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Notizie 16-28 febbraio 2017


Rav Sacks: "Le bugie antisemite del Bds sono un pericolo per tutti noi"

Come testimoniano i fatti di Roma, con la cancellazione dell'iniziativa in Campidoglio legata al movimento che propugna il boicottaggio d'Israele, il Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) continua a cercare spazi per esprimersi e legittimazione. L'incontro nella Capitale, poi cancellato ufficialmente, rientra in quello che a livello internazionale è noto come l'Israel Apartheid Week, una settimana di appuntamenti il cui orientamento è già chiaro dal titolo: contestare in modo velenoso Israele e propagandare le tesi del Bds. In risposta a queste iniziative, rav Jonathan Sacks, già rabbino capo del Commonwealth, ha realizzato un video divenuto subito molto popolare sui social network in cui spiega perché "chiunque abbia a cuore una società libera" deve far sentire la propria voce contro il Bds...

(moked, 28 febbraio 2017)


California, allarme bomba in un centro ebraico

Paura al Merage Jewish Community Center: evacuate circa 1.000 persone

Militari al Merage Jewish Community Center
Un centro ebraico di Irvine, in California, è stato evacuato ieri pomeriggio a causa di un allarme bomba: lo riporta la Cbs Los Angeles. Circa 1.000 persone sono state evacuate dal Merage Jewish Community Center e dalla vicina scuola Tarbut V'Torah, scrive l'emittente sul suo sito. L'allarme è scattato alle 16:40 di ieri ora locale (l'1:40 di notte in Italia). Finora non è stato trovato alcun ordigno esplosivo.
In ogni caso le tensioni sociali provocate dai problemi razziali continuano a crescere negli Stati Uniti e gli episodi di antisemitismo aumentano, con decine minacce di attentati contro organizzazioni ebraiche registrate dall'inizio di gennaio. Lo scorso fine settimana oltre 170 tombe nel cimitero ebraico di St. Louis sono state vandalizzate. Uno dei tanti episodi di una serie di atti di antisemitismo, avvenuti in corrispondenza con l'entrata in carica del nuovo presidente Donald Trump.

(La Stampa, 28 febbraio 2017)


*


Ancora «minacce bomba» contro scuole e centri ebraici

Ancora minacce di bombe contro scuole e centri ebraici in tutti gli Stati Uniti. Sarebbero 16, secondo fonti di stampa, i centri ebraici che hanno ricevuto telefonate minatorie, in dodici Stati diversi: Alabama, North Carolina, New York, Connecticut, New Jersey, Indiana, Pennsylvania, Florida, Maryland, Michigan, Virginia e Delaware. In alcuni casi le minacce hanno provocato l'evacuazione degli edifici. La nuova ondata, la quinta dall'inizio dell'anno, di telefonate minatorie contro centri e scuole ebraiche è arrivata dopo che durante il weekend sono state profanate decine di tombe nel cimitero ebraico di Filadelfia. La scorsa settimana i vandali avevano attaccato il cimitero ebraico di St.Louis, in Missouri. Durante il briefing con i giornalisti, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer ha detto che il presidente Trump è «dispiaciuto e preoccupato per questi episodi di violenza nei confronti della comunità ebraica americana.

(Avvenire, 28 febbraio 2017)


La Shoah ricompose l'anima ebraica dopo l'illusione dell'assimilazione

Goffaggine e orrore. Appelfeld e Arendt a confronto.

di Antonio Donno

 
                                             Hannah Arendt                                                                            Aharon Appelfeld
I profughi della Shoah vagarono a lungo in Europa, sperduti e, nello stesso tempo, desiderosi di trovare un luogo di approdo definitivo, ma "secondo me - scrive Aharon Appelfeld in Oltre la disperazione (Guanda) - un altro punto fece da catalizzatore per quei sentimenti contrastanti in cerca di armonia e, se volete, di sollievo: la terra d'Israele. Soltanto della Palestina la gente parlava in un tono che ricordava la fede". Molto spesso i sopravvissuti avevano perso la fede, perché la loro invocazione "Ascolta Israele",
  • che avevano lanciato al cielo mentre erano in fila per entrare nelle camere a gas, non era stata ascoltata. Era il dramma esistenziale di un popolo che aveva subito "la devastazione dell'identità", compresa quella religiosa. Ora, però, per molti, la terra di Israele era il ritorno alla fede, all'antica tribù.
       L'ultimo romanzo di Appelfeld, Il partigiano Edmond (Guanda)- anticipato lo scorso gennaio dal Foglio - descrive la vita di una piccola parte della tribù d'Israele che si isola sulle montagne polacche e sopravvive alla deportazione. Uomini validi, bambini, donne, vecchi, malati, compongono tutti un microcosmo della tribù d'Israele: "Il nostro patto non può sciogliersi. Siamo legati da una fratellanza pietosa". La loro volontà è saldissima, il loro progetto è chiaro: "Non si può combattere un nemico così determinato senza amore verso la tribù, il suo Dio e le sue credenze". Il ritorno alla fede si traduce nella volontà di salire sempre più in alto, per sfuggire al nemico, ma soprattutto per sentirsi sempre più vicini a Dio. Raggiunta la vetta, si è compiuta l'aliyah, l'ascesa lungo la montagna polacca in cui si erano rifugiati, ma che per loro rappresenta il monte Sion, la salvezza per la piccola tribù, la meta ultima della loro fede, una sorta di ricomposizione del popolo ebraico in una terra che gli è ostile: quasi una sfida a chi odia gli ebrei e la dimostrazione che il popolo ebraico vivrà, a dispetto di tutti i suoi nemici. Arriverà, infine, l'Armata Rossa, pensavano, che ci ripagherà di tutte le sofferenze patite e ci darà la possibilità di ricostituire la nostra tribù, quel che resta del popolo ebraico. Illusione. La speranza diventa certezza per la piccola tribù di Israele: "Saremo sempre insieme, tutti coloro che sono stati sulla vetta la porteranno con sé ovunque. Porteranno con sé i vivi e quelli che sono spirati. Senza paura, stare insieme è come essere in una fortezza". E' ciò che Appelfeld sostiene in Oltre la disperazione: "Siamo abituati a pensare che la Seconda guerra mondiale abbia spento le ultime scintille di fede ebraica. Non è così. Come ogni eruzione vulcanica, la Shoah ha fatto emergere strati profondi". Lo dice lo stesso Edmond: "La Torah e l'amore ci tengono insieme qui e là". E Kamil, il capo del gruppo: "Siamo un'anima sola e dobbiamo custodirla". La Shoah ha ricomposto l'anima ebraica, dopo le illusioni dell'assimilazione nel mondo dei gentili. Gli ebrei sopravvissuti dovettero sostenere non solo l'orrore di ciò che avevano vissuto durante la Shoah, ma soprattutto il crollo di tutte le speranze di assimilazione in un mondo normale in cui avevano creduto negli anni Venti e Trenta. Dopo la Shoah, scrive Appelfeld in Oltre la disperazione, "la storia ebraica si è stagliata davanti a noi nella sua forma più distillata, faccia e faccia", senza possibilità di equivoci, senza doppiezze. E così, dopo l'orrore e la perdita, "in Palestina in quegli anni noi cercavamo piuttosto il senso della vita dopo la morte". La rinascita.
       Il tempo della "goffaggine" (Appelfeld) con la quale gli ebrei avevano aspirato all'assimilazione era definitivamente scaduto. Su questo tragico argomento l'analisi di Appelfeld collima con quella di Hannah Arendt, che in L'ebreo come paria (1944)- ora pubblicato nella sua forma integrale dalla Giuntina - stigmatizza il rifiuto di sé che caratterizzò la storia degli ebrei dell'Europa centrale, con esiti catastrofici. Scrive Arendt: "Come individui, essi iniziarono un'emancipazione di sé, dei propri cuori e cervelli. Una tale concezione era, naturalmente, un grossolano fraintendimento di quanto s'intendeva che sarebbe stata l'assimilazione". Così, popolo paria, quegli ebrei intesero affrancarsi dal proprio ebraismo, rinunciarono a essere inseriti nei vari contesti in quanto ebrei, "anziché scimmiottare i gentili o giocare al parvenu". Lo stesso concetto è espresso da Appelfeld come un'accusa: quegli ebrei "volevano forse che continuassimo a tessere la trama della negazione, a occultare le tracce dell'identità, sì che nessuno sapesse più chi e che cosa era?". Per Appelfeld il rifiuto della negazione di sé è stato Israele, ma non per Arendt.

    (Il Foglio, 28 febbraio 2017)


    Forse è già scaduto il tempo della goffaggine sionista laica: cioè l’assimilazionismo nazionale. L’illusione che il mondo possa accettare Israele come nazione tra le altre, uguale a tutte le altre, ormai è svanita. O forse no, non del tutto. E’ ancora tenuta in vita da quelli che dicono di volere “due stati per due popoli che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza”. In qualche caso è goffaggine, in molti altri è imbroglio. M.C.


    Troppo sesso e corruzione, Ramallah vieta il libro giallo

    Minacce di morte all'autore, ma i download si moltiplicano.

    di Fabio Scuto

     
    Abbad Yahaia
    Un thriller scuote le strade di Ramallah. È di uno scrittore palestinese. Il sociologo e giornalista Abbad Yahaia autore del romanzo è in Qatar - dov'era per una fiera libraria - e adesso ha paura di rientrare ed essere arrestato. Il tema e lo sviluppo della sua «crime story» hanno fatto arrabbiare il procuratore generale Ahmed Barak che ha ordinato l'arresto e il sequestro delle copie (500) ancora nelle librerie di Ramallah. La famiglia, qui in città, vive tappata in casa perché è stata minacciata, la pagina Facebook di Abbad è piena di insulti e promesse di una rapida e dolorosa fine. Il presidente degli scrittori Murad Sudani si schiera contro di lui: linguaggio troppo esplicito, sesso, sangue. «Un romanzo che viola i valori nazionali e religiosi della società per tranquillizzare l'Occidente e vincere premi», commenta velenoso al telefono evadendo la domanda se ha letto o meno il libro. Ma c'è anche qualche ministro a cui piace e che prova a reagire, il dipartimento della Cultura dell'Olp diretto da Hanan Ashrawi ha chiesto di far cadere le accuse in nome della libertà di espressione. Il libro è introvabile in tutta la Cisgiordania - mai un ordine di sequestro è stato eseguito così rapidamente dalla polizia palestinese - ma tutti ne parlano, «Omicidio a Ramallah» ha scatenato un ampio dibattito pubblico fra i conservatori della società palestinese e la piccola minoranza liberale.
       Ma cosa c'è di così incompatibile con la morale da far paragonare questo thriller ai «Peccati di Peyton Palace» o ai «Versetti satanici» di Rushdie? La trama riguarda l'omicidio di una ragazza davanti a un bar dove lavorano il fidanzato e due altri giovani, le cui vite passate al setaccio da una polizia ottusa saranno devastate. Sullo sfondo dell'indagine prende luce uno spaccato inedito della società palestinese che finge di non vedere i cambiamenti che si stanno innestando. Il diffondersi della malavita e di piccole gang, i delitti d'onore che ancora si commettono, la corruzione, i dubbi sulle capacità della polizia, l'inanità dei politici. Su Facebook si sfidano pro e contro il romanzo. Ghassan K. scrive: «Yahia dovrebbe essere ucciso o espulso». Hussein M. loda il divieto: «Un libro distruttivo per le giovani generazioni». Gamal O. invece scrive: «Romanzo coraggioso, contro i tabù, avrei voluto che non finisse mai».
       Il libro uscito in sordina un paio di mesi fa, tirato in un migliaio di copie, è il quarto romanzo del ventinovenne Abbad Yahia - dopo «Ramallah la Bionda», «Giuramento» e «Telefono pubblico» - aveva venduto fino alla scorsa settimana qualche centinaio di copie. Fadi Gulan, libraio di centro città, racconta che in due mesi ne aveva vendute solo una decina di copie. «Il giorno del divieto ne ho vendute 17 copie, un paio d'ore dopo è arrivata la sicurezza per sequestrare tutto». L'editore Fuad Aleek è stato arrestato per strada «come un terrorista» dice lui, e trattenuto per 7 ore prima che il ministro della Cultura Ehab Bsaiso intervenisse.
       «Utilizzare il termine pubblica decenza è una forma di manipolazione e giustificazione inaccettabile - spiega senza mezzi termini la signora Hanan Ashrawi - perché non ha una definizione legale o logica. Apre le porte a una censura senza fine». E non sarebbe la prima volta, visto che basta criticare il presidente Abu Mazen sui «social» per essere fermati e interrogati, la deriva autoritaria è ancora più pronunciata negli ultimi anni con la repressione di ogni forma di dissenso. Il libro di Abbad Yahia piace perché racconta una storia in cui una generazione di palestinesi si riconosce e ritrova la vita di tutti i giorni e anche se il procuratore generale Barak l'ha fatto ritirare dalle librerie non ha ancora bloccato Internet, dove il download prosegue spedito.

    (La Stampa, 28 febbraio 2017)


    L'Intifada pentastellata

    I grillini sono diventati uno dei partiti più ostili a Israele in Europa. Così nel giardino della "resistenza palestinese" vedono fiorire i garofani del progresso. Dai convegni alle mozioni, i grillini svenano per pregiudizio. La visione di Israele come avamposto colonialista.

    di Giulio Meotti

    Luigi Di Maio e Manlio Di Stefano a Hebron
    ROMA - Due anni fa, i Cinque stelle, assieme ad altri "parlamentari per la pace", invitarono a Montecitorio Omar Barghouti, il fondatore del movimento per il boicottaggio di Israele, che accusa lo stato ebraico di "nazismo". Stavolta il palcoscenico doveva essere il Campidoglio, dove la giunta Raggi aveva concesso una sala al boicottaggio d'Israele. Relatrice Ann Wright, leader della Freedom Flotilla, l'imbarcazione che sotto la bandiera umanitaria aveva cercato di portare solidarietà a Hamas. Decisivo il ruolo dell'ex vicesindaco Daniele Frongia, attuale assessore allo Sport, legato alla filiale italiana di quell'nternational Solidarity Movement che promuove "campagne di resistenza non-violenta nei Territori palestinesi" e per il boicottaggiodi Israele. Frongia e i Cinque stelle avevano già organizzato in Campidoglio eventi come quello sugli "Accordi di Oslo", dove avevano invitato Diana Carminati, l'autrice di "Boicottare Israele". Ieri alcune associazioni, come il Progetto Solomon, avevano chiesto al sindaco Raggi di impedire di "trasformare uno spazio comune in un palco da cui arringare sull'estromissione di aziende e docenti" israeliani. L'incontro è saltato, dopo che si è sfilato uno degli oratori, Stefano Fassina: "Favorire il dialogo". "Il boicottaggio fa tornare alla mente la Germania nazista, dove ben prima dello sterminio si cominciò con il boicottare i negozi ebraici, in Italia abbiamo avuto effetti simili con le leggi razziali", aveva denunciato Ruben Della Rocca, vicepresidente della Comunità ebraica di Roma, che aveva chiesto di "revocare la concessione di locali del Campidoglìo a questa pura campagna d'odio verso Israele condotta con metodi antisemiti".
      In Italia il Movimento Cinque stelle si è da tempo intestato la battaglia per l'emarginazione di Israele e la sua trasformazione agli occhi dell'opinione pubblica in uno strumento dell'imperialismo. E' questo il messaggio martellante che arriva dai pentastellati: nell'identificazione fra Israele, l'occidente e il capitalismo, noi uomini bianchi, contaminati dalle colpe del colonialismo, dovremmo coltivare i nostri rimorsi, e tacere, facendo tacere Israele. Israele, piccolo stato-santuario che raccoglie profughi di tre continenti, diventa così il simbolo dell'aggressione e dell'usurpazione.
      Questa piattaforma ideologica associa il Cinque Stelle ad alcuni dei partiti più ostili a Gerusalemme in Europa, Podemos in Spagna, il Labour corbiniano, il Front National di Marine Le Pen in Francia e lo Sinn Féin irlandese. Nel mirino della giunta Raggi c'è ad esempio l'intesa tra Acea spa e Mekorot WC ltd, firmato il 2 g del 2013 dall'allora primo ministro Enrico Letta e dall'omologo israeliano Benjamin Netanyahu. Già il 23 dicembre 2013, il gruppo capitolino del Movimento Cinque stelle, tra cui Virginia Raggi, disse che quell'accordo "contribuisce a legittimare le violazioni del diritto internazionale umanitario".
      Durante la guerra a Gaza del 2014, mentre Israele veniva ogni giorno puntellato di lanci di missili, i Cinque Stelle si preoccupavano di chiedere in Parlamento di fermare le vendite di armi a Israele e di ritirare l'ambasciatore italiano a Tel Aviv. Le posizioni espresse dai Cinque stelle, disse allora l'ambasciata israeliana a Roma, "sono simili a quelle espresse da altri gruppi estremisti, che si oppongono al sionismo e negano al popolo ebraico il diritto di vivere nel proprio paese, a prescindere dal limite dei suoi confini nazionali".
      A inveire contro Israele ci si sente sempre un po' grillini. Cosi, due settimane fa, Manlio Di Stefano, deputato e "responsabile esteri" dei pentastellati, ha definito "un abominio" la legge israeliana che legalizzava le colonie in Cisgiordania: "Il messaggio che Israele rivolge al mondo è che continuerà con le sue politiche di occupazione, di insediamento e guerra". Guerra? A inveire si finisce come il parlamentare pentastellato Paolo Bernini, che ha definito il sionismo "una piaga", con dovute dissociazioni dello stesso Di Stefano. O come un altro parlamentare, Stefano Vagnaroli: "Eccomi a Gerusalemme, città della pace dove l'uomo occupa, separa, violenta".
      A inveire contro Israele, si sa, ci si sente sempre un po' grillini. Così Alessandro Di Battista: "Quello che sta portando avanti Israele è un genocidio", niente meno. E ancora: "Siamo davanti a un'invasione, a una segregazione che dura da molti anni, con il popolo palestinese chiuso come fosse in una prigione". Poi arriva a spiegare che Israele è la causa dell'antisemitismo nel mondo: "Quello che bisogna semmai dire è che sono le azioni del governo israeliano la benzina gettata sul fuoco degli antisemiti nel mondo".
      I Cinque stelle hanno proposto sette passi per strangolare letteralmente Israele, fra cui il blocco di tutte le commesse di armi italiane nei confronti di Israele, lo stop degli accordi commerciali con le aziende israeliane che operano nei Territori e l'obbligo per l'Ue di identificare l'origine di ogni prodotto importato da Gerusalemme. Nelle mozioni presentate in Parlamento, i deputati grillini nella loro affabulazione spesso mistificano la realtà. E' successo a Gianluca Rizzo, che ha parlato in aula contro "la detenzione arbitraria di migliaia di palestinesi, compreso Marwan Barghouti, il 'Mandela palestinese'".
      Arbitraria fu la decisione di Barghouti di uccidere numerosi israeliani durante la Seconda Intifada, fatti per cui sta scontando cinque ergastoli. Benjamin Pogrund, il giornalista sudafricano che tenne incontri segreti con il leader sudafricano, ha sempre rifiutato qualsiasi confronto tra }landela e Barghouti, "I bianchi non dovevano preoccuparsi di attentati suicidi e sparatorie", ha scritto Pogrund, Ma i grillini forse la sanno più lunga.
      Anche quando si trova di fronte a una manifestazione palese e sfacciata di antisemitismo, il Cinque stelle nicchia. E' il caso del sindaco di Livorno, Filippo Nogarin. Accadde quando militanti appesero uno striscione sull'ex carcere del quartiere Venezia, non lontano dal municipio: "Fermare il genocidio a Gaza, Israele vero terrorista", recitava. Nogarin parlò di "una frase generica", di uno "striscione che aiuta a sviluppare un ragionamento", "perché è chiaro a tutti ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza", bisogna allora "far salire l'attenzione su questa nuova ondata di morte e terrore", cosi che "per me lo striscione può restare Il". A Livorno sarebbe poi scoppiato il caso del consigliere pentastellato Marco Valiani, che ha parlato di "giudeomassoneria italica", spingendo il presidente della comunità ebraica, Vittorio Mosseri, a scrivere al sindaco per chiedere "rispetto". Nogarin avrebbe concesso anche le sale comunali alla "Giornata per la Palestina". Giornate per la Palestina sì, Giornate della memoria meno. E' successo a Milano, Consiglio di zona tre, dove la grillina Patrizia Bedori, poi candidata sindaco a Milano per i Cinque stelle, ha votato contro le celebrazioni per la Giornata della memoria. Bedori sarebbe anche stata favorevole alle iniziative deliberate, ma secondo la "democrazia diretta" del Movimento, si è dovuto fare "portavoce" incaricata di votare come la maggioranza dei sostenitori decide. E la rete si era schierata contro la Giornata della. memoria."Il Consiglio di Zona dovrebbe dare i soldi per iniziative a favore di altri popoli oppressi, come i palestinesi", recitava la vox populi.
      Succede anche che l'Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia organizzi corsi di formazione per giornalisti e che l'incontro "Gaza - testimonianze oltre il muro", veda la partecipazione del grillino Manlio Di Stefano. E' lo stesso Di Stefano che, un anno fa, ha parlato come oratore al "Festival della solidarietà palestinese" a Roma. E' lo stesso Di Stefano che sul blog di Grillo è andato davvero alla "radice" del problema in medio oriente: "Comprendere a fondo il conflitto israelo-palestinese significa spingersi indietro fino al 1880 circa quando, nell'Europa centrale e orientale, si espandevano le radici del sionismo". Sciocco pensare che il conflitto israelo-palestinese risalisse al rigetto del mondo arabo-islamico della presenza ebraica in medio oriente. Il problema sono "le radici del sionismo".
      C'è un avvertimento nel blog di Beppe Grillo. "Non sono consentiti: messaggi con linguaggio offensivo o turpiloquio; messaggi con contenuto razzista o sessista". Va detto che Grillo non è responsabile di quanto lettori e fan lasciano scritto sul blog e lui stesso ha chiesto alla magistratura di eliminare commenti disdicevoli (che spesso però continuano a campeggiare sul blog). Ma nel suo sito ricorrono messaggi tipo quello su Charlie Hebdo: "Quanta puzza di servizi e longa manu israeliana!... ". Campeggiano elogi alla "resistenza" contro Israele: "I Palestinesi, i Libanesi, i Siriani, gli Iraniani, gli Irakeni, gli Yemeniti,una volta, anche i pakistani, sono gli unici che combattono la prepotenza sanguinaria di Israele e le sue mire egemoniche in medio oriente. I sionisti, quindi, hanno come ostacolo per il compimento del loro disegno, proprio i musulmani perché, ribadisco, sono gli unici che gli resistono".
      A inveire contro Israele, si sa, ci si sente più grillini. E' successo spesso anche a Grillo: "I bambini palestinesi studiano. Studiano da terroristi e Israele è il loro miglior maestro"; "la Palestina è sotto il tallone di Israele, alleata degli Stati Uniti"; "dietro Israele ci sono gli Stati Uniti o dietro gli Stati Uniti c'è Israele, chi è la causa e chi l'effetto?". "Chi è che gridava 'dopo di me non crescerà più l'erba'?", disse Grillo in uno show del 2000. "Chi? Ve lo ricordate? Attila. Oggi gli israeliani cosa dicono, 'dopo di noi non cresceranno più palestinesi'". Il 24 Giugno 2012 in un'intervista concessa al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, Grillo disse: "Tutto ciò che impariamo nei confronti di Israele e il mondo arabo-musulmano è filtrato dall'agenzia di traduzione Memri; diretto da un ex agente del Mossad, che manipola e distorce le parole degli arabi a favore della propaganda israeliana".
      In questa sinistra affabulazione grillina succede anche che Luca Frusone, deputato pentastellato e membro della commissione Difesa, partecipi a un convegno che gli "Amici del Libano in Italia" hanno convocato per discutere di "medio oriente tra resistenza alla guerra imperialista, caos e migrazioni". Al suo fianco un parlamentare di Hezbollah, Nawar el Salili, mentre Sameer el Abdaly, membro del governo yemenita, ha inviato una lettera per la lotta "contro il regime di apartheid israeliano".
      La scorsa estate, il grillino Luigi di Maio e altri "compagni di viaggio" si sono visti rifiutare da Israele il permesso di entrare a Gaza. Un gesto notoriamente tabù nella politica europea, perché equivale a un riconoscimento de facto del regime islamista che governa la Striscia da quando Hamas fece un colpo di stato dieci anni fa.
      Ma a inveire contro Israele, si sa, ci si sente sempre un po' grillini. E sui fucili palestinesi si vedono fiorire i garofani del progresso.

    (Il Foglio, 28 febbraio 2017)


    Roma - Annullato il convegno anti-lsraele

    Passo indietro di Fassina (SI) sulla conferenza in Campidoglio pro Palestina Gelo della Comunità ebraica romana: «È stato riparato un grande errore».

    Il movimento Bds
    È nato per il boicottare e proporre sanzioni contro Israele
    Assemblea capitolina
    Il presidente De Vito ha avviato accertamenti sulla vicenda

    di Susanna Novelli

     
    Il Campidoglio
    Il passo indietro lo ha fatto, alla fine, il consigliere capitolino di Sinistra Italiana Stefano Fassina: la conferenza in Campidoglio del movimento Bds prevista per oggi nella Sala della Piccola Protomoteca non si terrà più. Una svista importante quella dell'ex ministro che se ne era fatto promotore con un suo intervento in programma e da parte del Campidoglio che non si occupa di effettuare una pur minima verifica degli eventi per i quali vengono concessi spazi istituzionali.
       Eppure sarebbe bastato un semplice «click» su internet e leggere solo la definizione del movimento per rendersi conto che dare spazio a simili, sedicenti «diritti» viola innanzitutto, come ben ricordato dal presidente dell'Assemblea capitolina Marcello De Vito, lo Statuto di Roma Capitale. «Bds Italia» si autodefinisce: «Sezione italiana per il movimento a guida palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele».
       Una definizione che già di per sé non sembri incoraggiare il processo di pace, così come aveva forse erroneamente intuito Fassina. Che anzi ci aveva pure provato domenica sera a "tamponare" la protesta: «Il sottoscritto nella messa a disposizione di una sala - aveva detto l'esponente di Sinistra Italiana - ha seguito, come ogni volta che arrivano richieste di sale, un elementare principio democratico: il Campidoglio è la casa di tutti i romani con posizioni coerenti con la nostra Costituzione repubblicana e antifascista. Tanto che più che nel mio previsto intervento ribadirò quanto mi è capitato di dire in passato: sono contrario a iniziative di boicottaggio perché rischiano di generalizzare e di avere come destinatario un popolo non le politiche di un governo».
       Un "romanticismo" di un'ideologia arcaica che ha però messo nei «guai», squisitamente politici, lo stesso Fassina. la sollevazione della comunità ebraica e praticamente di tutte le altre parti politiche hanno infatti ben poco di ideologico e molto di un messaggio di democrazia che, proprio perché tale, non può far passare tutto. E questo lo ha capito pure il consigliere capitolino di Sinistra Italiana che nel primo pomeriggio ha diramato una nota che tuttavia rinvia l'iniziativa: «Di fronte alle preoccupazioni e alle gravi valutazioni espresse in merito all'iniziativa del movimento Bds prevista in Campidoglio, ritengo necessario un approfondimento e incontri di chiarimento. Pertanto, sospendiamo e rinviamo la disponibilità degli spazi in Campidoglio per lo svolgimento dell'iniziativa. La situazione tra.Israele e Palestina - conclude la nota - richiede a chi ha incarichi istituzionali e vuole contribuire al processo di pace di favorire il dialogo, non provocare anche involontariamente un allontanamento delle posizioni».
       Gelo da parte della Comunità ebraica romana che nella nota diffusa non cita mai l'esponente di Sinistra Italiana ma, non a caso, il grillino De Vito: «Si è riparato ad un grande errore - dice Ruben della Rocca, vice presidente della Comunità Ebraica di Roma - la pace non si ottiene con il boicottaggio. Abbiamo apprezzato Marcello De Vito che si è speso molto per sospendere il tutto. Fa male però pensare che debba intervenire la Comunità Ebraica per chiedere di bloccare una iniziativa. Roma è una città di pace e deve essere al centro dei rapporti di pace fra le varie religioni. Israele anela la pace e se qualcuno non lo capisce, è in malafede. Magari proprio Roma fosse protagonista di una conferenza di Pace. Si è riparato ad un grande errore - conclude - che avrebbe portato la città di Roma a vivere un evento brutto. Evento che non avrebbe di certo aiutato».
       Nonostante le polemiche di alcuni esponenti del Pd e di Forza Italia, lo scivolone stavolta non si può proprio attribuire al sindaco Virginia Raggi. Ma a una sinistra che ancora rincorre ideologie di parte e a degli uffici, questo sì, un po' distratti.

    (Il Tempo, 28 febbraio 2017)

    *


    Lo stop ai boicottatori d'Israele. Niente sala in Campidoglio

    Passo indietro e bocciatura a Roma per l'iniziativa organizzata dal movimento Bbs, che propugna il boicottaggio di Israele. Non si terrà infatti, dopo le proteste del mondo ebraico italiano - a partire da quelle della Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni - il convegno "Gaza, rompiamo l'assedio" previsto per domani alla Piccola Promoteca del Campidoglio. Ad annunciarlo Stefano Fassina, consigliere comunale e parlamentare di Sinistra Italiana che inizialmente aveva richiesto la sala. "Di fronte alle preoccupazioni e alle gravi valutazioni espresse in merito all'iniziativa del movimento Bds prevista per domani, 28 Febbraio, in Campidoglio, ritengo necessario un approfondimento e incontri di chiarimento. - ha dichiarato Fassina annunciando l'annullamento dell'incontro - Pertanto, sospendiamo e rinviamo la disponibilità degli spazi in Campidoglio per lo svolgimento dell'iniziativa". La situazione tra israeliani e palestinesi, ha proseguito Fassina, "richiede a chi ha incarichi istituzionali e vuole contribuire al processo di pace di favorire il dialogo, non provocare anche involontariamente un allontanamento delle posizioni". Una decisione, quella di annullare l'iniziativa, per cui la presidente UCEI ha espresso apprezzamento, sottolineando che si tratta di una scelta di maturità. Non si tratta di cancellare la libertà d'opinione, la posizione di Di Segni, ma della necessità di trattare questi argomenti con responsabilità e in modo da comprendere realmente cosa succede nella complessa realtà mediorientale. "Il Bds non è un movimento d'opinione, ma un vero e proprio catalizzatore di odio anti-israeliano e anti-ebraico. - aveva spiegato la presidente dell'Unione, chiedendo l'intervento del sindaco della Capitale Virginia Raggi per bloccare l'iniziativa in Campidoglio - Una realtà che si fa sempre più minacciosa, attraversando la società italiana a tutti i livelli. Ogni legittimazione istituzionale a questi malfattori risulta quindi non soltanto fuori luogo, ma decisamente pericolosa per l'insieme della collettività". A intervenire fra gli altri sulla questione e mobilitarsi per la revoca dell'incontro era stata nelle scorse ore anche la Comunità ebraica della Capitale.

    (moked, 27 febbraio 2017)


    Arab Idol 2017. Cristiano palestinese è il vincitore della più seguita gara musicale araba

    Yacoub Shaheen
    Si chiama Yacoub Shaheen e ha 23 anni, è palestinese ma di fede cristiana. E' il vincitore dell'edizione 2017 del talent show musicale più seguito nel mondo arabo, Arab Idol. Centinaia di palestinesi sono scesi per strada a Betlemme al momento dell'annuncio della vittoria per festeggiare il concittadino. Shaeen in finale ha sconfitto un cantante originario della Galilea e uno yemenita, è il secondo palestinese che vince, dopo Mohammed Assaf nel 2013, un giovane nato e cresciuto in un campo profughi della striscia di Gaza. Il commento della madre del vincitore: "Yacoub ha vinto per la sua voce per la sua educazione, per le sue buone maniere, così come per l’amore per la sua gente, per Betlemme e la Palestina”. Nel corso del talent il vincitore, che è di origine armena, ha più volte ricordato la sua appartenenza etnica e la sua fede cristiana. E' figlio di un falegname ed è diacono della Chiesa Siriaca.

    (ilsussidiario.net, 27 febbraio 2017)


    Hamas contraria a proposta dispiegamento forze internazionali nella Striscia di Gaza

    GAZA - Il movimento islamico palestinese di Hamas si dice contrario alla proposta di inviare forze internazionali nella striscia di Gaza, controllata dai suoi uomini dal 2007 e da allora sotto embargo israeliano. Il portavoce del gruppo islamico, Abdulatif al Qanou, ha affermato che "la presenza di forze straniere internazionali è pericolosa e da respingere". Al Qanou ha inoltre sottolineato che la "resistenza armata proteggerà Gaza, che è la pietra angolare della resistenza e la porta che ci porterà alla liberazione di tutto i territori palestinesi occupati da Israele". Ieri l'emittente statale israeliana ha citato una proposta del governo per l'invio di truppe internazionali a Gaza, in considerazione del fatto che la zona aveva subito tre guerre da quando Hamas la controlla. La proposta sarebbe stata discussa ieri dal premier Benjamin Netanyahu, in visita in Australia, durante un incontro con il ministro degli Esteri australiano, Julie Bishop. Secondo il premier israeliano, qualsiasi futuro accordo riguardante la Palestina dovrà prevedere il mantenimento del controllo israeliano sulla Giudea e la Samaria, prendendo inoltre in considerazione l'entrata di forze internazionali a Gaza. Netanyahu ha riconosciuto che l'esperienza passata di Israele con le forze internazionali di sicurezza non è stata positiva, ma ha espresso la volontà di provare questo modello a Gaza.
      Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza nel 2007 dopo una serie di scontri violenti con il movimento rivale Fatah. Da allora il gruppo islamista vicino ai Fratelli Musulmani governa la Striscia in modo separato dall'Autorità nazionale palestinese (Anp), presente nei territori della Cisgiordania. Di recente il deputato del Likud, Avi Ditcher ha sottolineato che Hamas dato il suo controllo totalitario sulla Striscia di Gaza si pone come "una terza realtà" nella regione, ostacolando il principio che prevede la risoluzione della questione israelo-palestinese con l'istituzione di "due stati per due popoli". La scorsa settimana, uno dei leader di Hamas, Mahmoud al Zahar, ha respinto l'offerta del ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, per la costruzione di un aeroporto internazionale, di un porto e di una zona industriale nella Striscia di Gaza in cambio della costruzione dei tunnel utilizzati per compiere attacchi in territorio israeliano e del lancio di razzi contro le città del sud di Israele.
      Lo scorso 13 febbraio Hamas ha proclamato il suo nuovo leader nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar, che prenderà il posto di Ismail Haniyeh, candidato ad assumere la leadership dell'ufficio politico di Hamas, oggi ricoperta da Khaled Meshaal, che si trova in esilio in Qatar. Sinwar proviene dal braccio armato di Hamas, le Brigate Qassam, e nel 2015 è stato inserito nell'elenco dei terroristi internazionali stilato dagli Stati Uniti. Arrestato dalle autorità israeliane nel 1988 e condannato all'ergastolo, è stato liberato nel 2011 in seguito ad un accordo per lo scambio di circa mille prigionieri palestinesi, in cambio del rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit. Sinwar, 55 anni, è una persona che "generalmente evita le luci della ribalta", come ricorda il quotidiano israeliano "Times of Israel".
      Il nuovo leader di Hamas a Gaza è visto come "un sostenitore imprevedibile della linea dura", prosegue il quotidiano israeliano. Laureato in arabo, Sinwar è nato nel campo profughi di Khan Younis, a sud di Gaza. Il nuovo leader di Hamas ha fondato il Majd, uno dei servizi segreti del movimento palestinese che governa Gaza. Le elezioni che hanno portato alla nomina del nuovo leader di Hamas a Gaza sono state condotte a partire dall'inizio di gennaio scorso in quattro "circoscrizioni": Gaza, Cisgiordania, palestinesi in esilio e detenuti nelle carceri israeliane. Ognuna delle quattro circoscrizioni sceglie i leader locali, così come i delegati per il Consiglio della Shura (un organismo parlamentare consultivo). Secondo alcuni commentatori locali, la scelta di Sinwar, fondatore delle Brigate Qassam, sarebbe la prova della preminenza che ha attualmente il braccio militare del movimento rispetto a quello politico.
      Secondo quanto riporta il quotidiano israeliano "Times of Israel", Sinwar è un "falco" all'interno di Hamas e sarebbe contrario a qualunque compromesso sia con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) che con Israele. Persino nell'affare Shalit - la cui liberazione ha portato al rilascio di 1.027 prigionieri palestinesi tra cui lo stesso Sinwar - il nuovo leader di Hamas non aveva nascosto la sua contrarietà all'intesa con Tel Aviv perché la considerava una resa allo Stato ebraico. Secondo il quotidiano britannico "The Guardian", la scelta di un personaggio come Sinwar "aumenta i timori che Israele e Hamas possano confrontarsi in un nuovo confronto mortale". L'elezione di Sinwar, prosegue il quotidiano britannico, giunge in un momento di crescente tensione su entrambi i fronti della Striscia di Gaza. Nelle ultime settimane razzi provenienti da Gaza sono caduti in territorio israeliano, provocando la risposta armata di Gerusalemme.

    (Agenzia Nova, 27 febbraio 2017)


    Equilibrio demografico

    In Israele si registra uno straordinario cambiamento nei dati di nascita. Le statistiche mostrano che per la prima volta dalla fondazione dello Stato le percentuali di nascite tra ebrei e arabi si uguagliano.

     
    La Giornata internazionale del banbino ha portato una buona notizia per la società ebraica dello Stato di Israele. Sulle conseguenze dello sviluppo demografico del paese si è discusso per anni, perché non pochi guardano con ansia le statistiche. Ma l'ultima pubblicazione dell'Ufficio Centrale di Statistica di Israele fa una presentazione di dati che può essere considerata straordinaria nella sua importanza, perché per la prima volta dalla fondazione dello Stato, il tasso di natalità dei cittadini ebrei e arabi risulta essere pari.
       I dati forniti dall'Ufficio Centrale di Statistica presentano il seguente quadro: Fino al 2000, una donna araba in Israele aveva una media di 3,8 figli, mentre una donna ebrea aveva in media 2,6 figli. Nel corso degli anni, fino al 2010, questo divario si è ridotto. Questa tendenza è proseguita negli anni successivi e ha fatto sì che nel 2015 per la prima volta si è raggiunta l'equiparazione, e secondo le statistiche le donne ebree e arabe dello Stato di Israele mettono al mondo in media lo stesso numero di bambini, vale a dire 3,13 per donna. In altre parole, le donne arabe hanno avuto nel corso degli anni sempre meno bambini, mentre le donne ebree ne hanno avuti sempre di più.
       Inoltre, da queste statistiche si evince che sul totale dei 2,8 milioni di bambini e giovani di Israele tra 0 e 17 anni di età, il 71,3 per cento è costituito da ebrei, mentre i bambini arabi del paese costituiscono il 25,7 per cento. Il restante tre 3 cento riguarda bambini senza confessione.
       Nella società israeliana molti hanno accolto questi dati demografici con grande gioia; particolarmente entusiasti sono i conservatori di destra. Questa parte della popolazione israeliana considera il fronte demografico come parte integrante della lotta per il carattere ebraico di Israele. Si guarda allo sviluppo demografico come una lotta non solo contro i cittadini arabi del paese, ma anche contro la popolazione liberale di sinistra e quindi laica. Nei circoli secolari di Israele questi dati demografici sono stati accolti con molto meno entusiasmo, perché l'aumento del tasso di natalità, calcolato sulla media delle donne ebree, è da attribuire soprattutto alle famiglie numerose della popolazione tradizionale-religiosa e agli ortodossi e ultra-ortodossi. La società laica dello Stato di Israele sente che la popolazione ebraica religiosa minaccia il suo stile di vita laico-liberale. Molti percepiscono questo come una minaccia al loro modo di vivere: cosa che a loro parere nel lungo periodo risulta almeno altrettanto pericolosa, se non di più, della minaccia che viene dai cittadini arabi.
       Sembra esserci una certa ironia nel fatto che il calo del tasso di natalità tra i cittadini arabi israeliani è da attribuire a una crescente secolarizzazione e a uno stile di vita più moderno. Sempre più donne arabe sono integrate nel mercato del lavoro. Inoltre, aumenta il numero di studenti arabi che cercano non solo un diploma, ma anche un master presso le istituzioni accademiche israeliane. E sempre più donne arabe in Israele vorrebbero fare carriera. Non si sposano più molto presto come una volta; hanno preso coscienza di che cosa significa per una famiglia avere una intera nidiata di bambini o operare una pianificazione familiare.
       Se questa tendenza continuerà, la popolazione ebraica dello stato non dovrà più preoccuparsi per il futuro demografico, perché il pericolo che la popolazione araba arrivi a superare di molto quella degli ebrei si sta riducendo sempre di più. "Israele non ha più un problema demografico con cui confrontarsi", ha detto il Prof. Amnon Sofer dell'Università di Haifa dopo le ultime statistiche dell'Ufficio Centrale. "Quasi l'80 per cento degli abitanti del paese sono ebrei. E così continuerà per altri due decenni. Nello Stato d'Israele, la popolazione ebraica continuerà a rappresentare la maggioranza.

    (Nachrichten aus Israel, febbraio 2017 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


    Profanato il cimitero ebraico di Filadelfia, distrutte 500 lapidi

    È il secondo caso da quando Trump è alla Casa Bianca. Il 20 febbraio cento tombe erano state danneggiate in Missouri. Il governo israeliano ha espresso preoccupazione.

          Alcune delle lapidi danneggiate
          nel cimitero ebraico di St Louis
    Ennesimo episodio di antisemitismo negli Stati Uniti. Lo storico cimitero ebraico Monte Carmelo di Filadelfia è stato profanato il 26 febbraio, a meno di una settimana da un caso simile accaduto in Missouri. Secondo quanto riportato dal corrispondente locale della Nbc, circa 500 lapidi sono state spezzate o rovesciate. Alcune delle tombe profanate, appartenenti alle prime comunità dei quaccheri, risalgono a oltre cento anni fa.
    La polizia ha subito avviato un'inchiesta, mentre il portavoce del ministro degli esteri israeliano, Emmanuel Nahshon, ha definito la notizia "scioccante e fonte di preoccupazione", ma ha aggiunto di avere fiducia nel fatto che le autorità statunitensi individueranno e puniranno i colpevoli.
    Il 20 febbraio più di cento tombe sono state danneggiate in un cimitero ebraico di St Louis, in Missouri, mentre nelle settimane precedenti erano comparse svastiche su automobili, ponti, edifici e una scuola elementare dello stato di New York
    Il presidente statunitense Donald Trump aveva condannato tutti questi episodi, una presa di posizione ritenuta tardiva da più parti, dopo le ambiguità della campagna elettorale del tycoon riguardo i suprematisti bianchi.
    L'Anti-Defamation League, l'associazione che si occupa di monitorare e fermare i casi di diffamazione contro gli ebrei, ha offerto una ricompensa di 10mila dollari a quanti forniranno informazioni utili per l'identificazione e l'arresto di chi ha profanato il cimitero Monte Carmelo.

    (The Post Internazionale, 27 febbraio 2017)


    Piena di cialtroni e anti-lsraele, Trump vuole mollare l'Onu

    Le Nazioni Unite bacchettano Tel Aviv per gli eccessi dei suoi soldati ma non osano parlare di quanto succede in Cina e Arabia. E gli Usa meditano l'addio al Consiglio per i diritti umani

    di Mirko Molteni

    Le accuse
    Trump starebbe valutando la possibilità di un ritiro degli Stati Uniti dal Consiglio Onu del diritti umani, spesso accusato di essere parziale nel confronti di Israele e di includere al suo interno Paesi accusati di violazioni dei diritti come Cina e Arabia Saudita
    I tempi
    Il ritiro non sarebbe immedia- to e non avverrebbe in tempo per l'inizio della sessione annuale fissata per oggi, mentre una decisione coinvolgerebbe anche il segretario di Stato Rex Tillerson e l'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite
    Pure Obama
    Gli USA erano entrati nel Consiglio sotto l'amministrazione di Barack Obama, ritenendo che fosse più utile fame parte, cercando di influenzare la sua opera dall'interno, piuttosto che attaccarla dall'esterno

    La stampa americana ha ieri diffuso la voce secondo cui Trump intenderebbe ritirare l'adesione degli Stati Uniti all'UN Human Rights Council, il consiglio ONU per i diritti umani, per la Casa Bianca pregiudizialmente ostile a Israele. Sono indiscrezioni da fonti anonime fra cui un «ex-funzionario del Dipartimento di Stato» che ha detto: «Numerose richieste venute dall'ufficio del segretario di Stato suggeriscono che lui si stia domandando che valore abbia la partecipazione all'Human Rights Council»,
       La Casa Bianca non commenta, mentre dal Dipartimento di Stato, il portavoce Mark Toner si limita a dire che la riunione della 34a sessione della commissione, prevista oggi, si terrà regolarmente e che «la nostra delegazione sarà pienamente coinvolta nel lavoro della HRC». Le voci sono corroborate dal fatto che il segretario di Stato Rex Tillerson ha criticato più volte la commissione in presenza dei suoi collaboratori, specie dopo la recente condanna ufficiale delle Nazioni Unite contro gli ìnsedìamenti coloniali di Israele. Non solo, un paio di giorni fa la commissione ONU ha criticato come «troppo lieve» la condanna a 18 mesi di carcere che gli israeliani hanno comminato a un loro giovane soldato, il 2lenne Elor Azaria, che in un eccesso di reazione, spiegabile con la concitazione del momento, aveva un anno fa ucciso un attentatore palestinese, Abdel Fattah al-Sharif, il quale, prima aveva pugnalato un commilitone di Azaria a Hebron e poi, ferito da una prima reazione israeliana, era a terra indifeso. Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Liberman ha sbottato contro l'HRC: «Non è una commissione dei diritti umani, ma dell'odio contro Israele». È brutto sparare a un uomo già ferito a terra, dicono gli israeliani, ma che il consiglio dei diritti umani si scomodi per l'errore di un soldato ebraico mentre in molti Paesi si decapita la gente a gogò, è parso grottesco. Poiché il presidente americano Trump ha fatto del riavvicinamento con Israele una delle sue bussole, tanto da prefigurare lo spostamento dell'ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, simili episodi non vengono ignorati da Washington.
       L'America ha anche criticato la commissione ONU per la presenza, fra i 47 membri, di paesi che coi diritti umani poco ci azzeccano, a cominciare da Cina e Arabia Saudita. L'HRC è uno fra i più recenti organi delle Nazioni Unite, essendo stato fondato nel 2006, e le nazioni vi si alternano a turni non sincroni. Per esempio, la delegazione americana avrebbe scadenza naturale nel 2019, proprio come cinesi e arabi, mentre, poniamo, il seggio del Portogallo scadrebbe già nel 201 7 e quello della Germania nel 2018. Per ora la partecipazione della delegazione americana non è in dubbio, almeno nel breve periodo, ma è certo che la Casa Bianca e anche il Pentagono temono che, vedendo i precedenti con Israele, anche nei confronti dell'operato antiterroristico degli USA l'HRC sia pronta a lanciare accuse più polemiche che fondate. Un' eventuale uscita dalla commissione sui diritti umani dovrebbe trovar d'accordo anzitutto Trump, poi Tillerson e l'ambasciatrice americana all'ONU, Nikki Haley, ma per adesso gli USA paiono volersi limitare a lanciare avvertimenti.
       Il clima politico resta caldo e sempre ieri Trump ha visto incarnarsi in una specie di "nuovo Obama" l'avversario partito democratico in cerca di riscossa, che ha eletto a suo segretario l'ex- ministro del lavoro Tom Perez, di origine domenicana, che all'assemblea del partito ha battuto 235 a 200 il deputato del Minnesota Keith Ellison, ripescato come vice del vincitore. Perez ha già annunciato, tanto per cambiare, di voler nuove inchieste sulle interferenze russe nella politica USA, rimasticando un copione noto.
       Intanto, dall'altra parte dell'oceano, la questione israelo-palestinese balza al centro anche della politica francese, poiché ieri su "Le Journal de Dimanche" e su agenzie come "France Press" e è apparsa una lettera aperta firmata da 154 parlamentari francesi che chiedono al presidente Hollande di riconoscere ufficialmente la Palestina come stato. «Per superare lo stallo - scrivono i deputati e senatori di Parigi - signor presidente, non manchi all'appuntamento con la storia e riconosca la Palestina». Anche l'amministrazione Trump si è più volte detta a favore della soluzione dei due stati, purché, a giudicare da questi messaggi sottobanco, i diritti umani non diventino pretesto per polemizzare a senso unico.

    (Libero, 27 febbraio 2017)


    Per fare la pace con i palestinesi, Israele deve convincerli che hanno perso

    Si torni alla deterrenza. Oslo non ha funzionato. Gli arabi vanno di nuovo costretti ad accettare un accordo con lo stato ebraico.

    da Commentary (27/1)

    Accordi di Oslo 1993 - Imbroglio compiuto, Arafat festeggia la vittoria
    La diplomazia israelo-palestinese sfortunatamente coincide con quella che è la classica descrizione della pazzia: "Fare la stessa cosa ancora e ancora aspettandosi di ottenere risultati diversi". A discapito del loro fallimento, gli stessi presupposti - la terra in cambio della pace e la soluzione dei due stati - con l'onere principalmente sulle spalle di Israele, restano permanentemente dove sono. Decenni di quello che gli addetti ai lavori chiamano "il processo di pace" hanno lasciato le cose peggio di come erano al principio, ciò nonostante, le grandi potenze persistono, inviando un diplomatico dopo l'altro a Gerusalemme e a Ramallah, continuando a sperare che il prossimo turno di negoziazioni porterà a un elusivo punto di svolta. Il tempo è arrivato per un nuovo approccio, un ripensamento sostanziale del problema. Il fallimento della diplomazia israelo-palestinese dal 1993 a oggi, suggerisce questo approccio alternativo, con una enfasi sulla tenacia di Israele nel volere perseguire la vittoria. Ciò, paradossalmente, potrebbe essere di beneficio per i palestinesi e rinforzare il sostegno americano. Le differenze tra le fazioni palestinesi tendono a essere tattiche: interloquire con gli israeliani allo scopo di ottenere concessioni oppure no? Mahmoud Abbas rappresenta il primo atteggiamento e Khalecl Mashal il secondo.
       Le numerose fasi del conflitto hanno avuto poco impatto sugli obiettivi a lungo termine, mentre i negoziati formali (come gli Accordi di Oslo del 1993) hanno solo aumentato l'ostilità nei confronti dell'esistenza di Israele e sono dunque stati controproducenti. Il rifiuto palestinese o l'accettazione di Israele è binario: si o no, senza vie di mezzo. Ciò rende un compromesso quasi impossibile perché la risoluzione esige che una parte abbandoni completamente il proprio obiettivo. O i palestinesi rinunciano al loro rifiuto lungo un secolo dello stato ebraico o i sionisti rinunciano al loro obiettivo lungo centocinquant'anni di avere uno stato nazionale. Qualsiasi altra cosa ad eccezione di questi due esiti rappresenta un accordo instabile il quale serve unicamente come premessa per una fase conflittuale.
       La deterrenza, sarebbe a dire il convincere i palestinesi e le nazioni arabe ad accettare l'esistenza di Israele minacciando dolorose rappresaglie, è ciò che sottostà al formidabile primato di Israele fatto di visione strategica e arguzia tattica nel periodo dal 1948 al 1993. Lungo questo periodo, la deterrenza funzionò al punto che gli stati arabi nemici di Israele giunsero a vedere il paese in modo molto diverso alla fine. Nel 1948 gli stati invasori arabi si aspettavano di soffocare lo stato ebraico alla nascita, ma nel 1993 Arafat si senti obbligato a firmare un accordo con il primo ministro israeliano.
       Detto ciò, la deterrenza non ha esaurito il proprio compito. Pensatori e guerrieri nel corso delle diverse epoche si sono trovati d'accordo sull'importanza della vittoria come obiettivo del conflitto. Dwight D. Eisenhower disse: "In guerra non c'è alcun sostituto per la vittoria". Il progresso tecnologico non ha modificato questa perenne verità umana. Come potrebbe Israele indurre i palestinesi ad abbandonare il rifiuto nei suoi confronti? Come antipasti, ecco un colorita esposizione di piani per terminare il conflitto a favore di Israele, apparsi nel corso dei decenni: il ritiro territoriale dalla West Bank o un compromesso territoriale al suo interno; trovare modi creativi di dividere il Monte del Tempio; sviluppare l'economia palestinese; incoraggiare un buon governo palestinese; raccogliere fondi internazionali (sul modello del Piano Marshall); l'unilateralismo (costruire un muro). Il problema è che nessuno di questi piani è indirizzato alla necessità di spezzare la volontà palestinese di combattere. Si tratta di gestire il conflitto, senza risolverlo, di aggirare la vittoria con un trucco. Cosi come sono falliti i negoziati di Oslo, fallirà qualsiasi altro schema che eviterà il duro lavoro di vincere.
       L'andamento della storia suggerisce che Israele ha solo una opzione per conquistare l'accettazione palestinese: un ritorno alla sua vecchia politica di deterrenza, punendo i palestinesi quando aggrediscono. La deterrenza ammonta a più di un insieme di tattiche dure che ogni governo israeliano persegue, essa richiede politiche sistematiche che incoraggino i palestinesi ad accettare Israele e a scoraggiare il rifiuto nei suoi confronti. Richiede una strategia a lungo termine che promuova un ripensamento. Le risposte dipendono dalle circostanze specifiche.
       Quelli che seguono sono solo alcuni suggerimenti ed esempi per Washington, i quali vanno dai più moderati ai più duri. Quando i "martiri" palestinesi causano danni materiali, le riparazioni devono essere pagate prelevando i soldi dai circa trecento milioni di dollari in tasse che il governo di Israele trasferisce ogni anno all'Autorità palestinese. Quando un aggressore palestinese viene ucciso, bisogna seppellire il suo corpo silenziosamente e in modo anonimo in un campo di sepoltura. Quando la leadership dell'Autorità palestinese incita alla violenza, bisogna impedire ai suoi rappresentanti di farvi ritorno dall'estero. Quando vengono assassinati degli israeliani bisogna espandere le cittadine ebraiche nella West Bank. Se la violenza prosegue, bisogna ridurre e poi bloccare del tutto l'erogazione dell'acqua e dell'elettricità che Israele fornisce. Nel caso di colpi d'arma da fuoco, di bombardamenti e di razzi, bisogna occupare e controllare le aree dalle quali essi originano. Il vero processo di pace significa trovare modalità che obblighino i palestinesi a un ripensamento, rigettando il rifiuto di Israele, accettando gli ebrei, il sionismo e Israele. Quando un numero sufficiente di palestinesi avranno abbandonato il sogno di eliminare Israele, faranno le concessioni necessarie. Per terminare il conflitto, Israele deve convincere il cinquanta per cento dei palestinesi, se non più, che essi hanno perso.

    (Il Foglio, 27 febbraio 2017)


    «Per terminare il conflitto, Israele deve convincere il cinquanta per cento dei palestinesi, se non più, che essi hanno perso». Potrebbe riuscirci. Potrebbe essere addirittura che ci sia già riuscito, anche se non lo possono dire. Ma Israele non riuscirà mai a convincere di questo la sinistra interna e la comunità internazionale. Per questi, Israele NON PUÒ vincere. E' immorale il solo pensarlo. M.C.


    Alta tensione tra Campidoglio e Israele

    Concessi spazi comunali a un movimento per il boicottaggio dello Stato Ebraico. L'ambasciata protesta con la Raggi: «Sostegno istituzionale triste e assurdo».

    Un caso nel caso
    Tra i partecipanti all'evento anche Stefano Fassina (SI)
    Daniele Frongia
    L'assessore ha spesso espresso posizioni filopalestinesi

    di Francesca Pizzolante

    Dan Haezrachy, Vice Ambasciatore di Israele
    Nuova bufera sulla giunta di Virginia Raggi. Il Campidoglio mette a disposizione i propri spazi per quella che, faziosamente, è stata ribattezzata «l'apartheid israeliana provocando così l'ira dell'Ambasciata d'Israele a Roma: «È triste che simili eventi trovino spazi in luoghi istituzionali» ha dichiarato il capo della delegazione diplomatica Dan Haezrachy.
       Chiuso, almeno per il momento, il capitolo sulla realizzazione del nuovo stadio della Roma, ecco aprirsi un nuovo fronte di guerra per Virginia Raggi. Al centro delle critiche mosse dai rappresentanti di Israele in Italia finisce il sostegno dato al movimento BDS («Boicotta, disinvesti, sanziona» riferito allo Stato ebraico) che quest'anno si svolgerà nelle sale capitoline. Varie le personalità antisraeliane presenti, fra cui Anne Wright, leader della Freedom Flotilla e Stefano Fassina, consigliere comunale di SI.
       Concedere la location più importante, in termini di visibilità, a un movimento chiaramente schierato contro la Palestina potrebbe creare più di un semplice imbarazzo. Come riporta il sito online affaritaliani.it anche l'assessore allo sport Daniele Frangia ha espresso più volte le sue posizioni filopalestinesi e non solo, compare come socio fondatore di ISM-Italia (International Solidarity Movement) che si occupa, fra le altre cose, di addestrare gli attivisti proPalestina. Due dei fondatori dell'organizzazione, Diana Carmina ti e Alfredo Tradardi sono autori del libro «Boicottare Israele». E lo stesso Tradardi, nel 2013, ai tempi in cui Daniele Frangia di presentava come candidato comunale per il M5S, scrive affaritaliani.it, invitava espressamente a votarlo su un forum interno all'Istat, di cui Frangia è stato per molto tempo un funzionario.
       E il commento di Israele di fronte alla scelta della giunta capitolina di sostenere l'iniziativa di BDS non è tardato ad arrivare. «È oltremodo assurdo che si accosti il termine apartheid ad Israele, proprio mentre Israele nomina un giudice arabo come nuovo membro della Corte Suprema», scrive il diplomatico israeliano Dan Haezrachy che aggiunge: «Questo genere di eventi sarebbe il caso di dedicarli a Hamas, che da anni tiene in ostaggio l'intera Striscia di Gaza; o alla Siria, ove un regime brutale sta compiendo terribili massacri settari, sostenuto e armato dai fondamentalisti iraniani; o ad uno dei tanti regimi Mediorientali che quotidianamente abusano dei diritti urnani e dei valori democratici. Purtroppo, sfortunatamente - evidenzia Haezrachy - ci sono ancora persone che vogliono vedere solo in Israele, unica democrazia del Medioriente, la fonte di tutti i mali nel mondo».
       Una posizione condivisa da Gianluca Pontecorvo, vicepresidente dell'associazione Progetto Dreyfus che, tra le altre cose, monitora i fenomeni di antisemitismo in Italia: «Mi domando come sia possibile che un'istituzione come Roma Capitale conceda una sala a un movimento che vuole un boicottaggio tout court di un paese democratico e alleato dell'Italia come Israele. Concedere una sala comunale per affermare "rompiamo l'assedio di Gaza" è un'operazione politica sbagliata perché a Gaza non c'è nessun assedio. Spero che Stefano Fassina si renda conto che prenderà parte a un evento intrinsecamente antisemita e rinunci a partecipare».

    (Il Tempo, 27 febbraio 2017)


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    Convegno anti-israeliano. Dureghello al Comune: «Si revochi l'uso della sala»

    Polemiche sull'evento sostenuto dal movimento bds domani in protomoteca: prevista la presenza di Stefano Fassina. Appello della presidente della comunità ebraica «Iniziativa antisemita»

    di Marco Pasqua

    Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma
    La definisce una «iniziativa raccapricciante», una ulteriore manifestazione di quella forma, sempre più diffusa, di antisemitismo camuffato da antisionismo. Per questo, Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica, chiede al Campidoglio di annullare il convegno anti-israeliano (dal titolo "Gaza, rompiamo l'assedio"), organizzato per domani alle 17 nella sala della piccola Protomoteca e dove è prevista la presenza di Stefano Fassina (Si). Un incontro che avviene nell'ambito della tredicesima edizione di quella che viene faziosamente definita la "settimana dell'apartheid israeliana": a promuoverla è il movimento BDS, che si batte per "boicottaggio e le sanzioni a Israele". «Tutto ciò è raccapricciante - tuona la Dureghello - Il boicottaggio, come ha anche detto il presidente Mattarella, è una forma inaccettabile di divulgazione dell'odio, che mina il percorso di pace. Un tempo si boicottavano i negozi degli ebrei, oggi l'antisemitismo si è evoluto e si manifesta attraverso l'antisionismo». Una presa di posizione in linea con quella dell'ambasciata di Israele, che per bocca del vice-ambasciatore, Dan Haezrachy, aveva rilevato l'inappropriatezza del luogo scelto per questo convegno filopalestinese. «Se si vogliono criticare le decisioni di un Paese - sottolinea Dureghello - questo può certamente avvenire sul piano politico, ma solo con interlocutori che rispettino il diritto dello stato di Israele di esistere». Del resto, come ricorda anche la guida degli ebrei romani, il movimento BDS non ha mai nascosto la sua matrice antisemita: «E' assurdo usare il termine di apartheid parlando di Israele e, soprattutto, associarlo ad una iniziativa che ha luogo in Campidoglio». Dureghello dice anche di non stupirsi della presenza di Fassina: «Lo abbiamo già visto lo scorso 25 aprile, quando prese parte ad un incontro Propal (un Festival di solidarietà con i palestinesi al quale partecipò anche il parlamentare M5S Manlio di Stefano, ndr): mi meraviglia di più il fatto che un evento del genere possa svolgersi in una sede istituzionale».

     Rischio negazionisti
      In passato, ricorda Dureghello, il movimento BDS aveva tentato di organizzare iniziative in alcuni atenei italiani, ma «la sensibilità dei rettori si espresse con chiarezza» e quegli incontri vennero annullati. «Offrire spazi del Campidoglio - sottolinea il vice-presidente della comunità ebraica, Ruben Della Rocca - crea un precedente pericoloso, in futuro anche negazionisti dell'Olocausto potrebbero chiedere la stessa ospitalità».
      La settimana di eventi in chiave anti-israeliana prevede, inoltre, il 14 e 15 marzo alcune proiezioni al Nuovo Cinema Aquila: «Una struttura gestita dal Municipio, a guida grillina. Il problema - fa notare Carla di Veroli, già assessore dell'ex Municipio XI - non è solo l'aver organizzato quel convegno domani, nella sala in Comune, ma aver anche concesso a questo festival l'uso del cinema».

    (Il Messaggero, 27 febbraio 2017)


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    Gli anti-Israele in Campidoglio. La protesta della Comunità ebraica

    Chiesto alla sindaca di revocare lo spazio offerto per il lancio, martedì, della 13ma settimana «contro l'apartheid» di Tel Aviv. Della Rocca: «In futuro anche negazionisti dell'Olocausto potrebbero chiedere la stessa ospitalità»

     
    Virginia Raggi, sindaco di Roma
    Il lancio della 13ma «Settimana contro l'apartheid israeliana» intitolata «Gaza, rompiamo l'assedio», che sarà ospitato martedì a Palazzo Senatorio, fa infuriare la Comunità ebraica e l'ambasciata israeliana. Ruben Della Rocca chiede alla sindaca Virginia Raggi «di revocare la concessione di locali del Campidoglio a questa pura campagna d'odio verso Israele condotta con metodi antisemiti».

     «Il boicottaggio? Come nella Germania nazista»
      L'appuntamento è alle 17 nella sala della Piccola protomoteca. Alla manifestazione, a cui dovrebbero intervenire anche la leader della Freedom Flottilla Ann Wright e Stefano Fassina di Sinistra italiana, secondo Della Rocca, vicepresidente della Comunità ebraica di Roma, saranno denunciati «100 anni di colonialismo israeliano» e verrà rilanciata «la campagna per il boicottaggio di Israele». Ma «gli ebrei sono presenti in quella regione da 2500 anni - ricorda Della Rocca - e il boicottaggio fa tornare alla mente la Germania nazista, dove ben prima dello sterminio si cominciò con il boicottare i negozi ebraici. In Italia abbiamo avuto effetti simili con le leggi razziali».

     «Israele unica democrazia del Medio oriente»
      «Offrire spazi del Campidoglio - sostiene il vicepresidente della Comunità ebraica - crea un precedente pericoloso: in futuro anche negazionisti dell'Olocausto potrebbero chiedere la stessa ospitalità». Anche dall'ambasciata israeliana si fa notare che «è triste che trovino spazio in luoghi istituzionali» eventi simili in cui si accusa Israele, «unica democrazia del Medio oriente, di essere la fonte di tutti i mali del mondo».

    (Corriere della Sera, 26 febbraio 2017)


    Proteste di questo tipo dovrebbero essere fatte da diverse forze politiche. Se l’ambasciata d’Israele e la comunità ebraica sono lasciate sole a protestare, sottolineature di articoli come questi potrebbero generare quel tipo di diffusa noia antiebraica che porta a dire: “Ma che vogliono questi ebrei?” M.C.


    Il maschio giudeocristiano è colpevole

    Populismo e politicamente corretto in un documentario di Channel 4

    da il Times (23/2)

    Non capita tutti i giorni di sentire su Channel 4 una sparata contro il politicamente corretto. Specie se la sparata arriva da una personalità con specchiate credenziali di sinistra e soprattutto di colore. E' Trevor Phillips, giornalista di origine guyanese, già presidente del Nus (il sindacato nazionale degli studenti), ma soprattutto ex responsabile della Commission for Racial Equality, il potente ente che dal 1976 promuove politiche per le pari opportunità. "In un nuovo documentario su Channel 4, Phillips darà la colpa al politicamente corretto per l'ascesa del populismo in tutto l'occidente", scrive Melanie Phillips sul Times.
       "Le norme del politicamente corretto derivano da ideologie quali l'anti capitalismo, l'anti imperialismo, il femminismo, il multiculturalismo, il relativismo morale e l'ambientalismo. Tutto questo si basa sull'idea che l'uomo bianco, maschilista, giudeo-cristiano è l'incarnazione del potere globale opprimente e la fonte politica del peccato originale. Così gli uomini occidentali bianchi e cristiani non possono mai essere offesi o feriti perché sono essi stessi intrinsecamente offensivi e dannosi, mentre le donne 'impotenti' o le minoranze possono essere solo le loro vittime. In altre parole, a tali gruppi di vittime viene fornito un pass gratuito per il proprio comportamento discutibile. La ragione per cui queste ideologie laiche e utilitaristiche sono insindacabili è che, in un modello che risale alla Rivoluzione francese, sono chiamate a rappresentare non un punto di vista, ma la virtù stessa. Pertanto, chiunque vi si opponga deve essere il male.
       Per aver osato mettere in discussione il multiculturalismo, Phillips si ritrovò accusato di essere un compagno di viaggio del Bnp (partito nazionalista inglese, ndr). La ragione è così soppiantata da una inquisizione laica, con l'indice di idee proibite. Si tratta a tutti gli effetti di una dittatura della virtù, attingendo alla dottrina prima promossa da Jean-Jacques Rousseau che costringe le persone a essere libere. Naturalmente non è la libertà di tutti, ma una forma di estorsione morale. Il razzismo era presumibilmente endemico in ogni istituzione. Qualsiasi limitazione all'immigrazione era razzista. Per me questo era assurdo, oppressivo e culturalmente suicida. L'idea che l'istruzione coinvolgesse una trasmissione della cultura era considerata come un attacco all'autonomia del bambino. Come dice Phillips, la struttura sociale di avanzamento, i premi e lo status dipendono interamente dall'avere questa visione politicamente corretta. In caso contrario, seguono l'ostracismo sociale e professionale. Le persone ne hanno avuto abbastanza di questo attacco alla responsabilità, alla giustizia naturale e alla libertà. Ora quei milioni di persone vengono diffamati, a loro volta, come neofascisti, razzisti e troppo stupidi per sapere quello per cui hanno votato. La loro rivolta è chiamata populismo".

    (Il Foglio, 27 febbraio 2017)


    Il boicottaggio nei Campus sta gravemente minando l'identità degli studenti ebrei

    L'impatto del movimento di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni contro Israele nei campus degli Stati Uniti è peggiore di quanto si creda. Molto peggio. Richard D. Heideman, un avvocato di Washington candidato alla presidenza del movimento americano sionista (le elezioni si terranno a marzo) presidente della Fondazione Israele per sempre e presidente onorario del B'nai B'rith International, non ha dubbi. Il boicottaggio sta avendo un effetto estremamente dannoso sulla identità dei giovani studenti ebrei e sul loro rapporto con Israele.
    "Quando un giovane deve aver paura di indossare simboli religiosi, quando non si gode di libertà di religione allora vuol dire che ci si trova davanti ad una aggressione maligna contro Israele e il popolo ebraico".
    In un'intervista al Jerusalem Post a Gerusalemme Heideman ha raccontato dell'incontro che ha avuto con gli studenti presso l'Università del Michigan, dove ha studiato molti anni fa. "Sono rimasto scioccato nell'apprendere le intimidazioni e le minacce che ricevono gli studenti: attacchi violenti, minacce fisiche e intimidazioni. Alcuni dicono che è libertà di parola. Io penso che siano invece espressioni di odio."
    "L'ultima volta che ho visto mia nonna prima di morire- ha detto Heideman- mi disse: "non dimenticate mai che alla fine dei tuoi giorni tutto quello che porterai con te è il vostro buon nome, il buon nome di Israele e del popolo ebraico. E ricordati che questo è un bene enorme e molto prezioso". Queste parole mi hanno accompagnato in tutta la vita - continua Heideman- Tutti noi abbiamo una grande sfida davanti: dobbiamo rafforzare il buon nome di Israele e del popolo ebraico e del sionismo."

    (Italia Israele Today, 26 febbraio 2017)


    Hezbollah ha ottenuto missili anti-nave in grado di minacciare la marina di Israele

    BEIRUT - Il movimento sciita libanese Hezbollah ha ottenuto armi strategiche in grado di minacciare le forze navali israeliane in caso di conflitto. Lo riferiscono fonti israeliane citate dal quotidiano libanese "Naharnet". Secondo queste ultime, il Partito di Dio avrebbe infatti a disposizione otto missili anti-nave P-800 Onyx, conosciuti anche come Yakhont. Tali armi potrebbero essere utilizzare per "minacciare in maniera significativa la marina israeliane, la sesta flotta statunitense e imbarcazioni civili in transito nel Mediterraneo, così come gli impianti di trivellazione per gas e petrolio recentemente realizzati da Israele", affermano le fonti d'intelligence israeliane. Gli Yakhont hanno una gittata di oltre 300 chilometri e sono in grado di sfuggire ai più avanzati sistemi di difesa missilistica.

    (Agenzia Nova, 25 febbraio 2017)


    26 febbraio 1569 - Gli Ebrei sono cacciati da Rimini e da tutto lo Stato della Chiesa

    Nel 1569, il 26 febbraio, papa Pio V dà il bando agli Ebrei da tutte le sue terre, ad eccezione di Ancona e Roma. Ne è ovviamente interessata anche Rimini insieme a tutta la Romagna.
    Non è il primo atto di persecuzione degli Ebrei in Italia, né sarà l'ultimo. Ma questo passo di papa Ghisleri, che era stato Inquisitore dei Domenicani, segna certamente una svolta decisiva nell'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronto degli israeliti. Svolta dettata dal Concilio di Trento (terminato nel 1563) e dalla conseguente Controriforma, che vide in Pio V uno dei principali artefici e promotori.
    Si inaugura così una delle trame più infamanti della storia europea. E non accade nei remoti "secoli bui" del "barbarico" medio evo, quando verso le fedi minoritarie né gli attriti né le atrocità erano mancate, eppure un modo per vivere assieme si era pur sempre trovato. Ma è solo nel pieno del raffinato Rinascimento che si scatena più virulento il morbo dell'intolleranza. Prima, mai si era arrivati a istituzionalizzare in tal modo la persecuzione; da allora si dà al via alla "pulizia etnica", che in Spagna era invocata con lo stesso nome di oggi, "limpieza". Ebrei e mussulmani, "streghe" e protestanti devono semplicemente essere cancellati dalla faccia della terra, al pari di chiunque osi credere in qualcosa che non è deciso dall'autorità suprema di Roma. A loro volta, le chiese riformate da Lutero sapranno dar prova di altrettanta inclemenza, sia reciprocamente fra le diverse sette che contro i cattolici; e contro le "streghe" anche più ferocemente e più a lungo, perfino nelle colonie del Nuovo Mondo. E le guerre di religione insanguineranno l'Europa per un intero secolo dell'era "moderna", con stragi e distruzioni da far impallidire le imprese dei "barbari" di mille anni prima....

    (ChiamamiCittà, 26 febbraio 2017)


    Cagliari - In rettorato la visita dell'ambasciatore israeliano Ofer Sachs

    Da sinistra: Ofer Sachs, Maria Del Zompo e Raphael Erdreich nello studio del Magnifico Rettore

    Foto ricordo nell'Aula Magna del Rettorato di Cagliari

    Incontro sulle collaborazioni scientifiche dell'ateneo cagliaritano con le università di Tel Aviv, Gerusalemme, Ben-Gurion del Negev, Technion e altri istituti di ricerca israeliani. Roadmap per ulteriori sviluppi delle relazioni internazionali
       
    Ieri mattina si è svolto in via Università il meeting tra i vertici dell'Ateneo di Cagliari con Sua Eccellenza Ofer Sachs, Ambasciatore di Israele in Italia. Hanno preso parte all'incontro il Magnifico Rettore Maria Del Zompo, i prorettori Annalisa Bonfiglio (Innovazione e Territorio) e Alessandra Carucci (Internazionalizzazione) e i professori Maria Chiara Di Guardo (direttrice dei Contamination Lab), Maura Monduzzi (direttrice Dipartimento Scienze chimiche e geologiche), Alberto Angioni (docente di chimica degli alimenti), Piero Addis (ecologia, Dipartimento Scienze della vita e dell'ambiente), Michele Brun (Dipartimento Ingegneria meccanica), Alessio Squassina e Miriam Melis (farmacologia, Dipartimento Scienze biomediche). Presenti inoltre per l'Università il capo dell'Ufficio di Gabinetto del Rettore, dott.ssa Elisabetta Cagetti, e l'avv. Giovanni Marini dell'Ufficio affari legali.
    Il Ministro Consigliere dell'Ambasciata d'Israele a Roma Rafael Erdreich

    (Università di Cagliari, 25 febbraio 2017)


    Israele e Arabia Saudita: l'abbraccio che spaventa l'Iran

    Grandi manovre in Medio Oriente sulla scia di un rimescolamento di equilibri ormai in atto da alcuni anni. La parte del leone la fa in queste ore Israele, tornato in vetrina dopo un lustro dedicato all'ascolto vigile e pressoché silenzioso.
       Il primo dato con cui Tel Aviv si deve misurare è la crescita geopolitica e lo sdoganamento dell'Iran, ormai protagonista assoluto in tutti i quadranti critici della regione. La vera scossa a Israele è arrivata nel 2015: da una parte gli accordi sul nucleare di Vienna; dall'altra la prospettiva che il fronte sciita in Siria non sarebbe crollato, grazie all'appoggio di Russia e Iran.
       Secondo un approccio pragmatico, endemico nella filosofia di autodifesa dello Stato ebraico, Tel Aviv ha cominciato a guardarsi intorno, riscrivendo sulla lavagna l'intero elenco dei buoni e dei cattivi, così da aprire o chiudere le porte a seconda dei casi.
       È bene però tenere a mente un aspetto che in Medio Oriente riecheggia come una litania: arabi, ebrei e persiani non si amano.
       Su questa verità incidono delle note di eccezione che rendono l'eterna partita mediorientale estremamente complessa.
       Il primo dato è che gli arabi non sono tutti uguali, ma in quanto prevalentemente islamici sono tagliati dalla diagonale sunnismo-sciismo. Non solo: se le differenze confessionali hanno alimentato le divisioni per secoli, ancor più hanno fatto le diverse visioni ideologiche del Secondo dopoguerra. La generica contrapposizione fra nasseriani-socialisti-nazionalisti e petrol-monarchie filoccidentali si è sovrapposta alle questioni religiose, creando ancora più confusione.
       Israele ha campato di rendita su queste lacerazioni, tenendo a bada gli estremismi antigiudaici che di volta in volta si sono presentati, in virtù di una innegabile superiorità militare e tecnologica.
       Il secondo dato è che iraniani e arabi, seppur connotati da una diffidenza ancestrale, convergono su un punto strategico: gli israeliani occupano la Palestina e Gerusalemme non potrà mai essere solo giudea. La convergenza è stata a tratti così forte che il paladino più pervicace della causa palestinese da fine anni '70 in poi, è diventato proprio l'Iran. Nell'immaginario collettivo israeliano, non a caso Hezbollah contende ad Hamas la palma di nemico pubblico numero uno.
       Israele dal canto suo cerca di inserirsi negli spiragli che si aprono di volta in volta, secondo la regola "il nemico del mio nemico è mio amico". La polarizzazione tra Iran e Arabia Saudita ha offerto così l'occasione per un cambio di rotta agli storici equilibri regionali: Tel Aviv e Riad non si considerano più nemici "senza se e senza ma". Le dichiarazioni a questo proposito dei rispettivi ministri degli esteri Lieberman e Al Jubeir rilasciate a febbraio alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco rasentano il corteggiamento reciproco.
       In realtà i legami sordidi fra Israele e Arabia Saudita sono cosa antica e trovano una sponda nei contatti segreti esistenti fra Stato ebraico e Paesi islamici sunniti anche esterni al mondo arabo. Basta citare come esempio l'esercitazione Red Flag dell'agosto 2016, dove insieme all'ISAF, si sono cimentate in addestramento congiunto le aeronautiche nientemeno che degli Emirati Arabi e del Pakistan.
       Tra tutti i 22 Paesi della Lega Araba, solo Egitto e Giordania hanno relazioni diplomatiche ufficiali con Israele. In via ufficiosa però, i contatti, soprattutto a livelli di intelligence, continuano da anni, soprattutto con Arabia Saudita e Qatar. le relazioni si sono intensificate da quando i rispettivi obiettivi strategici hanno iniziato a sovrapporsi.
       L'isolamento dell'Iran è il primo traguardo in ordine di importanza condiviso dai due Paesi. Per Israele e Arabia Saudita le trame antigiudaiche e antisunnite degli ayatollah sono una vera e propria questione di sopravvivenza.
       Un altro fattore determinante è la necessità di sostituire l'Egitto nel ruolo di rispettivo partner privilegiato. Al Sisi non è Mubarak, né tantomeno Sadat e il ruolo giocato dal Cairo in Siria, nello Yemen e in Libia risulta quantomeno ambiguo sia per Tel Aviv che per Riad. La riapertura delle ambasciate tra Iran ed Egitto, è l'ulteriore tassello di un quadro di diffidenza sempre crescente.
       Come madrina di tutti i sunniti, l'Arabia Saudita si candida inoltre a supervisore dei rapporti arabo-israeliani e per esteso delle relazioni tra islamici ed ebrei, trovando un salotto sempre disponibile sia a Washington che a Londra. In altre parole, quello che fino a dieci anni fa sembrava un'autentica eresia, oggi può uscire allo scoperto: israeliani e sauditi se la intendono e non hanno più bisogno di nasconderlo.
       Per l'Iran il monito è evidente e lo spauracchio agitato per decenni dalla propaganda interna diventa realtà. Se infatti Israele e Arabia Saudita fanno di necessità virtù, Teheran capisce l'antifona paventando il suo più grande male possibile: gli arabi e gli ebrei diventano alleati. Sembra fantapolitica, ma in Medio Oriente, tranne forse la pace, tutto è possibile.
       La strada per una decodifica ufficiale dei rapporti fra Riad (e i suoi dignitari del Golfo) e Tel Aviv è ancora lunga s'intende, ma la diplomazia si basa spesso su fatti concreti. Molte delle mosse israeliane sono legate alla presa di posizione che ciascun Paese assume riguardo agli insediamenti ebraici nei Territori. Parafrasando, le simpatie di Israele oscillano in base a come ci si pone sulla questione palestinese e in particolare su ogni risoluzione delle Nazioni Unite che denunci nuovi insediamenti. In considerazione della guerra siriana ad esempio, non è difficile intendere l'idillio fra Riad e Tel Aviv. Sono lontani i tempi della guerra civile libanese in cui i siriani entravano in conflitto con l'OLP di Arafat. Oggi sono migliaia i palestinesi che hanno deciso di affiancare Hezbollah nella comune causa pro Assad. Su questa scorta, le forti pressioni saudite affinché Israele accetti un piano di pace duraturo (con riconsegna del Golan e di una fetta del Cisgiordania, n.d.a.), sembrano più orientate a togliere all'Iran il ruolo di difensore della Palestina (e dell'Islam) che a sponsorizzare la causa dei fratelli arabi più sgangherati.
       A questo si aggiungono i contatti segreti informali tra israeliani e sauditi segnalati dalla stampa araba, le voci della prossima apertura di una sede diplomatica saudita a Tel Aviv, i voli aerei diretti introdotti tra Arabia e Israele e la sempre meno oscura collaborazione militare mediata dagli USA. Il colloquio e la stretta di mano tra il ministro della difesa israeliano Moshe Ya'alon e il principe saudita Faisal al Saud alla Conferenza di Monaco di febbraio sono in questo senso emblematici.
       Israele, orfano anche dell'asse privilegiato con la Turchia di Erdogan, ha bisogno di un nemico in meno e di un mezzo alleato in più. I sauditi non aspettano altro. L'Iran lo sa e per bocca del presidente Rouhani ha iniziato ad accusare gli arabi di aver abbracciato la causa sionista. La palla ora passa a Teheran.

    (tg5stelle, 25 febbraio 2017)


    Israele-Libano: gas lacrimogeni contro manifestanti libanesi lungo il confine

    GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane (Idf) avrebbero utilizzato questa mattina gas lacrimogeni contro un gruppo di manifestanti libanesi che, secondo alcune fonti, avrebbero oltrepassato irregolarmente il confine tra i due paesi. Lo riferisce il quotidiano libanese "The Daily Star". L'incidente avviene dopo che la scorsa settimana il movimento sciita libanese Hezbollah ha accusato Israele di aver installato dispositivi di spionaggio in territorio libanese. Secondo il Partito di Dio, militari delle Idf avrebbero oltrepassato la Blue Line, che segna il confine tra i due paesi, nelle prime ore di mercoledì scorso per installare telecamere e trasmettitori a energia solare con l'obiettivo di raccogliere informazioni sui movimenti del gruppo. Hezbollah aveva anche pubblicato su Twitter foto dello sconfinamento. Sempre mercoledì, inoltre, i media libanesi avevano riferito di un attacco condotto in Siria da caccia israeliani contro un carico di armi destinato a Hezbollah.

    (Agenzia Nova, 25 febbraio 2017)


    Interviste davanti alla moschea

    di Daniele Scalise

     
    La grande moschea di Villa Ada a Roma
    Sul piazzale della moschea romana, in un venerdì di affilata tramontana, un gruppo di uomini (le donne, anche qui, riescono a rendersi invisibili come non appartenessero a questo nostro mondo) discute fermo su uno dei marciapiedi esterni che costeggia il tempio islamico. Alcuni parlano nelle varianti dell'arabo, altri in un francese cavernoso, lento e frammentato, molti in italiano. Ogni tanto lancio un sorriso amichevole nella speranza di captare un segnale di disponibilità da parte di qualcuno. Superato un leggero imbarazzo chiedo chi di loro abbia voglia di scambiare due chiacchiere.
       «Su cosa?» domanda diffidente un giovane uomo sulla trentina, basso, camicia bianca e larga, le mani indurite dal freddo e dal lavoro, gli occhi di un profondo marrone e una rosea cicatrice ricamata su una guancia. È tunisino e all'inizio tengo la conversazione alla larga spiegandogli che sto indagando sui rapporti tra le religioni.
       «Dimmi che vuoi sapere» balbetta in un italiano malmesso, mischiandolo a un francese accidentato.
       Dopo avergli fatto lunghe domande sulla sua storia, sul suo viaggio da immigrato, sulla sua devozione all'islam, dopo avergli chiesto come vede noi italiani, come viene trattato, gli chiedo di parlarmi degli ebrei. Che idea ne ha, come li vede.
       «Les juifs? Ils sont des chiens.» Dice con rapida voluttà: gli ebrei sono dei cani.
       Quindi ucciderli ...
       «Ils sont des chiens. Si tu veux savoir, c'est pas péché les tuer. Il sont des mécréants. Non, c'est pas péché ... » Ripete come ubriaco o estasiato o come recitante una preghiera memorizzata: son dei cani gli ebrei. Se proprio vuoi che te lo dica, ucciderli non è peccato. Sono miscredenti. No, non è peccato.
       Il tono della sua voce si è sensibilmente alzato e qualcuno prende a osservarci con una perplessità che presto potrebbe trasformarsi in fastidio o peggio. Sarebbe forse meglio andare da qualche altra parte a parlare in pace?
       «Qui va bene», dice e mi domanda se sono ebreo. Non gli rispondo. Sul piazzale della moschea la tramontana ha ripreso a spazzare via fogli di giornale. Dice di chiamarsi Abdelbaki.
       Abdelbaki, che cosa ti hanno fatto gli ebrei?
       «Je te l'ai dit: ils sont des chiens.» Te l'ho già detto: sono dei cani.
       Non è una risposta: spiegami perché li odi.
       «T'a pas vu ce qu'ils ont fait en Palestine?» Non hai visto quel che hanno fatto in Palestina?
       Continui a non rispondermi, Abdelbaki. Vorrei capire perché tu, tu in persona senti quest'odio. Vorrei sapere cosa hanno fatto a te o alla tua famiglia o ai tuoi amici.
       «Dove abitavo ... »
       Dove abitavi?
       «Vicino a Kef. Un tempo da noi c'erano un sacco d'ebrei. Mia nonna mi raccontava che erano i più ricchi, i più prepotenti e che, dopo averci sfruttato, se ne sono partiti per la Francia portandosi via tutto mentre noi siamo rimasti lì a morire di fame.»
       Insomma, mi stai dicendo che vi hanno derubato.
       «Credo proprio di sì.»
       E questo ti basta per volerli vedere tutti morti.
       «Bien sur, ça me suffit» certo che mi basta. «E basta anche questa conversazione.»
       Il gruppo di uomini da cui è uscito Abdelbaki si è intanto tenuto a distanza. Alcuni di loro non hanno smesso di fissarmi finché uno si stacca dagli altri e si avvicina con il suo sorriso sprezzante. È italiano.
       «Cosa cerca?»
       Sono giornalista, faccio domande.
       «Che tipo di domande?»
       Sugli ebrei.
       «Perché?»
       Lei è italiano?
       «Sono un figlio dell'islam, è questo ciò che conta.»
       Parlando evita, quanto può, lo sguardo diretto. Quell'aria ieratica e aggressiva che inalbera mi pare buffa e non lo nascondo.
       «Lo trovi ridicolo?»
       Non il fatto che lei sia il figlio dell'islam.
       «E allora cosa ti fa ridere?»
       Continua a darmi del tu e io, da parte mia, insisto nel dargli del lei. Ciò lo irrita e quando un uomo è irritato è più facile che perda il controllo e quando perde il controllo è più facile che sia sincero.
       «Posso aiutarti?»
       Forse. Lei odia gli ebrei? Lui scoppia in una finta risata.
       «Noooo» ulula.
       «Noooooo, io o-dia-re gli e-bre-iiiii? Ma noooo!»
       Fa boccucce. Torna di colpo serio.
       «Che cosa cerchi?»
       Per esempio, cosa sentono gli italiani convertiti all'islam nei confronti degli ebrei.
       «Vuoi sapere davvero cosa sentiamo per loro? Non ci piacciono. Li odiamo. E devono essercene grati.»
       Addirittura grati? E per quale motivo?
       «Gli ebrei, e lasciatelo dire da uno che li conosce bene, esistono grazie all'odio che si portano dietro sennò da mo' che erano scomparsi. Senza odio non esisterebbero. Sono capaci di farsi odiare ovunque. Da chiunque. Li odiano i cristiani. Li odiano i musulmani. Li odiano gli hindu. Li odiano gli atei. Li odiano tutti. E se non li odiano, li schifano.»
       Deve avere tra i trentacinque e i quarant'anni. Ha grandi occhi verdi, ben disegnati, lineamenti quasi perfetti che lo rendono di una bellezza trasparente, quasi femminea.
       È sposato?
       «Certo che sono sposato. Ogni buon musulmano lo è.»
       Non mi ha risposto: perché lei odia gli ebrei?
       «Perché sono odiosi, te l'ho detto.»
       È una tautologia che non spiega. Appena faccio il gesto di tirar fuori dalla tasca un piccolo registratore mi afferra il polso e lo stringe e molto lentamente scuote la testa.
       «Se vuoi parlo, ma niente registratore.»
       Gli ordino di togliermi le mani da dosso. Per un nano secondo continua a tenere la presa. Una macchina della polizia con dentro due uomini, posteggiata a non più di una trentina di metri, accende i motori. Li guardo facendo un breve gesto della testa per far capire che è tutto a posto. Uno dei due poliziotti mi risponde con un altro cenno del capo. Appena arrivato avevo spiegato loro il motivo della mia presenza e mi avevano consigliato prudenza.
       «Gli ebrei sono avidi e vili. Approfittatori pronti a tradire, interessati solo a difendere il proprio territorio.»
       Gli spiego che quel che mi sta dicendo si definisce come uno stereotipo, come un pregiudizio. Che è come dire che tutti i musulmani sono terroristi, che tutti gli uomini di colore violentano le donne bianche e stronzate del genere. Si vede che ha studiato. Non se la può cavare con qualche volgarità, faccia uno sforzo.
       «Basta vedere quel che fanno in terra di Palestina.»
       Mi dica quel che ci vede lei.
       «Hanno occupato una terra che non è loro. Ammazzano senza pietà. Buttano giù case. Costruiscono sulle macerie di quei poveracci. Li schiavizzano. Li sfruttano.»
       Un piccolo, splendente grumo di saliva si ferma a metà del labbro inferiore e nel parlare gli si congiunge con quello superiore allungandosi o accorciandosi a seconda delle parole e del respiro.
       Gli chiedo di lui, da dove viene, quando si è convertito.
       «Mi sono convertito dieci anni fa. Non avevo Dio e non avevo fede. Credevo solo nelle sciocchezze che questa società offre. Adesso sono in pace con me e con Dio.»
       Mi racconta anche che viene da una famiglia della destra moderata, padre ex alto funzionario, madre titolare di un'agenzia di viaggi. I genitori considerano con condiscendenza la sua conversione, convinti che prima o poi gli passerà come gli sono passate tante altre idee strane. Ha sposato una donna italiana anche lei convertita all'islam più osservante: se ne sta a casa, alleva un numero imprecisato di figli, porta il velo e sostanzialmente fa quello che le donne italiane o le donne francesi o le donne americane non vogliono più fare, le schiave dei loro maschi e le fattrici di bambini. L'italiano se ne va ondeggiando ma prima di andarsene, mi porge una mano che stringo a fatica. Poi, inshallah, scompare.

    (da "I soliti ebrei")


    Francia, allarme scuola: qui nasce il nuovo antisemitismo

    La fuga dei ragazzi ebrei dalla scuola pubblica. La débacle degli insegnanti. Il disagio delle famiglie e l'impotenza delle istituzioni. Nella Francia di oggi, la scuola è il vero barometro della temperatura sociale, terreno di scontro di tensioni religiose e razziali. Cosa che spiega il boom degli istituti ebraici.

    di Anna Lesnevskaya

    E' diventata la banlieue per eccellenza, quella di Seine-Saint-Denis, conosciuta in Francia semplicemente come il 93. Chi, come l'orientalista Gilles Kepel, autore del libro Novantatré (Quatrevingt-treize, Gallimard, 2012), cerca di capire le radici della jihad made in Francia, la radicalizzazione islamica dei giovani della periferia, la disintegrazione della seconda generazione della popolazione proveniente dal Maghreb, studia con attenzione la realtà di questo dipartimento della ''petite couronne parisienne", a nord est della capitale, con le sue cités e i palazzoni formato Scampìa. Seine-Saint-Denis non è stata solo la periferia che si è popolata di manodopera araba, arrivata in massa nella Francia del dopoguerra. In effetti, dopo la decolonizzazione dei Paesi dell'Africa del Nord negli anni Sessanta, nel 1993 sono confluiti proprio qui, numerosi, anche gli ebrei sefarditi. Ma di fatto, a partire dagli anni 2000, Seine-Saint-Denis si sta svuotando dalla sua popolazione ebraica, che non si sente più al riparo dall'ascesa del nuovo antisemitismo....

    (dal Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, febbraio 2017)


    L'Iran sviluppa nuove tecnologie missilistiche

    Nel corso di un evento pubblico, svoltosi a Noushahr, città centro-settentrionale dell'Iran, il Generale Hossein Dehqan, ministro della difesa iraniano, ha ribadito l'intenzione dell'Iran di aumentare la portata e la precisione dei propri missili balistici a lungo raggio.
       Secondo Dehqan, lo sviluppo di nuove tecnologie legate all'industria della difesa consentirà al paese di reagire a qualsiasi tipo di minaccia e di sventare eventuali complotti contro la Repubblica Islamica.
    Il ministro della difesa iraniano ha altresì sottolineato che Teheran non vuole interrompere il proprio programma missilistico per paura della probabile reazione ostile di Washington.
       A seguito dell'inaugurazione del lancio di un missile balistico iraniano a medio raggio, avvenuto lo scorso 29 gennaio, gli Stati Uniti avevano richiesto l'avvio di consultazioni urgenti in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tenutesi il 31 gennaio.
       In quell'occasione, Danny Danon, rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite, aveva accusato l'Iran di aver violato una serie di risoluzioni ONU poiché, a suo parere, i missili balistici utilizzati nel test possedevano capacità nucleari.
       Il giorno successivo, la Casa Bianca, tramite una dichiarazione rilasciata da Mike Flynn, ex consigliere alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, aveva fatto sapere che l'Iran sarebbe stato posto "sotto attenzione", per consentire l'avvio di un'investigazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. In un commento pubblicato su Twitter, il presidente americano Donald Trump aveva chiarito la propria posizione in merito alla questione, definendo il test balistico iraniano il risultato dell'accordo nucleare, a suo avviso, uno dei peggiori errori dell'ex amministrazione.
       Secondo alcuni funzionari dei servizi segreti americani, il governo iraniano, nei giorni successivi al test, avrebbe rapidamente sgomberato il sito utilizzato per il test, accingendosi a preparare, prima che fosse rimosso, un altro missile sulla stessa piattaforma di lancio, nei pressi di Semnan, a circa 140 miglia ad est di Teheran.
       Washington aveva quindi invitato il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ad esaminare la controversia sul test balistico. Secondo gli americani, il test sarebbe stato effettuato in violazione della risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, base legale dell'accordo nucleare internazionale siglato il 14 luglio 2015 a Vienna tra l'Iran e sei potenze mondiali.
       La risoluzione 2231 impone all'Iran, fino a otto anni dall'implementazione dell'accordo, di "non svolgere alcun tipo di attività riguardante missili balistici in grado di portare testate nucleari" e vieta al paese di ricorrere alla tecnologia applicata ai missili balistici per effettuare i test di lancio.
       Lo scorso 1 febbraio, la Repubblica Islamica ha replicato alle accuse mossegli da Washington affermando che il lancio del missile sarebbe in linea con la dottrina di difesa convenzionale. Pertanto, non sarebbe in contrasto né con la suddetta risoluzione ONU, né con altre risoluzioni internazionali. Denqan ha precisato che i missili non sono stati costruiti per portare testate nucleari e saranno impiegati dall'Iran a scopo strettamente difensivo; di conseguenza, saranno utilizzati per la difesa legittima del territorio nazionale, come previsto dall'accordo sul nucleare iraniano.

    (Sicurezza Internazionale, 25 febbraio 2017)


    Iran: criticò Khomeini, arrestato il figlio dell'ayatollah Montazeri

    Il figlio dell'ayatollah Hossein-Ali Montazeri, Ahmad, è stato arrestato dopo essere stato condannato a sei anni di reclusione per attività volte a "indebolire la base del sistema della Repubblica Islamica dell'Iran", in particolare per aver criticato l'Imam Khomeini.
    La condanna di Ahmad Montazeri, che avrebbe detto alcune frasi contenenti "bugie", era stata decisa dal Tribunale speciale del Clero sciita "a causa del suo sostegno ai terroristi in linea con l'arroganza globale".
    Le accuse al figlio di Montazeri erano scaturite dal fatto che, in una trasmissione radio degli ayatollah, aveva parlato dell'esecuzione di migliaia di dissidenti del partito Mojahedin del Popolo Iraniano (MKO) avvenute nel 1980.
    L'ayatollah Montazeri, morto nel 2009, è stata una delle personalità di spicco del mondo sciita e tra i più stretti collaboratori di Khomeini, che lo aveva indicato come suo successore. Nel 1989 fu però destituito dalle sue funzioni per alcune posizioni critiche sulle politiche del sistema.

    (swissinfo.ch, 25 febbraio 2017)


    Guida Suprema ribadisce appoggio dell'Iran alla Palestina

    Tehran-Iqna-La Guida Suprema ha aperto i lavori della sesta conferenza di appoggio alla causa palestinese di Tehran

    L'Ayatollah Seyyed Ali Khamenei, Leader Supremo della Rivoluzione Islamica
    Il Leader Supremo della Rivoluzione Islamica, l'Ayatollah Seyyed Ali Khamenei, ha aperto i lavori della sesta conferenza di appoggio alla Palestina, tenutasi a Tehran nei giorni scorsi, tenendo un discorso ai presenti.
    Nelle sue parole il Leader supremo ha tracciato un quadro dell'attuale situazione della Palestina, e ripercorso la storia della lotta del popolo palestinese attraverso i decenni, indicando nella resistenza contro l'occupazione sionista la via maestra per la liberazione di tale popolo.
    Egli ha criticato i passati accordi tra alcuni paesi arabi e una parte dei palestinesi con il regime israeliano, in quanto in essi non e' stata tenuta in considerazione la natura aggressiva ed espansionista di Israele, che ha approfittato dei cosiddetti colloqui di pace per estendere ulteriormente la propria influenza sulle terre arabe ed islamiche.
    L'Ayatollah Khamenei ha criticato alcune voci che cercano di denigrare la lotta armata dei palestinesi, e che affermano l'inutilita' di tale lotta, ricordando invece i successi della resistenza, come la liberazione del Libano meridionale, la liberazione di Gaza, e le vittorie nelle guerre dei 33 giorni (Libano 2006), 22 giorni (Gaza 2009), 8 giorni (Gaza 2012), 51 giorni (Gaza 2014). Secondo la Guida suprema la resistenza islamica in Libano e Palestina, nate all'inizio degli anni 80, pochi anni dopo la rivoluzione islamica in Iran, e' riuscita in un primo momento a porre fine all'estensione territoriale di Israele, che nei decenni precedenti aveva accaparrato nuove terre arabe dopo ogni guerra, e in seguito a liberare le terre occupate, come il sud del Libano e la striscia di Gaza.
    Il Leader supremo si e' inoltre soffermato sulla necessita' dell'unita' tra i gruppi della resistenza palestinese, e sulla necessita' che tali gruppi non si facciano influenzare dagli interessi di alcuni paesi mediorientali, che sono a parole a favore del popolo palestinese, ma che in realta' vogliono utilizzare la resistenza come merce di scambio nei loro rapporti internazionali con le potenze mondiali.
    L'Ayatollah Khamenei ha quindi ribadito la volonta' della Repubblica islamica dell'Iran a continuare l'appoggio alla causa palestinese, senza fare distinzione tra i vari gruppi coinvolti nella lotta contro Israele, fino a quando tali gruppi dimostrano di voler continuare sulla strada della resistenza. Infine la Guida suprema della rivoluzione islamica ha riaffermato la propria previsione sulla fine del cosiddetto stato di Israele entro i prossimi 25 anni.

    (Iqna, Agenzia Stampa Internazionale del Sacro Corano, 25 febbraio 2017)


    La “resistenza” di cui parla il Leader Supremo della Rivoluzione Islamica naturalmente è “resistenza islamica”, che significa opposizione a qualsiasi pretesa ebraica su qualsiasi parte del territorio islamico, che naturalmente comprende tutto il territorio ora nelle mani dell’”entità sionista”. Ma per i progressisti di sinistra, ebrei e non ebrei, parlare di “sicurezza” è una fissazione strumentale del vero nemico della pace: Benjamin Netanyahu. M.C.


    A Trastevere il tunnel che salvò gli ebrei

    Un'équipe di speleologi ha riscoperto un cunicolo segreto che attraversa il Gianicolo, da Villa Alibert al famoso cannone.

    Dopo il rastrellamento del Ghetto il parroco del Sacro Cuore di Gesù nascose molti fuggitivi facendoli entrare nella galleria. L'ingresso si trova nella fontana Ninfeo in via delle Mantellate. Durante l'esplorazione gli speleologi hanno trovato anche un osso

    di Laura Lacan

     
    Un tunnel nascosto, un parroco coraggioso, il ninfeo di una villa con passaggio segreto, lo spettro della follia nazista. Se il ventre del Gianicolo restituisce ora un capitolo sconosciuto di storia della Roma città aperta, dell'occupazione nazista, della deportazione degli ebrei. Un'emozione per l'équipe di speleologi del Centro ricerche Sotterranei di Roma, guidata da Lorenzo Grassi, che ha riscoperto ed esplorato per la prima volta dopo oltre settant'anni il lungo cunicolo dimenticato che salvò numerose vite umane. Un percorso che entra nelle viscere del Gianicolo, dalla fontana della settecentesca Villa Alibert alle Mantellate e attraversa il colle per salire fino all'altezza del cannone. I fatti risalgono a quel 16 ottobre del 1943. Erano ore concitate, momenti di paura ottenebrati dal panico. Quella lunga terribile attesa dopo il rastrellamento del Ghetto, eseguito dalle SS naziste. Gli ebrei destinati alla deportazione erano stati provvisoriamente radunati a Palazzo Salviati, alla fine di via della Lungara, a Trastevere. E in quel delirio, il coraggio di un uomo riuscì a consumare il miracolo. Nelle fasi concitate del trasferimento, malgrado la stretta e violenta sorveglianza dei soldati tedeschi, qualcuno riuscì a fuggire. Anche altri ebrei erano scappati dalle proprie abitazioni di Trastevere. Un gruppetto di fuggitivi, fra i quali una coppia, raggiunse Villa Alibert. Qui il parroco li accolse, li nascose e li indirizzò in un passaggio segreto. Proprio al centro della fontana monumentale sulla facciata dello storico palazzo, infatti, si apre un condotto idrico che un tempo alimentava la fontana-ninfeo.

     La minaccia delle ronde
      Quel cunicolo avrebbe permesso di raggiungere la sovrastante zona del Gianicolo, allontanandosi dalla minaccia imminente delle ronde dei soldati nazisti. E in più occasioni, il gesto del parroco e quel prezioso passaggio avrebbero consentito di salvare molte vite. Una storia autentica, persa nella nebbia di ricordi, trasfigurati in leggenda. Niente più tracce. L'oblio. E di questo aneddoto hanno fatto tesoro, per fortuna, i curatori del sito TrastevereApp curato da Walter Candiloro e Massimo Casavecchia, che documenta con passione il Rione. Grazie a loro è sopravvissuta l'ultima voce narrante, quella di monsignor Marcello Giannini (morto a 74 anni nel 2015) che l'aveva ascoltata a sua volta dai suoi predecessori che durante la guerra curavano la chiesetta del Sacro Cuore di Gesù. Ed è da questa suggestione storica che sono partite le ricerche degli speleologi. «Per confermare il racconto, abbiamo chiesto alle autorità vaticane, in particolare a Monsignore Antonio Interguglielmi e all'Istituto dei Santi Spirituali esercizi per uomini presso Ponte Rotto, di poter esplorare il cunicolo, per verificarne l'effettiva percorrenza», racconta Grassi. Ieri sono andati in scena i primi sopralluoghi. L'ingresso si nasconde dietro una grata incastonata tra le rocce della grande fontana-ninfeo sulla facciata di Villa Alibert (costruita dal conte Giacomo d'Alibert, noto per aver aperto il primo teatro pubblico di Roma in Tordinona). Gli speleologi di Sotterranei di Roma sono riusciti a percorrerne oltre cinquanta metri in condizioni ambientali difficili (dal fango è spuntato persino un misterioso osso, probabilmente di animale). L'intero cunicolo finisce per sbucare poco sotto il Gianicolo, al confine tra Villa Lante e le mura vicine al famoso cannone che spara a Mezzogiorno. La luce sulla storia bellica.

    (Il Messaggero, 25 febbraio 2017)


    Roma - Convegno anti-israeliano nella sala del Campidoglio: la protesta dell'ambasciata

    All'incontro di martedì annunciata la presenza di Stefano Fassina. L'ambasciatore: grave che simili eventi trovino spazio nelle istituzioni. Polemiche sull'evento organizzato nella piccola Protomoteca.

    di Marco Pasqua

     
    Una settimana contro quella che viene faziosamente definita l'"apartheid israeliana", e che comprende una serie di eventi di ispirazione filopalestinese. Giunge alla tredicesima edizione e, come avviene ogni anno, ha luogo in svariate città del mondo. E, martedì 28, per quanto riguarda la Capitale, partirà addirittura dal Campidoglio, dove è stata organizzata (nella sala della piccola Protomoteca, alle 17) una conferenza che spiega il senso di questa settimana anti-israeliana: "Gaza, rompiamo l'assedio". All'incontro, sostenuto dal movimento BDS, che promuove il boicottaggio dei prodotti israeliani, viene annunciata la presenza, sui social, oltre che di Ann Wright, tra i leader della Freedom Flotilla (protagonista di numerosi blitz non autorizzati nelle acque antistanti Gaza), di Stefano Fassina, consigliere comunale di Si. Una presenza che non è passata inosservata all'Ambasciata di Israele, nella persona del vice capo della missione diplomatica, Dan Haezrachy, che ha rilevato l'inappropriatezza del luogo scelto per questo convegno filopalestinese: «E' triste che eventi simili trovino spazio in luoghi istituzionali. E' oltremodo assurdo che si accosti il termine apartheid ad Israele, proprio mentre Israele nomina un giudice arabo come nuovo membro della Corte Suprema», sottolinea l'ambasciatore, che aggiunge: «Questo genere di eventi sarebbe il caso di dedicarli a Hamas, che da anni tiene in ostaggio l'intera Striscia di Gaza; o alla Siria, ove un regime brutale sta compiendo terribili massacri settari, sostenuto e armato dai fondamentalisti iraniani; o ad uno dei tanti regimi Mediorientali che quotidianamente abusano dei diritti umani e dei valori democratici». «Purtroppo, sfortunatamente - evidenzia Haezrachyci sono ancora persone che vogliono vedere solo in Israele - unica democrazia del Medioriente - la fonte di tutti i mali nel mondo».

     Contro il boicottaggio
      Una posizione condivisa da Gianluca Pontecorvo, vice-presidente dell'associazione Progetto Dreyfus, che monitora, tra le altre cose, i fenomeni di antisemitismo in Italia: «Mi domando come sia possibile che un'istituzione come Roma Capitale conceda una sala ad un movimento che vuole un boicottaggio tout court di un paese democratico e alleato dell'Italia come Israele - sottolinea - Concedere una sala comunale per affermare 'rompiamo l'assedio di Gaza' è un'operazione politica sbagliata perché a Gaza non c'è nessun assedio. Israele quotidianamente permette a decine di camion di aiuti di entrare a Gaza mentre da sotto i tunnel Ha-mas contrabbanda e importa armi per uccidere i civili israeliani. Spero che Stefano Fassina si renda conto che prenderà parte ad un evento intrinsecamente antisemita e rinunci a partecipare». La settimana di eventi in chiave anti-israeliana prevede, inoltre, il 14 e 15 marzo, alcune proiezioni al Nuovo cinema Aquila, tra le quali quella di'This is my land...Hebron", contro i coloni israeliani.

    (Il Messaggero, 25 febbraio 2017)


    Finzione obsoleta: L'Opzione dei due stati

    di Niram Ferretti

    Non è ancora chiaro quale sarà la linea politica che l'amministrazione Trump intenderà seguire relativamente a Israele. Le opzioni sono aperte e siamo entrati dentro uno scenario ancora da definire. Il primo incontro a Washington tra il presidente americano e il primo ministro israeliano ha smosso dal suo piedistallo quella che è stata considerata per decenni la soluzione obbligata del conflitto arabo-israeliano, i due stati separati. Non l'ha, come molti frettolosi e tendenziosi commentatori si sono affrettati a dichiarare, archiviata, ma sicuramente gli ha fatto perdere il suo primato dogmatico. Questa è sicuramente una nota positiva. Una onesta sepoltura alla soluzione dei due stati sarebbe la cosa migliore ma è ancora troppo presto per decretarne la morte clinica. Si continuerà così a muoversi intorno al suo capezzale per un'ordinaria manutenzione medica.
      Di fatto, la soluzione dei due stati separati è sempre stata una finzione da parte araba, solo una occasione per guadagnare tempo e continuare la battaglia. Gli Accordi di Oslo del '93-'95 furono un regalo fatto ad Arafat al quale non parve vero di potere essere riabilitato come interlocutore e di uscire dal cono d'ombra della semi irrilevanza politica nel quale si era cacciato dopo la sua adesione all'attacco iracheno nei confronti del Kuwait. Chi lo riabilitò fu il terzetto delle colombe, Yitzakh Rabin, Shimon Peres e Yossi Beilin. Secondo il loro wishful thinking, il terrorismo, un volta che fosse stato messo nelle condizioni di deporre le armi e la violenza e venire responsabilizzato come potenziale nation builder, si sarebbe ammansito e avrebbe cambiato pelle. Risultato? La radicalizzazione dell'odio nei confronti di Israele e il conseguente incremento del terrorismo.
      La guerra voluta da Arafat e introdotta in Israele come un cavallo di Troia dal terzetto per la pace il quale credeva di trasformare i lupi in docili agnelli, costò allo stato ebraico, 1,028 vite israeliane a seguito di 5,760 attacchi. Di queste vittime, 450 (il 43,8 %) morirono a causa di attacchi suicidi, una tecnica praticamente ignota prima degli accordi di Oslo. Tale fu il computo fino alla morte di Arafat nel 2004. Nel totale, dalla firma degli accordi alla fine delle seconda intifada, l'8 febbraio del 2005, le vittime israeliane furono 1600 e i feriti 9,000.
      Ad Arafat non parve vero potere avere una simile occasione per rivitalizzare il jihad contro Israele offertogli nel cuore stesso dello stato. Quando si giunse agli accordi di Oslo, dopo che quelli di Camp David del 1978 erano stati rigettati dal leader dell'OLP, egli aveva già mostrato da tempo la sua totale inaffidabilità e doppiezza. Da una parte c'erano i discorsi rivolti al pubblico occidentale concepiti per ingraziarsi le sue simpatie, dall'altra quelli in arabo rivolti ai militanti e al popolo palestinese, tra cui spicca il "sermone" tenuto a Johannesburg il 10 maggio del 1994 nel quale Arafat fece esplicito riferimento alla necessità del jihad per liberare Gerusalemme, chiamando a raccolta il mondo islamico e rivendicando la città come primo sito sacro dell'Islam. Fu durante questa concione che paragonò l'accordo raggiunto con lo Stato ebraico a quello istituito nel VII secolo da Maometto con la tribù Quraish per consentirgli di pregare alla Mecca. Nulla più che una "spregevole tregua", disse Arafat in quella circostanza, citando le parole del Califfo Omar. Infatti, dieci anni dopo, quando Maometto fu abbastanza forte, abrogò l'accordo e sterminò la tribù.
      Per Arafat l'accordo firmato a Oslo nel 1993 sulla creazione di una area palestinese autonoma era solo una manovra tattica contingente come fece presente riferendosi alla storia islamica: 'Noi rispettiamo gli accordi nello stesso modo in cui il Profeta Maometto e Saladino rispettavano gli accordi che firmavano'.
      Oggi ci dobbiamo confrontare con uno scenario mediorientale mutato in cui la realtà sul territorio chiama a una risposta diversa. Il relitto ideologico della soluzione dei due stati di cui la rovina di Oslo fa da testimone, si deve confrontare innanzitutto con una diversa determinazione americana la quale sembra avere al primo posto la deterrenza nei confronti del più pericoloso attore regionale, l'Iran. Lo stato sciita è di nuovo confermato sull'agenda americana come il "principale stato sponsor del terrorismo", sia da parte del Segretario alla Difesa, James Mattis che dell'ambasciatrice all'ONU, Nikki Haley.
      La velleitaria e ondivaga politica obamiana in Medioriente ha sortito l'effetto paradossale di riavvicinare ulteriormente gli stati arabi sunniti agli USA in funzione anti-sciita. In questo senso, una collaborazione con Israele quale principale alleato americano nella regione, diventa prioritaria rispetto a un nation building palestinese che da Oslo in poi si è mostrato irrealizzabile.
      Al coinvolgimento degli stati arabi sunniti in una ridefinizione del conflitto hanno accennato sia Donald Trump che Benjamin Netanyahu durante la conferenza stampa alla Casa Bianca del 15 febbraio scorso. Che forme possa assumere, se le assumerà, è ancora tutto da vedere, ma quello che appare rilevante è la messa tra parentesi dell'opzione bi-statale come esito scontato da santificare.

    (Progetto Dreyfus, 24 febbraio 2017)


    Hamas deve scegliere tra Egitto e Iran

    Il leader uscente del movimento di Hamas, Ismail Haniyeh, ha consigliato al suo successore, Yahya Sinwar, di rafforzare le relazioni con il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi.
       Il 21 Febbraio, è avvenuto il passaggio di poteri tra Ismail Haniyeh e il suo successore alla guida di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar. Haniyeh resterà vicecapo dell'ufficio politico del movimento, ma dovrebbe essere promosso, sostituendo Khaled Meshaal come capo dell'ufficio presidenziale, dopo le elezioni del Consiglio della Shura, organo supremo dell'organizzazione. Un membro di Hamas, parlando in condizione di anonimato, ha dichiarato ad Al Monitor che il processo elettorale si concluderà presto e che Haniyeh otterrà la carica di leader del movimento.
       In occasione del passaggio di poteri, Haniyeh ha aggiornato Sinwar sui colloqui sostenuti nel mese di gennaio con Khaled Fawzy, capo dei servizi segreti egiziani. Il suo consiglio parrebbe quello di rafforzare le relazioni con l'Egitto. Secondo Haniyeh, intrattenere buoni rapporti con il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, è la chiave per la sopravvivenza della leadership di Hamas.
       Al Monitor riporta che il 30 gennaio l'Egitto aveva presentato all'ex leader di Hamas una serie richieste. Una di queste prevede l'impegno dei palestinesi a consegnare i sospettati di attacchi terroristici contro le forze egiziane nella penisola del Sinai e che si nascondono a Gaza. Si tratta, in alcuni casi, di attivisti di Hamas, la cui estradizione potrebbe trovare l'opposizione del braccio armato dell'organizzazione, Izz ad-Din al-Qassam.
       Il giorno del passaggio di consegne tra Haniyeh e Sinwar, tutte le fazioni palestinesi, ad eccezione di Fatah, si sono riunite a Teheran per la Conferenza Internazionale sull'Intifada Palestinese. Il leader supremo iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei, ha aperto la sesta riunione annuale, dichiarando: "Il supporto al movimento di resistenza è di vitale importanza". Con supporto si intende appoggio finanziario, equipaggiamento militare e formazione, nonché tutela da parte del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche. L'osservazione di Khamenei può avere molteplici interpretazioni. Una potrebbe essere che l'Iran, che aveva recentemente ridimensionato il proprio supporto ad Hamas a causa delle posizioni contrastanti in merito alla guerra civile in Siria, ritorni a sostenere l'organizzazione, a patto che quest'ultima continui a combattere "l'occupazione israeliana".
       Negli ultimi tempi, le relazioni tra Egitto e Hamas hanno scatenato un acceso dibattito all'interno dell'organizzazione. É dubbio se sia preferibile per Hamas contare sul sostegno di Teheran o optare per l'appoggio di Arabia Saudita e Qatar, e così facendo, indirettamente ottenere sostegno politico dall'Egitto. Su questo tema non possono esserci compromessi.
       Sinwar, eletto capo di Hamas a Gaza il 3 febbraio, fu detenuto prima nel 1982 per attività sovversive, poi nel 1985 e infine nel 1988, con l'accusa di aver ucciso due soldati israeliani. Nel 2011, dopo 22 anni di prigionia in Israele, fu rilasciato in cambio della liberazione del soldato israeliano, Gilad Shalit. Dal 2012, è diventato membro dell'ufficio politico, curando i rapporti con l'ala militare del suo movimento, le brigate Ezzedin al-Qassam.

    (Sicurezza Internazionale, 24 febbraio 2017)


    Il Paese delle meraviglie naturali

     
    Ventiduemila chilometri quadrati di meraviglia. Israele, grande più o meno quanto il Lazio o la Toscana, è un'immensa riserva di sorprese naturali. Pur nella sua superficie stretta, ridotta e in ampie zone semiaride, da nord a sud e dal mare verso l'entroterra può contare su un patrimonio di flora e fauna strepitoso.
    La vita di piante e animali è ricca e diversificata, anche grazie alla collocazione geografica del Paese che si trova al punto in cui s'incontrano tre continenti. Boschi naturali prevalentemente formati da querce calliprine si distendono dalla Galilea al Monte Carmelo: qui in primavera sboccia la rosa selvatica e l'erica spinosa; negli altopiani del Negev si inerpicano, imponenti, i pistacchi atlantici e le palme da dattero.
    In Israele sono stati identificati oltre 2600 tipi di piante. Una varietà straordinaria. Altrettanto incredibili sono le cifre della fauna: pensate che solo le specie di uccelli sono più di 500. Alcuni - come l'usignolo - risiedono stabilmente, altri - come le folaghe e gli storni - vi trascorrono l'inverno.
    I cieli d'Israele vengono attraversati due volte l'anno da milioni di uccelli migratori: bozzagri, pellicani, cormorani, germani reali e molti altri ancora offrono spettacoli d'incanto per gli appassionati del bird-watching. Diverse specie di rapaci, tra cui le aquile, i falchi e gli sparvieri, come pure piccoli uccelli canterini come le capinere silvestri, nidificano in Israele. A proposito: sapevate che l'uccello nazionalle di Israele è l'upupa?
    Natura incantata. Delicate gazzelle di montagna vagano sulle colline; volpi, gatti selvatici e altri mammiferi vivono nelle zone boscose, lo stambecco nubiano dalle corna maestose balza fra le rocce del deserto, mentre fra le 100 specie di rettili originari del paese ci sono camaleonti, serpenti e lucertole.

     Tutela della Natura
      La tutela dell'ambiente è rigorosamente regolata da leggi restrittive per la protezione della natura e della selvaggina, rendendo illegale persino cogliere i fiori più comuni sui bordi delle strade. L'Autorità per i Parchi e per la Natura d'Israele (INPA) lavora egregiamente, e i risultati si vedono. Sparse, e sotto la supervisione dell'Autorità, vi sono oltre 150 riserve naturali e 65 parchi nazionali, che coprono quasi circa
    1.000 kmq. Circa 20 riserve sono state sviluppate per l'uso pubblico, con centri per visitatori e sentieri per escursioni che attraggono più di due milioni di persone l'anno. Una delle zone più importanti d'Israele, il Monte Carmelo, è stata dichiarata Riserva della Biosfera, nel contesto del programma dell'UNESCO "l'uomo e la biosfera". Sono centinaia le piante e gli animali protetti: fra questi la quercia, la palma, la gazzella, lo stambecco, il leopardo e l'avvoltoio, mentre sono state intraprese speciali operazioni di soccorso, per assicurare la sopravvivenza di alcune specie esposte al pericolo d'estinzione. Si sono allestite stazioni per il nutrimento di lupi, iene e volpi, come pure località sicure per la nidificazione degli uccelli. Le uova di tartarughe marine vengono raccolte regolarmente dalle coste mediterranee e covate in incubatrici, e le giovani tartarughe sono poi restituite al mare.
    Un sito internet (http://birds.org.il) sviluppato in Israele con il motto "Gli uccelli non conoscono "confini", mette in contatto bambini di tutto il mondo per un progetto educativo e di ricerca.

    (Italia Israele Today, 24 febbraio 2017)


    Prossime iniziative dell'Associazione Italia-Israele di Firenze

    4 marzo Maurizio Molinari presenta il suo ultimo libro "Duello nel Ghetto. La sfida di un ebreo contro le bande nazifasciste nella Roma occupata"
    11 marzo Benedetto Allotta: "Droni subacquei e archeologia marina": esperienze di collaborazione tra Università di Firenze e Israel Antiquities Authority"
    20 marzo Yoram Gutgeld: "Ricerca e innovazione alla base del successo dell'economia israeliana"
    1o aprile Marco Reis: "Palliwood. La manipolazione dell'informazione attraverso le immagini. Israele e altre storie"

    Tutte le iniziative avranno luogo alle ore 17.30 presso il Complesso comunale delle Murate (Piazza delle Murate, Firenze), ad eccezione dell'incontro con Yoram Gutgeld che si svolgerà alla stessa ora presso l'ASEV - Agenzia per lo sviluppo economico Empolese Valdelsa, Via delle Fiascaie 12, Empoli.

    (Associazione Italia-Israee di Firenze, 24 febbraio 2017)


    Il mondo accademico strizza l'occhio ad Israele (ma l'Italia si astiene)

    L'impegno israeliano per l'istruzione, la ricerca post-universitaria, l'innovazione e lo sviluppo, sono noti in tutto il mondo, e tutto il mondo beneficia della ricerca applicata prodotta nel piccolo stato ebraico. L'ecosistema realizzato in questo lembo di Medio Oriente fa sì che qui si registri la maggior concentrazione di società tecnologiche al mondo, dietro la Silicon Valley americana. La società di ricerca e consulenza KPMG calcola in nove le società israeliane incluse nel ranking delle 100 FinTech più promettenti al mondo; erano otto nel 2015.
    In termini omogenei di "parità dei poteri d'acquisto", Israele impiega in ricerca e sviluppo il 4.1% del PIL; è il secondo stato al mondo, dietro alla Corea del Sud (4.3% del PIL) e davanti a Giappone, Singapore, Finlandia, Svezia e Danimarca. L'Italia, in questo classifica cruciale per la crescita economica di lungo periodo, si attesta 28esimo posto. Come è stato ampiamente dimostrato, un impegno costante su questo fronte garantisce opportunità di impiego qualificato alla popolazione, e crescita economica e benessere generalizzati....

    (Il Borghesino, 24 febbraio 2017)


    Kesher: ultima serata sulla storia ebraica. Ebrei italiani e fascismo

    di Roberto Zadik

    Martedì 21 febbraio presso la Biblioteca Hasbani si è tenuto l'incontro conclusivo dell'interessante seminario sugli ebrei italiani e la loro complessa storia condotto dal docente universitario e storico ebreo cuneese Alberto Cavaglion. Stavolta il docente ha analizzato e approfondito le relazioni fra comunità ebraiche e intellettuali ebrei e regime di Mussolini, soffermandosi sul clima molto complicato che già si respirava in Italia dopo la "Prima Guerra Mondiale che, come ha detto il docente, "ha provocato un numero notevole di morti anche fra i tanti ebrei italiani che per patriottismo sono caduti in guerra".
      Ma come vissero quelli anni dal 1920 al decennio successivo gli ebrei italiani e cosa successe con l'avvento del Regime? Prevalsero le divisioni e le spaccature e "dopo l'iniziale unitarietà di intenti con il Risorgimento e i suoi valori che mettevano d'accordo un po' tutti" ha sottolineato "con il Primo conflitto mondiale cominciarono gli scismi che poi si sarebbero accentuati sempre di più col fascismo. Ci furono diversi ebrei che pensarono che il fascismo li avrebbe salvati e che tennero rapporti col governo Mussolini. A Ferrara il podestà Ravenna fu un esempio di uomo del compromesso e la città fu un centro di fondamentale importanza per il mondo ebraico rappresentato mirabilmente nel romanzo di Giorgio Bassani il Giardino dei Finzi Contini che però venne molto criticato e considerato mieloso e poco realistico da diversi scrittori d'avanguardia. Nonostante le polemiche fu un testo di fondamentale importanza per capire quel tormentato periodo e la storia di una famiglia ebraica altoborghese che pensava di scamparla a quanto stava accadendo ma che venne arrestata e deportata".
      Negli anni '20, ha ricordato lo storico, si stava formando anche il futuro dittatore Mussolini che frequentava i salotti culturali della borghesia milanese mostrando già, come ha evidenziato lo storico "atteggiamenti di stizzosa antipatia verso gli ebrei e in particolare nei confronti di membri di spicco di questi ambienti, come Treves". Tratteggiando efficacemente la personalità di Mussolini e il seguito che, purtroppo per ingenuità o per sopravvivenza molti ebrei li diedero, Cavaglion ha aggiunto "Nonostante fosse totalmente emarginato dagli ambienti colti, Mussolini seppe inserirsi nella vita politica. Era un manipolatore, si mostrò da subito nazionalista e interventista e se la prese con Treves, amico di Turati e ebreo piemontese prendendolo in giro e chiamandolo Claudio Tremens, schernendo la sua codardia". Nella sua analisi egli si è soffermato sulle "varie spaccature che lacerarono il tessuto sociale degli ebrei italiani. Essi erano divisi su varie questioni, pacifisti e irredentisti, fascisti e antifascisti e anche sionisti, una minoranza e antisionisti, la maggioranza, tanti pensavano che il fascismo non fosse pericoloso come il nazismo e ne sottovalutavano la gravità". Il 1917 fu poi un anno cruciale, fra la dichiarazione Balfour e la Rivoluzione d'ottobre che rappresentò uno spartiacque, fra chi aderì al comunismo e quelli che restarono socialisti." Fu una fase molto agitata per l'Italia e per gli ebrei italiani, quella fra lo scoppio della Prima Guerra mondiale e l'avvento del fascismo e, come ha fatto sapere Cavaglion, "ci furono diversi ebrei che giurarono fedeltà al regime e professori universitari che furono costretti a emigrare perché coraggiosamente si opposero al fascismo. Fra questi Giorgio Levi Della Vida che venne sostituito dal suo migliore discepolo, Umberto Cassuto".
      Ma cosa accadde alle comunità italiane in quegli anni e quali furono le città dove ci furono maggiori divisioni e contrasti? Centri nevralgici di questi scontri furono le città di Ferrara e di Modena dove Cavaglion ha raccontato le storie, citando il giornalista Arrigo Levi e le sue memorie, la storia dei due fratelli Donati che divennero uno "un fascista molto rispettato dai membri del regime, mentre l'altro venne arrestato e ucciso come oppositore". Numerose furono le vicende di "lotta fratricida, di dolorosi compromessi come il Concordato del 1931 fra Mussolini e rabbini che dovettero negoziare col governo e col Vaticano". In tutto questa cornice, "nella quale per noi è un dovere morale cercare di non giudicarne i protagonisti, perché lo storico non è un giudice ma uno studioso", ha specificato, un ruolo molto importante è stato quello dei Fratelli Rosselli e di personaggi come Leone Ginzburg, originario di Odessa e che divenne marito della celebre scrittrice Natalia Levi.
      Liberali, progressisti, molto legati alla loro identità ma laici, sia Ginzburg che Rosselli, furono fieri oppositori del fascismo fino all'ultimo e Nello Rosselli scrisse un sentito discorso "Il mio ebraismo" che ricevette molti elogi ma anche diverse critiche, specialmente da rabbini e da religiosi. In tema di lacerazioni e lotte fra ebrei, i Rosselli e altri come Vittorio Foa vennero denunciati e fatti arrestare da Dino Segre, noto con lo pseudonimo di Pittigrilli, scrittore e intellettuale ebreo torinese molto vicino al fascismo.
      La situazione precipitò sempre di più quando vennero emanate le leggi razziali; fra il 1935 e il 1938 furono "anni di profondo disorientamento ebraico, con arresti, eccidi e provvedimenti restrittivi che per molti arrivarono come un fulmine a ciel sereno" ha ricordato amaramente lo storico. Il decennio fra la fine della Prima Guerra Mondiale e la fine del Secondo conflitto, fu dunque un periodo chiave, dove si delinearono divisioni che ancora oggi lacerano il mondo ebraico, come quella fra laici, assimilati e religiosi, fra socialisti, comunisti, fra chi aveva perso la speranza e chi invece come in libri come "Se questo è un uomo" continuava a credere che "si potesse rinascere dalle ceneri".
      Lo studioso ha concluso il suo corso con una nota ottimistica, citando il grande letterato ebreo torinese, scomparso 30 anni fa, l'undici aprile del 1987, che in conclusione del libro racconta gli ultimi giorni prima della Liberazione di Auschwitz del 27 gennaio. "E questo è quello che è successo nella storia dell'ebraismo nel nostro Paese" ha concluso Cavaglion.

    (Mosaico, 23 febbraio 2017)


    Israele vieta ingresso a Human Rights Watch. Finita la pacchia per le ONG antisemite?

    Sembra essere finita la pacchia per le ONG antisemite che fino ad oggi hanno abusato della democrazia israeliana per attaccare e denigrare Israele. Le autorità israeliane hanno fatto sapere di aver bloccato l'ingresso in Israele dei lavoratori di Human Rights Watch, una delle principali organizzazioni - insieme ad Amnesty International - per la difesa dei Diritti Umani. Lo fa sapere la stessa organizzazione sul suo sito web.
    La decisione del Governo israeliano risale al 20 febbraio quando è stato negato il permesso di ingresso in Israele a Omar Shakir, direttore di Human rights Watch per Israele e per i territori arabi....

    (Right Reporters, 24 febbraio 2017)


    L'odio per Israele rende ciechi (e poveri)

    Cosa insegna il caso della ricercatrice di Torino che boicotta Tel Aviv .

    Le università israeliane sono espressione delle politiche di oppressione del governo e io non ci collaboro". La storia di Ilaria Bertazzi, dottoranda in Economia, tiene banco da due giorni sulle cronache dell'Università di Torino. Bertazzi ha, infatti, rifiutato un contratto di ricerca legato a Horizon2020, un progetto di studi dell'Unione europea sulle energie rinnovabili e sulle case "intelligenti" e che ha come partner l'ateneo di Torino e quello di Tel Aviv. Quando ha scoperto che Israele era tra i partner, Bertazzi ha preferito rinunciare. Un anno fa il Foglio aveva scritto più volte che il boicottaggio di Israele aveva infiltrato anche le università italiane, quando venne promosso un appello con trecento firme per isolare i colleghi israeliani. Il caso Bertazzi dimostra che quel movimento ha pesanti conseguenze pratiche. La più pesante, in questo caso, è per la ricercatrice che rinuncia a fondi preziosi pur di inseguire questa ideologia pestifera che si chiama antisionismo, spesso una maschera dell'antisemitismo. Ma anche Israele nel lungo periodo ne viene toccato profondamente. La Dan David Foundation ogni anno assegna un premio di un milione di dollari. L'anno scorso lo aveva vinto la studiosa inglese Catherine Hall, docente di Storia allo University College London. Catherine Hall ha rifiutato il premio, assieme a 300 mila dollari, perché è denaro israeliano e lei aderisce al movimento di boicottaggio dello stato ebraico. L'odio per Israele è una ossessione che rischia di deturpare il volto dell'università israeliana e che sta già corrodendo quello dei nostri atenei.

    (Il Foglio, 24 febbraio 2017)


    Parigi, picchiati due giovani ebrei con la kippà

    L'aggressione sarebbe avvenuta martedì sera nella banlieue di Saint-Denis: i due ragazzi sarebbero stati vittime di insulti antisemiti e poi aggrediti "selvaggiamente". Uno dei due avrebbe rischiato di perdere un dito

    PARIGI - Due ragazzi ebrei con la kippà, che circolavano in auto a Saint-Denis, una banlieue di Parigi, sono stati vittima di un'aggressione "selvaggia" e di feroci insulti antisemiti, come riporta il quotidiano della capitale Le Parisien. Secondo il padre dei due fratelli, 29 e 17 anni, i due, mentre erano alla guida di un'automobile, sono stati insultati dagli occupanti di un'altra auto che li hanno costretti a fermarsi al grido "sporco ebreo, ti ammazzo". Una volta fermi, gli aggressori sarebbero stati raggiunti da altri complici che avrebbero malmenato i due ragazzi ebrei.
    L'aggressione sarebbe avvenuta martedì sera. Il padre dei due giovani, Armand Azoulay, presidente della comunità ebraica della vicina Bondy, ha parlato di "chiara aggressione antisemita" e di una violenza di "bestialità incredibile". Uno dei due ragazzi avrebbe anche rischiato l'amputazione di un dito, mentre l'altro, oltre alle contusioni, è stato ferito lievemente a una spalla. Gli aggressori, non identificati, si sono dati alla fuga.
    Qualche giorno fa Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra Front National, aveva detto durante un'intervista televisiva che sarebbe meglio per gli ebrei (e i fedeli di altre religioni) non esporre i simboli del loro culto, come la kippà. Le sue dichiarazioni avevano scatenato polemiche, anche perché,
    nella stessa circostanza, Le Pen aveva detto che, con lei all'Eliseo, i cittadini israeliani e gli altri extraeuropei (ma non russi) non avrebbero potuto mantenere la doppia cittadinanza, essendo dunque costretti a scegliere tra quella francese e quella, in questo caso, israeliana.

    (la Repubblica, 24 febbraio 2017)


    "Via la Pasquetta, entri il Ramadan"

    La gauche in Francia propone di scristianizzare e islamizzare il calendario

    di Giulio Meotti

    Dalil Boubaker, rettore della grande moschea di Parigi, propose di usare le chiese vuote per ospitare i musulmani
    ROMA - Due anni fa furono le comunità islamiche a proporre la conversione delle chiese in moschee. Il rettore della grande moschea di Parigi, Dalil Boubaker, nella sua "Lettera aperta ai francesi" propose di ricorrere alle chiese vuote per ospitare i musulmani: "E' un problema delicato, ma perché no?", disse Boubaker. Adesso la sinistra al governo sembra averli presi sul serio. Un rapporto uscito ieri per la fondazione Terra Nova, principale pensatoio che fornisce le idee al Partito socialista, afferma che per meglio integrare l'islam si dovrebbero sostituire i lunedì di Pasqua e Pentecoste con le feste islamiche. E per essere ecumenici hanno inserito anche una festa ebraica. Scritto da Main Christnacht e Marc-Olivier Padis, lo studio intitolato "L'emancipazione dell'islam di Francia" afferma che "affinché tutte le denominazioni siano trattate allo stesso modo, si dovrebbero includere due nuove date importanti, Yom Kippur e Eid el Kebir, con la rimozione di due lunedì che non corrispondono a particolari solennità".
       Via dunque Pasquetta e Pentecoste per far posto a quella che segna la fine del Ramadan. La proposta è respinta dalla Conferenza episcopale di Francia, ma è fatta propria dalla Unione delle organizzazioni islamiche francesi, vicina ai Fratelli musulmani, che vorrebbe includere nel calendario le feste islamiche di Fitr ed Eid. L'idea di sostituire le feste cristiane è sposata dall'Osservatorio della laicità, l'organo voluto dal presidente François Hollande per coordinare le politiche secolariste, che ha proposto di eliminare le feste cristiane per far posto a quelle islamiche, ebraiche e laiche. L'idea è arrivata da Dounia Bouzar, membro del direttivo dell'osservatorio: "La Francia deve sostituire due feste cristiane per far posto al Kippur e all'Eid".
       D'accordo con la proposta il presidente dell'Osservatorio, Jean-Louis Bianco. E ora arriva la raccomandazione di Terra Nova. Ma i socialisti francesi sembrano più islamofili dei musulmani, se pensiamo che Abdallah Zekri, presidente dell'Osservatorio sull'islamofobia, ha detto: "Aggiungiamo due feste, anziché eliminarle. Non si dica che vogliono spogliare Pietro per vestire Maometto". Simile la proposta arrivata da un altro pensatoio, stavolta liberale, l'Istituto Montaigne che consiglia il candidato Emmanuel Macron. Nel rapporto scritto da Hakim El Karoui, l'istituto propone la creazione di un "Grande Imam di Francia". Ma l'equivalenza morale non funziona nella laicità francese. Così Hollande, in occasione della Pasqua, si "dimentica" di rivolgere gli auguri ai cristiani, salvo che pochi mesi prima aveva rivolto i migliori auguri ai musulmani per il Ramadan. L'Istituto Montaigne ha anche suggerito di insegnare l'arabo nelle scuole. Lo ha appena chiesto anche Jack Lang, goscista e presidente dell'Istituto del mondo arabo: "Il mondo arabo è parte di noi". A forza di ibridare culture, la Francia finirà per insegnare non anche l'arabo, ma solo l'arabo, e a officiare il Ramadan anziché la Pasqua. Quanto agli ebrei francesi, sono in tanti oggi a voler togliere loro la kippà.

    (Il Foglio, 24 febbraio 2017)


    E' vano il tentativo di difendere sia il cristianesimo trionfante del remoto passato, sia il laicismo trionfante del recente passato. Entrambi sono movimenti storici che hanno inglobato strutturalmente l’antiebraismo. L'islam non arriverà a dominare il mondo ma, come l'Assiria dei tempi biblici, oggi potrebbe essere la verga dell'ira dell'Eterno. Prima che arrivi il suo turno. «Guai all'Assiria, verga della mia ira! Ha in mano il bastone della mia punizione. Io la mando contro una nazione empia e la dirigo contro il popolo che ha provocato la mia ira, con l'ordine di darsi al saccheggio, di far bottino, di calpestarlo come il fango delle strade. Ma essa non la intende così; non così la pensa in cuor suo; essa ha in cuore di distruggere, di sterminare nazioni in gran numero» (Isaia 10:5-7). M.C.


    La paura del presente

    di Ugo Morelli

    Se la storia non riesce a essere maestra di vita, almeno può aiutarci a comprendere il presente. Una recente inchiesta dell'Ucei (l'Unione delle comunità ebraiche italiane) pubblicata su «Pagine Ebraiche» di gennaio, ci segnala come cali la sensibilità verso genocidi e processi di emarginazione ed esclusione, e come aumenti l'indifferenza. Presi dalla paura del presente, non ci accorgiamo di scivolare nella ricerca di capri espiatori a cui attribuire la responsabilità di tutto ciò che non va. Accade ad esempio che la parola sicurezza sia usata per ridurre e decimare i diritti di libertà e, per molti aspetti, la democrazia stessa. Ma non solo. A manifestarsi è la tendenza in base alla quale l'identificazione e il riconoscimento di sé, da parte di interi gruppi sociali e di intere società, si costruisce negando un'altra parte di quella stessa società. Solo il sapere e la conoscenza di simili dinamiche possono aiutarci a distinguere tra civiltà e barbarie.
       Ben venga, allora, l'iniziativa dell'associazione «Piazza del mondo» dal titolo «Sapere e futuro» che si svolge tra Trento e Rovereto. Oggi si parlerà dell'antigiudaismo. Cosa può insegnarci l'antigiudaismo? Non si tratta solo dell'insieme dei pregiudizi e delle persecuzioni contro gli ebrei, la qual cosa già basterebbe per occuparsene con l'attenzione dovuta. Stiamo parlando, in realtà, dell'intero impianto con cui le società occidentali, comprese le comunità locali, hanno costruito e costruiscono se stesse. A un certo momento della storia alcune idee divengono il modo dominante con cui una cultura deve fare i conti. Quelle idee si trasformano con l'uso e tendono a confermarsi e consolidarsi. Si pensi all'immigrazione oggi: sta diventando, e in parte lo è già, un'ossessione. L'idea diviene un dispositivo con cui rassicurarsi, scegliere come governarsi, quanto chiudersi e aprirsi (soprattutto chiudersi). Come aveva ben intuito Max Weber. «Le idee e non gli interessi (spirituali o materiali che siano) controllano intuitivamente le azioni degli uomini. Ma le visioni del mondo che sono forgiate dalle idee hanno spesso servito da guardascambi per i binari sui quali la dinamica degli interessi ha mosso l'azione». Il dispositivo costruisce ponti di causalità e svolge una funzione rassicurante contro la paura. Ma è un meccanismo pesante per le nostre fondamenta conoscitive troppo fragili: le spiegazioni e le azioni peggiori finiscono per affermarsi con la complicità della nostra stessa autogiustificazione. Solo la conoscenza critica del presente ci potrà salvare.

    (Corriere del Trentino, 24 febbraio 2017)


    Georges Bensoussan in tribunale. Con lui sotto accusa il vero anti-razzismo

    di Rossella Tercatin

     
    Georges Bensoussan
    Qualcuno non esita a chiamarlo l'Affaire Bensoussan. E se a confermare o meno la portata del paragone con il caso Dreyfus dovrà essere la storia, non c'è dubbio che il processo contro lo storico Georges Bensoussan, che si è aperto a Parigi nelle scorse settimane stia facendo discutere la Francia. A carico dello studioso, uno dei massimi esperti di storia della Shoah, un'imputazione per incitamento all'odio razziale per aver denunciato come nel paese "nelle famiglie arabe, tutti sanno, ma nessuno ammette come l'antisemitismo sia trasmesso con il latte della madre". Queste parole vengono pronunciate nel corso di un dibattito radiofonico nel dicembre 2015. Nonostante Bensoussan abbia ripetutamente tentato di spiegare che la sua fosse semplicemente una metafora per riferirsi a un pregiudizio culturalmente diffuso, le grandi associazioni antirazzismo d'Oltralpe, Ligue des droits de l'homme, Licra, MRAP, SOS-Racisme ainsi que le Collectif contre l'islamophobie en France (CCIF) lo denunciano. E ora che il caso è davanti ai giudici, accademici, intellettuali ne discutono, interrogandosi su quale sia il suo significato non solo per la reputazione dello storico, ma per il futuro della Francia. Perché la sentenza determinerà il confine della libertà di espressione, e il caso rappresenta anche la contrapposizione, forse mai così netta, fra attivisti che combattono l'intolleranza in ambiti diversi (o almeno dichiarano di farlo). Tra coloro che si sono schierati apertamente con Bensoussan, molti esponenti della comunità ebraica francese, che denunciano il crescente antisemitismo e gli atti di violenza, in massima parte compiuti proprio da giovani di famiglie arabe, ma anche Alain Finkielkraut, uno dei massimi pensatori contemporanei, che conduceva la trasmissione radiofonica nel corso della quale è stata pronunciata la frase incriminata e ha lasciato il suo posto di membro onorario del consiglio del Licra in segno di protesta.
       "Questo processo significa impedire qualunque tipo di ricerca o espressione pubblica nei confronti dell'Islam se non per lodarlo" ha dichiarato Finkielkraut in un'intervista radiofonica, denunciando un clima che in Francia si manifesta spesso: a farne le spese, oltre agli stessi Bensoussan e Finkielkraut, anche, per esempio, il saggista Bernard-Henry Levi, accusato di 'difendere Israele' e lo scrittore Michel Houellebeq, che ha ricevuto minacce di morte per il suo libro in cui racconta una Parigi del futuro governata dall'Islam politico.
       Davanti ai giudici, Bensoussan ha sottolineato come in realtà lui abbia parafrasato quanto viene messo in luce da molti intellettuali musulmani, che però hanno negato decisamente. Tra loro il giornalista Mohamed Sifaoui, che ha dichiarato di essere rimasto scioccato da quanto sostenuto da Bensoussan, in quanto arabo e non anti-semita. Sifaoui ha sostenuto che quanto da lui scritto in un precedente articolo, secondo cui gli arabi "succhiano da capezzoli intrisi di antisemitismo" sia "completamente diverso".
       Lo stesso giudice ha poi fatto notare come tutti gli studi dimostrino che l'antisemitismo sia più diffuso tra i francesi di religione islamica e di estrema destra che nel resto della popolazione.
    In una République sempre più in crisi d'identità, c'è chi teme che siano anche episodi come le accuse a Bensoussan a rendere facile il gioco di Marine Le Pen, che con l'estrema destra del Front National continua a guadagnare consenso. Anche se l'esperienza insegna che le campagne elettorali con la loro retorica non sono forse il momento più propizio, trovare delle risposte a questa crisi si fa sempre più pressante. Nel frattempo, la sentenza è prevista per il 7 marzo.

    (moked, 23 febbraio 2017)


    Purtroppo Georges Bensoussan ha commesso un errore che forse con la sua esperienza avrebbe potuto evitare. Sarà senz'altro vero che la sua espressione voleva essere soltanto una metafora, ma si doveva prevedere che i suoi avversari non si sarebbero accontentati di questa spiegazione. Anche perché in altri soggetti potrebbe non essere vera. Mi è capitato poco fa di sentir dire con la massima naturalezza che gli ebrei, l'amore per i soldi "ce l'hanno nel sangue". Alla mia osservazione che la frase aveva un suono piuttosto razzista, il mio interlocutore ha precisato che sì, forse era meglio dire che "l'hanno preso dalla culla". Sono abbastanza convinto che la prima espressione era autentica e verace, e se fosse stata ripetuta in sede pubblica, davanti a uditori ebrei, avrebbe anche potuto essere oggetto di denuncia. L'antisemitismo purtroppo è una realtà che sta crescendo in estensione e aggressività, per questo è bene essere attenti e, soprattutto, astenersi dall'usare argomenti biologici. Anche come metafora. Per esempio, se un ebreo si sente dire: “Ma voi ebrei, l’amore per i soldi ce l’avete nel sangue”, deve resistere alla tentazione di rispondere: “Ma voi gentili, l’antisemitismo ce l’avete proprio nel sangue”. Anche se la tentazione di farlo sarebbe comprensibile. M.C.


    Roma - Scuola ebraica, la visita della ministra

    Si conclude con questo messaggio ai giovani raccolti nel cortile la visita della ministra dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Valeria Fedeli alla scuola ebraica di Roma.
    Un'ora e mezzo abbondante al Portico d'Ottavia, per la ministra, che incontra i vertici della scuola, i rappresentanti dell'ebraismo romano e italiano, chi a vario titolo è impegnato nel mondo dell'educazione e della formazione. Visita le classi, i diversi ambienti, incontra gli studenti.
    Ad accoglierla e ad accompagnarla all'interno dell'istituto la ministra trova la presidente della Comunità romana Ruth Dureghello, la preside delle elementari Milena Pavoncello, la presidente UCEI Noemi Di Segni, e i presidenti delle altre tre Comunità dove è attiva una scuola ebraica: Milo Hasbani e Raffaele Besso per Milano, Dario Disegni per Torino, Alessandro Salonichio per Trieste.
    Presenti inoltre, tra gli altri, gli assessori alla scuola di UCEI (Livia Ottolenghi) e Comunità di Roma (Daniela Debach), il preside delle scuole ebraiche rav Benedetto Carucci Viterbi, il direttore delle materie ebraiche rav Roberto Colombo.
    Ad accompagnare la ministra il consigliere diplomatico Gianluigi Benedetti.

    (moked, 23 febbraio 2017)


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    "I vostri valori, i valori di tutti"

    di Ada Treves

    Una visita alla scuola ebraica di Roma, che sarebbe dovuta essere molto breve ma si è invece trasformata in un'occasione di emozione e di dichiarazioni importanti: così, con volontà tenace, la ministra dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, in un giorno pieno di impegni, ha dato un segnale importante alle comunità ebraiche italiane. Segno tangibile di un'attenzione che non cala e della ferma e precisa volontà di vedere, incontrare, conoscere direttamente la multiforme realtà della bimillenaria minoranza ebraica a partire proprio dai luoghi deputati alla formazione dei più piccoli, i veri garanti del futuro di una comunità piccola nei numeri ma grande nei valori e nelle tradizioni.
    Dopo il Viaggio della Memoria cui ha partecipato insieme alla presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, per non dimenticare, ora Valeria Fedeli guarda avanti, e mostra il suo impegno e la sua intenzione di incontrare quelle istituzioni che accolgono e accompagnano la crescita, che educano, formano e sostengono lo sviluppo identitario dei giovani e dei giovanissimi ebrai italiani. Così, dopo la visita alla scuola di Roma, accompagnata dalla presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e alla padrona di casa, la presidente della Comunità romana Ruth Dureghello, Valeria Fedeli ha incontrato i presidenti di Milano, Torino e Trieste, ossia di quelle comunità che pur fra mille difficoltà tengono aperta una scuola ebraica.
    Un incontro importante, Dureghello ha scelto di aprire con parole sentite: "Grazie. Un grande e caloroso grazie, innanzitutto, per aver deciso di essere qui con noi e di visitare un'istituzione che è centrale e fondamentale per la Comunità di Roma, così come le scuole sono il cuore delle Comunità di Milano, Torino e Trieste, qui rappresentate dai rispettivi presidenti. Sono per noi imprescindibili, importantissime, e non intendiamo rinunciarvi, per nessun motivo. Ma abbiamo bisogno di sostegno e dell'appoggio suo e del Ministero tutto".
    Evidentemente emozionata, accolta dai canti degli allievi e da un caloroso benvenuto della direttrice Milena Pavoncello, la ministra si è rivolta direttamente ai bambini e ai ragazzi che affollavano il cortile della scuola: "Siete una parte fondamentale del nostro futuro: siete italiane e italiani portatori di valori, di cultura e di storia, siete una componente imprescindibile della società".
    Dopo aver assistito a una lezione sui dieci comandamenti, "Seduta in classe tra gli allievi - ha voluto sottolineare - ho sentito la forza di idee e valori e che sono portatori di un messaggio straordinario che coinvolge la comunità tutta. Il riconoscimento del rispetto e del valore dell'altro sono particolarmente importanti nell'avvicinarsi dell'ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziste del '38 e voglio ricordarvi le parole dell'Articolo 3 della nostra Costituzione: 'Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali'. Si tratta di un Articolo che va studiato, conosciuto, e che deve diventare parte integrante del lavoro in tutte le classi". Una visita, questa a Roma, che è solo un primo appuntamento e segna un passaggio importante nel processo di conoscenza e riconoscimento delle scuole ebraiche italiane, un impegno che la ministra Fedeli ha oggi riconosciuto come fondamentale, ribadendo più volte come si tratti di istituzioni che sono parte integrante e fondamentale del tessuto sociale e culturale, un'esperienza, ha concluso, "straordinaria e imprescindibile".

    (moked, 23 febbraio 2017)


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    Dureghello: sostenere le scuole per garantire il futuro della comunità ebraica

    ROMA - Le scuole ebraiche di Roma, che questa mattina hanno accolto la ministra della Pubblica istruzione Valeria Fedeli, hanno voluto darle un "messaggio per noi fondamentale: la trasmissione dei valori e dell'identità ebraica avviene all'interno delle scuole ebraiche". Lo ha spiegato a margine dell'incontro la presidente della Comunità ebraica capitolina, Ruth Dureghello.
    "Non c'è nessun altro luogo in cui questo valore si può trasmettere. Gli ebrei da sempre studiano, gli ebrei da sempre trasmettono nella scuola l'importanza di appartenere al nostro popolo. E se si vogliono degli ebrei italiani nel futuro così
    come nel passato hanno tanto segnato la storia del nostro paese, questi devono formarsi all'interno delle scuole ebraiche". Le scuole ebraiche "sono a rischio purtroppo sia perché sono prevalentemente sostenute dalle comunità, a parte uno scarso contributo da parte dello Stato come tutte le scuole paritarie, e in un momento in cui i bisogni sociali ed economici delle famiglie pesano molto, le stesse comunità ebraiche devono sobbarcarsi dell'istruzione, questo diventa complicato da mantenere e garantire per il futuro".
    In questo senso, la presidente degli ebrei romani ha espresso soddisfazione per gli impegni presi dalla ministra Fedeli: "Sono soddisfatta dell'impegno, mi aspetto comunque atti concreti per il futuro. Siamo sempre disponibili a ragionare sulle strade che si possono e si debbono perseguire, ma ribadisco: se si vuole che in Italia la presenza ebraica non sia purtroppo destinata a scomparire bisogna che questo impegno si accompagni ad atti forti e importanti".

    (askanews, 24 febbraio 2017)


    Israele, no alle gonne corte: il Parlamento conferma il divieto

    di Rachele Grandinetti

    La Knesset conferma il divieto di indossare gonne corte negli edifici del Parlamento israeliano. Un comitato composto da parlamentari e dipendenti si è riunito appositamente per discutere della questione "dress code" sul luogo di lavoro. In realtà non si parla di orli e centimetri e per gonne "corte" è probabile che si intenda capi che lasciano un po' scoperte le gambe. Il comitato non stabilisce, dunque, una lunghezza minima fissa ma annuncia che procederà per step: le vittime nel mirino, infatti, avranno tre avvertimenti prima del divieto di ingresso nel palazzo. La riunione è stata indetta dopo i fatti di dicembre quando alcune donne, sempre più frequentemente, venivano fermate dagli agenti all'ingresso e rimproverate per il loro abbigliamento poco adatto al ruolo e al luogo
       È stata Shaked Hasson, assistente parlamentare, tra le prime ad essere trattenute dalle guardie, cinque uomini che si sono arrogati il diritto di commentare il suo look: «Mi hanno detto che violavo le regole, che la mia gonna non rispettava il dress code parlamentare. Il mio stupore si è trasformato in un senso di umiliazione», ha raccontato alla stampa la Hasson. Così, alcuni funzionari non solo hanno invitato le donne a preferire i pantaloni ma anche a rivolgersi alla sicurezza in modo più gentile e delicato. Già in ottobre era stato diffuso una sorta di memorandum in cui si davano istruzioni relative alle scelte da fare nell'armadio, un codice per mettere al bando un abbigliamento inopportuno, insomma. La buona norma viene nuovamente ricordata dal comitato del "gonna gate" che proibisce anche l'uso di t-shirt, pantaloncini, sandali, gonne e abiti corti e capi sportivi.

    (Il Messaggero, 23 febbraio 2017)


    Possibili intese Sardegna-Israele su ICT e agroalimentare

    CAGLIARI - Una possibile collaborazione tra la Sardegna e Israele, in particolare su ICT e agroalimentare, e' stato uno dei temi affrontati nell'incontro che oggi il presidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru, e il vicepresidente Raffaele Paci hanno avuto a Villa Devoto con l'ambasciatore di Israele a Roma, Ofer Sachs. Israele ricopre infatti un ruolo di rilievo nello scenario internazionale delle nuove tecnologie, e applica, in particolare, metodi e tecnologie di grande interesse in campo agricolo, finalizzati a rendere i terreni maggiormente produttivi. "Vogliamo essere un cluster dell'ICT - ha dichiarato Pigliaru - Abbiamo diverse aziende importanti e parecchie piccole start up, tra le migliori in Italia, che stanno seguendo un cammino virtuoso. Siamo molto fiduciosi sul loro sviluppo. Ci sono anche alcuni grandi player che stanno investendo in Sardegna, dove esiste un chiaro potenziale per un'agricoltura moderna e di qualita'".
       Pigliaru e Paci hanno inoltre sottolineato gli sforzi che la Regione sta compiendo nel campo della ricerca: "Puntiamo molto sulla ricerca nel nome dell'innovazione", ha aggiunto Paci citando "lo sviluppo del distretto aerospaziale, il Joint Innovation Center di Huawei a Pula per le Smart & Safe City, il Radiotelescopio di San Basilio e la rinata Manifattura Tabacchi, centro di creativita' in cui far dialogare tecnologia e arti".
       Si e' infine parlato di turismo, sottolineando come la Sardegna, 'Isola della longevita'', sia una della quattro "blue zone" al mondo grazie a qualita' e stili di vita, cibo, paesaggio.

    (AGI, 24 febbraio 2017)


    Falci di 23mila anni fa potrebbero cambiare la storia dell'agricoltura

    Gli strumenti sono stati ritrovati durante una campagna di scavi effettuata nei pressi del lago di Tiberiade, in Israele, e consentirebbero di retrodatare notevolmente le teorie sulla nascita delle coltivazioni.

     
    Falci ritrovate presso il lago di Tiberiade

    Le origini dell'agricoltura potrebbero essere molto più antiche di quanto si è pensato fino a questo momento. È questa la scoperta emersa grazie a una campagna archeologica di scavi effettuata presso il lago di Tiberiade in Israele. I ricercatori dell'Università di Haifa hanno infatti ritrovato nelle vicinanze di Ohalo-2 - un piccolo villaggio di pescatori e agricoltori tornato alla luce in seguito all'abbassamento del livello dello specchio d'acqua - cinque selci affilate, alcune delle quali collegate a pezzi di legno a formare delle rudimentali falci: "Quegli agricoltori - ha spiegato la dottoressa Iris Groman-Yaroslavsky dell'ateneo di Haifa, come riporta il quotidiano Haaretz - sapevano che era preferibile mietere le spighe prima che fossero mature, per non perderne i chicchi".

     Un'ipotesi rivoluzionaria
      Se la tesi scaturita da questa campagna archeologica, che vede la collaborazione di ricercatori provenienti anche dalle Università di Tel Aviv, Harvard e Bar-Ilan, dovesse esser confermata, cambierebbe radicalmente la scansione temporale della storia dell'agricoltura. Quelle rinvenute sarebbero infatti le falci più antiche mai trovate, in anticipo di migliaia di anni rispetto a tutte le altre. Finora infatti l'ipotesi più accreditata era che l'agricoltura, per come la intendiamo attualmente, fosse nata circa 12mila anni fa tra la Turchia, l'Iran e l'Iraq. Questi resti risalenti a circa 23mila anni fa, però, potrebbero modificare radicalmente quelle che erano le convinzioni sull'origine delle coltivazioni.

     Nessuna conclusione affrettata
      Nonostante la portata della scoperta sia potenzialmente notevole, è ancora presto per trarre conclusioni: gli archeologi stanno ancora esaminando gli altri utensili in pietra ritrovati. Tuttavia l'affidabilità della collocazione temporale sarebbe garantita dalla presenza di alcuni residui vegetali su questi strumenti grazie ai quali è stato possibile effettuare le analisi con il metodo del Carbonio 14, ovvero una particolare tecnica di datazione utilizzata soprattutto in archeologia e basata sull'analisi degli isotopi del carbonio nei reperti di materia organica. Il sito infatti era ben conservato essendo stato coperto dai sedimenti del lago e privato in pratica dell'ossigeno.

    (Sky Tg24, 23 febbraio 2017)


    Una ricercatrice di Torino rifiuta la collaborazione con l'università di Tel Aviv

    Una ricercatrice di Torino si è rifiutata di collaborare con l'università di Tel Aviv in segno di protesta contro Israele. La scelta rientra nella campagna tesa a boicottare le collaborazioni con gli atenei dello Stato ebraico e in particolare in quella portata avanti da alcuni docenti e studenti per fare in modo che Università e Politecnico rinuncino all'accordo con il centro Technion, istituto accusato di fare ricerca al servizio del governo di Gerusalemme e dei militari. "Rinuncio all'assegno di ricerca per boicottare l'università di Tel Aviv e Israele". Sono le parole della protagonista di questa vicenda che non ha voluto uscire dall'anonimato:
      "Mi è stato proposto un assegno di ricerca all'interno di un progetto finanziato dal fondo europeo Horizon 2020. Si sarebbe trattato di un lavoro nell'ambito della ricerca energetica in collaborazione con l'università israeliana di Tel Aviv, ma ho rifiutato l'offerta perdendo di conseguenza il lavoro e, con ogni probabilità, qualsiasi velleità di carriera accademica in Italia".
    Dentro e fuori l'Università torinese si è aperto un accesso dibattito sulla distinzione fra ricerca e politica, sostenuta dai rettori, convinti che le applicazioni non debbano avere nulla a che fare con l'operato dei governi. L'ex sindaco di Torino, Piero Fassino, si espresse in maniera molto dura su chi invitava al boicottaggio di Israele.
    La giovane ha messo in scena tutti i cavalli di battaglia della propaganda e delle bugie contro Israele:
      "Le istituzioni accademiche sono un punto chiave della struttura ideologica ed istituzionale del regime di oppressione, colonialismo ed apartheid di Israele contro la popolazione palestinese.
      Fin dalla sua fondazione, l'accademia israeliana ha legato il proprio destino a doppio filo con l'establishment politico-militare, e nonostante gli sforzi di una manciata di accademici interni, tale istituzione rimane profondamente impegnata a supportare e perpetuare la negazione dei diritti dei palestinesi da parte di Israele".
    Per chi sa leggere è una litania. Per chi legge con occhi antisionistici è linfa vitale per la demonizzazione di Israele sul piano politico ed economico e qui la cosa si fa più sottile. Perché a queste persone non basta puntare il dito contro il governo di Gerusalemme, ma vuole minare alla base l'economia di un paese che fin dalla sua nascita si difende da attacchi vergognosi.

    (Progetto Dreyfus, 23 febbraio 2017)


    Dai club omosessuali ai gruppi anti-Israele: è il grande affare onlus

    Tolto il finanziamento scandalo all'Anddos. Ma l'Italia mantiene oltre 250 associazioni. Ci sono pochi controlli e rendiconti opachi: il sistema è ad alto rischio.

    di Silvia Cocuzza

    66 mila
    È la retribuzione lorda più alta degli operatori che lavorano nelle onlus. Quella minima è di 10mila euro
    38 milioni
    Emergency ha visto crescere il proprio bilancio a 38 milioni di euro, dai 23 del bilancio precedente
    68 %
    È la percentuale dei finanziamenti pubblici che sostengono le onlus. Solo il restante 32%, arriva da privati

    ROMA - Non governano, ma sono potentissime. Non fatturano, ma sono un business. Il sottobosco delle organizzazioni non governative vale milioni di euro e conta su risorse importanti: in Italia le Organizzazioni non governative riconosciute ufficialmente eleggibili per il finanziamento pubblico sono almeno 250 e il «fatturato» totale di quelle registrate supera i 500 milioni di euro. Come l' associazione Anddos, finita nella bufera per le orge nei circoli gay finanziate dall'Unar e rivelate dalle Iene: dopo lo scandalo, ieri la presidenza del Consiglio ha revocato il finanziamento da 55mila euro annullando l'inserimento in graduatoria.
       Gli introiti sono costituiti per il 68% da finanziamenti istituzionali e «solo» per il restante 32% da donazioni di privati e tax payers. Un indotto che ha molto che vedere con il tema dell'occupazione, se si pensa che il 31% degli operatori può contare su contratti a tempo indeterminato e il 38% su collaborazioni a progetto, con una retribuzione che oscilla fra 66mila euro lordi annui (la più alta) e i dieci mila. Comparando le più recenti top 10 delle Ong classificate per totale di entrate, emerge un aspetto interessante: si scopre che l'altalena dei numeri fa variare, e di molto, le posizioni. Così (ai dati di maggio 2016) Save the Children scala il primo posto, passando da 25 milioni a 66 milioni di euro, Medici senza Frontiere segue con 50 milioni (più dieci), Emergency vede crescere il bilancio a ben 38 milioni di euro (dai 23 precedenti). Ma l'elenco continua, ed è lungo. Dove finiscono, tutti questi fondi pubblici? La questione è stata sollevata non molto tempo fa, da Gerard Steinberg, che ha dichiarato: «Milioni di euro pagati dai contribuenti italiani sono sperperati ogni anno in favore di un piccolo gruppo di Ong politicizzate che non realizzano obiettivi in particolare». Per esempio, le associazioni anti-Israele: un nutrito gruppo di attivisti che operano per diffondere il verbo della propaganda pro-palestinese, con il beneplacito, tra gli altri del Ministero degli Affari esteri. Quanti sono i soldi dei contribuenti che finiscono a finanziare progetti «umanitari» o di cooperazione dai contorni non sempre trasparenti, è una domanda a cui non c'è ancora una risposta univoca. Spesso, non è noto l'ammontare dei contributi e del costo dei progetti finanziati nel settore delle onlus, né i criteri di selezione per l'assegnazione degli incarichi.
       Ancora più spesso, accade che gli stessi progetti vengano presentati dalle stesse associazioni, finanziati dagli stessi enti, in anni diversi. Mentre in altri Paesi, come Stati uniti e Canada, esistono precisi meccanismi di controllo, in Italia il sistema delle Ong non ha mai vincolato i finanziamenti statali sulla base di gare pubbliche né sono fissati criteri specifici che definiscano di qualità e costi dei progetti, soprattutto per le Onlus con i bilanci che pesano di più. Ufficialmente, non vi sono enti indipendenti di controllo e certificazione obbligatori. Una lacuna legislativa che è, a tutti gli effetti, un limbo.
       La necessità di maggiori controlli è stata auspicata nel luglio 2012 anche dalla Corte dei conti, che ha monitorato 84 progetti in 23 Paesi, trovando di tutto: soldi mai arrivati, progetti fermi o in ritardo da anni, rendiconti spariti. In effetti, a rendere pubblici i propri bilanci, o il proprio organigramma, sono per lo più le organizzazioni internazionali, cosa che accade molto più di rado nel no-profit delle piccole associazioni all'italiana. Incrociando gli open data, per esempio, incuriosisce che la classifica delle dieci ong più «ricche» non corrisponda affatto a quella delle più trasparenti. Discutere delle competenze, dell'operato, degli ambiti d'intervento e del funzionamento generale delle organizzazioni non governative sembra un tabù su cui vige, a tutt'oggi, una specie di silenzio assenso. È lecito sospettare che quello scoperchiato dal caso Unar, coi finanziamenti contro la discriminazione razziale devoluti al sollazzo omosessuale, sia solo un vaso di pandora. Scoperchiarlo, non basta.

    (il Giornale, 23 febbraio 2017)



    Parashà della settimana: Mishpatim (Leggi)

    Esodo 21.1-24.18

     - Dopo la promulgazione del Decalogo il testo della Torah continua con la parashà di Mishpatim (Leggi) che si apre sulle regole riguardanti la schiavitù di un servitore ebreo e il divieto di uccidere. C'è da chiedersi: come mai la Torah ritorna su questi due temi? La Torah parla di una schiavitù temporanea (sei anni). Trascorso tale periodo lo schiavo deve essere messo in libertà. Secondo Maimonide (Rambam) colui che acquista uno schiavo acquista un padrone (Mishnè Torah). Difatti il proprietario di uno schiavo è tenuto a mantenerlo e se dovesse percuoterlo, è tenuto a rimborsare a questo i danni causati dalla violenza (Es. 21.26).
    Il divieto di uccidere è connesso con la schiavitù. Soltanto un uomo libero non uccide essendo egli il padrone di se stesso. Pertanto chi uccide nel nome di D-o (Jihad!) è un vero ateo miscredente. E' questo un insegnamento della Torah su cui riflettere ai nostri giorni, dove la società moderna uccide l'uomo nel nome di D-o senza alcun timore e rispetto per il suo Creatore.
    "Il servitore resterà sei anni al tuo servizio e nel settimo anno deve essere liberato" (Es.21.2). Ma se il servitore dice: "Io amo il mio padrone… e non voglio essere liberato" (Es.21.5). Allora il padrone gli forerà il lobo del suo orecchio con una lesina perché non ha ascoltato la Parola di D-o. "I-o sono il Signore tuo D-o che ti ha liberato dalla schiavitù". L'ebreo dunque non deve accettare di vivere tutta la sua vita sotto il giogo di un padrone, perché ha l'obbligo di servire D-o.

    Santità e Legge
    Nella parashà la dimensione di santità (chedushà) viene descritta subito dopo le regole di carattere sociale (ben Adam lehaverò). "Non salirai sul Mio altare mediante scalini, in modo che la tua nudità non venga a scoprirsi" (Es. 20.26)- Rashì si chiede: "Perché alle leggi civili seguono quelle relative all'altare?" Per affermare che queste leggi devono essere fatte rispettare da un tribunale (Sinedrio) che siede nel Tempio, dove è ispirato dal Signore. Secondo i nostri Saggi cazal la "giustizia" è il fondamento del mondo. Lo scopo della giustizia difatti non è solo quello di punire, ma anche quello di reintegrare l'uomo nel progetto Divino (santità) da cui si era allontanato. In questo parallelo tra leggi civili e Tempio, la Torah vuole farci comprendere sia il rigore nel rispettare la legge sia la misericordia di D-o nel concedere clemenza all'uomo smarrito. Ora sorge una domanda che non è possibile evitare. Il non-ebreo è obbligato a rispettare questa legislazione della Torah? Il rabbino Moshè Isserles così risponde: "I non-ebrei devono osservare le "sette regole" spettanti ai figli di Noè, che sono l'intera Umanità". Nel Talmud babilonese, trattato Sanhedrin 56b, vengono riportate queste regole tra cui quella di istituire i Tribunali per l'amministrazione della giustizia. Due sono i motivi secondo Isserles per cui i non-ebrei sono obbligati a rispettare questi comandamenti. Il primo è di carattere sociale, per evitare l'anarchia, il secondo è di carattere etico, legato alla Rivelazione sinaitica. E' una giustizia che nasce dalla Torah e gestita dall'uomo, in cui la dimensione spirituale e quella materiale si incontrano per servire D-o Benedetto con la fede e con la ragione (cuore e cervello).
    L'espressione "Mishpatim" sta a significare la legge che l'uomo può comprendere con la sua ragione. La nota espressione "Occhio per occhio e dente per dente…" (Es.21.24) non è una "vendetta" come spesso si ritiene nel mondo non-ebraico bensì un principio "assicurativo" che tutela gli individui colpiti dai danni. La riparazione difatti consiste nella valutazione da parte di giudici competenti del danno subito con successiva retribuzione del suo valore, come oggi accade nella gestione di polizze assicurative.

    Diritti dello straniero e riposo della terra d'Israele.
    "Non angustiare lo straniero… perché stranieri siete stati in terra d'Egitto. Per sei anni seminerai il tuo terreno, ma nel settimo anno gli darai riposo" (Es. 23.9).
    I diritti dello straniero trovano la loro ragione d'essere nel rispetto della persona umana a condizione che questa abbia il timore di D-o osservando i principi morali che sono alla base di ogni società.
    In questa parashà infine, abbiamo un'anticipazione dell'anno sabatico per la terra d'Israele, durante il quale questa non verrà coltivata, ma lasciata riposare. Penserà D-o al nutrimento del popolo, che avrà fede nel Signore essendo Egli il suo vero proprietario. F.C.

    *

     - «Secondo Rashì, la Torah stessa è la ketubah fra il Santo, sia Egli Benedetto, e Am Israèl, ossia il contratto di matrimonio che Hashèm ha stipulato prendendo la comunità d'Israele in sposa». Questa citazione, tratta da un sito ebraico, si presta bene al commento di questa parashà, perché il monte Sinai non è il luogo in cui è avvenuta una "erogazione liberale" di Dio al popolo, senza richiesta di controprestazione: al Sinai è stato firmato un contratto con impegni da entrambe le parti.
    Anche se stravolto dalla terrificante scena che ha visto sul monte Sinai, il popolo ha rinnovato il suo impegno a sottostare alle leggi di Dio. Ha soltanto chiesto che i rapporti avvenissero attraverso Mosè, perché sono convinti che se ascoltassero ancora una volta il "viva voce" del Signore, morrebbero tutti.
    Il Signore li accontenta: richiama Mosè e si apparta con lui sul monte per procedere all'elaborazione del contratto.

    4o passo - La stesura del contratto (Es. 21:1-23:33)
    Se è corretto dire che al Sinai è stato stipulato un contratto di tipo matrimoniale fra Dio e il popolo, è però sbagliato pensare che la forma giuridica di questo contratto sia la generica Torah, cioè l'insieme di tutti i precetti contenuti nei libri di Mosè, con l'aggiunta magari di altri accordi fatti a voce. L'esatta formulazione del contratto, quella avente valore giuridico, è contenuta nei capitoli 21, 22, 23 dell'Esodo, preceduti dalle fondamentali "dieci parole" che il popolo ha udito con le sue orecchie dalla bocca del Signore.
    In questi tre capitoli sono contenute, da una parte, le condizioni che il Signore pone al popolo: ordinamenti civili molto concreti di vario genere, con pochi ma importanti punti che si riferiscono alle feste e in particolare al sabato (Es. 21:1-23:19); e dall'altra gli impegni che Dio si assume verso il popolo: guida durante il cammino verso la Terra promessa, cibo assicurato, cure mediche, anzi totale assenza di malattie, garanzia di vittoria in caso di guerra (Es. 23:20-33).
    Mosè prende atto di quello che propone il Signore, scende dal monte e comunica la proposta al popolo. E per la terza volta il popolo dichiara di essere d'accordo:
    "Mosè venne e riferì al popolo tutte le parole dell'Eterno e tutte le leggi. E tutto il popolo rispose ad una voce e disse: Noi faremo tutte le cose che l'Eterno ha dette" (Es. 24:3).
    Dopo di che Mosè scrive tutte le clausole del contratto in un documento che prende il nome di "libro del patto" (Es. 24:4). Ed è proprio questo il documento giuridico che entrambe le parti saranno chiamate a sottoscrivere. Il che avviene subito dopo, come atto finale della procedura.

    5o passo - La stipulazione del contratto (Es. 24:3-8)
    Se il rapporto tra Dio e il suo popolo è un patto matrimoniale, l'ultimo passo giuridico da fare è l'atto formale che ne sancisce la validità. La procedura della "firma" avviene in questo modo. Mosè costruisce un altare che rappresenta Dio e dodici stele che rappresentano le dodici tribù d'Israele. Quello che deve essere stipulato è un "patto di sangue", il che significa che non sono ammessi trasgressori, cioè non è possibile che una delle parti possa trasgredire e continuare a vivere: pagherà col sangue la sua trasgressione. Il simbolo che esprime questo tipo di accordo richiede dunque la presenza di sangue di vittime uccise. A questo scopo Mosè ordina a dei "giovani tra figli d'Israele" di immolare giovenchi in sacrifici e raccoglie il sangue versato. Sarà questo sangue a testimoniare delle parole pronunciate dalle parti nell'atto che sancirà la validità del patto. Poi prende metà del sangue raccolto e lo sparge sull'altare, che rappresenta Dio. Dio è presente, e ha già dichiarato di voler prendere il popolo come sua sposa; adesso tocca al popolo fare la sua formale dichiarazione. Prima di questo, come farebbe un notaio in casi simili, Mosè legge in pubblico il testo del patto e chiede al popolo di dichiararsi:
    "Poi prese il libro del patto e lo lesse in presenza del popolo, il quale disse: Noi faremo tutto quello che l'Eterno ha detto, e ubbidiremo" (Es. 24:7).
    Dopo di che prende la seconda metà del sangue raccolto, lo sparge sulle dodici stele rappresentanti il popolo e pronuncia la solenne proposizione con cui Dio e il popolo sono dichiarati uniti in matrimonio:
    "Allora Mosè prese il sangue, ne asperse il popolo e disse: Ecco il sangue del patto che l'Eterno ha fatto con voi sul fondamento di tutte queste parole"
    (Es. 24:8).
    Degna di nota è la dizione "sangue del patto" (dam habrit, דם הברית) che nell'Antico Testamento compare soltanto qui e in Zaccaria 9:11. Compare invece più volte nel Nuovo Testamento, in particolare nei Vangeli. Nell'ultima cena Gesù, passando il calice ai discepoli, disse: "Questo è il mio sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati" (Matteo 26:28). Esiste una relazione? Lasciamo aperta la domanda.

    Un avvenimento incredibile
    Dopo la stipulazione del patto ai piedi del Sinai, avviene qualcosa di unico, incredibile:
    "Poi Mosè ed Aaronne, Nadab e Abihu e settanta degli anziani d'Israele salirono, e videro l'Iddio d'Israele. Sotto i suoi piedi c'era come un pavimento lavorato in trasparente zaffiro, e simile, per limpidezza, al cielo stesso. Ed egli non mise la mano addosso a quegli eletti tra i figli d'Israele; ma essi videro Dio, e mangiarono e bevvero" (Es. 24:9-11).
    Una scena simile non si ripeterà mai più in tutta la storia d'Israele descritta nell'Antico Testamento. Il popolo, rappresentato qui non dal solo Mosè ma dai settanta anziani, vede Dio nella sua gloria. E quel popolo che prima non poteva neppure avvicinarsi al monte se non voleva essere fulminato, adesso può non solo avvicinarsi, non solo salire, ma addirittura mangiare e bere alla sua presenza, gustando un'intimità che neppure immaginava ci potesse essere. Come spiegare questo cambiamento di atteggiamento di Dio verso il suo popolo? Che cos'è che ha fatto cambiare tutto? La risposta non può che essere una sola: l'esistenza del patto. E se questo è il patto matrimoniale che unisce Dio e il popolo, allora il gioioso pranzo sulle pendici del monte Sinai è il banchetto di nozze.
    Qualcuno continuerà a non capire gli atteggiamenti di Dio; forse non capirà come mai Mosè davanti al roveto ardente "si nascose la faccia perché aveva paura di guardare Dio" (Es. 3:6), mentre qui settanta anziani possono tranquillamente guardare Dio senza provare alcun timore. Qualcun altro farà notare che poco più avanti Dio dirà a Mosè che "l'uomo non mi può vedere e vivere" (Es. 33:20), e di nuovo sembrerà una contraddizione. Questo accade perché si pensa alla Legge di Mosè in termini di "etica sacra" invece che di "storia sacra". E si passa il tempo a contemplare e analizzare questa universale etica sacra operando allargamenti e restringimenti, traendone applicazioni ed esclusioni a non finire, in un chiacchierio infinito che finisce per essere fine a se stesso. Quando invece Dio interviene direttamente nella storia, essa diventa storia sacra. E questo determina un prima e un dopo che fa cambiare i parametri etici.
    Il patto del Sinai, nella precisa forma in cui è stato presentato nei capitoli della Bibbia che abbiamo qui considerato, è uno di quegli interventi di Dio che determinano un prima e un dopo. Altri ne seguiranno nei prossimi capitoli. M.C.

      (Notizie su Israele, 23 febbraio 2017)


    Vino dal deserto: la scommessa di un italiano nel deserto del Negev

    di Rossella Tercatin.

     
    I gialli, gli ocra, i rossi, qua e là le macchie scure degli arbusti. Poi all'improvviso il verde che non ti aspetti, quello tenero e rigoglioso di un vigneto. Il deserto del Negev, che copre l'intero Sud di Israele, ha rappresentato sin dalla nascita dello Stato un incubatore di vita in condizioni difficili. Oggi dai suoi istituti di ricerca arrivano risposte alle sfide dello scombussolamento climatico. Come quella di crescere le vigne in condizioni di siccità.
       È la specialità di Aaron Fait, biochimico delle piante che, nato e cresciuto tra i monti di Bolzano, è a capo di un laboratorio dell'Istituto Blaustein per le Ricerche del Deserto di Sde Boker, uno dei campus dell'Università di Ben Gurion. A Sde Boker, Fait è arrivato una decina d'anni fa, dopo la laurea a Tel Aviv, il dottorato al prestigioso Weizmann di Rehovot, e il post-dottorato in Germania.
       «A fare la differenza nel mondo della ricerca israeliana sono la meritocrazia e l'investimento sui giovani, compresa la possibilità di uscire dal Paese, sapendo di avere un posto dove tornare e, magari, che lo Stato ti metterà a disposizione un milione di dollari per creare il tuo laboratorio, come è successo a me».
       Temperature che superano i 45 gradi, suolo salino, evaporazione media di 2 mila millimetri l'anno a fronte di piogge per meno di 100 sono i principali ostacoli per la viticoltura nel Negev. Per vincerli, Fait e la sua squadra reinventano una saggezza antica, declinandola nell'età dell'high-tech. «La vite è stata centrale nell'economia della regione per millenni grazie ad avanzate tecniche di conservazione dell'acqua - spiega, accogliendoci nel suo ufficio -. Con la conquista musulmana del VII secolo i vigneti sparirono per oltre mille anni. Furono i grandi filantropi del progetto sionista a riportare qui la viticoltura. A essere introdotto fu però il metodo francese, che presuppone un clima mediterraneo. E così le coltivazioni sorsero a Nord e in collina. Solo di recente si è tornati a guardare al deserto».
       Negli ultimi anni la produzione di vino in Israele sta conoscendo una forte espansione: nel 2015 ha toccato i 40 milioni di bottiglie, 9 in più del 2014, e per il 2016 la cifra stimata è 49 milioni. Dei 20mila acri coltivati a vigneti, solo 250 si trovano nel Negev. Ma - assicura Fait - il numero cresce esponenzialmente e il lavoro quotidiano del laboratorio rappresenta un virtuoso tandem pubblico-privato. «Collaboriamo con i vigneti commerciali - sottolinea lo scienziato -. Definiamo con le aziende l'esperimento: loro crescono le piante, noi andiamo sul campo a svolgere le misurazioni e ne condividiamo i risultati». Tra le tecniche messe a punto ci sono teli di nylon per proteggere il suolo dall'evaporazione, reti colorate sui grappoli per far passare soltanto la quantità di luce necessaria perché il frutto maturi senza bruciare e un'irrigazione intelligente basata sui bisogni della pianta, rilevati da appositi sensori.
       Le ricerche di Fait sono arrivate anche in Europa. Se in molte zone l'irrigazione dei vigneti in passato era considerata un tabù, i capricci del clima portano anche i più tradizionalisti a cambiare parere. «Per esempio in Friuli dagli anni 2000 ci sono state ricorrenti ondate di siccità che hanno messo le vigne a dura prova. Così è nato il progetto "Irrigate", a cui abbiamo lavorato con l'Università di Udine e con Netafim, azienda israeliana leader nell'irrigazione a goccia».
       Anche se il legame con Italia rimane forte, a Fait il Negev è entrato nel cuore: «Lavorare nel deserto ha qualcosa di speciale. Quando esco dal laboratorio per una passeggiata, ho me stesso, il vento e basta. Una sensazione unica».

    (La Stampa, 22 febbraio 2017)


    I due musulmani che hanno raccolto i soldi per ricostruire un cimitero ebraico distrutto

    Un centinaio di lapidi sono state danneggiate e divelte a St. Louis, in Missouri. Per ripararle un gruppo di cittadini di fede musulmana ha lanciato una raccolta fondi.

    Un'immagine del cimitero ebraico di St Louis con le lapidi profanate
    Giovedì 21 febbraio 2017, nel cimitero ebraico di St. Louis, nello stato americano del Missouri, sono state divelte e distrutte un centinaio di lapidi da un gruppo di vandali non ancora identificati dalla polizia, in seguito a un'ondata di minacce antisemite negli Stati Uniti.
    Ventiquattrore dopo, alcuni cittadini di fede musulmana hanno lanciato una raccolta fondi per racimolare i soldi necessari alla riparazione delle lapidi vandalizzate. In poche ore sono stati raccolti oltre 50mila dollari, superando le aspettative degli organizzatori Linda Sarsour e Tarek el-Messidi.
    "Con questa campagna vogliamo dare un messaggio di unità da parte delle comunità ebraiche e musulmane, vogliamo far capire che in America non c'è spazio per l'odio e la violenza", hanno sottolineato gli attivisti. Nel caso dovessero avanzare soldi, sarebbero destinati ad altri centri ebraici.
    Con la raccolta fondi è partita una gara di solidarietà per ricostruire il cimitero distrutto. Non sono mancate le repliche amareggiate dell'associazione rabbini di St. Louis, che in un post su Facebook ha denunciato la distruzione come "un atto orribile e vergognoso di vandalismo".
    Nelle ultime settimane sono state numerose le minacce di attentati dinamitardi contro una decina di centri della comunità ebraica negli Stati Uniti. Tutte queste minacce sono state classificate dalle autorità come falsi allarmi.
    Il governatore del Missouri, Eric Greitens, si è detto "disgustato" per gli atti vandalici e si è recato in prima persona sul luogo con una squadra. Armato di rastrello ha iniziato a ripulire il luogo.

    (The Post Internazionale, 22 febbraio 2017)


    In Israele una stage race particolare

    Anche due italiani al via della Samarathon Desert Mtb Race con i migliori esponenti locali in gara. Downhill di scena in Cile.

    di Gabriele Gentili

    In attesa della partenza di domenica dell'Andalucia Bike Race, prima grande gara a tappe della stagione (grande soprattutto nel senso della durata impegnando gli atleti per oltre una settimana), nello scorso fine settimana si è svolta una prova molto particolare, la Samarathon Desert Mtb Race, principale gara a tappe del calendario israeliano su un percorso decisamente fuori dell'ordinario. L'appuntamento era al Timna Park, a un passo dal confine con Giordania e Egitto, per tre giornate di gara decisamente impegnative: il prologo era costituito da 22 km per 200 metri di dislivello disputato in condizioni di pioggia e freddo inconsuete per il luogo. Prima tappa di 82 km per 1.100 metri, seconda e conclusiva di 62 km per 800 metri. Pochi gli stranieri al via, tra cui i nostri Marco Toniolo e Andrea Sicilia che dopo aver condotto la classifica M40 nel prologo sono scivolati indietro finendo comunque 11esima assoluti e quarti di categoria. La gara ha visto primeggiare i concorrenti locali, con la doppietta del Cycling Academy Team con Guy Sessler e Guy Leshem primi con 59" sui nazionali Shlomi Haimy e Guy Niv, autori di un grande recupero nell'ultima tappa. Terza posizione per Drod Pekatch e Chanoch Redlich a 32'02". Due sole coppie femminili con Yarden Golan e Yael Goren prime con 3h42'24" su Simona Barel e Dana Meir. Una presenza di spicco nelle coppie miste, quella della svizzera ex Colnago Nathalie Schneitter, in gara con suo fratello Michael per il Rose Vaujany:per loro prima posizione con 55" su Noam Schiller e Idit Hub, terzo Yulia e Dima Repkin a 44'13".
    Spostiamoci dall'altra parte del mondo per occuparci di downhill e dell'edizione 2017 della Red Bull Valparaiso Cerro Abajo, urban downhill giunta alla 15esima edizione e considerata la capostipite in questo genere di competizioni. Una quarantina gli atleti provenienti da tutto il mondo, ma la vittoria non poteva sfuggire al "maestro" delle urban, il ceko Tomas Slavik, che con il tempo record di 2'48"48 ha preceduto il britannico Bernard Kerr di 2"08 e il cileno Pedro Ferreira di 4"04. Per Slavik si è trattato di sfatare un tabù visto che nelle sue precedenti quattro esperienze non era mai riuscito a cogliere il risultato pieno.

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    (4actionsport, 22 febbraio 2017)


    Il Jihad contro Israele

    di Niram Ferretti

    Di fronte ai 700 delegati riunti a Teheran il 21 febbraio per la sesta conferenza internazionale in sostegno dell'intifada, il supremo leader l'ayatollah Ali Khamenei ha nuovamente e chiaramente evidenziato il carattere jihadista dell'offensiva contro Israele.
    "Il popolo palestinese non ha nessuna altra opzione se non quella di mantenere alte le fiamme della lotta confidando in Allah l'Eccelso e basandosi sulle loro innate capacità così come hanno fatto autenticamente fino ad oggi. Fin dall'inizio questo tumore canceroso (Israele, n.d.r.) è andato sviluppandosi in diverse fasi per trasformarsi nell'attuale disastro. La cura per questo tumore deve svilupparsi anche essa in fasi".
    Chi non tenesse conto della profonda componente jihadista della guerra musulmana contro Israele, di cui l'Iran rappresenta la maggiore minaccia a livello regionale, mancherebbe di comprendere un aspetto essenziale, determinante e irriducibile del conflitto che ha, oltre allo stato sciita, in Hezbollah e in Hamas le altre sue manifestazioni principali. Fatah gioca di sponda tra le due, essendo meno programmaticamente esplicito nel collocare il conflitto dentro una dimensione religiosa, senza tuttavia rinunciare ad attingere abbondantemente al suo repertorio di radicalismo.
    Il vocabolario dell'estremismo contempla divisioni nette, radicali, irriducibili. Per i jihadisti sciiti e sunniti il nemico sionista è assoluto, cosmico, è l'incarnazione stessa del male.

    "Il religioso più anziano di Hezbollah, lo Sceicco Husayan Fadlallah", ha scritto Robert S. Wistrich, "durante gli anni '90 ha continuamente sottolineato come Israele non fosse solo uno stato ebraico nel senso formale del termine ma l'espressione definitiva della personalità 'ebraica', corrotta, traditrice e aggressiva. Gli ebrei erano indubbiamente 'i nemici dell'intero genere umano'".

    Gli ebrei. Non gli israeliani. Ed è agli ebrei e non agli israeliani che nel 2015, durante un discorso, il "moderato" Abu Mazen fece riferimento quando invocò il "sangue puro" arabo a difesa della Moschea di Al Aqsa che gli ebrei volevano profanare con i loro "piedi sporchi".
    Ma non è il negazionista Abu Mazen né sono i volonterosi continuatori dell'antisemitismo eliminazionista hitleriano di Hamas e di Hezbollah, i pericoli maggiori per Israele. E' L'Iran ad esserlo. Il principale finanziatore ed esportatore del terrorismo islamico a livello mondiale, ben più organizzato, strutturato e economicamente rigoglioso (grazie all'amministrazione Obama) di quanto lo sia il califfato nero dell'IS.
    E' su queste pagine che Matthias Küntzel, uno dei maggiori studiosi di jihadismo a livello internazionale, ha sottolineato la natura del regime sciita:
    "Fin dal 1979 l'Iran ha propagato una guerra religiosa globale contro il 'mondo dell'arroganza' il che significa una guerra contro coloro i quali sono sufficientemente 'arroganti' da farsi le proprie leggi invece di inchinarsi alla sharia di Allah. All'inizio degli anni Ottanta, l'Ayatollah Khomeini scoprì il culto del martirio e dei suicidi esplosivi come strumenti per la guerriglia islamica. Questa tecnica è unicamente basata sulla religione e la promessa del paradiso eterno per coloro che perpetrano omicidi di massa. 'E' necessario mantenere vivo il culto del martirio', ha detto Alì Khamenei, il Supremo Leader dell'Iran nel marzo 2015 durante i negoziati sul nucleare. 'Questo è uno dei principali bisogni del paese. La cultura del martirio è una cultura dell'autosacrificio per il bene di obiettivi a lungo termine'. Questi obiettivi sono, ovviamente, obiettivi religiosi. Khamenei è convinto di ottemperare a una missione religiosa. E' il motivo per il quale la politica estera iraniana non è mai orientata allo status-quo ma è millenarista e rivoluzionaria, con la distruzione di Israele in cima alle sue priorità".
    Questa consapevolezza sulla natura della politica estera iraniana è da tempo fatta propria da Benjamin Netanyahu, ribadita recentemente in una intervista durante la sua visita negli Stati Uniti e al centro del suo discorso al Congresso americano nel marzo del 2015 nel tentativo di ostacolare l'accordo sul nucleare con l'Iran fortissimamente voluto da Obama.
    La salvaguardia dell'identità palestinese ha sottolineato Khamanei nel suo discorso, in presenza del presidente iraniano Hassan Rouhani, è "una necessità e una santa jihad.
    L'antisemitismo in chiave islamica è uno degli aspetti essenziali dell'odio per Israele che informa una nuova versione della soluzione finale: la distruzione di Israele con, idealmente, tutti gli ebrei concentrati nella sua area geografica. Le parole di Hassan Nasrallah, segretario di Hezbollah, propaggine libanese dell'Iran, apparse sul Daily Star di Beirut nell'ottobre del 2002 sono eloquenti, "Se gli ebrei si radunassero in Israele, ci risparmierebbero la fatica di cercarli in giro per il mondo".
    Affermazione perfettamente allineata con la volontà eliminazionista hitleriana, la quale aveva come obbiettivo la distruzione degli ebrei in quanto ebrei, fino all'ultimo di essi.

    (L’informale, 22 febbraio 2017)


    Australia-Israele: Netanyahu partecipa con omologo Turnbull a un forum economico

     
    Malcolm Turnbull e Benjamin Netanyahu
    GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e l'omologo australiano, Malcolm Turnbull, hanno partecipato oggi ad un evento economico a cui hanno preso parte circa 500 imprenditori dei due paesi. Il primo ministro israeliano si trova in visita ufficiale in Australia da ieri. I rappresentanti delle imprese israeliane che hanno partecipato all'evento provengono dai settori delle energie alternative, della tecnologia idrica, della sicurezza informatica, big data e agricolo, come riferisce un comunicato pubblicato sul sito dell'ufficio del capo dell'esecutivo di Gerusalemme. La conferenza ha portato offerte di milioni di dollari tra società israeliane e australiane. Nel corso del suo intervento, Netanyahu ha detto che Australia ed Israele hanno una "straordinaria amicizia" che si basa su valori comuni. Il premier israeliano ha ricordato che le relazioni dello Stato ebraico si stanno espandendo "rapidamente" nel sud-est asiatico, in Africa e in America Latina. A testimonianza di ciò, Netanyahu ha ricordato che il prossimo mese si recherà in Cina, paese con il quale spera di firmare un accordo per il libero scambio commerciale.
    Spiegando le ragioni dell'attenzione verso l'imprenditoria israeliana, il premier ha parlato del potenziale del paradigma del "T&T - Terrore e Tecnologia". Da un lato, ha chiarito Netanyahu, Israele ha la capacità di contrastare il terrorismo attraverso le capacità di intelligence, dall'altro ha un potenziale tecnologico in diversi settori. Il capo del governo israeliano ha aggiunto che questi sono stati alcuni dei temi affrontati oggi con l'omologo australiano. Nel corso della sua permanenza in Australia, Netanyahu si è recato alla sinagoga di Sidney. Durante l'incontro con l'omologo australiano, Netanyahu, il primo capo del governo in carica ad essersi recato in Australia, ha discusso delle relazioni bilaterali e del loro rafforzamento in diversi settori. Gli investimenti australiani ammontano a 650 milioni di dollari nel 2016, mentre quelli israeliani in Australia a circa 262 milioni di dollari, come rivela il ministero degli Esteri di Gerusalemme.

    (Agenzia Nova, 22 febbraio 2017)


    Aperto a Gaza il nuovo centro commerciale Capital

    GAZA - Anche se partito con due anni di ritardo sul previsto, per intralci dovuti alla difficoltà di introdurre a Gaza materiali di costruzione e merci, il nuovo centro commerciale Capital, nella centralissima via Omar al-Mukhtar, e' stato accolto con grande favore dalla popolazione.
    Pur non essendo il primo del suo genere, ha saputo presentarsi al pubblico come uno 'specchio' di quanto comunemente si vede all'estero: chi vi entra puo' avere dunque la sensazione di trovarsi altrove, e non piu' nella striscia di Gaza che tuttora presenta ferite risalenti al conflitto del 2014 con Israele. Ad accrescere lo stato di benessere per i clienti vi sono l'aria condizionata (garantita da generatori, per ovviare ai continui razionamenti della corrente elettrica nella Striscia), le moderne scale mobili, la facilita' di utilizzare internet.

    (Corriere del Ticino, 22 febbraio 2017)


    Start-up e università d'élite, la chiave del boom israeliano

    Il Paese guida la lista Ocse per fondi dati alla ricerca

    di Ariel David

     
    TEL AVIV - Investimenti massicci sulla ricerca, una popolazione altamente istruita e un esercito che sforna giovani talenti dell'alta tecnologia. Sono queste le chiavi del successo dell'economia israeliana, che attraversa una nuova stagione di crescita grazie agli investimenti nella Silicon Valley mediorientale e le innovazioni delle sue «start-up».
       Secondo i dati pubblicati la settimana scorsa dall'Istituto centrale di statistica, nel quarto trimestre del 2016 il Pil israeliano è cresciuto del 6,2 per cento a un tasso annualizzato. È il miglior risultato nell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che raccoglie i Paesi occidentali più sviluppati.
       Su base annua, l'economia israeliana è cresciuta del 4 per cento, mentre la disoccupazione è scesa al 4,3 per cento. Il risultato, che ha superato le previsioni degli esperti, è in parte dovuto all'aumento dei consumi interni e alla crescita del settore edilizio, spiega Jonathan Katz, capo economista di Leader Capital Markets, una delle società finanziarie più importanti del Paese. Ma il vero volano è il settore dei servizi hi-tech, afferma Katz. Software per la cybersicurezza, prodotti per l'industria finanziaria, nuove app per i telefonini e tante altre innovazioni hanno contribuito a un aumento delle esportazioni dell'8 per cento. Fondamentali sono anche gli investimenti stranieri, come quello del gigante americano Intel che sta spendendo 6 miliardi di dollari per un impianto di fabbricazione di microchip di ultima generazione nella cittadina di Kiryat Gat, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza.
       Come accade ormai da un decennio, le «start-up» israeliane continuano a essere il motore del settore hi-tech e nel 2016 hanno attirato fondi per 10 miliardi di dollari, con un'impennata del 200 per cento nell'ultimo trimestre, afferma Katz. L'affare più recente è stato fatto da Apple, che, secondo la stampa israeliana, avrebbe acquistato la società RealFace, sviluppatrice di un software per il riconoscimento facciale che il colosso di Palo Alto potrebbe introdurre in versioni future dell'iPhone.
       Il primo segreto dell'innovazione tecnologica israeliana è l'investimento nella ricerca e nello sviluppo. Tra fondi statali e privati, lo Stato ebraico spende il 4,3 per cento del Pil in ricerca, più di ogni altro Paese Ocse. L'Italia spende l'1,3 per cento, sotto la media europea del 2 per cento.
       «Questo tipo di investimento è fondamentale perché previene la fuga dei cervelli, e fa sì che i centri di ricerca di una società continuino a lavorare qui anche quando questa viene venduta a un gruppo straniero», spiega Ari Bronshtein, Ceo di Elron, uno dei più importanti fondi di «venture capital» israeliani. Elron, specializzata nel campo delle apparecchiature mediche, è stata tra le prime società a investire nella Pillcam, una capsula con telecamera e trasmettitore incorporati che può essere ingoiata da un paziente e potrebbe sostituire esami fastidiosi come la colonscopia.
    È l'istruzione il secondo pilastro del boom economico israeliano, afferma Bronshtein. I principali atenei del Paese finiscono regolarmente tra i migliori duecento nelle classifiche internazionali e, secondo dati Ocse, circa il 46 per cento dei giovani ottiene un titolo universitario (contro il 25 per cento in Italia).
       Infine c'è il ruolo dell'esercito e della leva obbligatoria - tre anni per gli uomini e due per le donne. Secondo Bronshtein, forze d'élite come l'aeronautica o l'unità 8200, che si occupa di intelligence elettronica, sono delle vere e proprie fucine «di giovani altamente preparati nel campo dell'hi-tech e con anni di esperienza alle spalle».

    (La Stampa, 22 febbraio 2017)


    Torino, ricercatrice rinuncia all'assegno per boicottare l'università di Tel Aviv

    Il progetto sulle energie rinnovabili condiviso con l'ateneo israeliano

    di Jacopo Ricca

    Il Technion di Haifa
    "Rinuncio all'assegno di ricerca per boicottare l'università di Tel Aviv e Israele" a raccontarlo è una giovane ricercatrice precaria di Torino che dopo il dottorato ha rifiutato la proposta di continuare a studiare le energie rinnovabili perché il progetto prevedeva la collaborazione con l'ateneo israeliano finito nel mirino dei filopalestinesi, un po' come era già successo per il Technion di Haifa. "Mi è stato proposto un assegno di ricerca all'interno di un progetto finanziato dal fondo europeo Horizon 2020 - spiega dalla pagina del Collettivo universitario autonomo di Torino - Si sarebbe trattato di un lavoro nell'ambito della ricerca energetica in collaborazione con l'università israeliana di Tel Aviv, ma ho rifiutato l'offerta perdendo di conseguenza il lavoro e, con ogni probabilità, qualsiasi velleità di carriera accademica in Italia".
       La giovane descrive la sua scelta come politica: "Le istituzioni accademiche sono un punto chiave della struttura ideologica ed istituzionale del regime di oppressione, colonialismo ed apartheid di Israele contro la popolazione palestinese - è il duro attacco della ricercatrice - Fin dalla sua fondazione, l'accademia israeliana ha legato il proprio destino a doppio filo con l'establishment politico-militare, e nonostante gli sforzi di una manciata di accademici interni, tale istituzione rimane profondamente impegnata a supportare e perpetuare la negazione dei diritti dei palestinesi da parte di Israele". Ai docenti che le proponevano il nuovo contratto la scelta della ricercatrice precaria è apparso assurdo: "Quando ho annunciato la mia decisione ho visto lo sgomento e incredulità delle persone che mi stavano proponendo come 'persona giusta per il progetto' (alla faccia dei concorsi pubblici, ma non dico una novità) e che ritenevano si trattasse per me di un'opportunità imperdibile - racconta - La sola cosa che potevo fare era non collaborare anche a costo della carriera".
       La ragazza avrebbe dovuto studiare le energie rinnovabili e i consumi energetici: "Come non pensare ad una perfetta installazione di sistemi fotovoltaici nelle colonie illegali, isole autosufficienti ed ipertecnologizzate, mentre al di là dei muri la popolazione palestinese viene costretta a morire di sete? - si domanda - Per quanto la chiarezza del tema di cui mi sarei dovuta occupare abbia reso la decisione più netta, non credo che la storia sarebbe dovuta andare diversamente se si fosse trattato, che ne so, di biotecnologie, o anche di studi filologici. La legittimazione di un sistema di apartheid e violenza non ha dipartimento".
       La scelta, che riporta in auge il tema del boicottaggio accademico di Israele dopo gli appelli a non collaborare con il Technion di Haifa, è stata appoggiata anche dagli studenti torinesi che in questi mesi hanno più volte organizzato iniziative a favore dei palestinesi: "Appoggiamo e supportiamo la decisione della ricercatrice torinese che ha rifiutato un assegno di ricerca perché in collaborazione con l'Università israeliana di Tel Aviv" scrivono sulla loro pagina Facebook i militanti del collettivo Studenti Contro il Technion.

    (la Repubblica, 22 febbraio 2017)


    Se questo non è odio. Puro antisemitismo 2.0.


    L'economia di Israele è più forte dell'odio

    Crescita e ricerca al top. Una strategia che batte ogni boicottaggio

    Il movimento di boicottaggio economico verso Israele, dei suoi prodotti e del suo lavoro, è tanto diffuso nei paesi europei quanto è assurda la motivazione a esso sottesa: minacciare la salute del cuore dell'occidente nel mondo arabo. Per quanto il boicottaggio sia dannoso per l'economia di Gerusalemme, la sua robusta crescita - la più forte dei paesi Ocse nel quarto trimestre 2016, al 6,2 per cento e con una bassa disoccupazione al 4,3 - e le sue potenzialità di sviluppo superano di molto la potenza d'odio che paradossalmente vi si oppone da nazioni affini per storia e per cronaca, vedi i bollettini degli attentati islamisti sul suolo europeo. Secondo l'Ocse, riporta Nature, nel 2015 Israele è diventato il primo paese-laboratorio al mondo: ha superato la Corea del sud, ora impelagata in scandali politici che intaccano i suoi vitali chaebol, per percentuale di pil investita in ricerca e sviluppo (4,25 per cento contro il 4,23 coreano). Inoltre, a differenza di Seul, Gerusalemme non ha sperimentato un "boom", in quanto la quota di pil investita in innovazione nei settori chimico, tecnologico avanzato, nuove frontiere digitali, è rimasta alta e quasi costante nell'ultimo decennio. Una strategia che paga. La "Start Up Nation", descritta nell'omonimo saggio del 2009, continua a sostenere l'imprenditoria, sia domestica sia internazionale, alleviando le costrizioni giuridiche e finanziarie per le imprese, attirando così investimenti e talenti. E guadagna nuove alleanze strategiche prima inedite, ad esempio quella con l'India alla quale offre expertise tecnologico sia militare sia agricolo. Per molti nemici ci sono altrettanti amici.

    (Il Foglio, 22 febbraio 2017)


    Israeliani e palestinesi collaborano nella ricerca sul Linfoma non-Hodgkin

     
     
    La distibuzione del sottotipo di linfoma non-Hodgkin (celluleB) in relazione alla popolazione
    Da un comunicato diramato dall'Università Ebraica di Gerusalemme, emerge che un gruppo di ricercatori israeliani e palestinesi sta conducendo delle ricerche sul Linfoma non-Hodgkin, una neoplasia maligna del tessuto linfatico, che va quindi a colpire le cellule del sistema immunitario.
    Il Linfoma non- Hodgkin (NHL) rappresenta circa il 3% del carico dei tumori di tutto il mondo. La maggior parte degli studi epidemiologici sono stati effettuati, nel corso del tempo, solo nelle popolazioni nordamericane ed europee, con un paio di focalizzazione sulle popolazioni dell'Asia orientale. Sono molto pochi invece gli studi epidemiologici effettuati sulle cellule B nelle popolazioni del Medio Oriente.
    Dal momento che israeliani e palestinesi rappresentano geneticamente e culturalmente diverse popolazioni che vivono in prossimità geografica, la ricerca sta analizzando i loro fattori di rischio al fine di arricchire la comprensione dei geni e dell'ambiente in cui si genera il linfoma.
    Nonostante condividano lo stesso ecosistema, le popolazioni si differenziano in termini di stile di vita, comportamenti di salute e sistemi medicali. Eppure in entrambe le popolazioni è stata evidenziata una alta incidenza di NHL, che rappresenta la quinta neoplasia più comune in Israele e l'ottavo tumore maligno più comune fra i palestinesi della West Bank. (A partire dal 2012, Israele ha anche il primo posto nel mondo dei tassi di incidenza di Linfoma non-Hodgkin).
    Come si evince dal comunicato, ora i ricercatori israeliani e palestinesi, guidati dalla Prof.ssa Ora Paltiel, direttrice della Hebrew University-Hadassah Braun School of Public Health and Community Medicine, e Senior Physician dell'Hadassah's Hematology Department, hanno condotto uno studio epidemiologico su larga scala al fine di esaminare i fattori di rischio per le cellule B del Linfoma e dei suoi sottotipi in queste due popolazioni.
    I ricercatori hanno esaminato la storia medica, i fattori ambientali e lo stile di vita di 823 persone (israeliane e palestinesi) con Linfoma non-Hodgkin delle cellule B e 808 persone sane. Utilizzando un questionario i ricercatori hanno scoperto alcuni fattori di rischio comuni ad entrambe le popolazioni.
    I dati, riportati nella rivista PLoS ONE, hanno dimostrato che in entrambe le popolazioni il Linfoma è stato associato all'esposizione al sole, all'uso di tintura nera per capelli, ad una storia di ospedalizzazione per infezioni e alla presenza di un parente di primo grado con un tumore del sangue. Un'associazione inversa è stata osservata con l'uso di alcol. Alcune esposizioni, tra cui il fumo e l'uso di pesticidi, sono stati associati a specifici sottotipi di B-NHL.
    I dati inoltre hanno sottolineato le differenze tra le popolazioni. Solo tra gli arabi palestinesi sono stati scoperti fattori di rischio legati a herpes, mononucleosi, rosolia, o trasfusioni di sangue, mentre questi fattori non sono stati identificati nella popolazione ebraica israeliana. Al contrario, esistono fattori di rischio rinvenuti solo negli ebrei israeliani, che includono la coltivazione di frutta e verdura e malattie autoimmuni.
    Il fatto che i fattori di rischio operino in modo diverso nei diversi gruppi etnici, solleva la possibilità di divergenze legate a dieta, abitudini culturali, esposizione ad infezioni e ad altri fattori che agiscono in modo diverso in individui con differente background genetico.
    Questo studio riflette uno sforzo scientifico congiunto unico che coinvolge ricercatori israeliani e palestinesi, e dimostra l'importanza della ricerca cooperativa.
    Questo il commento conclusivo della Prof.ssa Paltiel:
    A parte il contributo scientifico che questa ricerca fornisce in termini di fattori di rischio per la comprensione del Linfoma, lo studio prevede un importante cooperazione nella ricerca tra le molte istituzioni. Lo studio ha fornito opportunità per la formazione di ricercatori palestinesi e israeliani, e la volontà di garantire un'interazione intellettuale per gli anni a venire. I dati raccolti verranno usati anche per futuri studi. La ricerca epidemiologica ha il potenziale di migliorare e preservare la salute umana, e può anche servire come un ponte per il dialogo tra le nazioni.
    Gli istituti partecipanti a questa ricerca includono:
    Braun School of Public Health and Community Medicine, and Depts. of Hematology and Pathology, Hadassah-Hebrew University Medical Center; Dept. of Medical Laboratory Sciences and Dept. of Community Medicine, Faculty of Medicine, Al Quds University; Cancer Care Center, Augusta Victoria Hospital; Beit Jalla Hospital; Department of Statistics, Hebrew University; Department of Primary Health Care, Palestinian Ministry of Health; Tisch Cancer Institute and Institute for Translational Epidemiology, Mount Sinai School of Medicine; Rambam Medical Center and Rappaport Faculty of Medicine, Technion; Chaim Sheba Medical Center and Meir Medical Center and Tel Aviv University.

    (SiliconWadi, 22 febbraio 2017)


    Siria - Nuovo raid israeliano contro un convoglio di Hezbollah

    di Giordano Stabile

    BEIRUT - L'aviazione israeliana ha colpito in Siria un convoglio che probabilmente trasportava armi per l'Hezbollah libanese, vicino a Damasco. L'attacco è avvenuto nella zona del Jabal al-Qatifa, attorno alle tre del mattino. I cacciabombardieri sono passati attraverso lo spazio aereo libanese. Testimoni in Libano riferiscono che aerei militari, probabilmente della Iaf, sono passati sopra la valle della Bekaa a quell'ora.
    Secondo il quotidiano online An-Nashra, il convoglio si trovava sulla superstrada che collega la capitale siriana al valico di Masnaa, distante una quarantina di chilometri dalla città, sulla via principale che la unisce a Beirut. Attacchi di questo genere si sono verificati regolarmente negli ultimi tre anni.
    Le forze armate israeliane non hanno né smentito né confermato. Ieri il ministro della Difera Avigdor Lieberman aveva avvertito Hezbollah durante una visita alla Golani Brigade, unità d'élite dell'esercito: "La forza è la migliore risposta alle minacce che registriamo al di là del confine. Chi non ha visto la Golani Brigade in azione farebbe meglio a nascondersi in un bunker".
    Il riferimento è alla rete di tunnel, bunker e postazioni missilistiche che Hezbollah ha allestito nel Sud del Libano, fuori dalla zona cuscinetto controllata dalla missione Onu Unifil, a cui partecipano anche oltre mille militari italiani. Il leader di Hezbollah Hassan Nasrhallah aveva avvertito nei giorni scorsi che in caso di guerra con Israele era in grado di colpire la centrale nucleare di Dimona, e aveva invitato il governo israeliano a "smantellarla".
    Israele e Libano si trovano in situazione di cessate il fuoco ma non hanno mai firmato un accordo di pace, così come Israele e la Siria. Il nuovo presidente libanese, l'ex generale cristiano Michel Aoun, ha dichiarato sabato scorso che "ogni tentativo" di Israele di violare la sovranità del Libano avrebbe ricevuto "una risposta appropriata". I caccia israeliani in azione verso la Siria passano di solito sopra il Libano. L'aviazione libanese non dispone di mezzi aerei ad ala fissa, solo elicotteri.

    (La Stampa, 22 febbraio 2017)


    Diciotto mesi al sergente israeliano che uccise un palestinese ferito a terra

    di Giordano Stabile

    Il sergente israeliano Elor Azaria è stato condannato a 18 mesi di carcere per l'uccisione, nel marzo del 2016, di un palestinese, già ferito gravemente dopo aver accoltellato un militare di pattuglia. La corte marziale di Tel Aviv ha anche deciso la sua degradazione a soldato semplice. Nella prima fase del processo la corte aveva giudicato Azaria colpevole di omicidio. La pena inflitta oggi ha suscitato polemiche da una parte e dall'altra. Per esponenti del governo e gran parte dell'opinione pubblica Azaria va graziato. Per i palestinesi la pena, giudicata lieve, "è un semaforo verde ad altre esecuzioni sommarie".

     Attenuanti
      Il sergente Azaria, 21 anni, con doppia nazionalità israeliana e francese, è il primo soldato a essere condannato per omicidio da oltre 10 anni. Secondo i giudici a mitigare la sua posizione il fatto di essersi trovato "in territorio ostile". Dall'ottobre del 2015 l'esercito israeliano fronteggia la cosiddetta "Intifada dei coltelli" una serie di assalti all'arma bianca condotti contro civili e militari che finora hanno causato la morte di 36 cittadini israeliani e stranieri e l'uccisione di oltre 200 palestinesi negli scontri.

     Il video
      Azaria era stato filmato dai militanti di una ong filo-palestinese mentre a Hebron sparava a Abdel Fattah al-Sharif, 21 anni, che aveva ferito con un coltello un commilitone, era stato ferito da colpi di fucile mitragliatore e giaceva a terra quasi immobile, con l'arma non più a portata di mano. Nel video si vede il sergente che prima dà il colpo di grazia ad Al-Sharif e poi con un calcio avvicina il coltello al corpo. L'accusa aveva chiesto una condanna da tre a cinque anni, ma il tribunale l'ha ritenuta troppo dura. Il giudice, il colonnello Maya Heller, ha citato come attenuanti "il danno subito dalla sua famiglia" e il fatto che Azaria si trovasse in "territorio ostile".

     Paese diviso
      Il giudice Heller ha ammesso che arrivare alle sentenza era una "decisione difficile". Israele si è spaccata sulla sorte del militare, con il 67 per cento favorevole al suo perdono e la sinistra, soprattutto le Ong dei diritti umani, che chiedevano una pena severa.

     Le reazioni
      I ministri dei partiti di destra al governo in coalizione con il Likud del premier Benjamin Netanyahu hanno chiesto che il 21enne Azaria venga graziato. Un portavoce del governo palestinese ha invece descritto la sentenza come un "semaforo verde" a "crimini di guerra".

     L'appello
      La difesa ha chiesto un rinvio dell'esecuzione della sentenza, per fare appello. La corte ha concesso 12 giorni e quindi Azaria comincerà a scontare la pena il 5 marzo. Centinaia di persone lo hanno atteso fuori dal tribunale e lo hanno applaudito al suo arrivo. Un massiccio cordone di polizia era stano dispiegato per evitare incidenti.

    (Il Secolo XIX, 21 febbraio 2017)


    Missouri: vandali al cimitero ebraico

    Oltre 100 tombe del cimitero ebraico di St Louis, in Missouri, sono state danneggiate da un gruppo d vandali ora ricercato dalla polizia locale: al vaglio degli investigatori i filmati delle telecamere di sorveglianza. Una decina di centri ebraici in tutti gli Stati Uniti hanno ricevuto minacce di attentati dinamitardi in un'ondata di populismo di destra, seguita con attenzione dal Southern Poverty Law Center, che monitora le minacce estremistiche in America.

    (la Repubblica, 21 febbraio 2017)


    La legislazione antisemita in Germania e in Italia

    L'antisemitismo, presente nella Storia da molti secoli, si concretizza nel corso degli anni '30 in Germania e in Italia attraverso una serie di leggi e di provvedimenti che tolgono progressivamente libertà, spazio e identità agli ebrei, smaterializzandone l'esistenza e avviandoli verso l'annientamento.

    Una buona parte dei Giudei erano concentrati in campi come giornalismo, avvocatura, medicina e vendita al dettaglio mentre un numero più ampio era composto da quelli che vivevano in condizioni umili, lavorando come operai, artigiani e venditori ambulanti. Poiché bisognava limitare l'ascesa dei semiti, venne vietato l'esercizio della professione ai giudei e vennero costretti a svolgere attività professionali che il popolo snobbava. Il dato preoccupante però era che la maggior parte degli ebrei era in Europa; in Germania si stimava che vi fossero circa 523 000 residenti e l'80 % di questi possedeva la cittadinanza tedesca. La maggior concentrazione di cittadini semiti era situata nella capitale (circa 160 000). Durante quel periodo il 70 per cento circa degli ebrei tedeschi viveva in aree urbane risiedendo nelle 10 maggiori città tedesche; le principali città dove risiedevano erano in ordine di numero di risiedenti: Berlino, Francoforte sul Meno, Breslau, Amburgo, Colonia, Hannover e Lipsia. Quando prese il potere il partito Nazista il numero di Semiti presenti in Germania diminuì dello 0,75 per cento....

    (Gocce di memoria, 21 febbraio 2017)


    Trump: Antisemitismo orribile, va fermato

    di Raffaella Cantone

    "L'antisemitismo è orribile, sarà fermato e deve fermarsi". Lo ha detto il presidente Donald Trump all'emittente Nbc. Trump parla dopo la devastazione di 170 tombe nel cimitero ebraico di St. Louis, avvenuta nel weekend, a cui è seguita ieri la denuncia dell'Anti Defamation League di una nuova serie di telefonate a centri ebraici (JCC) di undici città Usa, anche se l'allarme bomba è rientrato quasi subito. Si tratta della quarta ondata di minacce ai Jcc dall'inizio del 2017.
    L'Fbi e la divisione Diritti Civili del dipartimento di Giustizia hanno annunciato l'apertura di una inchiesta. Sia la Casa Bianca che Ivanka, la figlia preferita di TRUMP convertita all'ebraismo in seguito al matrimonio, hanno condannato gli episodi su Twitter. Nelle settimane scorse, dopo la conferenza stampa con il presidente israeliano Benyamin Netanyahu, Trump aveva definito "insultante" una domanda di un giornalista sull'aumento di episodi di antisemitismo negli Usa. Il presidente aveva poi aggiunto di essere "la persona meno antisemita" del mondo.
    Suocero dell'ebreo americano Jared Kushner, Trump ha sempre avuto molti collaboratori di fede ebraica, ma la Casa Bianca continua ad essere nel mirino dopo che Stephen Bannon, guru del sito di enews Breitbart e nominato consigliere anziano dal presidente, è stato accusato di essere legato a gruppi suprematisti bianchi - accusa che non è mai stata provata concretamente.

    (l'Occidentale, 21 febbraio 2017)


    Khamenei: liberare la Palestina dal tumore israeliano

    di Fabrizio Di Ernesto

    Bisogna liberare la Palestina dal tumore israeliano. Lo ha ribadito oggi il leader supremo iraniano l'Ayatollah Ali Khamenei, ribadendo il rifiuto del suo paese a riconoscere il diritto dell'entità sionista ad esistere.
    Parlando nel corso nel corso della VI conferenza internazionale a sostegno della Intifada palestinese, organizzata dalla autorità di Teheran in segno di solidarietà con il popolo palestinese, Khamenei ha detto: "Questo tumore canceroso, sin dal suo inizio, è cresciuto in modo esponenziale" di conseguenza anche il suo trattamento deve crescere in modo esponenziale, osservando come "l'Intifada e la resistenza palestinese hanno raggiunto importanti obiettivi. Ora però bisogna aumentare questi obiettivi arrivando alla completa liberazione della Palestina".
    Fin dalla rivoluzione del 1979 la Repubblica islamica dell'Iran è stata al fianco del popolo palestinese offrendo un concreto supporto, non solo militare, ai gruppi popolari contro gli israeliani.
    In particolare l'Iran ha appoggiato i palestinesi nell'Intifada del 1987, conclusasi nel 93, ed in quella del 2000, durata 5 anni.
    L'ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, in carica tra il 2005 ed il 2013, ha più volte espresso la volontà di cancellare Israele dalla carta geografica, ovvero facendo del territorio palestinese uno stato arabo e non sionista, anche se quasi sempre i media occidentali travisavano le sue parole ipotizzando "la distruzione del popolo ebraico".
    La questione palestinese rischia ora di aprire un nuovo scontro diplomatico tra Washington e Teheran dopo che il neopresidente statunitense Donald Trump ha espresso la volontà di spostare l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola quindi come capitale israeliana, e dicendosi contrario alla soluzione a due stati, uno ebraico e l'altro palestinese.

    (Agenzia Stampa Italia, 21 febbraio 2017)


    Gli ebrei americani scrivono al governo: «Salvate il cimitero di Mantova»

    Il congresso dei rabbini di Usa e Canada a Gentiloni e Alfano «Non consentite che Mantova profani quella zona sacra»

    di Sandro Mortari

     
    MANTOVA - Il congresso rabbinico centrale di Stati Uniti e Canada chiede aiuto al governo Gentiloni per tutelare l'antico cimitero ebraico di San Nicolò. «È un piano shock» quello proposto dal Comune di Mantova per riqualificare la zona in riva al lago Inferiore, scrive il rabbino Issac Gluck, direttore esecutivo del Crc, al presidente del consiglio dei ministri e al ministro degli esteri Angelino Alfano.
       «Non sapete quanto dolore provocherebbe alla comunità ebraica una profanazione simile» mette nero su bianco, senza mezzi termini, nella lettera datata 29 gennaio scorso.
       Un vero e proprio colpo di scena, inatteso dalla giunta Palazzi che riteneva di aver chiuso la questione con l'accordo siglato con la presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, durante la sua recente visita a Mantova, per la tutela del camposanto nell'ambito della progettazione di "Mantova hub", la riqualificazione della periferia est di Mantova. E invece, la chiamata in causa del governo italiano da parte degli intransigenti rabbini dell'ebraismo ortodosso apre un problema di rapporti del Comune con l'esecutivo nazionale nel caso Gentiloni chiedesse a Palazzi lumi su quanto sta succedendo a Mantova. A quanto risulta, però, in Via Roma nessuno del Governo si è fatto vivo; né risulta che la missiva del rabbino Gluck abbia ancora avuto una risposta ufficiale dalla capitale, cosa che, a quanto pare, avrebbe parecchio irritato il direttore esecutivo del Congresso centrale rabbinico.
       Nella lettera inviata al premier Gentiloni e al ministro Alfano viene ricordato che il Crc conta più di 200mila membri e che, in un meeting apposito (convocato d'urgenza), ha affrontato il tema del cimitero ebraico di Mantova, conclusosi con un appello rivolto al governo italiano affinché preservi quel luogo sacro dove è sepolto da 400 anni Azariah da Fano, uno dei più grandi cabalisti della tradizione ebraica. Nella lettera viene anche ricordato che un rappresentante del Crc, il rabbino David Niederman (che è anche fondatore e presidente della Commissione europea per la protezione dei cimiteri ebraici), si è incontrato con il sindaco di Mantova Palazzi, a cui ha chiesto ufficialmente di cancellare il piano previsto per San Nicolò e di assicurare al cimitero ebraico una tutela perenne. La risposta ricevuta da Palazzi non è stata incoraggiante: andremo avanti perché i finanziamenti (18 milioni, ndr.) derivano dal bando periferie promosso dalla presidenza del consiglio e a cui abbiamo partecipato con successo.
       Poi, la parte fondamentale della lettera. «Ci rivolgiamo al governo italiano che ha finanziato il progetto di recupero - scrive Gluck - per informarlo di quanto sarebbe doloroso per il mondo ebraico una profanazione di quel luogo». Sarebbe, aggiunge, «una violazione della risoluzione 1883 del 2012 del Consiglio d'Europa» che impone agli enti locali di proteggere i luoghi sacri per gli ebrei. La missiva si conclude con la richiesta a Gentiloni di contattare il rabbino Niederman per un incontro da tenere il prima possibile (a tal proposito vengono forniti il suo numero di telefono e la sua e-mail) su una questione che «sta creando grave preoccupazione tra gli ebrei di tutto il mondo».

    (Gazzetta di Mantova, 21 febbraio 2017)


    "Mantova - Città capitale della cabala. Seppelliti qui i grandi maestri"


    Minacce contro il centro ebraico di Houston: è allerta nazionale

    Usa, ondata di minacce contro almeno 11 centri ebraici. Allerta nazionale, interviene Ivanka Trump

    L'Evelyn Rubenstein Jewish Community Center di Houston
    L'Evelyn Rubenstein Jewish Community Center (Jcc) di Houston, in Texas, un grande centro ebraico che ospita impianti sportivi ed una scuola, ha ricevuto ieri la minaccia di un attacco dinamitardo che fortunatamente si e' rivelato un falso allarme. Dall'inizio dell'anno, cioe' in meno di due mesi, sono state 61 le minacce rivolte contro 55 centri ebraici americani piu' uno in Canada, secondo i dati forniti dalla Jcca, l'associazione degli Jcc.
       Il centro di Houston, esortando a segnalare ogni pacco o azione sospetta, ha sottolineato come tutti i centri ebraici degli Stati Uniti siano stati allertati contro possibili attentati. "Come Jcc facciamo parte della rete Scn (Security Comunity Network) affiliato alla Federazione ebraica del Nordamerica e, in risposta a queste crescenti minacce - hanno spiegato al centro di Houston - abbiamo rafforzato la sicurezza e veniamo costantemente aggiornati dal Scn e dalla Adl", la Lega anti-diffamazione, un gruppo di pressione fondato nel 1913 negli Usa "per fermare, per mezzo di appelli alla ragione ed alla coscienza e, se necessario, alla legge, la diffamazione nei confronti degli ebrei". Nel quartiere del centro Evelyn Rubenstein, a Meyerland, una zona residenziale di Houston non distante da downtown e abitata in prevalenza da ebrei, la gente comincia ad avere paura.
       "Sto seriamente pensando di togliere mia figlia dalla scuola per quello che sta succedendo intorno alle comunita' ebraiche dall'elezione del presidente Donald Trump", ha raccontato all'Agi una signora che frequenta la palestra dello Jcc di Houston. "Ieri stavo facendo ginnastica quando e' scattato l'allarme. Sono corsa da mia figlia nel panico e non credo di poter vivere con questo tipo di ansia".
       Simili episodi ed atti di vandalismo si sono verificati in centri ebraici di altre citta' americane come Cleveland, Chicago, Tampa, Albuquerque, Nashville, Buffalo.
       "L'America e' una nazione costruita sul principio della tolleranza religiosa. Dobbiamo proteggere le nostre case e i nostri luoghi di culto e di preghiera". Cosi' la figlia del presidente Donald Trump, Ivanka, ha risposto all'ondata di minacce di attacchi ricevuta da centri ebraici e sinagoghe negli Stati Uniti. Ivanka, che si e' convertita all'ebraismo per il marito Jared Kushner, figlio di ebrei ortodossi scampati all'Olocausto, e' la prima della famiglia presidenziale a commentare gli allarmi bomba in aumento esponenziale nei centri ebraici. L'ultimo ieri a Houston, in Texas. Nel solo mese di gennaio, 48 centri comunitari ebraici (Jcc, Jewish Community Center) in 26 stati americani e uno in Canada hanno ricevuto 60 minacce di attentati dinamitardi, secondo i dati diffusi dalla Jcca, l'associazione degli Jcc. Lunedi' scorso, altri 11 allarmi bomba hanno riguardato istituti ebraici negli Stati Uniti. In una nota, l'ufficio per le violazioni dei diritti civili dell'Fbi, ha comunicato di aver aperto un'indagine relativa alle minacce contro gli ebrei. Fino a questo momento, non e' stato rinvenuto alcun ordigno ma sono state vandalizzate scuole ebraiche e sinagoghe, anche con svastiche disegnate sui muri o sulle auto in quartieri di citta' Usa abitati in prevalenza da ebrei.

    (Affaritaliani.it, 21 febbraio 2017)


    Record nell'Ocse. Boom di Israele

    II Pil su del 6,2%

    L'economia israeliana è in pieno boom, trainata dal settore delle nuove tecnologie. I dati pubblicati dal governo mostrano che nel quarto trimestre del 2016 il Pil è cresciuto a un tasso annuo del 6,2 per cento. È la performance migliore nell'Ocse, l'organizzazione che raccoglie i Paesi industrializzati occidentali. La disoccupazione è scesa al 4,3%, anche questo uno dei dati migliori all'interno del-l'Ocse, che vede una media del 6,2%. La disoccupazione scende nonostante sempre più persone entrino nel mercato del lavoro. Nell'ultimo trimestre le imprese ad alta tecnologia hanno attirato capitali per 4,8 miliardi di dollari, nel 2016 gli investimenti sono cresciuti del 40 per cento.

    (La Stampa, 21 febbraio 2017)


    Gerusalemme: cresce l'offerta ricettiva

     
    Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme
    La città di Gerusalemme sta assistendo ad una vera e propria rivoluzione dell'industria alberghiera: ci si aspetta, infatti, che saranno aggiunte alla sua capacità ricettiva migliaia di camere nei prossimi anni. Secondo i dati presentati dalla Jerusalem Development Authority, la città ha registrato un aumento nel numero delle stanze d'hotel pari a 1.700 in più, nel solo biennio 2015-2016, e altre 5.000 andranno, nei prossimi cinque anni, ad arricchire il panorama dell'accoglienza gerosolimitana - camere che sono già state approvate e per la cui realizzazione sono già stati individuati specifici costruttori. Gli hotel di categoria cinque stelle, tra cui quello appartenente alla catena internazionale Waldorf Astoria, l'American Colony Hotel, l'Hotel Yehuda, il Mamilla Hotel e l'Orient Hotel parte della catena di hotel israeliana Isrotel Ltd., hanno conquistato, negli ultimi mesi, la maggior parte delle prime pagine dei giornali. Queste strutture hanno, infatti, avviato collaborazioni con facoltosi ebrei provenienti da tutto il modo, proprietari di edifici esclusivi siti a Gerusalemme.
       Allo stesso tempo, i piani di sviluppo turistico prevedono progetti che coinvolgeranno una serie di alberghi che permetteranno a turisti locali e stranieri di pernottare in strutture meno care. Le camere che si sono aggiunte sono state progettate in modo da rispondere al continuo incremento di pernottamenti turistici nella città registrato negli ultimi anni. I turisti stranieri hanno raggiunto una quota di overnight pari a oltre 2,5 milioni nel 2015, cioè il 31% del valore totale registrato da tutta Israele e relativo ai soli turisti stranieri.
       Contemporaneamente alla crescita del numero dei turisti, e per rispondere in modo efficace alla mancanza di camere d'hotel della città, la Municipalità di Gerusalemme e la Jerusalem Development Authority hanno deciso di unire le forze. Nel 2014 hanno dato vita al "green track" per hotel in apertura, iniziativa volta ad incoraggiare imprenditori privati a costruire alberghi a Gerusalemme. Il green track è stato pensato per accorciare notevolmente i processi burocratici legati alla costruzione di nuove strutture. Il piano permette a chiunque disponga di terra destinata a costruzioni residenziali, commerciali o uffici, di cambiarne destinazione d'uso in un lasso di tempo notevolmente ridotto, e ottenere i permessi più facilmente. Durante l'intero iter, il costruttore è seguito passo dopo passo da un referente della Jerusalem Development Authority e la sua richiesta viene trattata in modo prioritario da parte di agenzie che lavorano a questo tipo di progetti. La durata del processo burocratico è stata così ridotta da 30 mesi/3 anni a 18 mesi appena.
       "Gerusalemme è una destinazione internazionale che affascina circa 4 miliardi di persone in tutto il mondo, il cui sogno è visitarla", ha affermato il Sindaco di Gerusalemme Nir Barkat "Negli ultimi anni, abbiamo raddoppiato il numero dei turisti che ci hanno visitato, raggiungendo quota 4 milioni all'anno. In stretta connessione con il governo, stiamo sviluppando e rafforzando costantemente il comparto turistico e l'industria ad esso associata che supportano sia l'economia municipale che quella della città in toto".
       Altro dato estremamente interessante viene da Expedia: secondo quanto pubblicato sul portale, le prenotazioni tramite il sito sono addirittura triplicate nell'ultimo trimestre. "Abbiamo trovato il modo di sponsorizzare sia hotel di lusso che meno cari", ha affermato Ilanit Melchior, Direttrice della Jerusalem Development Authority, che ha proseguito spiegando che "la crescita è stata trainata principalmente dalle soluzioni meno costose".

    (Advtraining, 20 febbraio 2017)


    La Menorà in mostra unisce Musei Vaticani e Museo Ebraico

    Dal 15 maggio a Roma l'esposizione sull'oggetto che più di tutti simboleggia la religione israelitica. Da New York interesse per una ulteriore tappa gestione classica passaparola.

    di Paolo Conti

    Alessandra Di Castro, direttrice del Museo Ebraico di Roma               Barbara Jatta, responsabile dei Musei Vaticani
    Assicura il co-curatore della mostra Francesco Leone: «Il progetto è portentoso e il risultato sarà epocale». Si potrebbe pensare a un eccesso retorico. Ma stavolta ha una sua aderenza alla realtà. Leone, storico contemporaneista, cura e coordina con Arnold Nesselrath, delegato per i dipartimenti scientifici ed i laboratori di restauro dei Musei Vaticani, e Alessandra Di Castro, direttrice del Museo Ebraico di Roma, la mostra La Menorà. Culto, storia e mito, che si aprirà il 15 maggio prossimo parallelamente nel Braccio di Carlo Magno, ai Musei Vaticani, e proprio nel Museo Ebraico romano, nei sotterranei del Tempio Maggiore di Lungotevere Cenci. È il primo progetto comune tra le due istituzioni culturali: l'immenso museo vaticano e il piccolo ma ricchissimo scrigno della comunità ebraica.
       Un'intesa storica piena di rinvii culturali, religiosi, storici, diplomatici che arriva dopo le tre visite di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco alla Sinagoga nel cuore dell'antico ghetto, chiuso per secoli in un odioso recinto dal potere papale, e ora crocevia di un dialogo interreligioso sempre più fertile e in continua crescita.
       La presentazione avviene infatti proprio al Museo Ebraico: accanto ai curatori, la nuova responsabile dei Musei Vaticani, Barbara Jatta, con i cardinali Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, e Kurt Koch, presidente della Commissione per le Relazioni religiose con gli Ebrei. Con Alessandra Di Castro, il Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e la presidente della Comunità ebraica romana, Ruth Dureghello. Un parterre impensabile appena pochi anni fa, ora possibile per studiare insieme un oggetto che, secondo il libro dell'Esodo, sarebbe stato fatto forgiare in oro puro da Mosè per ordine del Signore.
       Il progetto, spiegano Barbara Jatta e Alessandra Di Castro, ha richiesto tre anni e mezzo di lavoro per costruire una mostra dedicata a un simbolo millenario che nessuno potrà vedere semplicemente perché, arrivato a Roma nel 70 dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte delle truppe romane dell'imperatore Tito, il candelabro è sparito dal V secolo, quando venne razziato dai Vandali di Genserico nel sacco del 455. Ma è rimasto, come spiega il Rabbino Di Segni, «il logo dell'ebraismo mondiale», un oggetto sospeso tra simbolo, fede, leggenda, capace però di unire ebraismo e cristianesimo, basta ammirare l'immenso Candelabro Trivulzio nel Duomo di Milano, evidentissima citazione del sommo modello: in entrambi i casi, allegoria della luce divina che si spande sul mondo.
       In quanto alle leggende, la più ricorrente vede la Menorà nascosta da secoli nei depositi segreti vaticani. Ironizza il Rabbino Di Segni: «Non è così…. Almeno speriamo! In realtà bisognerebbe cercare in qualche sotterraneo a Gerusalemme, perché lì la Menorà sarebbe forse tornata».
       In assenza dell'originale, la mostra esporrà preziosi prestiti dal Louvre di Parigi, dalla National Gallery di Londra, dall'Israel Museum di Gerusalemme, dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, dal Museo Sefardi di Toledo e da molte altre prestigiose istituzioni internazionali. Da New York è già arrivata la proposta di una seconda tappa.

    (Corriere della Sera, 21 febbraio 2017)


    L'Antigiudaismo e l'Europa in tre incontri

    Morelli e Giuliano presentano il libro di Nirenberg

    di Gabriella Brugnara

    TRENTO - Prosegue all'insegna della qualità Sapere e Futuro, incontri tra scienza e umanesimo, la rassegna organizzata dall'associazione culturale Piazza del Mondo, con sede a Trento. All'iniziativa concorrono vari enti del territorio tra cui la Fondazione Caritro, la Regione Trentino Alto Adige, media partner dell'evento il Corriere del Trentino.
       Venerdì e sabato sono infatti in programma tre appuntamenti che pongono al centro il tema dell'antisemitismo. Giuliana Adamo (Trinity College Dublin e anche presidente di Piazza del Mondo) e Ugo Morelli (Università di Bergamo) interverranno alle 10.30 nell'aula magna del liceo Vittoria di Trento (incontro rivolto agli studenti), e alle 17 presso la biblioteca civica «G. Tartarotti» di Rovereto. Lo spunto alla riflessione scaturisce dalla recente pubblicazione in Italia della traduzione di un testo americano che sta facendo molto discutere oltreoceano e in Europa: Antigiudaismo. La tradizione occidentale, dello storico David Nirenberg, 2013, tradotto nel 2016 per i tipi di Viella da Paolo Cherchi e Giuliana Adamo.
       «Perché culture tanto diverse - e perfino culture prive di gruppi ebraici al loro interno - hanno ponderato tanto sul giudaismo? - si interroga Nirenberg in Introduzione - E tanto pensare è forse servito in qualche modo a creare in esse un senso del proprio mondo? E, a sua volta, questo sforzo ebbe conseguenze sul modo in cui le società future potevano o avrebbero potuto considerare il giudaismo? E in che misura la storia di questo riflettere sul giudaismo determinò le future possibilità di esistenza degli ebrei?».
       Guidati dal leitmotiv di questi temi, Adamo e Morelli affronteranno un viaggio attraverso oltre due millenni di storia, che privilegia la continuità delle idee e delle pratiche antigiudaiche rispetto alle fasi di rottura. Un grande affresco, dalle origini ad oggi, della parabola d'odio contro gli ebrei che, per Nirenberg, è componente costitutiva del pensiero occidentale.
       Il giorno successivo, il tema dell'antisemitismo verrà dedicato in una prospettiva musicale.
       Alla Sala Filarmonica di Rovereto, alle 20.30, si svolgerà infatti un concerto dal titolo La cenere e i dispersi, tenuto dal duo Emanuele Dalmaso (sassofono), Cosimo Colazzo (pianoforte), con musiche di autori ebrei, che sono stati perseguitati dal nazismo, morti in campo di concentramento (come Ervin Schulhoff), o fuggiti fuori d'Europa (come Darius Milhaud, Bernhard Heiden, Paul Dessau, che ripararono negli Stati Uniti), o che, prefigurando l'apocalisse, lasciarono la Germania per coltivare l'idea e il sogno dello stato ebraico in Palestina, come Paul Ben-Haim, che, formatosi ai linguaggi della tradizione colta europea, musicalmente volle seguire certi rami popolari ebraici, innervati di una storia nomade e di accenti medio-orientali.

    (Coprriere del Trentino, 21 febbraio 2017)



    Le dieci parole

    L’articolo che segue è stato scritto più di trent’anni fa, quando l’autore non aveva ancora un interesse specifico per Israele. E’ comparso su un piccolo mensile evangelico come introduzione ad una serie di studi su ogni singolo comandamento. Il complesso degli studi diventò in seguito un libro e fu pubblicato col titolo “Le dieci parole”. Lo ripresentiamo in questa sede a testimonianza del fatto che la fede in Gesù, così come presentato nella Bibbia, non può che portare a un interesse specifico per la legge di Mosè. A questo generale interesse biblico è seguito più tardi nell’autore un interesse particolare per il popolo che di questo patrimonio è il titolare: il popolo ebraico. Questo non è strano, anzi è del tutto naturale, scontato. Innaturale è il fatto che a molti continui a sembrare strano.

    di Marcello Cicchese

    Mettersi a parlare oggi di leggi e comandamenti non è cosa agevole. Nell'ambiente cristiano si rischia di essere accusati di legalismo e in quello civile di autoritarismo conservatore. Le "problematiche" etiche sono oggi di tipo diverso: ci si interroga sulla natura dell'amore, sulla libertà, sull'uguaglianza, sulla coscienza, sulla decisione responsabile. Niente ci è più ostico del pensiero di disposizioni rigide, valide per tutti gli uomini e in tutti i tempi. Preferiamo piuttosto sottolineare che nel comandamento dell'amore è racchiusa tutta la legge e i profeti. Ma possiamo dire di amare il prossimo come noi stessi se non amiamo Dio con tutto il cuore? E possiamo dire di amare Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima nostra e con tutte le forze nostre se, dopo averci Egli "fatto udire la sua voce dal cielo per ammaestrarci" (Dt. 6.36), noi ci mettiamo in ascolto di altre voci, di altre autorità, di altri "dei", tra i quali primeggia il nostro "io", laico o religioso, progressista o conservatore, permissivo o autoritario?
      "Sappi dunque oggi e ritieni bene in cuor tuo che l'Eterno è Dio; lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e che non ve n'è alcun altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti do, affinché sii felice tu e i tuoi figli dopo di te" (Dt. 4.39-40).
    Certo, se come vorrebbe certa critica biblica qui e altrove non è Dio che parla, ma è il popolo d'Israele che esprime la sua religiosità, testimoniando a modo suo della sua fede in Dio, allora possiamo inserire il decalogo e tutta la legge in un dotto discorso culturale, in cui paragonando codici e fonti, citando esegeti teologi psicologi e sociologi, stabiliamo a chi vogliamo dare ascolto, e al posto dell'ubbidienza dovuta all'unico vero Dio sostituiamo il problema del peso da dare alle diverse e contrastanti voci degli dei del paese. E quando all'ubbidienza si sostituisce un problema, si è già sul terreno della disubbidienza.
       Ma non sarà questo il nostro punto di partenza. Noi partiamo dal presupposto che nelle "dieci parole" scritte sulle due tavole di pietra (Es. 34.23, Dt. 10.4) Dio ha parlato, ha rivelato agli uomini qualcosa di se stesso. Il nostro compito è dunque quello di ascoltare, comprendere, ubbidire. I limiti posti alla nostra comprensione e ubbidienza dovranno essere soltanto quelli che la rivelazione biblica stessa, nella sua totalità, impone, e non altri.
       Come dobbiamo considerare allora questi dieci comandamenti, così noti nella loro formulazione e così trascurati nella riflessione e nella vita pratica? Sono ancora validi? Hanno valore universale? Sono disposizioni buone in se stesse e accettabili da tutti, indipendentemente da chi le ha date? Le risposte dovranno emergere dallo studio che ne faremo in seguito.
       Una cosa salta comunque subito all'occhio: si tratta di precetti molto pratici. Alla nostra sofisticata coscienza moderna possono anche apparire un po' grossolani. Da un Dio che ci rivela come dobbiamo vivere ci saremmo forse aspettati la presentazione di un comportamento nobilissimo, un elenco di elevati principi "ideali" a cui tendere continuamente pur senza la speranza di arrivarci mai. E invece ci troviamo davanti a una serie di secchi ordini, tagliati giù con la scure, quasi tutti espressi in forma di divieto come per dire: "Pensa e di' quello che ti pare, ma oltre questo limite non si passa".
       Una domanda sorge allora spontanea: "Chi è colui che mi impartisce ordini in forma così categorica, senza neppure cercare di persuadermi, di convincermi?" La risposta che giunge al popolo d'Israele è questa:
      "Io sono l'Eterno, l'Iddio tuo, che ti ho tratto fuori dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù" (Dt. 5.6).
    Tra Dio e il popolo esiste dunque un legame vitale che precede il dono della legge. Il popolo ha avuto il privilegio di conoscere il nome di Dio: l'Eterno è dunque il suo Dio. Il popolo ha anche conosciuto la liberazione dalla schiavitù d'Egitto ed è in marcia verso una terra che gli verrà data in dono, in cui dovrà vivere ed essere felice nel timore dell'Eterno e nell'osservanza dei suoi comandamenti.
       Colui che parla si è dunque già fatto conoscere come uno che ha scelto il popolo perché lo ama. Prima ancora di prendere conoscenza del contenuto della legge, il popolo viene invitato a riconoscere chi è colui che gli impone di osservare comandamenti e precetti.
      "L'Eterno ha riposto in voi la sua affezione e vi ha scelti. Non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli .... ma perché l'Eterno vi ama, perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l'Eterno vi ha tratti fuori con mano potente e vi ha redenti dalla casa di schiavitù dalla mano di Faraone, re d'Egitto. Riconosci dunque che l'Eterno, l'Iddio tuo, è Dio" (Dt. 7.7-9).
    Il popolo che ha conosciuto l'Eterno come un Dio d'amore è invitato a riconoscere nella legge un'altra espressione del suo amore. Dio non si limita a dare al popolo una terra "dove scorre il latte e il miele", ma gli fa anche dono delle sue parole, le parole della legge, per insegnargli che "l'uomo non vive soltanto di pane, ma vive di tutto quello che la bocca dell'Eterno avrà ordinato" (Dt. 7.3).
       La terra e la legge sono dunque entrambi doni dell'Eterno, non separabili l'una dall'altra. Ripetutamente viene detto che la legge è data al popolo "affinché viva e sia felice" nel paese di cui avrà possesso (Dt. 5.33, 6.18,24).
       Dio quindi non ha prima enunciato dei principi di condotta universali e poi scelto il popolo più capace di osservarli. Egli ha invece prima scelto un popolo e poi gli ha dato dei comandamenti perché li mettesse in pratica.
       Dio non ha prima espresso la sua volontà santa nei comandamenti e poi manifestato la sua benignità verso chi fosse in grado di osservarla. Egli ha invece prima manifestato la sua benignità in forma di liberazione, aiuto, sostegno, e poi ha espresso la stessa benignità in forma di comandamenti e di precetti.
       La legge data ad Israele è dunque un'espressione della grazia di Dio. Non dobbiamo lasciarci influenzare troppo presto dalla contrapposizione grazia-legge che troviamo nell'epistolario paolino. La legge è grazia di Dio all'interno della storia della salvezza. Al popolo raccolto ai piedi del Sinai Dio non chiede di credere in Gesù; tutto quello che Dio gli chiede è di prendere possesso della terra promessa e di ubbidire diligentemente ai suoi comandamenti "affinché viva e sia felice". Questa è la grazia che Dio manifesta agli uomini in questo periodo della storia della salvezza.
      "Ed ora, Israele, che chiede da te l'Eterno, il tuo Dio, se non che tu tema l'Eterno, il tuo Dio, che tu cammini in tutte le sue vie, che tu l'ami e serva all'Eterno, ch'è il tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua, che tu osservi per il tuo bene i comandamenti dell'Eterno, e le sue leggi che oggi ti do?" (Dt. 10.12-13).

      "Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti do, affinché sii felice tu e i tuoi figli dopo di te, e affinché tu prolunghi in perpetuo i tuoi giorni nel paese che l'Eterno, l'Iddio tuo, ti dà" (Dt. 4.40).
    Poiché i comandamenti sono dati al popolo affinché sia felice, è chiaro che non sono lì per essere ammirati, onorati, e trasgrediti: Dio si aspetta che il popolo li metta in pratica.
      "E l'Eterno ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo l'Eterno, l'Iddio nostro, affinché fossimo sempre felici, ed egli ci conservasse in vita, come ha fatto finora. E questo sarà la nostra giustizia: l'aver cura di mettere in pratica tutti questi comandamenti nel cospetto dell'Eterno, dell'Iddio nostro, com'egli ci ha ordinato" (Dt. 6.24-25).
    Noi siamo abituati a ricevere da filosofi, moralisti e uomini di chiesa descrizioni di modelli ideali di comportamento, tanto sublimi ed elevati da non poter essere messi in pratica letteralmente, ma tuttavia considerati come utili perché rappresentano un punto infinitamente lontano nella cui direzione dobbiamo muoverci incessantemente pur senza illuderci di poterlo mai raggiungere. Ma la presentazione che Mosè fa della legge di Dio è invece di altro tipo:
      "Questo comandamento che oggi ti do, non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: 'Chi salirà per noi nel cielo e ce lo recherà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?' Non è di là dal mare, perché tu dica: 'Chi ce lo recherà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?' Invece questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica" (Dt. 30.11-13).
    Israele era un popolo concreto, che doveva vivere su una terra concreta, guidato da una legislazione concreta. Osservando la legge di Dio nella terra datagli da Dio, Israele doveva esprimere la signoria dell'Eterno su tutti i popoli e su tutta la terra.
      "Or dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete tra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es. 19.5-6).
    Il carattere concreto della legge data a Mosè, la sua stessa praticabilità in quel tempo, il suo essere legata a quella terra impediscono che si possa fare della legge nella sua interezza un modello etico ideale ed universale, da esportare in tutti i paesi e valido in ogni tempo. Il collegamento che dobbiamo stabilire con questa legge deve passare attraverso l'Iddio che l'ha data, il quale ha continuato ad agire nella storia e a parlare, fino a rivelare pienamente se stesso nella persona del suo figlio Gesù Cristo. Partendo dunque dalla rivelazione che abbiamo oggi, espressa nella totalità delle Scritture, dobbiamo riprendere in mano questa legge e ascoltare quello che in essa Dio vuol dirci oggi.
       E' indubbio che all'interno della legge mosaica, le "dieci parole" occupino una posizione particolarmente spiccata. Si direbbe che nella legislazione di Israele esse svolgano la funzione di una Carta Costituzionale, esprimente i fondamenti stessi su cui si fonda la vita sociale del popolo. Il loro carattere strettamente etico e non giuridico, la loro forma seccamente imperativa, il fatto di essere state scritte su tavole di pietra, l'uso che ne fece Gesù (cfr. Mc. 10.19), il posto che hanno occupato nella vita del popolo d'Israele e nella chiesa cristiana, sono tutti elementi che spingono a chiederci se le dieci parole non restino anche per noi, nel mutare delle coscienze e del "comune senso del pudore", dei segnali di obbligo e di divieto, su cui siamo chiamati a riflettere e meditare, non per poter discutere piacevolmente fra di noi, ma per "osservarli diligentemente".

    (Credere e Comprendere, febbraio 1984)


     

    Due razzi lanciati dal Sinai su Israele

    Due razzi sparati dal Sinai egiziano sono esplosi stamane in territorio israeliano, in una zona aperta del Neghev occidentale, senza provocare danni né vittime. Lo ha riferito la radio militare. L'episodio, ha aggiunto l'emittente, sembra indicare una maggiore determinazione da parte dei miliziani islamici attivi nel Sinai di deteriorare la situazione sul confine fra Israele ed Egitto.

    (ANSAmed, 20 febbraio 2017)


    Israele scommette sulle soldatesse

    Israele torna a scommettere sulle sue soldatesse. Negli ultimi anni Tsahal (acronimo delle forze armate) ha aperto loro una gamma di nuovi incarichi, che in passato erano riservati solo ai maschi. Adesso Tsahal va ancora oltre e decide di affidare la difesa di confini a battaglioni misti, con combattenti femmine (in prevalenza) e maschi. "Le soldatesse combattenti sono tutte volontarie", ha fatto notare Mordechai Kahana, comandante dell'apparato di difesa dei confini delle combattenti sono 800. E nell'ultimo arruolamento si è registrato un ulteriore aumento delle volontarie. Entro la fine dell'anno raggiungeranno cosi la cifra record di 1100 e sarà allora possibile dislocare sul terreno un quarto battaglione misto.

    (ANSA, 20 febbraio 2017)


    Insediamenti, Gerusalemme e i due Stati, ecco i nodi che separano israeliani e palestinesi

    di Giordano Stabile

    BEIRUT - La conferenza stampa alla Casa Bianca fra il presidente americano Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha messo per la prima volta apertamente in discussione la soluzione "due popoli, due Stati" nelle trattative fra Israele e palestinesi. Ma i due leader non hanno proposto un'alternativa e il processo di pace vive una crisi senza precedenti. Che prospettive ci sono? Lo abbiamo chiesto a Hugh Lovatt, analista dell'European Council on Foreign Relations, e a Efraim Inbar, direttore del Begin-Sadat Center for Strategic Studies.

    - Il processo di pace rischia di interrompersi?
      Lovatt: «Se intendiamo quello che abbiamo visto a partire dal 1993, è la sua fine. Oslo è morto, ma non ci sono alternative ai "due Stati"».
      Inbar: «Il processo di pace di Oslo è morto in realtà nel 2007 quando Hamas ha preso il potere a Gaza e la leadership israeliana non ha più potuto fidarsi di quella palestinese. Tanto più ora che Hamas è in mano all'ala militare. Solo un cambio radicale della leadership palestinese può rilanciarlo».

    - Come siamo arrivati a questo punto?
      Lovatt: «Il processo di pace è stato utilizzato negli ultimi anni dalla leadership israeliana come una copertura per la politica di espansione degli insediamenti. Credo che Netanyahu sia stato meno che onesto quando diceva di credere alla soluzione "due Stati". Questo è avvenuto sotto la spinta della maggioranza dell'opinione pubblica israeliana. Dall'altra parte abbiamo una leadership palestinese debolissima, delegittimata, con in vista una difficile successione ad Abu Mazen».
      Inbar: «Non bisogna essere così pessimisti. La soluzione "due Stati" non è stata accantonata. È ancora possibile ma ad alcune condizioni irrinunciabili per Israele, prime fra tutte mantenere Gerusalemme unita e poter controllare la riva del Giordano dal punto di vista della sicurezza militare».

    - Crede che la nuova amministrazione Usa sosterrà in pieno questa svolta?
      Lovatt: «Non credo che gli Stati Uniti possano abbandonare la soluzione "due Stati". Le dichiarazioni dell'ambasciatrice all'Onu vanno già in questo senso. I "due Stati" sono indispensabili anche per mantenere le relazioni con gli alleati arabi».
      Inbar: «L'influenza degli Stati Uniti è importante ma non decisiva. La soluzione va cercata a livello regionale. Del resto anche i Paesi arabi, e il silenzio di queste ore lo dimostra, non vedono la questione palestinese come una priorità, per molti ormai Israele non è più un avversario, è un alleato indispensabile per contenere l'Iran».

    - Che cosa farà Israele?
      Lovatt: «Senza maggiori pressioni internazionali Israele continuerà la politica degli ultimi anni. Continuerà a espandere gli insediamenti e cercherà di dar loro una qualche cornice legale. Di fatto l'Area C della Cisgiordania è già annessa, anche se non credo che si arriverà a un passo formale».
      Inbar: «Israele può puntare prima di tutto a una pace "economica" con i palestinesi, fornire più aiuti, investimenti, trovare un modo di aggirare la cronica corruzione nelle istituzioni governate dall'Anp e migliorare la vita degli abitanti nei Territori».

    - Che cosa può fare la comunità internazionale?
      Lovatt: «È importante che insista sul rispetto del diritto internazionale. Bisogna far capire che gli insediamenti sono illegali e che il rapporto costi/benefici alla lunga è negativo per Israele, dal punto di vista della sua credibilità e anche economico».
      Inbar: «È meglio che non faccia nulla. Certe pressioni sono controproducenti: è impossibile realisticamente pensare di smantellare gli insediamenti ebraici. Serve un compromesso e anche i palestinesi devono fare i loro passi, per esempio abolendo la legge che punisce con la morte chi vende terreni a un ebreo».

    (La Stampa, 20 febbraio 2017)


    Accoglienza "sotto tono" per Netanyahu a Singapore

    GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è atterrato a Singapore questa mattina e si è recato al palazzo presidenziale dove ha incontrato il presidente Tony Tan Keng Yam. Il rafforzamento della cooperazione bilaterale nel settore della tecnologia, al fine di superare le sfide comuni, è stato uno dei temi affrontati nel corso dell'incontro. Nel corso della sua permanenza a Singapore, il capo del governo di Gerusalemme incontrerà il primo ministro, Lee Hsien Loong. Come riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", le autorità della città-stato hanno optato per una cerimonia di benvenuto dal basso profilo. Il paese teme infatti che la visita possa innescare rimostranze da parte delle vicine Malesia e Indonesia, entrambe nazioni a maggioranza musulmana. Netanyahu incontrerà inoltre la piccola comunità ebraica a Singapore, ma eviterà grandi apparizioni pubbliche, prosegue "Jerusalem Post". Israele ha assistito Singapore nella creazione del suo esercito nel 1965. Il primo ministro di Singapore ha ricordato l'importanza di questo legame in occasione di una visita all'Università ebraica di Israele, avvenuta lo scorso anno. Inoltre, come ricorda il quotidiano israeliano, i due paesi hanno progressivamente rafforzato i loro legami economici e commerciali, con numerose aziende high-tech di Tel Aviv che hanno deciso di porre le basi in uno dei principali centri finanziari dell'Asia. La visita iniziata oggi a Singapore, dove il premier israeliano resterà due giorni, proseguirà poi alla volta dell'Australia, dove Netanyahu giungerà mercoledì. Ieri, 19 febbraio, prima di intraprendere il viaggio verso Singapore e Australia, Netanyahu ha detto davanti ai deputati della Knesset che l'obiettivo della visita è "rafforzare i legami nel settore dell'economia e della sicurezza tra i due paesi". Circa 60 personalità rilevanti dell'Australia hanno firmato una petizione contro la visita di Stato di Netanyahu per protestare contro la politica di Gerusalemme nei confronti dei palestinesi. Sono attese manifestazioni di protesta a Melbourne, Sydney e Canberra.

    (Agenzia Nova, 20 febbraio 2017)


    "Odiavo Israele, poi un giorno ho capito. E ora dico la verità ai miei amici liberal"

    Il giornalista americano Hunter Stuart era filopalestinese. "I progressisti si sentono meglio a inveire contro lo stato ebraico”.

    da Jerusalem Post (17 /2/2017)

    Prima di trasferirmi a Gerusalemme, ero filopalestinese". Inizia così uno strepitoso mea culpa del giornalista americano Hunter Stuart sul quotidiano israeliano. "Quasi tutti quelli che conoscevo lo erano. Sono cresciuto in una cittadina politicamente corretta del New England; quasi tutti intorno a me erano liberal. Ed quando uno è liberal in America viene rifornito di un pantheon di valori: il pluralismo, la tolleranza e la diversità, i diritti dei gay, l'accesso all'aborto e il controllo delle armi. La convinzione che Israele stia ingiustamente opprimendo i palestinesi è parte di questo pantheon. La maggior parte dei progressisti negli Stati Uniti vedono Israele come l'aggressore che opprime i poveri nobili arabi che vengono brutalmente privati della libertà".
       Poi Stuart si è trasferito in Israele per vedere direttamente con i suoi occhi che cosa succede laggiù. "Meno di un mese dopo, nell'ottobre 2015, è iniziata un'ondata di attacchi terroristici palestinesi contro ebrei israeliani. In un primo momento, lo ammetto, non provavo molta simpatia per gli israeliani. A dire il vero, sentivo ostilità. Volevo scuoterli e dire: 'Smettete di occupare la Cisgiordania, fermata il blocco di Gaza, e i palestinesi smetteranno di uccidervi'. Come potevano non rendersi conto che tutta questa violenza era una naturale, anche se sgradevole, reazione alle azioni del loro governo? Quando la violenza è diventata qualcosa di personale ho cominciato a vedere la parte israeliana con maggiore chiarezza. Sono andato nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme est, per una storia che stavo scrivendo. Appena sono arrivato, un ragazzo palestinese mi ha gridato: 'Yehud!', che significa 'ebreo' in arabo. Immediatamente, un folto gruppo di suoi amici è corso verso di me con una scintilla terrificante negli occhi. Il mio cuore ha iniziato a battere. Ho gridato contro di loro in arabo: 'Ana mish Yehud! Ana mish Yehud!', non sono ebreo, non sono ebreo. Più e più volte. Ho detto loro, in arabo, che ero un giornalista americano e che 'amo la Palestina'. Si sono calmati. Più tardi, a una festa ad Amman, ho incontrato un ragazzo palestinese cresciuto a Silwan. 'Se tu fossi stato ebreo ti avrebbero ucciso', ha detto".
       Un giorno Hunter scopre che un amico di amici è rimasto vittima di un attentato. "L'uomo che era stato ucciso, Richard Lakin, era originario del New England, come me, e aveva insegnato inglese ai bambini israeliani e palestinesi a Gerusalemme. Credeva nella pace con i palestinesi. Al contrario, i suoi assassini, che venivano da un quartiere della classe media a Gerusalemme est, erano stati pagati per prendere d'assalto l'autobus. Più di un anno dopo, è ancora possibile vedere le loro facce a Gerusalemme sui manifesti dei martiri".
       Allora Hunter ha cambiato prospettiva. "I liberal, i gruppi per i diritti umani e la maggior parte dei media hanno continuato a incolpare Israele per gli attacchi che subiva. Ban Ki-moon, il capo delle Nazioni Unite, disse che era 'parte della natura umana reagire all'occupazione'. Analogamente, il modo in cui le ong, i leader europei e altri hanno criticato Israele durante questa ondata di attacchi terroristici ha cominciato a darmi fastidio sempre di più. Quando Israele ha minacciato di spostare le serre palestinesi, come è stato fatto nel villaggio cisgiordano di Sussiya, questa storia ha fatto i titoli dei media internazionali per settimane. L'indignazione liberal era infinita. Eppure, quando il presidente egiziano ha usato ruspe e dinamite per demolire un intero quartiere nella penisola del Sinai, la gente a malapena lo ha notato. Da dove vengono questi doppi standard? Il conflitto israelo-palestinese si rivolge agli appetiti dei progressisti in Europa, Stati Uniti e altrove. Lo vedono come il mondo bianco che opprime un povero, terzo mondo. Per un osservatore occidentale la differenza tra un alawita e un sunnita è troppo sottile per essere facilmente riassunta su Facebook. Sfortunatamente per Israele, i video sui social media che mostrano i soldati ebrei finanziati dagli Stati Uniti che lanciano lacrimogeni sui musulmani è un intrattenimento da Hollywood e gratifica la narrativa liberal per cui i musulmani sono oppressi e Israele è l'oppressore. Ho incontrato un vecchio amico del college, mi ha detto che un ragazzo che aveva conosciuto quando eravamo matricole era attivo nelle proteste palestinesi. Il fatto che un ragazzo intelligente, ben istruito del Vermont, che era andato a una delle migliori scuole negli Stati Uniti, avesse viaggiato migliaia di chilometri per tirare sassi ai soldati israeliani era molto, molto eloquente".
       Hunter ha assunto una nuova prospettiva sul conflitto: "Semplicemente i palestinesi non si accontenteranno di una soluzione a due stati, quello che vogliono è tornare alle loro case ancestrali a Ramle e Giaffa e Haifa e in altri luoghi all'interno della Linea verde. E vogliono che gli israeliani che ci vivono se ne vadano. Non parlano di coesistenza; ma di espulsione, di riprendere la 'loro' terra. Conosco molti ebrei israeliani che sono disposti a condividere la terra con i palestinesi musulmani, ma per qualche ragione trovare un palestinese che la pensi allo stesso modo è quasi impossibile. Finché le potenze occidentali e le ong e i progressisti negli Stati Uniti e in Europa non riusciranno a condannare gli attacchi palestinesi contro Israele, il conflitto crescerà e altro sangue sarà sparso. Sono tornato negli Stati Uniti e vivo a Chicago in una enclave liberal in cui la maggior parte delle persone - tra cui gli ebrei - sostengono uno stato palestinese. Non sono più convinto che sia una buona idea. Se i palestinesi avessero il loro stato in Cisgiordania, chi può dire che non eleggerebbero Hamas? Se avessero il controllo della Cisgiordania e della metà di Gerusalemme sarebbe un suicidio. E a nessun paese si può chiedere di acconsentire alla propria distruzione".
    Neppure a Israele.

    (Il Foglio, 20 febbraio 2017)


    Porta a tavola il fungo "criniera di Trump"

    Nuove verdure dall'Arava, zona desertica di Israele allungata tra Mar Morto e Mar Rosso: zucche amare, spinaci giganti e miceti pelosi dedicati al presidente Usa. Nate in un clima arido hanno proprietà particolari, dalle vitamine alla resistenza.

    di Fabiana Magrì

    Soluzioni creative e tecnologica- mente avanzate per l'agricoltura e l'acquacoltura del futuro La coordinatrice dell'orticoltura: «Condizioni estreme, si lavora da agosto ad aprile»

     
    La zucca amara
    Ha forma oblunga e scorza esterna verrucosa. La polpa contiene fosforo, ferro, calcio, vitamine A, B e C, betacarotene e potassio
     
    Gli spinaci Gulliver
    Foglie giganti, capaci di resistere in frigorifero per settimane. Le foglie più piccole hanno un sapore più dolce come quello dei piselli
     
    Il fungo criniera di Trump
    Forma sferica, colore chiarissimo, superficie pelosa. Molto aromatico: fritto a lungo ricorda il sapore dei crostacei
     
    I peperoni minl&maxi
    Sono le verdure maggiormente esportate all'estero: i russi li vogliono grandi, gli inglesi invece li preferiscono piccoli
    TEL AVIV - Zucche amare, spinaci giganti e funghi pelosi: non sono ingredienti per una pozione magica ma nuovi esemplari di frutta e verdura che presto potrebbero essere disponibili sui banchi di mercati e supermercati d'Europa e nei menu dei ristoranti stellati.
    La provenienza di questi prodotti agroalimentari sorprende tanto quanto le loro forme insolite e i sapori inattesi: è l'Arava, una regione desertica di Israele che si allunga per 180 chilometri dall'estremità meridionale del Mar Morto a Eilat sul Mar Rosso, lungo il confine con la Giordania. La sola Regione dell'Arava produce il 60% delle verdure e il 10% dei fiori recisi che Israele esporta per il 55% in Russia, per il 40% in Europa e per il 5% negli Stati uniti.

     Caratteristiche
      Ogni anno il Centrai & Northern Arava-Tamar R&D presenta ai produttori locali, ben il 90% della popolazione, i risultati di nuove ricerche affinché possano essere competitivi sui mercati internazionali. «Qui viviamo e coltiviamo in condizioni estreme. non ci sono i presupposti per applicare l'agricoltura organica - spiega Maayan Plaves Kitron, coordinatrice del dipartimento di orticoltura - e non c'è tempo per seguire il ciclo naturale. Possiamo seminare a partire da agosto e raccogliere fino ad aprile, poi fa troppo caldo. Inoltre il suolo in partenza è così povero che dobbiamo nutrirlo e provvedere, con l'irrigazione, alla somministrazione di tutto ciò di cui ha bisogno. Alla fine di ogni stagione sterilizziamo i terreni, li riportiamo allo stato vergine e ricominciamo il ciclo».
    Il Centro ha Io scopo di trovare soluzioni creative, tecnologiche o innovative a problemi già esistenti in alcune zone del pianeta e in previsioni di future necessità. Il binomio opportunità di business e innovazione tecnologica ha attirato l'attenzione del direttore Studi e Ricerche per il Mezzogiorno di Banca Intesa Sanpaolo, Massimo Deandreis, in visita in Israele per acquisire dati nei settori agroalimentare e marittimo. «I nostri sono studi operativi per far scoprire agli investitori italiani nuove opportunità di partnership in quei settori di particolare interesse economico per il Mezzogiorno».

     Raccolta
      Ecco allora le novità attese per il 2017. La zucca amara, un rampicante tropicale della stessa famiglia di cetrioli, zucchine, cocomeri e meloni, ha una forma oblunga e una scorza esterna verrucosa. Meglio raccoglierlo e mangiarlo acerbo, quando ancora il colore è verde o appena ingiallito. Man mano che il frutto cresce, la polpa si fa più amara ma contiene fosforo, ferro, calcio, vitamine A, Be C, betacarotene e potassio e alcuni studi sostengono che abbia effetti simili a quelli dell'insulina, regolando quindi i livelli di zucchero nel sangue nei diabetici. Gli spinaci "Gulliver" hanno foglie giganti e sono capaci di resistere in frigorifero per settimane. Le foglie più piccole sulla parte superiore della pianta hanno un sapore più dolce, che ricorda quello dei piselli. Il vero protagonista della nuova produzione è il fungo "criniera di Trump" in onore (o per prendersi gioco) del Presidente Usa: forma sferica, colore chiarissimo e superficie pelosa. Molto aromatico, dopo prolungata frittura il fungo prende un sapore che richiama i crostacei, in particolare l'aragosta, suscitando grande curiosità, interesse e aspettative nei sostenitori dei regimi alimentari vegetariani, vegani e kosher. I peperoni sono le verdure maggiormente esportate dai coltivatori della Regione dell'Arava, che conoscono bene preferenze e abitudini di mercati diversi: i Russi vogliono i peperoni grandi mentre gli Inglesi preferiscono quelli di taglia piccola. Al Centrai & Northern Arava-Tamar R&D si ricercano anche tecniche alternative di coltivazione. Camminando tra campi e serre si possono osservare, ad esempio, piante di riso coltivate con l'irrigazione a goccia invece che allagando il terreno (con evidente risparmio di acqua) oppure fragole e fiori il cui riscaldamento e raffreddamento sono concentrati verso le sole radici invece che estendersi a tutta la serra (per un risparmio energetico notevole). Non solo agroalimentare. L'acquacoltura è un settore assolutamente eccezionale e caratteristico dell'Arava. Oggi sono molte le aziende agricole locali che allevano ed esportano i "Nemo", come qui chiamano affettuosamente i pesci ornamentali (pesci rossi, angelo e pagliaccio) che in meno di 24 ore possono partire dal deserto israeliano per raggiungere in aereo i negozi di animali di tutta Europa.

    (Il Messaggero, 20 febbraio 2017)


    Il fascista che ospitò una famiglia di ebrei

    di Mariano Mariucci

    PERUGIA - In piazza Garibaldi, poi ribattezzata Matteotti, ad angolo fra via Oberdan e via Baglioni, esisteva una macelleria di certo Bacco. Un giorno dell'autunno 1943, ad invasione tedesca in corso, mio padre trovò piangente in tale macelleria un cittadino italiano di fede ebraica; tale Aldo, perugino, sposato, padre di tre figli e proprietario di un negozio di stoffe nei paraggi. Motivo della sua più che comprensibile disperazione le persecuzioni nazifasciste in corso nei confronti degli ebrei. Mio padre, «marcia su Roma» (a 17 anni) e quindi fascista, ancora ignaro, ma così reso edotto della gravità della situazione, lo rincuorò assicurandogli alloggio a casa nostra: «tanto da noi non vi da noia nessuno».
       Ospitammo così, per vari giorni, sia lui sia sua moglie. Quando lo stesso, avvicinandosi il fronte, ritenne di cambiare rifugio, nell'accomiatarsi pose sul tavolo diverse banconote e dovette insistere perché i miei genitori le accettassero. Subito partiti, io ed i miei genitori ci guardammo non sorpresi, ma addirittura sbalorditi per un compenso al quale i miei non avevano di certo mirato anche se poi certamente apprezzato. La nostra convivenza era stata moderatamente e civilmente animata dall'esposizione dei nostri diversi punti di vista specie sulle vicende militari in corso; era di quei giorni lo sbarco degli alleati a Napoli.
       Nel giugno '44 mio padre, per altra meno cauta generosità, avrebbe poi subito un'aggressione da parte di due soldati della Wehrmacht che lo lasciarono tramortito sui sampietrini di Piazza Garibaldi; solo tramortito perché l'impugnatura di una loro pistolmachine, con la quale tentarono di fracassargli il cranio, andò in pezzi colpendo il selciato anziché la sua testa. Io, in calzoncini corti, venni poi intercettato in fondo a via del Bucaccio da un SS che mi strllò: «alt, arbeiten!» e con la solita pistolmachine mi convinse a partecipare al minamento del ponte di via XX settembre su via del Cavallaccio; minamento che non ebbe il fragoroso seguito in quanto i proprietari della prospicente villa Brutti avrebbero trovato, nel corso di una cena, il modo per fare emergere quel «buono» che anche i rigidi soldaten covavano in fondo al cuore (senza però darlo a vedere).
       Passato il fronte malgrado anche i vecchi richiami scritti rivolti a mio padre dal Gruppo Rionale Fascista Arturo Barillaro per la sua non partecipazione alle riunioni del sabato fascista, questi subì un periodo di epurazione con sospensione dal lavoro e dallo stipendio senza altri danni. Forse la stessa sorte che gli sarebbe toccata se altri avessero vinto date le sue vere amicizie bipartisan.
       Da quel settembre '43 grazie alle nuove esperienze mi sono sentito sempre più in debito con la comunità israelitica e, in ultimo, sempre più vicino a quella trincea costituita da Israele a difesa della civiltà occidentale; un avamposto dell'Europa che tanti vorrebbero trasformare, sembra, in una Giarabub.

    (il Giornale, 20 febbraio 2017)


    Lo sviluppo della Palestina

    Il direttore del mensile evangelico "Il Cristiano" ha gentilmente accettato di metterci a disposizione notizie o articoli di nostro interesse che potrà trovare nelle sue ricerche d'archivio. Lo ringraziamo fraternamente e cominciamo col riportare due brevi notizie. NsI

    GIUGNO 1910

    L'ultimo Congresso Sionista che ebbe luogo ad Amburgo, fu animatissimo stante la discussione della prossima decisione a prendere riguardo ai preparativi pel ristabilimento della nazione. Vi si annunziò che era principiato un corso d'istruzione pratica di operai ebrei, per renderli atti ai lavori dell'agricoltura; e che le banche coloniali giudaiche, fondate specialmente per la colonizzazione della Palestina, progrediscono soddisfacentemente. Attualmente vi è una immigrazione di Giudei dalla Persia, ed ogni vapore da Odessa ne porta delle centinaia alla Terra Santa.
    La valle del Giordano è la regione preferita dai capitalisti ebrei; quivi il valore deì terreni si è quadruplicato, e già quasi tutta la pianura di Esdraelon, anticamente fertilissima, è divenuta possessione d'Israele. Gerusalemme ha l'aspetto d'una città Giudaica, essendo le banche, i negozi ed il commercio in generale nelle mani dell'antico popolo. Perfino una squadra di polizia giudaica è stata formata dal governo turco. Per mezzo dei soccorsi indirizzati continuamente alla Palestina dai connazionali d'Europa e d'America, i colonisti costruiscono case, scuole ed ospedali. Essi hanno già più di 100 scuole solo in Gerusalemme, e la conoscenza della lingua ebraica diventa generale, essendo anche obbligatoria. Dappertutto si edificano delle sinagoghe.
    Fra i progetti sottomessi all'approvazione del Governo turco sonvi i seguenti: Un nuovo acquedotto per Gerusalemme dalle sorgenti di Ain Arrub; tramvie e luce elettrica a Gerusalemme e Giaffa (Joppe); la costruzione d'uno scalo nel porto di questa città, del quale c'è grande bisogno e fino al quale si prolungherebbe la ferrovia Gerusalemme Giaffa; nuove ferrovie da Giaffa a Gaza ed alla frontiera dell'Egitto e da Gerusalemme a Es Salt (cioè Edom) per raggiungere la linea già ora aperta da Damasco alla Mecca.

    *
    SETTEMBRE 1910
    Palestina

    Dopo la Costituzione proclamata dal governo turco, le porte di Gerusalemme si sono aperte al popolo d'Israele. La popolazione di Gerusalemme è ora di 100.000. di cui 80.000 sono ebrei. Migliaia d'Israeliti trovansi in Jaffa, Tiberiade, Monte Carmel, ecc., mentre vi sono delle colonie da Dan fino a Beerseba. Nella città stessa di Gerusalemme tutto il commercio, tutta la proprietà, tutte le banche sono nelle mani degli Ebrei. L'agricoltura comincia a fiorire, ed il popolo a prosperare. Tutto ciò è un gran segno dei tempi.

    (Notizie su Israele, 20 febbraio 2017)


    Da Israele ai sauditi, tutti contro l'Iran. "Mina la stabilità del Medio Oriente"

    Teheran respinge le accuse: basta attacchi, pretendiamo rispetto

    di Alessandro Alviani Monaco

    I Guardiani della rivoluzione sono una organizzazione terroristica L'Iran è un grande sponsor del terrorismo. E un caso che l'lsis non l'ha colpito? Non produrremo armi nucleari, non serviranno alla nostra sicurezza

    Alla fine non si sono seduti intorno allo stesso tavolo: il pane! che ieri alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco avrebbe dovuto riunire il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, quello degli Esteri saudita Ade! bin Ahmed Al-Jubeir e il capo della diplomazia iraniana Mohammad Javad Zarif è stato sostituito da dichiarazioni separate. Anche così, però, dall'evento è arrivata la conferma del legame tra Israele e Arabia Saudita in funzione anti-Iran.
       I messaggi di Lieberman e Al-Jubeir sono speculari. Se il primo accusa Teheran di portare avanti «sforzi per minare la stabilità in tutti i Paesi del Medio Oriente», avendo come «obiettivo principale l'Arabia Saudita», Al-Jubeir rilancia poco dopo: «L'Iran è determinato a capovolgere l'ordine in Medio Oriente».
       Se Lieberman certifica che «per la prima volta dal 1948 il mondo arabo moderato, il mondo sunnita ha capito che la più grande minaccia per lui non è Israele, gli ebrei o il sionismo, bensì l'Iran e i suoi emissari», definisce i Guardiani della rivoluzione iraniana «la più grande, potente, brutale e sofisticata organizzazione terroristica del mondo» e Qasem Soleimani (il capo della Forza Quds) «il terrorista numero uno al mondo», Al-Jubeir alza il tiro e accusa l'Iran di essere «il più grande sponsor statale del terrorismo nel mondo» e solleva l'interrogativo del perché sia «l'unico Paese nella regione che non è stato attaccato da Isis o Al Qaeda».
       E se Al-Jubeir - che invita a mostrare a Teheran dei chiari limiti invalicabili e tira in ballo l'ipotesi di restrizioni su banche, viaggi e commerci - respinge la proposta di Zarif di un «modesto forum regionale di dialogo nel Golfo» aperto ai «Paesi che chiamiamo fratelli nell'Islam» ( «come dovremmo interagire con uno Stato che vuole distruggerci?», ribatte Riad), Lieberman lancia la controproposta di una «coalizione dei moderati in Medio Oriente per superare le tendenze radicali», visto che «oggi la vera frattura in Medio Oriente non è tra ebrei, musulmani e cristiani, bensì tra moderati e radicali». Una linea, quella israelo-saudita, abbracciata a Monaco dal ministro degli Esteri turco Mevlùt Cavusoglu, per il quale «la politica settaria dell'Iran mina la situazione» nella regione.
       Zarif respinge poi le minacce di nuove sanzioni arrivate da Trump: non ci smuovono, serve rispetto reciproco, reclama. «Non produrremo nessun'arma nucleare. Punto», chiarisce. «Crediamo che le armi nucleari non aumentino né la nostra sicurezza, né quella di qualcun altro». Parole che non convincono Lieberman (l'accordo sul nucleare iraniano «è un copia-incolla di quello con la Corea del Nord, abbiamo visto i risultati lì»), né Washington: da Monaco il senatore repubblicano Lindsey Graham annuncia che sta preparando un'iniziativa per prolungare le sanzioni contro Teheran.
       E mentre Al-Jubeir, malgrado tutto, si dice «molto ottimista» sull'amministrazione Trump, Lieberman spiega che la sua visione per risolvere il conflitto israelo-palestinese è la soluzione a due Stati, che dovrebbe comprendere lo scambio di territorio e popolazione ed essere siglata contemporaneamente a un accordo regionale complessivo col mondo arabo.

    (La Stampa, 20 febbraio 2017)


    Berlino città aperta, ora anche per gli ebrei

    Sono tra i ventimila e i trentamila in tutta la capitale tedesca: prevalentemente giovani e di buone letture, che cominciano a sentirsi un po', stretti in Israele.

    di Roberto Brunew

    Come vede, qui ci sono anche dei tedeschi", sorride un signore biondo che corre lungo la Sonnenallee. Ormai è una battuta, qui a Neukoelln. Alzi lo sguardo, e vedi una signora velata di nero che avanza frettolosamente mentre tiene per mano i suoi bambini. Macellerie "halal", negozi con abiti matrimoniali con dei niqab in vetrina, profumi di kebabari che si confondono in maniera strana con il freddo pungente di un febbraio sotto la media, poi ancora pasticcerie turche e café libanesi, ragazzi siriani che fumano in silenzio seduti su un muretto davanti all'edicola, ma anche venditori di "Bockwurst", la salsiccia tedesca più tedesca che ci sia. Ci sono 139 mila abitanti a Neukoelln, il quartiere più multiculturale di Berlino. Una città nella città. Di questi, circa 65 mila vengono da paesi di cultura islamica. Per qualcuno è il nuovo paradiso dell'incontro dei popoli e delle religioni, per altri una sorta di banlieue di frontiera, un misto tra il Bronx e il Cairo. Per i simpatizzanti della destra estrema, è più o meno l'inferno. Per artisti, intellettuali, filosofi" à la page" e studenti, un paradiso. Con qualche problema, ma un paradiso. Uno strano incrocio di realtà - o stereotipi, dipende dai punti di vista - in apparenza così lontani tra loro: la confusione mediterranea e il proverbiale ordine teutonico, gli odori levantini e il bus in perfetto orario, l'hummus e la birra.

     Il meltin' pot di Neukoelln
      Non lontano dalla Sonnenallee c'è il Café Gordon. Lo gestiscono Doron Eisenberg e Nir Ivenizki. Esatto. Il loro nome non vi trae in inganno: sono ebrei, ovviamente. Il Café Gordon, che deve il suo nome ad una strada di Tel Aviv, potresti immaginartelo bene a New York, e invece sta qui a una manciata di passi da un'associazione palestinese. È una delizia per il vero hipster: oltre a offrire le caratteristiche pietanze come la Shakshuka, il Sabih o il Bouerkas, il tutto innaffiato da Ginger Aie, oppure una specie di cioccolata vegana, qui si viene per ascoltare musica elettronica, volendo persino in vinile. Sostanzialmente, si tratta di un negozio di dischi, anche se sui generis. E forse non è poi una scoperta così sorprendente trovarlo qui, in questa specie Neo-Arabia germanica. "Perché il numero di ebrei che hanno deciso di trasferirsi a Neukoelln è in continua crescita", come ci spiega Alekos Hofstetter, un artista berlinese molto attento a tutte le evoluzioni e contorsioni sociali della sua città. "Soprattutto giovani, certo, attirati dagli affitti ancora relativamente bassi". L'attrattiva non è solo Berlino in quanto città, al momento, più "trendy" d'Europa. Non sono solo le gallerie d'arte, i locali alternativi di Prenzlauer Berg o i bar di Kreuzberg, ritrovo della Bohème e, un tempo, dei punk tedeschi. Non solo i musei di Mitte e il fascino strano delle vestigia del Muro che aveva diviso in due la città e il mondo intero. Per quanto possa sembrare paradossale, è proprio Neukoelln il magnete più forte. Una questione di atmosfera. Il cibo, i locali, i sapori. "Qualcosa che assomiglia al mondo da cui vengono. Qualcosa che, straordinariamente, li fa sentire più vicino casa", spiega Hofstetter. Il che, inutile negarlo, fa ancora più impressione quando l'occhio ti cade sulle "pietre d'inciampo", che anche qui ricordano i nomi delle vittime dell'orrore nazista: ebrei, certo, ma anche rom e sinti, attivisti socialdemocratici, sindacalisti, uomini di chiesa tra gli altri. Una mostra, aperta da poco, racconta le loro storie, proprio al Municipio di Neukoelln. E non è un caso. "È una cosa straordinaria che siamo qui, no?", esclamava il rabbino ortodosso Jehuda Teichtal, invitato di recente dai giornalisti della Zeit a farsi un giro per il quartiere, giust'appunto lungo la Sonnenallee. Il suo entusiasmo ha un senso che si può comprendere bene, nella città dove il bunker di Hitler (completamente ricostruito) è diventato una delle più richieste attrazioni turistiche. In realtà, qualche problema il buon rabbino Teichtal l'ha avuto: sguardi di ghiaccio, una donna che sputa per terra al suo passaggio, qualche giovane in macchina che gli grida "ebreo" dal finestrino abbassato. Qualcuno penserà che passare di qui vestito da ortodosso, il che per Teichtal ovviamente non è una scelta, sia una sorta di provocazione. Qualcun altro ci racconta che molti ebrei portano un cappellino da baseball sopra la kippah. "La polizia ha segnalato che l'anno scorso a Berlino ci sono stati oltre 170 atti penalmente rilevanti a sfondo antisemita, la maggior parte messi in atto da estremisti di destra. Quasi tutti si sono verificati a Mitte, in centro, molti meno a Neukoelln o Spandau": così scrive sempre la Zeit.

     Il caso del libro di Armin Langer
      Com'è, come non è, mentre Parigi vive una sorta di piccolo esodo di cittadini d'origine israelitica dopo gli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan, Berlino registra una controtendenza. Ventimila, trentamila in tutta Berlino. Prevalentemente giovani e di buone letture, che cominciano a sentirsi un po' stretti in patria, anche grazie alla politica aggressiva di Netanyahu. Spesso ragazzi creativi, come quelli che si erano inventati, un po' di tempo fa, la pagina Facebook Olim Le Berlin, giocato su un gioco di parole provocatorio, fatta apposta per incoraggiare la migrazione verso la capitale tedesca invece che verso Israele. Cosa che ha fatto infuriare più d'uno, in patria.
      Certo, poi ci sono dei casi a parte. Uno di questi è Armin Langer. Ha scritto un libro, di cui si è molto discusso in Germania, dotato di un titolo ovviamente programmatico: Un ebreo a Neukoelln. Anche lui è considerato una specie di provocatore. Qui, in questo quartiere, il ventiseienne ha varato l'iniziativa "Salaam-Shalom", pensata per favorire il dialogo tra le religioni. Lui nega con decisione che queste strade siano una "no-go area" per ebrei, come ripete qualcuno. Della sua associazione fanno parte anche persone di credo islamico, atei, cristiani. Tempo fa ha organizzato una catena umana, con tanto di canti. Pare che sia stata una bella festa. Ma c'è chi non vede di buon occhio la sua iniziativa.
      Gli dicono che vuole banalizzare un problema grave come l'antisemitismo di stampo islamico. Raccontano di bambini israeliani che subiscono le vessazioni dei compagni di famiglie musulmani appena rivelano di essere ebrei. "Ma il 98 per cento degli assalti a ebrei viene da estremisti di destra", ribatte lui. "A molti interessa più stigmatizzare i musulmani che difendere gli ebrei". Ungherese, con un breve passato di studi rabbinici, Armin sostiene che "qui gli ebrei non stanno peggio che a Charlottenburg'', l'elegante quartiere borghese di Berlino.
      Anche Daniel è ebreo. La sua famiglia, racconta, è originaria della Polonia. Lui è nato e cresciuto in Israele. Non osiamo chiedergli che fine hanno fatto i suoi nonni. Lui è entusiasta del clima che si respira a Neukoelln. "Io mi sento benissimo qui. Vorrei istituire delle gite organizzate per il quartiere. Funzionerebbero alla grande". Studia all'università e trova che "è tutto molto pacifico" in queste strade, tra Hermannplatz e la Karl-Marx-Strasse. Però qualcuno ha soprannominato Neukoelln "la Striscia di Gaza". Sbagliatissimo, dice lui. "Qui non ci sono barriere che dividano gli abitanti", taglia corto Daniel.
      C'è chi pensa che Neukoelln sia una specie di laboratorio. Un luogo dove sperimentare quello che la Germania potrà essere in un futuro neanche tanto lontano. "Con i suoi lati belli e quelli brutti", commenta l'autore Thomas Lindemann sulla Faz. "Se esiste una New York tedesca, allora è questa", è la sua tesi.

     Una "storia di successo" malgrado i disoccupati
      In effetti, secondo un recente sondaggio, l'80 per cento degli abitanti di questa strana città-quartiere dice di trovarsi a proprio agio. C'è chi viene discriminato? Sì, soprattutto donne prese a male parole per il fatto di portare il velo. E ancora: "La maggioranza delle persone interpellate mostra un atteggiamento tollerante nei confronti delle persone di altre religioni o di altra origine etnica, così come nei confronti delle minoranze sociali". Un risultato a suo modo incoraggiante, nel paese che tra 2015 e 2016 ha visto entrare sul suo territorio circa un milione di migranti.
      Persino la criminalità - che pure non manca, ovvio - ha un che di epico, a Neukoelln: fa già un gran parlare di sé una superfiction qui ambientata - andrà in onda da maggio - che qualcuno ha già definito la "Gomorra" tedesca (la serie, non il libro).
      Un laboratorio, si diceva. Gli abitanti del quartiere vengono da 160 paesi diversi. Persino l'autorevole Foreign Policy se n'è occupato, definendo questo strano quartiere una "success story'', e questo nonostante che il 15 per cento dei suoi abitanti sta nelle liste di disoccupazione: tre punti più della media nazionale, va detto. Certo, un ruolo non secondario in tutto questo lo gioca il welfare tedesco: un posto all'asilo qui ce l'hanno tutti, anche chi ha mezzi modesti.
      Per quanto riguarda l'atmosfera di Neukoelln, oltre ai kebabari libanesi e i chioschi turchi, una parte importante ce l'hanno anche i "cool kids" israeliani, come li chiamano i giornalisti americani. Ragazzi che non considerano più un'opzione troppo ragionevole andare, per dire, in Ungheria, dove l'antisemitismo sta conoscendo un ritorno di fiamma. Anche Daniel si considera un "cool kid", questo è chiaro. Trova piacevole la confusione di Neukoelln. E quando ha bisogno di un prodotto di elettronica, lo compra in un negozio che si chiama "Al Aqsa Elektro". Sì, Al Aqsa, come la moschea di Gerusalemme. È gestito da palestinesi. "Ovviamente quando sono lì dentro non mi metto a gridare che sono ebreo".

    (il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2017)


    Sono molti, probabilmente la maggioranza, gli ebrei che hanno una gran voglia di mescolarsi agli altri e scolorire la loro presenza in mezzo a loro. Non è nuovo e non è strano, ma questo non cambia i fondamenti di ciò che è il popolo ebraico. E certamente non rende più rosee le previsioni sui prossimi appuntamenti con la storia. M.C.


    Oren David, ambasciatore di Israele presso la santa sede in visita anche a Fiuggi

    TRIVIGLIANO - Martedì 21 febbraio sua eccellenza Oren David, Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, ospite della Fondazione Levi Pelloni, sarà a Trivigliano per visitare il Museo della Civiltà contadina e la costituenda Biblioteca della Shoah-Il Novecento e le sue Storie presso la Casa della Memoria nel restaurato Palazzo Ascani. Seguirà poi la visita al Ghetto ebraico di Anticoli, l'odierna Fiuggi dove, salutato da una rappresentanza dell'associazionismo locale, riceverà in dono una copia della Menorah di Anticoli (sec. XV) opera dello scultore Luigi Severa.
        E' bene ricordare che la scoperta della Menorah di via del Macello e della Mezuzah di via del Murello (sec. XII) hanno fatto di Fiuggi la città capofila dell'Ebraismo del Basso Lazio. Le comunità di Trivigliano e Fiuggi, come quelle di molti paesi della Ciociaria, si sono distinte negli anni 1938-1945 nel dare ospitalità e soccorso a cittadini di religione ebraica braccati dai nazisti. Diversamente che in Europa orientale e centrale, in Italia e a Roma non c'era odio verso gli ebrei.
        Questo può spiegare la più favorevole percentuale di sopravvissuti, tanto da far dire al rabbino Toaff che nel nostro Paese "vi fu antisemitismo di Stato e non di popolo". Numerosi cittadini italiani di religione ebraica trovarono rifugio a Fiuggi presso la Pensione Littoria (oggi Villa Gaia) di Costantino Ambrosi e della famiglia Sabene e nelle case di contadini della contrada San Rocco. Questi "giusti" anticolani furono Maria Luisa D'Amico, Marcello Fiorini e Virginia Pomponi. Gli ebrei ospitati: Settimio Sabatello con la moglie Letizia, Cesare Sabatello, Lello Di Veroli, Marco Piperno e Alberto Shummach con la moglie Rosina e la figlia Elvy, una famiglia romana di commercianti. ~~Altri ebrei, soprattutto romani, vennero accolti ed aiutati anche a Trivigliano nelle case di Amarilide Avoli, Fernanda e Maria Pia Lattanzi e Fermina Lattanzi-Severa, tra loro l'attore Fiorenzo Fiorentini con la madre e la sorella. Ad Acuto vanno ricordate le suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue per il loro aiuto agli ebrei perseguitati, tanto da meritarsi il titolo di Giusti.

    (Ciociaria notizie, 19 febbraio 2017)


    Usa, Israele e Arabia Saudita: "L'Iran è il nemico comune"

    di Daniel Reichel

     
    Avigdor Lieberman e Sergey Lavrov
    Quali sono le tre minacce più serie per il Medio Oriente? "L'Iran. L'Iran. L'Iran". Così il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman (nell'immagine in Germania con il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov) ha aperto il suo discorso alla Conferenza sulla Sicurezza in corso a Monaco di Baviera. "Per la prima volta dal 1948 - ha spiegato il ministro israeliano, facendo riferimento alla fondazione dello Stato ebraico - il mondo sunnita […] capisce che la più grande minaccia per loro non è Israele […] ma l'Iran". E che un nuovo orizzonte si sta delineando in Medio Oriente, l'aveva confermato più volte il Primo ministro Benjamin Netanyahu, che nel suo ultimo discorso alle Nazioni Unite lo scorso settembre aveva parlato di un mondo arabo in cambiamento.
       Per la prima volta nella mia vita, molti altri stati della regione - aveva dichiarato allora Netanyahu, che aveva già citato Egitto e Giordania, con cui Gerusalemme ha firmato accordi di pace - riconoscono che Israele non è il loro nemico. Riconoscono che Israele è il loro alleato. I nostri nemici comuni sono l'Iran e l'Isis. I nostri obiettivi comuni sono la sicurezza, la prosperità e la pace. Credo che nei prossimi anni lavoreremo insieme per raggiungere questi obiettivi e collaborare apertamente". Una collaborazione che vede in primo piano l'alleato storico d'Israele, gli Stati Uniti: nelle scorse ore il Premier ha riferito al gabinetto di sicurezza del suo incontro a Washington con il presidente Usa Donald Trump. "L'alleanza tra Israele e gli Stati Uniti è sempre stata salda, ma, l'ho detto lì (a Washington) e lo ripeto qui a Gerusalemme: questa alleanza è diventata ancora più forte", ha affermato Netanyahu parlando ai suoi ministri. Il Premier ha spiegato che Trump condivide le preoccupazioni sull'Iran "e la necessità di far fronte alle aggressioni iraniane sotto diversi aspetti". "Vediamo anche la possibilità di provare a fornire una base comune per i crescenti interessi regionali che si stanno formando attorno a Israele, Stati Uniti e ai paesi della regione per respingere l'Iran e per sviluppare altre opportunità e la normalizzazione dei rapporti. Alla fine, speriamo di raggiungere la pace", le parole di Netanyahu.
       A dare indirettamente ragione alle parole di Lieberman e Netanyahu, quanto affermato da Adel Al jubeir, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita che da Monaco ha accusato l'Iran di "essere il più grande sponsor mondiale del terrorismo". "L'Iran è il solo Paese della regione a non essere stato attaccato da Daesh (l'Isis) o da Al Qaeda. C'è da chiedersi il perché". L'interrogativo posto dal ministro saudita. Prima di lui aveva parlato il collega iraniano, Mohammed Zarif sostenendo che Teheran non ha intenzione di costruire una bomba nucleare e al contempo aprendo al dialogo con gli altri paesi della regione, ovviamente Israele esclusa ("solo con i paesi fratelli di Islam", le sue parole). A rispondergli, il membro della Knesset Tzipi Livni, in gara per una nomina alla vicepresidenza delle Nazioni Unite: "assurdo che Zarif, ministro degli esteri dell'Iran che sostiene il terrorismo, finanzia Hezbollah e attacca l'Europa, abbia così tanta legittimazione".

    (moked, 19 febbraio 2017)


    Apple ha comprato RealFace, specializzata nel riconoscimento facciale

    La Casa di Cupertino ha acquisito RealFace, una startup israeliana specializzata nel riconoscimento facciale

    di Mauro NotariannI

    Apple ha acquisito RealFace, una startup di Tel Aviv specializzata nel riconoscimento facciale che ha sviluppato una tecnologia che consente di autenticare l'utente con il volto. Lo riporta l'israeliano Times Of Israel stimando l'importo pagato da Apple in 2 milioni di dollari.
    Realface è stata fondata nel 2014 da Adi Eckhouse Barzilai e Aviv Mader. I due hanno sviluppato un software di riconoscimento dei volti utilizzabile nell'ambito dell'autenticazione biometrica, un meccanismo che rende superfluo l'uso di password per accedere a varie funzioni del proprio dispositivo.
    Stando a quanto riporta Startup Nation Central, database delle compagnie hi-tech israeliane, l'azienda con sede a Tel Aviv aveva investito 1 milione di dollari prima dell'acquisizione e impiega una decina di persone. Sue tecnologie sarebbero state vendute ad aziende di Cina, Israele, Europa e Stati Uniti.
    Pickeez, la prima app creata da RealFace, permette di condividere foto con nuove modalità scegliendo automaticamente gli scatti migliori tenendo conto del volto dell'utente. In Israele Apple ha già fatto spesa in passato, acquisendo ad esempio Anobit nel 2011 per 400 milioni di dollari, ma anche PrimeSense nel 2013 per 345 milioni di dollari e LinX nel 2015 per una cifra stimata di 20 milioni di dollari.
    Da tempo si vocifera che una delle novità dei futuri iPhone sarà un meccanismo di riconoscimento facciale. Apple in passato ha registrato brevetti specifici e questa tecnologia potrebbe essere usata in vari contesti, inclusi meccanismi di sicurezza. Un sistema informatico può confrontare un'immagine archiviata, confrontarla con quella del volto dell'utente e determinare se questo ha diritto o no all'accesso.

    (macitynet.it, 19 febbraio 2017)


    «Ebrei toscani, ecco perché è una storia speciale»

    Una mostra sulle comunità dal '900 a oggi Catia Sonetti dell'Istituto storico di Livorno: «Shoah; ci furono delatori e chi non denunciò»

    di Stefano Miliam

    «Tra gli ebrei toscani, c'erano fascisti e antifascisti. I più non ebbero sentore delle leggi razziali (emanate nel 1938, ndr). Solo i più accorti capirono che era meglio andare via. Come Vittorio Foa che, dal carcere, esortò i genitori a scappare». Catia Sonetti, direttrice dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea a Livorno, sintetizza così uno dei passaggi dell'esposizione formata da pannelli storici, accompagnata da video-interviste, che inquadra le vicende degli ebrei in Toscana nel XX e XXI secolo. Aperta fino a domenica a Palazzo Medici Riccardi a Firenze, la rassegna sarà, dal28 marzo, a Livorno ai Granai di Villa Mendelli.
       La mostra, organizzata da Catia Sonetti con ricercatrici della Scuola Normale Superiore di Pisa e allestita dall'Agenzia Frankenstein di Firenze, vuol esser tutto meno che un panegirico. Come quando rende esplicito che le distinzioni di classe pesavano eccome, nelle comunità. Nell'ineludibile spartiacque della Shoah trova un varco l'amaro fenomeno della delazione dei vicini. «Le delazioni ci furono - ricorda l'ideatrice della mostra - ma non quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Se l'antisemitismo popolare fosse stato forte come in Polonia o in Germania avremmo avuto centinaia di migliaia di vittime. Gli impiegati comunali erano iscritti obbligatoriamente al Fascio. Nel Comune di Colle Salvetti, al prefetto di Livorno che chiedeva dove si erano nascosti gli ebrei un impiegato stilò un elenco dei poderi in cui si trovavano. Altri invece risposero "ni", dicevano di non sapere, non rischiavano ma neanche facevano il delatore. Da San Miniato non vennero indicazioni. Nel borgo di Campiglia una retata avverrà molto tardi e lì si erano rifugiate da un bel po' tre famiglie».
       Tirando in ballo l'antisemitismo, è inevitabile pensare a Marine Le Pen: se la leader fascista disgraziatamente diventerà presidente della Francia toglierà agli ebrei francesi il doppio passaporto israeliano-francese senza che esista alcuna ragione di sicurezza. «L'antisemitismo va preso molto sul serio, è un rischi che non sarà mai debellato. In Polonia e in Ungheria è ampiamente diffuso e la destra francese è sempre stata antisemita. Il discorso della Le Pen fa paura ma nella destra italiana, salvo le forze estreme, non è così o almeno non viene dichiarato. Nemmeno l'Italia ne è immune, pensiamo agli striscioni allo stadio anche qui a Livorno, ma dopo l'ultima guerra e soprattutto dopo che con il Concilio Vaticano II la Chiesa ufficiale ha abbandonato l'antisemitismo cattolico il clima è diverso».
       Appurato ciò, la mostra individua un carattere specifico negli ebrei toscani? «Lo si vede bene nella sezione sulle "colonie". Solo i membri della comunità di Livorno andarono dappertutto per fare affari o per lavorare come medici o avvocati. Non da Firenze, Milano o altre città. Borghesi istruiti e colti, non sempre ebbero rapporti facili con gli ebrei locali: li consideravano inferiori per un classismo interno, perché non vestivano all'occidentale, perché attaccati a un' ortodossia mentre le comunità toscane erano, e sono, molto laicizzate».

    (l'Unità, 19 febbraio 2017)


    Roma - Centro Pitigliani, il secolo breve nella casa dell'ebraismo

    I 115 anni della struttura in via Arco de' Tolomei. La storia dell'ex orfanotrofio. Con oltre cento interviste un libro di settecento pagine racconta le vicende della residenza nel corso del '900.

    di Gabriele Isman

    Un libro di oltre 700 pagine per raccontare 115 anni di storia del Pitigliani, il più importante centro di cultura ebraica della capitale. «Per realizzare il volume - racconta Anna Tedeschi, 62 anni, che dirige la struttura di via Arco de' Tolomei - sono stati necessari 15 anni: l'idea nacque nel 2002 per il centenario, e ne è venuta fuori una delle grandi raccolte di storia orale mai fatte a Roma, con oltre cento interviste». Sì, perché il Pitigliani è stato tante cose: orfanotrofio israelitico, casa famiglia e ora centro di assistenza per i giovani, ebrei e non solo. E il libro - Una storia nel secolo breve di Angelina Procaccia, Sandra Terracina e Anna Tedeschi, edizioni Giuntina - che sarà presentato oggi alle 17.30 con la curatrice Micaela Procaccia e il rabbino capo della Capitale Riccardo Di Segni, va oltre le promesse: il sottotitolo vorrebbe limitare il racconto ai settant' anni che vanno dalla fondazione del 1902 al 1972, ma non mancano gli accenni fino alla realtà degli anni Duemila. Si parte dai fondatori, Giorgio Levi e Xenia Poliakoff, barone e baronessa, che negli anni del nazi-fascismo da Firenze saranno deportati ad Auschwitz dove moriranno. La prima sede dell'allora orfanotrofio israelitico era in lungotevere Ripa 6. Quella attuale verrà acquistata per 221.650 lire negli anni Venti per un immobile che fu demolito e ricostruito nel cuore di Trastevere. La prima pietra della palazzina fu posata domenica 30 gennaio 1927, e non mancarono le cause con i proprietari degli stabili vicini.
      «Il centro è intitolato al celebre industriale Giuseppe Pitigliani e a sua moglie Violante, entrambi romani, perché negli anni Trenta, quando si verificò una crisi economica anche per le spese legate alla nuova sede, loro intervennero immediatamente e nei testamenti garantirono un lascito cospicuo soprattutto in beni immobili per una rendita certa a favore dell'istituto», spiega Micaela Procaccia, 62 anni, curatrice del volume e direttore del servizio Patrimonio Archivistico del ministro dei Beni Culturali. «Nei nove mesi dell'occupazione nazista il centro cessa la sua attività, e l'allora direttrice Margherita Di Cave, donna estremamente intelligente, rimanda i ragazzi nelle loro famiglie e salva nei conventi chi non aveva parenti. Tiene con sé soltanto una bambina nei sotterranei del Pitigliani che fu anche occupato dalle suore di un collegio di Frascati che protessero lei e la bambina dalle Ss. E anche su questo abbiamo trovato testimonianze inedite ed emozionanti. L'allora bambina ha rimosso gran parte di quei mesi», racconta ancora Procaccia. Finita l'occupazione nazista il centro rinasce lentamente ma costantemente. Rimarrà orfanotrofio fino alla metà degli anni Ottanta e sarà casa famiglia fino al 1997. «Oggi il Pitigliani - conclude la direttrice Tedeschi - è un ente educativo come prevede la sua mission storica: dal lunedì al giovedì offriamo un'educazione non formale dai 2 ai 16 anni, il programma "Attiva la mente" per aiutare i giovani con difficoltà di apprendimento ed equipe psicosociali per i casi di disagio. E poi corsi teatro, il Festival di cinema israeliano ed ebraico, le conferenze". Il Pitigliani a 115 anni vuole crescere ancora.

    (la Repubblica - Roma, 19 febbraio 2017)


    Trump è un pazzo o un genio della politica?

    di Franco Adriano

    Guardando alla conferenza stampa di Donald Trump e Benjamin Netanyahu non si può non domandarsi se il nuovo presidente Usa sia un pazzo o un vero genio della politica. Quando ha strizzato l'occhio al primo ministro israeliano dicendogli che qualche rinuncia sull'occupazione dei territori la deve pur fare: «Mi piacerebbe vedervi frenare sugli insediamenti per un pochino (for a little bit)». Oppure quando rivolgendosi a Bibi, così lo ha sempre chiamato per rimarcare l'amicizia di lunga data, e gli ha detto che dovrà fare dei compromessi aggiungendo ammiccante «You know that, right», «Tu lo sai, non è vero?», ha compiuto un gesto che nessuno prima aveva mai fatto.
       Anziché lanciare l'ennesima conferenza di pace, da presidente degli Stati Uniti, da amico, ha chiesto direttamente un favore al suo omologo israeliano. Sì, è una cosa da non credere. Che unita alla sostanza dell'abbandono della tradizionale posizione della politica estera americana, che prevede la costituzione di due Stati, rappresenta una novità. Così il giudizio del New York Times, fatto proprio da tutto il mondo liberal e progressista occidentale, riguardo all'aver «gettato a mare due decenni di diplomazia ortodossa» potrebbe avere una duplice lettura.
       Conterà la sostanza. Tra i due c'è molto affetto, è evidente. Una questione di famiglia. «Bibi» si è rivolto al genero di Trump, Jared Kushner, ebreo praticante, come ci si rivolge a un volto caro, dicendo a tutti che lo conosce da quando era piccolo «anche se piccolo non è mai stato», ha aggiunto riferendosi alla sua notevole altezza. «Se Bibi, Israele, e la Palestina sono contenti io sono contento». Tanto, finora, la formula dei due Stati ha portato a poco in termini di reciproco riconoscimento. Chissà che non ne vengano fuori soluzioni inaspettate. «Potrebbe rivelarsi un accordo più grande e migliore di quanto le persone qui presenti possano addirittura comprendere», nelle parole di Trump».
       «That's The art of the deal», ha chiuso Netanyahu citando la vecchia autobiografia del presidente: L'arte di fare affari. Vediamo. Diversamente varrà l'ultima copertina del Time che ritrae un Trump spettinato nella stanza ovale, su cui campeggia la scritta: «Nothing to see here», qui non c'è niente da vedere.

    (ItaliaOggi, 19 febbraio 2017)


    E’ un fatto che con Trump le acque si sono mosse, il gioco è stato sparigliato. Sarà bene che tutti, soprattutto a sinistra ma anche a destra, mettano da parte i consueti, collaudati canoni interpretativi e siano un po’ più attenti a quello che effettivamente accade e potrebbe accadere. M.C.


    Addio allo Sceicco cieco. Ispirò Bin Laden e portò la jihad negli Usa

    Morto in un carcere americano l'egiziano Abdel Rahman

    di Giordano Stabile

    Omar Abdel Rahman
    BEIRUT - Sarà forse sepolto in terra musulmana Omar Abdel Rahman, morto nel carcere di massima sicurezza di Butner, North Carolina, dove scontava una condanna all'ergastolo per il primo attacco alle Torre Gemelle. Era malato da tempo. Famigliari e ambienti islamisti già ne reclamano il corpo, perché torni in un Paese arabo. Il rischio, come per Osama bin Laden, è che la sua tomba diventi un luogo di culto per nuove generazioni di terroristi. E con Bin Laden, Omar Abdel Rahman, meglio conosciuto come lo «Sceicco cieco», ha condiviso molte cose. Prima di tutto la determinazione a distruggere l'America.
      Rahman è stato il primo a colpire sul suolo americano, anticipando il fondatore di Al-Qaeda. E gli ha suggerito anche l'obiettivo strategico e simbolico, le Torri Gemelle. Con Bin Laden si conoscono in Afghanistan a metà degli Anni Ottanta. Lo Sceicco cieco ha già una spessa carriera alle spalle. Nato in Egitto, perde la vista a 10 mesi per il diabete. Da bambino impara il Braille, legge il Corano, lo impara a memoria, poi entra all'università Al-Azhar. Fra i suoi insegnanti c'è il palestinese Abdullah Azzam, il maestro di Bin Laden.
      All'inizio degli anni Settanta, morto Nasser, i Fratelli Musulmani rinunciano alla lotta armata. Rahman non è d'accordo, diventa il leader di Al-Jamaa al-Islamiyya, l'Associazione islamica. I suoi ispiratori sono gli ideologi del salafismo, Ibn Taymiyah e Sayyid Qutb. Vuole instaurare uno Stato islamico, predica che è giusto uccidere il «tiranno», cioè Sadat. Dopo l'assassinio del presidente egiziano sconta tre anni di prigione ma l'accusa non riesce a dimostrare il suo coinvolgimento diretto. Viene espulso. Rahman arriva in Afghanistan. Incontra di nuovo Azzam, conosce Bin Laden. I tre fondano il Maktab al-Khadamat, l'Ufficio afghano che raccoglie i fondi per finanziare la guerra santa contro i sovietici.

     L'arrivo in America
      Con il Maktab, Rahman intesse una rete islamista in tutto il mondo. Nel 1989 la guerra è vinta. L'Unione sovietica è un gigante in ginocchio. Raham, Azzam, Bin Laden sono certi che è un segno divino. Sconfitto il primo Diavolo, bisogna distruggere il secondo. Il leader di Al-Qaeda pensa che prima bisogna costruire una base solida in un Paese amico. Punta sul Sudan.
      Rahman invece vuole portare subito un attacco in Occidente. Nel luglio del 1990 sbarca a New York con un visto turistico. È sulla lista nera dei terroristi ma un anno dopo riesce a ottenere una Greencard. Torna per un mese in Medio Oriente e quando rientra negli Stati Uniti viene bloccato. Si appella contro la revoca del permesso di soggiorno e continua a organizzare la rete del terrore.
      Compiere un attentato contro civili non è come dichiarare la jihad a un esercito miscredente. Rahman lavora sulla fonti del diritto islamico, le forza. Emana un fatwa che autorizza a uccidere gli ebrei negli Stati Uniti. Poi in una serie di sermoni autorizza attacchi a tutto campo contro gli americani «discendenti di scimmie e maiali che mangiano allo stesso tavolo con sionisti, comunisti e colonialisti». Per questo bisogna distruggere «la loro economia, affondare le loro navi, abbattere i loro aerei, ucciderli per mare, aria e terra».

     La fatwa anti-America
      Un vasto programma ripreso alla lettera da Bin Laden, che farà riecheggiare in molti dei suoi discorsi le parole dello «Sceicco cieco». Rahman lavora al primo colpo, vuole un'azione devastante. La cellula newyorchese prepara un camion-bomba con mezza tonnellata di esplosivo. Il furgone viene parcheggiato nel sotterraneo della prima delle Torri Gemelle. L'idea è di farla collassare, travolgere anche l'altra, uccidere migliaia di persone, far crollare Wall Street e l'intera America.
      Il 26 febbraio 1993 una tremenda esplosione squassa la Torre ma l'edificio regge. Nell'attacco muoiono 6 persone. La «prova» è fallita ma servirà da ispirazione. Diventa il piano principe di Al-Qaeda: i morti, nel massacro del1'11 settembre saranno tremila. L'Fbi, che seguiva Rahman dal suo arrivo negli Stati Uniti, stringe il cerchio. Il 24 giugno 1993 viene arrestato con nove seguaci. Il processo dura due anni. L'accusa non riesce a dimostrare un legame diretto con l'attacco. Rahman viene condannato al carcere a vita per «cospirazione sediziosa».
      Ha finito di scontare la pena ieri, a 78 anni. Per i Fratelli Musulmani Rahman è sempre rimasto un «prigioniero politico», tanto che nella sua breve presidenza egiziana Mohammed Morsi promise di ottenerne la liberazione. Una speranza spazzata via dal crollo della Primavera araba e dell'islam politico, mentre lo «Stato islamico» che progettava si è incarnato in un Califfato nero e di morte.

    (La Stampa, 19 febbraio 2017)


    Il paradiso dei lavoratori: Israele, disoccupazione zero

    di Angelo Vaccariello

    Dimenticatevi il jobs act. Lasciate perdere la battaglia sui cambi euro/dollaro. Ignorate il taglio alla spesa pubblica, l'austerity o l'avanzo primario nelle esportazioni. Da Tel Aviv questi discorsi sembrano lontani mille miglie.
    Abbiamo già scritto di recente come l'economia israeliana stia in una ripresa eccezionale. A corroborare la nostra tesi arriva ora anche il dato sulla disoccupazione: il tasso, infatti, è sceso al 4,3 per cento (secondo i dati dell'ufficio centrale di statistica del Paese mediterraneo). Un numero che pone Israele "in piena occupazione".
    Per gli economisti, infatti, quando il numero dei senza lavoro scende al di sotto del 5 per cento si è in "occupazione totale" perché la percentuale è quella del normale ricambio tra pensionati e giovani.
    In questo singolare record (nel Mediterraneo nessun altro Stato ha performance economiche cosi floride nonostante i problemi geo-politici che tutti conoscono), il Paese di Davide non è solo: anche gli Usa sono in piena occupazione. E nella vecchia Europa? Solo la Germania ha un livello di senza lavoro al 3,9 per cento.
    Tutti gli altri Stati sono in panne. Ma come ha fatto Israele ad avere una performance cosi positiva tanto che nemmeno il Governo aveva previsto un numero simile? (L'Esecutivo aveva stimato disoccupazione al 4,8 per cento). La ricetta è semplice e disarmante. Gerusalemme punta su due elementi che in Italia, ad esempio, vengono solo ed esclusivamente annunciati: giovani e innovazione. Israele è il più importante Stato del mondo per nuove start-up (secondo solo alla Silycon Valley).
    Ed ha il primato per popolazione giovane che può facilmente essere inserita nelle università; può viaggiare in tutto il mondo grazie alla diplomazia israeliana e soprattutto è tra i Governi che meglio valorizzano le poche risorse interne.
    E badate bene: l'occupazione è cresciuta senza una legge che, come in Italia, aiutasse le imprese ad investire. Fantascienza? No, solo un approccio pragmatico all'economia.

    (Italia Israele Today, 18 febbraio 2017)


    Intervista al ministro della difesa israeliano, Avigdor Lieberman

    Giovedì 16 febbraio, il ministro della difesa israeliano ha rilasciato un'intervista per l'inaugurazione della versione in lingua araba del sito dell'Ufficio del Coordinatore per le Attività Governative sul Territorio.
       Nell'intervista, Avigdor Lieberman ha manifestato la sua intenzione di promuovere il dialogo con i palestinesi, sottolineando la necessità per i due popoli di trovare un modo per coesistere. Ha inoltre aggiunto che le espansioni israeliane non rappresentano un ostacolo per la pace. "Israele ha sfrattato 21 comunità dalla Striscia di Gaza ma questo non ha portato la pace. Il problema non sono gli insediamenti, ma piuttosto la profonda crisi economica, la disoccupazione e la mancanza di un orizzonte politico", ha spiegato il ministro, aggiungendo che Israele è disposta ad aiutare i palestinesi a superare questi problemi. "Non appena Hamas rinuncerà a gallerie e razzi, saremo i primi ad aiutare nella costruzione di porti, aeroporti e zone industriali a Kerem Shalom e Erez", ha continuato, riferendosi a due importanti valichi di frontiera tra Israele e Striscia di Gaza. "Siamo in grado di creare 40.000 posti di lavoro per la popolazione di Gaza fin da subito, se Hamas rinuncerà al suo intento di distruggere Israele e, innanzitutto, restituirà i corpi dei nostri soldati". Lieberman si riferiva al sergente Oron Shaul e al tenente Hadar Goldin, uccisi a Gaza nell'estate del 2014.
       Parlando delle recenti tensioni lungo il confine meridionale, il ministro della difesa ha chiarito che Israele non ha intenzione di dare inizio a un nuovo conflitto, ma che "ogni provocazione incontrerà una risposta decisa". "Dal momento che dobbiamo vivere in questo lembo di terra insieme, è necessario trovare il modo migliore per cooperare e dialogare con il popolo palestinese, senza intermediari e senza passare per i media", ha concluso Lieberman.
       A dicembre 2016, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva adottato una risoluzione che intimava a Israele di porre fine alla propria espansione nei territori palestinesi. Il 24 gennaio, Israele ha approvato la costruzione di 2.500 nuove unità abitative in Cisgiordania, concedendo, nei due giorni successivi, ulteriori 500 permessi a Gerusalemme est. Il 6 febbraio, tramite l'approvazione di una legge retroattiva, sono stati legalizzati 4.000 insediamenti in Cisgiordania.
       I detrattori del governo israeliano ritengono che gli insediamenti siano illegali e che rappresentino un ostacolo alla pace, in quanto riducono drasticamente i possedimenti palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza. Israele ha risposto alle accuse facendo riferimento ai legami biblici, storici e politici con quei territori, e invocando esigenze di sicurezza.

    (Sicurezza Internazionale, 18 febbraio 2017)


    E Davide divenne Golia
          Articolo OTTIMO!


    Che cosa ha spinto Israele a trasformarsi in una superpotenza militare? La paura. Così il paese "un po' Rambo e un po' Primo levi" è diventato un modello per tutto il mondo.

    Un popolo più simile agli italiani che agli spartani, ma costret- to dai nemici a combattere. Lo rac- conta il libro "The weapon wizards" Dal raid di Entebbe alla guerriglia umana in Cisgiordania, il mondo ha adottato tutte le terniche israeliane di antiterrorismo Il sistema di difesa antimissile venne avviato quando Saddam Hussein lanciò gli Scud su Tel Aviv. Oggi è un grande successo Israele è leader mondiale dei droni, responsabile del sessanta per cento del mercato. Esporta per sostenere la ricerca interna

     
    Il regista francese Claude Lanzmann una volta ha detto che i paracadutisti israeliani sono di un altro tipo rispetto ai parà francesi: "La prova è che hanno ancora i capelli". L'autore del monumentale "Shoah" voleva dire che gli israeliani sono grandi soldati per necessità, non per militarismo. Sono pochi, circondati da nemici implacabili, venti volte più numerosi: per sopravvivere, Israele deve vincere subito e con un successo risolutivo. Lo scrittore Amos Oz ha dato forse la migliore definizione di Israele: "Di giorno è Rambo, ma di notte si trasforma in un fragile Primo Levi". La superiorità tecnica ha contribuito alle vittorie; ma è valsa soprattutto la volontà di non morire come popolo. Ancora oggi basta un annuncio convenzionale alla radio perché uomini e donne corrano al fronte, spesso in autostop. Qualcuno, convinto di esaltare la stupefacente vittoria nella Guerra dei sei giorni, ha definito Israele "la moderna Sparta"; altri, meno benevoli, l'hanno definita "la piccola Prussia mediorientale", un paese militarista e sciovinista da tener d'occhio. Sono state le condizioni esterne, la feroce ostilità degli arabi, a costringere gli israeliani a dormire col fucile e guidare il trattore col mitra, a essere perennemente dei soldati. Se fossero stati riconosciuti dagli arabi come stato che ha diritto di esistere entro confini pacificati, gli israeliani avrebbero investito altrove i miliardi che sono stati costretti a spendere in armi.
      La popolazione d'Israele non ha, infatti, nulla in comune con l'immagine che ci siamo fatta degli spartani. Sono molto più simili agli italiani e piacerebbe loro vivere bene, in una casa confortevole, divertirsi e godersi la vita. Ma gli arabi non glielo consentono, e devono alternare i brevi momenti di esistenza piacevole alle guerre ricorrenti. Per la posizione geografica e la popolazione, Israele non può affrontare una guerra di logoramento. Deve vincere subito e bene. Nel 1967 due milioni e mezzo di israeliani hanno così sbaragliato in tre giorni trenta milioni di arabi forniti di mezzi bellici almeno tre volte superiori ai loro.
      Adesso un libro racconta come Israele è diventato una superpotenza militare. Si tratta di "The weapon wizards", i maghi delle armi, a firma di Yaakov Katz e Amir Bohbot, due giornalisti israeliani esperti di sicurezza. Israele è un paese di otto milioni di abitanti circondato da ogni lato da nemici che vorrebbero cancellarlo dalla mappa geografica: Hezbollah a nord, Hamas a sud, Bashar al Assad, Stato Islamico e Iran a est. Eppure questa piccola nazione ha costruito un sistema di difesa missilistico, una aviazione e una serie di apparecchi di intelligence per i quali è venerato in tutto il mondo e copiato dai militari degli Stati Uniti, tra molti altri. Israele è stato il primo paese occidentale a combattere contro le armi sovietiche in Egitto e Siria e il primo stato moderno ad affrontare il terrorismo suicida nelle sue strade, molto prima che New York o Londra, Madrid e altre capitali in Europa venissero sventrate dai kamikaze islamici.
      Da un possibile attacco militare contro l'Iran alla caccia di un sospetto terrorista in Cisgiordania, Israele affronta prima e più minacce rispetto alla maggior parte dei paesi ed è in continuo sviluppo nella sua tecnologia militare. Il virus Stuxnet, nel 2010, è stato uno dei primi attacchi informatici nella storia e si ritiene che sia stata l'opera di israeliani che volevano manomettere e rallentare il programma atomico iraniano. Essendo l'obiettivo dei terroristi di tutto il mondo, Israele è stato costretto a diventare una sorta di laboratorio militare. I passeggeri delle linee aeree commerciali israeliane, per esempio, sono stati le prime vittime dei dirottamenti internazionali al mondo. I commando israeliani hanno condotto il primo salvataggio di ostaggi di una compagnia aerea nel 1972 e poi di nuovo a Entebbe nel 1976. L'americana Delta Force è stata fondata proprio emulando quella leggendaria operazione israeliana in Uganda. Donald Trump sta studiando i modelli israeliani di "fence", i recinti di sicurezza, per costruirne uno al confine col Messico. Il Pentagono ha copiato le tattiche israeliane utilizzate durante l'Intifada per adattarle alla guerriglia urbana islamista in Iraq e in Afghanistan. Queste tecniche israeliane comprendono lo sviluppo di unità dell'esercito, come la "Shatzi", che hanno una conoscenza completa degli obiettivi da colpire (sono loro ad aver stilato la lista dei terroristi da uccidere a Gaza). E' israeliana l'azienda che produce i veicoli e che in Iraq e Afghanistan gli americani hanno usato per far fronte alle bombe nel sottosuolo. Si chiama "Plasan Sasa" e ha sede in uno sperduto kibbutz del nord, al confine col Libano. I suoi profitti, da 23 milioni di dollari nel 2003, sono passati a 500 nel 2011. Israele ha aperto la strada all'uso di elicotteri per operazioni mirate e ai droni, entrambi usati dagli Stati Uniti contro le cellule terroristiche in Pakistan e Yemen. C'è il sistema di difesa antimissile Iron Dome, concepito per intercettare razzi lanciati da Hezbollah dal Libano e da Hamas da Gaza. E ha raggiunto incredibili percentuali di successo.
      Durante gli otto giorni di guerra a Gaza nel 2012, le batterie di Iron Dome hanno abbattuto quasi 1'85 per cento dei missili in direzione di Israele. Durante l'operazione anti Hamas nell'estate del 2014, Iron Dome ha realizzato un 90 per cento di tasso di successo. La "cupola di ferro" è stata sviluppata dalla Rafael Defense Advanced Systems. La sede della società di missili è in Galilea, non lontano dal confine con il Libano. Molti degli ingegneri della Rafael vivono nel nord di Israele e hanno combattuto nella riserva durante la guerra del 2006 contro Hezbollah o hanno trascorso 34 giorni nei rifugi sotto gli attacchi missilistici. In altre parole, hanno molto più di una comprensione scientifica e meccanica della minaccia che essi stavano cercando di rendere inoffensiva.
      Negli ultimi trent'anni, per esempio, Israele è stato il numero uno al mondo come esportatore di droni, responsabili del 60 per cento del mercato globale (la quota degli Stati Uniti delle esportazioni mondiali è meno della metà). Per la sua volontà di vendere i suoi droni e molti altri prodotti tecnologici di difesa all'estero, tra cui la Cina, Israele è stato molto criticato. Ma lo stato ebraico ne ha sempre fatto una questione esistenziale. L'esercito israeliano non è mai stato sufficientemente grande da essere un acquirente autonomo in modo da incentivare le aziende locali a sviluppare armi o tecnologie. Israele deve esportare all'estero.
      Settant'anni fa, lo stato di Israele aveva un esercito che era poco più di un eterogeneo gruppo di irregolari, costretti a produrre proiettili in una struttura segreta costruita sotto un kibbutz. Oggi, l'esercito di Israele è ampiamente considerato come uno dei più efficaci e letali al mondo. Israele è oggi uno dei sei maggiori esportatori di armi, guadagnando miliardi ogni anno attraverso la vendita di attrezzature militari a Cina e India come a Colombia e Russia.
      "Come ha fatto Israele?", Katz e Bohbot si chiedono nel libro. "Qual è stato il segreto di Israele?". La risposta: cervello, grinta e la prospettiva della distruzione imminente. Circondato da nemici, Israele si è concepito come una nazione che deve, come ha detto Arieh Herzog, l'ex capo dell'agenzia di difesa missilistica di Israele, "innovare o scomparire". Un decimo oggi dell'export israeliano viene dagli armamenti e dalla tecnologia militare. Katz e Bohbot citano Shimon Peres: "Abbiamo bisogno di investire nei cervelli dei soldati, non solo nei loro muscoli". Katz e Bohbot sostengono che la cultura di Israele fatta di intraprendenza e informalità abbia offerto un vantaggio senza precedenti: "Ciò che rende unico Israele è la completa mancanza di struttura". L'assenza di gerarchia aiuta a stimolare l'innovazione. In Israele, i soldati si sentono liberi di discutere con gli ufficiali di alto rango. Così, per strada, tutti chiamano il premier Netanyahu "Bibi", il presidente Rivlin "Ruby" e il capo dell'opposizione Herzog "Buji". Non esistono formalità. Israele, si nota con orgoglio nel libro, è "diventato il primo paese a padroneggiare l'arte degli omicidi mirati", che sono ormai divenuti "lo standard globale nella guerra al terrore".
      Resta poi il fatto che l'esercito israeliano è unico per un altro motivo: costituisce un esercito di popolo e una scuola per tutta la società. Il problema urgente, addirittura angosciante, era l'integrazione di uomini e donne che avevano assorbito le secolari usanze dei popoli coi quali avevano vissuto; e bisognava farlo nel più breve spazio di tempo. Se non era difficile inserire nel rivoluzionario ordinamento statale israeliano gli immigrati che provenivano da paesi prosperi e progrediti d'Europa e d'America, gli ashkenaziti colti e razionalisti, poteva sembrare una impresa disperata il recupero di immigrati yemeniti, protagonisti di una vicenda favolosa. Erano cinquantamila gli ebrei dispersi nel lontano emirato d'Arabia, ancora affondati in un mistero medioevale. Non sapevano che cosa fosse la luce elettrica, non avevano mai visto una bicicletta o un orologio, i soli contatti col mondo esterno nei loro villaggi erano le carovane dei beduini.
      Il merito di una così radicale trasformazione, dicono gli israeliani, è stato dell'esercito, la più grande scuola di israelitismo, la sola capace di fondere in unità quasi armonica la gente di Israele che, non bisogna dimenticarlo, proviene da settantadue paesi fra Europa, Asia, Africa e America. L'esperimento ha dato i suoi frutti e lacerato anche il diaframma della lingua ebraica. L'esercito è stato efficiente sui campi di battaglia non meno che nella formazione della coscienza. La caserma come strumento di educazione alla democrazia.
      Israele è anche il primo paese al mondo a utilizzare i robot per sostituire i soldati in missioni come il pattugliamento della frontiera. Un veicolo a terra senza equipaggio, chiamato "Guardium", oggi pattuglia il confine con la Striscia di Gaza. Di fronte a terroristi che usano i tunnel per infiltrarsi in Israele, lo stato ebraico fa affidamento ai serpenti robotici per strisciare sotto terra. Questi sanno mappare le strutture, dando ai soldati un quadro preciso di una zona prima che il luogo sia preso d'assalto. Lo stesso sta accadendo in mare. L'appaltatore della difesa israeliano Rafael ha sviluppato una nave senza equipaggio chiamata "Protector" che viene utilizzata da Israele per proteggere i suoi porti strategici e pattugliare la costa mediterranea. Nel 2000, l'aviazione israeliana ha ricevuto la sua prima batteria anti missile, diventando il primo paese al mondo con un sistema operativo in grado di abbattere i missili nemici in arrivo. L'idea di creare questo sistema è nato a metà degli anni Ottanta dopo che il presidente americano Reagan chiese agli alleati di collaborare a sistemi che potessero proteggere il paese da missili nucleari sovietici in via di sviluppo. L'Arrow israeliano fu quella idea rivoluzionaria.
      A causa delle limitate dimensioni geografiche di Israele, tutti i missili balistici dispiegati nella regione - Siria, Iraq e Iran - potevano raggiungere qualsiasi punto all'interno del paese e rappresentavano una minaccia strategica e forse esistenziale. Gli sviluppatori israeliani avevano bisogno di un sistema in grado di abbattere i missili nemici dai paesi vicini e fornire protezione globale per il piccolo stato ebraico. Il programma ha avuto i suoi alti e bassi, ma ha ottenuto una spinta enorme di fondi dopo la prima guerra del Golfo nel 1991, quando Saddam Hussein lanciò 39 Scud su Israele, paralizzando il paese e costringendo milioni di israeliani nei rifugi con le maschere antigas. Israele è stato anche il primo paese al mondo a utilizzare droni nelle operazioni di combattimento. Nel 1982 ha usato il suo primo drone da combattimento, chiamato "Scout", in Libano, dove ha giocato un ruolo chiave nel localizzare e neutralizzare le postazioni nemiche. Così nel 1986, Israele ha fornito alla marina degli Stati Uniti il suo primo drone, noto come il "Pioneer". Questi droni oggi volano quasi ogni giorno sul Libano, così come evitano che a Gaza si colpiscano palazzi pieni di civili.
      C'è la storia del "Talpiot", una parola che deriva da un verso del Cantico dei Cantici e che si riferisce a un castello, una fortificazione. E' l'unità tecnologica cardine di Israele. Ogni anno, migliaia provano a entrarvi, ma solo trenta vengono accettati. Dovranno sorbirsi nove anni di servizio, tre volte la lunghezza usuale della leva militare. L'unità è nata da un disastro della Guerra del Kippur nel 1973 . Israele fu trovato impreparato quando Siria ed Egitto attaccarono e oltre duemila soldati rimasero uccisi, e innumerevoli aerei e carri armati furono distrutti. Poco dopo la guerra, il colonnello Aharon Bet-Halachmi, capo del Dipartimento tecnologia della forza aerea, venne contattato da Shaul Yatziv, il fisico dell'Università di Gerusalemme, che gli suggerì di investire in laser. Molti ufficiali della Talpiot sarebbero andati a fondare compagnie quotate oggi al Nasdaq e avrebbero contributo, da privati, a rivoluzionare la tecnologia israeliana.
      Mentre state leggendo questo articolo, sui cieli dell'Afghanistan cinque paesi membri della Nato stanno impiegando droni di produzione israeliana per combattere contro i Talebani. Sono l'evoluzione di quei primi "giocattoli" usati da Israele sul Canale di Suez. Fu quando Davide divenne Golia.

    (Il Foglio, 18 febbraio 2017)


    Arrivano anche i Bnei Menashe

    "Vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo"

    Tre giorni fa 102 nuovi immigrati sono giunti in Israele, la loro nuova casa. Il loro paese di provenienza è l'India, si chiamano Bnei Menashe, i figli di Manasse, una delle dodici tribù di Israele andate disperse che nonostane i quasi tremillenni di esilio hanno mantenuto intatta la loro identità ebraica. Secondo Michael Fruend, responsabile dell'intera operazione per conto dell'organizzazione Shavei Israel, entro la fine dell'anno sarà previsto l'arrivo di altri 700 nuovi immigrati.

    Storia degli ebrei in India
    In India si distinguono tre comunità ebraiche che contano complessivamente circa 6.000 membri (1997), insediate in aree ben distinte: la comunità di Cochin, nel sud del subcontinente, i Bene Israel (Figli di Israele) nella zona di Bombay, e la comunità Baghdadi nei dintorni di Calcutta.
    Non si sa a quando risalgano gli Ebrei neri di Cochin e i Bene Israel, ma si suppone che questi gruppi siano piuttosto antichi. Gli Ebrei Baghdadi e gli Ebrei bianchi di Cochin hanno un'origine più recente, legata all'espansione occidentale nella regione.
    La particolarità delle religioni indiane, non missionarie e basate sulla realizzazione personale, ha consentito a queste comunità di strutturarsi in caste endogame ben inserite nel tessuto sociale indiano, senza subire alcuna persecuzione né forme di antisemitismo, se si esclude il periodo della colonizzazione portoghese, quando l'Inquisizione fu esportata in India, nei dintorni di Cochin.
    La maggior parte degli Ebrei indiani sono emigrati in Israele dopo la creazione dello Stato.
    Esistono poi altri due gruppi che rivendicano l'appartenenza ebraica: i Bnei Menashe, di lingua Mizo, che vivono a Manipur e nel Mizoram. Questi si sono proclamati ebrei negli anni 1950, e dicono di discendere dalla tribù di Manasse. I Bene Ephraim (o Ebrei Telogu) sono un piccolo gruppo che parla il telugu, la cui osservanza data dal 1981.

    (Consulenza Ebraica, 17 febbraio 2017)


    La minaccia di Hezbollah contro Israele

    In seguito alle dichiarazioni di Trump sulla revisione della politica dei due stati con i palestinesi il leader del movimento libanese affila le armi.

    di Marco Marano

    Gli annunci del nuovo inquilino della Casa Bianca sul cambiamento di strategia americana relativa al conflitto israelo-palestinese, stanno avendo un effetto domino su tutto il mondo arabo. E' di poche ore la minaccia di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, l'organizzazione politico-militare sciita che rappresenta in Libano una sorta di stato parallelo a quello ufficiale. In seguito alla rinuncia del presidente Trump di sostenere la politica dei due stati, Hassan Nasrallah ha chiesto a #Israele di smantellare il reattore nucleare di Dimona, nel quale, accusa il leader, vengono progettate e costruite armi nucleari. Se questa richiesta non fosse accettata #Hezbollah si riserva di colpire gli impianti. Anche perché Israele non ha mai ratificato il trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari e per tale ragione non è soggetta ai controlli degli organi internazionali.

     La fine dei negoziati di pace
      I venti di guerra prospettati da Hezbollah, secondo le dichiarazioni del suo leader a Teheran durante i festeggiamenti per i 38 anni della rivoluzione iraniana, nascono dal fatto che la Casa Bianca ha messo fine ai negoziati di pace sul conflitto tra israeliani e palestinesi. Le parole di Trump sulla revisione del "dogma" dei due stati, sul fatto che i palestinesi devono riconoscere lo Stato ebraico e che la decisione spetta a Israele che deve negoziare il suo accordo, rappresentano appunto la morte del negoziato. Occorre ricordare che la politica dei due stati nasce dagli accordi di Oslo del 1993, rappresentata dalla famosa immagine di Clinton che favorisce la stretta di mano tra Rabin e Arafat. Fatta propria da una risoluzione delle Nazioni Unite e dal riconoscimento della comunità internazionale e dalla Lega Araba. In tal senso le richieste palestinesi individuerebbero il loro stato indipendente unendo Cisgiordania e Gaza con capitale Gerusalemme Est

     Il potenziale nemico
      Ma la fine dei negoziati di pace significa una nuova stagione di guerra ecco perché il movimento Hezbollah si sente minacciato da questa recrudescenza delle posizioni ufficiali, considerando Israele un nemico che potrebbe attaccarlo, incoraggiato magari dal presidente Trump. Proprio per questo Hassan Nasrallah ha voluto sottolineare che Hezbollah non ha paura di nessun nemico poiché la sua potenza risiede nel sostegno del popolo libanese. Infatti ha ricordato come in passato fu proprio Hezbollah a fermare Israele da un'aggressione nel suo paese. Il riferimento è alla seconda guerra del Libano del 2006, un conflitto durato circa un mese, scatenato da una operazione militare ebraica come reazione alla cattura da parte di Hezbollah di due soldati israeliani. Il conflitto si concluse con la mediazione delle Nazioni Unite.

     Lo scontro tra sunniti e sciiti
      Ma c'è un altro tema che va ad incrociarsi alle dinamiche sui rapporti tra israeliani e palestinesi e riguarda le regioni mediorientali conclamate come instabili che vede lo scontro tra l'Islam sunnita delle petro-monarchie arabe e quello sciita rappresentato da Iran, Siria ed Hezbollah. In tal senso Hassan Nasrallah ha messo in guardia Stati Uniti e Israele di non appoggiare l'Arabia Saudita nella guerra in Yemen, la quale è intervenuta pure in Bahrain per sedare le proteste popolari contro la famiglia regnante Al Khalifa

    (Libero Gossip, 17 febbraio 2017)


    Lieberman sfida Hamas. "Deponete le armi e costruiamo una nuova grande Gaza"

     
                                  Avigdor Lieberman                                                           Yahya Sanwar
    Una sorta di lettera aperta ai residenti della striscia di Gaza. Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman ha scritto un intervento in arabo sul sito web del Coordinatore per le attività governative nei Territori che Israele.
    Una lettera di progetti e proposizioni, il pieno rilancio di Gaza, delle attività produttiva e turistiche, un futuro diverso. Nel progetto la costruzionen di un nuovo porto e di un aeroporto, l'insediamento di una nuova rete industriale, insomma sviluppo e futuro con la creazione di 45 mila posti lavoro, una nuova vita. Ma tutto questo naturalmente ad una condizione. Mettere la parola fine allo stato attuale delle cose, finire la guerra di "posizione", il disarmo totale.
    Hamas dovrebbe cancellare dalla sua Carta costitutiva l'articolo che propugna la distruzione di Israele.
    Ma non solo: restituire i tre israeliani trattenuti a Gaza come ostaggi dopo esservi entrati di loro volontà (Abera Mengistu, Hisham al-Sayed e Jumaa Ibrahim Abu-Ghanima) e le salme dei due soldati Oron Shaul e Hadar Goldin, morti nella guerra anti-terrorismo dell'estate 2014.
    Il guanto di sfida è stato lanciato. La Pace potrebbe essere a portata di mano… Ci sarà qualcuno disposto ad accettare la sfida? Appare poco probabile. L'elezione di Yahya Sanwar, 52 anni (uno dei leader più estremista e sanguinario dei terroristi, scarcerato da Israele nel 2011 nel quadro del ricatto per la liberazione dell'ostaggio Gilad Shalit), come capo di Hamas nella striscia di Gaza non promette nulla di buono. Anzi…

    (Italia Israele today, 17 febbraio 2017)


    Il Consiglio comunale di Modena contro la risoluzione Unesco su Gerusalemme


    Approvato l'ordine del giorno della consigliera Di Padova (Pd) che ribadisce che la pace in Medio Oriente passa per il riconoscimento di pari dignità di tutte le religioni.


    MODENA - Il Consiglio condanna la risoluzione dell'Unesco che definisce il Muro del Pianto luogo esclusivamente arabo, "ignorando millenni di storia della città di Gerusalemme", e ribadisce la "necessità di dialogo da ogni parte politica perché la pace in Medio Oriente passi per il riconoscimento di pari importanza e dignità di tutte le religioni", l'ordine del giorno approvato dal Consiglio comunale di Modena nella seduta di giovedì 16 febbraio.
    Il documento, presentato da Federica Di Padova (Pd), e sottoscritto anche da Diego Lenzini e Marco Forghieri (Pd) e da Andrea Galli e Giuseppe Pellacani (FI), è stato approvato dall'assemblea con il voto a favore del Pd (escluso Tommaso Fasano che ha votato contro), di Forza Italia e di Idea-Popolo e libertà. Contrari il Movimento 5 stelle, Per me Modena, Sel e Fas-Sinistra italiana.
    Il 18 ottobre 2016 l'Unesco ha approvato una risoluzione dedicata alla tutela del patrimonio culturale della Palestina e al carattere distintivo di Gerusalemme est, sulla quale l'Italia si è astenuta. Nella mozione, la consigliera Di Padova ricorda che la risoluzione è stata largamente criticata da rappresentanti della comunità ebraica, da molti governi e da ampie ed eterogenee fasce della società civile perché definisce il Muro del Pianto luogo esclusivamente arabo e utilizza il nome arabo per riferirsi alla moschea di Al-Aqsa, espungendo del tutto quello ebraico, cosa molto grave "perché il Muro del Pianto è luogo sacro per tutte e tre le religioni monoteiste ma il più sacro per la religione ebraica, in quanto costituisce l'unico legame con il Tempio costruito da Erode il Grande e distrutto dai Romani". Ricorda inoltre che il premier Matteo Renzi, pochi giorni dopo, definì la risoluzione "incomprensibile, inaccettabile e sbagliata. Non si può continuare con queste mozioni finalizzate ad attaccare Israele".
    Su queste basi il documento approvato, oltre a condannare la risoluzione, chiede quindi che "non accada mai più che l'Unesco diventi cassa di risonanza di scontri politici e tensioni internazionali"; esprime solidarietà a Irina Bokova, direttore generale dell'Unesco, vittima di pressioni e minacce per aver affermato che "Gerusalemme deve essere vista come spazio condiviso di patrimonio e tradizioni per ebrei, musulmani e cristiani"; manifesta "piena sintonia con la posizione del Governo italiano per l'attività diplomatica svolta fino a questo momento per persuadere alcuni stati a passare da posizioni favorevoli all'astensione; incoraggia la delegazione italiana all'Unesco "affinché si esprima con voto contrario alla prossima scadenza relativa a questa risoluzione, se quest'ultima non dovesse cambiare nella sostanza".

    (Comune di Modena, 17 febbraio 2017)


    Torino - Il falò delle libertà. Insieme, per i diritti di tutti

    di Ada Treves

    Grande attesa, curiosità, emozione, impegno. Una grandissima folla a Torino ha voluto cogliere l'occasione del "Falò della libertà per i diritti di tutti", organizzato dalla Chiesa Evangelica Valdese, insieme alla Comunità ebraica e al Comune per ribadire il proprio no a ogni discriminazione. Il pastore Paolo Ribet ha ricordato alle migliaia di presenti il senso di una tradizione molto sentita nelle Valli Valdesi, dove ogni anno alla vigilia del 17 febbraio ci si raccoglie intorno ai falò per ricordare la concessione nel 1848 dei diritti civili e politici da parte di Re Carlo Alberto. Come ha ricordato il presidente Dario Disegni, la Comunità ebraica non poteva non rispondere con entusiasmo, per affiancare il Concistoro valdese in quella che è stata davvero una festa della libertà e per la libertà di tutti. Gli "Israeliti regnicoli" - ha ricordato Disegni - ottenevano poco più di un mese dopo, il 29 marzo, l'emancipazione con il regio decreto n. 688, con il quale venivano loro riconosciuti i diritti civili e la facoltà di conseguire i gradi accademici, mentre nei mesi successivi sarebbero stati poi riconosciuti l'ammissione alla leva militare, il godimento dei diritti politici e l'accesso alle cariche civili e militari. "Non va però dimenticato - ha continuato - che occorrerà attendere ancora un secolo da quel 1848, passando attraverso la vergogna delle leggi razziste del 1938, per vedere finalmente sanciti dalla Costituzione della Repubblica l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di religione con l'articolo 3, il diritto di tutti di professare liberamente la propria fede religiosa, sancito dall'articolo 19 e il fondamentale principio dell'eguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose, con l'articolo 8, che segnerà finalmente il superamento dell'articolo 1 dello Statuto albertino, che riaffermava l'esistenza di una 'religione dello Stato', mentre gli altri culti esistenti erano 'tollerati conformemente alle leggi'". Molto apprezzati tutti gli interventi, e applauditissimo il discorso di Patrizia Mathieu, presidente del Concistoro della chiesa valdese di Torino, che ha sottolineato il valore fortemente laico di una festa aperta a tutta la cittadinanza: "Ci siamo sempre occupati di diritti perché per molto tempo non ne abbiamo avuti. Se le 'Lettere Patenti' ci riconoscevano come cittadini, non ci permettevano tuttavia la libertà di culto. Solo cent'anni dopo, con la Costituzione della Repubblica, è arrivato il pieno riconoscimento. Per questo condividiamo il palco con tutti coloro che hanno patito o tuttora patiscono l'assenza di diritti: ovviamente gli ebrei, destinatari anch'essi di Lettere Patenti nel 1848, ma anche le associazioni LGBT, quelle per la laicità delle istituzioni e quelle per i rifugiati".
       A ricordare i secoli di discriminazioni e tragedie che hanno colpito tanto la minoranza ebraica quanto quella valdese, nella stessa piazza Castello dove ieri sera bruciava il grande falò - acceso in verità con grande fatica dai vigili del fuoco che hanno lungamente lottato con legna evidentemente inadatta - una targa, in memoria del predicatore valdese Gioffredo Varaglia, che nel 1558 vi fu messo al rogo.
       Moltissime le presenze istituzionali, a partire dal sindaco della città, che ha sottolineato più volte nel suo discorso come sia fondamentale il rapporto col prossimo, un valore che si deve sempre intrecciare al governo della città, "una città che è aperta e accogliente per chiunque voglia appartenervi". Il senso di comunità, ha ribadito, è anche quello che ha fatto riunire intorno al falò comunità anche molto diverse tra loro, ma tutte ugualmente impegnate per una città capace di coinvolgere tutti coloro che lavorano per il bene comune, e di fare rete, soprattutto in difesa dei più deboli. Molti i rappresentanti delle istituzioni cittadine, insieme al prefetto, ai rappresentanti delle tante organizzazioni che hanno preso la parola per ribadire il proprio impegno, tra cui l'assessore Giusta - che molto si è speso per la buona riuscita della serata - e il presidente del comitato interfedi Valentino Castellani. Tantissimi bambini, incantati dal fuoco e dal colorato drappello dei pirati pastafariani che non potevano far mancare il proprio appoggio a una simile iniziativa, molta attesa, calore e un poco di ironia per la difficoltà evidente con cui è stato acceso il falò - il pastore Ribet ha garantito: "L'anno prossimo la legna però la portiamo noi".
       E come monito per tutti restano le parole di Dario Disegni: "Riaffermiamo con forza che il diritto all'uguaglianza deve andare di pari passo con il non meno essenziale diritto alla diversità. Siamo qui per ribadire l'impegno civile di lottare perché nella nostra società vengano garantiti effettivamente a tutti i cittadini, e a tutti coloro che aspirano a divenirlo fuggendo da regimi totalitari e sanguinari, piena uguaglianza di diritti, indipendentemente dalla fede religiosa, dalla cultura, dalla condizione sociale, dall'orientamento sessuale".

    (moked, 17 febbraio 2017)


    Patrizia Mathieu, presidente del Concistoro della chiesa valdese di Torino: “Per questo condividiamo il palco con tutti coloro che hanno patito o tuttora patiscono l'assenza di diritti: ovviamente gli ebrei, destinatari anch'essi di Lettere Patenti nel 1848, ma anche le associazioni LGBT, quelle per la laicità delle istituzioni e quelle per i rifugiati".
    Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica di Torino: "Riaffermiamo con forza che il diritto all'uguaglianza deve andare di pari passo con il non meno essenziale diritto alla diversità. Siamo qui per ribadire l'impegno civile di lottare perché nella nostra società vengano garantiti effettivamente a tutti i cittadini, e a tutti coloro che aspirano a divenirlo fuggendo da regimi totalitari e sanguinari, piena uguaglianza di diritti, indipendentemente dalla fede religiosa, dalla cultura, dalla condizione sociale, dall'orientamento sessuale".
    Consideriamo vergognoso questo tipo di commemorazione che esalta la “libertà” di orientamenti sessuali deviati rispetto a quello che ordina il Dio della Bibbia a cui entrambi i gruppi si riferiscono. Questa non è celebrazione della libertà che edifica, ma esaltazione del libertinismo che distrugge persone e società. M.C.



    Abbandonati a passioni infami

    Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne hanno cambiato l'uso naturale in quello che è contro natura; similmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento. Siccome non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abbandonati in balìa della loro mente perversa sì che facessero ciò che è sconveniente; ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di contesa, di frode, di malignità; calunniatori, maldicenti, abominevoli a Dio, insolenti, superbi, vanagloriosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza affetti naturali, spietati. Essi, pur conoscendo che secondo i decreti di Dio quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non soltanto le fanno, ma anche approvano chi le commette.
    Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 1

     


    Interessante conferenza al "Saluzzo" sulla "Pop Shoah"

    di Barbara Rossi

    Giovedì 16 febbraio, presso l'Aula Magna dell'I.I.S. "Saluzzo-Plana" di Alessandria, si è svolto un incontro - organizzato dallo stesso Istituto in collaborazione con il laboratorio Officinema e l'Associazione di cultura cinematografica e umanistica La Voce della Luna - con il prof. Claudio Vercelli, storico contemporaneista dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed esperto sui temi della Shoah e del negazionismo.
    Vercelli, a partire dalla sua recente pubblicazione Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, in collaborazione con Francesca R. Recchia Luciani (edizioni Il Melangolo, 2016), ha approfondito con il pubblico degli studenti e degli interessati il fenomeno della riduzione della Shoah a "merce di consumo", evento mediatico manipolato e svuotato di senso, privo di un collegamento diretto con la realtà della tragedia storica cui fa riferimento.
    Attraverso esempi tratti dal cinema e dai social media e rispondendo ai quesiti posti dagli studenti, Vercelli ha riflettuto sui meccanismi spesso ambigui di una "società dello spettacolo" in grado di modificare la percezione individuale e collettiva della Storia, falsificandola a scopi commerciali e ludici.
    In questo senso, il rischio che tutto venga ricondotto ad Auschwitz e, nello stesso tempo, che Auschwitz si riduca a nulla, è molto elevato. Per questo - come sostiene Vercelli nel suo libro - "una riflessione sugli immaginari e sul loro 'buon uso' diventa quindi imprescindibile per cogliere il significato da trasmettere alle nuove generazioni in relazione alla cognizione di una catastrofe che ha segnato la storia umana e dei suoi riflessi sulla formazione di una coscienza civile".

    (di Alessandria, 17 febbraio 2017)


    La linea Maginot d'Israele

    Parlano i consiglieri di Netanyahu: "Non ci ritireremo ancora per far entrare i terroristi e i palestinesi dimentichino Gerusalemme". Le opzioni oltre i "due stati".

    di Giulio Meotti

     
                                La metropoli israeliana di Tel Aviv vista dall'insediamento di Peduel in Cisgiordania, dove dovrebbe sorgere lo stato palestinese.
                                Ogni ipotesi di ritiro da quelle terre oggi è impensabile.

    ROMA - "Uno stato, due stati, è lo stesso". Con queste parole, alla sua maniera, Donald Trump sembra aver rimesso in discussione vent'anni di diplomazia in medio oriente nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese. "Fino a oggi tutto il mondo ha parlato di 'due stati', gli ultimi tre presidenti americani e sei segretari di Stato", dice al Foglio il generale Giora Eiland, l'ex comandante della brigata Givati, fu a capo del National Security Council del governo Sharon, il quale organizzò il ritiro dei coloni da Gaza nel 2005 e che oggi è uno dei più importanti strateghi dello stato ebraico in quanto: "Oggi nessuno, né gli israeliani né i palestinesi, potrebbero accettare quella soluzione così come fu delineata da Bill Clinton a Camp David. Israele ad esempio non può accettare che da Gaza alla Cisgiordania non ci sia la nostra presenza. Trump ha detto che accetta 'altro'. Bene. Ma cosa? Fra la soluzione dei due stati e un solo stato binazionale ci sono numerose alternative. L'apertura americana consente di immaginarle. La soluzione dei 'due stati' non aveva contemplato il fatto che la terra da spartire fra la Giordania e il Mediterraneo era troppo piccola e che la soluzione va cercata in tre deserti circostanti: Sinai, Giordania e Arabia Saudita. Ovvero in un accordo regionale. Fossi Israele coglierei l'opportunità e non mi accontenterei dello status quo". Ma quali sono queste alternative ai "due stati" e cosa ha in mente il premier Benjamin Netanyahu? Ne abbiamo parlato con i suoi consiglieri.
      Mercoledì sembra cambiata la posizione americana sugli insediamenti israeliani. Se sotto l'Amministrazione Obama il confine del 1967 sembrava invalicabile e ogni casa oltre la linea verde era un caso politico, in qualche modo oggi gli Stati Uniti tornano alla formula di George W. Bush contenuta in una lettera nel 2004 ad Ariel Sharon: il riconoscimento, de facto, dei "blocchi" di insediamenti. Netanyahu ha in mente uno "status minus", uno stato palestinese ridotto e "demilitarizzato" che riconosce quello ebraico. Israele conserva la sicurezza a ovest del Giordano, l'accesso ai confini, lo spazio aereo e mantiene una presenza in Cisgiordania. La costruzione della barriera difensiva è un altro punto di non ritorno. Il premier israeliano ha fatto suo, infatti, il piano disegnato da Ariel Sharon nel 1999, in cui Israele conserva due "fasce" verticali collegate da arterie che dovrebbero consentire la difesa del territorio israeliano di fronte a un attacco convenzionale da est.
      La fascia che costeggia il Giordano sarebbe profonda 15-20 chilometri, mentre quella disegnata a ridosso dell'hinterland di Tel Aviv sarebbe di circa sette chilometri. "Mentalità da linea Maginot", ha commentato il giornale della sinistra Haaretz. Lasciando Gaza, nel 2005, Israele abbandonò il "sentiero di Filadelfia", usato da Hamas per far entrare armi dall'Egitto nella Striscia. Un errore che Israele non ripeterebbe mai, per cui deve sigillare e controllare i confini. Netanyahu continuerà nel progetto di difendere Gerusalemme allargandone il confine meridionale, impedendo un autentico accerchiamento di Gerusalemme da parte dei palestinesi, che in caso contrario godrebbero di una continuità geografica fino al quartiere di Talpiot, in centro città. La sinistra israeliana, da Ehud Barak a Yitzhak Herzog, preferisce la formula dei "security arrengements" piuttosto che dei "defensible borders". E' il piano messo appunto un anno fa dal generale Amos Yadlin: Israele abbandona l'85 per cento dei Territori, trasferisce le aree A e B della Cisgiordania ai palestinesi, finisce la barriera di sicurezza e ricolloca i coloni fuori dal tracciato in Galilea, nel Negev o nei blocchi di insediamenti. Utopistica.
      Come utopistica è la soluzione di "un solo stato" con l'annessione totale dei Territori e la cittadinanza completa ai palestinesi. Sarebbe il cosiddetto "stato binazionale". Già nel periodo tra le due guerre, un piccolo ma importante gruppo di pensatori ebrei (da Martin Buber a Hannah Arendt) si batteva per uno stato binazionale. La logica del sionismo e la guerra sopraffecero i loro sforzi, ma l'idea è ancora viva tra ebrei e arabi frustrati dagli evidenti limiti del presente. L'essenza di questa visione, abbracciata oggi dal presidente israeliano Ruby Rivlin, da intellettuali ebrei americani come il compianto Tony Judt e da intellettuali palestinesi come Edward Said e Sari Nusseibeh, è la coesistenza in modi che richiedono di andare oltre lo stallo della rivendicazione e del rifiuto. Ma la stragrande maggioranza degli israeliani è contraria. Sa che i precedenti non sono stati felici e fortunati: Yugoslavia, Siria, Libano. Inoltre, il mainstream israeliano ha accettato di avere tre alternative: essere territorialmente grande, non ebraico e democratico; grande, ebraico e non democratico; piccolo, ebraico e democratico. Solo l'ultima appare come una via praticabile.
      C'è l'ipotesi lanciata da Moshe Dayan di una "annessione mascherata" attraverso una "federazione" con la Giordania e la nascita di una minoranza alleata, come in Irlanda, come in Canada. L'Intifada a cicli ha messo in crisi il progetto. C'è il piano "ad interim": visto che è un accordo definitivo è impossibile, israeliani e palestinesi dovrebbero accordarsi sulla situazione come è oggi sul terreno. Ma i palestinesi temono che "provvisorio" significherebbe "definitivo". C'è il "ritiro unilaterale parziale": in mancanza di accordo, Israele ridisegna i confini uscendo da alcune aree della Cisgiordania. E' quello che cercarono di fare Ariel Sharon ed Ehud Olmert dieci anni fa. Poi Hamas salì al potere a Gaza, piovvero i missili e non se ne è più parlato. C'è lo "status quo": non fare niente di radicale e innovativo, facilitare la vita dal basso, "gestire" il conflitto e le ondate di terrorismo. C'è il piano del ministro della Difesa, Avigdor Lieberman: gli "scambi territoriali" come fecero francesi e tedeschi con l'Alsazia e la Lorena. L'idea è che la pace si dà in cambio di altra pace e non in cambio di terra.
      Israele dovrebbe cedere Umm el Fahm e il "triangolo" in Galilea nel futuro stato palestinese. C'è un problema: gli arabi israeliani vogliono vivere sotto sovranità israeliana, non arabo-islamica. C'è la "soluzione tre stati": Israele, Cisgiordania e Gaza, dividendo queste ultime. I palestinesi sono contrari, l'Egitto pure, perché teme di dover gestire la Striscia oggi nelle mani di Hamas. C'è il "piano di stabilità" del ministro dell'Educazione Naftali Bennett, leader della destra al governo: i palestinesi che vivono in alcune porzioni della Cisgiordania (Area A e Area B) dovrebbero "autogovernarsi", mentre Israele annetterebbe la zona dove vivono i coloni, garantendo ai residenti palestinesi piena cittadinanza israeliana. Mordechai Kedar, professore di arabo alla Bar Ilan University in Israele e per vent'anni nell'intelligence militare, ha teorizzato il piano degli "emirati": "Il medio oriente oggi è diviso fra due modelli", dice Kedar al Foglio. "Quello fallito nazionale di Siria, Iraq, Libia e Yemen, e quello di successo di Qatar, Dubai e Abu Dhabi. L'emirato e le tribù hanno successo perché sono stati omogenei. Lo stesso vale per i palestinesi: da Gerico a Hebron, ogni città ha la sua tribù. A Ramallah ci sono i Barghouti come i Masri a Nablus. Gaza da dieci anni funziona come stato, ha la sua legge, il suo esercito. Israele sa che uno stato palestinese in Cisgiordania finirebbe come la Siria. Ogni giorno l'Autorità Palestinese combatte contro il proprio popolo a Nablus e altrove, perché per i palestinesi è una creazione israeliana artificiale. E se diventasse stato, finirebbe come la Libia. Gli americani pensano da americani, ma qui c'è bisogno di una soluzione mediorientale. E questa non può basarsi sul nazionalismo arabo, che ha fallito ovunque".
      Cosa farà Netanyahu? "Bibi non vuole annettere altri territori, è problematico per la comunità internazionale e per Israele", dice al Foglio Efraim Inbar, docente alla Bar Ilan University e consigliere molto ascoltato dal primo ministro (Netanyahu tenne nella sua università il famoso discorso del 2009 sui due stati). "Bibi vuole partire dai fatti sul terreno, come i blocchi degli insediamenti. E' a favore di uno stato palestinese demilitarizzato, dai confini allo spazio aereo, soprattutto la Valle del Giordano, che deve restare sotto controllo israeliano, e i palestinesi devono dimenticarsi Gerusalemme. I palestinesi avevano la possibilità di avere uno stato, ma hanno fallito nel nation building, Hamas e l'Olp si fanno la guerra e hanno creato un regime corrotto e inefficiente. Nel frattempo lo status quo sta funzionando. I giordani entreranno forse nella partita con una federazione con i palestinesi. Dopo che Abu Mazen sarà fuori, l'Autorità Palestinese potrebbe sciogliersi. E in quel caso dovremmo avere a che fare con tante entità palestinesi. Dopo il ritiro unilaterale abbiamo capito che non è una buona idea. Ci siamo ritirati dal Libano ed è arrivato Hezbollah. Ci siamo ritirati da Gaza ed è arrivato Hamas. Questo è il medio oriente". Dove non esistono soluzioni "facili". E forse nessuna "soluzione".
      Perché, almeno finora, il conflitto non è stato sulla grandezza, ma sull'esistenza stessa di Israele. "Non c'è stato soltanto il ritiro da Gaza, ricordiamo cosa è successo con Oslo", dice al Foglio il generale Yaakov Amidror, per quattro anni a capo del National Security Council di Bibi Netanyahu: "In un mese, ci furono 122 israeliani uccisi. Un mese. Da terroristi provenienti dalla Cisgiordania. Poi siamo tornati nei Territori e il terrorismo è calato". Dopo la strage all'hotel Park Hotel di Netanya, Israele rientrò nelle città palestinesi. "La sicurezza da allora è cruciale per Israele", conclude il generale Amidror. "I palestinesi devono accettare che Israele possa intervenire per fermare il terrorismo in caso di necessità. Durante Oslo, i palestinesi avevano il controllo totale delle loro aree, molto più di oggi, e noi israeliani ci fidammo troppo di loro. Anche oggi, pur con una forte cooperazione fra Israele e le forze di sicurezza palestinesi, l'80 per cento dei terroristi non sono fermati dai palestinesi, ma dagli israeliani. Deve restare così". Negoziando all'ombra della linea Maginot.

    (Il Foglio, 17 febbraio 2017)


    Stranamente, in tutte queste congetture non si parla mai di Gerusalemme. Si preferisce fingere che una volta risolti altri problemi, la questione della capitale troverebbe una soluzione. Per il momento, nella legislazione israeliana si dice che Gerusalemme è “la capitale unica e indivisibile dello Stato d’Israele”. Il dilemma dunque è semplice: o i palestinesi accettano questa dizione o gli israeliani la modificano. Da qui bisognerebbe cominciare. Finché il dilemma resta aperto, dire che si sta lavorando per arrivare alla soluzione di “due stati per due popoli che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza” è pura ipocrisia. Diplomaticamente necessaria forse, ma sempre ipocrisia. M.C.


    Quella soluzione bella e impossibile

    La soluzione a due stati non è stata cancellata mercoledì da Netanyahu e nemmeno da Trump: è stata cancellata negli ultimi venticinque anni dal rifiuto palestinese.

    A conclusione di un articolo appassionante anche se un po' disordinato che abbiamo proposto su israele.net, Ira Sharkansky, professore di scienze politiche all'Università di Gerusalemme, scrive: "Ogni commento è ben accetto, ma si resista alla tentazione di offrire la ricetta per la soluzione: tanti vi hanno provato e ne sono usciti furiosi e frustrati". Condividiamo. Se c'è una cosa irritante per chiunque si occupi con onestà d'intenti e con qualche competenza dell'annosa questione israelo-arabo-palestinese è l'arrogante sicumera di chi è convinto d'avere la soluzione in tasca. Non fanno eccezione i tantissimi che da anni, anzi da decenni, vanno ripetendo come un mantra che l'unica soluzione di pace è la soluzione a due stati. E chiunque esprima qualche perplessità è per definizione "contro la pace". In questi anni abbiamo proposto su israele.net decine di articoli scritti da autori israeliani di varia estrazione e ispirazione che spiegano in modo pacato e argomentato, e con spirito pragmatico, i rischi, le controindicazioni, gli ostacoli che rendono assai problematica la soluzione a due stati....

    (israele.net, 17 febbraio 2017)


    17 febbraio, i protestanti festeggiano «la libertà»

    Si ricorda l'estensione dei diritti civili ai valdesi

    di Donatella Coalova

     
    Carlo Alberto di Savoia
    I protestanti oggi sono in festa per la ricorrenza del 17 febbraio in cui celebrano il ricordo delle "Patenti di grazia", concesse dal re Carlo Alberto il 17 febbraio 1848. Con questo decreto i valdesi vennero «ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici, a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università ed a conseguire i gradi accademici». Una petizione firmata, fra gli altri, da Roberto d'Azeglio, da Camilla Cavour e da 75 ecclesiastici cattolici, aveva chiesto la parità dei diritti civili per i valdesi. Il provvedimento del re, anche se non innovava nulla riguardo all'esercizio del culto, apriva di fatto la via alla libertà religiosa. Il 29 marzo 1848 fu emanato un analogo decreto per l'emancipazione degli ebrei.
       Nel ricordo di questi fatti, ogni anno i protestanti organizzano la "Settimana della libertà" che ha due momenti culminanti: la sera del 16 febbraio vengono accesi i tradizionali falò, nel ricordo delle fiamme usate nel 1848 dai valdesi come segnale per propagare la notizia delle "Lettere patenti", mentre la mattina del 17 si celebra un culto solenne. Accanto a questo, nelle valli piemontesi a forte presenza valdese c'è un ricco calendario di manifestazioni, con concerti, rappresentazioni teatrali, proiezione di film, momenti di fraternità conviviale, cortei accompagnati dalle bande musicali, fiaccolate, canti delle corali. In tutta Italia si tengono incontri, momenti di studio e riflessione, mentre si sta diffondendo l'usanza dei falò. Ieri sera per la prima volta ne è stato acceso uno anche a Torino, in piazza Castello: all'evento sono intervenuti il pastore Paolo Ribet, la presidente del concistoro Patrizia Mathieu, il presidente della comunità ebraica torinese Dario Disegni, la sindaca Chiara Appendino, il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino. Il vescovo di Pinerolo, Pier Giorgio Debernardi, era presente ieri sera all'accensione del falò di Pinerolo e stamani sarà al culto nel tempio di Torre Pellice.
       Numerose le conferenze in programma. La Commissione studi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, come sussidio per questa settimana, ha preparato il libro "La coscienza protestante", a cura di Elena Bein Ricco e Debora Spini, con la presentazione di Massimo Aquilante. Il testo si focalizza sul cinquecentesimo anniversario della Riforma e appunto a questo argomento è dedicata buona parte degli incontri di questi giorni. Oggi a Firenze il pastore Giuseppe Platone interviene su "Valdesi e Riforma nel passaggio di Chanforan 1532"; a Pisa Adriano Prosperi parla su "Lutero 201 7: bilanci e riflessioni degli storici"; a Taranto il pastore Claudio Pasquet riflette su "I valdesi e la Riforma"; a Pinerolo conferenza del pastore Laurent Schlumberger, presidente della Chiesa protestante unita di Francia, su "Prospettive del protestantesimo nell'Europa di oggi". Domenica 19 a Bergamo intervento del pastore Feliz Kamba Nzolo su "Fuori dal "ghetto" europeo. L'eredità di Lutero, Zwingli e Calvino in Africa a 500 anni dalla Riforma protestante".
       Significativamente alcuni di questi incontri hanno un taglio ecumenico. Oggi a Udine l'associazione culturale evangelica "Guido Gandolfo" e il Segretariato attività ecumeniche (Sae) invitano a una tavola rotonda con il teologo valdese Paolo Ricca, l'archimandrita Athenagoras Fasiolo e il presidente del Sae, Piero Stefani su "La dimensione ecumenica della Riforma". Altre iniziative sono organizzate dal Sae a Milano, a Venezia e a Roma. Il 21 febbraio, a Vasto, nell'ambito del ciclo su "500 anni dalla Riforma protestante. I credenti interpellati dalla Parola", intervento di don Gianni Carozza e Gianna Sciclone, mentre il 23 febbraio, a Venezia, l'Istituto di Studi ecumenici san Bernardino organizza una giornata di studio su "La nozione di riforma e il presente come tempo di riforma".

    (Avvenire, 17 febbraio 2017)


    "
    Significativamente alcuni di questi incontri hanno un taglio ecumenico". E' proprio così: significano che i protestanti storici si avviano ad essere interamente riassorbiti nel cristianesimo istituzionale cattolico-romano opportunamente allargato. In questa occasione allora vogliamo ricordare che nei "Regi Stati Sardi", anche dopo il 1848 operavano degli evangelici (non valdesi) che non erano stati affatto emancipati dai decreti di Carlo Alberto. Riportiamo uno stralcio di un nostro articolo del 14 marzo 2011:
      Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, promulgò il suo famoso Statuto che nel 1861 sarà assunto anche dal futuro Regno d'Italia. Il primo articolo suona così:
      Art. 1. La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.
      I "culti allora esistenti" erano soltanto due: gli ebrei e i valdesi, che ancora oggi festeggiano quella data come un momento storico della loro "emancipazione". Gli evangelici liberi invece a quel tempo non si sentivano affatto emancipati, perché non rientrando tra gli "ora esistenti", potevano non essere tollerati, conformemente alle leggi.
      «I governanti liberali di Torino, compreso il Cavour, erano stati quanto mai renitenti ad abbandonare un'interpretazione restrittiva dell'art. 1 dello Statuto. Come è ben noto, questo articolo, mentre proclamava «religione dello Stato» quella cattolico-romana, sanciva che «gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Poteva dunque interpretarsi nel senso che non vi fosse tolleranza se non per i culti degli ebrei e dei valdesi, già esistenti nello Stato sabaudo, ed anche nel loro caso «conformemente alle leggi», comprese dunque le norme penali della legislazione sarda, che punivano la propaganda anti-cattolica. Molti evangelici, pertanto, erano stati vittime di processi e condanne per la loro attività proselitistica, oltre che di violenze brutali di folle fanatizzate dal clero.» (Giorgio Spini, “L'evangelo e il berretto frigio”, Torino, Claudiana, 1971, p. 9). «Oh, mia patria, sì bella e perduta!»

    La richiesta di Netanyahu a Trump: sovranità israeliana sul Golan

    Il premier ha suggerito a Washington di riconoscere l'annessione. Lo scopo è creare una zona cuscinetto anti-jihadisti ed Hezbollah.

    Giugno 1967
    Le Alture del Golan sono state occupate nel corso della guerra arabo-israeliana del 1967 e annesse da Israele nel 1980
    Agosto 2014
    Quarantacinque soldati di pace delle Fiji posizionati sulle Alture del Golan sono stati sequestrati da Al-Nusra.

    di Giordano Stabile

    Golan
    C'è una parola che non è stata pronunciata nella conferenza stampa alla Casa Bianca di Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Ma ha tenuto banco nell'incontro fra i due leader. Golan. Il campo di battaglia nelle guerre arabo-israeliane dove per decenni si sono confrontati Israele e Siria. Occupato nel 1967, annesso nel 1980, rimasto «congelato» fino al deflagrare della guerra civile siriana. Netanyahu ha chiesto a Trump di riconoscere l'annessione israeliana. Una richiesta impegnativa, un passo difficile, molto di più dell'eventuale spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme o del riconoscimento degli insediamenti. Ma, per Israele, più importante, e che mira agli equilibri futuri in Medio Oriente.
       Le Alture del Golan sono uno spartiacque strategico. L'esercito che ci sta in cima può scendere da un lato fino a Damasco, senza ostacoli. O dilagare verso il Lago Tiberiade e il cuore di Israele, dall'altro. Dal 1974 una missione Onu di osservatori faceva da cuscinetto fra israeliani e siriani. Fino all'agosto del 2014, quando 45 Caschi Blu delle Fiji vengono sequestrati dai combattenti di Al-Nusra, l'Al-Qaeda siriana. La missione Onu di fatto finisce lì e l'esercito israeliano si trova su una frontiera contesa fra ribelli moderati, jihadisti, alleati dell'Isis, unità regolari siriane e Hezbollah libanesi. Il Golan si ritrova al centro del dispositivo di sicurezza di Israele.
       Per questo Netanyahu ha insistito con Trump. Ha spiegato, secondo fonti israeliane, che l'annessione delle Alture è irrinunciabile, mentre in Cisgiordania non avrebbe senso «annettersi due milioni di palestinesi». Ma il premier ha anche «suggerito» al presidente un secondo passo. Applicare l'idea di John McCain sulle «no-fly-zone» al Sud della Siria al cosiddetto «triangolo druso» alle frontiere con Israele e la Giordania. La politica dell'Amministrazione Usa sulla Siria è in via di ridefinizione. McCain è un anti-russo e Trump vorrebbe tentare una collaborazione con Putin contro l'Isis sul territorio siriano. Ma le cose evolvono rapidamente e ci potrebbe essere spazio per una soluzione molto gradita a Israele. Un «zona-cuscinetto» che tenga fuori sia i gruppi ribelli islamisti sia Hezbollah.
       Israele ci sta lavorando dal 2014. Dopo la cacciata dell'Onu i ribelli stavano dilagando. Solo l'intervento di Hezbollah li ha contenuti. I miliziani libanesi hanno ripreso la città strategica di Quneitra e impiantato lì il loro quartier generale. Il fronte è fluido, i villaggi passano di mano in mano, anche perché i ribelli sono molto divisi.
       L'esercito israeliano osserva, a parte qualche raid contro postazioni dell'Isis e sui convogli diretti a Hezbollah. Punta sulla carta dell'aiuto umanitario per far breccia nella popolazione. I feriti, sia civili sia combattenti ribelli, vengono fatti passare al confine e curati negli ospedali israeliani. Almeno tremila in tre anni. Per ragioni umanitarie non si fanno distinzioni, e anche quelli di Al-Nusra vengono soccorsi. Ma i militari sottolineano le tante vite salvate. Compresa una bambina di 5 anni, che aveva bisogno di un urgente trapianto di midollo, curata in un centro specializzato di Haifa.
       Nei villaggi in mano ai ribelli manca tutto. Non c'è elettricità. I generatori, senza gasolio, sono fermi. L'inverno è rigido, le notti si va sempre sotto zero. L'esercito israeliano ha creato un'unità specializzata nell'assistenza ai civili. I militari notano che non ci sono più alberi, i contadini li hanno tagliati per scaldarsi con la legna. Fanno arrivare cibo, medicinali, vestiti pesanti e «18 tonnellate» di coperte. Una politica che comincia a far breccia soprattutto fra i drusi. Nei villaggi del Golan occupato, i ritratti di Assad cominciano a scomparire dai ristoranti. A Buqata compare la bandiera israeliana su una scuola ricostruita. I rapporti con i drusi, la comunità araba che meglio si è integrata in Israele, servono anche a estendere l'influenza più in là. Se davvero nasceranno le «zone cuscinetto» in Siria, sul modello di quella che la Turchia si è presa nel Nord, Israele giocherà la carta drusa per tenere lontani dal Golan i suoi due avversari arabi storicamente più temibili, la Siria ed Hezbollah.

    (La Stampa, 17 febbraio 2017)


    Perché l'intesa Trump-Netanyahu su Israele e Palestina non è sovversiva

    di Marco Orioles

    Nel commentare l'incontro di ieri alla Casa Bianca tra Trump e il premier israeliano Netanyahu, la stampa mondiale parla di una presunta "svolta" americana. Gli Stati Uniti, si sostiene, hanno voltato le spalle alla posizione storica del Paese circa il processo di pace tra israeliani e palestinesi: Trump avrebbe affossato la soluzione dei "due Stati per due popoli", così caldamente perseguita dai suoi predecessori e giudicata l'unica via da parte della comunità internazionale.
       Questa lettura si basa tuttavia su una visione distorta della posizione dell'amministrazione Trump e, soprattutto, prescinde del tutto da quanto hanno affermato lo stesso tycoon e Netanyahu in conferenza stampa. I due leader non hanno solo ribadito la stretta alleanza tra i rispettivi Paesi. Hanno anche delineato il percorso verso una possibile risoluzione del conflitto più spinoso e duraturo al mondo.
       La parola chiave è "deal", che Trump ha scandito più volte accanto al soddisfatto Bibi. La soluzione perorata da Trump punta su un coinvolgimento dei principali Paesi della regione che, come ha sottolineato Netanyahu, sempre più vedono in Israele un alleato piuttosto che un nemico. È per questo che Netanyahu ha affermato che vede molto prossima la luce in fondo al tunnel.
       Quanto alla formula concreta con cui dovrebbe realizzarsi la pace, Trump ha detto chiaramente che spetta alle parti interessate deciderla, sia essa nel solco degli accordi di Oslo - due Stati, per l'appunto - ovvero un singolo Stato in versione confederale con pieni diritti e magari la cittadinanza israeliana per i palestinesi.
       I prerequisiti perché si giunga ad un accordo sono tre e sono stati ribaditi in modo stentoreo da Netanyahu: riconoscimento dello Stato di Israele, fine della campagna di odio antiebraico fomentata sin nelle scuole dai palestinesi, e mantenimento del controllo militare sulla Cisgiordania da parte israeliana. Senza queste condizioni, infatti, il sorgere di uno Stato palestinese equivarrebbe all'avvento di un nuovo Iran dedito al perseguimento della distruzione di Israele.
       Il consenso Trump-Netanyahu è dunque tutt'altro che rivoluzionario e sovversivo. Il loro è un approccio ragionevole che poggia su una lettura corretta dell'attuale stallo del processo di pace. Fino a che i palestinesi non accetteranno la convivenza pacifica con gli ebrei di Israele, nessuna pace può essere all'orizzonte. La stampa farebbe bene ad accorgersi che alla Casa Bianca c'è un leader pragmatico e realista. Che non vuole inimicarsi il resto del mondo con politiche prevaricatrici, anzi.
       L'approccio di Trump ai problemi globali, incluso quelli del Medio Oriente, si basa proprio sul concetto chiave rinserrato nella mente di Trump: deal. Un accordo che, come ha detto Trump, comporterà dei "compromessi" da parte di tutti gli attori, Israele incluso. Che sia la volta buona?

    (formiche.net, 17 febbraio 2017)


    Hezbollah minaccia Israele dopo l'incontro Trump-Netanhyahu

    Dopo l'incontro fra Trump e Netanyahu e le dichiarazioni secondo cui un solo stato israelo-palestinese è meglio di due sono stati gli Hezbollah a minacciare.
    Il segretario generale dell'organizzazione integralista libanese, Hassan Nasrallah, ha affermato che le dichiarazioni di Trump e Netanyahu segnano la fine del processo di pace israelo-palestinese. Le politiche del presidente Trump sono confuse, ha aggiunto, ricordando che la forza del gruppo militante libanese è stata il principale deterrente contro l'aggressione di Israele a Beirut e minacciando esplicitamente, per la prima volta, di colpire gli impianti nucleari di Dimona in caso di guerra. Nasrallah ha fatto le sue affermazioni nel corso di una cerimonia per i 38 anni della rivoluzione iraniana.
    Dimona è un centrale nucleare e Nasrallah ha detto che Israele dovrebbe smantellarlo. Ci sono sospetti che in quel luogo vengano effettuate produzioni nucleari militari di Israele che non ha mai ratificato il Trattato di non proliferazione e che non è dunque soggetto ai controlli dell'Aiea.
    Trump ha affermato che il 'dogma', questo il termine che ha usato, dei due stati dev'essere superato nel perseguimento della pace in Medioriente.

    (euronews, 16 febbraio 2017)


    Gli USA potrebbero creare una NATO mediorientale con Israele in chiave anti-Iran

    Gli Stati Uniti potrebbero creare in Medio Oriente un'alleanza militare sul modello della NATO in chiave anti-Iran, che potrebbe indirettamente minacciare la Russia.
    Questo parere è stato espresso a RIA Novosti dall'analista militare e professore associato del dipartimento di Scienze Politiche e di Sociologia dell'Università di Economia "Plekhanov", il tenente colonnello Alexander Perendzhiev.
    Il Wall Street Journal, riferendosi a diverse fonti nei governi della regione mediorientale, ha scritto che l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sta negoziando con gli alleati arabi la formazione di un'alleanza militare diretta contro l'Iran sostenuta con informazioni d'intelligence da Israele. Secondo il giornale, nella coalizione possono entrare l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, l'Egitto, la Giordania ed altri Paesi arabi.
    Nell'articolo si osserva che l'alleanza avrà una peculiarità della NATO, che implica la difesa reciproca: un attacco contro uno dei membri del blocco militare sarà percepito come un attacco contro la coalizione nel suo complesso.
    "Gli Stati Uniti possono creare in Medio Oriente un analogo dell'Alleanza Atlantica in chiave anti-Iran, che indirettamente minaccia la Russia: Teheran è il nostro alleato nella lotta contro il terrorismo internazionale", — ha dichiarato Perendzhiev.
    Ritiene che le azioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump verso l'Iran fossero prevedibili.
    Secondo l'analista, le prospettive di creare "una NATO mediorientale" non possono essere ritenute rosee.
    "Possiamo aspettarci la creazione di una coalizione che ha obiettivi aggressivi contro l'Iran. Il discorso può riguardare non solo singole operazioni segrete, ma operazioni militari su vasta scala. Gli americani sono evidentemente disposti ad agire con mani di altri", — ha detto Perendzhiev.
    Ha osservato che l'Iran è un alleato della Russia nella lotta contro il terrorismo internazionale e fa parte dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO).
    "Di conseguenza, la Russia e la Cina dovrebbero sostenere questo Stato e non permettere di fare dell'Iran un territorio incontrollato, come è avvenuto dopo l'aggressione militare degli americani e dei loro alleati in Iraq e Libia," — suppone l'esperto militare.
    (Sputnik, 16 febbraio 2017)


    Gli occhi d'Israele a Gaza

    GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane ritengono che Hamas non abbia alcun interesse a impegnarsi in un altro conflitto militare con Israele, ma Tel Aviv conduce comunque un'intensa sorveglianza sulla Striscia di Gaza, 24 ore al giorno sette giorni su sette. Le Forze di difesa si avvalgono di sistemi come palloni aerostatici in grado di scattare fotografia ad elevatissima risoluzione, ma un ruolo fondamentale è attribuito all'unità di osservazione elettronica dell'Esercito israeliano, un reparto composto di sole donne che costituisce "gli occhi di Israele nella Striscia di Gaza". Per le donne soldato che passano tutto il giorno, ogni giorno, a osservare la Striscia di Gaza, è chiaro che la scena è cambiata dall'operazione militare Protective Edge. Hamas ha costruito avamposti militari lungo il confine e svolge anche pattugliamenti regolari, sia per consolidare il suo controllo sulla Striscia, sia per osservare ciò che sta accadendo sul lato israeliano. Le 130 operatrici dell'unità di osservazione elettronica devono essere in grado di monitorare e localizzare eventuali infiltrazioni terroristiche e mantenere al contempo una linea di comunicazione diretta e costante con le unità militari sul campo.

    (Agenzia Nova, 16 febbraio 2017)


    "Polizia, ammirazione profonda"

     
    "Proviamo gratitudine per gli eroi del passato, le cui vicende ci danno fiducia e speranza. Ma sentiamo anche una profonda e sincera ammirazione nei confronti di chi, oggi, nella piena consapevolezza del proprio ruolo, tutela la sicurezza di ogni cittadino di fronte alle nuove minacce che insidiano il mondo libero e democratico".
    Così la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni intervenendo nel corso di una cerimonia alla Scuola superiore di Polizia organizzata in ricordo di Giovanni Palatucci, commissario reggente della questura di Fiume che fu ucciso a Dachau e che lo Yad Vashem ha voluto riconoscere "Giusto tra le Nazioni" per l'assistenza offerta agli ebrei perseguitati.
    Ad accogliere la Presidente Di Segni il capo della Polizia Franco Gabrielli, che a proposito di Palatucci ha affermato: "Siamo orgogliosi di riaffermare i valori di cui quest'uomo è stato esempio e portatore".
    Ad intervenire tra gli altri anche il ministro plenipotenziario dell'ambasciata israeliana Rafael Erdreich. Sul palco inoltre l'attore Sebastiano Somma, che ha interpretato Palatucci in una fiction di qualche anno fa.
      Di seguito l'intervento della Presidente Di Segni
      Signor Capo della polizia Gabrielli, illustri autorità,
      A nome di tutte le Comunità Ebraiche d'Italia vi ringrazio per l'invito a partecipare a questa cerimonia dedicata, e delicata, in ricordo di Giovanni Palatucci, che fu questore di Fiume e sotto la cui ala protettiva diverse famiglie ebraiche braccate poterono salvarsi dalle persecuzioni nazifasciste. Il suo esempio ci dimostra che è sempre possibile compiere una scelta, a volte spontanea, a volte anche riflettuta, ma che si sceglie tra bene e male, tra il bene di stessi e degli altri, tra il bene di singoli e il bene collettivo. Che l'indifferenza non deve mai divenire una opzione.
      Commemorando Palatucci in questa sede così significativa, idealmente ricordiamo e onoriamo tutte quelle figure che, vestendo la divisa, si adoperarono in tal senso.
      Poliziotti, carabinieri, finanzieri. La loro posizione e condizionamento di rigorosa sistematicità professionale rendeva ancora più arduo fare qualcosa senza attirare pericolose attenzioni su di sé, ma non per questo esitarono. Non per questo si tirarono indietro.
      Giusto e doveroso che il loro coraggio sia riconosciuto e costituisca un esempio per l'intera collettività, soprattutto per quelle nuove generazioni che sono chiamate a costruire il futuro del paese mettendo al centro del loro impegno il principio di legalità e il rispetto delle leggi, prima di tutte quelle non scritte ma comunemente sottoscritte della dignità e della sacralità di ogni vita umana.
      Valori che si rinnovano continuamente, davanti alle sfide, anche le piccole, che ogni giorno ci pone. Sfide che a volte trascuriamo di notare, nel prossimo che vive a fianco a noi, ma che vanno raccolte.
      Valori che oggi riaffermiamo in questo luogo, con emozione e commozione, interrompendo per una manciata di ore la vostra preziosa operosità della vostra missione, la frenesia della giornata lavorativa per fermarsi e dedicarsi ad una riflessione che ci riavvicina al senso più autentico del vostro lavoro, del vostro impegno quotidiano. Vostro che è fatto nostro.
      Proviamo gratitudine per gli eroi del passato, le cui vicende ci danno fiducia e speranza. Ma sentiamo anche una profonda e sincera ammirazione nei confronti di chi, oggi, nella piena consapevolezza del proprio ruolo, tutela la sicurezza di ogni cittadino di fronte alle nuove minacce che insidiano il mondo libero e democratico.
      È un'ammirazione a voi tutti che sento di esprimervi a nome dell'intero ebraismo italiano.
      Noemi Di Segni, Presidente UCEI
    (moked, 16 febbraio 2017)


    Palestina, svolta di Trump. «Due Stati? Non è detto»

    New York - Vertice con Netanyahu, linea Obama bocciata. Netanyahu in visita alla Casa Bianca: «Donald l'amico più fedele di Israele». Per il presidente Usa si può arrivare comunque alla pace.

    di Flavio Pompetti

    Apertura sullo spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme, «vorrei farlo, lo stiamo valutando» In prima fila il genero Kushner salutato dal premier israeliano: «Ti conosco da quando eri bambino»

     L'intesa
     
      «La soluzione dei due Stati è ancora possibile ma non è scontata». Sorride a pieno volto Netanyahu al termine della conferenza stampa che ha appena tenuto a fianco del presidente americano. Gli Usa hanno lasciato intendere che sono pronti a discutere di tutto con lo storico alleato, anche l'eventuale abbandono della teoria che vede Palestina e Israele vicini e sovrani nei rispettivi territori. Già prima che i due si vedano da soli nello Studio Ovale dettano pubblicamente la linea delle nuove relazioni tra Usa e Israele. Con Trump che supera il "dogma" dei due Stati nel perseguimento della pace in Medioriente. Il presidente americano si sgancia così da quello che era stato un "imperativo" per Washington e la sua politica nella regione fin dall'amministrazione Clinton. «Guardo ai due Stati, guardo a uno Stato. Mi piace quello che piace a entrambe le parti. Posso vivere con entrambe le soluzioni», afferma, sottolineando la necessità che siano direttamente le due parti, israeliani e palestinesi, a trovare una soluzione. «Credo che troveremo un'intesa, forse migliore di quanto si pensi». Una posizione che, già prima dell'incontro tra i due presidenti, era stata condannata dall'Autorità nazionale palestinese, che aveva avvertito: «Gli Usa restino fedeli alla soluzione dei due Stati»
    Il confronto con l'ultima visita quasi due anni fa, è stridente. Netanyahu arrivò allora a Washington alla vigilia della firma dell'accordo sul nucleare iraniano. Obama lo trattò con freddezza, innervosito dall'invito che i repubblicani avevano fatto al primo ministro israeliano di pronunciare un discorso al Congresso sulla materia. Netanyahu ricambiò la scortesia, con un'arringa anti-iraniana che suonò come un'ingerenza indebita.

     L'appoggio mancante
      Tre giorni prima del suo arrivo nella capitale americana il premier israeliano ha perso un importantissimo punto d'appoggio con le dimissioni dell'ex generale Mike Flynn dalla poltrona di consulente presidenziale per la Sicurezza Nazionale. Flynn negli ultimi anni ha sviluppato un'avversione ossessiva per il regime di Tehran, e sarebbe stato il miglior alleato di Israele nella trattativa di vertice per la modifica del trattato, che Trump ha promesso di avviare. Al suo posto c'è invece la presenza rassicurante in prima fila nella platea di Jared Kushner. «Posso dirlo in pubblico che ci conosciamo
    da quando eri un bambino?» gli ha sorriso l'ospite, che vanta un lungo e solido rapporto di amicizia con i genitori di Jarred.

     L'impegno elettorale
      Sarà il giovane genero di Trump a condurre le trattative per la riapertura di un accordo di pace tra Israele e la Palestina. «Ci vorranno concessioni da entrambe le parti» ammonisce Trump. «Diciamo che almeno questo è un punto di inizio» risponde Netanyahu che tiene diritta la barra sul riconoscimento da parte di Abbas dello stato di Israele, e del controllo della sicurezza per il suo stato della zona ad ovest del fiume Giordano.
    Trump ha promesso in piena campagna elettorale che avrebbe ristabilito il primato dell'amicizia tra i due paesi e l'arrivo di Bibi e di sua moglie Sara è il coronamento dei desideri di tanti ebrei conservatori d'America. «Israele non sarà più bersaglio da oggi in poi di azioni unilaterali e di boicottaggio» ha promesso Trump all'amico, e Bibi l'ha ringraziato, sollevato da una promessa che sicuramente caratterizzerà gli interventi della missione americana all'Onu nei prossimi anni. I due leader hanno un asso nella manica, che il primo ministro israeliano ha anticipato durante l'incontro con la stampa, prendendo in contropiede lo stesso Trump. Le dinamiche della guerra all'Isis e dell'intervento in Siria hanno disegnato una nuova mappa dei rapporti internazionali, nella quale c'è un maggior consenso anti-iraniano nel mondo arabo.

     Lo scacchiere
      Nell'ambizione dei due leader c'è l'idea che un accordo su Israele e la Palestina potrebbe precludere ad un trattato più vasto, che possa riportare la pace e la sicurezza nell'intera regione. La premessa però è quella di un asse rafforzato tra gli Usa e lo stato ebraico, che non apre molte speranze per la disponibilità palestinese a dividere gli stessi traguardi.C'è appena tempo per un paio di domande da parte dei giornalisti, che Trump sceglie in modo selettivo tra le testate più filo governative. Scappa ugualmente una domanda sul "russiagate" e sui contatti sospetti tra la campagna elettorale repubblicana e i servizi di intelligence di Mosca. Trump è bravissimo ad aggirarla: torna a ricordare la vittoria di novembre, a condannare i «disseminatori di falsità» e a denunciare le «fughe criminali di notizie» che stanno affliggendo la sua squadra di governo ancora più del consueto, in una Washington quanto mai avvelenata.

    (Il Messaggero, 16 febbraio 2017)


    Il trumpismo applicato a Israele

    Trump, confuso, a Netanyahu: fate voi con i palestinesi, io sarò "contento"

    Incontrando Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, Donald Trump non ha insistito sulla soluzione a due stati della questione israelo-palestinese, che è stata incoraggiata dagli Stati Uniti per decenni, ed è alla base degli accordi di Oslo e di Camp David. Trump ha chiesto al premier israeliano di rallentare "un pochino" la costruzione degli insediamenti, ma non ha imposto una sua visione, ha detto: sarò "molto contento" dell'assetto che voi israeliani riuscirete a trovare con i palestinesi, "posso sopravvivere a una soluzione a uno stato", ma sostanzialmente: fate voi. Per la prima volta nella storia recente, l'Amministrazione americana non vuole guidare il negoziato israelo-palestinese, né forgiarlo, non impone soluzioni a tavolino, né quelle antiche che sono già fallite, né nuove (Trump resta affezionato all'idea di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme, ma non insiste, non promette). Secondo il neo presidente americano, tocca ai diretti interessati determinare l'approccio migliore per trovare la pace, "ogni parte dovrà scendere a compromessi", e Washington lavorerà per agevolare il dialogo. Netanyahu ha ribadito che la questione degli insediamenti per lui non è rilevante ai fini della pace, e ha incassato il mandato a scegliere il prossimo passo con i palestinesi: il premier israeliano non credeva più nella soluzione a due stati, ma sa bene che quella a uno stato è ancor meno praticabile. Da dove si riparte, ancora non si sa.

    (Il Foglio, 16 febbraio 2017)


    Confederazione o un piano saudita. Ecco le strade per puntare alla pace

    Il presidente Rivlin per confini aperti fra "entità" diverse, ma i moderati frenano

    di Ariel David

    Le ipotesi da cui partire
    Confederazione
    Caldeggiata dal presidente israeliano Reuven Rivlin questa soluzione prevede lsraele come Stato e «un'entità» autonoma palestinese. Lo Stato ebraico mantenerrebbe comunque il controllo su esercito e confini.
    Annessione parziale
    Il leader del partito di destra «Casa ebraica» Naftali Bennet propone l'annessione del 60% dei Territori e la creazione di autonomie palestinesi nel restante 40%. In alternativa l'annessione totale dando la cittadinanza ai palestinesi.
    Mondo arabo
    Da più parti in Israele si pensa a coinvolgere il mondo arabo nella trattava con i palestinesi. Ma il mondo arabo vuole prima di tutto il ritiro dai terrori occupati nel 1967 e la creazione di uno Stato palestinese a tutti gli effetti.

    TEL AVIV - Nella conferenza stampa a margine del suo primo incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente americano Donald Trump ha confermato che la sua amministrazione non considera la soluzione dei due Stati l'unica percorribile per porre fine al conflitto israelo-palestinese.
    La dichiarazione rompe con le precedenti amministrazioni Usa e con il resto della comunità internazionale, che fin dagli accordi di Oslo del 1993 ritiene essenziale per il raggiungimento della pace la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele.
    Con il protrarsi dello stallo nei negoziati di pace, alcune voci moderate hanno cominciato a valutare nuovi modelli, ma finora le alternative alla visione dei due Stati sono arrivate principalmente dalle frange estreme della politica israeliana e palestinese.
    Quali sono le alternative che ora potrebbero trovare ascolto alla Casa Bianca? E quali i maggiori ostacoli alla loro realizzazione?

     Le ipotesi sul tavolo
      Una delle prime ipotesi è quella di una Confederazione o Stato binazionale. Questo modello è caldeggiato da diversi esponenti del partito di destra Likud, tra cui il presidente israeliano Reuven Rivlin. Un «falco» in politica estera, ma attento a garantire i diritti civili dei palestinesi, Rivlin è contrario alla creazione di uno Stato palestinese. In passato, ha lanciato la proposta di una confederazione composta da Israele e da «un'entità» autonoma palestinese, in cui lo Stato ebraico manterrebbe il controllo sull'esercito e i confini.
    Questa settimana, durante un incontro con un'organizzazione pro-insediamenti, Rivlin si è invece dichiarato favorevole all'annessione di tutta la Cisgiordania, a patto che agli abitanti palestinesi sia concessa la cittadinanza israeliana. La soluzione dello Stato unico è appoggiata non solo da ambienti di destra, ma anche da esponenti dell'estrema sinistra e degli arabi israeliani.
    Ovviamente è una soluzione che presenta criticità. È improbabile ad esempio che la dirigenza palestinese accetti una soluzione a sovranità limitata, e tantomeno un'annessione. L'ipotesi di uno Stato binazionale spaventa anche gli stessi israeliani moderati. Annettere la Cisgiordania e concedere la cittadinanza a quasi tre milioni di palestinesi altererebbe gli equilibri demografici del Paese e rischierebbe di segnare la fine d'Israele come Stato ebraico, aprendo possibili scenari di guerra civile.
    C'è poi la via di una annessione parziale, ed è quella sostenuta dal ministro dell'Istruzione Naftali Bennett, leader del partito di estrema destra la Casa Ebraica: egli propone di annettere il 60 per cento della Cisgiordania e creare delle autonomie palestinesi nei territori rimanenti. In base al suo piano, Israele annetterebbe l'Area C della Cisgiordania che comprende i principali insediamenti, e offrirebbe la cittadinanza ai circa 150.000 palestinesi che risiedono nell'area.
    La proposta di Bennett potrebbe trovare sostenitori nell'amministrazione Usa, come David Friedman, il candidato di Trump alla carica di ambasciatore in Israele. Friedman, vicino alla destra israeliana, si è detto in passato favorevole all'annessione di parte della Cisgiordania. Ma per i palestinesi e i moderati israeliani, l'idea di Bennett rimane inaccettabile, perché lascerebbe ai palestinesi solo dei minuscoli «bantustan» a sovranità limitata e privi di continuità territoriale.

     Il piano saudita
      Trump e Netanyahu nella loro conferenza stampa di ieri hanno auspicato un ruolo maggiore nel processo di pace per il mondo arabo e una soluzione regionale al conflitto. Proposte in questo senso vanno da quella di Yaakov Peri, deputato dell'opposizione ed ex capo del servizio di Sicurezza Interna, che vorrebbe aprire in Arabia saudita un tavolo di negoziato permanente con i palestinesi e gli altri Paesi arabi, all'idea di una confederazione tripartita tra Israele, Palestina e Giordania.
    Iniziative come la proposta di pace saudita del 2002 dimostrano la crescente disponibilità del mondo arabo a normalizzare le relazioni con Israele, ma queste aperture considerano ancora imprescindibile il ritiro israeliano dai territori conquistati nel 1967 e la creazione di uno Stato palestinese.

    (La Stampa, 16 febbraio 2017)


    Netanyahu da Trump: Israele e l'America seppelliscono Obama

    Intesa perfetta tra Netanyahu e Trump. E il presidente americano Trump cancella il totem dei "due Stati"

    di Fiamma Nirenstein

    L'East Room alla Casa Bianca è solo per le grandi occasioni, giammai Benjamin Netanyahu ci ha messo piede al tempo di Obama: ieri invece qui si è svolta la conferenza stampa congiunta di Donald Trump col leader israeliano.
    Le strette di mano, gli abbracci delle mogli, gli accenni entusiastici a un futuro di successo per la pace forse non rappresenteranno la soluzione dell'annosa questione israelo-palestinese, ma segnano una grande svolta. Forse più importante dei programmi, che il Medio Oriente costruisce spesso sulla sabbia, è il fatto che finalmente, dopo Obama, gli Usa e Israele tornano ad essere i grandi amici di sempre.
    I due leader hanno sottolineato l'identità nei valori e negli intenti con vero calore, le mogli si sono sorrise contente, e questa è la tessera più importante nel mosaico mediorientale striato dal sangue del terrorismo. Le due maggiori forze antiterroriste sono di nuovo insieme, proprio qui dove si è sviluppata la più disastrosa fra le politiche di Obama, che ha portato a centinaia di migliaia di morti, ha fomentato lo scontro sciita-sunnita, ha dato fuoco alle polveri delle ambizioni imperialiste iraniane e degli Hezbollah mentre l'Isis arrotava i coltelli, ha spinto alla fuga milioni di profughi e ha lasciato crescere il terrorismo mentre la Russia approfittava del caos.
    Trump ha descritto Israele come l'eroe della sopravvivenza del popolo ebraico alle persecuzioni antisemite, della sua presenza millenaria nell'area, come combattente di prima fila contro il terrorismo. L'islam politico è stato chiamato per nome e cognome dai due leader, decisi a combatterlo. I due leader hanno toccato in maniera simile e assertiva tutti i temi più importanti. Processo di pace: Trump vuole avere successo dove nessun altro è riuscito, il suo piano è non inside out ma out inside. Cioè, vuole placare il conflitto israelo-palestinese partendo dal mondo arabo, e non viceversa, come Obama e l'Europa. Prevede sorprendenti sviluppi provenienti da un nuovo clima coi sunniti moderati, e anche Netanyahu spiega che ormai il mondo arabo moderato è pronto. Gli insediamenti, i confini vengono lasciati all'incontro decisivo fra le parti, anche se Trump si aspetta compromessi da parte di Israele. Nello stesso tempo accusa duramente la politica di odio nelle scuole e nella propaganda palestinesi.
    Netanyahu ripete le sue condizioni: i palestinesi accettino l'esistenza dello Stato ebraico e non si oppongano al controllo di sicurezza israeliano nella valle del Giordano, che di fatto è la barriera indispensabile contro il terrorismo. Gerusalemme: Trump valuta con grande attenzione la possibilità di trasferire l'ambasciata.
    L'Iran è l'altro elemento centrale: «Il peggiore di tutti gli accordi possibili», così Trump definisce di nuovo gli accordi di Obama, e annuncia possibili nuovi sanzioni. Anche Netanyahu denuncia il ruolo dell'Iran nel terrorismo internazionale e di pericoloso mestatore in Medio Oriente.
    La svolta di Trump nasce dall'idea che la pace è sempre stata inseguita e mai raggiunta perché puntava su un'inesistente decisione palestinese di dividere con gli ebrei la terra da cui hanno invece sempre sognato di espellere lo Stato di Israele: a lui quindi non importa se si arriverà a due Stati, uno Stato... e l'ha detto. Gli interessa il business della pace, e il successo di quello che considera un amico caro e leale, Israele. Una visione semplice che può, se cavalcata a dovere, consentirgli una posizione rivoluzionaria di successo.
    La fase Obama ha sempre segnalato disapprovazione, nervosismo, insofferenza, disgusto per Israele. Insomma una profonda dissonanza: ma il popolo americano è sempre stato filoisraeliano per il 62 per cento, e solo per il 15 per cento filopalestinese secondo l'indagine Gallup. Non si è mai sognato di considerare gli insediamenti un problema mortale. Trump in sostanza è libero di immaginare con Netanyahu scenari che tengano conto del trauma terrorista di cui i palestinesi sono parte, e che rappresentino, invece che fantasmi di soluzioni impossibili, pure scuse per l'antisemitismo, vere ipotesi concrete. E ce ne sono.

    (il Giornale, 16 febbraio 2017)


    All'Ikea catalogo kosher per ebrei ultraortodossi: senza donne e bambine

    Distribuito alla comunità ebraica ultraortodossa di Israele un catalogo speciale. Scoppia la polemica.

    di Giovanni Neve

     
    Copertina del catalogo Ikea destinato agli ebrei ultraortodossi
    Catalogo "kosher". È stato battezzato così lo speciale catalogo Ikea destinato alla comunità ebraica ultraortodossa di Israele e realizzato interamente senza fotografie di donne o bambine.
    Una pubblicazione che ha sollevato le critiche dei clienti laici e dei gruppi femministi. La catena di arredamento svedese ha in Israele tre punti vendita e mira a raccogliere le attenzioni della comunità ultraortodossa che nel Paese rappresenta l'8-10% della popolazione.
    Alcuni mesi fa, in un paesino popolato da ebrei ultraortodossi, alcuni sconosciuti tolsero dalle cassette delle lettere di vari edifici i cataloghi Ikea e di altre imprese locali, buttandoli in un bidone, proprio perché convinti che offendessero la sensibilità della comunità. Situazione che si verifica spesso in queste comunità anche con riviste generaliste. Da qui l'idea di Ikea di stampare un catalogo "kosher". Anche nei prodotti la pubblicazione cerca di rispecchiare le esigenze della comunità, offrendo ad esempio tavoli grandi per famiglie numerose, scaffali solidi, letti o sedie pieghevoli e letti a castello. E così fanno le descrizioni delle immagini, con riferimenti ai costumi religiosi. Un esempio tra tutti il "tavolo per lo shabat".
    La distribuzione del catalogo, con prezzi identici a quello classico, ha generato le proteste delle femministe e della parte laica della società. E l'ironia è scattata anche sul web. "Dove è andata la madre?", scrive un utente israeliano sui social network. E un altro: "Stupendo! Non sapevo che nella comunità ultraortodossa ci fossero così tante famiglie monogenitoriali!". Dal canto suo Ikea si è limitata a spiegare che il catalogo "kosher" è stato realizzato per "permettere anche al pubblico religioso e ortodosso di godere dei prodotti e delle soluzioni in accordo con i propri costumi e il proprio stile di vita". Il catalogo non è diffuso via internet, ma è distribuito unicamente negli ambienti ultraortodossi, anche se è disponibile per tutti coloro che lo richiedano via posta.

    (il Giornale, 15 febbraio 2017)


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    Catalogo Ikea per ebrei ultraortodossi

    Niente donne e bambine nelle pubblicità dei mobili

    di Massimiliano Lenzi

    Quello contemporaneo è un mondo bizzarro, dove in nome del politicamente corretto tutti i «buonisti» si riempiono la bocca ogni santo giorno con l'elogio delle minoranze che hanno diritto al rispetto delle loro sensibilità, salvo poi indignarsi se un'azienda, in questo caso la svedese Ikea, si inventa, in Israele, un catalogo «kosher» per non turbare appunto la sensibilità della comunità ultraortodossa che rappresenta tra l'8 e il 10% del Paese. Il fatto: Ikea in Israele ha realizzato una speciale pubblicazione, destinata alla comunità ebraica ultraortodossa, che non contiene fotografie di donne o bambine. Anche nei prodotti il catalogo cerca di rispecchiare le esigenze della comunità, offrendo tavoli grandi per famiglie numerose, letti o sedie pieghevoli e letti a castello. E lo stesso fanno le immagini, con riferimenti ai costumi religiosi, come il «tavolo per lo shabat». Apriti cielo: il catalogo ha scatenato le critiche dei clienti laici e dei gruppi femministi. Buonisti sì, ma a senso unico.

    (Il Tempo, 16 febbraio 2017)


    Startup israeliana sviluppa dispositivo non invasivo per le manovre di intubazione

    La startup israeliana Guide In Medical ha ricevuto circa 2 milioni di shekel dalla ditta farmaceutica locale CTS Group e da investitori privati, per sviluppare ulteriormente il dispositivo ideato per facilitare le procedure di intubazione.
    Il dispositivo è stato sviluppato per aiutare i professionisti medici nella complessa procedura di intubazione, in cui un tubo è inserito nella trachea per facilitare la ventilazione del paziente.
    L'intubazione è una procedura medica cruciale e sono circa 50 milioni le procedure effettuato ogni anno in tutto il mondo.
    Il processo di inserimento di un tubo nella trachea di un paziente richiede un alto grado di abilità e precisione per l'inserimento rapido. Se fatto impropriamente, il risultato potrebbe essere fatale.
    Guide In Medical ha sviluppato un dispositivo non invasivo, che è posto sul collo del paziente e trasmette la luce nei tessuti, illuminando l'interno della gola. Questo rende più facile per l'equipe medica l'individuazione della trachea, utilizzando un videolaringoscopio - un dispositivo con una videocamera - che può facilmente guidare il medico nell'inserimento del tubo durante la procedura di intubazione. Il dispositivo è monouso, e il suo costo stimato è di 35 dollari per unità.
    Il dispositivo è attualmente in fase di analisi per l'approvazione da parte dell'Unione Europea, che dovrebbe essere completata entro marzo 2017. La società si aspetta che entro la fine dell'anno possa ricevere anche l'approvazione da parte della Food and Drug Administration.
    La tecnologia è stata sviluppata nell'ambito del programma di imprenditorialità di bio-design dell'Università Ebraica di Gerusalemme con la collaborazione dell'Hadassah Medical Center.

    (SiliconWadi, 16 febbraio 2017)



    Parashà della settimana: Itrò (Ietro)

    Esodo 18:1-20:23

     - Nella parashà di "Itrò" personaggio noto come sacerdote di Midian e suocero di Moshè, sono riportati i Dieci Comandamenti, dati al popolo ebraico sul Monte Sinài con il dono della Torah. E' scritto nel Talmud (Shabat 88a) "D.o ha posto una condizione alla Creazione del mondo. Egli ha detto: "Se Israele accetta la Torah, il mondo continuerà ad esistere".
    Dopo aver attraversato il mar Rosso, il popolo ebraico, guidato da Moshè rabbenu, si dirige verso il deserto di Marà. Il popolo di nuovo "mormora" dicendo: "Che cosa berremo?" Moshè, su indicazione di D.o, getta un pezzo di legno nelle acque amare, che diventano dolci. Il legno che rende le acque dolci è un riferimento simbolico alla Torah derivata dall'albero della vita presente nel giardino dell'Eden. Mediante l'osservanza della Legge le acque amare simbolo di un'esistenza passeggera possono essere trasformate in acque dolci di una vita eterna quando "la conoscenza del Signore riempirà tutta la terra" (Isaia 11.9).
    I Dieci comandamenti, riguardano la libertà dalla schiavitù d'Egitto, il divieto di idolatria e di bestemmia, il riposo di un giorno dal lavoro, il rispetto dei genitori, il divieto di uccidere, di praticare l'adulterio, la falsa testimonianza e il desiderio dell'altrui proprietà. Non viene menzionata una identità ebraica specifica come ad esempio la circoncisione, le regole alimentari, le feste ecc.. per cui bisogna ritenere che queste "Dieci Parole" sono patrimonio dell'intera Umanità e il popolo ebraico ne è il custode.
    Quale è allora la diversità tra Israele e le Nazioni della terra di fronte alla Torah? Mentre queste ne rappresentano il corpo, il popolo ebraico ne rappresenta l'anima, che permette ad Israele di scorgere il "male" anche quando questo è nascosto. Un paragone può essere esplicativo. Una palla di neve può trasformarsi in valanga, ma con un grido di allarme si può fermare. Israele nel corso dei secoli ha cercato di fermare queste palle di neve.
    Il primo comandamento: "I-o sono il Signore D-o tuo, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla casa di schiavitù" (Es.20.2) è il Signore della storia che sta parlando per ribadire che la Redenzione viene sì per mano di D-o ma anche con la collaborazione dell'uomo. Israele è il nuovo popolo capace di fare questo miracolo. Sottomettersi alla volontà di D-o (traversata del mare) e nello stesso tempo combattere contro Amalek, simbolo del male. Ecco la ragione per cui Itrò, un non-ebreo, che secondo un midrash conosceva tutte le religioni, comprende che un nuovo mondo era nato in cui l'uomo diventa partecipe di D-o nella Creazione. E' una visione (Weltanschauung) del mondo completamente diversa da quella del faraone schiavo egli stesso delle sue statue di marmo. Una società che non rispetti D-o è anche incapace di rispettare l'uomo e viceversa una società che non rispetti l'uomo non può rispettare D-o. Ecco il segreto dell'anima nascosta nella Torah di Israele, che bisogna studiare, insegnare e praticare al fine di essere gli "ebrei della Redenzione".
    La parabola della "palla di neve" dunque è calzante e di forte attualità per identificare nella storia il male al suo esordio, vincerlo e trasformarlo in bene. Israele come popolo "eletto" ne rappresenta la cartina di tornasole, sensibile e pronta a combattere il male. Le Nazioni del mondo (ONU) invece di collaborare, fiancheggiano il male (terrorismo), che uccide in nome di Allah Akbar. Difatti cosa dire dell'ingresso del terrorista Yasser Arafat nel Parlamento italiano armato di pistola? E cosa pensare dell'abbraccio di Papa Bergoglio al palestinese Abu Mazen definito "angelo della pace?" La storia è piena di questi avvenimenti incresciosi e criminosi nello stesso tempo, condotti con cinico disprezzo senza alcun timore di D-o.
    Il Decalogo per concludere non è un estratto della legislazione della Torah, né possiede alcuna importanza in particolare in rapporto alle sue altre leggi. Le "Dieci Parole" sono l'inizio della Rivelazione, il cui fine è quello di legare D-o Benedetto al popolo d'Israele, come lo sposo alla sua sposa, per il bene di questo e di tutta l'Umanità. F.C.

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     - Dopo tre mesi di viaggio, il popolo arriva nelle vicinanze del monte Sinai, sulla cima del quale Dio era apparso a Mosè dall'interno del roveto ardente. Qui avverrà qualcosa di fondamentale nella storia di Israele: l'incontro fra Dio e il suo popolo. Fino a questo momento infatti il popolo aveva sentito parlare di Dio attraverso Mosè, ma non ne aveva avuto alcuna esperienza diretta.
    Mosè si trova adesso nello stesso luogo dove aveva incontrato Dio la prima volta, ma ora non è più solo. E' come se dal roveto ardente Dio gli avesse detto: va', torna in Egitto e portami qui tutto il popolo. Missione compiuta: "Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento per condurlo incontro a Dio; e si fermarono ai piedi del monte" (Es. 19:17).
    Il Sinai non è il luogo e il momento in cui Dio fa scendere dal cielo un manuale di istruzioni etiche da leggere e studiare, interpretare e discutere per il resto dei giorni; il Sinai è il luogo e il momento in cui Dio scende di persona ad incontrare il suo popolo, quello che si è formato dopo averlo promesso ad Abramo.
    Non è un incontro qualsiasi, come quello che potrebbe avvenire tra amici, ma la proposta di un patto. Non è un dono unilaterale, ma un contratto bilaterale.
    Fino ad ora Dio ha agito di sua propria volontà, senza preoccuparsi di che cosa ne pensasse il popolo; adesso invece vuole che il popolo si esprima liberamente sulla proposta che si appresta a fargli.
    Alla stipulazione del patto si arriverà dopo una serie di trattative opportunamente cadenzate secondo una severa logica di negoziato. Fin dall'inizio entrambe le parti accettano che sia Mosè a rappresentare il popolo nelle trattative. La situazione è questa: Dio opera dal monte, il popolo parcheggia in pianura, e Mosè fa su e giù per trasmettere le volontà espresse dalle parti.

    1o passo - Preliminari (Es. 19:3-8).
    Dio chiama Mosè sul monte e gli comunica la sua intenzione di fare di Israele il suo tesoro particolare fra tutti i popoli; e gli dice di comunicare la sua proposta al popolo. Mosè scende, raduna gli anziani ed espone loro "tutte parole che l'Eterno gli aveva ordinato di dire". Proposta accettata: "Tutto il popolo rispose concordemente e disse: Noi faremo tutto quello che l'Eterno ha detto".

    2o passo - Dio legittima Mosè (Es. 19:8-20)
    Mosè risale e riferisce all'Eterno che il popolo accetta la proposta. Dio allora gli comunica la sua intenzione di presentarsi di persona al popolo, non subito, ma dopo tre giorni. In questo tempo il popolo dovrà purificarsi e tenersi a debita distanza dal monte, "perché il terzo giorno l'Eterno scenderà in presenza di tutto il popolo sul monte Sinai" e "chiunque toccherà il monte sarà messo a morte". Mosè scende e riferisce quello che Dio chiede al popolo: prepararsi adeguatamente al solenne incontro con Lui.
    Al momento giusto "Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento per condurlo incontro a DIO; e si fermarono ai piedi del monte". E allora, tra tuoni, fulmini, scosse di terremoto e lacerante suono di corno, in una folta nuvola e in mezzo al fuoco, "l'Eterno scese sul monte Sinai, in vetta al monte".
    E' il secondo atterraggio dell'Eterno, dopo quello avvenuto nel roveto ardente. Questa volta però non è soltanto Mosè a farne l'esperienza, ma tutto il popolo. Dio parla dal monte alla presenza di tutti, ma si rivolge soltanto a Mosè, indicando dunque in lui l'intermediario autorizzato a parlare e a trasmettere la sua volontà. E sancisce pubblicamente la sua scelta chiedendo a Mosè di salire di nuovo in vetta al monte: "... e l'Eterno chiamò Mosè sulla vetta del monte, e Mosè vi salì".

    3o passo - Dio si rivolge al popolo (Es. 19:21-20:21).
    Sulla vetta del Sinai Dio dice a Mosè di scendere di nuovo e di avvertire il popolo, ancora una volta e con grande severità, di non precipitarsi verso il monte, affinché il Signore non si avventi su di loro. "Mosè discese al popolo e glielo disse".
    Dopo di che, per la prima volta nella storia, in un terrificante contesto di tuoni, fulmini, scosse di terremoto e sottofondo assordante di suono di corno, il popolo sente con le sue orecchie la voce stessa di Dio che supera tutti gli altri suoni e scandisce in modo categorico, come colpi di fucile, i termini della sua volontà: i famosi dieci comandamenti.
    La particolarità esclusiva di queste "dieci parole" rispetto agli altri precetti della legge sta proprio nel fatto che tutto il popolo le udì pronunciare dalla bocca di Dio, e ne furono tutti talmente atterriti che temettero di morire. Anche questo li convinse ad affidarsi interamente a Mosè, implorandolo di continuare a fare da intermediario e di liberarli dal peso insopportabile di ascoltare direttamente la voce di Dio. "Ma ora, perché dovremmo morire? Questo grande fuoco infatti ci consumerà; se continuiamo a udire ancora la voce dell'Eterno nostro Dio, noi moriremo. Poiché chi tra tutti i mortali ha udito come noi la voce del Dio vivente parlare dal fuoco ed è rimasto vivo? Avvicinati tu e ascolta quanto il Signore nostro Dio dirà; ci riferirai quanto il Signore nostro Dio ti avrà detto e noi lo ascolteremo e lo faremo" (Deut. 5:25-27). Anche se poi in realtà ascoltarono e non fecero.
    Ma era proprio necessario che Dio terrificasse in questo modo il suo amato popolo? Sì, era necessario. Gli ebrei avevano visto la potenza di Dio abbattersi sui loro nemici: "Voi avete visto quello che ho fatto agli egiziani e come vi ho portato sopra ali d'aquila e vi ho condotti a me" (Es. 19:4). Dunque avevano sperimentato la grazia di Dio in loro favore, ma affinché non pensassero che questo desse loro il diritto di fare sempre e soltanto quello che volevano, avevano bisogno di fare esperienza, come salutare deterrente, della devastante potenza di Dio, che aveva detto di voler fare di loro "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es. 19:6). Dio fa grazia, ma con Lui non si scherza. "Mosè disse al popolo: Non temete, poiché Dio è venuto per mettervi alla prova, affinché il suo timore vi stia dinanzi, e così non pecchiate" (Es. 20:20).
    Fin qui sono stati compiuti tre importanti passi di avvicinamento tra Dio e il popolo, ma il patto giuridicamente valido non è stato ancora stilato e sottoscritto. M.C.

      (Notizie su Israele, 16 febbraio 2017)


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