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Notizie dicembre 2012


Israele ora ha quasi otto milioni di abitanti

Secondo gli ultimi dati dell'Ufficio centrale di statistica, alla fine dell'anno lo Stato israeliano conta esattamente 7.981.000 abitanti, avvicinandosi così alla soglia degli otto milioni. 75,4 per cento della popolazione (cioè 6.015.000 persone) sono ebrei, 1.648.000 sono arabi e 319.000 appartenengono ad altri gruppi etnici.
Nel 2012 Israele è cresciuta, in modo puramente aritmetico, di circa 145.000 abitanti. Sono nati 170.000 bambini e sono arrivati 16.500 nuovi immigrati. Non ci sono dati sui decessi.
Negli ultimi dieci anni la popolazione di Israele è aumentata di 1.350.000 persone. Nel 1992 in Terra Santa vivevano 5.195.900 israeliani, 40 anni fa solo 3.225.000, nel 1952 c'erano soltanto 1.629.500 abitanti.

(israel heute, 31 dicembre 2012)


Batman mette i Tefillin per la prima volta!

Un uomo mascherato da Batman, che viaggia per gli Stati Uniti con la Batmobile visitando bambini e ragazzi malati, è arrivato nella stanza di Danielle Chaya bat Aviva di diciannove anni a Coral Springs in Florida proprio mentre lo Shaliach Chabad rav Avraham Friedman era in visita alla ragazza.
Il rabbino ha subito chiesto a Batman se fosse ebreo, e quando l'uomo gli ha risposto in modo affermativo, il rabbino gli ha proposto di mettere i Tefillin. Batman che non li aveva mai indossati in vita sua, però, non ha voluto togliersi la maschera e rivelare la sua vera identità, perciò ha chiesto se fosse possibile mettere i Tefillin solo sul braccio. Il rabbino gli ha spiegato che nel caso sia impossibile indossarli sulla testa è permesso indossarli solo sul braccio e anche in questo modo si compie una Mitzvà. Così Batman ha messo i Tefillin a metà.

(Chabad.Italia, 31 dicembre 2012)


La grande fabbrica dei Nobel nella Torino del professor Levi

di Elena Loewenthal
    «Considerando in retrospettiva il mio lungo percorso, quello di coetanei e colleghi e delle giovani reclute che si sono affiancate a noi, credo di poter affermare che nella ricerca scientifica, né il grado di intelligenza né la capacità di eseguire e portare a termine con esattezza il compito intrapreso, siano i fattori essenziali per la riuscita e la soddisfazione personale.
    Nell'una e nell'altra contano maggiormente la totale dedizione e il chiudere gli occhi davanti alle difficoltà».
Quanto ha tenuto fede a queste parole, Rita Levi Montalcini, nella sua lunga, piena e tanto rimpianta vita. Chiudere gli occhi di fronte alle difficoltà e tenerli bene aperti sul mondo. Anzi, sui tanti mondi che lei ha visto. A incominciare da quello in cui nacque a Torino il 22 aprile del 1909 insieme alla sorella gemella Paola, sette anni dopo il fratello Gino, celebre scultore e architetto, e quattro dopo Anna, pittrice di fama. Una famiglia un po' speciale, con una madre cui era legata da «immenso affetto», scrive nell'«Elogio dell'Imperfezione», e un padre dal quale ha «ereditato la serietà e l'impegno nel lavoro e una concezione laica, spinoziana della vita».
   C'è qualcosa di struggente ma al tempo stesso vivido, intenso, nei ricordi d'infanzia che tratteggiano gli affetti familiari, i precoci scambi intellettuali, le scene cittadine di una Torino che si ritrova solo a volerla cercare più dentro di sé che nel paesaggio urbano di oggi.
   Ma la Torino di Rita non è solo paesaggio d'infanzia. E' anche e soprattutto quella di una straordinaria formazione universitaria e scientifica, a cominciare da quando nel 1930 si iscrive alla facoltà di medicina. Una scelta che desta qualche perplessità in suo padre, ma nella quale Rita è determinata. Lo è da quando Giovanna, l'amata governante quarantenne, se n'è andata per colpa di un brutto tumore allo stomaco. E' così che nell'autunno di quell'anno lei mette piede per la prima volta nel «lugubre e solenne anfiteatro dell'istituto anatomico». A ravvivarne i colori c'era il mitico professor Giuseppe Levi, padre di Alberto - medico dalla straordinaria umanità ed esorbitante numero di sigarette al giorno - e Natalia Levi Ginzburg. Lo chiamavano Pomodoro, confidenzialmente LeviPom, il professor Levi, per via dei capelli rossi e delle «sopracciglia folte che nascondevano quasi completamente gli occhi», scrive Rita. «Soleva commentare a pranzo le persone che aveva visto nella giornata. Era molto severo nei suoi giudizi, e dava dello stupido a tutti». Uno stupido era, per lui, «un esempio», racconta invece Natalia all'inizio di «Lessico famigliare». Sarà anche merito di quel suo caratteraccio se il professor Levi può vantare un record unico, e purtroppo ignaro: quello di essere stato il maestro di ben tre premi Nobel. Dulbecco, Luria e Levi Montalcini, formatisi tutti e tre con lui e il suo modo di fare istologia.
   Nella sua unicità, Giuseppe Levi era in fondo il rappresentante di un piccolo grande mondo: la Torino che coniugava mirabilmente attività intellettuale e scientifica, esperimenti di laboratorio e letture condivise. Quel mondo lì, ebraico e non, l'ha spazzato via il fascismo. Ma non solo il fascismo bieco e spietato che costrinse Rita a una serie di peripezie, migrazioni e clandestinità. Anche il fascismo qualunquista e apparentemente meno dannoso, ma certo più tenace e non di rado ancora riconoscibile nel nostro presente.
   A due anni dalla laurea, con il massimo dei voti, arrivano le leggi razziali: Rita si rifugia in Belgio, dove avvia i suoi studi sulle cellule nervose. Nel 1940 i tedeschi arrivano nei Paesi Bassi, lei torna a Torino e allestisce il suo primo (ma non ultimo) laboratorio domestico, di fortuna. In quel laboratorio, con un unico assistente, ma di eccezione (nientemeno che il professor Levi!), lei scopre quel meccanismo di morte programmata delle cellule nervose che solo molti anni più tardi riceverà il nome di apoptosi.
   Appena finita la guerra prova a fare il medico, ma si rende conto di non riuscire ad avere il distacco emotivo necessario per affrontare la sofferenza altrui, e così torna al microscopio, ma dall'altra parte dell'Oceano, in quell'America che a cavallo di quegli anni fu approdo di salvezza, rifugio, ricerca di una serenità perduta per sempre, in Europa. E così se n'è andata lei, se ne sono andati Renato Dulbecco e Salvador Luria, i tre brillanti allievi del professor Giuseppe Levi. Con le leggi razziali l'Italia aveva ripudiato nel 1938 due di loro, più il professore. Erano ebrei integrati, pacati nel loro pacifico, così moderno attaccamento alle tradizioni - che Rita racconta con lucidità e un pizzico appena di nostalgia -, partecipi di un mondo tanto piccolo - com'era la Torino di allora - quanto ricco di stimoli, di sfide morali e intellettuali. Ci manca quel mondo, ci mancherà tanto lei.

(La Stampa, 31 dicembre 2012)


È morta Rita Levi Montalcini Premio Nobel, aveva 103 anni

Il premio Nobel per la medicina è scomparsa a 103 anni. Al momento del decesso si trovava in casa sua con alcuni cari

di
Luca Romano

Il Premio Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini è morta oggi a 103 anni.
È deceduta nella sua abitazione a Roma, mentre si trovava con alcuni cari. Le condizioni di salute della ricercatrice erano apparse oggi peggiorate.
Per questo motivo le persone che erano con lei hanno chiamato un'ambulanza per trasportarla alla clinica Villa Margherita. La donna è però morta nella sua abitazione.
Figlia di un ingegnere ebreo, Adamo Levi e della pittrice Adele Montalcini, passò gli anni fino all'adolescenza a Torino. Qui si iscrisse alla facoltà di Medicina. Si laureò nel 1936 a pieni voti. Le sue origini la costrinsero ad emigrare in Belgio durante il ventennio fascista. Tornò poi nella città natale per proseguire le sue ricerche neurologiche. Dopo un periodo nell'astigiano si trasferì a Firenze. Nel 1944 entrò come medico nelle forze alleate.
Negli anni cinquanta la ricercatrice era riuscita nell'indivuazione dei fattori di accrescimento della fibra nervosa. Il Nobel per la scoperta gli è stato assegnato nel 1986. È stata anche la prima donna nella Pontifica Accademia delle Scienze e socia dell'Accademia dei Lincei.

Il conferimento del Nobel

(il Giornale, 30 dicembre 2012)


Tel Aviv, il fascino discreto della sobrietà

Stile. Eleganza. Niente eccessi. La lezione preziosa che arriva da Israele

di Fabiana Giacomotti

Constatazione stupefacente: esistono città eleganti (nell'accezione propria ed effettiva del termine, non nella derivazione a cui ci siamo abituati noi italiani costretti a confrontarci con le attività delle olgettine), in crescita, all'avanguardia nel design e nello stile di vita, dove non si vede per strada una sola, singola borsa, cintura, cappelluccio firmato. Dove non si viene squadrati da capo a piedi per capire quale sia la nostra disponibilità di spesa voluttuaria. Dove le signore oltre i 50 anni hanno la faccia che si meritano e non quella che si sono fatte applicare dal chirurgo e dove la comunità gay, nutritissima, non indossa ogni giorno la maschera della macchietta modaiola in tivù, che è atteggiamento di grave nocumento alla comunità stessa su decine di altri fronti.

DISINTOSSICAZIONE DAGLI ECCESSI - Due giorni a spasso per Tel Aviv possono essere sufficienti per domandarsi se ogni tanto non varrebbe la pena di chiedere una dispensa, insomma di disintossicarsi dalla visione ossessiva di simboli ubiqui e ormai e in tutta evidenza privi di quella valenza di esclusività a cui vengono altrettanto ossessivamente associati.
E se non sarebbe anche arrivato il momento di considerare gli stilisti per ciò che sono, cioè creativi spesso geniali, talvolta pure imprenditori di grande calibro, ma non necessariamente dei maître à penser versati in ogni disciplina.

IL LOW PROFILE CHE RIVITALIZZA - Per chi proviene da Paesi come la Francia o l'Italia (ma anche New York, Dubai, Londra e Hong Kong), trovarsi in una società evidentemente benestante, chiaramente avida di divertimento, clamorosamente giovane, e scoprire che la combinazione di stili, colori e materiali è l'ultima delle preoccupazioni e che proprio per questo appare ancora più vitale e più giovane, è una sorta di choc.

SOBRIETÀ CHIC - A Tel Aviv si può percorrere per quattro chilometri la spiaggia che costeggia i grandi alberghi e le ambasciate incontrando centinaia di ragazzi sotto i 30 anni, in media parecchio belli, una quota di 20-30enni incinte o con bambini piccolissimi al seguito, decine di coppie over 60 che si tengono per mano senza vedere una sola Tshirt griffata, una borsa portata al braccio con atteggiamento esibitivo, un solo tacco assassino, una bocca a canotto.

IL CHEAP CHE NON STONA - Si possono incontrare decine di ragazze e signore non truccate, anche un po' spettinate e sciatterelle, per dirla tutta: molte vestite di rosa confetto, che in Medio Oriente è un colore molto amato. E che a vederlo tutto insieme, indossato così trasversalmente da bambine di tre anni e signore 60enni che fanno jogging, non è nemmeno così cheap, di cattivo gusto.

IL GENIO ISRAELIANO - Per contro, il mondo, come la stessa Tel Aviv, è pieno di stilisti israeliani di genio: anche senza contare Alber Elbaz, che ha riportato Lanvin nel novero delle dieci maison più cool del mondo, la stessa Fashion Week di Tel Aviv, Gindi, è diventata un osservatorio e un incubatore importante per tutta la moda mondiale. Le collezioni di Yosef Peretz o Dorin Frankfurt vengono recensite e commentate anche sulle testate italiane e francesi. E a tutte farebbe piacere possederne almeno un capo, mentre lo Shenkar College of design and Engeneering è organizzato come il Fashion Institute of Technology di New York.
Sulla Dizongoff Street e negli shopping mall a nord di Rabin square le grandi griffe occidentali hanno aperto corner e boutique, e naturalmente vendono bene.

UNA QUESTIONE CULTURALE - Dunque, dov'è la differenza? Nell'atteggiamento, nel modo in cui la moda, i suoi professionisti e i suoi emblemi vengono considerati, percepiti, valutati. Nella cultura che la circonda: e questa cultura non considera lo sfoggio di una doppia C attorno alla pancia come utile, tanto meno necessario, per affermare la propria personalità o il proprio potere, e come ovvio per valutare quello altrui.
Non si ricordano furti di sneaker e di cellulari fra ragazzini, da queste parti, e non potrebbe essere altrimenti, nonostante la maggior parte di loro ne possegga di ultimissima generazione. La moda e i suoi simboli sono solo un piacevole accessorio. Come dovrebbe essere ovunque. E, appunto, la differenza si nota. Si respira persino meglio.

(Lettera 43, 30 dicembre 2012)


Il Centro Wiesenthal fa la top-list dell'antisemitismo

Dirigenti egiziani superano Ahmadinejad, al terzo posto un brasiliano. Nella graduatoria ci sono anche ultras di calcio.

Nel 2012 alcuni dirigenti egiziani hanno superato il presidente dell'Iran Mahmud Ahmadinejad per la foga delle loro espressioni antisemite, secondo una graduatoria curata dal Centro Wiesenthal e riferita dal Jerusalem Post. Secondo il Centro Wiesenthal due dirigenti dei Fratelli Musulmani si sono distinti in questo senso: il loro leader spirituale Muhammed Badie ed il predicatore Abdel Nabi Mansur.
Dopo i dirigenti iraniani, il terzo posto nella graduatoria dell'antisemitismo è occupato dal caricaturista brasiliano di origine araba Carlos Latuff. Seguono, al quarto posto, 'ultras' di squadre di calcio (fra cui l'inglese West Ham United), e poi esponenti del partito nazionalista ucraino 'Svoboda', del partito greco 'Alba Dorata' e del partito ungherese 'Jobbik'.
I curatori della ricerca hanno quindi denunciato i testi del sito web del norvegese Trond Ali Linsted e del blogger tedesco Jakob Augstein. Al decimo posto, il leader della 'Nazione dell' Islam afro-americanà, Louis Farrakhan.

(ANSA, 30 dicembre 2012)


La Corte suprema israeliana ammette la candidatura della deputata araba Hanin Zoabi

  
La focosa deputata Anastasia Michaeli a stento viene trattenuta dallo scagliarsi contro la filopalestinese Hanin Zoabi
GERUSALEMME, 30 dic. - La Corte suprema israeliana ha ribaltato la decisione della Commissione elettorale di non autorizzare la ricandidatura di Hanin Zoabi deputata arabo israeliana del partito Balad, che ha tre seggi alla Knesset, alle elezioni del prossimo 22 gennaio. Le motivazioni verranno pubblicate in un secondo momento.
Zoabi, che ha denunciato di essere vittima di "persecuzioni politiche", sottolinea che la sentenza della corte "non cancella" le aggressioni di cui e' stata vittima dentro e fuori dalla Knesset dopo il suo sostegno agli attivisti della Freedom Flottilla che nel 2010 avevano provato ad arrivare a Gaza. Zoabi si trovava a bordo della nave turca Mavi Marmari che era stata respinta da un attacco delle forze israeliane.
La commissione elettorale aveva votato contro la candidatura di Zoabi sulla base della legge che proibisce l'ingresso alla Knesset a chiunque neghi l'esistenza dello stato di israele o sostenga la lotta armata contro israele.

(Adnkronos, 30 dicembre 2012)


Le Religioni che sfidano il conformismo sui Gay

di Ernesto Galli Della Loggia

Nel XVIII secolo, nella sua battaglia contro le religioni ufficiali, equiparate senza tanti complimenti ad altrettante superstizioni, l'illuminismo francese, destinato a far scuola in tutta l'Europa continentale, non se la prese certo solo con il cattolicesimo. Anzi. L'ebraismo, per esempio, fu un suo bersaglio forse ancora più consueto: basti pensare alle tante pagine di Voltaire piene zeppe di contumelie contro la religione mosaica.
   Poi però tra '700 e '800 le cose cambiarono rapidamente. Soprattutto perché cambiò l'ebraismo. Accadde infatti che nell'Europa (soprattutto occidentale) un gran numero di ebrei cominciasse a inoltrarsi su un percorso di radicale emancipazione-secolarizzazione che li portò ad integrarsi in pieno con le élites laico-liberali sulla via di prendere dovunque il potere: della religione dei padri conservando al massimo qualche vestigia rituale. Da allora la critica antireligiosa d'ascendenza illuministica cominciò a prendere di mira, in ambito occidentale, pressoché esclusivamente il cattolicesimo, quasi che esso fosse la sola religione rimasta sulla faccia della terra. Una tendenza andata sempre più affermandosi, specie in Italia, e molto spesso — bisogna dirlo — con il tacito assenso di molta intellighenzia d'origine ebraica, più o meno concorde nell'avvalorare implicitamente l'idea — bizzarrissima ma molto «politicamente corretta» — che in fin dei conti l'ebraismo non sia neppure una religione. Ovvero lo sia, ma così diversa da tutte le altre, così diversa, alla fine da non esserlo!
   Specie in Italia, ho scritto. E infatti quando da noi si parla di temi che in qualche modo coinvolgono la fede religiosa l'ebraismo tenda a non avervi e/o prendervi alcuna parte. E quindi a non essere mai menzionato. Basta porre mente a tutta la discussione sulla liceità dell'ingegneria genetica, dell'eutanasia o del matrimonio tra omosessuali. Dibattendosi di queste cose è come se l'ebraismo fosse disceso nelle catacombe tanto la sua voce è tenue o assente. Con il risultato che la voce della Chiesa cattolica, invece, è facilmente presentata come la sola che in nome di una visione religiosa arcaica sia impegnata a difendere posizioni che la vulgata democratica qualifica come «reazionarie».
   A ricordarci che le cose invece non stanno affatto così, e che proprio sui temi che citavo prima sono viceversa assai profondi i legami teologici e dottrinari tra l'ebraismo e il cattolicesimo (e il cristianesimo in generale, direi) soccorre un recente importante documento di un'autorità dell'ebraismo europeo quale il Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim, dal titolo «Matrimonio omosessuale, omoparentalità e adozione».
   Bernheim inizia con il punto decisivo, e cioè contestando che tali temi abbiano come vera posta in gioco un problema di eguaglianza dei diritti. In gioco invece, scrive, è «il rischio irreversibile di una confusione delle genealogie, degli statuti e delle identità, a scapito dell'interesse generale e a vantaggio di quello di un'infima minoranza». In un modo che a me sembra condivisibile anche dal punto di vista di un non credente egli smonta uno ad uno gli argomenti abitualmente usati a favore del matrimonio omosessuale: dall'esigenza della protezione giuridica del potenziale congiunto, all'importanza del volersi bene («non si può riconoscere il diritto al matrimonio a tutti coloro che si amano per il solo fatto che si amano»: per esempio a una donna che ami due uomini); alle ragioni affettive che giustificherebbero l'adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale. «Tutto l'affetto del mondo non basta a produrre le strutture psichiche basilari che rispondono al bisogno del bambino di sapere da dove egli viene. Il bambino non si costruisce che differenziandosi, e ciò suppone innanzi tutto che sappia a chi rassomiglia. Egli ha bisogno di sapere di essere il frutto dell'amore e dell'unione di un uomo, suo padre, e di una donna, sua madre, in virtù della differenza sessuale dei suoi genitori». Ancora: «il padre e la madre indicano al bambino la sua genealogia. Il bambino ha bisogno di una genealogia chiara e coerente per posizionarsi come individuo. Da sempre, e per sempre, ciò che costituisce l'umano è una parola in un corpo sessuato e in una genealogia».
   Bernheim non solo prende di petto il proposito caro a molti militanti omosessuali di sostituire al concetto sessuato di «genitori» quello asessuato e vacuo di «genitorialità» e di «omoparentalità», ma sostiene che non può parlarsi in alcun modo di un diritto ad avere un figlio: «la sofferenza di una coppia infertile non è una ragione sufficiente per ottenere il diritto all'adozione. Il bambino, sottolinea, non è un oggetto ma un soggetto di diritto. Parlare di diritto a un figlio implica una strumentalizzazione inaccettabile».
   Naturalmente le pagine più dense del documento sono quelle in cui opponendosi all'idea sempre più diffusa che il sesso, lungi dall'essere un dato naturale, rappresenti una costruzione culturale, il Gran Rabbino, forte del racconto della Genesi, afferma viceversa «la complementarietà uomo-donna come un principio strutturante del giudaismo» corrispondendo essa al piano più intimo della creazione. «La dualità dei sessi — egli scrive — appartiene alla costruzione antropologica dell'umanità» ed è voluta da Dio anche come «un segno della nostra finitezza». Nessun individuo può pretendere di essere autosufficiente, di rappresentare tutto l'umano, dal momento che con ogni evidenza «un essere sessuato non è la totalità della specie».
   Il lettore avrà notato la forte somiglianza di molte delle cose dette da Bernheim con quelle sostenute dal magistero cattolico (non a caso di recente Benedetto XVI ha citato calorosamente il documento del Gran Rabbino francese). In realtà le voci congiunte dell'ebraismo e del cattolicesimo, nel momento in cui evocano ciò che è effettivamente in gioco in questo caso — vale a dire le basi stesse della società in cui vogliamo vivere, l'esistenza ontologica di due sessi distinti, l'alleanza dell'uomo e della donna nell'istituzione chiamata a regolare la successione delle generazioni, nonché il rischio di cancellare in modo irreversibile tale successione — nel momento in cui fanno ciò, sembrano confermare quanto sostenuto a suo tempo da Jurgen Habermas circa l'importanza che ha e deve avere il punto di vista della religione nel discorso pubblico delle nostre società. Tale punto di vista, infatti, è spesso prezioso per comprendere — da parte di tutti, credenti e non credenti, di ogni persona libera — ciò che queste società hanno oggi il potere di fare. E dunque, per misurare la rottura che le loro decisioni possono rappresentare rispetto alle radici più profonde e vitali della nostra antropologia e della nostra cultura.
   Ma dal Gran Rabbino Bernheim viene anche un'altra lezione. E cioè quanto è importante che la discussione pubblica sia condotta con coraggio, sfidando il conformismo che spesso anima l'intellettualità convenzionale e il mondo dei media. Quanto è importante che personalità autorevoli (per esempio gli psicanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti. È una lezione particolarmente essenziale per l'Italia. Dove è sempre così raro ascoltare voci fuori dal coro e provenienti da bocche insospettate, dove è sempre così forte la tentazione di aver ragione appiccicando etichette a chi dissente invece di discuterne gli argomenti, dove sono sempre pronti a scattare spietatamente i riflessi condizionati delle appartenenze. Dove — in specie quando si tratta di certe questioni — non manca di farsi puntualmente sentire il pregiudizio che tende a fare del cattolicesimo la testa di turco più adatta per essere additato alla pubblica esecrazione dalle vestali dell'illuminismo e per vedersi piovere addosso tutti i colpi (e tutte le presunte colpe) del caso.

(Corriere della Sera, 30 dicembre 2012 - ripreso dal Notiziario Ucei)


Due stati per due popoli? non funzionerà mai

di Barry Shaw
  • «Non c'è posto per gli ebrei fra di noi, e non avete un futuro fra le nazioni del mondo. Siete destinati alla cancellazione» (Mahmoud Zahar).
  • «Morte ad Israele» (slogan ricorrente nelle dimostrazioni antisioniste).
  • «Non riconoscerò mai uno stato ebraico, ne' oggi ne' fra mille anni!» (Mahmoud Abbas).
  • «Dal fiume (Giordano, NdT) al mare, da nord a sud, questa è la nostra terra, la nostra patria. Non rinunceremo nemmeno ad un pollice di essa. Israele è illegittimo e lo sarà per sempre. E' roba nostra, e non dei sionisti» (Khaled Mashaal).
  • «Oggi Gaza. Domani Ramallah. Dopo ci prenderemo Gerusalemme, e poi Haifa e Jaffa» (Ismail Haniyeh).
C'è da spiegare qualcosa? Per decenni siamo stati bombardati da presunti esperti, che ci volevano spiegare perché il paradigma dei due stati (per due popoli: arabo e israeliano, NdT) era l'unica soluzione plausibile per un'intesa con i palestinesi, e affinché sopravvivesse uno stato ebraico. Avendo impiegato tutto questo tempo nello studiare e analizzare i percorsi postulati da questa road map, e dopo aver analizzato le personalità e le intenzioni degli avversari degli israeliani, sono giunto alla conclusione, definitiva e irrevocabile, che ciò non avverrà mai. E se mai arrivassimo a questo, sarebbe una tragedia per Israele: sarebbe la condanna a morte per lo stato ebraico....

(Il Borghesino, 29 dicembre 2012)


La Spagna chiede scusa per la "cacciata", ma la storia non tornerà indietro

di Ugo Volli

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La notizia potrebbe rientrare fra i fatti curiosi: la Spagna ha deciso di concedere la cittadinanza a tutti gli ebrei discendenti da coloro che furono espulsi da Isabella e Ferdinando di Spagna nel 1492. In realtà un provvedimento per facilitare la cittadinanza dei discendenti degli espulsi già c'era dal 1968, ma ora tutto sembra davvero molto facile. C'è chi ha calcolato che la nuova legge possa riguardare fra i 250mila e i tre milioni di ebrei nel mondo; in effetti nel mezzo millennio trascorso dall'espulsione si sono succedute almeno venti generazioni, abbastanza perché quasi tutti gli ebrei del mondo, obbligati per ragioni religiose a sposarsi con correligionari, abbiano degli antenati fra gli espulsi, a partire dal presidente israeliano Peres, il cui cognome è assai diffuso fra i sefarditi (così si chiamano in ambiente ebraico i discendenti dalla Spagna). In Italia tutti gli ebrei di Livorno, molti di Venezia e del Piemonte, alcuni anche di Roma hanno questa provenienza.
E' improbabile però che si assista a una massiccia immigrazione ebraica in Spagna, dove gli ebrei oggi non sono più di 40mila, e questo certamente fa parte delle premesse tacite della nuova legge, che dunque ha un carattere soprattutto di principio, una sorta di pubblica scusa per l'espulsione. Altra cosa sarebbe estendere il provvedimento ai moros cacciati sempre da Isabella e Alfonso in quegli anni, che rischierebbe per davvero di innescare un'immigrazione di massa e una nuova islamizzazione della Spagna.
In effetti la "Cacciata", com'è ricordata nel mondo ebraico, fu un trauma terribile, del tutto paragonabile a quello della Shoah. Non perché fosse la prima espulsione, anzi: anche senza contare le persecuzioni che avevano provocato fughe di massa da molte località, c'erano stati prima provvedimenti formali di espulsione da Magonza (1012), dalla Francia (1082), dalla Baviera (1276), dall'Inghilterra (1290), dalla Svizzera (1348), dall'Ungheria (1349) dall'Austria (1421)... una storia di espulsioni che è continuata quasi ininterrottamente fino a tempi recentissimi (nei paesi islamici).
Il fatto è che l'insediamento ebraico in Spagna era antichissimo, risalendo fino alla colonizzazione fenicia e che la popolazione ebraica era numerosa (intorno al 5 per cento della popolazione), colta e in buone condizioni economiche.
Con le successive espulsioni dal Portogallo e dall'Italia meridionale, che facevano parte dei domini del regno, più di mezzo milione di persone fu obbligato a perdere tutto e a cercare un rifugio altrove o a rinunciare alla propria identità culturale e religiosa. Vi furono molte decine di migliaia di morti, il seguito delle persecuzioni dell'Inquisizione contro coloro che erano sospettati di voler tornare alla fede dei padri, un esodo massiccio di popolazione che continuò per un secolo e mezzo in direzione di luoghi più tolleranti come i Paesi Bassi, parte dell'Italia e in particolare Livorno e Venezia, l'Impero turco. Spagna, Portogallo, Sicilia e Calabria furono impoveriti dalla scomparsa di settori attivi ed economicamente importanti.
In linea di principio dunque la condanna di un provvedimento così umanamente e socialmente disastroso è giusto e opportuno. Ci si può chiedere però quanto sia realistica una riparazione dopo mezzo millennio, quando molti Stati ignorano le loro colpe molto più dirette per quello che è accaduto nel secolo scorso: per fare solo qualche esempio la Lituania che minimizza la propria partecipazione alla Shoah, la Turchia che ancora nega il genocidio armeno, i Paesi arabi che insistono per tutelare i rifugiati palestinesi (di cui sono corresponsabili, non avendo minimamente cercato di integrarli in sessant'anni) e non riconoscono l'espulsione dei loro cittadini ebrei né si sognano di accordare ai loro discendenti diritti di cittadinanza. Ma bisogna accogliere con rispetto questa notizia: perché una politica che si misura coi tempi della storia può non essere realistica, ma certamente testimonia di un senso dell'etica e dell'identità che non è comune, né fra gli stati né fra le persone.

(ilsussidiario.net, 29 dicembre 2012)


Finali del campionato europeo under 21 in Israele. Enormi pressioni sulla FIFA

di Sharon Levi

L'antisemitismo non conosce confini, questo lo sapevamo. Negli ultimi mesi poi c'è stata una vera e propria esplosione di atti antisemiti in tutto il vecchio continente. Più volte abbiamo visto usare lo sport come vera e propria arma antisemita ma è la prima volta che l'attacco arriva da una istituzione sportiva tra le più grandi e importanti al mondo: la FIFA.
Come tutti sapranno le finali del campionato europeo di calcio Under 21 si terranno in Israele dal 5 al 18 giugno 2013. La decisione di disputare le finali del campionato di calcio europeo under 21 è stata coraggiosamente presa dalla UEFA che però ha dovuto subire le dure critiche degli antisemiti di tutto il mondo che, purtroppo, non mancano neppure nel calcio.
Se poi ad alimentare il fanatismo antisemita ci si mettono anche le parole del numero uno della FIFA, Joseph Blatter, le critiche e le strumentazioni diventano una marea. In una recente intervista alla BBC, il capo della FIFA ha ammesso che "ci sono grossi problemi a disputare le finali del campionato europeo under 21 in Israele, specie dopo che durante l'ultima guerra tra Hamas e lo Stato Ebraico caccia israeliani hanno bombardato il Palestine Sport Stadium di Gaza City". Blatter ha detto che la FIFA intenderebbe ricostruire lo stadio e che gli sarebbe piaciuto disputare qualche gara anche in campi di calcio palestinesi perché "vede in questo una opportunità di aiutare la pace". E' più che evidente che nessuno ha detto a Blatter che i terroristi usavano lo stadio di Gaza come piattaforma di lancio per i missili e come grande deposito di armi e che quindi e è stato bombardato non è stato certo per buttare qualche bomba a caso.
Fatto sta che le parole di Blatter sono state subito interpretate come una sorta di ripensamento e come un primo passo verso un incredibile quanto improbabile cambio di programma che prevede (secondo i media arabi) due alternative. La prima è lo spostamento delle finali del campionato europeo under 21 in altro luogo. La seconda è che alcune partite vengano disputate in campi di calcio palestinesi. Il sogno di Blatter, sempre secondo i media arabi, sarebbe di ricostruire lo stadio di Gaza e poi di disputarci qualche partita, magari una semifinale o la finalina per il terzo e quarto posto.
In tal senso stanno lavorando i ricchissimi Stati del Golfo con in prima fila l'Emiro del Qatar che si è già detto disponibile a versare "una cospicua somma di denaro" nelle casse della FIFA se metteranno in atto questa seconda ipotesi. «Le pressioni sulla FIFA sono impressionanti» secondo un anonimo dirigente dell'ente sportivo che ha voluto mantenere l'anonimato.
In realtà Joseph Blatter (che gli arabi chiamano "Sepp" perché Joseph è un nome ebraico) non ha mai detto esplicitamente che quelle sarebbero le sue intenzioni ma ha solo ammesso che ci sono "forti pressioni per non disputare le finali del campionato di calcio under 21 in Israele" e che "la FIFA potrebbe farsi carico della ricostruzione dello stadio di Gaza". Non ha mai parlato di spostare le finali in altro luogo, anzi, lo ha escluso categoricamente. Solo che le sue parole, come sempre avviene, sono state travisate e prontamente strumentalizzate.
E' facilmente prevedibile che con l'avvicinarsi del mese di giugno e quindi della fase finale del campionato europeo di calcio under 21, le pressioni sulla FIFA aumenteranno come aumenteranno le dichiarazioni antisemite dei vari calciatori alla Drogbà, ma soprattutto aumenteranno le manifestazioni anti-israeliane e antisemite negli stadi dove, vedrete, non tarderanno a comparire i primi striscioni a sostegno dei terroristi di Hamas.

(Rights Reporter, 26 dicembre 2012)


Israele e le ragioni per diffidare dell'Unione Europea

di David Harris*

Gli europei spesso esprimono frustrazione per non essere più coinvolti nel tentativo di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Data la vicinanza geografica e il supporto finanziario per lo sviluppo palestinese, gli europei vogliono sapere perché il loro ruolo politico sia così circoscritto. La risposta, credo, si trova in una diffusa convinzione israeliana che troppo spesso l'Europa dia poca attenzione alle preoccupazioni di Gerusalemme. Prendete, per esempio, il voto dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre volto ad aggiornare lo status dei palestinesi a Stato osservatore non membro, nel consesso mondiale. Nonostante le strenue obiezioni di Gerusalemme (e Washington) che una tale mossa avrebbe comportato una battuta d'arresto per il rilancio del processo di pace, premiato la strategia palestinese di bypassare il tavolo dei negoziati, e minato gli Accordi di Oslo del 1993, ben 14 paesi dell'UE, tra cui l'Italia, hanno scelto di sostenere questa mozione. Solo la Repubblica ceca ha votato contro. Ma se avessi dovuto scegliere una sola capitale europea che si sarebbe opposta al provvedimento, avrei detto Praga. Nessun altro paese dell'Unione europea ha una più lunga storia di esplicito sostegno alla creazione di uno Stato ebraico, risalente a quasi un secolo fa, al leggendario presidente Thomas Masaryk; una storia interrotta solo in epoca comunista.
   Inoltre, data la sua storia, la Repubblica Ceca comprende pienamente la vulnerabilità di Israele. Dopo tutto, nel 1938, la Gran Bretagna e la Francia sacrificarono la Cecoslovacchia nel vano tentativo di soddisfare il Terzo Reich. Invece, ovviamente, l'appetito di Berlino ne fu solo stuzzicato, e portò poi alle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Se l'Unione europea si fosse astenuta in blocco sul voto delle Nazioni Unite, così come alcuni Stati membri avrebbero voluto, avrebbe inviato un messaggio più equilibrato ma, per le spinte della Francia, non è stato così. Si consideri inoltre la mancanza di volontà dell'Unione Europea di aggiungere Hezbollah alla lista delle organizzazioni terroristiche. Questa è un'organizzazione implicata in numerose trame omicide, dall'America Latina all'Asia, dall'Europa al Medio Oriente. Tuttavia, sono passati anni da quando la questione è stata sollevata a Bruxelles per la prima volta e non è successo nulla. Ora, ci viene detto, tutto dipende dalle indagini bulgare sull'attacco mortale del mese di luglio, che uccise sei persone. Ma perché dovrebbe essere questa la chiave di volta, come se non ci fossero già pagine e pagine di prove del suo coinvolgimento nel terrorismo, per non parlare delle ripetute minacce di incenerire Israele? E nei giorni scorsi, quattro nazioni Ue - Danimarca, Finlandia, Irlanda e Portogallo - hanno cercato di bloccare una dichiarazione dell'Unione Europea che comprendeva la condanna delle dichiarazioni incendiarie di Khaled Mashaal, il capo di Hamas.
   Ecco un estratto del suo intervento all'inizio di questo mese: «Oggi è Gaza. Domani sarà Ramallah e dopo Gerusalemme, poi Haifa e Jaffa». Solo l'intervento della Germania e, di nuovo, della Repubblica Ceca, ha assicurato il rifiuto di questa retorica odiosa, che ribadisce una volta di più la volontà di Hamas di cancellare Israele dalla carta geografica. Se l'Unione Europea non è in grado di riconoscere Hezbollah come un gruppo terroristico e ha difficoltà a condannare le dichiarazioni "eliminazioniste" da parte del leader di Hamas, come può Israele avere fiducia in un più ampio ruolo europeo? Se l'Unione Europea vuole davvero incrementare questo ruolo, deve in primo luogo mostrare più sensibilità alla non invidiabile posizione di sicurezza di Israele, sia con le parole sia con le opere. Dopo tutto, in un processo di pace che porti a un accordo a due Stati, a Israele, che ha un'estensione pari a due terzi delle dimensioni del Belgio, viene chiesto di assumersi rischi senza precedenti per la pace. L'Europa ha bisogno di chiedersi come può contribuire a mitigare tali rischi. Vedere i gruppi terroristici per quello che realmente sono, è un modo. Così come lo è uno studio serio di quale potrebbe essere il ruolo dell'Ue "il giorno dopo" un qualsiasi accordo di pace, e in che misura potrebbe interessarsi alla sicurezza di Israele.
   I recenti avvenimenti nel mondo arabo sottolineano ancora una volta, i pericoli della zona. La violenza mortale della Siria può essere una fonte di preoccupazione per l'Ue, ne siamo sicuri, ma Damasco condivide un confine con Israele. E lo stesso dicasi per il Libano sotto il controllo di Hezbollah, per Gaza dominata da Hamas, così come per l'Egitto governato dai Fratelli Musulmani e per il Sinai sempre più senza legge né controllo. Nel frattempo, la Cisgiordania è governata dall'Autorità palestinese, specializzata nell'inviare segnali contrastanti: un giorno chiede colloqui di pace, il giorno dopo rifiuta di condannare il lancio dei missili di Hamas contro Israele e cerca la riconciliazione con il gruppo, il cui statuto chiede esplicitamente l'annientamento di Israele. Questa è la realtà del deplorevole quartiere in cui vive Israele. Si tratta di un grido lontano dalla Svezia o anche dall'Italia. E la sovrapposizione della storia ebraica lo rende ancora più netto. Dopo tutto, come popolo della memoria, gli ebrei ricordano che, più di una volta, quelli che hanno chiesto la nostra eliminazione hanno poi cercato di attuarla, sia in Medio Oriente sia in Europa. Mostrando una maggiore sensibilità alla singolare situazione di Israele, l'Europa avrebbe fatto la cosa giusta e, senza dubbio, si sarebbe guadagnata un ruolo maggiore nel processo politico.


* Direttore esecutivo American Jewish Committee www.ajc.org

(l'Opinione, 29 dicembre 2012 - trad. di Carmine Monaco)


L'esordio del più duro dei duri: Shamir jr.

di Aldo Baquis

  
Yair Shamir
TEL AVIV, 28 dic - E' a destra di Benyamin Netanyahu, che si è pubblicamente espresso per la formula dei 'Due Stati per i due popoli'. E' più rigido di Avigdor Lieberman, il quale a volte "é un po' troppo pragmatico": a 67 anni il figlio del coriaceo premier Yitzhak Shamir, Yair, entra di slancio nell'arena politica.
Ha alle spalle una brillante carriera nell'aviazione militare, nell'Industria aerea israeliana (Iai), nella produzione di aerei senza pilota e di satelliti, nonché nelle iniziative di start-up e di high-tech che hanno reso celebre Israele nel mondo. Fra i candidati della lista elettorale 'Likud-Beitenu' (che secondo gli ultimi sondaggi dovrebbe aggiudicarsi le elezioni di gennaio con 33-37 seggi sui 120 della Knesset) l'ingegnere e generale della riserva Yair Shamir occupa il quarto posto.
Visti gli intoppi giudiziari di Lieberman - che domenica sarà incriminato per frode ed abuso di fiducia nel ministero degli esteri - Shamir Jr. (che è entrato in politica attiva solo due mesi fa, poco dopo la morte del padre) sarà di fatto l'esponente principale di Israel Beitenu nella nuova formazione politica.
Il suo nome è di per sé un Manifesto politico. 'Yair' è il nome di guerra di Avraham Stern: il comandante del gruppo armato clandestino 'Lehy' ('Banda Stern'), il "terrorista più ricercato" dal Mandato britannico in Palestina, che era compagno di lotta del padre. 'Shamir', che per gli ortolani israeliani si riferisce quotidianamente al finocchio, evoca in realtà uno strumento fortissimo, di natura tanto misteriosa quanto portentosa, con cui secondo il Talmud re Salomone tagliò le massicce pietre con cui avrebbe eretto il Tempio di Gerusalemme.
Fisicamente, Yair Shamir è la riproduzione del padre: basso, tarchiato, con occhi ammiccanti e un baffetto che accompagna sovente un sorriso sardonico. Politicamente, trasmette sulla stessa lunghezza d'onda. Chi lo conosce bene aggiunge che (come il padre) è molto sospettoso; è di poche parole; e vede nei mezzi di comunicazione israeliani "un male necessario".
Il suo parere sulla magistratura è molto critico, anche per la gestione della incriminazione di Lieberman. "Sono di destra", esordisce in una delle prime interviste. Poi, su richiesta, precisa che con i palestinesi è possibile negoziare solo il loro "buon vicinato" con gli israeliani, ma certo non uno Stato indipendente che "non potrebbe comunque essere costituito nello spazio così ristretto fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo".
Anche sull'Iran Yair Shamir ha idee nette: "Dobbiamo agire, non parlare. Metterci d'accordo in silenzio con gli Stati Uniti.
E' ovvio che non potremmo vivere sotto una minaccia nucleare iraniana. Sarebbe impossibile, un disastro. Quella minaccia va rimossa, con ogni mezzo". Quale incarico vorrebbe ricoprire, se Netanyahu fosse chiamato a formare un nuovo governo ? A Yair Shamir il ministero della difesa andrebbe bene. Ma non disdegnerebbe peraltro il ministero dell'istruzione. "Per ora - conclude - non escludo alcunché ".

(ANSAmed, 28 dicembre 2012)


Tv - A 'Mediterraneo' bimbi palestinesi curati da israeliani

PALERMO, 28 dic. - Nei Territori Palestinesi numerosi bambini nascono con gravi malformazioni cardiache conseguenza diretta dei matrimoni tra consanguinei. Ogni anno centinaia di loro muoiono se non si interviene in tempo. Grazie alla associazione umanitaria francese "Un cuore per la pace", i piccoli malati palestinesi sono operati gratuitamente all'interno di modernissime strutture ospedaliere israeliane.
La scienza per la pace opera dunque cancellando le barriere. Si aprira' dalla Palestina la puntata di fine anno di 'Mediterraneo', il settimanale della Tgr proposto da Giancarlo Licata e realizzato a Palermo in coproduzione Rai - France 3, con la collaborazione di altre televisioni estere, in onda domenica alle 11.05 su Rai Tre. La puntata, condotta da Lucilla Alcamisi, sara' trasmessa dallo straordinario Oratorio di S. Cita, nel centro storico di Palermo, dove in questi giorni dei bambini di tante razze stanno partecipando ad un progetto di recupero e integrazione multietnica.

(Adnkronos, 28 dicembre 2012)


Sondaggi contrastanti sulle elezioni in Israele. Sale la destra di Jewish Home

Naftali Bennett
GERUSALEMME, 28 dic. - Sondaggi contrastanti per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in vista delle elezioni del 22 gennaio. L'indagine condotta da Dahaf vede uno scivolamento a 33 seggi dai 37 stimati il mese scorso per la coalizione di centrodestra Likud-Yisrael che sostiene l'attuale premier. Il Parlamento israeliano conta 120 seggi complessivi. Il partito della destra radicale di Naftali Bennett, Jewish Home, sale invece a 12 seggi, dai 10 previsti in precedenza. Tuttavia un'altra indagine condotta da Maagar Mohot mostra Netanyahu vincente ancora in 37 seggi e il movimento di Bennett a 13. Jewish Home è indicato nei sondaggi come futuro terzo partito, dietro la coalizione di Netanyahu e il partito laburista.

(LaPresse, 28 dicembre 2012)


Hamas autorizza festa al-Fatah a Gaza

Per l'anniversario della fondazione del movimento palestinese

GAZA, 28 dic - Hamas ha annunciato che consentira' ai rivali politici del partito laico di al-Fatah di festeggiare a Gaza, il prossimo primo gennaio, l'anniversario della fondazione del movimento palestinese, avvenuta 48 anni fa.
Al-Fatah aveva chiesto per il mega-radubo la centrale piazza al-Katiba. Ha ottenuto piazza Saraya, di dimensioni inferiori ma tuttavia molto centrale e facile da raggiungere. L'ultima volta che i palestinesi di al-Fatah hanno potuto festeggiare a Gaza e' stato nel 2007.

(ANSA, 28 dicembre 2012)

*

Hamas rilascerà i prigionieri di al-Fatah

di Luca Pistone

Hamas rilascerà i prigionieri del movimento rivale al-Fatah incarcerati per "reati contro la sicurezza" come "gesto di buona volontà" in vista dei colloqui di riconciliazione nazionale, ha dichiarato ieri il vice primo ministro di Gaza, Ziyad al-Thatha.
Thatha, citato dall'agenzia di notizie locale Ma'an, ha precisato che sono 17 i membri di Fatah che torneranno in libertà e alla vita politica nella Striscia di Gaza.
La maggior parte dei politici di al-Fatah ha fatto ritorno in Cisgiordania nel 2007 dopo l'arrivo al potere di Hamas nella Striscia, ma da alcune settimane i responsabili di entrambe le formazioni stanno accettando i membri del movimento rivale nei rispettivi territori per tranquillizzare l'ambiente dinanzi ad un possibile accordo su un nuovo governo di unità palestinese.
Alla fine di novembre, l'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) ha annunciato l'intenzione di rilasciare i prigionieri di Hamas nelle carceri in Cisgiordania anche in quel caso come "gesto di buona volontà" per favorire la riconciliazione politica tra il movimento islamista e il nazionalista al-Fatah.

(Atlas, 28 dicembre 2012)


Roma - Monteverde in festa per il Bet Michael

Un luogo di culto ma anche un centro per lo studio e la crescita. Sorto su un'area messa a disposizione dalla Provincia di Roma, già fruibile da alcuni mesi per servizi religiosi e percorsi formativi (ad inaugurare gli appuntamenti dedicati allo studio una lezione del rav Riccardo Di Segni), il Tempio Bet Michael di Monteverde ha vissuto ieri un nuovo grande momento di festa aperto a tutto il quartiere. Ospite d'onore il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, che ha deciso di trascorrervi le ultime ore del suo mandato. Con lui, tra gli altri, il maskil e rav del Tempio Gadi Piperno, il presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici, l'assessore alle relazioni esterne Ruben Della Rocca e il presidente del XVI Municipio Fabio Bellini. Al cuore degli interventi le tante sfide messe in cantiere, dagli aspetti più prettamente liturgici alla centralità dei percorsi di studio e di confronto; la simbiosi tra Comunità ebraica e Monteverde - tra i quartieri a più alta densità di iscritti della Capitale; l'impegno degli ebrei romani al fianco delle istituzioni per un'Italia sempre più accogliente, plurale e forte delle tante diversità culturali che la compongono. "Terminare l'esperienza da presidente della Provincia in questo luogo è un bellissimo regalo che mi viene fatto. Varcando la soglia del Bet Michael - ha affermato Zingaretti - ho pensato a mia madre, salvatasi dalle persecuzioni razziali a poche centinaia di metri da qua e portatrice di un'eredità culturale che è ogni giorno presente nella mia vita. Chiudere e aprire una nuova fase di impegno in una sinagoga è un'emozione molto forte".

(Notiziario Ucei, 28 dicembre 2012)


Museo della Shoah, nel 2013 al via i lavori: sarà finito in due anni

  
Sarà costruito in un'area adiacente a Villa Torlonia e avrà un costo di 21,7 milioni di euro. Almanno: "Un impegno che avevamo preso nei confronti dei sopravvissuti"
Nel 2013 partiranno i lavori per la realizzazione del museo della Shoah a Villa Torlonia. Il completamento della struttura, su progetto degli architetti Luca Zevi e Giorgio Maria Tamburini, e' previsto nel giro di due anni. Con l'approvazione del testo finale della legge di stabilita', la prima tranche di investimenti prevista per il 2013, circa 3 milioni, e' stata esclusa ai fini del computo del patto di stabilita' Roma.

I COSTI E IL PROGETTO - I costi complessivi dell'opera ammontano a 21,7 milioni di euro. Per farvi fronte Roma Capitale ha ottenuto un finanziamento della Cassa Depositi e Prestiti. Il museo della Shoah sorgera' in un'area adiacente a Villa Torlonia e avra' una sala conferenze, una biblioteca-videoteca-centro di documentazione, una sala per esposizioni temporanee, una libreria e una caffetteria. La Villa fu residenza di Benito Mussolini dal 1925 al 1943. Il via libera per la realizzazione del progetto arriva lo scorso 26 gennaio con il voto unanime dell'Assembla capitolina. Il 23 novembre la giunta poi approva la variazione di bilancio che finanzia la realizzazione del museo, ratificata in seguito dall'assemblea.

LA FONDAZIONE - La Fondazione museo della Shoah Onlus nasce nel luglio 2008 ad opera del comitato promotore del progetto Museo della Shoah, costituitosi alla fine del 2006. Compongono il Cda della Fondazione, Alemanno (vice presidente), Pacifici, il presidente Ucei Renzo Gattegna, Polverini, Nicola Zingaretti e Walter Veltroni. Analoghi musei gia' esistono a Gerusalemme, Washington, Berlino, Londra, Parigi.

GLI OBIETTIVI - Il Museo della Shoah rappresenta l'opera attraverso cui la Fondazione potra' realizzare i suoi obiettivi statutari. Tra questi: il mantenere la memoria della Shoah, il contribuire alla promozione e alla diffusione dei valori dell'uguaglianza e della pace tra i popoli con l'affermazione del principio di fratellanza e di accoglienza di ogni diversita' contro ogni forma di razzismo e discriminazione, il supportare altre iniziative con analoghi fini. Pertanto la Fondazione svolgera' diverse attivita': organizzare eventi sul tema della Shoah, curare pubblicazioni sul tema, organizzare viaggi della memoria, svolgere attivita' di formazione rivolta ai docenti.

L'EVENTO - L'evento e' stato presentato in una conferenza stampa nella sala delle Bandiere del Campidoglio. All'incontro hanno preso parte il sindaco Gianni Alemanno, il presidente della Comunita' Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, il presidente della Fondazione Museo della Shoah, Leone Elio Paserman, il direttore scientifico del Museo della Shoah, Marcello Pezzetti, il presidente dimissionario della Regione Renata Polverini, il presidente onorario della Fondazione Giovanni Maria Flick.

ALEMANNO - "Era un impegno che avevamo preso nei confronti dei sopravvissuti, un'importante nuova opera. Un impegno per sbloccare questi iter burocratici - ha detto Alemanno - il più grande era dato dal Patto di Stabilita'. Tre milioni arriveranno nel 2013, i restanti nel 2014. L'ultimo passaggio sarà in assemblea capitolina: confido che nella prima riunione di gennaio sarà votata all'unanimità l'approvazione definitiva del progetto senza ostruzionismo. Il bando di gara è pronto, sarà internazionale (per la durata di circa due mesi). Se l'approviamo entro gennaio, allora tra febbraio e marzo sarà aggiudiacato il bando e avremo risolto sia l'aspetto burocratico che quello economico".

(Paese Sera, 28 dicembre 2012)


Basket - Montepaschi Siena batte Maccabi Tel Aviv 79-69

SIENA - Nella prima giornata della seconda fase dell'Eurolega la Montepaschi Siena ha sconfitto il Maccabi Tel Aviv il con il punteggio di 79-69. Il miglior marcatore per la Montepaschi è stato Tomas Ress, autore di 18 punti, mentre per il Maccabi è da sottolineare la prova del centro James, anche lui autore di 18 punti.

(Il Messaggero, 28 dicembre 2012)


Una mostra a Gerusalemme dedicata a Erode il Grande

Per la prima volta sarà esposta la ricostruzione della sua tomba

GERUSALEMME - Al Museo d Israele di Gerusalemme si lavora senza sosta per una delle più grandi e importanti mostre che la struttura abbia mai ospitato. A metà febbraio sarà inaugurata la mostra archeologica dedicata a Erode il Grande, governatore della Giudea dal 37 al 4 a.C., uno dei personaggi più affascinanti e influenti della storia classica.La mostra è incentrata sulla scoperta della Tomba di Erode a Herodion e resa visibile dopo 40 anni di ricerche e scavi diretti dal Professor Ehud Netzer."Questa mostra ha richiesto un lavoro enorme. Sono stati portati qui migliaia di frammenti che sono stati rimessi insieme in oltre 3 anni di lavoro. Saranno esposti oltre 100 reperti archeologici unici, che permetteranno di riscotruire il ritratto di un re che ha cambiato per sempre il corso della storia" spiega David Mevorah curatore del museo.Sarà possibile passeggiare attraverso le sale del palazzo del Re, ricostruito per l occasione ed entrare, nella camera ardente del mausoleo del Re."Sappiamo molto di Erode, perché Giuseppe Flavio, lo storico ebreo del primo secolo ci parla di lui, anche il Nuovo Testamento ci parla di Erode che è ricordato nella storia come un sovrano molto crudele ma in realtà dagli ultimi studi è emersi un personaggio complesso e interessante" conclude Mevorah.

Video

(TMNews, 28 dicembre 2012)


La "stretta" di Hamas sulla stampa: limiti ai giornalisti stranieri, obblighi a quelli palestinesi

Miliziani di Hamas durante una delle ultime
conferenze stampa a Gaza City
Un blitz notturno. Quando nei quartier generali i registratori ri-trasmettono il meglio della giornata televisiva. E quando i quotidiani sono ormai in stampa. Un blitz di quelli che magari vuol dire poco. O, forse, tutto. Perché nella sorpresa generale i vertici di Hamas hanno deciso che troppa libertà di stampa fa male. A loro, forse. Alla causa del Jihad, chissà. Di certo, mette in pericolo quel poco - pochissimo - di democrazia che c'è in quel pezzo di terra che si chiama Striscia di Gaza.
E allora. Limiti ai giornalisti stranieri che vogliono entrare - e raccontare - quel che succede a Gaza. Ordine - più o meno esplicito - ai cronisti locali di farla finita con le collaborazioni con la stampa israeliana e le agenzie internazionali. Ovvio, se proprio un giornalista del posto volesse continuare a fare il «corrispondente» può pure farlo. Ma nessuno gli garantisce l'incolumità. Soprattutto di fronte a chi, da anni, vede quel manipolo di cronisti che scrive su Haaretz o Yedioth Ahronoth come spie al servizio di «entità nemiche». Peggio, come dei traditori.
Le cose saranno un po' diverse per chi viene da fuori. Come prima tutti dovranno presentare una richiesta alle autorità centrali di Hamas. Ma mentre prima il nulla osta arrivava nel giro di una giornata, ora di tempo ce ne vorrà molto di più. I miliziani, infatti, si metteranno lì a spulciare tra gli articoli pubblicati, i tweet scritti e gli audio-video mandati in onda per cercare di capire se è stato detto/scritto/raccontato qualcosa di negativo nei confronti di Hamas. In quel caso, saranno considerati «ostili» alla causa palestinese e respinti.
Cosa voglia dire tutto questo, per ora nessuno l'ha capito. Come nessuno ha ben chiaro il motivo del gesto. Forse - azzardano i cronisti palestinesi - i miliziani islamici non hanno gradito il dossier di Human Rights Watch che di fatto boccia la gestione, politica e militare, di Hamas nella Striscia. O, più semplicemente, è solo un modo per ribadire chi comanda nell'area. Quel che è sicuro è che c'è già una vittima: la verità.

(Falafel Cafè, 27 dicembre 2012)


Israele toglie il divieto di importazione dei materiali edili a Gaza

Il 26 dicembre, i funzionari palestinesi e israeliani hanno affermato che Israele ha iniziato a permettere l'entrata di materiali edili a Gaza, e si tratta della prima volta dopo il blocco effettuato da Israele contro Gaza sin dal 2007.
I funzionari di ambo le parti hanno affermato che secondo l'accordo sul cessate il fuoco raggiunto tra Israele e Gaza alla fine del mese, Israele ha allentato appropriatamente il blocco permettendo alle imprese private e ai privati di esportare materiali edili a Gaza.

(CRIonline, 27 dicembre 2012)


'Quiz-shoah' per i liceali

Per stimolare un legame più profondo con quel tragico capitolo della storia

Un 'Quiz - Shoah' per stimolare fra i liceali israeliani un legame più profondo con quel tragico capitolo della storia recente del popolo ebraico: questa l'idea maturata fra gli educatori del 'Collegio di Gerusalemme per lo studio della Shoah'. Lo riferisce il quotidiano Yediot Ahronot.
La responsabile dei corsi, Ester Ferbstein, ha spiegato al giornale che il primo 'Quiz' avrà luogo ad aprile in decine di licei fra 400 studenti ed avrà per tema 'La rivolta del Ghetto di Varsavia', nel suo 70.mo anniversario. I giovani dovranno conoscere in maniera approfodita la routine di vita degli ebrei nel ghetto; le circostanze della loro rivolta; i personaggi che la diressero; le loro tecniche di combattimento; e documenti storici relativi a quegli eventi.
Da anni molti licei israeliani includono nei propri programmi di studi anche visite guidate di una settimana in Polonia, sulle orme di quella che un tempo era una fiorente comunità ebraica e poi nei campi di sterminio nazisti. La nuova iniziativa viene ad estendere ulteriormente l'interesse dei giovani israeliani per l'Olocausto.

(ANSA, 27 dicembre 2012)


Il Vaticano è il portavoce degli arabi palestinesi?

di Giulio Meotti

Il Vaticano sta prendendo attivamente parte al conflitto in Medio Oriente - da una posizione ' judenrein ', lavorando alacremente, nelle ultime settimane, per ridurre Israele all'interno delle indifendibili linee del cessate il fuoco del 1967 .
   Papa Benedetto ha appena incontrato a Roma il capo dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, compiacendosi della recente risoluzione delle Nazioni Unite in favore di uno Stato palestinese non membro. "Si spera che (la risoluzione) incoraggerà l'impegno della comunità internazionale per trovare una soluzione equa e duratura del conflitto israelo-palestinese", si leggeva in un comunicato del Vaticano.
   Abbas si era anche incontrato con il Segretario di Stato, Cardinale Tarcisio Bertone, accompagnato da S.E. Mons. Dominique Mamberti, Segretario per i Rapporti con gli Stati. Il Vaticano ha applaudito il voto dell'Assemblea Generale dell'ONU come "base giuridica" per lo Stato palestinese. Simbolicamente, il leader arabo palestinese ha donato al Papa un mosaico del Sepolcro di Gerusalemme, che recava la scritta: "Abu Mazen, Presidente dello Stato di Palestina".
   Il giorno in cui le Nazioni Unite avevano votato sì al riconoscimento dello "Stato palestinese", il Vaticano aveva commentato che "si tratta di un'occasione propizia per ricordare la posizione comune che la Santa Sede e l'Organizzazione per la Liberazione Palestinese avevano espresso nell'Accordo di base del 15 febbraio del 2000, destinato a sostenere anche il riconoscimento di uno statuto speciale e garantito a livello internazionale per la città di Gerusalemme".
   Nel memorandum firmato dai funzionari del Vaticano e dell'OLP, un'organizzazione di negazionisti che ora è ufficialmente dedita alla deportazione di massa degli ebrei di Israele, la Chiesa cattolica vuole che Israele rinunci alla sovranità del Muro Occidentale (del Pianto) e del Monte del Tempio.
   Il preambolo dell'accordo tra Vaticano e OLP su Gerusalemme dimostra che l'atteggiamento del Vaticano sulla capitale di Israele è ancora prigioniero dell'imperdonabile retorica degli anni '40. L'invito del Vaticano per l'internazionalizzazione della città, recentemente ribadito dal cardinale Jean-Louis Tauran, Capo del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, è impresentabile e anacronistico.
   Invece di collaborare con lo Stato ebraico e riconoscere che l'unico modo per garantire la libertà religiosa è quello di mantenere l'unità di Gerusalemme sotto la sovranità israeliana, il Vaticano abbraccia la causa della fine della sovranità ebraica. E' questo il significato del sostegno del Vaticano al terrorismo diplomatico arabo palestinese presso le Nazioni Unite. Il memorandum tra il Vaticano e gli arabi palestinesi comprende una condanna di "decisioni unilaterali e azioni che alterano il carattere specifico e lo status di Gerusalemme". Ma l'atto più palesemente unilaterale negli ultimi anni è stato l'illegale progetto antisemita sul Monte del Tempio condotto dal Waqf, la fondazione religiosa islamica.
   La Chiesa cattolica, che ora ha scoperto l'esistenza di "diritti" a Gerusalemme, era rimasta totalmente in silenzio anche tra il 1948 e il 1967, quando i suoi rappresentanti avevano assistito al saccheggio sistematico delle sinagoghe. A quel tempo, l'ambasciatore del Vaticano, dalla sua residenza ai piedi del Monte degli Ulivi, poteva osservare da assai vicino la distruzione di oltre 40.000 tombe ebraiche nel più antico cimitero ebraico del mondo.
   "Le Chiese della Terra Santa sostengono la realizzazione dell'Autorità Nazionale Palestinese all'unanimità", ha appena detto in una dichiarazione a un'agenzia di stampa vaticana, il Vicario patriarcale per la Giordania del Patriarcato latino di Gerusalemme, Mons. Maroun Lahham. Poi è stata la volta del Patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, che aveva già accolto con entusiasmo l'accordo raggiunto tra Hamas e Fatah, nonostante che negli gli accordi sia l'OLP che Hamas si richiamassero all'uso della violenza contro gli ebrei: "Per una volta la comunità internazionale e i leader delle nazioni hanno avuto il coraggio di non essere influenzati dalle pressioni e di decidere in coscienza, senza calcolo. Sono grato e felice per questa libertà". Il Patriarca Twal, nominato da Papa Benedetto XVI, è stato alla Casa Bianca per un incontro con l'amministrazione degli Stati Uniti al fine di sostenere il riconoscimento palestinese alle Nazioni Unite.
   Per non essere da meno, la Conferenza americana dei Vescovi Cattolici ha inviato una lettera al Congresso degli Stati Uniti nella quale si dichiarava contraria al taglio degli aiuti ai palestinesi. Un'altra lettera è stata inviata dal vescovo Richard E. Pates, Presidente del Comitato dell'USCCB sulla Giustizia Internazionale e sulla Pace, in risposta al Congresso che doveva decidere in merito al taglio agli aiuti, dopo il voto alle Nazioni Unite. Pates inoltre ha esortato il Segretario di Stato Hillary Clinton a "rafforzare con vigore la netta opposizione degli Stati Uniti alle raccomandazioni del Rapporto della Commissione Levy riguardo ai contatti con il governo di Israele".
   Pochi giorni fa, William Shomali, Vicario Patriarcale del Patriarcato Latino di Gerusalemme,non solo ha condannato la decisione di Israele di costruire nuove case tra Gerusalemme e Maaleh Adumim, ma ha anche spiegato che Israele deve rendere Judenrein tutta la Giudea e la Samaria e evacuare " quel 22 per cento dei territori che sono occupati e non 'contesi' ".
   Inoltre 100 leader cristiani da Israele e dalle zone palestinesi hanno promosso un documento in cui si legge che "l'occupazione israeliana della terra palestinese è un peccato contro Dio e l'umanità". Tra i firmatari si trova il Patriarca emerito Michel Sabbah, Monsignor Rafik Khoury (Seminario del Patriarcato Latino), Sami El-Yousef (Pontificia Missione per la Palestina) e Claudette Habash (Segretario Generale della Caritas, il braccio umanitario del Vaticano più importante del mondo).
   Mons. Antonio Franco, che ha appena lasciato il suo incarico di nunzio vaticano, o ambasciatore, in Israele, sarà ricordato come l'inviato che ha condotto la battaglia della Chiesa cattolica per cancellare il nome di Papa Pio XII allo Yad Vashem. La campagna è stata salutata come un successo da parte del Vaticano, dopo che il Museo israeliano della Shaoh aveva accettato di sostituire una didascalia nella quale veniva ricordato che Pio XII non aveva fatto abbastanza per fermare il genocidio di sei milioni di ebrei da parte della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Se in tempo di guerra il Vaticano avesse preso una posizione morale contro il nazismo, il risultato sarebbe potuto essere diverso per il popolo ebraico.
   Questo accadeva nel 1943. Ma nel 2013 la Chiesa dovrebbe essere più informata. Eppure, com'è stato durante la Seconda Guerra Mondiale, il Vaticano sta di nuovo perseguendo causa comune con coloro che cercano di fare pulizia di ebrei come al tempo della Germania nazista. Il desiderio di Papa Benedetto XVI di riconoscere lo Stato palestinese prima ancora che questo sia sorto (e non è certo che avverrà) ricorda l'impazienza di un altro Papa, Pio XII, di riconoscere il regime nazista quattro mesi dopo la sua istituzione.

(Informazione Corretta, 27 dicembre 2012)


I cattivi, materialisti, stranieri, militaristi, squilibrati, sanguinari israeliani, secondo Canale 4

E i buoni, umanisti, occupati, pacifisti, emarginati, dispossessati palestinesi

di Sergio Della Pergola

Nell'omelia Urbi et Orbi di questa settimana natalizia, il Pontefice Benedetto XVI ha piazzato il conflitto in Israele e in Palestina al secondo posto nelle preoccupazioni ecumeniche, dopo le stragi in Siria. Spesso in passato, in simili occasioni, Israele e Palestina erano state menzionate al primo posto, segno del deterioramento che avviene altrove. Alta la preoccupazione per la situazione in Egitto, ma non al punto di ricordare la comunità dei Copti, solo citate in un più ampio contesto le stragi di Cristiani in Nigeria, non notate le difficili circostanze delle comunità cristiane in Iraq e in Iran. Il ripetuto e consueto riferimento al conflitto in Israele e Palestina come punto di leva del disordine mondiale omette, una volta di più, di registrare che la fuga dei cristiani, e dei cattolici in particolare, dal Medio Oriente riflette l'opprimente intimidazione dell'Islam. La de-cristianizzazione di Betlemme è il prodotto diretto del nazionalismo arabo-musulmano-palestinese a livello locale, e ha ben poco a che fare con l'occupazione militare israeliana che, semmai, ha cercato di tutelare la Chiesa della Natività dalla profanazione dei movimenti integralisti islamici. A Nazaret, che fa parte dello stato d'Israele, i Cristiani si difendono molto meglio e sono in crescita. Un pesante strascico di questo non casuale equivoco si è visto la sera della vigilia natalizia nella trasmissione televisiva Terra sul Canale 4. Si è trattato di una delle più unilaterali, banali, sconcertanti, fuorvianti rappresentazioni del conflitto in Terra Santa, in cui vi è sempre e solo un lato di "cattivi", materialisti, stranieri, militaristi, squilibrati, sanguinari, gli Israeliani - con un Israele che viene consegnato come episodio inevitabilmente erroneo, passeggero e a termine della storia mondiale - e un lato di "buoni", umanisti, occupati, pacifisti, emarginati, dispossessati, i Palestinesi (non è chiaro se Cristiani o Musulmani). La parola "terrorismo" non fa parte di questo lessico dolciastro e confessionale. Hamas non esiste. La barriera di difesa è venuta su per pura durezza dei cuori, non ce n'era alcun bisogno dal punto di vista della sicurezza (dei Palestinesi). Alla fine uno dei "buoni", un grosso signore mite e sorridente, spiega che per il Corano tutti gli ebrei se ne dovranno andare da questa Terra. La giornalista italiana che lo intervista ribatte: "Eh, si?". Per carità di patria non menzioniamo il nome delle tre (ingenue? convinte? inette?) inviate di Terra in Terra Santa e del responsabile dell'intera trasmissione. Per il sottoscritto - che da oltre cinquant'anni conosce bene quei luoghi e criticamente ne segue le vicende - davvero pietosa. Tu quoque, Mediaset?

(Notiziario Ucei, 27 dicembre 2012)


Incontro segreto tra Netanyahu e il re di Giordania

Israele vuole permesso per attaccare siti armi chimiche siriani

ROMA, 26 dic. - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe avuto un incontro segreto con il re di Giordania, Abdullah II, secondo Al-Quds Al-Arabi, quotidiano arabo con sede a Londra. L'incontro è stato interamente dedicato all'ipotesi di un possibile ricorso alle armi chimiche da parte del presidente siriano Bashar al Assad per stroncare la rivolta nel suo Paese.
Secondo alcune fonti, già in passato Israele avrebbe chiesto alla Giordania il consenso per attaccare i siti di armi chimiche siriani. Due delegazioni dell'intelligence siriana si sarebbero recate ad Amman per coordinare la questione con i giordani - riporta il quotidiano Haaretz - ma non avrebbero ancora ricevuto "l'autorizzazione" per la missione.
Secondo alcuni media arabi, l'esercito giordano è comunque in stato d'allerta massima per il possibile uso di armi chimiche da parte di Assad vicino al confine. Nessuna nazione in Medio Oriente, compreso Israele, dispone di un arsenale chimico pari a quello di Damasco.
A questa preoccupazione si aggiunge la massiccia presenza di gruppi jihadisti in Siria che, una volta caduto il regime, potrebbero facilmente impossessarsi di questo arsenale.

(TMNews, 26 dicembre 2012)


Gerusalemme, trovate statuette dell'età del ferro

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"Una testimonianza archeologica di rara importanza": questo, secondo gli esperti, il significato del ritrovamento casuale di un luogo di culto di oltre 2.750 anni fa nella località di Motza, ai margini della superstrada Gerusalemme-Tel Aviv.
Proprio i lavori di sviluppo di quella arteria hanno riportato adesso alla luce un edificio massiccio dell'epoca del ferro che presentava una apertura verso Est: concepita dunque per ospitare i primi raggi del sole nel verosimile contesto di una attività di culto.
A confermare questa ipotesi - avanzata dagli esperti Anna Eirikh, Hamudi Haleila e Shua Kisilevic dell'Autorità israeliana per l'archeologia - sono giunti il ritrovamento di un altare e di minuscole statuette di creta, antropomorfe e zoomorfe. Due di esse rappresentano uomini con capelli ricciuti (uno dei quali forse barbuto), con un copricapo piatto. Altre hanno la forma di animali: in particolare bestie da carico.
Quei reperti risalgono al nono-decimo secolo a.C, ossia all'epoca del regno di Giudea, mentre a breve distanza da Motza si erigeva il primo Tempio di Gerusalemme. Gli studiosi dovranno adesso comprendere se questo luogo di culto era effettivamente gestito da ebrei, e come mai utilizzassero statuette con forme umane ed animali - tanto più in un luogo così maestoso - malgrado la severa denuncia della loro religione di ogni forma di idolatria.

(Ticino News, 26 dicembre 2012)


Sondaggio: aumentano i palestinesi pro-Hamas, stabile l'opinione pubblica israeliana

Significativo aumento delle simpatie dei palestinesi verso Hamas, dopo i combattimenti a Gaza e l'approvazione all'Onu dello "stato non membro di Palestina", mentre la posizione degli israeliani rimane stabile e costante.
È quanto emerge dall'ultimo sondaggio condotto congiuntamente dall'Harry S. Truman Research Institute for the Advancement of Peace dell'Università di Gerusalemme e dal Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah, con il sostegno dell'ufficio del Cairo della Ford Foundation e dalla Fondazione Konrad Adenauer di Ramallah e Gerusalemme (su un campione rappresentativi di 1.270 palestinesi adulti intervistati di persona in Cisgiordania, Gerusalemme est e striscia di Gaza tra il 13 e 15 dicembre 2012 con un margine di errore del 3%, e un campione rappresentativo di 600 israeliani adulti intervistati per telefono in ebraico, arabo o russo tra il 9 e 13 dicembre 2012, con un margine di errore del 4,5%).
Questi alcuni risultati in dettaglio.
- Dato il riconoscimento di uno "stato palestinese" all'Onu e i risultati della guerra di novembre fra Hamas e Forze di Difesa israeliane, considerata una vittoria di Hamas da più dell'80% dei palestinesi, il 60% dei palestinesi intervistati afferma di preferire "l'approccio" di Hamas per "porre fine all'occupazione e costruire uno stato palestinese", rispetto all'approccio di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sostenuto dal 28% dei campione.
- Analogamente, rispetto a un anno fa si registra un aumento di 11 punti percentuali dei favorevoli all'opzione "attacchi armati" come modo migliore per costringere Israele a ritirarsi, e un calo di 7 punti percentuali dei sostenitori di una "resistenza pacifica non violenta".
- Rispetto a tre mesi fa, vi è un aumento di 7 e 8 punti percentuali nelle intenzioni di voto a favore rispettivamente di Hamas in eventuali elezioni legislative, e di Ismail Haniyeh in eventuali elezioni presidenziali. Se i palestinesi dovessero votare oggi, Haniyeh vincerebbe le elezioni presidenziali. La percentuale di voto per Haniyeh risulta la più alta dalla vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006.
- Le opinioni israeliane sul conflitto con i palestinesi risultano notevolmente solide e articolate. Le opinioni degli intervistati circa le opzioni di Israele di fronte al regime di Hamas sulla striscia di Gaza e ai lanci di razzi da Gaza espresse oggi, dopo l'operazione "Colonna di nube difensiva", risultano significativamente uguali a quelle espresse dopo l'operazione "Piombo fuso" del gennaio 2009.
- La strategia che raccoglie più sostegno (40%) è quella che Israele conduca operazioni "ad hoc" contro i lanci di razzi, per poi sganciarsi.
- Una maggioranza del 54% degli israeliani intervistati ritiene che Israele possa rovesciare il regime di Hamas, ma una maggioranza analoga (55%) sostiene il cessate il fuoco con Hamas e il 51% si dice a favore di negoziati con il "governo" di Hamas se necessari per arrivare a un accordo di compromesso coi palestinesi.
- Il 65% degli israeliani considera impossibile raggiungere di questi tempi coi palestinesi una composizione sullo status definitivo, un'opinione condivisa dal 62% dei palestinesi.
- Intervistati circa la loro disponibilità ad un riconoscimento delle reciproche identità come parte di un accordo sullo status definitivo una volta risolte le questioni del conflitto e fondato uno stato palestinese, il 65% degli israeliani si dichiara favorevole a tale riconoscimento reciproco contro il 40% dei palestinesi. Nel settembre 2012, il 62% degli israeliani si diceva favorevole contro il 44% dei palestinesi.

(Hebrew University Spokesperson, Department Of Media Relations, 26 dicembre 2012 - da israele.net)


Hamas vieta ai giornalisti di lavorare per i media israeliani

Controlli e divieti per giornalisti nella striscia

GERUSALEMME, 26 dic - Una severa 'stretta' per limitare il lavoro dei media stranieri, in particolare israeliani, a Gaza sono stati annunciati da Hamas. I giornalisti palestinesi di Gaza che lavorano per media israeliani dovranno tagliare ogni rapporto, pena l'essere considerati al servizio di ''entita' nemiche''. Hamas ha poi deciso di filtrare l'ingresso di cronisti stranieri: dovranno presentare richiesta alle autorita' che - ed e' la novita' - si riservano di vagliare il contenuto dei loro servizi passati.

(ANSA, 26 dicembre 2012)


"Dio li creò maschio e femmina". Il Gran Rabbino di Francia scrive a François Hollande

Presentiamo alcuni estratti di un interessante saggio del Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim, da lui inviato al presidente François Hollande, al primo ministro, Jean-Marc Ayrault, e a tutti i ministri francesi, avente come titolo "Matrimonio omosessuale, omopaternità, adozione. Quello che spesso si dimentica di dire". Presentiamo qui la nostra traduzione dell'Introduzione e la traduzione dell'ultimo capitolo, tratta dalla rivista online "Tempi".

INTRODUZIONE
Gilles Bernheim
Un gran numero di nostri concittadini percepisce la rivendicazione del matrimonio omosessuale come un ulteriore passo della lotta democratica contro l'ingiustizia e la discriminazione, in linea con l'impegno contro il razzismo.
Sarebbe quindi in nome dell'uguaglianza, dell'apertura mentale, della modernità e del dominante pensar-bene che ci viene chiesto di accettare la messa in causa di uno dei fondamenti della nostra società. E inoltre, stando ai sondaggi, questa messa in causa sarebbe già accettabile per una maggioranza dei nostri cittadini e la sua trasformazione in legge non provocherebbe quindi alcun dibattito sulla posta in gioco.
Io penso, invece, che sia della massima importanza esplicitare le vere poste in gioco legate alla negazione della differenza sessuale e di dibattere pubblicamente su queste basi - piuttosto che su principi come l'uguaglianza, che lusingano quelli che se ne fanno i portabandiera, ma la cui invocazione al fine di far trasformare in legge il matrimonio omosessuale, la omopaternità e l'adozione da parte degli omosessuali non resiste molto all'analisi.
In questo saggio propongo di decriptare il discorso dei difensori di questa legge, di passare al setaccio i loro argomenti e di mettere in luce gli effetti negativi delle disposizioni che richiedono. Il mio obiettivo è di contribuire a far emergere un vero dibattito in pubblico perché il soggetto merita di più del tribunale delle buone coscienze, dove i suoi difensori vogliono mantenerlo fino alla votazione della legge, squalificando a colpi di caricature coloro che vorrebbero mettere in discussione i loro progetti e le loro motivazioni.
Le caricature hanno una lunga vita e alcuni potrebbero aver voglia di rigettare l'insieme della mia proposta per il motivo che un Rabbino non dovrebbe uscire dalla sua sfera religiosa o che se la Bibbia vieta l'omosessualità io non avrei più niente da aggiungere.
A queste due obiezioni voglio rispondere subito perché conosco bene l'efficacia degli attacchi ad hominem che riescono a far perdere credito a un interlocutore, a evitare l'analisi dei suoi argomenti e quindi a schivare il dibattito.
Io mi esprimo in qualità di Rabbino, e più precisamente di Gran Rabbino di Francia. Io non sono il portavoce di un gruppo di individui, ma il referente e il portavoce dell'ebraismo francese senza dimensione religiosa.
Come tutti gli altri Rabbini, sono un lettore, un insegnante e un commentatore dei testi della sapienza ebraica che sono contrassegnati da una grande tradizione di dialogo, dialettica, ermeneutica, in poche parole di pluralismo. Ho sempre considerato un dovere l'impegno intellettuale nelle grandi scelte della storia e in primo luogo delle grandi scelte del mio paese. A questo proposito, il progetto di autorizzare il matrimonio omosessuale, come anche il progetto di dare una realtà giuridica a fatti come l'omopaternità e l'adozione, mi riguardano. E' per questo che rifiuto la posizione di ripiego di una minoranza di responsabili religiosi, che consiste nel mettersi fuori gioco ed escludersi dal dibattito con il motivo che esiste un matrimonio religioso oltre a quello civile. Il fuori gioco è un errore quando provoca l'autopromozione.
Il mio prendere la parola è la ponderata espressione di solidarietà che mi lega alla comunità nazionale di cui faccio parte. E' anche l'espressione responsabile dei principi universali che questa comunità ha forgiato e difeso nel corso dei secoli, principi sui quali la Rapubblica è fondata e senza i quali essa non potrebbe sussistere. Se qualcuno che non è ebreo vuole ascoltarmi, accoglierà le mie proposte in funzione del suo giudizio personale, del proprio sistema di valori e della sua propria identità religiosa, agnostica o atea. Potrà, se lo desidera, riconoscere saggezza in loro e attribuire loro un valore morale.
La mia visione del mondo è guidata dalla Bibbia e dai commentari rabbinici - cosa che non sorprenderà nessuno. Per quanto riguarda i soggetti-chiave della sessualità e della procreazione, essa è fondata sulla complementarietà dell'uomo e della donna. In questo saggio mi riferisco esclusivamente al libro della Genesi e quindi ho scelto di non menzionare i divieti di omosessualità contenuti nel Levitico perché io penso che la posta in gioco qui non sia l'omosessualità come fatto, come realtà, quale che sia la mia valutazione di Rabbino a questo proposito, ma il rischio irreversibile di una mescolanza di genealogie, status (il figlio-soggetto che diventa l'oggetto-figlio) e di identità - mescolanza che danneggia l'insieme della società e fa perdere di vista l'interesse generale a vantaggio di un'infima minoranza.
Aggiungerei infine che la mia visione biblica del mondo, dove la giustizia è un principio centrale, mi conduce naturalmente a condannare e a combattere con forza le aggressioni fisiche e verbali di cui sono vittime le persone omosessuali, allo stesso titolo con cui condanno e combatto con forza gli atti e i propositi razzisti e antisemiti.

LA VISIONE BIBLICA DELLA COMPLEMENTARIETÀ UOMO-DONNA
La complementarietà uomo-donna è un principio strutturante nell'ebraismo, in altre religioni, nelle correnti di pensiero non religiose, nell'organizzazione della società, come pure nell'opinione di una vastissima maggioranza della popolazione. Questo principio, per me, trova il proprio fondamento nella Bibbia. Per altri, può trovare il proprio fondamento altrove. Mi concentrerò qui sulla visione biblica, che non esclude altre visioni. «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1, 27). Il racconto biblico fonda la differenza sessuale sull'atto creatore. La polarità maschile-femminile attraversa tutto ciò che esiste, dall'argilla a Dio. Fa parte del dato primordiale che orienta la vocazione rispettiva — l'essere e l'agire — dell'uomo e della donna. La dualità dei sessi appartiene alla costituzione antropologica dell'umanità.
Così, ogni persona è portata, prima o poi, a riconoscere che possiede solo una delle due varianti fondamentali dell'umanità e che l'altra le sarà per sempre inaccessibile. La differenza sessuale è quindi un segno della nostra finitezza. Io non sono tutto l'umano. Un essere sessuato non è la totalità della sua specie, ha bisogno di un essere dell'altro sesso per produrre il suo simile.
La Genesi vede la somiglianza dell'essere umano con Dio solo nell'unione dell'uomo e della donna (1, 27) e non in ognuno di essi preso separatamente. Ciò suggerisce che la definizione dell'essere umano è percettibile solo nella congiunzione dei due sessi. Di fatto ogni persona, a motivo della sua identità sessuale, viene rinviata al di là di se stessa. Dal momento in cui prende coscienza della propria identità sessuale, ogni persona umana si vede così messa a confronto con una sorta di trascendenza. È obbligata a pensare al di là di se stessa e a riconoscere come tale un altro essere inaccessibile, essenzialmente simile a lei, desiderabile e mai totalmente comprensibile.
L'esperienza della differenza sessuale diventa così il modello di ogni esperienza della trascendenza che designa un rapporto indissolubile con una realtà assolutamente inaccessibile. Su questa base si può comprendere perché la Bibbia utilizzi volentieri la relazione tra l'uomo e la donna come metafora del rapporto tra Dio e l'uomo; non perché Dio è maschile e l'uomo femminile, ma perché la dualità sessuale dell'uomo è ciò che esprime più chiaramente un'alterità insormontabile anche nel rapporto più stretto.
È importante che nella Bibbia la differenza sessuale sia enunciata subito dopo l'affermazione del fatto che l'uomo è a immagine di Dio. Ciò significa che la differenza sessuale s'iscrive in questa immagine ed è benedetta da Dio.
La differenza sessuale va dunque interpretata come un fatto naturale, permeato d'intenzioni spirituali. Ne è prova il fatto che nella creazione in sette giorni gli animali non sono presentati come sessuati. A caratterizzarli non è la differenza dei sessi, ma la differenza degli ordini e, all'interno di ogni ordine, la differenza delle specie: ci sono i pesci del mare, gli uccelli del cielo, le bestie della terra, tutti gli esseri viventi sono generati, come un ritornello, «secondo la loro specie» (Gn 1, 21).
In questo racconto la sessuazione è menzionata solo per l'uomo poiché è proprio nel rapporto d'amore, che include l'atto sessuale mediante il quale l'uomo e la donna diventano «una sola carne», che tutti e due realizzano il proprio obiettivo: essere a immagine di Dio.
Il sesso non è dunque un attributo casuale della persona. La genitalità è l'espressione somatica di una sessualità che riguarda tutto l'essere della persona: corpo, anima e mente. È proprio perché l'uomo e la donna si percepiscono diversi in tutto il loro essere sessuato, pur essendo entrambi persone, che ci possono essere complementarietà e comunione.
«Maschile» e «femminile», «maschio» e «femmina» sono termini relazionali. Il maschile è tale solo nella misura in cui è rivolto verso il femminile e, attraverso la donna, verso il figlio; in ogni caso verso una paternità, sia essa carnale o spirituale. Il femminile è tale solo nella misura in cui è rivolto verso il maschile e, attraverso l'uomo, verso il figlio; in ogni caso verso una maternità, sia essa carnale o spirituale.
Il secondo racconto della creazione approfondisce questo insegnamento presentando l'atto della creazione della donna sotto forma di un'operazione chirurgica mediante la quale Dio toglie dal più intimo di Adamo quella che diventerà la sua compagna (Gn 2, 22). Da quel momento né l'uomo né la donna saranno il tutto dell'umano, e nessuno dei due saprà tutto dell'umano.
Viene qui espressa una duplice finitezza:
— Io non sono tutto, non sono neppure tutto l'umano.
— Io non so tutto sull'umano: l'altro sesso resta per me sempre parzialmente inconoscibile.
Ciò conduce all'irrealizzabile autosufficienza dell'uomo. Questo limite non è una privazione, ma un dono che consente la scoperta dell'amore che nasce dalla meraviglia dinanzi alla differenza.
Il desiderio fa sì che l'uomo scopra l'alterità sessuata in seno alla stessa natura: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2, 23) e l'apertura a questo altro gli consente di scoprirsi nella sua differenza complementare: «lei si chiamerà Isha perché è presa da Ish» (cfr. Ibidem).
«L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2, 24). In ebraico «una sola carne» rimanda al «Solo», Ehad, il nome divino per eccellenza, secondo la preghiera dello Shema Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo - Adonaì Ehad» (Dt 6, 4).
È nella loro unione insieme carnale e spirituale, resa possibile dalla differenza e dall'orientamento sessuale complementare, che l'uomo e la donna riproducono, nell'ordine creato, l'immagine del Dio Solo.
A mo' di contrappunto, il capitolo tre della Genesi presenta il peccato come il rifiuto del limite e quindi della differenza: «Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gn 3, 5).
L'albero della conoscenza del bene e del male — «l'albero del conoscere bene e del conoscere male» — simboleggia proprio i due modi di comprendere il limite:
— il «conoscere bene» rispetta l'alterità, accetta di non sapere tutto e acconsente a non essere tutto; questo modo di conoscere apre all'amore e quindi all'«albero della vita», piantato da Dio «al centro del giardino» (Gn 2, 9);
— il «conoscere male» rifiuta il limite, la differenza; mangia l'altro nella speranza di ricostituire in sé il tutto e di acquisire l'onniscienza. Questo rifiuto della relazione di alterità conduce alla bramosia, alla violenza e infine alla morte.
Non è proprio questo che propone il gender, ovvero il rifiuto dell'alterità, della differenza, e la rivendicazione di adottare tutti i comportamenti sessuali, indipendentemente dalla sessuazione, primo dono della natura? In altre parole, la pretesa di "conoscere" la donna come l'uomo, di diventare il tutto dell'umano, di liberarsi da tutti i condizionamenti naturali, e quindi «di essere come Dio»?

Io sono tra coloro che pensano che l'essere umano non si costruisca senza struttura, senza ordine, senza statuto, senza regole; che l'affermazione della libertà non implichi la negazione dei limiti; che l'affermazione dell'uguaglianza non comporti il livellamento delle differenze; che la potenza della tecnica e dell'immaginazione esiga di non dimenticare mai che l'essere è dono, che la vita ci precede sempre e che ha le proprie leggi.
Ho voglia di una società in cui la modernità occupi tutto il suo posto, senza che però vengano negati i principi elementari dell'ecologia umana e familiare.
Di una società in cui la diversità dei modi d'essere, di vivere e di desiderare sia accettata come una possibilità, senza che tale diversità venga però diluita riducendola a un denominatore più piccolo che cancelli ogni differenziazione.
Di una società in cui, nonostante i progressi del virtuale e dell'intelligenza critica, le parole più semplici — padre, madre, coniugi, genitori — conservino il loro significato, allo stesso tempo simbolico e incarnato.
Di una società in cui i bambini siano accolti e occupino il loro posto, tutto il loro posto, senza però diventare oggetto di possesso a ogni costo o posta in gioco del potere.
Ho voglia di una società in cui ciò che accade di straordinario nell'incontro tra un uomo e una donna continui a essere istituito, con un nome preciso.


Il documento originale può essere scaricato dal sito Le Grand Rabbin de France

(Notizie su Israele, 26 dicembre 2012


La sinistra d'Israele è borghese e sta in città. Addio ai kibbutz

La prima Knesset senza figli delle comuni agricole. Il Labour guidato da una "Netanyahu socialdemocratica"

Shelly Yachimovich
"Il Labour non è di sinistra". E' con questa parola d'ordine che Shelly Yachimovich si appresta a riportare i laburisti israeliani secondo partito del paese, dopo il Likud del premier Benjamin Netanyahu, alle elezioni che si terranno il prossimo 22 gennaio. Dopo anni di declino torna in auge il partito-simbolo che ha fatto lo stato ebraico e che per tre decenni lo ha governato indisturbato. Yachimovich, la seconda donna a prendere la guida laburista dopo Golda Meir, è una giornalista popolare che sembra aver fatto sua la regola d'oro con cui i laburisti hanno sempre vinto le elezioni: spostandosi a destra sulla sicurezza per meglio "neutralizzarla", visto che la sicurezza è lo storico cavallo di battaglia dello schieramento opposto. Così è stato con Yitzhak Rabin nel 1992 e nel 1999 con Ehud Barak. E così sta facendo Yachimovich.
"Shelly è la sinistra finta", ha denunciato su Haaretz il corsivista bastian contrario Gideon Levy, che accusa la leader laburista di "sciovinismo". "E' tornato il vecchio Labour: giustizia sociale solo per gli israeliani". Yachimovich è stata attaccata da altre penne storiche come Avirama Golan, Nehemia Shtrasler e da Zeev Sternhell. In un'intervista con Yedioth Ahronoth a cinque settimane dal voto, Yachimovich ha detto che il budget per gli insediamenti "non si tocca". Poi ha scandito la sua posizione "clintoniana": "Ritorno ai confini del 1967, ma tenere i blocchi di insediamenti". Una rivoluzione persino rispetto alla proposta di Ehud Barak del 2000, disposto a cedere tutto a Yasser Arafat.
A chi la attacca da sinistra, Yachimovich risponde che "il Labour non è di sinistra, ma un partito centrista, che cerca la pace in nome del pragmatismo e non di un romantico sogno. Rabin era un falco su questo". Già, Rabin. Con le manifestazioni annuali in sua memoria che hanno perso forza, si fa avanti l'immagine dell'ex eroe di guerra e primo ministro falco pragmatico sulla sicurezza. In una conversazione con il quotidiano Haaretz, Yachimovich ha anche detto di non vedere i coloni come "criminali", anzi il progetto di insediamenti "è stato fondato dai laburisti, è un fatto storico indisputabile".
Yachimovich ha una agenda economica liberal rispetto a quella di Netanyahu, raccoglie dunque le istanze delle famose "tende di protesta", ma sulla sicurezza ha un profilo destrorso. La leader laburista ha votato per elevare allo status di università il principale college che sorge negli insediamenti, Ariel. Nel suo libro "Us", Yachimovich nomina a malapena i palestinesi. Sarà anche per questo che Yariv Oppenheimer, leader di quella organizzazione "Pace adesso" che è simbolo del pacifismo israeliano, non è riuscito a ottenere uno slot elettorale realistico per entrare nel prossimo Parlamento.
Il Labour della Yachimovich è il più "bianco" di sempre. Se ne è andato per entrare nel partito di Tzipi Livni l'ex ministro della Difesa, Amir Peretz, il marocchino figlio di una lavandaia che quando venne eletto alla guida dei laburisti Haaretz scrisse: "Oggi, in Israele, è caduta la Bastiglia". Il nuovo Labour è il simbolo della middle class che non si identifica più con la comunità agricola (i kibbutzim), quella militare (Ehud Barak) o con i burocrati di partito in sintonia con l'élite economica del paese (Shimon Peres). Per la prima volta i laburisti non porteranno in Parlamento membri del kibbutz.
La voglia di destra in Israele ha avuto cascami anche sul partito storico della sinistra radicale, Meretz, il partito di scrittori come Amos Oz, Abraham Yehoshua e David Grossman. Pur di riguadagnare voti, e i sondaggi confermano come vincente questa strategia, Meretz ha dismesso il vecchio armamentario pacifista di Yossi Beilin per tornare a essere il partito di pari diritti per tutti, gay, atei, prostitute e arabi.
Sotto la leadership di Beilin, vero architetto dei negoziati di Oslo, Meretz era sprofondato a tre seggi. Aveva perso molti elettori a sinistra, tra i giovani di Tel Aviv e tra le donne. "La comunità gay - aveva scritto Nahum Barnea su Yedioth Ahronoth - ha scelto Tzipi Livni e non Meretz. Cantanti come Ivri Lider hanno fatto coming out per lei". Come nel Labour, è stata una donna, Zahava Gal-On, a risollevare le sorti di Meretz. Beilin aveva puntato tutto sull'immagine pacifista, ma ha allontanato altri sostenitori, quelli che sceglievano Meretz per le cause sociali, come la battaglia per abbassare i prezzi degli appartamenti a Tel Aviv. "La società israeliana si sta spostando a destra - ha scandito l'ex deputato Avshalom Vilan - e c'è bisogno di una forza alternativa più grande".
Meretz, che all'epoca del governo Rabin poteva contare sul dieci per cento dei seggi in Parlamento mentre nelle ultime elezioni ha ottenuto solo il due per cento, torna alla tradizione che fu di Yael Dayan, la figlia di Moshe, eroe nazionale vincitore della Guerra dei sei giorni del 1967, e della femminista Shulamith Aloni, che invitava gli ospiti in Germania, durante una visita ufficiale, in un ristorante non kosher, dove venivano serviti gamberetti e maiale.
Meretz non porterà più in Parlamento vecchie icone pacifiste, ma Michal Rozin, l'attivista che combatte gli stupri, e arabi come Issawi Frej. Non entreranno alla Knesset Avshalom Vilan e Mossi Raz, ovvero, come nel Labour, per la prima volta dal 1992 non ci saranno rappresentanti dei kibbutz, di cui appena tre anni fa Haaretz scriveva "hanno cambiato la faccia della terra e dello stato di Israele".
E' finita l'èra degli halutzim (i pionieri) che coltivavano la terra, come Golda Meir nel kibbutz Merhavia. La sinistra oggi alberga nella middle class bianca, liberal e urbana. Segno dei tempi, il partito di Lieberman, Yisrael Beiteinu, sembra stia conquistando numerosi consensi nei kibbutz.

(Il Foglio, 26 dicembre 2012)


Eroi nell'ombra

di Francesco Lucrez

Raramente, in vita mia, mi è capitato di essere preso da una lettura come mi è successo col libro (recentemente pubblicato in italiano dall'Editore Castelvecchi, col titolo "La casa di via Garibaldi. Come ho catturato Adolf Eichmann") in cui Isser Harel racconta, fin nei minimi particolari, i lunghi preparativi e la fase di attuazione del progetto dell'individuazione, della cattura e del trasporto clandestino in Israele del famoso ideatore e attuatore della soluzione finale (che, com'è noto, dopo la guerra trovò rifugiò in Argentina, sotto falsa identità). Nei libri di storia si legge unicamente che Eichmann fu intercettato dai servizi segreti israeliani, che lo custodirono per del tempo in un nascondiglio, per poi trasferirlo di nascosto su di un aereo giunto in Argentina per una celebrazione ufficiale. E l'immaginazione, da tale scarna notizia, ci fa vedere in azione uomini duri, brillanti e determinati, alla James Bond, assistiti da modernissimi mezzi tecnologici e, magari, confortati dalla compagnia di seducenti e misteriose ragazze di varia nazionalità. In realtà, Eichmann fu catturato grazie alla straordinaria abnegazione, all'assoluto spirito di sacrificio e all'incredibile abilità di un gruppo di volontari (per lo più scampati alla Shoah, nella quale avevano perso gran parte dei propri cari) che scelsero, affrontando altissimi pericoli personali, di dedicare parte della propria esistenza a un compito che pareva impossibile, ma che li chiamava all'opera con la forza di un imperativo etico assolutamente ineludibile: il compito di trascinare, di fronte a un legittimo tribunale del popolo ebraico, il massimo responsabile, insieme a Hitler, della mostruosa condanna a morte decretata contro lo stesso popolo dalla follia nazista.
Fu solo grazie a questo eccezionale senso del dovere che la missione fu portata a compimento, e che il sottilissimo filo di fumo delle vaghe voci su una presenza di Eichmann in Argentina fu trasformato, dopo lunghissime ricerche - iniziate alla fine del 1957, due anni e mezzo prima del rapimento -, indagini, appostamenti, in una individuazione certa del criminale, nella sua cattura e custodia e poi nel suo trasferimento. Un piano di incredibile difficoltà, nel quale anche i più minuziosi particolari furono preparati con attenzione maniacale, insieme ai preparativi anche di una serie di piani di riserva, nel caso che qualcosa fosse andato storto, qualcuno del gruppo fosse stato scoperto ecc.
Fra le prove più dure che i volontari dovettero osservare, racconta Harel, ci fu lo sgradevolissimo compito di accudire il detenuto nel periodo della prigionia, assicurandosi che restasse in buona salute, e premurandosi ogni giorno di nutrirlo, lavarlo, raderlo, sorvegliarlo anche nei momenti delle funzioni corporali. Un prigioniero che, fin dal primo momento, si mostrò docile come un agnellino, assicurando di essere stato sempre amico degli ebrei - pur avendo egli, dopo la guerra, rivendicato con orgoglio tutto il proprio operato, in un'intervista rilasciata dalla clandestinità a un giornale olandese - recitando brani della Torah e mostrandosi addirittura preoccupato che il piano potesse andare incontro a qualche intoppo imprevisto. Si trattava della sua natura di schiavo che si imponeva - si chiede l'autore -, o di un ingenuo desiderio di salvarsi la vita, grazie a un attestato di buona condotta? Onnipotente alla guida della spaventosa macchina distruttiva germanica, Eichmann, privato del suo giocattolo, si palesò un uomo di incredibile meschinità, codardia, stupidità. E fu soprattutto la convivenza forzata con un tale mostro patetico e disgustoso a mettere a dura prova la resistenza nervosa degli agenti.
Grazie alla forza d'animo di questi uomini coraggiosi, alle ore 0,05 del 21 maggio 1960 l'aereo della El Al si alzò in volo, con il suo carico prezioso e ripugnante, e si aprì quindi la memorabile pagina di un processo che resterà per sempre una pietra miliare nella storia della coscienza umana. Onore agli umili, grandi eroi che hanno permesso l'erezione di questo monumento. Tutti tornati, a missione ultimata, nell'anonimato, senza alcun encomio e alcuna medaglia.

(Notiziario Ucei, 26 dicembre 2012)


Netanyahu scende nei sondaggi, cresce la destra sionista

GERUSALEMME, 25 dic. - La vittoria elettorale dell'attuale primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, torna in discussione. E' quanto emerge da un nuovo sondaggio, che vede la sua lista Likud Beiteinu scendere a 35 seggi sui 120 complessivi del Parlamento, rispetto al precedente sondaggio che alla formazione di Netanyahu assegnava 39 seggi. Le elezioni sono fissate per il 22 gennaio prossimo. Gli intervistati mettono al secondo posto i laburisti, con 17 seggi. Il sondaggio evidenzia la crescita a 13 da 11 seggi del partito della destra sionista Jewish Home, guidato da Naftali Bennett, che la scorsa settimana ha alzato la voce sostenendo che non bisogna abbandonare gli edifici nei territori
colonizzati
A Gerusalemme e in tutto Israele non esistono territori “colonizzati”. Bisogna opporsi all’uso volutamente accusatorio e spregiativo di questo termine.
neppure se a chiederlo è un militare riservista.

(LaPresse, 26 dicembre 2012)


Il patriarca latino di Gerusalemme sostiene la creazione della Palestina

Il capo della Chiesa cattolica in Gerusalemme monsignor Fuad Thwala ha sostenuto l'idea della creazione dello Stato palestinese. Il patriarca latino ha dichiarato che questo Natale "può essere la celebrazione della nascita di Gesù e della nascita dello Stato di Palestina" . Le parole di Fuad Thwala sono state pronunciate alla processione di Betlemme.

(La Voce della Russia, 25 dicembre 2012)


Gli oppositori di Assad lo accusano di usare il gas

Per Israele sarebbe la sua fine

BEIRUT - Potrebbe essere ad una svolta la guerra civile in Siria dopo che un grupo di oppositori ha denunciato l'utilizzo di "gas nervino" da parte del regime di Bashar al-Assad a Homs. Se confermata, la notizia rappresenterebbe uno spartiacque.
La comunita' internazionale, Stati Uniti e Nato in testa, hanno da tempo avvertito il regime siriano che l'uso di armi chimiche non sarebbe tollerato e aprirebbe la strada ad un intervento militare per proteggere la popolazione.
E' stata la tv panaraba Al Jazeera a rilanciare la testimonianza di alcuni attivisti che hanno riferito come almeno sette persone siano morte ad Homs "per aver inalato gas velenoso". Altre decine di persone, secondo le testimonianze, sono rimaste intossicate nel sobborgo di al-Bayyada da un gas "simile al sarin". "Non sappiamo di che gas si tratti, ma i medici ci hanno spiegato che ha effetti molto simili al sarin", ha raccontato l'attivista Raji Rahmet Rabbou, mentre la tv ha mostrato alcuni video in cui si vedono delle persone con chiari problemi respiratori.
Le notizie riferite da Al Jazeera hanno aumentato l'allarme in Israele, che ha reagito con estrema durezza. Se il presidente siriano fara' ricorso alle armi chimiche "segnera' il proprio destino… quella sara' la sua condanna a morte". Lo ha affermato martedi alla radio militare l'ex capo dell'intelligence israeliana, il generale Amos Yadlin.
Ma il ricorso alle armi chimiche, a suo avviso, rappresenta "una linea rossa" che ne' la Russia ne' gli Stati Uniti potrebbero ignorare. Dunque e' "molto improbabile" che Assad ricorra a quella carta. Per Israele, ha aggiunto Yadlin, il crollo definitivo del regime di Assad sarebbe una buona notizia, perche' contribuirebbe a scardinare "l'asse Iran-Siria-Hezbollah".
Intanto la vigilia di Natale e' stata segnata da nuove stragi in una guerra che in 18 mesi ha causato lamorte di 30 mila persone, gran parte delle quali civili. All'indomani dell'uccisione di oltre 90 persone ad Helfaya - colpite da un bombardamento governativo mentre erano in fila per comprare il pane - lunedi sono state almeno 15 le vittime vicino Homs di un altro raid del regime, ancora nei pressi di un panificio.
Sul fronte diplomatico si segnala la visita a Damasco dell'inviato speciale Onu Lakhdar Brahimi, ricevuto da Assad. Ma la situazione e' di stallo completo e la Coalizione dell'opposizione siriana - guidata da Ahmad Muaz al Khatib - ha rifiutato la soluzione politica prospettata proprio da Brahimi in base alla quale il presidente siriano potrebbe rimanere formalmente in carica fino alla scadenza del suo mandato nel 2014: "Rifiutiamo ogni soluzione che non preveda, innanzitutto, l'uscita di scena di Assad", ha detto Khatib.

(Blitz quotidiano, 25 dicembre 2012)


Israele è preoccupato della possibilità di creare "l'asse del male" tra Iran e Bielorussia

Il governo israeliano è preoccupato seriamente della possibilità della creazione del nuovo "asse del male" tra Iran e Bielorussia, che è pronta a consegnare a Teheran moderni complessi contraerei C-300, scrive il giornale tedesco Der Spiegel, sottolineando che Minsk ha tanti complessi contraerei. Secondo il parere degli esperti tedeschi, i C-300 sono in grado di proteggere gli obiettivi nucleari iraniani da eventuali attacchi dell'aviazione israeliana o americana. L'Iran ha già cercato di la proprietà dei complessi, tuttavia i tentativi di comprarli dalla Russia non sono finiti con successo.
Der Spiegel ritiene che l a Bielorussia cerca modi supplementari per rimpinguare il fisco che rende quell'affare abbastanza opportuno. Israele non commenta questo comunicato.

(La Voce della Russia, 25 dicembre 2012)


Human Rights Watch denuncia il lancio di razzi da Gaza verso Israele

I gruppi armati palestinesi nella striscia di Gaza hanno violato in modo flagrante le leggi di guerra e il diritto internazionale, durante il conflitto del 14-21 novembre scorso, lanciando centinaia di razzi contro centri abitati israeliani e facendosi scudo dei civili palestinesi. Lo afferma, a più di un mese dalla fine degli scontri, l'organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch con un comunicato diffuso lunedì.
Secondo le Forze di Difesa israeliane, circa 1.500 razzi sono stati lanciati contro Israele durante l'operazione anti-terrorismo "Colonna di nube difensiva". Almeno 800 sono riusciti a colpire Israele e di questi una sessantina sono riusciti a colpire aree densamente abitate da popolazione civile (nonostante il sistema anti-missile israeliano "Cupola di ferro" abbia intercettato in volo la maggior parte dei razzi diretti sui centri abitati). I razzi palestinesi, compresi i primi mai lanciati da Gaza su Tel Aviv e Gerusalemme, hanno causato complessivamente tre morti e un quarantina fra feriti e mutilati, oltre a provocare vasti danni a edifici e veicoli pubblici e privati.
"I gruppi armati palestinesi - afferma ora Sarah Leah Whitson, direttrice di Human Rights Watch per il Medio Oriente - hanno dichiarato apertamente che la loro intenzione era colpire civili. Non esiste semplicemente nessuna giustificazione legale per il lancio di razzi su aree abitate". Human Rights Watch sottolinea che, in base al diritto umanitario internazionale e alle leggi di guerra, civili e strutture civili non devono essere fatte oggetto di attacchi deliberati né di attacchi che per loro natura non discriminano minimamente fra obiettivi civili e militari. "Chiunque commetta gravi violazioni delle leggi di guerra, intenzionalmente o per totale noncuranza, si rende responsabile di crimini di guerra" afferma il comunicato dell'organizzazione.
Human Rights Watch spiega d'aver intervistato testimoni, vittime e parenti di persone uccise o ferite da razzi lanciati su Israele nonché i rappresentanti israeliani di due comunità colpite dai razzi palestinesi e un portavoce dei servizi medici di pronto soccorso.
L'organizzazione aggiunge che le sue ricerche nella striscia di Gaza hanno rilevato che i gruppi armati palestinesi hanno "ripetutamente lanciato razzi da zone densamente popolate, in prossimità di abitazioni, attività commerciali e un albergo, ponendo inutilmente i civili nelle vicinanze in grave pericolo per il fuoco di risposta israeliano". Il comunicato riporta dettagliati esempi di razzi lanciati da aree di Gaza densamente popolate e accusa i gruppi armati palestinesi di non aver mai avvisato la popolazione civile di sgomberare la zona, e di portarsi al riparo prima, prima di lanciare razzi dalle vicinanze.
Human Rights Watch riferisce che i gruppi palestinesi noti per aver lanciato razzi contro Israele - le Brigate Izz al-Din al-Qassam di Hamas, le Brigate Saraya al-Quds della Jihad Islamica e le Brigate Nasser Salahaddin dei Comitati di Resistenza Popolare - hanno cercato a volte di giustificare il loro fuoco contro civili israeliani definendolo "una rappresaglia" contro il fuoco israeliano. "Ma le leggi di guerra - sottolinea Human Rights Watch - proibiscono le rappresaglie contro civili indipendentemente dal comportamento della controparte", mentre "le dichiarazioni di questi gruppi armati sul fatto che miravano deliberatamente a una città israeliana o a civili israeliani dimostrano la loro intenzione di commettere crimini di guerra".
"Hamas, nella sua qualità di autorità che governa sulla striscia di Gaza - ha concluso Sarah Leah Whitson - ha il dovere di far cessare gli attacchi illegali e di punire i responsabili".

(YnetNews, Jerusalem Post, Israel HaYom, 24 dicembre 2012 - da israele.net)


Netanyahu twitta in arabo per "rafforzare" il dialogo

GERUSALEMME, 24 dic. - Mossa a sorpresa del premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha iniziato a twittare in arabo. L'obiettivo dichiarato sian dal primo cinguettio nella lingua dei 'nemici' e' quello di voler "intensificare" il dialogo con la controparte nella regione. Il nuovo account arabo di Netanyahu e' stato lanciato, piuttosto in sordina, il 13 dicembre e conta al momento poco piu' di 550 follower, la maggior parte da Egitto, Iraq e Libano, contro gli oltre 57.000 della versione in inglese.

(AGI, 24 dicembre 2012)


Auguri di Netanyahu ai cristiani

In Israele la comunita' cristiana è 'forte e in crescita'

GERUSALEMME, 24 dic - Auguri natalizi al mondo cristiano sono stati formulati dal premier israeliano Benyamin Netanyahu. Mentre in Medio Oriente le comunita' cristiane si riducono, nota il premier, in Israele la comunita' locale dei cristiani ''e' forte, in crescita e del tutto inserita nella vita del Paese''. Riferendosi agli episodi di vandalismo contro istituzioni cristiane, Netanyahu ha ribadito che Israele garantira' il pluralismo e la liberta' di religione e proteggera' i luoghi di culto cristiani.

(ANSA, 24 dicembre 2012)


Un'inedita testimonianza - La storia di White Christmas

di Rossella Tercatin

Sono in tanti a notare incuriositi che molte tra le più popolari canzoni natalizie sono opera di compositori ebrei, dalla malinconica I'll Be Home For Christmas di Walter Kent alla divertente Rudolph the Red-Nosed Reindeer di Robert Lewis May. Ogni anno, avvicinandosi al Natale, i giornali propongono elenchi di canzoni e storie di compositori. La prima citata, invariabilmente, è White Christmas di Irving Berlin.
   Nato in Russia Israel Baline nel 1888, figlio del cantore di una sinagoga, Berlin si trasferì a New York nel 1893. Fin dal primo successo internazionale datato 1911, Alexander's Ragtime Band, la sua fu una
carriera lunga e di successo planetario, con 1500 canzoni e le colonne sonore di 18 produzioni di Broadway e 19 film di Hollywood. White Christmas è considerata il singolo più venduto di tutti i tempi dal Guinness dei Primati nella versione cantata da Bing Crosby per il film Holiday Inn con Fred Astaire nel 1942.
   Da sempre un grande mistero aleggia sulle circostanze in cui la canzone fu effettivamente composta. Si sa che Berlin era famoso per la sua tecnica di scrittura particolare, a getto continuo, con le parole che spesso assumevano maggiore rilevanza delle note. Forse anche perché le note Berlin non era in grado di trascriverle, e così pagava qualcuno, la sua segretaria o un musicista, per farlo al suo posto. E coerentemente con questa storia, una testimonianza inedita racconta come la più amata canzone di Natale di tutti i tempi fu composta a Londra in una notte invernale all'inizio degli anni Quaranta. "Eravamo all'Hotel Savoy e stavamo bevendo un cocktail in attesa di Alex (il produttore cinematografico sir Alexander Korda ndr), quando lui entrò al bar accompagnato da un uomo basso, magro, che sembrava ebreo. Ce lo presentò come Irving Berlin. Ero così emozionata di conoscerlo e glielo dissi, cosa che sembrò fargli piacere". A ricordare l'incontro nelle sue memorie è Patricia Wilcox, figlia del regista e produttore britannico Herbert Wilcox, che racconta.
   "Prendemmo un taxi diretti al Claridges. Quando passammo vicino a Piccadilly iniziò a nevicare e Alex borbottò qualcosa a proposito del tempo da lupi. Io eccitata risposi 'Che bello, avremo un bianco Natale' e Berlin si diede un colpo al ginocchio e disse 'Ecco il titolo che stavo cercando'. Mi spiegò che stava lavorando a una canzone per un film di Bing Crosby, ma che non trovava le parole giuste. Poi, emozionato quasi quanto me, chiese ad Alex se aveva un pianoforte, della carta pentagrammata e qualcuno che potesse scrivere la musica. Alex rispose sì alle prime due domande e no alla terza. E allora dissi che potevo farlo io (…) Quando arrivammo al Claridges, Alex prese la carta necessaria dall'orchestra dell'albergo, e andammo tutti nella Pent House. Lì Berlin, con la sua voce buffa, canticchiò la melodia e io presi nota. Mi disse solo di aggiungere la scritta 'Avremo un bianco Natale' e che poi avrebbe lavorato al resto delle parole più tardi. Quella canzone divenne White Christmas".
   "Quella di White Christmas è una storia che mia madre ci ha raccontato tante volte - spiega il figlio di Patricia, Chris Jarratt - Andava orgogliosa del suo contributo e ogni volta che la ascoltava, anche in tarda età, scherzava sempre 'Peccato che io non abbia chiesto una percentuale'".

(Notiziario Ucei, 24 dicembre 2012)


Glasnost fra Turchia e Israele

Ankara toglie il veto alle cooperazioni non militari della Nato con Israele. Ma, precisa una fonte diplomatica turca, restano comunque bloccate le manovre militari congiunte Nato-Israele.

La Turchia ha accettato di revocare il suo veto alle cooperazioni non militari della Nato con Israele, un veto posto nel 2010 dopo l'assalto dell'esercito israeliano contro la nave di aiuti umanitari turchi per Gaza . Ankara e gli altri 27 altri membri dell'Alleanza atlantica hanno approvato nel corso della riunione dei ministri degli Esteri della Nato, il 4 dicembre a Bruxelles, una proposta del segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, volta a sbloccare la cooperazione con i paesi terzi.
In questo modo Ankara ha accettato la partecipazione di Israele a "diverse attività in agenda" per il 2013, dai "seminari, ai corsi, alle conferenze", in cambio di un'analoga revoca di alcuni paesi Nato nei confronti di paesi amici della Turchia, in particolare nel mondo arabo. Le manovre militari congiunte Nato-Israele restano comunque bloccate, ha precisato una fonte diplomatica turca.

(formiche, 24 dicembre 2012)


Crimini di guerra a Gaza

L'attività terroristica a Gaza ha raggiunto un livello particolarmente elevato, se anche un'organizzazione spesso parziale come Human Right Watch ha sentito il bisogno di lanciare l'allarme sull'escalation sperimentata nella Striscia durante il mese di novembre. Addirittura HRW ha additato Hamas, il Jihad Islamico e il FPLP come organizzazioni «terroristiche», sfuggendo al politicamente corretto che porta i media e le ONG occidentali a definire militanti o semplici combattenti, chi attenta alla vita altrui.
Il direttore della sezione mediorientale di HRW non ha esitato a denunciare l'atteggiamento deliberatamente criminale di Hamas prima e durante l'operazione "Pillar of Defense" lo scorso agosto: «gruppi armati palestinesi hanno esplicitato la volontà di colpire la popolazione civile [...] sparando missili e razzi da aree densamente popolate, nei pressi di abitazioni, fabbricati industriali e alberghi, esponendo la popolazione locale al rischio di essere esposti alla reazione israeliana». E ancora: «il diritto di guerra vieta gli attacchi di rappresaglia contro la popolazione civile nemica. Ciò dimostra l'intento di commettere un crimine di guerra».
Fra il 14 e il 21 novembre, oltre 1500 missili sono stati sparati dalla Striscia di Gaza verso Israele, ferendo o uccidendo 40 persone, senza contare morti e feriti nell'enclave palestinese per missili difettosi ripiombati a terra, o le vittime scaturite dall'impiego spietato di donne e bambini come scudi umani.
HRW continua nella sua denuncia puntando il dito sull'Iran, che avrebbe fornito armi e munizioni ai terroristi palestinesi. Lo stato islamico e i terroristi palestinesi vanno puniti per le loro gravi violazioni del diritto, è la conclusione dell'organizzazione non governativa. Ci si chiede dove si trovasse HRW prima delle operazioni israeliane, resesi necessarie proprio in seguito agli attacchi incessanti provenienti da Gaza verso il milione di persone abitanti nell'Israele meridionale. Forse il clima natalizio rende tutti più sinceri; forse lo stesso clima permette di recitare un comodo mea culpa, nella fondata convinzione che l'atto di denuncia risulti in larga misura inascoltato.

(Il Borghesino, 24 dicembre 2012)


L'Egitto approva la nuova Costituzione: la sharia, fonte principale della legislazione

L'Egitto approva la nuova Costituzione. La nuova carta che definisce la "sharia", la legge islamica, come fonte principale della legislazione nazionale, risulta essere stata approvata dal referendum confermativo con il 64% dei sì anche se i risultati ufficiali arriveranno solo lunedì. A votare è stato circa il 32% degli aventi diritto. E' quanto annuncia il partito dei Fratelli musulmani egiziani, Giustizia e Libertà, dopo lo scrutinio dei due terzi dei voti al secondo turno. "Il popolo egiziano continua la sua marcia verso il completamento della costruzione di un moderno Stato democratico, dopo aver voltato la pagina dell'oppressione" si legge in una nota diramata dal partito. Ma l'opposizione denuncia brogli e fa sapere che presenterà ulteriori iniziative contro la nuova Carta costituzionale. Il referendum si è tenuto in due tornate, il 15 e il 22 dicembre, in zone differenti del Paese, a causa della scarsità di magistrati di controllo che hanno boicottato le consultazioni. A vigilare sulla sicurezza sono stati disposti circa 250 mila tra poliziotti e militari. Sul fronte istituzionale intanto il governo del presidente Morsi continua a perdere elementi: ieri il vicepresidente Mohamed Mekki, esponente della magistratura egiziana, ha rinunciato al proprio incarico e si è dimesso anche il governatore della Banca Centrale, Faruq el Oqda, in carica dal 2003. Dimissioni, queste ultime, smentite poi però dal governo. In entrambi i casi la rinuncia sarebbe legata a divergenze con Morsi.
Per un'analisi su quanto sta accadendo in Egitto, Massimiliano Menichetti ha chiesto l'opinione di Valentina Colombo, della European Foundation for Democracy, ordinario di Cultura e geopolitica dell'islam all'Università Europea di Roma:

R. - Nel gennaio 2011, tutti noi avevamo creduto nelle "primavere arabe". Chi conosceva Paesi come la Tunisia, l'Egitto, sapeva che erano sottoposti a regimi dittatoriali atroci, quindi una rivoluzione che lasciava presupporre una vera democrazia ha aperto il cuore. Purtroppo però, questa democrazia ha portato al potere i cosiddetti estremisti moderati, ovvero i Fratelli musulmani, che sono estremisti e non sono moderati, mettendo a repentaglio le libertà personali: in primis, le libertà delle minoranze e tra queste le libertà delle minoranze cristiane e delle donne. Abbiamo di fronte un diritto in cui l'islam è la religione naturale dell'uomo, in cui la libertà di culto, di conversione a un'altra religione, non esiste, non è concessa. L'apostasia viene punita con la condanna a morte e già questo è qualcosa di universalmente inaccettabile.

D. - Cosa si profila per la donna in questi Paesi?
R. - Laddove noi ci avviamo ad avere, sia in Tunisia sia in Egitto, Costituzioni dove la sharia, il diritto islamico, è la fonte principale della legge, noi sappiamo che da quel momento in cui queste Costituzioni saranno approvate, la donna varrà la metà dell'uomo.

D. - Non è un modo dire…
R. - Assolutamente. Il diritto islamico, in qualsiasi sua interpretazione, dalla più liberale alla più radicale, prevede che la donna erediti, per esempio, la metà dell'uomo e che la testimonianza di un uomo equivalga alla testimonianza di due donne.

D. - Il soggetto Fratelli musulmani chi è? Qual è il volto di questa realtà?
R. - I Fratelli musulmani nascono in Egitto nel 1928 e sono anzitutto un movimento molto organizzato, capillarmente diffuso in Egitto, perché hanno da sempre svolto un'azione sociale. In questo momento loro - ben organizzati, ben finanziati e grandissimi comunicatori - hanno capito che devono abbandonare il "linguaggio islamico". Per cui, dall'inizio della primavera araba, noi abbiamo avuto una cancellazione dello slogan elettorale, politico, dei Fratelli musulmani "l'islam è la soluzione", diventato "la libertà e la giustizia sono la soluzione". Dobbiamo ricordarci però che questa libertà e questa giustizia non sono libertà e giustizia universali, come espressi nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ma sono libertà e giustizia dal punto di vista islamico.

D. - Giustizia o libertà cosa significano queste parole nel mondo islamico?
R. - L'esempio più calzante è la parola "libertà", che in senso islamico è contrario di schiavitù, null'altro. E' sempre una libertà limitata dalla sharia, dal diritto islamico che non prevede, per esempio, la conversione di un musulmano durante la religione. Per cui, quando io dico libertà è sottinteso che quel tipo di libertà non la devo neanche considerare tale, non la devo ottemperare.

D. - La radice sulla quale i Fratelli musulmani si muovono, lo scopo, è la creazione di uno Stato islamico unico?
R. - Si. E' fondamentale nel pensiero dei Fratelli musulmani, e si ritrova esplicitamente nel teologo Qaradawi, l'imam di Al Jazeera, il primo imam a predicare in piazza Tahrir dopo la rivoluzione. Lui dice chiaramente: con moderazione si arriverà ad uno Stato islamico unificato.

D. - Questo vale da sempre?
R. - Fin dai tempi del quinto Congresso dei Fratelli musulmani del 1939.

D. - Dunque il futuro sembra costellato di luci ed ombre...
R. - Tutte quelle nazioni che sono state sottoposte ad anni di dittature. Il mondo arabo deve crescere, deve imparare a gestire e a godere della democrazia, deve percorrere una lunga strada. Lo farà, ci riuscirà, ma di sicuro avrà bisogno dell'aiuto e del sostegno dell'Occidente, che forse dovrebbe smettere di credere agli estremisti moderati e credere ai musulmani nella loro pluralità: quindi agli egiziani, ai tunisini ai siriani e così via.

D. - Più ponti di dialogo e di confronto?
R. - Assolutamente. Dobbiamo convincerci che il mondo arabo e il mondo islamico sono mondi plurali.

(Radio Vaticana, 23 dicembre 2012)


Hamas prepara l'attacco sulla riva occidentale del Giordano

Khaled Mashal, capo del politburo di Hamas, ha dato ordine alle cellule dell'organizzazione stanziate sulla sponda occidentale del Giordano di prepararsi alla lotta armata per il potere nei territori palestinesi. Da quanto comunicato dal Sunday Times, si parla di preparazione alla presa di potere secondo uno scenario simile a quello svoltosi a Gaza nel 2007.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ricevuto dai servizi segreti e dai servizi di sicurezza diversi avvertimenti nell'ultimo periodo. Secondo queste indiscrezioni Hamas starebbe acquistando forza nei territori autonomi. Durante le ultime settimane i tentativi di attacchi terroristici sulla sponda occidentale sono sensibilmente aumentati. Si registra un notevole incremento nell'attività dei gruppi islamici.

(La Voce della Russia, 23 dicembre 2012)


Netanyahu: prepararsi a un vasto cambiamento ai vertici del regime siriano

ROMA, 23 dic - Israele ''sta seguendo gli sviluppi del conflitto in Siria e sta collaborando con gli Stati Uniti e la comunita' internazionale'' affinche' si ''prendano le misure necessarie per prepararci all'eventualita' di un cambiamento di vasta portata ai vertici del regime di Damasco''. Lo ha dichiarato il primo ministro dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu, durante una riunione di governo, secondo quanto riporta Ynet.

(ASCA, 23 dicembre 2012)


Il Movimento Cinque Stelle e il Giorno della Memoria

Il rappresentante del Movimento Cinque Stelle al Consiglio di Zona 3 di Milano Patrizia Bedori ha votato contro la proposta di finanziamento a tre spettacoli per la celebrazione del Giorno della Memoria. Una scelta comunicata con le lacrime agli occhi perché dettata dalle indicazioni degli attivisti del Movimento attraverso la rete, e non dalle convinzioni personali.
Gli attivisti del Movimento Cinque Stelle del Consiglio di Zona 3 di Milano si sono espressi contro il finanziamento attraverso il forum e al consigliere non è rimasto altro da fare che seguire l'indicazione di voto. "Mi sono emozionata perché personalmente ero favorevole alle iniziative in occasione della Shoah - ha dichiarato - ma noi eletti siamo solo portavoce". "Spero che Grillo intervenga personalmente e con parole chiare - l'auspicio del portavoce della Comunità ebraica di Milano Daniele Nahum - Questa non è la prima uscita infelice del Movimento 5 Stelle. Spesso i commenti in rete degli attivisti grillini sfociano nella xenofobia".
La notizia della presa di posizione del Movimento Cinque Stelle al Consiglio di Zona 3 è rimbalzata sui social network. La risposta non si è fatta attendere. "E' la zona 3 di Milano a fornire il nuovo pretesto per una campagna mediatica di sistema - si legge nel comunicato - gli attivisti 5 stelle in zona 3, hanno deciso, in questo momento di gravissima crisi economica, di concentrare con priorità assoluta le pur esigue risorse di zona, su iniziative a favore dei meno fortunati fra i nostri concittadini (…) Cogliamo l'occasione per chiarire che noi del movimento 5 stelle abbiamo la memoria nel nostro DNA e la trasmetteremo anche ai nostri figli perché crediamo che i massacri e le persecuzioni razziali, religiose, di genere, politiche, siano tutte da ricordare e da condannare".
Gli spettacoli si faranno comunque perché il finanziamento è stato votato all'unanimità da tutti gli altri consiglieri.

(Notiziario Ucei, 23 dicembre 2012)


Il presidente della Lazio Lotito: "Il razzismo non mi va giù"

In seguito agli ultimi episodi di intolleranza legati al mondo del calcio, il presidente della Lazio Claudio Lotito ha rilasciato al giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche la seguente intervista, che appare sul numero di gennaio attualmente in distribuzione .

di Adam Smulevich

Claudio Lotito
Arriva con un po' di ritardo sulla tabella di marcia ma l'attesa è ricambiata da un colloquio intenso e assolutamente informale. Per due ore - anche qualcosa di più - Claudio Lotito, verace presidente della Lazio, ci apre le porte della sua villa romana per parlare di razzismo nel mondo del calcio, delle iniziative da adottare per contrastare chi diffonde odio tra gli spalti, dell'impegno di moralità e trasparenza assunto dal momento del suo ingresso in società. Era l'estate del 2004, la Lazio sembrava sull'orlo del collasso e vicina a una retrocessione d'ufficio per demeriti gestionali. Lotito, imprenditore di successo nel settore delle pulizie, fu accolto come un salvatore della patria. I risultati sul campo parlano di un piccolo miracolo sportivo: salary cap relativamente contenuto e piazzamenti da top team. Sul fronte della "moralizzazione" siamo a buon punto anche se il percorso è ben lontano dal potersi dire esaurito. Nel corso del colloquio ferma ricorrerà da parte sua una richiesta, supportata da citazione latina ad hoc (d'obbligo, per chi conosce il personaggio). "Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? - si chiede Lotito - Fino a quando dovremo sopportare questo accanimento? Basta con i processi mediatici, la tifoseria laziale non è razzista".

- Presidente, non negherà che esista una pericolosa deriva estremista tra i supporter biancocelesti.
  E invece contesto questa lettura. È una visione distorta, estremamente dannosa per tutti quanti. Per il sottoscritto, per i tifosi, per l'immagine del calcio italiano nel mondo.

- Eppure alcuni episodi, supportati da foto e video inequivocabili, sembrano indicarci un orientamento diverso.
  Mi sembra palese che siamo di fronte a strumentalizzazioni di episodi numericamente ristretti ma che, attraverso la penetrazione invasiva dei moderni strumenti tecnologici, attraverso un sistema di cattiva informazione che contesto senza mezzi termini, esasperano gli animi e ci allonanano dalla verità.

- E quale sarebbe la verità?
  La verità è che questi episodi sono riconducibili a un numero di persone decisamente limitato. Siamo in presenza di un fenomeno marginale che deve essere riportato con rigore e correttezza da chi ha responsabilità nel mondo della comunicazione. Molto spesso questo non avviene e così ci ritroviamo costantemente nell'occhio del ciclone per pochi scemi quando tutti sanno quanto sia forte e proficuo il nostro sforzo per isolare i violenti. Il razzismo fa schifo, è una piaga sociale da estirpare senza la minima esitazione. Ma non si combatte gettando discredito su una società e alimentando polemiche sterili. Vogliamo ricordare cosa accadeva fino a pochi anni fa? Devo citare il caso Winter e tanti altri deprecabili episodi? Non è palese l'inversione di tendenza? Francamente mi sono stufato di sentire così tante illazioni sul nostro conto. C'è persino chi è arrivato a chiedere l'esclusione della Lazio dalle coppe europee dopo i fatti di Campo dei Fiori. Che c'entra la Lazio? Che c'entra la nostra tifoseria con quell'orribile episodio?

- E con i cori antisemiti cantati in Curva Nord durante l'incontro con il Tottenham, peraltro ultimo atto di una serie di manifestazioni verbali aggressive?
  Io non li ho sentiti e comunque si tratta di poche decine di persone. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.

- Non crede che questa dichiarazione potrebbe essere interpretata come un disimpegno?
  No e lo dico costruttivamente, da amico di provata fede di Israele e della Comunità ebraica. Credo che porre troppa enfasi su questi episodi finisca per dare eccessiva visibilità a fenomeni minoritari che noi tutti siamo chiamati a contrastare nel modo più adeguato. Dobbiamo essere vigili perché l'emulazione, con le demenziali regole del branco, è un pericolo davvero forte in questi casi. Avverto un clima d'allarme eccessivo. Non nego che talvolta accadano episodi spiacevoli ma stiamo alimentando un mostro che non esiste più.

- Non tutti avranno la sua stessa lettura dei fatti.
  Pazienza, sono stanco di essere offeso.

- Offeso?
Sì, offeso. Chi offende la Lazio e i suoi tifosi offende il sottoscritto. Pochi sembrano ricordarsi che vivo sotto scorta e pago ogni giorno il prezzo del mio impegno contro i violenti con una libertà di movimento limitata. Lei arrivò alla Lazio nel 2004 prometendo nuova moralità nel mondo del calcio.

- Cos'è cambiato da allora?
  Tante cose.

- Sia più preciso.
  Voglio dire che da quando sono arrivato io certi personaggi hanno smesso di frequentare le curve. Chi è rimasto, di quella risma, è assoluta minoranza. D'altronde è impensabile eliminare del tutto la stoltezza dall'umanità. Un livello minimo di inettitudine è fisiologico ma non deve farci desistere dal portare avanti determinate battaglie. Voglio comportamenti ineccepibili anche dai nostri giocatori. È per questo che con alcuni di loro ho preferito non proseguire il rapporto di lavoro.

- A chi si riferisce?
  Mi riferisco a Paolo Di Canio, ad esempio. Ho trovato che il suo atteggiamento non rispecchiasse i valori in cui credo e che sto cercando di proiettare in tutto l'ambiente calcistico. Così, pur consapevole di inimicarmi una parte della curva, ho preferito non dilatare ulteriormente la sua avventura alla Lazio.

- Quanto le è costata quella decisione?
  Nella mia squadra non c'è e mai potrà esserci spazio per chi non conduca esperienze di vita esemplari. La stessa vicenda del calcioscommesse mi fa dormire sonni tranquilli. Mi fido dei nostri tesserati, so bene quali straordinarie qualità umane abbiano.

- Più volte ha parlato di "modello Lazio". Che cosa intende con questo concetto?
  Calciatori che prima di essere bravi con il pallone tra i piedi siano un gruppo coeso, formato da persone che condividono gli stessi principi e valori. In una società che si fa sempre più multiculturale la Lazio deve essere espressione del cambiamento. Tante identità in campo e la consapevolezza di essere un modello per migliaia di giovani. Anche per questo ho voluto Petkovic alla guida. Chi meglio di una persona che parla otto lingue, fa beneficenza e aiuta - in silenzio - così tanta gente, nel ruolo di nostro ambasciatore nel mondo?

(Pagine Ebraiche, gennaio 2013)


Egitto verso il sì alla Carta. Nuove dimissioni eccellenti

Lascia il vice di Morsi, in bilico il governatore centrale

di Cecilia Zecchinelli

Il capo della Banca nazionale «resta dov'è», dice il governo: ma il suo scontro con il raìs ormai è aperto
L'Egitto domani annuncerà l'approvazione della nuova Costituzione, con un margine ancora non precisato ma salvo colpi di scena ormai certo, dopo il referendum conclusosi ieri in 17 province. Una vittoria per il raìs Mohammed Morsi e la Fratellanza musulmana che lo ha portato al potere, ma il clima sul Nilo non è certo di festa. Il Paese è sempre più diviso, lo scontro politico più acceso, la crisi economica più drammatica. Ieri, a poche ore di distanza, due collaboratori eccellenti di Morsi si sono dimessi (anche se sul secondo manca la conferma ufficiale), dopo almeno un mese di tentativi da parte del raìs per convincerli invece a restare. Il vicepresidente Mahmoud Mekki ha lasciato senza spiegazioni, ma tutti sanno che questo giudice riformista, grande difensore dei magistrati sotto Mubarak, non ha accettato l'ultimo accentramento di poteri di Morsi che il 22 novembre per decreto ha scavalcato anche i giudici. Nella nuova Costituzione il ruolo di vice-raìs non è nemmeno previsto e le sue dimissioni sarebbero una mossa preventiva. Ma fonti del Cairo precisano: «Mekki ha capito di essere stato usato, non ha mai avuto nessun potere effettivo. È furioso e può solo andarsene».
L'altro dimissionario, effettivo o comunque potenziale dopo che la notizia è stata data dalla tv di Stato e poi smentita, è una figura ancora più cruciale. Il governatore della Banca centrale egiziana, Farouk Al Oqda, da nove anni a capo dell'istituto di emissione, non vuole più restare al suo posto. Anche lui si è più volte scontrato con Morsi che finora l'ha trattenuto. Alla base del contrasto c'è la recente crisi che ha lasciato il raìs e la Fratellanza isolati, il prestito ormai concordato con il Fmi per 4,8 miliardi di dollari e poi sospeso per la crisi, gli aiuti della Ue bloccati per lo stesso motivo. La lira egiziana è sotto attacco e si parla di svalutazione (come chiesto dal Fmi), nonostante gli interventi della Banca centrale: per l'economia è allarme rosso. E Al Oqda, si dice in Egitto' non vuole assumersi più responsabilità nell'assenza di possibilità di manovra.
In questo contesto conta così relativamente l'approvazione della nuova Carta, che l'opposizione respinge perché carente sui diritti umani e troppo ambigua sulla sharia mentre denuncia brogli nei due turni del referendum. Anche se il 56% di «sì» toccato nelle prime province settimana scorsa sarà alla fine superato' il Paese è spaccato e le elezioni parlamentari che dovrebbero tenersi entro due mesi porteranno solo a ulteriori divisioni dell'Egitto. E a un aumento dell'instabilità.

(Corriere della Sera, 23 dicembre 2012)


Abu Mazen: sciolgo l'Anp se Israele va avanti con le colonie

"Non faremo la guardia alla sicurezza di Israele"

ROMA, 22 dic. - Il Presidente palestinese Abu Mazen ha dichiarato oggi di essere pronto a sciogliere l'Autorità nazionale palestinese se Israele porterà avanti il suo progetto di costruire nuovi insediamenti nei Territori palestinesi . E' quanto riporta oggi l'agenzia di stampa cinese Xinua, citando una "fonte ben informata" palestinese.
Stando a quanto riferito dalla fonte, Abu Mazen ha detto oggi al Consiglio consultivo di Fatah che potrebbe "consegnare le chiavi dell'Anp al premier israeliano Benjamin Netanyahu", sottolineato l'assurdità di guidare un'autorità priva di potere. Il Presidente avrebbe quindi aggiunto: "Non faremo la guardia alla sicurezza di Israele e non saremo mai uno strumento nelle mani di Israele per portare avanti i suoi piani nei territori palestinesi".

(TMNews, 22 dicembre 2012)


Yemen del Sud - i secessionisti non vogliono il riconoscimento di Israele

I movimenti secessionisti del sud dello Yemen hanno annunciato di essere disposti ad ottenere il riconoscimento internazionale da parte di tutti i paesi del mondo, tranne che da Israele, per la loro richiesta di secessione dal governo centrale di Sana'a.
Secondo quanto ha annunciato e riportato dall'Agenzia Nova, il leader secessionista Khaled al Shaibi, "sin dal 2009 l'ultimo presidente dello Yemen del sud, Salem al Abyadh, ha chiarito che era giusto ottenere il riconoscimento internazionale, ad eccezione che da Israele, per le nostre rivendicazioni secessioniste".
I secessionisti han tenuto ieri diverse manifestazioni, in tutte le città del sud dello Yemen, per chiedere l'indipendenza. Il presidente al Abyadh è stato il capo dello stato della repubblica democratica dello Yemen del sud dal 1986 al 1990, anno della riunificazione con il nord.
Lo Yemen Meridionale - vale a dire la regione dell'Arabia del sud costituita da una parte di Yemen propriamente detto, dall'Hadramaut, dal Mahra e dall'isola di Socotra - non fu mai completamente assoggettato dagli ottomani (che vi erano giunti nella prima metà del XVI secolo e avevano occupato il porto di Aden) ed era costituito da una moltitudine di signorie di tipo feudale e teocratico praticamente indipendenti. Nel 1839 i britannici occuparono Aden e gradualmente convinsero, o costrinsero, gli altri signorotti locali ad accettare il loro protettorato. Il tentativo, promosso dai britannici nel 1959, di riunire i vari stati in una federazione autonoma ebbe un limitato successo e nel 1967 la rivoluzione tendente a realizzare nella regione uno stato repubblicano unitario si concluse pacificamente con la costituzione della repubblica popolare dello Yemen Meridionale e la scomparsa delle signorie feudali. Nel 1990 tale repubblica si è unita con lo Yemen settentrionale, un'unione che potrebbe finire presto.

(l'indipendenza, 22 dicembre 2012)


Uno sguardo svizzero sul campo di Drancy
   
Inaugurato di recente, il Memorial della Shoah a Drancy, vicino a Parigi, è stato progettato dall'architetto svizzero Roger Diener. Una testimonianza "senza lacune" dei crimini commessi in quello che è stato un luogo chiave della deportazione degli ebrei francesi verso Auschwitz.

di Mathieu van Berchem

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PARIGI,- Al terzo piano del nuovo Memorial, un'ampia vetrata offre una vista panoramica sull'ex campo di Drancy. Nulla è cambiato, o quasi, dagli anni 1940-45. Si riconosce perfettamente il grande edificio a forma di "U" ritratto nelle foto dell'epoca.
  La facciata della "Cité de la Muette è rimasta quasi identica. Soltanto qualche finestra è stata rimpiazzata con moderni doppi vetri. Oggi, circa 500 persone abitano nell'edificio. "Si tratta di piccoli alloggi a pigione moderata abitati da anziani e da persone sole", indica Micheline Tinader, che si occupa con suo marito dell'Associazione Fondi della memoria d'Auschwitz, con sede nella Cité de la Muette.
  Se non fosse per la sua ampiezza, questo edificio passerebbe inosservato nella cupa periferia di Drancy, qualche chilometro a nord di Parigi. All'ingresso, un monumento in granito ricorda i quasi 100'000 ebrei che vi sono stati internati durante la guerra. Accanto, un vagone del 1941 testimonia le deportazioni di massa da Drancy verso i campi di sterminio nazisti.
  La vetrata del Memorial, inaugurato il 21 settembre dal presidente francese François Hollande, permette ai visitatori e ai ricercatori di avere una visione "oggettiva", quasi clinica, del vecchio campo. "Situato proprio di fronte alla Cité de la Muette, il Memorial dev'essere un luogo di studio, dove si perpetuerà il ricordo della storia degli uomini e delle donne che sono stati perseguitati e vi sono stati internati", sottolinea il suo architetto, il basilese Roger Diener.

  - Grande sobrietà
  Lo stesso Memorial è molto sobrio. Non si tratta, come in altre città, a Parigi, Berlino o Gerusalemme, di "esprimere" la tragedia degli ebrei attraverso un'opera monumentale. "Non abbiamo cercato di commemorare, ma piuttosto di testimoniare i crimini che in questo luogo sono stati perpetrati", osserva Diener, che ha tra l'altro realizzato la nuova ambasciata svizzera a Berlino.
  La storia del monumento inizia nel 1941. La Cité de la Muette, costruita negli anni Trenta, è ancora in costruzione quando le forze armate tedesche (la Wehrmacht) la trasformano in un campo d'internamento per prigionieri di guerra. Nell'agosto 1941, militari tedeschi e polizia francese organizzano un primo rastrellamento a Parigi: 4230 uomini sono trasferiti nel campo di Drancy.
  Lì, le condizioni di vita sono penose. Dopo un mese, il prigioniero André Baur nota che "alcuni uomini hanno perso 30 kg". "La situazione degli internati di Drancy ricorda (all'epoca) quella dei ghetti in Polonia, dove la gente veniva rinchiusa. I tedeschi controllavano l'approvvigionamento insufficiente alla loro sopravvivenza", scrivono gli storici Annette Wieviorka e Miche Laffitte.

  - BIO EXPRESS
  Nato nel 1950, Roger Diener fonda a Basilea lo studio d'architettura Diener & Diener nel 1980, dopo aver lavorato con suo padre, Markus Diener. Tra le sue opere figurano l'hotel Schweizerhof di Lucerna, il Forum 3 del Campus Novartis di Basilea e un blocco degli atleti del Villaggio olimpico di Torino.
  Nel 1999, Diener realizza la nuova ala dell'ambasciata svizzera a Berlino. Un lavoro che suscita polemiche in Germania e in Svizzera. Dell'edificio, non piace il cemento e la sua facciata cieca. L'architetto risponde citando il passato nazista di Berlino e l'accecamento della diplomazia svizzera durante la guerra.
  Tra i suoi progetti recenti, troviamo il museo delle scienze naturali dell'Università Humboldt a Berlino e la Markthalle Hochhaus, a Basilea. Roger Diener ha ricevuto la medaglia d'oro dell'Accademia francese d'architettura.

- Il CICR ingannato
  Dall'estate 1942, Drancy diventa il punto cardine della deportazione degli ebrei francesi verso Auschwitz. Prendendo il bus che dalla Cité de la Muette porta alla stazione di Bourget, si segue lo stesso tragico itinerario dei deportati. La maggior parte non immagina il destino riservato loro dai nazisti. Per molti prigionieri, la destinazione finale, sconosciuta, non può essere peggio di Drancy; a loro insaputa 63'000 ebrei sono invece trasferiti nei campi di sterminio.
  Nel maggio 1943, Adolf Eichmann, responsabile logistico della "Soluzione finale", incarica l'SS Aloìs Brunner di assumere il comando di Drancy e di accelerare la deportazione degli ebrei. La polizia francese viene esclusa dal campo, lasciando la guida alle SS.
  Il campo viene riorganizzato, e alcune responsabilità sono affidate ai prigionieri. Quando visita Drancy il 10 maggio 1944, il delegato del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), lo svizzero Jacques de Morsier, cade nella trappola. "Gli inizi della sua amministrazione sono stati piuttosto duri, osserva il delegato a proposito di Brunner, perché ha voluto sopprimere alcune abitudini che avevano reso impossibile la vita nel campo".
  Jacques De Morsier aggiunge: "Il capitano Brunner ha soppresso l'uso della moneta all'interno del campo: all'arrivo di un internato, il suo denaro ed i suoi gioielli vengono messi in una cassaforte del servizio finanziario (amministrato degli internati stessi) e, tramite ricevuta, questi gli verranno restituiti al momento della sua liberazione".
  Bell'ottimismo. In realtà, soldi e oggetti di valore riempiono le tasche delle SS. E le deportazioni continuano fino al mese di luglio del 1944.

- Opinioni condivise
  Il Memorial é aperto al pubblico, l'entrata è gratuita. Al terzo piano, un'esposizione ripercorre la storia del campo di Drancy. Gli altri piani sono dedicati alla ricerca su questo periodo e al lavoro pedagogico.
  "Come in una preparazione microscopica in botanica, le vetrate della facciata permettono agli abitanti di Drancy di seguire le attività del Memorial", commenta Roger Diener, i cui nonni erano ebrei polacchi.
Micheline Tinader apprezza meno la vista dall'alto sulla Cité de la Muette. "Mi ricorda l'hotel qui vicino, che faceva pagare più care le camere che danno sull'ex campo".
  "Personalmente, aggiunge la signora Tinader, trovo che il memoriale stona in questo quartiere residenziale. Si sarebbe dovuto svuotare la Cité de la Muette per farne un memorial. Dopotutto, il campo - dove mio padre ha vissuto diversi anni prima di essere deportato - è qui, e non dall'altra parte della strada".

(swissinfo.ch, 22 dicembre 2012 - trad. dal francese Francesca Motta)


Due terzi degli israeliani contrari a uno stato palestinese in Cisgiordania

La metà degli israeliani inoltre è favorevole alla costruzione di nuovi insediamenti nei pressi di Gerusalemme Est

Due terzi degli israeliani si oppongono alla creazione di uno stato smilitarizzato palestinese in Cisgiordania. Secondo i risultati di un sondaggio dell'istituto Maagar Mohot pubblicati oggi sul quotidiano Maariv, il 66% degli israeliani ha detto di essere contrario e solo l'11% a favore.
La metà degli intervistati, il 51%, ha detto inoltre di appoggiare la scelta di costruire nuove abitazioni nella zona della Cisgiordania denominata E1, che collega la parte occupata di Gerusalemme est all'insediamento di coloni di Maaleh Adumim.
Solo il 9% degli israeliani si oppone, il restante 40% è indeciso.
Quando manca un mese alle elezioni del 22 gennaio, i partiti della destra nazionalista continuano a registrare un solido sostegno nei sondaggi: il partito Likud del premier Benjamin Netanyahu è accreditato di 37 dei 120 seggi; i laburisti sono fermi a 20 seggi, mentre gli ultranazionalisti favorevoli a nuovi insediamenti Jewish Home salgono a 12 seggi; l'opposizione centrista di Kadima è a 28 seggi, mentre il nuovo partito HaTnuah di Tzipi Livni è fermo a 9 seggi. Più in generale il sondaggio vede il blocco della destra a 69 seggi, contro 41 per il centrosinistra.
Il sondaggio è stato condotto su un campione di 511 persone il 19 e 20 dicembre. Il margine di errore è del 4,5%.

(Today, 21 dicembre 2012)


Albero di Natale a Gerusalemme

Esposto alla porta di Jaffa, gli ebrei ortodossi vorrebbero rimuoverlo

GERUSALEMME, 21 dic - Un albero di Natale esposto dal municipio di Gerusalemme alla porta di Jaffa, uno degli ingressi alla Citta' vecchia, ha destato irritazione fra gli ebrei ortodossi che vorrebbero rimuoverlo del tutto o almeno spostarlo in una zona piu' appartata. Lo riferisce con grande evidenza il quotidiano Maariv. ''Se proprio devono essere esposti i simboli del Natale - ha detto al giornale uno degli animatori della protesta - che lo siano solo all'interno del rione cristiano della Citta' vecchia''.

(ANSA, 21 dicembre 2012)


Nel 2012 oltre 3 milioni e 300 mila turisti in Israele

60% sono cristiani; 75 mila attesi per feste di Natale

ROMA, 21 Dic - Sono stati oltre 3 milioni e 300 mila i turisti che nel 2012 hanno visitato la Terra Santa. Lo ha riferito il ministro del Turismo israeliano, Stas Misezhnikiv, in un comunicato diffuso anche in Italia. Di loro, il 60% e' costituito da cristiani. Per le feste natalizie, Israele attende l'arrivo di altri 75 mila viaggiatori, tra cui 25 mila cristiani. Per agevolare i visitatori ''nel loro cammino spirituale in questo momento speciale dell'anno'', il Ministero del Turismo offrirà ai turisti trasporti gratuiti, aiutando i pellegrini in viaggio tra Gerusalemme e Betlemme. Gli autobus partiranno ogni 15-20 minuti dal Monastero di Mar Elias nella Citta' Santa per raggiungere la Chiesa della Natività a Betlemme e viceversa funzionando non-stop dal 24 dicembre alle ore 12.00 al 25 dicembre alle ore 12:00.

(ANSAmed, 21 dicembre 2012)


Monti e le Comunità ebraiche

Ha fatto bene il presidente del Consiglio Mario Monti ad incontrarsi con il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche Renzo Gattegna e il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, e ribadire l'amicizia dell'Italia nei confronti degli ebrei italiani, perché, dopo il voto dell'Italia all'Onu, qualche ragione di preoccupazione a riguardo all'interno delle comunità ebraiche può esserci stata. Ovviamente sapevamo bene che la decisione del governo italiano era dettata dal desiderio di rafforzare la leadership moderata palestinese, quella di Abu Maren. Solo che, purtroppo, questa è una beata illusione, perché Abu Mazen presso il popolo palestinese è fuori gioco da quando è stato cacciato da Gaza. Ovviamente Abu Maren avrà un modo per rientrare nella partita politica palestinese, ma non quella della moderazione sostenuta finora, che appunto l'ha fatto perdere, ma di usare i successi ottenuti, grazie anche all'Italia, in maniera radicale. E quindi appoggiarsi allo stato ottenuto dall'Onu per sollevare un atto di accusa contro Israele o per lo meno avere pronta questa minaccia. Altrimenti Abu Mazen è destinato ad un lento quanto inesorabile declino da consumarsi nei confini di Ramallah. A dimostrazione che sappiamo di cosa scriviamo, c'è già la minaccia dell'Anp di portare Israele di fronte al tribunale dell 'Aja nel caso della realizzazione di nuovi insediamenti a Gerusulamme est. Evidentemente le gare di appalto sono considerate dal moderato Abu Mazen alla stregua delle fosse comuni scavate da Ratko Mladic a Srebrenica. Visto poi che il presidente di turno dell' Unione europea, il ministro degli esteri cipriota Markoullis ritiene che l'Europa debba essere pronta ad agire di fronte al piano israeliano, speriamo che il governo italiano possa dare un contributo per risparmiarci altri ruggiti di topolino.

(La Voce Repubblicana, 21 dicembre 2012)


Il Rabbino di Napoli contrario alla cittadinanza onoraria ad Abu Mazen


(NapoliUrbanblog, 21 dicembre 2012)


Palestinesi in sciopero

Non c'è pace per i dipendenti pubblici palestinesi, malgrado la recente visita di Abu Mazen all'ONU, con cui di fatto è stato cestinato il Trattato di Pace del 1993 sottoscritto ad Oslo fra ANP e Israele. Migliaia di dipendenti pubblici sono scesi in piazza ieri, a Ramallah e nelle altre città del West Bank, per protestare contro il mancato pagamento degli stipendi e l'aumento del costo della vita. Le manifestazioni proseguiranno oggi.
   Il passo indietro nel processo di pace e la fuga in avanti da parte della leadership palestinese, rischiano di mettere ancora più in ginocchio il popolo palestinese, prostrato da una crisi economica aggravata dalla corruzione e malaffare dilaganti, e dalle spese pazze del governo di Ramallah (e sì che qualche viaggetto in meno se lo poteva permettere, il nostro Abu Mazen...).
   Secondo la Banca Mondiale e il FMI l'autorità palestinese denuncia un ammanco di cassa di circa 400 milioni di dollari. Un buco nei conti pubblici aggravato dall'indisponibilità degli stati arabi di allargare i cordoni della borsa, e dalle difficoltà economiche in cui versa l'Unione Europea, principale finanziatore mondiale dell'embrione del futuro stato palestinese.
   La decisione unilaterale dello scorso 29 novembre, con conseguente annullamento del Protocollo di Parigi, che regola(va) i rapporti economici fra Gerusalemme e Autorità Palestinese, rischiano di danneggiare ulteriormente la popolazione palestinese.
   In una mossa che conferma le finalità puramente propagandistiche della sua dirigenza, Abu Mazen ha ignorato le proteste, rivolgendosi all'ONU per chiedere che i profughi palestinesi ospitati nei campi profughi in Siria, possano essere spostati nel West Bank e a Gaza per sfuggire alla brutale repressione di Assad. Domenica, diecine di palestinesi residenti nel campo profughi di Yarmouk (alla periferia di Damasco) sono state trucidate dai bombardamenti dell'aviazione siriana, mentre si trovavano in una moschea. Dall'inizio del genocidio in Siria, oltre 21 mesi fa, più di 700 palestinesi sono stati uccisi in Siria, nella sostanziale indifferenza generale. Stridente il confronto con l'attenzione internazionale riservata alla recente operazione Pillar of Difense, in cui hanno perso la vita a Gaza 170 palestinesi, dei quali più di 100 militanti appartenenti ad Hamas, e un considerevole numero di civili impiegati come scudi umani dai terroristi islamici.
   «C'è una crisi umanitaria in atto», denuncia Abu Mazen riferendosi ai palestinesi siriani. Ignorati fino ad ora, ostracizzati da Hamas come nemici del popolo fino a quando era ancora in essere la sede centrale di Damasco; potrebbero tornare utili come ennesima arma di pressione nei confronti del confinante Israele, come è stato da sempre.
   Non è improbabile che le Nazioni Unite, ormai a chiara conduzione "non allineata" (più del 60% degli stati membri, votanti in Assemblea Generale, appartiene al "NAM", acronomo di Non Aligned Movement...), appoggi la proposta di deportare i profughi palestinesi, dalla Siria a ridosso dei confini israeliani. Martedì l'UNGA ha fornito nuove prove del suo orientamento parziale, approvando ben nove risoluzioni contro Israele. Prima della fine di questa settimana, le risoluzioni adottate contro lo stato ebraico saranno complessivamente 22; soltanto una, blanda, è prevista per Iran, Siria e Corea del Nord.
   Assad massacra la sua popolazione - 45 mila le vittime accertate da marzo 2011 - l'Egitto piomba nell'oscurantismo islamico, la shaaria è approvata in Tunisia, in Arabia Saudita le donne sono marginalizzate e in Iran si lavora febbrilmente attorno alla bomba atomica. Ma tutto ciò sfugge all'ONU, per cui la più grave minaccia alla pace mondiale è la stessa esistenza di Israele.

(Il Borghesino, 21 dicembre 2012)


L'ambasciatore Gilon: "Italia e Israele, il legame resta forte"

Sua eccellenza l'ambasciatore di Israele a Roma Naor Gilon ha rilasciato al giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche la seguente intervista, che apparirà sul numero di gennaio presto in distribuzione e che anticipiamo ai lettori. La redazione considera le sue parole un segno di incoraggiamento nel lavoro, spesso difficile e delicato, di raccontare al pubblico italiano l'Israele reale e rompere gli schemi di chi vorrebbe confinare la realtà di Israele in un cupo, asfittico e falsato quadro di conflitti e intolleranze.

di Rossella Tercatin

  Naor Gilon
Settimane intense per l'ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon, in Italia dalla scorsa primavera. La crisi tra Israele e Gaza, l'operazione Pilastro di difesa, il voto con cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto l'Autorità nazionale palestinese come Stato osservatore, ma anche l'avvicinarsi delle elezioni tanto a Gerusalemme quanto a Roma, segnano una situazione complessa e in rapida evoluzione. Gilon ne discute approfondendo il rapporto tra i due paesi a trecentosessanta gradi. Ricordando sempre che le stagioni di nuove sfide possono portare anche nuove opportunità e che i lunghi periodi con la strada in discesa possono generare una pericolosa mancanza di riflessi, l'ambasciatore cita il presidente di Israele Shimon Peres che recentemente, di fronte alla scoperta di ingenti risorse naturali e giacimenti di gas sottomarini, ha messo in guardia contro il rischio che questo inaspettato beneficio porta indirettamente con sé: "Bisogna tenere sempre a mente come Israele trasformò l'ostacolo di essere privo di risorse naturali in uno stimolo a sviluppare con coraggio la creatività e il suo capitale umano".

- Ambasciatore Gilon, le relazioni tra Italia e Israele hanno raggiunto negli ultimi anni un buon livello di stabilità. In queste settimane abbiamo assistito ad alcuni momenti delicati, culminati con il voto all'Onu. Qual è la sua visione in merito?
  È importante spiegare il perché della nostra perplessità di fronte alla decisione dell'Onu. Da molti anni Israele si muove nella direzione della soluzione dei due Stati per due popoli. Ma se non ci si arriva tramite il negoziato si lancia il messaggio sbagliato, e cioè che si possano ottenere risultati senza il dialogo. Per quanto riguarda la posizione italiana, ci è dispiaciuto venire informati soltanto il giorno stesso della votazione, senza venire consultati in precedenza. Inoltre le condizioni che aveva posto l'Italia ad Abu Mazen, tornare ai negoziati con Israele senza precondizioni e non utilizzare strumentalmente il risultato della votazione per deferire Israele alla Corte internazionale di giustizia, sono già state disattese. Per questo anche l'idea che Abu Mazen abbia visitato l'Italia per ringraziarla, considerando il discorso che aveva tenuto all'indomani dell'Assemblea Onu in cui ha usato termini estremamente duri verso Israele è piuttosto frustrante. Ma allo stesso tempo le relazioni tra Italia e Israele coinvolgono diversi livelli. L'Italia è il secondo partner di Israele per la cooperazione scientifica in Europa e il quarto nel mondo. La collaborazione sul piano culturale ed economico è eccellente. Il turismo fra i due paesi in aumento. Sul piano politico gli ultimi avvenimenti hanno rappresentato un momento difficile. Ma allo stesso tempo oggi i legami tra i due Stati si mantengono forti e possono contare su rapporti personali improntati alla fiducia. Penso che al di là delle contingenze, al di là dell'esito delle elezioni, questo sia un dato di fatto che non venga messo in discussione.
Israele terra di cultura, di arte, di innovazione. Ma anche di una grande diversificazione interna.

- Nel dibattito politico, così come sui mezzi di informazione, trovano spazio le posizioni più disparate, comprese quelle estremamente dure. Entrambi gli aspetti colpiscono molto.
  Israele è uno dei paesi più aperti e democratici del mondo. Questa diversità, la capacità di accettare critiche, è un suo fondamentale punto di forza. Quella di mostrare le sfaccettature dell'Israele oltre il conflitto è una parte essenziale del nostro lavoro. Per questo favoriamo eventi che portino i protagonisti della cultura israeliana in Italia, momenti di incontro per gli imprenditori e di confronto per gli scienziati, in una dimensione che non ha niente a che fare con la propaganda politica. Molti esponenti del mondo della cultura israeliana sono portatori di una visione critica verso il governo, ma questo non costituisce alcun problema, non essendo neppure scontato che l'opinione di un cantante o uno scrittore debba essere necessariamente significativa nell'ambito della politica internazionale. Con un solo limite: l'antisionismo, l'attacco all'ideale fondante di Israele. Non trovo giusto, per esempio, invitare in Italia per una conferenza a spese dei contribuenti israeliani un professore che favorisca il boicottaggio accademico della sua stessa università.

- Quella di mostrare la realtà di Israele oltre il conflitto è una questione che va di pari passo con il tema dell'informazione sullo Stato ebraico, e della tendenza ad appiattirne la realtà a una situazione di guerra e problema perenne.
  I mezzi di comunicazione tendono a dare rilievo alle questioni di maggiore appeal per il grande pubblico, e la guerra lo è senz'altro, così come lo sono talvolta per esempio, le tematiche sul mondo degli ebrei ultraortodossi. Ovviamente è molto più difficile comunicare eventi culturali o scientifici. Eppure è importante lavorare proprio in questa direzione e il nostro impegno è molto forte. Per esempio i contenuti della nostra posizione sui social network rispecchiano esattamente questa visione di raccontare l'Israele reale, senza negare la realtà dei conflitti, ma rimettendola nella sua vera proporzione.

- Come si intreccia questa scelta con la necessità di raccontare anche quello che avviene a proposito del conflitto? E come giudica in particolare il modo in cui è stata riportata dai media italiani l'operazione Pilastro di difesa?
  Anche questo è un aspetto che va affrontato. Per Israele può essere più difficile comunicare in modo spettacolare perché ovviamente fa di tutto per proteggere la sua popolazione civile dagli attacchi, si impegna per la difesa dei suoi cittadini e quindi diventa più complicato contrastare l'immagine di aggressore nei confronti di chi invece sta bene attento a falsificare la realtà giocando sull'emozionalità e speculando sui destini della propria popolazione civile. Nel caso di Pilastro di difesa ho trovato la copertura dei media italiani certo talvolta tendenziosa, non ideale, ma comunque accettabile. Penso che parte del merito vada attribuito alla comprensione che abbiamo ricevuto, la comprensione che di fronte a razzi che quotidianamente minacciano la vita di milioni di civili, qualcosa andava fatto.

- Quale può essere il ruolo dell'ebraismo della Diaspora in questo senso?
  Le Comunità ebraiche della Diaspora possono svolgere un lavoro importante come ponte verso la società in cui sono presenti e compenetrate. Più numerose e diversificate sono le componenti della società con cui si riesce a entrare in contatto, migliore è il risultato ottenuto. Attenzione, noi non chiediamo a nessuno un supporto cieco, acritico. Basta una esposizione corretta della realtà, di tutta la realtà di Israele. Pensiamo di avere ragioni solide da far valere e allo stesso tempo che ci siano pochi paesi che abbiano da raccontare e offrire al mondo con orgoglio tanto quanto Israele in tutte le sue sfaccettature.

(Pagine Ebraiche, gennaio 2013)


Matrimoni collettivi a Gaza per allontanare la crisi

Matrimoni collettivi nella Striscia di Gaza. Riunite allo stadio di Rafah, circa 200 coppie hanno celebrato il loro matrimonio in una cerimonia collettiva organizzata dal Comitato nazionale islamico con il sostegno degli Emirati Arabi Uniti. Quasi delle bambine le future spose, ben più maturi invece i mariti che qui si vedono seduti in tribuna ad assistere allo spettacolo delle danze tradizionali degli Emirati Arabi

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(la Repubblica, 20 dicembre 2012)


Israele - Palestina: è l'approccio al problema che va cambiato e non il problema

di Miriam Bolaffi

E' idea comune che il conflitto israelo-palestinese possa finire con la costituzione di due Stati separati e con il loro reciproco riconoscimento. Per questo motivo ultimamente Israele è stato da più parti criticato perché con la sua decisione di costruire nuove unità abitative a Gerusalemme Est e in Cisgiordania metterebbe in pericolo la soluzione dei due Stati.
   Ma quanto è vera l'accusa rivolta a Israele di mettere a rischio la soluzione dei due Stati per due popoli? Partiamo innanzi tutto dal "problema Gerusalemme Est". Gerusalemme è la capitale di Israele e onestamente non si è mai sentito di uno Stato criticato perché costruisce nuovi quartieri abitativi nella propria capitale. Mi si dirà che buona parte del mondo non riconosce Gerusalemme come capitale di Israele. Ma anche qui c'è una contraddizione di fondo. Quando mai è successo che qualcuno abbia messo in dubbio la capitale di uno Stato? E' come se la comunità internazionale considerasse Milano capitale d'Italia oppure Marsiglia capitale della Francia invece che Roma e Parigi. Succede solo con Israele ed è una questione a cui va posto rimedio. Qualcuno vorrebbe Gerusalemme divisa in due, un po' com'era Berlino prima della unificazione. Qualcun'altro la vorrebbe "città aperta", cioè di tutti e di nessuno in quanto sarebbe "sacra" per le tre religioni monoteiste. Togliamo subito qualsiasi riferimento alla presunta sacralità per l'Islam. Maometto non è nemmeno mai stato a Gerusalemme e non c'è nel Corano alcun riferimento alla sacralità di Gerusalemme a differenza della Mecca e di Medina. Certo, c'è una grande moschea ma non si possono fare città sante tutte quelle dove sorge una moschea. Allora per cosa sarebbe "santa" Gerusalemme per l'islam? E' chiaro che siamo di fronte a una strumentalizzazione religiosa per altri fini, cosa che avviene spesso quando si parla di Islam. Di certo è una città santa per il cattolicesimo e per l'ebraismo. Ma Israele non ha mai impedito a nessun fedele di nessuna religione di frequentare i propri luoghi sacri (a differenza di quello che avviene in molti paesi islamici). Insomma, si tratterebbe di essere semplicemente obbiettivi e il "problema Gerusalemme" svanirebbe in una bolla di sapone.
   E veniamo al problema più spinoso, quello dei confini. Nessuno (e dico nessuno) ha mai tracciato confini definitivi tra Israele e la cosiddetta "Palestina". A differenza di quello che comunemente si crede nemmeno le Nazioni Unite lo hanno mai fatto. Infatti la risoluzione 181 dell'Onu del 25 novembre 1947 "raccomanda la divisione dei territori contesi in due stati separati" ma non ne delinea i confini limitandosi a dare indicazioni per altro molto sommarie sulla divisione delle terre. Quindi quando qualcuno chiede "il ritorno ai confini del 47" non sa di cosa sta parlando semplicemente perché i confini non c'erano. Ma anche essendo magnanimi e dando per contato che le "indicazioni dell'Onu" fossero in effetti una delineazione dei confini, i paesi arabi non riconobbero mai quella decisione tanto è vero che scatenarono diverse guerre (tutte perse) nel tentativo di annientare Israele. Nemmeno oggi i Paesi arabi riconoscono quella decisione pur facendone continuamente cenno. E allora, di cosa si sta parlando? Come si può chiedere a uno Stato che non si riconosce (Israele) di accettare una risoluzione che non è mai stata accettata dagli arabi? E' un enorme paradosso.
   Eppure, sebbene ci si trovi di fronte a un paradosso di fondo davvero enorme, Israele ha firmato il Trattato di Oslo con il quale riconosceva alla cosiddetta "Palestina" il 99% dei territori attribuitegli dall'Onu nel 47. Era il famoso concetto di "terra in cambio di pace" tanto caro ai pacivendoli. Nonostante questa storica concessione la cosa non bastò ai cosiddetti "palestinesi" che miravano a tutto e non solo a una parte. Così, sebbene dagli accordi di Oslo siano passati quasi dieci anni, e sebbene Israele abbia fatto di tutto per ottemperare agli obblighi presi da Simon Peres e da Yasser Arafat, compreso lo sgombero forzato di diverse colonie e della Striscia di Gaza, i cosiddetti "palestinesi" non hanno fatto altrettanto e, soprattutto, non hanno garantito quella pace che doveva esserci in cambio della terra.
   Oggi a dieci anni di distanza dagli accordi di Oslo si vorrebbe resettare tutto, come se in questi dieci anni non fosse successo niente, e si chiede a Israele non solo di tornare indietro a quegli accordi mai mantenuti dai cosiddetti "palestinesi", ma anche di rinunciare alla sua capitale. Gli si chiede di non reagire agli attacchi di Hamas, agli attentati, alle migliaia di missili e, soprattutto, gli si chiede di accettare che gli arabi non lo riconoscano come Stato Ebraico.
   Non so se ci si rende conto che questa cosa non solo è pazzesca, ma è inaccettabile. Non so se ci si rende conto che qualsiasi concessione verrà fatta ai cosiddetti "palestinesi" non sarà sufficiente a raggiungere la tanto agognata pace, semplicemente perché ai cosiddetti "palestinesi" la pace non interessa. Lo hanno dimostrato in tutti questi anni e lo stanno dimostrando ancora in questi giorni con propositi tutt'altro che pacifici e con dichiarazioni in cui ammettono che loro vogliono tutto e non solo una parte (lo ha fatto Khaled Mashaal e pure il "moderato" Abu Mazen ricevuto due giorni fa da Napolitano, dal Papa e da Bersani).
   Ora, è chiaro che da parte dell'occidente c'è un approccio sbagliato alla questione medio-orientale. L'evidenza dei fatti dimostra che gli arabi non vogliono la pace, che a loro non interessa uno "Stato palestinese" perché questo vorrebbe dire anche l'automatico riconoscimento dello Stato Ebraico di Israele. Eppure si ostinano ad incolpare Israele del non raggiungimento di questa pace. Perché? Perché fanno finta di non vedere da che parte stanno le colpe e da che parte sta la ragione? Ci sono ragioni antisemite?
   Queste domande se le fanno anche a Gerusalemme e arrivati a questo punto hanno dedotto che qualsiasi concessione faccia Israele non sarà mai abbastanza né per gli arabi né per coloro che li sostengono. Per questo hanno dato al problema un altro tipo di approccio, quello della forza di chi è dalla parte della ragione e, nonostante questo, viene continuamente attaccato. Hanno deciso di costruire nuove unità abitative e vengono attaccati? Non cambia niente, verrebbero attaccati comunque, magari per altre ragioni. E allora, perché continuare a sottostare al diktat arabo se tanto poi non cambia niente?
   E' la visione occidentale che deve cambiare e prima di chiedere a Israele di rinunciare a qualcosa deve pretendere dagli arabi il suo riconoscimento incondizionato. Ripeto, INCONDIZIONATO. Solo allora si potrà tornare a parlare di pace e di confini. Fino a quel momento si continuerà a discutere sul nulla, si continuerà a dare ragione a chi ha torto e torto a chi ha ragione. E' l'approccio al problema che va cambiato e non il problema.

(SPMedia, 21 dicembre 2012)


Da USA no alla condanna di Israele per le nuove colonie

Washington si è limitata a criticare i nuovi progetti per migliaia di nuove case per coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est.

ROMA, 20 dicembre 2012 - Gli Stati Uniti hanno impedito ieri l'approvazione in sede di Consiglio di Sicurezza dell'Onu di una risoluzione di condanna di Israele e del suo progetto di costruzione di migliaia di case per coloni in una delle aree più delicate tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania.
L'iniziativa all'Onu era stata lanciata dalla rappresentanza palestinese. Secondo Victoria Nuland, portavoce del Dipartimento di stato, la condanna di Iaraele «non sarebbe stata utile in questo momento», ha spiegato Nuland. Gli Usa si sono limitati ad esprimere «profonda delusione» per l'intenzione di Israele di costruire 6mila nuove case per coloni nei Territori palestinesi occupati. «Siamo molto delusi per l'insistenza di Israele nel continuare queste azioni provocatori...i leader israeliani ripetono di essere favorevoli alla soluzione dei due Stati (Israele e Palestina,ndr), poi appoggiano queste azioni che mettono a rischio quel piano»
Immediata la reazione dell'Autorita' nazionale palestinese. I nuovi progetti edilizi annunciati da Israele a Gerusalemme est e in Cisgiordania "ci spingono ad accelerare il ricorso alla Corte penale internazionale (Cpi)", ha affermato uno dei rappresentanti palestinesi, Mohammad Shtayyeh. Ci sono pero' forti dubbi che l'Anp si rivolga effetivamente alla Cpi. Secondo voci che circolano da giorni, il presidente Abu Mazen in cambio del voto favorevole di diversi paesi europei all'accoglimento della Palestina all'Onu come Stato osservatore, avrebbe garantito che per diversi mesi non portera' Israele davanti alla giustizia internazionale.
La decisione di Washington di bloccare la condanna di Israele, ha poi visto diversi paesi europei, tra i quali Francia e Germania, presentare un documento congiunto di protesta contro la colonizzazione dei territori palestinesi. In risposta Israele ha annunciato che espanderà ulteriormente gli insediamenti colonici di Givat Ze'ev, Efrat e Karnei Shomron.

(globaiist, 20 dicembre 2012)


L'incontro fra i leader ebraici e il presidente Mario Monti

Esigenza di chiarezza e clima di rinnovato impegno

di Daniela Gross

  
Grande cordialità e amicizia, un clima di rinnovato impegno, l'esigenza di chiarire alcuni punti caldi all'origine di una vivace dialettica interna al mondo ebraico e non solo. L'incontro svoltosi a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio Mario Monti e una delegazione dei vertici dell'ebraismo italiano condotta dal Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e alla presenza, tra gli altri, dell'onorevole Alessandro Ruben, ha permesso di trovare risposte alle numerose questioni sollevate. Temi di politica estera innanzitutto, con le perplessità di molti ebrei italiani legate all'appoggio dato dal governo al riconoscimento dell'Autorità nazionale palestinese come Stato osservatore alle Nazioni Unite. "L'Italia è sempre stato considerato un paese amico di Israele. Oggi, da altri paesi - commentava a caldo il presidente dell'Unione - sono in molti a chiederci un chiarimento sull'eventuale evoluzione della politica estera del governo. Da Monti abbiamo ottenuto importanti rassicurazioni".
Una lettura condivisa dal vicepresidente UCEI Roberto Jarach. "L'incontro - spiega - è stato caratterizzato da massima apertura e cordialità. Il presidente del Consiglio ci ha confermato la vicinanza del governo allo Stato di Israele e ha ribadito come la decisione presa all'Onu non rappresenti in alcun modo un cambiamento di rotta nella difesa dei diritti e nel cammino verso la pace". Ad aprire il confronto il sentimento di disagio espresso da Monti per il testo apparso negli scorsi giorni su Yedioth Ahronot a firma del giornalista Menachem Gantz, corrispondente a Roma del quotidiano popolare israeliano, che con parole perentorie aveva denunciato un presunto 'tradimento italiano'. "Abbiamo spiegato che nessuno si è mai espresso con queste parole - puntualizza Jarach - e che l'utilizzo del termine 'tradimento' è attribuibile a una scelta esclusiva della redazione".
Giulio Disegni, anch'egli vicepresidente UCEI, ha registrato un forte atteggiamento di attenzione da parte di Monti nei confronti delle istanze e delle preoccupazioni che gli sono state sottoposte. Tra gli argomenti di primaria importanza toccati nel corso della conversazione, sottolinea, la tutela delle Comunità ebraiche da venti d'odio che tornano pericolosamente ad affacciarsi anche su riflesso delle vicende internazionali. "Mi è parso - racconta Disegni - che il premier abbia ben presenti i nostri timori ma che sulla questione del voto all'Onu abbia dovuto confrontarsi con una situazione europea che a suo dire non poteva non andare in quella direzione".
Tra i concetti più significativi espressi in questo senso, racconta l'assessore al Bilancio dell'Unione Noemi Di Segni, un riferimento all'idea di sicurezza non soltanto dal punto di vista "fisico" ma anche "culturale". La sfida quindi di promuovere conoscenza e diffondere valori inalienabili per la formazione di società sempre più aperte, libere e inclusive. "È un'esigenza che ci ha visti pienamente convergere con il pensiero del presidente Monti", conferma l'assessore.
Presente all'incontro anche il presidente della Comunità ebraica di Roma e consigliere UCEI Riccardo Pacifici. "Al presidente Monti - spiega in una nota - abbiamo espresso il nostro profondo rammarico per il voto all'Onu. Un voto che avrebbe potuto essere interpretato come un mutamento di posizione dell'Italia verso Israele e per molti versi incomprensibile". L'allarme, incalza Pacifici, "riguarda anzitutto il processo di pace per il quale noi tutti auspichiamo uno sviluppo e dunque una ripresa dei negoziati". Ma sussiste anche il timore, dice ancora il leader degli ebrei romani, "che venga meno l'impegno a garantire il diritto d'Israele a vivere entro quei confini garantiti dalla comunità internazionale" e a rischio pare infine la sicurezza degli ebrei italiani "già nel passato bersaglio di azioni terroristiche". In un comunicato diffuso nel pomeriggio di ieri la presidenza del Consiglio ha rimarcato come la protezione della Comunità ebraica sia una responsabilità "irrinunciabile" dello Stato.

(Notiziario Ucei, 20 dicembre 2012)


Il cappio al collo di Israele è stato aggiustato meglio, e per il momento sembrano tutti soddisfatti.
Il “processo di pace”


Le organizzazioni della Jihad prendono controllo sulla Siria

da un articolo di Anshel Pfeffer

AMMAN - I giordani hanno ammonito l'Occidente ed Israele che la Siria può diventare "un buco nero che succhierà jihadisti di tutto il mondo". Ma nonostante i loro ammonimenti le armi continuano ad arrivare a jihadisti e salafiti che sono attivi in Siria e pian piano prendono controllo sui ribelli. I giordani hanno il timore che con la caduta di Assad le armi e il "know how" che i jihadisti hanno avuto saranno diretti su altre mete nella zona e specialmente contro Giordania ed Israele. Già due mesi fa il servizio di informazione giordano ha preso un gruppo di 11 persone di salafiti giordani che si è organizzato in Siria che programmavano attentati in centri commerciali e ambasciate occidentali in Giordania.

(Fonte: Haaretz, 20 dicembre 2012)


L'urgente necessità di difendere Israele sul piano del diritto internazionale

di Marcello Cicchese

Non è casuale il fatto che dopo il ridicolo riconoscimento internazionale, sia pure come "osservatore non membro", di uno stato che manca delle pur minime condizioni storiche e politiche per essere considerato tale, l'attenzione si sia rivolta alla città di Gerusalemme. Perché è importante per la comunità internazionale che il governo israeliano abbia deliberato la costruzione di nuovi appartamenti in un quartiere di Gerusalemme? Quali case di palestinesi sono state distrutte? chi è stato sfrattato? chi è stato malmenato? Nessuno, dunque almeno questa volta non si può accusare Israele di violenza fisica contro i poveri palestinesi. Il progetto di Netanyahu è un "colpo fatale alle speranze di "pace", titolano oggi dei comunicati di agenzia? Perché? Una volta che gli "accordi di pace" siano stati conclusi, si potrebbe decidere di assegnare quegli appartamenti a dei palestinesi. Potrebbero quindi essere contenti che con soldi israeliani si costruiscano alloggi che forse domani saranno per loro. Quello che in realtà si vuole far riconoscere al governo di Netanyahu è che ISRAELE NON HA DIRITTO a tutta Gerusalemme. Si accontentano di poco a prima vista, ma non è così. Gerusalemme è il vero nocciolo della contesa, e questo significa che il centro della questione non sta nella sicurezza, ma nel diritto. Vorrà continuare Israele a cedere diritti sperando di averne in cambio pace e sicurezza? Si vedrà.
   Riportiamo, a questo proposito, il testo tradotto dell'ultima pagina di copertina di un libro di Cynthia D. Wallace recentemente uscito, di cui sul nostro sito è già apparso un lungo estratto in italiano.
    «Non è un segreto che il dibattito sulla rivendicazione della nazione d'Israele alla sua ancestrale terra e alla città di Gerusalemme ha causato grandi controversie. Anche se sono molti quelli che sostengono i diritti del popolo ebraico con pressanti richiami emotivi, sono pochi quelli che riescono a sostenere le loro argomentazioni con forti prove concrete. Per difendere veramente Israele sul piano politico non basta il fervore emozionale, è necessario esaminare i fatti legali e storici che riguardano questo conflitto, se si vogliono tutelare i diritti del popolo ebraico.»
Cynthia D. Wallace, Foundations of the International Legal Rights of the Jewish People, ed. Creation House, aprile 2012, p. 111, € 8,35

(Notizie su Israele, 20 dicembre 2012)


Monti a Ucei: relazioni Italia-Israele non intaccate

ROMA, 19 dic. - Il Presidente del Consiglio nell'occasione dell'incontro di oggi a Palazzo Chigi con i rappresentanti delle Comunita' ebraiche, ha voluto ribadire che Italia e Israele sono legate da una profonda amicizia, che trova concreta testimonianza nell'ampia cooperazione esistente tra i due Paesi, nei piu' diversi settori. Riferendosi al recente voto in favore della Risoluzione che attribuisce alla Palestina lo status di Stato non membro Osservatore all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Presidente del Consiglio, prosegue una nota di Palazzo Chigi, ha in particolare sottolineato come esso, lungi dall'avere intaccato la natura eccellente delle relazioni tra Italia e Israele, sia stato motivato dall'obiettivo di rafforzare la leadership moderata del Presidente dell'Autorita' Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, con il fine di rilanciare il negoziato di pace ed isolare ogni forma di estremismo. La nascita di uno Stato di Palestina membro a pieno titolo dell'ONU, ha osservato il presidente Monti, potra' pero' arrivare solo ed esclusivamente con il negoziato e l'intesa diretta tra le parti, con l'obiettivo di dare vita a due Stati per due popoli, con lo Stato palestinese che sia patria del popolo palestinese, e lo Stato d'Israele come Stato ebraico, che possano vivere in pace e sicurezza, entro confini mutuamente riconosciuti.

(AGI, 19 dicembre 2012)


“... con lo Stato palestinese che sia patria del popolo palestinese, e lo Stato d'Israele come Stato ebraico, che possano vivere in pace e sicurezza, entro confini mutuamente riconosciuti.” E’ la formula di rito che bisogna recitare in occasioni come queste, e il nostro Presidente del Consiglio l’ha imparata bene. Dopo di che, naturalmente, ogni altra considerazione nel merito è superflua. Sono rimasti soddistatti i rappresentanti delle Comunità ebraiche in Italia?


La Turchia sempre meno laica. Test di religione all'università

In due test di ammissione alle università turche verranno inserite dal prossimo anno domande relative alla religione, una prima assoluta in un paese a maggioranza musulmana in cui le strutture pubbliche sono rigorosamente laiche. Lo ha detto all'Afp un funzionario del ministero della Pubblica istruzione spiegando che gli studenti dovranno rispondere a cinque domande sulla religione nell'Esame di transizione all'educazione superiore (Ygs) il prossimo 24 marzo e a otto domande nel ramo scienze sociali nell'Esame di collocamento degli studenti universitari, noto come LYS-4, il 15 giugno. Si tratta di test standard per essere ammessi alle università turche. "E' la prima volta che gli studenti devono rispondere a domande sulla religione in un esame per l'università turca" ha detto il funzionario, che intende restare anonimo.
Nel programma della scuola pubblica turca c'è la religione, ma le nuove domande dei test sollevano preoccupazioni in un paese che sostiene di avere una maggioranza del 99% di musulmani, ma dove sono presenti minoranze di musulmani non sunniti, cristiani ed ebrei. In febbraio il premier Recep Tayyip Erdogan aveva detto che il suo governo voleva"allevare generazioni di giovani devoti", parole che hannop toccasto un nervo scoperto, alimentando un dibattito sull'islamizzazione strisciante dello stato laico turco.

(Affaritaliani, 19 dicembre 2012)


Il conflitto arriva tra i palestinesi di Yarmouk

In Siria ora è la volta dei palestinesi di Yarmouk, il campo profughi trasformatosi negli anni in un quartiere di Damasco. Il campo è stato attaccato ieri dall'esercito con il governo che ha accusato i palestinesi di proteggere i ribelli. Inutili finora i richiami dell'Onu, mentre migliaia di civili stanno tentando ancora in queste ore di abbandonare il teatro degli scontri.
Yarmouk era stata oggetto di bombardamenti già due giorni fa e in precedenza si erano verificati scontri tra gruppi di palestinesi favorevoli e contrari al regime. A Yarmouk, sobborgo di mezzo milione di abitanti, avevano tra l'altro trovato rifugio siriani in fuga da altre zone del paese e ora nuovamente costretti a spostarsi.
Sul piano politico due sono stati i fatti di rilievo della giornata di ieri. La visita ad Aleppo del primo ministro siriano Wael al-Halaqi, il primo alto esponente del governo a raggiungere Aleppo negli ultimi mesi. Ma soprattutto l'intervista rilasciata al giornale libanese al-Akhbar del vice-presidente Faruq al-Sharaa. Quest'ultimo ha detto che nessuno dei contendente, né il governo né l'opposizione, riuscirà davvero a vincere il conflitto in corso e che serve "un accordo storico" per riportare la pace.

(Atlas, 18 dicembre 2012)


Laurea honoris causa dell'Università Ebraica di Gerusalemme a Mauro Perani

Il prof. Mauro Perani
BOLOGNA - Il riconoscimento conferito al docente di Ebraico dell'Alma Mater per il "grande contributo alla ricerca nel campo dei manoscritti ebraici e all'avanzamento di diverse branchie degli studi ebraici, presente nei suoi libri e articoli, specialmente all'interno del progetto Ghenizà Italiana"
Mauro Perani, docente di Ebraico al Dipartimento di Beni culturali dell'Università di Bologna, è stato insignito del titolo di Doctor Philosophiae Honoris Causa dell'Università Ebraica di Gerusalemme. L'ateneo israeliano ha così premiato il docente Unibo per il suo "grande contributo alla ricerca nel campo dei manoscritti ebraici e all'avanzamento di diverse branchie degli studi ebraici, presente nei suoi libri e articoli, specialmente all'interno del progetto Ghenizà Italiana".
"Il progetto Ghenizà italiana, - si legge nella lettera inviata al prof. Perani e firmata dal Presidente e dal Rettore dell'Università Ebraica di Gerusalemme - nel quale lei è stato attivo come ricercatore dal 1984 e che ha diretto per due decadi, si era prefissato lo scopo di localizzare tutti i frammenti di manoscritti ebraici presenti in legature di libri e in archivi dell'Italia, mentre negli ultimi dieci anni ha esteso la sua attività a includere anche gli archivi di Gerona in Spagna. Questo progetto ha scoperto, fotografato e catalogato circa 13.000 frammenti di testi ebraici di vario contenuto che includono letteratura talmudica, commenti biblici, pensiero ebraico, lingua ebraica, storia ebraica e altri campi, ed alcuni anche opere finora sconosciute. Lei è stato il supervisore di questa vitale impresa, i cui frutti hanno costituito un contributo significativo all'avanzamento degli studi ebraici, con impressionante dedizione, professionalità e creatività, in stretta collaborazione con la Biblioteca Nazionale di Israele in Gerusalemme e molti studiosi dell'Università Ebraica".
La data di conferimento del titolo è in programma per il 16 giugno 2013, a Gerusalemme, presso l'anfiteatro Rothberg, nel Campus di Monte Scopus, in occasione dell'annuale convocazione dell'Università.
Mauro Perani è l'ultimo in ordine di tempo di una lista di illustri italiani a ricevere la laurea honoris causa dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Prima di lui, nel 2009, il titolo era toccato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e nella lista figurano, tra gli altri, anche Umberto Eco, Carlo Ginzburg, Rita Levi-Montalcini e il cardinale Carlo Maria Martini.

(UNIBOmagazine, 18 dicembre 2012)


Novecentomila bambini poveri: una situazione inaccettabile per Shimon Peres

Dopo aver ricevuto la relazione del Consiglio per il benessere dei bambini, secondo cui più di 900.000 israeliani vivono sotto la soglia della povertà, il presidente Shimon Peres ha trovato intollerabile questa situazione. ''In Israele il tasso di bambini poveri è quadruplicato in 30 anni. Invito tutte le parti a concordare un programma comune per il benessere dei bambini'', ha detto.

(Guysen News, 18 dicembre 2012)

Yad Ezra V'Shulamit


I rotoli del mar Morto a disposizione sulla rete

Li ha scoperti per caso 65 anni fa un pastore beduino che cercava la sua capra. Oggi, grazie all'Autorità israeliana per l'archeologia e a Google, i rotoli del mar Morto, testi tracciati duemila anni fa, finalmente si possono studiare. Dopo due anni di lavori è stato presentato alla stampa un nuovo sito web dove sono raccolte 5.000 immagini di elevata qualità che mostrano frammenti di quei testi t, conservatisi miracolosamente grazie alla estrema siccità del clima in quella regione. Le immagini messe a disposizione del pubblico comprendono fra l'altro brani della Bibbia (fra cui una porzione della Genesi e i 10 comandamenti) e lettere scritte da ribelli ebrei inseguiti dalle legioni romane negli anni 132-35 d.C. I rotoli del mar Morto originali sono conservati nel Museo Israel di Gerusalemme

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(la Repubblica, 18 dicembre 2012)


Lettera aperta del rabbino Shalom Bahbout al sindaco di Napoli

Uscita oggi sul quotidiano "Il Mattino"

Egregio dottor de Magistris,
la sua iniziativa di offrire la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen, leader dei Palestinesi di Cisgiordania, nella misura in cui si propone di dare un contributo alla soluzione di un lungo conflitto, può essere condivisibile. Tuttavia, se non verrà accompagnata da iniziative tese a creare un'atmosfera di pacificazione tra le parti e se non sarà seguita da iniziative verso il territorio e verso le altre popolazioni coinvolte nei conflitti presenti nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, rischia di essere un'iniziativa di parte e alla fine inutile e dannosa. Come uno del milione di profughi dai Paesi arabi (la Libia) ho una conoscenza diretta del conflitto arabo-israeliano: mio padre, mio nonno e mio bisnonno sono nati a Gerusalemme e vi hanno abitato fin dai tempi dell'Impero Ottomano, quindi assai prima che si parlasse del problema palestinese e a buon diritto possono essere dichiarati palestinesi ante litteram. Mio padre era suddito della Palestina britannica e parlava e scriveva correntemente l'arabo classico e quello palestinese. Proprio per questo mio background mi permetto di darle alcuni consigli sulle iniziative da prendere nello specifico sia per quanto riguarda il conflitto tra palestinesi ebrei e palestinesi arabi che per quanto riguarda gli altri Paesi arabiche sono stati coinvolti nel conflitto.

1. Dovrebbe chiedere ad Abu Mazen di fare le seguenti dichiarazioni: ritrattare sia in inglese che in arabo quanto esposto nella sua tesi di dottorato in Storia presso il Collegio orientale di Mosca in cui bontà sua ritiene che si possa ridurre il numero delle vittime del nazismo a poche centinaia di migliaia; dichiarare che rinuncia al terrorismo come arma di pressione e condanna l'uso che ne fa Hamas con il lancio di oltre 15mila missili da Gaza verso Israele; condannare ancor più il lancio di missili verso Gerusalemme (ma non sarebbe santa anche per i musulmani?); riconoscere il diritto all'esistenza dello Stato d'Israele; fare una campagna di informazione interna alle nuove generazioni di arabi palestinesi per spiegare come ha avuto inizio il conflitto (ivi compresi i Pogrom compiuti a Hevron verso la popolazione ebraica, la rinuncia all'applicazione della risoluzione dell'ONU del 1947 che prevedeva la spartizione della Palestina tra arabi ed ebrei, il successivo attacco di tutti i Paesi arabi per eliminare la presenza ebraica etc.): una vera pacificazione inizia dalla conoscenza dei fatti a tutti i livelli e a tutte le latitudini; trasformare la Palestina araba in una società basata sulla democrazia e il riconoscimento della diversità (si pensi aalla discriminazione e alla persecuzione nei confronti degli omosessuali); organizzare un sistema basato sulla giustizia e non sulla giustizia sommaria come accaduto, ad esempio, nei giorni dell'ultimo conflitto in cui sono stati barbaramente uccisi dei palestinesi arabi e sottoposti poi al ludibrio popolare.

2. In qualità di Sindaco veramente amante della pace dovrebbe: offrire la cittadinanza onoraria a una personalità dello Stato d'Israele che occupi un ruolo politico omologo a quello di Abu Mazen, chiedendo nel contempo una serie di impegni e dichiarazioni, quali ad esempio la rinuncia a fare nuovi insediamenti; prendere iniziative della stessa portata tese a difendere le minoranze in tutti i Paesi del Medio Oriente in cui vi sono conflitti (Siria, Egitto, Iraq, Arabia Saudita etc.); fare una vasta campagna di informazione, con la presenza di studiosi e persone coinvolte, sul conflito arabo-israeliano nelle scuole e nelle istituzioni a partire dalle decisioni dell'ONU; organizzare una visita da parte dell'amministrazione napoletana nello Stato d'Israele, in Cisgiordania e a Gaza; inviare scolaresche del Napoletano nello Stato d'Israele, in Cisgiordania e a Gaza; organizzare iniziative comuni nel campo della cultura e dello sport. Certamente la sua amministrazione saprà indicare alcune altre strade per far sì che l'informazione sia la più ampia e obiettiva possibile perchè, al di là degli slogan, è nell'interesse di tutti - noi cittadini italiani, palestinesi arabi e israeliani - conoscere la verità e costruire un futuro comune di pace a partire dalla verità dei fatti. Napoli, come città che si trova nel centro del Mediterraneo, deve assumere una posizione equilibrata e non di parte, perché altrimenti perderebbe di credibilità, già minata dopo le decisioni prese in merito all'accoglienza riservata alla flottiglia. Limitarsi a dare la cittadinanza ad Abu Mazen, oltre che essere una decisione di parte, sarebbe solo una decisione di facciata, senza nessun risvolto pratico e senza nessuna possibilità di incidere positivamente sul processo di pace, che è interesse di noi tutti. La pace - e se vogliamo il Nobel della Pace - non può essere raggiunta con iniziative di parte: sono pronto a incontrarla per studiare un piano operativo per lo sviluppo di un programma di pace che possa fare di Napoli città della pace.

Shalom Bahbout
Rabbino Capo di Napoli e del Meridione

(il Mattino, 18 dicembre 2012)


Le parole del rabbino Shalom Bahbout al sindaco di Napoli sono ragionevoli e fin troppo gentili, riportano fatti e li collegano fra loro con argomenti razionali, ma è questo che desiderano i "difensori della pace" come il nostro sindaco? Non ne hanno bisogno: a loro basta quello che hanno già assorbito dai generici umori dell'ambiente circostante, che si riassume in questo: Israele è un prepotente che mette in pericolo la pace internazionale, e Abu Mazen rappresenta il debole popolo oppresso che deve essere aiutato e incoraggiato. E' già tutto chiaro, che bisogno c'è di aggiungere altro? Affinché gli argomenti di giustizia e ragionevolezza possano avere qualche speranza di successo è necessario che in chi li ascolta sia presente una ben precisa componente morale: la buona fede. E questa è merce rara quando si coinvolge Israele in un discorso che si presenta come anelito alla pace. "Non si può costruire la pace nel mondo se non sulla base della buona fede internazionale", disse David Lloyd George, Primo Ministro inglese al tempo della prima guerra mondiale, in un’occasione in cui il governo inglese, come oggi quello italiano, stava facendo un’ignobile voltafaccia davanti al popolo ebraico che di lì a poco sarebbe stato massacrato dai nazisti e non solo. Di questa buona fede internazionale ancora oggi non si vede traccia. M.C.

Il discorso radiofonico di David Lloyd George nel 1939


Come al solito, un voltafaccia italiano

di Menachem Gantz

  
Mahmoud Abbas (Abu Mazen), il presidente dello "stato osservatore", è arrivato a Roma per una serie di incontri, lunedì, con i massimi rappresentanti del governo italiano. La visita costituisce un'espressione di gratitudine da parte di Abu Mazen verso il governo italiano che ha abbandonato i principi degli Accordi di Oslo appoggiando la mossa unilaterale palestinese, il 29 novembre scorso all'Assemblea Generale della Nazioni Unite. La visita di Abu Mazen nella Città Eterna configura l'atto finale della disonorevole partita giocata dal primo ministro Mario Monti.
Sono 138 i paesi che hanno sostenuto l'approvazione di uno "stato palestinese" come "osservatore non membro" alle Nazioni Unite (senza negoziato né accordo con Israele), ma Abu Mazen non ha deciso di visitarli tutti uno per uno per dire grazie. È venuto a Roma perché il sostegno dell'Italia lo ha sorpreso e intende sfruttare al meglio questo appoggio.
Il voto dell'Italia a favore dell'innalzamento del rango della delegazione palestinese a quello di "stato osservatore non membro" è stato senza dubbio il più sorprendente. E a sorprendere non è stato tanto il merito del voto anti-israeliano, quanto il modo in cui l'Italia ha repentinamente cambiato politica. I paesi amici non sono tenuti a concordare su tutto, ma certamente sono tenuti a un minimo di decenza.
Nelle settimane che hanno preceduto il voto, il ministro degli esteri italiano Giulio Terzi aveva indicato al suo collega israeliano Avigdor Lieberman che l'Italia intendeva astenersi. Poi, come un ladro di notte, poche ore prima del voto l'Italia ha cambiato posizione. Il ministro degli esteri italiano, che durante la sua visita in Israele lo scorso settembre aveva dichiarato d'essere contrario alla manovra unilaterale palestinese all'Onu perché "corre il rischio di polarizzare la discussione", ha scoperto che le sue posizioni non vengono tenute in considerazione quando si tratta della politica estera dell'Italia. Il primo ministro Monti ha preso in mano le redini e ha deciso di cancellare in un solo giorno un intero decennio in cui l'Italia si era caratterizzata per una politica estera equilibrata rispetto a Israele e al mondo arabo, nello spirito della politica attuata dai governi del suo predecessore Silvio Berlusconi. Terzi ha scoperto di essere il ministro più irrilevante del governo italiano, e persino la richiesta delle sue dimissioni è diventata irrilevante quando Monti ha annunciato, una settimana dopo, la sua intenzione di dimettersi per la crisi della coalizione.
La decisione di Monti sul voto all'Onu, sostenuta dal presidente Giorgio Napolitano, trova origine nella politica interna. Se da un lato in qualche misura deve aver pesato la visita del primo ministro italiano in Qatar alla vigilia del voto all'Onu e il bisogno che ha l'Italia, in crisi economica, del sostegno finanziario del mondo arabo, il motivo principale della scelta, che molti amici di Israele in Italia hanno etichettato come un "tradimento", è stata la necessità di Monti di distanziarsi dall'immagine di Berlusconi amico di Israele, e il suo desiderio di compiacere il leader del Partito Democratico Pier Luigi Bersani, che è in testa ai sondaggi e che potrebbe essere determinante per il futuro politico di Monti dopo le elezioni del prossimo febbraio.
I rappresentanti italiani negano con forza che il cambiamento di politica mirasse a colpire Israele. Sostengono che fosse compito dell'Italia sostenere Abu Mazen all'indomani dell'operazione "Colonna di nube difensiva" e dell'aumento di influenza di Hamas in Cisgiordania: per il bene di Israele e come mezzo per promuovere il dialogo fra le parti. Ignorano l'istigazione all'odio che ha contraddistinto il discorso fatto da Abu Mazen all'Onu, mentre sottolineano la critica al governo Netanyahu di voler porre in secondo piano il conflitto palestinese.
Abu Mazen è venuto a Roma perché percepisce quello che percepiscono anche molti ebrei italiani: che il sostegno dato dall'Italia alla manovra dei palestinesi marca un punto di svolta. L'Italia potrebbe tornare indietro di trent'anni, ai giorni in cui l'Olp agiva a Roma come se la città fosse casa sua. Nel Ghetto si tende ad associare il duo cattolico-socialista Monti-Bersani con un altro duo con analogo retroterra: quello dei soci di coalizione degli anni '80 Giulio Andreotti e Bettino Craxi. Allora come oggi, i due giocarono la carta della critica verso "Israele ed ebrei" in mancanza di un'intesa fra di loro su questioni economiche e sociali.
Nel contesto della sua stretta amicizia con Israele, l'Italia è riuscita a migliorare la propria posizione in campo internazionale: rappresenta Israele all'interno della Nato, ufficiali italiani sono al comando delle forze al valico di Rafah (fra Egitto e striscia di Gaza) e nel sud del Libano, e sono state anche stabilite relazioni privilegiate con gli Stati Uniti. Si tratta di un schema che dovrà essere riesaminato alla luce delle imminenti elezioni in Israele e in Italia.

(YnetNews, 17 dicembre 2012 - ripreso da israele.net)


Idee regalo per il Natale

Decollano le vendite di M75, la fragranza per uomo e per donna disponibile da alcuni giorni nelle migliori profumerie e centri commerciali di Gaza, la città una volta sfregiata con l'orrenda quanto improbabile definizione di "prigione a cielo aperto" (ben altri odori si percepiscono nelle galere). Il profumo deve il suo nome al missile a lungo raggio che i terroristi palestinesi hanno sparato contro Tel Aviv e Gerusalemme durante le manovre dell'operazione Pillar of Defense: una gittata massima di 75 chilometri, che ha rappresentato una escalation del livello di minacciosità della fazione estremista che da oltre cinque anni controlla la Striscia.
Operazione provvidenziale, quella posta in essere in otto giorni dall'esercito israeliano a novembre, se è vero che da un mese a questa parte non un razzo, o missile, o colpo di mortaio è partito da Gaza nei confronti dell'Israele meridionale: mai successo, dal 2007 ad oggi. Segno che lo smantellamento delle minacce terroristiche ha sortito il suo affetto. Perlomeno fino a quando nuove munizioni arriveranno dall'Iran. Sponda Egitto, dove ieri un referendum ha confermato "democraticamente" i nuovi pieni poteri del faraone Morsi.
Hamas avrà subito un duro ridimensionamento dell'operazione Pillar of Defense, e per un po' di tempo non riuscirà ad aggredire le famiglie che vivono nell'Israele meridionale (ne va anche della traballante reputazione di Morsi, il nuovo faraone d'Egitto). Ma possono osservare con soddisfazione il decollo delle vendite del nuovo profumo M75, distribuito in tutte le migliori profumerie di Gaza. Soprattutto, ammirano compiaciuti il risultato di un recente sondaggio condotto nel West Bank.
Secondo l'Arab World Research and Development (AWRAD), di Ramallah, ben il 42% dei palestinesi che abitano in Giudea e Samaria approvano la condotta dell'organizzazione terroristica, mentre un gramo 28% dichiara di apprezzare l'iniziativa unilaterale di Abu Mazen alle Nazioni Unite. Hamas nega l'esistenza di Israele, si rifiuta di deporre le armi e di accettare i trattati internazionali: quanto di più remoto dalla prospettiva di pace fra arabi e israeliani. Non a caso, l'88% del campione interpellato ritiene che la "lotta armata" (leggasi: terrorismo) è la soluzione migliore per conseguire l'"indipendenza" palestinese.

Video

(Il Borghesino, 17 dicembre 2012)


Hezbollah: inspiegabile la titubanza europea sul gruppo terrorista libanese

di Noemi Cabitza

Hezbollah inserito nella lista nera europea dei gruppi terroristi? Si, forse, ma anche no. C'è confusione sul da farsi a Bruxelles. All'inserimento del gruppo terrorista libanese nella lista nera europea dei gruppi terroristi si oppone con fermezza la rappresentante europea della politica estera, Catherine Ashton, seguita incredibilmente dalla maggioranza delle cancellerie europee.
E' davvero incredibile come un gruppo chiaramente terrorista, che attualmente combatte a fianco di Bashar El-Assad e che partecipa attivamente alla repressione del popolo siriano, un gruppo nato con la finalità di distruggere uno Stato democratico (Israele), che si è reso responsabile di sanguinosi attentati all'estero (l'ultimo a Burgas, in Bulgaria) e in patria, che ha ucciso senza pietà l'ex premier libanese, Rafik Ariri, come ha appurato il Tribunale Speciale per il Libano, e chiunque gli si sia opposto, possa essere considerato alla stregua di un partito politico.
Catherine Ashton
Eppure l'Europa stenta a definire con chiarezza cosa sia Hezbollah e rifiuta un accostamento, che è più che palese, al terrorismo internazionale dimostrando, ove ce ne fosse bisogno, che nella lotta al terrorismo l'Europa è debolissima se non addirittura ricattata.
Come detto, a guidare la truppa degli scettici (non è chiaro quanto interessati) è la baronessa inglese Catherine Ashton, che nella sua breve e ingloriosa vita politica si è distinta solo per il forte antisemitismo e per l'odio viscerale verso Israele. La Ashton in questa vera battaglia è sostenuta a spada tratta dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Svezia e dalla Danimarca. Molti altri Stati sono indecisi compresi Italia e Germania anche se in questi due ultimi Stati c'è una fortissima campagna per inserire Hezbollah nella lista nera europea dei gruppi terroristi condotta senza sosta dalla deputata italiana Fiamma Nirenstein e dal tedesco Philipp Missfelder, portavoce del partito della Merkel. Ma è evidente che le pressioni, per quanto forti, non riescano a scardinare la resistenza della Ashton e del gruppo che fa capo a lei.
Alla base, secondo alcuni esperti, c'è la convinzione da parte dell'Europa che Hezbollah non sia un problema europeo ma che sia solo un problema israeliano. Un errore di valutazione clamoroso. Infatti il gruppo terrorista libanese nel corso degli anni ha ampiamente dimostrato non solo di avere succursali e cellule attive in tutto il mondo (e anche in Europa) ma di poter colpire anche fuori dai propri confini. Non solo, è ampiamente dimostrato come Hezbollah sia praticamente dietro a quasi tutte le transazioni di armi che dal vecchio continente prendono la strada del Medio Oriente. A tal proposito un esempio ci arriva dal carico di armi sequestrato pochi giorni fa a Napoli e diretto in Egitto (probabilmente ad Hamas). Le indagini, per altro coperte da comprensibile riserbo, stanno puntando decisamente su Hezbollah e su una sua cellula presente in Macedonia (ma anche in Kosovo). Che dire poi delle tonnellate di cocaina che dal Sud America (via Hezbollah Venezuela) inondano l'Europa?
Come si vede, quindi, il "problema Hezbollah" è tutto fuorché un problema esclusivamente israeliano ma è decisamente globale. Lo hanno capito da molti anni gli USA che infatti hanno inserito il gruppo terrorista libanese nella loro lista nera. L'Europa invece è titubante e francamente non se ne capiscono le ragioni. Qualcuno sostiene che alla base ci sia il timore di attentati terroristici in suolo europeo, rimasto sostanzialmente al margine della lotta internazionale al terrorismo se si fa eccezione per gli attentati in Spagna e in Gran Bretagna. Secondo me (ma non solo) invece alla base c'è un reiterato odio verso Israele e la sua politica, mascherato molte volte dalla diplomazia e dal suo linguaggio controverso. Non credo infatti che l'Europa possa essere ricattata da Hezbollah (e quindi dall'Iran) e quindi non scorgo altre ragioni plausibili per questo incredibile vuoto normativo europeo.
Hezbollah è chiaramente un gruppo terrorista, un gruppo che vuole l'eliminazione dell'unica democrazia in Medio Oriente, che partecipa attivamente alla macelleria in Siria, testa di ponte verso l'Europa della prepotenza iraniana, coinvolto in traffici di armi e droga e autore di efferati e sanguinosi attentati. Solo chi è in malafede può negare questa evidenza. Capito sig.ra

(SPMedia, 16 dicembre 2012)


Il budino e l'antisemitismo

di Ugo Volli

Cari amici,
lasciatemi tornare ancora sul voto dell'Assemblea Generale dell'Onu che ha riconosciuto l'Autorità Palestinese come "stato osservatore non membro". Gli ottimisti a oltranza - o gli ipocriti - dicevano che quel voto era il modo di rilanciare le trattative fra Israele e Anp, mentre noi dicevamo tutto il contrario, che esso avrebbe incoraggiato la renitenza di Mahmoud Abbas, oltre che ledere gli accordi di Oslo e scoraggiare per questo motivo Israele: voi fareste volentieri un prestito a qualcuno che ha appena rifiutato di pagare i suoi, facendo bancarotta? E dunque, fareste un trattato con qualcuno che ha appena ignorato deliberatamente un trattato per quelli che riteneva i suoi interessi? Così ha fatto l'Anp, dato che gli accordi di Oslo proibivano esplicitamente ogni ricorso a organizzazioni internazionali per stabilire lo stato palestinese, e lo riservava al negoziato fra le parti.
Adesso però abbiamo quel che Friedrich Engels (sì, il socio di Marx, per molti versi deplorevole, ma in questo lucidissimo) chiamava la prova del budino: la qualità di un dolce si verifica non in teoria, ma mangiandolo. Bene, ci siamo mangiati il voto dell'Onu. Avete visto delle trattative? No. Dei passi preparatori da parte palestinese, delle aperture negoziali? No, tutto il contrario. Il primo ministro dell'Anp ha lanciato ieri il boicottaggio totale dei prodotti israeliani da parte dei suoi amministrati: un segnale politico ben preciso, anche se sul piano pratico vuol dire poco, perché lo "stato" dell'Anp vive soprattutto di prodotti israeliani. E il capo negoziatore Erekat (del tutto disoccupato, dato che l'Anp rifiuta le trattative con Israele dal 2009) ha appena avvertito gli Usa, con qualche durezza di tono, di non permettersi di imporre sanzioni all'Anp per aver violato gli accordi andando all'Onu. Insomma, la prova del budino sul voto dell'Onu dice quel che era perfettamente prevedibile a priori, cioè nessuna apertura negoziale e accresciuta arroganza.
E' vero che si potrebbe pensare che i palestinesi attendano le elezioni israeliane per discutere col nuovo governo; ma tutte le previsioni assicurano che Netanyahu sarà ancora premier e la maggioranza sarà la stessa, sicché si tratterebbe di un calcolo insensato. E già che ci siamo, sapete che alcuni eccentrici giornalisti hanno trovato una nuova causa, naturalmente israeliana, per il rifiuto dei palestinesi di aprire i negoziati di pace. Sapete di chi è la colpa per Friedman del New York Times, Segev dell'estrema sinistra israeliana, Wilson del ? Washington Post ? Ma di Iron Dome, la cupola di ferro che protegge le città israeliane dagli attacchi missilistici delle organizzazioni terroriste. Le protegge ed evita danni e morti civili e questo è bene, ammettono i giornalisti di buona volontà; ma li protegge troppo, rendendo gli israeliani sicuri e quindi scoraggiandoli dal fare sacrifici per la pace... si può sostenere una tesi più ipocrita e assurda? Bisognerebbe allora togliere i giubbotti antiproiettile ai poliziotti, anzi togliere la polizia del tutto dalle nostre città, e in questa maniera saremmo più sensibili alle ragioni dei ladri e magari li abbracceremmo e condivideremmo con loro il nostro pane, provocando un'era di pace senza furti... Ma si può?
Tornando al voto dell'Onu, vale la pena di leggere l'intervista dell'ambasciatore ceco al Jerusalem Post. L'allora ministro degli esteri Lieberman aveva fatto un paragone con Israele per spiegare il fatto che la piccola Cechia era stata una delle pochissime nazioni in Europa a respingere il ricatto arabo: "Tutte le espressioni e le promesse di impegno per la sicurezza di Israele da tutto il mondo mi ricordano impegni similari affidati alla Cecoslovacchia [nel 1938], e la pressione fatta sul presidente ceco per cedere i Sudeti alla Germania", Lieberman ha detto. "Dopo tutte le promesse e le garanzie che le erano stati fornite, la Germania nazista occupò tutta la Cecoslovacchia, mettendo fine alla sua esistenza." L'ambasciatore dice che naturalmente il paragone non può essere perfetto, come tutte le analogie storiche, ma il problema è proprio quello, la tendenza degli stati europei a fare sacrifici sulla pelle altrui per comprare la propria tranquillità, fino all'ultimo momento, come accadde negli anni Trenta con Hitler e sta accadendo oggi con l'islamismo.
E a proposito di Europa e di "appeasement" con l'islamismo, c'è un dettaglio che i giornali italiani non hanno riportato, ma che vale la pena di conoscere. Qualche giorno fa il consiglio dei ministri europei ha emesso una rarissima condanna di un'azione palestinese. Si trattava del discorso del leader di Hamas, Meshaal, in cui proclamava che non un centimetro di terra fra il fiume e il mare era negoziabile, che lo scopo era ricacciare gli ebrei in mare (il che naturalmente significa ammazzarli) e il solo mezzo era la guerra. Sono temi consueti dell'ideologia di Hamas, si trovano anche nel suo statuto, vengono continuamente ripetuti, e del resto anche i concorrenti "moderati" di Al Fatah sono d'accordo . La cosa aveva colpito però per l'occasione solenne del discorso ufficiale in occasione dei venticinque anni dell'organizzazione, per il fatto che Meshaal si era fatto accreditare di recente una fama di moderato, perché veniva di seguito al voto dell'Onu. Dunque l'Unione Europea aveva deciso di esprimere dissenso, anche per dare l'impressione di un certo equilibrio, dopo l'aspra condanna riservata in quei giorni ai progetti edilizi del governo israeliano. Del resto è ovvio che un'organizzazione il cui progetto politico è la strage e la distruzione attraverso la guerra di uno stato membro dell'Onu non può che suscitare condanna in chi dice di essere per la pace, anche se l'Unione Europea si è sempre rifiutata di includere Hezbollah, che ha posizioini analoghe, nella propria lista dei terroristi.
Bene, il comunicato è stato fatto, ma in termini molto blandi e superando l'opposizione di quattro stati, che non volevano si pronunciasse neppure un educato dissenso rispetto allo stragismo di Hamas. Sapete quali sono questi stati? Eccoli: Irlanda, Portogallo, Danimarca, Finlandia. Sarà un caso che di recente sono stati emessi degli avvisi per invitare cittadini e turisti a non portare simboli ebraici proprio in Danimarca e in Finlandia, che l'Irlanda sia considerata lo stato europeo più ostile agli ebrei. Un'altra prova "del budino" che l'appoggio alla "lotta del popolo palestinese" e l'antisemitismo sono strettamente intrecciati non solo nelle mentalità, ma anche al livello dell'azione politica.

(Informazione Corretta, 17 dicembre 2012)


Il satellite russo che preoccupa Israele

    Il Kanopus-V
Gli specialisti russi hanno trovato un modo originale di attirare l'attenzione degli eventuali compratori del satellite Kanopus-V, creato per la mappatura, osservazione dei fenomeni fisici anomali e delle situazioni di emergenza, scrive il giornale israeliano Maariv. Come esempio delle possibilità del satellite sono state presentate le foto di alta qualità della base militare delle Forze Aeree d'Israele nel deserto del Negev e dell'aeroporto Ben Gurion.
Il satellite Kanopus-V ufficialmente è stato presentato come satellite per usi civili, ma Israele non è disposto a credere a questa versione. Dunque uno dei politici ha espresso la preoccupazione che la Russia possa vendere questo satellite "civile" all'Iran o agli Hezbollah. Il politico ha esortato a pensare bene perché sotto l'obiettivo delle fotocamere di Kanopus-V sono capitati proprio la base delle Forze Aeree e l'aeroporto principale d'Israele.

(La Voce della Russia, 17 dicembre 2012)


Appello del premier palestinese: Boicottiamo i prodotti israeliani

RAMALLAH, 16 dic. - Il premier palestinese Salaam Fayyad ha invitato il suo popolo a boicottare i podotti israeliani. Fayyad ha parlato con i giornalisti spiegando che si tratta di un atto di protesta contro la trattenuta da parte di Israele di 100 milioni di dollari di imposte che normalmente trasferisce all'Autorità Nazionale Palestinese, che è a corto di fondi. Il taglio dei trasferimenti è stato un atto di ritorsione da parte del governo israeliano dopo il riconoscimento della Palestina come osservatore non membro all'Onu. Israele ha detto che i 100 milioni di dollari serviranno a ripagare parte dei debiti dei palestinesi. Un portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Yigal Palmor, ha dichiarato che i palestinesi "dovrebbero concentrare i loro sforzi per cotruire una propria economia e non per boicottare gli altri".

(Lapresse, 16 dicembre 2012)


Mig di Assad bombardano campo palestinese, decine di morti

BEIRUT, 16 dic. - Per la prima volta in 21 mesi di rivolta, i caccia del regime siriano hanno bombardato un campo profughi palestinese alla periferia sud di Damasco. "I jet hanno colpito un'area vicino all'ospedale di Al-Bassel, il campo di Yarmuk", ha riferito l'Osservatorio siriano per i diritti umani, Ong vicina all'opposizione con base a Londra.
Secondo attivisti dalla capitale siriana, decine di profughi palestinesi sono morti in una moschea colpita dalle bombe .

(AGI, 16 dicembre 2012)


Vedremo quali saranno le manifestazioni di pubblica indignazione morale per la sorte riservata ai “poveri palestinesi” di Damasco dagli arabi di Assad.


Il sindaco di Catanzaro chiama gli esperti israeliani per rendere più sicura la città

Sergio Abramo
CATANZARO 16 dicembre 2012 - Un territorio così vasto come quello di Catanzaro può essere controllato solo con i più sofisticati sistemi di videosorveglianza. E' per questo motivo che Sergio Abramo, allo scopo di assicurare il massimo della sicurezza ai cittadini dei quartieri più a rischio come Corvo, Lido, Giovino, ha chiamato i più grandi esperti al mondo in materia, gli israeliani della società multinazionale BunkerSec gestita dal generale Major Meir Dagan.
Si chiama "Catanzaro Safe City" il sistema all'avanguardia con cui Sergio Abramo intende rendere la città un'area difesa e protetta grazie al potenziamento della sua sicurezza interna. Tale soluzione combina un sistema di videosorveglianza per ambienti urbani e uno di gestione degli incidenti. E così il capoluogo di regione si avvantaggerà di molteplici tecnologie ultramoderne che assicureranno la sua assoluta sicurezza. Saranno raccolti, archiviati e gestiti flussi di video e dati grazie alla predisposizione di un gran numero di telecamere fisse e di altri dispositivi che comunque salvaguarderanno la privacy dei cittadini.
"Saremo i primi a sperimentare questa nuova tecnologia - ha spiegato Abramo - attraverso la firma di un protocollo d'intesa che prevede l'utilizzo dei fondi Pon sicurezza. Sarà messa in pratica una tecnologia che consentirà il monitoraggio 24 ore su 24 dell'intero territorio e un rapido intervento laddove ce ne sia l'esigenza. Si tratta di un fiore all'occhiello per la città, che grazie al nostro impegno è stata scelta come modello di sperimentazione a livello europeo. L'installazione delle telecamere associata a una forte collaborazione tra forze dell'ordine, settore privato e imprese, ridurrà la criminalità e migliorerà il servizio pubblico. Tranquillità e benessere dei cittadini saranno le conseguenze di questo approccio da noi scelto".
Gli obiettivi e i risultati attesi dal progetto elaborato della società leader a livello mondiale sono: la riduzione di tutti i tipi di reato, la deterrenza verso attività quali vandalismo, rumori, molestie nei luoghi pubblici, il contenimento immediato ed efficiente degli eventi criminali o terroristici che presentino l'uso di armi da fuoco o esplosivi, la supervisione del traffico cittadino, l'aumento del senso generale di sicurezza per i cittadini, per i dipendenti che lavorano in città e per i visitatori, il rafforzamento della cooperazione tra le forze dell'ordine allo scopo di trovare soluzioni efficienti e tempestive ai problemi di pubblica sicurezza, la creazione di procedure operative e di parametri per una misura efficace e oggettiva dei successi ottenuti.

(infoOggi, 16 dicembre 2012)


Gog marcia ancora sul piccolo Davide

di Guido Ceronetti

Bisogna saper pensare terribilmente, perché ci sia un pensiero. Se non pensi tragicamente non puoi pensare Israele. L'enormità della rivelazione biblica, l'enormità della Shoah, l'enormità della guerra permanente dell'inverosimile Erez, lo Stato ebraico di Palestina, pongono la necessità che di ciò che è Israele, fin dal suo violento assumere un tale nome (Genesi, 32) occorre parlare con reverenza sacra, con la paura che in Grecia suscitavano i luoghi consacrati alle Eumenidi.
   Il pensiero più terribile che si possa avere, in Occidente, nel mondo non islamico, è la dissoluzione, la scomparsa del piccolo Stato che disturba, col suo voler esserci, tutto il bisbigliargli attorno preoccupato dei destini umani che da vicino o da lontano ne dipendono. (Sono forse quasi tutti quanti siamo, di provvisoriamente vivi). Il pensiero sacralmente più terribile che possa io formulare è che l'Erez, il focolare ebraico della dichiarazione Balfour, l'unico Stato moderno democratico nel mare islamico, in stato di guerra permanente dal 1948 (o forse, dirò meglio, da quando il panorama di Tel Aviv erano una pompa d'acqua e tre o quattro case in legno da Western, 1900 circa) non possa tenere a lungo, perché la potenza militare non basta in un conflitto che di nazional-politico ha sempre meno e di religioso sempre di più.
   E se Israele non reggesse, la prospettiva è un cratere alla Ground Zero, ma più immaginabile nel suo orrore dell'11 settembre, un cratere imperdonabile, come la Shoah, da esseri pensanti, qualora nel Day After ne restassero. Quel che non viene considerato abbastanza è che i due massimi nemici di Israele, interamente votati alla causa della sua distruzione, sono Hamas e Iran (con la sua appendice Hezbollah), di cui l'ultimo ormai volens nolens, potenza nucleare. Oscenamente nucleare, un malaugurio per tutti, una metastasi perfettamente naturale e diagnosticabile fin da quando l'angelico Khomeini tornò in trionfo a casa. Obama, per aver teso la mano a quel regime di barbarie, si è bruciate le dita. Ma in caso di minaccia irreparabile, Israele non compirebbe un controesodo: spalancherebbe l'abisso di Dimona. Alef-Tau: la fibbia è fibbiata, non cercate più laggiù qualcuno. Guarda! È a Gaza di Palestina che si compie la tragedia dell'impotenza repentina, in casa della parrucchiera Dalila, dell'invincibile Sansone. Vedine la storia in Giudici 16; ma tutti sanno come finì, Sansone muore insieme ai Filistim.
   Acutissima, un'osservazione di Sergio Romano: Israele sospende con sollievo i suoi bombardamenti su Gaza perché sente di perdere la faccia a causa della sproporzione nel numero delle vittime: tre morti israeliani, oltre cento palestinesi. Lì c'è qualcosa da decifrare, nell'inconscio ebraico più oscuro, un moto, un pudore di coscienza che teme di violare la legge divina. Non si può, pur volendo ad ogni costo vivere, perdere le ragioni del vivere (propter vitam vivendi perdere causas). Ma chiaramente si tratta, in ogni guerra di Israele, dai tempi del re Saul, di una tregua di Natale (Christmas truce) come quella sul fronte occidentale del 1915; la pace non ha mai abitato sui suoi confini.
   Se qualcuno dei miei lettori ha un poco di familiarità biblica, lo rimando al trentottesimo di Ezechiele, la profezia su Gog, che mi torna in mente specialmente ad ogni nuovo conflitto di Israele. I versetti fondamentali sono 14-16; ne trascrivo il primo: «Dunque profetizza, figlio dell'uomo; dirai a Gog: così parla il Signore Iddio: nel giorno in cui il mio popolo Israele abiterà al sicuro (dwelleth safely traduce la King James), tu ti metterai in movimento». Gog simboleggia il nemico totale, lo sterminatore assoluto, e l'ordine di mettersi in marcia per la distruzione del suo popolo gli è dato dallo stesso amorevole Signore.
   Gog si mette, nel XX secolo, in movimento nel 1933, e parve dissolversi nell'anno-zero di Berlino; ma eccolo riaffacciarsi nel 1948, appena il popolo dell'Exodus, sfinito naufrago, ritiene di essere approdato al sicuro. E non gli resta che sempre più armarsi, e tenersi l'arma al piede, perché i clamori di morte di Gog non avranno mai fine. (La Scrittura non fa politica, la pace promessa è messianica, sta venendo sempre senza mai venire). Hamas, che spara senza fine dall'emblematico santuario di Gaza, è una piccola isola di paranoia, ma ha ricevuto l'ordine impartito a Gog seicento anni prima nell'esilio di Babilonia.
   Questa breve meditazione mi conduce a una conclusione difficilmente contestabile. Finché l'abitare al sicuro sarà negato, nel tempo ciclico, a Israele, l'Erez del fallace 1948 vivrà in una sicurezza relativa, minacciata sempre, con rabbia e furore impotente di Gog, che è in ogni luogo (ora una strage di bambini a Tolosa, ora striscioni immondi in uno stadio romano). La sicurezza garantita dalla guerra; tutta la nostra logica storica va a pezzi! Ma capisco; c'è da dare testate nel muro, cari pacifisti di Gerusalemme e di Palestina. Tenete conto, se volete, di questo, miei cari mai incontrati amici, David Grossmann, Bernard Henri-Lévy.

(Corriere della Sera, 16 dicembre 2012)


“La Scrittura non fa politica, la pace promessa è messianica, sta venendo sempre senza mai venire”. Non è vero: la Scrittura fa politica, e il suo oggetto è precisamente il rapporto tra Israele e le nazioni all’interno del piano storico di Dio. La battaglia di Gog e Magog non è poesia, e la pace promessa arriverà. Ma prima del suo arrivo ci saranno tremende “doglie di parto”.
“Io radunerò tutte le nazioni e le farò scendere nella valle di Giosafat: e là verrò in giudizio con loro a proposito del mio popolo e d'Israele, mia eredità che esse hanno disperso fra le nazioni, e del mio paese che hanno spartito fra di loro.” Gioele 3:2


Hanukkah illumina il risveglio del Meridione ebraico

di Davide Scibilia

  
A distanza di oltre 500 anni dall'editto di espulsione firmato dalla regina Isabella di Spagna le luci della Channukiah tornano a splendere sui volti di coloro che per lungo tempo hanno vissuto la loro ebraicità lontana da occhi nemici.
A Catania, in Piazza Università, si accendono da qualche tempo tutte e otto le luci. Quest'anno il terzo giorno è stato segnato dal danneggiamento della Channukiah da parte di un mezzo idropulitore del Comune. La notizia è volata così veloce che è pure giunta all'agenzia di informazione come atto vandalico da ignoti, poi scongiurata dalle immagini delle telecamere di sorveglianza del territorio. A Reggio Calabria, nella famosa via della Giudecca, di fronte ad uno dei più belli lungomari d'Italia con all'orizzonte le coste Sicilia, una piccola folla si è radunata al fianco del rabbino capo di Napoli e del Mezzogiorno Scialom Bahbout, di Roque Pugliese e di una delegazione di ebrei calabresi e siciliani. A testimoniare l'interesse crescente per il mondo ebraico la presenza di diverse troupe giornalistiche televisive che hanno ripreso l'evento. Un'intensa occasione di vita ebraica sarà presto nuovamente proposta, tra i numerosi eventi in programma nel Meridione, anche a Belvedere Marittimo con uno shabbaton che tra pochi giorni permetterà a molti di rivedersi, gioire assieme e condividere le esperienze fatte nelle varie attività sul territorio.

(Notiziario Ucei, 16 dicembre 2012)


Cosa ci ha insegnato la quasi guerra con Hamas

di Ugo Volli

La battaglia di Gaza è finita con un cessate il fuoco che, al momento in cui scrivo, tiene e ha l'aria di poter durare almeno un po': Hamas ha sospeso il lancio di razzi e gli agguati, Israele non ha certo interesse a riprendere i combattimenti senza provocazioni. La guerra non è certo finita, ma ora è il momento non solo per Tzahal, ma anche per chi sostiene Israele, di trarre gli insegnamenti da questa fase.
   Il primo è che sul terreno Israele ha vinto e con notevole facilità. Senza bisogno di far entrare le forze di terra a Gaza, con una perdita di vite umane sempre tragica ma molto ridotta da tutte e due le parti (circa dieci volte meno circa di "Piombo fuso") , Israele ha disarticolato la catena di comando di Hamas e ha distrutto buona parte dei suoi arsenali. Per un po', fino a quando Hamas non riuscirà a riorganizzarsi e ad accumulare rifornimenti dall'Iran, ci saranno fastidi e provocazioni, ma difficilmente una nuova battaglia vera. In realtà è successo molto di più. Il grande successo di Iron Dome, che ha ancora spazi di progresso, la sua integrazione con il sistema Arrows (contro i missili a lungo raggio) e David Sling (Fionda di Davide contro i missili intermedi) finirà col rendere obsoleta la strategia di attacco di Hamas ed Hezbullah ma anche quella iraniana, tutte basate sui missili: questa volta su un migliaio di razzi anche di nuovo tipo lanciati da Hamas, solo un paio hanno potuto arrivare al bersaglio, mentre i tiri di Tzahal sono stati precisissimi e straordinariamente efficaci. E non vale l'obiezione per cui gli antimissili costano molto più delle armi dei terroristi. Israele ha speso per Iron Dome questa volta circa una ventina di milioni di dollari, una cifra grande ma non fuori portata, e i costi diminuiscono con lo sviluppo; mentre quelli di Hamas (cioè dell'Iran) aumentano in proporzione ai fallimenti. Nel futuro questo squilibrio conterà molto, soprattutto per la partita decisiva, quella con l'Iran.
   I termini della tregua non sono stati però corrispondenti a questi risultati sul campo. Israele non ha ottenuto impegni di Hamas a rinunciare al riarmo e ha dovuto anzi concedere alcuni alleggerimenti del blocco di Gaza, consentendo per esempio alle barche di allontanarsi un po' di più dalla costa. Soprattutto Israele ha dovuto bloccare la propria avanzata su Gaza, rinunciando a distruggere con le armi il dominio di Hamas sulla striscia. Questo non era probabilmente un obiettivo realistico, comportando sanguinosi combattimenti casa per casa, con esito militarmente sicuro ma politicamente molto incerto. E soprattutto sul versante politico della guerra sono intervenuti con forza gli Stati Uniti, l'Europa, naturalmente i paesi arabi, per impedire una vittoria decisiva di Israele, come è spesso successo in passato (per esempio nel '67, nel '73, nell'82). E' la conseguenza di un panorama internazionale sostanzialmente schierato contro Israele non solo a livello politico ma anche dell'opinione pubblica e della stampa. Questo atteggiamento antisraeliano ha conosciuto alti e bassi, ma è continuo da decenni. Difficile negare che derivi in sostanza da un pregiudizio antisemita. Oggi è uno dei momenti acuti dell'odio contro Israele e gli ebrei, come negli anni Ottanta, con la differenza che la diffusione dei media vecchi e nuovi lo ha reso più penetrante e visibile al livello delle popolazioni e che le agitazioni politiche di questi anni l'hanno evidenziato ulteriormente. E anche questa è una lezione da imparare: se ci fosse un conflitto meno limitato di quello recentissimo, dobbiamo aspettarci un'ondata di odio violento non solo contro Israele, ma anche contro gli ebrei in generale. Le due cose, del resto non si distinguono nel mondo arabo e neppure in buona parte dei movimenti di protesta europei o sudamericani, che se la prendono volentieri con le sinagoghe i cimiteri e i simboli ebraici, in mancanza di obiettivi israeliani.
   Ma è qui che si vede anche quale sia il compito di noi ebrei della diaspora, ben inseriti nella comunità nazionali: non dobbiamo tiraci indietro e nasconderci, provando a fare distinguo poco credibili fra ebraismo, Israele, gli atti del suo governo democratico. Il nostro compito e la nostra sola vera possibilità è quella di impegnarci nei limiti del possibile a denunciare l'antisemitismo di chi vuole "distruggere Israele", come si è sentito in recenti cortei studenteschi. Solo così difenderemo lo stato ebraico e anche noi stessi.

(Shalom, dicembre 2012)


Lunedì il Papa riceverà in udienza Abu Mazen

CITTA' DEL VATICANO, 14 dic - Papa Benedetto XVI ricevera' in udienza lunedi' prossimo, 17 dicembre, il presidente dell'Autorita' Nazionale Palestinese Abu Mazen che sara' a Roma per vari incontri istituzionali.
La visita avviene dopo il riconoscimento da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dello status di ''Osservatore permanente'' per la Palestina - uno status finora riconosciuto soltanto alla Santa Sede. Il voto di New York e' stato accolto favorevolmente in Vaticano.

(ASCA, 14 dicembre 2012)


Stato del Vaticano e Stato palestinese accomunati dall’essere i soli “Osservatori permanenti” all’assemblea dell’Onu: un accostamento interessante.


Leggende e falsificazioni sulla guerra Hamas-Israele

di IPT News*

Sulla carta è stato sottoscritto un cessate il fuoco fra Israele e Hamas, ma l'evidenza empirica suggerisce che non reggerà a lungo. Il leader del Jihad Islamico palestinese ha già precisato di recente che la tregua sarà breve e che un nuova sanguinosa fase di combattimenti incombe. L'accordo individua nel Cairo il garante della pace, anche se il presidente Mohammed Morsi e membri del suo governo hanno apertamente incoraggiato e sostenuto Hamas durante la guerra.
Il cessate il fuoco verosimilmente rafforzerà Hamas, che lo considera un successo nei confronti di Israele. La storia evidenzia che le tregue non impediscono ad Hamas di continuare ad attaccare Israele. Inoltre, la stessa ammissione dell'Iran di fornire ai terroristi armi perfezionate chiarisce il crescente sforzo di Teheran per destabilizzare lo stato ebraico. Alla fine, questo cessate il fuoco rappresenta soltanto una pausa nei combattimenti, non l'inizio di una pace duratura. E questo per almeno dieci motivi, che discuteremo oggi e nei prossimi giorni.

1. HAMAS ADERIRA' AL CESSATE IL FUOCO
Hamas ha accettato di sottoscrivere un cessate il fuoco. Il nome arabo di questa azione è hudna, che ha un significato ben diverso da quello assegnatogli dal mondo occidentale. Una hudna comporta una pausa temporanea nelle violenze che fornisce ad Hamas il tempo necessario per riorganizzarsi e per armarsi, in vista di un nuovo conflitto. E' ben diverso da un cessate il fuoco, poiché è un accordo per arrestare le ostilità per un definito arco di tempo: non certo un accordo di pace.
E' ignota la durata di questa hudna, e possiamo star certi che i combattimenti riprenderanno non appena Hamas deciderà in tal senso. La hudna è cosa ben diversa dall'espressione sul d'aim, che implica una pace permanente e il riconoscimento del diritto all'esistenza da parte dei rivali non musulmani.
Hudna è stata la prima parola impiegata nella storia dell'Islam per descrivere una tregua: se ne trova traccia in un trattato del VII secolo di al-Hudaybiyya, che faceva riferimento ad una tregua dopo sei anni che Maometto e i suoi seguaci abbandonarono la Mecca per Medina. Questo accordo consentì a Maometto di pregare alla Mecca, allora sotto il controllo della tribù Quraysh, per dieci anni. Ma quando l'esercito di Maometto divenne sufficientemente forte, due anni dopo la stipula del patto sfruttò un attacco della tribu Banu Bakr allineata ai Quraysh come pretesto per lanciare a questi un ultimatum per sconfessare i loro alleati, o per pagare i danni per i loro attacchi nei confronti del musulmani, pena l'annullamento della tregua. I Quraysh optarono per quest'ultima opzione, e Maometto marciò sulla Mecca e conquistò facilmente la città.
Questo evento creò un precedente, giustificando l'abbandono delle operazioni allo scopo di riorganizzarsi e riarmarsi, consentendo un futuro attacco sul territorio lasciato alle spalle. Il leader dell'OLP Yasser Arafat alludeva al Trattato di al-Hudaybiyya nel 1994 in un discorso a Johannesburg, in Sudafrica, nel suggerire che una pace con Israele non poteva che essere temporanea.
La storia ha dimostrato che Hamas sottoscrive questa tesi, e che usa l'hudna come pausa temporanea nei combattimenti, prima di riprendere le ostilità. Nel giugno 2003, Hamas annunciò una hudna con Israele, ma due mesi dopo pose drammaticamente fine alla tregua con un attentato suicida a Gerusalemme che uccise 22 persone e ne ferì oltre 130. Allo stesso modo, le operazioni israeliane a Gaza a fine 2008 furono seguite da una hudna. Ma dopo il cessate il fuoco, Hamas riprese presto a sparare missili contro Israele, in una escalation che ha portato ai drammatici attacchi terroristici degli ultimi mesi.
L'interpretazione moderna della hudna sostiene che non ci sarà termine alla lotta ideologico-religiosa fino a quando Israele sarà annichilito. Lo comprova una convenzione: «Non c'é soluzione alla questione palestinese al di fuori del Jihad. Iniziative, proposte e conferenze internazionali sono solo una perdita di tempo e uno sforzo vano». Lo sceicco cofondatore di Hamas Ahmed Yassin considerava la hudna una «mossa tattica» nella guerra contro Israele. Nel contemplare la prospettiva di una pace con Israele all'inizio di quest'anno, il leader di Hamas Moussa Abu Marzook evidenziava che il suo movimento era disposto ad una hudna con Israele, ma che al contempo non era disposto a rinunciare all'obiettivo finale della distruzione dello stato ebraico.

2. HAMAS È INTERESSATA ALLA PACE
Hamas, correntemente definita come organizzazione terroristica da Stati Uniti ed Unione Europea, non fa distinzione fra West Bank, Striscia di Gaza e Israele con confini precedenti al 1967. Per essi, tutta la "Palestina" è occupata. Lo statuto di Hamas indica esplicitamente la distruzione dello stato ebraico come elemento prioritario. Infatti, Hamas con orgoglio si vanta di essere il principale movimento di "resistenza" (leggasi: terrorismo) contro Israele: «tutte le energie della gente e la ummah (nazione) sono necessari per sradicare l'entità oppressiva». L'ha affermato Muhammad al Deif, delle Brigare Al-Qassam, poco prima del cessate il fuoco.
Un riconoscimento di qualunque tipo del diritto di Israele ad esistere è fuori discussione per la leadership di Hamas. Questo convincimento è alla radice del conflitto. Alla luce dell'attentato bomba del 21 novembre su un autobus di Tel Aviv, il membro di Hamas Ezzat Rishq ha confermato che l'aggressione è una «ripercussione dell'aggressione israeliana della Striscia di Gaza». Rishq ha anche aggiunto che «l'entità sionista deve essere a conoscenza che la continuazione dell'aggressione contro il nostro popolo indifeso raddoppierà lo stato di collera, l'aggressività e il malumore della nostra gente, e ciò porterà i sionisti ad aspettarsi il peggio».

3. IL PROBLEMA È L'ASSEDIO ISRAELIANO DI GAZA
Con lo sgombero unilaterale di Israele da Gaza nel 2005, con cui ogni singolo israeliano - fosse esso soldato o civile - ha lasciato il territorio, i palestinesi hanno avuto la piena opportunità di autogovernarsi. Tuttavia, anziché migliorare gli standard di vita della Striscia, Hamas è rimasta concentrata sul manifestare ostilità nei confronti di Israele, lanciando attacchi ripetuti subito dopo il disimpegno. Da quando Hamas ha assunto il controllo nel 2006, 6109 missili hanno colpito il territorio israeliano. Essa assunse il pieno comando nel 2007, dopo una sanguinosa lotta fratricida con cui fu esautorata la fazione rivale di Al Fatah. In risposta, Israele ha allestito un blocco navale su Gaza, nel tentativo di prevenire l'arrivo di armi ai terroristi. Soltanto quest'anno, 1822 missili sono piovuti su Israele. Fra il 10 e il 13 novembre, prima dell'operazione Pillar of Defense, Hamas ha colpito 121 volte Israele, e 1500 missili sono stati sparati dal 14 novembre, quando sono iniziate le operazioni del Pilastro di Difesa.
Il blocco di Israele non è certo una "occupazione". Piuttosto, è una risposta doverosa per impedire che a Gaza pervengano armi a vantaggio di Hamas, che pertanto attenterebbe alla sicurezza degli israeliani. Non si tratta di nulla di nuovo: gli Stati Uniti hanno imposto un analogo blocco su Cuba dopo la crisi dei missili del 1962, mentre il Regno Unito ha fatto altrettanto nei confronti delle isole Falckland dopo la guerra con l'Argentina del 1982. Un rapporto del 2011 dell'ONU conclude che il blocco israeliano al largo delle coste di Gaza è pienamente legittimo sul piano del diritto internazionale.

4. ISRAELE COLPISCE DELIBERATAMENTE I CIVILI
Israele ha compiuto uno sforzo straordinario per minimizzare le perdite fra la popolazione civile palestinese, in seguito agli attacchi subiti dai terroristi. Prima di ogni missione, i militari israeliani hanno lanciato migliaia di volantini scritti in arabo, in cui si avvisavano i gazani degli attacchi imminenti. Questa iniziativa ha consentito alla popolazione civile di evacuare le aree interessate. I danni collaterali si sono verificati perché Hamas intenzionalmente si è fatta scudo con la popolazione civile, in palese spregio del diritto internazionale. Se Israele volesse intenzionalmente colpire i civili, la sua tecnologia militare consentirebbe di infliggere perdite ben più consistenti. Un pilota dell'aviazione ha abortito la missione consistente nel distruggere una piattaforma di lancio missilistica, perché situata nei pressi di un parco giochi in cui in quel momento si trovavano dei bambini. Alla fine da lì è stato sparato un missile, verso Tel Aviv, che ha costretto altri bambini a trovare ripario in un rifugio anti-missile. Immaginarsi cosa farebbe il governo americano se il cartello dei narcotrafficanti messicani sparasse migliaia di missili verso le città di San Diego, di Phoenix, o altre località situate a sud degli Stati Uniti, al confine con il Messico.

5. C'È UN'EQUIVALENZA MORALE NEL COMPORTAMENTO ISRAELIANO E DI HAMAS
Israele si sforza di minimizzare le vittime civili. Hamas cerca di massimizzare le vittime israeliane e colpisce deliberatamente la popolazione. Ciò si desume dal fatto che l'esercito israeliano individua gli obiettivi terroristici con accuratezza. Hamas, d'altro canto, spara indiscriminatamente missili mortali verso le città israeliane, con il chiaro intento di uccidere o ferire civili. Hamas di proposito spara dai centri abitati palestinesi per sollecitare la reazione israeliana che fatalmente può comportare vittime civili, che poi saranno usate a scopo di propaganda. Il gruppo terrorista utilizza anche scudi umani per proteggere obiettivi militari: un crimine di guerra, secondo il diritto internazionale.
«Hamas ha una strategia mediatica», ha scritto l'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Michael Oren la settimana scorsa. «L'obiettivo è di ritrarre lo sforzo asimmetrico di minimizzare le perdite fra i civili a Gaza come attacco indiscriminato nei confronti dei bambini, e di trasformare il legittimo atto di auto-difesa in crimine di guerra. L'intento è di isolare Israele a livello internazionale, di legarne le mani, impedendone la reazione quando ne sono colpiti i cittadini, nonché di delegittimare lo stato ebraico».
Sfortunatamente, molti fra i media fanno riferimento ad una equivalenza morale fra Hamas e Israele, insinuando che entrambe le parti sono responsabili per la recente escalation. Ad esempio, Ethan Bronner del New York Times ha affermato il 17 novembre che «quando Israele ha colpito il capo militare terrorista di Hamas, dando vita ad una spirale di combattimenti…», omettendo che Hamas ha sparato più di cento fra missili e razzi prima delle operazioni. Non vi può essere affatto una equivalenza morale fra l'operato di Hamas ed Israele: questa escalation non avrebbe avuto luogo se Hamas non avesse aggredito la popolazione civile dell'Israele meridionale.

* Fonte: The Investigation Project on Terrorism.

(Il Borghesino, 15 dicembre 2012)


"Che Allah benedica la Jihad islamica, che Allah benedica Hamas"

Così si esprime Abbas Zaki, membro del Comitato Centrale di Fatah, sul conflitto Israele-Hamas.

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"I miei sentimenti nei confronti di Hamas si sono ammorbiditi. Li saluto. Mi congratulo con loro per aver imparato le lezioni del 2008-2009 (precedente conflitto Israele-Hamas). Ci hanno dato una grande soddisfazione. Che Allah li benedica (Nota: Jihad islamica e Hamas hanno lanciato più di 1.000 razzi e missili su città israeliane negli otto giorni di conflitto). Hanno detto agli israeliani che questo non è un giro di piacere ... che Allah benedica la Jihad islamica, che Allah benedica Hamas. Hanno deciso di morire per guadagnarsi questo onore... Io sono a favore di una vittoria palestinese a Gaza, della vittoria di Hamas della Jihad [islamica]. Non ci sono questioni per me, tranne la sconfitta di Israele."

(Palestinian Media Watch, dicembre 2012)


Napolitano sul voto all’Onu: Sì dell’Italia molto meditato

ROMA, 14 dic - ''Il voto dell'Italia'' all'assemblea generale delle Nazioni Unite sulla Palestina ''ha costituito il punto di arrivo di una scrupolosa e approfondita riflessione''. Lo ha sottolineato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlando al Quirinale al corpo diplomatico accreditato in Italia. Il capo dello Stato ha spiegato agli ambasciatori riuniti al Quirinale per i saluti di fine anno come l'assemblea generale dell'Onu, al di la' delle diverse scelte di voto, ''si e' nel complesso fatta interprete dell'aspirazione internazionale unanime ad una pace vera, giusta e duratura''.
''L'Italia - ha aggiunto Napolitano - crede che la pace tra Israele e Palestina non debba rimanere nel regno delle utopie non realizzate. Lo crede nell'interesse di Israele e della Palestina, ma anche nel proprio interesse nazionale''. Sono quindi tante le ragioni per le quali, secondo il presidente, ''bisogna riprendere il cammino, 'qui e ora', verso il traguardo della pace. Le convinzioni e posizioni dell'Italia restano immutate, nel loro profondo equilibrio. Sappiamo infatti - ha detto ancora - che la pace non potra' essere conseguita se non nel negoziato diretto tra le parti''. Giorgio Napolitano ha spiegato quindi che la comunita' internazionale, anche con il voto al Palazzo di vetro sull'innalzamento dello status della delegazione palestinese a ''stato osservatore non membro'', non vuole sostituirsi al negoziato diretto ''ma vuole trasmettere loro questo senso di urgenza''.

(ANSAmed, 14 dicembre 2012)


Con queste parole della più alta carica dello Stato la vergogna italiana è completa. Non c’è altro da aggiungere a quello che è già stato detto.

*

Le Comunità del Mondo Arabo apprezzano le parole di Napolitano

ROMA, 14 dic - Sono piaciute alle Comunita' del Mondo Arabo le parole pronunciate oggi dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante gli auguri di Natale con gli ambasciatori, sulla necessita' di rilanciare il processo di pace in Medio Oriente. ''Se non si risolve il conflitto israelo-palestinese non ci potra' mai essere serenita' per una regione che sta soffrendo molto in questi tempi'', ha commentato Foad Aodi, esponente palestinese e presidente del COMAI, il cartello che raccoglie le comunita' del Mondo arabo in Italia.
Aodi ha ribadito l'orgoglio dei palestinesi e degli arabi per la decisione del governo Monti di votare ''si''' al riconoscimento della Palestina come Stato non membro delle Nazioni Unite.
Da domenica il presidente dell'ANP, Abu Mazen, compira' una visita a Roma dove incontrera' il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio Mario Monti, il segretario del PD, Pierluigi Bersani, e Benedetto XVI. Scopo dichiarato del viaggio e' quello di ringraziare l'Italia per la posizione assunta in sede Onu.

(ANSAmed, 15 dicembre 2012)


Giorgio Napolitano, Mario Monti, Pierluigi Bersani e Benedetto XVI: un bel quadro, completo nel suo genere. Tutti uomini di pace che riceveranno i sentiti ringraziamenti di quel grande uomo di pace che è Abu Mazen.


Gli ebrei invitati a non esporre simboli in Danimarca

Invito dell’ambasciata Israele a seguito di episodi di antisemitismo

ROMA, 14 dic - Le persone di religione ebraica che vivono o si trovano di passaggio in Danimarca sono state messe in guardia dall'indossare o mostrare i simboli della loro fede, poiche' continuano a persistere minacce di molestie e di atteggiamenti antisemiti. Lo riferisce il giornale danese Jyllands-Posten che ha pubblicato un'intervista all'ambasciatore israeliano a Copenaghen, Arthur Avon.

(ANSA, 15 dicembre 2012)


Calcio - Atar, il bad boy israeliano

di Luca Cassia

Eliran Atar
Un bad boy strappato alla strada. Niente a che vedere con i vari Balotelli e Cassano tanto per restare in salsa nostrana, artefici di marachelle al cospetto degli eccessi di Eliran Atar, 25enne israeliano la cui gioventù è legata a trascorsi turbolenti compresa una presunta rapina a mano armata. La punta di Tel Aviv ha fatto parlare di sé anche per i gol nella Ligat ha'Al, già a quota 13 nell'attuale stagione con il Maccabi. Un crocevia che può proiettarlo nel calcio che conta, fedina penale permettendo. La nuova stella d'Israele è Eliran Atar, protagonista di "Euroconsigli per gli acquisti".
Un nome poco conosciuto alle nostre latitudini eppure nel 2009 Atar si piazzò quarto nel FIFA Puskàs Award, premio che celebra la rete più bella siglata a livello internazionale. Quella rovesciata stile album Panini lo relegò a ridosso di un podio occupato da Cristiano Ronaldo, Iniesta e Grafite. Mica male per uno che vestiva la maglia del Bnei Yehuda, terza squadra di Tel Aviv dopo il Maccabi e l'Hapoel, compagine che lo consacrò capocannoniere prima di uno storico accesso all'Europa League vanificato dal Psv Eindhoven.
E pensare che l'attaccante israeliano aveva da poco imboccato la retta via grazie all'apporto della società, dribblando una condanna per microcriminalità viziata dal legame con una famigerata gang. Non mancarono perplessità sull'esordio in Nazionale, negatogli per i precedenti penali e le indiscrezioni su una leva militare mai congedata, requisito basilare per vestire la maglia di Israele salvo speciali deroghe (arabo o convertito all'ebraismo). Ma quel debutto, a onor di cronaca, è stato ufficialmente varato lo scorso 14 novembre nell'amichevole contro la Bielorussia. Un excursus poco edificante quello che ha minato uno dei talenti più cristallini del Paese, già accostato ai vari Benayoun, Berkovic e Revivo. Prodotto della fazione operaia di Tel Aviv, il Bnei Yehuda, nel 2010 approda nei blasonati cugini del Maccabi, i più titolati del Paese e mai retrocessi in seconda divisione, sinora decorati varcando le 50 reti in due stagioni e mezza. Il richiamo di Eran Zahavi, coetaneo e connazionale di Atar tuttora a Palermo, non entusiasmerà i più esigenti palati nemmeno dinanzi ad un interprete offensivo dotato di tecnica, fantasia e rapidità. Abile a calarsi in ogni posizione avanzata, efficace con entrambi i piedi e lucido nel vagliare più soluzioni finalizzate al gol, tanto da alimentare l'interesse del Porto.
Il fascino dell'esotico e un prezzo abbordabile lo rendono una scommessa rivolta ai club italiani meno mortiferi in chiave realizzativa. Come nella Genova blucerchiata la cui sponda avanzata è falcidiata dai troppi infortuni, oppure nel Cagliari del duo Pulga-López. Rappresenta un supporto anche per due squadre aggrappate alla salvezza, Siena e Pescara, spesso spuntate dalla trequarti in su. Lasciatosi alle spalle un passato di sregolatezze, l'estro di Eliran Atar può risultare la carta vincente.

(calciomercato.com, 14 dicembre 2012)


Messaggi di auguri ad Hamas per il suo 2o anniversario?

Quali sono i 100 Stati che li hanno mandati?

di Pio Pompa

Israele ha fatto bene a non opporsi al rientro a Gaza, dopo un esilio durato quarantacinque anni, di Khaled Meshaal, leader indiscusso di Hamas. "La visita di Meshaal - ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Yigal Palmor - dopo quella dell'emiro del Qatar, del premier egiziano e di altre importanti personalità, dimostra che non esiste, da parte nostra, alcun blocco sulla Striscia di Gaza". Sono ben altri, spiega, i problemi che incombono in questo momento sul futuro di Gerusalemme, dove si avverte tutto il peso di un isolamento senza precedenti che va ricondotto al prepotente materializzarsi di un ampio e preoccupante fronte anti israeliano che affonda da tempo le sue radici nel cuore dell'occidente. Dopo il riconoscimento all'Onu della Palestina quale "stato osservatore non membro" e la convocazione a catena degli ambasciatori israeliani a seguito dell'annuncio dato da Bibi Netanyahu di nuovi insediamenti in Cisgiordania, ecco arrivare dall'Europa e da paesi ritenuti amici e alleati un altro duro colpo: "Sono stati quasi un centinaio - confida al Foglio una fonte d'intelligence mediorientale - i messaggi augurali fatti pervenire segretamente da molte cancellerie europee e da altri stati - compresi alcuni che si professano alleati d'Israele - all'organizzazione terroristica di Hamas in occasione del venticinquesimo anniversario della sua fondazione. Messaggi augurali che vanno ad aggiungersi a quelli provenienti da Teheran e Hezbollah, dal Cairo e da Doha e perfino dal circuito filoqaidista nordafricano guidato da al Qaida nel Maghreb islamico. Non potevano ovviamente mancare gli auguri affettuosi dell'imponente network di organizzazioni non governative da sempre schierate a sostegno della causa palestinese. E' dovuta anche a questo, infatti, la tracotanza mostrata davanti alle telecamere da Meshaal e dal premier di Hamas, Ismail Haniyeh, mentre cercavano di apparire come dei normali leader politici, impegnati in un amichevole scambio di vedute, anziché come nemici giurati d'Israele e capi di una vasta organizzazione terroristica", spiega il nostro interlocutore. Khaled Meshaal aveva già mostrato il suo vero volto subito dopo l'ingresso a Gaza: provenendo dal valico di Rafah, al confine egiziano e accompagnato dal suo vice Moussa Abu Marzuk, pregò Allah di concedergli l'onore del martirio nella terra di Palestina. Un argomento, quello del martirio, assai caro sia a Meshaal sia a Haniyeh. "Non a caso - continua la nostra fonte - entrambi hanno voluto incontrare i bambini e gli adolescenti reclutati e addestrati in una apposita brigata per compiere attentati suicidi contro obiettivi israeliani. Gli stessi giovani che sabato, giornata d'inizio dei festeggiamenti per la nascita di Hamas avvenuta il 14 dicembre 1987, hanno sfilato al fianco dei terroristi di Ezzedine al Qassam e del Jihad islamico, mentre Meshaal ribadiva tutto il suo odio per Israele esortando a rapire soldati israeliani da usare come merce di scambio con i prigionieri palestinesi, e a liberare Gerusalemme centimetro dopo centimetro".

(Il Foglio, 14 dicembre 2012)


Siria: 45.000 morti. Ma secondo la Ashton il problema è la Palestina

di Sarah F.

I dati diffusi ieri dall'Osservatorio Siriano per i Diritti Umani parlano da soli: sono 45.000 (quarantacinquemila) i morti nel conflitto siriano, dei quali oltre l'85% sono civili in maggioranza donne e bambini.
Ci sarebbe di che rabbrividire e, soprattutto, ci sarebbe da agire concretamente per fermare la carneficina siriana (con un buon aiuto di Hezbollah e Iran). Invece anche ieri l'Unione Europea per bocca della sua rappresentante alla politica estera, Catherine Ashton, ha allegramente sorvolato su questa vera e propria macelleria umana per occuparsi di Palestina.
L'Unione Europea ha minacciato "severe sanzioni" contro Israele se non farà marcia indietro sulle nuove costruzioni previste per la zona denominata "E1". A dirlo è stata la Ashton dopo una riunione da lei stessa organizzata e voluta con i rappresentanti degli Stati della UE, riunione dove non si è parlato della carneficina siriana e su cosa fare di concreto per fermarla. No, per la Ashton e per le cancellerie europee il problema è la nascita di un quartiere israeliano a Gerusalemme Est.
Siamo davvero alla farsa vergognosa se si continua a mettere al di sopra di tutto la cosiddetta "questione palestinese" quando invece i problemi reali sono ben altri. La volontà della Ashton di occuparsi solo di danneggiare Israele è talmente evidente che è difficile credere che nessuno se ne sia accorto. Se poi si sorvola allegramente su 45.000 morti l'evidenza appare ancora più chiara nella sua vergognosa spudoratezza. Se poi si guarda al fatto che Catherine Ashton, da quando è iniziata la guerra in Siria ha convocato solo tre riunioni speciali dedicate a quella crisi mentre, nello stesso lasso di tempo, le riunioni speciali dedicate alla Palestina sono state almeno dodici, la discrepanza appare in tutta la sua evidenza.

(Rights Reporter, 14 dicembre 2012)


Un palestinese e un israeliano, ottimi amici

  
TEL AVIV - Domenica pomeriggio, i pazienti del reparto di Oncologia pediatrica del Sourasky Medical Center di Tel Aviv sono scesi al piano terra per partecipare ai festeggiamenti di Hanukkah. Hanno acceso la menorah e cantato le canzoni tradizionali che ricordano la rivolta dei maccabei che nel 167 AC sconfissero i potenti greci. Ma mentre il miracolo era celebrato al piano di sotto, un miracolo moderno si compiva al secondo piano dell'ospedale. Tal Zilker, un ragazzo di 17 anni dell'Israele meridionale, chiacchierava con il suo nuovo migliore amico: Qsuy Imran, anch'egli di 17 anni, proveniente da Gaza.
Essendo reduce da una pesante seduta di chemioterapia, Imran era troppo debole per partecipare ai festeggiamenti, e così Zilker ha deciso di rimanere a fargli compagnia. "Chiacchierare" è una parola grossa per descrivere l'interazione fra i due ragazzi. Ma quando si è così giovani, il vocabolario non è così importante: «siamo tutti e due matti per la Playstation», esclama Zilker.
Questa amicizia fra due coetanei, che condividono anche la stessa malattia, lo stesso aspetto fisico, e la stessa passione per i videogame, non farebbe notizia, se non fosse per la loro provienenza.
Zilker infatti proviene da Ashdod, una città dell'Israele meridionale, mentre Imran proviene da Khan Yunis, Striscia di Gaza. Durante i sette giorni dell'operazione "Pilastro di Difesa", il mese scorso, Hamas ha sparato oltre 1400 razzi verso Israele; la maggior parte dei quali indirizzati versi le città di Ashdod e Ashkelon. L'esercito israeliano (IDF) ha colpito oltre 1500 obiettivi militari nella Striscia di Gaza. L'aspetto sconcertante è che mentre Hamas attaccava Israele, da Gaza continuavano a partire pazienti per essere curati negli ospedali israeliani; molto dei quali localizzati nelle aree aggredite da Hamas.
Gli ospedali dello stato ebraico accettano pazienti palestinesi da anni. Semplicemente, non vi sono strutture mediche sufficienti a Gaza per curare la crescente popolazione, e quelli che ci sono, non sempre sono ben attrezati. Secondo l'istituto centrale di statistica di Gaza, ci sono nella Striscia 24 centri medici che servono una popolazione di 1,7 milioni di persone. In Israele, in confronto, ci sono 377 ospedali per una popolazione di quasi 8 milioni di abitanti. Soltanto l'anno scorso, più di 100 mila palestinesi hanno ricevuto cure mediche in Israele.
A rendere le cose ancora più complicate, molti dei medici al tempo stesso prestano obbligatoriamente servizio presso l'IDF. Difatti il dottore Dror Levin, l'oncologo che cura Zilker e Imran, ha passato l'intera settimana dell'operazione Pillar of Defense pattugliando il confine con Gaza assieme ad altri riservisti: «per me è molto semplice», ammette il dottor Levin, adesso in abiti civili. «Qsuy non è un abitante di Gaza. E' un ragazzo che abbisogna del mio aiuto. Fine della storia».
Jihad , il padre di Imran, ha lavorato in Israele come carpentiere: «so che in Israele c'è brava gente, ma sono stato colpito dal livello di premure ricevute durante il nostro soggiorno a Tel Aviv. Ci hanno trattato come membri di una famiglia. Non posso che adorare i medici e tutto lo staff».
Zilker è ancora più chiaro, come solo un ragazzo di 17 anni lo può essere: «ho sempre pensato che ci sono alcuni buoni palestinesi, ma che la maggior parte di essi fosse cattiva. Adesso penso il contrario: ci sono alcuni cattivi, ma molti buoni».
Sia Zilker che Imran stanno per tornare a casa. In entrambi i casi, i medici sono riusciti a rimuovere il tumore. Imran non vede l'ora di tornare a scuola, ma la prima cosa che farà a casa è tornare a giocare a pallone. Zilker sogna di esplorare la California. Non sanno se mai un giorno si rivedranno. Ma nel frattempo, giocano sul campo di calcio virtuale che ha favorito la loro conoscenza nel mondo reale.

(Il Borghesino, 13 dicembre 2012)


Hamas torna a sfilare in Cisgiordania, era proibito

Per 25/o anniversario gruppo, segno riconciliazione con Fatah

di Michele Monni

NABLUS, 13 dic - E' stata la prima manifestazione di Hamas in Cisgiordania dal 2007: oggi a Nablus migliaia di persone sono scese per le strade della città per celebrare il 25/o anniversario dalla fondazione del gruppo islamico al potere nella Striscia di Gaza.
Fino ad oggi - dopo la rottura definitiva in quell'anno con al Fatah del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen (Mahmud Abbas) - ai militanti di Hamas era proibito di manifestare apertamente il proprio supporto per l'organizzazione. Autorizzata dall'Anp, la manifestazione fa parte del tentativo di riconciliazione in atto tra le due fazioni palestinesi dopo la guerra civile del 2007.
Scontro che di fatto ha diviso politicamente i territori palestinesi: al Fatah in Cisgiordania e Hamas nella Striscia.
I manifestanti hanno incominciato a raggrupparsi intorno alle due del pomeriggio presso la moschea Jamal Abdel Nasser, situata nella parte vecchia di Nablus, per poi dirigersi verso la piazza Dawar al Hussein, centro nevralgico della città, dove già in mattinata era stato allestito un enorme palco e dove ad attenderli c'erano altri manifestanti giunti dalle città di Tulkarem, Qualquilia, Salafit e dai villaggi dei dintorni. Durante il percorso, la gente ha cantato slogan come: "Onore alle brigate Izz ad-Din al-Qassam" e "Onore ad Ahmad Jabari" (il leader delle medesime brigate ucciso da Israele, all'inizio dell'operazione 'Colonna di Nuvola') e ancora: "Abbiamo sconfitto l'esercito ebraico". A fare da corollario, colpi di pistola esplosi in cielo da supporter arroccati sui tetti della città vecchia. Tante le donne che hanno partecipato alle celebrazioni e molte le famiglie al completo agghindate a festa con sciarpe e cappellini dal colore verde smeraldo, segno distintivo della fazione islamica. Tra la marea di bandiere di Hamas anche i vessilli siriani ed egiziani a rimarcare lo stretto legame con l'Egitto del presidente Mohamed Morsi e i fratelli musulmani che compongono il grosso dei ribelli siriani.
Tra i manifestanti alcuni hanno esibito modelli di cartapesta dei razzi M75, gli stessi lanciati dalla Striscia di Gaza sulle città israeliane durante la guerra. "E' molto importante per la popolazione palestinese -ha detto all'ANSA Adeeb Bani Fadeh, insegnante di inglese - esprimere la propria felicità per la fine degli attacchi di Israele sulla popolazione di Gaza. Questo è un messaggio forte e chiaro per i palestinesi della Cisgiordania, per il mondo arabo e la comunità internazionale: Hamas è maggioranza nel West Bank!". Durante il pomeriggio sul palco si sono alternati esponenti locali di Hamas, tra cui Rafat Naseef e Adnan Asfour e diversi altri che hanno arringato la folla esaltando il ruolo di Hamas e della sua leadership per la tregua raggiunta con Israele.

(ANSAmed, 13 dicembre 2012)


Questo è il risultato del voto sullo “stato palestinese” all’Onu. Il cattivo Hamas, che secondo Monti, Terzi, Bersani e altri avrebbe dovuto essere contenuto e isolato dal successo accordato all’Onu al buono Abu Mazen, si considera invece il vero vincitore di tutta la vicenda. E questo naturalmente lo incoraggia ad andare avanti nel suo progetto di liberazione di tutta la “Palestina” da ogni contaminazione ebraica. Ma questo, a quanto pare, non preoccupa Ban Ki-Moon. Quello che lo preoccupa è la costruzione di appartamenti a Gerusalemme Est. M.C.


Chi dirige l'Unesco: Joseph Goebbels?

di Giulio Meotti

Benvenuti all'Unesco, per piacere, pulitevi i piedi prima di entrare
A colpi di schiaffi in faccia alla storia, l'Unesco ha fatto propria la propaganda araba e ha espropriato la storia ebraica.
Nel maggio del 2011 il villaggio di Batir in Giudea, definito "territorio palestinese occupato", ha vinto il premio Unesco "Tutela e gestione dei paesaggi culturali" dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura.
Ora l'ONU ha informato l'Autorità Palestinese che accelererà il processo di riconoscimento degli antichi terrazzamenti vicino al villaggio di Batir come "Patrimonio mondiale dell'umanità".
Queste terrazze sorgono sul più antico dei colli biblici della Giudea e se la strategia degli arabi palestinesi avrà successo, il luogo dovrebbe essere classificato come sito sia naturale che culturale del patrimonio mondiale dell'umanità, il che è molto raro, solo cinque siti in tutto il mondo hanno ricevuto questo riconoscimento.
L'Unesco sta conducendo una geografia arabizzata totalizzante che apre le porte a una Giudea "Judenrein", una "Terra Santa" degiudeizzata, come la chiamano i linguisti anti-semiti.
Ma l'attacco al linguaggio è più che semantico. "Giudea e Samaria" diventano "West Bank" o "Palestina", termini sostitutivi per dire che "è stato rubato dagli ebrei". E gli arabi palestinesi, le cui origini risalgono al 7o secolo, quando dal deserto giunsero in Terra Santa , discendenti dei " cananei" citati nella Bibbia.
È per questo che un paio di giorni fa Irina Bokova, Direttrice dell'Unesco, ha inviato un messaggio all'Autorità Palestinese "in occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo palestinese", in cui proclama il sostegno all' "storia culturale palestinese".
Batir, tuttavia, non è "un villaggio palestinese", dotato un antico sistema d'irrigazione, ma è il luogo sacro dell'antica fortezza ebraica di Betar, il sito dell'ultima resistenza organizzata dagli ebrei contro la dominazione romana nel 135 era volgare, durante la rivolta storicamente documentata di Bar Kochba .
Nei protocolli dell'Unesco, però, Betar non è neppure citata.
Secondo la joint venture Unesco- Autorità Palestinese, Eretz Yisrael è un mito, una invenzione colonialista, un complotto ebraico.
Le mosse successive dell'Unesco si stanno svolgendo sotto gli occhi di Israele: ben presto il Monte del Tempio, i Rotoli del Mar Morto, la Tomba di Giuseppe e la Sinagoga Shalom al Israel, saranno designati dall'agenzia delle Nazioni Unite come "moschee".
A colpi di schiaffi in faccia alla storia, l'Unesco ha già adottato la propaganda del conflitto arabo-islamico e ha dichiarato che la Tomba di Rachele e la Grotta dei Patriarchi di Hebron sono "moschee musulmane".
In un rapporto scientifico, l'Unesco ha convertito con la forza il medico ebreo Maimonide all'Islam, chiamandolo "Moussa ben Maimoun". Nella relazione dell'Unesco si legge:
"Dopo la liberazione di Toledo dai Mori da parte dei Crociati nel 1085, gli studiosi europei tradussero i testi classici antichi dal greco (che l'Europa aveva dimenticato) in arabo, ebraico e latino, dando origine così alla prima parte del Medioevo europeo (1100-1543). Nella letteratura scientifica, i nomi di alcuni studiosi europei sono apparsi accanto a un gran numero di studiosi musulmani, tra cui Ibn Rushd (Averroè), Maimouna Ibn Moussa (Maimonide), Tousi e Ibn Nafis ".
Questo non è soltanto il ben noto anti-sionismo che ci aspettiamo da parte delle Nazioni Unite. Si tratta di un preciso e coerente modello di negazione della storia ebraica. In altre parole, le Nazioni Unite hanno ufficializzato l'anti-semitismo.
Attraverso l'adesione all'Unesco, i palestinesi stanno anche cercando di portare Israele di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia dell' Aia per condannare gli scavi israeliani a Gerusalemme come "crimini di guerra e crimini contro l'umanità". Questa è la calunnia più grave che sia stata collegata direttamente alla morte di decine di israeliani e palestinesi durante le cosiddette" rivolte del Tunnel del Muro Occidentale" del 1995.
Negli ultimi anni, l'Unesco ha aumentato la sua collaborazione con l'Isesco, la struttura culturale dell'Organizzazione della Conferenza islamica con sede in Arabia Saudita. Pochi giorni fa, l'Isesco ha annunciato il suo piano per registrare "Al Quds" come sito del patrimonio mondiale dell'umanità e l'Unesco ha già catalogato Gerusalemme "capitale della cultura araba", d'accordo con i funzionari dell'Autorità Palestinese e personaggi chiave arabi, per protestare contro "l'occupazione israeliana della Santa Gerusalemme". Altre città che hanno ricevuto questo titolo nel corso degli anni sono state Algeri, Damasco, Il Cairo, Tunisi, Amman, Beirut e Khartoum.
L'Unesco recentemente ha catalogato la Chiesa della Natività a Betlemme come "primo Sito patrimonio dell'Umanità" della Palestina. La palestinizzazione di Gesù, con il corollario di un cristianesimo arabizzato, è una delle armi più letali e bugiarde nella guerra degli arabi contro lo Stato ebraico.
La pressione economica araba all'interno dell'agenzia delle Nazioni Unite sta crescendo a un ritmo allarmante.
Di recente, l'Arabia Saudita ha donato 20 milioni di dollari all'Unesco. Inoltre, re Abdullah dell'Arabia Saudita ha ricevuto la Medaglia d'Oro dell'Unesco per "aver incrementato la cultura del dialogo e della pace". La degiudaizzazione di Gerusalemme è il passo logico del programma antisionista per delegittimare Israele.
Se può essere "provato" alla comunità internazionale che Gerusalemme è "la capitale palestinese", allora i nemici di Israele, compresa la sinistra liberale, gli ebrei auto-odiatori, e ampi settori del cristianesimo e dell'islamismo, avranno giustificato lo sradicamento del popolo ebraico.
Settant'anni fa la "germanizzazione" ha preceduto la "spoliazione" dei territori conquistati in Europa. Ora è la volta dell' "arabizzazione" che precede la "liberazione" della Terra Santa.
L'Unesco è la dimostrazione di come Joseph Goebbels - fu lui a dire che una menzogna ripetuta molte volte diventa verità - era riuscito nell'intento da far accettare al mondo il principio nazista di "Judenrein".

(Informazione Corretta, 12 dicembre 2012)


Il Gruppo Italiano Stampa Turistica premia Israele

Durante la cena di Natale dell'Adutei, il Gist - Gruppo Italiano Stampa Turistica ha assegnato per la prima volta quattro premi ai migliori uffici stampa degli Enti del turismo associati, scelti da una commissione presieduta da Aldo Bolognini Cobianchi.
Il primo premio è andato all'Ufficio nazionale del Turismo Israeliano.
Il riconoscimento per la migliore newsletter è stato assegnato alla Spagna, quello per la migliore phototogallery all'Austria e per il miglior filmato a Mauritius.

(agenzia di viaggi, 13 dicembre 2012)


Israele, profanato un monastero

Slogan di odio anticristia.n.0 sono statì scnttì in ebraico con lo spray su un monastero nella Valle della Croce, a Gerusalemme. A riferirlo è stato Ynet, aggiungendo che sono state anche bucate le ruote di tre veicoli parcheggiati vicino all' edificio e che la polizia ha aperto un'inchiesta su quanto accaduto. Gli slogan offensivi - riporta il sito israeliano - riguardano Gesù, mentre sulle autovetture danneggiate è stato disegnato «Buona Hannukkah, trionfo dei Maccabei», con riferimento alla festa ebraica in corso questa settimana. Quello di martedì è il secondo incidente di cui è vittima il luogo: «Sono profondamente rattristato - ha detto Padre Claudio Tafas, priore del monastero, citato da Ynet -. Credo in Gesù e se qualcun altro no, è un suo problema. Noi crediamo nella pace e perdoniamo coloro che hanno compiuto questo gesto, sia la prima volta sia questa». Il comandante della polizia del luogo Haim Blumfield ha detto che «questa è la seconda volta che vediamo un atto vandalico in questo luogo e credo che individueremo i responsabili. Il precedente caso resta aperto e spero che il nuovo danneggiamento ci aiuti a scoprire coloro che si sono resi protagonisti di queste azioni». Questo comportamento «va contro i valori ebraici che instilliamo nei nostri figli. La libertà di religione sarà preservata in Israele e perseguiteremo gli odiosi criminali autori di questi atti», è stato il commento di condanna del premier israeliano Benyamin Netanyahu. Il capo del governo, ha riferito il suo ufficio, si è detto «disgustato» da quanto accaduto a Gerusalemme. Anche l'ambasciata d'Israele presso la Santa Sede ha espresso la sua «più ferma condanna» verso gli atti vandalici che hanno violato il Monastero della Croce. L'Ambasciata, si legge in un comunicato, «deplora questo tipo di comportamento che è in totale contrasto con i valori e le tradizioni di Israele».

(Avvenire, 13 dicembre 2012)


Human Rights Watch ancora nei guai: "E' connivente sull'Iran"

A spifferare tutto è stato David Feith del Wall Street Journal, che ha pubblicato le e-mail interne di Human Rights Watch in un articolo dal titolo "Dancing around genocide". Il capo della celebre organizzazione per la difesa dei diritti umani con base a New York si rifiuta di definire "genocida" l'appello del regime iraniano per la distruzione dello stato ebraico (per il quale numerosi personaggi, fra cui Elie Wiesel, chiedono l'arresto di Mahmoud Ahmadinejad). Feith è venuto in possesso di e-mail interne di Human Rights Watch, facendo luce sullo scontro interno ai vertici dell'organizzazione circa il suo capo, Kenneth Roth, e al fatto che questi non abbia mai preso sul serio gli appelli iraniani per la cancellazione di Israele.
  Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, il vicepresidente della ong, Sid Sheinberg, ha scritto: "Non muovere un dito mentre l'Iran accampa giustificazioni per uccidere tutti gli ebrei e annientare Israele è una posizione indegna della nostra grande organizzazione". Secondo il giornale, il direttore esecutivo Roth avrebbe commentato: "Molte dichiarazioni dell'Iran sono sicuramente deplorevoli, ma non costituiscono istigazione al genocidio. Nessuno ha agito sulla base di esse".
  Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha più volte dichiarato che "Israele deve essere spazzato via dalla carta geografica", mentre l'ex presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani ha esplicitamente prospettato l'ipotesi di lanciare missili nucleari su Tel Aviv. Interpellato dal Wall Street Journal, Roth ha confermato di essere convinto che l'Iran non istiga al genocidio contro lo stato ebraico e che anzi la pressione a etichettare come "genocidi" gli appelli di Teheran per la distruzione di Israele "fa parte del tentativo di far rullare tamburi di guerra contro l'Iran".
  Gerald Steinberg, presidente di Ngo Monitor, ha detto che "siamo di fronte a un esempio lampante dell'indifferenza di Roth rispetto alle minacce di genocidio e alle violazioni dei diritti umani quando ne è vittima Israele. Roth, che controlla Human Rights Watch dal 1996, si è sempre dimostrato ossessivo nell'attaccare lo stato ebraico, e le persone che ha scelto di mettere alla guida della sezione medio oriente e nord Africa di Human Rights Watch sono affette dallo stesso radicato pregiudizio. Quando Gheddafi inveiva contro i sionisti, Human Rights Watch abbracciava il suo regime come 'riformatore dei diritti umani'. Il silenzio di Human Rights Watch di fronte alle minacce genocide dell'Iran non fa che confermare la totale mancanza di principi morali di quell'organizzazione". Steinberg aggiunge che "George Soros, che oggi garantisce il grosso del budget di Human Rights Watch dopo che molti donatori si sono ritirati, condivide la responsabilità di permettere che si tenga un tale comportamento immorale sotto la facciata della difesa dei diritti umani".
  La credibilità dell'organizzazione, sempre più ricca e influente grazie alle donazioni del filantropo americano di origine ungherese, era già stata intaccata quando si era scoperta la "cena di benvenuto" a cui la portavoce della ong, Sarah Leah Whitson, aveva preso parte a Riad per incassare donazioni saudite al fine di bilanciare "i gruppi di pressione pro israeliani attivi negli Stati Uniti", come ha detto la stessa Whitson. Il settimanale americano New Republic ha parlato di una "guerra civile di Human Rights Watch contro Israele". A denunciare l'organizzazione è stato infine lo stesso fondatore, un ultraliberal come Robert Bernstein, che fondò la ong quando era presidente della casa editrice Random House. Oggi Bernstein accusa la sua stessa creatura di "aiutare quelli che vogliono trasformare Israele in uno stato paria".

(Il Foglio, 13 dicembre 2012)


Gaza - Hamas lancia l'M75: il "profumo della vittoria"

GAZA - Il profumo delle vittoria a Gaza si chiama M75, almeno così dicono nelle profumerie della Striscia, e prende il nome di un missile a lunga gittata di Hamas. Tutto nasce dall'idea di Abu Ahmed, proprietario di "Stay Stylish", nel quartiere di Rimal di Gaza. La fragranza ha preso il nome del missile simbolo della resistenza palestinese, "per celebrare la vittoria di Gaza" spiega Ahmed.
L'M75 è uno dei missili lanciati dai palestinesi su Israele nel corso del conflitto durato 8 giorni il mese scorso, finito con un cessate il fuoco tra lo stato ebraico e le milizie di Hamas. In quei giorni sono morti 174 palestinesi, di cui oltre un centinaio di civili, e sei israeliani. Eppure nella Striscia si è festeggiato a lungo una problematica vittoria. Da cui l'idea del profumo per celebrarla, come spiega Abed Nasser Shorab, gestore di "Stay Stylish".
"L'idea è stata quella di creare un profumo per uomini e donne chiamato M75. Lo slogan femminile è 'una fragranza irrestibile', quello maschile 'per gli uomini che amano la vittoria'".
La proposta è stata vincente e la richiesta è superiore alle più rosee prospettive dei promotori e coinvolge sia acquirenti singoli sia moviemnti politici. Ahmed Ibrahim, un giovane cliente, non ha dubbi: "Ho sentito alcuni amici che ne parlavano e mi è piaciuto perché porta il nome del missile che ha colpito Tel Aviv. L'ho comprato subito e devo dire che è molto buono".
L'M75 ha colpito molto l'opinione pubblica di Gaza e ha recitato un ruolo di primo piano nel corso delle celebrazioni per il 25esimo anniversario di Hamas lo scorso weekend.
Ora è diventato anche il profumo della vittoria.

(TMNews, 13 dicembre 2012)

Video


Come si vede, a Gaza non se la passano proprio male.


Il nuovo logo di Fatah cancella Israele

Il logo ufficiale che celebra il 48o anniversario di Fatah contiene una mappa che mostra tutto Israele come "Palestina"

di Itamar Marcus e Nan Jacques Zilberdik

L’Autorità Palestinese ha pubblicato recentemente una foto del logo ufficiale scelto da Fatah per le celebrazioni del 48o anniversario del movimento. Il logo presenta vari simboli, tra cui una mappa della "Palestina" che comprende tutto Israele, il numero 48, la bandiera palestinese e lo slogan per il 48o anniversario: "Lo stato e la vittoria"
Palestinian Media Watch ha documentato che le mappe ufficiali dell'AP non riconoscono l'esistenza di Israele e considerano tutto Israele come "Palestina". Le mappe appaiono in tutti i contesti ufficiali, comprese scuole, uffici pubblici, mezzi di comunicazione ufficiali dell'AP, loghi, eventi e documenti ufficiali.
Altri simboli centrali dell'ideologia di Fatah appaiono inoltre nel logo, tra cui un fucile e una chiave che simboleggia la rivendicazione palestinese sulla proprietà di case all'interno di Israele (ved. le lettere in giallo). Il modello nella mappa ricorda la palestinese sciarpa- kefiah. La colomba che rompe la catena simboleggia la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. La cupola dorata rappresenta insieme l'Islam e la rivendicazione palestinese su Gerusalemme.
Quello che segue è l'articolo che annuncia il nuovo logo nel quotidiano ufficiale dell'AP:
    "Il funzionario senior di Fatah nella Striscia di Gaza, Yahya Rabah, ha sottolineato che il movimento quest'anno terrà una grande, centrale manifestazione nella Striscia di Gaza nel giorno del 48o anniversario dell'inizio della rivoluzione palestinese. Rabah ha spiegato a Ma'an che l'evento si terrà in considerazione del clima di riconciliazione e di unità che ha prevalso in campo palestinese in queste ultime settimane dopo i successi sul campo di battaglia (il conflitto militare Hamas-Israele a Gaza nel novembre 2012) e i risultati all'ONU (il voto delle Nazioni Unite che riconosce alla "Palestina" lo status di membro osservatore). Il comitato organizzatore del 48o anniversario del movimento Fatah ha approvato il logo dell'anniversario di questo anno particolarmente importante.
    [La manifestazione] si terrà a Gaza per celebrare il 48o anniversario della moderna rivoluzione palestinese con lo slogan 'Lo stato e la vittoria.'" [Al-Hayat Al-Jadida, 10 dicembre 2012]
(Palestinian Media Watch, 12 dicembre 2012 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Il moderato

di Francesco Lucrezi

  • abuarafat
  • haniyeh
  • arafatabu
Secondo il Devoto-Oli, l'aggettivo 'moderato', riferito a una persona, indica un soggetto "che si controlla prudentemente riguardo al proprio comportamento o alle proprie posizioni", "ispirato a criteri di saggezza e opportunità". Con specifico riferimento alla politica, il termine va a qualificare chi appaia "contrassegnato da un atteggiamento di centro, programmaticamente alieno da ogni estremismo e spesso da ogni novità".
La lingua, si sa, cambia, e sovente le parole vedono consistentemente trasformare il proprio significato. Ci è già capitato di formulare qualche osservazione, in passato, riguardo all'evoluzione (involuzione) semantica della parola 'pacifista', che, se un tempo richiamava profumo di fiori, immagini di sorrisi e suoni melodiosi, fa oggi venire alla mente mascelle serrate, bandiere bruciate e bottiglie molotov. E la stessa sorte, evidentemente, è toccata al termine 'moderato', se il principale personaggio pubblico a cui essa è sempre, sistematicamente, apoditticamente riferita è il Presidente dell'ANP Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen: il doppio nome dà un'aria di avventura, pensiamo a Superman-Clark Kent, Batman-Bruce Wayne, Tex Willer-Aquila della Notte ecc.).
Abu Mazen (alias Mahmoud Abbas) è moderato, lo è sempre stato, lo è sul piano antropologico, ontologico, chi lo smentisce dice un'assurdità, nega che la terra gira intorno al sole. Questo dicono tutti: giornali, politici, commentatori di ogni colore. Mahmoud alias Abu è il rappresentante moderato dei Palestinesi, contrapposto agli estremisti di Hamas, e chi lo contrasta o lo indebolisce lavora oggettivamente a favore della violenza e del terrorismo. Chi, invece, ami la pace e il dialogo, deve fare solo una cosa, ossia sostenere il moderato Abu alias Mahmoud, dargli sempre ragione, accontentarlo su ogni punto, applaudirlo, rafforzarlo, incoraggiarlo.
Inutile stare a ricordare che questo signore discusse la sua tesi di laurea, presso l'Università di Mosca, sul tema (moderato?) del ruolo svolto dalle organizzazioni sionistiche nella realizzazione della Shoah; che rifornisce di lauti vitalizi le famiglie degli autori dei più sanguinosi attacchi terroristici, responsabili anche di decine e decine di vittime; che promuove, nella sua terra, una propaganda antiebraica ispirata ai più puri e classici stereotipi antisemiti; che non pronuncia mai la parola Israele, in nessun contesto, neanche a proposito delle condizioni atmosferiche, senza accompagnarla dalle più virulente e velenose forme di criminalizzazione (genocidio, mostruosità, apartheid, razzismo ecc. ecc.: ma come si potrà fare mai la pace con dei mostri simili?).
Inutile ricordarlo, perché, dicendolo, non si verrebbe neanche contraddetti. Semplicemente, nessuno starebbe e sentire, nessuno ne avrebbe voglia. Se si nega la qualifica di 'moderato' a Mahmoud alias ecc., crollano tutte le categorie su cui si basa ogni possibile interpretazione del conflitto mediorientale, tutte le possibili e ipotetiche soluzioni, legate, ovviamente, alla vittoria dei moderati, e quindi di Abu alias, il moderato per antonomasia, la quintessenza stessa della moderazione, la tangibile incarnazione di tale concetto.
In una prossima edizione del Devoto-Oli, suggeriamo di levare la pur eccellente definizione della parola, sostituendola con la faccia di Alias: cosa, meglio di quel volto, sintetizza l'idea di un individuo "che si controlla prudentemente riguardo al proprio comportamento o alle proprie posizioni", "ispirato a criteri di saggezza e opportunità", "contrassegnato da un atteggiamento di centro, programmaticamente alieno da ogni estremismo"?
Possiamo sperare, forse, che il personaggio, in futuro, cambi un po' atteggiamento? Molto difficile, per due ragioni. La prima è che, se il Nostro diventasse, un giorno, 'veramente' moderato (per intenderci, alla 'Devoto-Oli'), perderebbe immediatamente il suo carisma e la sua popolarità, come Sansone perse la forza quando gli tagliarono i capelli. La seconda ci viene illustrata dallo stesso dizionario, secondo cui il 'moderato' è "programmaticamente alieno" non solo "da ogni estremismo", ma anche "da ogni novità".

(Notiziario Ucei, 12 dicembre 2012)


Un ristorante a Scandiano

di Alberto Cavaglion

Proseguo nell'esplorazione delle case ebraiche. Più di quelle che hanno subito le sinagoghe, su cui esiste una discreta bibliografia, mi interessano le metamorfosi che subiscono le case private. Un grande scrittore ebreo francese Georges Perec ci ha insegnato che dal via vai di inquilini di un edificio si possono ricavare istruzioni per la vita. Se andiamo a Lecco, in quella che fu quasi sicuramente la casa di Lucia Mondella, troviamo oggi un ristorante. Se lasciamo Reggio Emilia e saliamo sopra uno di quei treni su cui, abbassando il finestrino, d'estate si prova l'insaziabile bisogno del canto dei grilli, di cui parla Arnaldo Momigliano, si arriva dopo circa mezzora a Scandiano. Case Almansi erano dette buona parte delle abitazioni del ghetto. Il Portone era uno degli ingressi che introduceva in casa di Lazzaro Padoa (1915-1991), il grande studioso delle comunità ebraiche di
Scandiano e Reggio Emilia. La casa, mi spiega l'amico Giuseppe Anceschi, allievo e puntuale editore della maggior parte degli studi di Lazzaro Padoa (disponibili tutti da Giuntina), era appoggiata al torrione della Rocca boiardesca. La casa s'affacciava sull'attuale piazza Fiume, dove sfociano tre viuzze o "contradelle" (via Frumentaria, via della Fontana e via del Forno). Per uno di quei singolari prodigi della storia ebraica italiana, la casa di Padoa è rimasta intatta, come la dimora di Guido L. Luzzatto a Milano. Qui però ad accoglierci non c'è una Fondazione, ma un ristorante, il cui proprietario ha lasciato tutto com'era. Dalle finestre il nostro sguardo su una delle piazze emiliane più belle rende acuto il rimpianto per Lazzaro Padoa e per i suoi studi strepitosi per esempio sugli antenati di Angelo F. Formiggini.

(Notiziario Ucei, 12 dicembre 2012)


Candelabro ebraico, nessun atto antisemita

Ad abbatterlo sarebbe stato un autocompattatore

di Salvo Catalano

CATANIA - Sarebbe stato un autocompattatore della raccolta dei rifiuti in retromarcia ad abbattere il candelabro a nove bracci installato dalla comunità ebraica in piazza Università per la festa delle luci. E' questo l'esito delle indagini della Digos. Nessun atto d'intolleranza, dunque, a differenza dell'anno scorso, quando, nel giro di un paio di giorni, il simbolo religioso era stato preso di mira due volte. Il candelabro è stato ripristinato
Non ci sarebbe nessuna matrice antisemita all'origine dell'abbattimento del candelabro ebraico di piazza Università. La Digos ha indagato nella giornata di ieri, ricostruendo una dinamica diversa rispetto a quella che era emersa in una prima fase. Sarebbe stato un autocompattatore della raccolta dei rifiuti, mentre eseguiva una manovra in retromarcia, a colpire accidentalmente l'oggetto sacro per gli ebrei. Una disattenzione dunque; niente a che vedere con gli atti verificatisi l'anno scorso, quando, sempre nello stesso periodo prenatalizio, il candelabro è stato divelto due volte.
Il candelabro a nove bracci chiamato Channukkiyah, prontamente ripristinato, viene acceso dalla comunità ebraica durante la festa delle luci, la Channukah, in ogni casa e dove possibile anche nelle piazze. Catania è l'unica città siciliana dove il rito avviene pubblicamente. Ogni sera, per otto giorni, gli ebrei catanesi si riuniscono in piazza Università per accendere una fiammella. Quest'anno la festa viene celebrata dall'8 al 16 dicembre.

(CTzen, 12 dicembre 2012)


“Palazzo Chigi ha scavalcato il Parlamento nel voto dell’Italia all’Onu”

di Fiamma Nirenstein

Pubblichiamo il testo dell'intervento di Fiamma Nirenstein, Vicepresidente della Commissione Esteri, tenuto ieri in occasione dell'audizione di Giulio Terzi di Sant'Agata, Ministro degli Affari Esteri, sull'esito del voto presso l'Assemblea Generale dell'ONU in ordine al riconoscimento all'Autorità palestinese dello status di Paese non membro.

Il Ministro Terzi è fra coloro che hanno sempre compreso il pieno significato culturale e strategico della difesa di Israele. Qui affrontiamo il punto di gran lunga più delicato della storia di questi cinque anni in politica estera, un evidente cambio di linea, una svolta voluta da Palazzo Chigi contro ogni possibile previsione e ragione evidente nel comportamento del precedente Governo e del Parlamento. Tale scavalcamento è avvenuto in modo scioccante, dopo che questo Parlamento aveva compiuto decine di gesti di speciale amicizia e comprensione nei confronti di un Paese sempre assediato non solo da nemici fisici, ma da un odioso lavorio di delegittimazione.
   Chi vuole ritrovare le tracce della strada percorsa negli anni precedenti, innanzitutto vedrà la nostra immagine rovesciata nello specchio dell'atteggiamento italiano del settembre 2011 all'ONU, dove fu espressa una posizione opposta a quella odierna. Possiamo inoltre ricordare il voto contro la partecipazione a Durban 2, una odiosa ripetizione del raduno dell'ONU contro il razzismo che si trasformò in raduno razzista contro Israele; la disapprovazione della relazione Goldstone sulla guerra di Gaza, poi ripudiata da lui stesso; i 250 iscritti all'Associazione di Amicizia Parlamentare Italia - Israele; la partecipazione di tutte le parti politiche a manifestazioni quali "Per la Verità, per Israele" indette proprio per controbattere gli stigma che piovono su Israele senza sosta; il lavoro della Commissione d'Indagine Parlamentare sull'Antisemitismo che ha rilevato senza ombra di dubbio il nesso fra antisemitismo e diffamazione di Israele; il minuto di silenzio che solo il nostro Parlamento ha osservato raccogliendosi, diversamente da ogni altro Paese d'Europa, in un minuto di silenzio per gli atleti israeliani vittime della strage di Monaco del '72.
   Si, Palazzo Chigi ha deciso per una svolta dell'intera politica estera italiana. Le ragioni concettuali sono evidenti. La ratio basilare con cui l'Italia ha votato all'ONU la risoluzione che stabilisce che la Palestina sia riconosciuto come Stato Osservatore nasce da un aspetto della propaganda palestinese che è stato sistematicamente diffuso dalla leadership di Fatah prima del voto: l'idea era che una volta ottenuto l'upgrading la Palestina di Mahmoud Abbas avrebbe rinnovato le trattative con Israele. Il Time Magazine riportò in quei giorni che "Abbas ha promesso di ritornare al dialogo appena ci sarà stato il voto alle Nazioni Unite".
   Questa motivazione era legata a doppio filo a un'altra idea: quella che dopo la guerra fra Hamas e Israele, andasse ritemprata la parte moderata con un'azione di empowerment che la rimettesse in condizione di rappresentare la maggioranza dei Palestinesi.
   Purtroppo niente di tutto ciò si è realizzato, né, a detta dei più importanti analisti, si realizzerà. Bastava intanto, cosa che non credo che in molti abbiano fatto all'Assemblea Generale, ascoltare il discorso di Abu Mazen per capire che la leadership palestinese gioca su un terreno di irrecuperabile estremismo. A palesarlo sono stati l'uso delle parole "martiri, aggressione, occupazione, brutalità, omicidio, pulizia etnica", la negazione dell'appartenenza ebraica alla regione, la ripetizione del termine Nakba, disastro, riferendosi alla partizione del 1948, l'espressione crimini di guerra, la mancanza assoluta di qualsiasi segnale di distanza, se non di disapprovazione dal lancio indiscriminato di missili sulla popolazione innocente del sud d'Israele, la mancata rinuncia al terrorismo che pure è un bastione della politica palestinese dal suo inizio. Anzi Abu Mazen ha riaffermato che i suoi "inalienabili diritti" si riferiscono ai territori del '67, precondizione mai usata ai tempi di Rabin o di Barak o di Olmert... il diritto al ritorno è stato lasciato dov'era, ovvero Israele dovrebbe essere sommersa da un numero di pronipoti dei profughi del '48; nella sede dell'ONU è stata organizzata proprio in questi giorni una mostra in cui campeggiano mappe della Palestina che copre tutto il territorio di Israele, l'ipotesi di due Stati non si configura nemmeno lontanamente, ma solo quella della sparizione di Israele. In realtà è stata posta la premessa per quello che è avvenuto nei giorni successivi.
   Infatti, nei giorni successivi le manifestazioni di gioia, le prese di posizioni dei leader palestinesi non hanno echeggiato neppure lontanamente quello che ci si poteva aspettare, ovvero una sensazione di soddisfazione accompagnata da un desiderio di conciliazione. Le manifestazioni inneggiavano ai missili kassam che avevano da poco colpito Tel Aviv, agli shahid della jihad, e in onore della vittoria veniva composta una canzone suonata alla radio ufficiale dell'Autonomia Palestinese "Voice of Palestine" che dice "Abbiamo accettato la morte per riavere Gerusalemme, noi siamo bombe, amici, quando la patria chiama. Il mio cuore è esploso con furia e ha lanciato le sue schegge decapitando il nemico". Un'ode al terrorismo suicida.
   Negli stesi giorni molti detenuti di Hamas sono stati rilasciati ed è notizia di poche ore fa che mentre Hamas sta riattivando le proprie cellule in sonno nel West Bank si costruisce l'unità fra le due parti della politica palestinese: Hamas e Fatah. Khaled Mashaal fra un invito e l'altro a uccidere gli ebrei prometteva di tornare ad essere parte dell'OLP e prometteva una nuova alleanza con Fatah. Non si può ignorare che una vittoria di Hamas si è già compiutasi in parecchie città. Hamas non è stato messo in sottordine, ma esaltato dalla nuova posizione palestinese. Abbas dava intanto per la prima volta a Mashaal il permesso di tenere un grande rally di celebrazione dei 25 anni di Hamas sul suo territorio.
   L'idea che si stia preparando una terza Intifada è ormai ampiamente discussa sia fra i palestinesi che fra gli israeliani: come era prevedibile, ed è stato previsto, il dualismo "guerra di sangue, guerra diplomatica" ha avuto un effetto di galvanizzazione estremista anche su Abu Mazen, che per controbattere il successo di Hamas si è posto in gara, è stato lodato da Mashaal esattamente come Abbas ha lodato il comportamento eroico di Hamas in guerra, due successi paralleli, che si uniscono in una prospettiva strategica che era prevedibile, e che è stata esaltata dal voto all'ONU.
   Era evidente che spingere due parti a trattare per la pace significa avere il coraggio di costringerli a sedersi uno di fronte all'altro, è talmente evidente che l'unilateralismo cancella la trattativa che è inutile qui ripeterlo, anche se c'è chi non lo vuole sentire. Ma è indispensabile stabilire le responsabilità storiche delle due parti. Barak si sentì dire di no, Olmert ad Annapolis ha subito la stessa sorte, Netanyahu sgomberò Hebron, fece gli accordi di Wye Plantation ma aspettò per dieci mesi Abu Mazen avendo bloccato gli insediamenti senza che il capo palestinese si presentasse, è la vittima designata oggi di critiche che penso avviliscono più chi le fa che chi le riceve.
   Era ovvio che al terribile oltraggio che l'Europa ha inferto a Israele, esso rispondesse con la conferma della propria presenza difensiva nella zona intorno a Ma'ale Adumim, sulla strada fra Gerusalemme e Jerico, o Gerusalemme e la Giordania con tutto quello che segue, Iraq, etc, etc. Israele ha solo reagito riaffermando il suo senso di pericolo, la sua decisione a non lasciare territori se non in cambio di garanzie di sicurezza come per altro garantite dalla risoluzione 242 e 338, che parlano come tutti sanno, di "territori" e non "dei territori".
   Ho detto più volte in questi giorni come Palazzo Chigi abbia scavalcato il Parlamento che in questi anni aveva stabilito una nuova linea di condotta. Voglio dire con molta forza che questa rottura è anche epistemologica e morale, e non solo politica, comunque tutt'altro che tecnica. Prima di tutto era molto importante tener un punto all'ONU, che tutti sanno essersi trasformato negli anni e con le sue maggioranze automatiche in una fonte di fraintendimenti fatali per il mondo intero, l'organizzazione la cui Commissione per i Diritti Umani non si è mai occupata se non cosmeticamente con due chiacchiere di Cina, di Cuba, di Darfur, di Cecenia, di Siria, di Tibet, di Arabia Saudita, che nel 1975 mentre si svolgevano stragi epocali comminava la risoluzione "sionismo eguale razzismo", che dedica quasi il cento per cento delle sue risoluzioni a Israele.
   Adesso si è lasciato che un grande numero di Stati che non riconoscono Israele abbiano avuto voce per riconoscere la Palestina. Nessuno ha sollevato il punto che avrebbe potuto votare solo chi riconosceva Israele.
   Più in generale voglio dire che l'Onu si è trasformato in questi anni in una tribuna per la negazione della Shoah, per la predicazione della distruzione atomica di Israele... e noi lasciamo che prosegua su questa linea, senza cercare di riportarlo su una linea di ragionevolezza.
   Ragionevolezza e buon senso questo è quello che nel corso di questi anni il Parlamento aveva acquisito. Di fronte a un mondo che veste gli infanti da terroristi suicidi, che invita a uccidere, che inneggia alla morte, un Paese che con tutti i difetti che può avere una democrazia assediata in questi giorni ha assistito a una dura polemica nell'esercito perché ai soldati è proibito di difendersi duramente anche sotto una gragnuola di armi improprie spesso mortali, che conta a milioni le vite salvate col suo intervento nei paesi del Terzo Mondo, contro la fame e contro le malattie, contro le calamità naturali, che ha una società in cui l'integrazione delle lingue, delle tradizioni delle razze è il quid basilare, che negli anni ha provato in ogni modo il suo attaccamento alla democrazia, anche nei momenti in cui in genere la democrazia va perduta... La valanga di delegittimazione che ogni giorno, con uso di vasti mezzi gli viene rovesciata addosso, è gigantesca. Noi speriamo che l'Italia in un momento come questo, in cui il Medio Oriente è in bilico per motivi completamente diversi e lontani dal conflitto israelo-palestinese sappia recuperare il diritto di Israele all'esistenza e all'autodeterminazione tornando ad essere la stella polare della sua politica internazionale.

(Informazione Corretta, 12 dicembre 2012)


Le ragioni di Fiamma Nirenstein sono fin troppo evidenti e ragionevoli, ma purtroppo la linea difensiva dei sedicenti “amici d’Israele”, come il nostro attuale Ministro degli Esteri, è sempre la stessa: è per il bene d’Israele che si lavora per raggiungere la “pace” con lo stato palestinese, che nella fattispecie sarebbe rappresentato dal personaggio Abu Mazen, cosa che dovrebbe far sorridere chi ha un minimo senso della realtà e vuol essere sincero. C’è un unico modo per togliere dalle mani questi pseudoargomenti: dire chiaro e tondo che il “processo di pace” non esiste, non è mai esistito, che il concetto astratto di “stato palestinese” è stato assunto dagli arabi al solo scopo di arrivare a distruggere la realtà concreta dello Stato d’Israele, che Gerusalemme è la capitale unica ed indivisibile di questo Stato, il quale è l’unico che per diritto internazionale, e non solo per diritto biblico, ha la sovranità de jure su tutto il territorio attualmente conteso, compresa la striscia di Gaza. Questo significa rifiutare fin dall’inizio la nozione stessa di “territori occupati”, non solo per motivi di sicurezza, ma soprattutto per motivi di diritto. Se qualcuno pensa che questo sia estremismo che non porta a niente, mentre con un po’ di moderazione si potrebbe ottenere qualcosa in modo pacifico, è semplicemente un illuso, e quindi anche e proprio sul piano strettamente pragmatico è destinato ad essere un perdente. In tanti settori della politica internazionale il pragmatismo compromissorio funziona, ma non nel caso d’Israele, perché lì Qualcuno ha già fatto sapere quello che ne pensa. L’unica cosa che occorre fare, senza preoccuparsi troppo di possibili conseguenze, è dire la verità. E la verità, precisamente quella verità che riguarda la sovranità ebraica su quella terra, sta dalla parte d’Israele. Bisogna dichiarare allora che “tutta la terra dal Giordano al mare” appartiene per diritto internazionale allo Stato ebraico, semplicemente perché questo è VERO. Dichiara il FALSO chi parla di “territori occupati”. E, ripeto, non soltanto per il diritto biblico, ma anche per quel diritto internazionale da cui dopo la prima guerra mondiale sono nate nazioni nuove di zecca come Iraq, Siria, Giordania, Libia, Arabia Saudita, che non avevano dietro di loro nessun popolo specifico, nessuna storia particolare. Israele, al contrario, aveva ed ha tutte le caratteristiche di “popolo”, il cui benessere e sviluppo, secondo l’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni, avrebbe dovuto costituire “un impegno sacro della civiltà”. I pragmatici dovrebbero arrivare a capire che proprio su questo piano sono sconfitti, perché l’avversario è riuscito a portarli a combattere sul loro terreno, che è quello della variegata, complessa, contorta menzogna. Bisogna ribaltare la cosa e passare dalla difesa all'attacco: bisogna portarli a combattere sul terreno adatto, che è quello della pura e semplice verità. M.C.

per documentarsi sul diritto biblico
per documentarsi sul diritto internazionale


Italiani all'estero - E' nata la fondazione Italia-israele

Lavorera' su obiettivi condivisi; prima iniziativa una mostra a Roma

E' stata presentata oggi a Roma presso il Ministero degli Affari Esteri la nuova Fondazione Italia-Israele, istituita dai governi di questi due paesi dall'Associazione d'Amicizia Culturale tra Italia e Israele.
Fortemente voluta da Giulio Terzi di Sant'Agata, Ministro degli Esteri, che ha cominciato a lavorare a questa idea quando ricopriva l'incarico di Ambasciatore d'Italia in Israele tra il 2002 e il 2004, la Fondazione, istituita lo scorso 25 ottobre a Gerusalemme durante il vertice intergovernativo si propone di promuovere iniziative culturali ed artistiche tra l'Italia e Israele.
"La Fondazione, il cui Consiglio di amministrazione si è riunito ieri per la prima volta per definire la linea d'azione del prossimo anno, è l'espressione dell'amicizia profonda che lega l'Italia e Israele e vuole approfondire le relazioni tra questi due paesi sul piano culturale ed artistico. E' uno strumento innovativo e flessibile che lavorerà su obiettivi condivisi attraendo risorse sia pubbliche che private per finanziare manifestazioni, programmi culturali e artistici che valorizzino le attività dei due sistemi paese, creando crescita e lavoro. L' iniziativa è infatti espressione della diplomazia per la crescita," ha affermato Terzi di Sant'Agata auspicando che questa operazione, che parte in un momento di grave incertezza e tensione nel Mediterraneo, possa rivelarsi un antidoto contro il fanatismo.
"E' un progetto per non abbassare la guardia contro la propaganda dell'odio. La ruota del fanatismo può girare ovunque e la nostra storia ci insegna che per fermare la ruota ci vogliono azioni importanti," ha precisato il ministro.
Presente al "battesimo" della fondazione anche Naor Gilon, l'ambasciatore israeliano a Roma, che ha ricordato quanto la cultura italiana sia apprezzata in Israele e quanto quella israeliana abbia successo in Italia. "E' la prima volta però che le presentiamo sotto il 'tetto' di una fondazione che mi auguro promuoverà progetti in grado di mettere in contatto migliaia di persone, tra studenti, accademici e amanti dell'arte," ha dichiarato Gilon.
Piergaetano Marchetti, Presidente della nuova fondazione, dopo avere sottolineato come la cultura sia un giacimento di energia continua e rinnovabile, ha precisato che questa nuova realtà vuole essere una struttura rapida, in grado di operare in modo libero. "Non vogliamo essere finanziati esclusivamente da istituzioni pubbliche. Contiamo su aiuti da parte di imprese e della società civile. Vogliamo, inoltre, raccordarci con le altre associazioni che operano in questo campo e portare a sintesi le tante iniziative che già ci sono. Saremo sempre 'per' e mai contro," ha concluso Marchetti.
Quanto alle iniziative, si parte con una mostra di arte contemporanea israeliana in programma a Roma al Macro Testaccio a fine gennaio.
"Ho selezionato ventiquattro artisti israeliani che attraverso il loro lavoro riescono ad interpretare una nuova idea di futuro. Ci saranno grandi maestri ma anche emergenti molto interessanti. Saranno esposti complessivamente una sessantina di lavori che spazieranno tra i diversi mezzi espressivi," ha dichiarato Micol Di Veroli, curatrice della rassegna.
"Sarà una tra le più grandi mostre mai organizzate in Italia sull'arte contemporanea israeliana," ha rilevato la curatrice.
Per quanto riguarda le iniziative italiane in Israele, già definita l'esposizione presso il Museo Israel a Gerusalemme di quattro grandi capolavori italiani firmati da Botticelli, Raffaello, Caravaggio e Tintoretto. "Verrà presentato un quadro a semestre. Si inizia a marzo e sarà l'omaggio della Fondazione per il 65o anniversario della fondazione di Israele," ha affermato Simonetta della Seta, Direttore Generale della Fondazione, che da anni lavora su questa nuova realtà culturale.
"Promuoveremo progetti d'eccellenza e tra questi vi è anche uno studio sui 250.000 superstiti della Shoah che arrivarono in Italia per imbarcarsi dai nostri porti alla volta d'Israele. Gli inglesi avevano messo dei limiti per l'arrivo degli ebrei e, in attesa dell'imbarco, questi ebrei vissero presso dei campi d'accoglienza come quello di Santa Maria al Bagno in Puglia.
E molti di loro rimasero lì due-tre anni. Tutta l'operazione era stata coordinata dall'Agenzia Ebraica ma fondamentale è stato l'aiuto dell'Italia.
E' una pagina di storia poco nota che va ristudiata e lo stesso stato d'Israele ce lo ha chiesto. E' nostra intenzione, dunque, portare avanti una ricerca complessiva, creando un vero e proprio comitato scientifico, ed allestire successivamente una mostra fotografica sia in Italia che in Israele. Tra i progetti in via d'elaborazione, inoltre, c'è anche l'idea di affidare ad un'orchestra israeliana la scrittura di un'opera dedicata a Perlasca," ha precisato Della Seta.

(Italian Network, 11 dicembre 2012)


Netanyahu: "Meshaal mostra il volto dei nostri nemici"

Il premier israeliano commenta così il discorso di Khaled Meshaal ieri a Gaza. Lo storico leader di Hamas, nell'enclave palestinese per la prima volta dopo 45 anni, aveva detto: "Non possiamo riconoscere la legittimità dello stato di Israele".

GAZA - Il leader di Hamas, Khaled Meshaal, ha dimostrato con il discorso tenuto ieri a Gaza che il gruppo militante palestinese vuole distruggere Israele e pertanto "resta un nemico". Lo ha dichiarato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, nel suo primo commento alla visita di Meshaal nei territori palestinesi. "Ieri c'è stato mostrato di nuovo il vero volto dei nostri nemici. Non hanno intenzione di trovare un compromesso con noi. Vogliono distruggere il nostro Paese, ma ovviamente non ci riusciranno", ha detto Netanyahu.

IL DISCORSO DI MESHAA - Ieri il leader di Hamas in esilio, nella sua prima visita nella Striscia di Gaza da quando da bambino lasciò i territori palestinesi, ha ribadito di non poter riconoscere la legittimità di Israele e che continuerà la lotta per difendere la terra che considera dei palestinesi. ''La Palestina - ha detto Meshaal - è la nostra terra e la nostra nazione, non siamo disposti a cedere nemmeno un centimetro". "Noi non possiamo riconoscere la legittimità dell'occupazione della Palestina, né di Israele'', ha proseguito rivendicando anche il territorio dello Stato ebraico. Il leader di Hamas ha dettato la sua agenda politica in uno storico comizio a piazza Katiba - la più grande di Gaza - davanti ad una folla di oltre 200 mila persone secondo gli organizzatori, nel 25/o anniversario della fondazione del movimento islamico. Hamas è al potere nella Striscia dal 2007 ed è considerato come gruppo terroristico da Israele, Usa e molti altri paesi occidentali. Meshaal, 56 anni, è stato accolto dal primo ministro di Hamas Ismail Haniyeh, nella sua prima visita a Gaza, dopo decenni di esilio iniziati nel 1967, quando aveva 11 anni, dopo la Guerra dei Sei Giorni.

(tg1 online, 11 dicembre 2012)


Raid a Catania contro la festa ebraica

Divelto un candelabro, terzo caso in due anni

di Salvo Catalano

Il candelabro divelto
CATANIA - In questi giorni la comunità ebraica celebra la festa delle luci, la Channukah. Catania è l'unica città siciliana dove avviene pubblicamente l'accensione del Channukkiyah, il candelabro a nove bracci, che però ieri sera ignoti hanno divelto. L'anno scorso si erano verificati due episodi analoghi. «Si tratta di un atto antisemita di intolleranza», spiega Benito Triolo, presidente dell'associazione B'Naj Isaac che organizza la celebrazione

La terza fiammella del candelabro ebraico Channukkiyah doveva essere accesa ieri sera in piazza Università a Catania, ma alla comunità ebraica è stato impedito di celebrare il rito perché qualcuno ha divelto dalla base il candelabro a nove bracci. Un raid che segue i due compiuti l'anno scorso nello stesso periodo, sempre in piazza Università. «Mettendo insieme gli eventi è chiaro che si tratta di un atto antisemita di intolleranza», spiega amareggiato Benito Triolo, presidente dell'associazione culturale ebraica B'Naj Isaac .

Ogni anno, nel periodo che precede il Natale, il mondo ebraico celebra la Channukah, la festa delle luci, in ricordo della riedificazione del tempio di Gerusalemme dopo la distruzione da parte di Costantino. Quest'anno si svolge dall'8 al 16 dicembre. «In quell'occasione - racconta Triolo - venne trovata nel tempio una piccola ampolla di olio che miracolosamente tenne accese le fiammelle per otto giorni». Durante la festa in tutte le case e nelle piazze, dove è possibile, viene acceso il candelabro a nove bracci, anziché quello a sette. Ogni sera, per otto giorno, viene accesa una fiammella attingendo la luce dall'ampolla che si trova al centro del candelabro. Catania è l'unica città siciliana dove, da quattro anni, il rito avviene pubblicamente nella piazza del rettorato.
L'anno scorso il candelabro è stato danneggiato due volte, fino a quando non sono state attivate delle telecamere di sorveglianza. Adesso il terzo raid vandalico su cui indaga la Digos. «Queste azioni purtroppo si verificano dappertutto - spiega Triolo - ma Catania è una città dove non abbiamo mai avuto altri problemi e facciamo almeno un paio di eventi pubblici ogni anno. Ma senza ulteriori elementi non possiamo prendercela con nessuno in particolare

(CTzen, 11 dicembre 2012)


Israele acquista dosi di 'antidoto' contro gas nervini

TEL AVIV, 11 dic. - Le forze armate israeliane hanno acquisito decine di migliaia di dosi di diazepam (benzodiazepina), usato per contrastare gli effetti dei gas nervini che agiscono sul sistema nervoso, e nei prossimi mesi cominceranno a distribuirle ai medici dei battaglioni. E' quanto riferisce The Times of Israel, citando il magazine settimanale dell'esercito Bamahane. Finora il diazepam, usato per bloccare le convulsioni causate dai gas che attaccano il sistema nervoso come il Vx e il Sarin, era disponibile tra le truppe solo per via endovenosa. "Ora, i medici riceveranno auto iniettori, permettendo di somministrare la dose da una mezz'ora a un'ora prima e a 10 volte il numero di persone", ha spiegato il responsabile del copro di sanita' militare contro le armi non convenzionali, il tenente colonnello Micah Ksirer.
La misura arriva in un momento in cui crescono le tensioni per il possibile uso di armi chimiche da parte del regime siriano di Bashar al-Assad o la loro caduta in mano a gruppi coinvolti nelle violenze. Al momento, tuttavia, il possibile uso di questi agenti chimici contro Israele suscita dubbi: "non ci sono segni che questo arsenale sia puntato contro di noi", ha sottolineato Moshe Ya'alon, ministro degli Affari Strategici ed ex capo di Stato Maggiore dell'esercito, ricordando che "la Siria da decenni e' armata con missili e armi chimiche, ma il nostro fattore deterrente e' stabile, prova ne e' che non l'hanno mai usate contro di noi".

(AGI, 11 dicembre 2012)


Italia e Israele - Un laboratorio per la cultura

di Adam Smulevic

L'obiettivo è quello di sviluppare uno strumento flessibile in grado di convogliare l'impegno di settore pubblico e privato, sviluppare nuove e più forti sinergie, valorizzare le eccellenze culturali. Nata in autunno e annunciata dal presidente del Consiglio a Gerusalemme in occasione dell'ultimo vertice intergovernativo tra i due paesi, la Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti è stata presentata questa mattina nella Sala Conferenze Internazionali del Ministero degli Affari Esteri.
"Si tratta di un'iniziativa espressione di un legame profondo e indissolubile. L'agenda di eventi che stiamo allestendo - ha affermato il ministro Giulio Terzi di Sant'Agata - nasce dal presupposto che la cultura sia il miglior strumento di incontro e dialogo tra i popoli. Dal progetto di portare alcuni grandi nomi dell'arte figurativa a Gerusalemme - Tintoretto, Tiziano e Botticelli - alla mostra in calendario a Roma a gennaio con la partecipazione di un gruppo di artisti contemporanei israeliani per arrivare alla realizzazione di eventi dedicati all'Aliyah Bet. Nuovi stimoli per rinsaldare un'amicizia che si regge su solidissime fondamenta che non subiranno mai oscillazioni perché poggiano su valori condivisi". Al suo fianco l'ambasciatore d'Israele a Roma Naor Gilon, che ha illustrato i vantaggi di presentarsi al mondo sotto un'autorevole bandiera comune in grado di incentivare e rafforzare iniziative di grande impatto. Estremamente significativo, ha sottolineato, il fatto che il varo avvenga in un periodo in cui ebrei e cristiani celebrano entrambi una festività che ha nella luce il suo elemento caratterizzante. "L'auspicio - ha concluso - è che anche la Fondazione possa portare un po' di luce". A soffermarsi sui punti cardine di questa sfida anche il presidente della Fondazione, il noto giurista e dirigente d'azienda Piergaetano Marchetti. "Vogliamo essere una struttura snella che opera in modo rapido e libero. Lavoreremo - ha spiegato - per realizzare progetti di qualità ponendoci come un punto di riferimento e allo stesso tempo agendo in sinergia con le altre realtà già attive nel settore". Chiamati ad incarichi di alta responsabilità i due vicepresidenti designati, Anita Friedman e Raphael Gantz, e il direttore generale Simonetta Della Seta.
Sono intervenuti nel corso dell'incontro, tra gli altri, anche il direttore generale per la promozione del sistema paese del ministero, l'ambasciatore Maurizio Melani, e il segretario generale della Farnesina Michele Valensise. Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, ha offerto piena disponibilità nello sviluppo di appuntamenti che tocchino da vicino le specificità del più antico nucleo ebraico della Diaspora.

(Notiziario Ucei, 11 dicembre 2012)


Lieberman: l'Europa applica la stessa politica degli anni '30

GERUSALEMME, 11 dic - Dura critica del ministro degli esteri di Israele, Avigdor Lieberman, ai paesi europei, accusati di trattare lo Stato ebraico in modo comparabile alle politiche dell'epoca dell'Olocausto.
Sotto tiro la dichiarazione del capo di Hamas, Khaled Meshaal, che aveva affermato di non intendere riconoscere Israele e che nessun palmo di terra sarebbe mai stato ceduto.
''Ancora una volta - ha detto Lieberman alla radio - l'Europa ha ignorato gli appelli alla distruzione di Israele. Abbiamo gia' assistito a questo alla fine degli anni '30 ed all'inizio degli anni '40, quando l'Europa seppe quanto avveniva nei campi di concentramento e non agi'''.
''Quando vengono sacrificati degli ebrei, occorre chiedersi chi saranno i prossimi. A Tolosa i terroristi che uccisero bambini ebrei uccisero anche soldati francesi'', ha aggiunto.

(ASCA, 11 dicembre 2012)


Catturato in Sudan un "avvoltoio-spia" di Israele

Scienziato israeliano: un volatile usato solo a scopo di ricerca. La cattura nella regione occidentale del Darfur

  
Un avvoltoio-spia inviato in Sudan da Israele è stato catturato nella regione occidentale del Darfur. E' quanto ha riferito il quotidiano egiziano El Balad, citato oggi da Haaretz, secondo cui sul volatile sarebbe stata trovata strumentazione alimentata dall'energia solare, capace di trasmettere le informazioni, comprese immagini, via satellite. Secondo il quotidiano, l'avvoltoio sarebbe stato anche dotato di un GPS.
Per El Balad, la cattura sarebbe avvenuta nella città di Kereinek e le autorità sudanesi avrebbero trovato su una zampa del volatile l'etichetta con scritto 'Israel Nature Service - Hebrew University, Jerusalem'. Uno scienziato dell'Autorità israeliana per la Natura e i Parchi, Ohad Hazofe, ha ammesso che si tratta di un "giovane avvoltoio etichettato, insieme ad altri 100, lo scorso ottobre" a scopo di ricerca sulle rotte migratorie. Riguardo alla strumentazione presente sul volatile, lo studioso ha precisato: "Si tratta di strumenti che possono leggere solo distanza e altitudine. Per questo abbiamo saputo che era successo qualcosa all'uccello, perchè all'improvviso ha smesso di volare e ha cominciato a spostarsi a terra".
Lo scorso ottobre, Khartoum accusò Israele di aver bombardato una fabbrica di armi leggere. Il governo israeliano non ha mai replicato alle accuse, ma il Sudan è sospettato da tempo di fungere da transito per l'invio di armi iraniane all'organizzazione palestinese Hamas, nella Striscia di Gaza.

(BlogTaormina, 11 dicembre 2012)


'Nessiah', le comunità ebraiche in festa

Musica e cultura sono al centro della sedicesima edizione della rassegna: uno scorcio delle loro tradizioni culinarie, letterarie, liturgiche e popolari.

Le comunità ebraiche italiane sono al centro della sedicesima edizione del festival di musica e cultura ebraica 'Nessiah', in corso in Toscana dal 2 al 16 dicembre. La manifestazione offre uno scorcio delle loro tradizioni culinarie, letterarie, liturgiche e popolari, attraverso spettacoli ad ingresso gratuito. I prossimi appuntamenti saranno il 12 dicembre a Cascina (Pisa) con il progetto Darom di Amit Arieli, che rievocherà la presenza ebraica nel Meridione, e il 16 a Pontedera (Pisa) con il racconto del viaggio in Italia della Señora Gracia Nasi, che alla fine del '400 salvò migliaia di ebrei perseguitati. "Le contaminazioni fra la comunità ebraica e quella italiana sono grandissime - ci spiega il direttore artistico e fondatore del festival, Andrea Gottfried - Lo dimostrano, ad esempio, alcune musiche di fine '800 del patrimonio liturgico ebraico che richiamano quelle di Verdi e Puccini". Nei giorni scorsi, il musicista e attore Enrico Fink ha raccontato le ricette della Ferrara ebraica, il progetto Darom di Amit Arieli ha rievocato la presenza ebraica nel Sud Italia e sono stati proiettati due film, 'Il cantante di Jazz' (primo film non muto della storia) e 'Il grido della Terra' (pellicola italiana del 1949 sulla fondazione dello Stato d'Israele

(L'Indro, 11 dicembre 2012)


A scuola di Torah

Una tavola rotonda, mercoledì 12 dicembre, per discutere del ruolo dell'istruzione nello sviluppo economico del popolo ebraico
Cosa hanno forgiato la storia economica e demografica degli ebrei negli anni? I valori culturali e le norme sociali, più ancora delle proibizioni e delle persecuzioni, sostengono Maristella Botticini e Zvi Eckstein nel loro nuovo libro I pochi eletti. Il ruolo dell'istruzione nella storia degli ebrei, 70-1492 (Università Bocconi Editore, 2012, 434 pagg., 34 euro).
Analizzando quindici secoli di storia ebraica attraverso la lente della teoria economica, i due studiosi individuano, infatti, come elemento centrale della storia prima culturale e poi economica e demografica degli ebrei l'implementazione, a partire dal I e II secolo d.C., della norma religiosa che prescriveva a ogni ebreo di mandare i figli a scuola o in sinagoga per imparare a leggere e per studiare la Torah.
Un progetto di ricerca, quello degli autori. Un viaggio durato dodici anni a ritroso nel tempo in cerca di risposte alla domanda "perché gli ebrei sono diventati il popolo che sono".
Questo l'argomento della tavola rotonda che si svolgerà in Bocconi mercoledì 12 dicembre (ore 18, aula N03, piazza Sraffa 13) in cui saranno chiamati a discutere su "L'istruzione come leva dello sviluppo economico, Spunti dalla storia ebraica", Alberto Alesina (Tommaso Padoa-Schioppa, visiting professor Università Bocconi), Rav Roberto della Rocca (direttore dipartimento educazione e cultura dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane), Maristella Botticini (docente di economia, Università Bocconi) e Giacomo Todeschini (docente di storia medievale, Università degli Studi di Trieste).
"La diffusione pressoché universale dell'istruzione tra gli ebrei in un mondo popolato da analfabeti" afferma Botticini "lo sviluppo di reti di relazioni e contatti tra ebrei abitanti in località diverse e la possibilità per i residenti in località diverse di poter fare affidamento su istituzioni che favorivano il rispetto dei contratti e lo sviluppo del commercio (ad esempio, il Talmud, i tribunali rabbinici, i responsa) divennero la "leva" del successo economico e intellettuale del popolo ebraico, un successo che è visibile fino ai nostri giorni".

(Sarfatti, 11 dicembre 2012)


Concerto di musica ebraica a Cascina

Mercoledì 12 dicembre 2012, alle ore 21, alla biblioteca comunale "Impastatato" in viale Comaschi 67 a Cascina, concerto di Amit Arieli e Darom Project, con Amit Arieli al clarinetto, Gabriele Savarese a chitarre, violino e baglama, e Dyana Gnarra alle letture e canto. Lo spettacolo è a ingresso libero. L'evento rientra nel programma di iniziative Nessiah 2012, viaggio nell'immaginario culturale ebraico.

(PisaToday, 11 dicembre 2012)


Torino - La Festa di Hanukka al Ristorante Alef

Fino a domenica 16 dicembre 2012, ogni giorno dalle ore 18.00 il ristorante Alef festeggia Hanukka, la festa delle luci della tradizione ebraica.

Alef è il primo ristorante ebraico di Torino, composto da: cucina, bar, panetteria e pasticceria.
La festa della luce ripristinata e della gioia dell'indipendenza, celebra la vittoria dei Maccabei sui greci, nell'anno 169 a.e.v e il miracolo dell'ampolla d'olio rinvenuta durante la purificazione del Tempio di Gerusalemme, saccheggiato e profanato dai greci. I sacerdoti, per riconsacrare il Tempio, si apprestarono ad accendere il candelabro a sette bracci, la Menorah, ma la quantità di olio puro in loro possesso non sarebbe stata sufficiente. Secondo le cronache fu allora che avvenne il miracolo e la piccola ampolla bastò per otto giorni.
Ancora oggi in tutte le case ebraiche vengono accese giorno per giorno le luci del candelabro, la Hanukkia..
Quest'anno il ristorante Alef vuole condividere la gioia della festa, il locale si riempirà delle Hanukkiot realizzate dai bambini della Scuola Ebraica di Torino e invita tutti ad accendere insieme le candele durante gli otto giorni.
Nel corso della festa serviremo cibi tipici: latkes, frittelle di patate, soffici krapfen ripieni alla cioccolata o marmellata e tè russo flambé.
Martedì 11 alle ore 18.00, in seguito all'accensione della quarta candela, il Coro Zemer dell'Associazione Amici della Scuola Ebraica di Torino, diretto da Maria Teresa Milano, si esibirà in un repertorio di canti tradizionali di Hanukka.
Per festeggiare la chiusura della festa Domenica 16 alle ore 18.00, il ristorante Alef propone al pubblico l'ultima possibilità di assaggiare i suoi deliziosi krapfen al ritmo dei canti tradizionali eseguiti da Maria Teresa Milano e la band Fuori dal Coro.

(Note news, 11 dicembre 2012)


Rifiuti, il brevetto israeliano che non convinse Bertolaso

Ambientalisti e grillini ne discutono sul web

MONTESILVANO - Montesilvano dopo Civitavecchia potrebbe essere la seconda città d'Italia a sfruttare Arrow Bio, un brevetto ritenuto da alcuni rivoluzionario nella gestione della differenziata.
Il progetto studiato in diverse città, per ora funziona solo all'estero, piace agli ecologisti amici di Beppe Grillo (i meet up) e per qualcuno è una forma più moderna del Trattamento Meccanico-Biologico.
Il sistema funziona ad acqua e permette di differenziare i rifiuti e separare la parte organica da quella inorganica grazie alla forza di gravità. La parte organica - opportunamente trattata - diventa una sorta di poltiglia che può essere usata oltre che per produrre metano, anche come fertilizzante naturale. La rivoluzione risiederebbe nel fatto che in Italia per trattare i rifiuti si utilizzano solo tecnologie che impiegano il calore e che dunque bruciano con il risvolto non secondario di inquinare.
Il sindaco di Montesilvano, Attilio Di Mattia, ci crede fortemente e sta 'spingendo' su questa strada sin dall'inizio della sua campagna elettorale parlando e caldeggiando soluzioni innovative già sperimentate con successo nel mondo. Nelle scorse settimane proprio la giunta ha varato una delibera che incanala il Comune di Montesilvano verso la strada della sperimentazione non senza attirarsi critiche.
Negli ultimi giorni per questo non sono mancate polemiche soprattutto per i metodi adottati dalla giunta Di Mattia che ha varato anche linee guida per la scelta di consulenti per studiare il territorio e produrre progetti operativi.
In Italia una esperienza simile la sta vivendo Civitavecchia dove è stato completato l'iter autorizzativo e il progetto è stato approvato in consiglio comunale e nel Piano Regionale dei rifiuti.
Anche lì non sono mancate polemiche (contrario anche un consigliere dell'Italia dei Valori, partito del sindaco Di Mattia) per un sistema che da un lato scongiura l'incenerimento dei rifiuti ma dall'altro non ne limita la produzione.
Lo stesso brevetto 'rischiò' di approdare anche a Napoli in piena emergenza rifiuti, circa 3 anni fa. Questa soluzione venne suggerita da Doron Sapir, vice sindaco di Tel-Aviv, nel corso di una trasmissione telefonica all'allora capo della protezione Civile Guido Bertolaso che però non ne rimase favorevolmente colpito.
Come ricordano alcuni blog di ecologia Bertolaso si disse incredulo e sostenne che forse la traduttrice avesse sbagliato a riferire le quantità di rifiuti smaltite.
Ma il vice sindaco confermò i numeri spiegando che se su una linea a pieno regime si smaltiscono 300mila tonnellate di rifiuti, su due linee di smaltimento si arrivano a smaltire 600mila tonnellate di rifiuti.
A luglio dell'anno scorso l'ipotesi è tornata ad affacciarsi nel Napoletano ma per il momento resta solo una ipotesi come tante altre. Da più parti si paventano sempre (anche nelle altre vicende italiane simili) non meglio identificate lobbies dei rifiuti e pressioni di vario genere che è probabile inquinino le acque visto che quello dei rifiuti è affare che fa gola a molti.
Crede fortemente in questa tecnologia anche l'associazione nazionale Anta (Associazione nazionale tutela ambiente), diretta dal professor Ennio Maccari che spiega: «si registra la riduzione o addirittura l'abolizione della Raccolta Differenziata, la separazione e il recupero dei materiali riciclabili fino al 90% del totale del rifiuto, l'utilizzo per la produzione di energia elettrica e per la produzione di compost». L'associazione caldeggia proprio la soluzione israeliana e crede vivametne che questa sia una soluzione di sicuro migliore delle tante altre in uso in Italia.

(PrimaDaNoi, 11 dicembre 2012)


Corsi di "ebraico facile" a Milano

  
MILANO - Ripartono i corsi di "ebraico facile" tenuti da un insegnante di madrelingua ebraica, Avi Kretzo, presso la Beth Shlomò di Milano.
«I corsi sono per principianti - spiega Avi Kretzo - e riguardano la lingua, la storia, la religione e la cultura ebraico-israeliana».
Esistono due tipi di corsi: il primo è un corso promosso da ADI (Amici di Israele) ed è articolato in trentadue lezioni, ognuna di due ore, per un totale di sessantaquattro ore, si tiene ogni martedì sera, dalle ore 18.30 alle 20.30. Costa 430 euro.
Il secondo è un corso intensivo, prevede trenta lezioni, ognuna di tre ore per un totale di novanta ore, si tiene la domenica pomeriggio dalle 16.30 alle 19.30. Il corso privilegia la conversazione ed è indicato per chi vuole seguire due anni in uno. Costa 700 euro.
Entrambi i corsi si svolgono presso la sinagoga Beth Shlomò, in corso Lodi 8/C aMilano (ci si arriva con la metropolitana gialla, fermata Porta Romana, oppure con il tram 9 da Porta Genova). [gp]

(Evangelici.net, 11 dicembre 2012)


L'ostacolo alla pace

Secondo l'Unione Europea

BRUXELLES - La Ue è "profondamente costernata e si oppone fermamente al piano israeliano di insediamenti in Cisgiordania, inclusi quelli di Gerusalemme Est, e in particolare ai piani di sviluppo dell'area E1 che minerebbero seriamente le prospettive di una risoluzione negoziata del conflitto": è quanto affermano i ministri della Ue nelle conclusioni del Consiglio Esteri.

*
Secondo il ministro Terzi

ROMA, 11 dic - ''Hamas e' un ostacolo serio al rilancio di una prospettiva negoziale'', in Medio Oriente, e occorre ''mantenere alta la guardia'', perche' c'e' un ''rischio forte di radicalizzazione, e Hamas potrebbe essere lo strumento e punta di lancia'': cosi' il ministro Giulio Terzi alla commissione Esteri della Camera, bollando come ''vergognose'' le dichiarazioni del leader di Hamas Khaled Meshaal, che ha ribadito il no del movimento integralista al riconoscimento della legittimita' di Israele.

(ANSA, 11 dicembre 2012)


Rapporti Iran - Italia: il Ministro Terzi spieghi le aperture italiane a Teheran

di Bianca B.

Secondo l'ambasciatore italiano a Teheran, Alberto Bradanini, l'Italia è il primo partner commerciale dell'Iran e, in un incontro con il ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi, avrebbe espresso la volontà di "migliorare ulteriormente i rapporti bilaterali e la cooperazione".
Lo riferiva ieri l'agenzia di stampa iraniana Fars News parlando di un incontro cordiale e collaborativo tra l'ambasciatore Bradanini e il Ministro Salehi, un incontro che avrebbe spianato la strada per "rafforzare le relazioni tra Iran e Italia".
Ora, francamente non si capisce questo modo di fare politica estera da parte dell'Italia. Dopo il suo vergognoso si alla nomina della Palestina a "stato osservatore" dell'Onu, decisione in aperto contrasto con la politica di amicizia verso Israele, ora arriva anche questa ennesima decisione in contrasto con i maggiori alleati dell'Italia che invece cercano di fare di tutto per isolare il regime iraniano.
Il Ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi, spieghi se l'ambasciatore italiano a Teheran, Alberto Bradanini, ha agito di sua spontanea volontà oppure ha seguito precise direttive del Governo Italiano. In un momento in cui tutto il mondo è allarmato per il programma nucleare iraniano e per il sostegno di Teheran al regime siriano, mentre i maggiori alleati dell'Italia (compresa l'Unione Europea) chiedono maggiori e più incisive sanzioni contro l'Iran, l'Italia va clamorosamente in controtendenza e ipotizza addirittura un "rafforzamento delle relazioni tra Italia e Iran". La cosa è ancora più grave per il fatto che il Ministro Terzi, in qualità di ministro tecnico e non eletto, non rappresenta veramente il popolo italiano e non dovrebbe quindi prendere decisioni così delicate per il futuro della politica estera italiana.

(Rights Reporter, 10 dicembre 2012)


Netanyahu miglior candidato premier per il 64% degli israeliani

TEL AVIV, 10 dic. - La stragrande maggioranza degli israeliani, il 64%, ritiene che il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu sia il miglior candidato per tornare alla guida del governo. Lo riferisce un sondaggio pubblicato oggi dal quotidiano Haaretz, in vista delle elezioni del 22 gennaio. La centrista Tzipi Livni ottiene il 27% e la laburista Shelly Yachimovich il 17%.

(Adnkronos, 10 dicembre 2012)


I carabinieri celebrano il maresciallo Avenia

A Calestano (PR) salvò tre ebrei dalla deportazione

PARMA - Una storia quasi dimenticata, un episodio in parte sepolto dal tempo e dalla storia. Una vicenda che, però, ha portato alla salvezza una intera famiglia. Un'avventura che ci racconta di coraggio e di rispetto che, solo oggi, ritorna protagonista grazie al calendario dei carabinieri. E' la vita di Giacomo Avenia, maresciallo dei carabinieri in servizio a Calestano nel tra il 1939 e il 1945, che contribuì a nascondere e a portare in salvo tre ebrei della famiglia Mattei.

AVENIA SUL CALENDARIO - E' proprio lui, infatti, uno dei protagonisti del nuovo calendario dei carabinieri dedicato alla storia dell'Arma dal 1914 al 1964. Nella pagina dedicata al periodo della seconda guerra mondiale compare la foto del militare "parmigiano" che il 2 agosto 1999 ha ricevuto dall'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme l'alta onorificenza di "Giusto tra le nazioni" proprio per il suo impegno di solidarità. Il maresciallo era stato premiato insieme ai coniugi Ostilio e Amelia Barbieri e a don Ernesto Ollari. Insieme riuscirono a salvare una intera famiglia dalla deportazione.

LA STORIA - Durante la seconda guerra mondiale, nel periodo dell'occupazione tedesca e della Repubblica Sociale Italiana, trovarono rifugio a Calestano i tre componenti della famiglia ebrea dei Mattei, profughi da Fiume. A nasconderli, con la connivenza del maresciallo Avenia e del podestà Ugo Gennari, fu la famiglia di Ostilio e Amelia Barbieri, con i figli Giulia, Elena e Alberto. Il carabiniere arrivò anche ad affermare, durante un rastrellamento, che quella famiglia non era ebrea ma parmigiana, mettendo a rischio la propria vita. La legge marziale, infatti, prevedeva l'immediata fucilazione per chi mentiva. Ma la sua testimonianza fu cruciale e la famiglia Mattei non fu toccata. Poco dopo, però, fu lo stesso Avenia insieme a Barbieri, a finire in un campo di concentramento. Ma nonostante questo la famiglia Barbieri continuò ad assistere i Mattei, i quali si trasferirono quindi in montagna nella vicina frazione di Canesano sotto la protezione di don Ernesto Ollari, dove rimasero fino alla Liberazione.

I RICONOSCIMENTI - Una storia, come detto, quasi dimenticata. Ma di certo in tanti, nelle nostre montagne, si ricordano ancora oggi di quel maresciallo che permise di salvare la vita a tre persone. Nello stesso modo non si possono essere scordati di lui i componenti della famiglia Mattei che, anzi, lo hanno segnalato ad Israele. Ed è così che è stato possibile che il maresciallo fosse riconosciuto tra i "Giusti tra le nazioni". Non solo: nel 2000 l'ambasciatore isrealiano fece visita a Parma e volle premiare con una medaglia i parenti di Avenia che oggi si sono trasferiti in Australia.

(ParmaSera.it, 10 dicembre 2012)


Pacifici: "Alba Dorata in Italia motivo di preoccupazione"

"In Grecia Alba Dorata sta consegnando sacchi di patate e viveri alle persone in difficoltà economiche e non si è inventata niente: sta facendo quello che facevano i nazisti e i fascisti prima di prendere il potere. Un movimento Alba Dorata è nato anche in Lombardia. Sono segnali preoccupanti, è lì che dobbiamo intervenire. Ci mobiliteremo anche come Comunità perché non si tratta solo di antisemitismo, ma è il rifiuto dell'altro, del diverso, dell'immigrato". Ad affermarlo, nel corso della presentazione del calendario storico dell'Arma dei Carabinieri che ospita quest'anno una tavola speciale dedicata a quattro marescialli riconosciuti Giusti tra le Nazioni (Giacomo Avenia, Osman Carugno, Carlo Ravera ed Enrico Sibona), il presidente della Comunità ebraica di Roma e consigliere UCEI Riccardo Pacifici.
Facendo riferimento ad alcuni recenti episodi a sfondo razziale e antisemita Pacifici ha quindi sottolineato che a destare preoccupazione non sono tanto "50 ragazzetti" quanto tutte quelle persone, adulte e anziane, che li sostengono "pensando che con quell'ideologia si possano risolvere problemi".

(Notiziario Ucei, 10 dicembre 2012)


Tel Aviv-Budapest: sfilata di moda ad alta quota

Sul volo Tel Aviv-Budapest della compagnia aerea low cost Wizz Air è andata in scena la prima sfilata di moda ad alta quota. Protagonista l'ultima collezione dello stilista israeliano Philip Blau.

Video

(la Repubblica, 10 dicembre 2012)


Luce in mostra

di Daniele Liberanome

La channukkia è il pezzo di arte ebraica più diffuso nelle famiglie: la festa è molto amata, si celebra per lo più a casa e molti hanno una channukkia ricordo dalle generazioni precedenti o creata da qualche designer - bambini inclusi. Per di più, di solito è di piccole dimensioni, di materiali poveri ma duraturi. E' quindi l'oggetto ideale per raccontare la storia del nostro popolo attraverso l'arte, analizzando la diversa iconografia a seconda dei luoghi e dei tempi, le influenze del mondo circostante e fra comunità diverse. Insomma, mostre di channukkiot con un buon apparato critico sarebbero interessanti e utili. Faccio un esempio, lanciando solo spunti di riflessione: a casa di mia madre, la channukkia più interessante è quella che era stata regalata a mio nonno da Boris Schatz - fondatore a inizio Novecento della prima scuola d'arte in Israele, intitolata a Bezalel. E' semplice, in rame, su cui sono ricavati due leoni - simbolo che richiama Yehudà Hamakkabi; Schatz voleva quindi privilegiare gli aspetti militari-laici-nazionalistici della festa rispetto a quelli religiosi, come si addice a un sionista della prima ora. Nel rame aveva incastonato delle pietre azzurro/verdi di sapore orientale, a sottolineare ancora il legame con la terra di Israele e i sostanziali buoni rapporti con i vicini e l'ammirazione per la civiltà araba che caratterizzò l'atteggiamento dell'insediamento ebraico fino agli anni '20. Sono solo spunti su cui si potrebbe scrivere a lungo, dettati da una sola channukkia. Una mostra ben organizzata potrebbe arricchire chi presta, chi organizza, chi visita.

(Notiziario Ucei, 10 dicembre 2012)


Hamas: continua la resistenza armata a Israele

L'8 dicembre a Gaza, durante la cerimonia in commemorazione del 25o anniversario della fondazione del Movimento di resistenza islamica palestinese (Hamas), le Brigate di Al Qassam, braccio armato di Hamas, hanno annunciato che continueranno ad attuare resistenza armata all'occupazione israeliana.
All'incontro, tenutosi lo stesso giorno, erano anche presenti l'alto leader di Hamas Khaled Meshaal e i leader dell'organizzazione in esilio. Il 7 dicembre Meshaal, dopo tanti anni d'esilio, è giunto per la prima volta sulla Striscia di Gaza dal valico di Rafah, tra l'Egitto e Gaza.

(CRI online, 10 dicembre 2012)


La Repubblica islamica di Gaza

di Fabio Scuto

Più che una festa per il 25esimo anniversario di Hamas, il grande raduno di oggi nella piazza che una volta si chiamava Al Katiba - e che gli islamici hanno ribattezzato Green Square in onore del colore delle loro bandiere - sembrava la celebrazione di una nascita: quella della piccola Repubblica islamica di Gaza. In duecentomila sventolando le bandiere verdi hanno ascoltato per ore, canti e discorsi dei leader integralisti che sul palco alle loro spalle avevano una gigantesca riproduzione di un missile M-75, simile a quelli sparati contro Tel Aviv e Gerusalemme. La guerra dei 9 giorni dello scorso novembre e i suoi esiti - con il cessate-il-fuoco sostenuto dall'Egitto - ha definitivamente sdoganato il gruppo islamico integralista che governa la Striscia del 2007, gli ha fatto assumere credibilità e peso nel mondo arabo dopo decenni di marginalità rispetto all'Olp di Yasser Arafat prima e quello di Abu Mazen adesso. A Gaza sono venuti i primi ministri di Egitto e Tunisia, gli ambasciatori di diversi Paesi arabi e quelli della Lega, adesso è tutto un via vai di delegazioni. Per questa festa, che coincide con la "vittoria" e il ritorno di Khaled Meshaal dopo 45 anni di esilio, è stata forzata anche la nascita di Hamas che in realtà venne fondato non l'8 ma il 14 dicembre 1987. Ma sarebbe passato troppo tempo e la scena la scorsa settimana è già stata occupata dalla vittoria all'Onu del presidente Abu Mazen e della linea moderata dei laici di Ramallah. Ma questa "vittoria", tanto decantata, è su una Striscia in macerie, con le strade invase dall'acqua che continua a uscire dalle condutture bucate e dall'immondizia, con un milione di persone che per vivere dipende dalle Nazioni Unite. Ma su questo Hamas sorvola.
Piace invece mettere l'accento sull'attività del premier, dei suoi ministri e dei suoi dipartimenti ormai consolidati. Hamas ha la sua guardia di frontiera, esige un visto per entrare a Gaza, ha la sua polizia, dispone una forza armata di notevoli dimensioni e di un arsenale da far impallidire un Paese europeo di media grandezza. La giustizia dal 2007 viene applicata secondo i dettami della Sharia, come fonte del diritto. Manganello in una mano e Corano nell'altra, agli abitanti della Striscia è stato imposto il rigore islamico. Hamas riscuote poi le tasse sulle merci in entrata, anche su quelle di contrabbando che passano nei tunnel sotto il confine con l'Egitto. Gaza ha ormai la sua politica estera, non più basata sugli "Stati canaglia" come la Siria o l'Iran. L'Egitto dei Fratelli musulmani ha riaperto il valico di Rafah e questo favorisce molto la Striscia rispetto alla Cisgiordania, perché è un ingresso diretto. Nessuna delegazione araba potrà mai andare a Ramallah da Abu Mazen senza il permesso degli israeliani che controllano la frontiera di accesso dalla Giordania. Ecco perché gli alberghi di Gaza City sono affollati in questi giorni da imponenti delegazioni da Qatar, Bahrain, Egitto, Kuwait, Giordania, Arabia Saudita, Libano, Marocco, Algeria, Malaysia, Indonesia, Mauritania, Tunisia, Libia. Tutte passate attraverso il valico di Rafah e venute a omaggiare questo fronte dei "duri e puri", che non crede nel negoziato di pace, che si batte per una Palestina dal Giordano al Mediterraneo, che non riconosce l'esistenza di Israele, che non riconosce l'autorità dell'Anp e tantomeno quella del presidente Abu Mazen. Nome mai pronunciato in questi giorni, quasi fosse maledetto, né dal premier di Hamas Ismail Haniyeh né dagli altri leader islamici. Anche il pragmatico Khaled Meshaal quando parla di lui preferisce la dizione: "il fratello Abu Mazen".

(la Repubblica blog, 8 dicembre 2012)


Channukkà 5773, accensione delle luci a Trani

Lunedi 10 dicembre il Rav Shalom Bahbout accenderà le luci di Chanukkà presso la Sinagoga Scolanova di Trani.
Festa della riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei Maccabei, Chanukkà simboleggia l'orgoglio culturale e nazionale del popolo ebraico, sia nella Diaspora che nello Stato d'Israele.
Lunedì 10 dicembre alle ore 17,15 presso la Sinagoga Scolanova di Trani avrà luogo la celebrazione della festa di Chanukkà dell'anno ebraico 5773.
La festa di Chanukkà dura otto giorni (quest'anno comincia al tramonto di sabato 8 dicembre) e venne istituita 2.200 anni or sono per ricordare la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei Maccabei dopo che gli ellenisti di Siria avevano conquistato la città santa, profanandone l'altare con culto idolatrico. La prima azione dei Maccabei (la famiglia sacerdotale che aveva guidato la rivolta) fu quella di accendere la Menorà, il candelabro a sette braccia; ma per fare questa operazione era necessario disporre di olio incontaminato.
La tradizione afferma che dopo meticolose e affannose ricerche fu trovata una piccola ampolla contenente olio puro, che per quanto fosse sufficiente per un solo giorno, durò ben otto giorni.
E' questa l'origine dell'uso di accendere nelle case e nelle sinagoghe lumi dopo l'uscita delle stelle di sabato 8 dicembre per otto giorni consecutivi, ponendo i lumi all'esterno o alla finestra, in modo che i passanti possano vederli.
Negli ultimi anni è invalso l'uso di accendere questi lumi anche in una delle piazze principali della città, quest'anno l'accensione avverrà pubblicamente in quattro città del Meridione: Napoli, Reggio Calabria, Palermo e Trani, unica città in tutta la Puglia.
Dopo la preghiera della sera si procederà all'accensione del terzo lume di Chanukkà.
Quest'anno Chanukkà è la prima festa religiosa ebraica che cade dopo il recente conflitto in Medio Oriente; per l'occasione numerosi ebrei di Puglia saliranno a Trani per partecipare a quella che è considerata una delle più belle ricorrenze religiose e nazionali del popolo d'Israele.
Dopo l'accensione delle luci Rav Shalom Bahbout, rabbino capo di Napoli e Italia meridionale, terrà una lezione sul tema: "Chanukkà: ognuno accenderà il proprio Candelabro senza negare quello dell'altro".
In vista di una migliore preparazione alla festa di Channukkà, il Rav Shalom Bahbout, Rabbino Capo di Napoli e Italia Meridionale, ha diffuso il seguente scritto:
    "Un candelabro davanti al Mondo "La civiltà greca era già riuscita a imporsi in tutto il bacino mediterraneo: comunque si voglia intendere questa storia, è chiaro che si trattò della vittoria di una piccola truppa, pronta a ogni sacrificio pur di non svendere la propria identità culturale di fronte a un nemico molto più numeroso e agguerrito.
    Questa "globalizzazione" culturale non incontrò alcuna resistenza in tutto il mondo dell'epoca, anzi fu accolta come portatrice di nuova luce: gli unici a opporsi a questa colonizzazione furono i Maccabei.
    Il debito che il mondo e le religioni devono ai Maccabei è enorme: scrive il grande filosofo e matematico Bertrand Russel che se non fosse stato per la resistenza opposta dai Maccabei non ci sarebbero stati né il Cristianesimo né l'Islamismo.
    Ci chiediamo però se il messaggio che i Maccabei volevano trasmettere è stato davvero recepito dal mondo; i popoli hanno fatto propria l'idea che l'identità spirituale, culturale e storica di un popolo è la cosa più preziosa che detiene e che non deve essere violentata da altri? L'idea che la verità dell'altro è rispettabile quanto la propria è diventata veramente retaggio di tutti?
    La risposta a queste domande purtroppo non può che essere negativa e la perdurante crisi in Medio Oriente ne è una prova.
    La negazione di eventi storici rilevanti e fondanti del popolo ebraico da parte del mondo arabo e islamico è una delle affermazioni più incredibili e fantasiose cui abbiamo assistito negli ultimi anni: il Tempio costruito dal re Salomone (là dove i Musulmani molti secoli dopo costruirono la Moschea di Al Akza e di Omar) non sarebbe mai esistito, Gerusalemme (città che non viene mai ricordata nel Corano) non sarebbe mai stata capitale del popolo ebraico.
    Si tratta non solo di una "ricostruzione fantasiosa" della Storia, ma anche un segno evidente della mancanza di riconoscenza di quanto il popolo ebraico ha dato al mondo, negando così il debito religioso e culturale che questi popoli hanno nei confronti del popolo ebraico.
    Questo negazionismo (che si associa a quello della negazione della Shoah) è alla base di quanto è avvenuto nella recente guerra scatenata dai palestinesi a Gaza (evacuata da anni spontaneamente da Israele e con la quale Israele non ha nessun contenzioso territoriale), dopo che Hamas per mesi e mesi ha aggredito con razzi lanciati da Gaza la popolazione civile israeliana .
    Il rifiuto e la negazione di Israele, iniziata con i massacri del 1929 di Hevron (città in cui gli ebrei risiedono da oltre 3.000 anni), continuò con la guerra lanciata contro lo Stato d'Israele dopo la proclamazione dell'Indipendenza nel 1948: l'emigrazione forzata di 1.000.000 di ebrei dai Paesi arabi hanno completato il rifiuto arabo e musulmano nei confronti del popolo del Libro, cui le altre due religioni monoteiste si sono ispirate.
    La lezione di Chanukkà deve essere ancora recepita da quella parte del mondo che continua ad aggredire verbalmente Israele negandone la storia, le persecuzioni e le discriminazioni subite.
    Oggi come allora gli ebrei in terra d'Israele sono rimasti gli unici ad accendere la lampada della libertà e della democrazia, del riconoscimento del diritto degli altri ad esprimere la propria identità, tanto che nel suo Parlamento siede una folta rappresentanza della minoranza araba.
    Ancora una volta "i pochi contro i molti" sono stati costretti a far uso delle armi, rinunciando all'uso della parola che ha sempre caratterizzato la cultura ebraica.
    Non è un caso che lo Stato d'Israele abbia assunto come suo simbolo la Menorà, il Candelabro affiancato da due rami d'ulivo. Il candelabro è il simbolo della luce primordiale che il Creatore stesso ha dato al mondo nel momento della Genesi ("Dio disse sia la luce e la luce fu"); l'ulivo è il simbolo della pace e della fine di ogni guerra e ricorda l'ulivo che la colomba portò a Noè alla fine del Diluvio universale.
    Chanukkà è sempre attuale: la resistenza di Israele per circa quattromila anni è una testimonianza del fatto che l'insegnamento dei Maccabei non è stato vano e che Israele vuole preservare intatta la propria cultura, basata sulla luce e sulla pace.
    Quest'ultima sarà raggiunta solo quando i palestinesi capiranno che i loro veri alleati sono gli ebrei che abitano in Israele.
    Nonostante gli eventi tragici di questi ultimi mesi, nonostante le aggressioni cui sono stati soggetti, anche quest'anno gli ebrei accenderanno il Candelabro nella Diaspora e in Israele. E l'accensione verrà ancora una volta fatta pubblicamente, nella la speranza che i suoi detrattori e nemici riconoscano l'insegnamento che è celato nella luce che da esso emana: come gli ebrei, così ogni popolo potrà così accendere la propria Chanukkà, senza spegnere quella degli altri."
(TraniNews, 9 dicembre 2012)


Sindrome da mancanza di Natale (s.m.n.)

di Francesca Matalon

Le città si accendono di lucine colorate, le strade si affollano di grandi sacchetti pieni di meraviglie, le radio trasmettono canzoni allegre fino a non poterne più, alberi dai frutti di cristallo spuntano da tutte le parti. E le amiche cominciano a manifestare i primi sintomi della sindrome da mancanza di Natale, che ogni anno a quest'epoca fa la sua comparsa come un'influenza stagionale. "Perché noi non possiamo godere dello stesso calore e mangiare biscottini davanti al caminetto scartando regali?", chiedono. Piuttosto diffusa, la s.m.n. colpisce gli ebrei un po' in tutto il mondo da più di un secolo, da quando cioè ha avuto inizio questa tanto odiosa commercializzazione del Natale. Il risultato di tutto ciò è stato che, un po' per consolazione un po' per ripicca, anche Hannukkah non ha tardato a subire la stesso processo, trasformandosi da piccola ricorrenza in grosso evento, in modo da rendere le vacanze invernali un periodo ugualmente eccitante per tutti. La massima espressione del fenomeno si ha naturalmente negli Stati Uniti, come testimonia una vasta bibliografia, in cui compaiono titoli estrosi come A Kosher Christmas: 'Tis The Season To Be Jewish o Hanukkah in America: A History. Ma la novità è che questa tendenza, con le luminarie di Hannukkah che affiancano sempre più spesso quelle natalizie e l'ingrandirsi di anno in anno del reparto oggettistica di Hannukkah dei grandi magazzini, con trottole, CD di musiche tipiche e monete di cioccolato, si è accresciuta a tal punto da aver incredibilmente suscitato addirittura l'invidia di quelli che hanno sempre festeggiato Natale. Complice anche il fatto che nelle scuole si parla sempre sia dell'una sia dell'altra festività, i giornali raccontano di come sia ormai comune che bambini non ebrei tornino a casa lamentandosi di non poter celebrare Hannukkah e facendo i capricci per farsi comprare un candelabro. Per il momento questa nuovissima sindrome da mancanza di Hannukkah riguarda solo l'America, ma chissà che presto non si diffonda anche in Europa. E forse così le vittime della s.m.n. si sentiranno un po' meno incomprese.

(Notiziario Ucei, 9 dicembre 2012)


Forse parrà strano a qualcuno, soprattutto in Italia, ma esistono cristiani evangelici che non festeggiano affatto il Natale, per il semplice fatto che una festa di questo tipo non si trova scritta da nessuna parte nella Bibbia e, anzi, si ritiene sia di derivazione pagana fin dall’origine. Alla s.m.n., in forma lieve o acuta secondo i casi, possono dunque essere stati soggetti anche bambini cresciuti in qualche famiglia evangelica, tra cui i figli di chi scrive. Ai quali per di più in questo periodo non solo è mancata la consolazione di una festa ebraica come quella di hanukkah, ma hanno dovuto anche affrontare, con il supporto terapeutico dei genitori, la s.m.s.l., “sindrome da mancanza Santa Lucia”, festa “cristiana” in cui i bambini cattolici ricevono regali in onore della suddetta. M.C.


Haniyeh: Israele non restera' in Palestina

GAZA - "L'occupante non restera' su questa terra", ovvero i Territori palestinesi. Cosi' il primo ministro di Hamas a Gaza Ismail Haniyeh si e' rivolto alle decine di migliaia di persone riunite in occasione del 25esimo anniversario della nascita del movimento islamico. Hamas, ha proseguito Haniye, "ha migliaia di combattenti, sopra e sotto il terreno. Siamo pronti a respingere qualsiasi aggressione israeliana. L'occupante non restera' su questa terra", intendendo i Territori palestinesi occupati da Israele.
Haniyeh ha poi ricordato Ahmed al-Jabari, comandante delle brigate al-Qassam ucciso il 14 novembre in un raid israeliano, come un "martire", definendo non solo un leader di Hamas, ma "un grande leader della nazione araba". Il premier di Hamas ha quindi ringraziato l'intero mondo arabo per essersi schierato dalla parte dei palestinesi durante gli otto giorni di conflitto con Israele, affermando che Hamas "formulera' una strategia araba e islamica per la liberazione della Palestina".

(Adnkronos, 8 dicembre 2012)


Si potrebbe pensare che simili bellicose dichiarazioni di un attuale governante del nuovo “stato palestinese” dovrebbero “preoccupare” il Segretario generale delle Nazioni Unite, ma non è così: le sue “preoccupazioni” sono altre:

"E' con grave preoccupazione e disappunto che il Segretario generale ha appreso dell'annuncio israeliano di 3.000 nuove unità abitative a Gerusalemme Est e in altre zone della Cisgiordania - si legge in un comunicato diffuso dal suo portavoce - questo comprenderebbe anche il progetto nella cosiddetta area E1, che rischia di tagliare completamente Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania. Gli insediamenti sono illegali nel diritto internazionale e, se dovesse essere costruito l'insediamento E1, questo rappresenterebbe un colpo quasi fatale alle possibilità che ancora ci rimangono di garantire una soluzione con due Stati".

E se la soluzione con due Stati non potrà essere garantita, vorrà forse dire che ci dovrà essere uno Stato solo? A quale pensa il Segretario delle Nazioni Unite? M.C.


I genetisti israeliani hanno allevato una nuova varietà di frutta pitaya

Da 20 anni gli scienziati tentano di selezionare una varietà di pitaya che sarà non solo bella, ma anche buona. La tropitaya, così è il nome della frutta del professore Yosi Mizrahi dall'Università Ben-Gurion e dell'agronomo Yosi Tsafrir dal paese Bilu, ha superata tutte le previsioni. Ha uno stupendo gusto tropicale agrodolce, il colore di un vivo viola - purpureo e la polpa carnosa assomiglia al kiwi.
La tropitaya è un pozzo di salute, considerato uno dei più utili prodotti esistenti nella natura.

(La Voce della Russia, 8 dicembre 2012)


Fiamma Nirenstein invia un messaggio di saluto al Convegno Internazionale EDIPI

Non potendo per motivi familiari partecipare di persona all’ultimo Convegno Internazionale di EDIPI, a cui era stata invitata come oratrice, l’onorevole Fiamma Nirenstein ha inviato al presidente Ivan Basana un messaggio di saluto e augurio.

Roma, 7 dicembre 2012
Carissimo Ivan, carissimi amici dell'EDIPI,
è vero come dice Marcello nella sua lettera: la vostra forza è grande il vostro amore caloroso ed incoraggiante. Mi capita molte volte di pensare a voi come a una grande consolazione nella solitudine della battaglia per sostenere Israele, la battaglia più grande, più santa, più difficile.
Non ripeto a voi, che siete certamente vicini a me, a noi ebrei, a Israele in questo, la delusione immensa, la rabbia e persino il disgusto per il voto all'ONU. Dalla mia posizione in Parlamento, in particolare ho sentito un sentimento di incredulità alla decisione di Palazzo Chigi, e anche una sensazione di autentico tradimento: dopo anni di amicizia con Israele che si sono tradotti in molti importanti gesti istituzionali, visite, manifestazioni, leggi, voti in Aula e in Commissione, il Governo ha completamente scavalcato il Parlamento e reso nulla tutta la politica estera da esso prescelta. Sto seguitando a promuovere iniziativa di dura protesta per questo, abbiamo un documento firmato da 100 deputati del PDL che verrà presentato oggi alla stampa, martedì non mancheremo di protestare durante l'audizione del ministro degli Esteri, ma purtroppo la menzogna che si è trattato di un gesto favorevole alla pace trova la sua eco nell'azione politica che si rinnova come anni fa a favore dei palestinesi, senza conoscenza dei fatti, senza critica per il continuo rifiuto di riconoscere Israele, senza osservare i sostegno di Abu Mazen alla violenza e al terrorismo. Non devo dire a voi quanto sia falsa l'idea che il voto all'ONU aiuterà la pace, è così evidente il contrario: se la trattativa viene allontanata e si sostiene il radicalismo palestinese che rifiuta di sedersi con Israele e di riconoscere quindi lo Stato ebraico come interlocutore, non si spinge avanti la pace, ma la guerra e il terrore, ed è quello che accadrà.
Io so che voi resterete sempre accanto a Israele, accanto allo Stato Ebraico, e siamo certi che comunque solo il riconoscimento della sua esistenza potrà portare alla pace, e niente altro. Voi siete i nostri coraggiosi compagni di lotta, vi auguro il più grande successo per il vostro congresso e sono così personalmente dispiaciuta che la mia situazione familiare mi abbia impedito di essere con voi. Sarebbe stato il mio più grande piacere, il mio riposo e la mia gioia. E' così difficile trovarsi fra amici, e lo diventa sempre di più.
Sappiate comunque che è in discussione sia una mozione sulla messa degli Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroriste, sia una per la completa revisione di fondi ai palestinesi. Il lavoro continua anche nella delusione, anzi, la durezza della lotta ci rinforza.
Un abbraccio cari amici, buon lavoro,
On. Fiamma Nirenstein

(Notizie su Israele, 8 dicembre 2012)


L'Alijah e Israelologia

Pomezia, Convegno Internazionale, EDIPI, 7 dicembre, 2012

di Rinaldo Diprose PhD
Istituto Biblico Evangelico Italiano

Carlo Antonio Zanini
Il ritorno degli Ebrei nella Terra Promessa (eb. alijah) è una forte prova della fedeltà di Dio e del perdurare dello status di elezione del popolo d'Israel. Accennato già nella Legge di Mosè (Le 26:44-45) e profetizzato dai profeti d'Israele, il ritorno degli Ebrei nella Terra Promessa ha origine nel pensiero di Dio e la sua realizzazione è un'opera di Dio. A questo proposito, nel 1985 Benjamin Netanyahu (all'epoca ambasciatore israeliano all'ONU) disse: "Il Sionismo è l'adempimento di antiche profezie".
In una delle queste antiche profezie a cui Netanyahu fa riferimento, l'alijah figura come una cosa così certa da figurare come un esempio della fedeltà di Dio che si manifesta in opere potenti nella storia d'Israele. Ecco le parole del profeta Geremia: "«Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui non si dirà più: 'Per la vita del Signore che condusse i figli d'Israele fuori dal paese d'Egitto', ma: 'Per la vita del Signore che ha portato fuori e ha ricondotto la discendenza della casa d'Israele dal paese del settentrione, e da tutti i paesi nei quelli io li avevo cacciati; ed essi abiteranno nel loro paese»" (Gr 23:7-8). Ai tempi nostri l'Alijah è ancora in corso, però possiamo già celebrare la fedeltà di Dio nei termini descritti da Geremia.

Ci credeva anche l'evangelista italiano Carlo Antonio Zanini centoquarantacinque anni fa quando si incontrò con alcuni rabbini, fra cui Marco Mortara, nella biblioteca di Mantova, per dialogare su temi biblici. Uno di questi temi fu il ritorno di Israele nella Terra Promessa. Va ricordato che a quei tempi (1867-1872) la situazione storico-politica del Medio Oriente sembrava escludere la possibilità dell'Alijah, a motivo del dominio dell'impero Ottomano. Ma simili ostacoli non sono un ostacolo alla Divina Provvidenza! Intanto, forse influenzato dal dominio ottomano, un Concilio di rabbini tenuto a Vienna nel 1871, patronato dalla sinagoga di Wasserstrasse), deliberò che gli ebrei non dovevano pensare più a un ritorno nella terra dei loro padri, piuttosto avrebbero dovuto approfittare della Diaspora per diffondere l'idea di fratellanza fra le nazioni. A Mantova tre posizioni sull'argomento emersero:
  • Il rabbino capo, Marco Mortara, rispecchiando le convinzioni espresse a Vienna, escluse un ritorno d'Israele nella Terra Promessa. Anche un osservatore cattolico, influenzato dalla teologia della sostituzione, escluse l'Alijah.
  • Giuseppe Jaré (in seguito rabbino capo a Ferrara) all'epoca si astenne dall'esprimere un'opinione ma anni dopo espresse l'opinione che "nella pienezza dei tempi" gli ebrei sarebbero tornati in patria per mezzo della Divina Provvidenza.
  • Lo Zanini, sulla base delle Scritture profetiche (ne citò ben 43 brani), espresse la convinzione che Israele sarebbe tornato in patria prima della fine dei tempi, in uno stato di incredulità. Citava brani come Ezechiele 36:23-25: "le nazioni conosceranno che io sono il SIGNORE, dice il Signore Dio, quando io mi santificherò in voi, sotto i loro occhi. Io vi farò uscire dalle nazioni, vi radunerò da tutti i paesi, e vi ricondurrò nel vostro paese; vi aspergerò d'acqua pura e sarete puri; io vi purificherò di tutte le vostre impurità e di tutti i vostri idoli". Lo Zanini era convinto che la sua generazione avrebbe visto i primi segni di quest'adempimento, il che avvenne. Infatti lo Zanini era ancora in vita al tempo del primo congresso sionista di Basilea nel 1897, evento che lui commentò sulla rivista Italia Evangelica (XVII/42, 16 ottobre 1897).
Intanto, dieci anni prima, ad Alessandria (nel 1886-1888), lo Zanini, convinto com'era che l'Alijah faceva parte del piano di Dio per Israele, aveva tentato di lanciare una fratellanza, a carattere internazionale, in favore degli Ebrei, per assisterli nel loro ritorno in patria. Furono le sue convinzioni bibliche, oltre che la sua sensibilità umana a portarlo ad occuparsi di questo progetto. Sono le stesse motivazioni che, 125 anni dopo, spronano le persone presenti a questo Raduno Internazionale organizzato dall'EDIPI a interessarsi dell'Alijah. Purtroppo lo Zanini dovette abbandonare il progetto 125 anni fa a motivo della forte opposizione della comunità ebraica! ma Dio avrebbe guidato altri, Sionisti, ebrei e cristiani, a intraprendere simili progetti e quindi a essere partecipi nella realizzazione di quanto profetizzato dai profeti.
Il mio corso "Israele e la chiesa", in dodici lezioni (disponibile dall'IBEI, segreteria@ibei.it) comprende alcuni lezioni di Israelologia biblica e altre sugli sviluppi che hanno visto la Cristianità trascurare il piano di Dio per questo popolo e l'importanza dei due avventi del Messia. Il corso può essere seguito sia da persone singole sia da gruppi di persone che desiderano acquisire una conoscenza matura sull'argomento, in una prospettiva biblica.

(Notizie su Israele, 8 dicembre 2012)


Hamas rifiuta ogni concessione a Israele

Leader Meshaal: "Non cederemo neanche un centimetro di Palestina. Vogliamo l'unità sotto l'Olp"

Khaled Meshaal rifiuta ogni concessione a Israele sulla Palestina: lo ha affermato lo stesso leader di Hamas, a Gaza per il 25/o anniversario della nascita del movimento integralista. Lo riferiscono i media locali. "Noi siamo una sola Autorità, l'Olp è il nostro riferimento e vogliamo l'unità", ha anche proclamato Meshaal.
Khaled Meshal, il leader di Hamas, ha escluso qualsiasi tipo di concessione territoriale sulla Palestina e anche qualsiasi riconoscimento di uno Stato ebraico. "La Palestina è la nostra terra e nazione, dal mar Mediterraneo al fiume Giordano, dal nord al sud, e non possiamo cedere neanche un centimetro di essa", ha detto durante l'oceanico raduno palestinese a Gaza, in occasione del 25esimo anniversario della fondazione di Hamas.
"Non possiamo riconoscere la legittimazione dell'occupazione della Palestina né riconoscere Israele", ha aggiunto Meshaal, arrivato a Gaza nella sua prima visita nell'enclave palestinese dopo 45 anni di esilio. Decine di migliaia i palestinesi che si sono radunati nel centro di Gaza per ascoltare il discorso del suo massimo leader politico.

(TGCOM.it, 8 dicembre 2012)


Hamas celebra attacchi suicidi, odio e guerra senza fine

GERUSALEMME, 8 dic. - "Cosa celebra oggi Hamas?". Via Twitter, l'Idf, l'Esercito israeliano, risponde polemicamente alle manifestazioni che stanno avendo luogo oggi nella Striscia di Gaza, per l'avvio delle celebrazioni del venticinquesimo anniversario della nascita del movimento palestinese di Hamas. "Attacchi suicidi; attacchi con razzi; incitamento al genocidio; repressione; guerra senza fine", si legge in un'immagine allegata al tweet dell'Idf, accompagnata dall'hashtag #HamasCelebrates. L'Idf invita anche i suoi 'followers' a ritwittare il tweet, per "mostrare al mondo la verita'" su hamas.

(Adnkronos, 8 dicembre 2012)


Leggende e falsificazioni sulla guerra Hamas-Israele (I Parte)

Sulla carta è stato sottoscritto un cessate il fuoco fra Israele e Hamas, ma l'evidenza empirica suggerisce che non reggerà a lungo. Il leader del Jihad Islamico palestinese ha già precisato di recente che la tregua sarà breve e che un nuova sanguinosa fase di combattimenti incombe. L'accordo individua nel Cairo il garante della pace, anche se il presidente Mohammed Morsi e membri del suo governo hanno apertamente incoraggiato e sostenuto Hamas durante la guerra.
Il cessate il fuoco verosimilmente rafforzerà Hamas, che lo considera un successo nei confronti di Israele. La storia evidenzia che le tregue non impediscono ad Hamas di continuare ad attaccare Israele. Inoltre, la stessa ammissione dell'Iran di fornire ai terroristi armi perfezionate chiarisce il crescente sforzo di Teheran per destabilizzare lo stato ebraico. Alla fine, questo cessate il fuoco rappresenta soltanto una pausa nei combattimenti, non l'inizio di una pace duratura. E questo per almeno dieci motivi, che discuteremo oggi e nei prossimi giorni.

1. HAMAS ADERIRA' AL CESSATE IL FUOCO

Hamas ha accettato di sottoscrivere un cessate il fuoco. Il nome arabo di questa azione è hudna, che ha un significato ben diverso da quello assegnatogli dal mondo occidentale. Una hudna comporta una pausa temporanea nelle violenze che fornisce ad Hamas il tempo necessario per riorganizzarsi e per armarsi, in vista di un nuovo conflitto. E' ben diverso da un cessate il fuoco, poiché è un accordo per arrestare le ostilità per un definito arco di tempo: non certo un accordo di pace.
E' ignota la durata di questa hudna, e possiamo star certi che i combattimenti riprenderanno non appena Hamas deciderà in tal senso. La hudna è cosa ben diversa dall'espressione sul d'aim, che implica una pace permanente e il riconoscimento del diritto all'esistenza da parte dei rivali non musulmani.
Hudna è stata la prima parola impiegata nella storia dell'Islam per descrivere una tregua: se ne trova traccia in un trattato del VII secolo di al-Hudaybiyya, che faceva riferimento ad una tregua dopo sei anni che Maometto e i suoi seguaci abbandonarono la Mecca per Medina. Questo accordo consentì a Maometto di pregare alla Mecca, allora sotto il controllo della tribù Quraysh, per dieci anni. Ma quando l'esercito di Maometto divenne sufficientemente forte, due anni dopo la stipula del patto sfruttò un attacco della tribu Banu Bakr allineata ai Quraysh come pretesto per lanciare a questi un ultimatum per sconfessare i loro alleati, o per pagare i danni per i loro attacchi nei confronti del musulmani, pena l'annullamento della tregua. I Quraysh optarono per quest'ultima opzione, e Maometto marciò sulla Mecca e conquistò facilmente la città.
Questo evento creò un precedente, giustificando l'abbandono delle operazioni allo scopo di riorganizzarsi e riarmarsi, consentendo un futuro attacco sul territorio lasciato alle spalle. Il leader dell'OLP Yasser Arafat alludeva al Trattato di al-Hudaybiyya nel 1994 in un discorso a Johannesburg, in Sudafrica, nel suggerire che una pace con Israele non poteva che essere temporanea.

La storia ha dimostrato che Hamas sottoscrive questa tesi, e che usa l'hudna come pausa temporanea nei combattimenti, prima di riprendere le ostilità. Nel giugno 2003, Hamas annunciò una hudna con Israele, ma due mesi dopo pose drammaticamente fine alla tregua con un attentato suicida a Gerusalemme che uccise 22 persone e ne ferì oltre 130. Allo stesso modo, le operazioni israeliane a Gaza a fine 2008 furono seguite da una hudna. Ma dopo il cessate il fuoco, Hamas riprese presto a sparare missili contro Israele, in una escalation che ha portato ai drammatici attacchi terroristici degli ultimi mesi.
L'interpretazione moderna della hudna sostiene che non ci sarà termine alla lotta ideologico-religiosa fino a quando Israele sarà annichilito. Lo comprova una convenzione: «Non c'é soluzione alla questione palestinese al di fuori del Jihad. Iniziative, proposte e conferenze internazionali sono solo una perdita di tempo e uno sforzo vano». Lo sceicco cofondatore di Hamas Ahmed Yassin considerava la hudna una «mossa tattica» nella guerra contro Israele. Nel contemplare la prospettiva di una pace con Israele all'inizio di quest'anno, il leader di Hamas Moussa Abu Marzook evidenziava che il suo movimento era disposto ad una hudna con Israele, ma che al contempo non era disposto a rinunciare all'obiettivo finale della distruzione dello stato ebraico.

Fonte: The Investigation Project on Terrorism.

(Il Borghesino, 8 dicembre 2012)


Israele: massima allerta al nord. Possibili azioni contro armi chimiche siriane

di Sarah F.

E' massima allerta lungo il confine nord di Israele. Le voci che danno gli ordigni chimici siriani innescati e pronti all'uso non fanno dormire sonni tranquilli agli israeliani. Il rischio che quelle armi vengano usate contro obbiettivi israeliani o cedute a Hezbollah è troppo alto per sottovalutarlo.
Da mesi Israele tiene sotto controllo i depositi di armi chimiche siriane che nelle scorse settimane sono statti spostati più volte. Di recente c'è stato un preoccupante avvicinamento al confine con il Libano e, secondo fonti di intelligence, con gli uomini di Assad ci sarebbero anche miliziani di Hezbollah a presidiare i depositi. Questo farebbe pensare che nel caso la situazione precipitasse ulteriormente il gruppo terrorista libanese sarebbe pronto a prendere in consegna gli arsenali chimici siriani.
Ma c'è un altro rischio che a Gerusalemme non sottovalutano, quello che il dittatore siriano vistosi finito e sotto fortissima pressione iraniana decida di usare le sue armi chimiche contro Israele. Se prima non lo ha mai fatto per paura della reazione israeliana, adesso lo potrebbe fare anche perché la ritorsione di Gerusalemme non lo colpirebbe, specie se nel frattempo ha lasciato la Siria. Farebbe l'ultimo grande favore agli Ayatollah e a Hezbollah che in tutti questi mesi non lo hanno mai abbandonato e che probabilmente anche ora gli garantiscono sicurezza e sopravvivenza per lui e per la sua famiglia.
E' anche per questo motivo che nei giorni scorsi Israele ha chiesto alla Giordania l'uso del suo spazio aereo nel caso in cui si renda necessario colpire i depositi chimici siriani. Per il momento Amman ha risposto negativamente, ma visti gli ultimi sviluppi non è escluso che ci ripensi, magari non ufficialmente.
Intanto la 1a Brigata di Fanteria Golani è in stato di massima allerta, pronta a reagire a qualsiasi attacco che provenga dalla Siria o dal Libano. La disperazione di Assad potrebbe portarlo a fare atti gravissimi che non possono cogliere impreparati gli apparati difensivi israeliani. E si sa, Israele è sempre il bersaglio preferito dei disperati dittatori islamici.

(Rights Reporter, 8 dicembre 2012)


Shock in Svezia, artista accusato per aver dipinto con le ceneri delle vittime della Shoah

L'arte può e in certi casi deve essere dissacrante, ma qual'è il limite di tale profanazione? Si tratta di una domanda più che lecita se si prendono in considerazione alcune opere di Carl Michael von Hausswolff, artista svedese accusato di aver violato la dignità e la memoria delle vittime della Shoah. La ragione del rimprovero verrebbe da almeno un quadro (nella foto), dipinto dal creativo diluendo le ceneri sottratte durante una visita del 1989 al crematorio del campo di concentramento di Majdanek, nel quale morirono durante la Seconda Guerra Mondiale almeno 250,000 persone, provenienti da tutta Europa.
La notizia, proveniente dal quotidiano britannico The Telegraph, sarebbe saltata "all'onore delle cronache" proprio in questi giorni in coincidenza con l'esposizione dell'opera in una galleria di Lund. La mostra, fortemente difesa dal proprietario del luogo Martin Bryder, ha provocato le ire di Salomon Schulman, noto esponente della comunità ebrea locale che, avendo perso numerosi cari nell'olocausto, non ha esitato a condannare il lavoro di von Hausswolff ricordando che forse anche un po' della sua famiglia si trova in quel quadro shoccante.

(Arts blog.it, 8 dicembre 2012)


Predicatore salafita loda la nuova Carta costituzionale egiziana

IL CAIRO, 7 dic. - "Questa Costituzione ha più vincoli sui diritti di qualsiasi altra in Egitto. Questo Paese non sarà una democrazia che permetterà ciò che Dio vieta o vieterà ciò che Dio permette". Lo ha detto, a proposito della nuova Carta costituzionale egiziana. lo sceicco Yasser Borhami, noto predicatore salafita e membro dell'Assemblea costituente che l'ha redatta.
Parlando ad altri religiosi, ha detto che la Carta è ciò che da tempo tutti loro volevano, perché assicura che le leggi e i diritti saranno strettamente subordinati alla Sharia. La bozza è al centro di violente proteste in tutto il Paese, perché potrebbe portare alla più rigida applicazione della legge islamica che l'Egitto moderno abbia sperimentato. Questo dipende in particolare da tre articoli che menzionano apertamente la Sharia, ma anche dall'oscuro linguaggio legale nascosto in altri articoli inclusi su spinta degli islamisti.

(LaPresse, 7 dicembre 2012)


Fiamma Nirenstein, cento deputati contro Monti sul voto pro-Palestina

ROMA, 7 dic - ''E' con profonda soddisfazione che vedo riconosciuta nelle 100 firme dei deputati del Pdl valore politico di un'opposizione decisa contro la scelta di Palazzo Chigi di votare il 29 novembre all'Onu per la dichiarazione unilaterale di uno Stato palestinese osservatore''. Lo dichiara in una nota Fiamma Nirenstein. ''La lettera aperta, di cui e' primo firmatario Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, critica la metodologia e il contenuto della scelta governativa - spiega la deputata del Pdl - e la metodologia: e' stata completamente ignorata l'impostazione politica del Parlamento che questo governo dovrebbe rappresentare ed e' anzi stata capovolta. In secondo luogo appare del tutto incoerente con l'impostazione italiana che promuove il processo di pace tramite il negoziato l'avere avvallato il rifiuto palestinese di parlare con Israele e quindi di riconoscerlo come Stato del popolo ebraico. La scelta del governo ha cancellato la trattativa affiancandosi a una delle consuete scelte automatiche della Nazioni Unite che non mancano occasione per delegittimare Israele''.

(ASCA, 7 dicembre 2012)


Incontro a Montecitorio sul progetto Kosher

ROMA, 7 dic - Le potenzialità del progetto Kosher, vale a dire dell'iniziativa tesa a promuovere le eccellenze del Mezzogiorno d'Italia attraverso la speciale certificazione che rende i prodotti idonei al consumo da parte delle comunità ebraiche, sono state il tema dell'incontro tra il rabbino capo della comunità di Napoli e del Mezzogiorno, Scialom Bahbout ed il presidente della commissione Agricoltura della Camera Paolo Russo. A Montecitorio è stato, difatti, esposto un percorso di inclusione che punta a selezionare prodotti delle regioni del Sud come la Campania, la Sicilia, la Calabria, il Molise, la Puglia e la Basilicata che, ottenendo la certificazione Kosher, potranno essere consumati dalle comunità ebraiche presenti nel mondo. "E' un passo importante - ha sottolineato il rabbino capo della comunità di Napoli e del Mezzogiorno - che darà maggiore prestigio ai prodotti italiani e soprattutto offrirà nuovi sbocchi di mercato oltre a nuove possibilità lavorative". "Progetto di valore" Lo afferma il presidente della commissione Agricoltura della Camera, Paolo Russo - che aggiunge ulteriori garanzie alle eccellenze agroalimentari del Sud come la mozzarella di bufala Dop, le castagne, il vino e l'olio. Alla genuinità ed alla qualità dei prodotti italiani si somma un altro sigillo che rassicura tutti i consumatori e non solo quelli delle comunità ebraiche".

(AgenParl, 7 dicembre 2012)


L'ufficiale saudita che non odia Israele

di Dimitri Buffa

«Non è Israele il nemico dei popoli arabi ma la mancanza di democrazie nei loro regimi». Quante volte abbiamo letto o sentito queste parole. Quasi un'ovvietà. Però sulla bocca di un alto dignitario saudita, in un articolo sul giornale "Arab News", fanno un certo effetto. L'autore è Abdulateef Al-Mulhim, un ammiraglio a riposo della Reale Marina Saudita.
Al-Mulhim fa riferimento alle violenze attualmente in corso nel mondo arabo e si chiede se non sarebbe meglio che i paesi arabi prendessero i soldi che spendono per combattere Israele e li investissero in istruzione, sanità, infrastrutture.
«Qual è il costo reale di queste guerre, per il mondo arabo e la sua popolazione? - scrive Al-Mulhim - qual è stato il costo reale del mancato riconoscimento di Israele nel 1948?». Al-Mulhim afferma che la condotta degli israeliani verso i palestinesi non è stata di certo peggiore della violenza che gli Stati arabi hanno impiegato contro i loro stessi popoli.
«In passato - scrive - abbiamo parlato tanto di come mai alcuni soldati israeliani attacchino e maltrattino i palestinesi. E abbiamo visto aerei e carri israeliani attaccare vari Paesi arabi. Ma sono mai paragonabili, quegli attacchi, alle atrocità che vengono commesse da alcuni Stati arabi contro la loro stessa gente?».
«I profughi palestinesi sono ormai in seconda fila rispetto ai milioni di profughi arabi costretti ad abbandonare i loro Paesi sconvolti dalla guerra - scrive impietosamente l'ammiraglio saudita in pensione - l'Iraq patisce una continua fuga di cervelli verso l'Occidente, il Sinai è in preda a disordini e la tragedia umana più triste del mondo si sta scrivendo nello Yemen. Mentre molti paesi arabi sono in questo modo allo sbando». «Cosa invece è accaduto intanto in Israele, il nemico giurato degli arabi? Israele oggi ha le più progredite strutture di ricerca, università d'eccellenza, infrastrutture avanzate. Molti arabi non sanno che l'aspettativa di vita dei palestinesi che vivono in Israele è di gran lunga migliore di quella di molti Paesi arabi, e che essi godono di maggiore libertà politica e sociale di molti loro fratelli arabi».
Parole sante si potrebbe dire. Probabilmente anche i nuovi futuri padroni della politica estera italiana, i vari Bersani che come prima cosa da fare dopo la vittoria delle primarie si recano in Libia ad assicurare l'attuale regime sul futuro cambio delle relazioni con Israele da parte del nostro Paese, farebbero bene a farsi tradurre e a leggersi l'articolo di "Arab news".

(l'Opinione, 7 dicembre 2012)


Le donne del Mossad

L'efficienza dei servizi segreti israeliani è garantita dalle agenti donne che dimostrano maggiori qualità nel campo professionale rispetto ai colleghi uomini

di Paola Bisconti

Spesso gli uomini son costretti ad ammettere la superiorità del gentil sesso in alcuni ambiti professionali. Per esempio qualche giorno fa Tamir Pardo, capo del Mossad, l'agenzia di intelligence più efficiente al mondo, ha dichiarato al settimanale "Lady Globes" che sono le donne ad eccellere nell'operato dei servizi segreti israeliani. Il Mossad (che in ebraico significa "Istituto") fu fondato nel 1949; attualmente, nella sede di Tel Aviv, lavorano 1200 dipendenti, uomini e donne che ogni giorno lottano contro il terrorismo di matrice islamica. La notorietà dei servizi segreti è dovuta anche agli scrittori e ai registi che hanno pubblicato romanzi e prodotto film ispirandosi ad alcuni agenti israeliani che si sono particolarmente distinti nel loro lavoro.

Celebre per esempio è la pellicola "Shula Cohen, la Perla nel bazar delle spie": Shula è una donna realmente esistita che ebbe un ruolo cruciale durante gli anni di servizio presso il Mossad; il nome in codice era Perla, appellativo che racchiude anche la bellezza e l'astuzia dell'eroina, che prima dello scoppio della Guerra di Indipendenza d'Israele salvò migliaia di profughi ebrei siriani e iracheni favorendo il loro passaggio dalla Siria attraverso il confine libanese. Leggendaria fu l'operazione di spionaggio che "Perla" organizzò nel 1950 stabilendo la sua base operativa nel "Rambo Club", un famoso locale notturno di Beirut. Dopo oltre un decennio di servizio presso il Mossad, la donna venne arrestata dal governo libanese che la condannò a 7 anni di prigionia. Durante questo periodo Shula Coehn fu torturata e seviziata, ma non morì nonostante le brutalità subite e fu liberata al termine della Guerra dei 6 giorni. La sua storia ha sempre suscitato fascino e ammirazione, considerato anche il contesto storico e geografico in cui ha vissuto (andò per esempio in sposa a soli 17 anni ad un ricco mercante di Beirut), e simboleggia l'operatività di tutte quelle donne che svolgono ruoli decisamente pericolosi con grande professionalità ed efficienza.

(La Perfetta Letizia, 7 dicembre 2012)


Palestina: lettera di deputati Pdl al governo sul voto all'Onu

ROMA, 6 dic - "Intendiamo esprimere viva preoccupazione e stupore per la decisione italiana di votare a favore della dichiarazione unilaterale di uno Stato Palestinese all'Assemblea Generale dell'ONU del 29 novembre scorso". Così 87 deputati del Pdl in una lettera aperta al Governo riguardo al voto italiano presso l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in favore di uno Stato Palestinese.
    ""Uno fra i motivi centrali che suscitano il nostro disappunto è l'atteggiamento di Palazzo Chigi nei confronti del Parlamento nel prendere tale decisione: il Parlamento non è stato consultato nel compiere una scelta che ha cambiato radicalmente la linea della nostra politica estera. Infatti, nel corso di questa legislatura, per mezzo di molti atti pubblici, il nostro Paese ha dimostrato profonda amicizia e sostegno nei confronti dello Stato d'Israele confermati, tra l'altro, dal fatto stesso che, nel luglio del 2011, i nostri rappresentanti all'ONU presero una posizione che collocava l'Italia interamente sul fronte opposto a quello odierno di fronte a una identica decisione, ovvero di fronte a una richiesta di riconoscimento unilaterale del Presidente Abu Mazen già l'anno scorso. Questo Parlamento, pur restando sempre un riferimento per i moderati palestinesi, ha espresso in numerevoli occasioni la propria comprensione per le esigenze di sicurezza di Israele e al problema della sua insistente delegittimazione in primis proprio alle Nazioni Unite. Il nostro Parlamento ha bocciato con voto unanime la partecipazione alla Conferenza contro il Razzismo, cosiddetta "Durban 2", la conferenza razzista dell'ONU contro Israele; ha avviato i lavori di un'Indagine Conoscitiva sull'Antisemitismo, dalla quale sono emersi i dati che legano l'aumento dell'antisemitismo alla critica delegittimante dello Stato di Israele; nel nostro Parlamento è attiva un'Associazione di Amicizia Italia-Israele composta da oltre 250 membri recatasi più volte in visita in Israele e nel sud del Paese per portare la propria solidarietà alla popolazione colpita dai missili provenienti da Gaza. Nel luglio scorso il nostro Parlamento, l'unico in Europa, si è raccolto in un minuto di silenzio per gli atleti israeliani vittime della strage di Monaco del '72 nel quarantesimo anniversario dell'attentato. Lo scorso novembre davanti alla Camera dei Deputati si è tenuta una grande manifestazione a sostegno del diritto di difesa di Israele in cui sono intervenute tutte le parti politiche e i presidenti delle due Camere, così come accadde anche nel gennaio 2009. Palazzo Chigi ha affermato in un comunicato che la sua decisione "è parte integrante dell'impegno del Governo italiano volto a rilanciare il Processo di Pace con l'obiettivo di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, che possano vivere fianco a fianco, in pace, sicurezza e mutuo riconoscimento". Si tratta di una valutazione politica del tutto soggettiva. Questo voto infatti oblitera la trattativa che può portare alla pace e non la promuove allontanando le prospettive di pace, oblitera anche i precedenti accordi siglati dalle parti - che escludono ogni forma di azione unilaterale, come ribadito in numerosi comunicati del Quartetto - e sostituisce ogni processo negoziale con un gesto di ingiustificabile preferenza verso una delle parti mentre Israele vive una situazione di particolare pericolo legata alla minaccia iraniana e alle incerte 'Primavere Arabe'. Se si crede nella soluzione "due Stati per due popoli" come afferma il governo, occorre aiutare le due parti non a distanziarsi, ma a sedersi l'uno di fronte all'altro, ciascuno con senso di responsabilità verso il proprio popolo ma anche verso l'interlocutore. Abu Mazen - il cui discorso all'ONU ha avuto toni estremistici nei confronti di Israele - con questa votazione è stato sollevato da ogni impegno negoziale, non ha dovuto riconoscere sedendosi al tavolo la legittimità dello Stato ebraico che invece il presidente Monti ha detto di ritenere fatto essenziale, non si è impegnato in nessun modo contro il terrorismo parte significativa della storia dell'OLP. E' noto a tutti che la parte palestinese è divisa in due correnti, di cui una è Hamas, organizzazione terroristica definita tale anche dall'Unione Europea. Pensiamo che l'intento di conferire ad Abu Mazen, tramite la votazione dell'Assemblea Generale, la popolarità perduta a favore di Hamas, non si è convertita a un atteggiamento più moderato del leader di Fatah che anzi ha espresso una posizione radicale proprio perché ha utilizzato questa occasione non per affermare una posizione più costruttiva ma per rilanciare la linea politica della sua organizzazione; egli infatti ha ricevuto un largo consenso senza una parola di condanna per Hamas, né ha accettato di sedersi con il Premier Netanyahu, gesto da lui rifiutato persino nel periodo della moratoria di 10 mesi sulle costruzioni negli insediamenti nel 2009. Resta difficile capire le motivazioni di una scelta da parte del Governo italiano di totale discontinuità con la linea tenuta dal nostro Paese negli ultimi anni. Ci asteniamo tuttavia da atti formali nella prospettiva della relazione del Governo in sede di Commissione Esteri che sarà tenuta nei prossimi giorni. Speriamo allora di comprendere meglio le ragioni di un gesto che desta stupore e disappunto profondi".
(AgenParl, 6 dicembre 2012)


Da un sito pro-Hamas.

3100 richieste di risarcimento per i danni causati dai missili palestinesi

Fonti giornalistiche ebraiche hanno reso noto che più di tremila richieste di risarcimento sono pervenute recentemente all'agenzia delle entrate israeliana, presentate dagli abitanti delle zone meridionali dello Stato ebraico (territori del '48). Gli israeliani in questione hanno subito dei danni alle loro proprietà a causa dei razzi lanciati dalla Striscia di Gaza nel corso del recente confronto militare tra l'esercito di occupazione israeliana e la resistenza palestinese
E' la corretta dizione da usare per la sinistra "democratica" occidentale. Per gli arabi dell'islam il linguaggio è diverso.
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Nella sua edizione di mercoledì 5 dicembre, il giornale ebraico Yediot Aharonoth ha riferito che le richieste di risarcimento ammontano a 3.165, un terzo delle quali è stato accolto dall'agenzia delle entrate israeliana che ha deciso di elargire dei contributi finanziari ai richiedenti.
Secondo il giornale, 2098 delle domande riguardano danni causati agli edifici e impianti, 1027 per i danni ai veicoli, oltre a 40 richieste di risarcimento per i terreni agricoli danneggiati a causa dell'Operazione Colonna di Nuvola, lanciata dall'esercito israeliano contro la Striscia di Gaza.
Con 1086 richieste, la città di Ashdod, nel sud dei territori del '48, è al primo posto per numero di domande di risarcimento presentate, seguita da Beersheba (Bir as-Saba') con 748 richieste, poi figurano: Rishon Letzion, Ashkelon, Sderot, Ofakim, Kiryat Malachi e Kiryat Gat, tutte colpite da gravi danni materiali a causa della recente escalation militare israeliana contro Gaza.
Il ministero della finanza israeliano ha recentemente annunciato di aver determinato, in collaborazione con l'agenzia delle entrate, un meccanismo atto a risarcire la popolazione degli insediamenti ebraici nel sud dei territori del '48. Secondo questo meccanismo, le aziende israeliane e gli imprenditori residenti nel raggio di 40 chilometri dalla Striscia di Gaza, riceverebbero un contributo economico a titolo di risarcimento.

(InfoPal, 6 dicembre 2012)


Perché queste notizie non compaiono sulla stampa nazionale?


In Italia cresce l'antisemitismo Featured

di Alessandra Del Zotto

Come accade spesso, i periodi di crisi molti necessitano di nemici reali su cui riversare colpe ideali. Ecco spiegato il successo di gruppi neo nazisti come Alba Dorata in Grecia. Mentre in Italia, sembra essere stato rispolverato i sempreverde antisemitismo.
Si pensi ad esempio, all'assalto di poche settimane fa messo in atto da alcuni "tifosi" di Lazio e Roma all'urlo «Juden raus» - frase usata dai nazisti nei campi di concentramento - contro alcuni tifosi inglesi del Thottenham "colpevoli" di essere di origine ebraica. O ancora, si ricordino le liste di proscrizione messe on line lo scorso anno.
A denunciare la gravità della situazione, Stefano Gatti, dell'Osservatorio sul pregiudizio antiebraico istituito presso il Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. Gatti afferma che nell'ultimo anno gli episodi di antisemitismo nel nostro Paese sono aumentati del 40%. «Finora i casi da noi osservati quest'anno sono una settantina in gran parte graffiti o attacchi via web. Un'impennata particolarmente in una realtà come quella italiana, dove essenzialmente non esiste un antisemitismo violento ma piuttosto ideologico».
Secondo il ricercatore questi dati sono la dimostrazione che qualcosa sta cambiando, nonostante
«sul boom di episodi registrati incida forse anche la maggiore efficacia con cui i dati vengono raccolti». Il problema, secondo il ricercatore, è che ormai molti atteggiamenti non vengono più percepiti come antisemiti e dunque non suscitano indignazione sociale; si pensi alla barzelletta che «prima si raccontava sottovoce, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, ora viene declamata senza imbarazzo».
Qualche colpa, secondo Gatti, la hanno anche le autorità del paese. «Grave è il fatto che a raccontare barzellette antisemite, o a scrivere post che l'Osservatorio considera discutibili, siano anche figure pubbliche: rappresentanti della politica o della cultura italiana come Silvio Berlusconi, Beppe Grillo o Piergiorgio Odifreddi. Far passare come normali o spiritosi certi temi - conclude il ricercatore - è una delle cause dell'aumento degli episodi di antisemitismo in Italia».

(NuovaSocietà, 6 dicembre 2012)


Proposta da De Magistris la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen

In occasione della giornata di solidarietà

NAPOLI, 6 dic - Conferire la cittadinanza onoraria di Napoli al presidente palestinese Abu Mazen è la proposta avanzata dal sindaco Luigi De Magistris. Il primo cittadino, in occasione della seduta consiliare per celebrare la Giornata di solidarietà con il popolo palestinese, ha avanzato la proposta al Consiglio.
«Oggi - ha detto il sindaco - è un altro giorno importante dopo il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore nell'ambito delle Nazioni Unite».
De Magistris ha sottolineato la «vicinanza» dell'Amministrazione napoletana «al popolo palestinese, ma anche a tutte le popolazioni che lottano per la democrazia e l'autonomia». Il primo cittadino partenopeo ha ribadito l'impegno del Comune di Napoli affinché «quanto prima si possano creare due Stati autonomi che possano vivere in pace e sicurezza l'uno accanto all'altro». Da De Magistris in questa direzione l'appello agli Stati Uniti perché esercitino «un contributo più forte e deciso affinché la Palestina sia riconosciuto come Stato, un traguardo necessario per garantire gli equilibri dei popoli del Medio Oriente».

(ANSA, 6 dicembre 2012)


In pace e sicurezza. "Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno" (1 Tessalonicesi 5:3).


"In pace e sicurezza". Hamas crea il suo Ministero della Difesa nella Striscia di Gaza

Hamas sta creando il proprio Ministero della Difesa nella Striscia di Gaza, preparandosi per un eventuale conflitto militare con l'Israele. Secondo l'informazione di un radio egiziano, questa dichiarazione è stata fatta dal capo del Ministero degli Interni nel governo di Hamas Fathi Hamad.
Fino ad adesso delle questioni militari si occupava il Ministero degli Interni, controllando tutte le Forze sia a Gaza sia nella Cisgiordania.
Fathi Hamad ha commentato che "le nuove guerre con l'Israele saranno ancora più toste, ma siamo intenzionati di liberare la Palestina"
ma sempre "in pace e sicurezza". Nessuno si preoccupi.
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(La Voce della Russia, 6 dicembre 2012)


Il nuovo di zecca stato palestinese si prepara alla pace. Per questo nessuno si preoccupa. E' Netanyahu che preoccupa, con il progetto di quelle case a Gerusalemme Est!


Hanukkah accende le luci nel mondo

di Rossella Tercatin

Dicembre. Anche in tempo di crisi, le città si riempiono di luminarie e decorazioni natalizie. Accade in tutto il mondo, da New York a Parigi, da Londra a Berlino, e naturalmente le città italiane non sono escluse. Anno dopo anno però una nuova tradizione illumina le piazze nel primo mese di vero freddo, con forme, musiche e profumi capaci perfino di distrarre i passanti dall'urgente shopping di regali e cibarie: sono sempre più numerose e diffuse le accensioni in strada di grandi candelabri a otto braccia. In altre parole, di Hanukkiot.
Quest'anno (la festa inizia il 25 Kislev, cioè la sera di sabato 8 dicembre, e si protrae per otto giorni), il panorama internazionale offre senza dubbio eventi imponenti e suggestive: a Parigi si celebrerà con musiche ebraiche dal vivo niente poco di meno che all'ombra (metaforica, visto che la hanukkiah si accende di sera) della Tour Eiffel, a New York grande festa sulla pista di pattinaggio di Central Park e poi accensione di un enorme candelabro scolpito nel ghiaccio sulla Quinta Strada, a Berlino la celebrazione va in scena davanti alla porta di Brandeburgo, a Londra a Trafalgar Square, a Washington DC si esibirà la banda della Marina, nella suggestiva cornice dell'Elisse, a due passi dalla Casa Bianca.
Le Comunità ebraiche italiane non sono da meno: gli appuntamenti si moltiplicano in tutto il paese. Da Roma a Milano, da Torino a Firenze, passando tra le altre per Genova, Bologna, Casale, Trieste, Napoli, si offriranno canti e succulente sufganyot, per condividere con la propria città un momento di festa, e soprattutto, di luce.

(Notiziario Ucei, 6 dicembre 2012)


L'ostacolo alla pace che il mondo avverte: Israele che costruisce case

Ecco alcuni titoli di articoli di giornale e comunicati di agenzia di oggi:
    Palestinesi: le colonie uccidono la pace
    La Palestina chiede all'Onu di fermare le colonie
    Palestina all'Onu: "Colonie di israele crimini di guerra"
    L'Unione Europea critica Israele per le nuove colonie |
    Colonie: l'Ue convoca l'ambasciatore l'Israele
    La Casa Bianca critica Israele: "Sulle colonie azione contro la pace"
    Farnesina a Israele: "Forte preoccupazione" sulle colonie
    Farnesina a Israele: no a nuove colonie
    Terzi: "Israele si moderi per evitare l'Intifada diplomatica"
Progettare la costruzione di case a Gerusalemme è un "crimine di guerra", mentre inviare missili che distruggono case ed altro ancora evidentemente è un invito alla pace. Come mai tanto accanimento per quella che è soltanto una dichiarazione di intenzioni? Qual è l'interesse in gioco? E' in gioco una questioni di "diritto". Le nazioni vogliono far dire a Netanyahu che Israele non ha "diritto" a Gerusalemme intera. Ottenuto questo, tante altre cose potranno essere ottenute in seguito. Ci riusciranno?

(Notizie su Israele, 6 dicembre 2012


La storia commovente di Wafa al Bass

Gli ospedali - si sa - sono il contesto ideale per ambientarvi storie strappalacrime. Esseri umani sottratti alla morte, crisi di coscienza, lacrime e dolore per una vita spezzata anzitempo, gioia per un complicato intervento chirurgico riuscito perfettamente.
Malgrado la recente ondata di terrorismo palestinese, e la risposta israeliana nota come Colonna di Difesa, nello stato ebraico è affluito un numero considerevole di abitanti della Striscia di Gaza. Persino il cognato del primo ministro di Hamas è ricorso alle cure mediche degli israeliani; ma la vita di tutti i giorni è ricca di episodi di dedizione al dovere che non guarda il colore della pelle, o la razza, o la lingua. Spesso arabi israeliani prestano servizio come volontari negli ospedali dell'Israele meridionale, per assistere pazienti palestinesi in difficoltà con la lingua.
Purtroppo però, talvolta giovani pazienti ritornano a Gaza senza aver compiuto la loro missione. Wafa al Bass, nata nel 1984, a 21 anni parte da Gaza per essere curata in un ospedale israeliano. Ha delle importanti ustioni. Il suo proposito è di entrare in un ospedale e farsi saltare in aria, uccidendo più bambini possibile. E' bloccata al valico di Erez da guardie di confine che si insospettiscono per il suo nervosismo: le scoprono indosso un ordigno da più di 10 chilogrammi di esplosivo.
Arrestata nel 2005, subisce un processo e viene detenuta per sei anni. Sarà rilasciata nel 2011, assieme ad altri mille criminali, nell'ambito dell'accordo per la liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit, sequestrato da Hamas nel 2006.
Si è fatta notare in queste settimane per aver esortato i suoi connazionali a sequestrare quanti più israeliani possibile. Ai bambini che sono andati a trovarla nella sua abitazione nel nord della Striscia ha raccomandato: «spero che seguiate il mio stesso percorso e che - con l'aiuto di Allah - molti di voi abbiano successo come martiri».
Ma adesso che l'assemblea generale dell'ONU ha votato a larga maggioranza l'ingresso dell'autorità palestinese come stato osservatore non membro, la pace fa sicuramente un grosso passo in avanti...

(Il Borghesino, 6 dicembre 2012)


Quali strumenti contro chi diffonde odio

ROMA - "Il nostro primo obiettivo deve essere quello di arrivare a una legge fatta bene, che funzioni e che ci tenga al riparo dal rischio boomerang". Victor Magiar, consigliere e osservatore permanente di Giunta dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, riassume così la sfida dell'Unione al fianco delle istituzioni per arrivare alla stesura di un dispositivo legislativo che punisca con nuovi e più efficaci strumenti i fautori dell'odio e i negazionisti della Shoah. Un fenomeno estremamente variegato e complesso che in questi ultimi anni, con l'ausilio delle moderne tecnologie, ha visto moltiplicare in modo esponenziale il numero dei propagatori ma anche quello dei destinari dei veleni diffusi attraverso la rete. Di questo, di antisemitismo nel cyberspazio italiano e di protocollo aggiuntivo di Budapest - documento cardine per quanto riguarda la criminalità informatica - si è discusso ieri sera al Community Center di via Balbo ad un incontro pubblico cui hanno preso parte, oltre a Magiar, anche la direttrice del Centro di Cultura Miriam Hajun, il consigliere Joseph Di Porto, il ricercatore del Cdec di Milano Stefano Gatti, il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giuseppe Corasani e il direttore dell'Ufficio centrale ispettivo del dipartimento di pubblica sicurezza Domenico Vulpiani.
Al centro delle riflessioni la comune consapevolezza che non sia possibile criminalizzare la rete, grande e irrinunciabile strumento di libertà, ma anche la presa di coscienza che l'individuazione di contromisure adeguate sia un'esigenza sempre più pressante a fronte di una crescita di siti esplicitamente razzisti e negazionisti che va facendosi ragguardevole. Tra i casi concreti citati l'oscuramento del sito neonazista Stormfront e il recente arresto di Daniele Scarpino, amministratore del forum italiano del portale.

(Notiziario Ucei, 6 dicembre 2012)


Con Chabad l'ebraismo torna a vivere a Ulm in Germania

Nella città di Ulm, in Germania, nello stato federale del Baden-Württemberg, a circa settantaquattro km a ovest di Monaco di Baviera, dopo settantacinque anni dalla distruzione della sinagoga, avvenuta nel 1938 a causa del regime nazista, grazie al rabbino capo della città, Rav Schneur Trebnik, rappresentante del movimento Chabad, è stata inaugurata una nuova sinagoga.
Ulm, che ha dato i natali ad Albert Einstein, con 18.000 abitanti, può vantare appena cinquecento anime ebraiche, ma con questa nuova sinagoga ha prodotto una tale eco mediatica positiva da indurre il presidente della Germania, Joachim Gauck, a partecipare alla cerimonia di inaugurazione, insieme a Winfried Kretshmann, premier del Baden-Württemberg e Dieter Grauman, presidente del Central Council of Jews in Germany.
La struttura, infatti, rappresenta non solo un tempio, ma un importante centro comunitario, con spazi specifici per attività prescolari, sale studio, il Mikveh, una biblioteca e una cucina kasher.
"Questo è un regalo alla nazione tedesca: il fatto che la vita ebraica sia tornata a Ulm è una benedizione per l'intera Germania " ha dichiarato il presidente Gauck, stemperando anche il clima teso venutosi a creare in Germania recentemente a causa di diversi episodi antisemiti e vere azioni politiche contro le tradizioni ebraiche e islamiche.
Il merito di tutto questo va a Rav Trebnik che, da dodici anni, insieme alla moglie Chana, è riuscito a portare avanti diversi programmi di educazione ebraica e concrete azioni sociali, polarizzando gli ebrei della città, dando loro nuova forza vitale e riportando così la luce in una realtà avvolta dalle tenebre della tragedia nazista.

(Chabad.Italia, 6 dicembre 2012)


Ma Israele e Hamas non sono la stessa cosa

di Giampaolo Proni

RIMINI - Il razzista è il finto tollerante che sentenzia "Bisogna rispettare la loro cultura". L'equidistanza di certa sinistra italiana è solo la viltà di non voler usare la ragione che nasce dai nostri principi
Non si può che stupirsi della lentezza con la quale la politica italiana cerca (quando cerca) di uscire dalla propria arretratezza. Solo barlumi di civiltà ogni tanto squarciano le tenebre del medioevo. Come per la legge che finalmente afferma che i figli sono tutti figli, indipendentemente dal certificato del comune o del parroco che lega o meno i genitori. Evviva.
Ho sentito Bersani parlare alla comunità ebraica di Roma della questione palestinese. E ancora una volta è stata la litania dell'equidistanza e della pace. Il nucleo della teoria di Bersani sulla guerra tra Hamas e Israele si riassume così:"Quando si tirano i missili non ha senso andare a cercare chi ha cominciato".
Sarà questa la filosofia di fondo con cui il prossimo governo prenderà in considerazione i problemi mediorientali?
Per rispondere allo stesso modo, allora se vedi per strada uno che massacra di botte un bambino, siccome non sai chi ha cominciato dai ragione a tutti e due?
Sentiamo invece Renzi: "La sinistra italiana deve abituarsi a ridire che Israele ha il diritto di esistere, perché troppo spesso c'è stato un atteggiamento della sinistra anti-israeliano inconcepibile e insopportabile. Israele è un paese che è circondato da realtà che vogliono la sua distruzione, a partire dall'Iran." Beh, scusate ma lo preferisco di molto. È la posizione di Obama, e di tutti i paesi democratici.
L'equidistanza di certa sinistra italiana (perché l'estrema è proprio anti-israeliana e spesso antisemita) è solo la viltà di non voler usare la ragione che nasce dai nostri principi. L'Europa di fine '800 divulgava i 'protocolli dei savi di Sion" e cullava il razzismo che esplose con la lucida follia di Hitler. Oggi nessuna democrazia tollera campagne di odio e di razzismo di questo tipo, e siamo ben lieti e sicuri di questo. O dovremmo accettare che agli scolari svedesi si insegnasse che gli italiani sono inferiori e i cattolici complottano per dominare il mondo? E allora come possiamo considerare sullo stesso piano di Israele il governo di Hamas (e di altri paesi arabi) che diffonde quel testo (e peggio) nelle scuole? Il vero razzista non è chi impone a un immigrato di rispettare le nostre leggi, i diritti delle donne e dei minori. Il razzista è il finto tollerante che sentenzia "Bisogna rispettare la loro cultura", come se 'loro' non fossero in grado di concepire il vivere civile. Come se l'Islam non fosse stato faro di cultura e civiltà per l'Europa medievale. Israele e Hamas non sono sullo stesso piano. La miseria e la morte dei bambini di Gaza sono lo strumento di cui si servono personaggi come Ahmadinejad per manipolare le 'masse islamiche' e mantenersi al potere.

(Chiamami Città, 5 dicembre 2012)


I faziosi di centro


E1 è una montagna...

di Paula R. Stern

Paula R. Stern
Dopo una lunga giornata di lavoro, sono stata raggiunta telefonicamente da mia madre, indignata dalla condanna di Israele da parte di Inghilterra, Francia e Germania, che addirittura starebbero per ritirare le loro delegazioni diplomatiche. Per quale motivo il mondo è così adirato?
No, non è per la Siria e la violenza che la insanguina (oltre 43.000 morti da marzo dell'anno scorso, NdT); non è l'Afghanistan e tantomeno l'Iran. Non stanno condannando la decisione della televisione turca di censurare i Simpson perché addirittura blasfemi. E non è nemmeno per la proposta in Ungheria di schedare gli ebrei come si farebbe con il bestiame, ne' per le navi da guerra che dall'Iran salpano verso il Sudan.
E' tutto per una montagna che si colloca fra Ma'aleh Adumim e Gerusalemme, fra la città dove lavoro, e quella dove vivo assieme a mio marito e ai miei bambini. Un giornale erroneamente ha sostenuto che le abitazione da costruirsi nel distretto E1 taglierebbero a metà il West Bank. Mi chiedo cosa ci vuole per mettersi in macchina da Gerusalemme e andare a controllare questa sciocchezza: basterebbero tre minuti.
Ciononostante, un paese dopo l'altro si è accodato, accusando Israele di danneggiare la possibilità di una pace. Di quali possibilità stiamo parlando? non ci posso credere. Soltanto due settimane fa eravamo in guerra. Sul tavolo non c'è alcuna prospettiva di pace. Anzi, non c'è alcun tavolo.
Stiamo parlando di una montagna. Non molto alta: più bassa di quelle circostanti. E' pressoché disabitata, tranne che per una strada che si snoda toccando una stazione di polizia che lì è stata costruita. Nessuno ci vive, ne' mai ci ha abitato. Alcuni alberi, molti sassi e una rotatoria: tutto qui.
E qual è la storia di questo piccolo appezzamento di terra (12 chilometri quadrati: un rettangolo di 3x4 chilometri, NdT)? come molti dei territori che alcuni individuano come "West Bank", la terra una volta era parte dell'impero ottomano: non c'erano villaggi, ne' abitazioni, ne' tracce di vita. Non c'era nemmeno l'acqua. Di tanto in tanto pecore e capre pascolavano a valle di questa collina, ma niente di più. Agli ottomani succederono gli inglesi, ma più che cammelli e ovini da queste parti non si sono visti.

Negli anni '20, il Regno Unito tagliò i 2/3 della Palestina mandataria e lo conosegnò agli Hashemiti, dando vita allo stato di Giordania. Il rimanente terzo fu "amministrato" (diciamo meglio colonizzato) dal Regno Unito fino al 1947: in quest'area era inclusa E1. Nel 1948 gli arabi preferirono la guerra alla pace, e la morte alla vita. Attaccarono (il neonato stato di Israele, NdT) e persero; ma trattennero E1, la terra deserta fra il confine orientale di Gerusalemme e la riviera di ponente del fiume Giordano.
Hanno detenuto il West Bank per 19 anni, e nel frattempo non si sono mai sognati di proclamarvi uno stato palestinese.
Nel 1964, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina fu istituita per - così dicono - "combattere" l'occupazione iniziata nel 1967: uno straordinario caso di lungimiranza, a ben vedere.
Nel 1967 era chiaro che l'Egitto e la Siria si accingevano ad attaccare: lo si scorgeva dalla retorica minacciosa dei rispettivi leader. Israele sorprese entrambi con un attacco preventivo, e inviò un chiaro messaggio alla Giordania: «non abbiamo nulla contro di voi, restate fuori dal conflitto. Non vi attaccheremo». I giordani rispedirono al mittente il messaggio: a parole, e a fatti.
Attaccarono, come fecero nel 1948, e ancora una volta, persero.
Questa volta, E1 passò ad Israele. Di proprietà statale sotto i turchi, di proprietà statale sotto i giordani, e ora di proprietà statale sotto gli israeliani, quest'area non è mai stata palestinese. Fino a pochi anni fa, non c'erano costruzioni di sorta. Adesso si pensa di costruirvi delle case.
La storia di E1 è molto semplice: non è altro che una montagna che si colloca fra Ma'aleh Adumim e Gerusalemme. Gli arabi abitualmente attraversano l'autostrada che collega Ma'aleh Adumim al Mar Morto: una strada che resterà intatta al suo posto. Non ci sono bisezioni, non ci sono blocchi, non ci sono alterazioni nel transito. Se qualcuno avesse la compiacenza di farci una capatina, non ci capirebbe niente perché non vi è nulla da capire. Non è certo un "ostacolo alla pace": è solo una montagnetta, presto rivitalizzata e sviluppata.

Questa è la storia di E1, tranne per un aspetto che il mondo trascura. Prima dei giordani, prima degli inglesi, prima degli ottomani, prima dei romani, la terra era come oggi è degli ebrei. Apparteneva all'antica Terra di Israele: appartiene alla moderna Terra di Israele.
Per quanto concerne quegli stati che sostengono che Israele minaccia la pace: dov'erano due settimane fa, quando correvo con i miei bambini per proteggermi in un rifugio antimissile in cemento armato? perché mio figlio maggiore ha dovuto abbandonare la moglie per proteggere l'Israele meridionale dagli attacchi terroristici? di questo il mondo dovrebbe indignarsi: di tre milioni di persone sotto costante attacco! invece, hanno premiato i palestinesi alle Nazioni Unite, e adesso minacciano di sanzionare Israele.
E' evidente che il mondo sostiene la questione palestinese, ma è Israele che alla fine dovrà convivere con questa realtà. Ma lo farà alle nostre condizioni.
Noi costruiremo e il mondo urlerà. Ma abbiamo imparato che il mondo urla facilmente per le questioni minori, ignorando le questioni di cruciale importanza. In Siria si muore ogni giorno a diecine, ma perché parlarne? discutiamo di una collinetta arida e deserta su cui Israele pensa di costruire abitazioni per tutti, un centro sociale e una scuola. Ve lo immaginate? una scuola proprio lì! ecco per che cosa protesta e minaccia oggi il mondo...

(The Times of Israel, 3 dicembre 2012 - ripreso da Il Borghesino)


Gli amici si vedono nel momento del bisogno

di Ugo Volli

Un vecchio proverbio dice che gli amici si vedono nel bisogno - e naturalmente anche i nemici. Niente di più vero per quanto riguarda Israele. Nell'ultimo mese ci sono state due emergenze connesse e successive per lo stato di Israele: gli attacchi missilistici e gli agguati provenienti da Hamas e dai suoi alleati a Gaza che l'hanno costretto a una reazione coordinata e di ampio respiro, l'Operazione Pilastri di Difesa, che si è conclusa poi con un difficile accordo di tregua e la richiesta dell'Autorità Palestinese di elevare il suo stato di osservatore all'Onu da "organizzazione" a "stato non membro", che è stata approvata a larga maggioranza.
In entrambi i casi c'è stato modo per gli amici di appoggiare la difficile battaglia di Israele, isolato e circondato da un largo schieramento ostile sia nel Medio Oriente che nelle organizzazioni internazionali e nei media. E c'è stata anche l'evidenza dei nemici, che in tempi meno duri e su decisioni meno chiare tendono a rendersi invisibili dietro una generica posizione di equanimità. Messa di fronte alla scelta fra raccontare l'aggressività e l'odio di Hamas o di accettare la sua propaganda sui "bambini uccisi da Israele", la stampa ha scelto la seconda opzione, ignorando come l'organizzazione terrorista usasse scuole e ospedali e asili infantili e case d'abitazione coi loro abitanti e i loro bambini come scudi umani. Messi di fronte alla scelta se accettare la scommessa dell'Anp di uscire dagli accordi di Oslo per cercare di stabilirsi come stato senza averne i requisiti legali (il controllo del territorio e delle finanze ecc.), morali (una politica di amicizia coi vicini) e soprattutto senza quell'accordo con Israele che era il centro degli impegni di Oslo, o se richiedere ai palestinesi di mettersi finalmente a trattare seriamente con Israele, la maggior parte degli stati, incluso il nostro, ha scelto la prima alternativa. Che si trattasse di un atto aggressivo nei confronti dello Stato ebraico, era chiaro dall'inizio. I funzionari dell'Anp dichiararono da prima della petizione che il riconoscimento sarebbe stato usato per intensificare la guerra legale contro Israele e se le cose procedono, non solo quella legale: si riparla adesso di unità fra Hamas e Fatah e questa unità va certamente nel senso della guerra senza quartiere per "riconquistare" l'intero territorio israeliano, cioè nel senso del terrorismo puro e semplice. Ma tutto ciò è ovvio: Hamas e Fatah o Olp sono nemici di Israele da sempre e non c'è bisogno di una crisi per rivelarli. Più interessanti sono le reazioni di persone che dicono di non essere nemici, per esempio in Italia un noto presentatore televisivo ebreo che ha twittato la sua gioia per la conclusione della domanda di ammissione all'Onu, facendo eco ad analoghi messaggi di Vendola, De Magistris, Bersani. O il fatto che il noto direttore d'orchestra, anch'egli di origini ebraiche Daniel Barenboim abbia usato la sua influenza a favore della medesima mossa. O che sugli organi dell'Ucei, che dovrebbe essere l'unione delle comunità ebraiche italiane, si siano succeduti interventi di opinionisti e redazionali "al di sopra delle parti", in sostanza neutrali fra Israele e Anp, come se Israele e l'ebraismo fossero senza rapporti fra loro...
Certo, la premessa che quasi tutti i nemici veri e propri fanno è "io non sono antisemita", così come coloro che si schierano nel mondo ebraico "al di sopra delle parti" dicono "io sono sionista, ma di un sionismo giusto, non estremista, lucido, razionale" e quant'altro. Del resto anche gli inquisitori che mandavano al rogo gli ebrei o i re che li costringevano a convertirsi o a morire dicevano di essere amici di Israele (solo che era il verus Israel, quello trasposto nella chiesa) e di essere costretti a prendere provvedimenti difficili nei confronti degli ebrei per colpa della loro irrazionale ostinazione a non vedere la verità e la virtù, per amore delle loro anime... Una volta la vittima di tanta bontà erano gli ebrei singoli, ora è Israele a essere soggetto al "tough love" all'amore severo, come si sono spesso espressi i saggi cultori del "sionismo razionale" alla maniera di quell'organizzazione più antisraeliana dell'amministrazione Obama che si chiama J-Street e la cui versione europea J-Call ha libero accesso nelle comunità ebraiche e sui media dell'Ucei.
La conclusione di questo ragionamento, non del tutto sconsolata, è che nel bisogno si vedono i nemici, ma anche gli amici. E Israele ne ha, come ha le risorse per superare questa difficilissima crisi.

(Notiziario Ucei, 5 dicembre 2012 - ripreso da Informazione Corretta)


2o Convegno Internazionale di Evangelici d'Italia per Israele

Il 2o Convegno Internazionale EDIPI “Aliyah, una meta genetica” del 7-8-9 dicembre a Pomezia-Roma sarà ricco di contenuti. E' stata confermata la partecipazione dell'Ambasciatore di Israele in Italia, Naor Gilon, che ci parlerà della situazione politico-economica in Israele alla luce della recente recrudescenza del conflitto arabo-israeliano.
Inoltre sarà presentata in anteprima la nuova iniziativa editoriale dell'Istituto Biblico Evangelico Italiano, fondamentale per riportare l'insegnamento su Israele nei corretti binari biblici. L'autore è il prof. Rinaldo Diprose, già direttore degli studi dell'IBEI e socio fondatore di EDIPI di cui è consulente teologico. Si tratta di un manuale di studio, un vero strumento didattico, utile sia per la ricerca personale che per l'insegnamento nella chiesa; allegato ci sarà un "Libretto degli esami" da utilizzare all'occorrenza con test molto agili.
Il corso "Israele e la chiesa" (IBEI Edizioni), di Rinaldo Diprose, si divide in due parti principali.
Le prime sei lezioni presentano l'Israelologia biblica e l'insegnamento biblico su quello che dovrebbe essere il rapporto fra Israele e la Chiesa. Nelle lezioni 7-9 vengono esaminati l'origine della Teologia della Sostituzione (nei secoli II - V) e gli effetti prodotti da quest'errore teologico in altri settori del pensiero e della pratica della Cristianità. Segue una lezione sul ritorno alle Scritture, a partire dalla seconda generazione dei riformatori e, infine, una valutazione, sempre alla luce delle Scritture, della direzione che sta prendendo il dialogo giudeo-cristiano avviato dopo la Shoah.

(EDIPI, dicembre 2012)


Nella guerra del gas l'Australia batte la Russia in Israele

di Matteo Cazzulani

Nella guerra del gas, Israele ha compiuto la sua scelta di campo: meglio l'occidentale Australia che la Russia neo-imperiale. Nella giornata di martedì, 4 dicembre, il colosso energetico australiano Woodstock si è aggiudicato il 30% delle azioni per lo sfruttamento del giacimento Leviathan, ubicato nel Mar Mediterraneo, in acque territoriali israeliane.
Il colosso australiano, a cui spetta il compito di esportare il gas estratto dal Leviathan non solo in Australia, ma anche in Europa, ha battuto la concorrenza del colosso nazionale cinese CNOOC e del monopolista russo del gas, Gazprom.
Per mantenere la propria egemonia in campo energetico in Europa, la Russia è stata da sempre interessata al controllo di un giacimento di oro blu di fondamentale importanza per gli assetti geopolitici della regione e dell'Unione Europea.
Come riporta "Gazeta Wyborcza", il Leviathan contiene 481 Miliardi di metri cubi di gas, tanto da coprire il fabbisogno di Israele per un decennio.
La crescente domanda di gas da parte dell'Unione Europea ha spinto Israele, in partnership con Grecia e Cipro, a presentarsi a Bruxelles come una possibile fonte di approvvigionamento alternativa al quasi monopolio della Russia, le cui forniture coprono il 40% del fabbisogno totale UE.
Con la vendita del 30% delle azioni del Leviathan al colosso australiano Woodstock, che gestirà il giacimento in partnership con la compagnia USA Noble Energy, e con le israeliane Delek Drilling, Avner Oil Exploration e Ratio Oil Exploration, Israele ha risolto solo una delle tre contese energetiche a cui è chiamato a fare fronte.
Libano e Palestina ancora questioni irrisolte
Ancora aperto resta infatti il contenzioso con il Libano, che, similmente ad Israele, ha avviato un programma di trivellazione dei fondali delle acque territoriali libanesi per la ricerca giacimenti di gas naturale.
La questione energetica ha riaperto la definizione dei confini tra le acque territoriali libanesi e quelle israeliane, su cui un accordo definivo non è ancora stato trovato.
Come riportato dal "Washington Post", Cipro, presidente di turno dell'Unione Europea, ha offerto la propria mediazione affinché le parti raggiungano un accordo pacificamente.
Un altro punto caldo che Israele si trova ad affrontare è quello palestinese, poiché Tel Aviv è intenzionato a ricercare giacimenti di gas anche al largo della Striscia di Gaza.
Come riportato da "", all'inizio di ottobre il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, grazie alla mediazione dell'Inviato Speciale ONU, Tony Blair, si era impegnato per il riconoscimento alla Palestina di royalties sui giacimenti al largo di Gaza.
La recente escalation di violenze che ha contrassegnato i rapporti israelo-palestinesi ha bloccato l'operazione, che, ad oggi, resta congelata in attesa di una risoluzione ancor lontana dall'essere concordata.

(il legno storto, 5 dicembre 2012)


"Sei un bastardo nazista". Maccabi: sospeso il capitano

Guy Pnini e Jonathan Skjoldebrand durante il derby
Maccabi-Hapoel di domenica
MILANO - Pnini, nazionale israeliano, sorpreso dalle telecamere mentre insulta un avversario nel derby con l'Hapoel: il club gli toglie la fascia e lo punisce a tempo indeterminato. Le scuse: "Mi vergogno: la mia famiglia è stata vittima dell'olocausto"
Il derby di Tel Aviv nel basket non si giocava da sei anni. Da quando, cioè, i tifosi dell'Hapoel augurarono a squarciagola un olocausto a quelli del Maccabi. "Non c'è spazio per cori simili anche all'interno di una rivalità - aveva detto Guy Pnini alla vigilia - So qual è il limite tra ciò che è lecito e ciò che non lo è". Ventiquattr'ore dopo, lo stesso giocatore, capitano del Maccabi e nazionale israeliano, avrebbe usato altre parole sul parquet: "Tu, spazzatura, bastardo nazista tedesco, che possa venirti un cancro in testa, tuo padre deve morire". Il destinatario degli insulti era Jonathan Skjoldebrand, israeliano anche lui, ma biondo e di origini svedesi. Domenica, giorno del mortale pestaggio a un guardalinee di parte da parte di tre ragazzini olandesi, il seme della violenza è stato raccolto in tutto il mondo.
CONSEGUENZE — La vittima delle offese non ha reagito al momento ("Pensavo di non aver sentito bene, ma lui ha ripetuto continuamente"), poi ha immediatamente riferito l'episodio ai dirigenti del suo team. Infine sono state le telecamere a fare giustizia e a diffondere in giro per il mondo il virgolettato di Pnini pronunciato a 1'43" dal termine del terzo quarto, quando la sua squadra conduceva ampiamente sui rivali. Il Maccabi, campione in carica e in testa alla classifica dopo il 91-72 inflitto ai "cugini" e recentemente sconfitto da Siena in Eurolega, ha immediatamente aperto un'indagine interne e il lunedì ha preso provvedimenti: sospensione a tempo indeterminato del giocatore cui è stata tolta la fascia di capitano e multa di circa 26 mila dollari.
SCUSE — Dalla federazione al coach della nazionale, tutti si sono espressi contro Pnini. Il giocatore, dopo aver inizialmente cercato di giustificarsi asserendo che la sua era stata una reazione a un aggressione fisica e verbale subita da Skjoldebrand durante il match, ha rilasciato un messaggio pubblicato sul sito del Maccabi, dove ha ammesso che il suo è stata un gesto deprecabile: "Mi vergogno. Voglio chiedere scusa a Jonathan, alla sua famiglia e ai tifosi del Maccabi. Chiedo scusa anche alla mia famiglia che è stata vittima dell'Olocausto". Scuse doverose, ma forse ormai tardive.

(La Gazzetta dello Sport, 4 dicembre 2012)


Israele - Palestina: alleanza tra Fatah e Hamas per combattere Israele

di Sarah F.

Se qualcuno ancora dovesse pensare che i palestinesi hanno davvero intenzione di fondare uno Stato che viva in pace a fianco di quello israeliano dovrebbero leggere le dichiarazioni fatte ieri da Mahmoud Zahar, leader di Hamas, dichiarazioni rivolte a Fatah e accolte con enorme entusiasmo a Ramallah.
In sostanza, per farla breve, Mahmoud Zahar ha invitato "i fratelli di Fatah" a non perdere ulteriore tempo in trattative con Israele e a unirsi ad Hamas nella lotta contro lo Stato Ebraico fino alla vittoria finale, cioè fino a quando tutti gli ebrei non saranno rigettati a mare.
Intendiamoci, non sono una novità dichiarazioni di questo tenore. Solo gli stupidi e gli allocchi non le hanno mai considerate. Tuttavia questa volta assumono un significato particolare, sia per il momento in cui sono state proferite, sia per la reazione che hanno avuto a Ramallah.
Il momento è quello topico del post-riconoscimento della Palestina come "Stato osservatore" alle Nazioni Unite, un momento particolare in cui Abu Mazen ha detto chiaramente che vuole ricongiungersi ai terroristi di Hamas invece che lavorare per la fondazione di uno Stato democratico e pacifico. Naturalmente in occidente nessuno ha fatto caso alle intenzioni di Abu Mazen e si preferisce ingenuamente pensare che la decisione dell'ONU sia una "possibilità di pace" per il Medio Oriente. Peccato che per i palestinesi la parola "pace" abbia tutt'altro significato rispetto a quello reale e voglia dire "eliminazione di Israele".
Infatti, e questo è il secondo punto per cui le dichiarazioni di Mahmoud Zahar non devono essere considerate alla stregua di quelle precedenti, la reazione alle richieste del capo terrorista da parte di Fatah sono state semplicemente entusiaste tanto che si sta alacremente lavorando per organizzare al più presto un incontro tra i vertici di Fatah e di Hamas, incontro chiaramente mediato dall'Egitto.
E' in questo contesto che vanno viste anche le ultime decisioni del Governo israeliano, decisioni che hanno fatto infuriare i tantissimi fautori del cosiddetto "processo di pace", un processo ormai morto e affossato definitivamente proprio dalle intenzioni di Hamas e di Fatah.

(Rights Reporter, 4 dicembre 2012)


Israele assume decine di ex ingegneri della Texas Instruments per il team Apple

di Mauro Notarianni

Apple starebbe assumendo decine di ex ingegneri in precedenza impiegati in Texas Instruments e tutti specializzati nello sviluppo di processori RISC. I nuovi assunti probabilmente andranno a lavorare con il team di Anobit, la società israeliana specializzata in tecnologie che migliorano sensibilmente performance e durata delle memorie allo stato solido che la casa della Mela ha acquisito alla fine dello scorso anno.

  Il Matam Technology Park
Decine di ex ingegneri per il centro di ricerca e sviluppo in Israele. L'operazione di reclutamento porta la firma di Apple che, secondo quanto afferma il sito The Next Web, sta pescando ad ampie mani nel gruppo che costiuiva il team che Texas Instruments aveva a Ra'anana a nord di Tel Aviv.
Qui, in quella che viene considerata la vera e propria Slicon Valley del paese del mediterraneo dove sono insediate numerosissime aziende di primo piano nel campo della tecnologia (tra cui anche Intel, Broadcom, Google, Yahoo! eBay, IBM, Philips, Microsoft, oltre che la stessa Apple) TI ha chiuso un laboratorio di sviluppo degli apprezzati chip OMAP (Open Multimedia Application Platform), processori RISC specificatamente progettati per applicazioni multimediali e radio (compresi chip per lo sfruttamento di WiFi e Bluetooth), usati in smartphone e tablet vari. Dei 250 ingeneri licenziati, numerosissimi, decine appunto, saranno reclutati da Apple.
I nuovi assunti in Apple probabilmente andranno a lavorare con il team di Anobit, la società israeliana specializzata in tecnologie che migliorano sensibilmente performance e durata delle memorie allo stato solido che la casa della Mela ha acquisito alla fine dello scorso anno. A maggio di quest'anno sulla sezione del sito Apple dedicato alla ricerca del personale erano apparse decine di offerte per l'impiego di tecnici e ingegneri che daranno vita a un centro di ricerca in Israele. La struttura dovrebbe sorgere nel Matam Technology Park, il distretto hi-tech di Haifa. I nuovi assunti risponderanno a Bob Mansfield, Vice Presidente Senior dopo il rimpasto di qualche settimana addietro nei vertici aziendali di Cupertino.

(Macity, 4 dicembre 2012)


Gli israeliani sintetizzano una marijuana innocua

I ricercatori del gruppo Tikun Olam, che si occupa di malati terminali e delle cure a cui vengono sottoposti, sono riusciti a sintetizzare un tipo di marijuana che non ha effetti psicotropi. Durante la lunga e scrupolosa selezione hanno estratto dalla pianta il tetraidrocannabinolo (THC), grazie al quale avviene il legame fra le cellule del cervello e il cannabidiolo, l'isomero responsabile delle proprietà psicoattive della canapa.
Dopo l'assunzione del medicinale a base di questa pianta si può persino guidare l'auto, e potrà essere prescritto anche ad anziani e bambini.

(La Voce della Russia, 4 dicembre 2012)


Ente del Turismo Israeliano: Primo Premio GIST "Best Information

L'Ente del Turismo Israeliano ha vinto il Io Premio "Best Information Campaign" per l'anno 2012, assegnato dal GIST (Gruppo Italiano Stampa Turistica) nel corso della consueta cena natalizia organizzata in collaborazione con ADUTEI, l'Associazione che riunisce i Delegati ufficiali del Turismo Estero in Italia. L'evento, che si è svolto il 28 novembre 2012 nel ristorante COST di Milano e ha visto riuniti i soci GIST, molti giornalisti di stampa turistica nonché i principali enti del turismo stranieri in Italia, è stata l'occasione scelta per consegnare il premio ideato e voluto dal GIST per individuare l'Ente che ha fornito ai media nel 2012 la migliore informazione ai giornalisti, in termini di efficacia, efficienza e completezza. Se il Palmarès è andato ad Israele, Spagna, Austria e Mauritius hanno ricevuto le menzioni assegnate dalla giuria per tre singole "componenti" della comunicazione, individuate e ritenute dal GIST come significative per il raggiungimento dell'obiettivo finale, vale a dire RICEVERE e FARE informazione in modo corretto e professionale: 1) migliore newsletter (Spagna); 2) migliore photo gallery (Austria); 3) miglior video (Mauritius). La giuria che ha assegnato i premi, presieduta da Aldo Bolognini Cobianchi e composta da Graziella Leporati, Donatella Luccarini, Stefano Passaquindici, Claudio Pina ed Elena Pizzetti, ha giudicato la campagna di informazione dell'Ente del Turismo Israeliano come "la migliore per efficacia, tempestività e completezza. L'Ente del Turismo Israeliano utilizza tempi e metodi che rispondono alle esigenze della stampa turistica italiana, anche grazie a un'ottima capacità di individuazione delle notizie, un'apprezzabile attenzione per l'esposizione e la sintesi, oltreché capacità di problem solving. Un modo di fare informazione che agevola i giornalisti nello svolgimento del proprio lavoro". La giuria si è avvalsa, nel giudizio, anche delle segnalazioni giunte dai soci GIST, che hanno votato numerosi per sia il premio finale che per le singole categorie.
I premi sono stati assegnati a Milano dal Presidente GIST, Sabrina Talarico, alla presenza del neo Presidente ADUTEI Ioana Ciutre Podosu, direttore dell'Ente Nazinale per il Turismo della Romania.

(Tribuna Economica, 4 dicembre 2012)


La pace tra israeliani e palestinesi passa dal karate

Arti marziali per la pace tra israeliani e palestinesi: è la "Budo for peace" un'organizzazione fondata nel 2004 da Danny Hakim, un ebreo di origini australiane, per promuovere il rispetto e l'integrazione in una regione così delicata come la Striscia di Gaza."Si tratta - spiega - di costruire la fiducia e mettere insieme le due comunità; è un'organizziazione che lavora per l'integrazione"."Non è solo uno sport - aggiunge l'istruttore Abed - grazie alle arti marziali, infatti, si impara a essere più intelligenti e a rispettare le altre persone". Il gruppo conta quasi 700 iscritti con palestre in Israele, Giordania e Turchia e una nuova scuola a Sydney, in Australia.

Video

(la Repubblica, 3 dicembre 2012)


A Tel Aviv nasce la scuola dei 'profeti'

Rilascerà un attestato dopo selezione e studio molto duri

di Massimo Lomonaco

TEL AVIV, 3 dic - Una scuola per diventare ''profeta'' con tanto di attestato per una ''missione'' che non sembra proprio alla portata di tutti. ''La scuola per profeti di Caino ed Abele'' - cosi' si chiama - aprira' domani non a Gerusalemme, 'Citta' tre volte santa', quanto invece nella piu' laica ed aperta Tel Aviv. Chi vorra' frequentarla - apprestandosi a superare una durissima selezione - dovra' recarsi nel quartiere di Florentin, zona molto trendy, regno dei giovani anti tutto e mal disposti a verita' rivelate una volta per tutte.
Scopo della scuola e' quello di preparare ''una generazione di profeti'' che, in tempi di relativismo, possano dare un indirizzo morale al popolo. Secondo la tradizione ebraica, la ''profezia'' ha avuto termine tra gli ebrei dopo il Secondo Tempio (distrutto da Tito nel 70 dopo Cristo) e ritornera' solo durante la generazione della redenzione, che vedra' l'arrivo del Messia. Un passo importante dunque.
Ma il fondatore della scuola, il rabbino Shmuel Portman Hapartzi, che dice di essere affiliato alla corrente messianica dei Chabad (che sembra non aver gradito l'iniziativa), non la pensa cosi'. ''La generazione della profezia - ha detto, citato dal quotidiano Yediot Ahoronot - e' gia' arrivata e le profezie sono di nuovo permesse''.
Per diventare ''profeti'' si dovra' studiare sodo. Tra i corsi obbligatori ci sono, 'la scienza del volto', 'la scienza dei sogni', 'l'introduzione allo Spirito divino e alla profezia'' e ovviamente 'l'introduzione alla sapienza degli angeli'. Un percorso non facile che alla fine portera' ai nuovi profeti un attestato. Per ora le iscrizioni al corso (200 shekel, circa 40 euro, il costo) sono in tutto una decina, ma solo i migliori potranno raggiungere il sospirato attestato.

(ANSAmed, 3 dicembre 2012)


Onu, una vetrina dell'ostilità a Israele

di Pier Luigi Battista

Con un provvedimento mondiale dettato da improrogabili esigenze di spending review, si potrebbe utilmente chiudere l'Onu per manifesta inutilità. Le Nazioni Unite conquistano la vetrina del mondo ogni volta che bisogna umiliare in qualche modo
Israele (dimenticando che lo Stato israeliano è nato grazie a una spartizione Onu che prevedeva la nascita di uno Stato palestinese, a suo tempo accettato da Israele e rifiutato dagli arabi). Per il resto, ogni volta che c'è da difendere la pace, o proteggere qualche martoriata popolazione dagli effetti di una pulizia etnica, o tutelare i diritti umani, l'Onu sparisce, o addirittura consegna le chiavi agli aguzzini. Come quando affidò alla Libia di Gheddafi la presidenza della commissione per i diritti umani, o all'Iran delle lapidazioni quella per la difesa dei diritti delle donne. Oggi affida alla Turchia il compito di difendere il vessato popolo palestinese. Ma nessuno le chiede conto del trattamento del popolo curdo. E il fatto che ad Ankara non si può nemmeno nominare il massacro degli armeni.
Nel Ruanda l'Onu non c'era, e se c'era manifestava la sua impotenza. A Srebrenica i caschi blu c'erano, ma per non muovere un dito contro le stragi. L'Onu non c'è, neanche un comunicato, una nota di disappunto, una timida perplessità pubblica, quando bande di fanatici tentano di uccidere in Pakistan una ragazzina la cui unica colpa è di voler andare a scuola. L'Onu non c'è quando i cristiani sono sterminati in Nigeria. L'Onu non c'è quando Morsi si proclama dittatore. L'Onu lascia soli i giovani che protestano di nuovo a piazza Tahrir, non alza la voce se alle ragazze della «primavera araba» i Fratelli musulmani hanno imposto i test obbligatori di verginità. L'Onu non c'è a fermare l'eccidio del Darfur. L'Onu non c'è quando la Cina vessa, a scopo dissuasivo per i possibili emuli, le famiglie dei giovani tibetani che si danno fuoco per I'ìndìpendenza della loro Patria. L'Onu non c'è quando si apprende che, sempre in Cina, le operaie sono costrette a fare il test di gravidanza per imporre l'aborto di Stato. L'Onu non c'è quando nella Birmania dei simpatici e coraggiosi monaci vestiti d'arancione viene perseguitata la minoranza musulmana. L'Onu non c'è mai, per definizione.
Però c'è quando deve organizzare a Durban un convegno contro il razzismo che diventerà la più clamorosa manifestazione di antisemitismo sotto l'egida delle Nazioni Unite: una vergogna assoluta. C'è se deve far sfilare sul palco del Palazzo di Vetro le delegazioni delle numerose tirannie sparse nel mondo che condannano all'unisono la «disumana» Israele. In questo caso c'è sempre. E allora, se proprio non si vuole abolire l'Onu, si operino dei tagli netti per convocare solo un paio di volte l'anno l'assemblea generale per inveire contro Israele. Risparmio assicurato ma the show must go on.

(Corriere della Sera, 3 dicembre 2012)



Lettera aperta a Benjamin Netanyahu, detto Bibi

Italia, 3 dicembre 2012

Caro Bibi,
   spero che mi permetterai di chiamarti confidenzialmente così e di darti del tu, anche se non ci siamo mai conosciuti. Sono più avanti di te negli anni e inoltre so, per quel pochissimo ebraico che finora ho imparato, che nella tua lingua non esiste la forma di cortesia. Ma soprattutto so che non ti offenderai, per il semplice fatto che non ti capiterà di leggere queste righe. Ma immaginare di scriverti serve a me, per chiarirmi le idee e in parte per dare un po' di sfogo all'amarezza che provo in questi gioni per quello che si sente dire su di te e sul tuo paese.
   La prima ragione per cui ti scrivo è per chiederti scusa come italiano. Naturalmente non ho alcuna responsabilità personale, ma faccio parte di una nazione il cui governo pochi giorni fa ha commesso un'ignobile vigliaccata verso il tuo paese allineandosi con nazioni che, come tu ben sai e anche il nostro governo sa, quello che vogliono è soltanto la sparizione di Israele. Ci avevate contato, voi israeliani, sulla nostra amicizia: pensavate che di noi italiani ci si potesse fidare. E invece no. Purtroppo no. Ci avete sopravalutati. Vorrei chiederti scusa non soltanto perché la mia nazione ha approvato quel cumulo di menzogne e odio che è stato il discorso del relatore arabo-palestinese, ma anche per le parole di "amicizia" che ti sono state rivolte in seguito per rabbonirti da chi ci governa. Certamente, come politico navigato sarai abituato ai linguaggi ipocriti, ma so che in certi momenti fanno più male dei fatti che si vorrebbero "chiarire".
   Qualcuno ha detto che la decisione dell'Assemblea Generale dell'Onu, che ha accordato all'Autorità Palestinese lo status di Paese osservatore non membro, è stata "benedetta" dallo "spirito" di Yasser Arafat. Bisogna crederci, perché l'ha detto la vedova di Arafat, e da quelle parti di certi spiriti se ne intendono. Ed è proprio di questo globalizzato spirito arafattiano di menzogna e odio che si è imbevuta quell'assemblea dell'Onu. E la nostra nazione vi ha partecipato. Per questo sento il dovere, in segno di testimonianza per tutti gli anonimi italiani che come me, pur non essendo in maggioranza, avrebbero voluto far sentire il loro dissenso, di chiedere scusa a te e alla nazione che rappresenti per l'ignobile scelta fatta dall'Italia in quella sede.
   La seconda ragione per cui mi rivolgo idealmente a te è per ringraziarti di quello che hai fatto per la tua nazione cercando di difenderla nei modi che il tuo governo ha ritenuto opportuni e possibili. Certo, si può sbagliare, ma in certe circostanze chi può essere sicuro di non farlo mai? "Israele adesso è isolato", dicono in molti, e forse credono di fare un'osservazione acuta, quando invece è una realtà evidente che va avanti da anni, per non dire da sempre. E di chi è la colpa? Di Netanyahu. O più in generale di Israele che va dietro a Netanyahu. Sono tanti quelli che lo dicono, anche fra gli amici d'Israele, anche fra gli ebrei. Non sai quante fini analisi si fanno in questi giorni, anche sui giornali italiani, e non solo su l'israeliano Haaretz, per dimostrare che hai sbagliato. E quante belle istruzioni retroattive ti sono state inviate (idealmente, come queste mie parole) per istruirti su quello che avresti dovuto fare e non fare. Se solo avessi potuto ascoltarli! A quest'ora Israele non sarebbe dov'è adesso. Adesso non sarebbe isolato. Adesso sarebbe... beh, non lo so, perché a dire il vero non lo dicono. Una cosa però ho notato: in tutte quelle analisi, o per lo meno in quelle che mi è capitato di leggere, manca l'indicazione precisa e concreta di quello che avresti dovuto fare dopo decine di giorni di pioggia di missili sulle vostre teste. Si trattano temi di alto livello strategico-politico, di rapporti con l'Onu, l'America, l'Egitto, l'Europa e altro ancora, ma di missili caduti sulle teste degli israeliani, e di quelli che sicuramente cadranno ancora sulle medesime teste, non si parla. O se ne parla sbrigativamente, en passant, per passare subito a qualche altro argomento ritenuto più importante. La cosa però non salta all'occhio dei lettori perché devi sapere, se per caso non te ne fossi ancora accorto, che per la maggior parte delle persone i missili che vi piovono sulla testa sono meno della metà di quelli che vi meritate. Di che vi lamentate dunque? E poi la gente è interessata alla pace, e la pace non è minacciata dai razzi islamici che distruggono le case degli ebrei, ma dalla costruzione di case per ebrei che tu, con riprovevole sfacciataggine, ti sei permesso di ordinare nella capitale del tuo Stato: un altro grave errore che anche molti tuoi amici ti rimproverano. Sta scritto nel profeta Zaccaria che negli ultimi giorni Dio farà di Gerusalemme "una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti". Si direbbe che questo stordimento sia già cominciato, perché la quantità di sciocchezze che anche le persone più sensate riescono a dire quando introducono nel loro discorso il tema di Gerusalemme è impressionante. Forse il consiglio implicito contenuto nel silenzio dei commentatori è che i missili islamici avresti dovuto lasciarli cadere sulle vostre teste e dedicarti alla politica di alto livello, come fanno loro. Questo però naturalmente non sarebbe stato accolto molto bene dagli israeliani, e tu lo sapevi. Quindi hai agito, e loro ti hanno appoggiato. E se qualcuno ti ha criticato, è stato soprattutto quando ti sei fermato. Hai fatto bene a cominciare l'attacco? Hai fatto male a cominciarlo troppo tardi? Hai fatto male a finirlo troppo presto? Io non lo so. So soltanto che hai fatto del tuo meglio per difendere il tuo paese, come era tuo dovere, mentre altri hanno fatto e fanno di tutto per denigrarlo e distruggerlo. Per questo ti ringrazio, perché il bene della nazione d'Israele sta a cuore anche a me, anche se non sono né ebreo né israeliano, come sta a cuore a tanti altri che come me non sono né ebrei né israeliani.
   So che tu lo sai, nel senso che sei a conoscenza dell'amore che molti cristiani evangelici (ma non tutti) hanno per Israele, e sai che non è finto. Anch'io sono fra quelli, e penso che sia un conforto per gli ebrei d'Israele sapere che ci sono persone non ebree e non israeliane che stanno dalla parte d'Israele per motivi non interessati.
   Il conforto è reciproco quando si avverte che questo amore è riconosciuto e creduto. Nell'ultimo viaggio che ho fatto in Israele ho avuto il piacere di sentir dire da Dan Bahat, lo scienzato che per anni è stato l'archeologo ufficiale di Gerusalemme, queste parole: "Sapete perché l'America sostiene Israele? Non è per la presenza della lobby ebraica, come molti dicono, ma per la presenza di milioni di cristiani evangelici che stanno dalla parte d'Israele". Ho provato un immenso piacere a sentire queste parole del tutto inaspettate, perché provenivano dalla bocca di un ebreo laico, informatissimo, coltissimo e intelligente, che non aveva nessun motivo per dirle se non perché corrispondono alla realtà come lui l'ha rilevata, in modo acuto e privo di pregiudizi, come ci ha mostrato di saper fare nelle ricchissime spiegazioni storiche e archeologiche che ci ha fornito nella visita di Israele che abbiamo avuto l'onore di fare sotto la sua preziosa guida.
   Quindi, caro Bibi, nella certezza di intepretare il sentimento sincero di molti miei fratelli in fede, ti rinnovo le mie scuse per quello che noi italiani abbiamo fatto, e i miei ringraziamenti per quello che hai fatto tu per i tuoi connazionali. E se anche queste parole non arriveranno a te personalmente, potranno forse essere lette da qualcuno che è in sintonia con quello che tu sei e rappresenti per Israele.
   Con stima e simpatia,
   Marcello Cicchese

(Notizie su Israele, 3 dicembre 2012)


Chi ha votato cosa, sulla Palestina

La lista completa del voto all'assemblea generale dell'Onu: chi ha votato sì, chi ha votato no (un solo paese europeo), chi si è astenuto e chi non c'era


L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato per il riconoscimento della Palestina come "stato osservatore non membro", status che le consentirà di partecipare ai dibattiti delle Nazioni Unite e di far parte in futuro della Corte Penale Internazionale. I voti favorevoli sono stati 138, quelli contrari 9, quelli astenuti 41.

Hanno votato a favore:
Afghanistan, Algeria, Angola, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Argentina, Armenia, Austria, Azerbaijan, Bahrain, Bangladesh, Bielorussia, Belgio, Belize, Benin, Bhutan, Birmania, Bolivia, Botswana, Brasile, Brunei, Burkina Faso, Burundi, Cambogia, Capo Verde, Repubblica Centrale Africana, Chad, Cile, Cina, Unione delle Comore, Congo, Costa Rica, Costa d'Avorio, Cuba, Cipro, Repubblica Democratica Popolare di Corea (Corea del Nord), Danimarca, Dominica, Repubblica Dominicana, Ecuador, Egitto, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Etiopia, Filippine, Finlandia, Francia, Gabon, Gambia, Georgia, Ghana, Giamaica, Giappone, Gibuti, Giordania, Grecia, Grenada, Guinea, Guinea Bissau, Guyana, Honduras, India, Indonesia, Iran, Iraq, Irlanda, Islanda, Italia, Kazakistan, Kenya, Kuwait, Kirghizistan, Laos, Lesotho, Libano, Libia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malesia, Maldive, Mali, Malta, Marocco, Mauritania, Mauritius, Messico, Mozambico, Namibia, Nepal, Nicaragua, Niger, Nigeria, Norvegia, Nuova Zelanda, Oman, Pakistan, Perù, Portogallo, Qatar, Russia, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Sao Tomé e Principe, Isole Salomone, Senegal, Serbia, Seychelles, Sierra Leone, Siria, Somalia, Spagna, Sri Lanka, Sudafrica, Sudan, Sud Sudan, Suriname, Svezia, Svizzera, Swaziland, Tagikistan, Tailandia, Tanzania, Timor Est, Trinidad e Tobago, Tunisia, Turchia, Turkmenistan, Tuvalu, Uganda, Uruguay, Uzbekistan, Venezuela, Vietnam, Yemen, Zambia, Zimbabwe.

Hanno votato contro:
Israele, Stati Uniti, Panama, Palau, Canada, Isole Marshall, Narau, Repubblica Ceca e Micronesia.

Si sono astenuti:
Albania, Andorra, Australia, Bahamas, Barbados, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Camerun, Colombia, Repubblica di Corea (Corea del Sud), Croazia, Repubblica Democratica del Congo, Estonia, Fiji, Germania, Guatemala, Haiti, Lettonia, Lituania, Repubblica di Macedonia, Malawi, Moldavia, Monaco, Mongolia, Montenegro, Paesi Bassi, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Polonia, Regno Unito, Romania, Ruanda, Samoa, San Marino, Singapore, Slovacchia, Slovenia, Togo, Tonga, Ungheria, Vanuatu.

Erano assenti alla votazione:
Guinea Equatoriale, Kiribati, Liberia, Madagascar, Ucrain

(il Post, 30 novembre 2012)


Perché la Repubblica Ceca ha votato no sulla Palestina?

C'entra la politica filo-americana del governo, ma anche gli accordi di Monaco del 1938 e una lunga vicinanza a Israele

La Repubblica Ceca è stata uno dei 9 stati che giovedì hanno votato contro l'ammissione della Palestina alle Nazioni Unite come "stato osservatore non membro", l'unico di tutta l'Unione Europea. Si è trattato solo dell'ultima manifestazione di una stretta alleanza diplomatica tra Repubblica Ceca e Israele che dura da molto tempo. Anche un anno fa, ad esempio, la Repubblica Ceca aveva votato contro l'entrata della Palestina nell'UNESCO. Durante l'operazione Piombo Fuso, nel 2008-09, era stato l'unico paese europeo a sostenere il diritto di Israele a difendersi. Una posizione sostenuta anche in occasione della guerra in Libano nel 2006. Insomma: la Repubblica Ceca è considerata uno dei più fedeli alleati di Israele in Europa.
Certamente influiscono su queste scelte il fatto che l'attuale governo di centrodestra sia vicino alla politica estera statunitense (oltre che a quella dei cosidetti "euroscettici"). Appoggiare Israele, in realtà, è anche un modo per restare vicino agli Stati Uniti, un altro dei nove paesi che hanno votato contro nella recente votazione alle Nazioni Unite. Ma la vicinanza dei cechi ad Israele risale addirittura agli anni '20, quando uno stato ebraico in Palestina ancora non esisteva.
E a voler andare ancora più indietro, il motivo di questa solida alleanza ha le sue radici nella storia. Già nel Medioevo e nei secoli successivi quella che oggi chiamiamo Repubblica Ceca, la Boemia, era un paese multiculturale. Apparteneva al Sacro Romano Impero, ma si trovava al confine con l'Europa orientale. Aveva una popolazione in parte di lingua tedesca e in parte di lingua ceca, cioè slava. Era presente una forte comunità ebraica, divisa anch'essa tra ebrei di lingua germanica e slava.
A causa di questo clima multiculturale, le antiche élites boeme erano animate da sentimenti antisemiti molto meno intensi che nei paesi confinanti, come la Polonia ad esempio. Gli ebrei all'epoca erano molto integrati con il mondo dell'industria, dell'arte, della scienza e della finanza. All'epoca della prima repubblica (che all'epoca comprendeva anche la Slovacchia che si sarebbe poi separata dopo la caduta del muro di Berlino), nata in seguito alla fine dell'impero austro-ungarico dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, il clima nel paese era di vero e proprio filo-sionismo.
Il primo presidente del nuovo stato, Tomà? Garrigue Masaryk, appoggiò la creazione di uno stato ebraico in Medio Oriente e fu tra i primi capi di stato a visitare negli anni Venti la Palestina Britannica, dove all'epoca stavano cominciando ad insediarsi numerose comunità ebraiche. In riconoscenza del suo contributo alla nascita di Israele, a Tel Aviv gli è stata dedicata una piazza. La prima repubblica cecoslovacca ebbe una vita molto breve: in seguito agli accordi di Monaco negli anni '30 il piccolo stato fu, praticamente, ceduto senza contropartite alla Germania nazista in cambio della pace.
In sostanza, con la conferenza di Monaco, una larga parte della Repubblica Ceca abitata da cechi di lingua tedesca fu ceduta alla Germania. Nei mesi successivi l'Ungheria fascista si annetté altri territori cecoslovacchi e alla fine il poco che rimaneva divenne un protettorato tedesco. Tutto questo avvenne prima che scoppiasse la Seconda Guerra Mondiale e con il consenso di Francia e Regno Unito.
Questi eventi, fondamentali ancora oggi per i cechi, hanno portato il paese ad avere una sfiducia naturale nella capacità della comunità internazionale di risolvere i conflitti con la diplomazia. Inoltre è possibile che la Repubblica Ceca si identifichi con Israele: in questa visione, Israele sarebbe l'unica democrazia circondata da stati autoritari che ne minacciano l'integrità, proprio come la piccola repubblica negli anni Trenta.
Si tratta di una teoria che sembra confermata dagli avvenimenti degli anni successivi. Nel 1948, dopo il ritorno all'indipendenza in seguito alla fine della guerra, la Cecoslovacchia fu uno dei primi paesi a riconoscere lo stato di Israele, ma lo stesso anno fece anche altro. Come ad esempio violare l'embargo e spedire 10 mila fucili e quasi cento aerei da combattimento, più munizioni e altre armi ancora, per permettere a Israele di difendersi nella prima, e più difficile, delle guerre arabo-israeliane. Israele ricambiò il favore nel 2004, concedendo le sue basi ai piloti cechi per addestrarsi in vista della missione in Afghanistan.

(il Post, 1 dicembre 2012)


Le ricette tipiche dell'Hanukkah

di Alessandro Nasi

  
Ti sei mai chiesto quale sia il vero significato di Hanukkah e quali siano le ricette tipiche di questa festa ebraica? Hanukkah è una delle più importanti celebrazioni ebraiche, oltre ad essere sicuramente la più conosciuta. Molto spesso viene definita il Natale ebraico, perchè pur avendo un significato religioso del tutto diverso, viene a cadere nello stesso periodo dell'anno. Secondo il calendario ebraico, che fa riferimento ai cicli della luna, Hanukkah ha inizio al tramonto del 24 del mese di kislev e dura otto giorni, durante i quali si usa accendere le candele di un candelabro particolare a otto bracci, chiamato chanukiah.

- Significato della festa
  La cerimonia dell'accensione delle candele simboleggia il passaggio dell'uomo dalle tenebre alla luce e celebra il miracolo di Hanukkah, narrato nel libro sacro del Talmud. La storia vuole che, dopo la riconquista del tempio di Gerusalemme da parte degli ebrei, i Maccabei vollero riconsacrare il tempio che era stato profanato dai pagani, accendendo la Menorah, cioè il candelabro sacro, che doveva essere alimentato solo con olio di oliva puro. Nonostante l'olio presente nel Tempio fosse sufficiente solo per una giornata, riuscì a durare per il tempo necessario a produrre dell'altro olio puro, cioè otto giorni.

- Ricette tipiche
  In occasione della festa di Hanukkah, parenti ed amici si riuniscono per ricordare quest'evento, scambiarsi doni e consumare insieme i piatti tipici di questa festa. Tra le ricette tipiche di Hanukkah ci sono:
I Sufganiot, cioè delle ciambelline che vengono fritte in olio bollente e spolverizzate con lo zucchero a velo. L'impasto viene realizzato con ingredienti semplici, come farina, burro, lievito e uova. Il fatto che vengano fritti in olio d'oliva non è un caso, ma sta a ricordare il miracolo dell'olio consacrato nel tempio.
I Latkes, delle piccole frittelle di patate, ottenute tagliando le patate a listarelle sottili. Queste poi vengono amalgamate insieme a uova, farina e cipolla, in modo da ottenere un composto pronto per essere fritto.
Gli Hanukkah gelt, ovvero delle monete di cioccolato.Questo è sicuramente il dolce preferito dai bambini, che ricevono le monete in segno di affetto e prosperità, come buon auspicio.

(VenereTravel, 3 dicembre 2012)


A Budapest centomila contro l’antisemitismo

Protesta bipartisan contro la 'lista ebrei' degli xenofobi di Jobbik

BUDAPEST, 2 dic - Rispondendo all'appello di associazioni ebraiche, piu' di 100.000 persone, in rappresentanza della maggioranza e dell'opposizione, hanno manifestato domenica a Budapest davanti al parlamento per protestare contro i rigurgiti neonazisti e contro l'istigazione all'odio razzista e antisemita, dopo l'ultima provocazione del partito estremista xenofobo Jobbik, che alcuni giorni fa ha chiesto al governo di stilare una lista degli ebrei che pongono ''un rischio per la sicurezza nazionale''.

(ANSA, 2 dicembre 2012)


Sì alla Palestina sull'asse Monti-Riccardi

Leggendo nei recenti viaggi di Monti e nelle proposte mediterranee di Riccardi si capisce come è nato il voto dell'Italia sulla Palestina. Un fatto di enorme rilievo.

di Guido Moltedo

Andrea Riccardi
Non solo affari. Non solo un road show per presentare la "nuova" Italia e attirare capitali nella nostra economia in affanno. Nel suo giro nei paesi del Golfo, una decina di giorni fa, Mario Monti ha parlato anche di politica con i suoi interlocutori. Di quella domestica, certo, per rassicurare emiri e sultani dubbiosi sulle nostre capacità di ripresa, ma anche di quella regionale, con particolare riferimento allo scacchiere israelo-palestinese e alla crisi siriana. Nel suo colloquio a Mascate, con il sultano Qabus dell'Oman il presidente del consiglio ha discusso anche temi «strategici».
   Riferiva il 19 novembre scorso l'Ansa che i due hanno discusso dello scenario regionale segnato dagli «sviluppi in Medio Oriente e in Nord Africa e del ruolo che l'Oman e l'Italia possono svolgere» tra l'altro per favorire la pace «in Siria e a Gaza». Stessi discorsi nelle tappe in Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti. L'Italia, se vuole essere una nazione credibile sul piano economico, e con la quale dunque fare business, deve dimostrare di avere un alto profilo politico riconosciuto. Non più paese "minore" e quasi sotto tutela americana - a distanza di ventitré anni dalla caduta del Muro! - ma attore forte e autonomo, nazione-cerniera tra due sponde del Mediterraneo, come si addice alla sua posizione geografica e alla sua storia. Monti è apparso consapevole, fin dall'inizio del suo mandato, dello stretto nesso che deve esserci tra capacità di fare politica sul piano internazionale, crescita dello status dell'Italia e della sua credibilità, e possibilità di uscire dalla crisi economica, restando nel club delle potenze mondiali.
   Questo linkage si è rivelato in tutta la sua evidenza nel modo nel quale il presidente del consiglio si è mosso e si muove sia nel perimetro europeo sia nei confronti degli Stati Uniti. Ora in Medio Oriente. In questo, è sostenuto con vigore da Giorgio Napolitano, anch'egli conscio, non da adesso, dell'importanza di una "nostra" politica estera, non più dettata da arcaiche e ormai controproducenti consuetudini e obbedienze.
   In questo quadro va visto il sì italiano all'innalzamento dello status della Palestina all'Onu. Va visto come innanzitutto una prova di forte soggettività italiana, che in molti non si aspettavano. In passato si sono mitizzate le posizioni mediterranee dei Moro, degli Andreotti e dei Craxi, ma nessuno prima di questo governo aveva "osato" tanto, smarcandosi apertamente da Washington e da Tel Aviv. E questo non è avvenuto in ossequio a una scelta "filoaraba", come sarebbe apparso evidente in passato, ma in virtù di una capacità nuova di usare pienamente la propria forza politica e diplomatica su tutti i fronti, sapendo anche dire no a richieste irricevibili di amici e alleati storici.
   In questa dinamica e nell'esaltazione della funzione di grande paese mediterraneo, contano molto, nel governo e nel rapporto con Monti, il peso e il ruolo di Andrea Riccardi, ministro per la cooperazione internazionale e l'integrazione. Il fondatore di Sant'Egidio è un fautore non solo del dialogo interreligioso (lunedì scorso ha incontrato al Cairo Ahmad al Tayyeb, grande imam di al Azhar, un po' il "papa" dei sunniti) ma anche dell'intensificazione delle relazioni nel Mediterraneo, nello sforzo costante di far incontrare e mettere in rapporto anche paesi in ostilità.
   Se Giulio Terzi di Sant'Agata svolge da tecnico il suo ruolo di ministro degli esteri, e in questa veste è sempre presente al fianco di Monti, Andrea Riccardi è un personaggio che sa muoversi con agilità
politica e diplomatica, e lo fa da anni, nel mondo e, soprattutto, in ambienti complicati come quello mediorientale. Inoltre, ha ottimi rapporti con il Vaticano, che - nel caso del riconoscimento della Palestina, in particolare, ma non solo - ha molto apprezzato la posizione italiana. Negli snodi cruciali è il "politico" Riccardi che Monti ascolta, non il "tecnico" Terzi (contrario al sì alla Palestina).
   La "scoperta" di un'autonomia forte italiana nell'arena internazionale sta dunque diventando un tratto distintivo di questo governo. L'importante è che anche il grosso del mondo politico realizzi questa acquisizione, lasciando finalmente cadere riflessi condizionati di schieramento subalterno a tutti i costi dietro qualcuno o qualche idea di stereotipata di mondo. E così l'ambiente diplomatico. Terzi, già ambasciatore a Washington e a Tel Aviv, rischia di rappresentare una Farnesina con lo sguardo rivolto al passato.

(globalist, 2 dicembre 2012)


“Un fatto di enorme rilievo”, dice l’articolista. Effettivamente è così, ed è un rilievo molto, molto inquietante. Questa “nuova Italia” che nasce e cresce al di fuori del Parlamento attirerà prima o poi l’attenzione del “popolo italiano” in nome del quale i governanti dovrebbero governare? M.C.


Netanyahu: continueremo a costruire negli insediamenti

GERUSALEMME, 2 dic. - "Israele continuera' a costruire a Gerusalemme e in ogni luogo sulla mappa degli interessi strategici di Israele". Lo ha dichiarato oggi il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu citato sul sito Ynet news.
"Il passo unilaterale dell'Autorita' Nazionale Palestinese all'Onu -ha aggiunto- e' una chiara violazione degli accordi firmati. Uno stato palestinese non puo' essere costituito senza che vi sia un relativo accordo per la sicurezza dei cittadini israeliani e prima che l'Anp riconosca Israele come stato del popolo ebraico e dichiari la fine del conflitto".

(Adnkronos, 2 dicembre 2012)


The State of "Palestine" Quiz


Effetti collaterali non previsti

Bene, i palestinesi hanno mezzo piede alle Nazioni Unite. Siamo tutti contenti per loro.
   Mettiamo che Abu Mazen, dimenticandosi per un momento di essere stato l'organizzatore della strage di Monaco del 1972, e il mandante di diecine di attentati suicidi fino alla costruzione della barriera difensiva fra Israele e Cisgiordania; si facesse cogliere da amore improvviso per la democrazia, indicendo in Cisgiordania nuove elezioni (gli organi democratici sono scaduti da tre anni).
   Prevedibilmente, le elezioni le vincerebbe Hamas (quelle amministrative recenti sono state una disfatta totale per Al Fatah). Una organizzazione che NON intende riconoscere lo stato di Israele, NON intende procedere alla creazione di uno stato palestinese, e alla fine vedrebbe premiata gli sforzi degli ultimi anni, culminati con la recente "guerra degli otto giorni".
   Soprattutto, Hamas è riconosciuta come organizzazione terroristica dalla stessa ONU, dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea. Quell'Europa di cui fa parte l'Italia, che ha votato a favore della risoluzione presentata dal Sudan (quello del dittatore autore del genocidio nel Darfur, con oltre 400 mila morti).
   Un bel guaio abbiamo combinato. L'Europa ha controfirmato gli Accordi di pace di Oslo nel 1993, che tracciavano la rotta per finalmente porre fine al conflitto arabo-israeliano, e adesso avalla la decisione dell'OLP di cestinare quegli accordi, che escludevano esplicitamente iniziative unilaterali da parte dei due contendenti. L'Europa che ha versato miliardi di euro nelle casse dell'ANP, confidando in un negoziato bilaterale, adesso plaude alla decisione di far saltare il processo di pace.
   Capisco che l'approvazione della risoluzione era inevitabile: l'assemblea generale dell'ONU (193 membri votanti) è in mano ai paesi non allineati (120, presieduti dall'Iran), per cui domani potrebbero votare una risoluzione che stabilisce che la Terra è quadrata, e tutti saremmo indotti a credervi. Ma che bisogna c'era di associare il proprio voto favorevole a quelli di stati canaglia e apertamente filo-islamici? C'entra qualcosa forse il fatto che qualche giorno fa l'Italia abbia stretto un accordo con il Qatar, che tramite Al Jazeera influenza e orienta l'opinione pubblica globale, e che di recente ha promesso generosi investimenti nella Striscia di Gaza amministrata da Hamas? Di certo è una decisione strategica di natura squisitamente politica, e non tecnica, quella presa dal governo di Roma, che per questo oltretutto non risponderà ad un parlamento che negli ultimi anni aveva assunto un orientamento più filoisraeliano e meno sbilanciato verso le posizioni filoarabe.
   Intanto si incominciano a scorgere i primi effetti nefasti di questa sciagurata decisione che casomai apporterà vantaggi personali soltanto al contestato presidente dell'OLP, frustrato dall'improvviso guadagno di visibilità e legittimazione dei rivali di Hamas. Il governo di Gerusalemme ha autorizzato la costruzione di nuovi alloggi nei quartieri orientali di Gerusalemme e nei territori contesti del West Bank. Iniziativa coerente: caduti gli Accordi di Oslo, non c'è più alcun vincolo per il governo israeliano a congelare ogni decisione relativa agli insediamenti in Giudea e Samaria.
   E cosa succederà quando l'Iran - che sta approfittando dello scompiglio delle ultime settimane per ultimare il suo progetto nucleare - raggiungerà la famigerata linea rossa? verosimilmente, lo schieramento su cui potrà contare lo stato ebraico riguarderà gli Stati Uniti, l'Australia, il Canada e forse Germania e repubblica ceca; ma non Italia, Spagna e Francia, fra gli altri, troppo interessati a tessere relazioni finanziarie con il mondo arabo per indispettirne un rilevante esponente. Un mondo spaccato a metà, che cestina ogni prospettiva di pace a cui pure in precedenza aveva alacremente lavorato, per il tramite del "Quartetto" (Stati Uniti, Russia, ONU e Unione Europea; una definizione che adesso suscita solamente ilarità).
   Ma non bisogna vedere il bicchiere sempre mezzo vuoto. Uno dei tanti "effetti collaterali" non calcolati dalla scelta palestinese di chiedere il riconoscimento parziale all'ONU, è che mentre prima gli attentati terroristici durante e dopo l'intifada, erano azioni di singoli, "movimenti di liberazione e di resistenza", censurabili eventualmente a livello morale e ideologico, ma non condannabili nelle sedi opportune; oggi le stesse aggressioni sarebbero assimilabili ad atti di guerra di uno stato contro un altro stato. Abu Mazen ci penserà molto attentamente prima di "scatenare la terza intifada".Effetti collaterali non previsti

(Il Borghesino, 1 dicembre 2012)


Donne e religione: la lezione di Shira, giovane «sposa promessa»

di Carlotta De Leo

Minuta, graziosa e ancora frastornata per il successo inaspettato. Hadas Yaron, 22enne di Tel Aviv, ha vinto la Coppa Volpi all'ultima mostra di Venezia e ora arriva a Roma per accompagnare l'uscita del film-sorpresa che ha convinto giuria, pubblico e critica della Laguna: «La sposa promessa» di Rama Buhrstein (attualmente nelle sale, distribuito dalla Lucky Red). Una pellicola che racconta, in maniera semplice e oggettiva, i principi della comunità ebrea ultra ortodossa chassidica di cui fa parte la stessa regista. Una comunità chiusa a a qualsiasi forma di modernità, niente tv, niente cinema. E anche le donne, immerse in una cultura così patriarcale, vivono secondo rigidi precetti di separazione dei sessi e i loro matrimoni spesso vengono combinati. «Anche Shira, la protagonista del film, fa parte di questo mondo e il suo futuro sarà scelto dalla famiglia. E per me, da laica, era difficile entrare in questa prospettiva. Ho chiesto alla regista di darmi i compiti a casa, di indicarmi dei libri da studiare. Lei però mi ha detto solo di leggere attentamente la sceneggiatura e di non riempirmi la testa di queste cose. Dovevo solo leggere la sceneggiatura e cercare di provare le stesse sensazioni di Shira».
    Shira ha 18 anni ed è promessa sposa ad un giovane della sua stessa età: un matrimonio combinato che però le fa battere il cuore. Il suo sogno d'amore, però, va in frantumi quando durante la festa del Purim la sorella maggiore Esther, muore di parto mettendo al mondo il suo primogenito. Poco dopo a Yochay, il marito di Esther, viene proposto di unirsi ad una vedova belga. Per evitare che l'uomo lasci Tel Aviv e porti con sé il suo unico nipote, la mamma propone un'unione tra la giovane Shira e Yochay. Shira dovrà dunque scegliere se ascoltare il suo cuore o seguire la volontà della famiglia. «Shira è una ragazzina che durante il film diventa donna. In questo senso mi sento anche io molto vicina perchè sono in un'età di passaggio- racconta Hadas - Tra noi, però, c'è una grande differenza: quello che Shira vive nel film, le emozioni travolgenti, la storia d'amore e il matrimonio sono tutte cose che lei vede e sperimenta per la prima volta. Un esempio banale: lei non ha mai visto nemmeno un film d'amore e non sa cosa voglia dire innamorarsi. Io ho visto la mia prima commedia a nove anni…».
La forza straordinaria del film è che a prima vista sembra non contestare in alcun modo i precetti religiosi, anche quando impongono a una ragazzina di sacrificare il suo futuro e i suoi sentimenti. Eppure, dietro questo sguardo di accettazione, i silenzi, le esitazioni e i comportamenti dei protagonisti compongono un ritratto meno schematico e semplicistico. Insinuano dubbi, insomma, su ciò che sia veramente giusto. E questo è merito della regista - nata a New York e diventata molto religiosa solo dopo il diploma - che usa il cinema proprio per far conoscere la comunità ultra ortodossa al mondo. «Conoscere Rama è stato conoscere l'intera comunità - dice Hadas - Tutti i venerdì sera durante la lavorazione del film andavamo a cena a casa sua, abbiamo assistito di persona a tutte le cerimonie che si vedono nel film: un matrimonio, una circoncisione e abbiamo parlato con un importante rabbino di Gerusalemme. Tutto quello che si vede nel film noi lo abbiamo vissuto per cercare di calarci nei nostri personaggi e nella storia».
Ma lei Hadas, giovane e laica, cosa ne pensa di questo mondo di femmine remissive in una società che non tiene conto dell'evolvere dei tempi?
    «Chi guarda da fuori la comunità chassidica pensa che le donne siano messe in un'angolo, che non abbiano diritto di parola. Ma quello che ho imparato dalla regista Rama e dalle altre ortodosse che ho conosicuto sul set è che queste donne sono molto forti, prendono decisioni e scelgono».
In effetti le donne hanno un ruolo predominante come madri (quindi anche trasmettitrici dell'ortodossia) e consigliere. Ma, va ricordato, il matrimonio è quasi un obbligo e spesso è combinato dalla famiglia. Inoltre, le donne non possono studiare la Torah nelle yeshivah (scuole religiose) e dall' infanzia fino, in età adulta, vivono competamente separate dagli uomini proprio perchè è vietato ogni contatto fisico prima delle nozze. «Grazie a questo filma ho scoperto che esiste una grande comunità di ultra otrodossi a Tel Aviv di cui io non sapevo quasi nulla - ammette la protagonista - Vivono in centro, in una zona molto frequentata, piena zeppa di centri commerciali, negozi e locali. Dopo le riprese, un giorno stavo passeggiando per la strada principale con indosso i vestiti di tutti i giorni e ho incontrato la figlia della regista, una ragazzina molto bella che fa parte della comunità. Lei mi aveva conosciuto solo con gli abiti di scena, simili a quelli che portava lei. Ci siamo salutate, ma l'incontro è stato davvero strano e interessante. Adesso che so dell'esistenza di questa comunità ci farò molto più caso e la guarderò con occhi diversi».
La cronaca di questi giorni impone una riflessione più ampia. Il film racconta una minoranza ma è anche un esempio di convivenza, sottolinea principi e valori che a prima vista si contraddicono e poi trovano una sintesi. E' questa la chiave del dialogo tra Israele e Palestina? «Non so, mi piacerebbe poter avere la risposta. Quello che è accaduto sul set è che persone diverse, laiche e religiose, hanno lavorato insieme e si sono rispettate a vicenda. Nessuno ha cercato di indottrinare gli altri. Abbiamo capito che ci trovavamo di fronte esseri umani come noi e c'è stato un dialogo profondo» ricorda Hadas.
    «Forse è questo il segreto: riuscire a dialogare e a rispettare gli altri, a guardarli sempre come semplici esseri umani, al di là della loro religione o in altri casi la fazione politica o il paese d'origine. Se questo succedesse ovunque, se noi guardassimo il prossimo come un essere umano degno del nostro rispetto, forse riusciremo cambiare le cose per davvero. Almeno è quello che spero».
(Corriere della Sera, 29 novembre 2012)


La Turchia invoca uno stato indipendente palestinese

ISTANBUL, 1 dic. - Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha auspicato la creazione di uno Stato palestinese indipendente come ptrimo passo verso la pace in Medio Oriente. Parlando al Forum turco-arabo a Istanbul, Davutoglu ha definito "un passo significativo" lo status di Stato osservatore non membro ottenuto dai palestinesi all'Onu.
"Questo e' il momento per arrivare a una pace permanente nella regione", ha insistito. "Ci auguriamo che la bandiera palestinese verra' issata all'Onu con lo status di Stato membro", ha affermato il capo della diplomazia turca. Davutoglu ha anche criticato l'offensiva di Israele su Gaza a novembre: "Questo e' il momento di mostrare forti reazioni alle politiche israeliane che minano il processo di pace".

(AGI, 1 dicembre 2012)


Come già detto altre volte, tutto fa pensare che sarà nel nome della pace che le nazioni marceranno contro Israele. Sempre di più Israele sarà visto come il nemico numero uno della pace. Di consiguenza, per avere la “pace permanente” auspicata dal ministro turco prima o poi non resterà altro che decidersi ad eliminare “permantemente” questo nemico. Si potrà dare così una “soluzione finale” al “problema della pace”, diventato ormai l’ultima forma del “problema ebraico”. M.C.


La vedova di Arafat: Berlusconi all'Onu avrebbe votato contro la Palestina

"La decisione dell'Assemblea dell'Onu è stata benedetta dallo spirito di Yasser Arafat"

ROMA, 1 dic. - Suha Arafat, la vedova del leader palestinese scomparso nel 2004, vuole "ringraziare l'Italia" per il voto all'Onu sulla Palestina e si dice convinta che "se Silvio Berlusconi fosse stato ancora al governo, avrebbe votato contro. Alla fine era ostile a mio marito". La decisione dell'Assemblea Generale, che ha accordato all'Autorita' nazionale palestinese lo status di Paese osservatore non membro, e' stata "benedetta" dallo "spirito" di Yasser Arafat, dice la donna. In un'intervista al Corriere della Sera, Suha Arafat parla anche della riesumazione della salma del marito, avvenuta nei giorni dello storico voto all'Onu e delle indagini in corso per accertare se Yasser Arafat sia stato avvelenato.

(Adnkronos, 1 dicembre 2012)


Riconoscimento Palestina: la vittoria di Pirro di Abu Mazen

"Qualunque concessione, anche dolorosa, che faccia Israele non sarà mai sufficiente a placare la voglia araba di spazzare via lo Stato Ebraico."

Cosa cambia in Medio Oriente dopo che ieri l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deliberato che la Palestina entri come "stato osservatore" all'Onu? Sostanzialmente non cambia niente,anzi, se possibile complica ulteriormente il cammino verso un accordo di pace con Israele.
Peccato che moltissimi Stati europei, in primis l'Italia, si siano fatti abbindolare dalle solite menzogne strumentali di Abu Mazen. Evidentemente i politicanti europei non guardano Palestinian Media Watch che puntualmente riferisce il vero e unico pensiero palestinese che non è certo quello di raggiungere la pace con Israele ma che anzi è tutto volto alla sua distruzione. Abu Mazen, come al solito, dice delle cose in inglese a tutto il mondo per poi sovvertirle quando parla in arabo ai suoi cittadini. E' sempre stato così dai tempi di Arafat ed è così anche oggi. Solo che i politicanti mondiali continuano a cadere (non si sa quanto innocentemente) in questo tranello.
Il mondo ha dato la colpa a Israele per l'empasse del processo di pace e per questo ha creduto che riconoscere la Palestina come Stato osservatore all'Onu potesse in qualche modo convincere Gerusalemme ad accettare le condizioni palestinesi. Ed è qui che il mondo si sbaglia. Israele non può accettare le condizioni poste dai palestinesi semplicemente perché sono poste deliberatamente per ottenere un rifiuto. Non si può tornare ai confini del 67, Israele non può rinunciare alla sua capitale, Gerusalemme, o a una parte di essa. Ma soprattutto Israele non può accettare il rientro di milioni di falsi profughi palestinesi.
Abu Mazen ha avuto quello che già aveva, cioè il cieco sostegno di un mondo miope, nulla di più e nulla di meno. Solo che quel cieco sostegno da ieri è diventato ufficiale e questo non può che peggiorare le cose, non migliorarle. Non cambierà il fatto che le pretese palestinesi sono impossibili da concedere. Non cambierà il fatto che qualunque concessione, anche dolorosa, che faccia Israele non sarà mai sufficiente a placare la voglia araba di spazzare via lo Stato Ebraico.
Il tempo ci dirà se la vittoria diplomatica ottenuta ieri da Abu Mazen si trasformerà in una vittoria di Pirro, cioè in una vittoria troppo costosa per il risultato ottenuto. L'impressione è che sarà così. I Governi europei che hanno appoggiato la richiesta palestinese hanno giustificato il loro voto con la necessità di "favorire i moderati" e di "dare una spinta ai colloqui di pace tra Israele e Palestina". Secondo noi hanno preso un abbaglio colossale, prima di tutto perché Abu Mazen è un finto moderato (è solo più furbo di Hamas) e secondo perché i palestinesi non hanno mai veramente voluto riprendere i colloqui con Israele. Tra Gerusalemme e Ramallah ci sono solo sette minuti di macchina e in tutti questi anni non hanno mai invitato il Premier israeliano. Da ieri quei sette minuti sono diventati una distanza incolmabile.

(SPMedia, 1 dicembre 2012)


Israele isolato? Ci è abituato e saprà resistere

di Fiamma Nirenstein

Fossi in Israele, me ne andrei dall'Onu; le serve solo a raccogliere isolamento e delegittimazione. Ma Israele è dura, abituata all'isolamento che nasce nel cuore malato delle parole di fuoco, come quelle che Abu Mazen ripeteva; Israele è uno Stato mostro, di apartheid, parafascista, che uccide i poveri palestinesi innocenti... E tutti lo hanno votato, anche noi. Una sua parola di pace non si è sentita, nè di riconoscimento dello Stato Ebraico, nè di condanna del terrorismo; non si è sentito l'impegno a non gettare via gli accordi di Oslo, la road map, gli incontri traditi dai palestinesi stessi... si è sentito solo odio, condanna, eppure il voto gli ha fatto eco. Il mondo ha isolato Israele di nuovo, l'Onu è specializzato in questa operazione; i palestinesi vi lavorano incessantemente invece di costruire una economia e una democrazia. L'organizzazione che dovrebbe promuovere la pace è da sempre militante contro Israele, la lobby islamica vi lavora coadiuvata dai Paesi del Terzo Mondo.
   Il Piccolo Satana è la «donna dello schermo» del Grande Satana, gli Usa, che non si possono attaccare direttamente pena guai economici. La madre delle risoluzioni persecutorie di massa fu la 3379, «sionismo eguale razzismo», approvata dall'assemblea generale nel novembre 1975, 72 a favore, 35 contrari, 32 astenuti. È stata cancellata nel 1991. Adesso stiamo peggio, la risoluzione «Palestina» è passata con 138 voti a favore, 9 contrari, 41 astensioni. L'Italia si è allineata alla peggiore Europa che combatte professionalmente Israele in tutte le istituzioni. È l'Onu però, con le istituzioni collaterali, il terreno più arato da chi odia Israele. Le risoluzioni antisraeliane dell'Assemblea sono innumerevoli, vanno da «deplora profondamente» a «chiede con urgenza», a «condanna con sdegno»... si contano a migliaia, occupano quasi tutta la biblioteca delle risoluzioni, passano a grande maggioranza. Iran, Cina, Arabia Saudita, Darfur, Afghanistan sono ignorati. È un campione a sé il Consiglio per i Diritti umani, che finanziamo per condannare solo Israele, fino a raggiungere il 100 per cento delle sue risoluzioni. La Commissione per i Diritti umani fu chiusa perchè, fra le tante, il suo presidente era la Libia di Gheddafi, poi il Consiglio ha fatto anche peggio. L'Unesco poi ha dichiarato Stato membro la Palestina, ha dichiarato Moschea la Tomba dei Patriarchi, quando ha fatto una conferenza su Gerusalemme non ha invitato Israele. Normale? Sì, per gli antisemiti è fantastico. È triste pensare che anche l'Italia abbia partecipato a questo massacro che ha radici molto più profonde di quello che vogliamo sapere.

(il Giornale, 1 dicembre 2012)


Perché è giusta la decisione di autorizzare nuovi insediamenti

di Sarah F.

A poche ore dalla decisione delle Nazioni Unite di ammettere la Palestina come "Stato osservatore" , una decisione che di fatto mette la parola fine agli accordi di Oslo, Israele risponde esattamente come dovrebbe, cioè prendendo atto della fine degli accordi di Oslo e autorizzando quindi la costruzioni di 3.000 nuove unità abitative a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.
Le nuove unità abitative verranno erette a Gerusalemme Est, a conferma che la capitale indivisibile di Israele è proprio Gerusalemme, e nel segmento che collega Ma'ale Adumim con Gerusalemme, noto come il progetto E1. Altre iniziative simili sono previste nei prossimi giorni.
La decisione è stata presa dal Governo Israeliano come risposta alla decisione delle Nazioni Unite di ammettere la Palestina come "Stato osservatore" all'Onu. A Gerusalemme precisano però che "non si tratta di una ritorsione ma semplicemente della presa d'atto che essendo morto il processo avviato con gli accordi di Oslo, tutto viene rimesso in discussione per quanto riguarda i territori contesi".
La decisione del Governo israeliano è quindi sostanzialmente giusta e corretta e rientra in quelle "conseguenze" di cui si deve far carico Abu Mazen a seguito delle sue decisioni. Ogni uomo politico sa che quando intraprende una strada, qualunque essa sia, dovrà affrontare le logiche conseguenze delle proprie scelte. Abu Mazen ha scelto la strada dello scontro e della demolizione dei trattati di Oslo, quindi adesso ne deve accettare le conseguenze.
Proteste contro la decisione del Governo israeliano sono arrivate un po' da ogni parte, anche dagli Stati Uniti, tuttavia la scelta ormai è stata fatta e, ripetiamo, è perfettamente in linea con le decisioni prese dall'Assemblea Generale dell'Onu e dal leader palestinese Abu Mazen. La linea israeliana è chiara: "mai più terra in cambio di pace" ma solo "pace in cambio di pace".

(Rights Reporter, 1 dicembre 2012)


I fondamentalisti puniranno l'ingenuità dell'Onu

di Michael Sfaradi

La votazione di ieri all'assemblea delle Nazioni Unite che con 138 voti a favore, 9 contrari e 41 astenuti, ha trasformato lo status dei palestinesi da semplici osservatori a Stato osservatore non membro, viene oggi celebrata, tranne poche voci fuori dal coro, come la più grande vittoria politica a cui i palestinesi potessero aspirare. La quasi totalità della stampa mondiale ha preferito guardare la faccia lucente della medaglia e nascondere il resto, cosa tipica quando si tratta di Palestina e palestinesi.
  Detto questo mi prendo la responsabilità di spiegare anche quello che non viene detto in modo che i lettori possano avere un quadro più chiaro della situazione di ciò che è successo veramente e di quali potrebbero secondo me essere le conseguenze sia a livello regionale che internazionale. Il ruolo di osservatore alla Nazioni Unite era già da diversi anni in mano all'Organizzazione per la liberazione della Palestina, la famosa Olp del defunto Yasser Arafat. Oggi, dopo il tanto decantato voto, il nuovo status non comprende solo il partito Fatah di Abu Mazen, come in molti vogliono far credere, ma la Palestina tutta, compresa la striscia di Gaza dove Hamas, organizzazione considerata terroristica da gran parte dell'occidente, regna incontrastata e con il tallone d'acciaio della Sharia islamica dopo un colpo di stato "manu militari".
  Abu Mazen è si il presidente eletto ma la sua parola a Gaza, non è un mistero, conta meno di niente, e ora, anche vista la nuova situazione, saranno necessarie nuove elezioni presidenziali per capire chi sarà il nuovo inquilino della Muqata (Palazzo presidenziale palestinese di Ramallah) ed elezioni politiche per il nuovo parlamento. Come saranno le elezioni in quel lembo di dittatura che è diventata la striscia di Gaza? C'è qualcuno che in tutta coscienza si sente di assicurare che saranno libere e democratiche? Ci saranno osservatori internazionali o, come sempre accade, il mondo girerà la testa dall'altra parte facendo finta di niente? Nelle elezioni comunali svoltesi recentemente in Cisgiordania, nella quasi totalità dei comuni in cui si è votato hanno vinto i rappresentanti di Hamas.
  Questo è un chiaro messaggio e Abu Mazen sa perfettamente che le probabilità che Hamas porti a casa la presidenza e la maggioranza assoluta del parlamento sono altissime. A livello regionale, anche in caso di elezioni politiche regolari, a cosa assisteremo in Cisgiordania? È prevedibile, anche se non augurabile, la riedizione di ciò che accadde a Gaza quando diversi rappresentanti di Fatah furono uccisi durante il colpo di stato e quelli che ebbero salva la vita lo dovettero all'intervento, dove fu possibile, dell'esercito israeliano che li fece uscire dalla striscia e garantì loro il passaggio fino a Ramallah.
  E a livello internazionale? A livello internazionale forse il problema è ancora più grave perché alle Nazioni Unite, prima volta nella sua storia, ci troveremmo uno Stato osservatore non membro che all'articolo 7 dello statuto della sua maggiore forza politica presenta la jihad contro il sionismo come rispondente alle parole proferite dallo stesso Maometto, per le quali i musulmani combatteranno ed uccideranno gli ebrei: «Molti ostacoli siano stati posti di fronte ai combattenti da coloro che si muovono agli ordini del sionismo così da rendere talora impossibile il perseguimento del jihad, il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta - le benedizioni e la salvezza di Allah siano su di Lui - dichiarò: "L'Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me - vieni e uccidilo"». Per cui l'Onu si ritroverà ad aver accettato tra le sue fila uno Stato, quello palestinese, che ha tutta l'intenzione di distruggere un altro Stato, Israele, che fa parte dell'organizzazione. Cosa contraria alla Carta stessa delle Nazioni Unite. La figuraccia sarà cocente e correre ai ripari forse impossibile.
  Un altro aspetto che molti osservatori hanno messo sotto la lente di ingrandimento è la possibilità da parte del nuovo Stato non membro, la Palestina, di citare i governanti israeliani, gli ufficiali dell'esercito israeliano e i soldati stessi, per crimini di guerra davanti al Tribunale penale internazionale dell'Aia. Se questo aspetto è stato messo in luce, altri, seguendo il copione di sempre, sono stati nascosti, ad esempio il Tribunale dell'Aia interviene nel caso in cui la nazione in questione non abbia una magistratura indipendente che possa liberamente indagare sul comportamento dei politici, dei militari o di ogni altro organo dello Stato. Questo non si può dire di Israele, che a livello di libertà della magistratura può insegnare alla quasi totalità delle nazioni del mondo, dove un ex presidente della repubblica e tre ministri attualmente in prigione stanno lì a testimoniare che in Israele veramente nessuno è al di sopra della legge.
  Poi, altro particolare nascosto, anche lo Stato ebraico può ora portare i dirigenti di Hamas e Fatah, che si sono macchiati di crimini contro l'umanità con un terrorismo che ha colpito indiscriminatamente la popolazione civile, davanti allo stesso tribunale e metterli davanti alle loro responsabilità. Non possiamo dimenticare che nel mondo civile la legge è uguale per tutti. Concludendo, poi, vedere Abu Mazen leggere un discorso pieno di odio e falsità davanti a un'assemblea festante è stato veramente un triste spettacolo, reso ancora più angosciante dalla considerazione che proprio lui, quaranta anni fa, fu l'ideatore e il finanziatore dell'attentato alle olimpiadi di Monaco 72 dove persero la vita undici atleti israeliani e un poliziotto tedesco.

(ilsussidiario.net, 1 dicembre 2012)


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