definizione dell’Onu, si intendono «gli atti commessi con l’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Che vi sia da parte di Israele «l’intenzione di distruggere» i palestinesi è un’affermazione insensata. La popolazione palestinese residente, secondo le dichiarazioni dello «Stato di Palestina» era nel 2023 di 5. 483. 000 persone, di cui circa 1, 8 milioni a Gaza con una crescita annua intorno al 3, 3% (180. 000 persone), che non è diminuita quest’anno. Secondo i numeri di Hamas in tredici mesi di guerra sono morte 43. 000 persone (ma Israele contesta queste cifre e l’Onu dice di averne potuto accertare solo 8. 500). Si tratterebbe comunque di meno dell’un per cento della popolazione, un quarto della crescita demografica annuale. Sono numeri che dimostrano in maniera chiarissima che Israele, lungi dal voler «distruggere» la popolazione civile, ha cercato come poteva di tutelarla, annunciando in anticipo e dettagliatamente le zone sottoposte ad offensiva, indicando vie di fuga e luoghi sicuri, introducendo centinaia di camion di rifornimenti al giorno, anche con la consapevolezza che i terroristi si sarebbero impadroniti della maggior parte di questi aiuti per usarli a loro vantaggio. Non è mai esistita nella storia una guerra in cui un esercito si facesse carico in maniera simile della necessità di salvaguardare nei limiti del possibile la popolazione civile. Il fatto è che questa è una guerra, e di tipo asimmetrico che rende difficilissima l’azione militare: i terroristi si mimetizzano fra la popolazione civile, non portano uniformi e hanno costruito le fortificazioni da cui sparano sotto ospedali, scuole e moschee. È una guerra che Israele non desiderava e che l’ha colto di sorpresa e chiaramente impreparato: il 7 ottobre 2023, quando i terroristi irruppero nel territorio israeliano, uccidendo più di 1200 persone, rapendone più di 200, violentando, bruciando vivi vecchi e bambini, sparando 5000 missili sulle città, le difese intorno a Gaza erano deboli, perché Israele non credeva a una guerra. Essa invece era stata preparata e progettata per anni dall’Iran e dai suoi satelliti, accumulando quantità enormi di armi offensive. Finora su Israele sono piovuti circa 40 mila missili, partiti da Gaza, Siria, Libano, Yemen, Iraq, Iran. Hanno fatto un numero limitato di vittime, perché Israele ha investito molte risorse nella difesa dei civili, con rifugi e sistemi antimissile. Parlare di genocidio o anche solo di sproporzione militare significa ignorare che vi è una volontà esplicita e dichiarata di Hamas, Hezbollah, ma anche dell’Iran, di distruggere lo Stato ebraico e di sterminare i suoi cittadini. Di fronte a questa minaccia non solo proclamata, ma portata all’azione concreta da sette fronti, lo Stato di Israele ha il dovere di difendere l’incolumità dei suoi cittadini eliminando la forza militare e l’organizzazione politica dei terroristi. Un modo per fermare i combattimenti e le morti c’è ed è facile: basterebbe che i terroristi restituissero le persone che hanno rapito, consegnassero le armi e si arrendessero. Israele ha garantito di recente vie d’uscita sicure a chi lo facesse. Ma non ha ricevuto risposta. Se si continua a morire a Gaza, la responsabilità è di Hamas e dell’Iran.
(La Stampa, 19 novembre 2024)
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Che il mondo ebraico sia “profondamente colpito” da quello che ha detto Bergoglio è comprensibile, ma che sia anche “deluso” dovrebbe sorprendere. Ma che cosa speravano gli ebrei dalla CCR (Chiesa Cattolica Romana)? e in particolare da quel personaggio che all’interno stesso della CCR viene considerato espressione della cosiddetta “mafia di Sangallo”. L’istituzione papale, che nel passato ha perseguitato non solo gli ebrei ma anche tanti cristiani classificati come “eretici”, oggi si sta accartocciando su se stessa, in preda a furiose convulsioni interne. Non vale la pena di prenderla seriamente in considerazione. Quanto ai
rapporti di Bergoglio con gli ebrei...
M.C.
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Gal Gadot in giro per Londra per un nuovo film
La superstar israeliana del cinema Gal Gadot sta per assumere il ruolo di protagonista in un nuovo thriller d'azione per Amazon. I precedenti cast dell'attrice israeliana hanno spesso causato proteste in passato.
di Jörn Schumacher
Gal Gadot si sta muovendo: La superstar israeliana di Hollywood avrà il ruolo principale nel nuovo thriller d'azione “The Runner”. Come riporta la testata americana “Deadline”, nel film la Gadot interpreta un avvocato di alto profilo che deve correre per Londra seguendo gli ordini criptici di un misterioso interlocutore mentre lotta contro il tempo per salvare il figlio rapito. Il film è prodotto da Amazon. Gadot è diventata famosa a livello internazionale per il suo ruolo di protagonista di “Wonder Woman” e per la sua partecipazione alla serie “Fast & Furious”. I suoi film più recenti includono “Red Notice” e “Heart of Stone” di Netflix. Gadot sarà nelle sale tedesche dal 20 marzo 2025 nel ruolo della regina cattiva nel film live-action della Disney “Biancaneve”. La madre, sposata con quattro figlie, è cintura nera di karate e pratica arti marziali come il Krav Maga. Pochi giorni prima dell'annuncio, l'attrice ha postato sul suo account Instagram un video che la mostra mentre inizia a correre con un allenatore. Presumibilmente si sta mettendo in forma per il suo nuovo ruolo. Gadot ha ammesso che la corsa è l'unico esercizio che non le piace.
• L’ISRAELIANA GADOT È SPESSO DIVENTATA UN FATTO POLITICO
Gadot è diventata una star internazionale come “Wonder Woman” e allo stesso tempo una sorta di ambasciatrice di Israele nel mondo. Lei stessa ha dichiarato: “Voglio che la gente abbia una buona impressione di Israele. Non mi sento un'ambasciatrice del mio Paese, ma parlo molto di Israele: sono felice di dire alla gente da dove vengo”. All'età di 20 anni, Gadot è stata arruolata nelle Forze di Difesa israeliane come istruttrice di combattimento. L'attraente ex “Miss Israele” è nata nello Stato ebraico ed è nipote di sopravvissuti all'Olocausto. Suo nonno è sopravvissuto dopo essere stato imprigionato nel campo di concentramento di Auschwitz, mentre sua nonna è riuscita a fuggire dall'Europa prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Nel 2017, Gadot è stata eletta attrice più popolare dell'anno dalla rivista “The Hollywood Reporter”, sulla base dei commenti degli spettatori sui social network. Nel giugno 2023, la Camera di Commercio di Hollywood ha annunciato che Gadot riceverà una stella sulla Hollywood Walk of Fame. Questo la rende la prima persona di origine israeliana a ricevere questo onore. Il fatto che Gadot sia israeliana ed ebrea ha spesso portato a controversie politiche e proteste; l'attrice stessa ha anche regolarmente reso pubbliche le sue opinioni su questioni politiche e sociali. Quando Gadot avrebbe dovuto sostituire Elizabeth Taylor nel ruolo di Cleopatra sul grande schermo, molte persone sui social media hanno reagito con derisione: una donna ebrea “bianca” non avrebbe dovuto interpretare un'egiziana. In seguito ai brutali attacchi contro Israele da parte del gruppo terroristico Hamas, l'attrice israeliana ha chiesto di sostenere lo Stato ebraico nel 2023: “Io sto dalla parte di Israele, e anche voi dovreste farlo”, ha scritto su Instagram. Poiché l'attrice israeliana recita nel film Disney “Biancaneve”, sono state lanciate richieste di boicottaggio preventivo: La “Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele” (PACBI), che fa parte del movimento “Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” (BDS), ha invitato a boicottare il film il giorno X.
• REGISTA CON ANTENATI EBREI Kevin Macdonalds dirigerà il suo nuovo film “The Runner”. È nipote del regista ebreo Emeric Pressburger, che ha realizzato classici del cinema come “Vita e morte del colonnello Blimp”, “L'errore nell'aldilà” e “Le scarpe rosse”. Il regista di origine scozzese non è solo autore di lungometraggi di successo come “L'ultimo re di Scozia”, ma in passato si è anche dedicato alla realizzazione di documentari. Nel 2000, ad esempio, ha vinto l'Oscar per il film “One Day in September” nella categoria “Miglior documentario”. Il film tratta della presa in ostaggio degli atleti israeliani alle Olimpiadi estive del 1972 a Monaco da parte del gruppo terroristico palestinese “Settembre Nero”. Nel suo documentario “The Making of an Englishman” (1995), Macdonalds è andato alla ricerca di indizi e si è concentrato su suo nonno, lo sceneggiatore premio Oscar Emeric Pressburger. Pressburger, che era ebreo, lavorò per gli studi UFA di Berlino, ma fuggì a Parigi quando i nazisti presero il potere. Nel 2007, Macdonalds ha realizzato un documentario sul criminale di guerra nazista Klaus Barbie, capo della Gestapo di Lione e noto come il “Macellaio di Lione”. Nel 2018, lo scozzese ha realizzato il documentario “Whitney” sulla cantante Whitney Houston.
(Israelnetz, 18 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Operatori sociali ultraortodossi curano i traumi della guerra
“Il mio compito è garantire che non ci sia una seconda generazione che soffra per le conseguenze del 7 ottobre”, afferma Pinchas Weiss, direttore fondatore di una ONG che inizialmente si rivolgeva agli ultraortodossi.
di Etgar Lefkovits
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Pinchas Weiss, fondatore e direttore della ONG Mivtach di Gerusalemme
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Tre giorni dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, una donna israeliana il cui fratello era stato ucciso nell'attacco terroristico transfrontaliero a sorpresa parlò con un'assistente sociale di come poterne parlare con i suoi genitori.
Alla fine della conversazione, la donna chiese casualmente all'assistente sociale da dove venisse.
La sua risposta la sorprese: Beitar Illit, una comunità ultraortodossa a sud-ovest di Gerusalemme, nel Gush Etzion.
“Non è una città ultraortodossa?”, ha chiesto, ammettendo che per lei, che proviene da un ambiente molto liberale, le possibilità di conversare con un ultraortodosso - per non parlare di ricevere aiuto da lui - erano “vicine allo zero”.
D'altra parte, non capita tutti i giorni che una ONG creata esclusivamente per il settore ultraortodosso faccia un'inversione di rotta e decida di concentrarsi sull'aiuto al grande pubblico, a volte anche gratuitamente.
Ma questo è esattamente ciò che Pinchas Weiss, il 35enne direttore fondatore di Mivtach con sede a Gerusalemme, ha deciso di fare dopo il massacro del 7 ottobre. Per lui, la mossa è stata più di un semplice superamento di un soffitto di vetro; è stato il suo modo di chiudere un capitolo familiare personale e un trauma derivante dall'Olocausto.
• UN PAESE TRAUMATIZZATO
“Il 7 ottobre ha innescato qualcosa che dimostra la necessità di creare unità e coesione come nazione, sia in Israele che nella diaspora”, ha spiegato Weiss in un'intervista rilasciata al JNS presso gli uffici dell'organizzazione a Gerusalemme la scorsa settimana.
“Non c'è dubbio che per anni avremo a che fare con decine di migliaia di persone che avranno bisogno di essere curate per i traumi diretti e indiretti causati dalla guerra”, ha detto Weiss. “Credo che continueremo ad essere un Paese traumatizzato per diversi anni dopo la fine della guerra”.
Nell'ultimo anno, Weiss e il suo staff di 12 persone hanno fornito consulenza a persone direttamente traumatizzate, compresi i familiari in lutto e le famiglie dei sopravvissuti, nonché ai bambini indirettamente traumatizzati che hanno paura di uscire a causa della guerra.
Alcune cicatrici sono molto profonde.
Un diciannovenne che è stato aggredito sessualmente durante l'attacco e che Weiss aveva chiesto di curare per volere dei genitori del giovane, ha tentato il suicidio ed è ora ricoverato in un ospedale psichiatrico. Il mese scorso, una 22enne sopravvissuta al massacro al festival musicale Nova, vicino al Kibbutz Re'im, si è suicidata dopo una battaglia di un anno contro il disturbo da stress post-traumatico.
“Ci sarà lavoro per gli anni a venire”, ha detto Shraga Weiss, 31 anni, assistente sociale di Gerusalemme. "In fin dei conti, questa è una ONG Haredi [ultraortodossa], ma il nostro obiettivo è la professionalità. Ogni persona viene con i suoi problemi e noi la aiutiamo a risolverli, indipendentemente da chi sia”.
• “QUALCOSA CHE DEVE ESSERE FATTO”
L'ufficiale di polizia israeliano Shmuel Ashkenazi, che ha prestato servizio nelle riserve per quasi quattro mesi dopo l'inizio della guerra e ha diretto il centro che ha cercato i corpi di 1600 terroristi, ha detto a JNS di essere entrato in contatto con Pinchas quando si è reso conto, dopo circa un mese di servizio nella riserva, di essere facilmente agitato e stressato.
“Mi ha fatto capire che era qualcosa che andava affrontato e che non dovevo metterlo da parte”, ha detto Ashkenazi.
Alla fine gli è stata diagnosticata la sindrome da stress post-traumatico (PTSD) ed è stato indirizzato a un trattamento.
“Il 7 ottobre ha dimostrato a questa ONG che non esiste una cosa come ‘solo gli ultraortodossi’”, dice Ashkenazi.
Mivtach, il cui bilancio è finanziato da donazioni dall'estero, prevede di aprire quest'inverno un corso che combina EMDR (Eye Movement Desensitisation and Reprocessing) e terapia di gruppo per altri 50 operatori sociali.
• LA STORIA DELLA FAMIGLIA
La decisione di Pinchas di impegnarsi nel lavoro sociale ha a che fare con la sua storia personale.
Una decina di anni e mezzo fa, dopo essersi consultato e con la benedizione del suo rabbino, abbandonò gli studi di ingegneria elettronica e si iscrisse all'Università Bar-Ilan per studiare lavoro sociale, trasferendosi poi all'Università di Haifa (“sarà un bene per te e per il popolo di Israele”, aveva detto il rabbino). In un corso gestito dall'organizzazione umanitaria ebraica The Joint , era l'unico ultraortodosso della classe, racconta.
Da allora, si è abituato alla sorpresa che alcune persone in Israele mostrano quando incontrano un assistente sociale ultraortodosso.
“Mi rattrista che sia stata la morte a farci incontrare”, ha detto del suo incontro con la donna poco dopo il 7 ottobre.
I nonni di Weiss erano dei sopravvissuti all'Olocausto provenienti dall'Ungheria, le cui intere famiglie sono state uccise dai nazisti.
“Sono stati in grado di costruire una nuova generazione, ma l'unica cosa per cui non sono mai stati curati è il loro trauma, che hanno trasmesso alla generazione successiva”, ha spiegato Weiss. “Il mio lavoro consiste nel fare in modo che non ci sia una seconda generazione che subisca le conseguenze del 7 ottobre”.
(Israel Heute, 18 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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«Occupazione, l’elefante nella stanza di Israele»
Il recente libro di Anna Foa, “Il suicidio di Israele”, potrebbe essere accostato a un altro libro di una ventina d’anni fa dal titolo simile: “La fine di Israele”, di Furio Colombo, ex direttore nei primi anni duemila del giornale “l’Unità”. Stessa provenienza politica degli autori: ebraismo di sinistra; stesso sguardo pessimistico sul futuro di Israele causato dalla politica dei suoi governanti. Due giorni fa su “La Stampa” è uscita quella che Emanuel Segre Amar definisce “un’ orribile recensione dell’altrettanto orribile libro di Anna Foa, a firma di Bruno Montesano” . Riportiamo la recensione di Montesano e il commento che ha voluto trasmetterci Segre Amar. NsI
di Bruno Montesano
Anna Foa si colloca in una posizione scomoda ma comune a diversi ebrei critici, spesso isolati dalle proprie comunità e visti con sospetto da parte della sinistra più intransigente. Ne Il suicidio di Israele, pubblicato da Laterza, Foa, oltre a denunciare i crimini contro l’umanità a Gaza e del 7 ottobre, compie degli affondi anche sulla dubbia amicizia tra destra postfascista ed ebrei: se ad El Alamein gli italiani non fossero stati sconfitti, gli ebrei in Palestina sarebbero stati massacrati. Il governo Meloni cade quindi in “contraddizione” quando celebra i coraggiosi di El Alamein e mostra amicizia al popolo ebraico.
Foa affronta poi i luoghi comuni più diffusi e scarta rispetto all’ingiunzione per cui «Israele non si critica, si ama». Prima del 7 ottobre Israele era attraversata da imponenti manifestazioni contro l’ulteriore torsione autoritaria di Netanyahu. Ma c’era un “elefante nella stanza”: la mancata richiesta della fine dell’illiberale occupazione della Cisgiordania. Con l’inizio della guerra, Israele è ulteriormente scivolata a destra, verso il suicidio. E mentre l’antisemitismo – che pure non è affatto paragonabile a quello degli anni ’30 - andava montando, la diaspora ha taciuto.
Nella via stretta tra le violenze di Hamas e Netanyahu, bisogna quindi tornare, ancora una volta, sulla storia di quel piccolo lembo di terra che alcuni chiamano Palestina e altri Israele e sgomberare il campo da pregiudizi e semplificazioni, ad esempio sul sionismo.
«Il sionismo non è né una risposta all’emancipazione né una risposta al suo rifiuto. È molte ideologie insieme, molti progetti diversi». Il luogo dove insediare gli ebrei era infatti oggetto di dibattito tra territorialisti – che proposero l’Argentina prima e l’Uganda poi – e culturalisti – che vedevano nella Palestina il territorio dove rinnovare la vita spirituale degli ebrei. La tesi della “terra senza popolo per un popolo senza terra” era meno diffusa di quanto si pensi. Inoltre, fino a metà anni ’30 molti sionisti volevano uno stato binazionale. In questo senso, un'altra falsità che spesso si sente anche tra persone progressiste è che i palestinesi, prima del sionismo, non avessero ancora un’identità nazionale definita.
Tuttavia, il rapporto tra ebrei e palestinesi, da pacifico che era, a inizio ‘900, assunse presto la forma dello “scontro culturale”: da un lato i palestinesi erano ostili a modi di vita “altri” rispetto ai propri, dall’altro gli ebrei socialisti dei kibbutzim espulsero i lavoratori arabi.
Rispetto alla dibattuta questione su se il sionismo sia un movimento nazionalista o coloniale, Foa scrive che, fino al ’48, rispetto ad altri casi di settler colonialism, colonialismo d’insediamento, l’assenza di uno stato nazione dietro al movimento e la mancata colonizzazione in armi della Palestina costituiscano delle differenze inaggirabili. C’era però un’idea di superiorità culturale europea. Ad ogni modo, dopo la Nakba, secondo Foa, il sionismo cambia e Israele scivola più compiutamente verso il colonialismo di insediamento. Che subisce un’ulteriore torsione con la guerra del ’67. Dopo quella data, infatti, anche i laburisti favorirono la colonizzazione della Cisgiordania. E, oggi, il governo e l’esercito appoggiano pogrom contro i palestinesi.
Si potrebbe qui obiettare a Foa che molte colonizzazioni di insediamento siano passate per la coercizione economica: l’imposizione dei diritti di proprietà su una terra altrui regolata da un diritto diverso. Inoltre, sul problema dell’apartheid, e sulla dimensione giuridica della discriminazione contro i palestinesi, a cui Foa accenna brevemente, è molto utile la ricerca di Enrico Campelli, Prove di convivenza (Giuntina 2022).
Ad ogni modo, Foa chiude questo magistrale saggio abbracciando la prospettiva post-sionista: Israele ha svolto il suo compito e deve diventare qualcos’altro. Il superamento del dilemma tra stato ebraico e stato democratico sta nel fatto che i cittadini vengano, finalmente, riconosciuti come “liberi e uguali nella loro diversità”. E, se è vero che il sionismo prima del ’48 non era esclusivamente un movimento razzista, bisogna comunque riconoscere la sofferenza che da allora ha inflitto ai palestinesi. Solo così, uniti da trauma, esilio e sofferenza, ebrei e palestinesi potrebbero convivere.
(La Stampa, 16 novembre 2024)
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Commento di Emanuel Segre Amar:
Tra le gravità di questo articolo, uno dei tanti scritti a pubblicizzare al massimo l’ultimo libro di una persona che odia lo Stato di Israele (basterebbe il titolo, anche se è scritto in modo nascosto, a comprenderlo), sottolineo, nell’ordine:
- “Nella via stretta tra le violenze di Hamas e di Netanyahu” Montesano paragona un feroce terrorista ad un primo ministro eletto di una nazione democratica.
- Per l’autore sarebbe “una falsità che i palestinesi, prima del sionismo, non avessero ancora un’identità nazionale definita”, ma si guarda bene dallo spiegarlo, non potendo farlo.
“Il rapporto tra ebrei e palestinesi, da pacifico che era, a inizio ‘900…”; evidentemente Montesano non conosce la storia dei pogrom che afflissero gli ebrei di Hebron nel 1775 e di Safed nel 1799, 1834 e 1838, e potrei continuare.
“Imposizione dei diritti di proprietà su una terra altrui”: era tradizionalmente terra di proprietà di latifondisti turchi e siriani che vendettero regolarmente ad acquirenti ebrei secondo il diritto ottomano
Il peggio sta però in: “se è vero che il sionismo, prima del ‘48 non era esclusivamente un movimento razzista…”; qui Foa e Montesano, oltre a dimenticare le parole del Presidente Napolitano che affermò che l’anti-sionismo nega le ragioni della nascita, ieri, e della sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano alla guida di Israele”, girano attorno alla Risoluzione dell’ONU 3379 che definì il sionismo una forma di razzismo, Risoluzione poi annullata nel 1991.
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Per la prima volta le soldatesse dell’IDF entrano in Libano
di Michelle Zarfati
Per la prima volta nella storia militare di Israele, le donne soldato sono entrate in Libano come parte di una missione operativa. Il capo del Comando Nord, il magg. Ori Gordin ha approvato il dispiegamento di una squadra del battaglione di intelligence da combattimento nel sud del Libano diverse settimane fa.
Dall’inizio della guerra, la squadra di intelligence da combattimento, composta da soldatesse, era stata di stanza vicino al confine siriano e nella regione del Monte Dov. I loro compiti includevano la raccolta di informazioni, l’identificazione di agenti terroristici, la creazione di elenchi di obiettivi e la direzione del fuoco da parte delle forze di terra e aeree per neutralizzare le minacce e smantellare le infrastrutture terroristiche. Il caporale Tehila, 21 anni, una soldatessa del Battaglione “Aquila”, ha descritto la sua esperienza in diverse operazioni, tra cui l’identificazione di individui legati ad attività terroristiche. “Libano meridionale? Siamo entrati a piedi. Quanto peso abbiamo trasportato? Troppo”, ha detto sorridendo. “Circa il 40% del nostro peso corporeo. Ci stavamo preparando per una lunga imboscata”.
Il caporale Shani, 20 anni, ha spiegato la logistica della missione: “Abbiamo camminato per circa 1,5 chilometri in Libano, stabilito una posizione sul campo, mantenuto il camuffamento e iniziato la raccolta di informazioni utilizzando strumenti di osservazione. Operativamente, siamo entrati in aree non toccate dalle forze israeliane dalla seconda guerra del Libano”. I soldati hanno rivelato che la missione ha scoperto preziose informazioni sui siti dei missili anticarro, sugli edifici utilizzati da Hezbollah e sulle posizioni precise degli obiettivi – ha spiegato la soldatessa – In un caso, abbiamo guidato il fuoco dei carri armati in base alle nostre fotografie. Le immagini che abbiamo catturato incriminavano direttamente Hezbollah, mostrando le loro armi all’interno di case e villaggi. Più tardi, gli elicotteri d’attacco hanno colpito quegli obiettivi”, ha detto il caporale Shani.
La squadra inizialmente aveva pianificato di rimanere dietro le linee nemiche per oltre 24 ore vicino a un villaggio con note attività di Hezbollah. Tuttavia, un incendio inaspettato è scoppiato nella zona, costringendoli all’evacuazione dopo 12 ore. “La ritirata attraverso una fitta vegetazione è stata molto impegnativa”, hanno osservato. Riflettendo sulla missione, le soldatesse hanno detto che il loro obiettivo era interamente quello di nascondere la loro posizione e raccogliere informazioni. Solo al ritorno in Israele hanno pienamente compreso la gravità della loro operazione. “Siamo la prima squadra di combattimento femminile ad entrare in Libano. Dirlo alla mia famiglia è stato emozionante: mia madre era sconvolta, ma mio padre era orgoglioso. Non c’è paura in questo momento, solo adrenalina. Ti concentri interamente sulla missione” ha detto il caporale Shani. “Alle ragazze che si uniscono alle unità di combattimento viene spesso detto che non avranno missioni significative, ma questo dimostra il contrario. Se ti spingi oltre ed eccelli, ti aspettano opportunità incredibili” ha concluso il caporale Tehila.
(Shalom, 18 novembre 2024)
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L’ex capo di stato maggiore Camporini: Israele opera nel rispetto delle regole
«Le procedure, gli atti compiuti, i provvedimenti correttivi e la gestione degli incidenti da parte dell’esercito israeliano a Gaza rispondono a criteri condivisibili, tipici delle democrazie occidentali. Se fossero sanzionati, provocherebbero un danno alle forze armate dell’Occidente».
Parola di Vincenzo Camporini, l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e della Difesa. Ospite della Federazione delle Associazioni Italia-Israele a Roma, Camporini ha affrontato varie questioni collegate alle guerre di Israele contro il terrorismo. Tra le altre, il ruolo di Unifil nel sud del Libano come forza di interposizione con Hezbollah. «Il suo intervento è stato utile, ma non ha conseguito il risultato perché non è stata messa nelle condizioni di conseguirlo», ha sostenuto il generale. Per Camporini, in ogni caso, «Unifil deve rimanere, perché con Unifil sul terreno potrà riprendere il dialogo». Al tavolo, moderati da Ruben Della Rocca, c’erano anche due altri ex generali di alto livello: Paolo Capitini e Giuseppe Morabito. Per il primo, oggi docente presso la Scuola sottufficiali dell’esercito, l’anomalia di questa guerra combattuta anche nei tunnel presenta «un nuovo ambiente operativo, con nuove tecniche di combattimento e una particolare natura del nemico: le incomprensioni verificatesi non rientrano nel campo della “cattiveria”, ma possono accadere in un contesto di esperienze militari così diverse dal consueto». Dal suo canto Morabito, attuale membro del Nato Defense College, ha affermato: «Il rispetto delle regole, da parte di Israele, è sancito: non c’è scritto da nessuna parte che un esercito debba avvisare dove colpirà, però Israele lo fa». Morabito non è sorpreso che Israele sia sotto accusa per genocidio all’Aja: «I magistrati sono avulsi dal contesto? Ragioniamo sull’ambiente in cui vivono e sulle pressioni che ricevono».
(moked, 18 novembre 2024)
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Il collettore di Hamas in Italia e l’intervento di Washington
di Giovanni Giacalone
Hannoun non è nuovo a tali vicissitudini visto che nel 2021, dopo diverse segnalazioni all’Antiriciclaggio, l’Unicredit sospese l’operatività sui conti dell’ABSPP per una serie di anomalie: dalla mancata iscrizione al registro dell’Agenzia delle Entrate alla massiccia movimentazione di contante, in alcuni casi a soggetti iscritti nelle black list dei database europei. Nel dicembre 2023 anche Poste Italiane aveva chiuso il proprio rapporto con l’associazione. Subito dopo erano stati PayPal ed altri operatori tra cui Visa, Mastercard e American Express a bloccare le transazioni intestate alla sua associazione. Le autorità israeliane avevano inoltre chiesto a quelle italiane di provvedere con il sequestro dei fondi di Hannoun in quanto indicati come ricompensa per le famiglie degli attentatori suicidi di Hamas.
Nella mappa delle ramificazioni internazionali di Hamas non poteva mancare l’Europa, dove l’organizzazione terroristica gode di rappresentanze più o meno mascherate in Germania, Austria e Italia.
Un recente rapporto del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, redatto il 7 ottobre del 2024, a un anno esatto dall’eccidio compiuto da Hamas in Israele, ha identificato nell’architetto arabo di origine giordana, Mohammad Hannoun, residente a Genova, il collettore di Hamas per l’Italia.
Secondo il Dipartimento di Stato, Hannoun, dietro il paravento di una ONG da lui fondata, “L’Associazione Benefica di Solidarietà per il Popolo Palestinese” avrebbe raccolto nell’arco di dieci anni 4 milioni di dollari destinati all’ala militare dell’organizzazione jihadista .
Hannoun, il quale considera i trucidatori di israeliani del 7 ottobre, “resistenti”, si è presentato sabato scorso a Milano ad una manifestazione propalestinese dove ha lodato i perpetratori della caccia all’ebreo avvenuta ad Amsterdam, esibendo una foto di Yahya Sinwar, il pianificatore dell’eccidio.
A causa di ciò, Hannoun ha ricevuto la notifica del foglio di via dalla Procura di Milano per “istigazione all’odio e alla violenza”, ma ciò non lo ha demotivato. Oggi, durante l’ennesimo corteo propalestinese che si è svolto nella capitale lombarda si è fatto sentire da Torino dove ha partecipato a una manifestazione analoga, affermando che quanto è accaduto non fermerà la sua lotta per la “resistenza” palestinese, ovvero il suo supporto al jihadismo, approfittandone per scagliarsi contro i “giornalisti corrotti, bastardi e figli di puttana che hanno preso una parte del mio discorso di sabato scorso”, cioè che avrebbero falsificato il suo messaggio improntato alla pace e alla concordia.
La domanda che sorge spontanea è, come è possibile che un soggetto indicato dal Dipartimento di Stato americano quale collettore di una organizzazione che anche l’Italia considera terroristica, possa liberamente continuare la sua attività di megafono dello jihadismo e di apologeta dell’antisemitismo.
Ci si augura che le autorità competenti prestino l’attenzione dovuta alla segnalazione arrivata da oltreoceano, la quale non perderà di rilievo quando la nuova amministrazione americana guidata da Donald Trump si insedierà il 20 gennaio prossimo.
(L'informale, 18 novembre 2024)
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Israele, le nazioni e i credenti in Gesù
Riportiamo gli ultimi due paragrafi della prima edizione del libro “Dio ha scelto Israele”, scritto circa vent’anni fa. Nella seconda edizione fu aggiunto un altro capitolo dal titolo ”Un interrogativo inquietante: sparirà Israele?” che voleva essere anche un inserimento nella discussione sollevata in quel momento da un libro dal titolo significativo: “La fine di Israele”, di Furio Colombo.
“La fine di Israele è cominciata - si dice in un passaggio di quel libro -. Si sono incrinati i pilastri che finora hanno sostenuto questo paese persino al di là di persuasioni, intenzioni, dissensi, e giudizi negativi. Quei pilastri erano l’opinione pubblica dell’Occidente, il cambiamento del mondo islamico, il sostegno americano, l’imminenza - o almeno la realistica speranza - di una qualche forma di pace o di convivenza con la Palestina.”
Anche in risposta a questa azzardata affermazione di Colombo, la seconda edizione del libro “Dio ha scelto Israele” finisce con una frase netta: “E Israele non sparirà”. Ma il finale della prima edizione, che qui riportiamo, costituisce già un’implicita risposta.
di Marcello Cicchese
Lo Stato d’Israele è ormai una realtà da più di cinquant’anni [oggi sono diventati più di settanta]. Come questo sia potuto accadere, nonostante le enormi difficoltà e il freddo odio di nemici determinati a distruggerlo, non è facilmente spiegabile con categorie puramente umane. Possiamo ricordare le parole con cui lo storico Benny Morris conclude il suo poderoso trattato sul conflitto arabo-israeliano “Vittime”:
“Fin qui, i sionisti hanno potuto considerarsi i vincitori dello scontro. Ogni vittoria può essere spiegata alla luce di fattori concreti e specifici, ma nell’insieme il successo dell’impresa sionista appare quasi miracoloso. Come descrivere altrimenti il radicarsi, in un paese inospitale, in un impero non amico e in una popolazione ostile, di una piccola e mal equipaggiata comunità di qualche decina di migliaia di ebrei russi? Come descrivere lo sviluppo di quella comunità, sia pure all’ombra delle baionette britanniche, nonostante la crescente opposizione e violenza arabe? E la vittoria contro la coalizione araba del 1948? La nascita di un paese solido e vitale? Le vittorie in altri quattro conflitti?”
L’autore dice: “Fin qui...”, e naturalmente non può essere sicuro che i sionisti continueranno ad essere i vincitori dello scontro. Ma di quale scontro si tratta?
Nel libro del profeta Isaia si parla del “giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Lo scontro vero che si sta preparando è tra il Dio che ha scelto Israele e le nazioni che sono spinte da Satana a muoversi contro il popolo eletto. Sarà un giorno di vendetta “poiché il Signore è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; egli le vota allo sterminio, le dà in balia alla strage” (Isaia 34:2). L’indignazione è causata dal vedere come le nazioni trattano il Suo popolo: con odio e violenza, con ingiustizia e menzogna. Questo trattamento assumerà forme tragiche e spaventose negli ultimissimi tempi che precedono il ritorno in gloria del Signore Gesù, ma i suoi caratteri sono riconoscibili anche adesso. Non dovrebbe questo fatto provocare anche nei credenti sentimenti di indignazione per il comportamento ingiusto e ipocrita delle nazioni verso Israele, pur sapendo che a Dio soltanto spetta la vendetta? E la mancanza di questi sentimenti non potrebbe essere un segnale preoccupante di un intorpidimento spirituale che impedisce di riconoscere le manovre dell’Avversario?
Oggi è chiaro a tutti che attraverso la Germania di Hitler l’Avversario ha operato un tentativo storico di opporsi al piano di Dio, e lo ha fatto spingendo le autorità di un popolo a tentare di sterminare gli ebrei. Ma i credenti di quel periodo e di quella nazione seppero riconoscere per tempo la diabolicità di quello che stava avvenendo? Con umiliazione bisogna rispondere: “No”. La maggior parte dei cristiani evangelici, anche quelli più rigorosamente attaccati alla Bibbia, anche quelli che conoscevano e insegnavano le profezie bibliche, si sono lasciati sedurre e fuorviare.
Un fratello tedesco che nella seconda guerra mondiale ha combattuto in Russia come ufficiale della Wehrmacht, negli ultimi anni della sua vita si è interessato molto di Israele, e in un suo libro sull'argomento (Ernst Schrupp, Israel in der Endzeit, Wuppertal, 1991) onestamente confessa:
“In Germania non pochi cristiani, tra cui anche chi scrive, hanno visto nel Nazionalsocialismo la salvezza del popolo. Abbiamo accolto con favore l’espulsione degli ebrei dalla nazione tedesca. Fin dal 1933 il “Täuferbote”, giornale delle Chiese Battiste austriache, scrisse che “Dio, attraverso la Rivoluzione nazionale in Germania, ha imposto agli ebrei un potente alt”. Su “Die Botschaft” e “Die Tenne”, giornali delle Assemblee dei Fratelli, il primo per le chiese, il secondo per i giovani, si può trovare una sconsiderata approvazione della epurazione della Germania dai nemici dello Stato, e in particolare dagli ebrei immigrati. Di fronte alla forzata emigrazione, alla brutalità delle SS, alle crudeli sofferenze che si abbattevano sugli ebrei, sembrava possibile, anche nei nostri ambienti, spiegare alla luce della Bibbia, senza problemi, la persecuzione e l’espulsione degli ebrei con la maledizione che incombeva su Israele. In questo modo tranquillizzavamo la nostra coscienza e ci sembrava che anche un “antisemitismo evangelico” fosse giustificato.”
Quando poi si cominciò a capire come stavano veramente le cose, all’entusiasmo subentrò la paura, e le varie chiese furono talmente occupate a risolvere il problema dei loro rapporti con lo Stato totalitario da non avere più né il tempo, né la forza, né lo spirito di martirio per impegnarsi a favore degli ebrei.
I tempi politici si stanno affrettando e non si può escludere che fatti inaspettati pongano ciascuno di noi davanti a difficili scelte di ubbidienza a Dio. E’ preoccupante vedere come si stanno ricreando, in una cornice “globalizzata”, le condizioni spirituali per una giustificazione, o quanto meno una “umana comprensione”, dell’odio contro gli ebrei. Le coscienze si stanno ottundendo, i pensieri si stanno contorcendo intorno alla questione di Israele. Le mostruosità diaboliche di giovani educati all’odio e spinti a uccidere sé stessi insieme a uomini, donne e bambini colpevoli soltanto di essere ebrei non sollevano indignazione, non fanno quasi più notizia. I pacifisti, i sognatori di una pace universale raggiunta con sforzi umani si lasciano ingannare dall’anelito di giustizia con cui si presenta la “lotta di liberazione” della Palestina dagli ebrei “usurpatori”. Come tutte le persone imbrogliate, cercheranno di rinviare il più possibile il momento in cui dovranno ammettere di essersi lasciati ingannare; e quando non potranno più farlo, saranno occupati a risolvere il problema della loro paura.
• Il residuo d’Israele è di nuovo visibile sulla terra promessa
La lampada della Parola di Dio espressa nelle profezie deve essere fatta risplendere per capire quello che il Signore ha voluto rivelare del Suo piano; e alla luce di questa lampada devono essere esaminati i fatti che stanno avvenendo nel popolo di Israele, per avere pensieri corretti e prendere decisioni giuste.
Tra questi fatti deve essere data particolare importanza alla novità assoluta degli ebrei “messianici”. Il residuo d’Israele oggi è diventato visibile all’interno dello Stato ebraico, tornando a sollevare una serie di questioni che erano presenti agli albori della chiesa cristiana. Qualcosa accomuna i primi e gli ultimi tempi di questo periodo della storia della salvezza: si può dire che prima della distruzione di Gerusalemme Israele era ancora presente quando la Chiesa era già presente; dopo la Dichiarazione d’indipendenza del 14 maggio 1948 si può dire che la Chiesa è ancora presente quando Israele è già di nuovo presente. Forse siamo in molti a non essere ben preparati alla particolarità di questa situazione. Ma il tempo urge, e oltre alla necessità di intensificare l’opera di predicazione del vangelo in tutto il mondo, è necessario tenere gli occhi aperti e la mente attenta su tutto quello che riguarda Israele, senza lasciarsi fuorviare da chi dice che tutto questo non è importante perché lo Stato ebraico di oggi non crede ancora in Gesù.
Un ebreo educato fin da piccolo all’osservanza delle tradizioni ebraiche, un giorno ha scoperto che Gesù non è un personaggio che riguarda il Papa e il Vaticano, ma è il Messia promesso a Israele. E ha creduto in Lui. In una sua predicazione ha detto che se esiste un velo su Israele che gli impedisce ancora di riconoscere in Gesù il Suo Messia, esiste anche un velo su gran parte della Chiesa, un velo che le impedisce di riconoscere quello che Dio sta operando nel Suo popolo di Israele. Chi scrive riconosce di non essere stato cosciente, per molto tempo, dell’esistenza di questo velo.
E’ compito dei credenti in Cristo pregare ed operare affinché questo secondo velo sia rimosso dai loro occhi, sapendo che sarà il Signore stesso, quando il tempo sarà giunto, a togliere il primo velo dagli occhi di Israele.
(da Dio ha scelto Israele)
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Israele ha distrutto un sito di ricerca sulle armi nucleari in Iran il mese scorso
L'attacco ha distrutto un complesso di ricerca per componenti essenziali alla costruzione di un ordigno atomico, componenti che l'Iran non riuscirà a reperire con facilità.
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FOTO
Questa foto satellitare di Planet Labs PBC mostra edifici danneggiati nella base militare iraniana di Parchin, fuori Teheran, Iran, 27 ottobre 2024. Le strutture danneggiate si trovano nell’angolo in basso a destra e in basso al centro dell’immagine.
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Gli attacchi aerei israeliani in Iran compiuti il mese scorso hanno distrutto un centro di ricerca sulle armi nucleari attivo a Parchin. Lo ha riferito venerdì il sito di notizie Axios, citando tre funzionari statunitensi, un attuale funzionario israeliano e un ex funzionario israeliano.
Secondo Axios, un attacco israeliano su Parchin, parte di un’operazione durata ore il 26 ottobre, ha distrutto le sofisticate apparecchiature utilizzate per progettare gli esplosivi in grado di circondare l’uranio in un dispositivo nucleare, danneggiando in modo significativo gli sforzi dell’Iran per riprendere la ricerca sulle armi nucleari.
L’attacco israeliano “renderà molto più difficile per l’Iran sviluppare un ordigno esplosivo nucleare se sceglierà di farlo”, hanno detto due funzionari israeliani.
L’Iran avrebbe bisogno di “sostituire l’equipaggiamento che è stato distrutto” se volesse produrre armi nucleari, secondo quanto affermato nel rapporto dai funzionari israeliani, “e se l’Iran cercasse di procurarselo, credono di poterlo rintracciare”.
Era già noto che il complesso “Taleghan 2” era stato preso di mira negli attacchi, come testimoniato dalle immagini satellitari, ed era già stato riconosciuto come sito del precedente programma nucleare iraniano, ufficialmente interrotto nel 2003.
Secondo quanto riferito, all’inizio di quest’anno i servizi segreti statunitensi e israeliani hanno iniziato a rilevare nuove attività sul sito, tra cui modellizzazione computerizzata, metallurgia e ricerca sugli esplosivi, che potrebbero essere rilevanti per la creazione di un ordigno nucleare.
“Hanno condotto un’attività scientifica che avrebbe potuto gettare le basi per la produzione di un’arma. Era una cosa top secret. Una piccola parte del governo iraniano ne era a conoscenza, ma la maggior parte del governo iraniano no”, ha detto un funzionario statunitense ad Axios.
La conoscenza delle ricerche condotte a Taleghan 2 avrebbe spinto il Direttore dell’intelligence nazionale statunitense a modificare la sua valutazione ufficiale del programma nucleare iraniano ad agosto, che in precedenza aveva osservato che l’Iran “non stava attualmente intraprendendo le attività necessarie per produrre un dispositivo nucleare testabile”.
Non risulta che Israele abbia colpito altri siti nucleari negli attacchi aerei del 26 ottobre, quando decine di aerei israeliani hanno distrutto siti di produzione e lancio di droni e missili balistici, nonché batterie di difesa aerea.
Gli Stati Uniti hanno esortato Israele ad astenersi dal colpire siti nucleari nell’attacco, per evitare di innescare una grave escalation con l’Iran, pur avendo approvato la mossa di Israele in risposta all’attacco dell’Iran contro Israele del 1° ottobre, quando la Repubblica islamica ha lanciato 181 missili balistici contro Israele, il suo secondo attacco diretto di questo tipo da aprile.
Israele ha fatto però una eccezione per Taleghan 2, perché il sito non faceva parte del programma nucleare dichiarato dall’Iran, che la Repubblica islamica nega abbia una componente militare, ma riconosce come un’impresa presumibilmente civile.
Se l’Iran avesse riconosciuto la portata dell’attacco, avrebbe ammesso anche la violazione del trattato di non proliferazione nucleare.
“L’attacco è stato un messaggio non troppo sottile che gli israeliani hanno una conoscenza significativa del sistema iraniano, anche quando si tratta di cose che erano tenute top secret e note a un gruppo molto ristretto di persone nel governo iraniano”, ha detto un funzionario statunitense ad Axios.
Il sito di notizie ha anche citato funzionari israeliani, i quali hanno affermato che l’attacco renderebbe molto più difficile per Teheran sviluppare un’arma nucleare se decidesse di farlo.
“Questa attrezzatura è un collo di bottiglia. Senza di essa gli iraniani sono bloccati”, ha detto un alto funzionario israeliano.
“Si tratta di un equipaggiamento di cui gli iraniani avrebbero bisogno in futuro se volessero fare progressi verso una bomba nucleare. Ora non ce l’hanno più e non è una cosa da poco. Dovranno trovare un’altra soluzione e la vedremo”, ha aggiunto il funzionario.
• ISPEZIONI NUCLEARI
Il rapporto è stato pubblicato lo stesso giorno in cui il responsabile dell’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite ha visitato due siti nucleari iraniani nell’ambito di una visita in Iran.
Durante la visita, il ministro degli Esteri iraniano ha dichiarato al capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi, che Teheran è disposta a risolvere le controversie in sospeso sul suo programma nucleare, ma non cederà alle pressioni.
Secondo quanto riportato dai media statali, senza però fornire dettagli, Grossi ha visitato la centrale nucleare di Natanz e il sito di arricchimento di Fordow, scavato in una montagna a circa 100 km a sud della capitale Teheran.
I rapporti tra Teheran e l’AIEA si sono inaspriti a causa di diverse annose questioni, tra cui l’esclusione dal paese degli esperti di arricchimento dell’uranio dell’agenzia e la mancata spiegazione delle tracce di uranio trovate in siti non dichiarati.
“La palla è nel campo UE/E3”, ha scritto il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi su X dopo i colloqui a Teheran con Grossi giovedì, riferendosi a tre paesi europei – Francia, Gran Bretagna e Germania – che rappresentano l’Occidente insieme agli Stati Uniti nei colloqui sul nucleare.
“Disposti a negoziare sulla base del nostro interesse nazionale e dei diritti inalienabili, ma non pronti a negoziare sotto pressione e intimidazione”, ha affermato Araqchi.
Il portavoce del ministero degli Esteri francese ha detto ai giornalisti che le tre potenze europee attenderanno di vedere i risultati della visita di Grossi prima di decidere come rispondere.
“Siamo pienamente mobilitati con i nostri partner E3 e gli Stati Uniti per portare l’Iran alla piena attuazione dei suoi obblighi e impegni internazionali, nonché alla cooperazione in buona fede con l’agenzia”, ha affermato.
“Questa mobilitazione avviene in diversi modi, anche attraverso risoluzioni… quindi ci aspettiamo che questi messaggi vengano trasmessi durante la visita di Rafael Grossi e adatteremo di conseguenza la nostra reazione”.
Il ritorno di Trump alla presidenza degli Stati Uniti a gennaio sconvolge la diplomazia relativa alla questione nucleare con l’Iran, che era rimasta in stallo sotto l’amministrazione uscente di Joe Biden dopo mesi di colloqui indiretti.
Durante il precedente mandato di Trump, Washington ha abbandonato l’accordo nucleare del 2015 tra l’Iran e sei potenze mondiali, che limitava l’attività nucleare di Teheran in cambio dell’allentamento delle sanzioni internazionali.
Trump non ha ancora spiegato in dettaglio se riprenderà la sua politica di “massima pressione” sull’Iran quando entrerà in carica.
(Rights Reporter, 16 novembre 2024)
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“Trump presidente proteggerà Israele”
di Alessandra Mori
In questa nuova puntata di “Pop economia-Rumore”, la nostra rubrica condotta da Alessandra Mori, l’ambasciatore Stefano Stefanini e l’assessore ai rapporti internazionali della comunità ebraica di Roma Yohanna Arbib parlano degli scenari internazionali dopo l’elezione di Donald Trump, in particolare sui riflessi che potranno avere su Israele e sul conflitto nel Medio Oriente, e dei retroscena sui fatti di Amsterdam.
Yohanna Arbib, sulla vittoria di Donald Trump: “Sono contenta che abbia vinto l’amministrazione Trump, parliamo di persone che conoscono bene la politica internazionale e porteranno una grandissima chiarezza. Netanyahu ha detto molto nitidamente alle Nazioni Unite: i soldati israeliani sono quelli che stanno morendo sul territorio: aiutateci a mettere fine a due organizzazioni terroristiche che stanno controllando il Libano nel nord e Gaza nel sud. Questo chiede Israele e io sono convinta che questa nuova amministrazione Trump porterà questo in politica estera”.
Riguardo ai fatti di Amsterdam, di concerto con l’ambasciatore Stefanini: “È stata una seconda notte dei cristalli, proprio una caccia all’ebreo e potrebbe essere l’inizio. Israele è in prima linea alla difesa dei valori occidentali. Dopo la caccia agli ebrei verranno gli altri. Sulla scia dell’antisemitismo ci sarà l’attacco alle minoranze, alla democrazia”.
“È stato allucinante quello che è successo dopo. La reazione della polizia è stata totalmente sottotono, in alcuni casi si è addirittura rifiutata di proteggere i turisti israeliani. Questo in Italia non succede e dobbiamo ringraziare le forze dell’ordine perché proteggono noi ebrei, 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana. La seconda riflessione è sulla reazione di alcuni giornalisti. Se non ci fossero state le registrazioni sui social, qualcuno avrebbe detto che quella manifestazione era il risultato di una reazione ad alcuni israeliani che hanno manifestato contro il popolo palestinese. E l’informazione errata, la diseducazione dei nostri cittadini, crea quello che è successo il giovedì notte”.
Stefanini, sul Medio Oriente: “Trump sul Medio Oriente ha seguito tre linee abbastanza costanti. La prima è l’appoggio quasi incondizionato a Israele, al punto di prendere decisioni che nessun altro aveva preso, per esempio il riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan e il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. E ha riconosciuto la non illegalità delle colonie che Israele ha stabilito in Cisgiordania. La seconda costante è quella di spingere molto per il ravvicinamento di Israele agli Stati Arabi del Golfo, in particolare all’Arabia Saudita, che è l’antagonista principale dell’Iran. Trump è appunto l’artefice degli accordi di Abramo, accordi fra gli Emirati e Israele che aspettano l’adesione dell’Arabia Saudita. Tutto questo è stato complicato ed è tuttora reso molto più complicato dal dopo 7 ottobre. La terza costante, legata alle altre due, è l’essere anti-Iran”.
“Gli accordi di Abramo sono praticamente fermi, ma nessun Paese arabo ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele. L’Arabia Saudita indica di essere pronta a riprendere quel percorso qualora Israele offrisse una prospettiva di Stato palestinese, ma questo Netanyahu non l’ha fatto. Il secondo sviluppo è il fatto che Israele e Iran sono passati da una guerra per procura, che l’Iran conduceva tramite le varie milizie contro Israele, a una guerra attiva che ha avuto già due scambi diretti”.
Su Donald Trump: “Trump si pone come l’uomo che mette fine alle guerre e che anche perché nella sua filosofia gli Stati Uniti hanno speso troppe risorse in guerre in cui non è in gioco il loro interesse nazionale”. Ha promesso di chiudere la guerra in Ucraina in 24 ore potrebbero essere le prime in cui Trump sarà presidente il 20 gennaio, precedute però da quello che sta facendo adesso, cioè creare le condizioni per arrivare alla cessazione dell’ostilità”.
Sugli eventi di Amsterdam: “C’è stata una pianificazione e non un’esplosione di antisemitismo olandese che colava sotto le ceneri, che è solo una componente. È stata una manifestazione organizzata da sostenitori di Hamas, cioè l’organizzatore della strage del 7 ottobre”.
(Radio Libertà, 16 novembre 2024)
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L’albergatore che rifiuta gli ebrei è una vergogna fuori dalla storia
Una struttura di Selva di Cadore chiude le porte ai clienti israeliani, in quanto «responsabili di un genocidio». Come se le eventuali colpe dei governi ricadessero sulle persone. La Regione si dissocia, poi arrivano le scuse.
di Paolo Del Debbio
Una volta, sulla porta di alcuni ristoranti e anche di alcuni alberghi, c'erano dei cartelli raffiguranti un cane con scritto «Io non sono gradito». Chissà se questo albergatore di questa struttura di Selva di Cadore, sulle Dolomiti, in particolare il titolare dell'Hotel Garni Ongaro, metterà la stella di David e delle foto rappresentanti degli ebrei sulla porta e sui suoi social scrivendo «Io non sono gradito». Questo signore si è reso responsabile di un gesto indegno perché, a pochi giorni dall'arrivo di due ospiti ebrei da Tel Aviv, ha scritto un messaggio su Booking che dice così: «In quanto responsabili di genocidio, non siete clienti bene accetti». L'antisemitismo alberghiero non lo avevamo ancora conosciuto, conoscevamo quello animale ma, evidentemente, questo «signore» non fa distinzione. Ciò che lo caratterizza è un'ignoranza talmente grossa che non meriterebbe neanche di spendere parole per commentarla. Cosa c'entrano gli israeliani e gli ebrei con il genocidio di cui parla questo tale? Forse tutto il popolo ebreo israeliano è responsabile delle politiche (pur non condivisibili) del premier israeliano, Benjamin Netanyahu? Cosa vuol dire «responsabili del genocidio»? Vuol dire che ogni ebreo israeliano è responsabile in prima persona di quello che fa il governo del suo Paese? E poi, non una parola su quello che il 7 ottobre dell'anno passato ha fatto Hamas nei confronti di Israele? Sarebbero ben venuti i terroristi di Hamas nell'albergo del «signor» Ongaro? Una bella colonia di terroristi palestinesi, ospitati nel suo albergo a Selva di Cadore, rappresenterebbe un segno di progressismo e rivoluzione culturale contro gli indegni ebrei a favore dei paladini terroristi di Hamas? Se da questo tipetto arrivassero un gruppo di iraniani li ospiterebbe o no e se venissero dalla Corea del Nord? E se venissero dalla Cina, dove non proprio tutti i diritti umani sono rispettati? Forse si sognerebbe di attribuire a due turisti cinesi o coreani o iraniani la responsabilità complessiva di quello che avviene nel loro Paese?
Qualcuno fornisca in fretta a questo scellerato un manuale di storia e uno di geografia contemporanea, o anche semplicemente l'annuario edito ogni anno da De Agostìni, così potrà studiare tutti i regimi di tutti i Paesi, vedere dove ci sono delle violazioni dei diritti umani e respingere tutti i cittadini di Stati dove i governi abusano del loro potere. Strano modo di concepire la democrazia: punire i cittadini per educare i governanti, non accogliere i due israeliani per colpire Netanyahu.
Per fortuna i suoi colleghi albergatori si sono dissociati dal suo comportamento e così ha fatto anche il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. D'altra parte, il caso è talmente assurdo e l'antisemitismo è talmente evidente che sarebbe stato difficile non pronunciarsi contro le follie di questo albergatore, che infatti ieri in serata è stato costretto a scusarsi.
Mentre scrivo «follie» mi viene alla mente che, purtroppo, questo albergatore, in oltraggio a qualsiasi tipo di libertà religiosa e di diritto alla libertà di professione religiosa, è uno che magari ci ha anche ragionato, a suo modo. Certo, la decisione è folle ma più grave è il ragionamento che ci sta dietro. Gli ebrei, in quanto tali, sono comunque persone da rigettare, da escludere, da mettere all'angolo, anche ove siano due pacifici turisti che vogliono godere delle bellezze del Veneto per qualche giorno.
No, niente accesso all'albergo ideologico (nuova forma di albergo che non rigetta chi non paga ma chi è ritenuto indegno dal titolare da un punto di vista religioso e ideologico, razzismo alberghiero, ci mancava pure questo).
Ora voi capite bene che la questione e gravissima, non solo per gli aspetti simbolici, cioè di una struttura ricettiva che di per sé deve essere aperta a tutti, fuorché a soggetti che non rispettino i regolamenti e le leggi che tutelano gli alberghi stessi. Ma si tratta di una questione sostanziale perché, se nella civilissima Italia, un albergo si permette di discriminare potenziali clienti sulla base delle strampalate e irricevibili convinzioni del gestore dell'albergo, di che tipo di turismo stiamo parlando? Abbiamo parlato tanto male, e giustamente, in Italia, del turismo sessuale nei Paesi dell'Est, anche da parte degli italiani che andavano là per poter usufruire del corpo di bambine o bambini minorenni. Non dovremmo forse indignarci per questa specie di turismo razziale di questo, che non so definire, che ha proibito l'ingresso a due israeliani perché responsabili del genocidio? Ignoranza, non conoscenza del diritto, della storia di un popolo, di come funziona normalmente la ricezione turistica. Insomma, un accumulo di macerie di ignoranza e di insensibilità che fanno paura e non rendono ragione agli albergatori del Veneto e agli operatori turistici che fanno, di quella regione, una regione accogliente, come del resto altre regioni italiane, nei confronti di tutti, a prescindere da tutto, fatta eccezione per il rispetto della legge. Che schifo.
(La Verità, 16 novembre 2024)
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«La decisione è folle ma più grave è il ragionamento che ci sta dietro». Proprio così, perché lo stesso ragionamento si trova certamente nella mente di tanti altri criptoantisemiti che hanno soltanto l'accortezza di non scivolare in un'uscita stupida come quella dell'albergatore di Selva di Cadore. M.C.
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Nella soffitta di Anne Frank. Gli ebrei di Amsterdam ci raccontano la fine dell’illusione multiculturale
“Questa non è più la nostra città”
di Giulio Meotti
Jodenjacht, “caccia agli ebrei”. Un’espressione olandese che nel 1944 ha segnato la storia di Amsterdam al numero 263 di Prinsengracht, dove c’è la casa di Anne Frank, e di nuovo quella del 2024, durante una settimana in cui gli olandesi commemoravano la Kristallnacht. Una chat di gruppo WhatsApp filopalestinese aveva chiesto una “caccia ai cani ebrei” la sera prima della partita tra Ajax e Maccabi. Sapevano dove alloggiavano gli israeliani. Sapevano quali hotel, quale strada avrebbero preso al termine della partita. Era tutto organizzato. Tassisti, autisti di uber, motociclisti.
In un anno, l’Olanda ha registrato la metà degli attacchi antisemiti che si sono verificati in Francia. Ma rispetto al numero degli abitanti, il dato è molto più preoccupante, perché la popolazione olandese è tre volte e mezzo inferiore a quella francese e la sua comunità ebraica è molto più piccola per tragiche ragioni storiche (il 75 per cento è stata uccisa durante la Seconda guerra mondiale, rispetto al 30 per cento in Francia).
“Nessun ebreo che conosco salirà più su un Uber o su un taxi ad Amsterdam senza prima controllare che la stella di David che indossa sia ben nascosta”, ha scritto il romanziere olandese Leon de Winter. Nella notte in cui centinaia di tifosi di calcio hanno temuto per la propria vita, la comunità ebraica è entrata in azione. Hanno aiutato gli israeliani braccati fornendo riparo per la notte e un passaggio per l’aeroporto di Schiphol, dove avrebbero atteso i voli speciali della El Al israeliana arrivati da Tel Aviv.
Quattro giorni dopo le autorità di Amsterdam accusano le vittime di essersela cercata. Nel suo primo rapporto sulle aggressioni di massa ai tifosi di calcio israeliani ad Amsterdam, il comune della città a guida di sinistra li ha accusati di aver intonato “canzoni odiose e razziste contro gli arabi”. Un cambiamento di 180 gradi rispetto alla retorica dei funzionari della città finora, inclusa la dichiarazione del sindaco Femke Halsema secondo cui “non ci sono scuse” per le aggressioni. Jazie Veldhuyzen, membro del consiglio comunale di sinistra di Amsterdam, è tra i manifestanti arrestati e rilasciati. Poi la sindaca è andata a incontrare un gruppo di manifestanti: alcuni avevano il passamontagna e la fascia verde dell’ala militare di Hamas.
Amsterdam è una delle città più cosmopolite del mondo, con residenti provenienti da 180 paesi. Gli olandesi non sono la maggioranza, né lo sono quelli di origine europea. Quindici anni fa, gli olandesi costituivano il 50 per cento della popolazione, oggi sono scesi al 44 per cento. Il gruppo più numeroso dopo gli olandesi sono i marocchini, seguiti dagli immigrati dal Suriname, 63 mila, e dalla Turchia, 45 mila. Amsterdam avrebbe dovuto essere come Berlino, Londra e Parigi: un rifugio per gli oppositori degli stati nazionali e i sostenitori delle frontiere aperte e del multiculturalismo. Un modello di città libera e aperta, ma non avevamo bisogno del Maccabi Tel Aviv per sapere che era un’illusione.
Vista da davanti, la sinagoga dell’Aia non è riconoscibile, due spesse porte verdi presentano una facciata chiusa sulla strada. Ad Amsterdam, la scuola elementare ebraica ha livelli di protezione ancora più distopici, nascosti dietro diversi strati di metallo e recinzioni. Dall’esterno, la vista della scuola è completamente chiusa. Molte famiglie hanno tolto dagli stipiti della porta di ingresso la mezuzah, che li avrebbe resi identificabili come ebrei.
Amsterdam era già stata teatro di proteste pro palestinesi, tra cui una avvenuta a marzo davanti al Museo della Shoah, quando il presidente israeliano Isaac Herzog ha partecipato alla sua inaugurazione.
In una cerimonia ad Auschwitz lo scorso gennaio, a cui hanno partecipato ex presidenti, primi ministri e leader parlamentari di vari paesi (dall’Italia Matteo Renzi), Bianca Sirdzinka, studentessa ebrea dell’Università di Groningen nei Paesi Bassi, ha raccontato: “La situazione per gli studenti ebrei è terribile! E’ spaventoso camminare per le strade. Studenti del Memoriale dell’Olocausto sono stati presi di mira con il lancio di pietre. Rivelare la propria origine è rischioso; bisogna nascondersi. La nostra sicurezza è compromessa e l’antisemitismo è dilagante”.
Intanto anche la celebrazione ebraica di Hanukkah nella città olandese di Enschede prendeva una piega strana, dopo che il sindaco ha rifiutato di farsi vedere vicino all’ambasciatore israeliano. La sinagoga di Enschede aveva invitato il sindaco Roelof Bleker alla celebrazione di Hanukkah e gli aveva riservato un posto accanto all’ambasciatore israeliano, Modi Ephraim. Ma poche ore prima, la sinagoga ha ricevuto una telefonata da Bleker. “Il sindaco non vuole sedersi accanto all’ambasciatore e non vuole stringergli la mano”. La piccola comunità ebraica di Enschede – 45 ebrei in totale – era già frustrata dal primo cittadino, che ha respinto le loro richieste di maggiore sicurezza dopo il 7 ottobre, nonostante un’ondata di attacchi antisemiti.
Al Foglio, lo scrittore ebreo Leon de Winter non nasconde il suo pessimismo: “Da molti anni gli ebrei ad Amsterdam non vogliono farsi riconoscere come ebrei. In una-due generazioni, se ne saranno andati dall’Europa”. All’Aia una scuola ebraica ha rimosso la targa in onore dei sopravvissuti alla Shoah nel timore di atti di vandalismo. La polizia non ha permesso a una famiglia di esporre la sukkah fuori dalla casa.
“L’impatto della notte dell’attacco è molto significativo, siamo ancora troppo vicini a quanto successo, ma le persone sono molto impaurite, abbiamo perso la fiducia nel governo e nella polizia”, ci racconta Elliott Hollander, ebreo olandese tornato ad Amsterdam da Israele per lavorare per un’azienda di servizi. “Dal 7 ottobre c’è stata una accelerazione. Da qui a dieci anni, temo sia finita. Io me ne andrò. Mi piaceva tornare nel mio paese, ma il 7 ottobre come ebreo mi ha messo in una posizione diversa. Prima l’apertura del museo della Shoah, dedicato alla memoria degli ebrei gasati in Germania. Sopravvissuti e famigliari erano presenti: il sindaco con il capo della polizia hanno accettato che una manifestazione palestinese si tenesse di fronte al museo. Gli ebrei sono dovuto passare davanti a questa gente, tra urla, sputi, accuse che eravamo ‘assassini di bambini’. Il 7 ottobre poi abbiamo tenuto una commemorazione dei morti israeliani. E quel giorno hanno manifestato nuovamente in Piazza Dam, davanti a noi. E ora l’attacco durante la partita. Dalla stazione al mio ufficio è come camminare per Teheran: se portassi una kippah non arriverei senza danni al lavoro. E tutto è accettato per politicamente corretto, paura e ideologia. Gli ebrei, amici ebrei, rimuovono la kippah e tolgono la mezuzah. Evitano certi quartieri di Amsterdam. Ai miei figli ho detto di non parlare ebraico in centro. Ma gli olandesi, persone con cui lavoro, se ne fregano. Io me ne andrò, ma l’Europa sarà completamente fottuta. Anche se ho un po’ di ottimismo: vedo le persone stanche di come sta tutto precipitando”.
Qualche anno fa, un gruppo di ragazzine ebree della stessa età di Anne Frank dichiarava al quotidiano Het Parool che non sarebbe più uscita di casa con al collo la stella di David: erano state picchiate per strada da una banda di immigrati. Lo aveva previsto l’ex eurocommissario sotto Romano Prodi, Frits Bolkestein, il guru dei liberali che lanciò un invito choc: “Gli ebrei non hanno futuro qui e dovrebbero emigrare negli Stati Uniti o in Israele”. La denuncia di Bolkestein era contenuta in un libro, “Het Herval”, scritto da Manfred Gerstenfeld. Fra i primi leader politici a reagire alla “proposta” di Bolkestein ci fu proprio Femke Halsema, allora deputata ecologista e oggi sindaco di Amsterdam, la quale si chiese se l’ex commissario europeo non si fosse “kierewiet”, rimbambito. Il ministero della Giustizia dell’Aia è ricorso anche a metodi a dir poco fuori dal comune. Poliziotti vestiti con gli abiti della tradizione ebraica ortodossa che si fingono ebrei. Esche per le strade.
I suggerimenti di Bolkestein sono stati fatti propri anche da un’eminente rappresentante della comunità ebraica di Amsterdam, Bloeme Evers-Emden. Sopravvissuta ad Auschwitz, professoressa dell’università della città, la donna afferma di aver detto a figli e nipoti di lasciare il paese e che una sola direzione si offre loro: Israele. “I problemi non toccheranno me fintanto che sarò viva, ma consiglio fortemente ai miei figli di andarsene dall’Olanda”. La secolare sinagoga di Weesp è diventata la prima che in Europa, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha cancellato i servizi di Shabbat a causa delle minacce alla sicurezza dei fedeli.
Ayaan Hirsi Ali, che è stata una deputata liberale olandese e la collaboratrice di Theo van Gogh per il film “Submission”, racconta che c’è un problema di infiltrazione islamica nella polizia. “Conosco bene Amsterdam. Per molti anni ho vissuto nei Paesi Bassi. Vent’anni fa è stato implementato un piano ben intenzionato per incoraggiare la partecipazione delle minoranze etniche in tutte le aree in cui sono sottorappresentate. La polizia e le agenzie di sicurezza erano considerate ‘troppo bianche’. Gli islamisti (Fratellanza musulmana) hanno adottato la strategia dell’islamizzazione attraverso la partecipazione. Quindi l’impazienza dell’establishment di sinistra di accelerare il processo di partecipazione ha portato all’abbassamento degli standard per le minoranze. I controlli sono diventati sempre meno rigorosi. Ricordo bene quando facevo affidamento sulla protezione della polizia olandese per assicurarmi di non subire la stessa sorte del mio amico Theo van Gogh, che era stato accoltellato a morte da un jihadista nelle strade di Amsterdam. Un giorno, uno degli agenti assegnati alla mia scorta di sicurezza si è rivelato di origine turca. Mi sentii a disagio quando iniziò a criticarmi per il mio lavoro con van Gogh su ‘Submission’. Quando espressi le mie preoccupazioni, il suo superiore mi disse che non spettava a me, a lui era stato affidato il compito di proteggermi. Dovevo imparare un nuovo tipo di sottomissione. Oggi, gran parte della forza di polizia di Amsterdam è composta da migranti di seconda generazione provenienti dal Nord Africa e dal medio oriente”. Dal 7 ottobre, alcuni ufficiali si sono già rifiutati di sorvegliare luoghi ebraici come il Museo dell’Olocausto.
“Per anni l’antisemitismo è cresciuto e nessuno voleva sentire”, ci racconta il rabbino capo d’Olanda, Binjamin Jacobs. “E cresce ogni giorno. I nuovi olandesi, i musulmani, stanno crescendo in numero. Non mi hanno meravigliato le scene di Amsterdam. Va avanti da cinquant’anni. La polizia non vuole che prendere i mezzi pubblici. Qualche settimana fa c’è stato un mega evento alla sinagoga portoghese: mai visti tanti poliziotti, incredibile”. Tutti i sette figli del rabbino capo Jacobs, tranne due, hanno lasciato l’Olanda per Israele e altrove. “Sono arrivato in Olanda nel 1975 e capii subito che sarebbe successo. Rimarremo in numeri sempre più piccoli. Ho un figlio in Olanda, uno a Londra e uno a New York. Poi le figlie: una in Olanda, una a Montreal e un’altra a Londra. Sono come il capitano in servizio su una nave che affonda”.
Qualche mese fa, l’unica scuola ebraica ortodossa dei Paesi Bassi ha chiuso a causa dei rischi per la sicurezza. La scuola Cheider di Amsterdam ha deciso di fornire lezioni online agli alunni. La comunità ebraica di Groningen ha smesso di pubblicare online gli orari delle preghiere. Un gruppo di volontari manda messaggi agli amici via WhatsApp.
“Dopo l’attacco, le persone hanno tre emozioni”, dice al Foglio Esther Voet, direttrice del settimanale ebraico olandese, il Nieuw Israëlietisch Weekblad. “Le persone hanno paura. Sono molto tristi, specie la generazione più anziana. I giovani sono arrabbiati”. Voet ha offerto la sua casa a persone che cercavano rifugio dalle strade del centro. Unendo le forze con un collega che guidava per Amsterdam raccogliendo israeliani spaventati all’idea di uscire, Voet ha ospitato dieci persone nella sua casa tra l’una di notte e l’una di pomeriggio di venerdì. “E’ stato un movimento organizzato a Amsterdam, dove dopo il 7 ottobre ci sono state molte dimostrazioni violente. Vivo a duecento metri dalla casa di Anne Frank. Le autorità non intervenivano. Speravano che passasse. Il 10 marzo di quest’anno c’è stata l’apertura del museo della Shoah. Ed è stato orribile, le autorità hanno consentito ai manifestanti di urlare fuori dalla famosa sinagoga portoghese, mentre il re parlava all’interno. Il sindaco ha dato a questi gruppi il diritto di avvicinarsi a questa cerimonia. Da allora, altre manifestazioni hanno avuto luogo, specie all’università, che hanno distrutto facendo quattro milioni di danni. Poi una commemorazione il 7 ottobre a Piazza Dam e ancora il sindaco ha consentito ai filopalestinesi di arrivare vicino alla commemorazione. Sapevamo che prima o poi sarebbe diventata fisica”. E’ stata organizzata, erano pronti. “E ora molti ebrei si nasconderanno. Questa non è più la mia città. Gli ebrei sanno che per loro non c’è più Mokum, come chiamano Amsterdam. Non posso neanche andare al negozio vicino casa senza vedere una bandiera palestinese alle finestre. Ma non vedrai mai una bandiera israeliana, è troppo pericoloso. Non andrà meglio, soltanto peggio. Questo è il paese dove gli ebrei non avevano mai avuto un ghetto in Europa. Ma è tutto finito. E ora non mi interessano più le parole delle autorità, che in molte zone di Amsterdam hanno persino paura a entrare”.
Macabra, ma giusta, l’ironia di un sito americano: “Questa settimana il museo Anne Frank di Amsterdam rimarrà chiuso: ci sono cento ebrei nascosti nella soffitta”. Mokum è diventata la Mecca sul fiume Amstel.
Il Foglio, 16 novembre 2024)
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In Europa è caccia al cristiano: oltre 2.400 aggressioni in un anno
Boom di attacchi e profanazioni in Francia, Germania, Inghilterra, E il dato è al ribasso
di Giuliano Guzzo
Oltre 2.400 crimini d'odio anticristiani in Europa in un anno, sei e più al giorno. È lo sconvolgente quadro che filtra dalle 55 pagine di Intolerance and discrimination report 2024, l'ultimo rapporto - relativo allo scorso anno - redatto dall'Osservatorio sull'intolleranza e la discriminazione dei cristiani di Vienna (Oidac), una realtà che dal 2010 monitora costantemente la situazione europea classificando e fornendo dati oggettivi, affidabili e comparabili sulla cristianofobia. Guidato dall'austriaca Anja Hoffmann, 31 anni, che ne è direttrice esecutiva, questo Osservatorio redige annualmente dei rapporti che, per descrivere l'intolleranza dei cristiani in Europa, si servono di dati raccolti con una varietà di metodi e fonti, per garantire accuratezza e completezza.
Nell'ultimo di tali documenti, diffuso ieri, si certifica come nel 2023 Oidac abbia conteggiato 793 episodi - inclusi casi di furto - , 501 dei quali sono stati classificati quali crimini d'odio anticristiani. Questi dati sono stati incrociati con i 2.111 crimini d'odio anticristiani registrati dalle polizie europee e, scartando quelli già registrati da Oidac, si è giunti a un numero complessivo di 2.444 crimini d'odio in 35 Paesi. Un numero, con ogni probabilità, che è pure una sottostima. Sono infatti appena cinque i Paesi le cui forze dell'ordine classificano gli atti di violenza come anticristiani: Austria, Finlandia, Francia, Germania e Regno Unito (Inghilterra e Galles). Posto quindi che la già allarmante cifra di 2.444 crimini d'odio anticristiani è con ogni probabilità una stima al ribasso, Oidac segnala come quasi il 10% di essi - 232, per l'esattezza - riguardi attacchi personali contro i cristiani: molestie, minacce, violenza fisica, anche un tentato omicidio.
Per Oidac i Paesi dove la situazione è più grave sono tre. Il primo è la Francia, dove nel 2023 gli atti d'odio anticristiani sono stati quasi 1.000, il 10% dei quali contro cimiteri e chiese ma con anche 84 casi di aggressioni ai danni di persone fisiche; come il caso di due suore che, nel marzo dello scorso anno, hanno deciso di lasciare la città di Nantes dopo essere state «sottoposte a percosse, sputi e insulti», Per non parlare degli incendi dolosi ai luoghi di culto, tutt'ora in aumento se si pensa che, se ci furono otto casi confermati nel 2023, nei primi dieci mesi del 2024 sono saliti a 14.
La situazione non è più rosea nel Regno Unito, secondo Paese attraversato dall'odio anticristiano e dove, nel 2023, ci sono stati 702 casi di cristianofobia, il 15% rispetto all'anno precedente. Un aumento ancor più consistente si è verificato in Germania, dove gli atti d'odio anticristiani dal 2022 al 2023 hanno fatto segnare un'impennata del 105% .
E da noi? Per la nostra Penisola, come in realtà pure per altre nazioni, Oidac fa affidamento solo al proprio database e segnala comunque come, lo scorso anno, gli atti d'odio anticristiano in Italia siano stati numerosi. Quanti? Sessantacinque, ben più di quelli di Paesi come la Spagna (54) e l'Austria (23). Benché non se ne parli quasi mai sui mass media, dove si preferisce liquidare le profanazioni di chiese e cimiteri nonché le distruzioni di presepi come meri atti di vandalismo - quando non come ragazzate - , anche nel nostro Paese l'odio anticristiano si fa insomma sentire. Ma è tutta l'Europa dei «nuovi diritti» e che si focalizza quasi esclusivamente sulle discriminazioni solo verso le minoranze a sottovalutare un'ondata di violenza che anno dopo anno appare sempre più minacciosa.
(La Verità, 16 novembre 2024)
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Intesa sul Libano prima dell’insediamento di Trump?
L’esercito israeliano sta per raggiungere alcuni obiettivi fissati per l’operazione nel sud del Libano: eliminare dall’area a ridosso del confine la minaccia dei missili anticarro e il rischio di invasioni via terra dei terroristi libanesi. Lo spiega il giornalista Nir Dvori dell’emittente N12, raccontando dei progressi militari nella guerra a Hezbollah. Un conflitto difficile, come dimostrano le ultime notizie dal fronte: sei soldati israeliani sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con i terroristi in un edificio nel Libano meridionale. Un altro soldato è stato ferito e portato in ospedale per le cure mediche.
Lo scontro è avvenuto mentre le truppe si stavano spostando verso nord, verso la seconda linea di villaggi al di là del confine. Da qui, riferisce Dvori, partono la maggior parte dei razzi e droni lanciati contro Israele in questi mesi. Per il momento nell’area le operazioni militari sono limitate, ma il Comando del Nord ha previsto di ampliarle a breve. «Lo scopo dell’espansione della manovra è quello di inviare un messaggio a Hezbollah: se non ci sarà a breve un accordo, Israele aumenterà la pressione e il fuoco per spingere il gruppo a negoziare e accettare le sue condizioni».
Secondo il Washington Post, il governo di Benjamin Netanyahu vorrebbe arrivare a un’intesa per il cessate il fuoco in Libano prima dell’insediamento di Donald Trump alla presidenza Usa. La scorsa settimana Ron Dermer, ministro israeliano degli Affari strategici, ha incontrato a Mar-a-Lago l’entourage del presidente eletto. Fonti israeliane del Washington Post sostengono che «a gennaio ci sarà un’intesa sul Libano».
I termini dell’accordo per un cessate il fuoco, spiegano i funzionari israeliani, richiedono ai terroristi di Hezbollah di ritirarsi oltre il fiume Litani, ovvero oltre il confine settentrionale dell’area cuscinetto monitorata dalle Nazioni Unite, istituita dopo il conflitto del 2006 tra Israele e Hezbollah.
(moked, 14 novembre 2024)
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La pace dell’avversario
di Micol Flammini
Guerra in Libano. Tregua in vista? Trattative sono in corso e Israele potrebbe portare a termine il conflitto prima dell'insediamento di Donald Trump. Ma a quali condizioni? Il rispetto della risoluzione 1701, con Hezbollah fuori dal Libano meridionale.
Mentre alcuni ministri del governo di Israele rilasciavano dichiarazioni per dire che un cessate il fuoco con Hezbollah si sta materializzando, il ministro dei ministri, l’uomo a cui Benjamin Netanyahu affida le questioni importanti del suo governo, Ron Dermer, viaggiava in segretezza completa o parziale per curare i dettagli. Dermer per Netanyahu non è soltanto un collaboratore stretto, è la persona a cui ha affidato, soprattutto negli ultimi due governi, mediazioni, negoziati, incontri segreti. Oggi è ministro degli Affari strategici, fino al 2021 è stato ambasciatore negli Stati Uniti, è nato a Miami, e da lui passano le comunicazioni importanti con gli americani – fu lui, infatti, assieme al genero di Trump Jared Kushner a dare forma e sostanza agli Accordi di Abramo. Secondo un’esclusiva del Washington Post, Dermer sarebbe al centro di un nuovo ciclo di negoziati per mettere fine alla guerra in Libano.
Secondo le fonti del quotidiano americano, Israele sarebbe pronto ad accogliere il nuovo presidente americano con la fine di una delle guerre che combatte dal 7 ottobre e a parere di qualcuno, nella tempistica, ci sarebbe anche uno sgarbo a Joe Biden: la chiusura di un accordo per gennaio sarebbe un omaggio al repubblicano, dopo mesi in cui l’attuale Amministrazione si è spesa in viaggi continui in medio oriente tra diplomazia, intelligence e aiuti militari. L’accordo su cui sta lavorando Israele prevede il ritiro dei miliziani di Hezbollah oltre il fiume Leonte, come previsto dalla risoluzione 1701 delle Nazioni Unite del 2006, quindi l’istituzione di una zona cuscinetto tra il fiume e il confine israeliano controllata dall’esercito regolare libanese sotto la supervisione degli Stati Uniti e del Regno Unito, infine la possibilità per Tsahal di operare oltre la frontiera nel caso di violazioni. Una fonte del quotidiano ha detto che la proposta non è ancora stata sottoposta a Hezbollah, il gruppo potrebbe accettare il ritiro ma difficilmente sarebbe a favore, come lo stesso governo libanese, di lasciare che i soldati israeliani operino nel territorio di Beirut quando lo ritengano necessario. Nabih Berri, il presidente del Parlamento del Libano – carica che detiene da oltre vent’anni – e leader del miglior alleato politico di Hezbollah, il partito sciita Amal, ha detto: “C’è una persona sana di mente che crede accetteremo un accordo… a spese della sovranità del Libano?”. Israele ci crede ed è pronto ad aumentare la pressione militare per ottenere un’intesa che renda sicuro il suo confine settentrionale, reso invivibile e di fatto disabitato dai continui attacchi di Hezbollah. Una parte importante dell’accordo ideale per Israele sta però nel rendere il gruppo armato incapace di riarmarsi di nuovo.
Da settembre, Tsahal ha incrementato la sua campagna contro Hezbollah con azioni mirate, bombardamenti e una campagna di terra con l’obiettivo di distruggere i tunnel del gruppo, i depositi di armi ed eliminare le truppe Radwan, addestrate per penetrare nel territorio israeliano. Hezbollah è rimasto senza catena di comando, adesso il leader del gruppo è un religioso che trema e suda durante i discorsi che dovrebbero essere incendiari, però il suo arsenale è ancora cospicuo: gli attacchi contro Israele non sono diminuiti e i droni lanciati riescono ancora a essere precisi, tanto da aver colpito la casa del primo ministro a Cesarea. I lanci degli ultimi giorni hanno causato vittime tra i civili (in tutto, dall’inizio della guerra, quarantacinque) e tra i soldati impegnati dentro al Libano ne sono morti più di quaranta. Hezbollah è depotenziato ma è ancora in grado di far male, il suo canale con la Repubblica islamica dell’Iran è aperto e per il futuro, la preoccupazione di Israele è renderlo il più sigillato possibile. E’ qui che Dermer è entrato ancora una volta in azione, triangolando con i russi, che in Siria – la porta delle armi iraniane verso il Libano – hanno il controllo sul regime di Bashar el Assad. Israele sta colpendo in Siria per distruggere strutture di Hezbollah e rompere la catena di approvvigionamento, ma mancano un accordo e una capacità di controllo che ancora una volta rendono i russi utili agli occhi degli israeliani.
La proposta di pace che Israele vorrebbe presentare richiede a Mosca di precludere a Hezbollah e all’Iran le rotte siriane, i russi dovrebbero impedire che Damasco, rimasta quieta in questi mesi nonostante i bombardamenti sul suo territorio, permetta a Teheran di mandare armi ai miliziani libanesi. La parte più importante dell’esclusiva del Washington Post sta tutta nella triangolazione fra Russia, Israele e Stati Uniti, di cui Dermer è il tessitore assieme a Kushner, che nella nuova Amministrazione Trump non avrà incarichi ufficiali. Dermer sarebbe andato a Mosca in segreto e alcuni funzionari russi avrebbero visitato Israele a fine ottobre. Fonti del Foglio hanno raccontato di una possibile tentazione americana: legare i conflitti in medio oriente e in Ucraina a soluzioni parallele.
Il Foglio, 15 novembre 2024)
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Hotel rifiuta turisti di Tel Aviv. “Qui non siete ospiti graditi”
di Enrico Ferro
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L'Hotel Garni Ongaro di Selva di Cadore
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L’odio a tre stelle. “In quanto responsabili di genocidio, non siete clienti ben accetti”. Un nuovo rigurgito di antisemitismo, stavolta nel nord Italia. Il titolare dell’hotel Garni Ongaro di Selva di Cadore ha risposto così a un gruppo di turisti israeliani che chiedevano disponibilità di stanze per una vacanza sulle montagne del Cadore. E’ il frutto avvelenato delle stragi compiute a Gaza, dopo il pogrom organizzato da Hamas il 7 ottobre dell’anno scorso. “Cancellate la vostra prenotazione, saremo felici di offrirvi la cancellazione gratuita”, è l’invito che Patrik Ongaro ha rivolto alla comitiva, dopo aver eretto il suo personale muro ideologico.
La vicenda è deflagrata grazie ai media della comunità ebraica e già ci sono le prime conseguenze, ma non è escluso che ce ne saranno altre. Tanto per cominciare Booking ha bannato la struttura dal portale ma l’aspetto più serio è che del caso si sta interessando anche Dror Idar, l’ambasciatore israeliano a Roma. Avrebbe già contattato membri del governo italiano per chiedere che ci siano delle sanzioni concrete.
• IL POST
Ma l’albergatore rilancia, denunciando sul suo profilo Facebook minacce e ritorsioni. “Sono appena stato minacciato da un ente israeliano non ben definito, dopo essermi rifiutato di accogliere nel mio albergo clienti israeliani a causa del genocidio in atto”, scrive. “La cosa non mi spaventa, anzi dimostra che se tutti facciamo qualcosa nel nostro piccolo possiamo fare la differenza. Detto ciò, se mi accadesse qualcosa sapete il perché”.
• IL BOICOTTAGGIO
Dopodiché ha staccato il telefono e cancellato il post, ma ormai si è scatenata una ridda di reazioni sul web, con inviti al boicottaggio e insulti. L’associazione degli albergatori del Bellunese ha preso ufficialmente le distanze. “Ci dissociamo completamente”, dice Walter De Cassan, il presidente. “Sicuramente ne discuteremo con Federalberghi Veneto ma è il caso che se ne parli anche a livello nazionale. Questo non è il modo di fare ospitalità”. “Il Veneto non è questo”, gli fa eco il presidente della Regione Luca Zaia. Ma per Andrea Martella, senatore e segretario veneto del Pd, non ci sono dubbi: “Questo è razzismo”. La comunità ebraica osserva con preoccupazione l'evoluzione della situazione, con l'ondata di antisemitismo che travolge l'Italia e l'Europa. “Provo una tristezza infinita per l’ignoranza che dimostra certa gente”, commenta Dario Calimani, il presidente della comunità ebraica di Venezia. “Quando non si è d’accordo con ciò che fa Israele si sparge odio contro tutti gli israeliani. Non succede con nessun altro popolo, tantomeno con la Russia. E’ la generalizzazione del disaccordo che diventa odio”.
• I PRECEDENTI
Questa non è la prima volta che, dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, albergatori italiani alzano muri. Lo scorso mese di aprile è successo a Bergamo, all'hotel "Le Funi". "Gesù gli ebrei l'hanno ucciso, come stanno facendo con i bambini di Gaza. Io li ho banditi dal mio albergo, gli ho bloccato le prenotazioni", aveva scritto il titolare. Pochi mesi dopo, nei primi giorni di luglio, sempre sulle Dolomiti ma in quel caso a San Vito di Cadore, era circolata la notizia di una nuova esclusione da un appartamento del circuito Airbnb. Il caso venne poi smentito dal diretto interessato, che si era difeso parlando di un grande malinteso. “L’Italia rischia di essere terreno di scontro e di terrorismo”, avverte Calimani dal ghetto veneziano.
(la Repubblica, 14 novembre 2024)
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Parashat Vayerà. L’amore tra le generazioni, un pilastro dell’ebraismo
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
C’è un’immagine che ci perseguita attraverso i millenni, carica di emozioni. È l’immagine di un uomo e di suo figlio che camminano fianco a fianco in un paesaggio solitario di valli ombrose e colline brulle. Il figlio non ha idea di dove stia andando e perché. L’uomo, al contrario, è in un vortice di emozioni. Sa esattamente dove sta andando e perché, ma non riesce a trovare un senso. L’uomo si chiama Abramo. È devoto al suo Dio, che gli ha dato un figlio e che ora gli dice di sacrificarlo. Da un lato, l’uomo è pieno di paura: perderò davvero l’unica cosa che dà senso alla mia vita, il figlio per cui ho pregato per tutti questi anni? Dall’altro lato, una parte di lui dice: questo figlio era impossibile averlo – io ero vecchio e mia moglie era troppo anziana – eppure eccolo qui. Per questo, anche se sembra impossibile, so che Dio non me lo porterà via. Questo non sarebbe il Dio che conosco e che amo. Non mi avrebbe mai detto di chiamare questo bambino Isacco, che significa “riderà”, se avesse voluto far piangere lui e me. Il padre si trova in uno stato di assoluta dissonanza cognitiva, eppure – pur non riuscendo a trovare un senso – si fida di Dio e non tradisce alcun segno di emozione nei confronti del figlio. Vayelchu shenehem yachdav. I due camminavano insieme. C’è solo un momento di conversazione tra loro: Isacco parlò e disse a suo padre Abramo: “Padre?”. “Sì, figlio mio?” Abramo rispose. “Il fuoco e la legna sono qui”, disse Isacco, “ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. Abramo rispose: “Dio stesso provvederà all’agnello per l’olocausto, figlio mio”. (Genesi 22:7-8) Quali mondi di pensieri non dichiarati e di emozioni non espresse si celano dietro queste semplici parole. Eppure, come a sottolineare la fiducia tra padre e figlio, e tra entrambi e Dio, il testo ripete: Vayelchu shenehem yachdav. I due camminavano insieme. Mentre leggo queste parole, mi ritrovo a viaggiare indietro nel tempo, e nell’occhio della mia mente vedo mio padre e me che torniamo a casa dalla sinagoga durante lo Shabbat. All’epoca avevo quattro o cinque anni e credo di aver capito, anche se non riuscivo a dirlo a parole, che c’era qualcosa di sacro in quel momento. Durante la settimana vedevo la preoccupazione sul volto di mio padre che cercava di guadagnarsi da vivere in tempi difficili. Ma di Shabbat tutte quelle apprensioni erano altrove. Vayelchu shenehem yachdav. Camminavamo insieme nella pace e nella bellezza del giorno santo. Mio padre non era più un uomo d’affari in difficoltà. In quei giorni era un ebreo che respirava l’aria di Dio, godeva delle Sue benedizioni e camminava a testa alta. Prima di ogni Shabbat mia madre preparava il cibo che dava alla casa il suo speciale profumo di Shabbat: la zuppa, il kugel, il lockshen. Mentre accendeva le candele, era la sposa, la regina, della quale cantavamo in Lecha Dodi e Eshet Chayil. Già allora avevo la sensazione che questo fosse un momento sacro, in cui eravamo in presenza di qualcosa di più grande di noi, che abbracciava altri ebrei in altre terre e in altri tempi, qualcosa che più tardi ho imparato a chiamare la Shechinah, la Presenza Divina. Abbiamo camminato insieme, i miei genitori, i miei fratelli e io. Le due generazioni erano così diverse. Mio padre veniva dalla Polonia. Io e i miei fratelli eravamo “veri inglesi”. Sapevamo che saremmo andati dappertutto, che avremmo imparato cose e intrapreso carriere che loro non avrebbero avuto. Ma camminavamo insieme, due generazioni, senza doverci dire che ci amavamo. Non eravamo una famiglia dimostrativa, ma sapevamo dei sacrifici fatti dai nostri genitori per noi e dell’orgoglio che speravamo di portare loro. Appartenevamo a tempi e mondi diversi, avevamo aspirazioni diverse, ma camminavamo insieme. Poi la mia immaginazione torna all’agosto di quest’anno (2011), a quelle scene indimenticabili in Gran Bretagna – a Tottenham, Manchester, Bristol – di giovani che si scatenavano per le strade, saccheggiando negozi, spaccando vetrine, incendiando auto, rapinando, rubando, aggredendo persone. Tutti si sono chiesti perché. Non c’erano motivazioni politiche. Non si trattava di uno scontro razziale. Non c’erano sfumature religiose. Naturalmente la risposta era chiara come il sole, ma nessuno voleva dirlo. Nell’arco di non più di due generazioni, gran parte della Gran Bretagna ha silenziosamente abbandonato la famiglia e ha deciso che il matrimonio è solo un pezzo di carta. La Gran Bretagna è diventata il Paese con il più alto tasso di madri adolescenti, il più alto tasso di famiglie monoparentali e il più alto tasso al mondo – 46% nel 2009 – di nascite al di fuori del matrimonio. Matrimonio e convivenza non sono la stessa cosa, anche se è politicamente scorretto dirlo. La durata media di una convivenza è inferiore ai due anni. Il risultato è che molti bambini crescono senza il loro padre biologico, e in molti casi non sanno nemmeno chi sia il loro padre. Nel migliore dei casi vivono con una successione di patrigni. È un fatto poco noto ma spaventoso, che il tasso di violenza tra patrigni e i figliastri è 80 volte superiore a quello tra padri naturali e figli. Il risultato è che nel 2007 un rapporto dell’UNICEF ha dimostrato che i bambini britannici sono i più infelici del mondo sviluppato, in fondo a una classifica di 26 Paesi. Il 13 settembre 2011, un altro rapporto dell’UNICEF ha messo a confronto i genitori britannici con le loro controparti in Svezia e Spagna. Il rapporto ha evidenziato che i genitori britannici cercano di comprare l’amore dei propri figli regalando loro vestiti costosi e gadget elettronici – un “consumismo compulsivo”. Non riescono a dare ai loro figli ciò che desiderano di più e che non costa nulla: il loro tempo. Il divario tra i valori ebraici e quelli secolari è oggi più evidente che in questo caso. Viviamo in un mondo secolare che ha accumulato più conoscenze di tutte le generazioni precedenti messe insieme, dal vasto cosmo alla struttura del DNA, dalla teoria delle superstringhe ai percorsi neurali del cervello, eppure ha dimenticato la semplice verità che una civiltà è forte quanto l’amore e il rispetto tra genitori e figli – Vayelchu shenehem yachdav, la capacità delle generazioni di camminare insieme. Gli ebrei sono un popolo formidabilmente intellettuale. Abbiamo i nostri fisici, chimici, medici e teorici dei giochi che hanno vinto il premio Nobel. Tuttavia, finché ci sarà un legame vivo tra gli ebrei e la nostra eredità, non dimenticheremo mai che non c’è nulla di più importante della casa, del sacro legame del matrimonio e di quello altrettanto sacro tra genitori e figli. Vayelchu shenehem yachdav. E se ci chiediamo perché gli ebrei hanno così spesso successo, e nel successo donano così spesso il loro denaro e il loro tempo agli altri, e così spesso hanno un impatto che va oltre il loro numero: non c’è nessuna magia, nessun mistero, nessun miracolo. È semplicemente che dedichiamo le nostre energie più preziose all’educazione dei nostri figli. Mai come durante lo Shabbat, quando non possiamo comprare ai nostri figli vestiti costosi o gadget elettronici, ma possiamo solo dare loro ciò che più desiderano e di cui hanno bisogno: il nostro tempo. Gli ebrei sapevano, sanno e sapranno sempre ciò che le classi chiacchierone di oggi negano, ossia che una civiltà è forte quanto il legame tra le generazioni. Questa è l’immagine duratura della parashà di questa settimana: il primo genitore ebreo, Abramo, e il primo figlio ebreo, Isacco, che camminano insieme verso un futuro sconosciuto, con le loro paure fermate dalla loro fede. Se perdiamo la famiglia, finiremo per perdere tutto il resto. Santificando la famiglia, avremo qualcosa di più prezioso della ricchezza, del potere o del successo: l’amore tra le generazioni, che è il dono più grande che Dio ci fa quando ce lo doniamo l’un l’altro.
(Bet Magazine Mosaico, 15 novembre 2024)
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Parashà della settimana: Va-erà (Apparve)
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I palestinesi sono meno euforici
Dopo la rielezione di Donald Trump, i palestinesi sono meno euforici degli israeliani.
di Ariel Schneider
GERUSALEMME - Le voci ufficiali palestinesi hanno inizialmente reagito con cautela alla vittoria elettorale di Trump. La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi è stata accolta con delusione dai politici palestinesi e dai loro media. Cosa potevano dire? Il vecchio compagno del loro arcinemico Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni statunitensi e ora sta lavorando a un dream team politico per Israele. Il futuro ambasciatore statunitense a Gerusalemme è un pastore battista devoto che vede un Grande Israele biblico sulla mappa del mondo, senza spazio per la Palestina. Per Mike Huckabee, il cuore biblico della Giudea e della Samaria è la promessa di Dio al popolo ebraico. Punto e basta. Per i palestinesi è più che altro un incubo. Israele è euforico, i palestinesi no. In una dichiarazione, il Presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, si è congratulato con il Presidente Trump per la sua vittoria elettorale e gli ha augurato ogni successo. Ha dichiarato di essere impaziente di lavorare con lui per promuovere la pace e la sicurezza nella regione. Abbas ha concluso dicendo: “Siamo fedeli al nostro impegno per la pace e siamo fiduciosi che gli Stati Uniti, sotto la sua guida, sosterranno le legittime aspirazioni del popolo palestinese”. Questo può essere vero, ma Abbas certamente ricorda bene che Donald Trump ha quasi fatto passare l'accordo del secolo nel cuore biblico della Giudea e Samaria durante il suo primo mandato. E questo accordo è ora di nuovo sul tavolo. Al contrario, il quotidiano palestinese Al-Quds ha riportato la vittoria elettorale di Trump con un editoriale in prima pagina dal titolo “Il ritorno di Trump” e ha pubblicato numerosi articoli e commenti in cui si prevedeva che Trump avrebbe appoggiato incondizionatamente Israele e adottato misure estreme e pericolose che avrebbero danneggiato i palestinesi. In un editoriale, il giornale ha scritto: “Trump sarà più israeliano degli stessi israeliani e darà loro più tempo per continuare il loro ruolo diabolico nella regione”. E continua: “Se qualcuno ha creduto che Netanyahu potesse porre fine alla guerra a Gaza all'inizio del mandato di Trump, è stato solo per fare un favore a Trump e dare al nuovo presidente una rapida vittoria diplomatica. Tuttavia, ciò richiederebbe che Israele e gli Stati Uniti mantengano congiuntamente i canali per un ulteriore coordinamento riguardo a ulteriori complotti contro la causa palestinese in particolare e il futuro del Medio Oriente in generale”.
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Secondo la vignetta la rielezione di Trump affogherà il mondo nel sangue
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Secondo un'analisi del Middle East Media Research Institute (MEMRI), Ahmad Majdalani, membro del Comitato esecutivo dell'OLP, ha dichiarato: “Rispettiamo la volontà dei popoli di eleggere i loro presidenti, e non abbiamo alcun problema con qualsiasi presidente in qualsiasi parte del mondo, purché venga rispettata la volontà del popolo palestinese di realizzare il proprio diritto all'autodeterminazione, di creare un proprio Stato indipendente e di rimuovere l'occupazione dalla loro terra”. Ha invitato l'amministrazione Trump a “trattare seriamente la questione palestinese”, aggiungendo che “la precedente amministrazione statunitense è passata dal sostegno unilaterale a Israele a collaborare con l'occupazione nella sua aggressione contro il popolo palestinese”. Sabri Saidam, vice segretario generale del Comitato centrale di Fatah, ha spiegato le aspettative della leadership palestinese sul secondo mandato di Trump. In un'intervista al quotidiano palestinese Al-Quds, ha sottolineato: “Noi tutti speriamo in un Trump diverso, che sia in grado di prendere atto della mutata realtà in Palestina e nella regione”. Saidam ha espresso la speranza che Trump non si concentri solo sulla normalizzazione tra Israele e gli Stati arabi, ignorando i palestinesi, ma che affronti anche le radici del conflitto palestinese-israeliano. Ha invitato Trump a “porre fine alla guerra in Palestina”, come aveva promesso ai suoi elettori arabi, e ad adottare misure di buona volontà nei confronti dei palestinesi per riequilibrare le relazioni e dimostrare che gli Stati Uniti rispettano i loro obblighi internazionali. Secondo l'analisi del MEMRI, alcuni media palestinesi hanno mostrato indifferenza per la vittoria elettorale di Trump e hanno trasmesso il messaggio che la politica statunitense nei confronti della Palestina non sarebbe cambiata sotto la sua guida. I quotidiani Al-Hayat Al-Jadida e Al-Ayyam non hanno nemmeno menzionato la vittoria elettorale di Trump nelle loro prime pagine. Talal Okal, editorialista di Al-Ayyam, ha scritto: “In pratica, non c'è molta differenza tra Trump e Harris. Finora l'amministrazione Biden è stata complice del genocidio di Gaza. Trump è il padre dell'accordo del secolo quando ha detto che la terra di Israele è troppo piccola e deve essere allargata. Non fermerà la guerra perché il suo partner Netanyahu è al potere e vuole andare fino in fondo”. I palestinesi hanno paura del duo Benjamin Netanyahu e Donald Trump. E a ragione. Sanno dal passato che Trump ha spostato l'ambasciata americana a Gerusalemme e che non è scoppiata la terza guerra mondiale che i palestinesi avevano minacciato all'epoca. Israele ha anche firmato trattati di pace con i Paesi arabi e non è scoppiata nessuna guerra mondiale. Ora temono di poter fare di nuovo ciò che vogliono e che nessuno li fermi. Può essere vero, ma oggi Israele, il Medio Oriente e il mondo intero si trovano in una situazione nuova ed esplosiva. L'accordo del secolo è sul tavolo e i palestinesi temono che la Giudea e la Samaria vengano annesse da Israele con il sostegno americano.
(Israel Heute, 14 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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È Marco Rubio il Segretario di Stato nominato da Donald Trump
Si aspettava solo la conferma della nomina di Marco Rubio a Segretario di Stato americano. Per Israele una ottima notizia
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Donald Trump e Marco Rubio
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Ieri sera il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato la nomina del deputato Marco Rubio a segretario di Stato americano. Trump ha scritto in una dichiarazione sulla sua nomina: “Marco è un leader molto rispettato e una voce potente a favore della libertà. Sarà un forte rappresentante per la nostra nazione, un vero amico per i nostri alleati e un guerriero senza paura che non si tirerà indietro di fronte ai nostri avversari. Non vedo l’ora di lavorare con Marco per rendere l’America e il mondo di nuovo grandi e sicuri”. Rubio, 53 anni, ha iniziato la sua carriera politica come membro repubblicano della Camera dei rappresentanti della Florida e successivamente è stato eletto al Senato degli Stati Uniti. Nel 2016 si è candidato alle primarie del Partito Repubblicano contro Trump. Come membro della commissione per le relazioni estere del Senato, Rubio si è occupato molto della minaccia cinese per gli Stati Uniti. Ha anche mostrato un atteggiamento duro nei confronti di Russia, Corea del Nord e Iran e ha espresso posizioni chiaramente filo-israeliane. Il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, si è congratulato con Rubio per la nomina: “Sei un vero difensore dei nostri valori condivisi e un grande amico di Israele. Non vedo l’ora di lavorare con te mentre affrontiamo sfide significative per la nostra regione e il mondo.” Trump ha annunciato anche che Matt Gates sarebbe stato nominato procuratore generale. “Matt è un avvocato talentuoso e determinato, che ha frequentato il College of William and Mary Law School, e si è distinto al Congresso nei suoi sforzi per realizzare una riforma critica del Dipartimento di Giustizia. Non c’è questione più importante che fermare lo sfruttamento del diritto e del sistema legale per scopi politici. Matt lavorerà per porre fine all’uso del governo come strumento politico, proteggere i nostri confini, smantellare le organizzazioni criminali e ripristinare la fiducia nel sistema giudiziario americano”, ha scritto Trump.
(Rights Reporter, 14 novembre 2024)
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“La gente non si ascolta a vicenda e i media incitano alla divisione”
Un movimento di base emergente chiede di sanare le fratture sociali mentre Israele entra nel suo quarto quarto di secolo. Intenzionata a costruire un movimento di massa per il cambiamento, HaRiv'on HaRevi'i esorta gli israeliani di tutti i settori a immaginare - e agire per - un futuro unito.
di Sue Surkes
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Israeliani di diverse estrazioni sociali si incontrano al Centro Congressi Internazionale di Gerusalemme sotto l'egida di Rivon4
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Diverse centinaia di sconosciuti sedevano in una sala con la moquette nel Centro Congressi Internazionale di Gerusalemme il 31 ottobre, chiedendosi cosa sarebbe successo. "Cercate qualcuno vicino a voi che sembri diverso e presentatevi", ha detto Ella Ringel, co-fondatrice e CEO di HaRiv'on HaRevi'i (Il “Quarto-quarto di secolo”). I miei occhi si sono posati su una giovane donna di corporatura minuta vestita con abiti stereotipati da colona della Cisgiordania - un foulard grande come un turbante, gonna fluente e stivali Blundstone. Shachar, 26 anni, mi ha raccontato di essere cresciuta nel quartiere sud-occidentale di Gerusalemme di Kiryat Menachem e di vivere ora in una fattoria su una collina vicino a Duma, nel nord della Cisgiordania, dove suo marito da quattro anni alleva capre. "Parlate delle cose che vi fanno stare bene", ha indicato Ringel. Shachar ha detto: "I miei figli e il fatto che stiamo sconfiggendo i nostri nemici." Tornati ai nostri posti, Ringel ha chiesto al pubblico cosa li preoccupasse di più. "La gente non si ascolta a vicenda", si è offerto Yaakov. "I media, che incoraggiano la divisione", ha detto Noam, 31 anni. Ron, di Tel Aviv, ha detto che temeva che le persone che condividevano i suoi valori stessero scomparendo e che vivere insieme sarebbe diventato "insopportabile". Una donna ha detto che il governo era disconnesso dal popolo e che si trovava in un "deserto ideologico dove i valori sono andati in frantumi." Stavamo partecipando a una delle tante conferenze HaRiv'on HaRevi'i organizzate in tutto il paese per convincere gli israeliani di ogni estrazione che, in un momento di profonde fratture politiche e sociali, può esserci un futuro costruito sul consenso. Fondata due anni fa, l'organizzazione dice di avere già 150.000 persone nelle sue mailing list, di cui 25.000 regolarmente attive in gruppi basati sulla posizione geografica in tutto il paese. Afferma che il suo obiettivo non è né far cadere il governo - come ha sostenuto (in ebraico) la deputata di estrema destra del partito Sionismo Religioso di Bezalel Smotrich, Orit Strock - né sostenere il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Sicurezza Nazionale di estrema destra Itamar Ben-Gvir, come ha suggerito il giornale di sinistra Haaretz. Invece, il collettivo di base dice di mirare a stabilire un governo di unità e generare proposte politiche basate su un ampio consenso pubblico; sostituire l'ethos dominante "noi o loro" con uno di speranze e valori condivisi; e far uscire le persone dalle loro camere d'eco alimentate dai social media per ascoltare veramente i concittadini con opinioni diverse. L'approccio conciliante di HaRiv'on HaRevi'i ha sottolineato la sua risposta al drammatico e controverso licenziamento del Ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Netanyahu all'inizio di questo mese, che ha generato aspre condanne da parte dei suoi sostenitori (principalmente del centro e della sinistra politica) e rumorose espressioni di sostegno a destra. Invece di esprimere un'opinione, HaRiv'on HaRevi'i ha posto delle domande. Il suo post su Facebook recitava: "È permesso licenziare un ministro della difesa in guerra? Sì. Ma un passo così drammatico, mentre gli occhi di tutti i nostri nemici aspettano di vedere se ci stiamo indebolendo dall'interno, deve essere condotto in modo da creare fiducia e mantenere il fronte interno forte e coeso." "Ecco perché i cittadini di Israele devono ricevere una spiegazione trasparente, convincente e vera della mossa: Come farà il licenziamento del ministro della difesa durante la guerra a far avanzare la vittoria a Gaza e in Libano? Come promuove il licenziamento la nostra preparazione per l'attacco iraniano, per il nuovo presidente negli USA, per affrontare la pressione internazionale? E soprattutto, come promuove il ritorno dei rapiti in Israele? E non meno significativo, una mossa il cui sfondo è la pubblicazione di un ordine di coscrizione per migliaia di ultra-ortodossi ferisce lo spirito dei combattenti al fronte. Come ripristineremo la fiducia che è stata spezzata nei soldati e nelle famiglie dei riservisti?"
• DAVID BEN-GURION COME PROFETA
HaRiv'on HaRevi'i è stata fondata durante il breve mandato di Naftali Bennett come primo ministro nel 2021-2022. I suoi co-fondatori sono Yoav Heller, un consulente strategico e storico specializzato nell'Olocausto e nella società israeliana; Ella Ringel, una psicologa organizzativa che ha lavorato per anni con il comando superiore dell'IDF; Eitan Zeliger, proprietario di una società di PR e pubblicità; e Ori Herman, il cui background è nella tecnologia, nella società civile e nel governo. Il suo nome si riferisce al quarto quarto di secolo dell'esistenza dello Stato di Israele e riecheggia il test per il sionismo che HaRiv'on HaRevi'i aveva predetto per quando lo stato avrebbe compiuto 75 anni (l'anno scorso). "Per allora, i bambini nati non incontreranno più i sopravvissuti all'Olocausto, né conosceranno la generazione fondatrice," disse il primo primo ministro del paese. "La nostra fede nella giustizia della nostra causa richiederà una ridefinizione rinnovata, non basata su ciò che è stato ma piuttosto su ciò che sarà." HaRiv'on HaRevi'i organizza incontri di massa per presentare alla società civile le sue idee - seminari, circa 100 incontri mensili nei saloni di case private, e incontri, alcuni online, dove i partecipanti possono incontrare "l'altro", affinare le loro capacità di ascolto e discussione civile e fare suggerimenti. L'evento introduttivo del 31 ottobre a Gerusalemme è stato raffinato e strettamente coreografato, un mix di terapia di gruppo, motivazione aziendale e zelo evangelico. È iniziato con un discorso ispiratore di Ringel, che ha detto che l'incontro mirava a presentare HaRiv'on HaRevi'i e a far incontrare i partecipanti con persone che la pensavano diversamente da loro. "Il primo passo che ha aiutato i paesi a uscire da una crisi è stato l'accordo generale sul problema," ha detto Ringel, citando Jared Diamond, l'accademico e commentatore sociale statunitense autore di "Upheaval: How Nations Cope with Crisis and Change." Ha citato il defunto rabbino britannico Jonathan Sacks, che distingueva tra ottimismo - "un sentimento" che va e viene - e speranza. "La speranza richiede la capacità di sognare, di avere obiettivi chiari e di agire," ha detto. Il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy dimostrò una visione per il futuro nel 1961 quando fissò l'obiettivo di far atterrare un uomo sulla luna entro un decennio, ha continuato Ringel. Dov'era il Kennedy di oggi? "Meritiamo di più," ha detto. "Non può essere che non osiamo immaginare." Le democrazie in tutto il mondo erano "bloccate", ha continuato, "e siamo tutti parte del problema." Avendo specificato i nostri orientamenti religiosi durante la registrazione alla conferenza, siamo stati tutti diretti a grandi tavoli rotondi dove la maggior parte delle persone era o laica o religiosa nazionale. A moderare un tavolo c'era Nora Muller, una dottoressa in pensione di Kfar Saba, originaria dell'ex Unione Sovietica. Cosa ci ha portato tutti qui, ha chiesto? Hani, una giovane madre il cui grado di osservanza religiosa era difficile da valutare, ha detto che temeva per il futuro dei suoi quattro figli. Questa reporter era seduta con un rabbino nato in Algeria ed educato ultraortodosso ("Ora sono sionista religioso") che aveva guidato incontri interreligiosi in Svizzera, un signore con la kippà all'uncinetto che era immigrato dalla Francia 50 anni fa, e una nonna dalla città cisgiordana di Ma'ale Adumim, vicino a Gerusalemme. Muller ci ha diviso in gruppi di quattro e ci ha detto cosa discutere e per quanti minuti. A cosa ci relazionavamo durante l'evento? Cosa ci preoccupava? Avevamo sentito un concetto che ci aveva colpito? In che modo ognuno di noi era parte del problema? Alla fine, ha distribuito carte con suggerimenti sull'ascolto empatico. Il nostro quartetto era unito nel timore dell'effetto che il mondo chiuso degli ultraortodossi stava avendo sull'unità del paese alla luce dell'opposizione della leadership rabbinica al servizio militare dei membri della loro comunità in un momento in cui i soldati riservisti che combattevano a Gaza e in Libano si stavano esaurendo.
• UNITI, NELLA PAURA
Durante la pausa panini, le persone hanno continuato a parlare in piccoli gruppi. Uno dei pochi uomini identificabili come ultraortodossi, probabilmente sulla trentina, è stato praticamente assalito da un gruppo di donne religiose nazionali e laiche che volevano le sue opinioni su una serie di questioni. Il giovane ha detto di aver servito nell'esercito, il che lo rendeva meno rappresentativo del mondo Haredi. L'evento conclusivo è stata una conferenza di Yoav Heller. Ha sviluppato la teoria del Quarto-Quarto di secolo, ispirato da accademici come il Prof. John Haldon della Princeton University, il Prof. David Passig della Bar-Ilan University, e libri come "The Fourth Turning". Quest'ultimo, concentrandosi sulla storia americana, mostrava come la storia moderna procedesse in cicli di 80-100 anni, ciascuno composto da quattro "svolte". Secondo la teoria che Heller e i suoi colleghi di HaRiv'on HaRevi'i presentano al pubblico, il primo quarto di secolo di Israele è stato speso nel ritorno a Sion e nella difesa dei confini. Il secondo quarto di secolo si è concentrato sulla creazione delle infrastrutture dello stato. Il terzo quarto di secolo ha visto crescere la ricchezza e il potere militare, ma i cittadini hanno iniziato ad allontanarsi dalla storia fondante. Credendo di non essere più minacciati dall'esterno, hanno iniziato a combattersi l'un l'altro all'interno. Molti gruppi insistevano che il paese dovesse apparire esattamente come volevano loro, scatenando fratture interne che i suoi nemici potevano sfruttare il 7 ottobre dell'anno scorso. Quel giorno, i terroristi di Hamas hanno attraversato il confine di Gaza, ucciso circa 1.200 persone e rapito 251 persone nell'enclave palestinese. Heller ha affrontato domande difficili dal pubblico. "Vuoi uno stato democratico o ebraico?" ha chiesto Dean da Jaffa vicino a Tel Aviv. Una donna del Kibbutz Ramat Rachel a Gerusalemme ha chiesto se ci fossero posizioni ideologiche inaccettabili. Diverse persone hanno notato che il pubblico era principalmente istruito e soprattutto laico o religioso sionista e, quindi, non veramente rappresentativo della società israeliana. Carismatico e divertente, Heller ha cercato di ribaltare le domande. Ha detto quanto fosse meraviglioso che così tante persone fossero venute, aggiungendo che l'organizzazione, con cui 150.000 persone hanno già condiviso i loro dati, stava "creando qualcosa di molto grande." Ha detto che HaRiv'on HaRevi'i stimava che tra i suoi membri più attivi, il 40% fosse laico, il 35% religioso sionista, il 21% tradizionale, il 4% ultraortodosso, e solo l'1% arabo. Riteneva che il 55% fosse sullo spettro politico di destra, con il 45% al centro e a sinistra. Finora, il movimento ha condotto una campagna nazionale per un governo di unità, prodotto una proposta per integrare gli uomini ultraortodossi nell'IDF, e redatto un "documento fondamentale" chiamato La Storia Israeliana. Quest'ultimo è il risultato di un anno di discussioni che hanno coinvolto circa 1.000 persone e ha ricevuto quasi 10.000 commenti. Mirato a definire cosa sia Israele, comprende 10 principi. Tra questi ci sono: Lo Stato di Israele è lo stato nazionale del popolo ebraico e realizza l'idea sionista; Israele è uno stato ebraico, con caratteristiche ebraiche nello spazio pubblico, ed è una casa naturale per il mondo della Torà e della fede; Israele è una democrazia liberale nei suoi valori e sistema di governo; i cittadini arabi di Israele sono partner a pieno titolo e hanno uguali diritti; e la pace è un ideale, e Israele si sforza per la pace con i suoi vicini. Hadas Lahav, responsabile delle politiche di HaRiv'on HaRevi'i, ha successivamente detto al Times of Israel che attivisti ed esperti stavano lavorando su otto quadri di riferimento in materie che includono religione e stato, i sistemi educativi (Israele ne ha quattro: statale religioso, laico, ultraortodosso e arabo, con poca sovrapposizione tra loro), sicurezza, economia, reti sociali, e come bilanciare al meglio le diverse istituzioni dello stato per minimizzare gli attriti e incoraggiare una maggiore responsabilità. Lahav ha detto che attivisti con competenze in ogni materia stavano guidando diversi team. Le bozze dei quadri venivano poi condivise per commenti nei seminari di idee, nei gruppi regionali, o su una piattaforma digitale pilota nel caso di religione e stato. Ha detto che le proposte includevano "idee molto concrete" pur riflettendo il compromesso. Ha continuato: "Non siamo lobbisti. Creiamo progetti faro e speriamo che il pubblico venga a dire che questo è il luogo da cui ci aspettiamo che i politici portino avanti questo paese. L'idea è creare un discorso pubblico perché, alla fine della giornata, i politici vogliono compiacere il pubblico, e il pubblico ha dimenticato di avere una voce." Lahav ha aggiunto: "Ci sono estremisti da entrambe le parti. È un loro diritto. Ma ci sono abbastanza persone nel mezzo che non vogliono cadere nel buco di essere pro o contro. La maggior parte delle persone sono sionisti moderati, e non hanno una casa."
(da The Times of Israele, 12/11/2024)
(Kolòt, 14 novembre 2024)
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Sposarsi all’ombra di una guerra: Yarden e Liel sotto i razzi durante il giorno del loro matrimonio
di Michelle Zarfati
I futuri sposi Yarden Salem e Liel Madmon, di Kadima, hanno vissuto un momento emozionante durante il servizio fotografico del loro matrimonio, svoltosi martedì nel giardino ecologico di Hod Hasharon. Nel bel mezzo del momento delle foto, poche ore prima della cerimonia nuziale, è suonata nuovamente la sirena, costringendo la coppia a rifugiarsi a terra per mettersi in sicurezza, il tutto vestiti con gli abiti nuziali.
“Non c’era un rifugio nelle vicinanze”, ha detto Ilan Lorentzky, il fotografo che, insieme al collega Arnon Cohen, ha immortalato su pellicola l’emozionante giornata della coppia. “Ci siamo spostati sul fianco di una collina, ci siamo accovacciati e ci siamo coperti la testa. Le intercettazioni dell’Iron Dome erano proprio sopra di noi e potevamo sentire le esplosioni. Questa è la nostra realtà, ma continueremo a festeggiare stasera: dobbiamo trovare la gioia”.
Liel, la sposa, ha raccontato: “Mentre eravamo accovacciati, abbiamo iniziato a cantare ‘Am Yisrael Chai’ e abbiamo pregato per la sicurezza dei soldati e degli ostaggi. Anche con la sirena in sottofondo, abbiamo mantenuto alto il morale”. Yarden, lo sposo, ha aggiunto: “Eravamo sempre preoccupati che qualcosa potesse andare storto. Sposarsi in tempi come questi è una follia. Ma come ha detto la mia saggia sposa, Dio veglia su di noi”.
(Shalom, 13 novembre 2024)
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La lunga notte antiebraica
Più oscura si fa questa notte, notte d’orrore.
di Antonio Cardellicchio
Amsterdam: aggressione sanguinaria, caccia sistematica agli ebrei di Israele, una Gaza nei nostri territori, esplosione di odio smisurato e incontenibile. Ogni limite è stato superato. Eccoli gli effetti della universale intifada di demonizzazione-deumanizzazione degli ebrei, in una replica dell’hitlerismo aggravata dall’esibizione ostentata delle azioni dei carnefici. L’indignazione civile, quando c’è stata, è del tutto insoddisfacente davanti all’entità criminale di una violenza militarizzata, furibonda. Alimentata da una ideologia genocida. Le bande nazi-islamiche sono state padrone di Amsterdam nelle ore decisive, hanno colpito a sangue gli ebrei e terrorizzato la città. L’intervento tardivo della polizia olandese non è stato una semplice manifestazione di inefficienza, ma si è rivelato l’effetto di una prassi multiculturalista che ha alimentato la cultura dell’odio e dell’agguato mortale. Ayaan Hirsi Ali ha ampiamente documentato che la polizia olandese contiene al suo interno ampie quote di immigrati islamici, che avevano espresso posizioni anti-israeliane e si erano rifiutate di fare controlli sui sospetti. Il multiculturalismo rivela il suo vero volto di incubatore di odio razziale, di pulizia etnica, mostra in pieno quello che si sapeva essere, cioè l’opposto diametrale del pluralismo e della vita liberale democratica. Così i Paesi Bassi che hanno una grande tradizione di civiltà plurale, federale, di libertà (l’eccellenza della Repubblica delle Province Unite nel Seicento, dove il termine provincia ha un significato opposto a quello periferico prefettizio della storia francese e italiana), perché nella storia olandese la provincia era invece un potere originario che delegava a un centro coordinato, in una tipica democrazia federale. Tutto questo è stato devastato dalla criminalità violenta del fanatismo islamico. Infranta la patria di Spinoza e Anna Frank. Ricordiamo che la famiglia Frank venne denunciata e deportata nei lager dai nazisti occupanti affiancati da collaborazionisti olandesi. Il Primo Ministro del Regno dei Paesi Bassi ha espresso la sua vergogna, il Re Guglielmo Alessandro ha comunicato al presidente Herzog: “Con gli ebrei abbiamo fallito con la Shoah, abbiamo fallito ora.” L’Olanda è oggi il paese delle chiese vuote, di chiese chiuse trasformate in supermercati, di sinagoghe a rischio di assalto, di moschee che si diffondono come centri della guerra psicologica del nazi-islamismo anti-ebraico, anti-cristiano, anti-occidentale. La violenza antiebraica di Amsterdam è più grave di quanto sembri, perché rappresenta una punta del pericoloso progetto Eurabia, rivolto a indebolire, dividere, colonizzare l’Europa attraverso il potere violento delle enclave islamiche nell’Unione Europea. Molti degli aggressori degli israeliani sono di terza o anche quarta generazione, una misura questa del disastro multiculturalista. Ecco che significa aver dato la cittadinanza olandese ad anti-olandesi, antisemiti, anti-europei. Questa dinamica criminale antisemita, anti-occidentale non si arresta ma si espande senza maschera, senza vergogna. Diverse manifestazioni di massa, ad esempio a Milano, esaltano l’attacco di Amsterdam, inneggiano a Yahya Sinwar, del quale inalberano i ritratti. In questo modo osceno si esaurisce la finzione della retorica “filo-palestinese”, e in modo scoperto e arrogante si comportano come un organo di Hamas, Hezbollah e Iran. La glorificazione dei carnefici incita a nuove carneficine. Sarebbe come fare una manifestazione di massa che inneggia a Hitler, Stalin, Mussolini, Mao, Pol Pot, Bin Laden, i peggiori capimafia e boss del narcotraffico. Come dire: vogliamo la legalizzazione del crimine e la criminalizzazione della sfera umana e civile. Le folle della violenza verbale e fisica antiebraica esercitano un vero ricatto verso una democrazia debole e indifesa fanno valere, oltre la violenza, il peso di una tirannia della maggioranza in termini di consenso e calcolo elettorale. Gli ebrei in Italia sono una minoranza pacifica, senza voce, trattata da sempre come un capro espiatorio. Trascurata per la sua marginalità, quasi insignificanza elettorale. Ma quando la democrazia formale si riduce a statistica quantitativa perde la qualità di una democrazia fondata su principi inviolabili, con un suo ethos. Perché l’antisemitismo non è solo persecuzione e morte per gli ebrei, ma è un potente tossico per la dissoluzione della democrazia. Terribile a dirsi, ma è come se questa realtà incontrastata del nuovo nazismo islamico, per certi aspetti selvaggi, sadici, apocalittici, anche peggiore dello storico nazionalsocialismo tedesco, si stesse espandendo senza una barriera antifascista o con una opposizione solo marginale. Lo aveva compreso, e ne scriveva profeticamente, Oriana Fallaci:
“Continua la fandonia dell’Islam ‘moderato’, la commedia della tolleranza, la bugia dell’integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un’esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in Paesi lontani. Be’, il nemico non è affatto un’esigua minoranza. E ce l’abbiamo in casa. Ed è un nemico che a colpo d’occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all’occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente-inserito- nel-nostro-sistema-sociale. Cioè col permesso di soggiorno […] È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome dell’ umanitarismo e dell’asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i centri di accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della ‘necessità’ (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?), invitiamo anche attraverso l’Olimpo costituzionale. ‘Venire cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi.’ Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all’imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l’Eurabia, sicchè per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l’esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.”
Questo scriveva a suo tempo. Oggi, che direbbe? Solo un risveglio, una rivolta delle coscienze, potrà difendere gli ebrei, rompere la loro de-umanizzazione, e creare una spinta per un’Europa che superi l’inganno multiculturalista, e diventi dunque un’Europa pluralista.
(L'informale, 13 novembre 2024)
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Cosa ha detto Netanyahu agli iraniani
Il primo ministro Binyamin Netanyahu ha pubblicato ieri sera una dichiarazione registrata in inglese in cui ha cercato di fare appello al popolo iraniano.
“Qualche settimana fa mi sono rivolto direttamente al popolo iraniano […] Dall’ultima volta che abbiamo parlato, il regime Khamenei ha lanciato centinaia di missili balistici contro il mio Paese. Mi chiedo, vi ha detto quanto è costato questo attacco? Beh, non sto indovinando: l’importo è di 2,3 miliardi di dollari. Questo è l’importo che hanno sprecato del tuo prezioso denaro in attacchi inutili”.
“I missili hanno causato danni marginali a Israele, ma che danni hanno causato a voi? Questa cifra avrebbe potuto aggiungere miliardi al vostro budget per i trasporti. Questa cifra avrebbe potuto aggiungere miliardi al budget per il sistema educativo iraniano. Invece, il regime di Khamenei ha preferito la brutalità dei missili e ha fatto rivoltare il mondo contro il tuo Paese, ti ha derubato del denaro che avrebbe dovuto essere tuo.”
Più avanti nel suo discorso, Netanyahu ha fatto riferimento ad un “Iran libero”: “Voglio che immaginiate come la vostra vita potrebbe apparire diversa se l’Iran fosse libero. Potete esprimere la vostra opinione senza paura. Potete raccontare una barzelletta senza chiedervi se sarete portati nella prigione di Evin (una prigione situata nel nord-ovest di Teheran, e destinata a prigionieri pericolosi e prigionieri politici, Kz7). Chiudi gli occhi e immagina i volti dei tuoi figli: anime belle e pure. Pensate alle infinite potenzialità che avrebbero potuto avere con tutta la vita davanti a loro.
“Immagina come sarebbe la vita dei tuoi figli se miliardi di dollari fossero investiti in loro, invece di guerre inutili che non possono essere vinte. Riceverebbero un’istruzione di livello mondiale. Avresti bellissime strade, ospedali avanzati, acqua pulita. Israele ha i sistemi di desalinizzazione dell’acqua più avanzati al mondo E sarebbe felice di aiutare a ricostruire le infrastrutture idriche al collasso dell’Iran”.
Netanyahu ha continuato: “Questa e tante altre cose sono cose che potresti accettare. Ma questo è ciò che il regime di Khamenei ti impedisce ogni giorno. Sono ossessionati dalla distruzione di Israele, invece che dalla costruzione dell’Iran. Che vergogna.
“Un altro attacco contro Israele sarà molto dannoso per l’economia iraniana. Vi deruberà di molti altri miliardi di dollari. So che molti di voi non vogliono questa guerra. Neanche io voglio questa guerra. Il popolo di Israele non vuole questa guerra. C’è una forza che mette in pericolo la tua famiglia: i dittatori di Teheran”.
Netanyahu ha anche detto: “Ci sono anche buone notizie. Ogni giorno questo regime si indebolisce. Ogni giorno Israele diventa più forte. Il mondo ha visto solo una frazione della nostra forza. Eppure, c’è una cosa che spaventa il regime di Khamenei più di Israele. Sai di cosa si tratta? Questo sei tu: il popolo iraniano. Ecco perché spendono così tanto tempo e denaro cercando di schiacciare le tue speranze e frenare i tuoi sogni.
“Bene, ti dico questo: non lasciare che i tuoi sogni muoiano. Sento i sussurri: donne, vita, libertà. Non perdere la speranza. E sappi che Israele e altri nel mondo libero sono al tuo fianco. Il regime vuole distruggere il vostro futuro nel suo tentativo di distruggere il nostro Paese. Non permetteremo che ciò accada.”
Alla fine, Netanyahu ha detto: “Non ho dubbi che arriverà il giorno in un Iran libero in cui israeliani e iraniani costruiranno un futuro di prosperità e pace. Questo è il futuro che Israele merita. Questo è il futuro che merita l’Iran. Insieme trasformiamo questo bellissimo sogno in realtà”.
(Rights Reporter, 13 novembre 2024)
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Massima allerta per la partita Francia-Israele, richiamati 4000 agenti
di David Fiorentini
Continuano a spuntare i video agghiaccianti della “caccia all’ebreo” di Amsterdam. A giorni di distanza le acque non si sono ancora calmate, anzi, fioccano messaggi di incitamento ai fratelli e sorelle musulmani a continuare le violenze nella prossima città ad ospitare una squadra israeliana: Parigi. Giovedì sera, 14 novembre, allo Stade de France scenderanno in campo le nazionali di calcio di Francia e Israele in un incontro valevole per la Nations League. Il ministro dell’interno Bruno Retailleau ha indetto uno stato di massima allerta, ordinando un dispiegamento straordinario di forze dell’ordine con circa 4000 agenti. Un poliziotto ogni cinque tifosi, un rapporto inimmaginabile per una partita di questo livello, facilitato però dalla vendita di soli 20 mila biglietti, sugli 80 mila disponibili.“C’è un contesto di tensione che rende questa partita un evento ad alto rischio per noi,” ha spiegato il capo della polizia di Parigi, Laurent Nuñez, alla televisione francese BFM TV, precisando che le autorità “non tollereranno” alcun episodio di violenza. “Ci sarà un perimetro di sicurezza anti-terrorismo attorno allo stadio,” ha aggiunto Nuñez, con controlli rafforzati, incluse perquisizioni e ispezioni di borse per garantire un monitoraggio capillare degli accessi. Tra l’altro, il clima parigino si era già scaldato prima delle sommosse di Amsterdam, quando attivisti propal avevano occupato la sede della Federazione calcistica francese, chiedendo l’annullamento della partita. Per questo motivo, nella settimana precedente alla partita, si è aperto bruscamente il dibattito sulla possibilità di spostare la partita fuori Parigi, emulando la scelta italiana di ospitare la nazionale israeliana in una città più periferica come Udine. Da un lato, il deputato lepenista Julien Odoul ha proposto di giocare in Corsica dove a quanto pare “non c’è antisemitismo”, mentre il deputato della sinistra radicale (la France Insoumise) Louis Boyard ha chiesto direttamente l’annullamento dell’incontro e, come fatto per la Russia, l’esclusione di Israele dalla UEFA. Tuttavia, il presidente Emmanuel Macron, che sarà presente in tribuna, ha voluto mantenere l’evento a Parigi come segno di resilienza e fermezza contro l’antisemitismo.
• ISRAELE AI CONCITTADINI: “NON ANDATE ALLE MANIFESTAZIONI SPORTIVE” Dal lato israeliano invece, il Consiglio per la Sicurezza Nazionale ha immediatamente avvertito i propri cittadini a non recarsi alle manifestazioni sportive successive alla partita Ajax – Maccabi Tel Aviv, riferendosi in particolare all’incontro cestistico Virtus Bologna – Maccabi Tel Aviv della sera successiva. In un comunicato, ha sottolineato la crescente minaccia contro gli ebrei e gli israeliani all’estero, osservando che “negli ultimi giorni sono stati identificati vari appelli da parte di gruppi pro-palestinesi e sostenitori di organizzazioni terroristiche per colpire israeliani ed ebrei durante proteste e manifestazioni”. Il Consiglio ha inoltre consigliato ai viaggiatori israeliani di evitare di identificarsi come tali e di informarsi accuratamente sulle condizioni di sicurezza dei paesi di destinazione Dunque, con una Parigi blindata e lo Stade de France trasformato in una vera e propria fortezza, Francia-Israele sarà un importante banco di prova per le autorità francesi, decise di non cedere alle intimidazioni e di dimostrare di poter garantire la sicurezza di tutti i partecipanti.
(Bet Magazine Mosaico, 13 novembre 2024)
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Un rapporto del Ministero della Diaspora di Israele denuncia la crescita dell’antisemitismo in Europa
di Ugo Volli
• LA DILATAZIONE SPAVENTOSA DELL’ANTISEMITISMO
A partire dalle stragi del 7 ottobre dell’anno scorso l’antisemitismo nel mondo e anche nel nostro Paese è cresciuto in maniera esplosiva. Basta scorrere i media, guardare la televisione, frequentare le città per rendersene conto. Non vi sono solo i pogrom come ad Amsterdam, vi sono state le manifestazioni piene di slogan minacciosi, le occupazioni di scuole e università sotto le bandiere genocide di Hamas, i discorsi insinuanti di politici, influencer e giornalisti e talvolta anche le violenze verbali di autonominati opinion leader o persone qualunque sui social media. Sono state pubblicate liste di proscrizione degli “agenti sionisti”, vi sono state minacce ad associazioni, scritte insultanti vicino alle sinagoghe, gesti d’odio di tutti i tipi. Si è sdoganata l’idea perversa che “gli ebrei fanno ai palestinesi qual che i nazisti avevano fatto loro”, cioè il “genocidio di Gaza” che ormai è un luogo comune, come la calunnia medievale per cui “gli ebrei ammazzano i bambini”. In Italia, per fortuna, non sono state realizzate violenze fisiche dirette, grazie alla vigilanza delle forze dell’ordine.
• IL LEGAME IDEOLOGICO
Come ha mostrato già un anno fa in maniera scientifica una ricerca dell’Istituto Cattaneo diretta dal prof. Asher Colombo dell’Università di Bologna condotta sugli studenti di tre università del Nord, questa crescita esplosiva dell’antisemitismo è partita immediatamente dopo il pogrom del 7 ottobre, ben prima che l’esercito israeliano iniziasse i combattimenti a Gaza. Come ha spiegato lo stesso Colombo, la miccia dell’esplosione è stata la percezione della debolezza di Israele dovuta alle stragi, che ha attizzato un odio implicito nell’ideologia “anti-imperalista” soprattutto fra gli studenti che si definivano di sinistra. In seguito, il fatto che Israele si difendesse e fosse in grado di colpire i terroristi, anche se con danni collaterali che peraltro sono i meno gravi di tutte le guerre del passato, ha fatto aumentare ancora quest’odio. Tutte le calunnie propagandistiche dei terroristi sono state accettate come verità sacrosanta e chi ha osato smentirle è stato colpito in tutti i modi.
• UN RAPPORTO IMPORTANTE
È passato più di un anno da questa esplosione antisemita e l’odio contro gli ebrei e Israele non si è affatto acquietato. Lo mostra un’impressionante analisi appena pubblicata dal Ministero per la diaspora e la lotta all’antisemitismo di Israele, intitolato “Antisemitismo e antisionismo in Europa dopo il 7 ottobre”. Sono quaranta pagine di dati freddi e concreti, attentamente limitati ai fatti, senza concedere nulla all’indignazione o all’orrore. Vi si trova che la frequenza degli atti antisemiti nel nostro continente, senza considerare la Russia e la Turchia, è aumentata in quest’anno del 400% rispetto al periodo precedente, che per esempio i post antisemiti su X (già Twitter), scelto come caso di studio, si è mantenuto costantemente intorno al livello dei 20 mila al giorno (con punte di 60 mila), raggiungendo totali di milioni in paesi come Gran Bretagna (2,5 milioni), Francia (1,3 milioni), Spagna (1,1 milioni) e oltre 250 mila in Italia; che anche prima di Amsterdam vi sono state centinaia di “incidenti antisemiti” cioè gravi attacchi fisici in grado di mettere in difficoltà individui e gruppi o addirittura di minacciare la loro vita (44 in Gran Bretagna, 39 in Germania, 34 in Francia, 13 in Italia nell’ultimo anno). Dall’analisi israeliana emerge quello che chiunque poteva intuire, ma che qui è dettagliatamente documentato: non si tratta di un’ondata spontanea dell’opinione pubblica, ma di una campagna organizzata, che ha autori ben precisi, i cui principali sono elencati nel documento. Da un lato agiscono “influencer”, a partire da politici di primo piano come il leader dell’estrema sinistra francese Melanchon e l’ex segretario dei laburisti inglesi Corbyn – come del resto i loro pari italiani. Ma vi sono anche coloro senza cariche ufficiali si mobilitano nella campagna contro Israele e gli ebrei, come il pregiudicato cuoco Gabriele Rubini, il solo italiano citato nel rapporto. E poi vi è una galassia ben finanziata di organizzazioni, gruppi, associazioni, che agiscono sia nella diffamazione sul web che nell’aggressione fisica.
• COME REAGIRE?
L’apparato messo in piedi dagli antisemiti difficilmente sparirà presto. È probabile dunque che la situazione denunciata dalla ricerca israeliana continuerà probabilmente anche al di là della fine della guerra. Per fronteggiarlo bisogna innanzitutto essere molto fermi nello spiegare che non vi è differenza fra antisionismo e antisemitismo; che il primo è la forma contemporanea più ipocrita del secondo. Bisogna poi sapere e far sapere che Israele difende tutto il popolo ebraico, sia quello che risiede in Israele sia quello che si trova altrove. Questa è una garanzia fondamentale per la vita di tutto l’ebraismo. Infine bisogna capire che non vi è solo l’antisemitismo evidente e rabbioso di chi cerca di colpire gli ebrei fisicamente o sul piano comunicativo, che dà la caccia ai sostenitori delle squadre di calcio israeliano e se la prende coi murales che rappresentano testimoni della Shoah come Liliana Segre, ma anche quello di chi in maniera più ipocrita attacca Israele in nome della “risposta sproporzionata” se non del “genocidio” di Gaza. Bisogna imparare a difendersi da entrambi e denunciare non solo la violenza, ma anche la falsità e l’ipocrisia contro Israele.
(Shalom, 13 novembre 2024)
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Hezbollah colpisce asilo nel nord, sirene mute
Un drone di Hezbollah si è schiantato nei pressi di un asilo di Nesher, città nel nord d’Israele, danneggiandone muri e finestre. Al momento dell’impatto, nell’asilo erano presenti sei bambini e tre educatori. «Abbiamo assistito a un vero miracolo. Stavamo iniziando il nostro incontro mattutino con i bambini. Abbiamo solo sentito un allarme lontano e abbiamo pensato non fosse il caso di correre rischi. In pochi secondi eravamo tutti nel rifugio. Solo quando siamo usciti con i bambini abbiamo realizzato quanto siamo stati fortunati. Il punto dell’impatto del drone era esattamente nella stanza in cui eravamo poco prima», ha raccontato ai media israeliani Sarah Yassour, educatrice dell’asilo colpito. Secondo le ricostruzioni il drone si è schiantato contro un albero e poi alcuni frammenti hanno colpito la struttura dove si trovavano i bambini. Nell’area non è però scattato l’allarme e le autorità stanno indagando il motivo.
«Stiamo parlando con il Comando del fronte interno per capire perché le sirene non si sono attivate», ha spiegato Roi Levy, sindaco di Nesher, cittadina del distretto di Haifa. «Grazie a Dio non ci sono stati feriti. Abbiamo contattato i genitori dei bambini della struttura colpita, stanno tutti bene e sono stati trasferiti in un altro asilo».
(moked, 12 novembre 2024)
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Hannoun, sanzionato dagli USA, applaude il pogrom di Amsterdam dal palco di Milano
di Giovanni Giacalone
“Per cominciare mandiamo un applauso ai giovani di Amsterdam. Un applauso a tutti i giovani, ragazzi e ragazze, che hanno dato una lezione”. E’ così che sabato 9 novembre, a Milano, Mohammad Hannoun, a capo dell’Associazione Palestinesi in Italia si è rivolto ai suoi seguaci che sventolavano bandiere palestinesi e mostravano una foto di Yahya Sinwar, leader di Hamas ucciso a inizio ottobre dall’IDF a Gaza. Gli applausi invocati da Hannoun sono chiaramente nei confronti dei delinquenti che giovedì 7 novembre, dopo la partita Ajax-Maccabi Tel Aviv, hanno teso delle imboscate ai tifosi del Maccabi in varie parti della città. I tifosi israeliani sono stati aggrediti, inseguiti, alcuni gettati nei canali, picchiati, accoltellati e investiti con le auto; i loro cellulari e passaporti sono stati rubati e le loro informazioni personali diffuse sul web. Si sente addirittura uno dei tifosi aggrediti urlare: “Non sono ebreo, non sono ebreo”, nel tentativo di salvarsi dai teppisti islamo-nazisti. Una scena agghiacciante che ricorda i tempi più oscuri e drammatici del 20° secolo. Aggressioni pianificate, coordinate nelle chat e con la complicità di alcuni tassisti che hanno condotto a tradimento i tifosi nelle mani dei violenti, fornendo anche informazioni sugli spostamenti degli israeliani e su dove pernottavano. Tutto ciò per Hannoun sarebbe “una lezione data”. Chi lo conosce non può certo stupirsi, visto che da lungo tempo il soggetto in questione utilizza i propri account di Facebook per glorificare terroristi di Hamas come Yahya Ayyash e Saleh al-Arouri. A Hannoun piace invocare applausi dal palco nei confronti di violenti e facinorosi, e infatti nel marzo del 2024, durante una manifestazione in stazione Centrale a Milano, aveva affermato: “Concludo, con un applauso al popolo giordano, ai ribelli in Giordania che hanno obbligato il sistema di chiudere l’ambasciata israeliana. Invitiamo tutti i popoli arabi di fare lo stesso per cacciare via tutte le ambasciate israeliane, di chiudere e di trasformarle in centri per la resistenza. Un applauso alla resistenza dello Yemen, un applauso alla resistenza del Libano, dell’Iraq…”. La “resistenza” invocata da Hannoun include Hezbollah, le milizie sciite iraniane in Iraq e gli Houthi. Il 13 ottobre 2023, Hannoun aveva utilizzato il pulpito del Centro Islamico di Genova per attaccare i paesi che sostengono Israele, tra cui l’Italia. Appena tre giorni dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023, durante una manifestazione pro-palestinese nei pressi di Piazza Duomo a Milano, Hannoun aveva dichiarato ai microfoni di Rai3 che l’attacco di Hamas era “legittima difesa”. A questo punto molti si chiederanno come mai a Hannoun sia ancora permesso di tenere comizi, viste le sue esternazioni. La faccenda è in realtà ben più grave, perché a inizio ottobre 2024 il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha sanzionato Hannoun indicandolo come membro e finanziatore di Hamas. Nel comunicato del Dipartimento del Tesoro si legge: “Mohammad Hannoun (Hannoun) è un membro di Hamas con sede in Italia che ha fondato la Charity Association of Solidarity with the Palestinian People, o Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese (ABSPP), un ente di beneficenza fittizio situato in Italia che apparentemente raccoglie fondi per scopi umanitari, ma in realtà aiuta a finanziare l’ala militare di Hamas. Come dirigente dell’ABSPP, Hannoun ha inviato denaro a organizzazioni controllate da Hamas almeno dal 2018. Ha sollecitato finanziamenti per Hamas con alti funzionari di Hamas e ha inviato almeno 4 milioni di dollari ad Hamas in un periodo di 10 anni…Hannoun e ABSPP sono stati designati per aver materialmente assistito, sponsorizzato o fornito supporto finanziario, materiale o tecnologico, oppure beni o servizi a sostegno di Hamas”. Sempre ad ottobre 2024, la European Leadership Network (Elnet) ha pubblicato un dossier su Hamas in Europa dedicando la parte italiana proprio a Hannoun e soci (tra cui Suleiman Hijazi, Raed Dawoud e Raed al Salahat). Nel 2021, dopo diverse segnalazioni all’Antiriciclaggio, l’Unicredit sospese l’operatività sui conti dell’ABSPP per una serie di anomalie: dalla mancata iscrizione al registro dell’Agenzia delle Entrate alla massiccia movimentazione di contante, in alcuni casi a soggetti iscritti nelle black list dei database europei. Nel dicembre 2023 anche Poste Italiane aveva chiuso il proprio rapporto con l’associazione. Subito dopo erano stati PayPal ed altri operatori tra cui Visa, Mastercard e American Express a bloccarne le transazioni. In seguito alla chiusura dei conti bancari, Hannoun aveva chiesto ai suoi sostenitori di consegnare direttamente denaro contante presso le rispettive sedi della sua associazione. Nel febbraio del 2024, Hannoun aveva poi lanciato una nuova iniziativa per un “convoglio umanitario per Gaza” usufruendo di un IBAN intestato a Modestino Preziosi (testimonial dell’iniziativa), ex maratoneta, guardia privata CPO e che appare anche come “analista” assieme ad altri italiani sul sito di un’università somala con sede a Baidoa, la South West State University. E’ tra l’altro risultato molto difficile avere informazioni su tale università che sembrerebbe non più attiva e che ben pochi a Baidoa sembrano conoscerne presenza e attività. Nel contempo è anche nata una nuova associazione benefica onlus pubblicizzata da Hannoun sui social e denominata “Cupola d’Oro”, con un nuovo IBAN. Va puntualizzato che le autorità israeliane hanno chiesto in più occasioni a quelle italiane di intervenire sulle attività di Hannoun. In seguito alle sanzioni del Dipartimento di Stato USA, la Procura di Genova ha reso noto che potrebbe aprire una nuova inchiesta su Mohammad Hannoun se dagli Stati Uniti dovesse pervenire documentazione utile per ulteriori accertamenti. Ben venga. Alcune domande sorgono però spontanee: in primis, se Hannoun opera in Italia, per quale motivo si è dovuto muovere il Dipartimento del Tesoro americano? Perché sono gli USA a dover fornire documentazione utile? Attenzione, ben venga il coinvolgimento di Washington, è di fondamentale importanza, ma qualche perplessità è lecita. In secondo luogo, per quale motivo a Hannoun è ancora permesso di tenere comizi dai contenuti più che evidenti, quando le autorità italiane sono invece intervenute repentinamente su predicatori e internauti che diffondevano contenuti filo-jihadisti? Individui che avevano tra l’altro meno seguito e ruoli certamente non di primo piano in ambito di attivismo, come nel caso di Hannoun? Il soggetto in questione ha “applaudito” i responsabili delle aggressioni di Amsterdam. C’è da augurarsi che nessuno possa essere ispirato da ciò per possibili emulazioni.
(L'informale, 12 novembre 2024)
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Hamas deve essere sconfitto, non legittimato
Un gruppo terroristico dedito alla distruzione di Israele non dovrebbe avere un ruolo in nessun governo palestinese - non nella cosiddetta “Cisgiordania” e certamente non nella Striscia di Gaza.
di Khaled Abu Toameh
GERUSALEMME - Ottobre 2023, l'Autorità Palestinese continua a considerare il movimento islamista sostenuto dall'Iran come un partner legittimo. La scorsa settimana, i rappresentanti della fazione di Fatah al governo dell'Autorità Palestinese (guidata dal presidente Mahmoud Abbas) e di Hamas si sono incontrati per un colloquio nella capitale egiziana Il Cairo per discutere la creazione di un governo congiunto per la Striscia di Gaza. Una fonte egiziana ha confermato che i colloqui tra Fatah e Hamas mirano a istituire un comitato per l'amministrazione della Striscia di Gaza e a proseguire gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco. Un'altra fonte della sicurezza egiziana ha affermato che i colloqui mirano a “unire i ranghi palestinesi e ad alleviare le sofferenze del popolo palestinese”. Secondo la fonte, i negoziatori di Fatah e Hamas si sono dimostrati “più flessibili e favorevoli alla creazione di un comitato per gestire gli affari della Striscia di Gaza”. Tayseer Nasrallah, un alto funzionario di Fatah che ha preso parte ai colloqui con Hamas, ha dichiarato di essere “ottimista” sul fatto che essi porteranno alla formazione di un comitato per la ricostruzione della Striscia di Gaza. I colloqui, ha detto Nasrallah, avevano lo scopo di unificare “le visioni per la ricostruzione di Gaza” dopo la guerra scoppiata in seguito all'attacco del 7 ottobre che ha ucciso 1.200 israeliani e ne ha feriti migliaia. Durante l'attacco, molti israeliani sono stati decapitati, violentati, torturati e bruciati vivi. Inoltre, più di 240 persone sono state rapite nella Striscia di Gaza, dove 101 di loro - vivi e morti - sono ancora prigionieri. Hamas, da parte sua, ha dichiarato: “Abbiamo tenuto un incontro con i nostri fratelli della fazione di Fatah e l'atmosfera dell'incontro è stata positiva e aperta”. Il gruppo terroristico ha aggiunto che le due parti “hanno discusso la formazione di un organismo per seguire gli affari e le necessità della Striscia di Gaza” e ha dichiarato che gli incontri con Fatah continueranno. Il mese scorso, i rappresentanti di Fatah e Hamas hanno tenuto colloqui simili al Cairo per discutere i modi per porre fine alla rivalità tra i due partiti e formare un governo di unità palestinese. L'alto funzionario di Hamas Taher a-Nunu ha dichiarato che i colloqui erano finalizzati a “raggiungere l'unità nazionale palestinese e a rafforzare la sicurezza e il coordinamento politico tra le due parti”. Alcuni rappresentanti di Fatah, senza nome , hanno dichiarato che la loro fazione ha accettato la formazione di un comitato congiunto per gestire gli affari di Gaza. Negoziando con Hamas sul futuro di Gaza, Abbas sta legittimando il gruppo terroristico sostenuto dall'Iran e sta inviando un messaggio ai palestinesi e al resto del mondo: non vede alcun problema nel cooperare con assassini e terroristi che hanno commesso i crimini più orribili contro gli ebrei dopo l'Olocausto. Come abbiamo visto di recente con il Partito Comunista Cinese (ad esempio qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui), con l'Iran e con l'Afghanistan, semplicemente non funziona negoziare con i terroristi e con i loro simili. Abbas dovrebbe invece condannare Hamas e prendere le distanze dal gruppo terroristico, invece di mandare i suoi funzionari ad abbracciare e baciare i loro rappresentanti al Cairo. Dovrebbe ritenere Hamas pienamente responsabile della distruzione della Striscia di Gaza come risultato della guerra iniziata dal gruppo terroristico. Abbas dovrebbe anche chiedere ad Hamas di cedere il controllo della Striscia di Gaza, invece di implorarlo di accettare la formazione di un comitato congiunto Fatah-Hamas per gestire gli affari dell'enclave costiera. Ad Hamas non dovrebbe essere permesso di svolgere alcun ruolo a Gaza dopo la guerra. Ciò consentirebbe al gruppo terroristico di riarmarsi, riorganizzarsi e prepararsi per un altro attacco a Israele in stile 7 ottobre. Da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza nel 2007, migliaia di palestinesi sono stati uccisi nelle guerre che ha scatenato con Israele. Con l'aiuto dell'Europa, del Qatar e dell'Iran, Hamas ha trasformato la Striscia di Gaza, dove vivono due milioni di palestinesi, in una delle più grandi basi del terrorismo islamico in Medio Oriente. Tutti e tre hanno investito centinaia di milioni di dollari nella costruzione di una vasta rete di tunnel e nella produzione e contrabbando di armi, compresi razzi e droni. L'ipotesi che Hamas rinunci volontariamente al controllo di Gaza a causa di un accordo con Abbas è semplicemente ridicola. Gli sforzi di Abbas per raggiungere un accordo con Hamas non faranno altro che rafforzare e riattivare il gruppo terroristico, incoraggiandolo a continuare la sua jihad contro Israele. Questi sforzi inviano un messaggio ad Hamas che, nonostante i crimini commessi contro gli israeliani il 7 ottobre e la Nakba (catastrofe) che ha portato sui palestinesi di Gaza, può continuare a svolgere un ruolo chiave a Gaza dopo la guerra. Dal 2007, Hamas ha dimostrato di non preoccuparsi del benessere dei palestinesi che vivono sotto il suo governo. L'unica cosa che conta per Hamas è rimanere al potere e continuare la lotta contro Israele per soddisfare i suoi patroni in Iran. L'amministrazione statunitense guidata da Biden non ha preso in considerazione gli sforzi di Abbas per legittimare Hamas. Gli Stati Uniti gli hanno offerto un'ancora di salvezza. Un gruppo terroristico dedito alla distruzione di Israele non dovrebbe avere alcun ruolo in nessun governo palestinese, né in Cisgiordania né tanto meno a Gaza. Un gruppo del genere dovrebbe essere completamente distrutto militarmente e politicamente e non dovrebbe essere invitato in nessun governo palestinese. Dall'inizio della guerra, Israele ha distrutto la maggior parte delle capacità militari di Hamas e ucciso molti dei suoi leader, tra cui l'arci-terrorista Yahya Sinwar, la mente delle atrocità del 7 ottobre. Gli Stati Uniti e il resto del mondo dovrebbero incoraggiare Israele a continuare i suoi sforzi per sradicare Hamas. Dovrebbero anche chiedere ad Abbas e alla leadership dell'Autorità Palestinese di interrompere immediatamente tutti i contatti con il gruppo terroristico. Non c'è alternativa a una vittoria totale su Hamas e anche sugli altri terroristi proxy dell'Iran e, in ultima analisi, sul velenoso regime islamista iraniano. Finché il regime iraniano resterà al potere e torturerà il suo stesso popolo e altri - fino all'Argentina - purtroppo non ci sarà pace. Questo è l'unico modo per assicurare un futuro veramente pacifico, non solo per gli israeliani, ma anche per i palestinesi e per il mondo libero.
(Israel Heute, 12 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israel Katz: “è il momento buono per colpire il nucleare iraniano”
Ora ci troviamo ... in una situazione in cui l’Iran è oggi più esposto che mai, praticamente e mentalmente al danno, e la consapevolezza non è meno importante qui,
di Darya Nasifi
Il Ministro della Difesa di Israele, Israel Katz, ha incontrato oggi per la prima volta il Forum dello Stato Maggiore Generale, presieduto dal Capo di Stato Maggiore, Generale Herzi Halevi. Durante l’incontro, Katz ha affermato che “l’ordine di priorità che questo governo vede molto chiaramente è la questione dell’Iran: impedire all’Iran di avere armi nucleari. Ora ci troviamo, a causa dei duri colpi che abbiamo inflitto a Hezbollah e del colpo devastante che abbiamo inflitto all’Iran, in una situazione in cui l’Iran è oggi più esposto che mai, praticamente e mentalmente al danno, e la consapevolezza non è meno importante qui”. Katz ha anche affermato: “Oggi c’è un ampio consenso sistemico a livello nazionale sul fatto che il programma nucleare iraniano dovrebbe essere contrastato, e c’è anche la consapevolezza che ciò è fattibile, non solo sotto l’aspetto della sicurezza, ma anche sotto l’aspetto politico. Oggi esiste la possibilità di contrastare e rimuovere la minaccia di annientamento sullo Stato di Israele”. “Abbiamo un’opportunità e bisogna sfruttare la capacità assoluta per realizzarla, e credo e sono sicuro che saprete anche come farlo, in modo che potremo portarla a compimento. Inoltre, freneremo l’aggressione iraniana contro Israele direttamente e attraverso le sue organizzazioni terroristiche per procura, dobbiamo ridurre questa capacità.” Katz ha fatto riferimento alla possibilità di una soluzione politica in Libano e ha affermato che “in Libano non ci sarà alcun cessate il fuoco e non ci sarà tregua. Continueremo a colpire Hezbollah con tutta la forza finché gli obiettivi della guerra non saranno raggiunti. Israele non accetterà alcun accordo che non garantisca il diritto di Israele di imporre e prevenire il terrorismo da solo e di raggiungere gli obiettivi della guerra in Libano, il disarmo di Hezbollah, il suo ritiro oltre il fiume Litani e il ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case.” Katz ha anche fatto riferimento agli sforzi per restituire i rapiti e ai combattimenti a Gaza e ha detto: “Per quanto riguarda Gaza, prima di tutto la questione dei rapiti, come ho detto anche come ministro degli Esteri quando ho assunto l’incarico, questo è l’obiettivo di valore più importante del sistema di sicurezza. Faremo di tutto per riportarli a casa e garantire la sconfitta di Hamas”.
(Rights Reporter, 12 novembre 2024)
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Belgio, ragazzo ebreo aggredito da musulmani in un quartiere ebraico
di Michelle Zarfati
Dopo l’attacco ai tifosi del Maccabi Tel Aviv ad Amsterdam in seguito alla partita contro l’Ajax, i sostenitori pro-palestinesi hanno condiviso, nel corso della giornata di ieri, il video di un’aggressione a un ragazzo ultra-ortodosso, avvenuto presumibilmente due settimane fa. Nel filmato il giovane 14enne viene attaccato da rivoltosi musulmani nel quartiere ebraico di Anversa. La famiglia del ragazzo non aveva inizialmente sporto denuncia alla polizia, in quanto attacchi del genere, secondo quanto rivelato dalla Comunità locale, accadono occasionalmente contro gli ebrei della città. Tuttavia, questa volta i video dell’aggressione sono stati pubblicati sui social dal gruppo di arabi. La pubblicazione dei filmati da parte degli aggressori ha spinto i familiari della vittima a sporgere denuncia alla polizia.
Questi video sono stati pubblicati casualmente in concomitanza con gli annunci della polizia di Anversa, che aveva dichiarato che sei giovani musulmani stavano pianificando una serie di attacchi agli ebrei della città. Gli aggressori sono stati arrestati lunedì e rilasciati dopo alcune ore. I sei avevano pianificato di attaccare gli appartenenti alla Comunità Ebraica in segno di solidarietà con gli aggressori di Amsterdam.
Il parlamentare Michael Freilich, anch’egli eletto di recente al Consiglio comunale di Anversa, ha rivelato ai media locali che chiederà un aumento delle forze di polizia. Secondo alcune fonti, Freilich avrebbe parlato già con il sindaco della città chiedendo rinforzi di soldati per proteggere i residenti ebrei. Il membro del parlamento ha confermato l’incremento di attacchi contro gli ebrei di recente. Nel frattempo, la polizia sta attuando grandi sforzi per affrontare il problema e oltre 100 poliziotti aggiuntivi sono stati predisposti nei quartieri ebraici.
(Shalom, 12 novembre 2024)
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Il pogrom di Amsterdam coordinato da un ex dipendente dell’UNRWA
Lo rivela una nuova indagine
Le violenze contro i tifosi israeliani ad Amsterdam la scorsa settimana sono state un attacco premeditato e coordinato, orchestrato da reti estremiste legate a un ex dipendente della controversa agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), ha dichiarato lunedì a The Algemeiner un gruppo che traccia la disinformazione online. L’analisi dell’Istituto di ricerca sul contagio di rete (Network Contagion Research Institute) delle fonti aperte e dei social media ha inoltre “rivelato che le proteste intorno alla partita del Maccabi Tel Aviv ad Amsterdam non erano isolate, ma facevano parte di uno sforzo più ampio e coordinato”, ha dichiarato il cofondatore del gruppo, Joel Finkelstein. Ayman Nejmeh, residente ad Amsterdam, che si è identificato sui social media come un ex dipendente dell’UNRWA, “è emerso come un organizzatore chiave, che ha coordinato le azioni di protesta contro obiettivi ebraici”, ha aggiunto Finkelstein. Centinaia di tifosi del Maccabi Tel Aviv, in visita nella capitale olandese per una partita contro la squadra locale dell’Ajax, sono stati attaccati da folle arabe e musulmane giovedì sera, con diversi ricoveri in ospedale. Si è trattato del più grande incidente antisemita di massa nei Paesi Bassi dai tempi dell’Olocausto: gli aggressori hanno lanciato petardi e granate stordenti, invocando la “caccia all’ebreo” e costringendo gli israeliani a dire “Palestina libera” prima di picchiarli. In precedenza, i tifosi del Maccabi Tel Aviv erano stati registrati mentre scandivano slogan anti-arabi e rimuovevano una bandiera palestinese, spingendo alcuni organi di informazione a inquadrare la violenza che ne è seguita come una risposta. Ma Israele aveva avvertito i servizi di sicurezza olandesi, prima della partita, che la violenza sarebbe stata probabile dopo che i gruppi islamici sembravano coordinare un attacco su più fronti sui social media. Secondo Finkelstein, il numero di telefono del siriano Nejmeh era indicato come amministratore di un gruppo WhatsApp utilizzato dal gruppo della diaspora palestinese PGNL. Nejmeh è subentrato nel gruppo al cittadino palestinese-olandese Amin Abou Rashed, arrestato l’anno scorso con il sospetto di aver convogliato fondi al gruppo terroristico palestinese Hamas. In passato il PGNL aveva ospitato in un evento online il defunto capo di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran all’inizio dell’anno. Il gruppo, il cui nome in olandese sta per “Comunità palestinese nei Paesi Bassi”, è stato anche coinvolto nell’organizzazione di una protesta anti-Israele in piazza Dam domenica 10 novembre, sfidando il divieto temporaneo imposto dopo le violenze di giovedì sera e provocando decine di arresti. Il coordinamento dietro questi eventi riflette una strategia ben affinata da parte dei gruppi radicali di utilizzare gli incontri pubblici per incitare e far crescere la violenza, ha detto Finkelstein, avvertendo che l’odio organizzato sta superando di gran lunga la capacità di risposta delle autorità. Il “contagio del pogrom” che si sta diffondendo in Europa non è un caso: attori legati al terrorismo stanno deliberatamente usando le armi dei raduni e dei social media per accelerare la diffusione della violenza contro le comunità ebraiche”, ha dichiarato Finkelstein a The Algemeiner. “Questa infrastruttura dell’odio si sta evolvendo più velocemente delle difese democratiche e, se non controllata, queste minacce si moltiplicheranno attraverso i confini e le etnie”. Il profilo Facebook di Nejmeh, che conteneva almeno un post che esaltava un agente di Hamas per l’ala militare Al Qassam del gruppo terroristico, è stato negli ultimi giorni ripulito da qualsiasi riferimento ai suoi legami con l’UNRWA. “Se Nejmeh sta ripulendo i suoi social media da queste affiliazioni passate, questo solleva domande significative sul perché”, ha detto Finkelstein. Il mese scorso, il parlamento israeliano ha approvato una legge che vieta all’UNRWA di operare in Israele e impedisce alle autorità israeliane di collaborare con l’organizzazione, citando i legami dell’agenzia ONU con Hamas e ciò che i critici hanno descritto come la sua “influenza velenosa” in Medio Oriente. Marcus Sheff, capo di IMPACT-se, un istituto di ricerca che monitora l’UNRWA, ha affermato che i risultati sono un’ulteriore prova della corruzione dell’agenzia per i rifugiati.
(Bet Magazine Mosaico, 12 novembre 2024)
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"L’Occidente si difende sotto le mura di Israele"
Volli, il filosofo temuto dalle tv: “Oggi essere antisemiti è tornato di moda. Troppa solidarietà con Hamas, la magistratura agevola l’arrivo della base sociale del terrorismo”.
di Aldo Torchiaro
Filosofo e semiologo, Ugo Volli è il prosecutore ideale del lavoro di Umberto Eco, con cui ha iniziato a collaborare nel 1971 per la rivista Versus – Quaderni di studi semiotici. Oggi è tra i più prolifici filosofi del linguaggio con oltre trenta saggi pubblicati. Insegna all’Università di San Marino, tenendosi le mani libere anche nelle prese di posizione pubblica, mai banali. Per anni è stato presidente della sinagoga riformata Lev Chadash a Milano. Di recente ospite di “PiazzaPulita” su La7, mantiene la sua proverbiale calma serafica anche quando viene circondato dal fuoco incrociato delle grida. Ha tenuto in particolare a smentire la fake news dei 40mila morti a Gaza e a denunciare tra i primi quanti siano invece i palestinesi – omosessuali, tra i primi – ad essere stati torturati e uccisi da Hamas. Temi che però purtroppo alle televisioni interessano poco.
- Professore, sono tornati i pogrom. In Europa, in Olanda. Che tempi stiamo attraversando? «È un momento molto difficile. Capisco ora i racconti dei miei genitori e nonni: in particolare quel che non avevo mai compreso, cioè come il fascismo avesse potuto buttarli fuori da scuola, dal lavoro, dalle associazioni sportive e culturali cui erano iscritti, senza che nessuno intorno a loro protestasse. Oggi essere ebrei è di nuovo problematico».
- Il sette ottobre ha sfidato la civiltà occidentale. La colpisce che tanti fingano di non vedere, di non capire? «Peggio che non capire, molti solidarizzano. Il terrorismo islamico piace alla sinistra (non solo quella più estrema purtroppo) perché sfida la civiltà occidentale, si oppone al capitalismo, al liberalismo economico, alla democrazia politica, all’America: perché è ‘rivoluzionario’. All’inverso, come diceva Spadolini, «la civiltà occidentale si difende sotto le mura di Gerusalemme».
- E i media non stanno esattamente aiutando… «Il sistema dei media ha abbandonato da tempo la missione di informare il proprio pubblico, di riferire i fatti, belli o brutti che siano. Cerca invece di educarlo alle “idee giuste” secondo un modello sovietico o fascista, che ormai è quasi totalitario anche in Europa e negli Usa. Questo totalitarismo pedagogico è in larghissima parte di sinistra, quindi purtroppo nemico di Israele. È difficilissimo spiegare sui giornali o in TV anche le cose più elementari, come il fatto che Israele agisce per autodifesa contro un nemico che non è “il popolo palestinese” ma i terroristi armati e diretti dall’Iran; che ha fatto sforzi mai compiuti da altri per salvaguardare la popolazione civile, che non vi è nessun genocidio a Gaza, che anche ammettendo le cifre montate della propaganda di Hamas, 40 mila morti in un anno sarebbero l’1% della popolazione, molto meno dei costi di guerre come il Vietnam o l’Ucraina».
- Lei da ebreo si sente sicuro? «Io sì, mi sento sicuro. Ho fiducia nelle forze dell’ordine. Francamente meno nella magistratura, che sta agevolando l’importazione in Italia di persone che finiranno con essere la base sociale del terrorismo, se non i suoi operativi. Sarei meno sicuro se dovessi ancora lavorare nella mia università, dove agli estremisti di sinistra dei centri sociali è concesso di impedire l’accesso, la parola e il pensiero di tutti coloro che non la pensano come loro».
- Israele nasce per difendere gli ebrei dalla persecuzione. Oggi crescono quelli che lo considerano un fastidio della storia. Il mondo ha esaurito lo shock per Auschwitz, ha dimenticato l’orrore nazista? «Israele nasce per realizzare il diritto del popolo ebraico a uno stato nazionale. Ha l’obbligo, come tutti gli stati, di difendere il suo popolo: è un fastidio solo per chi li vuole di nuovo sterminare. L’Europa non si è quasi accorta di Auschwitz prima del processo Eichmann, nel ‘61. Primo Levi, subito dopo la guerra si è visto rifiutare due volte “Se questo è un uomo” da Einaudi, perché “il tema non interessava”. Molti ex fascisti e razzisti sono diventati predicatori democratici. Giorgio Bocca ha firmato il “Manifesto della Razza”, prolifici e premiati ex fascisti come Scalfari e Calvino sono diventati maestri di democrazia, il presidente del “tribunale della razza”, Azzariti, ha finito la carriera come presidente della Corte Costituzionale».
- C’è chi distingue tra antisemitismo e antisionismo. Due facce, invece, della stessa medaglia? «L’antisionismo è l’antisemitismo di oggi. Dopo quello religioso, economico, razziale, da settant’anni si è diffuso un antisemitismo statale, l’antisionismo. Il sionismo è il patriottismo del popolo ebraico, un movimento analogo al Risorgimento italiano. Chi nega al popolo ebraico il diritto alla sua espressione nazionale, non lo fa perché non gli piace il movimento, ma perché non vuole che gli ebrei siano liberi e sicuri».
- Il sionismo di Teodor Herzl nacque come risposta al caso Dreyfus. Oggi quelle premesse – e quell’esigenza di autodifesa – sembrano rafforzate… «Dreyfus era un leale ufficiale francese, l’espressione di un patriottismo statale che c’è stato moltissimo anche in Italia, in Germania, in tutt’Europa. I nostri nonni e bisnonni si illudevano di poter essere cittadini come gli altri, solo con un’altra religione. Le leggi razziste e poi la Shoah li hanno duramente delusi. La mia generazione si è illusa che il problema fossero solo le dittature fasciste, dunque che fosse sparito. Il presente mostra che l’accettazione degli ebrei è di nuovo assai precaria, soprattutto a sinistra. La differenza oggi è che se qualcuno cercasse di nuovo di sterminarci, avremmo una difesa nello stato di Israele. È questa è la ragione vera per cui tanti lo odiano: non solo è l’ebreo degli stati, ma lo stato capace di difendere gli ebrei».
- Il movimento sionista socialista fu molto importante. Ben Gurion era uno dei suoi esponenti. E poi Golda Meir. Da dove nasce questo testacoda nella storia della politica, con la sinistra che si fregia di essere antisionista? «Il sionismo maggioritario era socialista. Dal ‘48 alla crisi economica degli anni ‘90 Israele è stato il solo stato democratico davvero socialista. I kibbutz, istituzioni collettiviste, erano la spina dorsale politica e sociale, non solo economica dello stato. Ma l’appoggio della sinistra cadde quando Stalin si accorse che Israele non era disposto a entrare nel suo blocco, voleva essere libero. Dal 1956 il PCUS cambiò cavallo e si mise ad appoggiare contro Israele i regimi arabi più infami e reazionari, dall’Egitto alla Siria. Tutta la sinistra si allineò e ha mantenuto questo orientamento. L’invenzione di un popolo “palestinese” (che non c’era, fino a quegli anni si definivano siriani meridionali o immigrati arabi o egiziani) avviene a Mosca negli anni ‘60. Per fare solo un esempio, il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen si forma all’università per stranieri di Mosca e si laurea lì con una tesi negazionista della Shoah».
- Vede una soluzione possibile? «La premessa di ogni soluzione è che Israele vinca e che avvenga un cambiamento di regime in Iran, liberando le donne e i giovani dall’orrida dittatura clericale degli ayatollah. Così potranno svilupparsi di nuovo quegli accordi di Abramo che i terroristi hanno cercato di distruggere».
- E in Italia cosa si può fare? «Quanto all’Italia e all’Occidente, è necessaria una grande battaglia culturale non solo contro l’antisemitismo, ma contro il suo brodo di cultura woke, politicamente corretto, “intersezionale”. Per difendere Israele bisogna anche capire i meriti della cultura europea, della libertà, della democrazia, in genere dei valori della nostra tradizione. Credo che questa battaglia oggi sia aperta. Il paradosso è che non sono i cosiddetti “progressisti” o i “democratici” di tutte le nazionalità a difendere questi valori che hanno lasciato cadere, ma la destra».
(Il Riformista, 12 novembre 2024)
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La cosa peggiore di questo articolo è il titolo con cui si presenta Israele come una città sotto le cui mura”si difende l’Occidente”. Quale occidente? Anche Volli, che indubbiamente dice cose molto giuste, fa riferimento in ultimo a “una grande battaglia culturale”. Ma contro chi? Sotto quale bandiera? Quella dell’Occidente? Ma il brodo di cultura woke e “intersezionale” che ha spinto il diritto all’omosessualità dichiarata e sbandierata fino agli estremi confini della scelta arbitraria e stagionale del sesso, che difende il diritto all’aborto fino ai limiti ormai prossimi dell’infanticidio, che discute seriamente della possibilità di gestire uteri in affitto e parla di libertà di suicidio assistito, non è forse brodo occidentale? Brodo andato a male, dirà qualcuno, ma pur tuttavia brodo di autentica fattura occidentale. E’ questo che Israele dovrebbe difendere a nome della società occidentale? E’ sotto questa bandiera che dovrebbe combattere? Fa parte della tradizione biblica e storica di Israele? Ha qualcosa a che vedere non solo con il Tanach, patrimonio biblico degli ebrei, ma anche con la tradizione ebraica giunta a noi fino all’altro ieri? Non fa piacere, ma forse il sionismo rigidamente e coerentemente laico è davvero finito. M.C.
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Varese, 1979: l'inizio di una triste storia
Lettera a "Il Foglio"
Pochi lo ricordano ma è stata proprio la stessa squadra del Maccabi di Tel Aviv a subire per prima slogan inneggianti al genocidio a Varese nel lontano 1979 durante la partita di basket con la squadra locale Emerson Varese. I tifosi varesini avevano esposto uno striscione con scritto "Hitler lo ha insegnato, uccidere l'ebreo non è reato" e scandito slogan come "Ebrei saponette saponette". Quelli individuati erano stati condannati in base alla legge n. 962 del 1967 contro il genocidio e la sua apologia per la prima volta applicata in Italia. Il Presidente della Corte d'assise che aveva emesso la sentenza era Francesco Saverio Borrelli, allora giudice prima di diventare il procuratore capo di Mani pulite.
Ora, dopo i fatti di Amsterdam, le gesta dei tifosi varesini, nazistoidi che avevano allora l'esclusiva dell'odio contro gli ebrei, sembrano solo squallido teppismo da stadio. E la diga a difesa delle vittime dell'Olocausto è ormai crollata. In Olanda intorno allo stadio non c'erano solo striscioni ma ronde armate. In tutta Europa e anche in Italia aspettiamoci il peggio.
Guido Salvini
ex magistrato
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Perché parliamo oggi di pogrom
di Ugo Volli
• CHE COS’È UN POGROM?
L’orribile strage del 7 ottobre 2023 nei villaggi israeliani al confine di Gaza è stato definito un pogrom. Anche la caccia all’ebreo che si è svolta giovedì sera ad Amsterdam era un pogrom. E così tanti episodi del passato più o meno recente, dalla “Notte dei Cristalli” del 1938 al “Farhud”, il massacro degli ebrei di Baghdad del 1° giugno 1941, organizzata da quello stesso Al Husseini, muftì di Gerusalemme, che aveva diretto e promosso i pogrom di Hebron, Zfat, Gerusalemme nei vent’anni precedenti. Vi furono molti episodi analoghi: nel 1948 in Egitto, Siria, Libano, Yemen Libia e poi di nuovo in Libia nel 1967. Ma cos’è esattamente un pogrom?
• “DISTRUZIONE”
Iniziamo dal significato della parola. Come “antisemitismo”, anche “pogrom” è un vocabolo recente, nato circa 150 anni fa, ma che descrive fenomeni analoghi anche molto precedenti. Il termine ha avuto origine dal nome russo погром (pogrom) che deriva dal verbo громи́ть (gromit), che significa “distruggere, provocare il caos, demolire violentemente” e si è diffuso dopo il 1881 in tutto il mondo, passando per la parola yiddish פאָגראָם. Dunque pogrom significa “distruzione”, “catastrofe”: un significato che corrisponde all’ebraico “Shoah” che oggi usiamo solo per il genocidio nazista.
• I POGROM DELL’EST EUROPA
Le stragi di Odessa durante la settimana pasquale del 1871 furono le prime persecuzioni ad essere ampiamente definite “pogrom”; gli eventi del 1881-82 introdussero il termine nell’uso comune in tutto il mondo. Si tratta dei massacri che seguirono l’assassinio dello zar Alessandro II nel 1881. Sebbene l’assassino non fosse ebreo, la propaganda zarista incolpò gli ebrei, inducendo attacchi in più di duecento città con centinaia di vittime. Questi torbidi si ripeterono con frequenza variabile negli anni successivi. Il culmine fu il pogrom di Kishinev in Moldavia (allora parte della Russia) nell’aprile 1903. Per due giorni migliaia di teppisti, ispirati dai leader locali che agivano con il supporto governativo, uccisero, saccheggiarono e distrussero senza alcuna resistenza della polizia o dei soldati. Quando finalmente arrivarono le truppe furono e la folla si disperse, oltre quarantacinque ebrei erano stati uccisi, quasi seicento erano stati feriti e 1.500 case ebraiche erano state saccheggiate. I responsabili e gli istigatori non furono puniti. Dopo la prima guerra mondiale, fra il 1918 e il 1921, vi fu un’ondata terribile di pogrom nel territorio dell’attuale Ucraina: vi furono centinaia di stragi di ebrei, compiute soprattutto dalle truppe “bianche” controrivoluzionarie e dai nazionalisti ucraini; ma anche i polacchi e l’Armata Rossa commisero crimini analoghi. I morti alla fine si contarono in centinaia di migliaia. E vi furono alcuni terribili pogrom in Polonia dopo la Shoah ai danni degli ebrei che cercavano di tornare a casa. I più noti avvennero nelle città di Jedwabne e Kielce.
• NELLA STORIA
In sostanza un pogrom è un’ondata di violenza omicida, di saccheggi, di stupri, di omicidi e ferimenti compiuta ai danni di una minoranza da folle apparentemente spontanee e non inquadrate militarmente, anche se la loro azione è spesso il frutto di un incitamento organizzato o quantomeno è tollerato da parte delle autorità. Furono pogrom dunque anche quelli voluti da Maometto a Medina fra il 625 e il 628, quello ancora musulmano di Granada nel 1066, le persecuzioni della prima crociata nel 1097, la rivolta di Chmel’nyc’kyj in Polonia e Ucraina nel 1648 (forse il più terribile di tutti, con 100 mila uccisi) e tantissimi altri episodi della storia ebraica. Probabilmente gli assalti e i saccheggi “spontanei” delle popolazioni e soprattutto quelli promossi da autorità intermedie (vescovi, nobili locali, predicatori religiosi) produssero più vittime e danni delle persecuzioni ufficiali dei papi e dei sovrani, presso cui talvolta le comunità ebraiche cercavano rifugio. Questa terribile continuità delle stragi “popolari” di ebrei è un tratto caratteristico della storia ebraica. Per questa ragione è inappropriato estendere il termine, come talvolta si usa fare, ad agitazioni analoghe che di tanto in tanto hanno colpito anche altre popolazioni, soprattutto in regioni contese fra diversi stati.
(Shalom, 11 novembre 2024)
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Sono un’orgogliosa ebrea e sionista - Perché sono odiata?
Una volta pensavo che l'Olocausto sarebbe dovuto bastare al mondo per giustificare il diritto all'esistenza di Israele. Ora penso che il mondo non sia mai stato particolarmente interessato. di Oriel Moran
GERUSALEMME - Ho trascorso la mia infanzia in Texas. Ho sempre saputo che l'essere ebreo comportava dei pericoli. Lo riconoscevo nei racconti biblici, come quando il Faraone fece gettare nel Nilo tutti i neonati maschi ebrei o quando la regina Ester chiese di annullare il decreto di annientamento di tutti gli ebrei. Questi eventi non sono stati episodi isolati, ma si sono susseguiti all'infinito e non sono terminati il 7 ottobre 2023. Cosa ho fatto per essere odiata così tanto? • EMIGRATA IN ISRAELE
Come ragazza ebrea dagli occhi azzurri in mezzo a cristiani texani favorevoli a Israele, non riuscivo a capire perché qualcuno potesse avere un motivo per non andare d'accordo con la mia famiglia. Quando arrivammo in Israele, il risveglio fu brusco e deludente. I tempi erano piuttosto tesi durante la Seconda Intifada. Ricordo che in autobus mi mancava il fiato, perché mi aspettavo che salisse un attentatore suicida. E ricordo che mi sentivo triste per il muro di protezione, anche se era necessario per proteggerci dagli attacchi. Tuttavia, non riuscivo a capire perché l'odio dei palestinesi fosse tanto profondo da volermi morta. Ma come ebrea si impara presto a mantenere un profilo basso quando è necessario. Quando viaggiavo all'estero, riuscivo a passare gli aeroporti con il mio passaporto americano senza problemi. Ma il passaporto israeliano desta sospetti. Se dico da qualche parte che vengo da Israele, mi aspetto sempre una reazione poco amichevole. Molti israeliani che viaggiano all'estero dicono di venire da Malta. Evitano di parlare in ebraico. Gli uomini nascondono la kippah sotto un copricapo. • ANTISEMITISMO È codardia? Forse è soltanto prudenza. Dato l'aumento dell'antisemitismo, c’è una buona probabilità che gli israeliani non tornino a casa indenni. L'Università di Tel Aviv riferisce che a New York, la città con la più grande popolazione ebraica al mondo, la polizia ha registrato 325 crimini di odio anti-ebraico nel 2023. 261 nel 2022, rispetto ai 165-86 di Los Angeles e ai 50-39 di Chicago. L'ADL ha registrato 7.523 incidenti nel 2023 rispetto ai 3.697 del 2022 (e, secondo una definizione più ampia, 8.873); il numero di aggressioni è aumentato da 111 nel 2022 a 161 nel 2023 e il numero di episodi di vandalismo è passato da 1.288 a 2.106. L'antisemitismo non è limitato a singoli luoghi, come la Columbus University di New York o le manifestazioni anti-Israele sul London Bridge. L'odio per gli ebrei, mascherato da “antisionismo”, si è diffuso ovunque. • “IN ALTO LE MANI SE SEI SIONISTA!”. Una scena particolarmente inquietante si è verificata di recente nella metropolitana di New York. Gli antisemiti, con il volto e la testa avvolti in sciarpe palestinesi bianche e nere, sono saliti a bordo di un vagone della metropolitana mentre il “leader” gridava: “Alza la mano se sei sionista!”, al che gli altri manifestanti hanno ripetuto: ‘Alza la mano se sei sionista!’. Poi: “Questa è la tua occasione per uscire!” e l'eco: “Questa è la tua occasione per uscire!”. - “Ok, niente sionisti qui”. I passeggeri sono rimasti in silenzio, paralizzati dalla paura della folla mascherata. Chissà quanti ebrei o “sionisti” erano bloccati in quella metropolitana - dopo tutto, ci sono 1,6 milioni di ebrei a New York. Quando ho visto questo video, sono rimasta profondamente turbata e francamente spaventata. Cosa farei se mi trovassi di fronte a una situazione del genere? Mi allontanerei per evitare il caos? Resterei in silenzio? Aprirei la bocca? Confessare le mie convinzioni sioniste difficilmente avrebbe giovato a me o alla mia famiglia se fossi stata picchiata fino a perdere i sensi o riportata indietro in un sacco per cadaveri. Gli ebrei hanno affrontato lo stesso dilemma durante l'Olocausto, prima di essere saccheggiati, perseguitati e infine portati con la forza nei campi di sterminio. Chi avrebbe protetto un ebreo negli anni '30? • VIVERE IN SICUREZZA In Israele gli ebrei possono vivere in sicurezza senza nascondere la loro etnia e, se sono minacciati, c'è un protettore che viene in loro aiuto. Ma (quasi) ovunque nel mondo non c'è garanzia che le autorità proteggano un ebreo. Ironia della sorte, sebbene Israele viva fianco a fianco con i suoi nemici e ne sia circondato, c'è un solo luogo sicuro per gli ebrei nel mondo: Israele. Altri dati, elaborati dall'Università di Tel Aviv: in Francia, il numero di incidenti è passato da 436 nel 2022 a 1.676 nel 2023 (il numero di attacchi fisici è salito da 43 a 85); nel Regno Unito da 1.662 a 4.103 (attacchi fisici da 136 a 266); in Argentina da 427 a 598; in Germania da 2.639 a 3.614; in Brasile da 432 a 1.774; in Sudafrica da 68 a 207; in Messico da 21 a 78; nei Paesi Bassi da 69 a 154; in Italia da 241 a 454; in Austria da 719 a 1.147. In Australia, nei mesi di ottobre e novembre 2023 sono stati registrati 622 incidenti antisemiti, rispetto ai 79 dello stesso periodo del 2022. • HAMAS contro ESTHER Come persona di fede, ritengo che la mia identità di “Regno” sia più importante della mia nazionalità o identità culturale. E non equiparo la domanda se sono sionista con quella se credo in Yeshua. Ma forse dovrebbe essere la seconda domanda quella più importante. Prima dell'attuale guerra, quando sentivo la parola “sionista” ero infastidita, anche se non sapevo perché. Forse la associavo a fanatici e radicali, o forse avevo un pregiudizio inconscio; e questo dimostra quanto facilmente gli ebrei non istruiti (come la sottoscritta) possano cadere in ideologie autodistruttive. Tuttavia, se mi chiedessero se ritengo che noi ebrei abbiamo diritto alla nostra patria, risponderei che su quel monte sarei stata disposto a morire. Oggi “sionista” è un insulto, alla pari di “nazista”, “comunista” o “terrorista”. Gli ignoranti si appropriano dei termini e ne modificano le definizioni per protestare in nome della “giustizia”. E non ci è voluto molto per galvanizzare milioni di persone in un movimento basato sull'odio e sullo sterminio degli ebrei. Questo è il potere dell'antisemitismo: un Haman amareggiato che convince Assuero e intere nazioni che tutti gli ebrei sono malvagi e devono essere uccisi. Mentre la mano di ferro della morte si stringe attorno al collo del popolo ebraico, cerco di ricordare come Mardocheo ammonì Ester con parole a cui gli ebrei si sono aggrappati nei momenti di pericolo da allora: “Se ora taci, la liberazione e la salvezza per gli ebrei verranno da un'altra parte, ma tu e la casa di tuo padre perirete. E chi sa se non sei arrivata alla regalità proprio per un momento come questo?” (Ester 4:14) Sono ebrea e orgogliosamente sionista. Israele è la mia patria, e tale rimane.
(Israel Heute, 11 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Difendere Israele sui media, tra like e complessità
di Nathan Greppi
In un’epoca in cui i mezzi di comunicazione mutano e si evolvono costantemente, molte persone fanno fatica a stare al passo e a tenersi aggiornate. In un periodo come quello attuale, in cui oltre alla guerra vera e propria Israele deve subire anche una guerra mediatica, restare indietro significa lasciare che i nemici dello Stato Ebraico impongano la loro narrazione.
Per capire quali sono le tattiche per poter contrastare la disinformazione che circola nei media e sui social, giovedì 7 novembre si è tenuto presso la Sala Segre della Scuola Ebraica di Via Sally Mayer un incontro curato dai responsabili del sito Progetto Dreyfus assieme all’Adei Wizo e alla Comunità Ebraica di Milano, dal titolo Tra like e complessità. Istruzioni per la difesa di Israele sui media.
• RAV ALFONSO ARBIB: IL PACIFISMO HA SOSTITUITO L’ETICA DELLA GUERRA Nell’introdurre la serata, il Rabbino Capo di Milano Rav Alfonso Arbib ha sottolineato che, sebbene non esista una formula magica per risolvere i problemi che stiamo affrontando, “esistono alcune cose a cui non possiamo rinunciare. Per prima cosa, non possiamo rinunciare a ragionare”, ha spiegato, rimarcando il fatto che gran parte dell’odio a cui assistiamo è il frutto di pregiudizi, non di ragionamenti, “ed è difficile affrontare l’odio, perché siamo davanti ad un sentimento”. Ma è comunque indispensabile farlo, per convincere non tanto chi ci odia, quanto quella maggioranza di persone che non ha un’opinione consolidata sull’argomento.
Un altro aspetto assai trattato nel dibattito pubblico è il concetto di “crimini di guerra”. A tal proposito, Rav Arbib ha rimarcato il fatto che “la definizione di ‘crimini di guerra’ non è così scontata”. Paradossalmente, la nostra è la prima epoca in cui nessuno si occupa più di “etica della guerra”, perché oggi “il discorso che si fa è un discorso pacifista, che ti dice che la guerra è essa stessa un crimine. I discorsi che si facevano nei secoli passati dicevano ‘le guerre ci sono, bisogna stabilire cosa è permesso e cosa è vietato in una guerra’”.
• ROBERTA VITAL: L’ODIO NEI CONFRONTI D’ISRAELE HA RADICI PROFONDE Dopo i saluti istituzionali di Ilan Boni, Vicepresidente della Comunità Ebraica di Milano, il quale ha sottolineato come occorra interfacciarsi con quelle persone che credono in buona fede alla disinformazione su Israele ma alle quali si possono spiegare le nostre ragioni, la prima relatrice a parlare è stata Roberta Vital, Vicepresidente dell’Adei Wizo di Milano.
La Vital ha ricordato che la guerra diplomatica che si è abbattuta su Israele dopo il 7 ottobre “affonda radici lontane. Possiamo individuare nel 1975 l’inizio della delegittimazione dello Stato d’Israele in quanto Stato Ebraico: quell’anno ci fu la famosa risoluzione dell’ONU, votata in blocco dai paesi arabi e sovietici, in cui si equiparò il sionismo al razzismo. Una risoluzione che rimase in essere per un po’ di anni, poi fu abolita ma trovò la sua massima espressione durante la Conferenza di Durban, nel 2001. Una conferenza che, sotto l’egida dell’ONU, avrebbe dovuto trattare temi importanti come la lotta al razzismo e la difesa dei diritti umani, ma che invece si trasformò in un’arena di antisionismo”.
• ALEX ZARFATI: COME DIFENDERE ISRAELE ATTRAVERSO LA COMUNICAZIONE Per combattere la disinformazione online, fare rete tra più persone anziché lavorare da soli è fondamentale. A tal proposito Alex Zarfati, responsabile di Progetto Dreyfus e consigliere UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), ha spiegato quali sono, secondo lui, i capisaldi “per organizzare una qualsiasi difesa nei confronti d’Israele”.
Innanzitutto, ha messo in risalto il fattore generazionale: dai più anziani non ci si aspetta che sappiano utilizzare al meglio i nuovi social, ma allo stesso tempo i giovani hanno una memoria storica limitata: “Sono nati che Israele era già forte, non riescono neanche a concepire un Israele debole. Chi è più grande, invece, lo sa che Israele è stata sotto scacco diverse volte nella sua storia”. Pertanto, Zarfati ha suggerito che i più anziani non dovrebbero esporsi in prima linea su social che non sanno maneggiare bene, correndo il rischio di esporre anche i loro cari, ma dovrebbero fornire ai loro nipoti contenuti e testimonianze che questi saprebbero riportare nel giusto formato per i loro contenuti.
Ha spiegato che nella Scuola Ebraica di Roma, “noi abbiamo ragazzini che sono vittime da stress post-traumatico come quelli che vanno in guerra”. Questo perché i video dei massacri del 7 ottobre, “che hanno viaggiato sui telefonini, hanno avuto degli effetti devastanti, e non ce ne rendiamo nemmeno conto. E gli adulti non sanno come gestire quel tipo di informazione”. In genere, i genitori tolgono il telefono ai figli o si deresponsabilizzano lasciando loro fare quello che vogliono. “Invece, una educazione corretta all’uso del telefono è fondamentale”.
Zarfati ha inoltre messo in evidenza la questione della “psychological warfare”, un metodo non convenzionale di fare la guerra, per le quale “le menti degli occidentali sono territorio di conquista da parte di una certa parte del mondo”. Il modo in cui vengono realizzati determinati video e contenuti online è mirato al preciso scopo di dipingere Israele come la causa di tutti i mali del mondo.
• STEFANO FIANO: INTERNET HA CAMBIATO IL NOSTRO CERVELLO Oggi, la diffusione dell’informazione non avviene più attraverso gli stessi canali di una volta: la crescente preponderanza del web e degli influencer ha fatto sì che, per fare un confronto, un personaggio fortemente antisionista come Alessandro Di Battista può contare oltre 1,6 milioni di follower, mentre programmi televisivi come Piazzapulita possono contare in media 900.000 spettatori.
Stefano Fiano, esperto di strategie di comunicazione, ha spiegato che la connessione perenne in particolare dei ragazzi ha “cambiato il modo di pensare, ma non solo: abbiamo cambiato il nostro cervello, perché siamo connessi, qualcosa che vent’anni fa non c’era”. E secondo lui, “oggi siamo andati un passo ancora più avanti: l’intelligenza artificiale si forma su quello che c’è già in rete. Questo vuol dire che tra un po’ non andrò più nemmeno su Google, ma crederò a quello che ha detto l’intelligenza artificiale, cioè la media di tutti noi. Nel nostro caso, la media di quello che pensano su Israele nel mondo, quando ci sono due terzi del mondo che a prescindere non pensa bene d’Israele”.
Un ulteriore problema è che i giornalisti stanno imparando a scrivere con l’IA, anche se “teoricamente il giornalista dovrebbe essere quello che intermedia e si informa. Ma se la sua fonte sarà l’intelligenza artificiale o, peggio, la percezione che la società ha di quell’argomento, invece di fare informazione va verso la massa per prendere i like”. Ha inoltre spiegato che, anche se la maggior parte degli anziani in sala non possedeva TikTok, in realtà già adesso essi ne sono influenzati senza saperlo: questo perché, per frenare l’emorragia di lettori, i giornali tendono sempre di più ad imitare lo stile semplice e sensazionalistico dei contenuti di questa piattaforma.
(Bet Magazine Mosaico, 11 novembre 2024)
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Come hanno reagito i palestinesi alla vittoria di Trump
La vittoria di Trump alle elezioni presidenziali americane è stata accolta con reazioni relativamente moderate da parte degli alti funzionari palestinesi e dei media palestinesi.
In una dichiarazione pubblicata dal presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, si è congratulato con Donald Trump per la sua vittoria e gli ha augurato successo, ha aggiunto che “attende con impazienza la cooperazione con il presidente Trump per promuovere la pace e la sicurezza nella regione” e ha concluso dicendo: “Rimarremo fermi nel nostro impegno per la pace e siamo fiduciosi che tale impegno persisterà anche sotto la vostra guida, e che sosterrete le legittime aspirazioni del popolo palestinese”.
Secondo uno studio del Memri Institute for Middle East Media Research, Ahmed Majdalani, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha dichiarato: “Rispettiamo la volontà dei popoli nella scelta dei loro presidenti e non abbiamo problemi con nessun presidente al mondo, purché vi sia rispetto per la volontà del popolo palestinese di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione, di stabilire il proprio Stato indipendente e di rimuovere l’occupazione dalla sua terra”. Majdalani ha invitato l’amministrazione Trump a “trattare seriamente la questione palestinese in quanto” – aggiunge – “la precedente amministrazione americana è passata da un pregiudizio a favore di Israele al sostegno e alla collaborazione con l’occupazione nella sua aggressione contro il nostro popolo nella guerra di annientamento”.
Sabri Seidam, vicesegretario del Comitato Centrale di Fatah, ha chiarito le aspettative della leadership palestinese rispetto al secondo mandato di Trump. Ha dichiarato al quotidiano “Al-Quds” che “noi tutti speriamo di vedere un Trump diverso da quello che conoscevamo, che sarà. in grado di affrontare i cambiamenti nella realtà palestinese e regionale”.
Seidam ha espresso la speranza che Trump non si concentrerà solo sulla normalizzazione tra Israele e i paesi arabi ignorando i palestinesi, ma affronterà le radici del conflitto. Inoltre ha invitato Trump a “fermare la guerra contro la Palestina”, come aveva promesso ai suoi elettori arabi, e a compiere gesti di buona volontà nei confronti dei palestinesi per “ristabilire l’equilibrio nelle relazioni e fare chiarezza. che gli Stati Uniti rispettino i loro obblighi internazionali”.
Secondo l’analisi di Memri, alcuni media palestinesi hanno espresso indifferenza per la vittoria di Trump e hanno trasmesso il messaggio che la politica americana nei confronti della “Palestina” non cambierà probabilmente sotto la sua guida.
(Rights Reporter, 11 novembre 2024)
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A Milano in Piazza San Babila manifestazione contro le violenze antisemite di Amsterdam
“Avete ragione”, ha detto il rabbino capo Alfonso Arbib rivolgendosi agli studenti universitari della Statale che erano appena intervenuti in solidarietà in piazza San Babila, dove almeno 300 persone, secondo gli organizzatori, hanno partecipato alla manifestazione – blindata da un impressionante numero di poliziotti – in risposta alle violenze antisemite di Amsterdam avvenute tre giorni prima in seguito alla partita tra Ajax e Maccabi Tel Aviv. “Avete ragione, antisemiti e antisionisti sono una minoranza rumorosa. Avete ragione, ma io chiedo alla maggioranza silenziosa di iniziare a farsi sentire”. “Gli scontri”, ha sottolineato Alessandro Litta Modignani, segretario dell’Associazione milanese Pro Israele, “non sono avvenuti ‘tra ultras del calcio’, questo è un tentativo di certa stampa e di alcuni esponenti politici di sminuire quanto successo”. Lungo i canali della città olandese è andata in scena una vera caccia all’ebreo, il riferimento al titolo del recente volume scritto da Pierluigi Battista, e distribuito nella nostra scuola, non è casuale. Come affrontare e prevenire questa violenza ed evitare che si manifesti anche nel nostro Paese? “Non servono leggi speciali, basta applicare le leggi esistenti”, ha detto Franco Modigliani dell’associazione Sette Ottobre e animatore dell’evento. Molti rappresentanti delle diverse aree politiche hanno preso la parola. Lia Quartapelle, parlamentare del Partito Democratico ed esponente della Sinistra Per Israele, ha parlato della necessità di essere uniti contro l’odio antisemita. Le ha risposto Daniele Nahum, consigliere comunale e fuoriuscito proprio dal PD, che ha parlato della tolleranza che alcuni partiti hanno verso propri esponenti che partecipano alle manifestazioni milanesi Pro Pal del sabato, dove si è inneggiato alla violenza contro gli ebrei e si è applaudito ai fatti di Amsterdam. Dal palco hanno parlato anche la senatrice Gelmini già in Azione e ora in area centrodestra, Alessandro Colucci di Noi con l’Italia e Gianmaria Radice di Italia viva. Per Davide Romano, direttore del Museo della Brigata Ebraica e animatore dell’associazione Ponte Atlantico, dopo aver pensato negli anni passati di poter esportare la democrazia in Medio Oriente, ci ritroviamo col rischio di importare il fondamentalismo islamico e dovremmo allora riunirci sotto lo slogan “Free Europe from Hamas”. A margine della manifestazione, lo storico David Bidussa commentava che la violenza si subisce, ancor prima dei calci e dei pugni, già quando devi per paura cambiare il tuo stile di vita e limitarti. “Anche negli anni Trenta c’era chi diceva che gli ebrei stessero esagerando con la paura”, ammoniva dal microfono rav Arbib. “Noi vogliamo solo continuare a vivere”, ha detto il professor Ugo Volli ed Eyal Mizrachi, dell’Associazione Amici di Israele, ha dunque intonato Am Israel Hai.
(Bet Magazine Mosaico, 10 novembre 2024)
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Bibi sceglie Leiter per l'ambasciata Usa
In una fase cruciale di grandi cambiamenti negli Stati Uniti, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato chi ricoprirà il delicato ruolo di ambasciatore d’Israele negli Usa. Sarà Yechiel Leiter, 65 anni, in passato vice direttore generale del ministero dell’Istruzione, capo staff dell’allora ministro delle Finanze Netanyahu e presidente ad interim dell’Autorità dei porti. Nato negli Stati Uniti, Leiter a novembre ha perso il figlio, il maggiore Moshe Leiter, 39 anni, ucciso in un combattimento nel nord di Gaza.
«Yechiel Leiter è un diplomatico di grande talento, un oratore eloquente e ha una profonda conoscenza della cultura e della politica americana», ha dichiarato Netanyahu. «Sono convinto che rappresenterà Israele nel miglior modo possibile e gli auguro di avere successo nel suo ruolo».
Padre di otto figli, Leiter vive oggi nell’insediamento israeliano di Alon Shvut, in Cisgiordania. È nato a Scranton, in Pennsylvania, in una famiglia sionista religiosa. Ha raccontato di essere stato influenzato dal libro La rivolta di Menachem Begin nella sua scelta di compiere nel 1978 l’aliyah (l’immigrazione in Israele). In Israele studiato in una scuola religiosa di Kiryat Arba ed è stato ordinato rabbino. Nel 1986 ha fondato la Fondazione Hebron e tra il 1989 e il 1992 è stato presidente del comitato per gli insediamenti ebraici a Hebron. È stato inoltre nel 2001 tra i fondato dell’organizzazione One Jerusalem, riporta ynet, contraria agli accordi di Oslo. Nel 2004 è stato nominato capo dello staff di Netanyahu, allora ministro delle Finanze, incarico che ha ricoperto fino al 2005.
Attualmente è docente di filosofia presso l’Ono Academic College, ricercatore presso lo Shalem Center e consulente strategico di diverse organizzazioni, tra cui l’Ancient Shiloh.
La nomina di Leiter, commenta ynet, «può essere considerata una benedizione per Netanyahu, perché è l’uomo giusto al momento giusto: ha ampie conoscenze nel Partito Repubblicano e riceverà un orecchio attento alla Casa Bianca». L’incarico di ambasciatore negli Stati Uniti al momento è affidato a Mike Herzog, fratello del presidente d’Israele Isaac. Il passaggio di testimone con Leiter, scrive Maariv, avverrà poco prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca.
(moked, 8 novembre 2024)
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10 NOVEMBRE - ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI LUTERO
Ricorre oggi il 541° anniversario della nascita di Martin Lutero. Riportiamo due citazioni delle sue parole, fatte in contesti e tempi diversi.
«Oh volesse Iddio che le mie interpretazioni e quelle di tutti i maestri andassero perdute, purché ogni cristiano conservi sempre dinanzi agli occhi la sola Scrittura e la divina Parola! Tu vedi dal mio parlare come la Parola divina sia immensamente diversa da ogni parola umana e come nessun uomo, nonostante tutte le sue parole, sia in grado di raggiungere o dichiarare un solo detto divino.
A chi riuscisse di penetrarvi senza interpretazione umana, il mio commento o quello di chiunque altro sarebbero inutili, anzi d'ostacolo. Perciò, leggete, leggete la Sacra Scrittura, cristiani cari, e considerate sia la mia che qualsiasi altra interpretazione come un 'impalcatura di legname dell'edificio stesso, affinché noi possiamo comprendere e gustare la pura e semplice Parola divina e ad essa attenerci».
«Perciò sappi, caro cristiano, e non avere dubbi a riguardo, che, subito dopo il diavolo, tu non hai nemico più acre, più velenoso, più acceso, di un vero ebreo, il quale voglia seriamente essere un ebreo. Tra loro ci possono forse essere anche quelli che credono in ciò in cui crede una mucca, o un’oca, tuttavia la stirpe e la circoncisione gravano su tutti loro. Perciò nelle storie si dà spesso a loro la colpa, di aver avvelenato i pozzi, di aver rapito e seviziato bambini […]. Essi negano decisamente. Però – che sia vero o no – io so bene che, se potessero realmente farlo, di nascosto o apertamente, a loro non ne mancherebbe la completa, piena e pronta volontà».
Come si vede, l'accostamento è davvero sgradevole. Non per tutti, certamente: non lo sarà per un incallito antisemita cristiano che vede confermata la sua ripulsa "teologica" degli ebrei; non lo sarà forse neppure per un convinto ebreo che vedrà confermata in quelle parole la sua diffidenza verso tutto ciò che si presenta come cristiano.
Per un convinto cristiano non cattolico, che proprio per la sua fede evangelica avverte una spinta d'amore verso gli ebrei come popolo eletto da cui proviene Gesù, l'accostamento di queste due parole provoca una tensione dolorosa, perché approva fermamente la prima dichiarazione e rigetta totalmente la seconda. Chi scrive dichiara con chiarezza che considera la prima ispirata da Dio e la seconda ispirata dal Diavolo; considera Lutero un potente strumento di Dio che proprio per la sua importanza è stato attaccato dal Nemico in un punto importante della fede che era rimasto spiritualmente scoperto. Per avvertire i fratelli in Cristo del rischio che si corre a trattare con leggerezza un tema scottante come Israele, quindici anni fa abbiamo pubblicato nel sito una documentazione sul collegamento Lutero-Hitler che adesso ripresentiamo in un nuovo formato.
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Hitler e Lutero, un accostamento sgradevole
a cura di Marcello Cicchese
GERMANIA 1933 - Hitler è al potere da qualche mese, ma il suo governo deve ancora ottenere stabilità all'interno e riconoscimento internazionale. Lo storico Joachim Fest, nel suo libro "Hitler. Una biografia", presenta un quadro dei rapporti della Germania con le altre nazioni in quel momento.
«Hitler optò dapprima per una politica di gesti concilianti, e fece di tutto per sottolineare la continuità con la moderata politica di revisione della repubblica di Weimar. [...] Per almeno sei anni, affermò in presenza di uno dei suoi intimi, con le potenze europee doveva mantenere una sorta di "buon vicinato", soggiungendo che le grida guerresche dei circoli nazionalistici erano quindi fuori posto. Culmine della sua politica di sincere offerte di intesa fu il grande "Friedensrede", il "discorso della pace" del 17 maggio 1933, ancorché Hitler non rinunciasse certo all'occasione di protestare contro l'illimitato mantenimento di una discriminazione tra vinti e vincitori, minacciando perfino di ritirarsi dalla conferenza per il disarmo e addirittura dalla Lega delle Nazioni, qualora alla Germania si continuasse a negare la effettiva parità di diritti. [...]
Il 14 ottobre, poco dopo che il ministro degli esteri britannico, Sir John Simon, gli aveva reso note le nuove posizioni degli alleati, ed era ormai evidente la loro decisione di imporre alla Germania, ove fosse necessario, il quadriennio di prova al tavolo stesso delle trattative, Hitler rese noto il proprio proposito di abbandonare la Conferenza per il disarmo, in pari tempo annunciando il ritiro della Germania dalla Lega delle Nazioni. [...]
Significativamente, Hitler collegò subito l'uscita dalla Lega delle Nazioni con una nuova iniziativa, mediante la quale si spinse ben oltre i moventi iniziali: sottopose la propria decisione al primo plebiscito plenario, inscenato tra grandi rumori propagandistici, facendone dipendere anche la rielezione del Reichstag, costituito il 5 marzo e che in parte era ancora anacronisticamente determinato dalla struttura partitica dell'epoca di Weimar.
Hitler in persona inaugurò la campagna il 24 ottobre, con un grande discorso al Palazzo dello Sport di Berlino; le votazioni erano fissate per il 12 novembre, giorno successivo al quindicesimo anniversario dell'armistizio del 1918. [...]
Anche questa volta, come l'anno prima, venne scatenata una furiosa "guerra dei manifesti" sotto la parola d'ordine "vogliamo onore e uguali diritti!" A Berlino, a Monaco, a Francoforte, furono fatti sfilare, sulle loro carrozzelle, mutilati di guerra recanti cartelli che dicevano: "I caduti della Germania vogliono il tuo voto!" Ampia diffusione in Germania trovavano anche, significativamente, frasi pronunciate dal ministro della difesa britannico Lloyd George: «Il diritto è dalla parte della Germania» e «per quanto tempo l'Inghilterra tollererebbe una simile umiliazione?».
Il 95% dei votanti approvarono la decisione del governo, e, pur ammettendo che il risultato fosse manipolato e ottenuto mediante il ricorso a misure terroristiche, non si può negare che desse voce in maniera abbastanza esatta allo stato d'animo del pubblico. Nelle concomitanti elezioni per il Reichstag, dei quarantacinque milioni di cittadini aventi diritto di voto, trentanove milioni lo diedero alla lista unica nazionalsocialista.»1
In data 29 ottobre 1933, cioè dopo l'uscita della Germania dalla Lega delle Nazioni e prima dell'annunciato plebiscito, compare un commento a questi avvenimenti su "Zeitspiegel" (Specchio dei tempi), allegato di un settimanale evangelico dal titolo "Heilig dem Herrn" (Santo al Signore). Il responsabile dell'allegato, Wilhelm Goebel, è un anziano cristiano evangelico (63 anni), con buone conoscenze di storia e letteratura e ben informato sui fatti politici in corso. E' uno dei tanti evangelici di quel tempo che, pur avendo buone conoscenze bibliche, non soltanto non intuì che nella persona e nel movimento di Hitler ci poteva essere qualcosa che non andava, ma anzi rimase catturato e addirittura affascinato dalla figura del Führer, individuando in lui un autentico salvatore della Germania donato dalla misericordia di Dio al popolo tedesco. E, cosa degna di riflessione, il fascino per Hitler e la repulsione per gli ebrei sono elementi che nei suoi pensieri si sostengono e si confermano a vicenda. Riportiamo qualche estratto dai suoi commenti.
«L'uscita dalla Conferenza del disarmo e dalla Società delle Nazioni non è stata fatta in modo affrettato, avventato e arrogante, ma soltanto dopo aver usato tutta la pazienza necessaria. Hitler e i suoi consiglieri sono certamente ben consapevoli delle conseguenze che ci possono essere anche nel caso peggiore.
Di quello che adesso è avvenuto dobbiamo ringraziare soprattutto gli ebrei e gli amici degli ebrei. Io intendo gli ebrei che dalla loro cattiva coscienza sono fuggiti per paura all'estero quando la Germania si è risvegliata. Adesso siedono all'estero, pieni di veleno e di bile e aizzano con la satanica abilità e mancanza di scrupoli che appartiene alla parte degenerata di questo popolo. Naturalmente dispongono anche di ricchi mezzi finanziari e di ottime relazioni. I loro compagni di popolo e di sentimenti occupano all'estero le posizioni più influenti. Una cosa ci deve essere ben chiara: che questi ebrei vogliono aizzare il mondo in una guerra di sterminio contro la Germania. Per gli ebrei la vittoria del nazionalsocialismo in Germania è un terribile colpo che deve essere neutralizzato. Nel suo discorso Hitler ha detto giustamente:
"Decine di migliaia di americani, inglesi e francesi sono stati in questi mesi in Germania e hanno potuto constatare con i loro occhi che non esiste paese al mondo in cui c'è più calma e ordine che nell'odierna Germania, che in nessun paese al mondo la persona e la proprietà vengono più rispettate che in Germania, e inoltre che forse in nessun altro paese al mondo viene condotta una lotta più accanita contro quegli elementi criminali che credono di poter lasciare libero sfogo ai loro più bassi istinti a danno dei loro simili. Sono queste persone, e i loro aiutanti e amici degli aiutanti comunisti, che oggi come emigranti (profughi) fanno di tutto per aizzare uno contro l'altro gli onesti e rispettabili popoli. Il popolo tedesco non ha alcun motivo di invidiare il resto del mondo per questo guadagno. Noi siamo convinti che pochi anni basteranno per aprire bene gli occhi agli onesti membri degli altri popoli sul vero valore di quegli onorati elementi che sotto la bandiera dei profughi politici hanno ripulito le zone della loro più o meno grande mancanza di scrupoli economica."
Nel frattempo ho ascoltato già due volte il grande discorso di Hitler. Una volta dalla sua bocca, una volta dal disco e se potessi ascoltarlo una terza volta, non sarebbe certo tempo perso. Questo discorso rimarrà di imperitura importanza storica, comunque andranno a finire le cose. Questo discorso al mondo stabilisce fondamenti del tutto nuovi per i rapporti dei popoli fra di loro. Non sarà più l'intrigante e totalmente falsa diplomazia, i cui fili sono sempre tirati da persone cattive, false ed egoiste, a decidere su guerra e pace, ma sarà il proprio popolo e i popoli della terra che dovranno essere appellati. E questo oggi è possibile attraverso il miracolo tecnico della radio. Il nostro Führer e Cancelliere del popolo ha fatto quello che poteva e continuerà a fare quello che può. Il discorso mi ha toccato fin nel mio più intimo, anche se non conteneva niente che non sapessi già e che non mi fossi già detto più volte. E come a me, questo sarà accaduto a molti, molti altri. Ma il modo in cui è stato espresso ha toccato l'anima tedesca nel più profondo. Quando Hitler ha finito, abbiamo fatto quello che certamente anche molti altri hanno fatto nella stessa ora: abbiamo pregato e lodato Dio.
Quale meravigliosa forza di schiettezza, di verità, di assennatezza, di riconoscimento e giustizia nei confronti di altri popoli, di disponibilità alla pace e nello stesso tempo di irremovibile volontà di non lasciarsi sospingere mai e da nessuno oltre il limite sopportabile per l'onore e il bene del popolo tedesco!
[risalto nell'originale]
In cuor mio l'ho lodato ancora una volta, ma adesso voglio farlo anche qui, pubblicamente, davanti alle decine di migliaia che leggono questo articolo:
A favore di quest'uomo [
Hitler
] inviatoci da Dio io mi pongo in modo fermo e irremovibile. A lui va la mia incondizionata fiducia e niente mi potrà confondere, nessuna paurosa, meschina o perfino maligna critica, ma anche nessuna umana imperfezione, nessun errore o avventatezza, sì neppure evidenti peccati come si trovano nel grande movimento nazionalsocialista. Fino a quando Hitler camminerà sulla via su cui finora ha camminato, io camminerò con lui con la più profonda e intima convinzione, e parteggerò per lui ovunque e come io potrò. E facendo questo sono convinto di compiere un servizio secondo la volontà di Dio e nel senso migliore per il bene del mio popolo e della mia patria. Ma so anche che su questa via Dio sarà con lui, anche se la via dovesse passare attraverso gravi difficoltà
[risalto nell'originale]
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Questo è il mio voto [Gelöbnis], e non m'importa se alcuni diranno che è "cieca soggezione".»
Segue un invito accorato a votare Hitler nel prossimo plebiscito del 12 novembre e a sostenerlo in preghiera:
«Ma ora invito tutti i miei lettori e lettrici a fare la stessa cosa. Basta adesso con tutte le perplessità! Basta con tutte le paure! Basta con tutto questo meschino rimaner attaccati a piccolezze e a singoli fatti accaduti! Basta con questo star a sentire critici e disfattisti che affossano la fiducia di cui adesso il Cancelliere del popolo ha più che mai bisogno e che procurano sconforto al cuore del popolo!
[risalto nell'originale]
E se non fosse presente un istinto più elevato, almeno l'istinto di conservazione dovrebbe indurre ciascuno a mettersi dietro a Hitler in modo fermo e deciso. La Germania adesso in effetti è legata a lui nella buona e nella cattiva sorte. Ricordo la frase del Kaiser Guglielmo II: «Adolf Hitler è l'unico uomo che può salvare la Germania.» E hanno anche riferito che quel monarca così duramente provato prega ogni giorno per colui che adesso istituzionalmente occupa il suo posto. E questo non significa una svalutazione del grande, venerando Hindenburg. Anche il Kaiser appartiene dunque alle "SA oranti", e io invito coloro che appartengono alla schiera dei nostri lettori a fare altrettanto:
insistete nella preghiera!
[risalto nell'originale]. Adesso si deve formare una catena di preghiera per il Cancelliere. Che immane peso di responsabilità grava su di lui, che alla fin dei conti è soltanto un uomo! Di quale incalcolabile portata è ogni sua parola, ogni sua decisione! Pregate anche per i suoi collaboratori e consiglieri. Un loro intervento sbagliato, una precipitazione, un ritardo occasionale, un'errata valutazione della situazione può provocare un danno che forse neanche Hitler potrebbe rimediare. Pregate anche per la sua guardia del corpo! Avete pensato a quanti piani di omicidio contro di lui saranno già stati preparati? Quel tipo di persone che hanno incendiato il Reichstag non indietreggia certo davanti a simili progetti diabolici. Anche la migliore protezione non può bastare se Dio non tiene la mano sulla sua vita. E ancora una volta invito a fare qualcosa di totalmente naturale!
Il 12 novembre ciascuno deve sostenere Hitler davanti al mondo con il suo voto SI! Ciascuno deve anche fare pressioni affinché tutte le persone a lui accessibili facciano la stessa cosa. Perché se c'è una cosa che può fare ancora fare impressione sui popoli intorno a noi è la ferma compattezza del popolo tedesco
[risalto nell'originale].»2
Il 10 novembre 1933, giorno in cui la Germania celebrava il 450esimo anniversario dalla nascita di Martin Lutero, il direttore di Zeitspiegel ascolta un discorso propagandistico fatto da Hitler alle maestranze tedesche e in un successivo numero del suo settimanale ne riporta l'impressione ricevuta:
Tutti i membri di famiglia e i collaboratori che non avevano la possibilità di ascoltare a casa il discorso ci siamo seduti intorno alla scatola delle meraviglie marrone [la radio]. Ancora una volta, che discorso è stato! Quel fervido lottare con l'impiego di tutta la forza dell'anima per la conquista dell'anima dei lavoratori e di tutto il popolo! Tutti li vuole conquistare, il Führer, per la Germania, per la grande comunità di popolo tedesca. Così si dovrebbe lottare dai pulpiti, dalle cattedre e nella cura pastorale per la conquista delle anime per il Regno celeste! E' stata una lotta per la verità, per il diritto, per la libertà e per l'onore. Ciascuno, anche se udiva soltanto la voce dell'oratore, si rendeva conto di quanto [l'oratore] prendesse la cosa sul serio. Veramente, è stato un lottare dell'anima per una grande cosa che Dio ha messo su di lei e in lei. Quest'uomo non può agire diversamente. Andrebbe a fondo, non solo internamente ma anche esternamente, se non facesse quello che gli è stato comandato. Un tale uomo si trova sotto una sacra interna costrizione contro la quale non è possibile alcuna ribellione (Geremia 20:8-9, 1 Corinzi 9:16). Questo è stato ciò che ha spinto Gesù quando ha gridato a Zaccheo: «Oggi devo entrare in casa tua», Gesù, che qui poteva dire: «O Dio, compio volentieri la tua volontà». Questo sacro imperativo dell'ubbidienza l'ha portato nel Getsemani in un'ora tremenda. Così fu costretto Paolo, così fu costretto Lutero, di cui oggi, mentre scrivo queste righe, si celebra il 450esimo anniversario dalla nascita. Anche se potrei essere frainteso, dico questo: il discorso di Hitler è stato per me un discorso di Lutero, anche se il nome di questo grande non è stato nominato e neppure poteva esserlo in questa occasione. Non ci posso fare niente: se ascolto Hitler o leggo qualcosa di lui, senza volerlo si presenta davanti a me Lutero, e se leggo qualcosa di Lutero, automaticamente devo pensare a Hitler. Sono così diversi, questi due grandi tedeschi, così diversi nel loro essere, nei loro compiti, e tuttavia così uguali, così simili. Tutto ciò che è veramente grande è sempre simile a se stesso, anche se a una superficiale osservazione può apparire molto diverso. Lo stesso ardore dell'anima. In entrambi brucia come un fuoco che non si può spegnere, che li consuma e che tuttavia li rende così forti e così felici anche in mezzo a pene e dolori.»3
Riportiamo un piccolo saggio di questo "memorabile" discorso:
«La lotta tra i popoli e l'odio fra di loro sono alimentati da precise parti interessate. E' una piccola, sradicata clique internazionale che aizza l'uno contro l'altro i popoli e non vuole che arrivino alla pace. Sono gente che sono a casa dappertutto e in nessun luogo, che non hanno un suolo su cui sono cresciuti ma oggi vivono a Berlino, domani a Bruxelles e il giorno dopo a Parigi, e dappertutto si sentono a casa [una voce dal fondo grida: Jude!]. Loro sono i soli a cui internazionalmente ci si può rivolgere, perché in ogni posto possono fare i loro affari, ma il popolo non può seguirli.»
audio
L'"anima tedesca" fu conquistata e nel plebiscito del 12 novembre il governo nazista ottenne il 95% dei voti.
Due uomini come Lutero e Hitler sono stati avvicinati. Riportiamo allora qualche stralcio dei loro scritti da cui si potrà riconoscere come "in entrambi brucia come un fuoco che non si può spegnere, che li consuma e che tuttavia li rende così forti e così felici."
QUELLO CHE HA DETTO ADOLF HITLER
«Il fatto che egli [l'ebreo] ogni tanto abbandoni il suo territorio non dipende dalla sua volontà, ma è la conseguenza di sfratti che di tempo in tempo lo cacciano via per avere abusato degli ospiti. E quel suo dilagare è un tipico fenomeno parassitario; egli cerca sempre nuove possibilità di nutrimento per la sua razza.
Ciò naturalmente non ha niente a che vedere col nomadismo, dato che l'ebreo non pensa affatto di abbandonare il territorio che ha occupato, ma rimane dove si è stanziato, e così saldamente che non lo si può più cacciar via se non per mezzo della violenza. Il suo diffondersi in nuovi Paesi avviene soltanto se e in quanto vi possa trovare migliori condizioni per l'esistenza, senza le quali egli, come il nomade, non muterebbe la sua attuale residenza. Egli è e rimane il tipico parassita, uno scroccone, che si spande alla maniera di bacilli dannosi, purché trovi un terreno favorevole. E anche gli effetti del suo sopraggiungere somigliano a quelli degli scrocconi: dove penetra, dopo un tempo più o meno breve, l'indigeno muore ...
In questo modo l'ebreo visse negli Stati altrui e vi formò il suo proprio, mascherato per lungo tempo col nome di "comunità religiosa", fino a quando le circostanze esteriori non gli consigliarono di svelare la sua vera natura. Non appena si credette tanto forte da non avere più bisogno di tale velo, egli lo lasciò cadere e si manifestò proprio quello che gli altri non avevano voluto o potuto vedere: l'ebreo.
Nell'esistenza dell'ebreo quale parassita del corpo di altri popoli, si fonda una caratteristica che indusse Schopenhauer a pronunciare la sua famosa frase: l'ebreo è un gran maestro di menzogne. È il suo genere di esistenza che spinge l'ebreo alla menzogna; e proprio a una menzogna eterna, come gli abitanti del nord sono obbligati a indossare sempre un vestito pesante. La sua esistenza in mezzo agli altri popoli può durare a lungo soltanto se gli riesce di far nascere l'opinione che non si tratti già di un popolo speciale, ma di una collettività religiosa - questa è la prima grande bugia.
Infatti, per poter continuare la sua vita di parassita dei popoli, gli tocca rinnegare la sua profonda natura. Quanto più intelligente è il singolo ebreo, tanto più facile gli riuscirà tale imbroglio. [...]
Il popolo ebreo fu sempre dotato di caratteristiche razziali e mai di una confessione religiosa; ma le necessità vitali l'obbligarono presto a cercare un mezzo che potesse distogliere l'attenzione da lui e dai suoi aderenti. Il mezzo più adatto e inoffensivo apparve subito l'introduzione del concetto di "comunità religiosa". Ma anche qui tutto è preso a prestito, o meglio rubato - infatti dalla sua natura fondamentale l'ebreo non poteva trarre istituzioni religiose, ché gli manca completamente ogni forma di idealismo, e perciò ogni fede nell'aldilà. E dal punto di vista ariano, noi non riusciamo a raffigurarci una religione che sia priva di qualsiasi fede in una immortalità dopo la morte. Neanche il Talmud è un libro che prepari all'aldilà, ma soltanto a una pratica e redditizia vita quaggiù.
La dottrina religiosa ebraica è in primo luogo un metodo per mantenere puro il sangue del giudaismo, e un codice che regola i rapporti degli ebrei fra di loro e ancor più col resto del mondo, cioè coi non ebrei. Ma anche qui non si tratta affatto di problemi etici, bensì solo di precisi problemi economici. Sul valore morale dell'insegnamento religioso ebraico, ci sono molti studi penetranti (non certo da parte ebraica, ché le interpretazioni degli ebrei sono naturalmente rivolte a uno scopo preciso), i quali ci fanno apparire un simile tipo di religione assolutamente assurdo, secondo i nostri concetti ariani. Ma la miglior dimostrazione di ciò è il prodotto di tale educazione semita, cioè l'ebreo stesso. La sua vita è talmente lontana dal nostro mondo, e il suo spirito dal cristianesimo, come lo era duemila anni fa nei confronti del fondatore della nuova dottrina. Anche costui non nascose la sua opinione al popolo ebraico, e afferrò perfino la frusta per cacciare dal tempio del Signore questi negatori dell'umanità, i quali già allora vedevano nella religione un mezzo per fare ottimi commerci. Perciò Cristo venne inchiodato alla croce, mentre il nostro cristianesimo politico si abbassa oggi a elemosinare i voti dagli ebrei, e cerca di accordarsi coi partiti ebraici per sconclusionate avventure politiche, magari contro il proprio popolo.»4
Il 30 gennaio 1939, in un discorso tenuto al Reichstag in occasione del sesto anniversario della sua ascesa al potere, Hitler manifestò la sua coerente determinazione nei confronti degli ebrei con una "profezia" che in seguito ripeterà più volte:
«In vita mia molto spesso sono stato profeta, e il più delle volte mi hanno riso in faccia. Quando lottavo per ascendere al potere, e predicevo che prima o poi avrei afferrato le redini dello stato e dell'intero popolo tedesco e quindi, tra le altre cose, avrei anche risolto il problema giudaico, erano proprio gli ebrei i primi a ridere delle mie parole. Ho motivo di credere che nel frattempo questa vuota risata del giudaismo tedesco gli sia morta in gola. Oggi voglio essere profeta ancora una volta: se il capitale giudaico internazionale dentro e fuori l'Europa riuscirà nuovamente a precipitare le nazioni in una guerra mondiale, il risultato non sarà la bolscevizzazione della terra e dunque la vittoria del giudeo, ma l'annientamento (Vernichtung) della razza ebraica in Europa!»
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QUELLO CHE HA DETTO MARTIN LUTERO
«A Gerusalemme, sotto Davide e Salomone, essi [gli ebrei] non avrebbero potuto godere di giorni tanto felici nelle loro proprietà, come ora nelle nostre, che ogni giorno derubano e rapinano; e tuttavia si lamentano che noi li teniamo prigionieri! Ebbene sì: li abbiamo presi e li teniamo prigionieri, come io tengo prigioniero il mio calcolo, le mie ulcere, e tutte le altre malattie e malanni, dei quali devo prendermi cura, come un povero servo, con denaro e beni e con tutto ciò che posseggo. Oh, vorrei tanto che quelli fossero a Gerusalemme, con gli ebrei, e con chiunque altro volessero!
E visto che ora è certo che noi non li teniamo prigionieri, come mai, allora, questi nobili, grandi santi, ci sono tanto ostili? [...]
E invece, malgrado i loro assassini, maledizioni, ingiurie, menzogne, infamie, li lasciamo vivere liberi presso di noi; proteggiamo e difendiamo le loro sinagoghe, le loro case, le loro persone e i loro beni, e cosi li rendiamo pigri e sicuri, e li aiutiamo a succhiarci, tranquilli, il nostro denaro e i nostri beni, mentre - per di più - ci maledicono e ci sputano addosso, e chissà che alla fine non potranno sopraffarci, e per questo grande peccato ammazzarci tutti, prendersi tutti i nostri averi, come ogni giorno si augurano nelle loro preghiere e sperano. Dimmi tu, ora, se non hanno tutte le ragioni per essere ostili a noi, dannati goijm [non ebrei, ndr], per maledirci e cercare la nostra ultima, radicale ed eterna rovina!
Da tutto questo noi cristiani vediamo (perché gli ebrei non possono vedere) quale terribile ira di Dio si sia abbattuta su questo popolo e continui ad abbattersi su di esso senza sosta; quale fuoco e quale vampa bruci lì, e cosa ottengano quelli nel maledire Cristo e i suoi cristiani e nell'essere loro nemici. [...]
Cosa vogliamo fare ora noi cristiani con questo abietto, dannato popolo degli ebrei? Dal momento che essi vivono presso di noi, e conosciamo queste loro menzogne, ingiurie e maledizioni, noi non possiamo più tollerarli, per non essere partecipi di tutte le loro menzogne, maledizioni e ingiurie.5
Io voglio dare il mio sincero consiglio.
In primo luogo bisogna dare fuoco alle loro sinagoghe o scuole; e ciò che non vuole bruciare deve essere ricoperto di terra e sepolto, in modo che nessuno possa mai più vederne un sasso o un resto. [...]
Secondo: bisogna allo stesso modo distruggere e smantellare anche le loro case, perché essi vi praticano le stesse cose che fanno nelle loro sinagoghe. Perciò li si metta sotto una tettoia o una stalla, come gli zingari, perché sappiano che non sono signori del nostro Paese, come invece si vantano di essere, ma sono in esilio e prigionieri, come essi dicono incessantemente davanti a Dio strillando e lamentandosi di noi. [...]
Terzo: bisogna portare via a loro tutti i libri di preghiere e i testi talmudici, nei quali vengono insegnate siffatte idolatrie, menzogne, maledizioni e bestemmie. [...]
Quarto: bisogna proibire ai loro rabbini - pena la morte - di continuare a insegnare, perché essi hanno perduto il diritto di esercitare questo ufficio. [...]
Quinto: bisogna abolire completamente per gli ebrei il salvacondotto per le strade, perché essi non hanno niente da fare in campagna, visto che non sono né signori, né funzionari, né mercanti, o simili. [...]
Sesto: bisogna proibire loro l'usura, confiscare tutto ciò che possiedono in contante e i gioielli d'argento e d'oro, e tenerlo da parte in custodia. E il motivo è questo: tutto quello che hanno (come sopra si è detto), lo hanno rubato e rapinato a noi attraverso l'usura, perché, diversamente, non hanno altri mezzi di sostentamento. [...]
Settimo: a ebrei ed ebree giovani e forti, si diano in mano trebbia, ascia, zappa, vanga, conocchia, fuso, in modo che guadagnino il loro pane col sudore della fronte, come fu imposto ai figli di Adamo, al terzo capitolo della Genesi. Poiché non è giusto che essi vogliano far lavorare noi, maledetti goijm nel sudore della nostra fronte, e che essi, la santa gente, vogliano consumare pigre giornate dietro la stufa, a ingrassare e scorreggiare, vantandosi in questo modo blasfemo di essere signori dei cristiani, grazie al nostro sudore. A loro bisognerebbe invece scacciare l'osso marcio da furfanti dalla schiena!6
[...]
Insomma, cari principi e signori, che avete ebrei sotto di voi, se il mio consiglio non vi aggrada, allora trovatene uno migliore, cosicché voi e noi tutti, possiamo essere liberati dall'insopportabile, diabolico peso degli ebrei e non ci rendìamo colpevoIi davanti a Dio di essere complici di tutte le menzogne, bestemmie, calunnie, maledizioni, che i furiosi ebrei scagliano tanto liberamente e gratuitamente contro la persona del nostro Signore Gesù Cristo, della Sua cara madre, di tutti i cristiani, delle autorità e di noi stessi. Fate sì che non abbiano alcuna protezione né difesa, alcun salvacondotto, né vita comune con noi, e che il denaro e i beni, vostri e dei vostri sudditi, ottenuti attraverso l'usura, non servano loro a questo e non siano loro di alcuna utilità. Noi abbiamo comunque già abbastanza peccati su di noi, ancora dai tempi del Papato, e ogni giorno ne aggiungiamo molti altri per la nostra ingratitudine e il nostro disprezzo della Sua parola e di tutta la Sua grazia, e dunque non è necessario che prendiamo su di noi anche di questi estranei e turpi vizi degli ebrei e che, per di più, diamo loro denaro e averi. Dobbiamo considerare che noi ora combattiamo ogni giorno contro i turchi, e per questo abbiamo bisogno di alleggerire i nostri peccati e condurre una vita migliore. lo voglio avere la coscienza pulita e libera dalla colpa, dal momento che vi ho sinceramente ammoniti e messi in guardia. [...]
E voi, miei cari signori e amici, che siete pastori e predicatori: io voglio avervi qui ricordato, del tutto sinceramente, il vostro compito cosicché anche voi mettiate in guardia - come sapete fare bene - i vostri parrocchiani dalla loro eterna rovina: che cioè si guardino dagli ebrei, e li evitino quando possono. [...]
Si lasci che l'autorità agisca nei loro confronti, come ho appena indicato. Ma che l'autorità lo faccia o no, quanto meno ciascuno si comporti secondo coscienza, e si faccia una tale idea o immagine di un ebreo.»7
Il libello di Lutero contro gli ebrei, Degli ebrei e delle loro menzogne, da cui sono tratte queste citazioni, naturalmente è ben noto agli storici, ma non al grande pubblico. Qualche cristiano poco informato, una volta venuto a conoscenza di simili scritti potrebbe rimanere scandalizzato e chiedersi come mai non siano stati sufficientemente divulgati e adeguatamente discussi dagli storici protestanti. La domanda è pertinente e la risposta potrebbe essere molto semplice: perché l'antisemitismo palese e sanguigno di Lutero è sostanzialmente condiviso, anche se in forma dissimulata e teologicamente fredda, da molti cristiani, teologi e non. Anche il direttore di Zeitspiegel, persona di una certa cultura, conosceva e aveva letto il libello di Lutero, ma non ne era rimasto scandalizzato. Anzi, gli sembrò di riconoscere nelle parole veementi e appassionate del suo ammirato Führer la sanguigna focosità del Riformatore.
Qualche anno fa è stata tradotta in italiano una poderosa opera di un profondo studioso della Riforma protestante8. Nell'ultima pagina di copertina si dice tra l'altro:
«Lutero non ha inteso insegnare dottrine nuove ma - come Giosuè - ha guidato il popolo di Dio alla scoperta del nuovo mondo della teologia biblica, dopo averlo liberato dalla schiavitù della scolastica. E' un teologo troppo grande per poter essere rinchiuso nei limiti confessionali; in realtà egli appartiene a tutta l'ecumene cristiana: egli addita Cristo e l'Evangelo.»
Nel libro dunque Lutero viene presentato come qualcuno che "addita Cristo e l'Evangelo", e poiché nella Bibbia sta scritto che l'Evangelo è "potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco" (Romani 1.16), da un libro di oltre 400 pagine sulla figura di questo personaggio ci si sarebbe aspettati che l'autore avvertisse l'obbligo di affrontare con impegno lo scandalo della presentazione di un Evangelo che invece di provocare "gelosia" (Romani 11.14) negli ebrei al fine di attirarli alla salvezza, provoca in loro un senso di disgusto che li respinge. L'autore invece sbriga la cosa con una mezza paginetta che può essere riportata per intero:
«In questo stesso periodo si evidenzia anche un'altra ombra nel pensiero di Lutero: le sue polemiche contro gli ebrei. Lutero viveva in una società fortemente antisemita, periodicamente agitata da ondate d'odio antiebraico e da spettacolari cacciate di ebrei con distruzioni di sinagoghe ecc.; egli non riuscì mai a liberarsi completamente dai pregiudizi antiebraici correnti al suo tempo. Aveva sperato che, all'ascolto del vero Evangelo, si sarebbero convertiti; fu quindi molto deluso dalla loro «durezza di cuore». Gli venne riferito che, in certe zone, particolarmente in Moravia, gli ebrei stavano tramando per attirare i cristiani dall'Evangelo al giudaismo, e che avrebbero pronunciato sanguinosi insulti e bestemmie contro Cristo. Quest'ultima accusa sconvolse profondamente Lutero: il mondo intero avrebbe potuto dire tutto quel che voleva contro di lui senza riuscire a provocare una sua reazione, ma attaccare la sua teologia, criticare l'Evangelo o denigrare il suo Signore e Maestro Gesù Cristo, significava provocar tutte le invettive della sua fierissima penna. Si lasciò così trascinare a fare alcune osservazioni spiacevoli sugli ebrei, che egli vedeva sempre implicati nell'usura, e dichiarò esplicitamente che, se non avessero compiuto un onesto e duro lavoro quotidiano come qualsiasi altro tedesco, sarebbero stati cacciati dal paese.
È vero che l'attacco di Lutero fu essenzialmente teologico - per lui l'«ebreo» era innanzitutto un concetto teologico (il difensore ad oltranza della «Legge») più che razziale - ma su questo punto non è certo esente da critiche pienamente giustificate. Nel suo libro sugli ebrei e le loro menzogne si impegnò in particolare a dimostrare la follia della superbia razziale e religiosa ebraica e l'assurdità della loro attesa messianica.»9
Tutto qui. L'antisemitismo di Lutero sarebbe dunque poco più che un antiestetico neo, una nota leggermente stonata in una sublime sinfonia. Ma forse per l'autore non si tratta neppure di antisemitismo, perché per Lutero l'ebreo era innanzitutto un "concetto teologico". Un concetto teologico? Riportiamo allora un'altra frase del libello luterano:
«
questa melma torbida, questa rancida feccia, questa schiuma secca, questo fondo ammuffito, questa limacciosa palude dell'ebraismo, dovrebbe meritare, in virtù della sua penitenza e della sua giustizia, il regno del mondo intero, cioè il Messia e il compimento delle profezie, ora che non hanno niente delle suddette cose, e non sono altro che la putrida, maleodorante, abietta feccia della stirpe dei loro padri?»10
Non sembra dunque che l'unico aspetto degli ebrei colpito sia quello teologico.
La teologia comunque c'entra, perché Lutero nel suo discorso fa intervenire anche il Diavolo:
«Perciò sappi, caro cristiano, e non avere dubbi a riguardo, che, subito dopo il diavolo, tu non hai nemico più acre, più velenoso, più acceso, di un vero ebreo, il quale voglia seriamente essere un ebreo. Tra loro ci possono forse essere anche quelli che credono in ciò in cui crede una mucca, o un'oca, tuttavia la stirpe e la circoncisione gravano su tutti loro. Perciò nelle storie si dà spesso a loro la colpa, di aver avvelenato i pozzi, di aver rapito e seviziato bambini [
]. Essi negano decisamente. Però - che sia vero o no - io so bene che, se potessero realmente farlo, di nascosto o apertamente, a loro non ne mancherebbe la completa, piena e pronta volontà"»11
Con questa frase Lutero si assume la tremenda responsabilità di avallare con la sua autorità le più maligne dicerie popolari sulle presunte atrocità commesse dai giudei, e lo fa nel modo più ambiguo e nocivo che ci possa essere: non si interessa della veridicità delle voci che riportano quelle efferatezze, ma afferma apoditticamente che se gli ebrei potessero, certamente le commetterebbero. Un atteggiamento simile tenne secoli dopo anche Adolf Hitler, che davanti al falso storico "I Protocolli dei Savi anziani di Sion", secondo cui gli ebrei complottano per arrivare a dominare il mondo, sostenne appunto che non era importante accertare se i fatti riportati fossero veri, perché certamente erano verosimili, cioè era certo il fatto che gli ebrei avevano quelle intenzioni e tramavano per metterle in pratica.
«Tutta l'esistenza di questo popolo poggia su una continua menzogna, come appare nei famosi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Essi si fondano su una falsificazione, lamenta piagnucolando la "Frankfurter Allgemeine", e in questo sta la miglior prova che sono veri. Ciò che molti ebrei vorrebbero inconsciamente fare, qui è consapevolmente dichiarato. Ed è quello che conta. Non importa invece sapere da quale cranio giudaico siano uscite tali rivelazioni; è essenziale però il fatto che essi rivelino con orrenda sicurezza la natura e l'attività del popolo ebraico, e li espongano nei loro rapporti interni e nei loro scopi finali.»12
A ragione quindi Hitler avrebbe potuto dire che lui aveva imparato da Lutero, l'ammirato eroe religioso della nazione germanica che aveva saputo mettere in guardia i suoi connazionali dagli ebrei con parole come queste:
«Certo, se potessero fare a noi ciò che noi possiamo fare a loro, non rimarremmo in vita neanche un'ora. Infatti, pur non potendolo fare apertamente, essi rimangono nei loro cuori i nostri quotidiani assassini e sanguinari nemici. Lo provano le loro preghiere e maledizioni e le tante storie di bambini uccisi da loro, e di malefatte di ogni genere da loro commesse e le tante storie di bambini uccisi, per le quali spesso furono bruciati e cacciati. Perciò io sono fermamente convinto che in segreto essi dicano e facciano cose ben peggiori di quelle che le storie e altri scritti attribuiscono loro, e che però facciano affidamento sul loro diniego e sul loro denaro. [...] Solo le maledizioni possono convincerli, cosicché bisogna credere a tutte le cose cattive che si scrivono sugli ebrei: essi fanno sicuramente di più e di peggio di quanto noi non sappiamo e non veniamo a sapere!»13
Qualunque malvagità si dica sugli ebrei deve dunque essere creduta, perché in ogni caso loro sono certamente peggiori di quel che si dice. Questo è l'insegnamento luterano, il quale trova il suo culmine in queste parole:
«Noi non accoltelliamo i loro bambini, non avveleniamo le loro acque, non siamo assetati del loro sangue, perché dunque, ci attiriamo una tanto atroce ira, invidia e odio, da parte di questi grandi e santi figli di Dio? Non c'è altra spiegazione, se non ciò che abbiamo detto prima citando Mosè: cioè che Dio li ha colpiti con la follia, la cecità, il delirio del cuore. E così anche noi siamo colpevoli: per non aver vendicato il sangue innocente del nostro Signore e dei cristiani, che essi hanno versato per trecento anni dopo la distruzione di Gerusalemme, e il sangue dei bambini versato fino a ora (come appare ancora dai loro occhi e dalla loro pelle). Siamo colpevoli di non averli uccisi.»14
Ci penserà Hitler, quattrocento anni dopo, a tentare di rimediare a questa "colpa" dei cristiani con la costruzione delle camere a gas. Non c'è da sorprendersi se i più feroci antisemiti del regime nazista abbiano considerato Lutero uno dei più grandi tedeschi della storia mondiale.
Ma peggiore ancora dell'ammirazione degli antisemiti per Lutero è il tentativo di certi studiosi cristiani di attenuare il suo antisemitismo proponendone una contestualizzazione storica e teologica:
«Come la storiografia più recente ha sottolineato, l'antigiudaismo di Lutero deve sempre essere collocato nel contesto storico e culturale del XVI secolo e in una prospettiva che è, e rimane, essenzialmente teologica anche quando le conseguenze delle posizioni del riformatore assumono una valenza più propriamente politica, come nel caso di questa terza parte del trattato. Da qui la necessità di leggere l'elenco delle durissime misure che Lutero suggerisce ai governanti e ai pastori, sempre in relazione alle parti del trattato nelle quali egli espone le proprie posizioni su basi teologico-scritturali.»15
Si pensa evidentemente che attribuendo il truculento linguaggio antisemita di Lutero alla sua impostazione teologica se ne attenui la gravità. E' vero il contrario: il fatto di essere un antisemitismo teologico ne accentua la gravità perché introduce il bacillo dell'odio antiebraico nella spiritualità cristiana legittimandolo con argomenti dottrinali. E se i suoi ammiratori non se ne accorgono molto probabilmente è perché anche loro sono infettati senza accorgersene dallo stesso bacillo.
Gli ebrei invece se ne accorgono, anche e soprattutto quelli che arrivano alla fede in Gesù come Messia d'Israele e Figlio di Dio. Un periodico che da alcuni anni viene pubblicato in Germania da "ebrei messianici", ha affrontato sulle sue pagine anche il tema di Lutero in un articolo che ha come titolo "Teologo dell'Olocausto". Di seguito alcuni estratti.
«Lutero odiava gli ebrei della Bibbia come gli ebrei del suo tempo. La sua teologia ha legittimato e addirittura provocato l'Olocausto. "Teologo dell'Olocausto" è una qualifica che Lutero si è assolutamente meritata.
Nell'ultima parte dell'undicesimo capitolo della lettera ai Romani Paolo afferma che la cecità di una parte di Israele per la buona notizia è soltanto temporanea. E' un mezzo per aprire la porta della salvezza anche ai gentili. Dio porrà una fine a questa cecità, perché "Per quanto concerne il vangelo, essi sono nemici per causa vostra; ma per quanto concerne l'elezione, sono amati a causa dei loro padri" (v.28). Lutero commenta dicendo che la parola "nemici" si deve intendere qui in modo passivo, nel senso cioè che essi meritano di essere odiati. Dio li disprezza, e loro vengono odiati anche dagli apostoli e da tutti quelli che appartengono a Dio. »
Segue nello stesso articolo un giudizio complessivo molto duro su Lutero e la sua teologia:
«Se dagli scritti di Lutero si elimina la deformazione fatta del testo biblico, la sua ripugnanza e il suo odio per gli ebrei, la sua teologia crolla. La teologia di Lutero è indissolubilmente intrecciata con il suo antisemitismo. Alcuni ammiratori di Lutero minimizzano il suo antisemitismo come un errore su cui si può chiudere un occhio. Stimano che il suo ruolo nella Riforma e le sue prestazioni teologiche siano più importanti dei suoi peccati.»
Anche se si può non condividere una stroncatura così radicale del riformatore tedesco, resta il fatto che il suo antisemitismo può essere minimizzato soltanto da chi in sostanza lo condivide, anche se prende le distanze dalle sue espressioni più pesanti e volgari.
Tre volte, in quella lettera ai Romani il cui commentario ha contribuito alla fama di Lutero, l'ebreo Paolo fa riferimento alla superbia rivolgendosi al generico cristiano non ebreo: "... non insuperbirti contro i rami; ma, se t'insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te... non insuperbirti, ma temi" (Romani 11:18-20). Ed invece è proprio questo il peccato in cui Lutero è caduto, e con lui cadono anche oggi molti cristiani gentili che rifiutano di considerarsi antisemiti: la superbia di fronte agli ebrei. Una superbia che si manifesta anche nella sussiegosa condiscendenza con cui vengono osservati. "Non insuperbirti, ma temi", ammonisce la Scrittura. Temi, perché la superbia è un atteggiamento diabolico e non una semplice debolezza umana. E il Diavolo, quando si vede imitato nella sua originaria superbia entra in azione e soffia sul fuoco. Soffia fino ad ottenere risultati che all'inizio non erano previsti e forse non si volevano, ma che poi avvengono. E quando sono avvenuti appaiono mostruosi e inspiegabili.
Qualcosa del genere deve essere avvenuto con Lutero. Il collegamento Lutero-Hitler non può quindi essere lasciato cadere con un'alzata di spalle: soprattutto gli evangelici, tra cui anche il curatore di queste note si pone, devono farne oggetto di riflessione e umiliazione. Come mostra in modo agghiacciante l'esempio del direttore di "Zeitspiegel", la superbia di cui parla l'apostolo Paolo è quasi sempre irriconoscibile. E l'antisemitismo, soprattutto fra coloro che dicendosi cristiani vorrebbero sentirsi ed essere riconosciuti come "buoni", assume forme insidiose e nomi sempre diversi. Ma il nome biblico più adatto è sempre lo stesso: superbia.
NOTE
- Joachim Fest, Hitler. Una biografia, Garzanti, 2005, pp. 533-538.
- Zeitspiegel n. 44, 29 ottobre 1933.
- Zeitspiegel n. 48, 29 novembre 1933.
- A cura di Giorgio Galli , Il Mein Kampf di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista, Kaos, 2002, pp. 277-278.
- Martin Lutero, Degli ebrei e delle loro menzogne, Einaudi, 2000, pp.185-187.
- Martin Lutero, ivi, pp.188-195.
- Martin Lutero, ivi, pp.197-199.
- James Atkinson, Lutero, la parola scatenata, Claudiana, 1983.
- James Atkinson, ivi, p.385.
- Martin Lutero, ivi, p.149.
- Martin Lutero, ivi, p.115.
- A cura di Giorgio Galli, Il Mein Kampf di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista, p. 279.
- Martin Lutero, ivi, p.216.
- Martin Lutero, ivi, p.186.
- Martin Lutero, ivi, p.189 (nota del curatore del libro).
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Un moderato, equilibrato, "evangelico" antisemitismo
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Un Messia che delude
di Marcello Cicchese
A ciascuno dei dodici apostoli Gesù aveva detto: “Seguimi”. Non era una proposta, era un ordine. Perché i dodici hanno ubbidito senza fiatare, anzi molto volentieri? Perché erano convinti che Gesù era il Messia, il Re d’Israele: dunque aveva autorità, e per loro era un onore essere stati scelti per seguirlo e servirlo. Da Lui evidentemente si aspettavano quello che era stato promesso dai profeti: l’instaurazione del regno messianico. Gesù stesso del resto ne aveva dato un solenne annuncio fin dall’inizio del suo ministero:
“Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»” (Matteo 4:17).
Le cose però cominciarono ben presto a mettersi male: gli scribi facevano obiezioni teologiche, i farisei erano infastiditi per la perdita di autorità che subivano presso il popolo, i sadducei temevano che un possibile sollevamento del popolo sull’onda dell’entusiasmo messianico provocasse una violenta reazione romana. Giuda a un certo punto capì che le cose andavano a finire male, e anche Tommaso forse temeva che qualcosa di brutto si stesse preparando perché vedendo Gesù che si avviava deciso verso Gerusalemme disse agli altri: “Andiamo a morire con lui” (Giovanni 11:16). A parte questi due, tutti gli altri erano convinti che Gesù avrebbe lasciato agire gli avversari fino all’ultimo momento per fare in modo che tutti si scoprissero e venisse fuori chi aveva veramente creduto in lui fino alla fine e chi no. Pietro dunque era sincero quando disse convinto: «Quand’anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Matteo 26:35). Non era una sbruffonata: poco prima aveva visto Gesù risuscitare Lazzaro. Quindi - avrà pensato - se Gesù vuole vedere chi è disposto a farsi uccidere per lui, io sono pronto. E quando nel giardino di Getsemani vide avvicinarsi una folla di centinaia di persone armate di spade e bastoni avrà pensato: questo è il momento. Erano lì per pregare, ma lui si era portato dietro una spada. Chiese a Gesù se dovevano colpire, ma come al solito non aspettò nemmeno la risposta e mirò alla testa di uno che stava davanti a lui. In seguito si scoprì che era il servo del Sommo Sacerdote. Gli staccò un orecchio, ma solo perché quell’altro fece in tempo a scansarsi. E’ certo che Pietro non voleva colpire di fino: lui voleva spaccare la testa. E davanti alla forza preponderante di una folla armata e minacciosa, questo significava per lui morte sicura. Aveva mantenuto la sua promessa: aveva dimostrato di essere pronto anche a morire per Gesù. Aveva compiuto un atto di coraggio e di fede.
Ma qui arriva la sorpresa: Gesù non lo loda. Ma neppure lo sgrida: sapeva fin dall’inizio che sarebbe andata a finire così. Semplicemente rifiuta l’atto di fede di Pietro. Gli dice: «Rimetti la spada nel fodero» (Giovanni 18:11). E aggiunge: «Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli?» (Matteo 26:53). Appunto, proprio questo probabilmente si aspettava Pietro. Ricordava bene l’esperienza dei cinquemila nel deserto che avevano fame e non si sapeva come fare. Gesù aveva chiesto che gli portassero i pani e i pesci che avevano a disposizione e li aveva miracolosamente moltiplicati. Anche adesso - qualcuno di loro avrà pensato - occorre che qualcuno metta a disposizione quel poco che ha. Questa volta i discepoli non aspettarono che Gesù facesse la richiesta: ormai avevano capito la lezione e si fecero avanti per primi: “Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade!»” (Luca 22:38), e aspettarono che Gesù moltiplicasse le spade come aveva fatto con i pani. Ma se Gesù moltiplica le spade e le fa diventare migliaia, poi chi le brandisce? Con il riferimento alla legione di angeli probabilmente Gesù aveva toccato nel vivo il pensiero di Pietro, proprio quello su cui aveva fondato la sua fede. Non è detto che Pietro si aspettasse precisamente la venuta della legione di angeli, ma per lui poteva essere sufficiente appoggiarsi sul fatto che Gesù se vuole può fare così. Gesù ha confermato questo pensiero; in sostanza ha detto: se volessi, potrei fare così. Ma ha aggiunto: non lo voglio e non lo faccio. A questo punto ai discepoli sono venuti a mancare tutti i puntelli della loro fede e sono scappati. E’ importante sottolinearlo: non sono le armi e i bastoni che hanno fatto scappare i discepoli, ma le parole di Gesù.
Dopo aver annullato, con il riferimento alla legione di angeli, le aspettative dei discepoli, Gesù dà la vera spiegazione del suo comportamento davanti alla folla minacciosa: «Non berrò forse il calice che il Padre mi ha dato?» (Giovanni 18:11). Quello che Gesù vuole è fare la volontà del Padre, perché la volontà di Dio compiuta sulla terra in Israele è la salvezza di Israele e di tutto il mondo.
Ma fino all’ultimo la popolazione di Gerusalemme è rimasta col fiato sospeso nella speranza, o nel timore, che qualche fatto prodigioso avvenisse a conferma della messianità di Gesù. Perfino quando sulla croce gridò: «Elì, Elì, lamà sabactàni», alcuni dissero: «Lascia, vediamo se Elia viene a salvarlo» (Matteo 27:49).
Ma Gesù non scese giù di croce e la delusione dei discepoli fu grande. Il loro cupo stato d’animo è ben espresso dall’episodio dei discepoli sulla via di Emmaus:
“Due di loro se ne andavano in quello stesso giorno a un villaggio di nome Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi; e parlavano tra di loro di tutte le cose che erano accadute. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti a tal punto che non lo riconoscevano. Egli domandò loro: «Di che discorrete fra di voi lungo il cammino?» Ed essi si fermarono tutti tristi. Uno dei due, che si chiamava Cleopa, gli rispose: «Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?» Egli disse loro: «Quali?» Essi gli risposero: «Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose. E’ vero che certe donne tra di noi ci hanno fatto stupire; andate la mattina di buon’ora al sepolcro, non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate dicendo di aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato tutto come avevano detto le donne; ma lui non lo hanno visto»” (Luca 24:13-24).
“Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele”, sospirano sconfortati i due discepoli. Viene in mente il rimprovero rivolto da Mosè a Dio: “... tu non hai affatto liberato il tuo popolo” (Esodo 5:23) . E’ illuminante la risposta di Gesù, che i discepoli considerano ancora come uno sconosciuto forestiero:
“Allora Gesù disse loro: «O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?» E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano” (Luca 24:25-27)
Gesù non rimprovera il materialismo dei discepoli, non dice che hanno sbagliato ad aspettarsi un regno politico terreno perché il suo regno è puramente spirituale; non li avverte dicendo che ormai il vecchio Israele sarà abbandonato da Dio e quindi adesso loro entreranno a far parte di un nuovo Israele che si chiamerà “Chiesa”. Gesù li tratta male, in un certo senso li insulta anche, ma non per contrapporre al loro materialismo terrestre il suo spiritualismo celeste.
• QUELLO CHE I CONTEMPORANEI DI GESÙ NON AVEVANO CAPITO
Ancora oggi molti sostengono che gli ebrei hanno rifiutato Gesù perché si aspettavano un regno politico terrestre, e non avevano capito che il regno di Dio è invece di natura puramente spirituale. C’è un brano famoso del Vangelo di Luca chiamato “cantico di Zaccaria”:
“Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetizzò, dicendo:«Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo, e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo, come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti; uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita»” (Luca 1:67-75).
Un esegeta protestante dell’inizio del secolo scorso commenta così queste parole:
“Le vedute di Zaccaria intorno a questo avere «Iddio visitato e riscattato il suo popolo» dovevano essere molto indistinte e imperfette. E’ probabile che partecipasse alle idee prevalenti tra i suoi compatrioti intorno al regno terreno del Messia, e alla liberazione dai loro nemici con la spada e con la lancia; ma nel mentre le parole messegli in bocca dallo Spirito di Dio, avrebbero potuto naturalmente risvegliare tali immagini terrene nella mente d’un Giudeo dominato da siffatti pregiudizi, erano egualmente adatte ad esprimere i concetti più spirituali della redenzione che è in Cristo Gesù. Tale è il senso che noi dobbiamo dare al linguaggio di Zaccaria, sebbene possa darsi che egli non comprendesse appieno il significato delle parole che gli dettava lo Spirito Santo.“
E per quanto riguarda i nemici di Israele, il commentatore dà questa spiegazione:
“Che Zaccaria avesse, come pensano alcuni, o non avesse, in vista nemici temporali, quali erano stati in passato i Macedoni sotto Antioco, ed erano ai suoi giorni i Romani, è certo che lo Spirito d’ispirazione ci insegna in questi versetti che la principale benedizione contemplata nel patto con Abraamo non era il potere o lo splendore temporale dei suoi discendenti secondo la carne, ma, come si è detto, la liberazione della sua progenie da tutti i nemici spirituali; la salvazione dal peccato e dalla sua potenza.
Questa contrapposizione tra supposto materialismo giudaico e cosiddetto spiritualismo cristiano, oltre ad essere una falsificazione del messaggio evangelico che non cessa di essere tale per il fatto di essere molto diffusa, costituisce il presupposto ideologico di un latente antisemitismo tanto più pericoloso quanto più inconsapevole. Molto facilmente un certo tipo di spiritualismo cristiano si allea con qualche forma di idealismo pagano e si pone in lotta con il cosiddetto materialismo ebraico. Nel suo Mein Kampf Hitler si esprime così riguardo agli ebrei:
“No, l’ebreo non possiede nessuna forza creativa, poiché egli è privo di quell’idealismo senza il quale non è possibile uno sviluppo dell’umanità verso l’alto […] per la sua natura fondamentale l’ebreo non poteva trarre istituzioni religiose, perché gli manca completamente ogni forma di idealismo, e perciò ogni fede nell’aldilà”.
Tornando all’episodio dei discepoli sulla via di Emmaus, si può notare che Gesù non li accusa di essere poco spirituali, ma di non aver capito quello che i profeti di Israele hanno detto: cioè che il Messia doveva soffrire e così entrare nella sua gloria. Gesù non comunica nulla di nuovo ai discepoli: il suo discorso si muove tutto all’interno del mondo ebraico. Uno sconosciuto ebreo, come fino a quel momento Gesù era considerato dai discepoli, rimprovera ad altri ebrei di non aver capito che il Messia prima di entrare nella sua gloria doveva soffrire, morire e risuscitare. E cerca di convincerli di tutto questo spiegando loro le Scritture ebraiche, cominciando da Mosè.
Non si tratta dunque di un contrasto tra Israele e Chiesa, o tra materialismo giudaico e idealismo ariano, ma di un contrasto tutto interno al messaggio ebraico veterotestamentario. Ad esso si collega una fondamentale domanda: il Messia promesso a Israele si presenterà come un mansueto agnello che si lascia immolare, o come un potente leone che sbaraglia i nemici del suo popolo?
La difficoltà di armonizzare, nelle profezie bibliche, la figura di un Messia sofferente con quella di un Messia trionfante è ben nota nella tradizione rabbinica. Un’interpretazione molto diffusa nel passato (non è noto a chi scrive quanto lo sia ancora nel presente) è che si tratti di due personaggi: il Maschiach Ben Yoseph, Messia sofferente, figlio di Giuseppe, e il Maschiach Ben David, Messia trionfante, figlio di Davide. Il Nuovo Testamento sostiene invece che queste due figure si identificano in un’unica persona che compare sulla scena in due momenti storici diversi.
(da "Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo")
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Trump vuole che Israele sconfigga Hamas, Hezbollah e Iran entro il 20 gennaio
Il presidente eletto degli Stati Uniti crede che questo sia l'inizio di un nuovo Medio Oriente, spiega a Israel Heute il consigliere evangelico Mike Evans.
di Itamar Eichner
Donald Trump vuole che Israele faccia il suo lavoro da qui al 20 gennaio, che elimini i due proxy dell'Iran in Libano e a Gaza e che ponga fine alla guerra. Penso anche che voglia che Israele si occupi dell'Iran entro il 20 gennaio. Israele non può attaccare gli impianti nucleari iraniani perché sono nascosti nel sottosuolo, quindi dovrebbe colpire gli impianti petroliferi iraniani e mandare così l'Iran in bancarotta. Se Israele attaccasse le raffinerie iraniane su un'unica isola, manderebbe in bancarotta l'Iran”.
È quanto ha dichiarato il pastore evangelico americano Mike Evans in un'intervista a Israel Heute. Evans fa parte di un piccolo gruppo di importanti leader cristiani pro-israeliani che hanno consigliato Trump durante la sua prima presidenza.
Evans ha sottolineato che la vittoria elettorale di Trump è un dono di Dio a Israele: “Trump ha una chiarezza morale. Vede le cose in modo semplice. Il bene contro il male. Per lui, Israele è il bene e i suoi nemici sono il male. Sotto Biden era il contrario. Vedevano i nemici di Israele come vittime e Israele come aggressore. Hanno continuato a spingere per ottenere concessioni e compromessi. Trump non tollererà nulla di tutto ciò”.
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Israel Today: I leader evangelici pro-Israele avranno meno influenza su Trump nel suo secondo (e ultimo) mandato da presidente rispetto al primo? Evans: Non credo che Trump abbandonerà gli evangelici. Sa che lo abbiamo rimesso in carica.
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Cosa può aspettarsi Israele da Trump? Trump ha detto di non voler iniziare una guerra. Non vuole essere un presidente in cui scoppiano guerre durante il suo mandato, vuole concentrarsi sulle questioni interne. Quindi la domanda è cosa si aspetta da Israele da qui al 20 gennaio. Vuole che Israele porti a termine il lavoro, che ponga fine alla guerra con i due proxy dell'Iran, che li elimini e ponga fine alla guerra.
Credo anche che voglia che Israele si occupi della guerra più ampia con l'Iran prima del 20 gennaio. Si aspetta che ciò avvenga nello stesso modo in cui ha fatto lui, attraverso le sanzioni. Israele non può attaccare le strutture nucleari iraniane perché sono sotterranee, ma può mandare in bancarotta gli ayatollah attaccando gli impianti petroliferi, che si trovano su un'isola. L'Iran precipiterà in una crisi economica. Se il petrolio viene colpito, sono finiti. Oltre l'80% degli iraniani odia gli ayatollah.
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Perché tutto questo deve accadere prima dell'insediamento di Trump? Dopo si creerebbero onde d'urto economiche che si ripercuoterebbero sull'economia globale: non si può fare una cosa del genere con Trump. Si può fare adesso. La finestra è aperta. Credo che Trump voglia che Israele lo faccia prima del 20 gennaio. Poi il piano di Trump sarà quello di aiutare a costruire, costruire, costruire.
Credo che l'anno prossimo porterà la pace tra Israele e l'Arabia Saudita e l'intero mondo sunnita. Sarà l'epoca d'oro degli accordi di Abramo. Cambierà tutto perché se l'Arabia Saudita farà la pace, porterà a una coalizione araba per risolvere il dilemma di Gaza. Il problema di Gaza non può essere risolto con una soluzione a due Stati, ma solo con un piano graduale - a partire dal prosciugamento della palude del terrore per eliminare gli assassini e rieducare la gente all'odio per gli ebrei. Ci vorrà tempo - Trump è uno che fa. Jared Kushner si è preparato bene e il futuro potrebbe essere luminoso per Israele se coglierà l'opportunità da qui al 20 gennaio.
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Biden impedirà a Israele di farlo nei suoi ultimi mesi? Joe Biden ha già tentato di tutto e i media americani hanno dato l'impressione che le vittime siano Hamas e l'aggressore Israele. Eppure Israele e le sue magnifiche forze di difesa e i suoi soldati, che hanno sacrificato tanto, hanno agito con coraggio e fatto la cosa giusta nonostante il trauma.
Penso che Biden sia un'anatra zoppa. Era un'anatra zoppa quando ha consegnato la presidenza a Kamala Harris, che nessuno ha votato - non aveva alcuna possibilità di vincere. Biden non vuole essere ricordato come qualcuno che ha cercato di danneggiare lo Stato di Israele.
Nessuno verserà una lacrima se l'Iran andrà in bancarotta. Nessuno piangerà e non ci sarà nessuna guerra mondiale. Credo che se Israele manderà in bancarotta l'Iran, il popolo rovescerà il regime e il gioco sarà fatto. A quel punto i proxy che hanno creato saranno finiti. Sarà scacco matto. Questo darà a Trump l'opportunità di aiutare Israele a costruire una straordinaria coalizione con gli Stati sunniti che non mostrano alcuna tolleranza per l'antisemitismo.
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Si teme che Trump pretenda di più da Israele nel suo secondo mandato. Non avete mai avuto un confronto con Trump. Era dalla vostra parte. Nessun presidente ha fatto tanto per Israele quanto Trump, e sarà così anche questa volta. Trump non verserà una lacrima quando si tratterà di eliminare i terroristi che vogliono uccidere gli ebrei.
C'è una persona che può certamente influenzare la presidenza di Trump ed è Bibi Netanyahu. Per via della guerra. La guerra che Biden voleva terminare, e poiché Bibi non si sarebbe tirato indietro, i media americani hanno cercato di dipingere Israele come l'aggressore e Hamas come la vittima. Questo ha colpito duramente Harris. Bibi è rimasto fermo e ha agito con chiarezza morale, e Trump lo sa - Bibi è stato un grande alleato. Credo che Trump voglia che Israele sia tutto pronto entro il 20 gennaio, in modo da poter essere il costruttore di Israele. Aiuterà Israele in modi sorprendenti e la prima cosa che farà sarà la pace con l'Arabia Saudita.
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Trump permetterà a Israele di annettere il cuore biblico di Giudea e Samaria? L'intera questione dell'annessione si basava su una soluzione a due Stati, e Trump non crede che una soluzione a due Stati sia possibile. Penso che Bibi sarà così felice che i sauditi faranno pace con Israele e le guerre cesseranno che non ci sarà bisogno di annessioni. Non credo che Trump farà pressione su Israele per questioni di territorio. Israele deve concentrarsi su Teheran. Terra in cambio di pace non è più un tema.
(Israel Heute, 9 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Caccia all’ebreo: prove di Intifada in Europa
Notte di aggressioni antisemite ad Amsterdam al termine di Ajax-Maccabi Tel Aviv. Tifosi israeliani bastonati, accoltellati e buttati nei canali, mentre la polizia chiude un occhio. Gerusalemme: «L'attacco dei gruppi islamici era premeditato».
di Stefano Piazza
Dopo aver seminato odio per più di un anno i propagandisti antisemiti europei ieri sera ad Amsterdam sono finalmente riusciti a portare la guerra contro gli israeliani nel Vecchio continente. Fino a oggi i pro Hamas si erano limitati a organizzare manifestazioni non autorizzate (spesso violente) e l'occupazione degli atenei, ma quanto accaduto in Olanda giovedì sera è il segnale che l'Intifada è arrivata nella città europee. E così è stato perché ad Amsterdam centinaia di tifosi della squadra di calcio del Maccabi Tel Aviv stati aggrediti e picchiati dopo la partita di Europa league del Maccabi Tel Aviv contro l'Ajax (che oltretutto è la squadra degli ebrei olandesi). Non si è quindi trattato di una rissa tra ultras ma di una vera aggressione preparata in ogni minimo dettaglio con diversi tassisti che hanno collaborato comunicando ai terroristi dove erano alloggiati gli israeliani. Mercoledì i supporter del Maccabi hanno levato alcune bandiere palestinesi appese alle finestre delle case e si sono scontrati con alcuni tassisti che li hanno insultati ed è stato il preludio di quello che è poi successo il giorno dopo. Gli aggressori - tutti arabi - con i volti coperti, si sono suddivisi in gruppi, nascondendosi nei vicoli, agli ingressi delle stazioni e nei pressi degli hotel che ospitavano gli israeliani. Sapevano dove aspettarli e li hanno attaccati, inseguiti, armati di coltelli e bastoni per oltre un'ora, poi li hanno inseguiti con le auto, arrivando persino a investirli senza alcun intervento da parte delle forze dell'ordine che non hanno scortato i tifosi israeliani verso gli hotel. I video che circolano sul Web e sui social mostrano i tifosi violentemente aggrediti, picchiati e investiti. Alcuni tifosi israeliani sono stati costretti a dire «Palestina libera» prima di essere lasciati andare, mentre altri tifosi si sono barricati nei negozi e in altri luoghi della città. Un tifoso del Maccabi è stato obbligato a cantare «Free Palestine» una volta gettato in un canale. Il ministero degli Esteri israeliano ha dichiarato che almeno 20 tifosi sono rimasti feriti mentre è stata smentita la notizia che i terroristi avevano preso degli ostaggi, tanto che nel primo pomeriggio di ieri sono stati rintracciati tutti i tifosi del Maccabi. Un portavoce della polizia di Amsterdam ha dichiarato che 62 sospettati sono stati arrestati durante gli incidenti, ma non ha potuto confermare se le persone fermate siano tifosi di calcio. L'ufficio del premier israeliano ha dichiarato: «Il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato informato dei dettagli riguardanti il violentissimo incidente contro i cittadini israeliani ad Amsterdam, ha svolto una valutazione con il suo segretario militare e il ministro degli Affari esteri e sta ricevendo aggiornamenti regolari. Il premier ha ordinato che due aerei di soccorso vengano inviati immediatamente per assistere i nostri cittadini. Le immagini crude dell'assalto ai nostri cittadini ad Amsterdam non saranno ignorate». L'unità del portavoce delle Forze di difesa israeliane (Idf) ha dichiarato: «A seguito dei gravi e violenti incidenti contro gli israeliani ad Amsterdam, con la direzione del livello politico e in conformità con una valutazione della situazione, le Idf si stanno preparando a dispiegare immediatamente una missione di salvataggio con il coordinamento del governo olandese». Fin qui la cronaca della notte dell'odio antisemita arabo nel cuore dell'Europa, ma quanto accaduto lascia sgomenti anche per gli incredibili errori da parte delle autorità olandesi e dell'Uefa. Far giocare una partita come quella di ieri in una città ostile agli ebrei come Amsterdam, dove il 10% della popolazione è di origine araba, oltretutto in un momento come questo, senza prevedere straordinarie misure di sicurezza è dilettantismo puro anche perché gli israeliani avevano avvisato le autorità locali del pericolo. Altri aspetti non certo secondari sono quelli che ci dicono che da anni l'Olanda ha un problema enorme con il fondamentalismo islamico, tanto che l'allerta terrorismo è sempre ai massimi livelli. Inoltre, ad Amsterdam, così come in al tre città olandesi (e in Belgio), operano decine di gang criminali sotto il controllo della Macro Maffia (la mafia marocchina). Ma l'aspetto peggiore di tutta questa storia è l'atteggiamento di una parte degli appartenenti alle forze dell'ordine in Olanda che da mesi si sta rifiutando di proteggere eventi o oggetti ebraici, citando «dilemmi etico morali». Oggi, gran parte della forza di polizia di Amsterdam è composta da migranti di seconda generazione provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Ma il peggio è che un portavoce della polizia ha confermato che «ci può essere comprensione per coloro che sollevano obiezioni morali». Quindi se anche la polizia lascia passare il supporto pro Hamas che serpeggia all'interno dei suoi ranghi che ne sarà degli ebrei olandesi e domani di quelli europei? Geert Wilders, leader del Partito per la libertà che ha vinto le elezioni nei Paesi Bassi l'anno scorso e che è un fedele alleato di Israele, ha reagito a un video che mostra un tifoso del Maccabi circondato da diversi uomini: «Sembra un pogrom nelle strade di Amsterdam. Arrestate ed espellete la feccia multiculturale che ha attaccato i sostenitori del Maccabi Tel Aviv nelle nostre strade. Mi vergogno che questo possa accadere nei Paesi Bassi. Totalmente inaccettabile. Siamo diventati la Gaza d'Europa. Musulmani con bandiere palestinesi che danno la caccia agli ebrei, non lo accetterò mai. Le autorità saranno ritenute responsabili per l'incapacità di proteggere gli israeliani».
(La Verità, 9 novembre 2024)
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Soffia intenso il vento dell’antisemitismo in Europa
di Niram Ferretti
Secondo i dati forniti dal Consiglio delle Istituzioni ebraiche di Francia, il numero di incidenti di natura antisemita avvenuti nei tre mesi successivi al 7 ottobre sono stati equivalenti a quello complessivo di incidenti analoghi avvenuti nel corso dei tre anni precedenti. Si tratta solo di un indicatore tra i molti. Ma non solo in Francia, questi episodi si sono moltiplicati altrove, in Belgio, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Olanda, giusto per restare alla sola Europa.
L’episodio che si è verificato ieri sera ad Amsterdam, dove dopo la partita disputata tra la squadra di calcio israeliana del Maccabi Tel Aviv e quella olandese dell’Ajax, numerosi tifosi israeliani sono stati minacciati e aggrediti da apposite ronde islamiche che si erano già preparate giorni prima e, con la connivenza dei taxisti musulmani della città, erano state informate su dove erano ospitati gli israeliani, in che zone si trovavano. E' il più grave episodio di caccia collettiva all’ebreo che si è verificato su suolo europeo dal dopoguerra ad oggi, il più grave fino ad ora.
La prima constatazione da fare è che gli aggressori sono tutti musulmani, la seconda constatazione è che nonostante da Israele fossero giunti avvisi e raccomandazioni per tutelare la sicurezza dei propri concittadini in trasferta, questo non è accaduto.
Queste due considerazioni ci portano ad altre due considerazioni conseguenti, la prima è che oggi la forma di antisemitismo più violenta e pericolosa, quella potenzialmente omicida, è di matrice islamica, cosa già nota e di cui l’episodio di Amsterdam fornisce solo una conferma, basti pensare alla sola Francia, dove gli ebrei vengono ancora uccisi in quanto ebrei e dove gli assassini di Ilan Halimi, Sarah Halimi, Mirelle Knoll, le vittime della strage di Tolosa, quelli dell’Hyper Kosher, sono tutti musulmani. La seconda è che in Europa il problema è non solo sottovalutato ma, per lungo tempo e ancora adesso, negato.
La seconda riguarda la sicurezza e la protezione degli ebrei in Europa e la determinazione di garantirle. Quello che è successo ad Amsterdam, dove, fortunatamente, le aggressioni subite non hanno provocato morti ci dice che non è più possibile esserne certi.
La costante propaganda anti-israeliana che si è attivata immediatamente a seguito del 7 ottobre e che in Europa gode di un consenso forte, è la benzina che continuamente viene gettata sul fuoco dell’antisemitismo, venendo alimentata anche da chi si trova ai vertici delle istituzioni europee, basti pensare a Joseph Borrell, l’Alto rappresentante per la politica estera della UE, il quale non mai ha perso una occasione per attaccare Israele dall’inizio della guerra a Gaza e immediatamente dopo quella cominciata in Libano.
L’ambivalenza dell’Europa relativamente alla guerra a Gaza, quando non la sua aperta ostilità, espressa plasticamente da paesi quali la Spagna, la Norvegia, l’Irlanda e la Slovenia, tutti uniti nel riconoscere l’inesistente Stato palestinese, ci dice ancora una volta che essere ebrei in Europa sta diventando sempre di più un fatto scomodo.
(L'informale, 8 novembre 2024)
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Amsterdam, pogrom 2.0: gli esercizi di memoria alla prova dei fatti
di Ariela Piattelli
Quando nelle piazze della nostra città, subito dopo il 7 ottobre, abbiamo iniziato ad ascoltare slogan come “Intifada pure qua”, “Dal fiume al mare” ed altri ancora, in diverse situazioni ci siamo interrogati su quali sarebbero state le ricadute di quelle minacce. Il tempo, tristemente, ha risposto a tutte le nostre domande, tranne a quella sull’angosciante coltre che incombe sulle prospettive future dell’ebraismo della diaspora, su tutto l’Occidente e sui dilemmi che in queste ore gli ebrei tornano ad affrontare. Nessuno sa cosa accadrà domani, se non chi riesce a progettare e a tessere le trame dell’odio antisemita, senza essere fermato, aggredendo ebrei nelle strade, con armi, coltelli, calci e insulti proprio come avveniva nelle città di questo continente durante le notti più buie del secolo scorso. Ma possiamo prendere atto di quello che gli eventi a cui assistiamo dal 7 ottobre esprimono oggi.
La globalizzazione dell’intifada si è manifestata in tutta la sua evidenza anche ad Amsterdam alle prime ore del mattino di venerdì, in un evento che nell’Europa del ventunesimo secolo non ha precedenti e che ha innegabilmente il cromosoma del pogrom. Orde di islamisti, cittadini di questa Europa, hanno aggredito gruppi di ebrei venuti da Israele per assistere ad una partita di calcio. Una violenza inaudita che ha visto esultare persino alcuni tassisti dei Paesi Bassi in un canale Telegram.
I leader del mondo civile hanno sempre denunciato gli assalti, gli attacchi, gli atti antisemiti: le istituzioni di tanti Paesi hanno risposto, anche prontamente, condannando con parole importanti questo rigurgito odioso di un male che non è mai sopito. Dichiarazioni che non lasciano mai spazio a fraintendimenti o margini di interpretazioni e che condannano in modo netto, “senza se e senza ma”, l’odio antisemita. Parole di fuoco, certo, ma pur sempre solo parole.
Anche stavolta sono arrivate le reazioni indignate per l’aggressione di Amsterdam, avvenuto, come in molti hanno ricordato, proprio alla vigilia dall’anniversario della Notte dei cristalli. Proprio in una città simbolo della memoria. Una memoria che è da sempre la foglia di fico di chi fa distinzioni tra antisemitismo e antisionismo, di chi dal 7 ottobre continua ad avvelenare l’opinione pubblica con le sue bugie ed accusa Israele di genocidio mentre ad ogni anniversario porta puntuale le corone sulle lapidi in ricordo delle vittime della Shoah. Come se bastasse arroccare le parole di condanna attorno ai simboli del ricordo per prendere le distanze dall’antisemitismo. È così che l’anima ipocrita dell’Occidente continua a voltarsi dall’altra parte e a volte si nasconde dietro a parole che forse non bastano più.
(Shalom, 8 novembre 2024)
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«... l’anima ipocrita dell’Occidente» si manifesta proprio in chi dice di ammirare Israele come baluardo della difesa dell'Occidente libero. E' il colore della "libertà occidentale" che si ammira, un primordiale istinto di sopravvivenza individuale e sociale che non ammette limiti, non Israele. Agli occidentali, cominciando da quelli più colti e continuando in qualche misura anche dentro Israele, l'esistenza di uno stato ebraico apparirà sempre di più come un fastidioso limite alla propria libertà. E aumenterà il numero di quelli che si chiedono chi riuscirà ad abbatterlo. M.C.
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Amsterdam: aggressioni programmate contro i tifosi del Maccabi Tel Aviv
Oltre 10 feriti, 7 dispersi
di Nathan Greppi
In occasione della partita di calcio tra la squadra olandese Ajax e l’israeliana Maccabi Tel Aviv, tenutasi ad Amsterdam la sera di giovedì 7 novembre, si sono registrati violenti attacchi e aggressioni contro i tifosi israeliani da parte di manifestanti filopalestinesi.
• I FATTI 10-20 israeliani sarebbero rimasti feriti, di cui cinque sono stati localizzati negli ospedali, mentre altri sette sono tuttora dati per dispersi. Tra questi, vi è il trentatreenne israelo-bulgaro Guy Avidor, che ha viaggiato da Londra apposta per vedere la partita. L’ultimo contatto che la sua famiglia ha avuto con lui è stato un post sui social prima della partita e da allora, secondo il sito israeliano Walla, non hanno più avuto sue notizie. Si teme che possano esserci ostaggi.
Nelle ultime ore la situazione sembra essersi calmata, e agli israeliani è stato ordinato dalle autorità olandesi di nascondersi. Un portavoce della polizia di Amsterdam ha dichiarato che sono state arrestate almeno 57 persone per le aggressioni.
I filmati che circolano sui social mostrano i tifosi israeliani venire picchiati, inseguiti da persone armate di coltelli e bastoni e veicoli che stavano per investirli. Alcuni israeliani sono stati visti saltare nei canali pur di sfuggire agli inseguitori. Un video mostra un uomo steso a terra e preso a calci, mentre urla ai suoi aggressori “Non sono ebreo”.
Secondo il quotidiano Maariv, c’è stato almeno un tentativo di rapire un israeliano e molti si sono barricati in negozi e altri edifici. L’Ambasciata israeliana nei Paesi Bassi si è mobilitata per trasferire gli israeliani in un luogo sicuro.
• LA REAZIONE DELLE ISTITUZIONI
Una volta informato dell’accaduto, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha inviato due aerei di soccorso per aiutare i cittadini israeliani sul posto con l’ausilio dello squadrone Hercules dell’IDF e squadre mediche di pronto soccorso. Inoltre, sia il rabbino capo ashkenazita che il rabbino capo sefardita d’Israele hanno autorizzato la compagnia aerea El Al a volare di Shabbat per andare a fornire la propria assistenza.
Il portavoce di El-Al ha dichiarato che la compagnia opererà voli di soccorso dalla destinazione a Tel Aviv con breve preavviso. I voli saranno gratuiti, il primo decollerà da Amsterdam alle 14:00 (ora locale) e dovrebbe atterrare a Tel Aviv oggi. I posti in tutte le classi di servizio (turistica, premium e business) saranno forniti gratuitamente a tutti i passeggeri in possesso di un biglietto aereo con El Al o con un’altra compagnia aerea. È necessario registrarsi per i voli attraverso la hotline del servizio clienti al numero designato per i clienti situato ad Amsterdam, al tel. 03-9404040. Oltre al volo di soccorso, ci sono due voli diretti ad Amsterdam, che torneranno in Israele oggi, con circa 350 israeliani a bordo. Sottolineiamo che questi voli sono stati pianificati in anticipo, indipendentemente dai difficili eventi.
Non sono mancate reazioni da parte delle istituzioni: l’ufficio di Netanyahu ha comunicato di tenere in considerazione l’accaduto “con la massima gravità”, e ha invitato il governo olandese e le forze dell’ordine a intraprendere “un’azione rapida e vigorosa contro i rivoltosi”. Dall’altro lato, il Primo Ministro olandese Dick Schoof ha scritto su X/Twitter che “gli attacchi antisemiti contro gli israeliani sono del tutto inaccettabili”.
Il Ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ha annunciato una visita in Olanda per incontrare la sua controparte olandese Caspar Veldkamp ed esponenti della comunità ebraica olandese, per discutere di come contrastare questo e altri episodi d’odio. Mentre il leader politico olandese Geert Wilders ha denunciato la “caccia all’ebreo per le vie di Amsterdam”.
• LA RESPONSABILITÀ DELLA POLIZIA Dalle ricostruzioni fatte in seguito, le aggressioni sarebbero state accuratamente pianificate. Diversi testimoni hanno puntato il dito anche contro la polizia, che prima dell’accaduto non ha scortato i tifosi israeliani in albergo e non li ha protetti come avrebbe dovuto, nonostante l’intelligence israeliana avesse avvisato con largo anticipo le autorità olandesi del fatto che c’erano i segnali di una manifestazione violenta.
Loay Alshareef, influencer di Abu Dhabi impegnato per la coesistenza tra arabi ed ebrei, ha twittato: “Se le autorità olandesi falliscono nel prendere provvedimenti severi contro i delinquenti terroristi che hanno attaccato i tifosi del Maccabi Tel Aviv, allora i Paesi Bassi si stanno di fatto arrendendo agli islamisti radicali che vorrebbero distruggerli”.
(Bet Magazine Mosaico, 8 novembre 2024)
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Il primo ministro olandese: ad Amsterdam attacco “inaccettabile e antisemita.”
Il primo ministro olandese Dick Schoof ha condannato il pogrom avvenuto ad Amsterdam, in cui i tifosi di calcio israeliani sono stati aggrediti durante la notte. Il premier ha definito l’assalto ‘inaccettabile’: “Ho seguito le notizie da Amsterdam con disgusto”, ha affermato in un post su X. Schoof ha detto di aver parlato con il primo ministro Benjamin Netanyahu e di avergli assicurato che gli autori degli attacchi saranno perseguiti.
Netanyahu ha sottolineato in una nota quanto sia importante che il governo olandese garantisca la sicurezza di tutti gli israeliani che si trovano nei Paesi Bassi. Il premier israeliano ha detto di considerare l’evento come complotto antisemita contro i cittadini di Israele e ha chiesto maggiore sicurezza per la comunità ebraica nei Paesi Bassi.
Il consiglio di sicurezza israeliano, allo scoppio delle violenze, ha consigliato agli israeliani in visita ad Amsterdam di rimanere nei loro hotel e, se si fossero avventurati all’esterno, di evitare di indossare segni che potessero identificarli come israeliani o ebrei, consigliandogli di tornare in Israele il prima possibile.
(Shalom, 8 novembre 2024)
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L’antisemitismo, ormai pane quotidiano
L’aggressione perpetrata ieri sera ad Amsterdam, da gruppi di facinorosi arabi contro i sostenitori israeliani del Maccabi, dopo la partita con l’Ajax, ci riporta ad anni bui, e ci ricorda che Amsterdam è la città dove, nel novembre del 2004, il regista Theo van Gogh venne sgozzato da un giovane marocchino che cercò poi di decapitarlo a causa del suo controverso documentario Submission in cui l’Islam veniva criticato aspramente.
Le forze dell’ordine olandesi erano state da tempo avvertite dalle autorità israeliane del rischio di possibili incidenti ma hanno ignorato gli avvisi.
Vedere nel 2024, arabi che inseguono ebrei israeliani aggredendoli è solo una delle conseguenze dell’ondata di odio antisemita senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale che si è riattivato dopo l’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre del 2023 e che ha costretto Israele a una risposta militare a Gaza, ancora in corso.
Dalle marce in cui i manifestanti scandivano lo slogan genocida, “Palestina libera dal fiume al mare”, al “campo libero dai sionisti” della Columbia University di New York, alle stelle di Davide dipinte in Francia su diverse abitazioni per marcarvi la presenza di residenti ebrei, a molti altri episodi, abbiamo assistito, stiamo assistendo, a una drammatica regressione civile e culturale che ha, oltretutto, nei giustificazionisti, i loro solerti fiancheggiatori. Affermare che la violenza nei confronti degli ebrei è causata da loro, è un immarcescibile tropo antisemita, ed è uno dei più consunti paraventi del canagliume.
Gert Wilders, da sempre acceso sostenitore di Israele e in prima fila nel denunciare il radicalismo islamico ha condannato senza mezzi termini l’accaduto affermando che è necessario “arrestare e deportare la feccia che ha attaccato i supporter del Maccabi nelle nostre strade”.
Douglas Murray, da tempo anche lui in prima linea nella difesa di Israele, riferendosi agli episodi di intolleranza avvenuti nel Regno Unito, cominciati subito dopo l’eccidio del 7 ottobre con la rimozione dei volantini che effegiavano gli ostaggi israeliani a Gaza e poi culminata nelle marce oceaniche contro Israele a cui abbiamo assistito soprattutto a Londra, ha dichiarato che la deportazione, ovvero la rimozione e il rimpatrio nei paesi di origine dei musulmani che sono palesemente a sostegno del terrorismo jihadista, dovrebbe essere la prassi. Prassi che ad esempio il Pakistan sta attuando da mesi senza provocare scandalo alcuno nei riguardi di immigrati musulmani provenienti dall’Afghanistan e ritenuti pericolosi per la sicurezza dello Stato.
Oggi assistiamo al paradosso che è nelle capitali occidentali che maggiormente si sprigiona l’odio antisemita mentre in Medio Oriente, i principali paesi sunniti, con in testa l’Arabia Saudita, e con l’eccezione del Qatar, attendono pazienti che Israele faccia per loro il lavoro sporco che non possono fare, eliminare Hamas da Gaza, neutralizzare Hezbollah in Libano e mettere l’Iran in condizione di non nuocere.
(L'informale, 8 novembre 2024)
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Con Trump rispunta il «piano del secolo» che fece infuriare i palestinesi
In una intervista alla CNN, Brian Hook, inviato speciale di Donald Trump per l'Iran durante il primo mandato del presidente eletto, spiega quale sarà la politica di Trump su palestinesi e Iran.
di Franco Londei
In un Medio Oriente sull’orlo di un conflitto su larga scala tra Iran e Israele, torna prepotentemente in auge il vecchio progetto ideato da Jared Kushner, genero del Presidente eletto Donald Trump, che dovrebbe mettere fine all’annosa questione palestinese. Secondo Brian Hook, inviato speciale di Donald Trump per l’Iran durante il primo mandato del presidente eletto, uno dei progetti di Trump per il Medio Oriente sarebbe proprio il cosiddetto «piano del secolo», quel progetto cioè che secondo le indiscrezioni dell’epoca verterebbe su nove punti:
- controllo permanente della Valle del Giordano da parte del IDF
- la sicurezza di Giudea e Samaria affidata permanentemente a Israele
- scambi di terra non basati sulle linee armistiziali del 1967
- nessuna evacuazione degli insediamenti già esistenti
- Gerusalemme capitale di Israele che avrà il compito di garantire a tutte le religioni l’accesso ai luoghi santi
- capitale della Palestina situata ad Abu Dis, una città della West Bank che si trova alla periferia di Gerusalemme
- diritto al ritorno per i cosiddetti “profughi palestinesi” affidato a una “giusta soluzione” che comunque non prevede in alcun caso una loro collocazione in Israele
- annessione del 10% della Cisgiordania da parte di Israele
- riconoscimento da parte dei Paesi arabi di Israele quale “casa nazionale del popolo ebraico” e contestuale riconoscimento da parte israeliana dello Stato palestinese quale “casa nazionale del popolo palestinese”
All’epoca il piano fece infuriare i palestinesi ma non dispiacque ai sauditi, ora come allora principali sponsor di uno Stato palestinese. In una intervista alla CNN proprio Brian Hook, che dovrebbe guidare la transizione al Dipartimento di Stato, oltre ad anticipare quale sarà la politica di Trump verso l’Iran, sulla quale ci torneremo, ha puntualizzato che dopo tutto questo tempo la creazione di uno Stato Palestinese è «meno appetibile» di quanto non lo fosse quattro anni fa. Quindi il piano del secolo versione 2025 potrebbe essere addirittura più «generoso» verso Israele della versione originale. Tuttavia Hook ha ammesso che in questo momento gli israeliani non sono «dell’umore giusto» per discutere di uno Stato Palestinese e che hanno altre «priorità» come per esempio l’Iran. Ed è proprio parlando di Iran nell’intervista alla CNN che Brian Hook anticipa quella che probabilmente sarà la politica di Trump verso l’Iran. Per farlo attacca l’Amministrazione Biden. Hook ha accusato Biden di «aumentare la distanza tra i partner dell’America, definendo i paesi dei paria e facendo loro prediche su come dovrebbero vivere». «Il presidente Trump capisce che il principale motore dell’instabilità nell’attuale Medio Oriente è il regime iraniano», ha affermato Hook. Al contrario, l’amministrazione Biden «ha adottato una politica di appeasement e di accomodamento con l’Iran, che ha portato a un fallimento della deterrenza, perché nessuno crede più ad una minaccia credibile dell’uso della forza militare». Ora, Israele ha in mano il pallino per rovesciare questo modello. Fino ad oggi Gerusalemme aveva il freno a mano tirato da Biden e non sapendo chi avrebbe vinto le presidenziali americane non osava fare un passo più lungo di quello imposto da Washington. Ma ora il discorso cambia. Non so quanto l’ex ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, contribuisse a frenare la voglia di colpire pesantemente l’Iran, voglia peraltro bipartisan. Lo vedremo i prossimi giorni, forse addirittura le prossime ore. So che questo è il momento giusto e che difficilmente ricapiterà. Insomma, è ora di chiudere la partita con Teheran. Riguardo ai palestinesi, concordo sul fatto che non è il momento di parlare di «Stato palestinese», ma penso che su una cosa Gallant avesse ragione: è ora di pensare al disimpegno da Gaza e di concentrare tutte le forze sull’Iran e sui suoi proxy. Lasciamo la questione palestinese alla «diplomazia di Trump» e, speriamo, in quella di Jared Kushner, confidando che torni a fare il consigliere di Trump
(Rights Reporter, 8 novembre 2024)
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Chi non ha capito nulla ora ci spiega che cosa è successo
Spuntano ovunque gli esperti del giorno dopo
di Maurizio Belpietro
Che meraviglia gli articoli di quelli che ti spiegano le cose che non hanno capito. Il giorno dopo la sconfitta di Kamala Harris e il trionfo di Donald Trump è tutto un fiorire di analisi che raccontano gli errori della candidata democratica e descrivono i cambiamenti dell'America profonda. Peccato che le stesse persone che oggi ci illustrano che cosa non ha funzionato nella campagna della vicepresidente degli Stati Uniti siano quelle che fino all'altro ieri assicuravano la sua rimonta e davano per quasi certa la débàcle di colui che era descritto come un pagliaccio sul viale del tramonto. Fino all'ultimo ci hanno assicurato che la Harris era in testa e aveva scavalcato Trump. Da Gianni Riotta a Maurizio Molinari, da David Parenzo a Massimo Giannini: tutti i nostri disinformati speciali si dimostravano certi che la «ragazzaccia di Oakland» (copyright Giannini) ce l'avrebbe fatta perché, come a metà agosto scrisse Massimo Gaggi, editorialista dagli States per il Corriere della Sera, «Donald annaspa, disorientato dal cambiamento radicale della corsa ... incapace di prendere le misure e contenere il tandem Harris-Walz. Da leone ferito a leone in gabbia ... Furibondo per il successo della sua avversaria ... finisce per cadere nel ridicolo». Così, senza accorgersi che erano proprio loro, gli «esperti» di cose americane, a ripetere pari pari gli stessi errori fatti nel 2016, quando davano per spacciato il tycoon, descrivendolo come un fenomeno da baraccone. Non contenti di aver toppato, il giorno dopo la sconfitta di Kamala Harris, e dell'establishment democratico dei clan Obama, Clinton e Pelosi, hanno preso carta e penna e hanno cominciato a spiegare le ragioni della sconfitta. «Per comprendere da dove viene l'onda popolare che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca bisogna entrare dentro le ferite dell'America: dai centri per senzatetto alle drogherie, dai campus universitari ai quartieri più insicuri delle aree urbane», era l'incipit di un reportage da New York dell'ex direttore di Repubblica, Maurizio Molinari. E vai con qualche centinaio di righe per spiegare i disagi degli Stati Uniti d'America. L'inflazione che flagella gli stipendi e fa salire i prezzi di uova, carne, pollo, frutta, verdura e snack. La criminalità che rende le città insicure dopo che il movimento Black lives matter ha indotto sindaci e governatori a tagliare i fondi alla polizia. L'immigrazione fuori controllo che nel solo 2020 ha portato a dover accogliere, a spese dell'amministrazione di New York , 120.000 persone. Le università invase dalle manifestazioni pro Palestina e dalla cultura «woke», Tutto vero, certo. Queste sono alcune delle ragioni che hanno spinto gli americani a votare Trump. Ma forse sarebbe stato interessante leggere queste argomentazioni prima e non dopo. E invece, fino al 5 novembre la stampa italiana e anche quella internazionale le motivazioni alla base del consenso di Trump le hanno ignorate, facendo finta di credere che gli elettori del tycoon fossero persone rozze, che credevano alle balle di un imbroglione, di un pallone gonfiato dai milioni accumulati evadendo le tasse. Molti fra coloro che oggi ci spiegano che cosa è accaduto, fino a qualche settimana fa ridevano dei discorsi di Trump, dei suoi riferimenti al prezzo delle uova. E nessuno di loro ha dichiarato apertamente guerra, con editoriali o inchieste, alle stupidaggini della cultura che ritiene ogni uomo bianco eterosessuale colpevole di discriminazioni contro le minoranze nere e contro i gay. Neppure mi pare di aver letto inchieste per smontare le accuse di razzismo nei confronti di coloro che si lamentano dell' aumento della criminalità come conseguenza di un incremento dell'immigrazione illegale. Anzi, fino a ieri proprio gli stessi giornali che ora scoprono le ferite d'America «che hanno spinto un popolo impaurito fra le braccia di Trump», lamentavano l'aggressività di quel popolo e accusavano l'ex presidente di fomentare l'odio, e anzi, quando è finito nel mirino di un fucile semiautomatico, quasi hanno scritto che la colpa era sua, per aver creato un clima infuocato. Leggere i commenti al voto di quelli che hanno capito tutto, ma il giorno dopo, è in effetti uno spasso. Soprattutto perché gli autori delle profonde analisi sono gli stessi che poi, in Patria, non riescono a comprendere perché Giorgia Meloni abbia tanto credito. Anni di governi della sinistra hanno impoverito i salari, ma loro se ne sono accorti solo ora. Decenni di politiche dell'accoglienza favorite dai compagni hanno creato una situazione di insicurezza nelle città che secondo loro è solo figlia della percezione e della propaganda delle destre. Fosse per loro la cultura woke, quella che vede razzisti e fascisti in ogni dove, sarebbe pure legge, grazie al famoso ddl Zan. E però continuano a pensare che la vittoria «dell'underdog della Garbatella» (copyright Giannini) sia un incidente della storia a cui presto, loro e i loro compagni, porranno rimedio. Magari con l'aiuto di qualche amico giudice. Infatti, mentre a sorpresa si sono accorti delle ferite dell'America, ancora non hanno aperto gli occhi su quelle dell'Italia (e dell'Europa).
(La Verità, 8 novembre 2024)
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Israele - Scoperto un insediamento di 5.000 anni fa
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L'antico insediamento si trovava nelle vicinanze di Beit Shemesh
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BEIT SHEMESH - L'Autorità israeliana per le antichità ha recentemente scoperto un insediamento di 5.000 anni fa vicino alla città di Beit Shemesh, nel distretto di Gerusalemme, durante degli scavi. Il sito di Hurvat Husham nascondeva uno dei più antichi insediamenti mai trovati in Israele. Lo riferisce il portale di notizie “Arutz Sheva”. L'Autorità per le Antichità ha scoperto l'antico sito per la prima volta nel 2021. “Il sito scoperto a Hurvat Husham è eccezionale non solo per le sue dimensioni, ma anche perché ci rivela alcune delle prime caratteristiche del passaggio dalla vita di villaggio alla vita di città”, hanno spiegato i responsabili degli scavi Ariel Shatil, Ma'ajan Hamed e Danny Benajun. • SCOPERTA LA PIÙ ANTICA CASA DI PREGHIERA
Durante lo scavo dell'antico insediamento, gli archeologi hanno scoperto, tra le altre cose, un edificio particolare. “Le dimensioni dell'edificio che abbiamo portato alla luce, le sue ampie pareti, le panche all'interno e altri fattori indicano che si trattava di un edificio con una funzione pubblica, forse una casa di preghiera”, hanno commentato i responsabili degli scavi. L'edificio potrebbe essere stato utilizzato per attività rituali. In una stanza dell'edificio si trovano anche molti vasi intatti. Secondo i responsabili degli scavi, è riconoscibile che le persone abbiano collocato qui questi vasi prima di lasciare definitivamente il sito. “Non si sa cosa sia successo in seguito in questa stanza, ma ci sono segni di combustione e di vasi che cadono l'uno sull'altro”, hanno detto. Con l'aiuto di test di laboratorio, si potrà scoprire quale contenuto, come olio, acqua o grano, era presente nei vasi. Non conosciamo quasi nessun edificio pubblico del periodo antico in Israele”, hanno detto i ricercatori. Inoltre, l'edificio è una delle prime case di preghiera mai scoperte in Israele. • INDIZI DELLO SVILUPPO URBANO DI ISRAELE Grazie alla natura e alla posizione geografica di Israele, il paese è stato un terreno fertile per lo sviluppo di antiche civiltà, ha spiegato Eli Escusido, direttore dell'Autorità israeliana per le antichità. “L'insediamento scoperto di Hurvat Husham rivela un altro importante tassello nel puzzle dello sviluppo urbano della nostra regione”. La scoperta è stata presentata la scorsa settimana al “National Campus for the Archaeology of Israel” intitolato a Jay e Jeanie Schottenstein. Il contesto era la conferenza “Scoperte nell'archeologia di Gerusalemme e dintorni”.
(Israelnetz, 8 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Parashà di Lekh Lekhà: Il patriarca Avraham, maestro di monoteismo e generale dell’esercito
di Donato Grosser
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Hilkhòt Avodàt Kokhavìm, cap. 1) descrive come il patriarca Avraham iniziò la sua missione di diffondere il monoteismo con queste parole: “Quando [a Ur Casdìm] vinse [gli idolatri] con la forza dei suoi argomenti, il re lo volle uccidere. Fu salvato tramite un miracolo e partì per Charan. [Lì,] cominciò a chiamare a gran voce tutte le persone e a informarle che c’è un solo Dio nel mondo intero ed è giusto servirLo. Andava e chiamava e radunava il popolo, da città a città e da uno stato all’altro, finché giunse alla terra di Canaan, proclamando [l’esistenza di Dio per tutto il tempo], come è detto [Bereshìt, 21:33]: «E chiamò lì nel nome del Signore, l’eterno Dio». Quando le persone si radunavano attorno a lui e chiedevano spiegazioni delle sue parole, le spiegava a ciascuno di loro secondo la sua comprensione, finché non lo faceva tornare sulla via della verità. Alla fine, migliaia e miriadi si radunarono attorno a lui. Questi sono gli uomini della casa di Avraham”. Arrivato nella terra di Canaan, Avraham si stabilì a Chevron con i suoi discepoli. Il nipote Lot, che era venuto con lui da Charan, attratto dalla ricchezza del luogo, andò a vivere a Sodoma, allontanandosi dallo zio Avraham e dai suoi insegnamenti, nonostante la nota perversità imperante in quella città. Tuttavia, quando arrivò la notizia che i quattro re della Mesopotamia avevano preso Lot prigioniero, con tutti gli abitanti di Sodoma, Avraham dovette cambiare ruolo, da maestro di monoteismo a generale dell’esercito. In questo passo della Torà è scritto:
“E [i vincitori] presero tutte le ricchezze di Sodoma e di Gomorra e tutti i loro viveri, e se ne andarono. Presero anche Lot, figlio del fratello di Avraham, che abitava a Sodoma, e tutti i suoi averi e se ne andarono. E uno degli scampati venne a dirlo ad Avraham l’ebreo, che abitava alle querce di Mamre l’amoreo, fratello di Eshcol e fratello di Aner, i quali avevano fatto alleanza con Avraham. E quando Avraham sentì che suo nipote era stato fatto prigioniero, armò trecentodiciotto suoi discepoli, nati in casa sua, ed inseguì [i re] fino a Dan. E, divisa la sua schiera per assalirli di notte, egli coi suoi servi li sconfisse e l’inseguì fino a Chovà, che è a nord di Damasco. E riportò indietro il bottino, e anche Lot suo nipote con i suoi averi e anche le donne e il popolo” (Bereshìt, 14:11-16).
- Naftali Zvi Yehuda Berlin (Belarus, 1816-1893, Varsavia) in Ha’amèk Davàr (Bereshìt, 14:14) commenta che a Dan i quattro re si fermarono per riposare non pensando che Avraham li avrebbe attaccati di notte. Invece Avraham fece proprio così e li sorprese mentre dormivano. I sopravvissuti fuggirono verso il nord oltre a Damasco. Fino a Dan fu Avraham che condusse le truppe. Da Dan, che è al confine di Eretz Israel, a Damasco, lo fece Eli’ezer. Per questo Eli’ezer fu chiamato “uomo di Damasco”.
Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) commenta che Avraham, con l’aiuto divino, riuscì a raggiungere i quattro re della Mesopotamia, andando a marce forzate, compiendo in una sola giornata una distanza di più giorni. Nel Yalkut Me’am Lo’ez l’autore osserva che è strabiliante il fatto che Avraham si mise in un tale pericolo andando a combattere contro quattro re con truppe più numerose delle sue. Tanto più che nella parashà di Noach, aveva scritto che una persona non deve mettersi in pericolo sperando nel miracolo. Per rispondere a questa sua domanda egli cita lo Zòhar (Bereshìt, 14:15) dove è scritto che Avraham non pensava che sarebbe stato necessario combattere. Riteneva di poter riscattare Lot come ostaggio, pagando la somma che gli avrebbero domandato. Ma durante l’inseguimento egli vide che la Presenza divina gli dava luce ed era accompagnato da angeli e pertanto si fece forza e decise di combattere.
- Hershel Schachter (Scranton, 1941-) in Insights and Attitudes (p. 17) commenta che Avraham sapeva che aveva l’obbligo morale di andare in guerra e aveva il coraggio di farlo anche con un piccolo esercito. Né lui né la sua immediata famiglia erano in pericolo, ma sapeva che era la cosa giusta da fare.
(Shalom, 8 novembre 2024)
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Parashà della settimana: Lech Lechà (Va')
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Raffica di missili di Hezbollah contro Tel Aviv: colpire Israele per parlare all’America
di Ludovica Iacovacci
Nel giorno della vittoria del 47° inquilino della Casa Bianca, il Presidente Donald Trump, i missili dei terroristi di Hezbollah – o ciò che ne rimane durante la loro intercettazione in cielo da parte dei sistemi di difesa israeliani – raggiungono Tel Aviv. Colpire in questa significativa data la città, uno dei cuori pulsanti del Paese, è un messaggio politico di non arrendevolezza da parte dell’organizzazione terroristica di Hezbollah, sulla cui coscienza pesa il sangue sia di vittime israeliane sia americane.
Le sirene d’allarme hanno iniziato a suonare dalle 11:21, ora locale, per poi continuare durante il pomeriggio. Le forze di difesa israeliane hanno detto che la maggior parte dei 10 proiettili nella raffica mattutina è stata intercettata. Hezbollah ha dichiarato di aver lanciato missili contro una base militare (quella di Tzrifin) vicino all’aeroporto Ben Gurion, la principale porta internazionale di Israele. I media israeliani hanno riferito che un razzo ha colpito un’area vicina all’aeroporto, senza causare vittime ma creando una profonda voragine nell’asfalto. L’autorità aeroportuale ha dichiarato che la struttura continua a funzionare come di consueto: “L’aeroporto è aperto e funziona normalmente per arrivi e partenze” è stato riferito, seppur il tema degli scambi aerei da e per lo Stato ebraico stia suscitando non pochi problemi a causa della guerra.
• L’ECONOMIA DI GUERRA SI SCRIVE NEI CIELI… I rappresentanti delle compagnie aeree straniere in Israele hanno inviato una lettera al consulente legale del Comitato per gli affari economici della Knesset chiedendo una modifica alla legge sui servizi aeronautici. L’obiettivo dell’emendamento è rendere meno ingenti i danni subiti dalle compagnie aeree straniere a causa dalle interruzioni causate dalla guerra. Le compagnie aeree includono vettori low-cost e compagnie aeree legacy (tra cui firme come EasyJet, Wizz Air, Delta e British Airways). La legge attuale richiede alle compagnie aeree di risarcire i passeggeri per cancellazioni e modifiche dei voli e, se necessario, di trovare e pagare voli alternativi. Le compagnie lamentano che la legge sia inadatta per un tempo di guerra con emergenze prolungate. I requisiti normativi comportano che le compagnie aeree straniere sono costrette a cancellare voli, subire perdite significative e far fronte alle richieste dei passeggeri e in una situazione come quella attuale ciò si traduce in attività in Israele finanziariamente non redditizie. Le compagnie vogliono che la clausola di compensazione della legge sia sospesa: il pensiero alla base è che se più compagnie aeree volano in Israele, seppur erodendo i diritti secondo la Aviation Services Law, ciò ripagherà perché sarà possibile volare.
• …E SI SCRIVE PER TERRA Mercoledì 6 novembre un altro teatro di detriti è stato Ra’anana, a nord di Tel Aviv. In mattinata, il resto di un missile ha letteralmente centrato in un’automobile parcheggiata, frantumandone il parabrezza. “Questa è l’ennesima prova che Hezbollah spara intenzionalmente e ciecamente contro la popolazione civile israeliana”, scrive l’ambasciata di Israele in Italia sul profilo ufficiale di Instagram. Le sirene hanno suonato di nuovo anche poco dopo le 16:00 a est di Tel Aviv. L’IDF ha detto che erano causate da un singolo razzo che è stato intercettato.
Nella giornata l’allarme ha suonato nelle aree di Gush Dan e Sharon, tra cui Holon, Rishon Lezion, Hertzliya, Petah Tikva, Ramat Gan e Netanya, nell’Alta Galilea, a Rosh Pina, Hatzor Haglilit e Safed, tra le altre località. Nell’Alta Galilea, sono stati individuati circa 50 proiettili provenienti dal Libano. Alcuni sono stati intercettati e quelli caduti sono stati identificati. Verso le ore 16, quattro persone sono state ferite in un attacco missilistico a Moshav Avivim, nel nord di Israele.
Sivan Sadeh, un contadino di 18 anni di Kfar Masaryk, è stato ferito a morte mercoledì sera dalle schegge di un razzo sparato dal Libano. Il suo corpo è stato scoperto in un campo agricolo vicino al cimitero della città da un altro contadino. Secondo i servizi di emergenza del Magen David Adom (MDA), la vittima stava cercando riparo in un fosso quando uno dei 25 razzi lanciati da Hezbollah è esploso a pochi metri da lui. Il giovane è deceduto per le gravi ferite causate dalle schegge.
• ATTENTATO TERRORISTICO A SILOH, BINYAMIN Sempre nel pomeriggio di mercoledì 6 novembre, una donna di 26 anni e un ragazzo di 16 anni sono stati leggermente feriti in un attacco di speronamento a Shiloh Junction nella regione di Binyamin. Il terrorista, sceso dal suo veicolo, ha tentato di pugnalare i civili con un cacciavite. È stato neutralizzato. Le forze di sicurezza si sono precipitate sulla scena. Gli EMT e i paramedici del MDA hanno curato le due vittime e le hanno portate all’ospedale Hadassah di Gerusalemme. L’esercito israeliano ha successivamente aggiornato: “A seguito del rapporto iniziale, un terrorista ha tentato di speronare i civili allo Shiloh Junction. Poi è uscito dal veicolo e ha tentato di condurre un accoltellamento. Il terrorista è stato eliminato. I soldati dell’IDF stanno attualmente operando nell’area”.
(Bet Magazine Mosaico, 7 novembre 2024)
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Gallant ha pagato la sua ambiguità sul futuro di Gaza senza Hamas: la verità sugli ostaggi e i timori di ‘Bibi’ su inchiesta 7 ottobre
Netanyahu evoca le esigenze di guerra mal governabili in un rapporto fiduciario compromesso e l’ex ministro snocciola i tre punti del dissidio sui quali la sua testa sarebbe caduta. Ma la verità passa per gli ostaggi.
di Iuri Maria Prado
È innegabile che la popolarità di Yoav Gallant fosse un’insidia per il potere cui è ferocemente avvinghiato Benjamin Netanyahu, ma è altrettanto vero che l’ormai silurato ministro della Difesa era interessato a contenderglielo più che a contestarlo. Non mirava alla destituzione di Bibi, ma a sostituirlo. Sui motivi per cui Gallant è stato fatto fuori si sa forse più di quel che hanno detto i due protagonisti, Bibi che evoca le esigenze di guerra mal governabili in un rapporto fiduciario compromesso e l’altro, Gallant, che snocciola i tre punti del dissidio su cui la sua testa sarebbe caduta. È vero che il consenso dei fondamentalisti avversi all’arruolamento degli ultra-ortodossi costituisce un patrimonio preziosissimo per Netanyahu, ed è vero che l’argomento è risentito molto fortemente in Israele: ma è a dir poco improbabile che il primo ministro abbia deciso di assumere una iniziativa così grave, e che così gravemente lo espone a tanta protesta, per quel motivo abbastanza ancillare in un momento tanto delicato.
• L’INCHIESTA SUL 7 OTTOBRE CHE BIBI VUOLE RIMANDARE È vero, ancora, che la richiesta di Gallant rivolta a ottenere una commissione di inchiesta sul disastro di inefficienza e impreparazione di cui il sistema ha dato prova il 7 ottobre è pericolosissima per il primo ministro, il pavido che non ha chiesto scusa, che non è andato a visitare la gente e i luoghi più devastati del Sabato Nero, e che ha addirittura difeso l’azione degli apparati sottoposti al suo governo giusto per difendere sé stesso. Ma licenziare Gallant non sarebbe servito, e non servirà, a evitare che quell’inchiesta abbia corso e che i responsabili, Bibi in testa, ne siano lambiti.
• LA QUESTIONE OSTAGGI E LA GUERRA AD HAMAS E poi il terzo punto: gli ostaggi e la guerra per liberare loro e smantellare Hamas. È su questo, verosimilmente, che insiste la verità supplementare – evidente ma sottaciuta dai due – del dissidio e della sorte dimissionaria del soccombente Gallant. Aveva detto, in una conferenza stampa immediatamente successiva alla comunicazione del licenziamento, che la liberazione degli ostaggi era imperativa per la stessa sussistenza morale di Israele, e che sarebbe stata e sarebbe possibile a patto di accettare compromessi pesanti. Di quali compromessi dovesse trattarsi, Gallant, in pubblico, nulla ha detto. Ma non è casuale che ancora ieri circolassero notizie secondo cui quei compromessi dovessero implicare la permanenza al potere di Hamas a Gaza, insomma che il recupero degli ostaggi valesse un atteggiamento recessivo di Israele a fronte della pretesa mai dismessa dagli autori e dai mandanti dei massacri di un anno fa: cioè di continuare a esercitare il proprio potere sulla Striscia.
• HAMAS NON VUOLE NEGOZIARE Se questo fosse il quadro vero della vicenda, e il vero motivo dell’allontanamento di Yoav Gallant, allora l’avventatezza attribuita alla decisione di Netanyahu cederebbe il posto a una spiegazione molto più implicante e assai meno provvisoria. Perché l’ultimo rifiuto opposto da Hamas a un’ipotesi di accordo (è dell’altro giorno), la quale prevedeva una decina di giorni di cessate il fuoco e la liberazione di quattro ostaggi contro quella di 100 terroristi, ha reso chiaro a tutti che quel che rimane delle dirigenze e dell’esercito di Hamas non ha nessuna intenzione di arrendersi, nessuna intenzione di rendersi disponibile a uno scenario sgombro della propria presenza. E questa è una consapevolezza ormai diffusa, anche presso i tanti che contestano Netanyahu da mesi e anche tra quelli che l’altra sera, alla notizia del siluramento di Gallant, riempivano rumorosamente le strade accusando il primo ministro dell’ultimo, oltraggioso sproposito. C’è caso che anche quei contestatori – che con ottime ragioni non hanno mai avuto e continuano a non avere fiducia in Netanyahu, che lo ritengono inadatto e che sentono come un insulto la sua permanenza al potere – capiscano che la guerra, che deve finire, non può finire senza la definitiva distruzione di Hamas.
(Il Riformista, 7 novembre 2024)
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Israele acquista 25 caccia F-15 di nuova generazione
di Luca Spizzichino

Il Ministero della Difesa israeliano ha annunciato l’acquisto di 25 nuovi caccia F-15IA, una versione avanzata e potenziata dell’iconico F-15, firmando un accordo con Boeing dal valore complessivo di 5,2 miliardi di dollari. Il finanziamento dell’operazione è stato reso possibile grazie al pacchetto di aiuti militari approvato dall’amministrazione e dal Congresso degli Stati Uniti all’inizio di quest’anno, e l’accordo prevede un’opzione per l’acquisto di ulteriori 25 velivoli in futuro.
L’introduzione degli F-15IA rappresenta un rilevante potenziamento per l’aeronautica israeliana, migliorando la sua capacità strategica nel rispondere alle sfide attuali e future della regione. Questi caccia saranno dotati di sistemi d’arma avanzati integrati con tecnologia israeliana, una maggiore capacità di carico e un’autonomia di volo estesa, offrendo a Israele una maggiore flessibilità operativa in contesti complessi, tra cui potenziali minacce come quella iraniana.
“La consegna dei primi F-15IA è prevista per il 2031, con una fornitura annuale di 4-6 unità,” ha dichiarato il Ministero della Difesa, aggiungendo che questa nuova flotta si unirà alla terza squadriglia di F-35 recentemente acquisita. “Questo potenziamento rappresenta un avanzamento significativo per la nostra forza aerea e la capacità strategica del Paese, qualità rivelatesi cruciali durante il conflitto recente” ha affermato Eyal Zamir, Direttore Generale del Ministero della Difesa.
L’accordo con Boeing consolida ulteriormente la storica collaborazione tra Israele e l’azienda statunitense, che dura da oltre sette decenni. “Boeing è orgogliosa della lunga partnership con Israele, iniziata sin dai primi anni della fondazione dello Stato,” ha commentato Ido Nehushtan, presidente di Boeing Israel ed ex generale dell’aeronautica israeliana.
Nel corso dell’attuale conflitto, Israele ha effettuato numerosi investimenti per rafforzare la prontezza operativa e la capacità difensiva delle proprie forze armate, firmando contratti per un valore complessivo di circa 40 miliardi di dollari (circa 150 miliardi di shekel). “Oltre agli avanzamenti già fatti in munizioni e armamenti, stiamo continuando a sviluppare programmi di lungo termine per il rafforzamento delle capacità difensive in tutti i settori: aereo, marittimo, terrestre e di intelligence” ha aggiunto Zamir.
(Shalom, 7 novembre 2024)
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L’ambasciatore Peled incontra la Comunità ebraica di Napoli
Per la sua prima visita di una città italiana fuori da Roma, l’ambasciatore designato d’Israele in Italia Jonathan Peled ha scelto Napoli.
La guerra su più fronti che sta impegnando Israele da oltre un anno, i rapporti internazionali alla luce del conflitto e la crescita dell’antisemitismo in molti paesi sono i principali temi affrontati dall’ambasciatore nel corso di un incontro svoltosi stamane nella sinagoga napoletana di via Cappella Vecchia, dove Peled ha incontrato rappresentanti della Comunità ebraica, della sezione locale dell’associazione Italia-Israele e dell’associazione culturale Bezalel. Ad accogliere il diplomatico, introdotto dal consigliere nazionale di Italia-Israele Giuseppe Crimaldi, c’erano tra gli altri il vicepresidente della Comunità ebraica partenopea Sandro Temin e il rabbino capo Cesare Moscati. A seguire il responsabile della comunicazione della Comunità Daniele Coppin ha moderato un dibattito tra il pubblico e l’ambasciatore
(moked, 7 novembre 2024)
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Limmud Firenze. Tutti possono imparare e possono insegnare
di Rav Scialom Banbout
Si è svolto a Firenze dal 1° al 3 novembre un convegno – seminario, organizzato dell’Associazione Limmud Italia. Abbiamo fatto alcune domande a Sandro Servi, presidente, dell’Associazione.
- Lei ha diretto o collaborato a diversi progetti ebraici, tra questi il Progetto Famiglia Ebraica e il progetto Reshet per adolescenti del DAC, è redattore capo del progetto di traduzione del Talmud, vuole spiegarci cosa è questo progetto “Limmud Italia”? È un progetto finanziato da enti comunitari, nazionali o sovranazionali, cui gli organizzatori devono fare riferimento? Il movimento “Limmud” nel mondo ha già una lunga storia alle spalle: fondato nel 1980 nel Regno Unito da quattro amici con lo scopo di offrire un’occasione culturale educativa nuova e stimolante, ha avuto una crescita straordinaria, diventando un movimento globale che conta annualmente molte decine di eventi in 42 paesi nei 6 continenti. L’evento principale rimane quello inglese, che si chiamava inizialmente Limmud Conference e si chiama ora Limmud Festival, dura una settimana, e rappresenta con le sue migliaia di partecipanti, le sue centinaia di sessioni, l’evento ebraico più importante in Europa. Il modello Limmud è stato adottato in tutto il mondo, come il veicolo ideale per raggiungere tutti i tipi di ebrei, per avvicinare soggetti diversi e creare esperienze di scambio tra comunità diverse e generazioni diverse. Limmud non è legato a nessuna organizzazione ebraica. Ogni associazione Limmud è indipendente, ma si ispira ai “Valori di Limmud”. Ogni associazione Limmud cerca e a volte ottiene finanziamenti da enti ebraici (e non) e da privati. Per vari anni abbiamo chiesto e ottenuto un piccolo contributo dai fondi dell’Ottoxmille dell’UCEI, alcune Comunità ebraiche hanno ospitato gratuitamente i nostri eventi, di cui noi copriamo tutte le spese vive.
- Quando è nato il progetto in Italia e in quali Comunità ebraiche si è svolto? Quali sono i problemi che gli organizzatori devono affrontare? l piccolo team di volontari composto da un gruppo di ebrei italiani che, dopo aver partecipato al Limmud Conference 2012 a Londra avevano deciso di costituire a inizio 2014 l’associazione LimmudItalia, ha finora organizzato cinque eventi nazionali a Firenze (nel 2014, 2015, 2016, 2017 e 2023), due nel 2018, uno a Venezia e uno a Gerusalemme per la comunità degli israeliani di lingua italiana, e uno a Parma nel 2019. Dopo il Covid abbiamo ripreso le attività l’anno scorso. I problemi sono organizzativi (si tratta di un multi-seminario residenziale in cui tutto va organizzato da zero), e soprattutto di comunicazione (è molto difficile promuovere le nostre iniziative perché non sempre riusciamo a ottenere collaborazione). In ogni caso la maggioranza dei partecipanti non sono ebrei locali, ma vengono da altre città.
- Esistono delle regole generali cui i partecipanti (relatori o pubblico) devono attenersi? Più che altro è interessante conoscere quali sono le caratteristiche peculiari degli eventi Limmud. 1. Tutti i partecipanti possono essere insegnanti e studenti; 2. Le presentazioni si svolgono in contemporanea; 3. Quindi c’è sempre un programma molto ricco in cui ogni partecipante può costruire il proprio itinerario personale. Le regole sono quelle dettate dai “Valori di Limmud”, per es. tutto è basato sul volontariato; non sono permessi attacchi personali nel materiale proposto nelle varie sessioni di studio; Shabbath e kesheruth sono osservati in tutte le aree comuni; Limmud non si presta a legittimare o delegittimare le varie posizioni religiose o politiche presenti nel mondo ebraico; crediamo che discussioni “le-shem Shamàim” possano dare un contributo positivo per promuovere l’educazione e la comprensione di tutti. Tutto questo contribuisce a creare un ambiente culturale piacevole e tollerante, che incoraggia le persone a superare gli stereotipi sugli altri, questo in genere piace molto, ma non a tutti, cosa del tutto naturale. Limmud è aperto e interessato al contributo di tutti, specie di coloro che svolgono funzioni didattiche e culturali.
- Quest’anno l’evento Limmud Italia Days Firenze 2024 è stato aperto con una tavola rotonda dedicata a ricordare il Centenario del Convegno giovanile di Livorno del 1924. Come è stato affrontato? In che modo si relaziona con la situazione delle Comunità ebraiche italiane oggi? Abbiamo organizzato una sessione in plenaria in due parti. Nella prima quattro illustri relatori (Stefano Levi Della Torre, Scialom Bahbout, Donato Grosser e Sira Fatucci) hanno rappresentato il pensiero di altrettanti protagonisti del Convegno del 1924 (Nello Rosselli, Dante Lattes, Alfonso Pacifici e Enzo Sereni), permettendo ai presenti di immergersi nel contesto storico e nelle idee che animarono quel momento cruciale per la comunità ebraica italiana. Nella seconda parte si è svolto un dibattito focalizzato su dove siamo arrivati oggi, a cento anni di distanza da quelle premesse.
- A parte la rievocazione del Centenario del Convegno di Livorno, quali argomenti sono stati affrontati nel vostro convegno? Prenderebbe troppo spazio riferire in dettaglio tutti i titoli, ma ci sono state oltre 30 presentazioni, lezioni workshop su storia, filosofia, Torà, etica, attualità, arte, musica, cucina e molto altro, con la partecipazione di relatori di varia origine e orientamento (nel nostro website www.limmud-italia.it sono consultabili tutte le Guide all’evento degli anni passati che contengono tutti i titoli e a giorni verrà inserita anche quella di quest’anno). Alcune sono state veramente interessanti e da molti è stato elogiato l’alto livello qualitativo degli interventi. C’è stato poi un Concerto dell’Ensemble Salomone Rossi (Fiori musicali del barocco ebraico) con brani su testi in ebraico di Avraham Caceres, Salomone Rossi, Benedetto Marcello, Giuseppe C. Lidarti, aperto a tutta la Comunità e anche alla cittadinanza fiorentina. Infine la Mostra “Due rare mappe antiche di Gerusalemme” in cui erano esposte una ventina di piante antiche della città. Benché a Limmud valga il principio “non si viene a Limmud per mangiare” abbiamo sempre dedicato molte risorse ai 5 pasti e ai coffee break, con risultati molto apprezzati. Durante lo Shabbàt si è creata un’atmosfera veramente speciale, con i canti di Shalom Alechem e Eshet Chail, il Qiddush, la Birkat haMazon cantata, all’italiana, da tutti. Per compensare il fatto che ormai prevale in Italia la versione ashkenazita, abbiamo cantato anche Bendigamos. Due signore hanno tenuto alla fine dei due pasti sabbatici due brevi Devar Torà. Per me, che ho partecipato all’ultimo corso biblico tenuto da Nehama Leibowitz (la studiosa che ha rivoluzionato il modo di leggere e studiare la Torà), questo era quasi un dovere.
- Il Convegno di Livorno era destinato ai giovani del tempo: quello svoltosi a Firenze ha visto la partecipazione di persone adulte e non proprio giovani. Nel tempo in cui prevale la comunicazione attraverso i “social”, come pensa si possa rilanciare il progetto oggi per arrivare ai giovani? Ha ragione, il nostro è un pubblico adulto. Abbiamo cercato varie volte di coinvolgere i più giovani, sia come singoli che come movimenti. Non è nostra intenzione sovrapporsi ai movimenti e alle strutture organizzate già esistenti, è nostra intenzione lasciare loro grande autonomia, purtroppo il pubblico giovanile in Italia pare molto restio a partecipare a manifestazioni con i più adulti, e questa non mi pare una scelta saggia. Forse riusciremo in futuro a avvicinare i più giovani utilizzando maggiormente i social, ma finora, con le nostre risorse non siamo riusciti. D’altra parte pare a me che lo stesso problema affligga tutte le attività di tutte le Comunità, non solo ebraiche.
(Kolòt, 7 novembre 2024)
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Auguri trasversali a Donald Trump, «vero amico di Israele»
Diversi leader del mondo, ancor prima della notizia ufficiale, si sono congratulati con Donald Trump per la sua vittoria nelle elezioni americane e il suo imminente ritorno alla presidenza degli Stati Uniti. Tra i primi a mandare un messaggio di auguri è stato il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu. «Congratulazioni per il più grande ritorno della storia!», ha commentato su X il primo ministro, rivolgendosi a Trump. «Il tuo storico ritorno alla Casa Bianca offre un nuovo inizio per l’America e una potente riaffermazione della grande alleanza tra Israele e Stati Uniti». Dopo di lui hanno inviato un messaggio anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron. Sempre da Gerusalemme poi sono arrivate le congratulazioni del presidente d’Israele Isaac Herzog. Anche lui ha definito «storico» il ritorno di Trump alla Casa Bianca. «Sei un vero e caro amico di Israele e un campione della pace e della cooperazione nella nostra regione», ha aggiunto Herzog. «Non vedo l’ora di lavorare con te per rafforzare il legame di ferro tra i nostri popoli, per costruire un futuro di pace e sicurezza per il Medio Oriente e per sostenere i nostri valori condivisi. A nome dello Stato ebraico e democratico di Israele e di tutto il nostro popolo, ti auguro un grande successo».
Affidata alla piattaforma X anche la reazione degli alleati di governo di Netanyahu, ministri dell’estrema destra Itamar Ben-Gvir (Pubblica sicurezza) e Bezalel Smotrich (Finanze). Il primo ha esultato con un «Yesssss, Dio benedica Trump». Il secondo ha commentato con «Dio benedica Israele, Dio benedica l’America». Per salutare il nuovo presidente Usa, il ministro per gli Affari di Gerusalemme Meir Porush, del partito religioso Agudat Israel, ha citato un passo della Bibbia (Proverbi): «Il cuore di un re è nella mano di Dio».
Dalle opposizioni in Israele a congratularsi con il nuovo presidente Usa è stato il leader del partito centrista Kachol Lavan (Blu Bianco) Benny Gantz. «Trump è un vero amico di Israele, e lo dimostra non solo con le parole ma anche con le azioni. Nel corso del suo precedente mandato ha mediato gli accordi di Abramo, ha riconosciuto ufficialmente le alture del Golan come parte di Israele e ha spostato l’ambasciata statunitense a Gerusalemme», ha ricordato Gantz nel suo messaggio. «Sullo sfondo di un’aggressione iraniana sempre più forte nella regione, della sua corsa verso le capacità nucleari e degli sforzi fondamentali per riportare a casa gli ostaggi, la leadership del presidente Trump non solo assicurerà che gli Stati Uniti continuino a essere un amico e un alleato speciale per lo Stato di Israele, ma anche un faro vitale di chiarezza morale per il Medio Oriente e il mondo». Gantz è stato anche l’unico a ringraziare il presidente uscente Joe Biden per il suo sostegno allo stato ebraico. Nel salutarlo, ha espresso la propria gratitudine a Biden «per la sua profonda dedizione personale a Israele, il suo storico abbraccio morale al sionismo e il suo importante sostegno a Israele, in particolare dopo il 7 ottobre e nella lotta contro Hamas e l’asse del male dell’Iran».
Anche il leader dell’opposizione e del partito Yesh Atid Yair Lapid, nel congratularsi con Trump, lo ha definito un «vero amico d’Israele». «Sono tempi difficili per Israele, ma con il ferreo sostegno degli Stati Uniti e una forte leadership possiamo superarli», ha affermato Lapid. Parlando del conflitto, il leader di Yesh Atid ha indicato la priorità in agenda: «Per il popolo di Israele non c’è compito più urgente che riportare a casa i nostri ostaggi da Gaza».
(moked, 6 novembre 2024)
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La vittoria di Trump e il suo significato per Israele
di Niram Ferretti
La vittoria netta di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane non è, in primis, una buona notizia per l’Iran e per i suoi delegati in Medio Oriente, ma lo è invece in modo lampante per Israele e anche, collateralmente, per l’Arabia Saudita e per gli Emirati del Golfo.
Alla notizia della vittoria di Trump il rial iraniano è sceso al minimo storico. Dai 32,000 necessari per un dollaro del 2015 quando venne siglato l’accordo sul nucleare si è arrivati ai 703,000 al dollaro di oggi.
Trump è stato l’unico presidente americano che dal 1979 ha posto sull’Iran sanzioni massicce che ne hanno fortemente compromesso la tenuta economica, così come è stato l’unico presidente in carica ad assestare al regime un colpo durissimo con l’uccisione in Iraq nel gennaio del 2020 di Qasem Soleimani, una delle sue figure più di spicco e il regista della strategia del terrore che per decenni l’Iran ha articolato a livello regionale.
Si tratta dunque per Khamenei e per i suoi accoliti di un antagonista vero e pericoloso, lontano mille miglia dalla mano vellutata che gli porse Obama durante la sua presidenza e che ha continuato a porgergli l’Amministrazione Biden.
Inutile sottolineare come, dalla sua vittoria, il governo Netanyahu esca fortemente rafforzato e che Benjamin Netanyahu possa tirare un sospiro di sollievo relativamente alle intenzioni programmatiche dell’Amministrazione Biden di fare nascere in Cisgiordania uno Stato palestinese retto da Fatah che non si è mai dissociata dall’eccidio del 7 ottobre.
Con la seconda presidenza Trump questa prospettiva è tramontata, come era già accaduto durante il suo primo quadriennio. Si rafforzano invece gli Accordi di Abramo, rimasti sospesi nel loro esito ulteriore e di maggiore rilievo, l’intesa diplomatica tra Israele e Arabia Saudita annunciata da Netanyahu come prossima nel settembre 2023 all’ONU e mandata a gambe all’aria dall’aggressione di Hamas.
Per quanto riguarda Gaza, dove Hamas è stato sostanzialmente disarticolato, ma dove sono prigionieri ancora 101 ostaggi, Netanyahu potrà avere ancora più mano libera per fare ciò che Trump lo esortava a fare pochi mesi fa, “finish the job”, concludere il lavoro, il che, in termini concreti, può solo preludere a una presenza protratta di Israele all’interno della Striscia che metta fine definitivamente al regime terrorista dell’organizzazione jihadista salafita. Lo stesso vale per il Libano, dove l’esigenza di Israele non è quella di occupare il paese ma di neutralizzare la minaccia di Hezbollah al di là del fiume Litani, consentendo ai circa ottantamila sfollati israeliani che dal 8 ottobre hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni, di potervi tornare in sicurezza. Anche qui, è prevedibile che Trump si attivi affinché questo obiettivo essenziale venga raggiunto.
Tornando all’Iran e alla sua minaccia, esso si trova adesso ulteriormente indebolito e fortemente esposto a un ulteriore intervento militare israeliano che, come lo stesso Trump aveva esortato a fare, colpisca i pozzi petroliferi e i siti nucleari, neutralizzando di fatto la minaccia nucleare che pende sullo Stato ebraico.
Si tratta al momento di possibili esiti prossimi. L’Amministrazione Biden resterà ancora in carica per circa tre mesi, periodo insidioso, durante il quale non è da escludere che in attesa dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca il 20 di gennaio, venga confezionata per Israele qualche polpetta avvelenata.
(L'informale, 6 novembre 2024)
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Netanyahu licenzia Yoav Gallant, Katz nominato nuovo ministro della Difesa
di Luca Spizzichino
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha destituito ieri sera il Ministro della Difesa Yoav Gallant, motivando la decisione con una “crisi di fiducia” che ha descritto come “profonda e irreparabile”. Gallant sarà sostituito dal Ministro degli Esteri Israel Katz. Netanyahu ha spiegato la scelta affermando che, “nel pieno di un conflitto, è essenziale avere una fiducia totale tra il Primo Ministro e il Ministro della Difesa”. Negli ultimi mesi, tuttavia, tale fiducia “si è incrinata” a causa di divergenze sulla gestione della guerra e di dichiarazioni pubbliche di Gallant, considerate lesive dell’unità nazionale”. Gallant ha risposto su X ribadendo il suo impegno per la sicurezza di Israele: “La sicurezza dello Stato di Israele è e resterà sempre la missione della mia vita”.
Durante una conferenza stampa Gallant ha chiarito i motivi delle recenti fratture con Netanyahu: l’ostilità verso il piano per un’inchiesta sugli eventi del 7 ottobre 2023, il disaccordo sulla gestione dei prigionieri di Hamas e, soprattutto, il dissenso sull’esenzione dal servizio militare per gli ultra-ortodossi. Gallant si è opposto fermamente, ritenendo tale esenzione una minaccia alla coesione sociale e alla sicurezza nazionale. “Tutti devono servire nell’IDF e difendere Israele”, ha dichiarato, sottolineando che “nessuno dovrebbe essere esentato per motivi politici”.
Il nuovo Ministro della Difesa, Israel Katz, ha ringraziato Netanyahu per la fiducia e ha promesso di lavorare per la sicurezza di Israele e per il ritorno “incolume” di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas. Katz ha delineato le sue priorità, dichiarando: “La distruzione di Hamas a Gaza, la sconfitta di Hezbollah in Libano e il contenimento dell’aggressione iraniana”.
Il Presidente israeliano Isaac Herzog ha commentato il licenziamento di Gallant su X, lanciando un appello all’unità del paese: “L’ultima cosa di cui Israele ha bisogno in questo momento è uno sconvolgimento e una spaccatura nel mezzo della guerra. La sicurezza di Israele deve essere al di sopra di ogni considerazione”. Herzog ha avvertito che una disgregazione interna potrebbe minare l’efficacia della risposta militare del paese: “I nemici di Israele aspettano solo un segno di debolezza, disintegrazione o divisione tra noi”.
La decisione di licenziare Gallant ha immediatamente provocato una reazione violenta, con migliaia di manifestanti scesi in piazza a Tel Aviv, Gerusalemme e in altre città. Gli scontri con la polizia hanno portato all’arresto di circa cinquanta persone. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha invitato i cittadini a mobilitarsi, mentre Yair Golan, leader del partito democratico, ha richiesto uno sciopero generale e la chiusura di università e aziende, accusando Netanyahu di “distruggere Israele”. A lui si è unito Benny Gantz, presidente di Unità Nazionale, che ha definito la mossa “un atto politico pericoloso a scapito della sicurezza nazionale”.
Dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti è arrivato un messaggio di sostegno al nuovo Ministro della Difesa e l’impegno a continuare la stretta collaborazione con Israele. In una nota, il Pentagono ha elogiato Gallant per il ruolo fondamentale svolto nella difesa del paese e ha sottolineato che “gli Stati Uniti continueranno a collaborare con il prossimo Ministro della Difesa”.
(Shalom, 6 novembre 2024)
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Netanyahu licenzia Galant e nomina Israel Katz ministro della Difesa
“In piena guerra, la piena fiducia tra il Primo Ministro e il Ministro della Difesa è più che mai necessaria”, ha dichiarato Netanyahu.
di Akiva van Koningsveld e Alex Traiman
GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato martedì di aver licenziato Yoav Galant come ministro della Difesa e di aver nominato Israel Katz, ministro degli Esteri israeliano, come nuovo capo del ministero della Difesa.
L'annuncio è arrivato poche ore prima della chiusura dei seggi negli Stati Uniti per l'Election Day, una delle notizie internazionali più importanti durante le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Netanyahu ha dichiarato che Gideon Sa'ar, ministro senza portafoglio, sostituirà Katz come massimo diplomatico di Gerusalemme.
“Nel bel mezzo della guerra, la piena fiducia tra il primo ministro e il ministro della Difesa è più che mai necessaria”, ha dichiarato Netanyahu. “Anche se questa fiducia era presente nei primi mesi della campagna militare e abbiamo avuto una cooperazione molto produttiva, questa fiducia tra me e il Ministro della Difesa ha purtroppo iniziato a sgretolarsi negli ultimi mesi”.
Galant e Netanyahu “hanno avuto disaccordi significativi sulla gestione della campagna militare, disaccordi che sono stati accompagnati da dichiarazioni pubbliche e azioni che andavano contro le decisioni del governo e del gabinetto di sicurezza”, ha spiegato il primo ministro israeliano.
“Ho cercato più volte di chiarire questi disaccordi, ma continuavano a crescere”, ha detto Netanyahu. “Sono stati anche portati all'attenzione dell'opinione pubblica in modo inappropriato e, quel che è peggio, sono arrivati all'attenzione del nemico; i nostri nemici hanno tratto piacere da questi disaccordi e ne hanno tratto grande vantaggio”.
Un alto funzionario del governo israeliano vicino a Netanyahu ha dichiarato a JNS che “con la partenza di Galant, le fughe di notizie nel gabinetto molto probabilmente diminuiranno e i successi aumenteranno”.
Netanyahu ha spiegato che Katz “ha dimostrato le sue capacità e ha contribuito alla sicurezza nazionale come ministro degli Esteri, delle Finanze, dell'Intelligence per cinque anni e, cosa altrettanto importante, come membro di lunga data del Gabinetto di Sicurezza dello Stato”.
“Israel Katz porta con sé un'impressionante combinazione di ricca esperienza e qualità di leadership”, ha dichiarato Netanyahu. “È conosciuto come un uomo d'azione che combina la responsabilità con una determinazione contenuta - tutte qualità importanti per guidare una campagna militare”.
Netanyahu ha aggiunto che la nomina di Katz e Sa'ar ai loro nuovi ruoli “rafforzerà il governo e il gabinetto di sicurezza e li trasformerà in organi che lavorano in modo cooperativo e armonioso per la sicurezza dello Stato di Israele, per i cittadini di Israele e per la nostra vittoria”.
In una lettera pubblicata da Channel 12, il Primo Ministro Galant ha detto che il suo licenziamento avrebbe avuto effetto 48 ore dopo la consegna della lettera. “Vorrei ringraziarla per il suo lavoro come ministro della Difesa”, ha scritto Netanyahu. L'incontro tra i due sarebbe durato tre minuti.
Secondo il rapporto di Channel 12, Netanyahu e Katz dovrebbero cercare di sostituire il capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, il tenente generale Herzi Halevi, e altri alti funzionari della sicurezza israeliana.
Netanyahu ha dichiarato in un comunicato stampa che “le notizie secondo cui il Primo Ministro intende licenziare alti funzionari dei servizi di sicurezza sono false e mirano a seminare discordia e spaccature”.
“Questo vale anche per le notizie mendaci secondo cui i ministri ultraortodossi erano al corrente della questione”, ha spiegato. “Ne sono venuti a conoscenza dai media”.
In risposta al suo licenziamento, Galant ha scritto in ebraico che “la sicurezza dello Stato di Israele è stata e sarà sempre il lavoro della mia vita”.
Katz ha ringraziato Netanyahu per avergli affidato il comando e ha giurato di guidare l'esercito israeliano “alla vittoria sui nostri nemici e al raggiungimento degli obiettivi della guerra”: La restituzione di tutti gli ostaggi come missione più importante, la distruzione di Hamas a Gaza, la sconfitta di Hezbollah in Libano, il contenimento dell'aggressione iraniana e il ritorno sicuro dei residenti del nord e del sud alle loro case”.
Netanyahu e Galant erano in disaccordo fin dalla crisi della riforma giudiziaria del 2023. Nel maggio 2023, mentre Netanyahu si trovava all'estero, Galant convocò una conferenza stampa e chiese al Primo Ministro di fermare il disegno di legge sulla riforma giudiziaria, che portò a massicce proteste di piazza in tutto Israele.
Circa 24 ore dopo, Netanyahu ha annunciato l'intenzione di licenziare Galant. Le proteste a livello nazionale contro la riforma giudiziaria del governo, ormai accantonata, si sono intensificate e il Primo Ministro ha fatto marcia indietro.
Sei mesi fa, Netanyahu e altri membri della sua coalizione avevano criticato aspramente Galant dopo che questi aveva chiesto che Gerusalemme si impegnasse a mantenere il controllo palestinese della Striscia di Gaza dopo la guerra con Hamas.
A settembre, dopo che è stato rivelato che le forze israeliane avevano trovato i corpi di sei ostaggi in un tunnel di Hamas nel sud della Striscia di Gaza, Galant ha chiesto a Netanyahu di fare marcia indietro sulla sua decisione di mantenere le truppe dell'IDF al confine dell'enclave con l'Egitto, noto come Corridoio di Filadelfia.
Galant si scusò per evitare il suo licenziamento, ha riferito Maariv nel mese successivo, citando conversazioni vicine al capo del governo.
Secondo un sondaggio JNS/Direct Polls condotto a luglio, la maggioranza degli elettori del partito Likud ha perso la fiducia in Galant e vorrebbe vederlo licenziato.
Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir ha elogiato la mossa di martedì, scrivendo sui social media in ebraico: “Mi congratulo con il Primo Ministro per la sua decisione di licenziare Galant”.
Ha aggiunto che Galant era ancora “profondamente intrappolato nel concetto di sicurezza precedente al 7 ottobre 2023” e che “non è possibile ottenere una vittoria assoluta”. Netanyahu ha “fatto bene a rimuoverlo dal suo incarico”, ha scritto Ben-Gvir.
Il leader dell'opposizione Yair Lapid del partito Yesh Atid ha definito il licenziamento un “atto di follia” e ha invitato i suoi sostenitori a scendere in piazza.
Dopo l'annuncio del licenziamento di Galant, i manifestanti hanno bloccato l'autostrada Ayalon a Tel Aviv e hanno acceso fuochi in strada. La polizia ha eretto barriere davanti alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme.
“La polizia israeliana è dispiegata in gran numero nei punti caldi della protesta in tutto il Paese per mantenere la sicurezza e l'ordine pubblico e per consentire un equilibrio tra la libertà di protestare legittimamente e la libertà di movimento”, ha dichiarato la polizia.
(Israel Heute, 6 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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“Nel bel mezzo della guerra, la piena fiducia tra il primo ministro e il ministro della Difesa è più che mai necessaria”. Esatto. In altri tempi e con altri eserciti Galant sarebbe stato fatto passare per le armi. Insieme a Yair Lapid. M.C.
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Report, due ore di menzogne su Israele
Tutti gli errori del programma di Sigfrido Ranucci sul Medio Oriente, la Striscia di Gaza e il 7 ottobre.
di Michael Sfaradi
Vivendo in Israele mi è oggettivamente impossibile seguire tutte le televisioni italiane in tempo reale, per cui certi programmi, soprattutto quelli che mi vengono segnalati, li vedo a distanza di qualche ora o a volte di qualche giorno. Sulla puntata di Report, prima di criticare quello che è stato riportato, perché va criticato e sputtanato, su questo non c’è dubbio per come ha riportato notizie e approfondimenti, vista la quantità di falsità e di completa mancanza di contraddittorio sugli argomenti trattati, mi sono servite alcune ore per scegliere su cosa focalizzare questo mio intervento. Per me, che generalmente rispondo di getto, il fatto stesso che ci siano volute delle ore e che abbia dovuto scegliere in quel mare nostrum di volgare giornalismo, se di giornalismo si tratta, la dice lunga. In ogni modo gli italiani che hanno visto Report su Rai3 hanno assistito a due ore di menzogne su Israele, sulla storia del Medio Oriente, sul 7 ottobre e sulla guerra. Sembrava di trovarsi davanti a un programma megafono della propaganda dei terroristi. Programma completamente mancante di etica dell’informazione che ha fatto tra l’altro passare per scoop la sintesi degli argomenti che i terroristi e gli antisionisti non antisemiti urlano da anni sui complici organi di informazione occidentali. In quelle due ore della messa in onda sono state quasi del tutto dimenticate le donne stuprate, mutilate e uccise il 7 ottobre. Sono state dimenticate famiglie intere cancellate dalla furia terroristica di Hamas. Sono stati dimenticati i bambini israeliani massacrati nelle loro case e alcuni addirittura bruciati vivi nei forni delle cucine. Ma non è tutto. Il 7 ottobre 2023 non solo è stato in massima parte nascosto alla pubblica opinione, ma a tratti addirittura giustificato come atto di resistenza a 70 anni di un’occupazione inesistente. Ricordiamo a chi ha ancora la voglia di conoscere la verità che dal 2005 non c’erano più israeliani nella Striscia di Gaza e che migliaia di lavoratori frontalieri, gli stessi che hanno fornito ai terroristi le mappe dei kibbutz, i nomi delle famiglie, le case dove abitavano e anche se c’erano bambini e animali, che venivano in Israele a lavorare. Sì, se dobbiamo dirla vale la pena dirla tutta, coloro che venivano in Israele a guadagnarsi da vivere con stipendi che nella Striscia di Gaza erano solamente dei sogni, sono gli stessi che hanno fornito le informazioni per meglio colpire i civili israeliani in quel maledetto 7 ottobre 2023. Ma Ranucci questo chiaramente lo ha sorvolato. Nella trasmissione sono stati riproposti come unica fonte i numeri del “Ministero della Sanità di Gaza“, entità sconosciuta, più volte smentita e agli ordini di Hamas, cioè dei terroristi. Lo stato di Israele è stato descritto come laboratorio dell’estrema destra mondiale, una follia considerando che per mesi le sinistre israeliane hanno liberamente protestato contro il governo in carica e democraticamente eletto. Magari Ranucci dovrebbe mandare i suoi in Iran, per chiedere come sta Ahou Daryaei che ha trovato i suoi cinque minuti di vera libertà passeggiando in mutande davanti all’entrata dell’università. Ecco, questo sarebbe un vero scoop ma per una trasmissione del genere è davvero chiedere troppo. Torniamo a noi, in quelle due ore di propaganda antisraeliana è stato cancellato il rifiuto dei palestinesi all’esistenza dello Stato di Israele, sono stati cancellati migliaia di missili lanciati su Israele da 20 anni, gli attentati terroristici contro gli israeliani e contro gli ebrei in tutto il mondo. C’è davvero da chiedersi come la Rai, la più importante televisione italiana, la tv dello Stato finanziata dai soldi dei contribuenti che dovrebbe avere una linea editoriale basata sull’etica dell’informazione possa aver accettato di mandare in onda un programma di questo tipo. Fermo restando la libertà di stampa e rispetto per ogni opinione legittima, la ricerca della verità e l’etica base del giornalismo democratico pretendono la verifica delle fonti e soprattutto il contraddittorio su temi controversi. Tutti coloro che la verità l’hanno a cuore non possono non aver capito che tutto questo è mancato, volutamente e magistralmente nascosto. Ranucci, facendo intervistare dal suo inviato Ilan Pappé, storico molto discusso, è riuscito pure a fare negazionismo della Shoah e revisionismo storico arrivando addirittura a fargli dire in tv che l’allora Muftì di Gerusalemme, auto-esiliatosi in una casa di lusso a Berlino preparata per lui dagli amici nazisti e intimo di Himmler, avrebbe incontrato Hitler per soli 4 minuti e che in questi 4 minuti non avrebbe avuto modo di parlare nemmeno di ebrei e del loro sterminio. La realtà è che il Muftì ebbe diversi incontri e accordi con molti gerarchi nazisti tra cui Hitler, altrimenti non avrebbe potuto fondare di una intera divisione di SS musulmane. Ma il culmine dell’ignoranza è arrivato quando Ilan Pappè, uno dei pochi ebrei che Cecilia Parodi salverebbe, a sostegno della sua tesi ha affermato che quando il Muftì incontrò Hitler, nel 1941, la Shoah era stata già pianificata. A Sigfrido Ranucci sarebbe bastato sbirciare su Wikipedia per sapere che la conferenza di Wannsee, dove i gerarchi nazisti riuniti decisero per la “soluzione finale del problema ebraico” vale a dire lo sterminio degli ebrei, si tenne nel 1942. La conferenza di Wannsee (in tedesco Wannseekonferenz) si svolse il 20 gennaio 1942 a villa Marlier, una villa sulla riva del lago Großer Wannsee nella periferia a sud di Berlino. Coinvolse quindici personaggi di primo piano del regime nazionalsocialista, del partito e delle Schutzstaffel (tra cui quattro segretari di Stato, due funzionari pubblici di grado equivalente e un sottosegretario) che, su invito dell’SS-Obergruppenführer Reinhard Heydrich, capo del Reichssicherheitshauptamt (RSHA), si riunirono per definire la cosiddetta «soluzione finale della questione ebraica» (Endlösung der Judenfrage). Considerando che il Muftì incontrò Hitler il 28 novembre del 1941, quindi prima di questa conferenza, si capisce che tutto quello che ha detto Pappè è solo muffa che si è aggiunta a un programma che oltre ad aver fatto male alla Rai, la brutta figura rimarrà per sempre come una delle pagine più buie della televisione italiana, non ha aiutato a capire il tema dello scontro e le responsabilità delle parti, di tutte le parti, sulla problematica mediorientale. Ma, soprattutto non ha fatto bene al giornalismo che, soprattutto quando si toccano certi argomenti, deve essere al di sopra delle parti e ben informato. Il programma Report non si è dimostrato al di sopra delle parti, anzi, non è proprio giornalismo è altro. È dell’altro, qualcosa che un tempo, in maniera dispregiativa, veniva chiamata propaganda.
(nicolaporro.it, 5 novembre 2024)
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Blinken ricatta ancora Israele: “più aiuti a Gaza o taglio delle forniture di armi americane”
Prima della guerra ogni giorno entravano a Gaza circa 500 camion di aiuti che sono serviti ad Hamas per costruire centinaia di Km di tunnel
Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha parlato telefonicamente lunedì con il Ministro della Difesa Yoav Gallant per esaminare i passi compiuti da Israele per migliorare la situazione umanitaria a Gaza, ha dichiarato il Dipartimento di Stato americano, mentre si avvicina il termine ultimo entro il quale Israele deve soddisfare alcuni requisiti stabiliti dagli Stati Uniti, o rischiare potenziali restrizioni sull’assistenza militare offensiva. La telefonata è avvenuta tre giorni dopo che Blinken ha avuto un colloquio simile con il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, e mentre gli Stati Uniti hanno intensificato le loro critiche per quello che hanno definito un tentativo insufficiente di porre rimedio alla crisi umanitaria nell’enclave palestinese. Blinken e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin hanno inviato una lettera a Gallant e Dermer il 13 ottobre, avvertendo che la mancata risoluzione della crisi umanitaria entro 30 giorni potrebbe avere implicazioni legali per la continuazione delle spedizioni di armi offensive statunitensi a Israele, poiché i beneficiari di tali aiuti non possono legalmente bloccare l’assistenza umanitaria. Tra le altre condizioni, la lettera di Austin e Blinken di metà ottobre diceva che Israele doveva consentire l’ingresso di un minimo di 350 camion al giorno che trasportassero cibo e altri rifornimenti. Tuttavia, l’Associated Press ha riferito venerdì scorso che una revisione dei dati delle Nazioni Unite e di Israele ha rilevato che il numero medio di camion che entrano a Gaza ogni giorno rimane ben al di sotto di tale numero. Lunedì il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha dato a Israele un voto “negativo” in termini di rispetto delle condizioni per un miglioramento delle consegne di aiuti e ha affermato che, sebbene manchino ancora circa nove giorni alla scadenza del termine, i limitati progressi compiuti finora sono stati insufficienti. “Ad oggi, la situazione non è cambiata in modo significativo”, ha dichiarato Miller ai giornalisti. “Abbiamo visto un aumento di alcune misure. Ma se si considerano le raccomandazioni previste dalla lettera, queste non sono state rispettate”. Prima che Hamas, il governo di Gaza, iniziasse la guerra con il suo attacco terroristico al sud di Israele nell’ottobre 2023, una media di 500 camion al giorno portavano aiuti nella Striscia. I gruppi di soccorso hanno affermato che si tratta del minimo necessario per i 2,3 milioni di abitanti di Gaza, la maggior parte dei quali da allora è stata sradicata dalle proprie case, spesso più volte. Dall’inizio dei combattimenti, non c’è mai stato un mese in cui Israele si sia avvicinato a questa cifra, che ha raggiunto un picco di 225 camion al giorno in aprile, secondo i dati del governo israeliano. Quando Blinken e Austin hanno inviato la loro lettera, stavano aumentando i timori che le restrizioni agli aiuti stessero affamando i civili. Il numero di camion di aiuti che Israele ha permesso di entrare a Gaza è crollato dalla primavera e dall’estate scorsa, scendendo a una media giornaliera di soli 13 al giorno all’inizio di ottobre, secondo i dati delle Nazioni Unite. Alla fine del mese, il numero è salito a una media di 71 camion al giorno, secondo i dati delle Nazioni Unite. Una volta che i rifornimenti arrivano a Gaza, i gruppi incontrano ancora ostacoli nel distribuire gli aiuti ai magazzini e poi alle persone bisognose, hanno detto la settimana scorsa le organizzazioni e il Dipartimento di Stato. Tra questi vi sono la lentezza delle procedure israeliane, le restrizioni israeliane sulle spedizioni, l’illegalità e altri ostacoli, hanno dichiarato i gruppi di aiuto. La riduzione delle consegne di aiuti a Gaza si è fatta sentire maggiormente nel nord dell’enclave, dove il mese scorso Israele ha lanciato una nuova operazione volta a contrastare la rinascita di Hamas. Durante le prime due settimane dell’offensiva, nessun aiuto è entrato nel nord di Gaza, suscitando l’indignazione dei gruppi umanitari e degli alleati di Israele, compresi gli Stati Uniti. Le due settimane di blocco degli aiuti nel nord di Gaza hanno fatto pensare che Israele stesse mettendo in atto il cosiddetto “Piano dei generali” per bloccare gli aiuti umanitari al nord nel tentativo di affamare i terroristi di Hamas. Se attuato, il piano altamente controverso potrebbe intrappolare senza cibo né acqua centinaia di migliaia di palestinesi che non vogliono o non possono lasciare le loro case dopo l’ordine di fuga dell’IDF. L’IDF ha negato di aver messo in atto un simile piano, anche se i funzionari del governo, compreso il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, non hanno ancora fatto lo stesso a livello ufficiale. I dati del COGAT, l’organismo militare israeliano responsabile degli aiuti umanitari a Gaza, mostrano che gli aiuti sono scesi a meno di un terzo dei livelli di settembre e agosto. A settembre, 87.446 tonnellate di aiuti sono entrate nella Striscia di Gaza. A ottobre sono entrate 26.399 tonnellate. “I risultati non sono abbastanza buoni oggi”, ha detto Miller. “Di certo non hanno il lasciapassare. Non sono riusciti a mettere in atto tutte le cose che abbiamo raccomandato. Detto questo, non siamo alla fine del periodo di 30 giorni”. Alla domanda su cosa faranno gli Stati Uniti alla scadenza della prossima settimana, non ha voluto dire nulla, ma solo che “seguiremo la legge”. Anche Austin ha ribadito “quanto sia importante garantire che l’assistenza umanitaria possa fluire e affluire più velocemente a Gaza” nelle telefonate con Gallant, ha dichiarato il Magg. Gen. Pat Ryder, addetto stampa del Pentagono. Lunedì il COGAT ha dichiarato di aver evacuato 72 pazienti dagli ospedali del nord di Gaza verso altre strutture mediche e di aver portato forniture mediche, oltre a carburante, cibo, acqua e unità di sangue. Miller ha anche detto che gli Stati Uniti stanno esaminando la decisione del governo israeliano di ritirarsi dall’accordo del 1967 che riconosce l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA, dopo che la Knesset ha approvato una legge che limita fortemente le operazioni dell’agenzia in Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. La decisione di tagliare i ponti con l’UNRWA è stata contrastata da Blinken e Austin nella loro lettera. Sebbene Israele abbia da tempo un rapporto conflittuale con l’UNRWA, la rabbia ha raggiunto l’apice dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, al quale hanno partecipato diversi membri del personale dell’UNRWA, anche rapendo e uccidendo israeliani. Israele ha affermato che il 10% del personale dell’agenzia ONU ha legami con Hamas – un’accusa che l’agenzia ha negato. Prima dell’approvazione della legge, l’UNRWA ha confermato che un comandante di Hamas ucciso in un attacco israeliano, il quale aveva guidato l’uccisione e il rapimento di israeliani da un rifugio anti-bombe vicino al Kibbutz Re’im il 7 ottobre dello scorso anno, era stato impiegato dall’agenzia dal luglio 2022. In questo contesto, le due proposte di legge sono state rapidamente approvate dalla Knesset, con il patrocinio di legislatori della coalizione e dell’opposizione.
(Rights Reporter, 5 novembre 2024)
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Il volto d’Israele e le parole di Idit
di Angelica Edna Calò Livne
Da mesi sentivo il richiamo potente, le grida che arrivavano dal profondo della terra bruciata, martoriata e intrisa di sangue innocente. Da mesi non mi davo pace, al di là delle sirene, dei tuoni dei cannoni e della vita reclusa alla mia camera blindata sul confine Nord. Mi dicevo “Che hai da lamentarti? Voi siete al sicuro, un sobbalzo ogni tanto non è nulla a confronto di una vita, di migliaia di vite recise in poche ore, senza un segno premonitore, nel giorno di Festa, nel pieno di un percorso di pace, nell’attesa di una risposta a tanti sforzi per il dialogo. Dovevo andare, per capire, guardare negli occhi di quei volti che potevano ancora vedermi e di quelli che non potevano vedere più. E il momento è giunto: Ti invitiamo a un tour speciale ispirato al libro “L’individuo nell’insieme” al quale hai preso parte con il tuo contributo, che esplora l’esperienza dell’individuo e l’esperienza di inclusione dei diversi gruppi identitari. Durante il tour presenteremo il libro e ci concentreremo su vari casi di inclusione sociale e sui suoi effetti sull’individuo e sul collettivo. Il viaggio sarà accompagnato dai curatori del libro Dr. Orna Shemer e Dr. Manolo Topel che hanno scelto di condurre il tour nei centri abitati del Negev occidentale, lungo la Striscia di Gaza, e di presentare questioni attuali e innovative di solidarietà e inclusività che corrispondono ai temi del libro. È stato un pellegrinaggio come quando andammo a Majdanek, a Treblinka, a Birkenau in Polonia, con lo stesso peso sul cuore. Un viaggio come sospesi su una funivia vacillante che ondeggiava di emozione in emozione. Il primo incontro a Ruchama,un kibbutz che si prepara ad accogliere un altro kibbutz – Kfar Azza – da ricostruire dalle radici, è stato un momento di ispirazione. Si dovranno creare rapporti tra vicini rispettandone l’identità, il DNA di ognuno dei due. Creare un legame all’ombra del trauma individuale e collettivo, una resilienza per sostenersi reciprocamente. Ori Levi, figlio di italiani, primi pionieri dell’Hashomer Hatzair, è il promotore di questo progetto coraggioso come rappresentante di Ruchama, insieme a uno staff di assistenti sociali. Il video che ha mostrato al pubblico dove le case per i membri di Kfar Azza sorgono in pochissimo tempo su quello che era il campo da calcio e in altre zone adiacenti ha il sapore di un miracolo e quando Idit Etinger, una dei sopravvissuti di Kfar Azza, racconta la sua esperienza del 7 ottobre dove è rimasta per 19 ore stesa a bocconi con la sua famiglia, nella stanza blindata, senza muoversi mentre intorno imperversava il male e la morte, quando dice che per non soccombere ha ripetuto centinaia di volte a se stessa tutte le gioie della sua vita e l’amore che è la sua risorsa più grande… non ho resistito più e ho sentito che il nodo alla gola che mi attanagliava dall’alba, quando siamo partiti da Sasa, si scioglieva lentamente in un fiume di lacrime. L’ho abbracciata e mi sono riempita del suo sorriso. Abbiamo proseguito per Sderot, dove accanto a ogni casa sorge un piccolo rifugio di cemento, testimonial di un Red Alert infinito che dura da anni, da quando Israele era a Gaza per impedire il lancio dei missili e da quando Israele è uscita da Gaza e di quei missili che non hanno mai smesso di arrivare sui bambini nelle scuole, nelle case, nei giardini. I bambini e i civili noi li proteggiamo in quei rifugi e sotto non ci nascondiamo arsenali di armi. A Sdeot abbiamo ascoltato le storie di giovani che hanno ricevuto le forze per affrontare il lutto insostenibile di amici caduti nella guerra, trucidati al festival, tornati in sacchi bianchi dai tunnel della morte. Per superare tanto dolore si incontrano per esprimere la paura, la nostalgia, semplicemente per piangere, sfogarsi e abbracciarsi insieme, per restare uniti e non darla vinta a chi ci vuole disperati, senza più voglia di vivere. Al Kibbutz Mefalsim abbiamo incontrato le famiglie che sono tornate nelle loro case, dopo un anno, con coraggio, con determinazione nonostante il rombo dei mortai non si sia mai interrotto. E di nuovo un attimo di speranza, fra poco anche al mio kibbutz risuoneranno le voci dei bambini, le note che si librano nelle lezioni di musica, il fischio dell’allenatore di basket. Era già il tramonto, ma non potevamo tornare nel Nord senza fondere la nostra anima con quella dei ragazzi e le ragazze del Nova, i figli di tutto il popolo d’Israele. Non potevamo lasciare quei luoghi senza percorrere quella lunga strada dove sono stati braccati, inseguiti, violati, violentati e giustiziati senza che nessuno potesse aiutarli. E giunti nello spiazzo, quella distesa di disperazione senza fine, ho camminato in silenzio tra le immagini di quei volti. Come è possibile che fossero tutti e tutte così belle, così dolci, così solari? Come si può contenere un tale dolore? Penso alle madri, ai padri, alle notti insonni, senza risposta. Penso all’antisemitismo incalzante, alle donne che hanno volto lo sguardo altrove, a chi dice che Hitler doveva terminare la sua opera. E mentre torniamo a casa echeggiano nel cuore, nella testa e in tutta me stessa le parole di Idit, viva per miracolo, dopo 19 ore stesa ad aspettare la salvezza che risponde alla mia domanda da dove trae la forza per ergersi di nuovo e ricominciare da capo: “Noi siamo amore Angelica, è l’amore che ci ha tenuti vivi nel corso dei secoli e questo amore non ce lo toglierà mai nessuno. Non esiste odio che possa annullare quest’amore cosi grande del popolo d’Israele!”. E con un dito leggero sul mio cuore e uno sguardo penetrante aggiunge “Non te lo far rubare mai questo amore! Da nessuno!”.
(Shalom, 5 novembre 2024)
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L'esercito israeliano istituisce la prima brigata da combattimento ultraortodossa
Si apre una base di addestramento in concomitanza con l'aumento del reclutamento di ebrei Haredim.
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Soldati religiosi partecipano alla cerimonia di giuramento per entrare a far parte del Battaglione ortodosso Netzah Yehuda presso l'Ammunition Hill di Gerusalemme.
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La formazione di una nuova brigata di fanteria ultraortodossa sta procedendo, nonostante le tensioni legate alla legge che esenta gli ebrei ultraortodossi (Haredim) dal servizio di leva e le continue manifestazioni di manifestanti ultraortodossi davanti all'ufficio di reclutamento di Gerusalemme. La prima ondata di reclute dovrebbe arrivare nella nuova base di addestramento della brigata a dicembre, ha riferito lunedì Israel Hayom. La base di addestramento di Tavetz, nella Valle del Giordano, è stata ristrutturata al costo di 46 milioni di dollari, con quattro nuove sinagoghe e infrastrutture personalizzate per soddisfare i requisiti religiosi. La struttura servirà come centro di addestramento per il primo gruppo di soldati ultraortodossi che faranno parte di una brigata di fanteria standard. La struttura della brigata sarà diretta dal colonnello Avinoam Emunah, che riferisce al maggior generale David Zini, capo del comando di addestramento. Il primo battaglione di fanteria ultraortodossa dovrebbe essere operativo entro il novembre 2025 e si unirà alle unità religiose esistenti. Questa iniziativa è la prima creazione “da zero” di una brigata di fanteria regolare dagli anni Ottanta. La struttura di comando è già pronta e sono stati nominati, tra gli altri, un comandante di battaglione, un comandante di staff di brigata, comandanti di compagnia e di plotone. L'addestramento del personale è in corso e si prevede che la brigata funzionerà come unità autosufficiente, operando in modo indipendente e non richiedendo il supporto di altre unità. La maggiore attenzione delle Forze di Difesa israeliane al reclutamento degli ultraortodossi deriva da una necessità operativa. Una brigata regolare può sostituire efficacemente molti battaglioni di riserva in compiti operativi, riducendo così in modo significativo il carico sulle forze di riserva. Parallelamente, all'interno dell'Aeronautica Militare sono state istituite una compagnia di polizia di frontiera ultraortodossa e una divisione per la manutenzione degli aerei, entrambe strutturate in modo da soddisfare le esigenze religiose. L'iniziativa di reclutamento sta ricevendo molta attenzione e il Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, il tenente generale Herzi Halevi, presenta relazioni mensili sui progressi compiuti. Alti ufficiali militari hanno tenuto un dialogo con importanti rabbini e leader religiosi ortodossi.
L'esercito ha adottato un nuovo approccio e non si considera più un “educatore” della comunità ultraortodossa. L'obiettivo è invece quello di dimostrare che la pratica religiosa e il servizio militare possono coesistere. La strategia si concentra sulla costruzione di un ampio sostegno per il reclutamento. Giovedì scorso si è concluso il primo periodo dell'attuale anno di reclutamento, in cui è stato fissato l'ambizioso obiettivo di 4.800 reclute ultraortodosse - un aumento significativo rispetto alle 1.800 reclute dello scorso anno. Israel Hayom aveva precedentemente riferito che mentre le notifiche di arruolamento erano state inviate a circa 3.000 uomini ultraortodossi, meno del 10% di loro si era presentato agli uffici di reclutamento. È prevista l'apertura di uno speciale centro di reclutamento ultraortodosso entro luglio, con personale esclusivamente maschile per venire incontro alle sensibilità religiose. Tuttavia, la IDF ha ridimensionato le sue aspettative riguardo a questo approccio, riconoscendo che l'emissione di 3.000 avvisi di arruolamento non è una garanzia di reclutamento. In risposta, l'esercito ha spostato la sua attenzione sulla promozione attiva delle opportunità di servizio all'interno della comunità religiosa. Nonostante il successo limitato degli avvisi di arruolamento, ci sono segnali incoraggianti di reclutamento: si stima che il numero di reclute sia aumentato di diversi punti percentuali rispetto allo stesso mandato dell'anno scorso (una media di circa 600 reclute per mandato). Vale la pena notare che la maggior parte delle reclute è stata reclutata attraverso canali diversi dal bando di arruolamento. Pur riconoscendo che molti non si presentano agli uffici di reclutamento, l'esercito mantiene la sua strategia di applicazione. Coloro che non si presentano riceveranno ulteriori convocazioni seguendo lo stesso protocollo della popolazione generale, dove sono comuni più richiami prima di rispettare la convocazione. Ad oggi, sono stati emessi 720 mandati di arresto per gli ultraortodossi che non si sono presentati. Tuttavia, invece dell'arresto immediato in questi casi, il diritto di lasciare il Paese viene solitamente limitato, in modo simile alle misure di applicazione nel settore generale. L'avversione della comunità ultraortodossa al servizio militare è dovuta a una serie di fattori, tra cui la mancanza di volontà di apportare cambiamenti nella propria comunità e la diffusa convinzione che il servizio militare sia contrario all'osservanza religiosa. L'attuale strategia delle Forze di Difesa Israeliane si concentra sul superamento di queste percezioni attraverso il dialogo con i leader religiosi e la creazione di condizioni che rendano il servizio militare più accettabile per la popolazione ultraortodossa.
(Israel Heute, 5 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Kemi Badenoch, la nuova guida pro-Israele dei conservatori inglesi
di David Fiorentini
I Tories hanno eletto il loro prossimo leader: in una svolta storica, prende in mano i conservatori inglesi Kemi Badenoch, la prima donna di colore a guidare un partito nel Regno Unito, riferisce JNS.
Ingegnere informatico di 44 anni e figlia di immigrati nigeriani, Badenoch subentra all’ex primo ministro Rishi Sunak, dopo un mandato turbolento concluso con una pesante sconfitta elettorale, che ha posto fine a un dominio politico durato 14 anni. Ritrovatosi all’opposizione, lo storico partito si trova di fronte alla necessità di ridefinirsi e recuperare la fiducia dell’elettorato.
“La sfida che ci attende è ardua ma chiara”, ha dichiarato Badenoch subito dopo la nomina. “Il nostro primo compito è quello di monitorare il governo laburista. Il secondo, altrettanto importante, è prepararci per governare, sviluppando un insieme di proposte conservatrici che possano convincere il popolo britannico e dotandoci di un piano preciso su come realizzarle. Il nostro obiettivo è cambiare questo paese, trasformando il funzionamento del governo”.
Tra le varie posizioni per cui Badenoch è nota, spicca il suo fermo sostegno a Israele, che non ha mancato di ribadire anche in un momento in cui vari leader internazionali hanno assunto toni più critici o neutrali verso Gerusalemme. Dopo il 7 ottobre ha subito dichiarato: “Israele non può permettersi di abbassare la guardia e deve fare ciò che è necessario per difendersi e, in fin dei conti, sopravvivere”.
Mentre in merito alle recenti manifestazioni pro-Palestina nel Regno Unito, ha prontamente espresso una forte critica: “Abbiamo visto le nostre strade riempirsi di persone festanti, non sconvolte dagli atti di terrore e senza interesse a chiedere giustizia per le vittime, bensì intente a manifestare contro gli ebrei, mascherando il tutto come un attacco a Israele”.
Del resto, la sua vicinanza allo Stato ebraico ha radici importanti. Nella fattispecie, durante il suo incarico come Segretaria per il Commercio Internazionale, Badenoch ha rifiutato di sospendere le licenze di esportazione di armi verso Israele, nonostante le forti pressioni ricevute. Decisione che fu invece intrapresa dal governo laburista pochi mesi dall’inizio del mandato.
Nel complesso, un personaggio che rassicura l’ambiente ebraico conservatore, a partire dal gruppo Conservative Friends of Israel (CFI), il quale ha accolto calorosamente la sua elezione: “Kemi ha dimostrato il suo forte sostegno a Israele e alla comunità ebraica del Regno Unito durante il suo mandato e per tutta la campagna di leadership. Siamo ansiosi di collaborare con lei per rafforzare ulteriormente i legami tra il Regno Unito e Israele e per contrastare le politiche dannose del governo laburista su Israele”.
L’elezione è stata accolta favorevolmente anche dai leader israeliani, incluso il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha scritto su X: “Invio i miei più sentiti auguri a Kemi Badenoch. Sono certo che continuerà la grande tradizione di partenariato e amicizia tra Israele e Regno Unito”.
(Bet Magazine Mosaico, 5 novembre 2024)
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Idf eliminano un capo di Hezbollah, la tregua è lontana
di Zaccaria Trevi
L’ennesimo vertice di Hezbollah è stato neutralizzato. Le Forze di difesa israeliane hanno annunciato l’eliminazione di Abu Ali Rida, il comandante delle forze sciite responsabile della formazione di Baraachit, nel sud del Paese dei cedri. In un comunicato ufficiale dell’esercito di Tel Aviv, pubblicato sul proprio canale Telegram, viene spiegato che il dirigente del gruppo paramilitare era coinvolto nella pianificazione e nell’esecuzione di attacchi contro Israele, oltre a coordinare le operazioni terroristiche di Hezbollah al di là della linea blu. Nel frattempo, in mattinata, i combattimenti tra l’esercito dello Stato ebraico e il Partito di Dio hanno subito un’escalation, soprattutto dalla parte sciita del conflitto. I terroristi, infatti, avrebbero perpetrato almeno 60 attacchi missilistici, dal Libano verso l’Alta Galilea e la Galilea occidentale. Molti di questi razzi sono stati intercettati dall’Iron dome, e i restanti sarebbero caduti in aree disabitate. Hezbollah, inoltre, avrebbe rivendicato un altro attacco missilistico, stavolta verso Safed, una città nel nord di Israele al confine con il Paese dei cedri.
E nel giorno in cui Israele ha ratificato alle Nazioni unite la fine del suo rapporto con l’Urnwa, un tribunale di Rishion Le Zion ha confermato la detenzione di un portavoce di Benjamin Netanyahu. Il membro dell’ufficio del primo ministro è stato accusato di aver diffuso delle carte top secret. Le autorità dello Stato ebraico, di concerto con lo Shin Bet – società di intelligence che insieme al Mossad e ad Aman forma la trinità dei servizi segreti israeliani – stanno infatti lavorando su un caso di “violazione della sicurezza nazionale”. Nel fascicolo, su cui stanno indagando anche le forze armate, sarebbero presenti la fuga di documenti riservati, l’accesso non autorizzato di un consigliere a riunioni e uffici non di sua competenza, la cattiva gestione di informazioni riservate e il presunto uso di documenti per influenzare l’opinione pubblica sui negoziati per una tregua a Gaza.
Ed è proprio sul fronte della diplomazia che è tornato a parlare David Barnea, il principale negoziatore di Tel Aviv nonché presidente del Mossad. Per l’uomo, la prospettiva di un accordo per il rilascio degli ostaggi ancora trattenuti da Hamas – secondo fonti affidabili sarebbero 51 i detenuti – è attualmente “bassa”. In un colloquio con Channel 12, il capo dell’intelligence ha riferito che le proposte per un cessate il fuoco e per il ritorno a casa dei prigionieri – inviate ai terroristi tramite Egitto e Qatar – non hanno ricevuto risposta da Hamas. L’organizzazione che opera nella Striscia di Gaza punta a istituire un cessate il fuoco totale come condizione preliminare allo scambio tra ostaggi e prigionieri. Sebbene i colloqui siano ricominciati dopo la morte di Yahya Sinwar, la luce in fondo al tunnel della guerra è ancora molto lontana.
(l'Opinione, 4 novembre 2024)
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Polizia e Klaus Davi attaccati violentemente davanti alla moschea di viale Jenner
di Ludovica Iacovacci
MILANO - L’ennesima manifestazione d’odio e violenza perpetrata dagli arabo-islamici si è registrata dinnanzi alla moschea di viale Jenner, a Milano, ai danni del giornalista Klaus Davi e della Digos.
“Mi sono recato al centro culturale islamico per fare domande riguardo all’orientamento dell’opinione pubblica musulmana sulle elezioni americane”, ha detto a Bet Magazine il massmediologo Klaus Davi raccontando delle vicissitudini legate alle interviste al mondo arabo presente nel capoluogo lombardo. “Mi hanno accerchiato, spintonato e tentato di sottrarre qualcosa. Erano una cinquantina, erano armati. Gli aggressori sono stati mandati, erano minorenni e questo è un classico: se succede qualcosa di grave, le pene per i minori sono attenuate. Credevo che dopo l’aggressione che ho subito a giugno, un evento del genere non si ripetesse”, afferma il giornalista in soccorso del quale "è arrivata la polizia senza che io la chiamassi, qualcuno deve averli avvertiti” racconta Klaus Davi, che in quel momento era impegnato a cavarsela da solo, accerchiato prima per strada e poi in un bar dove si era rifugiato. “Ho chiesto al barista di chiamarmi un taxi ma lui non mi ha aiutato”.
Successivamente, è intervenuta la Digos per prelevare il giornalista, farlo salire in macchina e portarlo via. “Gli aggressori hanno preso di mira la macchina della Polizia, vi si sono scagliati contro. Si sono accaniti verso gli agenti, è un comportamento mafioso. È sconcertante, un grave segnale di illegalità. Dove si andrà a finire non lo so, ma in queste periferie di Milano stiamo assistendo alle dinamiche della Francia” ha detto il massmediologo. Quando gli agenti hanno fatto salire il giornalista in macchina, la vettura è stata presa a calci e pugni dagli arabi che l’hanno inseguita una volta in moto. “Fai veloce, chiudi, vai vai vai!” dice un agente all’altro intimandogli di sbrigarsi nel richiudere lo sportello dell’auto e ripartire, mentre i colpi degli arabi venivano incassati dalla fiancata e dai vetri. “Stamattina mi è arrivata una lettera, un italiano mi ha scritto che gli arabi ce l’avevano proprio con me”, confessa a fine intervista il giornalista che, fortemente preoccupato per il proliferare di violenza che vige in alcune zone di Milano a causa dei comportamenti degli arabi, sottolinea l’importanza di porre tali dinamiche all’attenzione delle istituzioni.
(Bet Magazine Mosaico, 4 novembre 2024)
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Un nuovo patrimonio per la storia degli ebrei di Libia: l’archivio di Mordechai Ha-Cohen catalogato in Israele
di Olga Flori
La storia degli ebrei di Libia potrà essere esaminata sotto una nuova luce grazie alla catalogazione effettuata dalla Biblioteca Nazionale d’Israele dell’archivio del rabbino Mordechai Ben Yehuda Ha-Cohen di Tripoli, considerato dagli studiosi il più importante storico dell’ebraismo di quest’area geografica.
Mordehai Ha-Cohen nacque a Tripoli nel 1856 da una famiglia di origini italiane. Rimasto orfano di padre in giovane età, Ha-Cohen iniziò presto a lavorare, dedicandosi a molteplici attività. Oltre ad insegnare in un Talmud Torah, imparò a riparare orologi e lavorò come venditore ambulante, mestiere che gli permise di viaggiare e di conoscere meglio le comunità ebraiche nei villaggi delle zone più rurali della Tripolitania.
Studioso autodidatta e dotato di numerosi interessi, Ha-Cohen si dedicò all’antropologia, all’etnografia, all’etnologia, esplorando anche temi molto diversi tra loro come la medicina, la magia e l’astronomia. La sua prima importante opera, Higgid Mordechai, fu dedicata alla storia della Libia e degli ebrei libici, analizzando usi e costumi con particolare attenzione alle istituzioni ebraiche locali e al rapporto tra il mondo arabo e quello ebraico. In quest’opera Ha-Cohen mostra interesse anche per le comunità ebraiche dei villaggi rurali e per la comunità di Bengasi, a cui dedica una sezione speciale. Infatti, nel 1919 Ha-Cohen era diventato dayan (giudice della corte rabbinica) della comunità ebraica di Bengasi, carica che ricoprì fino alla sua morte nel 1929. L’ufficio coloniale italiano in Libia mostrò grande interesse per l’opera di Ha-Cohen, soprattutto per la sezione dedicata alle istituzioni e ai costumi, che fu tradotta da Marino Mario Moreno.
Ha Cohen fu molto prolifico e scrisse anche numerosi articoli, soprattutto per i quotidiani Ha-Herut e Ha-Yehudi. Un momento importante della vita di Ha-Cohen fu l’incontro con Nahum Slouschz, studioso delle comunità ebraiche orientali. Slouschz rimase favorevolmente impressionato dalle conoscenze di Ha-Cohen, tanto da invitarlo ad unirsi a lui nei suoi viaggi come guida. La collaborazione tra i due studiosi proseguì anche dopo che Slouschz lasciò la Libia.
Mordechai Ha-Cohen morì nel 1929. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la sua famiglia affidò i manoscritti delle sue opere allo storico e professore Ephraim Elimelech Urbach, che prestava servizio nell’esercito britannico. Urbach fece arrivare i testi alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. In seguito, alcuni famigliari di Ha-Cohen emigrarono in Israele portando con sé molti documenti personali di Ha-Cohen, anch’essi donati alla Biblioteca Nazionale.
L’opera di Mordechai Ha-Cohen è stata studiata con passione dal professor Harvey E. Goldberg, ricercatore dell’ebraismo libico, che ha curato l’edizione dell’opera “Higgid Mordechai”.
Tra i documenti di Ha-Cohen conservati presso la Biblioteca nazionale vi sono articoli, copie di lettere e numerosi manoscritti. Grazie alla donazione della Samis Foundation di Seattle, dedicata alla memoria di Samuel Israel, l’archivio del rabbino tripolino è stato catalogato ed è ora consultabile alla National Library of Israel. Questo archivio rappresenta un tesoro culturale per approfondire la comprensione e l’analisi storica e culturale degli ebrei libici.
(Shalom, 4 novembre 2024)
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Israele comunica all’ONU il ritiro dall’accordo sulla UNRWA
di Sarah G. Frankl
Il Ministero degli Esteri ha informato ufficialmente l’ONU che Israele si ritirerà dall’accordo del 1967 che riconosce l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA, dopo che la Knesset ha approvato una legge volta a limitare severamente le operazioni dell’agenzia in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Il direttore generale del Ministero degli Esteri Jacob Blitshtein ha inviato la lettera al presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite Philemon Yang del Camerun, informandolo che “Israele continuerà a lavorare con i partner internazionali, tra cui altre agenzie delle Nazioni Unite, per garantire la facilitazione degli aiuti umanitari ai civili a Gaza in un modo che non comprometta la sicurezza di Israele. Israele si aspetta che le Nazioni Unite contribuiscano e cooperino a questo sforzo”. La scorsa settimana, la Knesset ha approvato una legge che proibisce all’UNRWA di operare dal territorio israeliano e proibisce alle agenzie governative israeliane di collaborare con l’UNRWA. La legge entrerà in vigore tra tre mesi. “L’UNRWA, l’organizzazione i cui dipendenti hanno partecipato al massacro del 7 ottobre e molti dei cui dipendenti sono operativi di Hamas, è parte del problema nella Striscia di Gaza e non parte della soluzione”, afferma il ministro degli Esteri Israel Katz. “All’ONU sono state presentate infinite prove sugli operativi di Hamas che lavoravano all’UNRWA e sull’uso delle strutture dell’UNRWA per scopi terroristici e non è stato fatto nulla al riguardo”. Katz nota inoltre che attualmente solo il 13% degli aiuti a Gaza passa attraverso l’UNRWA e sostiene che l’idea che non ci siano alternative all’UNRWA è una finzione. L’ambasciatore presso le Nazioni Unite Danny Danon accoglie con favore la ritrattazione da parte di Israele di un accordo del 1967 che costituiva la base delle relazioni di Israele con l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi e i loro discendenti. “Nonostante le prove schiaccianti che abbiamo presentato all’ONU a sostegno dell’infiltrazione di Hamas nell’UNRWA, l’ONU non ha fatto nulla per rettificare la situazione”, afferma Danon in un tweet. “Lo Stato di Israele continuerà a collaborare con le organizzazioni umanitarie, ma non con quelle che promuovono il terrorismo contro di noi”, aggiunge.
(Rights Reporter, 4 novembre 2024)
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Mille scrittori dichiarano di boicottare Israele. E parte la contro-petizione
di Nathan Greppi
Oltre 1.000 scrittori hanno recentemente firmato un appello in cui dichiarano di non voler collaborare in alcun modo con le istituzioni letterarie israeliane e di non volere che i loro libri vengano pubblicati in Israele. Tra gli scrittori che hanno aderito all’appello, lanciato in occasione del Palestine Festival of Literature, figurano l’irlandese Sally Rooney, gli americani Percival Everett e Jhumpa Lahiri e l’indiana Arundhaty Roy.
Gli autori, che hanno accusato Israele di genocidio, hanno affermato che “non coopereremo con istituzioni israeliane tra cui editori, festival, agenzie letterarie e pubblicazioni” se “sono complici nella violazione dei diritti dei palestinesi” o “non hanno mai riconosciuto pubblicamente i diritti inalienabili del popolo palestinese sanciti dal diritto internazionale”.
Molti degli autori che hanno firmato l’appello al boicottaggio avevano già espresso in precedenza posizioni ostili nei confronti d’Israele. Prima del 7 ottobre, la Rooney aveva già dichiarato nel 2021 che non avrebbe fatto tradurre i suoi libri in ebraico da una casa editrice israeliana, in quanto sostenitrice del BDS.
• LA REAZIONE In risposta al boicottaggio, più di 1.000 scrittori, accademici ed esponenti del mondo dello spettacolo hanno firmato un contro-appello, promosso dall’organizzazione no profit Creative Community for Peace. Tra i firmatari, spiccano ad esempio il filosofo Bernard Henri-Lévy, l’autore di romanzi thriller Lee Child, le autrici Premio Nobel per la Letteratura Herta Müller ed Elfriede Jelinek, lo storico Simon Schama, l’attrice Mayim Bialik e i musicisti Ozzy Osbourne e Gene Simmons.
“Noi sottoscritti scrittori, autori e professionisti dell’industria dell’intrattenimento respingiamo gli appelli a boicottare scrittori, editori, autori, festival del libro e agenzie letterarie israeliane ed ebraiche”, si legge nell’appello. “Continuiamo a essere scioccati e delusi nel vedere i membri della comunità letteraria molestare e ostracizzare i loro colleghi perché non condividono una narrazione unilaterale in risposta al più grande massacro di ebrei dai tempi della Shoah”.
“Israele sta combattendo guerre esistenziali contro Hamas e Hezbollah, designati come gruppi terroristici dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea”, affermano. “L’esclusione di chiunque non condanni unilateralmente Israele è un’inversione della moralità e un offuscamento della realtà”.
• I PRECEDENTI Nell’ultimo periodo, a causa dei crescenti boicottaggi, è capitato persino che degli scrittori si rifiutassero di partecipare ad un convegno solo perché la moderatrice sarebbe stata filoisraeliana: è quello che è successo all’autrice ebrea americana Elisa Albert, che nel settembre 2024 avrebbe dovuto moderare un incontro presso la fiera del libro della città di Albany, nello Stato di New York. Tuttavia, prima dell’incontro ha ricevuto una mail da un organizzatore del festival che la informava che l’evento era stato annullato: il motivo? Due dei tre relatori, le autrici Lisa Ko e Aisha Abdel Gawad, non volevano sedersi con la Albert perché non volevano apparire in pubblico con una “sionista”.
Ci sono stati anche autori di origini ebraiche che sono stati presi di mira pur non avendo mai preso posizione sul conflitto a Gaza: è il caso di Gabrielle Zevin, autrice americana di padre ebreo e madre coreana. Il suo romanzo Tomorrow, and Tomorrow, and Tomorrow, a lungo un bestseller negli Stati Uniti, nel luglio 2024 è stato rimosso dagli scaffali di una libreria di Chicago perché etichettata come “sionista”, in quanto nel febbraio 2023 aveva partecipato ad un evento organizzato dall’associazione femminile sionista Hadassah.
(Bet Magazine Mosaico, 4 novembre 2024)
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Intellettuali allo sbaraglio
Rav Roberto Della Rocca
Si può siamo liberi come l’aria….. …..Si può contestare e parlare male …..si può fare critiche dall’esterno …..viene la voglia un po’ anormale di inventare una morale Utopia trrr Utopia trrr utopia pia pia trrrr
"Si può” è una famosa canzone di Giorgio Gaber degli anni ‘70
nella quale si enfatizza un certo approccio anarchico e vorace del concetto della libertà. Sono parole molto attuali e indicative di come sembra ormai possa dirsi tutto e il contrario di tutto ignorando quei paletti e quelle distinzioni che ci aiutano a mettere a fuoco, a selezionare e ad affrontare la vita e i problemi con onestà e responsabilità. In nome di un invocato e malinteso pluralismo e di una sedicente libertà di pensiero si legittimano mistificazioni e capovolgimento dei valori, per cui non esistono più verità, ma solo post-verità manipolate e manipolabili. Si è giunti addirittura a mettere sullo stesso piano un eroe dell’antica Grecia come Ettore, che ha dato la sua stessa vita per difendere il suo popolo, e un impenitente terrorista come Yahya Sinwar che ha ucciso tante vite, tra cui quelle del suo popolo, per difendere il suo delirio di odio e la sua sete di sangue ebraico.
Negli ultimi mesi ci domandiamo con amarezza quanto sia utile continuare a spiegare le ragioni di Israele, dato che molti maître à penser, intrappolati in una visione unilaterale e distorta, sembrano ormai privi della volontà di ascoltare e di condurre un’analisi seria e onesta su una realtà complessa e articolata.
C’è però una novità sconcertante in questa nuova e virulenta ondata di antisemitismo. L’abuso spregiudicato e oramai sdoganato di temi religiosi, di alcuni insegnamenti biblici e della cultura ebraica, che vengono impiegati con superficialità da molti intellettuali, soprattutto della cosiddetta sinistra liberale, per sostenere alcune demagogiche argomentazioni. Si fanno riferimenti al libro del Levitico, ad esempio: la condanna della vendetta è interpretata in modo da riproporre pregiudizi notoriamente legati a teorie antigiudaiche, in perfetto stile “cattocomunista”, ignorando che è proprio il Levitico, soprattutto nel capitolo 19, che sottolinea invece i principi etici fondamentali dell’ebraismo, come per esempio: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, “Non vendicarti e non serbare rancore”, “Ama lo straniero” e così via, valori che l’ebraismo ha insegnato all’umanità. Ignorando tali principi, che da sempre contraddistinguono la cultura ebraica, si trasforma un testo sacro in un presunto manifesto di odio, usando con disinvoltura infelici dichiarazioni isolate di politici israeliani, come se queste rappresentassero la visione del popolo ebraico tout court. C’è un ritorno a quel consueto cliché paolino e marcioniano, ripreso ormai anche da certa sinistra che si dichiara – sempre più impropriamente – laica e progressista, che considera il “Vecchio Testamento” solo una fonte di legalismo e vendetta, superato da una nuova alleanza di amore e universalismo di cui si ritiene priva la Bibbia ebraica.
Che questi pregiudizi persistano in contesti reazionari cattolici e islamici non ci stupisce oltremodo, ma vederlo riaffermato da coloro che rappresentavano per buona parte dell’opinione pubblica il cotè intellettuale del nostro paese, incapace di andare oltre una lettura superficiale, è disarmante. Assistiamo a reiterati attacchi alla tradizione ebraica, che sembrano aderire a una “religione dell’antireligione” piuttosto che a un’analisi illuminata: un vero intellettuale laico dovrebbe, infatti, incoraggiare i lettori ad approfondire, a cercare i testi, a studiare la storia ebraica e, come per tutte le culture, a cercare maestri e punti di riferimento validi. Così facendo, aiuterebbero davvero a “scoprire” la cultura ebraica nella sua autenticità. Ancora una volta ci si appella a esempi riduttivi e stereotipati, che ritraggono il Dio ebraico come promotore di una legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente” – Esodo 21, 24 e Levitico 24, 17-22), ignorando che la “cultura ebraica” implica un dialogo con le fonti talmudiche, scritte dai tanto “deprecati” Farisei, che sostituiscono la vendetta con il risarcimento. Secoli prima della moderna e “civile” (?) Europa, il Talmud introduceva concetti quali il lucro cessante e il danno emergente, stabilendo il principio di proporzionalità e spostando la punizione in una sfera giuridica pubblica. Tutte le storie della Bibbia ebraica esaltano quell’amore misericordioso che caratterizza la Tradizione di Israele e di cui, ancora oggi, si ritrova traccia nell’odierno Stato ebraico, i cui ospedali si prendono cura di tante vittime del fronte opposto, e di tanti altri esempi di grande umanità che molte “anime belle e caritatevoli” preferiscono continuare a ignorare.
Si incensano esclusivamente – elevandoli come modelli esemplari del popolo ebraico – quegli ebrei “democratici” che promuovono il valore del “pluralismo” , predicato molte volte a senso unico e proprio da chi con granitiche certezze esclude a priori tutto ciò che è “diverso” da sé. Un sedicente pluralismo strumentalizzato per giustificare comportamenti irresponsabili, che finiscono per delegittimare i principi su cui si fonda la stessa sopravvivenza della Comunità.
Non è chiaro su quali basi si attribuisca questa patente di “democratico”, ma dalle loro esternazioni pare evidente che il criterio sia la volontà di dissociarsi da Israele. Come se la titolarità di “democratico illuminato” appartenesse esclusivamente a chi dimostra di scagliarsi contro Israele. Non risparmiano parole di sussiego e disprezzo verso quegli ebrei che quotidianamente interpretano proattivamente la loro cultura di minoranza e che lottano affinché ci siano sempre culture di minoranza. Una posizione semplicistica e dannosa, abbracciata anche da alcuni nostri correligionari, irretiti da questa logica manichea che vede le “anime buone”, gli ebrei secolarizzati e figli dell’Illuminismo da un lato, e dal lato opposto gli “ignoranti e bellicosi”.
Ci si lancia in solenni appelli e proclami sull’onda della manipolazione mediatica, strumentalizzati a ogni piè sospinto da opinionisti della peggior specie, trascurando la sofferenza e il rischio a cui altri membri del nostro popolo sono esposti ogni giorno, in prima linea per difendere il popolo ebraico tutto. E come se non bastasse, denunciano il timore di essere messi alla gogna, invocando alla bisogna interventi di rabbini dei cui insegnamenti nella loro vita quotidiana ignorano sfacciatamente la maggior parte. Sia chiaro: ognuno ha il diritto di essere ciò che crede sulla base di scelte esistenziali consapevoli e meditate. E nessuno deve permettersi di offendere, minacciare altri solo perché non la pensano come lui. Mi interrogo tuttavia sul perché di tanto sussiego intellettuale, di tanto atteggiamento sprezzante verso chi magari non esibisce quarti di nobiltà culturale o ancora verso chi non ha potuto o voluto darsi una preparazione all’altezza. Intellettuali incapaci di scendere dal proprio Aventino e mescolarsi, condividere con gli altri, con la loro comunità, momenti di gioia e di dolore. Un atteggiamento provocatorio, che si trincera spesso dietro a un vittimistico e piagnucoloso complesso di emarginazione.
A chi oggi rivendica la patente di “ebreo progressista e illuminato”, a chi oggi non riesce neppure a riconoscere un testo della cultura ebraica nella sua basica divisione, a chi invoca e mette in mostra strumentalmente lo spirito dialettico del Talmud senza sapere neppure decifrarne una misera lettera, io dico che sarebbe giunto il tempo di scendere dal piedistallo per mettere al servizio di altri ebrei – più umili e semplici – competenze e cultura, senza snobismi, senza arroganza. E forse insegnare. Ma anche imparare tante cose. Di fronte ai pericoli di oggi, agli interrogativi inquietanti che agitano le nostre Comunità, non possiamo permetterci divisioni interne. A un ebraismo italiano che conta solo 25 mila anime (!), l’antisemitismo che si accompagna alla santificazione retorica della Shoah, il timore per la sopravvivenza fisica di Israele, la minaccia del terrorismo globale che ci vede consapevolmente obiettivi sensibili, tutto questo ci chiama e ci scuote, ci tira per la giacchetta e ci strattona. Ecco allora che una strategia possibile può diventare quella di serrare le fila e riappropriarsi della possibilità di costruire un domani a partire da quel nobile insegnamento dei Profeti – forse un po’ meno trendy di quelli richiamati negli interventi dei nostri intellettuali – “…. betòkh ammì anokhì yoshàvet”, “in mezzo al mio popolo io me ne stò…” (2 RE, 4; 13), sempre e comunque.
(moked, 4 novembre 2024)
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Le parole di Gesù su Gerusalemme dimostrano la restaurazione di Israele
Una confutazione dell'insegnamento secondo cui la Chiesa ha sostituito Israele, e un esame dei passi biblici che contrastano questa posizione del cosiddetto supersessionismo (chiamato anche teologia della sostituzione).
di Michael Vlach
Matteo 23:37-39 e Luca 13:34-35 sono una prova che Gesù si aspettava una futura restaurazione di Israele. Matteo 23:37-39 riporta le parole di Gesù agli abitanti di Gerusalemme:
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Poiché vi dico che d'ora in avanti non mi vedrete più, finché diciate: 'Benedetto colui che viene nel nome del Signore!'”.
Il passo parallelo in Luca 13:34-35 recita in modo simile:
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Io vi dico che non mi vedrete più, finché venga il giorno che diciate: 'Benedetto colui che viene nel nome del Signore!'”.
In questi due testi paralleli, Gesù avverte dell'imminente distruzione di Gerusalemme e del tempio, avvenuta perché gli abitanti ebrei lo hanno rifiutato. Gesù ha anche predetto che gli abitanti di Gerusalemme lo vedranno solo nel giorno in cui diranno: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”.
La predizione che gli ebrei si riferiranno un giorno a Gesù come il “Benedetto” è chiara, ma il modo in cui ciò avverrà è controverso. È questa la confessione degli ebrei disobbedienti su cui si abbatterà il giudizio escatologico, o la proclamazione di un Israele pentito in occasione della sua restaurazione? Noi propendiamo per la seconda ipotesi. Blomberg osserva che la “fede genuina” di Israele traspare dalle parole di Gesù in Matteo 23,39. Gesù sarà chiamato “Benedetto” da una nazione pentita al momento della sua restaurazione. Gundry sostiene che Matteo 23:37-39 “descrive la restaurazione di Israele nel regno del Figlio dell'uomo”. E aggiunge: “La limitazione delle profezie agli scribi e ai farisei (versetti 13-36) elimina la contraddizione tra queste profezie e la prevista conversione di Israele”.
Matteo 23:37-39 parla sia di giudizio che di speranza. La generazione di Israele in quel momento stava affrontando il giudizio, ma allo stesso tempo c'era la speranza di una futura restaurazione. Keener afferma che:
“Questo passo ci ricorda che Dio non dimentica ciò che ha promesso al suo popolo. Matteo lo cita nel contesto delle profezie sull'imminente giudizio, trasformandolo in un messaggio di speranza. La restaurazione di Israele era uno dei temi principali dei profeti biblici ed è menzionata almeno occasionalmente anche nel cristianesimo primitivo (Romani 11:26), anche se l'attenzione dell'apologetica cristiana primitiva si è spostata sempre più sulla missionarizzazione dei gentili”.
Anche Luca 13:34-35 proclama la speranza della restaurazione di Israele. Riferendosi a Luca 13:35, Tannehill spiega: “Il lamento di Gesù su Gerusalemme risuona con la speranza di salvezza per la Gerusalemme restaurata”. Evans ritiene che l'accoglienza favorevole di Gesù da parte dei Giudei, descritta in Luca 13:35, sia legata alla parousia: “Questa parola si riferisce quindi probabilmente alla parousia - a quel momento in cui il regno sarà finalmente restaurato a Israele (Atti 1:6,11). Allora Gerusalemme, dal collo rigido, loderà finalmente il suo Messia, e solo allora i suoi abitanti saranno riuniti sotto l'ala protettiva e premurosa del Messia. L'aspettativa è che la nazione ebraica, anche se non adesso, un giorno riceverà il suo Messia e sarà riconciliata con lui”.
Koenig collega anche la gioiosa accoglienza di Gesù da parte degli ebrei con la parousia e la restaurazione di Israele: “Ma questo significa che la profezia in Luca 13,35 si riferisce a un altro evento futuro. Quest'altro evento è molto probabilmente la parousia - l'arrivo di Gesù a Gerusalemme come Messia e Figlio dell'uomo nel regno di Dio (Luca 21:27; Atti 1:11). In quel giorno, gli abitanti di Gerusalemme si pentiranno della loro cecità e accoglieranno Gesù con parole di lode. Dopodiché, potrà aver luogo la restaurazione finale di Israele”.
Bock sottolinea che la speranza di una futura restaurazione di Israele in Luca 13:35 è confermata in altri passaggi del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli:
“È discutibile se Luca stia parlando di speranza per il futuro di Israele in questo passo. Tuttavia, Luca 21:24 e il sermone degli Atti 3 dimostrano che Gesù e la Chiesa mantenevano questa speranza. Credevano che alla fine Dio avrebbe restaurato il suo popolo. Il Nuovo Testamento mostra addirittura che questo evento precederà il ritorno di Cristo, ed è per questo che Luca si riferisce al presente come al “tempo delle nazioni””.
Se vogliamo comprendere correttamente la frase “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”, allora dobbiamo tenere presente che si tratta dell'esclamazione gioiosa di un popolo pentito che sperimenterà una restaurazione e non del grido di un popolo condannato che sarà sottoposto al giudizio. Questo grido, citato in Matteo 23:39 e Luca 13:35, proviene dal Salmo 118:26. Il Salmo 118 è una preghiera di ringraziamento per la bontà salvifica di Dio. Evans afferma: “I rabbini hanno inteso il Salmo 118:26 come un riferimento al giorno della redenzione”.
Il tono gioioso del Salmo 118 suggerisce che anche la citazione in Matteo 23:39 e Luca 13:35 si riferisce a un'occasione gioiosa - la liberazione di un popolo restaurato. In relazione alla sua osservazione che gli ebrei consideravano il Salmo 118 come un salmo messianico di lode, Saucy spiega: “È molto più probabile che questa affermazione, che segue l'annuncio del giudizio, debba essere intesa come una promessa di una gioiosa accoglienza del Messia da parte degli abitanti di Gerusalemme”. Secondo Helyer, “è ovvio che si tratta della futura conversione di Israele (cfr. Romani 11,25-26). L'idea che l'esclamazione sia una confessione forzata della sovranità del Signore non è molto credibile, soprattutto se consideriamo il contesto della citazione del Salmo 118,26”.
Anche Bock contraddice l'idea che l'esclamazione degli ebrei esprima una confessione forzata di Gesù: “Un'altra spiegazione errata è che gli ebrei saranno costretti a riconoscerlo al ritorno di Gesù. La citazione del Salmo 118 è positiva e non si basa su una confessione forzata, ma convinta, di Gesù”. Matteo 23:39 e Luca 13:35 possono quindi essere considerati una prova della restaurazione del popolo d'Israele.
I teologi della sostituzione hanno criticato le interpretazioni di questi passi. Secondo France, ci sono “due fattori” che contrastano con l'idea che Gesù abbia predetto una salvezza nazionale di Israele. In primo luogo, France sostiene che le parole “finché non dicano” in Matteo 23:39 “non esprimono un fatto concreto in greco, ma una possibilità indefinita”. È “la condizione da cui dipende se lo vedranno di nuovo; ma non c'è alcuna certezza che questa condizione si realizzi”. In secondo luogo, France ritiene che, alla luce dell'annuncio del giudizio in Matteo 23 e 24, sia impossibile che Gesù abbia parlato di una speranza futura per il popolo di Israele nello stesso contesto:
“La predizione di una futura conversione non solo sarebbe in contraddizione con il fulcro dei capitoli 23 (di cui questi versetti sono il culmine) e 24, che riguardano il giudizio imminente, ma anche con il messaggio complessivo del Vangelo, che parla più volte dell'ultima possibilità di Israele e di un nuovo, internazionale popolo di Dio (8,11-12; 12,38-45; 21,40-43; 22,7; 23,32-36; ecc.)”.
Secondo i supersessionisti, il contesto del giudizio in Matteo 23:39 dimostra che Gesù non stava parlando di una futura salvezza o restaurazione di Israele in questo passo. Noi sosteniamo invece che in linea di principio non c'è contraddizione logica tra questo giudizio e la speranza per Israele dopo il tempo del giudizio. Goppelt scrive: “Matteo 23:39 potrebbe riferirsi a un incontro salvifico di Israele con il Signore che ritorna alla parousia”.
Anche Lange ritiene che Matteo 23:39 “contenga l'allusione a una futura conversione”.
Anche in mezzo al sobrio annuncio del giudizio, c'è quindi un barlume di speranza. Matteo 23,37-39 e il passo parallelo in Luca 13,35 predicono un giorno in cui gli abitanti di Gerusalemme accoglieranno con gioia il loro re. Senior osserva: “Secondo il Vangelo di Matteo, il rifiuto di Gesù da parte delle autorità è effettivamente un grave peccato che porterà al giudizio divino, ma la storia del rapporto di Dio con Israele non finisce qui. Verrà il giorno in cui Gerusalemme accoglierà di nuovo il suo Messia con grida di lode”. Ladd considera correttamente anche Matteo 23:37-39 come una prova che “Israele sarà salvato”. Il passo è anche una prova che l'offesa di Israele non è definitiva: “Questo rigetto [di Israele] non è definitivo e irrevocabile; verrà il giorno in cui Israele dirà: ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’ (versetti 37-39). Il regno di Dio non sarà tolto ai Giudei nel senso che saranno scacciati per sempre, ma «tutto Israele» sarà salvato e incluso nel piano redentivo di Dio”.
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Estratto da Hat die Gemeinde Israel ersetzt?
(Nachrichten aus Israele, novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Usa in campo per una tregua elettorale, Hamas e Iran dicono no
È un accordo che dev’essere assolutamente trovato prima delle elezioni americane. Brett McGurk e Amos Hochstein, il primo come coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente e il Nord Africa, il secondo in qualità d'inviato di Washington, stanno facendo la spola tra Beirut e Gerusalemme. Obiettivo: concordare una proposta per porre fine alle ostilità tra Israele ed Hezbollah. Anche il capo della Cia, William Burns, e il comandante del Centcom (Comando delle forze armate Usa), il generale Michael Kurilla, sono impegnati in incontri e colloqui per far cessare il fuoco. È intenzione del presidente americano, Joe Biden, anche se i tempi stringono, portare a casa un risultato negoziale utile per l'attuale vicepresidente e candidata alle presidenziali, Kamala Harris. Secondo alcune indiscrezioni trapelate, il piano prevederebbe un cessate il fuoco di sessanta giorni, un tempo sufficiente per far applicare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, risalente, tra l’altro, all’agosto 2006 e che prevede nel Libano meridionale il dispiegamento congiunto di forze libanesi e Unifil, in vista di una cessazione completa delle ostilità tra Israele ed Hezbollah. In sostanza nulla di nuovo. Risoluzione, che non è mai stata attuata, e che la mancata attuazione ha favorito il recente attacco israeliano contro Hezbollah, l’organizzazione politico-militare, sostenuta dall'Iran e particolarmente attiva nel sud del Libano, al confine con lo Stato ebraico. «Si sta facendo il possibile per trovare una soluzione diplomatica che faccia applicare in modo definitivo la risoluzione 1701 e consenta ai cittadini, sia israeliani che libanesi, di tornare alle loro case», ha affermato Sama Habib, portavoce dell'ambasciata statunitense a Beirut. Nella bozza dell’eventuale accordo è previsto, nei dettagli, il ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani, distante venticinque chilometri dalla frontiera israeliana, il posizionamento dell'esercito libanese lungo il confine e una forza di interposizione internazionale che faccia rispettare la tregua. Ma c'è un altro punto controverso: Israele pretende la libertà di azione ogni qualvolta lo riterrà utile e si sentirà minacciato. Le condizioni sono state messe nero su bianco. Il premier libanese, Najib Miqati, è ottimista, possibilista il nuovo leader di Hezbollah, Naim Qassem, che nel corso del suo primo intervento pubblico, oltre a sottolineare la continuazione con l'opera del suo predecessore, compresa la lotta contro Israele, ha anche dichiarato che non chiederà un cessate il fuoco, ma «se Israele decide di fermare l’aggressione, Hezbollah potrebbe accettare, alle condizioni che ritiene appropriate». Qassem ha anche negato che il gruppo stia «combattendo per conto di qualcun altro», aggiungendo che l’aiuto dell'Iran non prevede nulla in cambio. Non la pensa allo stesso modo Hamas che respinge qualsiasi proposta di sospensione temporanea. Con un post sui social, Taher al-Nunu, alto dirigente del gruppo terroristico ha scritto che «l’idea di una pausa momentanea nella guerra, per poi ricominciare, è qualcosa su cui abbiamo già espresso la nostra posizione. Hamas sostiene la fine permanente delle ostilità, non una temporanea». Nella proposta della bozza, non ancora consegnata ad Hamas, in discussione a Doha, tra il capo del Mossad, David Barnea, il direttore della Cia, Bill Burns, e il primo ministro del Qatar, è previsto lo scambio degli ostaggi israeliani con palestinesi prigionieri nelle carceri d’Israele e il ripristino duraturo degli aiuti a Gaza. Si ritiene che 97 dei 251 ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre 2023 siano ancora vivi, mentre circa trenta siano i corpi dei prigionieri uccisi da riportare in territorio israeliano. Vanno aggiunti anche due civili israeliani, entrati nella Striscia nel 2014 e nel 2015, e i corpi di due soldati dell’Idf uccisi nello stesso periodo. Nonostante si stiano alimentando delle aspettative di tregua, la guerra non si è mai fermata, infatti il cammino dei mediatori è in forte salita. Da Teheran, nel frattempo, arriva una doccia fredda: secondo fonti del Mossad, l’Iran si sta preparando ad attaccare Israele prima delle consultazioni presidenziali americane. La guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, ha dato l’ordine di predisporre una rappresaglia contro Israele. L'attacco dovrebbe avvenire tramite milizie filoiraniane presenti in Iraq, per evitare che Israele indirizzi nuovamente la risposta sulle basi iraniane già colpite duramente dalla precedente offensiva. Nel nord d’Israele, cinque persone sono state uccise e una è rimasta gravemente ferita da un razzo lanciato dal Libano e caduto in un terreno agricolo, nelle vicinanze della città di Metula. Le vittime erano braccianti impegnati in un frutteto di mele. Si tratta di un cittadino israeliano e di quattro stranieri. Altre due persone sono rimaste uccise, dalle schegge di un drone, mentre si trovavano in un uliveto fuori dal sobborgo di Kiryat Ata, nel distretto di Haifa. Il bilancio, in un solo giorno, è stato tra i più alti, da quando Hezbollah ha iniziato a lanciare razzi e droni nel nord di Israele. È il secondo, dopo l'uccisione di dodici bambini in un parco nella città drusa di Majdal Shams. Ma anche l'esercito israeliano continua a mietere vittime. In Libano, sono state uccise quasi cento persone negli attacchi contro la città orientale di Baalbek e in quella meridionale di Nabatiyeh, nella valle della Bekaa. L'attacco israeliano è avvenuto in concomitanza con il primo discorso del nuovo leader di Hezbollah, Naim Qassem, nel ruolo di segretario generale del movimento sciita filoiraniano. «È stato il giorno più duro per Baalbeck dall’inizio dell'attacco di Israele», ha dichiarato Bachir Kheder, governatore della regione. La Striscia è ridotta ad uno spettacolo spettrale, terrificante. L'ottanta per cento delle abitazioni è stato raso al suolo, la popolazione non ha più né viveri, né di che nutrirsi, ma soprattutto scarseggiano i medicinali. Mentre i bambini, i più indifesi, risultano essere la maggioranza delle vittime. Ieri mattina, le bombe sganciate dai droni israeliani hanno colpito un mercato nella zona di Sheikh Radwan, a Gaza City, provocando molti feriti. Almeno venticinque i morti a Deir el-Balah, nel campo profughi di Nuseirat e nella zona di az-Zawayda. Dal 7 ottobre 2023, il bilancio registra il decesso di 43.163 persone e il ferimento di altre 101.510. Anche l'esercito israeliano ha subito pesanti perdite. Secondo l’Idf, i soldati uccisi dall’inizio delle ostilità sono oltre 900.
(Daily Compass, 2 novembre 2024)
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Lo sbarco notturno e l'irruzione nello chalet: blitz dei commando israeliani in Libano
Le forze speciali di Israele hanno fatto irruzione in uno chalet sulla costa di Batroun e hanno catturato una persona. Si tratterebbe di Imad Amhaz, un alto funzionario libanese di Hezbollah
di Federico Giuliani
L'irruzione improvvisa, la cattura del bersaglio, la fuga. I commando della Marina israeliana hanno completato con successo un blitz chirurgico nel nord del Libano arrestando Imad Amhaz, un alto funzionario libanese di Hezbollah. Le forze speciali dell'esercito di Tel Aviv sono entrati in uno chalet situato sulla costa di Batroun, a sud di Tripoli, e sono usciti portando con sé una persona. L'unità è quindi tornata in mare abbandonando la zona a bordo di motoscafi al termine di una mossa improvvisa e senza precedenti. Secondo quanto riferiscono i media arabi, un gruppo formato da circa 25 soldati armati ha effettuato uno sbarco navale e catturato un uomo. Il ministro dei Lavori e dei Trasporti di Beirut, Ali Hamiyah, ha negato "che il suo ministero abbia rilasciato commenti o dichiarazioni su quanto circolato sullo sbarco a Batroun", e spiegato che la ricostruzione di quanto avvenuto "spetta ai servizi di sicurezza e alle autorità competenti".
• IL BLITZ DI ISRAELE IN LIBANO: CHE COSA È SUCCESSO La vicenda è avvenuta all'alba di venerdì. Le agenzie di stampa libanesi parlano di un rapimento andato in scena a Batroun e scrivono che le indagini sono in corso. Una fonte citata dall'Orient Today ha negato la notizia diffusa sui social network secondo cui l'obiettivo della cattura israeliana coincidesse con un presunto capitano delle forze navale libanesi. Al contrario, l'uomo misterioso prelevato dal commando di Tel Aviv sarebbe una persona legata ad Hezbollah. La nebbia è però ancora fitta e ci sono pochissimi particolari disponibili. Le riprese catturate dalle telecamere di sorveglianza dell'area mostrano circa quindici soldati armati che prendono con forza quello che sembrerebbe essere un civile.
La National News Agency, l'agenzia stampa ufficiale del governo libanese, ha confermato che è stata aperta un'indagine. Ha anche citato testimonianze locali su un'"operazione di forze armate non identificate" sulla spiaggia di Batroun. Questi uomini sarebbero entrati in uno "chalet", uno studio sul mare, per rapire "un cittadino libanese" prima di lasciare la zona in motoscafo. Fonti della sicurezza hanno riferito a LBCI, la rete televisiva libanese, che l'individuo preso di mira è identificato dalle iniziali IA e hanno suggerito che il rapimento potrebbe coinvolgere le forze navali israeliane. Al Jazeera ha invece menzionato una "incursione marittima da parte di commando israeliani". I media israeliani sostengono che la persona coinvolta, come detto, sarebbe Imad Amhaz, e cioè un alto funzionario di Hezbollah.
• HEZBOLLAH NEL MIRINO DELLE IDF In attesa di capire cosa è accaduto a Batroun, le Forze di difesa israeliane (Idf) continuano ad eliminare i membri di Hezbollah. L'esercito israeliano ha riferito di aver ucciso due comandanti del gruppo filo iraniano nell'attacco sferrato ieri nella zona di Tiro in Libano. Si tratta di Moein Musa Izz al-Din, il comandante dell'unità regionale costiera di Hezbollah, e Hassan Majed Diab, il comandante dello schieramento di artiglieria dell'unità. Secondo l'Idf, Diab era responsabile di un lancio di razzi sulla zona della baia di Haifa giovedì, che ha ucciso una madre e un figlio, e del lancio di più di 400 altri razzi nell'ultimo mese.
In precedenza, Tel Aviv aveva dichiarato di aver colpito depositi di armi e basi del gruppo in Siria. L'aviazione israeliana, nello specifico, ha spiegato di aver colpito obiettivi vicino a Qusair, una città nella Siria occidentale al confine con il Libano. L'esercito sostiene che Hezbollah ha recentemente iniziato a immagazzinare armi lungo il confine siro-libanese nel tentativo di contrabbandare dispositivi bellici nel Paese dei cedri.
Dall'inizio dell'invasione di terra di Israele in Libano, l'esercito ha colpito più volte i valichi di frontiera fra Libano e Siria, sostenendo che servivano come vie per il contrabbando di armi.
Secondo i gruppi umanitari, gli attacchi hanno intensificato una crisi già grave, bloccando le vie principali per i rifornimenti e impedendo l'accesso alle persone in fuga. Tre dei sei valichi di frontiera ufficiali fra i due Paesi sono stati chiusi a causa degli attacchi aerei, costringendo le persone in fuga dal Libano a lunghe deviazioni o a muoversi a piedi.
(il Giornale, 2 novembre 2024)
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Bill Clinton: “Hamas non ha interesse a uno Stato palestinese. Arafat non mi ha detto la verità”.
In occasione di un comizio elettorale per Kamala Harris in Michigan, l'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha descritto la realtà del conflitto tra Israele e i palestinesi e ha puntato il dito contro l'Autorità palestinese e Hamas.
L'ex presidente democratico ha detto a un pubblico in gran parte filo-palestinese: “Lasciate che vi parli dell'argomento più difficile qui in Michigan: il Medio Oriente. Penso che dovremo ricominciare il processo di pace da capo. Capisco perché i giovani palestinesi e arabo-americani del Michigan pensano che troppe persone abbiano perso la vita da allora. Ma le persone che vivevano in quei kibbutzim, proprio accanto a Gaza, erano le più favorevoli all'amicizia con i palestinesi, le più favorevoli alla soluzione dei due Stati di tutta l'opinione pubblica israeliana. E Hamas li ha massacrati”.
Ha poi difeso la posizione di Israele dal 7 ottobre, evidenziando il cinismo di Hamas: “Le persone che criticano Israele dicono ‘sì, ma guardate quante persone sono state uccise in cambio’. Ma cosa avreste fatto se fosse stata la vostra famiglia ad essere massacrata? Se foste sempre stati a favore di una patria palestinese e un giorno venissero a massacrare la gente del vostro villaggio? Hamas usa i civili per proteggersi. Ti costringono a uccidere i civili se vuoi difenderti”.
Il Presidente Clinton ha ripercorso gli anni trascorsi alla Casa Bianca e il ruolo di mediatore che ha cercato di svolgere nel 2000 tra Ehud Barak, allora Primo Ministro israeliano, e Yasser Arafat, durante i colloqui di Camp David: “Ho lavorato duramente. L'unica volta che Yasser Arafat non mi disse la verità fu quando mi promise che avrebbe accettato l'accordo. Questo accordo dava ai palestinesi uno Stato sul 96% della Cisgiordania e avrebbero deciso dove sarebbe stato il 4% per Israele. I palestinesi ottennero anche Gerusalemme Est come capitale, due dei quattro quartieri della Città Vecchia e il controllo delle torri di sicurezza di Israele in Cisgiordania. Tutto questo era stato approvato dal primo ministro israeliano Ehud Barak e dal suo gabinetto. E loro (i palestinesi) hanno detto no”.
E ha aggiunto: “Penso che tutto questo sia dovuto al fatto che Hamas non si preoccupa di una patria per i palestinesi, ma vuole solo uccidere gli israeliani e rendere Israele inabitabile”. Beh, ho una notizia per voi: gli ebrei erano lì prima, prima che la loro nazione esistesse. Erano lì al tempo del re Davide in Giudea-Samaria”.
Rivolgendosi agli elettori del Michigan: “Quando sento elettori del Michigan che non vogliono votare per i Democratici a causa del loro impegno per impedire la distruzione di Israele, penso che sia un errore. Penso che dobbiamo sempre cercare un modo per condividere un futuro comune. Non abbiamo il diritto di distruggere la via d'uscita da questo conflitto, nessuna delle due parti ha questo diritto. Non fraintendetemi, abbiamo l'Iran, un Paese sciita, Hezbollah, una setta sciita, gli Houthi, una setta sciita e ora anche Hamas, sunnita, che sono uniti nel pensare che l'unica cosa da fare sia espellere tutti gli ebrei da Israele. Mi dispiace, ma sono contrario. Penso che sia sbagliato. È in contraddizione con tutto ciò che sosteniamo e alla fine sarà un male per il popolo palestinese. Non dimenticherò mai Arafat quando mi disse che avrebbe accettato questo accordo. Gli dissi: “Pensi che mi importi dei bambini palestinesi?” e lui rispose: “Molto più di quanto importi agli arabi”. Mi disse che gli arabi si preoccupavano dei palestinesi solo quando potevano incolpare gli Stati Uniti e Israele per la rabbia nelle loro strade. L'argomento è molto più complesso di quanto non sappiate. Vi chiedo di mantenere una mente aperta. Kamala Harris ha detto di voler porre fine alla violenza e alle morti e di voler avviare un nuovo processo di pace, e questo dovrebbe essere sufficiente”.
(LPH INFO, 2 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dobbiamo imparare ad essere pazienti
Gli israeliani sono spesso impazienti. Vogliono tutto “qui e ora”.
di Aviel Schneider
Gli israeliani vogliono la pace “qui e ora” - Pace adesso. Gli israeliani vogliono il Messia “qui e ora” - Messia adesso. Gli israeliani vogliono gli ostaggi “qui e ora” - Ostaggi adesso. Gli israeliani vogliono un insediamento ebraico nella Striscia di Gaza “qui e ora” - Gaza adesso. Gli israeliani vogliono che la guerra finisca “qui e ora” - Vittoria adesso.
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Adesso! Gli israeliani chiedono il rilascio degli israeliani tenuti in ostaggio dai terroristi di Hamas nella Striscia di Gaza durante una manifestazione in “Piazza degli ostaggi” a Tel Aviv il 26 ottobre 2024.
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GERUSALEMME - Questo siamo noi e tutti rientrano in qualche gruppo. Gli israeliani non vogliono perdere tempo, a nessun costo. Il tempo è costoso, il tempo è denaro. Gli arabi fanno esattamente il contrario, giocano con il tempo. Non c'è nulla di affrettato. Gli israeliani non hanno pazienza per la “pazienza strategica”. Credo sia giunto il momento di imparare a essere più pazienti. “Rallegratevi nella speranza, siate pazienti nella tribolazione, perseverate nella preghiera”, dice San Paolo nel Nuovo Testamento [Romani 12:12, ndt]. È vero, ma non sempre è facile da mettere in pratica. Per decenni, gli iraniani hanno perseguito una politica di “pazienza strategica”, giocando a scacchi in Medio Oriente. Su alcune questioni, i persiani deliberatamente non agiscono subito. per ottenere vantaggi a lungo termine. Pazienza strategica significa usare il tempo per consolidare le posizioni e non reagire alle pressioni dell'opinione pubblica che chiede soluzioni rapide. Credo che il 7 ottobre abbia scosso molti israeliani dalla loro mentalità “qui e ora”. Il trauma di questo evento ci ha fatto capire che se vogliamo garantire la nostra esistenza in questa regione pericolosa, è necessario un profondo cambiamento strategico in Medio Oriente. Questo richiederà tempo e perseveranza. Quando all'inizio della guerra si parlava di una durata di uno o due anni, la gente non l'aveva interiorizzato perché eravamo abituati a guerre brevi. Questo è stato un concetto di guerra fin dalla fondazione dello Stato di Israele. Perché Israele non poteva permettersi guerre lunghe. Colpo su colpo. Abbiamo tutti continuato a pensare in termini di brevi round militari che duravano solo un mese o due. Chi nel Paese chiedeva a gran voce soluzioni rapide, accusava il Primo Ministro Benjamin Netanyahu di avere motivazioni politiche. Ma la pazienza ha pagato. Ci è voluta fino a quando le forze di terra sono avanzate nel nord della Striscia di Gaza, fino a quando abbiamo preso Rafah e riconquistato l'intero corridoio di confine di Philadelphia, fino a quando abbiamo sconfitto Hezbollah in Libano. E probabilmente ci vorranno ancora molti mesi prima che ci siano le condizioni per colpire la “testa del serpente iraniano”, cioè per attaccare e distruggere gli impianti nucleari in Iran - e quindi rovesciare il regime del Paese. Un altro obiettivo della guerra è la liberazione degli ostaggi israeliani nella Striscia di Gaza. Anche questo richiede una “pazienza strategica”, che è probabilmente la pazienza più crudele di tutte. A causa del fallimento del governo israeliano, dobbiamo esigere da noi stessi una pazienza strategica per poter liberare i nostri ostaggi in qualche modo e a un certo punto. E gran parte della popolazione israeliana non può sopportarlo. Da un lato, si può comprendere la situazione dei parenti che scendono in strada per chiedere aiuto per i loro cari. Ciò che è meno comprensibile è quando queste o alcune famiglie vengono strumentalizzate da organizzazioni politiche per attaccare il governo nelle strade. Hamas ha osservato le nostre proteste dai tunnel sotterranei del Paese per più di un anno e si sta sfregando le mani per la gioia. Gli israeliani sono impazienti e stanno servendo l'obiettivo tattico di Hamas. In ogni caso, credevano che questa pressione avrebbe messo all'angolo il primo ministro israeliano, che avrebbe accettato ulteriori compromessi. Ma ciò non è accaduto. Dai documenti di Yahya Sinwar a Gaza, rivelati dal Wall Street Journal, emerge chiaramente che la spinta per una soluzione rapida ha portato Sinwar a credere che il tempo giocasse a suo favore, poiché le proteste e le spaccature nella coalizione avrebbero costretto il governo a porre fine alla guerra prima che i suoi obiettivi fossero raggiunti. Questa mentalità del “qui e ora” influisce sulla capacità di riportare indietro gli ostaggi. Questo sarà possibile da una posizione di forza e di chiara vittoria solo se i nostri nemici capiranno che stiamo pensando a lungo termine e non ci faremo influenzare dalle loro manipolazioni emotive. Non è facile chiedere una pazienza strategica agli ostaggi e alle loro famiglie. Vivere 24 ore su 24 per più di un anno con la consapevolezza e il pensiero che i loro cari sono nell'inferno di Gaza è inimmaginabile. Sono l'ultima persona a criticare queste famiglie, anche se il loro comportamento fa il gioco dei nostri nemici. “Dalla conoscenza di Dio deriva l'autocontrollo. Dall'autocontrollo deriva la pazienza, e dalla pazienza deriva una vita di fede e di fiducia in Dio” [2Pietro 1:5-6, ndt]. La storia di Giobbe è probabilmente la più nota storia di pazienza della Bibbia. Nonostante tutto quello che Giobbe dovette affrontare, rimase paziente e confidò in Dio, il che in definitiva fu una “pazienza strategica”. Giobbe ha perso molto, ma ha guadagnato ancora di più. Il “qui e ora” è una reazione infantile che non è appropriata nella regione pericolosa in cui viviamo. La “pazienza strategica”, invece, è il comportamento di una nazione matura e responsabile che pensa a lungo termine. Ma questo non è il comportamento della società israeliana. Vogliamo davvero risolvere tutto “qui e ora” - e questo non funziona nella nostra realtà come vorremmo.
(Israel Heute, 2 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Kfar Aza, ricostruire il paradiso perduto
«A più di un anno dal massacro del 7 ottobre, dalla distruzione e dall’incendio, nelle ultime due settimane nel kibbutz Kfar Aza si sentono i rumori di lavori e speranza, non solo il boato dei cannoni e razzi», racconta Or Heller, corrispondente militare dell’emittente Reshet 13. Dal 15 ottobre la desolazione di Kfar Aza, tra le comunità più colpite dall’attacco di Hamas, si è trasformata in un via vai di volontari. Decine di persone hanno aderito a un progetto per ricostruire 16 unità abitative di uno dei quartieri del kibbutz. «La risposta delle persone da tutto il paese è straordinaria. Tutti vogliono unirsi, contribuire e dare qualcosa per la riqualificazione dell’area», ha spiegato ai media israeliani Omri Ronen, uno dei promotori del progetto.
I suoi nonni, Akiva e Nira, erano tra i fondatori nel 1951 di Kfar Aza. Rimasta vedova, Nira aveva continuato a vivere nel kibbutz, aiutata dalla sua badante, Angelyn Aguirre. Il 7 ottobre le due donne sono state assassinate dai terroristi palestinesi. «Avevo parlato con mia nonna quella mattina», ha ricordato in aprile Ronen in un’intervista a ynet. «Lei aveva sentito degli spari fuori dalla porta. L’avevo tranquillizzata. Ero certo che qualcuno sarebbe venuto ad aiutarla, ma non è arrivato nessuno. Che razza di animali uccidono una donna di 86 anni e la sua badante?». Tornato per la prima volta in aprile a Kfar Aza, Ronen ha scoperto un macabro messaggio lasciato dai terroristi in un taccuino della nonna. «Le Brigate Izz ad-Din al-Qassam sono passate di qui e hanno rimosso gli occupanti sionisti. Morirete e non resterete qui».
«Se pensano di intimidirci si sbagliano. Questo luogo è dei miei nonni, è mio, è nostro», ha replicato Ronen, soldato in una delle unità di élite di Tsahal. «Dobbiamo ricostruire tutte le comunità del sud, espanderle e svilupparle il più rapidamente possibile». E così, qualche mese dopo ha preso piede il progetto di riqualificazione di una parte di Kfar Aza. Oltre alla dirigenza del kibbutz, nel lavoro è coinvolta l’associazione Brothers and Sisters in Arms ed è stata avviata una raccolta fondi per sostenere l’iniziativa. «Questa è diventata la missione della mia vita», ha scritto Ronen in un appello pubblico. «Cerchiamo volontari con competenze professionali, aziende che vogliano donare attrezzature, e persone di buon cuore pronte a contribuire. Venite a posare mattonelle di speranza e a far tornare il kibbutz Kfar Aza il paradiso che era». In poche settimane, decine di persone hanno risposto e i lavori di ristrutturazione sono iniziati.
(moked, 2 novembre 2024)
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“Cari amici di Israele”
Editoriale di “Nachrichten aus Israel”
di Fredi Winkler
HAIFA - La guerra di Israele contro il Libano è iniziata in un modo completamente diverso da quello che la maggior parte delle persone avrebbe immaginato. In Israele il governo è stato accusato da più parti di non avere un piano d'azione. Tuttavia, questa accusa era fuori luogo, soprattutto perché il governo israeliano non avrebbe mai illustrato i suoi piani ai media per dare al nemico un preavviso. Al contrario, i media sono un mezzo per ingannare il nemico. I dirigenti di Hezbollah pensavano che i loro telefoni cellulari non fossero sicuri perché Israele poteva localizzarli con questi dispositivi. Erano convinti che i cercapersone sarebbero stati più sicuri e così Hezbollah si è rifornito di cercapersone. Come Israele sia riuscito a preparare questi cercapersone con esplosivi e a distribuirli tra i sostenitori di Hezbollah rimarrà probabilmente un mistero per molto tempo. Ma tutto ciò dimostra quanto Israele sia riuscito a infiltrare Hezbollah. Hezbollah ha molti nemici in patria e Israele ha ucciso diversi suoi leader. Quando i cercapersone hanno iniziato a esplodere, la situazione è diventata sempre più minacciosa per il suo leader Hassan Nasrallah. Ma nemmeno il bunker più profondo, con il suo cemento spesso un metro, è riuscito a salvarlo. Il modo in cui Israele lo ha localizzato e poi ucciso è stato un capolavoro militare. La prima parte della leadership di Hezbollah è ora morta e Hezbollah ha vissuto lo shock della sua vita. Ora Israele ha iniziato a invadere il Libano per distruggere le strutture sotterranee. Sarà una battaglia in salita per stanare e scacciare Hezbollah. Un leader religioso iraniano ha affermato pubblicamente che il motivo per cui Israele ha così tanto successo e per cui è riuscito a liquidare Nasrallah è che gli spiriti demoniaci lo stanno aiutando. Gli ebrei hanno sempre avuto accesso agli spiriti demoniaci. Questa affermazione dimostra che i leader religiosi in Iran hanno capito che qualcosa non sta andando normalmente in questa guerra contro Israele. Quanti miliardi hanno investito per distruggere il piccolo Israele, ma non ci stanno riuscendo. Sembra che abbiano capito che dietro Israele c'è un potere contro il quale non possono fare nulla. Tutto ciò che è accaduto al popolo d'Israele in passato e che sta accadendo oggi, sta accadendo perché Dio vuole rendere grande, santo e conosciuto il suo nome, come si legge in Ezechiele 38:23: “Io mi farò grande e santo e mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, ed esse sapranno che io sono il Signore!”. E ancora nel capitolo 39:21-22: “Mostrerò la mia gloria tra le nazioni e tutte le nazioni vedranno il mio giudizio che ho eseguito e la mia mano che ho steso su di loro. E la casa d'Israele saprà che io, il Signore, sono il loro Dio da oggi e per sempre”. Dio non solo vuole dimostrarsi grande e santo davanti a tutte le nazioni, ma anche davanti al suo popolo, Israele. Molti in Israele si sono allontanati da colui che li ha guidati attraverso il deserto in una colonna di nube e di fuoco. Ma lui vuole ricondurli a sé.
(Nachrichten aus Israel, novembre 2024)
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«Se uniti contro il terrorismo, arabi e israeliani saranno invincibili»
Da anni si dedica al dialogo tra arabi (musulmani e cristiani) ed ebrei nello Stato di Israele. Dopo il 7 ottobre il suo impegno si è rafforzato. Perché, spiega, «la minaccia terroristica ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo fortunati a vivere in un Paese democratico e libero»
di David Zebuloni
In molti non lo sanno, ma su dieci milioni di cittadini israeliani, due milioni sono arabi. Proprio così. Camminando per le vie dello Stato ebraico, si ha la probabilità di incontrare un arabo, musulmano o cristiano, ogni cinque passanti. Una statistica importante per uno Stato continuamente accusato di apartheid. Gli arabi israeliani esistono, esistono eccome, e dal 7 ottobre vivono una crisi identitaria che mette in dubbio il loro io più interiore. “Chi sono? A chi appartengo? In cosa credo?” si domandano e, spesso, non trovano una risposta. A sciogliere i loro (e i nostri) dubbi è Yoseph Haddad, un giornalista e attivista arabo-israeliano che dal 2018 si prodiga a favore del dialogo tra i due popoli, esprimendosi apertamente, con grande coraggio, contro il regime totalitario di Hamas e condannando ogni forma di terrorismo di matrice islamica in Israele. Così, nell’ultimo anno, Yoseph è diventato uno dei volti più amati e conosciuti in Israele: colui che riesce a mettere d’accordo tutti pur non assecondando mai nessuno, se non se stesso e la sua integrità morale e intellettuale.
Da un anno a questa parte, infatti, Yoseph impiega le sue piattaforme sociali, con centinaia di migliaia di followers, a favore della causa israeliana, raccontando lo Stato ebraico così come nessun altro è riuscito a fare prima e dopo di lui. Forse, anche perché considerato obiettivo rispetto alla causa, non essendo ebreo. Il suo volto è presto diventato noto in tutto il mondo. Yoseph è apparso sugli schermi di Sky News, Fox News, CNN, BBC, difendendo sempre il diritto di Israele a esistere e creandosi così molti amici, e anche una bella dose di nemici.
Nessuna paura: nonostante riceva decine e decine di minacce di morte al giorno, nulla e nessuno può fermare Yoseph Haddad. Lo incontro a Tel Aviv per intervistarlo e scoprire i conflitti interni che affliggono gli arabi israeliani, ma scopro invece che parlare con lui è pressappoco impossibile. Ogni cinque minuti, qualcuno ci interrompe. Le parole pronunciate dai suoi ammiratori, poi, sono sempre le stesse. Come se leggessero tutti dallo stesso copione. “Sei il mio eroe Yoseph. Grazie di tutto quello che fai per Israele. Mi dai speranza per il futuro. Possiamo farci un selfie?”, sento ripetere una dozzina di volte in un’ora. All’inizio sbuffo infastidito, poi mi commuovo anch’io. Sentendolo parlare, non riesco proprio a trattenere le lacrime.
Dopo un anno privo di speranza, Yoseph riesce a convincermi che andrà tutto bene. E per un qualche inspiegabile motivo, nonostante non sia un politico, o un esperto militare, o un’autorità spirituale, io gli credo. Gli credo davvero. Quando finiamo l’intervista, ci casco anch’io: lo abbraccio, lo ringrazio, gli chiedo un selfie proprio come hanno fatto tutti i suoi ammiratori estasiati e inopportuni prima di me. Lui mi abbraccia, mi ringrazia a sua volta, sorride al selfie. Tuttavia, quando pronuncio la parola “coesistenza”, Yoseph mi ammonisce come se avessi detto una parolaccia. “Non parlare mai di coesistenza”, mi spiega con fervore. “Siamo seduti al bar da un’ora, già coesistiamo perfettamente. Ora dobbiamo solo imparare a dialogare e a fidarci l’uno dell’altro. Tutto qui”.
- Yoseph, quanto è difficile essere sia arabo che israeliano? La dissonanza fa parte della mia vita da sempre. Pensa: ho tre identità io. Sono arabo, sono cristiano e sono israeliano. Non è facile conciliare tre mondi a tratti contrastanti, eppure ci sono riuscito. Ci riesco ogni giorno. Un tempo pensavo che le mie identità si indebolissero a vicenda. Oggi invece so che si danno forza l’un l’altra.
- Perché oggi sei adulto e consapevole, trovi una risposta a ogni domanda, ma mi immagino il Yoseph bambino. Chi rispondeva alle sue domande? Quando ero bambino mi ponevo meno domande. Andavo a giocare a calcio a Haifa con gli amici e tutto ciò che mi interessava era fare gol. Poco importava se il portiere fosse arabo o israeliano. Eravamo una squadra. Amici. Fratelli. A volte discutevamo, certo, ma eravamo sempre d’accordo su un punto fondamentale: Israele è casa nostra. Di tutti noi. Una casa che ospitava tante culture diverse. A tredici anni conoscevo alla perfezione tutte le tradizioni ebraiche e i miei amici conoscevano alla perfezione tutte le tradizioni cristiane e la cultura araba dalla quale provengo. Io andavo a casa loro a fare il Seder di Pesach e loro venivano a casa mia a festeggiare il Natale. Loro erano fieri di essere ebrei, io ero fiero di essere arabo e cristiano. Tutti eravamo orgogliosi di essere israeliani.
- Descrivi un mondo ideale, in cui tutto avviene in modo naturale, facile, spontaneo. Nella realtà, tutto è difficile. Ti sbagli. Gli estremisti da entrambe le parti ci fanno credere che tutto sia difficile, nella realtà arabi e israeliani desiderano vivere insieme. Su una questione sono d’accordo con te: potremmo essere molto più uniti. Siamo ancora troppo distanti. Gli israeliani non conoscono abbastanza bene l’arabo e gli arabi non conoscono abbastanza bene l’ebraico. Abitiamo in quartieri lontani. Quando ci incontriamo per la prima volta? All’università, in maggiore età, quando ormai è troppo tardi per unirsi attorno a un pallone e dimenticarsi di appartenere a culture diverse.
- Eppure anche tu hai iniziato la tua carriera di attivista quando ormai eri un uomo, e non più un ragazzino. È vero, e sai perché? Perché avevo paura. Questa è la verità, avevo paura. Non è facile esporsi. Sapevo che gli arabi estremisti mi sarebbero venuti contro. E così è stato. Fino ad oggi vivo sotto minacce. Aggrediscono me e la mia famiglia. Hanno rotto a mia madre il braccio. Ma credimi, sono solo la minoranza. Fanno tanto baccano perché faticano ad accettare che Israele è la loro casa, che l’ebraico è la loro lingua, ma non rappresentano altro che la minoranza.
- E questa maggioranza di cui parli, dov’è? Perché non la vedo? La vedi eccome, vive attorno a te, ma non la senti. Gli arabi israeliani hanno paura di farsi sentire, perché non vogliono pagarne le conseguenze. Perché non vogliono subire ciò che ho subito io. Segretamente, però, in silenzio, desiderano vivere in Israele più di quanto lo desideri tu stesso. Se girassi per gli ospedali del paese, non crederesti ai tuoi occhi. Medici arabi che curano pazienti israeliani e medici israeliani che curano pazienti arabi, tutto in perfetta armonia. Lancio un appello a tutti quelli che parlano di apartheid: venite qui e visitate il paese. Se scoprite una realtà diversa da quella che descrivo, mi ritiro dalle mie attività per sempre.
- Io ti credo. La realtà che descrivi, l’unione e la solidarietà, l’ho vista e l’ho vissuta anch’io. Tuttavia, fatico a ignorare l’odio e la violenza di cui sono ancora testimone. Ti pongo una domanda e rispondimi sinceramente. Il 7 ottobre, hai temuto una rivolta da parte degli arabi israeliani? Hai temuto che si unissero a Hamas e compissero anche loro una strage nel cuore di Israele?
- Sì. Io no. Ero convinto del contrario, e avevo ragione. Il 7 ottobre ha solo accentuato la differenza tra gli arabi che vivono in Israele e quelli che vivono a Gaza. La strage di Hamas ha confermato agli arabi d’Israele quanto convenga loro vivere in uno Stato ebraico e democratico, e non sotto la dittatura islamica che vige in tutto il Medio Oriente. Credi davvero che gli arabi israeliani vogliano avere come loro leader tipi come Sinwar o Nasrallah? Certo che no. Nessuno teme e ripudia il regime islamico più di noi.
- Mi stai dicendo che il 7 ottobre ci ha avvicinati? Sì, è esattamente quello che sto dicendo. So che suona paradossale, ma un sondaggio dell’Università di Tel Aviv ha mostrato che, dopo la strage di Hamas, il 33,2% degli arabi in Israele si sono definiti israeliani e solo l’8,2% si sono definiti palestinesi.
- Nonostante ciò, il 90% di loro votano quei partiti arabi che si rifiutano di condannare il 7 ottobre e il terrorismo di Hamas. Hai ragione, ma solo perché non esiste ad oggi un’alternativa degna a questi partiti. Perché non esiste una leadership araba dichiaratamente sionista che renda giustizia alla popolazione araba locale. Perché è nell’interesse di questi politici ambigui continuare a definirsi vittime del sistema piuttosto che assumersi la responsabilità del loro destino. Tuttavia, su 120 parlamentari, sai chi è il politico con l’ufficio più grande di tutta la Knesset? Ahmad Tibi, un parlamentare arabo e musulmano. Il suo ufficio è secondo di grandezza solo a quello di Netanyahu. Ti rendi conto? Altro che apartheid.
- Il fatto che tu sia cristiano, credi che influisca sulla visione che hai dell’Islam? Sapevo che me lo avresti chiesto, me lo chiedono sempre tutti. La risposta è no, ma se non mi credi, lasciamo stare Yospeh Haddad e parliamo di Awad Daraushe, il paramedico musulmano che si è sacrificato soccorrendo le vittime del Nova. Ecco, Hamas lo ha ammazzato nonostante fosse musulmano. Parliamo di Yusuf Azayadli, anche lui israeliano e musulmano, che ha salvato più di trenta persone il giorno della strage. Quando lo hanno intervistato alla televisione, Yusuf ha detto: “Cosa importa se io sono musulmano e loro sono ebrei? Siamo tutti israeliani, tutti essere umani”. Il giovane soldato Yosef Hieb, rimasto ucciso da un drone di Hezbollah, appartiene a un’antica famiglia musulmana che ha combattuto già nella Guerra d’Indipendenza a favore della fondazione di uno Stato ebraico. Non sono casi isolati, ci sono centinaia di storie simili dal 1948 a oggi.
- Scusa se insisto Yoseph, ma un arabo può sentirsi davvero a casa in Israele? Può avvolgersi nella bandiera con la Stella di David e sentirsi sinceramente di appartenere? Può cantare l’inno dell’Hatikvah e provare orgoglio? Certo che sì, così come tu ti senti italiano nonostante tu sia ebreo. Tuttavia, io preferisco parlare di fatti e non di sensazioni. Il direttore della Banca Leumi, la banca più grande d’Israele, era arabo e musulmano. Il giudice della Corte suprema che ha mandato in carcere non uno, ma ben due presidenti israeliani, Ehud Olmert e Moshe Katzav, era arabo e musulmano. Smettiamola di far credere che gli arabi israeliani siano cittadini di serie B, sottomessi e privati di ogni diritto. Al contrario: la maggior parte di loro è fiera di vivere nello Stato ebraico, ovvero nell’unico Stato democratico del Medio Oriente.
- Eppure gli arabi in Israele e gli arabi a Gaza condividono le stesse radici. Alcuni di loro sono cugini di sangue. Sì, cugini che hanno provato ad ammazzarci il 7 ottobre. I missili di Hamas, d’altronde, non distinguono gli arabi dagli israeliani. Agli occhi dei terroristi, siamo tutti uguali. Nessun antenato comune ci rende immuni alla loro violenza.
- La guerra a Gaza, dunque, non suscita negli arabi israeliani alcun sentimento di antagonismo nei confronti dello Stato ebraico? Antagonismo? Suscita piuttosto un profondo senso di imbarazzo. Nell’ultimo anno, infatti, ho ricevuto innumerevoli messaggi da parte di arabi israeliani mortificati che mi chiedevano di condannare ciò che stava facendo Hamas anche in loro nome. “Come si può stuprare, ammazzare bambini, tenere degli innocenti in ostaggio in nome di Allah? Questo non è il nostro Dio. Questa non è la nostra religione. Questo non è ciò in cui crediamo”, mi hanno scritto in migliaia.
- Come uscirà Israele da questa guerra? Più forte di prima. Se c’è una cosa che ho imparato vivendo con voi, è che il popolo ebraico è indistruttibile. Non so di cosa siete fatti, ma so che non smettete mai di combattere per la vostra sopravvivenza e di vincere sempre. Nessun altro paese al mondo poteva sopportare un 7 ottobre e rialzarsi all’indomani. Questa volta, però, non siete soli. Ci siamo noi con voi. Insieme, siamo invincibili.
- Come fai ad esserne così certo? Semplice. Non so se ricordi, ma l’8 di ottobre l’esercito israeliano ha dichiarato di aver arruolato il 130% dei suoi riservisti. Molti più di quanti ne avesse effettivamente bisogno. Tutti volontari. Ebrei, cristiani, musulmani, drusi. Tutti uniti con un solo obiettivo: difendere la loro casa.
- Credi che rimarremo così uniti anche dopo la guerra? Ne sono convinto. Dimentichi che nel 2020 Michael Ben Zirki, ebreo e israeliano, è morto annegato per salvare tre bambini arabi e musulmani che non riuscivano a tornare a riva. Dimentichi che durante il covid il medico arabo Meir Ibrahim si è seduto accanto al letto di Rebbe Shlomo durante i suoi ultimi istanti di vita, gli ha stretto la mano e ha recitato insieme a lui lo Shemà Israel, poiché la sua famiglia non poteva assisterlo. Eravamo uniti prima della guerra, e dopo la guerra continueremo ad esserlo.
Prima del 7 ottobre sognavi una società priva di estremisti, basata sul dialogo e sulla tolleranza. Il tuo sogno è cambiato nell’ultimo anno? Il mio sogno è sempre lo stesso, non cambia mai. Anzi, s’intensifica. Questa guerra ci ha mostrato chi sono i nostri veri nemici e contro chi dobbiamo davvero combattere. La minaccia terroristica ci ha ricordato ancora una volta quanto siamo fortunati a vivere in Israele, in uno Stato ebraico e democratico, ma ha anche ribadito l’importanza del dialogo. Dobbiamo continuare a conoscerci a vicenda, a fidarci l’uno dell’altro. Israele è un paradiso, certo non privo di difetti, ma un paradiso. Il nostro paradiso. E nessuno ce lo porterà via.
(Bet Magazine Mosaico, 1 novembre 2024)
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Israele a un bivio: attaccare subito l’Iran o aspettare le mosse di Teheran?
Possibile che la storia dell'attacco iraniano diffusa da NYT e Axios sia vera, oppure che sia una trappola per spingere Israele a colpire per primo. In ogni caso, perché non farlo?
di Franco Londei
Secondo il New York Times gli Ayatollah iraniani starebbero pensando di portare un nuovo attacco a Israele in risposta a quello israeliano di sabato scorso.
Anche Axios suggerisce che a Teheran starebbero pensando di colpire nuovamente Israele anche se il piano sarebbe quello di usare anche i Proxy, soprattutto quelli iracheni.
È in questo contesto minaccioso che in Israele si è fatta avanti l’idea di colpire l’Iran con un attacco preventivo a sorpresa, per di più potendo godere dei risultati dell’attacco di sabato scorso che in pratica ha messo fuori uso tutte le difese iraniane.
L’attacco preventivo fa parte della dottrina militare israeliana. L’IDF lo ha usato anche di recente contro Hezbollah sventando un grande attacco e distruggendo buona parte dell’arsenale balistico dei terroristi libanesi. Quindi funziona.
Ma allora, perché Israele non sfrutta questo momento unico e irripetibile per “finire” l’avversario una volta per tutte e tagliare la testa della piovra iraniana? Qui il problema diventa serio perché entra in campo la politica, soprattutto quella di Biden (e della Harris).
L’attuale Amministrazione americana, in scadenza di mandato, punta su una de-escalation in tutto il Medio Oriente. Un attacco preventivo israeliano, invece, porterebbe a una escalation i cui risultati potrebbero essere molto dannosi per i democratici a pochi giorni dalle votazioni. Ci sarebbe un inevitabile innalzamento del prezzo del petrolio e del gas. Se poi le Guardie della Rivoluzione (IRGC) chiudessero lo Stretto di Hormuz e contemporaneamente gli Houthi chiudessero quello di Bab al-Mandab impedendo l’ingresso nel Mar Rosso, avremmo davvero una situazione fuori controllo.
A onor del vero bisognerebbe dire che il quadro descritto poco sopra potrebbe palesarsi anche se Israele non attaccasse preventivamente l’Iran ma lo facesse solo dopo essere stato attaccato come riferiscono il Times e Axios. Oppure anche se l’Iran attaccasse Israele e Gerusalemme, per ragioni fantascientifiche, non rispondesse. Quello della chiusura dei due stretti più strategici del mondo è l’unico vero deterrente che rimane a Teheran.
Ora, di questo ne sono convinti anche gli Ayatollah e i loro cagnolini da guardia, i pasdaran, e su questo contano per far pressione su Washington affinché a loro volta gli americani facciano pressione su Gerusalemme al fine di evitare la contro-risposta israeliana.
È un po’ come camminare sulla lama di un rasoio, i margini di errore sono ristrettissimi. E non si capisce dove finisce il bluff e dove cominci la realtà. Mi spiego meglio. Non è detta che quando gli Ayatollah fanno sapere che lanceranno un attacco contro Israele dicano la verità, anzi, è possibile che mentano. Il motivo? Spingere Israele a un attacco preventivo per poi dare tutta la colpa a Gerusalemme per le conseguenze di cui abbiamo parlato sopra.
Per di più sarebbe anche un buon metodo per evitare la figuraccia, che potrebbe essere letale per il regime, di veder fallire l’ennesimo attacco a Israele.
E se l’idea di un attacco fosse vera?
C’è un’altra ipotesi che circola tra l’intelligence di Israele: gli Ayatollah starebbero mettendo insieme quello che rimane degli arsenali di Hezbollah, Houthi dello Yemen e varie sigle terroristiche irachene per un attacco coordinato con missili e droni al fine di saturare le difese israeliane e poi colpire lo Stato Ebraico con i missili balistici lanciati dall’Iran. Questa ipotesi è molto verosimile ed è presa molto in considerazione a Gerusalemme.
Per il regime iraniano sarebbe una specie di “prendere o lasciare” o, per usare un termine derivato dal poker, un all-in con il quale mettere sul tavolo tutte le chips (o fiches che dir si voglia) sperando che l’altro abbia carte peggiori.
La scommessa iraniana si basa tutta sul fatto che a quel punto sarebbe Israele ad essere tra due fuochi: contrattaccare sapendo che l’Iran potrebbe bloccare completamente il mercato del petrolio, oppure cedere alle pressioni americane e ingoiare il rospo.
Per una operazione del genere a livello militare il momento giusto sarebbe adesso che Washington è in fase di transizione, ma a livello politico rischia di favorire Trump il che vorrebbe dire totale mano libera a Israele. È un bel dilemma.
Ricapitolando, per l’Iran un attacco preventivo da parte di Israele sarebbe la migliore delle ipotesi per i motivi che abbiamo spiegato sopra, soprattutto perché permetterebbe a Teheran di incolpare Israele di tutte le conseguenze che ne deriverebbero, situazione che potrebbe portare all’isolamento completo di Israele, che poi è anche uno degli obiettivi degli Ayatollah (e non solo).
Quindi, trappola o verità? Se le voci provenienti da diverse fonti che parlano di “impazienza” da parte di una parte del governo israeliano in merito ad un attacco preventivo sono vere, probabilmente lo vedremo nelle prossime ore. Personalmente avrei già attaccato, anzi, avrei finito il lavoro immediatamente dopo il primo attacco.
È una trappola? Possibilissimo, gli iraniani sono scaltri, quasi raffinati. Vale la pena cadere nella trappola iraniana? Secondo me sì. Se non ora quando?
(Rights Reporter, 1 novembre 2024)
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Parashà di Noach: Perché le donne sono esenti dalla prima mitzvà della Torà
di Donato Grosser
Nella parashà di Bereshìt nel racconto della creazione dell’uomo è scritto: “Dio creò l’uomo a Sua immagine (be-tzalmò)…”(Bereshìt, 1:27). R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) spiega che tzèlem è l’intelligenza che il Creatore diede all’uomo, a differenza delle altre creature.
Nel versetto seguente è scritto: “Dio li benedisse e Dio disse loro: crescete e moltiplicatevi…”. Questa è una delle tre mitzvòt che appaiono nel libro di Bereshìt. Le altre due sono quella di fare la milà (circoncisione) ai figli maschi e la proibizione di mangiare il nervo sciatico degli animali dopo la shechità (macellazione).
L’autore catalano del Sefer Ha-Chinùkh (Barcellona, XIII sec. E.V.), scrive che la “radice”, ovvero il motivo della mitzvà, è per far sì che il mondo sia abitato, come è scritto “… non l’ha creata perché rimanesse deserta, ma l’ha formata perché fosse abitata… (Isaia, 45:18). Ed è una grande mitzvà perché grazie ad essa possono essere osservate tutte le mitzvòt del mondo…”.
Le parole “Crescete e moltiplicatevi” appaiono due volte nella parashà di Noach, e sono rivolte a Noach e ai suoi figli, Sem, Cham e Yefet, quando il mondo doveva essere ripopolato dopo la distruzione del Diluvio.
Il fatto che queste parole furono rivolte solo ai figli di Noach, fa sì che r. Meir Simcha Hakohen (Lituania, 1843-1926, Riga-Lettonia) rav di Dvinsk, nella sua opera Meshekh Chokhmà, apra il suo commento a questa parte della parashà scrivendo che non è irragionevole affermare che il motivo per cui la Torà ha esentato le donne dalla mitzvà di crescere e moltiplicare e l’ha imposta solo agli uomini, è che la Torà non vuole imporre agli israeliti delle cose che sono fisicamente poco tollerabili.
Questo è anche il motivo per cui la Torà impone solo un giorno di digiuno, il Kippur; e ci ha obbligato a mangiare il giorno che precede il digiuno. Pertanto la Torà non ha imposto alle donne la mitzvà di avere figli, perché la gravidanza e il parto le mettono in pericolo. Per questo alla donna è permesso usare metodi anticoncezionali, come è raccontato nel Talmud (Yevamòt, 65b) nell’episodio di Yehudit, moglie di r. Chiyà, che soffriva di grandi pene durante il parto, e alla quale il marito permise di prendere una pozione per renderla infertile.
Dalla Torà impariamo che il desiderio delle donne di avere figli è superiore a quello degli uomini. Questo è dimostrato da Rachel, moglie di Ya’akòv che, essendo sterile, gli disse: “Dammi dei figli se no io muoio” (Bereshìt, 30:1). Questo desiderio viene solo per assicurare la continuazione della specie umana. Con tutto ciò è dimostrato che le donne sono esenti dalla mitzvà di avere figli dal fatto che quando l’Eterno apparve al patriarca Ya’akòv al suo ritorno dalla Mesopotamia gli disse: “Cresci e moltiplicati”, al singolare (Bereshìt, 35:11).
E se qualcuno domandasse perché l’Eterno diede sia ad Adamo che a Eva la benedizione “Crescete e moltiplicatevi”, si può rispondere che questo venne detto prima che essi commettessero il peccato di mangiare il frutto proibito. Prima del peccato la donna non avrebbe avuto nessuna sofferenza nell’avere figli. Dopo il peccato l’uomo fu punito a faticare per poter usufruire dei frutti della terra, mentre la donna fu punita con sofferenze nella gravidanza e con le doglie del parto (Bereshìt, 3:16-17).
Per questo l’ordine di crescere e moltiplicare fu dato solo a Noach e ai suoi figli maschi e poi solo al patriarca Ya’akòv.
(Shalom, 1 novembre 2024)
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Parashà della settimana: Noach (Noè)
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I piloti raccontano l’operazione “Giorni di pentimento”: “Ci siamo resi conto che stavamo facendo la storia”
di Luca Spizzichino
Nella notte del 26 ottobre, l’aviazione israeliana ha bombardato diversi obiettivi militari in Iran come rappresaglia per gli attacchi missilistici subiti tre settimane prima. Con oltre un centinaio di aerei, tra cui F-16 e F-35, le forze israeliane hanno condotto tre ondate di bombardamenti su infrastrutture strategiche iraniane. I Maggiori N. e S., rispettivamente un navigatore di combattimento e un pilota di caccia, hanno raccontato a Ynet le loro esperienze e le emozioni vissute durante questa storica operazione.
“Una volta in volo, ci siamo resi conto che stavamo facendo la storia, qualcosa che non era mai stato fatto prima,” ha dichiarato il Maggiore N. “Dopo l’atterraggio, ho avuto bisogno di un momento per comprendere l’impatto di ciò che avevo fatto. Gaza è vicina, il Libano è a una certa distanza, ma l’Iran è lontano, e non siamo abituati a essere lì”.
Padre di cinque figli, il Maggiore N. non ha condiviso i dettagli della missione con la sua famiglia, ma sua moglie e i suoi bambini comprendono il tipo di operazioni che svolge per l’aeronautica. “La mia famiglia sa già abbastanza. I bambini sono felici e orgogliosi,” ha aggiunto.
Per anni, l’aeronautica israeliana si è preparata per operazioni nel fronte orientale. Alla base di Ramon, il personale del 119° squadrone ha trascorso giorni a prepararsi a scenari di guerra, studiando il terreno e il comportamento dei caccia in situazioni di emergenza. Il Maggiore Anael, addetta alla torre di controllo della base, ha raccontato come il personale abbia lavorato per mantenere unita la squadra, anche per via della presenza di amici e colleghi rapiti durante il conflitto. “Se un anno fa mi avessero detto che sarei stato qui oggi, non ci avrei creduto. Alcuni scenari che avevamo previsto sono stati superati dalla realtà,” ha rivelato il Maggiore R., capo della divisione munizioni, spiegando come la fine di una missione sia immediatamente seguita dalla preparazione per la successiva.
Il Maggiore S., pilota di caccia di origine straniera e lone soldier in Israele, ha confermato che l’operazione si è svolta come da piano. La missione ha richiesto un’attenzione estrema ai dettagli, e nei giorni precedenti l’attacco, l’equipaggio ha studiato vari scenari, elaborando risposte e strategie. “In volo, la concentrazione è totale. C’è un’enorme quantità di dati da gestire, e sapere di fare parte di un evento storico è un grande privilegio”. Il Maggiore S. ha descritto la missione come un’esperienza unica, ma piena di pericoli. “Siamo stati addestrati per raggiungere paesi lontani e superare numerose minacce; ed è per questo che siamo stati assegnati a questa missione. Non è solo l’obiettivo specifico che conta, ma il fatto stesso di esserci arrivati, dimostrando le nostre capacità”.
(Bet Magazine Mosaico, 1 novembre 2024)
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Dall'inizio della guerra: 12.000 soldati feriti
GERUSALEMME - Il Dipartimento di Riabilitazione del Ministero della Difesa ha ricevuto 12.000 soldati feriti dall'inizio delle ostilità dopo l'attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre scorso. Il 93% dei feriti sono uomini. Tra i nuovi ricoveri, circa 1.500 sono stati feriti due volte durante il conflitto in corso.
L'anno scorso, il numero di feriti di età inferiore ai 30 anni è triplicato: Il 51% dei feriti ha un'età compresa tra i 18 e i 30 anni.
Il ministero ha anche annunciato che 377 delle persone trattate hanno riportato ferite alla testa, tra cui 23 con gravi lesioni al cranio che hanno richiesto una sostituzione del cranio stampata in 3D. Altre 308 persone sono state ferite agli occhi, dodici delle quali hanno perso la vista. Inoltre, 104 persone hanno riportato lesioni alla colonna vertebrale e circa 60 hanno avuto bisogno di protesi immediate.
• DISTURBI DA ANSIA E STRESS
Le statistiche militari riguardano anche le conseguenze psicologiche della guerra: il 43% delle persone (5.200) ha sviluppato vari problemi psicologici. Tra questi, ansia, depressione, difficoltà di adattamento e disturbo da stress post-traumatico.
In risposta al crescente numero di giovani vittime, il Ministero vuole adattare i servizi di riabilitazione e concentrarsi sul rapido reinserimento delle persone colpite nel sistema scolastico, nella formazione professionale o nell'occupazione. All'insegna del motto “La riabilitazione prima della burocrazia”, il dipartimento di riabilitazione offre un immediato supporto medico e psicologico, oltre all'assistenza finanziaria.
Secondo il Ministero della Difesa, il costo medio annuo per il trattamento di una vittima di guerra equivale a circa 37.000 euro. Si ipotizza che entro il 2030 ci saranno circa 100.000 veterani con disabilità e che il 50% dovrà probabilmente lottare con problemi psicologici.
(Israelnetz, 1 novembre 2024)
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