Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 16-31 gennaio 2016


Israele: paese delle start-up, ma anche della povertà

Più del 20 per cento della popolazione israeliana vive in difficoltà economiche.

di Ariel David

Che si ami o si odi Israele, c'è un punto su cui è difficile trovarsi in disaccordo: lo Stato ebraico è un gigante dell'alta tecnologia, della ricerca e dell'innovazione . motori di un'economia modello, prospera e sana. Giusto? Non proprio.
   In molti saranno sorpresi nello scoprire che Israele è anzitutto una nazione povera; forse la più povera tra i paesi occidentali. Lo ricorda un rapporto pubblicato a dicembre dal "Mossad leBituach Leumi". l'Istituto nazionale per la sicurezza sociale, l'Ente che in Israele garantisce l'assistenza pensionistica a sanitaria.
   Secondo il rapporto, nel 2014, circa 1,7 milioni di persone, il 22 per cento della popolazione, viveva sotto la soglia di povertà. Di questi, poco meno di 800mila erano minorenni, quasi un terzo dei bambini di tutto il paese. E dopo un calo registrato negli ultimi anni, le cifre mostrano un aumento rispetto all'anno precedente. Se nel 2013 le famiglie povere erano il 18,6 per cento, nel 2014 erano il 18,8 per cento. Stessa sorte per la percentuale di bambini poveri, salita da 30,8 a 31.
   Tra i 34 paesi membri dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OeSE), solo il Messico ha un indice di povertà più alto, fanno notare gli esperti del "Bituach Leumi. L'ente si basa sui criteri OeSE per fissare la soglia di povertà, che in Israele scatta per gli individui che guadagnano meno di 726 euro al mese e per le coppie il cui reddito è inferiore a 1.162 Euro. In crescita è anche il divario tra ricchi e poveri. il coefficiente di GGini utilizzato per misurare la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, è salito del 2 per cento nel 2014, e supera del l% per cento la media OCSE.
   TI miracolo dell'hi-tech israeliano, che ha guadagnato al paese nomignoli quali "Silicon Wadi" o "Start-up Nation", è in realtà un fenomeno che ha interessato solo una piccola parte della forza lavoro, un'élite altamente qualificata che ha beneficiato degli investimenti stranieri e della scommessa (comunque vincente) sull'innovazione e la creatività delle piccole imprese israeliane. Gli indicatori macroeconomici sono trascinati da questo stesso fenomeno, ma lontano dai grattacieli di Tel Aviv, il resto del paese vive in un'economia basata su manodopera poco qualificata, scarsa partecipazione alla forza lavoro, tasse alte e salari bassi. I più colpiti sono gli arabi israeliani e gli ebrei ultraortodossi. In questi settori, il basso livello d'istruzione e, nel caso degli ultraortodossi, la scarsa partecipazione maschile alla forza lavoro, fa sì che la piaga della povertà tocchi più del 50 per cento delle famiglie.
   Ma le cifre del rapporto nascondono un'ulteriore sorpresa. Grazie al progressivo smantellamento dello stato sociale e alla crescita del costo della vita, cui non ha fatto seguito un aumento del salario medio, anche chi ha un lavoro fisso spesso può ritrovarsi in difficoltà. Tra le famiglie in cui solo un coniuge ha un lavoro, il 25,4 per cento rimane sotto la soglia di povertà. Anche quando a lavorare sono entrambi i coniugi, nel 5,6 percento dei casi la famiglia non riesce a superare il fatidico reddito di 1.162 Euro. Difficile ignorare le responsabilità dei governi di centro-destra che guidano il paese da più di un decennio, e soprattutto del premier Netanyahu. Poco o nulla è stato fatto per aumentare la partecipazione sociale e il livello d'istruzione di arabi israeliani e ultraortodossi, mentre molto è stato fatto per ridurre la spesa sociale e privatizzare l'economia, ormai controllata da una manciata di oligarchi che, in un clima di scarsa concorrenza, possono facilmente tenere alti i prezzi e bassi gli stipendi.
   Infine, sull'economia gravano le ingenti spese militari, per circa il 6 per cento del PIL, e i miliardi investiti nello sviluppo degli insediamenti in Cisgiordania, un vero "buco nero" nel bilancio dello Stato, visto che nessuno è mai riuscito a quantificare con precisione il sostegno concesso dal governo alle colonie. Questa situazione ha lentamente eroso le fila della classe media ed è fonte di quella frustrazione che nel 2011 portò centinaia di migliaia d'israeliani a scendere in piazza per mesi nella cosiddetta "protesta delle tende"
   Oggi, a quattro anni da quella protesta, poco o nulla sembra essere cambiato. Lo dimostrano non solo le cifre dell'ultimo rapporto sulla povertà, ma anche la spregiudicatezza con cui Netanyahu ha recentemente concluso uno degli accordi più importanti per il futuro economico del paese.
   Pochi giorni dopo la pubblicazione del rapporto, Netanyahu ha siglato un accordo che concede alla società texana Noble Energy e al suo partner locale, il Gruppo Delek del miliardario Yitzhak Tshuva, lo sfruttamento esclusivo dei giacimenti marittimi di gas naturale scoperti negli ultimi anni allargo delle coste israeliane. Di fatto, visto che Israele non ha altre importanti fonti di energia, la concessione crea un monopolio sul mercato energetico, con un prevedibile effetto sui prezzi di gas e elettricità, già fra i più alti
   nel mondo occidentale.
   Al di là della sostanza del contratto, ciò che ha colpito molti osservatori israeliani è il modo in cui si è arrivati alla sua approvazione. Netanyahu non ha solo ignorato le quotidiane manifestazioni di protesta contro l'accordo, ma ha anche costretto alle dimissioni il Commissario antitrust, che aveva bocciato l'intesa. Il premier ha poi premuto sul suo ministro dell'Economia, il leader del partito ultraortodosso Shas. Aryeh Deri, perché si avvalesse della facoltà, prevista dalla legge ma mai utilizzata (e di dubbia applicabilità in questo caso), di annullare la decisione dell'antitrust per ragioni di sicurezza nazionale. Di fronte al rifiuto e alle successive dimissioni di Deri, suo stretto alleato di governo, Netanyahu non ha battuto ciglio. Il premier ha assunto il dicastero dell'economia, bypassando personalmente l'obiezione dell'antitrust e approvando l'accordo.
   Sorge il sospetto che fu frutto di una tragica premonizione la copertina di Time magazine che, nel 2012, soprannominò Netanyahu "King Bibi". Il premier, che per ora continuerà a mantenere la poltrona dell'economia, è infatti anche ministro degli Esteri, ministro delle Comunicazioni e ministro per la Cooperazione rregionale Così, mentre i suoi "sudditi" scivolano sempre dì più verso la povertà, l'Israele di "King Bibi" somiglia sempre di più a una monarchia assoluta.

(Shalom, gennaio 2016)


Israele, un'area per donne e uomini al Muro del Pianto

Il governo ha approvato un piano che accoglie la richiesta di un attivissimo gruppo di donne ebree riformate e conservatrici, in gran parte americane. Da 24 anni chiedevano una zona in cui poter pregare secondo le loro consuetudini. Decisione osteggiata anche nell'esecutivo dai partiti religiosi e dall'ortodossia.

 
TEL AVIV
- Al Muro del Pianto a Gerusalemme ci sarà un'area dove uomini e donne potranno pregare insieme. Il governo israeliano l'ha deciso con 15 voti a favore e cinque contrari, tra i quali quelli dei rappresentanti dei partiti religiosi Shaas ed Ebraismo Unito. L'hanno quindi spuntata le Donne del Muro, ebree riformate e conservatrici, in larga parte statunitensi, che da 24 anni si battono per ottenere spazi in cui poter pregare secondo le loro consuetudini, diverse da quelle previste dall'ortodossia che separa maschi e femmine. L'area loro riservata si estenderà nella parte sud dell'area antistante il Muro, vicina alle due attuali (una per gli uomini e l'altra per le donne) che sorgono proprio di fronte al luogo sacro. Per il progetto il governo stanzierà più di dieci milioni di dollari.
   Altra importante novità è che la nuova spianata, di circa 900 metri quadrati, non sarà controllata dagli ortodossi, che finora hanno avuto il monopolio, ma sarà amministrata da rappresentanti sia della corrente conservatrice che progressista, riuniti in una commissione con delegati del governo e con le Donne del Muro, che finalmente hanno ottenuto di poter pregare com gli uomini, indossando i tallit, lo scialle da preghiera, i tefillin (scatolette di cuoio legate con le cinghie e contenenti versetti sacri) e recitando la Torah ad alta voce. Una vittoria, la loro, giunta al termine di una lunghissima battaglia che negli ultimi anni è stata segnata anche da scontri.
   L'ingresso agli spazi, sia quelli vecchi sia quello nuovo, sarà comunque comune. La decisione del governo è stata preceduta da un accordo firmato dalle 'Donne del Muro' e dalla Fondazione che gestisce il luogo sacro all'ebraismo e assicura che "il Muro del Pianto sarà aperto e accessibile ad ogni ebreo che vuole pregare secondo la sua identità e credo". La vecchia e la nuova zona di preghiera non saranno comunicanti tra di loro.
   Le correnti dell'ebraismo riformato e conservatore parlano di passo "rivoluzionario": il rabbino Gilad Kariv, direttore esecutivo del Movimento Riformato, sottolinea che per la prima volta il governo di Benjamin Netanyahu ha riconosciuto ufficialmente altri settori religiosi dell'ebraismo che non sono quelli ufficiali. Una scelta probabilmente dettata anche dalla necessità di non creare attriti con le correnti dell'ebraismo Usa.
   Diverso il giudizio del rabbino capo del Kotel (come in ebraico si chiama il Muro) Shmuel Rabinowitz, secondo cui invece il luogo da "posto unificato e che unisce" si trasformerà in "un'arena per confronti senza fine".

(la Repubblica, 31 gennaio 2016)


Taranto - L'Iran interessata al terminal container: la prossima settimana il bando

Lo Stato, che sta uscendo dalle sanzioni internazionali legate ai programmi nucleari, ha già manifestato al ministro Delrio l'interesse per il porto pugliese.

TARANTO - Potrebbe essere pubblicato già nella prossima settimana sulla Gazzetta ufficiale italiana e su quella dell'Unione europea il bando con cui l'Autorità portuale di Taranto mette sul mercato il terminal container lasciato libero dalla società che lo aveva in concessione, Taranto container terminal, messa in liquidazione a giugno scorso dai suoi azionisti (Hutchinson, Evergreen e Gsi). E intanto l'Iran guarderebbe con interesse a un possibile insediamento nel porto di Taranto. Lo aveva già accennato, nel corso di alcuni colloqui a Taranto durante nella visita dello scorso 2 dicembre per l'inaugurazione della piattaforma logistica, il ministro delle Infrastrutture e trasporti, Graziano Delrio, e lo stesso Delrio lo ha recentemente confermato ad alcuni parlamentari.
  Dopo nove anni, l'Iran sta uscendo dalle sanzioni internazionali Usa, Onu e Ue legate al programma nucleare iraniano e quindi si sta aprendo la possibilità che imprese italiane investano in Iran, tra cui anche pugliesi, e quest'ultimo Paese, a sua volta, lo faccia in Italia. Uno dei tanti divieti imposti riguardava il trasporto delle merci. I cargo iraniani non potevano infatti atterrare negli aeroporti europei, mentre per gli scali marittimi il divieto era esteso, oltre che alla compagnia di navigazione di Stato (la Islamic republic of Iran shipping line), anche ad altre tre sospettate di esservi collegate. A quanto pare, l'investimento nella portualità di Taranto potrebbe essere effettuato proprio da questa compagnia.
  "Non è una partita che stiamo gestendo direttamente come Autorità portuale - commenta il commissario Sergio Prete, nei giorni scorsi riconfermato per altri sei mesi nell'incarico - ma è evidente che l'Iran, qualora dovesse venire qui, troverebbe, a differenza degli altri scali italiani, un terminal container direttamente libero". Invece, per quanto riguarda il bando dell'infrastruttura, l'Authority, dopo averlo condiviso col ministero, lo scorso 28 gennaio ha anche ottenuto dal comitato portuale il via libera alla delibera relativa alla procedura di pubblicazione. Duemilacinquanta metri lineari di banchina, di cui 1200 interessati dai lavori di ammodernamento, oggi liberi perchè l'ex concessionario ha messo in liquidazione la società Tct ritenendo che a Taranto, per il ritardo negli investimenti, non ci fossero più le condizioni per operare - ma in realtà il terminalista ha anche compiuto altre scelte e riposizionato diversamente i propri interessi. Inoltre, dopo settembre Tct ha anche chiuso le pendenze contrattuali con l'Authority e definitivamente riconsegnato l'infrastruttura, per la quale, ora, si cercano nuovi operatori.
  Sul versante dei lavori nel porto, Prete annuncia "che sta andando avanti l'adeguamento della banchina del terminal affidato ad un consorzio di imprese e i primi 600 metri rimodernati dovrebbero essere agibili in primavera. Da poco, invece, Astaldi, che si era aggiudicato l'appalto a febbraio 2015, ha presentato il progetto esecutivo, per dragaggi e cassa di colmata dei fanghi marini. C'è voluto un anno - spiega Prete - perchè ha richiesto tempo la fase preliminare tra indagini e sondaggi. Astaldi ci ha presentato giorni fa una prima versione, poi l'ha rimessa a punto e adesso quella definitiva viene esaminata dal responsabile unico del procedimento, del progettista e del direttore dei lavori.
  Una volta approvato da questi soggetti, il progetto andrà all'esame del Provveditorato alle opere marittime di Bari per la definitiva validazione. Il dragaggio, che dovrà portare i fondali nello specchio di mare antistante il terminal ad una profondità di 16,50 metri, non può avviarsi in assenza della vasca di colmata dove trasportare i materiali dragati: 2,3 milioni di metri cubi. Infine - dichiara il commissario Prete -, sempre per il terminal, si sono avviati di recente altri lavori: quelli relativi alla sistemazione della radice del molo polisettoriale".

(la Repubblica, 31 gennaio 2016)


Dalle leggi antiebraiche alla Shoah. Sette anni di storia italiana, 1938-1945

di Tiziana Leopizzi

 
Il Memoriale della Shoah
Fino al 29 febbraio avete la possibilità di visitare la mostra "Dalle leggi antiebraiche alla Shoah. Sette anni di storia italiana, 1938-1945" curata dalla Fondazione CDEC e allestita dagli architetti Guido Morpurgo e Annalisa de Curtis dello studio Morpurgo de Curtis ArchitettiAssociati, ospitata presso lo Spazio Mostre Bernardo Caprotti del Memoriale della Shoah di Milano.
  Nel periodo storico tra gli anni Trenta e Quaranta, gli ebrei in Europa furono privati di quasi tutti i diritti civili, al punto da vedersi revocare anche il diritto alla vita stessa. L'esposizione rappresenta la prima mostra documentaria sul tema e illustra lo specifico capitolo italiano di questo evento così complesso che ha coinvolto l'umanità.
  La ricerca storiografica sulla persecuzione antiebraica ha ormai superato la fase delle indagini conoscitive iniziali, è entrata ormai nella fase matura della ricostruzione e dell'interpretazione, superata la fase iniziale delle indagini iniziali. L'eccellenza di questa esposizione è data da una sapiente selezione dei documenti, esemplificativi dell'antisemitismo fascista e nazista nella penisola, tra i quali ad esempio gli atti di espulsione degli ebrei dalle scuole e dal posto di lavoro.
  Nel corso dell'inaugurazione della mostra è stata anche inaugurata la più recente delle installazioni portate a termine nel corso della realizzazione del progetto del Memoriale, costituita dalle sette "Stanze delle Testimonianze". Inoltre, nella "Stanza" realizzata grazie ad una donazione del Centro Studi della Barbariga è stata scoperta una targa intitolata alla memoria di Angelo dalle Molle, industriale, mecenate, inventore del Cynar nonché fondatore del Centro Studi.
  Parte finale del completamento del progetto del Memoriale è un'ultima tranche di opere, fase finale che trova impedimenti a causa della mancanza di risorse e costituita per la maggiore dalla "Biblioteca della Memoria".
  Si segnala e si ricorda che il Memoriale sorge nel luogo in cui, nella fase storica che va dal 1943 e il 1945 migliaia di ebrei, furono rastrellati nella regione e in città e caricati su vagoni merci e agganciati ai convogli diretti a Auschwitz-Birkenau, Bergen Belsen e ai campi italiani di raccolta, come quelli di Fossoli e Bolzano. Anche numerosi deportati politici, destinati al campo di concentramento di Mauthausen o ai campi italiani, partirono dagli stessi binari.

(MilanoFree.it, 31 gennaio 2016)


Mobilitazione data-driven

Una campagna contro la rielezione di Netanyahu in Israele basata sulla mappatura di censo, sondaggi e social network

di Guido Romeo

Certe volte una sconfitta è più motivante di una vittoria. È il caso di Darkenu ("La nostra via" in ebraico), il movimento nato dalle ceneri di Victory-15, la campagna lampo contro la rielezione di Benjamin Netanyahu lanciata da un gruppo di giovani israeliani la scorsa primavera. V15, sostenuta con due milioni di dollari dalla ong OneVoice e che aveva beneficiato dei consigli dell'ex stratega politico di Obama Jeremy Bird, non aveva un candidato, ma promuoveva un cambiamento della leadership che alcuni hanno sintetizzato come "chiunque, ma non Netanyahu". Le sue armi erano una serie di video su YouTube che hanno superato il milione di visualizzazioni - per una popolazione di sette milioni! - e un'agguerritissima campagna di mobilitazione data-driven che ha incrociato dati elettorali, di censo, sondaggi e mappature dei social network con lavoro sul campo e tanto porta a porta.
   Di fatto V15 ha testato le stesse metodologie usate da Obama nel 2012 in un ambiente estremamente diverso, molto più simile a quello europeo. "Abbiamo lavorato parecchio sull'analisi dei dati dopo le elezioni - spiega Nimrod Dwek, uno dei fondatori di Darkenu e Ceo della sua Dice marketing a Tel Aviv -, e se c'è una cosa che ho capito è che puoi condurre la campagna data driven più incredibile del mondo, ma devi anche capire la mappa della politica locale. Le metodologie americane sono assolutamente replicabili ma devi pesare bene le variabili specifiche del tuo paese. Israele per esempio è molto più politicizzato degli Usa e abbiamo un'affluenza del 73%, impensabile oltreoceano. Ciò significa che devi concentrarti su un target molto specifico di elettori se vuoi aumentare solo l'affluenza del centrosinistra".
   La nuova missione del gruppo nato intorno a V15 è ora quello di creare un nuovo movimento politico (guai a chiamarlo partito!) incentrato intorno a quattro valori chiave: la risoluzione del conflitto israelo-palestinese con la creazione di due stati; il consolidamento di Israele come stato democratico; giustizia sociale e solidarietà civica e, infine, la lotta a razzismo e discriminazione. "La risposta fino ad oggi è stata fantastica - spiega Dwek -, adesso la sfida è affinare il database dei nostri militanti e capire come espandere ancora la nostra audience". Sempre a suon di dati.

(Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2016)


31 gennaio 1910, nasce Giorgio Perlasca

Il "Giusto tra le Nazioni" che non amò riconoscimenti

di Franco Seccia

 
"Perché lo ha fatto?"
E la risposta era sempre la stessa: una domanda a chi incredulo lo interpellava sulle ragioni delle sue azioni in difesa di migliaia di sventurati destinati alla morte "Lei, cosa avrebbe fatto al mio posto, vedendo gente inerme uccisa senza un motivo?". Ecco cosa avrebbero fatto i tanti che pur sapendo e vedendo si girarono dall'altra parte facendo finta di niente.
Giorgio Perlasca, Giusto tra le Nazioni, l'italiano di Como nato il 31 gennaio del 1910, continuò per quasi cinquant'anni a vedere un paese, il suo paese, che si girava dall'altra parte perché la sua storia era imbarazzante a raccontarsi: un volontario in Spagna tra le truppe franchiste, un fervente fascista che anche se arrabbiato per l'alleanza con la Germania e per le leggi razziali non diventò mai un antifascista, che a rischio della sua vita si prodigò oltre ogni umana possibilità per salvare la vita di cinquantaduemila ebrei ungheresi di ogni ceto, di ogni età e di ogni sesso.
   Fu solo nel 1991 che la storia di Giorgio Perlasca fu raccontata in un libro "La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca" di Enrico Deaglio, il noto giornalista di sinistra. Il titolo del libro di Deaglio ribaltò il titolo "La banalità del male", il libro resoconto sul processo ad Eichmann in cui l'autrice, la giornalista e filosofa tedesca di origini ebraiche Hannah Arendt sostiene che persone spesso banali si trasformano in autentici agenti del male. Era chiaro l'intento di Deaglio di sostenere che anche fare il bene non ha necessità di radici e che anche persone spesso banali possono trasformarsi in autentici angeli del bene.
   Giorgio Perlasca non parlò mai, nemmeno in famiglia, delle vicende che in quei tragici 45 giorni a Budapest lo videro da semplice commerciante di bestiame trasformarsi in diplomatico spagnolo attivo in difesa degli ebrei braccati. Egli continuò a pensare di aver agito come ogni altro avrebbe fatto al suo posto e non chiese riconoscimenti convinto che a nessuno interessava sapere quanto era successo. Invece la cosa interessava e molto a quelle donne che oltre la cortina di ferro dovettero aspettare la caduta del muro di Berlino per realizzare il desiderio di incontrare il loro salvatore il console Jorge Perlasca.
   La storia di questo umile uomo giusto arriverà finalmente nelle case degli italiani quando la Rai nel 2002, dopo un travagliato lavoro che per volere di Giorgio Perlasca non consentì allo sceneggiatore di parlare male della Spagna del generale Franco o di inventare storie private e romanzate, realizzò il film "Giorgio Perlasca" che totalizzò 13 milioni di spettatori alla seconda puntata, con uno share di oltre il 43%. Ma a Perlasca che lasciò questa terra nel 1992, tutto questo non lo avrebbe interessato; portò sempre con umiltà il ricordo di quelle tragiche vicende così come portò con se l'immagine viva di quell'italiano incontrato a Budapest che lo accusava di essere traditore e amico degli ebrei; era quello stesso italiano che incontrò qualche tempo dopo a Venezia e che era diventato su nomina del CLN direttore dell'alimentazione della provincia di Venezia.
   Più che i riconoscimenti postumi, molto postumi in Italia (non così in Israele e in Ungheria) Perlasca tenne con se la lettera che "La commissione della casa al 35 Szent Istvan Park", una casa di Budapest sotto protezione del finto console spagnolo Giorgio Perlasca, gli inviò poco prima della sua partenza
    "… Non dimenticheremo mai che tante volte avete incoraggiato i disperati, avete agito nell'esclusivo nostro interesse, con la più grande saggezza, il più grande coraggio quando la nostra situazione era disperata e sappiamo quante volte avete rischiato sicurezza e vita per salvarci dalle mani degli assassini. Mai il vostro nome mancherà nelle nostre preghiere e pregheremo Dio affinché vi benedica, perché solo LUI vi può ricompensare. Vogliate, vi preghiamo, conservare il nostro ricordo con quell'affetto che noi racchiudiamo il vostro nome nei nostri cuori."
   Certamente Iddio avrà ricompensato quest'Uomo Giusto chiamandolo a se lontano dalle sciagure di questo mondo.

(com.unica, 31 gennaio 2016)


Il passaggio degli ebrei in Puglia

Interessante incontro voluto dalla Fidapa

A poca distanza dal Giorno della Memoria, Molfetta ha ricordato le vittime della Shoah con l'incontro della Fidapa, organizzato nella Fabbrica di San Domenico. L'intervento del Prof. Pasquale Gallo, docente universitario di letteratura tedesca presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro, ha contribuito a chiarire alcuni aspetti del passaggio degli ebrei in Puglia. Attraverso la ricostruzione della vita e degli spostamenti di alcune personalità, ha svelato al pubblico la realtà dei luoghi di internamento pugliesi.
   Quando si parla di Shoah, si ha la sensazione di qualcosa che appartiene al passato, definitivamente concluso, lontano nel tempo ma anche nello spazio. Poi ci si ritrova a fare i conti con la storia e a riconoscere che anche la propria regione ospitava centri di internamento, che anche lì alcune persone sono state rinchiuse, che la guerra lascia strascichi sempre. E in una fredda sera d'inverno, accomodati sulle poltroncine azzurre della sala Finocchiaro, apriamo gli occhi sulla piccola storia, quella locale, più dettagliata, intersecata strettamente alla grande, con protagonisti Stati, nazioni, popoli.
   Alberobello con la sua Casa Rossa, era una delle sedi in cui gli ebrei trascorsero parte della loro vita. L'esistenza, la condizione di imprigionati, le speranze e le ansie di quanti hanno transitato in Puglia, si fanno a noi tangibili con le preziose testimonianze lasciate ai posteri. Tra queste, un affresco di pregio realizzato con gessetti, le note soavi di un valzer composto per la figlia del podestà, la poesia illuminante di uno scrittore tedesco. Tutte frutto della creatività di Victor Cernon, Charles Abeles e Hermann Hakel, tre delle persone internate.
   Dunque un pittore, un musicista e uno scrittore, che facevano parte della folla di persone rinchiuse dall'alto grado di istruzione. Con loro c'erano anche ingegneri, architetti, orologiai, ombrellai, ecc. e ciascuno di essi, cercava di esplorare tutte le possibilità per migliorare la propria condizione. Possessori di una libertà a tratti e prigioneri civili di una guerra assurda, erano allo stesso tempo tenaci combattenti per la vita.

(MolfettaViva, 31 gennaio 2016)



Una mente depravata

Dicendosi savi, son diventati stolti, e hanno mutato la gloria dell'incorruttibile Dio in un'immagine simile a quella di un uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità nelle concupiscenze dei loro cuori, così da disonorare fra di loro i loro corpi; essi, che hanno cambiato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura, al posto del Creatore, che è benedetto in eterno. Amen.
Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami, e così anche le loro donne hanno mutato la relazione naturale in quella che è contro natura. Similmente gli uomini, lasciata la relazione naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni verso gli altri, commettendo atti indecenti uomini con uomini, ricevendo in loro stessi la ricompensa del proprio traviamento. E poiché non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abbandonati ad una mente depravata, così da far cose sconvenienti, ripieni d'ogni ingiustizia, fornicazione, malvagità, cupidigia, malizia; pieni d'invidia, omicidio, contesa, frode, malignità; ingannatori, maldicenti, abominevoli a Dio, ingiuriosi, superbi, vanagloriosi, ingegnosi nel male, disubbidienti ai genitori, insensati, sleali, senza affetto naturale, implacabili, spietati. Essi, pur conoscendo il decreto di Dio secondo cui quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non solo le fanno, ma anche approvano coloro che le commettono.

dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 1

 


Aereo russo sfida ancora i turchi. Intanto Assad se la ride

AI via le trattative sulla Siria a Ginevra

di Carlo Panella

Hafez al Assad è in salvo. Per il momento. Domani si vedrà. Questa è l'unica certezza sulla guerra civile siriana dopo seirnila bombardamenti russi. L'altra, più importante, certezza è che l'Isis è stata solo scalfita sia dai bombardamenti russi, che da quelli della coalizione a guida americana. La terza quasi certezza è che Putin ha dovuto pagare un prezzo per mettere in sicurezza, assieme ad Assad, la sua nuova «Crimea sul Mediterraneo», le sue basi navali militari di Latakia e Tartous. Secondo l'agenzia turca Anadolou e le organizzazioni umanitarie siriane sarebbero infatti ormai un centinaio i militari russi morti in Siria. E ieri Ankara ha denunciato un nuovo sconfinamento di un caccia Su-34 russo: Mosca non deve fare «passi irresponsabili», ha ammonito minaccioso il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan.
   A quattro mesi dall'intervento russo in Siria, scattato nel momento in cui Assad rischiava di crollare, è dunque certo che la regione nord occidentale è ormai sotto stretto con trollo delle milizie di Assad. Con essa, è garantita la sicurezza della «montagna», la zona d'origine degli alauiti (la setta sciita di cui è leader Assad) e delle basi navali e terrestri della Russia. Insomma, si ha la prova provata che l'intervento russo non era e non è affatto diretto a contrastare l'Isis, maa tutt'altro obiettivo. Tolti alcuni - pur importanti - snodi stradali, a sud, nella zona di al Kuneitra, verso Israele (che registra con preoccupazione sbandamenti di miliziani) e verso la Giordania (che teme infiltrazioni jihadiste), il califfato di al Baghdadi continua a presidiare il grosso del territorio conquistato a suo tempo. Persino Palmira, la sua ultima, clamorosa, conquista, è sempre sotto il suo feroce dominio. Raqqa ha subìto devastanti bombardamenti ed è attaccata da nord da miliziani curdi del Ypg, ma continua ad essere la capitale del Califfato. Anche al Nusra, sezione siriana di al Qaeda, che combatte anche contro 1'Isis, non ha subìto consistenti perdite, tanto che nei giorni scorsi è riuscita, indisturbata, a fare affluire 200 suoi miliziani ad Aleppo. Quest'ultima città, peraltro, la seconda per importanza della Siria, continua ad essere controllata per settori da al Nusra, dall'Isis, dalla Free Syrian Army e naturalmente anche dalle milizie di Assad.
   Hanno subìto ovunque consistenti perdite invece i ribelli anti Assad che contrastavano anche l'Isis, con l'appoggio della Turchia (Free Syrian Army) che appoggia anche Iaysh al Islam e Ahrar al Sham, armati dall'Arabia Saudita. Sono dovuti fuggire da Homs (ma i miliziani di Assad li hanno dovuti lasciare passare con un accordo, per ricollocarsi altrove) e hanno perso posizioni importanti a ridosso di Latakia.
   In questo quadro, che continua a produrre profughi, iniziano oggi a Ginevra le trattative che l'Onu, con il suo inviato speciale Staffan de Mistura, tenta per la terza volta. Ma Salim al Mouslat, il portavoce dell'Alto Comitato per i Negoziati, che raggruppa tutte le opposizioni siriane (esclusi ovviamente Isis, al Nusra e i curdi) ha annunziato che la partecipazione al tavolo ginevrino è diretta solo e unicamente a ottenere la fine dei bombardamenti e dell'assedio criminale di alcune città da parte delle milizie di Assad, dei Pasdaran e di Hezbollah. Nulla più. Un fallimento annunciato.

(Libero, 31 gennaio 2016)


Ebree nascoste a San Giacomo Segnate. Il grazie di due sorelle al paese

Cecilia e Francesca Lombroso invitate a raccontare la loro storia nella Giornata della memoria.

di Maria Antonietta Filippini

SAN GIACOMO SEGNATE - Nella sala della biblioteca piena all'inverosimile, con i bambini in prima fila sulle seggioline e dietro pubblico di ogni età, ieri a San Giacomo delle Segnate, sembrava di trovarsi a una riunione di famiglia: le sorelle ebree Cecilia e Francesca Lombroso accolte come due nonne hanno ringraziato commosse il paese che le aveva ospitate e protette dal 1943 alla fine della guerra.
   «Bambini dovete sapere che i vostri bisnonni sono stati propio buoni e gentili, nessuno ci ha denunciato, eppure qualcuno di certo sapeva» ha detto, Cecilia, corretta dallo storico locale Stefano Vanini, che ha spiegato come in realtà tutti sapessero che c'erano famiglie ebree rifugiate. «Quando abbiamo iniziato il libro Sotto le bombe, ho trovato anziani che parlavano di ebrei a Malcantone e nella casa del Balota, che era stata di Dialma Spaggiari, davanti alla chiesa».
   E infatti Nelly Lombroso, della famiglia mantovana Dalla Valle, da Bologna aveva cercato di nascondersi con i tre figli e un nipote, dal fratello Arrigo, proprietario della Corte Mantovana. Poi si era spostata al centro del paese. Il marito ingegnere aveva dovuto emigrare in Uruguay dopo le leggi razziali. «Non poteva più firmare i progetti - ha raccontato Cecilia - mio fratello Andrea era stato cacciato dalla scuola». E proprio a Quistello, dove Cecilia andò per iscriversi alla terza media, incontrò un uomo che disse di essere Marocci il professore di Andrea a Bologna fino a che era stato mandato via perché ebreo. «Mia madre non voleva più che andassi a scuola, invece frequentai tutti i giorni anche la quarta ginnasio, andavo in bicicletta, come in bici eravamo arrivati da Bologna».
   Il racconto, nonostante la drammaticità, è stato vivace, e quando le sorelle hanno voluto dire "Grazie, a tutti voi", in molti, hanno sentito il nodo in gola. Il sindaco Giuseppe Brandani è stato il primo a incontrare Cecilia nell'estate 2014. «Non ero più venuta da 70 anni - ha raccontato -, ci eravamo trovati bene, ma quanta paura con i tedeschi che avevano requisito il nostro alloggio e noi che stavamo in solaio con mio fratello nascosto nell'armadio. È stato mio genero a convincermi, mi ha portato in municipio». Saputo che si stava preparando un libro sul bombardamento che provocò morti a San Giacomo, Cecilia e Francesca offrirono il diario della madre Nelly che racconta i giorni vissuti qui.
   Le due sorelle hanno parlato anche dei parenti Dalla Valle morti nei lager, come Alberto, di soli 22 anni, l'amico ad Auschwitz di Primo Levi che in "Se questo è un uomo" non cita il cognome, rispettando «nostra zia e nostro cugino che non hanno mai voluto credere che fossero morti lui e il padre. Morì nel lager anche lo zio Riccardo, con i due figli. Aveva fondato a Firenze la facoltà di Economia e commercio e aveva consigliato Mussolini di non dichiarare guerra all'Inghilterra, perché dietro si sarebbe mossa l'America. Era una storia che sentivamo raccontare in casa».
   Il fratello Andrea, che ha 90 anni e vive in Danimarca, ieri non ha potuto venire, ma ha mandato una bella lettera.
   Mentre Vanini ha intervistato le sorelle ebree, Livia Calciolari, dopo un inquadramento storico molto chiaro, ha presentato Remo Alessi, un signore con sul petto due belle medaglie, 90 anni e una vivacità invidiabile nel raccontare la sua esperienza di soldato mandato in Jugoslavia e che l'8 settembre 1943 fu tradito, come i suoi commilitoni. Il treno da Zara non era diretto in Italia, ma a Buchenwald. «L'amarezza maggiore - ha raccontato - fu quando visitando il campo degli ebrei con il crematorio, dopo l'arrivo dei sovietici, scoprì a che cosa era servita la legna che aveva dovuto tagliare nel bosco. Rischiò di morire per un buco in testa».

(Gazzetta di Mantova, 30 gennaio 2016)


Uno Zadik nistar, un giusto nascosto

Organizzata dal KKL, la conferenza "Georges Loinger racconta Exodus".

di Sara Habib

 
Georges Loinger
"Un vero uomo" il protagonista dell'incontro del 29 novembre - anche anniversario dell'approvazione all'ONU del piano di ripartizione della Palestina, come ricordato all'evento - all'Hotel Quirinale, Georges Loinger, ebreo alsaziano, di ben 105 anni. "Un uomo che quando ha capito che erano in pericolo le vite dei bambini, non ha esitato a scappare da un Il comodo " campo di prigionia per cercare di salvarli. Un uomo che ha camminato accanto a grandi della storia di Israele per decenni, senza mai dire di no ai progetti per migliorare il mondo" come lo ha definito Raffaele Sassun, presidente del KKL Italia, organizzatore dell'evento.
   "Ci sono forze malefiche che vogliono sottomettere il mondo occidentale" ha dichiarato legandosi all'attualità. "Come diceva Einstein: 'Il mondo non sarà distrutto da chi fa del male, ma da quelli che guardano senza fare nulla', non è certo questo il caso di Loinger. Secondo il Talmud, in ogni generazione esistono 36 Zaddikim Nistarim, giusti nascosti. Persone speciali che grazie alle loro azioni giustificano davanti al Signore il diritto di esistenza del mondo, anche se il mondo è degenerato a livelli di barbarie totale' la poetica introduzione che gli ha riservato. "Questi Zaddikim, dopo aver compiuto le loro gesta, ritornano all'anonimato della vita normale, senza che la gente normale si accorga di loro. Ma chi è attento, ogni tanto, riesce a scoprire un Zaddik Nistar",
   "Il Signor Segre Amar Emanuel, presente all'evento, mi ha invitato prima a Torino, poi qui, perché non voleva uno storico, ma un testimone", ha esordito Loinger. Incredibile è infatti la storia che ha narrato ai presenti.
   Arruolatosi nell'esercito francese, viene fatto prigioniero con i compagni di reggimento e portato in Germania, "li eravamo tranquilli, protetti dall'esercito tedesco, nessuno lì scoprì mai che fossi ebreo, ero come gli altri. Addirittura, ogni settimana ci arrivavano dei pacchi di cibo dalle nostre mogli, dicevano che i tedeschi non sapevano cucinare", racconta. Ma per amore della moglie decide di evadere, passando per Strasburgo, e si unisce alla resistenza ebraica, incorporata a quella francese, iniziando la sua opera di salvataggio .
   "Avevamo ricevuto molti soldi dagli americani per poter pagare delle famiglie francesi che ospitassero presso di loro dei bambini ebrei, ma alcuni ragazzi erano religiosi e si rifiutavano di vivere presso goim. Era un grande problema, dovevamo farli arrivare in Svizzera. Se il salvataggio è riuscito è stato anche grazie ad un soldato italiano, sono molto grato all'esercito italiano, che verso la fine del '42-'43 controllava il confine, e si è rivoltato, è andato contro Hitler".
   Finita la guerra ebbe poi un ruolo importante nell'affare Exodus, fu lui ad occuparsi delle modifiche necessarie a riadattare la nave, costruita per trasportare 500 persone in modo che ne potesse contenere 4500. "Allora ero il presidente della Compagnia di Navigazione Israeliana ZIM e ricevetti a Parigi la visita di due persone che parlavano ebraico. Mi dissero: 'Noi sappiamo bene cosa sai fare devi aiutarci' ..... costruimmo nella nave anche dei motori speciali per farla andare più veloce".
   Gal Shachar di ZIM Italia, ha quindi rivolto all'ex presidente parole di lode e ringraziamento - "i tuoi successi sono diventati leggendari... Tu eri a capo della compagnia quando mosse i primi passi in Europa" .
   Nel 1959 poi, il gesuita Michel Riquet, amico di Loinger, deciso a dar vita a un atto simbolico di grande impatto di riconciliazione fra tedeschi e francesi organizzò il Primo Congresso Eucaristico, e affinché questa simbologia fosse davvero potente, volle che questo incontro avvenisse su una nave israeliana. Ci pensò ancora Loinger: come Direttore, nominato da Ben Gurion in persona, organizzò l'itinerario. Ultima tappa Barcellona dove gli ebrei erano stati cacciati nel 1492.

(Shalom, gennaio 2016)


L'avvoltoio spia

di Paolo Dionisi

 
Udite bene: dopo una lunga e faticosa mediazione, gli ufficiali della Forza d'interposizione delle Nazioni Unite nel sud del Libano, Unifil, hanno convinto il Governo libanese a liberare un avvoltoio sospettato di essere una spia israeliana. Avete capito bene, il rapace era stato catturato perché creduto una spia del nemico.
   L'avvoltoio, di cui ovviamente non è stato reso pubblico il nome, per salvare forse l'identità in caso di future missioni spionistiche, è stato consegnato dai caschi blu dell'Onu ai funzionari dell'Autorità israeliana della natura e dei parchi, sul posto di confine di Rosh Hanikra.
   L'uccello era stato catturato dagli abitanti del villaggio di Bint Jbeil, nel sud del Libano; la cittadina, che fino al maggio 2000 era sotto occupazione dell'esercito israeliano, conta poco più di 15 000 abitanti e dista circa 5 chilometri dalla frontiera con Israele. Il giornale israeliano Haaretz, che riporta la notizia, mostra la foto del rapace che viene restituito dai caschi blu ai funzionari israeliani; l'uccello-spia appare in discrete condizioni, seppur con piccole ferite, conseguenza della cattura. Si sa che proveniva dal Parco naturalistico di Gamla, uno dei più belli del nord di Israele, sulle alture del Golan, a circa 35 chilometri dalla frontiera.
   La riserva è ospitata accanto un sito archeologico dove sorgeva un antico villaggio ebraico espugnato dai romani nel 67 d.C., dopo una tenace resistenza, secondo le cronache di Giuseppe Flavio. La zona è conosciuta e apprezzata dai birdwatcher di tutto il mondo che si recano a Gamla per ammirare i grandi uccelli rapaci ed è vicina all'area vinicola dove vengono prodotti i migliori vini d'Israele. Le Autorità ambientali israeliane avevano espresso grande preoccupazione sulle sorti dell'avvoltoio e avevano invocato la mediazione dei soldati dell'Onu.
   I libanesi avevano subito sospettato che l'avvoltoio fosse utilizzato dagli uomini dell'Aman, il servizio di spionaggio militare di Israele, per carpire informazioni sulle attività intorno a Bint Jbeil, zona in larga parte abitata da sciiti vicini a Hezbollah; il grosso rapace sorvolava in cerchio la zona e aveva strane antenne intorno al corpo. Un caso simile, di un altro avvoltoio spia, era stato denunciato nel 2011 su alcuni media di Riad, che avevano riferito che le autorità di sicurezza del regno avevano intercettato sopra i cieli sauditi un rapace con un trasmettitore GPS e un anello identificativo dell'Università di Tel Aviv.
   Ma Israele avrebbe arruolato nei propri servizi segreti anche altri animali: nell'estate scorsa, il movimento islamico palestinese Hamas aveva annunciato di aver catturato al largo delle coste della Striscia di Gaza un delfino con speciali telecamere sul muso, sospettato di operare per conto dei servizi israeliani. Israele e Libano sono ancora tecnicamente in guerra e i confini tra i due paesi sono spesso stati oggetto di attacchi armati dai due lati: è per proteggere la zona intorno alla frontiera e prevenire ogni occasione di conflitto che le Nazioni Unite hanno attivato dal 1978 l'UNIFIL, alla quale l'Italia contribuisce con 1100 militari. Tel Aviv e Beirut si lanciano periodicamente accuse di spionaggio e sulla stampa dei due paesi vengono spesso date notizie di smantellamenti di cellule spionistiche.
   Nei giorni scorsi, a Beirut, sono stati condannati a 15 anni di lavori forzati due cittadini libanesi e un siriano accusati di spionaggio a favore di Israele e poche settimane prima un cittadino svedese di origine libanese era stato arrestato in Israele dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, accusato di spionaggio in favore di Hezbollah.

(L'Opinione, 30 gennaio 2016)


Lo zoo del Mossad


Golfo, tensioni tra Iran e Usa: un drone iraniano ha sorvolato una portaerei Usa

Nuove tensioni tra Teheran e Washington nelle acque del Golfo. Un drone disarmato da ricognizione iraniano ha sorvolato una portaerei statunitense nel Golfo, scattando una serie di immagini dettagliate. A annunciarlo è stata la televisione di Stato iraniana. L'episodio è avvenuto durante le esercitazioni della Marina della Repubblica islamica. Gli Stati Uniti confermano di aver avvistato un drone definendolo non pericoloso ma "anomalo e poco professionale".
"Il volo di questo drone è un segno di coraggio, rappresenta l'esperienza e la capacità scientifica dei nostri uomini che sono arrivati così vicino alla nave da guerra, sono riusciti a scattare delle bellissime e minuziose fotografie delle unità di combattimento di una forza straniera", dice Admiral Habibollah, comandante della marina iraniana.
Secondo un portavoce della marina militare americana l'episodio è avvenuto il 12 gennaio. È lo stesso giorno in cui le autorità dell'Iran per un sconfinamento non autorizzato nel Golfo Persico avevano sequestrato due imbarcazioni statunitensi e arrestato dieci militari, poi rilasciati. Gli Stati Uniti si erano giustificatati dicendo che le due navi avevano avuto un guasto tecnico.

(euronews, 30 gennaio 2016)


Ragazzo israeliano ferito a coltellate a Gerusalemme

Nuovo assalto all'arma bianca a Gerusalemme, dove un israeliano di 17 anni è stato accoltellato, nei pressi della Porta di Damasco, uno dei principali punti di accesso alla città vecchia. Secondo quanto riferito il quotidiano Haaretz, due palestinesi minorenni residenti a Gerusalemme Est sono stati arrestati per l'aggressione. Il ragazzo è lievemente ferito. Al momento dell'attacco si trovava con un amico che è riuscito a fuggire e ad avvertire la polizia.

(Corriere Quotidiano, 30 gennaio 2016)


Droni, l'ultima rivelazione di Snowden: «Israele spiato da Usa e Gran Bretagna»

Controlli nel 2000 e nel 2008. Hamas intanto annuncia: «pronti alla guerra». Teheran fotografa la portaerei Usa.

GERUSALEMME - Spie in cielo: l'intelligence americana e britannica ha sorvegliato le attività militari dei droni israeliani dal 2000 e quelle degli aerei da combattimento dello stato ebraico nel 2008 durante la guerra con Gaza. Una operazione - chiamata in codice "Anarchist" - svelata dalla carte dell'analista del Datagate Edward Snowden e ricostruita da Yediot Ahronot, Der Spiegel e Intercept. Israele ha detto di «non essere sorpreso» quanto piuttosto «deluso» dal comportamento degli alleati. Secondo la ricostruzione dei media, il programma di intercettazione è stato messo a punto dal Quartier generale inglese delle comunicazioni in collaborazione con la Sicurezza nazionale Usa (Nsa) ed ha monitorato da Cipro i droni e gli aerei israeliani. Un occhio elettronico che ha violato i sistemi militari israeliani consentendo di «rubare» le riprese effettuate dalle telecamere dei droni stesse. Incluse una serie di foto relative al 2009 e 2010 che appaiono mostrare missili portati dagli aerei senza pilota. Il programma - secondo le carte - avrebbe anche sorvegliato droni dalla Siria e dagli Hezbollah in Libano, ma il grosso del lavoro ha riguardato le operazioni militari israeliane con un'attenzione a possibili attacchi di Israele all'Iran. "Anarchist" ha operato - secondo i media - da un'installazione della Royal Air Force nelle montagne di Trodoos, il punto più alto dell'isola di Cipro.

 Il posto virtuale
  Considerato dall'intelligence americana e britannica - ha scritto Intercept - come un posto unico ai fini dell'intercettazione, il luogo offre un accesso perfetto per monitorare quello che succede nei cieli, e non solo, del Levante, del Nord Africa e della Turchia. Sempre secondo Intercept, "Anarchist" ha consentito agli Usa e alla Gran Bretagna di avere un posto virtuale a bordo sia dei droni sia degli aerei da combattimento israeliani e di apprendere molto del modus operandi e della tecnologia degli aerei senza pilota dello stato ebraico. AI tempo stesso i documenti - ha aggiunto - gettano luce sulle «relazioni conflittuali tra Usa e Israele e sulle preoccupazioni americane per potenziali azioni di destabilizzazione dello Stato ebraico nella regione». Se per ora non ci sono reazioni statunitensi e britanniche alle nuove rivelazioni che vengono dalle carte di Snowden, a reagire è stata invece Israele. «Non siamo sorpresi - ha detto il ministro per le Infrastrutture nazionali Yuval Steinitz -. Sappiamo che gli americani spiano tutto il mondo, anche noi, che pure siamo loro amici».

 La delusione
  Ma non ha nascosto «un senso di delusione» visto che «da decine di anni noi non spiamo, non raccogliamo informazioni di intelligence e non facciamo sforzi di decrittazione negli Stati Uniti». Tutto questo avviene mentre è al massimo la tensione con i palestinesi di Hamas. I palestinesi di Hamas infatti si sta preparando a un nuovo conflitto con Israele, testando nuovi razzi per accertarne le potenzialità e scavando tunnel. Lo ha annunciato il leader di Hamas Ismail Haniyeh, spiegando che «la resistenza sta scavando a est di Gaza e testando razzi a ovest di Gaza ogni giorno». Mentre il Pentagono non replica a Israele, l'Iran annuncia di aver effettuato un volo con un drone di sorveglianza sopra una portaerei americana durante un'esercitazione nel Golfo Persico, scattando delle fotografie. Lo ha riferito la tv di Stato iraniana. Il comandante della marina iraniana, Habibollah Sayyari, ha elogiato l'operazione, sottolineando che «i nostri uomini sono arrivati così vicino alla nave da guerra da scattare foto accuratissime».

(Il Messaggero, 30 gennaio 2016)


Accoltellare gli ebrei ora è una hit

In Palestina spopola la canzone che inneggia agli assalti armati: su YouTube 5 milioni di visite.

di Fiamma Nirenstein

 
Quando Ban Ki-moon giustifica il terrorismo palestinese parlando di frustrazione, di un'attesa troppo lunga di uno stato indipendente, si intuisce che nessuno nel suo staff gliel'ha cantata abbastanza chiara sulle motivazioni dei terroristi.
   Cantata, sì, in senso proprio: e i titoli della canzoni sono parecchi e suggestivi. Per esempio: «Gli amanti del pugnale», che è la hit più forte. Ma poi ci sono anche: «Pugnala il sionista»; «Riempi la bottiglia di fuoco» (bottiglia molotov, si direbbe); «In alto l'arma». La prima di queste canzoni palestinesi ha fatto cinque milioni di visualizzazioni su YouTube e la canta il gruppo Al Gorbaa. Nel video la madre del «martire» Mohammed Ali al Liqdad, che ha pugnalato tre persone a Dicembre alla Porta di Damasco della Città Vecchia a Gerusalemme prima di venire ucciso dalle forze dell'ordine, canta le parole della canzone popolare in testa al funerale. Le canzoni di incitamento a uccidere non parlano mai di ricerca di un futuro Stato, di una soluzione di pace, nemmeno di due Stati per due popoli, sono inviti, ormai riprodotti dagli altoparlanti delle auto, dei negozi, delle case, a uccidere più ebrei possibile per puro odio. Le canzoni della morte vanno per la maggiore, e se ne rende ben conto Hamas che le trasmette di continuo sulle sue tv «Al Aqsa» e «Al Quds». Come fossero elementi di naturale ammirazione e attrazione dell'audience, si vedono su quella colonna sonora le foto degli «eroici shahid» con molto materiale di documentazione che mostra gli attacchi in sequenza. Per esempio si ammira spesso il momento in cui Alaa Abu Jamal, che prima della scelta terrorista era un impiegato della compagnia di stato israeliana dei telefoni, Bezeq, mentre si proietta con l'auto su un gruppo di persone in attesa alla fermata dell'autobus, e là uccide il 40enne Yeshayahu KIrshavski. Anche la tv del Fatah «moderato» di Abu Mazen, che nella fantasia dell'Onu vorrebbe tornare al tavolo del negoziati trasmette per non essere da meno le canzoni che sono ormai la colonna sonora del terrore. Per esempio «In alto l'arma» è una delle sue hit, e dice «Affogali in un mare di sangue, uccidili come vuoi» e poi mette giù un elenco di esempi di «martiri». La cantante dice anche: «Sfida la morte e resisti, perché la vittoria sta per giungere».
   L'esaltazione comunicata dalle canzoni è una vera droga: per esempio il 26 ottobre Red Jaradat, 22 anni, subito prima di andare a pugnalare un soldato nel collo, ha postato su Facebook la clip di «Gli amanti del pugnale». Una delle spiegazioni del terrorista è spesso la difesa della moschea di Al Aqsa, l'idea che gli israeliani vogliano appropriarsene. Non è vero, ma la musica esalta gli animi già influenzati a uccidere e a morire: Al Aqsa è lo slogan preferito non solo di Hamas, organizzazione islamista che usa naturalmente l'approccio religioso, ma anche del Fatah. Le due parti in gioco, particolarmente in concorrenza per l'opinione pubblica palestinese, gareggiano in incitamento al terrorismo. Se Hamas invita al terrorismo suicida, è Fatah che paga stipendi a chi è in carcere per terrore. Il giuoco al rialzo della violenza, incoraggiato dalla compiacenza dell'Onu e dalla insistita disapprovazione europea e americana che si esprime adesso con la decisione del labeling dei prodotti del West Bank, ha come sbocco naturale soltanto scenari bellicistici. È strano che Ban Ki moon pensi che può servire giustificare il terrorismo. È di ieri la valutazione di un alto ufficiale israeliano che Gaza, che ha costruito nuovi tunnel e accumulato nuovi missili, sia pronta a una nuova guerra.

(il Giornale, 30 gennaio 2016)


Hassan Rouhani: "In Siria ad Assad non c'è alternativa. Con me l'Iran è un paese più libero"

Il presidente: "Subito cessate-il-fuoco, poi un accordo politico. Noi combattiamo l'Is, ma l'Arabia Saudita appoggia i terroristi. E l'America ora conta su di noi per battere il Califfato. Dopo le elezioni nuovo dialogo con gli Usa”.

di Christophe Ayad, Marc Perelman e Ludovic Piedtenu

"Nel breve termine non c'è soluzione al di fuori di Assad". A parlare della crisi siriana, ma anche dei difficili rapporti con l'Arabia Saudita e della nuova fase con l'America dopo la fine delle sanzioni, è il presidente iraniano Hassan Rouhani a conclusione della sua visita di due giorni in Francia.

- Lei è stato dal Papa a Roma e da Francois Hollande a Parigi. Sulla scena internazionale l'Iran non è più un paria?
  "L'Iran non è mai stato un paria, né prima né dopo l'accordo nucleare. Nel 2013 l'Assemblea generale dell'Onu accolse all'unanimità la mia iniziativa per un mondo senza violenza e senza estremismi. In quell'occasione incontrai molti leader europei: erano tutti contrari alle sanzioni e ebbi l'impressione che erano pochi a voler isolare l'Iran".

- Con gli Usa vi siete scambiati prigionieri, intrattenete rapporti diplomatici. é una forma di normalizzazione?
  
"È difficile che in un tempo così breve tutto sia risolto. A Obama ho detto che intendiamo attenuare le tensioni tra i nostri Paesi e mi pare che si siano attutite. A elezioni concluse sia in Iran che negli Usa dovremo riprendere il discorso".

- Stiamo assistendo a una svolta della politica americana nella regione? Un riavvicinamento con l'Iran e maggiore distanza con l'Arabia Saudita?
  
"La questione nucleare rappresentava un problema complicato e l'America ha avuto un ruolo importante nella sua soluzione. L'accordo è un passo avanti. Ora partecipiamo a riunioni sulla Siria con gli Stati Uniti. Sino a qualche anno fa sarebbe stato inconcepibile. Le cose sono cambiate. Gli americani ritengono l'Iran il solo Paese della regione in grado di combattere il terrorismo. In Iran, d'altronde, si tengono elezioni regolari, nei Paesi che ci circondano è raro che accada".

- Si riferisce all'Arabia Saudita, con la quale i rapporti si sono interrotti in seguito all'uccisione di un dignitario sciita e all'attacco all'ambasciata saudita a Teheran?
  
"Tra i nostri Paesi sono avvenuti eventi spiacevoli. La condanna a morte del religioso sciita ha rattristato il popolo iraniano. D'altro canto, non approviamo ciò che è accaduto all'ambasciata saudita di Teheran. Un atto che ho condannato e ho fatto arrestare i colpevoli. Ma la reazione di Riad è stata sproporzionata".

- Ripristinerete i rapporti diplomatici?
  
"Chi li ha interrotti deve compiere il primo passo e rimediare alla situazione creata. Penso che in futuro l'Arabia Saudita rimpiangerà le sue azioni. Noi non abbiamo compiuto gesti a cui dover rimediare".

- Lei accusa i sauditi di finanziare il terrorismo e lo Stato islamico. Ha le prove?
  
"Basta domandare ai popoli di Iraq e Siria. Da dove viene questa idea di violenza? Chi è stato il primo a lanciare azioni terroristiche, a quale nazionalità apparteneva? Sono circostanze facilmente verificabili".

- Siete pronti ad unire le vostre forze e collaborare con la coalizione internazionale della quale fanno parte anche Francia e Stati Uniti contro l'Is?
  
"Esiste una coalizione di cui fanno parte Iran, Iraq, Siria e Russia. Esistono molte coalizioni. Senza di noi, oltre a Mosul sarebbero cadute altre città irachene"

- Quali esiti si attende dai negoziati sulla Siria di Ginevra?
  
"Spero si concludano il prima possibile, ma se così fosse mi stupirei perché in Siria ci sono gruppi in guerra contro il governo centrale e anche fra di loro. Ci sono ingerenze straniere e invii di armi. La soluzione alla crisi siriana è politica e sarà difficile raggiungerla in poche settimane. La questione siriana richiede sforzi da parte di tutti: deve essere una priorità. Per creare le condizioni adatte a un ritorno della pace e della stabilità tali da far rientrare i rifugiati nelle loro case, dobbiamo sradicare il terrorismo. In seguito si emendarà la Costituzione. I negoziati tra governo centrale e oppositori devono sfociare in elezioni. Ci sono molte cose da fare. Ma la prima è il cessate-il-fuoco".

- I governi occidentali sembrano disposti ad accordarsi su Assad, malgrado i crimini da lui commessi.
  
"A commettere i crimini in Siria sono i terroristi. Decapitano innocenti, commettono massacri. Bisogna estirparli. Il futuro del governo siriano in questo momento è secondario. Nel breve termine non ci sono soluzioni al di fuori di Assad. Se vogliamo combattere il terrorismo dobbiamo aiutare l'esercito siriano, che non può svolgere il suo ruolo senza un solido governo centrale. Il dilemma Assad non riflette la realtà sul campo. Un domani ci si potrà pensare, ma l'Occidente deve capire che non si può scegliere al posto del popolo siriano. Dobbiamo ristabilire la sicurezza del Paese. Come organizzare elezioni valide, se il sessanta per cento del territorio è nelle mani dei terroristi? Come concepire il futuro in condizioni simili?".

- A febbraio in Iran si votano le legislative. Alcuni candidati sono stati espulsi e lei ha espresso disappunto. Qualcuno vuol bloccare le sue riforme?
  
"Alla candidatura per le legislative si giunge attraverso diverse tappe. L'ultima parola spetta al Consiglio dei guardiani della Costituzione. Aspettiamo che si pronunci. Non bisogna deludere gli iraniani. Da noi ci sono correnti di pensiero diverse. Opporsi alla politica del governo è possibile. Ma deve accadere nel rispetto della legalità e della morale".

- Durante la sua campagna aveva promesso passi in avanti su diritti umani e libertà d'espressione. Invece i giornalisti continuano a essere incarcerati, i minorenni vengono condannati a morte.
  
"Il governo agisce entro i limiti delle sue competenze che il popolo conosce bene. Il potere giudiziario è indipendente, come quello legislativo. Accade che tra i poteri non vi sia unità di vedute. Posso proporre all'Assemblea leggi ma non posso farle approvare. Posso avere una mia opinione ma è essenziale che la legge sia rispettata. Anche se non fossi d'accordo con un'iniziativa votata dall'Assemblea in quanto presidente sono costretto ad applicarla. Quanto alle promesse, ho tenuto fede a molte. Per altre, mi sforzo quanto posso. La situazione economica è migliorata, ma a causa del prezzo del petrolio ci aspetta un anno difficile. Tuttavia la situazione è diversa da quella precedente al mio arrivo. Oggi si può criticare il governo in tutta libertà. Nelle università vi sono gruppi politici che si esprimono liberamente. Spero di riuscire a tener fede a tutte le mie promesse nel tempo che mi resta".

(Le Monde. Traduzione di Marzia Porta)

(la Repubblica, 30 gennaio 2016)


Il violino della Shoah, da Birkenau a Brescia

Il violino della Shoah
Sono note piene di sofferenza quelle che si sono propagate dal palco del For Art, suonate dal «violino della Shoah». Appartenuto a Eva Maria Levy, deportata nel campo di Birhkenau, il violino ha resistito al campo di concentramento ed è stato portato in Italia da Enzo, il fratello.
Marcato da una stella di madreperla incisa sul retro, ora appartiene alla collezione privata di Carlo Alberto Carutti. All'interno del violino è stato trovato un cartiglio con la scritta: «Der Musik macht frei» (la musica rende liberi).

(Giornale di Brescia, 30 gennaio 2016)


Lech Lechà, dal 14 al 19 marzo ritorna la settimana ebraica a Trani

Tanti gli appuntamenti di arte, cultura e letteratura ebraica.

di Alessandra Vacca

Si rinnova anche quest'anno il tradizione appuntamento con la settimana ebraica , Lech Lechà Komeniut. L'evento si svolgerà dal 14 al 19 marzo, e vanta del patrocinio e sostegno della Regione Puglia, Comune di Trani, Unione Comunità Ebraiche Italiane e Comunità Ebraica di Napoli. Arte, cultura e letteratura ebraica al centro degli incontri che si svolgeranno in comunione con la Fondazione S.E.C.A., Trani, Conservatorio di Musica U. Giordano, Foggia, Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta, Centro Ebraico di Cultura HaShoresh Doròt, Brindisi-Lecce, Libreria La Penna Blu, Barletta, Vila Viaggi, Trani e Seriarte, Barletta.
   Decine di eventi e sempre Trani a svolgere la parte del leone della cultura ebraica di Puglia; è con orgoglio che presentiamo la settimana Lech Lecha - annuncia Rav Umberto Piperno, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Napoli - durante la quale si svolgeranno conferenze, presentazioni librarie, concerti, studio dei testi scritturali, si potrà mangiare e bere casher sotto stretta sorveglianza del Rabbinato di Napoli e si potrà godere del grande dono dello Shabbat nell'incantevole scenario della Sinagoga Scolanova, la Sinagoga più antica d'Europa. Da segnalare quest'anno "da Trani uscirà la Torà" (venerdì 18 marzo), giornata di full immersion nello studio dei pilastri scritturali dell'ebraismo (Torà e Mishnà) e il concerto Il violino di Chagall dell'orchestra giovanile del conservatorio di musica Umberto Giordano di Foggia nella suggestiva cornice del Castello Svevo di Trani nell'ultima serata dedicata al Mabit ossia il grande Dottore della Legge tranese Moshe ben Iosef Mitrani sepolto a Safed. Riteniamo che ci siano tutti i presupposti per definire Lech Lechà (promosso, sostenuto e patrocinato da Regione Puglia, Comune di Trani e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) quale uno dei più importanti eventi dell'ebraismo italiano in assoluto. L'impegno per la promozione dell'ebraismo e del dialogo euro-mediterraneo promosso dagli ebrei di Puglia è fondamentale nell'Italia ebraica. Il Rabbinato di Napoli e la Comunità ebraica di Napoli, responsabile per la circoscrizione dell'Italia Meridionale, sosterranno con ogni mezzo la rinascita dell'ebraismo nel Mezzogiorno. L'auspicio è che esso si riveli altresì momento ideale per la promozione dei valori dell'interculturalità, autentica bandiera dell'ebraismo e delle culture del Mediterraneo».
Questo il programma tematico della settimana:
  • א Reshìt, convegni su ebraismo, storia e attualità ebraica, Israele;
  • ב Sefarìm, fiera del libro ebraico, mostre e film;
  • ג Yeshivà Tefillòth e lezioni rabbiniche presso la Sinagoga Scolanova;
  • ד Il canto di Abramo, concerti, musiche e danze tradizionali ebraiche;
  • ה Chi è rimasto a bottega? ristorazione casher sotto sorveglianza del Rabbinato di Napoli;
  • ו Yom ha-Shabbat, il sabato, cuore pulsante della vita ebraica;
  • ז Il ritorno del Mabit, la serata dell'ebraismo tranese.
(TraniViva.it, 30 gennaio 2016)


La Francia pronta a riconoscere la Palestina come Stato

La Francia vuole organizzare nelle prossime settimane una conferenza con l'obiettivo di rilanciare la "soluzione dei due stati", con Israele a fianco di uno stato palestinese. Se non ci saranno passi avanti e la trattativa risulterà bloccata, Parigi intende procedere con il riconoscimento della Palestina.
Lo ha detto il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, citato da fonti del Quai d'Orsay. "Se ci sarà un blocco - ha dichiarato oggi il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, davanti al corpo diplomatico francese - ci assumeremo le nostre responsabilità con il riconoscimento dello Stato palestinese". La posizione della Francia, che fa pressioni su Israele per una soluzione definitiva, è nota da tempo.
Nonostante le "crisi brucianti" di questi ultimi mesi, Parigi ha deciso di "non dimenticare l'interminabile e tragico conflitto israelo-palestinese", ha detto Fabius nella tradizionale cerimonia degli auguri di inizio anno ai diplomatici francesi.

(l'Altro quotidiano, 30 gennaio 2016)


Il burqa alle statue, follow the money

di Valter Vecellio

 
Musei Capitolini
Ha certamente ragione chi, come per esempio Vittorio Sgarbi, sostiene che con quel Burqa di Stato sulle antiche statue romane ai Musei Capitolini siamo scesi in basso come non mai (ma no, altre volte è accaduto, a Firenze, a Torino…). Sì, sono ridicole le ragioni esibite dal cerimoniale per giustificare quelle "coperture". Un'idiozia; tuttavia con allegati inconsapevoli, non voluti, lampi di genio. C'era un modo migliore per spiegare al mondo intero, e a noi stessi beninteso, a che punto può arrivare la codineria e la cupidigia di fare affari da una parte? Abbiamo confermato d'essere degni epigoni di quell'Enrico di Navarra disposto ad andare a messa pur di conquistare il trono di Francia. Si poteva "immortalare" in modo migliore, per il presente e il futuro, quello che sa e può essere un regime spietato e violento i cui affiliati sono animati da un fanatismo cretino e intollerante? Grazie, dunque, al rapporto di "Nessuno tocchi Caino" sullo stato dei diritti civili e umani in Iran; e a chi ha preso l'iniziativa del burqa di Stato per le statue capitoline. Merita a sua volta un monumento: scoperta, naturalmente, con il volto ben visibile e riconoscibile. Non Iran. Uno dei focolai di tensione mondiale (e tensione è termine blando), è il conflitto che oppone il regime di Teheran all'Arabia Saudita; per tanti motivi, non solo quelli sempre indicati (giova chiedersi: il secolare scontro tra sunniti e sciiti è fonte, causa, o piuttosto, pretesto, "giustificazione"?).
   L'Arabia Saudita "giustizia" una cinquantina di oppositori, tra cui lo sceicco sciita Nimr al-Nimr. L'Iran protesta: a Teheran viene assalita l'ambasciata saudita. L'Arabia Saudita rompe i rapporti diplomatici. L'Onu prende posizione: Usa, Russia, Cina, Francia, Inghilterra, Angola, Malesia, Nuova Zelanda, Spagna, Venezuela, Egitto, Giappone, Senegal, Ucraina, Uruguay, firmano una mozione di condanna: l'Iran non ha protetto l'ambasciata saudita.
   Silenzio sulle condanne a morte. Per queste ultime solo il blando intervento del segretario dell'Onu, Ban Ki-moon. Agli atti c'è solo l'assalto all'ambasciata saudita. Ancora: il comitato consultivo dell'Onu, è presieduto dal saudita Faisal bin Hassan Thad: lui sceglierà esperti e consulenti. Bel paradosso: l'Arabia Saudita è il paese delle decapitazioni, dei trentamila detenuti politici, dei bombardamenti sullo Yemen, del sostegno ai jihadisti in Siria, dei carri armati in Bahrein... Senza nulla concedere all'Iran (anche troppo si è concesso, invece), perché tanta severità con Teheran; e silenzio per quel che riguarda l'Arabia Saudita? Ci possono essere tante "ragioni" di real politik, le si può perfino accettare; si riconosca però che appartengono all'ipocrisia, alla più deteriore ragione di Stato.
   Il Military Balance dell'Istituto Strategico di Londra calcola che l'Arabia Saudita spende in armi il 12 per cento del suo Pil: circa 80 miliardi di dollari; Ryad è quarta nel mondo, dopo Washington, Pechino, Mosca. Le forniture più consistenti vengono dagli Stati Uniti: circa 90 miliardi di dollari negli ultimi quattro anni. In questo Obama non è molto diverso da Bush. Il ministro della Guerra saudita Mohammed bin Salman vola in missione a Mosca: per ammorbidire il sostegno di Putin al siriano Assad e al regime degli ayatollah iraniani, storici nemici dei sauditi, ha staccato un assegno di 10 miliardi di dollari sotto forma di investimenti in Russia. Mosca saprà come e quando ricambiare.
   L'Iran investe almeno 30 miliardi ogni anno in armi. Cifra in costante aumento dal 2012, da quando cioè interviene in Siria e Iraq. Sono i pasdaran a controllare le maggiori industrie belliche iraniane, e in generale gli interessi che ruotano su questa lucrosissima industria. Ecco: per cercare di capire quello che accade, sicuramente è utile sapere di wahabismo, di fanatismo sciita e sunnita. Aiuta anche una vecchia, buona regola: follow the money.

(L'Opinione, 30 gennaio 2016)


L'Iran acquisterà quaranta aerei dal gruppo Atr

L'Iran dovrebbe finalizzare entro pochi giorni un accordo per acquistare 40 aerei dal produttore europeo Atr, joint venture paritetica tra Airbus Group e Finmeccanica. Lo ha detto oggi il viceministro dei Trasporti iraniano, Asghar Fakhrieh Kashan. "Abbiamo discusso le offerte in Italia e in Francia. I funzionari Atr sono attesi a Teheran nei prossimi giorni per completare l'accordo", ha detto Kashan, secondo quanto si legge sul sito internet del quotidiano libanese "The Daily Star". "Ci saranno 20 aerei prefissati, con altri 20 ordini facoltativi", ha aggiunto il viceministro, senza specificare il valore dell'operazione, stimata da alcuni esperti intorno ai 10 miliardi di dollari. In settimana Finmeccanica ha smentito la firma del contratto con la società iraniana Meraj Group per la fornitura dei velivoli. Attraverso un comunicato, l'azienda italiana ha precisato che "in quanto entità legale autonoma, è Atr che firma i contratti con la clientela. Finmeccanica, non avendo pertanto alcun diretto rapporto con l'operatività del business condotto da Atr, non potrebbe in ogni caso essere oggetto di alcuna sanzione da parte del governo statunitense, come erroneamente prospettato in alcune ricostruzioni giornalistiche. Falsa quindi anche l'affermazione che il contratto sia firmato da Finmeccanica. Come la stessa Atr ha precisato, le trattative non sono mai state svolte con la società Meraj Group, come erroneamente riportato, ma con la società Iran Air".

(Agenzia Nova, 30 gennaio 2016)


Io, in fuga dall'Europa

Parla Ayaan Hirsi Ali, la prima rifugiata del Vecchio continente intollerante, oggi in America. Ottimista sulla riforma dell'islam, vede crescere i pericoli della sharia: "Imparate da Israele".

di Giulio Meotti

Ayaan Hirsi Ali
Quando Theo van Gogh venne assassinato da un islamista in una strada di Amsterdam, Ayaan Hirsi Ali non poté partecipare neppure al funerale: avrebbe messo a rischio la vita degli altri. Così i servizi segreti olandesi acconsentirono a portarla all'obitorio. Il giorno dopo, le guardie del corpo la accompagnarono a casa e le diedero tre ore per fare i bagagli. Da lì si recò alla base aerea di Valkenburg, vicino l'Aia, dove la aspettava un aereo da ricognizione. Gli oblò erano stati chiusi, le dissero di non avvicinarsi né a quelli, né alle porte. L'aereo era pieno di soldati. Hirsi Ali stava lasciando un paese in guerra. Atterrarono in una base militare nel Maine, negli Stati Uniti. Da lì andò in auto nel Massachusetts. Per alcune settimane si fermò in un motel. In quel posto anonimo nessuno avrebbe potuto riconoscerla.
Fu così che iniziò la storia d'amore fra l'America e la prima rifugiata dall'Europa occidentale dai tempi dell'Olocausto. Una storia che dura ancora oggi.
Ayaan Hirsi Ali è ancora un'ombra. Inafferrabile, costretta alla clandestinità e condannata a morte. Ma al telefono la sua voce è limpida, tenace, fresca. E' una giovane donna somala che ha subito la mutilazione genitale, che ha vissuto in Arabia Saudita, Etiopia, Kenya, prima di venire promessa in sposa a un cugino canadese mai visto prima. Allora, ventiduenne, Hirsi Ali fugge dalla Germania in Olanda. Lavora come interprete nei ghetti islamici olandesi, si laurea, diventa parlamentare liberale, aiuta Van Gogh a fare il film "Submission", e poi scompare. Adesso è a colloquio con il Foglio, gettando semi di ottimismo e pessimismo su quel che accade.
   Conservatrice in Olanda e liberal in America, Ayaan lavora oggi all'American Enterprise Institute, il pensatoio conservative dove si occupa di medio oriente, islam, diritti umani e terrorismo. In America ha ricevuto le lodi che le mancavano in Olanda: "Principessa della libertà", "Voltaire musulmana", "crociata dei diritti delle donne", "liberatrice islamica" e via dicendo. Anche Oriana Fallaci, alcuni mesi prima di morire, la accolse nella sua casa di New York. "Mi supplicò di fare figli, presto. Alla sua morte provai pietà e vergogna per il modo in cui l'Italia l'aveva fatta vivere e morire. Sola come un cane". Ayaan ha ricevuto la medaglia Martin Luther King per la lotta contro le disuguaglianze.
   E' appena uscito il suo terzo saggio sull'islam, "Eretica", pubblicato in Italia da Rizzoli. Un libro strano, per una donna il cui nome venne inciso nel petto di Van Gogh sotto forma di minaccia di morte. Perché è un libro ottimista sulla riforma dell'islam. "Il miliardo e seicento milioni di musulmani possono essere divisi fra una minoranza di estremisti, una maggioranza di musulmani osservanti ma pacifici, e pochi dissidenti che rischiano la loro vita", scrive nel libro. E' a quella maggioranza che Hirsi Ali si rivolge.
   Da dove nasce questo suo ottimismo per una riforma del mondo islamico? "E' una possibilità, non è una certezza", dice al Foglio. "Ma sono ottimista per due ragioni: la prima è la violenza commessa oggi in nome dell'islam, che sta creando così tanta tensione, e non è soltanto commessa da individui, ma da stati e organizzazioni.
   La gente ha sempre più paura dell'islam radicale. Sono quindi disposti a una riforma. Una seconda questione è Internet, ci sono molti musulmani scettici e razionali che vogliono apertura e usano soltanto la rete. In Egitto, in Tunisia, ovunque, ci sono grandi masse di giovani musulmani che si identificano come islamici, ma che non vogliono la sharia, la legge islamica. Così come molte donne non vogliono la sharia".
   Il 1o febbraio ci celebrerà il World Hijab Day, la giornata mondiale del velo islamico. Che ne pensa? "Una follia. E' il multiculturalismo, è l'ideologia che elimina i diritti degli individui a favore dei gruppi, delle comunità. Basta vedere come gli islamisti cercano di sopprimere i diritti delle donne nelle vostre comunità e i multiculturalisti restano in silenzio. E' un suicidio culturale in cui gli islamisti alla fine assumono il controllo. Ripetono su Colonia: 'Se le donne non avessero usato il profumo'. E noi accettiamo questo piano inclinato".
   Cosa dovrebbe accadere dunque nell'islam per dare il via a una riforma? "Ci sono cinque pilastri per la riforma dell'islam. Si deve prima rispondere a una domanda fondamentale: come si può essere musulmani
Come si può essere musulmani ed essere a favore della separazione di moschea e stato, della libertà di espressione, della libertà della donna? Deve cambiare l'attitudine verso il Corano e Maometto, perché gli islamisti usano il Corano e i testi alla lettera.
ed essere a favore della separazione di moschea e stato, della libertà di espressione, della libertà della donna? Deve cambiare l'attitudine verso il Corano e Maometto, perché gli islamisti usano il Corano e i testi alla lettera. Serve una rivolta dentro la casa dell'islam, contro la cultura della morte, rigettando la sharia, rigettando il jihad, l'uccisione dei non musulmani. Soltanto allora il mondo islamico si aprirà". Per questo Ayaan ha creato la Aha Foundation, chiamata così, con l'acronimo del suo nome e che è impegnata nella lotta contro i delitti d'onore, i matrimoni forzati e la mutilazione genitale femminile.
   Lei è stata la prima autentica dissidente del mondo islamico. Perché è così importante il dissenso? "I dissidenti dell'islam sono fondamentali, perché siamo noi che poniamo le domande critiche, che portiamo avanti il pensiero critico e incalziamo con la ricerca intellettuale. Porre le domande significa rischiare la vita. E' stato lo stesso imam Qaradawi a riconoscere il ruolo dei dissidenti quando ha detto che non si può accettare l'apostasia e che questa merita la morte".
   Il nome di Ayaan Hirsi Ali figura nella stessa lista di obiettivi da colpire del magazine qaidista Inspire, al fianco del defunto direttore di Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier, e di altri vignettisti. "Il mio nome era nella lista di Charlie, non sono sorpresa per quello che è successo un anno fa. Charbonnier e gli altri giornalisti erano degli eroi. Purtroppo, c'è oggi una combinazione di paura e multiculturalismo, il relativismo morale, il senso di colpa per la popolazione islamica, per il colonialismo. Quando iniziai ad andare all'università in Olanda, molti non volevano sentir parlare dell'Olocausto in aula, mi dicevano di non parlare degli ebrei, di Israele. Questo serviva a sopprimere il criticismo della dottrina islamica. Dobbiamo smettere di demonizzare Israele e imparare da esso. Sfortunatamente oggi paesi come l'Arabia Saudita fanno una grande opera di missionariato in Europa, cercano di sopprimere il dissenso. La libertà di espressione è quindi fondamentale per le aperture del mondo islamico alla ragione. A volte però penso che sia troppo tardi. Pensiamo all'Italia, alla Francia, alla Germania, all'Inghilterra, a tutta la grande tensione fra i musulmani e gli europei. In questo quadro sta diventando difficile, sempre più difficile, esercitare quel diritto alla libertà di parola. Sono felice in America, ma anche qui ci sono la Fratellanza musulmana e altre organizzazioni islamiste. C'è tanta attività missionaria. In dieci anni ho visto una radicalizzazione impressionate dei musulmani in America".
   Un milione di immigrati sono arrivati in Germania quest'anno e un altro milione è atteso per quello che viene. Hirsi Ali, che fu accolta dall'Europa come rifugiata dalla Somalia, oggi chiede a Bruxelles di fermare l'immigrazione. "Siamo in un punto critico oggi in Europa: l'immigrazione di milioni di persone deve essere fermata prima che sia cessato l'indottrinamento nelle moschee e da parte degli imam. Se non fermiamo il lavaggio del cervello, ci sarà un'altra generazione persa in Europa. I musulmani devono fermare la sharia ora. lo continuo a ripeterlo, ma chi mi sta ascoltando? Qualcuno è interessato davvero a riformare l'islam? l'Europa è davvero interessata? E' vero che la civiltà occidentale non è in guerra con l'islam, ma l'estremismo islamico usa la teologia islamica per dichiarare guerra a noi, sostenuta da paesi come Arabia Saudita e Qatar".
   Da quando è stato ucciso Van Gogh e lei è fuggita in America, nella sua Olanda nessuno parla più di islam. Giornalisti, vignettisti, intellettuali, hanno tutti chiuso la bocca: "Le persone in Olanda che scrivono e parlano di islam e di questi temi sono stanche. Nei Paesi Bassi, ma anche in Francia, molti ebrei se ne stanno andando. A Los Angeles sono amica di ebrei fuggiti dall'Olanda. C'è un terribile brain drain dall'Europa. Questa guerra non ha a che fare con quello che facciamo, con quello che diciamo. Sono tutti paralizzati in Italia, in Germania, in Francia, ma la leadership politica deve bandire la sharia dall'Europa, la sua propagazione non è accettabile. Perché la sharia è la violazione peggiore della dignità umana. La sharia è contro la civilizzazione e la cultura europea". Detto da una donna che porta nel suo corpo le conseguenze di questo fiore velenoso.

(Il Foglio, 30 gennaio 2016)


"Con il Foglio, con la kippah". Parlano gli ambasciatori di Israele

ROMA - L'appello lanciato dal Foglio in occasione della Giornata della memoria - "usiamo la testa per ricordare, indossiamo una kippah" - continua a raccogliere adesioni in Italia, in Europa e in Israele. Il tentativo è quello di dimostrare solidarietà a tutti gli ebrei minacciati dal nuovo antisemitismo che li costringe a non ostentare i propri simboli religiosi. Per l'occasione fino a sabato il Foglio esce nelle edicole con allegata una kippah, "simbolo di separazione, non di sottomissione", come ha sottolineato il filosofo francese Bernard-Henri Lévy,
 
Naor Gilon
   In molti - fra lettori, commentatori e stampa straniera - hanno raccolto l'appello, dimostrando il proprio sostegno a questa iniziativa unica in Europa. Fra questi c'è anche l'ambasciatore di Israele a Roma, Naor Gilon. "Vi ringrazio di cuore per la vostra iniziativa", dice il diplomatico israeliano al Foglio. "Mi sono unito al vostro appello e ieri, in occasione della Giornata della memoria, ho indossato la kippah durante tutte le manifestazioni ufficiali, anche quella al Quirinale". L'ambasciatore ha sottolineato in particolare il senso ancora più profondo che assume oggi il semplice gesto di indossare quel copricapo: "Settanta anni dopo l'Olocausto, gli ebrei hanno ancora e di nuovo paura di andare in strada. In molti paesi indossare la kippah è diventato pericolosissimo", ricorda il diplomatico. Per quella stessa paura Zvi Ammar, capo del concistoro israelitico di Marsiglia, a metà gennaio ha invitato gli ebrei a non indossare il copricapo sacro per strada. Troppi, a suo giudizio, i rischi di provocare una reazione violenta e di ripetere quanto già accaduto all'inizio dell'anno, quando un insegnante ebreo della città francese è stato accoltellato. "Il problema però non è chi ha paura", perché chi si sente minacciato "non può essere giudicato", continua Gilon. Piuttosto "deve essere la società a rassicurare chi ha paura". "Oggi viviamo in un mondo molto cambiato. lo faccio parte della nuova generazione di israeliani, sono figlio di un sopravvissuto alla Shoah e quelli come me vedono il mondo in modo diverso. Credo che in Europa debba essere la società ad agire e ad attivarsi".
   Anche l'ambasciatore di Israele in Colombia, Marco Sermoneta, di origini italiane, ha accolto l'iniziativa lanciata dal nostro quotidiano: "Ho contatti continui con la mia famiglia a Roma e sono informato di quanto succede in Europa", ci dice il diplomatico. "La difesa di Israele è legata a quella dell'Europa, in particolare nella Giornata della memoria e a pochi giorni dalla visita del presidente negazionista dell'Iran a Roma e a Parigi", ha aggiunto Sermoneta. "Quella contro l'antisemitismo è una guerra che non finisce mai" e la minaccia dell'antisionismo C'che equivale a quella antisemita", sottolinea il diplomatico) è "alle porte di ogni capitale europea": "I governi devono finalmente comprendere che dire 'mai più' non basta. Le autorità devono difendere la società, che vuole sentirsi protetta, e devono assicurare che quanto già avvenuto alle comunità ebraiche europee non si ripeta". L'auspicio è quindi che la difesa della libertà religiosa non resti un appello isolato. "Spero davvero che il gesto del Foglio venga riproposto anche da altri giornali nel resto d'Europa, in Gran Bretagna e in Francia". Una speranza condivisa da tutti coloro che alla censura della propria identità religiosa preferiscono non nascondersi e metterei la faccia.

(Il Foglio, 29 gennaio 2016)


L'antisemitismo cresce su Internet. «Duecento siti incitano all' odio»

Si creano più profili per poter comunicare anche in caso di blocco.

di Marianna Vazzana

MILANO - Frasi cariche d'odio. Vignette intrise di pregiudizi. Caricature che affondano le radici nel Medioevo. Messaggi antisemiti che corrono veloci da un social network all'altro. Facile lanciare la pietra dalla tastiera, nascondendosi dietro uno schermo e un nome di fantasia. È il lato oscuro del web, dove proliferano siti e pagine di matrice antisemita. Sembra impossibile? Eppure, mentre in occasione della giornata della Memoria si ricorda la Shoah, emerge una realtà parallela costellata di piattaforme virtuali contro gli ebrei: in Italia sono stati rilevati 200 siti, che diventano 30mila a livello globale. Il dato affiora dal rapporto nazionale sull'antisemitismo presentato ieri alla Casa della Cultura di via Borgogna 3 dal Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) in collaborazione con la Comunità ebraica di Milano. Fino allo scorso ottobre, l'Osservatorio antisemitismo ha esaminato 156 profili di social network, Facebook in testa, e raccolto grazie all' Antenna antisemitismo, via web e via telefono, circa 90 segnalazioni di episodi capitati on e off-line. Dai graffiti alle vignette alla violenza verbale faccia a faccia. Ma è soprattutto nel cyberspazio che il terreno - fertile - si coltiva quotidianamente e lontano dai riflettori.
  E se è vero che «parlare di numeri quando si discute di antisemitismo è riduttivo e può risultare fuorviante - spiega Betti Guetta, responsabile dell'Osservatorio Antisemitismo - perché molti episodi non vengono denunciati per paura o per vergogna», è altrettanto vero che i dati fanno riflettere. Stefano Gatti, responsabile dell'Antenna Antisemitismo, ha snocciolato i numeri: «Abbiamo esaminato 156 profili sui social network, 84 di singoli individui e 72 di comunità e gruppi. E sono 2.288 i post salvati, 1.340 da profili personali e 948 da comunità». I nomi sono sempre fasulli, E ci si crea un doppio o un triplo profilo, per continuare la "missione" in caso di blocco delle pagine. Visitando certi profili si scoperchia un vaso di Pandora: meme (tormentoni con immagini, frasi e foto, che si diffondono in maniera virale e dovrebbero far ridere, nelle intenzioni di chi li pubblica) mostrano foto di Anna Frank con la scritta «tipico prodotto da forno tedesco», oppure l'ingresso di Auschwitz affiancato dallo slogan «ci vai in pigiama, non ti offrono la colazione», stravolgendo la campagna di un fast food. E c'è anche chi pubblica delle personali «liste di proscrizione».
  Solo il 20 per cento dei messaggi segnalati è stato tolto dalla rete. Questo perché i gestori non ritengono la maggior parte di questi documenti un vero e proprio "incitamento all'odio". E i seguaci della propaganda antisemita sono tantissimi. «Facebook in un certo senso predice il futuro perché abbiamo la possibilità di sapere quello che pensa la gente», ha sottolineato Davide Romano, assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Milano. E il modo migliore per combattere la piaga è «non lasciare correre. Impedire che le cose vadano come in Francia», dove gli atti antisemiti si sono moltiplicati. La svolta potrebbe arrivare a livello legislativo, grazie a una norma che consenta di contrastare efficacemente l'antisemitismo on-line.

(Il Giorno, 29 gennaio 2016)


Israele ha la sua cybercapitale

Beersheba, un tempo agricola, diventerà un polo mondiale per la sicurezza informatica. Determinante la presenza delle forze armate di Gerusalemme.

di Simonetta Scarane.

Si chiama Beersheba e sarà la futura cybercapitale di Israele. Il complesso immobiliare, denominato CyberSpark è stato inaugurato due anni fa dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ma non è che una parte dello sviluppo complessivo della città che si estenderà su 13 mila chilometri quadrati. L'obiettivo è farne un centro nazionale di ciberdifesa, ma anche uno dei poli mondiali della sicurezza informatica, sviluppando anche la regione desertica del Negev. Un investimento pubblico da 7 miliardi di euro.
  L'operazione CyberSpark, che è soltanto una parte del progetto, contribuirà a sviluppare l'economia di quell'area così tanto che la città dove adesso gli ufficiali stentano a trasferirvisi diventerà, invece, molto attraente. Beersheba, 220 mila abitanti, con i suoi palazzi di vetro e acciaio, appare come un miraggio dalla sabbia, nel bel mezzo della strada dritta e monotona che attraversa il deserto. Qui, all'università di Ben Gourion del Negev è stato creato il primo programma israeliano di insegnamento dedicato alla cibersicurezza. Qui, un battaglione di giovani informatici arrivati dai quattro angoli del paese bracca i virus informatici, immagina «parafulmini» e si ingegna a anticipare le nuove ciberminacce. Un logo rosa segnala l'ingresso al centro di ricerca creato da Deutsche Telecom. Quelli di Lockheed Martin, Emc, Ibm occupano altri piani. In totale, sono 15 le multinazionali che si sono insediate in questi uffici insieme a qualcosa come 1.500 geni dell'informatica.
  Sarà anche un incubatore di start-up dove potranno trovare lavoro gli informatici reclutati dall'esercito una volta terminata la propria missione. Sì, perché, il progetto del governo israeliano prevede anche di insediare in questa aerea diverse basi militari. Una svolta epocale per il paese. La prestigiosa unità 8200, che recluta ogni anno i più brillanti informatici, si installerà in quest'area entro il 2019. A regime, 30 mila militari popoleranno il deserto e contribuiranno al risveglio economico di questa regione sinistrata. La sfida principale non è affrontare le forze ostili alle frontiere, ma conquistare alla scienza e allo spirito pionieristico di Israele l'area selvaggia del Negev. Una nuova ambizione che frutta: 250 imprese specializzate che l'anno scorso hanno fatturato 3,5-4 miliardi di dollari. Tel Aviv sta arrivando a saturazione e Beersheba viene sempre più percepita come un'interessante alternativa dal momento che concentra nello stesso luogo sia l'esercito che l'università e l'impresa privata.
  Uno studio dell'università americana Brandeis l'ha indicata a inizio 2015 come uno dei poli emergenti in materia di nuove tecnologie. Due mesi più tardi l'incubatore Jvp ha messo a segno un colpo da maestro vendendo al gigante dei pagamenti online PayPal la start-up CyActive. Questa impresa domiciliata a Beersheba è specializzata nella creazione di algoritmi a difesa delle imprese, prevedendo il tipo di ciberattacco che potrebbero subire. Il successo di questi imprenditori di appena 28 anni, che hanno venduto l'impresa per una decina di milioni di dollari, costituisce la migliore pubblicità per quello che si fa a Beersheba, la capitale del Negev, che si augura un futuro simile alla Silicon Valley.

(ItaliaOggi, 29 gennaio 2016)


Droni e caccia israeliani spiati da Washington e Londra

Nuove rivelazioni dai file diffusi da Snowden: monitorati anche possibili attacchi all'Iran

stati Uniti e Regno Unito hanno monitorato segretamente le sortite e le comunicazioni dell'aviazione di Israele dal 1998 in un'operazione di hackeraggio il cui nome in codice era «Anarchist», gestita da una base di Cipro e che prendeva di mira anche altri Paesi del Medioriente. È quanto rivelano il quotidiano israeliano «Yedioth Ahronoth», quello online «The Intercept» e il settimanale tedesco «Der Spiegel» in uscita domani, in base a documenti forniti dall'ex contractor della National security agency (Nsa) Edward Snowden.
A spiare le missioni dell'aviazione israeliana contro Gaza, Siria e Iran sarebbero stati precisamente la Nsa statunitense e l'intelligence britannica Gchq. «The Intercept», che ha fra i suoi collaboratori l'amico fidato di Snowden, Glenn Greenwald, pubblica quelle che sostiene siano immagini di droni israeliani armati. Israele non conferma né smentisce di avere droni armati, ma uno dei suoi alti funzionari dell'esercito aveva riconosciuto di averli in un cablo diplomatico Usa del 2010 pubblicato da Wikileaks.

(La Stampa, 29 gennaio 2016)


Palestinesi: Ignoranza e pregiudizi dei media occidentali

di Khaled Abu Toameh (*)

Di recente, due giornalisti occidentali hanno chiesto di essere accompagnati nella Striscia di Gaza per intervistare i coloni ebrei che vi abitano. No, questo non è l'inizio di una barzelletta. Questi giornalisti si trovavano in Israele alla fine del 2015 ed erano terribilmente seri. Immaginate il loro imbarazzo quando gli è stato fatto notare che Israele si era ritirato da Gaza dieci anni fa. Bisogna avere un po' di comprensione per loro. I colleghi stranieri erano dei novellini che volevano far colpo recandosi in luoghi "pericolosi" come la Striscia di Gaza per informare sui "coloni" che abitano lì. La loro richiesta, però, non ha colto nessuno di sorpresa, nemmeno i miei colleghi del posto.
   Questi "giornalisti paracadutati", come vengono a volte chiamati, sono catapultati nella regione senza essere informati sui fatti essenziali del conflitto israelo-palestinese. Purtroppo, i corrispondenti come questi sono, più che l'eccezione, la norma. Questo mi ricorda un giornalista britannico particolarmente incompetente. Quando Israele uccise nel 2004 lo sceicco Ahmed Yassin, fondatore e leader spirituale di Hamas, un quotidiano inglese inviò a Gerusalemme un cronista di nera per coprire l'evento. Per lui, la regione e anche Hamas erano territori inesplorati. I suoi superiori lo avevano mandato in Medio Oriente, egli disse, perché nessun altro era disposto ad andarvi. Ebbene, il nostro eroe riferì dell'assassinio di Ahmed Yassin comodamente seduto al bar dell'American Colony Hotel, scrivendo nel pezzo di trovarsi nella Striscia di Gaza e di aver intervistato i parenti del leader di Hamas ucciso.
   A volte, mi sento come una specie di parafulmine per queste storie. Un collega di Ramallah mi ha raccontato che qualche anno fa un corrispondente alle prime armi gli aveva chiesto di aiutarlo a preparare un'intervista a Yasser Arafat. Solo che Arafat era morto da molti anni. Fresco di scuola di giornalismo e ignorante in fatto di Medio Oriente, il novello giornalista era considerato dai suoi superiori un ottimo candidato per occuparsi del conflitto israelo-palestinese. Dopo trent'anni che svolgo questa professione, conosco bene i giornalisti di questo tipo. Essi salgono su un aereo, leggono un articolo o due sul Times e si sentono pronti a fare gli esperti del conflitto israelo-palestinese. Alcuni di loro mi hanno perfino assicurato che prima del 1948 esisteva uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come sua capitale. Come i giovani colleghi male informati che nel 2015 volevano intervistare gli inesistenti coloni ebrei nella Striscia di Gaza, questi giornalisti furono alquanto sconcertati nell'apprendere che prima del 1967 la Cisgiordania era sotto il controllo della Giordania, mentre la Striscia di Gaza era governata dall'Egitto.
   C'è qualche differenza tra un cittadino arabo di Israele e palestinese della Cisgiordania o della Striscia di Gaza? I miei colleghi stranieri potrebbero non essere in grado di dirlo. Lo Statuto di Hamas afferma davvero che il movimento islamista cerca di rimpiazzare Israele con un impero islamico? Se così fosse, i miei colleghi internazionali forse non saprebbero rispondere. Un'illustre giornalista, diversi anni fa, chiese di visitare la città "distrutta" di Jenin, dove "migliaia di palestinesi furono massacrati da Israele nel 2002". La collega si riferiva all'operazione delle IDF nel campo profughi di Jenin, dove 60 palestinesi, molti dei quali armati, e 23 soldati delle Forze di difesa israeliane furono uccisi in una furiosa battaglia. Indulgenza a parte, questo livello di ignoranza - e di pigrizia professionale - è difficile da immaginare nell'era di Internet. Ma quando si tratta di coprire il conflitto israelo-palestinese, l'ignoranza sembra essere una benedizione. I pregiudizi o le idee sbagliate su ciò che accade qui affliggono i media internazionali. In cima alla lista, la dicotomia "bravo/cattivo" ragazzo. Qualcuno deve essere considerato il "bravo" ragazzo (questo compito viene assegnato ai palestinesi) e qualcun altro il "cattivo" (gli israeliani). E tutto va visto in questa ottica.
   Eppure il problema è ancora più profondo. Molti giornalisti occidentali che coprono il Medio Oriente non sentono il bisogno di celare il loro odio per Israele e gli ebrei. Ma quando si tratta dei palestinesi, questi giornalisti non vedono il male. I giornalisti stranieri che lavorano come corrispondenti da Gerusalemme e Tel Aviv si rifiutano da anni di denunciare la corruzione finanziaria e le violazioni dei diritti umani che sono all'ordine del giorno sotto i regimi di Hamas e dell'Autorità palestinese (Ap). Forse hanno paura di essere considerati "agenti sionisti" o "propagandisti" per Israele. Infine, ci sono i giornalisti locali ingaggiati dai reporter e dai media occidentali per aiutarli a coprire il conflitto. Questi giornalisti potrebbero rifiutarsi di collaborare se le notizie vengono riportate in chiave "antipalestinese". La "sofferenza" palestinese e la "cattiveria" dell'occupazione israeliana sono gli unici argomenti ammissibili. I giornalisti occidentali, dal canto loro, sono disposti a non irritare i loro colleghi palestinesi: non vogliono che gli venga negato l'accesso alle fonti palestinesi.
   Pertanto, l'indifferenza dei media internazionali di fronte all'attuale ondata di accoltellamenti e attacchi con autovetture contro gli israeliani non sorprende affatto. Sarebbe difficile trovare un giornalista o un media occidentale che chiami gli aggressori palestinesi "terroristi". In effetti, i titoli internazionali spesso si dimostrano più solidali con gli aggressori palestinesi che rimangono uccisi nei loro stessi attacchi piuttosto che con le vittime israeliane. Ovviamente, non si può fare di tutta l'erba un fascio. Alcuni giornalisti americani, canadesi, australiani e europei sono molto competenti e imparziali. Purtroppo, però, essi sono una sparuta minoranza in mezzo ai media mainstream occidentali.
   I reporter occidentali, soprattutto quelli che vengono "paracadutati" in Medio Oriente, farebbero bene a ricordare che il giornalismo in questa regione non è essere pro-Israele o filo-palestinesi. Piuttosto, significa essere "a favore" della verità, anche quando la verità si scontra con ciò che si preferirebbe credere.


(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 29 gennaio 2016 - trad. Angelita La Spada)


Visita in Francia di Rohani, Israele: "È una cosa molto negativa"

Non si fa attendere la reazione negativa di Israele alla visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Francia. Non crede alla buona fede dell'Iran Aliza Bin Noun, ambasciatrice israeliana in Francia dall'agosto del 2015. Intervistata da euronews lancia una serie di accuse a Teheran.
"Il presidente iraniano è appena stato ricevuto in Francia per la giornata internazionale in ricordo delle vittime della Shoah. È una cosa molto negativa perché, ancora una volta, l'Iran è coinvolta nel sostenere il terrorismo in Medio Oriente, attraverso Hezbollah o Hamas. La retorica iraniana è molto anti-Israele. Questo è l'unico paese che ne minaccia un altro nel mondo. L'Iran è ancora coinvolto nello sviluppo di missili balistici perché questa questione non è stata inserita nell'accordo sul nucleare di luglio. L'Iran deve ancora dimostrare di rispettare veramente gli accordi che ha firmato, al momento non è così".

(euronews, 29 gennaio 2016)


Antisemitismo, cresce l'intolleranza: "In Rete tornano le caricature della Germania nazista"

Il Rapporto del Centro di documentazione ebraica sui 90 episodi tra aggressioni, scritte e atti vandalici avvenuti nei primi 10 mesi dell'anno, raddoppiati in due anni. Ma a preoccupare è il web: "Solo nel 20 per cento dei casi con la segnalazione si riesce a far oscurare i messaggi razzisti o negazionisti".

di Zita Dazzi

Novanta aggressioni ed episodi di antisemitismo in Italia nei primi dieci mesi dell'anno. Duecento siti con contenuti anti ebraici, 156 profili Facebook di puro stampo antisionista, razzista, revisionista, negazionista che in un solo mese hanno pubblicato oltre 2288 post contro gli ebrei e contro Israele. È la prima anticipazione del primo rapporto nazionale sull'antisemitismo presentato a Milano dagli analisti del Centro di documentazione ebraica contemporanea che da anni studiano la storia dell'ebraismo italiano e la situazione della comunità oggi.
   "A Milano ci sono segnali di un rinnovato antisemitismo - ha spiegato Davide Romano, assessore alla Cultura della comunità ebraica cittadina - Anche prima dell'accoltellamento avvenuta a novembre all'esponente della comunità vicino alla scuola ebraica in zona Lorenteggio, assistiamo sempre più spesso a contestazioni anche nelle scuole dove portiamo ex deportati e sopravvissuti alla Shoah. Ci sono studenti magari di origine magrebina che si alzano durante le conferenze e contestano il racconto dei testimoni. Sono segnali che dicono come anche in Italia si stia andando verso una situazione di alta intolleranza e di vero e proprio antisemitismo, come già da anni avviene in Francia".
   Nel rapporto - che fra due mesi sarà completo - si legge che gli episodi di violenza, le scritte antisemite e gli altri atti vandalici sono raddoppiati nel 2015 rispetto al 2013. "Ma quel che ci preoccupa di più è quel che si vede in Rete, dove è più facile origliare quel che si muove nella pancia del Paese, dove sempre più evidenti sono i rigurgiti antisemiti e antisionisti, con il ritorno di pregiudizi e stereotipi pesanti, caricature di profili ebraici simili a quelli che circolavano nella Germania nazista. E anche quando si denunciano i contenuti pericolosi ai gestori dei social network o dei siti Internet solo nel 20 per cento dei casi si riesce ad ottenerne l'oscuramento o la rimozione", spiegano Betty Guetta e sTefano Gatti, i due ricercatori che hanno lavorato al rapporto.
   Nelle pagine del rapporto ci sono centinaia di esempi di materiale pubblicato on line, disponibile senza alcun filtro e difficoltà. I profili sono anonimi e in rete finiscono vignette, foto ritoccate, messaggi razzisti o negazionisti, documenti falsi o che incitano all'odio, sfruttando la peggiore iconografia carica di odio e di violenza contro la religione ebraica e la memoria della Shoah. Dei 156 profili Facebook italiani monitorati sono ben 72 quelli riferiti a gruppi di persone. Di questi, 100 di questi sono gruppi neonazisti, 49 di propaganda anti israeliana, 20 negazionisti, 50 ispirati a teorie negazioniste o sul presunto complotto giudaico.

(la Repubblica, 28 gennaio 2016)


Le scuole ebraiche di Torino: chi integra chi?

Le scuole ebraiche di Torino sono istituzioni scolastiche nate successivamente alla promulgazione delle Leggi sulla razza del 1938, che portarono all'espulsione degli alunni e dei professori ebrei dalle scuole dell'Italia fascista. Sono quindi la risposta della Comunità ebraica torinese, similmente alle maggiori Comunità ebraiche italiane, all'assenza di democrazia e alla negazione dei diritti fondamentali.
A garanzia e continuità dei caratteri fondativi della scuola, i principi e gli obiettivi di una formazione democratica verranno mantenuti e fortemente valorizzati anche alla riapertura nel dopoguerra e, proprio per tale ragione, porteranno progressivamente all'apertura ai non ebrei. Inizialmente a valdesi o laici e successivamente a chiunque fosse interessato al progetto educativo proposto...

(moked, 29 gennaio 2016)


La fuga dei nazisti e la complicità della Chiesa. Il nuovo libro di Caldiron

di Simona Maggiorelli

Il responsabile dei più atroci esperimenti nazisti, Menghele, fu protetto da una rete di rapporti internazionali, in Argentina e Paraguay. Ma si calcola anche che attraverso la ratline «la più grande via di contrabbando per i criminali di guerra nazisti» siano arrivati in Argentina circa 60mila colpevoli di crimini nazisti. Intanto Priebke ha vissuto fino alla morte in Italia fiero del proprio nazismo. Capò e «nazisti della porta accanto», ovvero gregari e complici della Shoah, dopo la fine della guerra, hanno fatto carriera negli Usa e in altri Paesi. Gerarchi ed ex ufficiali delle SS, colpevoli di atroci crimini contro l'umanità, celati sotto nuove identità, hanno giocato un ruolo di primo piano nella rete internazionale dello spionaggio e dell'estremismo nero nell'ultimo mezzo secolo. Complice la Chiesa. Perché «molti esponenti della gerarchia cattolica, quando non il Vaticano stesso - scrive Guido Caldiron ne I segreti del Quarto Reich - avevano sostenuto più o meno apertamente durante il conflitto regimi e movimenti fascisti, che facevano riferimento al cattolicesimo una delle proprie principali armi propagandistiche, in particolare nei Paesi dell'Europa dell'Est alleati con Hitler e Mussolini».
Ricostruisce tutte queste trame, denunciando le responsabilità anche di alleati e del Vaticano, il giornalista Caldiron in questo nuovo libro appena uscito - come il suo precedente che indagava le destre estreme - per l'editore Newton Compton. Da queste cinquecento pagine di ricostruzioni minuziose e documentate sulla fuga dei criminali nazisti e la rete che li ha protetti emergono vicende che mettono alla sbarra non solo Pio XII, di cui si conoscevano le pesantissime responsabilità, ma anche una diffusa rete di prelati collaborazionisti.
   Nel libro Caldiron riporta, fra molti documenti e testimonianze, anche quella di Simon Wiesenthal: «In molti casi la Chiesa si spinse ben oltre il tollerare la costruzione di comitati di aiuto e prese l'aspetto di un autentico favoreggiamento dei criminali» scrisse il noto cacciatore di nazisti. Sottolineando che «principale via di fuga per i nazisti si rivelò essere il cosiddetto itinerario dei conventi, tra l'Austria e l'Italia. Sacerdoti della Chiesa cattolica romana, soprattutto frati francescani dettero il loro aiuto all'Odessa nello spostare clandestinamente i fuggiaschi da un convento all'altro, sinché essi non venivano accolti a Roma, in luoghi come il convento di via Sicilia che apparteneva all'ordine francescano e che divenne un regolare centro di transito di criminali nazisti». Il fenomeno, riporta Caldiron, «si sviluppò progressivamente a partire dal 1946 e raggiunse l'apice tra il '48 e il '49, per assottigliarsi a partire dal 1951». Ma interessante - fra molto altro perché questo libro è zeppo di notizie cadute in un comodo oblio per molti - sono anche i capitoli dedicati all'amnesia italiana rispetto al passato fascista, complici le mancate epurazioni in seguito all'amnistia togliattiana.
   «L'assenza di una Norimberga italiana, la rapida archiviazione del capitolo dell'epurazione degli ex fascisti e le ripetute amnistie non avrebbero inciso solo , sul lungo periodo, nel formarsi di una memoria storica parziale e con ampie zone d'ombra nel nostro Paese e nel breve termine sulle sorti personali dei personaggi coinvolti ma - sottolinea Caldiron - avrebbero anche reso possibile il rapido rinserrarsi delle fila di coloro che dall'immediato dopoguerra sarebbero stati ribattezzati come neofascisti».

 Dall'introduzione di Guido Caldiron
  «Dopo il 1945 migliaia, forse addirittura decine di migliaia, di criminali di guerra nazisti e fascisti (tedeschi, austriaci, croati, ungheresi, belgi, francesi, ucraini e di molte altre nazionalità, compresi moltissimi italiani) trovarono rifugio e si rifecero una vita in America latina, in Medio Oriente o nella Spagna del dittatore Francisco Franco; e questo senza che nessuna indagine li riguardasse, protetti da una fitta rete di complicità, poi progressivamente rivelatasi e resa pubblica negli ultimi decenni anche grazie all'apertura degli archivi di molti Paesi e di alcune organizzazioni internazionali. Complicità e coperture che coinvolgevano settori della Chiesa cattolica e dello stesso Vaticano, dell'intelligence occidentale, a cominciare da quella statunitense, e di diversi governi sia tra le democrazie dell'Occidente sia tra i regimi autoritari di America latina e mondo arabo, con effetti più estesi e sistematici nel clima della Guerra fredda. Una fitta trama di segreti, di appoggi e di omissioni che, proprio a partire dalle ricerche condotte da Simon Wiesenthal e da quanti ne hanno proseguito l'opera fino ai giorni nostri - e dopo un'ampia consultazione delle fonti storiche e delle inchieste giornalistiche che in settant'anni sono state dedicate a questo tema -, il presente libro intende ricostruire, per illustrare le condizioni storiche e le scelte della politica che resero possibile la fuga di così tanti nazisti e collaborazionisti, nonché la lunga, se non totale, impunità di cui costoro hanno potuto godere, talvolta fino a oggi. […]
   A una perlomeno sospetta inazione avrebbe fatto seguito il tentativo di proteggere in molti casi i carnefici anziché le vittime della seconda guerra mondiale. Per esempio, la pensava così Gitta Sereny, giornalista austriaca, ma londinese d'adozione, autrice già negli anni Settanta di uno dei testi più noti e scioccanti sul nazismo e sulle protezioni di cui godettero molti suoi esponenti nel dopoguerra: In quelle tenebre. Il testo era frutto dei lunghi colloqui avuti con Franz Stangl, un ufficiale delle SS, austriaco e cattolico, che aveva dapprima partecipato al programma di eutanasia dei disabili promosso dal Terzo Reich, quindi diretto i campi di sterminio di Sobibór e di Treblinka e che, dopo il 1945, sarebbe riuscito a trovare rifugio in Brasile grazie all'aiuto di una rete di sacerdoti apertamente filofascisti. Nelle conclusioni della sua celebre inchiesta, tradotta in tutto il mondo, Sereny si poneva un interrogativo esplicito sull'atteggiamento mostrato dal Vaticano e dai suoi vertici fin da quando il piano criminale dei nazisti, già prima dello scoppio della guerra, aveva cominciato a prendere forma. Se papa Pio XII, si chiedeva infatti la giornalista, fin dall'inizio avesse preso una decisa posizione contro l'eutanasia, contro il sistematico indebolimento per mezzo del lavoro forzato, la fame, la sterilizzazione e lo sterminio, delle popolazioni dell'Europa orientale, e infine contro lo sterminio degli ebrei, ciò non avrebbe potuto influire sulla coscienza dei singoli cattolici direttamente o indirettamente coinvolti in queste azioni al punto da indurre i nazisti a cambiare la loro politica? Altrettanto netta la risposta indicata da Sereny: Una presa di posizione inequivoca, e ampiamente pubblicizzata, assunta alle prime voci di eutanasia, e accompagnata da una minaccia di scomunica per chiunque partecipasse a qualunque volontaria azione di assassinio, avrebbe fatto del Vaticano un fattore formidabile col quale fare i conti, e avrebbe almeno in certa misura - e forse profondamente - influenzato gli eventi successivi.

(Left, 27 gennaio 2016)


Un toscano a Roma fa infuriare Rouhani

La domanda scomoda di un giornalista fiorentino sui diritti negati in Iran. «Non se l'aspettava, prima di andare via mi ha fulminato con lo sguardo».

di Edoardo Semmola

Adam Smulevich
Hassan Rouhani forse tutto si aspettava fuorché di essere «sfidato», sia pur solo verbalmente, da un giornalista di Pagine Ebraiche. E invece il fiorentino Adam Smulevich ieri a Roma, in una sala blindatissima del Grand Hotel Parco dei Principi, sul finale della conferenza stampa del presidente iraniano a conclusione del business forum Roma- Teheran ha rotto il silenzio e ha portato all'attenzione del leader iraniano gli unici argomenti di cui non voleva parlare: i diritti delle minoranze nella Persia.
   «Ero seduto in seconda fila, molto vicino al palco - racconta Smulevich - Sapevo che quegli argomenti non si potevano discutere, ma ci ho provato lo stesso». Si è alzato e gli ha detto, in inglese: «Presidente come pensa che possiamo avere fiducia nei suoi annunci propagandistici, nel fatto che oggi 'a Roma splende il sole', come ha detto poco fa, se il Paese sotto la sua presidenza continua a essere nelle prime posizioni delle classifiche mondiali della negazione dei diritti?». il gelo è calato in albergo. «Non se l'aspettava - commenta il cronista fiorentino - Forse dalle sue parti non usa rivolgere domande che non siano prima passate al vaglio dell'ufficio stampa. Mi ha fissato per diversi secondi, con sguardo, diciamo, di forte antipatia. Era una maschera, immobile, silenzioso. Qualche istante di stupore generale, anche tra i colleghi e i funzionari. Rouhani non mi levava gli occhi di dosso. Poi se n'è andato senza proferire una sillaba circondato dalle sue guardie e dai funzionari dell'ambasciata» .
   Smulevich sapeva che le domande sarebbero state vagliate. «C'erano molti paletti, molti limiti. Tanto che alla fine gli sono state rivolte solo domande all'acqua di rose». Si era iscritto a parlare anche lui e «l'addetto stampa dell'ambasciata si è detto possibilista». Solo che «non è mai arrivato il mio turno».
Si è presentato come «redattore di Pagine Ebraiche» ile quindi «tutti sapevano chi fossi e quale fosse !'impostazione della mia testata». Ha tentato, spinto dal fatto che «fino a quel momento Rouhani aveva tenuto un monologo sul nuovo inizio che stava nascendo a Roma, sul fatto che in Iran lavorano per aumentare diritti e libertà, che combattono il terrorismo. Insomma, parlavano di cose molto lontane dalla realtà che Amnesty International e altre agenzie ci raccontano ogni giorno». Alla fine però «quello che mi ha stupito di più è che nessuno mi abbia brontolato. Nessuna reazione da parte degli iraniani. Mi hanno solo detto che ero uscito fuori dal protocollo».

(Corriere Fiorentino, 28 gennaio 2016)


Il giornale avrebbe fatto meglio a titolare “Un ebreo a Roma fa infuriare Rouhani”. La toscanità del giornalista che ha irritato il Presidente iraniano è molto meno importante della sua ebraicità. E’ significativo, e fa onore a tutta la comunità ebraica italiana, che soltanto un ebreo in quell'occasione abbia osato accennare a qualcosa che tutti sanno, ma su cui hanno deciso di stendere un velo, proprio come sui nudi in Campidoglio. Quanto alla mancata reazione degli iraniani, è la cosa più intelligente che potevano fare. Se Rouhani avesse reagito pubblicamente, tutto il mondo ne avrebbe parlato, così invece... Quanti dei giornalisti presenti hanno riportato nei loro articoli l’intervento di questo loro collega? Eppure la cosa era giornalisticamente stuzzicante. Il velo posto sui nudi capitolini si è allargato. Non solo per sensibilità verso Rouhani, ma anche verso quelli che guardano le cose con gli stessi occhi di Rouhani. M.C.


Il presidente della comunità ebraica di Parma: «L'islam radicale è il moderno nazismo»

 
Giorgio Yehuda Giavarini, Presidente della Comunità Ebraica di Parma
Il presidente della comunità ebraica di Parma, Giorgio Yehuda Giavarini, lo premette subito, non appena prende la parola durante la riunione congiunta dei consigli comunale e provinciale, in occasione della Giornata della Memoria. «il mio non sarà un discorso politically correct», dichiara rivolgendosi alle autorità presenti nell'aula d'Assise del tribunale, puntando dritto sui problemi degli ebrei viventi, più che sulle sofferenze patite da quelli sterminati nei lager.
   «Tutta l'attenzione sugli ebrei morti espone quelli vivi ad una violenza genocida. Nella Giornata della Memoria c'è spazio per un tempo sospeso che guarda solo indietro», sostiene, mettendo in guardia dal perpetrare «la celebrazione di una memoria vuota non contaminata da ciò che nella realtà può portare ad una recrudescenza dell'odio antico verso l'ebreo».
   Se negli anni '30 e '40 del Novecento gli ebrei erano messi a rischio sopravvivenza dal nazifascismo, oggi lo sarebbero a causa del fanatismo religioso di matrice islamica.
   «L'islam radicale, alla pari del nazismo, mira alla ridefinizione dell'ordine mondiale», dice, arrivando poi a paragonare il radicalismo «al fascismo puro, perché caratterizzato da un odio viscerale verso gli ebrei».
«L'islam radicale ha raccolto il testamento politico del nazismo», aggiunge, parlando dei «nazisti che si rifugiarono nell'Egitto di Nasser», delle relazioni fra jihad e ideologia nazista e ricordando che «nel '45 oltre un milione di ebrei viveva negli stati arabi, mentre oggi sono solo poche centinaia, anche se il pacifismo a senso unico preferisce ignorare questi fatti e questi numeri».
   Tornando con la mente al presente, Giavarini sottolinea: «I nostri luoghi di culto, le nostre scuole, i nostri negozi e i nostri ristoranti necessitano di protezione continua da parte delle forze dell'ordine, e chi espone segni di appartenenza al credo ebraico rischia violente aggressioni».
Marco Minardi, direttore dell'Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea, dopo aver ricordato Arnaldo Canali e Augusto Olivieri, due avvocati morti nei campi nazisti, afferma: «L'internamento ha rappresentato un passaggio cruciale per rigenerare la modalità di intendere la giustizia». Quella giustizia alla base del nostro sistema democratico.
   «Dimenticare è condannare l'uomo a rischiare di subire nuovamente le tragedie che lo hanno colpito in passato» ha dichiarato il sindaco Federico Pizzarotti, - affiancato dal presidente della Provincia, Filippo Fritelli, dal presidente del consiglio comunale, Marco Vagnozzi, e dal giudice Pietro Rogato - prima di ricordare l'antifascista Eugenio Banzola, «un uomo che non ha scelto come morire, ma sicuramente ha deciso come vivere».

(Gazzetta di Parma, 28 gennaio 2016)


Abbattere i confini dell'energia. Megaprogetto per unire Grecia, Cipro e Israele

di Alberto De Filippis

Summit di grande importanza regionale nella capitale cipriota Nicosia dove si sono incontrati il presidente Anastasiades e i premier greci Tsipras e il suo omologo israeliano Netanyahu.
Sul tappeto ci sono molti accordi bilaterali in ambito energetico e commerciale. Uno dei progetti più importanti è quello di unire i tre paesi attraverso un condotto elettrico e permettere a Israele di diversificare il suo fabbisogno energetico, ma anche di vendere ad altri il suo gas.
L'idea è quella di unire, attraverso un cavo sottomarino, Cipro e Israele al territorio ellenico. Un progetto gigantesco il cui primo passo sarà la connessione fra l'isola di Creta e la terraferma.
I lavori cominceranno nel 2017. I rappresentanti politici dei tre paesi hanno ripetuto come questo avvicinamento non deve comunque essere letto in funzione anti-turca.

(euronews, 28 gennaio 2016)


Giorno della memoria: Israele indignata per la visita di Rouhani oggi in Francia

di Sofia Peppi

La scelta di Francois Hollande di ricevere il Presidente iraniano Rouhani nella Giornata internazionale della Memoria delle vittime dell'Olocausto non è andata proprio giù al Presidente del Parlamento Israeliano che ha definito Hollande un ipocrita.
"Non riesco a trovare le parole per descrivere l'ipocrisia del Presidente francese che accoglie il Presidente iraniano in occasione della Giornata Internazionale della Memoria delle vittime dell'Olocausto" queste le parole con cui Yuli Edelstein, in occasione di un discorso al Parlamento, ha voluto commentare l'incontro tra i due Presidenti.
L'incontro tra i due è previsto per oggi pomeriggio ed è la seconda tappa di un viaggio iniziato lunedì a Roma che ha segnato il via al riavvicinamento tra l'Iran e l'Europa a seguito della revoca delle sanzioni legate al nucleare.
Yuli Edelstein non ha risparmiato critiche ironiche anche all'Italia ricordando il trattamento riservato al Presidente iraniano nella Capitale: "Abbiamo avuto modo di imparare martedì quanto il presidente iraniano, da noi ritenuto crudele e insensibile, in realtà sia una persona molto sensibile. Talmente sensibile al punto che le statue dei nudi sono state coperte in suo onore e per non offendere la sua sensibilità".
Il Presidente del Parlamento Israeliano ha fatto preciso riferimento alla visita di Rouhani al Museo Capitolino, dove i nudi sono stati nascosti con dei paraventi, una decisione che ha causato non poche polemiche
Critiche giungono dal Knesset anche per l'invito rivolto a Rouhani, "uomo che non rispetta né scienza né cultura" alla sede dell'UNESCO a Parigi.

(Think News, 27 gennaio 2016)


"La resa italiana a Rohani? L'unico precedente con Hitler"

Un articolo durissimo sulla stampa israeliana rimprovera a Roma la scelta di coprire i nudi per il presidente iraniano.

di Lucio Di Marzo

Che ci fossero pochi precedenti a quanto è successo al Museo capitolino di Roma, con i nudi coperti per l'arrivo in visita ufficiale del presidente iraniano Hassan Rohani, lo avevano chiarito abbondantemente le reazioni in Italia e sulla stampa estera, che criticavano una resa del cerimoniale forse neppure richiesta dall'ospite illustre.
A calcare la mano sulla gravità dell'episodio, ripreso da una pletora di testate, dal Guardian a Foreign Policy, ci ha pensato anche il quotidiano israeliano Haaretz, in un pezzo di opinione in cui traccia un parallelismo - volutamente eccesivo ma comunque pesantissimo - con l'unica occasione storica in cui accadde qualcosa del genere.
Secondo Ariel David, corrispondente estero che ha seguito a lungo le vicende italiane, la decisione presa a Roma - chiunque l'abbia concepita - di coprire le statue con i pannelli bianchi, per evitare che il presidente iraniano se la prendesse, rappresenta praticamente un unicum, anticipato soltanto da quanto accadde quando in visita nella Capitale c'era Adolf Hitler.
Era il 1938 quando il Fuhrer arrivò a Roma. E in quell'occasione Benito Mussolini si prodigò per coprire alcune delle antiche rovine della città, non sufficientemente belle per l'idea che dell'Italia si voleva dare all'epoca. E in quel caso, e ieri, scrive Haaretz, si è assistito a "forma di capitolazione che non coinvolge solo l'Italia, ma tutte le democrazie d'Europa".

(il Giornale, 27 gennaio 2016)


Bologna, inaugurato il Memoriale della Shoah

Anche Bologna ha un memoriale della Shoah. È stato infatti inaugurato, vicino all'ingresso della stazione Alta Velocità di via Carracci, il nuovo monumento, realizzato da un gruppo di architetti romani che hanno vinto il concorso internazionale bandito dal Comune, composto da due blocchi alti 10 metri in acciaio, con all'interno dei parallelepipedi. I blocchi sono disposti uno di fronte all'altro a formare un'angusta strettoia, tante celle uguali danno vita a una geometria ossessiva che richiama i dormitori dei lager nazisti. All'inaugurazione c'erano i rappresentanti della comunità ebraica bolognese, il vice presidente della comunità italiana Giulio Disegni ed il viceministro all'economia Luigi Casero. "Bologna - ha detto il sindaco Virginio Merola - è una città d'incontro e di dialogo, di relazioni con il mondo. La memoria è un impegno che vogliamo portare avanti". Il memoriale è sviluppato come una piazza, per essere anche un luogo d'incontro.

(la Repubblica - Bologna, 27 gennaio 2016)


Il tappeto rosso steso all'Iran e le dieci emergenze ignorate

La visita del leader della Repubblica islamica si conclude senza un accenno del nostro premier alle esecuzioni di massa, all'antisemitismo e ai diritti delle donne.

di Gaia Cesare

Gaia CesareNiente vino servito in tavola al Quirinale. E d'altra parte il ministero della Cultura e della Guida islamica di Teheran ha imposto qualche giorno fa che vengano censurati i libri in cui figura anche solo la parola «vino», espressione dell' «offensiva culturale occidentale» e il cui consumo è punito in Iran con almeno 80 frustate e con la pena di morte in caso di recidiva. Coperti pure i nudi dei Musei Capitolini durante la visita con il premier Matteo Renzi. Per non urtare la sensibilità dell'ospite, ça va sans dire. L'Italia stende il tappeto rosso al presidente della Repubblica islamica dell'Iran Hassan Rohani in nome del disgelo sulla questione nucleare e con l'obiettivo di un giro d'affari che regalerà alle aziende del nostro Paese contratti per 17 miliardi di euro. Ma la fine dell'isolamento internazionale di una delle più rigide e spietate teocrazie islamiche passa per il nostro Paese come un treno ad alta velocità su gran parte dei capisaldi delle moderne democrazie liberali. La costante violazione dei diritti umani, l'antisemitismo dilagante, le persecuzioni contro omosessuali e oppositori politici sono alcune delle emergenze sorvolate nei colloqui di questi giorni. Ecco le questioni che fanno del nuovo «interlocutore riformista» il leader di uno dei più duri regimi del pianeta.
  1. PENA DI MORTE
    L'Iran è il secondo Paese al mondo per numero di esecuzioni dopo la Cina
    Il 2016 è cominciato con una media di tre esecuzioni al giorno. L'anno scorso sono finiti sul patibolo quasi 1000 iraniani (dati forniti da Iran Human Rights Italia). Durante la presidenza Rohani, cioè dal 2013, si è registrato il più alto numero di esecuzioni in 25 anni: 2277 impiccati (Nessuno Tocchi Caino).
  2. BRUTALITÀ
    L'impiccagione è il metodo preferito con cui viene applicata la sharia, la legge di Stato basata sul Corano. Di solito l'esecuzione con cappio al collo avviene in piazza perché sia di esempio, spesso con delle gru perché possa essere più lenta e dolorosa. Il codice penale iraniano prevede anche l'amputazione delle mani.
  3. MINORENNI
    Amnesty International ha identificato almeno 49 giovani nel braccio della morte arrestati quando avevano meno di 18 anni e un rapporto Onu del 2014 riferisce di oltre 160 detenuti finiti in manette da minorenni e destinati ora al patibolo.
  4. DONNE
    Nel 2013 è stata reinserita la lapidazione come pena esplicita per l'adulterio. In Iran una donna maggiorenne non può uscire dal Paese senza il permesso di un parente maschio, né può sposarsi senza il via libera del padre. Alle donne non viene ancora consentito di assistere a eventi sportivi nonostante le autorità abbiano annunciato l'anno scorso la fine del divieto.
  5. ANTISEMITISMO
    Rohani ha diplomaticamente negato la Shoah quando una giornalista della Nbc gli ha chiesto se davvero fosse «un mito», come l'ha definita il predecessore Ahmadinejad: «Non sono uno storico, sono un politico», ha detto. In risposta alle vignette di Charlie Hebdo, il Paese ha indetto per il 2016 un concorso di fumetti con tema: «La negazione dell'Olocausto». L'Ayatollah Khamenei, in un'intervista al New York Times lo scorso settembre, ha dichiarato: «Se Allah vuole, non ci sarà più alcun regime sionista tra 25 anni».
  6. OMOSESSUALITÀ
    L'Iran è uno dei cinque Paesi al mondo dove essere omosessuale è più pericoloso. Amare una persona del proprio sesso è reato ed è punito con la pena di morte, spesso con l'impiccagione. La Guida Suprema Khamenei ha definito l'omosessualità una malattia e con una fatwa ha reso obbligatorio l'intervento per cambiare sesso.
  7. OPPOSITORI POLITICI
    Sono centinaia gli attivisti, i difensori dei diritti umani, i sindacalisti e i membri di minoranze politiche o religiose condannati a pene detentive o alla pena di morte per questioni politiche. In queste ore il nipote del fondatore della Repubblica islamica Hassan Khomeini, considerato vicino ai riformisti, è stato escluso dalle elezioni di lunedì prossimo perché non avrebbe «sufficienti competenze religiose».
  8. LIBERA STAMPA
    In carcere ci sono almeno 40 fra giornalisti e blogger. Negli ultimi 14 anni la magistratura iraniana ha chiuso almeno 150 testate riformiste.
  9. POETI E ARTISTI
    In Iran si finisce in carcere o condannati alla frusta anche per un documentario mai uscito e di cui si conosce solo il trailer. È quello che succede al regista curdo iraniano Keywan Karimi, reo di «aver offeso le istituzioni sacre dell'islam».
  10. TERRORISMO
    Come ha ricordato Obama lo scorso maggio, «l'Iran è chiaramente impegnato in comportamenti pericolosi e destabilizzanti in diversi paesi della regione», «contribuisce a sostenere il regime di Assad in Siria, sostiene Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, aiuta i ribelli Houthi in Yemen».
(il Giornale, 27 gennaio 2016)


Ubriaco, fumato e imbottito di propaganda jihadista

Ecco "l'eroe della resistenza palestinese", che ha filmato se stesso prima di uccidere tre israeliani a Tel Aviv.

Nashat Milhem, il terrorista arabo israeliano che lo scorso primo gennaio ha aperto il fuoco sugli avventori di un bar a Tel Aviv uccidendo due persone e poi ha ucciso il guidatore di un taxi che aveva usato per allontanarsi dal posto, stava pianificando nuovi attentati quando, una settimana più tardi, è stato scoperto dalle forze dell'ordine e ucciso in uno scontro a fuoco.
E' quanto risulta dagli atti di incriminazione resi pubblici mercoledì a carico di tre persone accusate d'aver aiutato Nashat Milhem a nascondersi. Resi noti anche dei video-selfie girati da Milhem con il proprio cellulare, nei quali non fa mistero del fatto che beveva alcolici, faceva uso di droghe e si scagliava contro gli ebrei e altri "nemici"....

(israele.net, 27 gennaio 2016)


Emigrazione ebrei italiani verso Israele al top dal 1950

Crisi e antisemitismo le cause. Della Pergola a Radio 24.

"Per l'Italia abbiamo avuto nel 2015 il numero più alto di immigranti in Israele a partire dal 1950, mentre in Francia si è registrato il massimo storico". Così Sergio Della Pergola, che insegna demografia alla Hebrew University di Gerusalemme, intervenuto a Effetto Giorno, su Radio 24, fornisce le cifre dell'emigrazione di ebrei dalle comunità dell'Unione Europea verso Israele. "Certamente non si può parlare di un esodo, ma c'è un aumento degli immigranti in Israele da Paesi dell'Unione Europea, come la Francia, il Belgio, l'Ungheria e l'Italia - spiega Della Pergola - I dati non sono sensazionali, si parla di migliaia se non di centinaia di persone, ma sono in costante aumento negli ultimi anni. Nel caso dell'Italia si tratta di 350 persone, ma la comunità non è molto numerosa, quindi la proporzione è notevole."
   Le cause non sono solamente nella crisi economica: "Certamente - prosegue il professore - la situazione economica ha colpito e ha colpito soprattutto gli strati medio bassi che si trovano in difficoltà e possono trovare in Israele un tasso di impiego più alto. Israele ha sofferto meno di altri la grande crisi mondiale. Ma c'è un altro fatto, un senso di malessere e disagio di fronte ad un incremento dell'antisemitismo e di altre forme di intolleranza, come la xenofobia, il razzismo e l'intolleranza religiosa. Tutto questo crea un senso di disorientamento e di fastidio e ci sono coloro che scelgono di portarlo alle estreme conclusioni, trasferendosi altrove".
   Secondo uno studio realizzato dal gruppo di lavoro di Della Pergola è proprio la Francia un Paese tra i più antisemiti d'Europa: "In un grande studio che abbiamo fatto, finanziato dall'Unione Europea su nove Paesi, abbiamo rilevato dei livelli abbastanza forti, ma variabili di antisemitismo. AI primo posto c'è la Francia, seguita dal Belgio e l'Ungheria. Segue poi l'Italia con la Svezia.
   Certamente quello che è importante è capire quello che fa il sistema politico. Quello istituzionale è sicuramente molto corretto e non mancano esempi nei quali questi atteggiamenti sono stati condannati, dalle massime cariche in Francia quanto in Italia. Ma nella percezione mediatica e popolare queste tendenze serpeggiano e arrivano a episodi di violenza come quelli che abbiamo visto in Francia e in Belgio, che creano disagio, mancanza di sicurezza e quindi la ricerca di un sistema migliore altrove".

(IMG Press, 27 gennaio 2016)


Ebrei perseguitati e in fuga. L'Europa non ha Memoria

L'offensiva islamista spinge molti ebrei a lasciare il Vecchio Continente. Intanto l'Ue marchia i prodotti israeliani. Per la felicità degli antisemiti.

di Fiamma Nirenstein

"Giorno della memoria" è un'espressione impossibile per i più perché "ci hanno tirato via da sotto i letti, da dentro gli armadi, imprecavano: "Il treno aspetta, dritti all'inferno, alla piazza di carico, all'Umschlag, alla morte". "Dalle camere tutti ci hanno estratto e hanno frugato in cerca dell'ultimo vestito nell'armadio, dell'ultima minestra. dell'ultima pagnotta". Quale memoria può sopportare una scena simile? Eppure così racconta Itzak Katzenelson, in poesia, il momento della deportazione, e non è che l'inizio; nel viaggio avviene una prima decimazione in cui i bambini muoiono in braccio alle madri, e i padri, racconta, tenendo in braccio i figli; poi, Katzenelson subisce come milioni, la fine della moglie e dei suoi due bambini, lo sterminio di un popolo enorme, "i bambini mentre venivano ammazzati alzavano le braccia verso di voi". Chi può vivere questo Giorno della memoria? Chi è capace davvero dei politici, dei religiosi, degli intellettuali che piegano la testa e depongono corone in questo giorno, può solo pensare quello che è successo al Popolo Ebraico in quegli anni? Il tentativo di porre un rimedio, o almeno una toppa sulla vicenda che solo 70 fa ha frastagliato la vita europea ha visto molte fasi, dall'incredulità al pentimento, ha chiamato in causa istituzioni, scuole, corsi, cerimonie, viaggi ad Auschwitz. Ci sono state gentilezza, sorrisi, scuse, moltissime promesse, tutti intitolati "mai più". Ma, evidentemente le cose non hanno funzionato.
  Oggi, di nuovo, molti ebrei scelgono di andarsene dall'Europa a frotte, perché in alcuni Paesi non intravedono la speranza di un futuro per sé e per i loro figli. La proposta scandalosa quanto indecente, di togliersi kippà e ogni altro segno distintivo dopo che, ultimo attacco in ordine di tempo, un ebreo è stato attaccato a Marsiglia con un machete da uno dei tanti jihadisti, va insieme al numero record di 10mila emigrazioni in un anno dall'Europa Occidentale, soprattutto dalla Francia. Da qui provengono 8000 persone, seguiti dagli Ucrani (5840), e poi dagli Inglesi, i Belgi, gli Italiani, circa 400, e non sono davvero pochi, date le minuscole dimensioni della comunità italiana.
  La sequenza di attacchi terroristi è talmente serrata da fornire la ragione immediata della scelta ebraica: prendiamo, appunto, la Francia, dal gennaio al dicembre 2015, e troviamo subito i quattro uccisi al supermarket kasher dopo l'eccidio di Charlie Hebdo, e via via con frequenza insopportabile aggressioni personali, atti di vandalismo, botte, urli a mamme e bambini al parco ("Hitler non ha finito il lavoro"), rapine, assedi in sinagoga e in altre sedi di riunione, scritte, pugnalate, veleni... La maggior parte dei perpetratori dei crimini, in parallelo ai quali scorrono altri delitti in altre nazioni europee, sono islamici jihadisti. Ma, attenzione,non è solo questo il problema: la realtà è che la struttura europea è diventata più o meno consciamente, un guscio accogliente. E' dal 1979, e poi via via lungo la guerra del Libano dell'82, che si susseguono attentati a Parigi, sul cui sfondo si muovono cortei che urlano contro un inventato "genocidio in Libano" (lo scrissero Le Monde, l'Humanitè, anche Teimoniage Chretien). L'antica avversione anti-israeliana si fa israelofobia, e quindi antisemitismo delle classi intellettuali. L'attuale odio jihadista non è un puro problema sovrastrutturale di cui, alla fine, gli europei potrebbero essere solo molto spiacenti, pur sostenendo che gli attacchi terroristici e il nuovo antisemitismo siano frutto delle recenti ondate migratorie. Non è solo così: gli ebrei che se ne vanno non avvertono più la volontà di combattere il fenomeno, hanno visto cortei ai tempi della guerra difensiva di Gaza inondare Berlino (!) di urla "morte agli ebrei": è la sensazione che non ci sia più la volontà da parte dei Paesi di origine di contenere l'antisemitismo dilagante, di bloccarlo o almeno di disapprovarlo con tutti i sentimenti, la forza intellettuale e morale, il comune buon senso.
  L'antisemitismo si è fatto in buona parte dei casi affluente del grande fiume del politically correct, le classi dirigenti quindi non hanno gli strumenti per individuare il nemico e batterlo. Intanto, proibire all'immigrazione islamica di essere antisemita è una operazione culturale gigantesca, che richiederebbe un lavoro capillare sin dall'infanzia: una volta all'Unione Europea chi scrive ha sentito sostenere che mettere fra le condizioni per fornire aiuti ai Paesi arabi quella di rinunciare a esprimere volontà bellicose contro Israele era una pretesa assurda. Anche bloccare l'antisemitismo lo è. Ma lo è persino chiamarlo per nome. Un esempio: quando nel 2004 fu rapito a Parigi il ragazzo ebreo Ilan Halimi dal gruppo della banlieue "i barbari", torturato e ucciso leggendo il Corano, la polizia batté ogni possibile pista prima di piegarsi all'idea che si trattasse di un rapimento che aveva come obiettivo proprio un ebreo: pensò alla droga, al sesso, alla malavita... La madre di Halimi invano insistette sulla pista antisemita.
  Così oggi: alleato oggettivo dell'antisemitismo più pratico, quello che minaccia fisicamente gli ebrei, è l'israelofobia che ormai da decenni fa parte della cultura di base sia della destra che della sinistra, che lascia che di Israele si dicano le cose più assurde, che lo si accusi di genocidio ("fa ai palestinesi quello che i nazisti facevano agli ebrei" è un evidente blood libel antisemita) di apartheid, addirittura come scrisse il giornale svedese Aftonbladet, di uccidere i palestinesi per venderne gli organi. Anche in Italia quando invece di dare la notizia degli attacchi terroristi che tormentano Israele si titola il giornale sul palestinese terrorista che è stato ucciso nel tentativo di fermarlo dal colpire ancora, o come fa la Svezia si accusa Israele di "uccisioni extragiudiziali" perché si difende, si compie un'operazione di supporto evidente all'antisemitismo. Israele, lo Stato degli ebrei, è colpevole, gli ebrei sono colpevoli, è la facile equivalenza.
  L'Europa non combatte l'antisemitismo: basta guardare alla recente promozione da parte dell'Unione Europea del "labeling" dei beni (vino, prodotti soprattutto alimentari) prodotti nei territori oltre la Linea Verde. E' una scelta discriminatoria: ci sono 200 conflitti territoriali fra cui alcuni vicinissimi, come quello del Marocco o di Cipro, ma a nessuno l'Europa ha inflitto un bollo, solamente a Israele, che così deve vedere di nuovo prodotti ebraici marcati, come nel passato. L'Europa pretende, in mezzo al mare di violenza Medio Orientale, di disegnarne i confini e quindi i mezzi di difesa di Israele, di sostituirsi alla trattativa prevista. Oppure non è questo lo scopo, anzi, lo scopo non c'è: c'è l'espressione incontrollata di un malanimo, di una mancanza di comprensione che sfiora l'antisemitismo, lo incontra, lo ingloba, lo promuove... Sì, anche nel Giorno della memoria.

(il Giornale, 27 gennaio 2016)


Israele accusa: l'Onu sta coi terroristi

Netanyahu attacca Ban Ki Moon che ha detto che è «naturale resistere» all'occupazione dei Territori.

di Marco Gorra

 
A movimentare la vigilia del Giorno della memoria per le vittime dell'Olocausto provvede Benjamin Netanyahu. Il capo del governo israeliano attacca a testa bassa Unione europea e soprattutto le Nazioni unite accusando il numero uno del Palazzo di Vetro Ban Ki Moon di «incoraggiare il terrorismo».
   Capitolo Ue. Secondo Netanyahu, nel Vecchio continente «gli ebrei sono nel mirino e vengono colpiti per il solo fatto di essere ebrei». Il premier israeliano parla di «odio collettivo contro gli ebrei e lo Stato ebraico» che spinge «le comunità a vivere in una paura crescente». E il problema non solo solo i fanatici islamici: «Anche rispettati opinion leader dell'Occidente», aggiunge Netanyahu, «hanno cominciato ad infettarsi con l'odio verso il popolo ebraico ed Israele».
   Critiche che calzano a pennello alla stessa Unione europea - che dalle azioni contro gli insediamenti alla decisione di marchiare con un'etichetta speciale i prodotti provenienti dagli insediamenti non perde occasione per manifestare ostilità allo Stato ebraico - ma dinnanzi alle quali a Bruxelles decidono di fare i vaghi. Così, il presidente della Commissione Jean Claude Juncker preferisce sintonizzarsi sulla lunghezza d'onda di Netanyahu dichiarando che «non avrei mai immaginato un'Europa dove gli ebrei si sentono così insicuri da far raggiungere il picco più alto d'immigrazione verso Israele». Questo «settantuno anni dopo la liberazione di Auschwitz è inaccettabile». Conclusione: «L'Europa non può accettare e non accetta questo. Gli attacchi agli ebrei sono attacchi a tutti noi, contro il nostro modo di vivere, la tolleranza e la nostra identità».
   Toni ben più aspri nei confronti dell'Onu. Ad innescare l'ira di Netanyahu è stata la recente uscita di Ban Ki Moon circa la «frustrazione dei palestinesi» causata dalla presenza israeliana, contro la quale «è naturale resistere». Parole che starebbero bene in bocca a qualche capetto da centro sociale con kefiah e megafono e che, pronunciate dal capo del principale ente pubblico del pianeta, stonano assai. E che soprattutto innescano in Netanyahu una reazione durissima: «I commenti del segretario generale dell'Onu», accusa il capo del governo di Israele, « incoraggiano il terrorismo. Gli assassini palestinesi non vogliono costruire uno Stato, vogliono distruggere uno Stato». Fosse solo un problema di Ban Ki Moon, ancora andrebbe bene (si tratta pur sempre di un segretario generale in scadenza e già prorogato a suo tempo). Il problema è che ad essere messa male è proprio l'organizzazione in blocco: «L'Onu», accusa Netanyahu, «ha perso la sua neutralità e la sua forza morale molto tempo fa. I commenti del Segretario Generale non migliorano la situazione».
   Il punto di vista del capo del governo di Gerusalemme è tutt'altro che campato per aria. Per dire dell'atteggiamento vagamente prevenuto che sulla pratica Israele si intuisce nell'Onu, basta un numero: 45. Sono le risoluzioni di condanna adottate contro lo stato ebraico fra il 2006 (anno della fondazione) ed il 2013 dal Consiglio delle Nazioni unite per i diritti umani. Per rendersi conto delle proporzioni, va notato come Israele da solo assorba quasi la metà (il 45,9% per essere esatti) del totale delle risoluzioni indirizzate ad uno specifico Paese. II record spetta probabilmente al 25 novembre dello scorso anno, quando in un solo giorno l'Assemblea generale passò ben sei risoluzioni di condanna verso Israele per violazione dei diritti umani. Analoghe iniziative nei confronti di Cina, Cuba, Arabia Saudita, Russia e Venezuela furono respinte.

(Libero, 27 gennaio 2016)


La necessaria difesa degli ebrei vivi

di Daniele M. Regard

È passato qualche anno dall'istituzione del Giorno della Memoria. Oggi di quei primi anni di grande entusiasmo, cosa resta? A me pare tanto che sia usato dalla società per pulirsi la coscienza, una concentrazione di cerimonie, eventi, mostre che iniziano a stancare e a far storcere il naso.
Se solo la gente sapesse quanto viene fatto tutti i giorni dell'anno da chi si occupa di memoria, di quanti sacrifici facciano i testimoni della Shoah, ogni giorno una scuola da visitare, ogni giorno uno strazio nel ricordare quei momenti, ma allo stesso tempo determinati come non mai nel passare alle nuove generazioni un testimone pesantissimo che scuota le loro coscienze.
   Il lavoro nelle scuole è diventato fondamentale, come lo è quello delle istituzioni e dei privati che organizzano viaggi nei campi di sterminio, quei momenti, e lo dico per esperienza personale, ti segnano per tutta la vita. Ma questo è quello che avviene ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, anche da prima dell'istituzione di quel famoso Gorno della Memoria.
   E torniamo alla domanda iniziale: cosa resta di questo giorno, in che modo può intrecciarsi con l'attualità? Io credo sia necessario guardare a quello che succede nel mondo agli ebrei oggi, un popolo perseguitato, deportato e ucciso nelle camere a gas poco più di 70 anni fa. Una lezione, quella del passato, che pare in pochi abbiano imparato. Oggi gli ebrei muoiono per strada, mentre pregano, quando fanno la spesa, all'uscita di scuola, fuori da un ristorante, colpiti indifesi nella loro quotidianità. La kippah (il copricapo) è diventato il simbolo di riconoscimento di questa nuova e pericolosa ondata di antisemitismo. Un piccolo pezzo di stoffa che per gli ebrei ha un significato profondissimo.
   Oggi la kippah è l'identità di un popolo, è l'orgoglio di essere ebrei e soprattutto di non aver paura di esserlo. Quindi se vogliamo dare un senso al Giorno della Memoria, facciamolo diventare un punto di partenza e non di arrivo, non solo un momento di ricordo per chi ci ha lasciato, ma un'occasione per fare una seria riflessione sul presente e capire, ricordando quello che è stato, quanto sia importante e necessaria la difesa degli ebrei vivi.

(L'Huffington Post, 27 gennaio 2016)


"Perché noi ebrei rischiamo la vita indossando la kippah"

Intervista a Zvi Ammar, che ha chiesto agli ebrei di Marsiglia di nascondersi per strada. "L'iniziativa del Foglio è emozionante. Ma qui il copricapo è come la stella gialla nazista: i terroristi la usano per identificarci e colpirci".

di Giulio Meotti

 
ROMA - "Preferisco un giorno essermi sbagliato per aver preso questa decisione che espormi a una nuova disgrazia e sopportarne il peso sulla coscienza". Zvi Ammar è fiero di quanto ha deciso a Marsiglia, primo porto del Mediterraneo, seconda città della Francia, mélange multiculti affascinante: consigliare agli ebrei di non indossare la kippah per strada. Nascondersi. E' un po' la sua storia di Ammar, diciassettenne ebreo che fuggì l'antisemitismo di Djerba, in Tunisia, trovando riparo a Marsiglia. Oggi gli ebrei marsigliesi vivono in uno stato di paura e di abbandono. Dal 2012, una trentina di episodi di antisemitismo sono segnalati ogni anno a Marsiglia, secondo i dati del Dipartimento di sicurezza della comunità ebraica. Fino all'attacco antisemita contro un insegnante che dieci giorni fa ha gettato nello sconforto i 70 mila ebrei, un decimo della popolazione totale di Marsiglia. Il presidente del Concistoro israelita di Marsiglia, Zvi Ammar, è così diventato uno degli uomini più contestati in Francia, criticato dal presidente Hollande, dal ministro della Giustizia Taubira e pure dal Gran Rabbino di Francia, Haìm Korsia.
   Alcuni dettagli della vita quotidiana degli ebrei ci forniscono una idea dell'"incubo Marsiglia". Oggi gli ebrei vanno in sinagoga a gruppi di dieci o quindici, per meglio difendersi. Molte madri, quando vanno a fare shopping nei negozi kosher, lasciano i figli in macchina con qualcun altro. Le ventidue scuole ebraiche e le sinagoghe sono monitorate dai militari e i genitori hanno organizzato le ronde intorno alle scuole. Gli ebrei di Marsiglia hanno provato a dialogare con la comunità islamica locale, ma senza successo. Hanno invitato l'imam di Bordeaux, Tareq Oubrou, la madre di un soldato ucciso da Mohamed Merah, Latifa Ibn Ziaten, e l'imam di Drancy, Hassen Chalghoumi. Ma una settimana prima della visita, Tareq Oubrou, sotto pressione, ha dovuto annullare la sua presenza e i capi della comunità islamica sono stati accusati di essere "traditori pagati dal Mossad", il servizio segreto israeliano. Cinquecento ebrei se ne sono già andati da Marsiglia nel 2015. Proprio dalla città da dove nel 1947 salpò per Israele la mitica nave Exodus. Ne parliamo in esclusiva con Zvi Ammar.
   Roger Cukierman, presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia, l'ha accusata di "disfattismo". "Cukierman può parlare così perché ha tre guardie del corpo e vive nel XVI arrondissement di Parigi, ma la Francia è molto grande e lui non sa cosa accade nel resto del paese, dove gli ebrei se la passano molto male. Il mio ruolo non è quello di piacere o dispiacere. La gente ha davvero paura ad andare in giro con la kippah in testa. Essere orgogliosi del giudaismo è bene, anche io lo sono, ma di fronte al pericolo, ci sono limiti all'orgoglio. Noi preferiamo restare in vita. Ora siamo in uno 'stato di guerra'. Nell'Europa di oggi la kippah può mettere in pericolo gli ebrei. La kippah può ucciderti. Nessuna polizia del mondo, anche efficace, è in grado di monitorare 600 mila ebrei. Noi, con una kippah, siamo in prima linea: un obiettivo chiaramente individuato a essere massacrati dai terroristi. Per questo ho detto alla mia comunità, la seconda più grande di Francia, di stare attenta".
   Il governo socialista si vanta di proteggervi. "Lo fanno, il governo ci protegge nelle scuole, nelle sinagoghe, ma non possono proteggerci per strada, quando usciamo. Gli ebrei sono identificati oggi dai terroristi grazie alla kippah. E questo ricorda la Shoah, quando i nazisti ci trovavano grazie alla stella gialla di Davide che portavamo al braccio". Quest'anno ottomila ebrei hanno lasciato la Francia, per Israele, il Canada, l'Inghilterra. "La società in Francia è malata, non c'è libertà per gli ebrei, domani chissà a chi toccherà. Già oggi, prima del mio appello, soltanto il cinque per cento della popolazione ebraica a Marsiglia portava la kippah in pubblico". Come vede il futuro degli ebrei nel suo paese? "Penso abbiano un futuro in Francia, almeno lo spero, spero che la popolazione francese reagisca positivamente e mostri solidarietà con gli ebrei. Spero non ci sia un'altra Vichy". Oggi il nostro giornale esce con una edizione speciale, nata in risposta alla sua richiesta di non portare la kippah. Che ne pensa? "Quella del Foglio è una iniziativa meravigliosa e molto importante, è un gesto di grande solidarietà verso il popolo ebraico in questo momento difficile".
   "Marsiglia è l'universo", scriveva il poeta André Chénier, la cui testa volò via sotto la ghigliottina di Robespierre. Oggi, dalla testa degli ebrei di Marsiglia, è volata via la kippah.

(Il Foglio, 27 gennaio 2016)


Jaziri, il tennista che evita gli israeliani

Il caso dell'atleta tunisino.

Qualche giorno fa è stato eliminato al primo turno dagli Au strali an Ope n, ma di Malek Jaziri, 32enne tunisino, tennista, oggi numero 104 della classifica mondiale, non si sono occupate solo le cronache sportive. Il sospetto su di lui è quell o ch e stia boicottando a modo suo gli atleti israeli ani, evitando di incontrarli. Francia, febbraio 2015, torneo di Montpellier: Jaziri è in vantaggio sull'uzbeko Denis Istomin quando decide improvvisamente di ritirarsi lamentando un dolore al gomito. Se avesse vinto, ad aspettarlo nel match successivo avrebbe trovato Dudi Sela, israeliano. L'episodio mette in allarme l'Atp visto il precedente dell'ottobre 2013 quando a Tashkent, in Uzbekistan, Jaziri si era ritirato non appena approdato ai quarti di finale. Anche in quel caso, a sfidarlo sarebbe stato un tennista israeliano, Amir Weintraub. Allora la federazione internazionale provò l'intervento di quella tunisina, che aveva fatto pressioni sul suo atleta perché si ritirasse. Risultato: un anno di squalifica in Coppa Davis. C'è di più: sia a Montpellier che, mesi dopo, a Wimbledon, Jaziri avrebbe dovuto affrontare nel doppio anche Jonathan Erlich, israeliano. Due incontri, due ritiri.

(Corriere della Sera, 27 gennaio 2016)


Vivere da ebrea ortodossa. «Milano non ci conosce»

Gheula Canarutto Nemni e il Giorno della Memoria. La gente non si aspetta di trovare ebrei in città Si meraviglia molto. E dire che siamo integrati da secoli

di Luisa Ciuni

 
Gheula Canarutto Nemni
MiLANO - Tra rigurgiti di antisemitismo e una commemorazione della Shoah troppo spesso di carattere puramente formale, come vive un'ebrea ortodossa in questa realtà milanese? Lo domandiamo a Gheula Canarutto Nemni, una laurea in Bocconi, sette figli e un presente molto attivo anche come scrittrice. Suo, infatti, è il semi autobiografico «(Non) si può avere tutto» (Mondadori ) in cui si racconta. E spiega una femminilità fatta di ricerca ed equilibrio fra lavoro, figli, desideri, futuro. «Come vive? - spiega - io posso raccontare la mia realtà. Sono italiana, i miei avi venivano dalla Puglia, a differenza di molta parte della Comunità milanese che proviene dagli Usa, dall'Iran o dall'Egitto. Siamo diversi da Roma che ha una storia e una comunità più ampia. Quindi da casa mia faccio tutto quello che è utile a mantenere la mia identità. Ripeto siamo italianissimi. Per non fare che un esempio italiano. Solo cuciniamo kosher.

- La società che vi circonda?
  
«Sono appena tornata da Catania. Più vado a Sud più incontro gente che conosce la storia degli ebrei italiani e che cerca radici ebraiche nella sua famiglia. A Nord ci conoscono meno. A mio figlio, che porta la kippa, una volta hanno domandato se volesse fare il cardinale. Il ritorno al Sud è una memoria storica».
  C'è un problema Milano? «Forme di ostilità, no. Diciamo che la gente non sa che ci sono ebrei sul territorio, li immagina chiusi in se stessi non attivi nella società e integrati, cosa strana se si pensa alla nostra storia.

- Milano è razzista?
  
«Mai percepito nulla dai milanesi. I nuovi immigrati, invece, ci sputano in faccia, ci insultano. Speriamo resti sono un fatto di parole, non siamo come Parigi. Ogni tanto c'è chi protesta per le piccole sinagoghe di condominio. Non danno fastidio a nessuno ma la gente ha timore. E dire che gli ebrei si sono sempre integrati, hanno sempre costituito un valore sociale aggiunto».

- Di questi atti antisemiti non si sa niente. Forse non sono stati denunciati?
  
«No, alcune denunce ci sono».

- Come dovrebbe essere il Giorno della Memoria?
  
«Mi piacerebbe vederlo festeggiato all'ebraica. Non come modalità ma come intento. Che dovrebbe essere quello di proiettare dei risultati nel futuro, nel domani. Invece si rispetta l'ebreo morto ma quello che indossa la, kippà rischia la persecuzione. E di nuovo perfido e con il naso lungo nell'immaginario collettivo, solo che invece di occuparsi di banche ora ha la bandiera di Israele. Non è cambiato nulla».

- Cosa farebbe lei?
  
«Una Giornata della Kippà. Un trampolino vero il futuro. Perché noi la memoria la viviamo ogni giorno».
  Il Giorno della Memoria è diventato un rito vuoto? «Diciamo che ricordare solo in una certa data non basta. Bisogna andare oltre la commemorazione e le lacrime, come fanno gli ebrei che pensano al futuro».

- E questo ci riporta alla vita da donna ortodossa
  
«E difficile mantenere la tua identità in un posto dove ti devi omologare. Tutti corrono per la carriere e devi farlo anche tu se vuoi stare in gioco. In realtà, molti fanno presenza. lo lavoravo le mie otto ore, senza pause per andare a casa prima. Non perdevo un attimo, non rubavo un minuto ma per me era necessario tornare dai miei figli. lo rispetto le regole ma non mi piego se questo va contro quello in cui credo: valorizzare quello per cui siamo state create. Me ne sono andata».

(Il Giorno, 26 gennaio 2016)


Quei volenterosi spioni di Hitler

L'altra faccia degli "italiani brava gente": quasi la metà degli ebrei rastrellati nel nostro Paese dovettero la loro sorte alla delazione, al tradimento, agli inganni di vicini di casa, colleghi e conoscenti.

di Amedeo Osti Guerrazzi

L'occasione del 27 gennaio, il Giorno della Memoria, viene molto spesso utilizzata per ricordare non solo la tragedia degli ebrei d'Europa, ma anche e soprattutto per riaffermare uno dei tanti luoghi comuni così diffusi nell'opinione pubblica italiana, e cioè che dietro ogni ebreo strappato alla deportazione e alla morte vi era una rete di italiani non ebrei che misero in pericolo la propria vita per porre al riparo le vittime. Puntualmente, ogni 27 gennaio le televisioni ritrasmettono film e fiction che esaltano gli eroi italiani, personaggi che sfidando ogni sorta di pericolo hanno salvato decine, a volte centinaia di ebrei. Ogni 27 gennaio viene quindi riaffermato e ribadito il mito degli «italiani brava gente», una delle leggende più radicate nella memoria collettiva del nostro Paese. Eppure una analisi più approfondita dei fatti dimostra una storia molto più complessa e molto meno consolatoria di quella raccontata nei film.
  Il primo periodo della persecuzione, dal settembre 1943 al dicembre successivo, fu caratterizzato dal tentativo di deportare gli ebrei tramite un commando speciale, composto da reparti della polizia tedesca agli ordini di uno «specialista», l'ufficiale delle SS Theodor Dannecker, il quale agì nell'Italia centro-settentrionale, razziando e deportando circa di 2000 ebrei. Nonostante l'impegno di Dannecker, queste azioni non si dimostrarono sufficientemente efficaci agli occhi dei nazisti. Nel frattempo però la Gestapo stava organizzando una serie di comandi locali, i cosiddetti Aussenkommandos, che avevano lo scopo di controllare l'ordine pubblico nelle grandi città e di reprimere ogni tentativo di resistere all'occupazione. Per quanto efficienti, i comandi della polizia tedesca avevano troppo poco personale e furono quindi costretti ad appoggiarsi agli italiani. Tra il 13 e il 30 novembre la Rsi, inoltre, proclamò tutti gli ebrei «stranieri» e «nemici», e ne ordinò l'immediata incarcerazione in campi di concentramento costruiti ad hoc.

 Un lavoro pagato bene
  Ma non fu soltanto la politica ufficiale della Repubblica a essere di aiuto. Anche la collaborazione spontanea di migliaia di «italiani comuni», di normali cittadini, fu fondamentale per l'arresto di migliaia di ebrei. I poliziotti tedeschi sfruttarono ampiamente i collaboratori italiani: spie, delatori, infiltrati, che agivano nei modi più diversi. Questo lavoro veniva pagato piuttosto bene, dato che su ogni ebreo, in media, veniva messa una taglia di 5.000 lire dell'epoca.
  A Roma, il comandante della polizia tedesca Herbert Kappler si affidò a gruppi di collaborazionisti, le cosiddette bande, composte in genere da ex informatori della polizia segreta fascista e da criminali comuni, specializzate proprio nella caccia agli ebrei. Una di queste bande, tra il 23 e il 24 marzo 1944, arrestò una dozzina di ebrei che furono immediatamente fucilati nel massacro delle Fosse Ardeatine. A Torino e a Milano, invece, i comandi tedeschi sfruttarono informatori singoli, personaggi che conoscevano personalmente moltissimi ebrei e ne sapevano i nascondigli. I loro metodi di indagine erano spesso raffinati e particolarmente odiosi.
  Un collaborazionista di Torino, ad esempio, si recò a casa di un rabbino fingendo di essere ebreo e di avere un parente in punto di morte. In questo modo riuscì a convincere il rabbino a uscire dal nascondiglio per andare a recitare le preghiere per il presunto moribondo. A Roma un altro collaborazionista si recava nelle carceri fingendosi un avvocato con agganci nel Tribunale tedesco, allo scopo di ottenere informazioni sui parenti dei reclusi, che venivano immediatamente girate alla polizia tedesca. A Genova un collaboratore della Gestapo aveva escogitato un metodo ancora più lucroso. Dopo aver arrestato un ebreo, fingeva di lasciarsi corrompere e faceva fuggire la sua vittima, che riarrestava immediatamente. In questo modo, il fascista riusciva a farsi pagare tre volte: due volte dai tedeschi, e una volta dalla vittima.

 Torture e sevizie
  Spesso, inoltre, prima di consegnare le loro vittime ai tedeschi, i collaborazionisti torturavano gli ebrei, allo scopo di ottenere altri nomi, altri indirizzi e altre vittime. Così un collaborazionista di Milano aveva messo su un piccolo «ufficio» in viale Albania, dove seviziava le vittime appena arrestate. In via Tasso, nel comando di Roma, interpreti e spie italiane si sostituivano ai tedeschi nel ruolo di torturatori.
  A questi veri e propri professionisti, che avevano fatto della caccia all'ebreo un lavoro, si devono aggiungere anche le migliaia di cittadini che tradirono i vicini di casa, gli amici, i colleghi di lavoro, non solo per scopo di lucro, ma per odio personale, per vecchi rancori, oppure per motivi ideologici.
  Non si deve scordare, infine, il ruolo svolto dalle forze dell'ordine della Repubblica, che ebbero un ruolo fondamentale negli arresti.

 Roma, caso emblematico
  In sintesi forze dell'ordine, bande di collaborazionisti e singoli cittadini rappresentavano un complesso di minacce per gli ebrei in fuga. Roma rappresenta un caso emblematico per capire quanto importante sia stato l'aiuto degli italiani nell'arresto e deportazione degli ebrei e quali fossero i meccanismi della persecuzione. Su circa 730 ebrei deportati da Roma dopo la retata del 16 ottobre, almeno 439 furono traditi o arrestati dagli italiani, un numero enorme, tra i quali si contano i 136 ebrei arrestati e deportati dalla Questura comandata dal fascista Pietro Caruso, i 200 arrestati dalle varie «bande» al servizio dei tedeschi, mentre i restanti furono denunciati da singoli cittadini. In sintesi: nella Capitale oltre la metà degli ebrei arrestati e deportati, hanno dovuto il loro destino ad altri italiani.
  Le carte degli archivi storici italiani sono piene di queste storie: storie di tradimenti, delazioni, deportazioni. Storie con i nomi di italiani che scelsero di collaborare con i nazisti di loro spontanea volontà, e che raccontano una vicenda molto diversa da quella troppo spesso celebrata nelle commemorazioni ufficiali.

(La Stampa, 26 gennaio 2016)


"Colono". Quando una parola si trasforma in disprezzo

Per gli antisionisti e i nemici di Israele sono tutti estremisti coloro che vivono al di là della teorica linea verde. Ma non è così. Incontrandoli si scoprono tante storie e opinioni diverse.

di Pierpaolo P. Punturello

 
Insediamento ebraico nell'antica terra biblica di Giudea e Samaria
Fuori e dentro dei confini di Israele non esiste parola più violentata, abusata, emarginata e strumentalizzata della parola "colono". Per un certo mondo fuori da Israele è colono lo sradicatore di olivi, il violento occupante delle terre altrui, colui che calpesta i diritti di un luogo non suo e di una legittima popolazione "già" presente prima di lui. Per un certo mondo interno ad Israele è colono colui che vivendo a 20 o 30 minuti da Gerusalemme in terre chiamate storicamente di Giudea e Samaria, mina la pace, fa in modo che il mondo confonda i buoni con i cattivi e fa in modo che il mondo non accetti la legittimità di Israele. Per il mondo fuori da Israele il colono, in quanto occupante, può essere ammazzato ed in alcuni tragici casi deve essere ammazzato, senza distinzione di età, sesso, pensiero ed opinioni. Per il mondo interno ad Israele i coloni non sono distinguibili se non per genere ed età, perché per il resto hanno tutti la stessa opinione, le stesse idee politiche, gli stessi ritmi religiosi. In questo modo la parola colono assume i colori che negli anni del 1930 assunse la parola ebreo o giudeo in Europa. E prima ancora durante gli anni delle rinascite dei nazionalismi europei della fine del 1800, prima ancora negli anni del Medio Evo Europeo. Colono è il colpevole di ogni colpa mediorientale, di ogni ostacolo alla pace, di ogni instabilità mondiale.
  Ma chi è davvero il colono? Chi sono coloro che vivono ad Efrat, Newè Daniel, Tekoa, Dolev, Kochav Yaakov, Bruchin? Chi sono coloro che decidono di vivere in Giudea e Samaria e perché decidono di vivere in luoghi così profondamente e storicamente ebraici eppure così controversi e mal giudicati dal mondo e dalle spiagge di Tel Aviv? Incontro ad Efrat il professor Gustavo Perednik israeliano di origine argentina, classe 1956, uomo con un curriculum accademico notevole e con un impegno reale sia contro l'antisemitismo, da lui definito Giudeofobia, sia per il dialogo e la conoscenza della cultura ebraica nel mondo. Entro in casa sua per motivi legati ad un progetto per il liceo ebraico di Madrid e scopro di essere in casa di un colono. Uno dei 'cattivi'. Un 'cattivo' laureato alle Università di Buenos Aires e Gerusalemme, con dottorati in Filosofia a New York, alla Sorbonne, a San Marcos in Perù e Uppsala in Svezia. Un 'cattivo' che mi racconta dei suoi amici arabi, del lavoro di sostegno economico durante la seconda intifada e della normalità di vivere ad Efrat in quanto uomo ebreo che crede nella sovranità ebraica in terra ebraica, dove sovranità significa accettazione del ruolo di Israele come nazione che si impegna al riconoscimento del diritto di tutti e contemporaneamente del proprio come nazione ebraica. Un 'cattivo' che non fa proclami di pace, ma la costruisce con la penna, con il pensiero e con i passi che portano da casa sua a Gerusalemme, poi a Te! Aviv e poi al mondo intero.
 
Una famiglia di "coloni"
  Incontro a Noqdim, vicino Tekoa, appena sotto i resti del mausoleo dell'Herodion del 10 prima della nostra era, Yair un amico che possiede una fattoria/ristorante/caseificio. Mangio con lui i fantastici formaggi di capra e guardando queste colline che trasudano storia ebraica mi racconta di lui, delle sue idee politiche, del suo essere osservante, ma non completamente shomer shabbat (ma come un colono mezzo laico?!). Sono confuso. Il colono deve essere incolto in materie non ebraiche ed ho in mente le conversazioni su Giovanni Battista Vico con Perednik e deve essere ossessivamente religioso e Yair non è neanche shomer shabbat. Ho bisogno di vino, fortunatamente Yair produce anche quello.
  Decido di non disturbare i miei amici della Yeshivat Hamivtar di fronte la collina di Efrat e di non incontrare il mio rabbino, Shlomo Riskin haCohen shlita, perché voglio "sentire" il polso di una situazione che non ho conosciuto negli anni dello studio. Vado da Ziva, insegnante in un prestigioso liceo religioso di Gerusalemme che abita fra Tekoa e Noqdim. Parliamo di politica, del suo voto che tende a destra e del fatto che parla perfettamente arabo perché non si può vivere senza comunicare con i propri vicini. Parliamo di ebraismo e femminismo religioso illuminando scelte di osservanza di mitzvot al femminile, come la lettura della meghillà o la tefillà femminile per Rosh Chodesh, elementi rivoluzionari che le femministe della spiaggia di Frishman a Tel Aviv non saprebbero né comprendere, né sostenere. Crolla con Ziva, in un secondo, l'immagine della colona che armata di mitra sforna challot e cholent, mentre prende la mira contro il vicino villaggio arabo ed al suo posto raccolgo l'immagine di una insegnante, di una femminista osservante, di una madre preoccupata per la sicurezza propria e dei suoi figli non meno di quella dei figli dei suoi vicini arabi.
  Mentre guardingo guido verso Newe Daniel vedo, in questi giorni, ciò che ai "miei tempi" quando studiavo in questi luoghi non c'era: i piloni di cemento a difesa delle fermate del bus, i soldati aumentati in quantità significativa, i posti di blocco. Intifada's mood.
  Parlo al telefono con rav Rosen del Machon Tzomet di Alon Shvut, un istituto dove si incontrano ingegneria e tecnologia e dove sono state trovate le soluzioni halachiche più simpatiche, come il timer per le luci di Shabbat, ma anche i mezzi di locomozione elettrici per disabili. Mi chiede il rav: "E a me non mi intervisti? Io sono un telavivino che 20 anni fa si è trasferito qui!". "No rav, non la intervisto" rispondo, "lei è troppo popolare, non aggiunge nulla di inedito!". In realtà sto per incontrare i membri della famiglia Shapiro di New York, che hanno fatto alyà da tre anni, due dei quali vissuti a Gerusalemme nel quartiere di Nachlaot e che oggi hanno scelto di vivere a Newe Daniel, ma che tra sei mesi, si trasferiranno a Tekoa,
 
Una "colona"
finiti i lavori di ristrutturazione della loro casa. "Abbiamo fatto alyà per vivere in un mondo ebraico più consono alle esigenze spirituali della nostra famiglia e può sembrare assurdo a te, europeo, che queste esigenze non potessero essere soddisfatte a New York". In effetti sono incredulo, ma loro aggiungono: "E' una questione di valori. Non volevamo che i nostri figli crescessero nella realtà formale di un certo ebraismo americano, nel culto di alcuni obiettivi sociali che non sono ebraici. Dopo aver vissuto a Gerusalemme, per motivi economici e per avere una casa adatta a contenere sei persone abbiamo scelto di trasferirci nel Gush, prima qui a Newe Daniel e poi andremo a Tekoa dove la comunità anglo è numerosa, giovane, stimolante". Chiedo agli Shapiro come sentono il loro passaggio da ebrei americani impegnati nel sociale, con una profonda cultura democratica e "di sinistra" ad abitanti del Gush, ipotetica roccaforte di una destra politica ed occupante. Nathan mi sorride, fra l'hippie e l'incredulo. "Molti di coloro che rappresentavano i valori di un certo mondo ebraico progressista americano si sono trasferiti nel Gush e nessuno sembra volerlo raccontare. Oggi ad Efrat, a Tekoa, a Bruchin trovi famiglie americane che sono i figli di chi ha marciato ovunque in America per affermare diritti e per protestare contro guerre, disuguaglianze sociali, discriminazioni e fascismi di ogni sorta. Esiste una nuova generazione di nuovi immigrati che scelgono di vivere nel Gush per amore, oserei dire quasi fisico, verso Eretz Israel ma che portano nel loro bagaglio tutti i valori di incontro e dialogo delle loro origini ed è da questo incontro tra Sionismo e Dialogo che forse nascerà un vero postsionismo di ricostruzione. Noi andiamo a vivere a Tekoa per vivere a pieno valori ebraici, per respirare una certa identità ebraica nel quotidiano, per costruire, per essere osservanti, ma non per essere un baluardo di niente e nessuno tranne la nostra identità ebraica".
  Ero partito per scrivere un pezzo di analisi di un certo mondo israeliano ed ebraico al di là di questa teorica linea verde che divide il mondo in buoni e cattivi, ma torno a casa senza linee e senza certezze. Nel Gush ho incontrato rabbini che lavorano per la pace con i vicini arabi, organizzazioni che si occupano di dialogo con il mondo cristiano come il Center for Jewish-Christian Understanding & Cooperation, persone che lavorano in centri di incontro fra laici e religiosi, ebrei con barba e peot che condannano senza condizioni l'estremismo ebraico e quello musulmano con uguale forza.
  Se quindi l'incomprensione del mondo e la scarsa conoscenza dei "territori" ha il sapore di una ignoranza e di una scelta politica parziale e limitata, coloro che dalle dune delle spiagge di Tel Aviv boicottano il vino di Yair o condannano Ziva ed il terrazzo con vista su Herodion, non esprimono una consapevole scelta politica, ma un noioso cliché di un mondo radical chic che avremmo fatto meglio a lasciare in Diaspora.

(Shalom, gennaio 2016)


Giornata della Memoria. Lettera

Riceviamo e volentieri diffondiamo.

Caro Direttore,
anche quest'anno il 27 gennaio ricordiamo l'immane tragedia della Shoah, abbiamo il dovere di farlo, ma soprattutto sentiamo di doverlo fare affinché la memoria non giochi brutti scherzi, affinché non si dimentichi mai quanto è accaduto durante la seconda guerra mondiale, ma soprattutto non possiamo e non dobbiamo dimenticare idealmente nemmeno una delle milioni di persone che abbiamo perso a causa della follia omicida nazista. La Shoah è un capitolo che ha segnato per sempre la storia dell'uomo, un doloroso marchio a fuoco sul nostro cuore, un marchio che come i tatuaggi che hanno trasformato le persone in numeri nei campi di concentramento nazisti, non scomparirà mai del tutto. Guai se scomparisse, perché quel giorno inizieremo rapidamente a dimenticare quanto male è stato in grado di produrre l'uomo. La giornata della memoria non deve essere soltanto un momento estemporaneo che serve a ricordare il dramma vissuto in quegli anni tragici, ma anche a un momento di profonda riflessione sui nostri tempi, sull'attualità e su tutte quelle forme di razzismo, discriminazione e antisemitismo che si continuano a manifestare oggi, troppo spesso coinvolgendo ciascuno di noi nella nostra dimensione. Il popolo ebraico è stato il gruppo che ha subito la più grave persecuzione e le più pesanti perdite umane, è stato addirittura progettato il suo sterminio di massa e seppur fortunatamente non si è compiuto, circa la metà degli ebrei che popolavano a suo tempo il pianeta sono stati barbaramente eliminati. Anche in seguito a quanto accaduto in Europa in quel periodo, la maggior parte degli Stati occidentali indecisi, diedero il loro sostegno e riconoscimento alla nascita dello Stato d'Israele in terra santa, laddove sorse originariamente e in quello che era il territorio controllato dal Mandato britannico. Dal 1948 quello stesso popolo che aveva appena finito di lottare per la sua sopravvivenza in Europa, ha iniziato una nuova battaglia, quella per l'esistenza del suo Stato. Oggi, nel 2016, lo stesso Stato d'Israele combatte ancora contro quei nemici dell'Occidente intero che vogliono la sua distruzione: il terrorismo islamico su tutti. Nel frattempo in Europa, a partire dal Paese più laico e politicamente moderno del continente, la Francia, gli ebrei sono costretti a nascondersi, gli viene consigliato di non indossare la kippah per non essere dei facili bersagli del fanatismo e soltanto quest'anno 8000 di loro sono immigrati verso Israele, dove nonostante tutto si sentono a casa e protetti. Oggi manifesteranno tutti per ricordare gli ebrei morti 70 anni fa, ma da domani molti di quelli che oggi "piangeranno" durante le cerimonie delle memoria, inizieranno le loro campagne di odio e boicottaggio dello Stato ebraico. Io voglio soltanto dire loro una cosa, non siate ipocriti, portate rispetto per coloro che sono scomparsi, siate coerenti e statevene a casa. Io come ogni giorno dell'anno continuerò a difendere gli ebrei, perché li preferisco vivi, perché sto con gli ebrei di ieri ed a maggior ragione con quelli di oggi.
Io sto con Israele, perché le libertà dell'Occidente si difendono sotto le mura di Gerusalemme.
Cordiali saluti,
Alessandro Bertoldi
Associazione Italia-Israele


Quando l'Onu giustifica il terrorismo (ma solo quello contro Israele)

Netanyahu a Ban Ki-moon: "I terroristi palestinesi non vogliono costruire uno stato: vogliono distruggere uno stato, e lo dicono apertamente".

Le parole di Ban Ki-moon "fomentano il terrorismo". Questo il duro commento del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alle dichiarazioni del Segretario generale dell'Onu che, parlando martedì a una sessione del Consiglio di Sicurezza dedicata alla situazione attuale in Medio Oriente, ha stigmatizzato l'attuale ondata di terrorismo palestinese contro Israele, ma subito dopo l'ha anche giustificata dicendo che "è nella natura umana reagire all'occupazione", e soffermandosi sulla "frustrazione" dei palestinesi per la "paralisi del processo di pace"....

(israele.net, 26 gennaio 2016)


Disgelo in chiave antiterrorismo

Renzi vede Rohani: «0ra più facile lotta comune ma distanza sui diritti» Il presidente iraniano al Colle: «Combatteremo Daesh senza ambiguità»

di Marco Iasevoli

La «prudente positività» che trapela in sera-ta dal Colle è un indizio: su lotta al terrorismo e stabilizzazione dell'area mediorientale il "moderato" Hassan Rohani è «sicuramente un interlocutore». Una promozione che arriva anche da Palazzo Chigi. Insomma, la visita ufficiale a Roma, la prima di un presidente iraniano in Europa da 17 anni, si rivela un successo per Roma e Teheran e consolida il nuovo corso iniziato dopo l'accordo sul nudeare.
   «Siamo due superpotenze culturali», è il comune denominatore che Renzi, a margine del bilaterale serale in Campidoglio, consegna a Rohani. E «anche nei settori in cui sono più marcate le nostre distanze, come nel campo dei diritti umani, abbiamo dimostrato di saper dialogare e discutere», assicura il premier. D'altra parte la giornata è stata così gravida di protocolli commerciali e istituzionali che il desiderio reciproco di rafforzare le relazioni non ha nemmeno bisogno di tante parole. Tanto più che le parole, in queste circostanze, risdiiano sempre di superare il limite della retorica «Vogliamo una nuova via della seta», è la metafora di Palazzo Chigi.
   Affari e lotta al terrorismo, dunque. «La pace non si fa con le soluzioni militari - dice Rohani dal Campidoglio mostrando sintonia di vedute con Renzi. II mondo è riuscito a trovare un accordo sul nucleare, un miracolo politico, ora può riuscire a stabilizzare il Medio Oriente. Noi ci proponiamo come hub», insomma come piattaforma diplomatica per affrontare tutti i casi più spinosi. E sono elencate tutte, nei colloqui con Renzi e Mattarella, le aree di crisi. Libia, Siria, Afghanistan. A Gentiloni il ministro degli Esteri iraniano promette di sostenere una eventuale «transizione» post-Assad a Damasco. Mentre a Mattarella Rohani mostra una forte curiosità per il modello della costituzionale interreligiosa del Libano. L'Iran ha inoltre offerto il proprio sostegno per la candidatura italiano al seggio di membro temporaneo nel Consiglio di sicurezza Onu. II capo dello Stato è molto netto nel sottolineare a Rohani come «il terrorismo sia il problema numero uno». E il presidente iraniano non si sottrae: Combatteremo senza ambiguità». Usa un verbo, Rohani, che ha molto colpito il Colle: «prosciugare» Daesh, togliergli le armi e il traffico del petrolia Sono rassicurazioni importanti, e infatti Renzi, raccogliendo il testimone da Mattarella, afferma che «tutto sarà più facile se l'Iran siede ai tavoli intemazionali». Niente ipocrisie, però. Si è parlato di pace ma anche tanto di business. Teheran apre le porte agli «investitori italiani». Roma sottolinea che quelli firmati sono solo i «primi accordi». Rohani annuisce, parla dell'Italia come del «primo partner», quello che è rimasto «più vicino» anche negli anni delle sanzioni.
   Insomma il filo si riallaccia in una Roma blindata, ancora di più per la coincidenza tra l'incontro serale Renzi-Rohani in Campidoglio la grande paura che in quel momento si stava vivendo alla sta-zioneTemvni per un falso allarme. Le misure di sicurezza per tutta la giornata sono state altissime. Sia alle 10, quando il presidente iraniano ha fatto ingresso all'hotel Parco dei principi. Sia a mezzogiorno, quando si è recato al Colle, e in serata in Campidoglio peri bilaterali tra ministri e il vertice con Renzi. E la conferenza stampa dei ministri degli Esteri prevista stamattina è stata annullata per evitare altri sovraccarichi all'antiterrorisma
   L'allarme sicurezza non ha impedito di rendere la presenza di Rohani a Roma un grosso evento mediatici Dalla mega-delegazione di oltre 120 rappresentanti alla curiosità circa il pranzo consumato al Quirinale: aranciata al posto del vino, ravioli alla cicoria, pesce in crosta di patate e torta di limone.

(Avvenire, 26 gennaio 2016)


Le quattro ipocrisie dietro i deliziosi affari con Rohani in Europa

Paola Peduzzi

Il presidente della Repubblica islamica d'Iran, Hassan Rohani, è arrivato in Italia, ricoperto di attese e promesse di contratti e sollievo di buona parte dell'opinione pubblica europea: era dal 1999 che non si vedeva un leader dell'Iran in visita, allora il tour europeo, tra Roma e Parigi, toccò a Mohammed Khatami, considerato - coincidenze - il "moderato" in grado di sdoganare e riformare il regime iraniano. Rohani considera l'Italia la "porta" verso l'Europa e l'occidente, e negli incontri con il presidente, Sergio Mattarella, con il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, e nella serata di lunedì con il premier Matteo Renzi, ha usato toni concilianti, rafforzando l'intesa attraverso accordi con aziende italiane del valore di circa 17 miliardi di euro nel settore dell'energia e dell'acciaio.
   L'affidabilità del regime iraniano in questa "nuova pagina" che si apre dopo l'accordo sul nucleare è tutta da verificare - un diplomatico francese citato dalla Reuters dice romanticamente: "Bisogna costruire la fiducia. E' come in amore, è solo la prova d'amore che conta" - ma intanto l'economia dell'Iran è accessibile, restare sulla porta sarebbe poco utile per gli imprenditori occidentali, che si mettono in fila e siglano contratti - i francesi puntano decisi sul mercato automobilistico. L'apertura economica, che serve all'Europa in affanno e all'Iran al collasso, è l'inizio di una partnership che, nelle intenzioni dei leader che l'hanno determinata, dovrebbe rafforzarsi su altri dossier. Quando si chiede ai diplomatici europei "è solo una questione di soldi?", o per essere più cattivelli "lo fate soltanto per il petrolio?", la risposta è sempre la stessa: occhi al cielo. Da qui nasce l'ipocrisia che accompagna la visita di Rohani in Europa.
   Ci sono almeno quattro questioni da affrontare.
   La prima: i diplomatici europei - per prima l'Alto rappresentante Federica Mogherini - sono convinti che la fine dell'isolamento dell'Iran sia una promessa di stabilizzazione dei conflitti in medio oriente. Il presidente americano Barack Obama ha spiegato che, dialogando con Teheran, le chance di pacificazione globale sono aumentate. Il tavolo di negoziato sulla Siria, che avrebbe dovuto aprirsi lunedì e invece lo farà, forse, alla fine della settimana, è la prima dimostrazione che tale garanzia non esiste - semmai le milizie sciite, soprattutto in Iraq, complicano le operazioni degli occidentali (e sono anche le prime indiziate, ha scritto il Wall Street Journal, della scomparsa di tre americani a Baghdad, la settimana scorsa).
   La seconda: domani è la giornata della Memoria, ed è tragicamente ironico che il leader di un paese negazionista sia ricevuto proprio qui, in Europa, come un capo di stato finalmente riaccolto nella comunità internazionale, come se l'annientamento dello stato ebraico - e dell'occidente - non fosse un principio costitutivo della Repubblica islamica.
   La terza: la natura del regime iraniano, che vuole esportare il jihad - e lo sta facendo in tutto il medio oriente attraverso i suoi alleati e le Guardie della rivoluzione, che è dalla guerra con l'Iraq negli anni 80 che non erano tanto presenti sul territorio extrairaniano.
   La quarta: i diritti umani. Il regime è in costante violazione degli accordi internazionali, ma i diplomatici occidentali sono disposti a dare credito a Rohani, pur non essendoci alcuna indicazione, nei quasi tre anni della sua presidenza, di un alleggerimento della repressione, anzi. Le esecuzioni sono aumentate, i dissidenti scompaiono a Evin o non si sa dove, molte sono donne, gli omosessuali poi non ne parliamo. I sostenitori del deal (ancora Emma Bonino lunedì su Repubblica) dicono che l'apertura economica è il primo passo per poter ora insistere sulla questione dei diritti, lasciando intendere che l'accordo sia il presupposto di un indebolimento del regime stesso, che dovrà allentare la sua presa. Ma quale regime firmerebbe mai un accordo che lo rende meno forte? Forse è sicuro che questo accordo è studiato apposta per non dar troppo fastidio al regime.

(Il Foglio, 26 gennaio 2016)


Rohani quaranta minuti dal Papa. Si è parlato anche dell'accordo sul nucleare

"Proteggere chiese e sinagoghe", aveva detto il presidente iraniano prima di recarsi in visita da Francesco.

ROMA - E' durato quaranta minuti l'incontro riservato tra il Papa e il presidente iraniano Hassan Rohani, ricevuto questa mattina nel Palazzo apostolico. Iniziato alle 11.12, è terminato alle 11.52. "La ringrazio tanto per questa visita e spero nella pace", ha detto Francesco congedando l'ospite, che a sua volta rispondeva: "Le chiedo di pregare per me". Al termine dell'udienza, il capo della Repubblica islamica iraniana si è intrattenuto con il segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin.
Come riporta il comunicato diffuso dalla Sala stampa vaticana, "durante i cordiali colloqui si sono evidenziati i valori spirituali comuni e poi si è fatto riferimento al buono stato dei rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica islamica dell'Iran, alla vita della chiesa nel Paese e all'azione della Santa Sede in favore della promozione della dignità della persona umana e della libertà religiosa". Quanto all'attualità più stringente, "ci si è soffermati sulla conclusione e l'applicazione dell'Accordo sul nucleare e si è rilevato l'importante ruolo che l'Iran è chiamato a svolgere, insieme ad altri paesi della regione, per promuovere adeguate soluzioni politiche alle problematiche che affliggono il medio oriente, contrastando la diffusione del terrorismo e il traffico delle armi". Infine, "è stata ricordata l'importanza del dialogo interreligioso e la responsabilità delle comunità religiose nella promozione della riconciliazione, della tolleranza e della pace".
Nel seguito di Rohani - che ha donato a Bergoglio un tappeto e un volume contenente diverse minature - vi era il ministro degli Esteri, Javad Zarif. Il Papa ha regalato all'interlocutore una copia della Laudato si' in inglese e in arabo, visto che "non esiste una versione in lingua farsi", e un medaglione di san Martino, chiarendo che "il Santo si toglie il cappotto per coprire il povero: un segno di fratellanza gratuita". L'incontro era originariamente previsto a novembre, nell'ambito del tour europeo di Rohani, poi rinviato in seguito agli attentati che sconvolsero Parigi.
Prima di recarsi in Vaticano, intervenendo al business forum Italia-Iran, Rohani aveva sottolineato che "il Corano invita i musulmani a proteggere per prima le chiese e le sinagoghe: questo significa tolleranza".

(Il Foglio, 26 gennaio 2016)


L'Italia fa affari con l'Iran "negazionista". E la Comunità ebraica di Roma protesta

Alla presentazione del libro di Ester Mieli Di Segni contro la visita di Rohani.

Il presidente dell'Iran viene ricevuto in Quirinale e la comunità ebraica di Roma protesta per le «intollerabili celebrazioni» con cui vengono accolti i «negazionisti della Shoah».
   L'incidente diplomatico si consuma in mattinata, quanto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella riceve sul Colle il il presidente della Repubblica Islamica dell'Iran, Hassan Rohani. Rohani viene accolto nel cortile d'onore dal Capo dello Stato. Dopo un colloquio - al quale partecipano anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e una delegazione di ministri iraniani e che fonti diplimatiche dicono scolgersi «in un clima molto disteso» - il presidente Mattarella offre a Rohani una colazione di lavoro. Scatenanto la reazione della Comunità ebraica di Roma. «È intollerabile - tuona il rabbino capo Riccardo Di Segni a margine della presentazione del libro Eravamo ebrei di Alberto ed Ester Mieli - che mentre un intero apparato è impegnato a mantenere la memoria della Shoah, questa viene fatta passare in seconda scena dalla celebrazione dei negazionisti». «Così come dobbiamo dire che la Shoah c'è stata, dobbiamo dire che non c'è spazio per i negazionisti, anche se ci fanno fare molti affari», conclude il rabbino capo.
   E, in effetti, di affari con l'Iran l'Italia ne conclude parecchi. Ad esempio, il nostro Paese ottiene il sì del governo di Teheran alla alla candidatura come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Il via libera viene accordato dallo stesso presidente iraniano Hassan Rohani nel corso del colloquio al Quirinale con Mattarella, invitato dall'omologo iraniano a visitare Teheran, dove l'Italia sarà l'ospite d'onore alla Fiera del Libro del 2017.
   Ma c'è di più. L'Iran è pronto a riprendere i grandi rapporti in campo economico e commerciale che c'erano in passato con l'Italia. Nel corso del colloquio con Mattarella il presidente Rohani precisa che la disponibilità iraniana riguarda i settori delle grandi, piccole e medie imprese, il settore energetico e anche quello bancario e assicurativo. Il Gruppo Ferrovie dello Stato - specifica un comunicato delle stesse Fs - è inoltre in prima linea «per lo sviluppo della rete ferroviaria iraniana». Diversi i progetti attivi. Attivo sul territorio sin dal 2001, il Gruppo FS ha riavviato recentemente i contatti con le Ferrovie Iraniane ed è impegnato in Iran, oltre che con la holding, attraverso Italferr (società di ingegneria) e Italcertifer (certificazione). La prima è stata selezionata per prestare assistenza tecnica per il progetto della linea alta velocità Tehran-Qom-Isfahan (circa 400 km) e sta seguendo l'elettrificazione della linea Tehran-Mashhad (circa 900 km). Italcertifer si è affacciata sul mercato iraniano da due anni e sta lavorando alla progettazione preliminare del Test Centre delle Ferrovie Iraniane (Infrastruttura e Materiale Rotabile) e ha partecipato alla gara relativa alla metro di Mashhad, risultando il «preferred bidder», in attesa della firma del contratto. Il Memorandum of Understanding , firmato ieri dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano Graziano Delrio e dal suo omologo iraniano Abbas Akhoundi, «crea le condizioni affinché il sistema ferroviario del nostro Paese, con una forte leadership di Ferrovie dello Stato Italiane, svolga il ruolo di principale partner per lo sviluppo della rete ferroviaria iraniana».
   Rohani dal canto suo sottolinea la grande amicizia dimostrata dal governo italiano al suo Paese nel corso degli ultimi, difficili anni. Incontrando Mattarella in quello che è il primo atto diplomatico ai massimi vertici in Europa dalla firma dell'accordo sul nucleare iraniano, Rohani ricorda che l'Italia è sempre stata vicina a Teheran anche quando i rapporti internazionali erano particolarmente tesi.

(Il Tempo, 26 gennaio 2016)


L'Italietta si sottomette a Rohani

Coperte le statue di nudi e niente vino a Roma per il presidente iraniano.

di Giulio Meotti

 
Pannelli bianchi coprono le statue di nudi in Campidoglio per la visita di Rohani
Quando i Fratelli musulmani hanno vinto le elezioni in Egitto, i salafiti si eccitarono molto e lanciarono una campagna per coprire di cera le statue antiche, definite un prodotto "di una civiltà corrotta e infedele". Quando lo Stato islamico ha conquistato la città irachena di Mosul ha subito vietato le statue in quanto "idolatria", distruggendone un bel po'. In Siria i terroristi islamici hanno raso al suolo le statue assire in quanto "pagane". E come dimenticare le Guardie Rosse di Mao che distruggevano con puerile frenesia le statue della Cina imperiale.
Qualcosa del genere, declinato all'italiana, sta avvenendo a Roma, dove in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Campidoglio sono state coperte da pannelli bianchi su tutti e quattro i lati alcune statue di nudi dei Musei Capitolini. La copertura sarebbe stata decisa come "forma di rispetto alla cultura e sensibilità iraniana". Durante le cerimonie istituzionali non è stato servito nemmeno il vino (la Francia socialista di Hollande ha annullato una visita di Rohani pur di mantenere il vino sulla tavola dell'Eliseo).
Sempre per "rispetto alla cultura e sensibilità iraniana" potremmo per due giorni ritirare tutte le copie dei "Versetti Satanici" di Salman Rushdie dalle nostre librerie. Siamo, infatti, alla sottomissione più ridicola e grottesca. Velare quelle statue in ossequio al turbante iraniano è non soltanto uno sfregio a ciò che siamo, ma finirà per eccitare ancora di più gli appetiti totalitari degli inquisitori islamici.
A quando le nostre scuse ai Talebani per aver condannato la loro demolizione dei grandi Buddha di Bamyan?

(Il Foglio, 26 gennaio 2016)


L'antisemitismo esiste ancora

di Antonio Gabriele Fucilone

Con l'avvicinarsi del "Giorno della Memoria", giorno in cui si ricorda Shoah, debbo fare qualche considerazione.
L'antisemitismo esiste ancora. Viene presentato in varie forme. La più classica è quella della contestazione politica ad Israele. In poche parole, si dice non condividere la politica di Israele e che essa fa danni ai palestinesi, mascherando (in realtà) un pregiudizio verso gli ebrei. In tanti Stati ci sono abusi di ogni tipo. Pensiamo agli Stati con regimi comunisti o a molti Paesi islamici. Eppure, chi contesta Israele sta zitto di fronte a questi abusi fatti nei Paesi che ho citato. Questo dimostra il pregiudizio.
Inoltre, in vari Paesi islamici si sono diffusi scritti anti-ebraici come "I Protocolli degli Anziani Savi di Sion" o (addirittura) il "Mein Kampf" di Adolf Hitler. Nei Paesi europei ci sono sempre più atti di intolleranza verso gli ebrei, specie nelle città in cui vi sono nuclei di immigrati di religione islamica. Pensiamo a città come Malmo, in Svezia, o anche alle città francesi, come Marsiglia. Gli ebrei sono sempre più minacciati. Per questo, tanti di loro se ne sono andati o se ne stanno andando verso Israele.
L'Europa tenga d'occhio la situazione. Non permetta l'esodo degli ebrei, i fedeli di una religione che a noi ha dato tanto, e li protegga. Se noi tolleriamo le angherie verso gli ebrei non abbiamo capito nulla. La storia non ci ha insegnato nulla.

(ITALIA chiama ITALIA, 25 gennaio 2016)


Cambia il vento per gli ebrei in Europa. Come opporsi

L'antisemitismo montante e i rischi di un mutamento d'attitudine anche nella Spagna che soltanto un anno fa omaggiava i sefarditi cacciati e che oggi invece manda al governo Podemos ed esponenti politici più filo Hamas che filo Israele. Mercoledì con il Foglio in edicola una kippah per non celebrare in maniera solo retorica la Giornata della Memoria.

di Stefano Basilico

Deve essersi sentito fino a Gerusalemme lo stridore provocato dall'attrito tra l'attuazione della nuova legge sulla nazionalità spagnola agli ebrei sefarditi e il probabile insediamento del possibile nuovo governo che dovrebbe farla rispettare. Era esattamente un anno fa, nel gennaio 2015, quando la Camera dei Deputati di Madrid ha votato a favore di questa decisione storica, "che ripara un'ingiustizia di 500 anni". In base alla normativa, in breve, si hanno a disposizione tre anni dalla sua emanazione per fare richiesta di nazionalità alle ambasciate del Regno. Non ci sarà obbligo di residenza, né di rinuncia della propria nazionalità "d'origine". Unica richiesta, un esame di lingua e cultura per chi non proviene da paesi latini. La decisione, seppure simbolica, mette una toppa su una diaspora che dura dal 1942, quando Ferdinando ed Isabella di Aragona completarono la Reconquista scacciando l'ultimo Sultano di Granada, Boabdil. In seguito alla cacciata dei Mori, sotto il cui dominio agli ebrei era garantita una relativa libertà di culto, furono costretti a convertirsi o partire in 300.000, scacciati da Torquemada e dall'inquisitore Alfonso Suarez de la Fuente del Sauce. L'editto venne cancellato nel 1858, ma si trattava più di una formalità che di un programma coerente ed inclusivo di scuse.
   E' stato Avner Azulay, 80 anni, ex agente del Mossad, il primo cittadino sefardita a giurare alleanza a Re Felipe VI, in una cerimonia a Tel Aviv. La legge è "il simbolo di una nuova Spagna" secondo Azulay, inviato dall'allora direttore dell'agenzia Yitzhak Hofi nella penisola Iberica dopo la morte di Franco nel 1975. Sono 4.300 gli ebrei di origine spagnola ad avere ottenuto la doppia nazionalità, oltre 100.000 i richiedenti, le cui richieste verranno esaminate scrutinando cognomi, tombe di famiglia e alberi genealogici. Le richieste arrivano da paesi di consolidata emigrazione ebraica, come Israele e Stati Uniti e ovviamente da quei paesi sudamericani in cui si parla spagnolo e che sono stati rifugio sicuro per molti durante la seconda guerra mondiale, come Cile, Messico, Venezuela e Argentina.
   Viene da chiedersi tuttavia, e di qui lo stridore, quanto durerà questa "nuova Spagna". Il Governo a guida Partido Popular di Mariano Rajoy che ha approvato la legge è stato archiviato, nonostante una manciata di voti in più nelle elezioni del 20 dicembre. Si potrebbe profilare una coalizione da incubo, con i Socialisti del Psoe spalleggiati dai grillino-comunisti di Podemos. Podemos, è emerso, riceverebbe cospicui finanziamenti occulti dall'Iran, secondo quanto dichiarato dall'ex socio del leader Pablo Iglesias, Enrique Riobóo. 3.000 euro mensili per condurre il programma "Fort Apache" su Hispan TV, emittente inaugurata nel 2011 da Ahmadinejiad in persona, ex presidente di Teheran, negazionista, odiatore professionista di Israele.
   Iglesias visitò Israele, kippah in testa, come "osservatore internazionale" a margine dell'Operazione Margine Protettivo nel luglio 2014. Certo, proclamò l'ovvietà, il diritto di Israele a resistere. Poi però scese in piazza chiedendo al suo governo di boicottare i prodotti israeliani; sventolò la bandiera palestinese al Parlamento europeo; paragonò i residenti della Striscia di Gaza a quelli del Ghetto di Varsavia; si oppose all'acquisto di missili Spike di produzione israeliana da parte della Spagna; tirò fuori i mantra della "resistenza" e dell'apartheid. Insomma, tutto lascia pensare ad un altro di quei partiti che predica amicizia con Tel Aviv e poi si ritrova sotto le lenzuola con i terroristi di Hamas. C'è da augurarsi che abbia ragione Azulay, che la legge sia il simbolo di una nuova Spagna, in un'Europa sempre più antisemita e inospitale per gli ebrei. Purtroppo, però, c'è da temere che Iglesias e soci abbiano in mente altri simboli.

(Il Foglio, 25 gennaio 2016)


"Molto calore, poca sostanza"

Le perplessità del diplomatico Sergio Minerbi sul discorso del papa in sinagoga.

"Non posso dire di essere rimasto deluso, perché in genere non mi creo aspettative, ma mi sembra che il discorso di Bergoglio in sinagoga sia stato uno dei meno entusiasmanti che gli ho sentito pronunciare". Questa l'impressione a caldo di Sergio Minerbi, diplomatico, scrittore, considerato fra i massimi esperti delle relazioni fra Israele e il Vaticano, in merito alla visita del pontefice al Tempio Maggiore di Roma. "Non si può dire che la sua presenza sia stata una novità assoluta - sottolinea Minerbi - visto che prima di lui già altri due pontefici avevano varcato la stessa soglia, Wojtyla e Ratzinger". La differenza si è vista soprattutto nel cerimoniale e per il diplomatico è sicuramente da interpretare come un segnale positivo il modo con cui Bergoglio si è soffermato a salutare le persone all'interno del Tempio. I contenuti invece non hanno lasciato una grande impronta, secondo Minerbi, già ambasciatore di Israele a Bruxelles.
   "Mi è sembrato un discorso di intermezzo. Il no all'antisemitismo, la definizione di fratelli e sorelle maggiori, il no alla violenza tra religioni, è tutto giusto ma è tutto già sentito e conosciuto". "Forse lo sbaglio è il nostro che da lui ci aspettiamo grandi e roboanti affermazioni".
   "Se devo comparare, in ogni caso, la sua presenza al Tempio Maggiore con la visita a Cuba, allora in quest'ultima sì che c'era qualcosa di fuori dall'ordinario".
   "C'è chi sostiene che Bergoglio voglia diventare un vero e proprio "amico" degli ebrei - aveva scritto Minerbi in un pezzo pubblicato sul Portale dell'ebraismo italiano moked.it alla vigilia della visita del 17 gennaio - lo non condivido questa opinione e penso che questo papa sia in bilico fra tendenze opposte in seno alla Chiesa.
   Il vero obiettivo sono infatti gli ortodossi, che ha incontrato per tre volte a Gerusalemme e che rappresentano la sfida più significativa per l'unificazione dei cristiani. Una meta comunque difficile e complessa". L'auspicio del diplomatico, guardando i rapporti tra cristiani ed ebrei, è quello che si vada oltre a quelle che definisce "formule di cortesia".
   "Vogliamo sperare che al di là delle formalità si crei una vera familiarità - afferma - . Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni è certamente molto adatto a rilanciare il modello della convivenza pacifica fra le due religioni, ognuna delle quali si sforzi a rispettare la religiosità dell'altro. Per rav Di Segni il popolo ebraico è il popolo di Dio ed è normale che ci siano relazioni diplomatiche regolari fra i due popoli".

(Pagine ebraiche, febbraio 2016)


Altri tempi


Auto: la giapponese Honda punta alla tecnologia israeliana

GERUSALEMME - La compagnia automobilistica giapponese Honda ha deciso di rivolgersi al mercato israeliano in cerca di tecnologia. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem post" citando una dichiarazione rilasciata da Nick Sugimoto, direttore senior del programma di sviluppo del gruppo all'arrivo alla conferenza annuale 'OurCrowd'. Sugimoto ha detto "la nostra presenza a questa conferenza rappresenta l'ingresso ufficiale di Honda nella comunità tecnologica di Israele. Appena arrivato sono rimasto molto impressionato dalla cultura, dallo spirito imprenditoriale e dalle start-up locali". Il rappresentante della compagnia automobilistica ha detto che la Honda "è alla ricerca della tecnologia israeliana per sviluppare applicazioni per automobili intelligenti attraverso il reparto sviluppo dell'industria, in particolare per il programma Honda Xcelerator che mira a rendere le vetture immuni da possibili collisioni".

(Agenzia Nova, 25 gennaio 2016)


Pacchetti ad hoc per i 500 anni del Ghetto di Venezia

Una iniziativa dell'Associazione veneziana albergatori

E' stato Claudio Scarpa, direttore di Ava a presentare il ricco programma delle manifestazioni che si terranno quest'anno a Venezia in occasione dei 500 anni della nascita del ghetto. "Il turismo abbatte tutte le barriere - ha spiegato il manager - e fa comprendere le diverse realtà e abitudini. Gli alberghi che fanno parte dell'Ava nei propri siti illustrano i diversi pacchetti improntati al soggiorno, alla visita del ghetto, del museo, del cimitero e dei più importanti luoghi protagonisti della storia della comunità ebraica veneziana. E' stata avviata una raccolta fondi per il restauro delle vetrate e del portone della Scola Spagnola".
   Presente all'evento il rabbino capo della comunità ebraica di Venezia, Scialom Bahbout, che ha descritto le bellezze delle tre sinagoghe presenti nel ghetto e la volontà di tenere viva la tradizione ebraica anche nell'arte culinaria. "La cucina ebraica è più sana perché più controllata. Il mantenimento della tradizione dei cibi ebraici la dobbiamo alle donne che hanno avuto un ruolo fondamentale nel conservare e tramandare la cucina kosher". Ruolo fondamentale nel succitato evento, quello del ristorante Ghimel Kosher, situato al ghetto, che oltre a garantire una cucina kosher di qualità, sta pensando ad un servizio take-away e ad un accordo con gli alberghi dell'Ava per la consegna di pasti kosher ai turisti italiani e stranieri della comunità ebraica, in vacanza a Venezia.
   Lorenza Lain, consigliere Hotel Cinque Stelle dell'Ava, ha rimarcato: "L'Ava è partner privilegiato dell'evento. Saranno disponibili pacchetti per tutte le tasche e per tutti i gusti, visibili nel sito dell'Associazione. Un tributo alla storia della città e alla memoria del popolo ebraico. Negli hotel AVA, dalle 5 stelle alle guest houses, è garantita la migliore accoglienza a tutti i nostri ospiti".

(GuidaViaggi, 25 gennaio 2016)


La maggior parte degli israeliani disposta a seri sacrifici pur di accogliere i nuovi immigrati

L'Organizzazione Sionistica ha cerato una task force col compito di eliminare le troppe barriere burocratiche.

Alla luce dell'allarmante ondata di antisemitismo che ha investito l'Europa, la maggioranza degli israeliani approva l'idea di offrire ai nuovi immigrati maggiori benefici economici e occupazionali anche a scapito degli stessi israeliani già residenti. E' quanto emerge da un sondaggio commissionato al Sampling Consultation and Research Center, i cui risultati sono stati illustrati lunedì ai ministri israeliani da Yaakov Hagoel, vice presidente dell'Organizzazione Sionistica Mondiale.
"A causa della crescente preoccupazione per la sicurezza degli ebrei d'Europa - ha spiegato Hagoel - abbiamo istituito una commissione con il compito di affrontare gli ostacoli all'immigrazione in Israele, e abbiamo chiesto di verificare quale fosse Israele, e abbiamo chiesto di verificare quale fosse la posizione dell'opinione pubblica israeliana in questo senso"....

(israele.net, 25 gennaio 2016)


La lotta all'antisemitismo come strategia di civiltà

di Giuseppe Laras *

 
Rav Giuseppe Laras
Caro direttore, l'importanza del ricordo come antidoto all'antisemitismo è ribadita in ogni commemorazione del Giorno della Memoria. Molto viene fatto. Con mezzi scientifici, tecnici e didattici si cerca di mostrare ciò che di infame ed efferato fu perpetrato dal nazifascismo in Europa - e non solo - dagli anni 30 del '900. Si è parlato. Si sono mostrate immagini agghiaccianti dei campi di sterminio, in cui strame fu fatto dei corpi di milioni di esseri umani. Si è ricorso ai superstiti vittime di tali brutture (ai quali va commossa gratitudine per lo sforzo, specie psichico, a cui si sottopongono) per rendere testimonianza dell'annientamento dell'essere umano e dello sterminio del Popolo Ebraico.
Le scuole accompagnano scolaresche ad Auschwitz perché «vedano» e «tocchino con mano» quello che, lungi dall'essere favola triste, è verità storica profanante e contraddicente i valori etici e spirituali dell'umanità e, specialmente, delle culture da secoli promananti dalla scaturigine biblica.
   Presso il grande pubblico si è purtroppo ridotto l'ebraismo alla Shoah. L'ebraismo è ben altro: Bibbia, Talmùd, persone, volti, lingue, Israele, Oriente e Occidente insieme. In Italia, poi, si tratta di un cammino di popolo e di cultura - in primis religiosa, ma non solo -, in dinamica osmosi con la cultura italiana non ebraica, perdurato 22 secoli, nonostante sofferenze ed emarginazioni. Gli ebrei italiani hanno, almeno in parte, la responsabilità di non aver loro stessi sufficiente cognizione e coscienza di ciò. E di non averlo spesso convenientemente saputo trasmettere ad altri, compresi persino gli ebrei non italiani.
   Sembrerebbe che la memoria della Shoah non sia servita a granché: l'antisemitismo, mutante anche in antisionismo, con il suo corredo di discredito, violenza e morte, è vivo e vegeto, più aggressivo che mai in Europa e in terra di Islam. I giornali riportano bollettini di opinioni e fatti antisemiti. Non accadeva nulla di simile, con tale intensità e frequenza, dalla caduta del nazismo, inclusa l'ignavia di troppa cultura e politica occidentale. Si è sconfitto il nazismo perché gli ebrei debbano abbandonare nuovamente l'Europa o per vedere accostati da alcuni, con falsità assordante e perversa immoralità, nazifascismo e sionismo? Si è sconfitto il nazismo per tacitamente accordarsi con chi vuole distruggere in vario modo Israele e inficiare così ogni costruttiva, ancorché talvolta severa, critica che tale Stato, come qualsiasi realtà statuale, necessita?
   Conservare e trasmettere la memoria serve allora poco o niente? Se così fosse, sarebbe disperante. Potrebbe invece essere che questa memoria, che ci sforziamo di conservare e di attualizzare' in realtà non sappiamo trasmetterla come occorrerebbe, nonostante la grande dedizione di molti. Può essere, infine, che alcuni fatti siano stati troppo sottostimati, come, per esempio, il rapporto, tutt'altro che occasionale e trascurabile, tra nazismo e Islam jihadista, quest'ultimo nutrito ed eccitato dalla Germania guglielmina prima e dal nazifascismo poi.
   Un'altra risposta all'inadeguatezza della memoria per combattere l'antisemitismo potrebbe dimorare nella gravità di tale malattia dell'anima e della mente, che non sarebbe aggredibile da alcuna terapia e che si presenterebbe quindi alla stregua di male endemico e cronico. Posso testimoniare che, come molti ebrei, sono nato con l'antisemitismo e con esso sono invecchiato.
   Sono considerazioni amare. Se l'arma della memoria per contrastare questa infezione dell'umanità appare spuntata, dobbiamo interrogarci sul perché tale male risulti così duro a morire o, perlomeno, a essere contenuto e, al contempo, per converso, così facilmente pronto a infettare.
Ciò che rende l'antisemitismo malattia incurabile è probabilmente la sua veneranda età. Quasi 2000 anni di presenza nella storia del mondo, sia in terra di cristianità sia in terra di Islam, con l'accompagnamento devastante di predicazioni e azioni ininterrottamente rivolte
contro l'ebreo, deicida per troppi secoli per i primi e kafir per molti dei secondi, meritevole dunque di discredito e punizione. Troppo tempo per non provocare catastrofi e l'assunzione dell'ebreo (specie in Europa, cristiana prima e purtroppo scristianizzata poi) a paradigma del male, come tale infido e mostruoso.
   So bene che, almeno in certi Paesi, qualcosa è cambiato, specie nella coscienza di molti amici cristiani che hanno riconosciuto con coraggio e onestà un nesso causale tra devastazioni hitleriane della Shoah e antiebraismo cristiano, nascente anticamente con le tentazioni marcionite ma presente e serpeggiante per secoli e ancora oggi, laicizzatosi poi nell'antisemitismo moderno di matrice illuminista, quest'ultimo mai davvero seriamente analizzato e meditato dalla storia del pensiero politico e filosofico occidentale. So bene che il Dialogo ebraico-cristiano, nato dopo la Shoah, nonostante alti e bassi e vita relativamente breve, offre un ausilio alla lotta all'antisemitismo, agendo in parte da «farmaco sperimentale», contributo forse non imponente e risolutivo, ma significativo e prezioso per i contenuti di amicizia e passione che lo alimentano da parte sia cristiana sia ebraica.
   La lotta attiva e concreta all'antisemitismo (incluso l'antisionismo), nelle sue mutevoli e subdole forme, deve quindi trovare oggi accoglienza con coraggio e acribia, studio e passione, anche presso i cristiani e le Chiese. Altrimenti il Dialogo andrà erodendosi.
   Per rispondere all'interrogativo se il Giorno della Memoria, nonostante i limiti che presenta, possa continuare a essere proposto come momento non trascurabile di una strategia della civiltà e dell'umanizzazione, giudiziosamente dobbiamo concludere che, disattendendolo e smarrendolo, ci priveremmo di un prezioso freno inibitore.

* Presidente del Tribunale Rabbinico Centro Nord Italia

(Corriere della Sera, 25 gennaio 2016)


La teologia del papa

 
"Non accogliamo il papa per discutere di teologia. Ogni sistema è autonomo, la fede non è oggetto di scambio e di trattativa politica". Sono parole che il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha detto al papa in visita alla sinagoga, domenica 17 gennaio.
Ha accettato il papa questa dichiarata intenzione del rabbino? Evidentemente no. Il semplice fatto che per indicare gli ebrei abbia usato un'espressione carica di implicita teologia come "fratelli maggiori", nonostante gli fosse stato detto in anticipo che questa dizione non era gradita agli ebrei, fa capire che il papa ha semplicemente disatteso questo desiderio chiaramente espresso.
   Il discorso del papa è stato teologico dall'inizio alla fine. Ma non solo questo. Per il fatto che le sue parole non sono arrivate al rabbino in forma di comunicazione a distanza, ma sono state pronunciate di persona all'interno della più importante sinagoga di Roma, piena di ebrei provenienti anche da altre parti del mondo, si può dire che in quello "storico" incontro il papa non ha soltanto parlato di teologia, ma HA FATTO teologia. Perché un papa non discute di teologia: il papa fa teologia. Il papa è teologia vivente per il semplice fatto che porta quel titolo; le sue parole sono teologia perché è lui che le dice; il luogo che visita diventa centro di teologia perché è lui ad essere lì presente. Visitando la sinagoga, il papa ha fatto pura teologia cattolica, cioè teologia universale, perché si è presentato agli ebrei, essendone accolto, come colui che sta al centro del mondo. E con questo ha avvertito ebrei e uomini di tutto il mondo che soltanto prendendo in seria considerazione la sua persona il mondo può sperare di ottenere quello che oggi desidera: la pace. Perché al centro del mondo ci sta la chiesa cattolica con la Città del Vaticano, non Israele con la città di Gerusalemme. E al centro della chiesa cattolica c'è il papa.
   Dopo la sua visita il papa continuerà a fare teologia cattolica andando a visitare la moschea, senza alcuna contraddizione dottrinale. Sono i laici che vedono "incoerenze" in atteggiamenti come questo, affannandosi a cercare interpretazioni politiche di fatti il cui nocciolo è squisitamente religioso. Riconoscere l'antiebraico stato di Palestina prima; andare poi a trovare gli ebrei in sinagoga; visitare poi la moschea dei musulmani, è coerente teologia cattolica dei fatti.
   Dunque il papa c'è andato, in Sinagoga; ha detto quello che voleva dire; non ha detto quello che non voleva dire; ha ottenuto quello che voleva ottenere. La sa fare molto bene la sua teologia, il papa . M.C.

(Notizie su Israele, 25 gennaio 2016)


Oggi arriva Rohani. Domani è dal Papa

C'è massima attenzione sul fronte della sicurezza per la visita a Roma del presidente iraniano Hassan Rohani che sarà nella Capitale da oggi a mercoledì. Il suo viaggio in Europa era stato rinviato dopo gli attacchi terroristici del 13 novembre a Parigi (doveva essere a Roma iI 14). Oggi vedrà Mattarella alle 12 al Quirinale e Renzi alle 19 in Campidoglio. Domani alle 11 sarà invece da Papa Francesco in Vaticano. L'allerta è dunque massima e il piano di sicurezza messo a punto si prevede imponente.

(il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2016)


Vignette antisemite e visite di Stato

di Pierluigi Battista

Alla vigilia della Giornata della memoria («mai più!», «mai più!»), le autorità italiane, le nostre imprese e papa Francesco accoglieranno con solenni cerimonie il nuovo amico, il presidente iraniano Rohani. Essendo la vigilia della Giornata della Memoria («mai più!», «mai più!»), potrebbero chiedere in anteprima al presidente iraniano una copia della vignetta vincitrice nell'edizione 2016 del concorso che a Teheran premia la più divertente presa in giro della Shoah. Le autorità iraniane, che nel frattempo procedono al conteggio delle persone condannate a morte alla fine di processi farsa nel 2015, più o meno un migliaio, alcune delle quali appese alle gru delle piazze di Teheran, ci tengono molto a quella leggiadra manifestazione antisionista inaugurata dall'estremista Ahmadinejad e mai sconfessata dai moderati del regime. Ora, tra un affare concluso dalle imprese italiane e l'impiccagione di qualche gay che non ha fatto in tempo a scappare in Israele per aver salva la vita anche se in Occidente nessuno suona la sveglia per difenderlo, si potrebbe celebrare quelle vignette antisemite per non dimenticare lo sterminio degli ebrei che, secondo i negazionisti di Teheran invitati solennemente in Italia, sarebbe solo una menzogna: la «menzogna di Auschwitz», come sostengono i colleghi nazi degli antisemiti iraniani che tra una decina d'anni potranno pure disporre della bomba atomica per distruggere più agevolmente Israele dopo aver firmato qualche profittevole contratto con le imprese del mondo occidentale, nel frattempo compostamente impegnato a gridare «mai più!», «mai più!». Non dimenticare, nel Giorno della Memoria. O forse sì, meglio dimenticare per qualche ora, giusto il tempo di firmare qualche buon contratto mentre il Papa lancia il suo monito per la pace nel mondo, ed omaggiare i nostri nuovi alleati che certo, hanno il vizietto di far sparire i dissidenti, ma sono pur sempre i nostri cari alleati contro l'Isis: loro le donne non le decapitano, le lapidano. E poi sono dotati del senso dell'ironia, perché sanno apprezzare quelli che irridono la Shoah, prendono in giro i deportati («mai più!», «mai più!»), contribuiscono a gettare nell'immondizia le favole sioniste su Auschwitz, mettono il buon umore su una vicenda che ci ostiniamo a ricordare ogni 27 gennaio (gli altri 364 giorni dell'anno no), facendo finta di niente sugli ebrei costretti a scappare dall'Europa perché non si sentono più tanto tranquilli del nostro «mai più!», «mai più!».

(Corriere della Sera, 25 gennaio 2016)


Teheran indice di nuovo un concorso di vignette per sbeffeggiare i morti della Shoà

Il presidente della Knesset: "Non ci sono parole abbastanza forti per descrivere il disprezzo e lo sdegno"

Olocausto: "Sciocchezze, non credo che sia avvenuto… Ma credo che avverrà" (vignetta di Shlomo Cohen su Israel HaYom)
L'Iran ha annunciato che terrà una nuova edizione del concorso di vignette negazioniste sulla Shoà. Quest'anno il premio del concorso è stato aumentato da 12.000 a 50.000 dollari. Il concorso, organizzato dalla Municipalità di Teheran, chiede a vignettisti di tutto il mondo di inviare disegni che negano, sminuiscono o sbeffeggiano lo sterminio nazista degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, accusando gli ebrei d'averlo inventato e/o sfruttato per cinici tornaconti di guadagno e di potere....

(israele.net, 25 gennaio 2016)


Oltremare - Alberi

di Daniela Fubini, Tel Aviv

È stagione, e quindi si finisce per fare più attenzione al verde, che di solito guardiamo a malapena.
Chi ha visto fotografie di Tel Aviv nei primi decenni dalla fondazione e fino a tutti gli anni Sessanta, avrà forse notato che allora la città era davvero bianca, o forse meglio dire soprattutto bianca: i palazzi - Bauhaus e non - erano e sono colorati di bianco anche per non attirare il calore del sole, a terra il manto stradale e il marciapiede erano beige e vagamente sabbiosi come oggi.
Quello che mancava allora erano gli alberi. Salvo alcuni oggi colossali alberi storici, di solito degli eucalipti; Tel Aviv per i suoi primi decenni era parecchio brulla. Pochi alberi erano abbastanza grandi da fare ombra lungo la strada verso casa. E se oggi si cammina a zig-zag per tutta la lunghissima estate, seguendo l'ombra dei rami sul marciapiede, o si sceglie una strada più lunga pur di stare sotto il relativo fresco delle foglie, mi domando come facessero cinquanta o sessant'anni fa, quando gli alberi ora ben cresciuti erano ancora troppo bassi per servire a qualcosa. Consideriamoci fortunati, e viziati.
Come esercizio di espansione della fantasia, dovremmo tutti andare almeno una volta l'anno in una "Havat Bodedim" una micro-fattoria nel mezzo del deserto, dove si coltiva ancora ogni filo d'erba con una cura infinitesimale e una pazienza ignota ai nostri tempi moderni. Dove letteralmente ogni goccia d'acqua si usa con raziocinio ancor più che parsimonia. Dove l'high-tech non si disdegna, ma si applica ad un mondo low-tech. Dove ancora oggi piantare una piantina a Tu-biShvat non basta e bisogna poi passare tutto l'anno a farla sopravvivere. Altro che doppio filare di alberi su Sderot Rothschild.

(moked, 25 gennaio 2016)


La fine delle sanzioni sull'Iran

di Fiamma Nirenstein

L'Iran, sollevato dalle sanzioni internazionali che lo punivano per il suo spaventevole programma nucleare, sempre negato, evidentemente in costruzione, volto contro l'Occidente dal regime islamista degli ayatollah, può adesso arricchirsi e espandere i suoi rapporti internazionali. Buone notizie? Insomma... Da un Paese che faccia a pieno parte della comunità delle nazioni ci si aspetta che non giustizi 700 persone nei primi sei mesi del 2015, che non condanni a morte gli omosessuali, che non imprigioni i dissidenti, che non veda le donne come figure la cui testimonianza in processo vale la metà di quella di un uomo… Da un Paese che sorride ad Obama con senso di parità ci si aspetta che smetta di proclamare che distruggerà Israele chiamandola "una radice marcita", che non usi come slogan fondamentale, sulla scia del loro sommo capo ayatollah Khamenei, "morte agli USA".
  Da un Paese che deve aiutare l'equilibrio mondiale non ci si aspetta che costruisca un nuovo missile balistico capace di portare testate nucleari mentre il mondo festeggia la sua rinuncia al nucleare, né che tenga in ostaggio dieci marinai americani scambiandoli proprio al momento in cui, che coincidenza, scadono le sanzioni.
  Dopo l'accordo che di fatto sarà la vera eredità pratica e ideologica che Obama lascia al mondo, si riaprono tutti i commerci e si legittimano tutti i rapporti con l'Iran degli ayatollah: si calcola che 100 miliardi di dollari voleranno rapidamente nelle sue casse e ci si chiede con speranza e ottimismo se la popolazione che ha sofferto tanto delle scelte estremiste della leadership sin dalla rivoluzione islamista del 1979, vedrà i proventi di questa apertura, se vivrà meglio, se godrà di maggiore libertà.
  Questo, semmai si realizzerà, sarà l'unico aspetto positivo di un accordo che mette in mano all'Iran la possibilità legale, cui non ha mai rinunciato, di ricominciare a costruire la bomba atomica fra dieci anni, e nel frattempo ha regole talmente lasche di controllo da consentirgli ogni consueto nascondimento, come ha fatto negli ultimi vent'anni giocando come il gatto col topo con l'IAEA, l'Agenzia atomica dell'ONU. Ma tutto è possibile, naturalmente.
  Tuttavia, adesso a giudicare dallo stato delle cose, il flusso di denaro consentirà agli ayatollah di proseguire nella politica di armamenti che vale, già oggi, dai due ai tre miliardi l'anno e che, possiamo scommetterci, si moltiplicherà a vista d'occhio: questa politica raggiungerà tutte le parti del Medio Oriente, ne godranno gli Hezbollah che già possiedono migliaia di letali missili iraniani e che difendono Assad in Siria e condizionano la vita del Libano, gli Houty che fomentano la guerra in Yemen, Hamas che ha stretti rapporti con Teheran, tutte le minoranze sciite nel mondo arabo e musulmano in genere.
  L'accordo con l'Iran, spera Obama e anche l'Unione Europea, forse aiuterà a combattere l'Isis sunnita. Peraltro, tuttavia, il grande mondo sunnita capitanato dall'Arabia Saudita si sente sfidato, e il timore del nuovo potere del suo nemico storico giunge a tal punto da aver stretto col Pakistan, Paese nucleare, un nuovo accordo. Insomma, il mondo ideale di Obama è molto bello, ma di certo anche rischioso.
  L'unica garanzia che l'accordo funzioni, potrebbe essere un rimpiazzo dell'attuale leadership iraniana, ma Khamenei ha molte carte, e le gioca, si è visto, con astuzia, pazienza, determinazione. Lo scopo? Il predominio islamico.

(Grazia, 22 gennaio 2016)


«I Fratelli musulmani stavano vendendo l'Egitto all'Iran»

Il presidente ha ricordato al paese il rischio corso nell'anno in cui fu dominato dai Fratelli musulmani.

IL CAIRO - Alla vigilia del quinto anniversario della rivoluzione egiziana che in 18 giorni portò alla caduta del rais Hosni Mubarak, il presidente Abdel Fattah Al Sisi e un alto funzionario hanno ricordato al Paese il rischio corso dall'Egitto nell'anno in cui fu dominato dai Fratelli musulmani: quello di un'islamizzazione forzata fra l'altro con un ravvicinamento all'Iran venduto in cambio di miliardi di dollari e petrolio.
In una conferenza stampa del funzionario e in un discorso televisivo del presidente, gli egiziani sono stati sconsigliati dal rispondere agli appelli a manifestare lanciati dalla Confraternita musulmana assurta al potere nel 2012/13 attraverso controverse elezioni e ora messa al bando come terrorista dopo la rivolta popolar-militare guidata proprio dall'allora generale Sisi. Blindati a piazza Tahrir e in molti punti del Paese stanno rendendo ancor più convincente la diffida.
   Il presidente del Comitato che gestisce i beni della Confraternita, Ezzat Khamis, ha presentato un documento che dimostrerebbe come i Fratelli musulmani progettarono un ravvicinamento dell'Egitto sunnita all'Iran sciita in cambio di un deposito da 10 miliardi di dollari presso la Banca centrale egiziana e la fornitura al Cairo di prodotti petroliferi iraniani. Confermando quanto già sostanzialmente noto, Khamis ha illustrato anche altri documenti secondo i quali i dirigenti del movimento progettavano di "islamizzare" lo Stato dando ordini all'allora presidente Mohamed Morsi e al suo gabinetto e 'infiltrando' le istituzioni. C'era l'obiettivo in pratica di "dissolvere la Suprema corte costituzionale", ha sostenuto, riferendosi a questo potenziale baluardo contro la sharia, la legge islamica.
   Un'infiltrazione capillare che è penetrata anche nella società: fornendo il bilancio dei beni sequestrati in due anni e mezzo perché in qualche modo legati alla Confraternita, il capo del comitato ha elencato 105 scuole, 43 ospedali, 29 associazioni mediche e 1.125 di altro tipo. Gli ultimi due anni "dimostrano che il nostro Paese è stato trasformato da una patria che appartiene a un gruppo a una patria che appartiene a tutti", ha detto Sisi in tv facendo un indiretto ma chiaro riferimento a questa concezione delle istituzioni che viene attribuita alla Fratellanza.
   Il presidente ha difeso quello che i media a lui chiaramente ostili come la tv qatariota Al Jazeera chiamano "colpo di Stato": "il popolo che si è ribellato per la propria libertà e dignità ha rettificato il corso degli eventi ed è scoppiata la rivoluzione del 30 giugno" 2013, ha ricordato. E alle critiche sul rispetto di diritti umani e reale democraticità delle istituzioni che vengono da Ong e commentatori, il presidente ha risposto che "le esperienze democratiche non maturano dal giorno alla notte". Ora comunque, ha sottolineato, il Paese ha completato la terza e ultima tappa della sua 'roadmap' verso la democrazia dotandosi di un Parlamento.
   In giornata il ministero dell'Interno ha annunciato che non vi sono state richieste a manifestare in occasione del 25 gennaio e quindi qualsiasi corteo o assembramento che non siano le celebrazioni per la festa della polizia saranno disperse.

(tio.ch, 24 gennaio 2016)


Le pratiche più controverse di Israele, spiegate da un ministro israeliano

Le ha commentate al Washington Post il ministro per la Sicurezza, sono quelle usate contro il terrorismo palestinese.

Gilad Erdan
Gilad Erdan ha 45 anni, è laureato in legge e da sei mesi è il nuovo ministro della Pubblica Sicurezza del governo israeliano di centrodestra di Benjamin Netanyahu. Erdan è anche un volto molto noto del Likud, il partito di Netanyahu: appare spesso sulle radio e nelle tv israeliane per parlare delle contromisure che Israele prende nei confronti di quello che lui chiama "terrorismo palestinese". Negli ultimi quattro mesi Erdan ha dovuto occuparsi di un nuovo ciclo di violenze praticamente giornaliere fra accoltellamenti, sparatorie e assalti in auto compiuti da palestinesi contro civili e soldati israeliani. Dall'inizio di ottobre 25 israeliani sono morti in attacchi compiuti da palestinesi, mentre circa 150 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane (un centinaio durante gli attacchi, circa 50 in scontri durante manifestazioni di protesta).
  Erdan sostiene un approccio aggressivo e preventivo, di cui i palestinesi criticano la violenza. Nella sua prima intervista con i giornali stranieri, Erdan ha spiegato le sue quattro principali tattiche per occuparsi degli ultimi episodi di violenza: demolire le case dei terroristi, revocare la cittadinanza o deportare alcune famiglie a Gaza, multare i genitori dei giovani terroristi e creare più punti di controllo a Gerusalemme. Le frasi in corsivo sono delle introduzioni del Washington Post.

1. Demolire le case dei terroristi
   Israele è tornata ad applicare una pratica molto controversa che aveva già usato durante la Seconda Intifada, fra il 2000 e il 2005: demolire e rendere inutilizzabili le case dei palestinesi terroristi o sospettati di terrorismo, con pesanti conseguenze per le loro famiglie. La pratica era stata abbandonata nel 2005 perché considerata un deterrente poco efficace. I palestinesi e le organizzazioni per i diritti umani la definiscono una forma barbara di "punizione collettiva" contro persone legate al terrorismo ma innocenti, fra cui spesso ci sono anche dei bambini. Altri spiegano che pratiche di questo tipo contribuiscono solamente ad aumentare l'odio contro il governo israeliano.
  Spiega Erdan: «Demolire le case non è una cosa che desideriamo fare: ma quando stai cercando di salvare vite innocenti e di fermare il terrorismo, non hai scelta. Crediamo tutti nei diritti umani, ma ogni democrazia ha il diritto di stabilire un punto di equilibrio fra quelle libertà e la libertà maggiore, cioè sopravvivere.
  Il fatto che questo deterrente sia efficace non è oggetto di dibattito. Abbiamo già assistito all'esempio di un padre palestinese che ha confessato i crimini di suo figlio - colpevole di avere ucciso un rabbino e suo figlio - perché non voleva perdere la sua casa. Non posso davvero accettare l'affermazione per cui la demolizione di case incita [alla violenza]. Qualsiasi cosa tu faccia contro un terrorista aizzerà altre persone. Se uccidi un terrorista, aizzi i suoi amici e la sua famiglia. È necessario trovare dei modi che scoraggino una persona dal compiere un attentato»

2. Revocare la cittadinanza o i permessi di residenza, deportare i palestinesi a Gaza
   Alcuni politici israeliani vogliono deportare i sospettati di terrorismo e le loro famiglie a Gaza, un territorio interamente controllato dalle autorità palestinesi e sotto il parziale embargo di Israele. Erdan è aperto a questa possibilità.
  
«Revocare la cittadinanza o il permesso di residenza è un processo molto lungo, anche se una persona è coinvolta in un attacco contro il proprio paese. Credo però che l'Occidente debba lavorare per cambiare le leggi in caso di guerra, che vanno aggiornate per adattarsi a un nuovo tipo di terrorismo che si sta diffondendo in tutto il mondo.
  Qui abbiamo dei cittadini israeliani di nazionalità araba che si stanno unendo allo Stato Islamico: vanno in aereo in Turchia, attraversano il confine con la Siria e combattono assieme al gruppo. Poi si fanno male, e tornano in Israele per ricevere cure mediche. Non c'è niente che possa fare a riguardo. Posso spedirli in prigione, ma dovrei comunque pagare per il loro mantenimento».

3. Multare i genitori dei giovani terroristi
   «Più della metà degli attacchi che avvengono con pietre o bombe molotov sono compiuti da ragazzi che hanno meno di 18 anni. A quelli che hanno meno di 14 anni non possiamo fare niente, dal punto di vista legale [cioè non possono essere imprigionati]: di conseguenza bisogna attivare dei deterrenti contro i loro genitori. Ecco perché stiamo promuovendo delle leggi in questo senso».

4. Creare più checkpoint
   L'ultimo ciclo di violenza si è sviluppato prevalentemente a Gerusalemme. La polizia e l'esercito hanno costruito dei nuovi punti di controllo agli ingressi di alcuni quartieri di Gerusalemme Est, cioè la parte abitata in prevalenza da arabi e la cui occupazione da parte di Israele non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale, dividendo di fatto la città fra ebrei e arabi. I palestinesi che si spostano da quelle aree in quartieri abitati da ebrei vengono fermati e controllati, anche quelli con la cittadinanza israeliana.
  
«Sappiamo che questi checkpoint funzionano davvero. Abbiamo provato diverse misure per fermare questo tipo di terrorismo ma non abbiamo avuto altra scelta se non quella di costruire questi punti e controllare ogni persona, per identificare le persone che trasportano un coltello che può essere usato per accoltellare qualcuno.
  Ci siamo anche messi in contatto con le autorità di Gerusalemme Est, incoraggiandole a un atteggiamento più coinvolto contro gli attacchi terroristici. La generazione di abitanti più anziani ha capito che ha solo da perderci: i checkpoint impediscono loro di andare al lavoro, o li rallentano parecchio.»

(il Post, 24 gennaio 2016)


Le due Gorizie riconquistano la Memoria

Cade l'ultimo confine dell'Europa ebraica

Il presidente della Fondazione Beni culturali ebraici in Italia Dario Disegni. Il sindaco della città slovena di Nova Gorica Matej Arcon. Il sindaco della città italiana di Gorizia Ettore Romoli. È stato un incontro senza precedenti quello che è avvenuto a Valdirose sul confine italosloveno, a pochi passi dal mitico posto di frontiera della Casa rossa, teatro di tutti i drammatici avvenimenti del Novecento e ultimo cardine della Cortina di ferro a cadere per lasciare spazio alla nuova Europa. E le due Gorizie, un tempo ferocemente lacerate dalla frattura della Guerra fredda, dalle rivalità politiche e da quelle etniche, riconquistano unite la Memoria nel nome della Gorizia ebraica....

(moked, 24 gennaio 2016)


«L'Iran è pericoloso: sul suo antisemitismo l'Italia parli chiaro»

Intervista a Naor Gilon. Rohani a Roma alla vigilia della giornata della Memoria. L'ambasciatore israeliano: «Atti concreti contro l'odio».

di Giuseppe Marino

Dal ritorno dell'Eni a Teheran alla chance di vendere auto a 80 milioni di iraniani. La visita del presidente iraniano Rohani a Roma è stata preceduta da un fiorire di rosee prospettive di business per l'Italia, come l'appalto per tirar su tre ospedali assegnato al costruttore Pessina. Roma è storicamente un partner importante, i contatti con la Repubblica islamica non si sono mai interrotti e non è un caso che sia il primo Paese europeo visitato da Rohani dopo la fine delle sanzioni. Ma la sosta romana, per una singolare coincidenza, avviene proprio alla vigilia del Giorno della Memoria. E la visita, che prevede incontri con Renzi e Mattarella ma anche con il Papa, inquieta non poco l'alleato israeliano che vuole metterei sull'avviso: «Siamo pragmatici, capiamo perché il vostro governo valuti opportuno di riaprire i rapporti - dice l'ambasciatore a Roma, Naor Gilon - ma l'Italia, come tutto l'Occidente, non può fidarsi totalmente dell'Iran».

- Ambasciatore, quale pensa che possa essere il rischio?
  "
«L'Iran è ancora una minaccia. Il grande rischio trascurato dell'accordo sul nucleare è che toglie le sanzioni senza porre alcuna condizione su tutte le altre loro politiche inaccettabili: violazioni dei diritti umani, interferenze nella politica dei Paesi vicini, dal Libano allo Yemen, volontà di distruggere Israele».

- L'America rivendica la riapertura del dialogo come un successo.
  "«Per ammissione degli stessi Stati Uniti l'accordo serve solo a rinviare la questione nucleare di dieci-quindici anni. Per i tempi della politica iraniana un lasso di tempo come questo non è certo un problema. E ora che hanno ottenuto l'obiettivo che si erano prefissi, cancellare le sanzioni, su tutti gli altri temi metteranno alla prova in continuazione le reazioni dell'Occidente. Hanno già cominciato testando nuovi missili balistici. Di fronte alle contestazioni, risponderanno che non sono temi compresi nell'accordo sul nucleare».

- Però l'Iran ora sta aiutando l'Occidente contro l'Isis
  "
«Un altro grande errore: pensare che l'Iran sciita possa essere parte della soluzione contro l'instabilità in un Paese sunnita. L'instabilità è un obiettivo della politica regionale di Teheran, perseguito attraverso i propri emissari, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen».

- La visita di Rohani in Italia può diventare un problema nelle relazioni tra Italia e Israele?
  "
«Siamo Paesi amici. I rapporti sono buoni anche con il governo attuale, ma a volte ci vogliono segnali concreti, oltre che le dichiarazioni di principio».

- Secondo voi che segnale dovrebbe dare il governo Renzi in occasione di questa visita?
  "
«Nessuno contesta il diritto a concludere affari e contratti, ma non vanno dimenticati gli altri temi, come il rispetto dei diritti umani da parte dell'Iran. Rohani arriva a Roma alla vigilia della Giornata della memoria, mentre nel suo Paese, come ogni anno, viene bandito un concorso con premi in denaro per la migliore vignetta che prende in giro l'Olocausto. Sarebbe giusto che il governo italiano prendesse una posizione pubblica, non nel chiuso delle stanze, su almeno uno dei tanti temi che l'accordo sul nucleare non ha nemmeno scalfito».

(il Giornale, 24 gennaio 2016)


Lettera aperta al Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella.

Illustre Presidente,
il 25 e 26 gennaio prossimi sarà in visita di stato nel nostro Paese il Presidente della Repubblica Islamica d'Iran, con il quale Lei avrà occasione di incontrarsi in forma ufficiale. Questa visita, per una circostanza sicuramente non voluta, e tuttavia inquietante e significativa, cade esattamente alla vigilia del Giorno della Memoria, che invita tutti gli italiani a raccogliersi in meditazione sull'indicibile orrore della Shoah, affinché le mostruosità del passato non abbiano mai più a ripetersi e le nuove generazioni dell'Italia libera e democratica sappiano fare argine, con la loro coscienza civile, alle vecchie e nuove forze del male.
Di questo solenne impegno, che affonda le sue radici nella lotta di Liberazione e nei più profondi valori della nostra civile convivenza, scolpiti nella nostra Costituzione democratica e antifascista, gli Italiani sanno di avere in Lei il primo e più alto garante, come ha saputo dimostrare fin dai primi atti del Suo mandato: ricordiamo bene come, nel Suo discorso di insediamento, nel rendere onore a tutte le vittime della violenza assassina, volle scegliere come esempio, certo non a caso, il piccolo Stefano Gaj Taché, strappato alla vita dal cieco odio razzista e antisemita.
Lei sa, Signor Presidente, che la Repubblica Islamica d'Iran ha come ideologia di stato la negazione della Shoah, e ha sempre manifestato apertamente il proprio proposito di giungere, in un modo o nell'altro, all'eliminazione dello Stato di Israele, la patria degli ebrei.
Personalmente, mi rammarico molto che questa visita abbia luogo, e preferirei che l'Italia non avesse alcun rapporto con la Repubblica iraniana, fintanto questa non cambierà radicalmente le proprie posizioni. Ma comprendo, sia pure a malincuore, le ragioni della Realpolitik, e non ho la presunzione di dire a Lei o al Governo italiano cosa sia giusto o sbagliato fare.
Mi permetto però di chiederLe, con grande rispetto, di volere comunicare al Suo interlocutore, con tutta l'autorità della Sua forza morale, qual è il Suo pensiero riguardo alla memoria della Shoah e al diritto dei cittadini di Israele di vivere per sempre, in pace e in sicurezza, nella propria terra, accanto a tutti i propri vicini, a cominciare dai palestinesi. Mi permetto anche, rispettosamente, di farLe notare che un Suo silenzio, su questi punti, potrebbe confermare - sia pur arbitrariamente - nella dirigenza iraniana la consolidata convinzione che l'Occidente - e con esso l'Italia - sia interessato solo agli affari, e sarebbe pronto ad abbandonare gli ebrei, come ottant'anni fa, al loro destino.
Chi Le scrive non è né israeliano né ebreo, né ricopre alcuna carica pubblica. È un semplice cittadino italiano, che crede nei valori della Costituzione e confida che l'Italia di oggi sia davvero diversa da quella di ieri.
Con deferenza,
Francesco Lucrezi

(moked, 22 gennaio 2016)


«Israele non crede alla buona fede dell'Iran ma con gli Usa il rapporto rimarrà strategico»

Il presidente della Knesset, Yuli Eldestein, avverte l'Europa sul terrorismo integralista: anche dopo l'Is la sfida continuerà.

di Vincenzo Nigro

 
Yuli Eldestein
ROMA - "Non è un segreto che noi consideriamo questo accordo molto problematico. Per una serie di ragioni, ma la principale è che per il modo in cui è stato scritto sarà molto difficile ispezionare e controllare il programma nucleare iraniano. Se c'è un sospetto su cosa gli iraniani stanno facendo nei loro programmi nucleari, la Aiea dovrà informare Teheran, loro devono riconoscere che ci sono le basi per questi sospetti e solo dopo 21 giorni potrà esserci l'ispezione... non devo dire nulla di più. Gli iraniani partirono con un programma nucleare segreto a scopi militari. Questo è stato riconosciuto dall'Aiea. Il secondo punto è questo: le sanzioni hanno funzionato; la ragione per cui gli iraniani hanno iniziato a negoziare erano proprio le sanzioni. Da sabato non ci sono più sanzioni, gli iraniani hanno voluto quel che chiedevano senza pagare un vero prezzo. Ma come faremo ad essere sicuri che usino l'energia atomica per scopi pacifici? Il Canada è una potenza nucleare, usa le centrali nucleari: ma non ha neppure una centrifuga. Perché l'Iran in questi anni è riuscito ad avere 20.000 centrifughe per arricchire l'uranio? Se non volevano adoperarle per un programma militare, per la bomba atomica, non avevano bisogno di tutto questo. Ecco perché siam molto scettici: hanno imbrogliato, se lo faranno ancora non avremo modo di capirlo".

- Adesso comunque c'è una nuova dinamica politica nella regione, delegazioni iraniane visitano l'Europa, investitori corrono a Teheran.
  "Ci sono le nuove Olimpiadi per Teheran, è come se tutti i businessmen volessero correre lì. E la leadership politica sembra voler fare lo stesso. Rouhani sta per arrivare qui in Italia e in Europa, tutti sembrano dimenticare cosa sta per accadere a Teheran per il terzo anno di fila. Ci sarà una competizione fra vignettisti per premiare proprio nel "giorno dell'Olocausto" la vignetta migliore fra quelle che mettono in ridicolo lo sterminio degli ebrei. Con un premio di alcune migliaia di dollari. Tutte queste ragioni combinate ci inducono ad essere scettici".

- Questo accordo offre anche una nuova agibilità politica per l'Iran nella regione. I più critici assieme a voi sono i capi della monarchia saudita: sono i vostri nuovi alleati?
  "
"Di sicuro l'equilibrio politico della regione cambia. Due aspetti: con il rientro delle sanzioni finanziare il governo iraniano avrà a disposizione miliardi di dollari arriveranno a loro, e loro sicuramente utilizzeranno questi fondi anche per finanziare organizzazioni terroristiche come Hezbollah e altri nella nostra regione. Quindi ci sarà un sostegno immediato ai terroristi, per fornirli non solo di un camion di kalashnikov o di bombe, ma par dotarli di armi che solo gli Stati hanno a disposizione, contraerea, cannoni pesanti, missili. Il secondo elemento: di fronte al cambiamento del "balance of power" nella regione, molti reagiranno. Per esempio: abbiamo sentito dalla leadership politica di 3 o 4 paesi della regione che "se gli iraniani avranno la bomba anche noi avremo la bomba". Se altri 3 o 4 regimi nella regione decidessero di dotarsi dell'arma nucleare non sarebbe proprio l'ideale...

- Presidente, c'è stata un frattura terribile fra amministrazione americana e il governo di Israele. Kerry sembra molto più a suo agio quando parla col ministro degli Esteri iraniano Zarif che con Netanyahu. Come sarà il futuro delle relazioni Israele-Usa? E poi insisto: sarete alleati di fatto dell'Arabia saudita?
  "
"Non è un segreto che ci sono state tensioni fra noi e gli Stati Uniti. Ma allo stesso tempo devo dire che le relazioni fra i nostri due popoli hanno una tale importanza a livello strategico, una tale complessità e profondità che tensioni fra leaders, fra ministri, non potranno ridimensionare la dimensione strategica di questa relazione. Io di persona ho incontrato la leadership parlamentare democratica e repubblicana. Con tutto quello che è accaduto abbiamo una cooperazione strategica totale nel settore militare, nell'intelligence, della sicurezza in generale. Sull'Iran noi condivideremo con gli Usa tutte le nostre informazioni sul programma nucleare, condivideremo le nostre valutazioni. Ci sarà un cambio nelle relazioni con i sauditi? Per essere sinceri non credo: ci sarà cooperazione in maniera riservata, ma non credo in cambiamenti drammatici come avvio di relazioni diplomatiche o altro".

- Il suo parere del pericolo Islamic State; e poi come valuta la reazione politica e militare dell'Europa?
  "
"Una vera reazione è arriva solo dopo gli attacchi terroristici. E il fenomeno più evidente è chiaramente questo dei giovani europei che vengono reclutati e poi tornano indietro nei vostri paesi. Allora: dobbiamo capire che il fenomeno non finirà presto. E' importante che il mondo si unisca contro il Daesh, ma se pure il Daesh scomparirà ci sarà qualcosa di nuovo, con un nome o una forma diversa a impersonificare il jihadismo. Abbiamo avuto Al Qaeda, gli americani sono riusciti a eliminare Osama Bin Laden e altri leader. Ma è arrivato Daesh, e di sicuro ci sarà qualcosa dopo. Siamo di fronte a uno scontro di civiltà che colpisce innanzitutto la maggioranza dei musulmani prima di colpire gli ebrei o cristiani. Ma questo, uno scontro di culture e di civiltà che prevedibilmente di protrarrà nel tempo".

- Come dobbiamo reagire?
  "
"Altro tema centrale è quello di saper proteggere i principi e le leggi della democrazia organizzando una protezione dal terrorismo. Dobbiamo farlo, non dobbiamo aggredire i nostri valori, ma non possiamo neppure far finta di nulla e lasciare che i terroristi trovino opportunità per approfittare delle pieghe della nostra legislazione democratica.
Anche per questo la collaborazione intensa che abbiamo con paesi come l'Italia è uno strumento per confrontarci innanzitutto a livello politico. Per capire come non rinunciare ai nostri diritti, alla nostra democrazia, senza lasciare varchi aperti per chi vuole colpirci".

(la Repubblica, 24 gennaio 2016)


Obama è ostaggio della politica dell'Iran, che estorce riscatti e crea precedenti pericolosi

Perché il deal è l'opposto del celebrato trionfo della diplomazia. Il regime è riuscito di ottenere un risultato politico facendo leva su un prigioniero americano, cosa gli impedirà di fare la stessa cosa in futuro per per evitare ispezioni nucleari?

di Mattia Ferraresi

NEW YORK - Con l'enfasi delle grandi occasioni, Barack Obama ha magnificato i "progressi storici" fatti con l'Iran "attraverso la diplomazia" nel contesto dell'accordo nucleare appena implementato, il New York Times e la stampa d'establishment si tolgono il cappello per salutare la liberazione del giornalista Jason Rezaian e nello stesso respiro esalta la "visionaria determinazione" del presidente che ha scelto la strada della "paziente diplomazia". E' una vittoria "intelligente e disciplinata" delle arti diplomatiche che rende "il mondo più sicuro" e Obama un leader più autorevole. Questa versione trionfale del fine settimana di prigionieri rilasciati, sanzioni revocate e introdotte, scricchiola se si considera che Rezaian e gli altri tre americani detenuti in Iran non sono stati liberati nel contesto di uno scambio di prigionieri, ma l'Amministrazione ha pagato un riscatto per riavere le persone che Teheran teneva in ostaggio. Il prezzo è l'amnistia per sette cittadini con passaporto iraniano a processo negli Stati Uniti, e il ritiro delle denunce per altri quattordici ricercati dalle autorità. Oltre a questo ci sono i cento miliardi di dollari in sanzioni scongelate che la Casa Bianca ha ufficializzato domenica, inaugurando la fase operativa dell'accordo nucleare con l'Iran.
  La Casa Bianca insiste che le due partite, i prigionieri e le sanzioni, sono separate, ma anche volendo credere che la loro risoluzione contemporanea sia una pura coincidenza, la Reuters sabato scriveva che, nel corso delle trattative sulle sanzioni, "il ministro degli Esteri Javad Zarif ha avvertito il segretario di stato, John Kerry, che una mossa avrebbe potuto far saltare lo scambio di prigionieri che le parti negoziavano in segreto da mesi". Se anche Washington le considerava vicende separate, per Teheran erano unite, eccome. Così si è chiarita la dinamica: Rezaian era un ostaggio del regime, è stato fermato e imprigionato per diciotto mesi ingiustamente, senza potersi difendere da accuse nebulose e inafferrabili, e come per tutti gli ostaggi la sua custodia era funzionale al riscatto. Non è stata dimostrato alcun reato commesso dal giornalista del Washington Post, l'idea stessa che possa essere parte di uno scambio di prigionieri condannati da tribunali americani mostra chi, in questo rapporto, impugna il manico e chi arretra di fronte alla lama. E' ardito rappresentare tutto questo come il trionfo della diplomazia, che è la disciplina che dovrebbe evitare le estorsioni malavitose di concessioni fra stati sovrani.
  La "visionaria determinazione" di Obama è talmente visionaria che non si è resa conto che la concessione alla politica degli ostaggi fatta a Teheran è un precedente pericoloso. Se al regime è riuscito una volta di ottenere un risultato politico facendo leva su un prigioniero americano, cosa gli impedirà di fare la stessa cosa in futuro per ottenere nuove concessioni, per evitare ispezioni nucleari, per non dovere sottostare a tutte le condizioni imposte - queste sì - dalla diplomazia? Nelle prigioni iraniane ci sono già un paio di ostaggi che potrebbero tornare utili per il prossimo round di negoziati. In questo contesto la liberazione immediata dei marinai americani - ma non dopo avere umiliato l'avversario imponendo scuse ufficiali dei soldati in favore di telecamera - si mostra per ciò che è: una sceneggiata canzonatoria messa in piedi per mostrare che l'Iran è un paese normale che rispetta le norme internazionali, non un regime che cattura nemici appena può. Anche su questo il New York Times ha le idee chiare: "Normalmente questo episodio avrebbe causato una crisi", mentre un paio di telefonate hanno risolto tutto. Il fatto è che l'ostaggio non era su quella nave, ma in una prigione di Teheran. Infine, Obama ha trovato anche la foglia di fico per coprire le sue debolezze: le sanzioni per il programma missilistico convenzionale. L'America ha punito undici soggetti che collaborano all'espansione dell'arsenale iraniano, manovra che gli consente di dire che "rimaniamo saldi nell'opporre il comportamento destabilizzante dell'Iran", incluse le "minacce a Israele e ai nostri partner del Golfo". Ma la punizione è talmente lieve e la minaccia tanto incerta che a breve giro di posta Teheran ha annunciato che il programma missilistico continuerà indisturbato. La Casa Bianca spiega al mondo che l'America in questo negoziato parla a bassa voce ma ha in mano un bastone bello grosso, come vuole l'antica regola di Teddy Roosevelt; peccato che Teheran tenga in ostaggio Obama e la sua politica.

(Il Foglio, 24 gennaio 2016)


La tentazione di Rouhani: invitare il Papa in Iran per una visita storica

Martedì l'incontro con Francesco, che a maggio forse andrà in Armenia. L'ambasciatore di Teheran: "Vaticano cruciale".

di Marco Ansaldo

 
CITTA' DEL VATICANO - Francesco e l'Iran. È questo l'ultimo fronte della diplomazia vaticana. Un dialogo che si riavvia dopodomani con la visita del Capo di Stato di Teheran, Hassan Rouhani, in Vaticano. È dal 1999 che un presidente della Repubblica islamica - allora fu il riformatore Mohammad Khatami - non varca il Portone di Bronzo. Ora fonti diplomatiche straniere, e alcuni siti iraniani, avanzano l'ipotesi che Rohani martedì mattina potrebbe avere in tasca un invito per il Papa a visitare l'Iran. La Segreteria di Stato vaticana non ha segnali di un passo in tal senso. Ma se l'ipotesi dovesse trasformarsi in realtà, e Francesco riservarsi di poter accettare l'invito, allora sarebbe il momento di un passo storico, l'ennesimo per il Pontefice argentino.
  La tentazione di un viaggio a Teheran è un disegno ricco di fascino e a cui portano diversi elementi che, considerati uno per uno, rendono lo scenario plausibile sulla carta. Il recente disgelo internazionale nei confronti di Teheran sta accreditando l'Iran come un Paese con cui poter parlare adesso più apertamente, rispetto a un passato fatto di sospetti e di sanzioni. Ed ecco Rouhani portarsi subito in Europa, visitando la prossima settimana Italia, Vaticano e Francia, per sbloccare quindi non solo un potenziale vastissimo sotto il profilo degli affari ma anche sul piano delle relazioni diplomatiche. C'è poi da considerare il fronte della politica estera vaticana più recente. Francesco ha visitato Turchia, Israele, Palestina e Giordania, ha più volte espresso il desiderio di andare in Iraq e risolvere il caso della Siria, e in questo quadro un dialogo diretto con l'Iran potrebbe fortemente contribuire a costruire ponti di pace in una zona sconvolta da guerre interne (arabi e israeliani, turchi e curdi) e dalla tragica presenza dell'Is.
  Un nuovo tassello sta inoltre maturando: quello di una visita di Francesco in Armenia. Il Papa ha ricevuto più volte inviti dai patriarchi armeni e dal governo di Erevan, e ora la data del suo viaggio verrà fissata. Il Vaticano non intende però irritare la Turchia, anche se i rapporti con il Presidente Erdogan rimangono gelidi e Ankara mantiene il ritiro del suo ambasciatore. Il Papa potrebbe così lasciar passare il 101mo anniversario del genocidio ad aprile, per affrontare la tappa a Erevan da maggio in avanti. E c'è addirittura chi pensa che il Pontefice potrebbe unire la visita in Iran a quella in Armenia: con tempi però strettissimi. Ma "con questo Papa - riflettono altre fonti diplomatiche - tutto è possibile". L'Armenia per Bergoglio rappresenta non solo un Paese dove conta molti amici fin dai tempi in cui era arcivescovo di Buenos Aires, ma anche come chiave di avvicinamento alla Russia, dove l'incontro con il Patriarca ortodosso è un evento tutto da costruire, non a Mosca per ora, ma in un Paese terzo. Intanto Francesco annuncia una sua prossima visita sudamericana, questa volta in Colombia.
  Domenica scorsa, giorno della prima visita di Bergoglio alla sinagoga di Roma, già si parlava della prossima tappa di Francesco alla moschea della capitale, la prima di un Papa in un luogo sacro islamico in Italia. Un altro passo del Vaticano immediatamente colto dal mondo musulmano. E i segnali da parte iraniana non mancano. In un interessante Forum svoltosi pochi giorni fa all'Ansa , l'ambasciatore di Teheran a Roma, Jahanbakhsh Mozaffari, ha sottolineato che il Papa e la Santa Sede sono per l'Iran di "importanza estrema", che i rapporti tra Repubblica islamica e Vaticano sono sempre stati "ottimi", e ci sono "continui scambi di delegazioni". Mai un Papa è stato in Iran. Ma sotto Francesco la Storia potrebbe conoscere una nuova accelerazione.

(la Repubblica, 24 gennaio 2016)


La città degli ebrei

Fu Venezia a inventare nel 1516 la parola "ghetto". Ecco che cosa rimane oggi del luogo simbolo dell'esclusione.

di Paolo Rumiz

VENEZIA - Una pattuglia di neri tuffetti sorvola in formazione a "Vw il canale di Cannaregio in direzione del tramonto. Dall'altra parte una Luna enorme, gelida, galleggia sui tetti sul lato dell'isola di San Michele. Un vaporetto chiede strada a una gondola e accosta all'imbarcadero delle Guglie con pochi turisti intabarrati. Ma ecco un sotopòrtego quasi invisibile fra una farmacia e una locanda kosher. Oltre quella soglia, a sinistra, sulla parete di una casa, un'epigrafe con l'editto del 1704 contro la bestemmia degli ebrei fatti cristiani. Subito oltre, cinque sinagoghe disseminate in uno spazio minimo, fra la strada d'accesso e il campo disseminato di coriandoli di Carnevale.
  "Si entra così - quasi di nascosto - nel Ghetto di Venezia. il più antico del mondo, che il 29 marzo compie cinquecento anni di vita. Pochi gli abitanti rimasti, ma bastano e avanzano i muri a raccontare la storia, e quei muri dicono un'assenza che è più forte di una presenza viva. In mezzo al campo, il vecchio pozzo e una fontana gelata In alto, case altissime, fino a sette piani, le più alte di Venezia, segno di un affollamento ( sette metri quadrati a persona) oggi inimmaginabile. Sul lato del Rio San Girolamo, i nomi degli oltre duecento assassinati nei lager. Sugli stipiti delle porte, l'incavo diagonale che alloggiava la mezuzah, l'astuccio scaramantico con i versi della Bibbia. Affacciati alla piazza, i portici con le tracce dei banchi dei pegni.
  "Io sono il Ghetto. dicono quelle pietre, ed esistevo prima che arrivassero gli ebrei. Ero uno spazio malsana di concerie e fonderie, e mi chiamavano - Getto - per via della gettata dei metalli, ma i primi ebrei venuti dal nord pronunciarono il nome alla tedesca, con la - Gh" dura, e quel mio nome rimase, si sparse a Venezia, nel Mediterraneo e nel mondo. Ma il genius loci dice anche altro, che qui inizia il viaggio in un enigma, in uno spazio più claustrofobico dei quartieri spagnoli di Napoli, ma che a confronto del ghetto di Roma, schiacciato dal tallone papale, assurse al ruolo di Terra Promessa ( "di professione") per gli ebrei di allora. Qualcosa di profondamente diverso da ciò che divenne quando l'idea di razza e nazione fecero cortocircuito con l'antigiudaismo della Chiesa, producendo lo sterminio.
  "In un tempo che vede il ritorno dei muri e dei reticolati, forse non è fuori luogo ricordare che a Venezia questo archetipo e sinonimo dell'esclusione è stato anche altro: garanzia di identità, persino esperimento di inclusione portato avanti dalla Serenissima, sia pure attraverso una maniacale separazione delle fedi, delle lingue e dei mestieri. «Parlarne solo come segregazione non è corretto», osserva Donatella Calabi, autrice di un libro sul tema che uscirà a settimane per l'editore Bollati Boringhieri, prima di guidarti nel mistero di un questo "orto concluso" che pure si connette al mondo attraverso i legami millenari della Diaspora, ed è anzi esso stesso sintesi del mondo, per la secolare compresenza di ebrei venuti da Spagna, Centro Europa, Nord Africa e Medio Oriente.
  "Cominciò che non si poteva accettare che gli ebrei occupassero le stesse case dei cristiani, che girassero liberamente notte e giorno, e facessero "tanti manchamenti & cussì detestandi & abhominevolì", E così, per ovviare a tutto questo, il 27 marzo 1516 il nobile Zaccaria Dolfin propose di mandare "tutti" gli ebrei di diverse contrade cittadine ad abitare "uniti" in Ghetto Nuovo, "che è come un castello". Il luogo avrebbe dovuto essere delimitato da due porte da aprire la mattina al suono della "Marangona", la campana di San Marco che scandiva i ritmi della città, e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso. E non basta. Due barche del Consiglio dei Dieci, con guardiani insonni, avrebbero circumnavigato ininterrottamente l'isolotto "per garantirne la sicurezza".
  "Detto e fatto. le case dell'isola furono svuotate alla svelta degli abitanti e date in affitto ai giudei a un prezzo maggiorato. I nuovi inquilini avevano pochi diritti. Non potevano avere proprietà, far politica, accedere alle professioni. alla scuola e all'università, ma nello stesso tempo - stante le relazioni commerciali degli ebrei con mezzo mondo - avevano dalla magistratura la garanzia di poter lavorare nel "riserbo" necessario ad "animare li mercanti di esse Nazioni a continuar quietamente il loro negozio conoscendo l'utile ben rilevante che ne ridonda a nostri dazi". Dentro i confini del Ghetto funzionava.un relativo autogoverno e la libertà di culto era assoluta, al punto che i greci, invidiosi, chiesero il permesso di avere un loro spazio autonomo di commercio e di culto, al pari degli "eretici armeni" e degli ebrei.
  "Prestar denaro era diabolico, secondo i dettami della Chiesa, dunque a Venezia, come altrove, l'usura - pur regolamentata- fu lasciata agli ebrei. Ma siccome la Serenissima aveva bisogno di denaro per le sue guerre e i suoi commerci, gli ebrei - pur fiscalmente spremuti come limoni - erano la sua vera sponda sul piano finanziario. Scelta pragmatica, perché ritenuta più conveniente del cattolico Monte di Pietà che riempiva le casse del Vaticano. Il Ghetto era dunque un modello di costrizione, ma condiviso in misure diverse anche da tedeschi, armeni e in particolare dai turchi. Accusati di fare "cose turche" ( qualcosa di simile alla recente aggressione delle donne di Colonia), il loro fondaco era sigillato da guardiani di provata discendenz.a cristiana, e addirittura diviso fra albanesi e costantinopolitani. «I medici ebrei erano apprezzati più degli altri», ricorda Riccardo Calimani, discendente di abitanti del Ghetto e storico dell'ebraismo italiano. Se gli chiedi perché, ti risponde con un lampo azzurro ironico dietro palpebre a fessura. «Non attingevano alla teologia come gli altri - ghigna - guarivano il corpo e non l'anima», e spiega che per questo essi avevano una deroga sulle ore di "coprifuoco". e potevano uscire dal Ghetto a qualsiasi ora per le chiamate d'emergenza. E che dire dell'ebreo Daniel Rodriguez che, pochi anni dopo il 1516, venne incaricato dalla Repubblica di costruire la dogana di Spalato, base commerciale sulla costa dalmata sotto controllo veneziano. O di Jakob Sarava, che nel Settecento può andarsene in missione ad Amsterdam per conto della comunità Il Ghetto di Venezia non era quello di Varsavia del Novecento. Praticamente, una repubblica nella repubblica.
  "C'erano una volta gli askenaziti, racconta Calimani. Erano i più poveri ed erano venuti tra i primi dalla Germania. Nel Ghetto fecero gli straccivendoli, unico lavoro consentito dal "catenaccio" delle corporazioni, e furono sistemati nell'isolotto centrale. Poi toccò ai levantini dall'impero ottomano, ebbero le strade contigue verso il canale di Cannaregio e furono tutelati più degli altri perché ritenuti indispensabili dalla Repubblica nel commercio con l'Oriente. Per ultimi giunsero i "marranì", i più ricchi, ebrei convertiti a forza dalla cattolicissima Spagna, che a Venezia ebbero agio di tornare alla fede d'origine ma conservarono, si dice, l'alterigia degli "Hidalgos" nei confronti degli altri inquilini del Ghetto.
  "«Snaim yeudin shalosh batei a kneset», due ebrei fanno tre sinagoghe, sorride Francesco Trevisan Gheller con la kippah d'ordinanza sul capo, per far capire che i cinque templi dell'enclave sono mondi totalmente diversi; poi ci oonduce in un dedalo di ballatoi, scale di legno, pulpiti, matronei, passaggi segreti, portoni, pavimenti sbilenchi, cunicoli e porte sbarrate da lucchetti, attraverso la "Scola" grande dei Todeschi (ebrei askenaziti), poi quella dei Provemali, dei Levantini, degli Italiani e infine dei Ponentini (Spagnoli), fra tendaggi e colonne tortili, in uno scintillare di lampadari e paramenti nel semibuio di finestre quasi sempre chiuse. Tutto questo in una stupefacente contiguità con le abitazioni private, in uno sfruttamento dello spazio che ha del miracoloso e maniacale assieme. Un gioco di incastro, un labirinto che fa del Ghetto - utero e al tempo stesso ombelico di un mondo - la quintessenza di Venezia e non la sua antitesi.
  "A prova di ciò le parole dal Ghetto entrate a far parte del dialetto veneziano. Calimani ci ride sopra e centellina termini simili a formule magiche. «Orsài», commemorazione dei defunti, dal tedesco Jahrzeit importato dagli askenaziti. «Zuca baruca», zucca benedetta che tutti sfama con poco, dall'ebraico baruch che vuol dire benedetto. Ma è soprattutto lo spassoso libro di Umberto Fortis su La parlata degli ebrei di Venezia (Giuntina) a condurti per mano nell'universo lessicale assorbito dalla Serenissima. Una lingua franca, quasi un yiddish in formato mediterraneo, che svela - un po' come a Trieste - l'intimità di contatto della città con gli ebrei nonostante la reclusione. "Fare un Tananàt", fare un Quarantotto. "No darne Giain", non darmi vino scadente. "No xe Salòm in sta casa", non c'è pace in questa casa. E poi la "Tevinà", il sesso femminile, la quale "ghe xe chi che la tien, e ghe xe chi che la dà". Oppure il micidiale "El traganta de soà" detto di chi puzza di m. (valgo "escrementi"). Il Ghetto non esportava solo tessuti o denaro, ma anche parole.
  "La vita di Calimani è segnata dall'Olocausto. «Il 16 settembre del '43 il presidente della Comunità ebraica si suicida per non dare ai nazifascisti l'elenco degli iscritti. In quello stesso giorno i miei genitori si sposano per poter scappare assieme e nascondersi sui monti dell'Alpago dopo un tentativo di passare in Svizzera Mi metteranno al mondo il 20 gennaio del '46. Le dice qualcosa? Nove mesi esatti dal 25 aprile, perfetta scelta di tempo». È il primo della sua famiglia nato fuori dal Ghetto, ma spiega che già nell'Ottocento - dopo l'arrivo di Napoleone che brucia le porte dell'enclave e parifica gli ebrei agli altri - scatta l'emigrazione verso altri quartieri, con conseguente assimilazione di molti ebrei ansiosi di spazio e modernità. Col risultato che oggi quelli rimasti "dentro" sono poche decine, sostituiti da veneziani di altra origine.
  "«Questi cinquecento anni non devono essere una celebrazione, ma uno spazio di riflessione su un'esperienza in senso lato, qualcosa che va oltre la stessa Shoah. Non sono troppo d'accordo con tutto questo apparato di concerti e discorsi previsti per fine marzo. Il messaggio che deve partire è di libertà per tutti i popoli, contro tutte le reclusioni, i campi profughi, le banlieue…». Perché ci sono i corsi e i ricorsi, come l'assedio di Sarajevo, che inizia esattamente a cinquecento anni dall'insediamento sulla collina di Bjelave degli ebrei fuggiti dalla Spagna. La città, allora ottomana, vide arrivare ebrei da ovunque, esattamente come Venezia. E poi, nell'aprile del 1992, l'anno dell'Esilio fu festeggiato con le lacrime agli occhi, ricorda Dzevad Karahasan, mentre intorno tuonavano le granate. «Ghetto non è un problema ebraico ma della cristianità», taglia corto Calimani. E vien da pensare che a Venezia gli ebrei lo chiamavano altrimenti, "Chatzer", che vuol dire recinto. Poi ha vinto la parola coniata dai cristiani. Vorrà pur dire qualcosa.

(la Repubblica, 24 gennaio 2016)


Franceschini: "Toscanini, un esempio di coraggio"

Il 27 gennaio nella Capitale la Filarmonica replicherà il concerto del '36 a Tel Aviv.

di
Paolo Petroni

«Davanti al male, ognuno secondo le proprie possibilità, deve fare qualcosa»: è una celebre dichiarazione di Arturo Toscanini, di cui quest'anno, nel Giorno della Memoria, si ricorda l'impegno contro il nazifascismo, il rifiuto di recarsi a lavorare in Germania e Austria, l'aiuto dato ai musicisti ebrei perseguitati. Il maestro andò tra l'altro a dirigere a sue spese il primo concerto della Palestine Orchestra nel 1936 a Tel Aviv, creata appunto con artisti ebrei in fuga dall'Europa dal violinista polacco Bronislaw Huberman e il cui programma sarà replicato il 27 gennaio sera all'Auditorium sotto la direzione di Yoel levi, attuale direttore dell'Ipo, sul podio della Filarmonica intitolata proprio a Toscanini.
  La storia della Po - Palestine Orchestra, diventata poi negli anni Ipo - Israel Philharmonic Orchestra, sarà narrata quella stessa sera da Umberto Orsini e fatta rivivere da spezzoni del film «Orchestra of Exiles» che gli dedicò Josh Aronson, ricordando l'impegno di Huberman che girò per due anni il mondo per realizzare il suo folle e coraggioso sogno, ricevendo il sostegno, tra gli altri, di Albert Einstein che organizzò per lui a New York un ricco fundraising e gli presentò Toscanini, che si era autoesiliato in America e aveva rifiutato l'invito personale di Hitler a dirigere il Festival wagneriano di Bayreuth.
  Al concerto di Tel Aviv, che era allora una piccola cittadina nel deserto sotto il protettorato britannico, intervennero tremila persone e fu trasmesso per radio in tutto il mondo. Toscanini non perse mai poi l'occasione di portare in tournée la Po per farla conoscere nel mondo libero.
  Il concerto «Toscanini: il coraggio della musica» per il Giorno della Memoria, ideato e organizzato da Viviana Kasam e Marilena Francese, che negli anni scorsi realizzarono per la stessa occasione i concerti «I violini della memoria» e «Tutto ciò che mi resta» dedicati alla musica eseguita e composta nei lager, è stato realizzato con il sostegno di Carlo De Benedetti e dell'Università Ebraica di Gerusalemme. In programma gli stessi brani eseguiti a Tel Aviv nel 1936 di Rossini, Brahms, Schubert, Mendelsshon e Weber, con la partecipazione, assieme all'Orchestra Arturo Toscanini, di tre solisti dell'Ipo, tra cui Gabriel Volè, nipote di Jacob Surowicz, stretto collaboratore di Toscanini e uno dei musicisti che suonò a Tel Aviv nel '36.
  Davanti alla cronaca tragica di questi ultimi tempi è importante ricordare riuscendo a far capire ai giovani cosa accadde, perché si vorrebbe non potesse accadere di nuovo a nessuno, non solo agli ebrei, hanno sottolineato Renzo Gattegna, presidente dell'Ucei - Unione comunità ebraiche italiane, e Gabriele Nissim, presidente di Gariwo - La foresta dei Giusti, che hanno anche piantato ieri mattina nei giardini del Parco della musica una pianta in ricordo di Toscanini, assieme al ministro della cultura Dario Franceschini. «La grandezza musicale e artistica di Toscanini - ha detto il ministro - rischiano di offuscare il suo coraggio di uomo che ha lottato sempre in nome della dignità ed è importante ricordarne oggi l'esempio e il coraggio».

(Gazzetta di Parma, 23 gennaio 2016)


Apre per un giorno il cimitero ebraico di San Daniele

Iniziativa con le scuole in occasione della Giornata della memoria.

SAN DANIELE - Gli alunni delle scuole medie protagonisti della Giornata della memoria. Quest'anno infatti gli alunni della Pellegrino da San Daniele, accompagnati dalle insegnanti Volpini e Floreani, si sono impegnati a fare da guida ai visitatori del Museo del territorio laddove è presente una sezione ebraica che raccoglie documenti d'archivio e reperti della locale comunità che abitava in paese a partire dalla metà del sedicesimo secolo, fino alla promulgazione delle leggi razziali alla fine degli anni '30 del secolo scorso. Ai ragazzi il compito di raccogliere testimonianze e documenti sulla presenza ebraica a San Daniele. Tra i ricordi più atroci della città collinare quelli sulla sorte toccata alla famiglia Szorényi e la storia di Liliana Smith. La famiglia Szorényi, di origine fiumana e composta da 10 persone, fu deportata perché un impiegato municipale di fede fascista, collega della sorella di Arianna, denunciò la presenza della famiglia ebraica. Nel giugno del 1944 furono prelevati e portati prima a Udine, poi a San Sabba e infine ad Auschwitz. La vicenda è raccontata da Arianna, sopravvissuta col fratello allo sterminio, nel libro "Una bambina ad Auschwitz". Un'altra vicenda ricordata al Museo di via Udine è quella di Liliana Smith, bambina ebrea salvata grazie alla straordinaria protezione dell'allora parroco della città, monsignor Pizzoni.
Come spiega Isanna Bonoris dell'Associazione "Vivi il museo", «nella zona del lago è presente un cimitero ebraico, che raccoglie sepolture dal 1742 al 2006 che sarà aperto straordinariamente, per poter consentire ai visitatori una visita dettagliata alle tombe, che saranno illustrate per alcune loro particolari caratteristiche».
Già da qualche anno l'Associazione "Vivi il Museo" di San Daniele aderisce alle iniziative promosse per la Giornata della Memoria. Per quest'anno sono previste due iniziative a ingresso gratuito: il 26, alle 21, la proiezione di un film in museo ("Corri ragazzo corri" tratto da una storia vera, del regista Pepe Danquart) e il 31, alle 10 e alle 14, una visita alla sezione ebraica del museo con trasferimento successivo al cimitero ebraico. (a.c.)

(Messaggero Veneto, 24 gennaio 2016)


Documenti inediti sulla confisca e sequestro dei beni ebrei a Casale Monferrato

In occasione della Giornata della Memoria (domenica pomeriggio i primi appuntamenti presso la Comunità Ebraica: alle 15.30 la presentazione del libro 'Uno scrittore in guerra' di Vasilij Grossman, con Betty Massera e Valentina Parisi; alle 17 la cerimonia dell'accensione dei lumi) pubblichiamo un interessante saggio che ci ha inviato lo storico Sergio Favretto sulla presenza degli ebrei in Piemonte nel biennio 1943-45 con alcuni interessantissimi documenti inediti sulla confisca e sequestro dei beni ebrei a Casale Monferrato.

di Sergio Favretto

 Nuove risultanze
 
Documento 1
 
Documento 2
 
Documento 3
 
Lo storico Sergio Favretto
  Dopo mesi di ricerca, sono stati rinvenuti interessanti documenti sulla confisca e sequestro dei beni, mobili ed immobili, appartenuti alle famiglie ebree e alla comunità israelitica di Casale Monferrato e Moncalvo.
I beni vennero requisiti nel '44 in esecuzione delle leggi razziali e dei provvedimenti fascisti adopera della RSI e del Comando Militare Tedesco di Casale Monferrato.
Coltivando un saggio storico-giuridico sulla comunità israelitica casalese, sono stati rinvenuti alcuni documenti significativi presso l'archivio storico della Compagnia San Paolo di Torino.
Sotto la guida della dott. Ilaria Bibollet, direttrice dell'Archivio storico, ho attentamente visionato e tratto informazioni dal fascicolo appartenente al fondo GES-Gestione ebraici sequestrati, Comunità israelitica di Casale e sezione di Moncalvo. Si tratta del fascicolo ASSP, Ges\283 Al.
La documentazione, poco nota, è lì giacente perché l'EGELI (Ente gestione e liquidazione immobiliare), creato nel '39 per gestire ed amministrare sequestrati e confiscati dal Regime e dai tedeschi occupanti, affidò al Credito Fondiario dell'Istituto San Paolo di Torino la gestione dei beni sequestrati agli ebrei di Casale e Moncalvo.
All'interno dell'Istituto San Paolo venne creato un servizio tecnico preposto alla gestione beni ebraici.
Nell'Archivio storico è custodita una fitta corrispondenza intervenuta fra la succursale della Banca a Casale e gli uffici torinesi, fra l'ufficio tecnico e la comunità israelitica di Casale e Moncalvo; vi si trovano elenchi, precise e puntuali descrizione dei beni confiscati, note e piantine degli immobili componenti il ghetto ebraico, descrizione dei cimiteri di Casale e di Moncalvo, inventari dei conti correnti e depositi bancari, titoli finanziari ed azionari; gli elenchi dei mobili e suppellettili in dotazione alla Comunità israelitica.
Siamo in presenza di un patrimonio documentale di grande rilievo, poco esplorato dagli studiosi, ma utilissimo per ricostruire la rilevanza e l'organizzazione della Comunità di Casale e di Moncalvo.
Nei fascicoli troviamo, ad esempio, il dettagliato verbale con vari allegati delle operazioni di sequestro dei beni tutti della comunità israelitica di Casale e Moncalvo, datato 24 marzo 1944.
Il sequestro avvenne in attuazione del decreto di sequestro n. 2808 Div. Io del 7 febbraio 1944 emesso dal Capo della Provincia di Alessandria, decreto che aveva pure dichiarato sciolta la comunità israelitica di Casale e Moncalvo.
Nel verbale vengono descritti e inventariati tutti i beni immobili, con allegata planimetria; il tempio israelitico a Casale e le costruzioni annesse sono ben circostanziate, vano per vano e con tutte le peculiarità costruttive; i possedimenti a Moncalvo, con indicazione del cimitero e del bosco ceduo, di una baracca di buona costruzione adibita dal custode, di un grande salone sulla piazza di Moncalvo adibito a tempio, ma di proprietà di Foa Moise.
Vi è un capitolo sui beni mobili, dagli arredi alla strumentazione di culto. Si fa cenno ad un furto subito dalla comunità nella seconda settimana del dicembre 1943, con sparizione di varia argenteria, arredi per il culto, materassi ecc.
Nel verbale si descrive tutto l'arredo esistente nel tempio israelitico e spazi connessi, dai candelabri ai banchi di legno, dai portalumi ai paramenti, dai tendaggi ai libri, dai letti di infermeria ai grembiulini per bambini, dalle cornici in oro ai quadri dipinti.
Viene particolareggiata la descrizione dell'Arca, dei mobili appartenenti al rabbino dott. Lattes Raffaele, di un armonium fattura Francesco Bruni-Parigi, della biblioteca con più di 1000 libri, di una grande stufa in maiolica Franklin, dei paramenti religiosi a documenti, di arredi di cucina e strumenti di manutenzione e lavoro.
Dalla meticolosa descrizione si ha conferma delle varie attività anche didattiche, educative, assistenziali che la Comunità svolgeva.
Curiosità: al centro del cortile, verso vicolo Broemio vi era una baracca con coperture in Eternit. Sempre a verbale, si annotano i numeri di numerosi libretti al portatore.
Il decreto di sequestro ha esteso gli effetti anche alle somme disponibili e all'attività svolta dalle opere di beneficenza amministrate dalla comunità israelitica: la Comunità Israelitica (già Università Israelitica), Opera di beneficenza Israelitica, Opera Pia Istituzione Franchetti, Opera Pia Clava, Confraternita Hesrad-Holim, Società Arte e Mestieri, ex Confraternita di Moncalvo.
La presenza di varie attività sociali, di beneficenza e di assistenza educativa e sanitaria, confermano come la Comunità fosse radicata nel territorio; presente nel ghetto, ma anche fuori dal ghetto.
All'atto del sequestro, la Banca Popolare di Novara era il tesoriere della comunità israelitica.
Dopo il sequestro, i locali vennero chiusi e sigillati. Vietato l'accesso e l'uso. Venne concesso il diritto di abitazione solo al capitano Vigo Giuseppe.
Attingendo sempre ai fascicoli dell'Archivio storico Compagnia San Paolo, si apprende e si ritrova il verbale di requisizione da parte del Comando Militare Germanico dei mobili contenuti nello stabile della Comunità israelitica di Casale.
La requisizione avvenne in data 7 ottobre 1944; nel verbale si fa cenno al precedente sequestro avvenuto in data 24 marzo 1944.
Alle operazioni presenziarono: il capitano Dauth dell'Ortslazarett-Feldpost 09624, i rag. Andrea Cappellano e Ardito Giuseppe funzionari dell'Istituto San Paolo di Torino, la guardia municipale Piatti Pietro. Il verbale ha la firma e timbro del capitano tedesco Dauth.
Dopo la Liberazione, il Prefetto Pivano, in data 23 giugno 1945 emise decreto n. 8771 Div. Io di totale revoca del sequestro dei beni della comunità israelitica con obbligo alla restituzione ai legittimi proprietari.
Dopo il decreto di revoca del sequestro, si sviluppò una significativa corrispondenza fra il dott. Capello della Direzione Generale del San Paolo di Torino, la succursale di Casale e la comunità israelitica in persona del Presidente prof. Giuseppe Ottolenghi per giungere all'acquisizione della varia documentazione finanziaria e contabile, all'effettiva rimessione in possesso dei beni requisiti e sequestrati fa fascisti e tedeschi.
In una lettera del 3 dicembre 1947, il Direttore Generale della Banca San Paolo di Torino dott. Capello scriveva alla Comunità israelitica rammentando le leggi razziali e persecutorie nei confronti degli ebrei testualmente " in applicazione dei provvedimenti adottati sotto l'impero del sedicente governo della repubblica sociale italiana."
Per una disanima attenta degli effetti della legislazione antiebraica a Torino, si deve consultare i saggi "L'ebreo in oggetto. L'applicazione della normativa antiebraica a Torino: 1938-1943" edita da Zamorani, Torino 1991; ovvero, "Le case e le cose. La persecuzione degli ebrei torinesi nelle carte dell'EGELI: 1938-1945" edito dalla Compagnia di San Paolo, Quaderni dell'Archivio Storico.
Merita segnalazione, per l'originalità e il dettaglio della ricerca, la tesi di laurea di Paola Monzeglio, discussa con il relatore prof. Gianni Perona alla facoltà di Scienze della formazione, Laurea in Storia Contemporanea, Università di Torino, nel 1998, con il titolo "La comunità ebraica casalese dalle leggi razziali alla persecuzione nazista".

 Il contesto
  Tutto ciò fu possibile a Casale, perché la polizia locale ed i militi del RSI assicurarono, in realtà, alle truppe tedesche occupanti ogni appoggio operativo alle varie campagne antisemite.
" Il Monferrato" del 17 settembre del 1938 diede la notizia come alcuni insegnanti ebrei fossero stati esonerati dall'incarico: il prof. Raffaele Jaffe dovette lasciare la presidenza del Magistrale Lanza e la prof. Levidalli lasciare il posto di docente all'Istituto Tecnico Leardi.
Nell'anno scolastico '38-'39 a Casale, ben quindici alunni vennero allontanati dalla scuola pubblica.
A livello nazionale, espliciti criteri per definire chi fosse ebreo o dovesse ritenersi tale vennero introdotti dalla Dichiarazione sulla razza, ovvero, Carta della razza, approvata dal Gran Consiglio del fascismo del 6 ottobre 1938; completa il quadro, poi, il r.d.l. 17 novembre 1938 n. 1728, "Provvedimenti per la difesa della razza italiana". Quasi tutti i provvedimenti furono assunti con la forma dei regi decreti legge, tecnica legislativa prevista per normare situazioni di urgenza. La campagna razziale antiebraica ebbe complici attivi alcuni giornali locali.
"La Gazzetta di Casale" fece eco alle leggi e disposizioni repressive; giunse a pubblicare un elenco di 27 ditte da boicottare perché di proprietà israelitica. Il giornale invitò i veri fascisti a non comperare i dolci nella pasticceria di Elia Carmi, a non acquistare tessuti e gioielli nei negozi di Foa e sotto i portici di via Roma.
Presso i locali della comunità ebraica, era stata attivata la scuola per gli alunni fino ai quindici anni. Era diretta da Gioconda Carmi, sostenuta dai pochi ebrei rimasti a Casale e da collaborazioni di amici.
Presso la scuola di Casale trovarono ospitalità una quindicina di alunni ed orfani provenienti dalla comunità di Torino, obbligati al trasferimento per i bombardamenti subiti. Del gruppo faceva parte Emanuele Pacifici, figlio dell'allora rabbino capo di Genova e padre di Riccardo Pacifici, attuale presidente della comunità di Roma.
All'alba del 29 settembre '43, la signora Giuseppina Gusmano Pretti, fidatissima collaboratrice della scuola di Casale, raccolse l'informazione di un'imminente cattura da parte delle SS di tutti i bambini ebrei. Avvertì la direttrice Gioconda Carmi e si offrì di ospitare tutti i bambini a casa sua, in salita S. Anna. A piccoli gruppi, a distanza di alcune ore, i bambini furono accompagnati a casa Gusmano. Alcuni amici, con grande riserbo, donarono subito materassi e coperte, sedie e tavoli.
La Gusmano ospitò per alcuni giorni, nella propria grande sala da pranzo, una ventina di persone; diede cibo e sostegno morale. I vicini di casa, prima allarmati, furono poi coinvolti nella rischiosa operazione. Il marito Felice e la figlia Dirce collaborarono attivamente. Le SS non seppero mai del nascondiglio. I bambini tornarono a Torino nel giro di dieci giorni.
Il gesto coraggioso della signora Gusmano venne ricordato dalla comunità ebraica di Torino nel 1961, con una significativa riconoscenza. Nel 2005, sempre a Torino, venne editato da Comune, Associazione figli della Shoah ed Istituto Storico Resistenza di Torino un opuscolo dal titolo "Quando s'inizia? Insegnare Auschwitz nelle scuole elementari". In esso si rievocano i fatti coraggiosi della Gusmano Pretti. La signora Gusmano morì nel 1997.
In data 11 ottobre 2000, la signora Giuseppina Gusmano Pretti ed il marito Felice Pretti furono riconosciuti come Giusti tra le Nazioni da Yad Vashom, con dossier 2641.
La vicenda è narrata da Emanuele Pacifici nel libro autobiografico Non ti voltare, edito da Giuntina, Firenze 1993.
La polizia locale ed i militi del RSI assicurarono, in realtà, alle truppe tedesche ogni appoggio operativo alle varie campagne antisemite. Ad inizio '44, il commissario di PS Maiocco, con la collaborazione del segretario politico fascista Bacco e del console Imerico, con l'inganno, raccolse l'elenco completo dei pochi ebrei ancora residenti, anziani, ammalati; venne promessa la loro esclusione dalla deportazione.
L'elenco venne, invece, dato alle SS per i futuri arresti.
A Casale, da febbraio a maggio '44, furono arrestati 18 ebrei, inviati poi nel campo di Fossoli di Carpi, poi alle Nuove di Torino, infine in Germania. Solo un ebreo catturato tornò in Italia: Emilio Foa.
Gli ebrei arrestati e inviati ai campi di sterminio nazisti furono: Faustina Artom, anni 73; Vittorina Artom, anni 75; Isaia Carmi, anni 58, già consigliere comunale; Carlo Cohen Venezian, anni 59; Riccardo Fiz, anni 74; Roberto Fiz, anni 70; Matilde Foa, anni 54; Raffaele Jaffe, anni 66; Augusta Jarach, anni 67; Federico Simone Levi, anni 66; Vittorio Levi, anni 41; Erminia Morello, anni 58; Corrado Mortara, anni 32; Lino Muggia, anni 66, Giuseppe Raccah, anni 69; Bianca Salmoni, anni 60; Cesare Davide Segre, anni 57; Sanson Segre, anni 85; Giulia Rosa Segre, anni 56; Moise Sonnino, anni 79; Eugenia Allegra Treves, anni 73; Sharja Gruzdas, anni 40.
Drammatica la vicenda del dott. Riccardo Fiz: venne prelevato ed arrestato dal letto dell'Ospedale, dove giaceva vecchio ed infermo. Arturo De Angeli (esponente e segretario della comunità ebraica nel primo dopoguerra) riuscì a scappare con la sorella ed i genitori, trovando rifugio fra le colline.
All'elenco, vanno aggiunti molti altri casalesi ebrei che vennero arrestati in altre località italiane, perché già avevano abbandonato la comunità casalese. Anche a Casale, a seguito delle circolari prefettizie e degli ordini impartiti dagli organi di polizia, gli ebrei videro sempre più limitate le libertà personali, con sequestro delle radio, con controlli domiciliari notturni, con improvvise convocazioni alla sede del fascio, con minacce e schiaffi lungo le vie della città, con precettazioni nei campi di lavoro. Vi sono molteplici testimonianze che confermano come presso la Sanber (fabbrica di sacchetti per il cemento) della famiglia Berutti vennero obbligate a lavorare alcune donne ebree, in circostanze e con modalità penalizzanti. Gli uomini, invece, vennero quasi tutti obbligati a lavorare presso la Cartiera Burgo, verso Frassineto Po, in opere di piantumazione e disboscamento. Durante i bombardamenti che colpirono Casale nell'agosto '44, venne colpita una via attigua al ghetto. I repubblichini impedirono i soccorsi; si perse tempo, vi furono vittime; chiaro l'ostracismo verso gli ebrei.
Con il decreto legge n. 2 del 4 gennaio 1944 venne definito il nuovo regime dei beni dei sudditi nemici e degli ebrei. I beni avrebbero dovuto essere acquisiti alla gestione dell'EGELI (Ente di gestione e di liquidazione immobiliare).
Gli israeliti non potevano più essere proprietari o gestori d'aziende, di terreni, di fabbricati; non potevano possedere titoli, valori e crediti. Vennero previste pene per coloro che, debitori di ebrei o detentori di cose di proprietà degli ebrei, non avessero formalizzato esplicita denuncia o avessero nascosto i beni per evitare la loro confisca.
L'EGELI affidò l'incarico alla Banca San Paolo di Torino, alla Banca Commerciale, alla Cassa di Risparmio di Torino, al Credito Italiano, alla Cassa di Risparmio di Alessandria. Con specifiche circolari, il Ministero e la Prefettura coordinarono l'attività, coinvolgendo anche primarie assicurazioni.
A Casale, la filiale di Assicurazioni Generali, con agente generale il console fascista Luciano Imerico, incassò quote di premio di polizze maturate o maturande di ebrei, presenti ancora a Casale e non deportati.
Imerico acquisì ed utilizzò il negozio di tessuti di Ettore Muggia, fuggito da Casale a fine '43.
La criticità della presenza degli ebrei a Casale, le gravi violenze subite e loro progressiva marginalizzazione dalla vita sociale, motivarono una costante solidarietà del mondo cattolico. Molti ebrei vennero informati in tempo utile per la fuga, furono aiutati per le necessità economiche, assistenziali; furono ospitati in canoniche, in cascine.
Il Vescovo Giuseppe Angrisani sostenne e promosse, con la dovuta cautela per evitare il sospetto delle truppe tedesche distribuite sul territorio, l'ospitalità alle famiglie ebree.
I parroci Don Michelone a Moransengo, Don Gilardi a Marcorengo e Don Gilardino a Brozzolo furono accusati di favoreggiamento nei confronti dei partigiani. Per parecchi mesi vissero tra le colline, nei nascondigli dei partigiani.
Don Michelone aiutò molto gli ebrei fuggiti dalle città; li nascose e li sostenne per mesi. Don Martino Michelone nacque a Morano Po il 6 giugno 1907 da papà Martino e mamma Adele Bazzano. Venne ordinato sacerdote da Monsignor Pella il 28 giugno 1931. Fu parroco a Morasengo dal 1936 al 1979, quando decedette il 6 novembre 1979. Don Martino Michelone, parroco a Moransengo nel '43-'45, nascose nella propria canonica la famiglia degli ebrei Segre di Casale Monferrato.
La famiglia di Segre Riccardo, composta dalla moglie Angela, il figlio Luciano e la zia Elvira, gestivano a Casale, in via Roma, un negozio di tessuti.
I tedeschi diedero la caccia, i fascisti sequestrarono beni e negozio. Don Michelone conobbe i Segre acquistando tessuti. Offerse subito ospitalità, coinvolgendo in modo riservato la popolazione.
Per mesi sottrasse la famiglia Segre alla cattura ed alla deportazione. Luciano (nato a Casale nel 1933) fungeva anche da chierichetto a Don Michelone. Per iniziativa di Gad Lerner, dopo anni di istruttoria, Don Michelone è stato insignito del titolo di "Giusto fra le Nazioni".
La vicenda che ha visto coinvolto don Martino Michelone e la famiglia di Luciano Segre, si colloca all'interno di altri eventi che hanno positivamente caratterizzato la storia resistenziale del nostro Monferrato.
Anche l'avv. Giuseppe Brusasca, nato a Cantavenna Monferrato, cattolico popolare e convinto antifascista, vicepresidente del CNL Alta Italia a Milano, con la collaborazione coraggiosa della signora Giovanna Mazzone ( fondatrice di varie opere caritatevoli a Casale Monferrato) aiutò famiglie ebree a fuggire e li sostenne; fu titolato anch'egli " Giusto fra le Nazioni".
Tutto fu possibile perchè vi era una popolazione attenta e sensibile verso gli ebrei, perchè il vescovo Angrisani seppe tessere fra i vari parroci una efficace rete di collaborazione, nonostante la massiccia presenza dei tedeschi nel Monferrato.

 Conclusioni
  La documentazione rintracciata e la sommatoria dei vari eventi già ricostruiti ci permettono di definire un paradigma storico sulle vicende della comunità israelitica di Casale Monferrato:
- la comunità venne gradualmente e inesorabilmente annientata, dal '39 al '44.
- alcuni docenti dovettero rinunciare all'incarico, molti studenti dovettero lasciare la scuola pubblica.
- molti ebrei vennero arrestati, portati a Fossoli e poi in Germania, nei campi di sterminio e non tornarono; altri dovettero scappare, rifugiarsi in Svizzera.
- famiglie ebree trovarono ospitalità in canoniche, in asili e collegi cattolici.
- con manifesti e comunicati, la popolazione venne invitata a non frequentare negozi ed artigiani ebrei, a non intrattenere rapporti commerciali con gli ebrei. Si bloccarono le attività economiche delle famiglie e degli esercizi commerciali ebrei.
- i fascisti della RSI sequestrarono beni immobili e mobili, risparmi e conti correnti, in esecuzione di decreti di epurazione e confisca.
- il Comando Militare Tedesco procedette a requisizione e sequestro di beni nella comunità israelitica di Casale e Moncalvo.
- dopo l'intervento della RSI e del Comando Militare Tedesco, cessarono anche le attività educative-scolastiche private e di beneficenza che la comunità israelitica aveva avviato.
I fascisti casalesi e i tedeschi occupanti non esitarono, non furono affatto tiepidi: attuarono, mese dopo mese, con modalità differenti e gravi, una concreta politica di annientamento della comunità israelitica. Non fu mera obbedienza agli ordini o alle leggi, ma consapevole ostracismo e violenza psicologica e fisica.

(Casalenews, 23 gennaio 2016)


Un albero per Toscanini che aiutò i musicisti ebrei

ROMA - Un albero per ricordare il maestro Arturo Toscanini, grande non solo nella musica, ma anche nel suo impegno contro fascismo e nazismo e per il supporto che ha dato ai musicisti ebrei perseguitati, in un momento in cui «l'Europa era violentata dalle dittature». Da oggi i giardini pensili dell'Auditorium Parco della musica ospitano il tributo reso a uno dei più famosi direttori d'orchestra di sempre con un albero di sughero donato dalla presidenza della Repubblica e piantato alla presenza del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Con il ministro, anche il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche, Renzo Gattegna, il presidente di Gariwo, Gabriele Nissim, il sovrintendente di Santa Cecilia, Michele dell'Ongaro, l'ad della fondazione Musica per Roma, Josè Dosai, e il prefetto di Roma, Franco Gabrielli. «Sono lieto e onorato di questa cerimonia per Toscanini- ha detto Gattegna- un grande maestro e direttore d'orchestra, ma soprattutto un grande uomo. In un periodo in cui era difficile combattere le dittature, con la sua arte Toscanini non si limitò solo alla parola, ma ad azioni concrete».

(Il Tempo, 23 gennaio 2016)


Frank London & The Glass House Orchestra al Manzoni di Milano

di Pierangela Guidotti

 
Frank London
MILANO - "Aperitivo in Concerto" presenta domenica 24 gennaio, alle 11.00, un appassionato omaggio alla Giornata della Memoria (27 gennaio) da parte di un grande artista: Frank London, acclamato trombettista, popolare solista dei Klezmatics, poeta della cultura musicale yiddish, che, con The Glass House Project, ricorda le vittime della Shoa in Ungheria nel 1944 e la famosa Glass House (Casa di Vetro, Üveghàz), in cui il diplomatico svizzero Carl Lutz (1895-1975), a Budapest, dette rifugio a migliaia di ebrei salvandone 62.000 dalla deportazione verso i campi di concentramento nazisti.
   Accompagnato da artisti straordinari provenienti dall' America (il chitarrista Aram Bajakian e il contrabbassista Pablo Aslan), dall'Ungheria e da Israele, London (che ha raccolto per l'occasione musiche appartenenti alla tradizione ebraico-ungherese) ripercorre le vicende di Lutz e della Casa di Vetro, facendo uso di una molteplicità di antiche fonti musicali ebraiche e zingare creando un affresco intenso, lirico e appassionante.
   L'impresa di Lutz, ora riconosciuta come lo sforzo di salvataggio più grande che sia stato intrapreso nell'Europa dominata dai nazisti, per oltre cinquant'anni è rimasta chiusa tra gli archivi governativi e i documenti di famiglia. La biografia racconta come Lutz, console svizzero a Budapest dal 1942 al 1945, abbia sfidato tutte le regole diplomatiche rilasciando documenti di protezione per decine di migliaia di ebrei ungheresi mettendo a rischio la propria vita.
   La realtà più incredibile è che in Svizzera quasi nessuno conosce Carl Lutz, nessuno si è battuto perché i suoi meriti venissero riconosciuti prima della morte, avvenuta nel 1975, anche se si tratta di uno dei più grandi eroi che la Confeedrazione abbia mai avuto, un diplomatico di origini appenzellesi che con l'unico aiuto della moglie riuscì a strappare ai campi di concentramento e alle feroci "croci frecciate", i fascisti dell'Ungheria nazista, migliaia di ebrei.
   Tutto comincia nel 1942, quando il 47enne Carl viene nominato viceconsole presso l'ambasciata svizzera a Budapest e si trasferisce nella capitale ungherese con la moglie Gertrud. La sua prima azione, avendo compreso il destino riservato dai nazisti agli ebrei, è far emigrare diecimila bambini, in collaborazione con l'Agenzia ebraica per la Palestina. Nel marzo del 1944 Budapest viene occupata dalle truppe tedesche e il famigerato ufficiale delle SS Adolf Eichmann dà il via alla deportazione di massa degli ebrei ungheresi. Vagoni blindati, marce forzate verso Vienna decimano la popolazione del ghetto. In questo inferno Lutz ha un'idea: emettere un numero inverosimile (molto più alto del consentito) di "Schutzbriefe", "lettere di protezione" che garantiscano al possessore la tutela diplomatica di Berna. Tra la popolazione ebraica si scatena così una vera caccia alla "Schutzbrief" e non poche furono quelle falsificate. La figlia adottiva ricorda un momento particolarmente drammatico, quello in cui Carl e la moglie Gertrud vengono obbligati dalle SS a riconoscere le vere Schutzbriefe da quelle false. Il loro giudizio decise della vita e della morte di molti ebrei, una scelta dolorosissima cui purtroppo non poterono sottrarsi, pena rappresaglie dei nazisti sugli altri ebrei da loro protetti.
   Lutz aveva esteso la tutela elvetica anche a una sessantina di palazzi di Budapest e a una ex fabbrica di vetro ("la casa di vetro"), edifici che avevano ottenuto lo status di extraterritorialità che ospitavano migliaia di ebrei protetti dalle Schutzbriefe. Varie volte dovette intervenire a rischio della vita per impedire in extremis retate delle "croci frecciate", riuscendo, quasi per miracolo, a mantenere l'inviolabilità diplomatica di quei palazzi fino all'arrivo dell'Armata Rossa e al crollo del regime nazista nel 1945.
   Fonti ebraiche stabilirono che il sistema ideato da Lutz aveva salvato oltre 62mila ebrei e, nel 1964, Israele nominò lui e Gertrud (da cui nel frattempo aveva divorziato) "Giusti tra le nazioni". Silenzio e imbarazzo invece da Berna: più volte, anzi, il Ministero degli Esteri accusò Lutz di aver abusato del suo ruolo, arrivando a mettere in pericolo la neutralità elvetica. Nel 1975, il viceconsole morì amareggiato per non aver ottenuto alcun riconoscimento ufficiale; Gertrud morì d'infarto nel 1995, proprio mentre si recava da Berna a Zurigo in treno per partecipare a una trasmissione della Televisione della Svizzera Tedesca che, finalmente, avrebbe dovuto spiegare agli svizzeri i meriti suoi e del marito.

(Milano Post, 23 gennaio 2016)


Lev, un bambino ebreo in viaggio verso Londra

di Arianna Di Genova

L' operazione «Kindertransport» fu quella missione diplomatica che preparò la fuga e la risistemazione presso famiglie affidatarie (spesso rurali) della Gran Bretagna di diecimila bambini ebrei, ali' entrata in vigore delle leggi razziali naziste. Cinquanta sterline per ogni «accoglienza» e spese pagate di mantenimento e alloggio: l'Inghilterra accettò e in molti, attraverso varie peripezie, riuscirono a lasciare una Germania in fiamme, dove gli attacchi agli ebrei erano divenuti quotidiani e sempre più minacciosi.
   Naturalmente migliaia e migliaia di ragazzini che cambiano paese, identità, scuola, abitudini fanno la Storia e intrecciano le loro vicende private a quelle collettive, costruiscono una narrazione dell'epoca da un punto di vista particolare e, in questi tempi di migrazioni forzate e di esodi drammatici aiutano a non far snocciolare solo numeri «umani» senza alcuna emotività, ma a raccontare la nostalgia, la paura, la crescita improvvisa e obbligata, la lontananza dai genitori, la solidarietà trovata per caso in persone estranee, insomma la «fisicità» della vita vera.
C'è un albo per i lettori alle prime armi, mandato in libreria da Gallucci editore, che riesce bene in questo intento di affabulazione non asettica, provocando risonanze interiori e sollevando ricordi: è Lev (pp. 32, euro 13) di Barbara Vagnozzi, autrice dei testi - tradotti anche in inglese - e dei disegni, che riprendono il tratto delle illustrazioni e dei cartoni animati anni Quaranta, soprattutto quelli prodotti nell'Est Europa. Lev Nelken, nato a Breslau nel 1926 e venne «traghettato» a Londra nel '39, con uno degli ultimi viaggi salvifici prima di quelli «dannati». Fu la sorella Hannah il suo angelo custode: lei raggiunse prima l'Inghilterra e poi, per racimolare i soldi necessari alla partenza del fratello, cominciò a cucire e ad attaccare bottoni in modo quasi ossessivo tanto da conquistare la stima della padrona della sartoria e indurla a fare una colletta fra le amiche.
   Così, Lev a 13 anni saluta i genitori alla stazione, li rivedrà molti anni dopo. Oltretutto, un soldato tedesco gli requisisce l'unico souvenir della sua infanzia, la valigia con l'amata collezione di francobolli. Da quel momento, dovrà diventare grande senza «stampelle affettive», mangiando minestre con fango, resistendo all'angoscia e allo smarrimento. Lo farà studiando ingegneria civile e integrandosi nella nuova metropoli. È sua la nuova costruzione del Covent Garden Market. Poi, una volta adulto, con sua moglie Reva, avrà due figli, nove nipoti e molti altri pronipoti. I nazisti hanno perso su tutti i fronti con lui e i «suoi».
   Lev e suo figlio David hanno vinto la reticenza e affidato la loro storia ai posteri, il teatro delle Ariette l'ha mandata in scena, Vagnozzi l'ha regalata, con la sua intensità poetica, ai bambini del mondo.

(il manifesto, 23 gennaio 2016)


Quando Ebrei e Polacchi arrivarono nel Salento

di Francesco Greco

 
Ebrei in marcia al campo di Santa Maria al Bagno, Nardò (LE)
LECCE - Con la fine della guerra, paradossalmente, la diaspora di Ebrei e Polacchi divenne più acuta e dolorosa. Scampati ai campi di sterminio di Dachau, Auschwitz o Treblinka, gli Ebrei giunsero nel Salento con un sogno nel cuore: la Palestina. I Polacchi, invece, non vollero tornare in patria perché temevano Stalin, che aveva fatto seppellire nelle fosse di Katyn (1940) la migliore gioventù e non aveva mosso un dito per difendere Varsavia dai nazisti (1944). Anche loro sbarcarono in Salento. Aprirono scuole di ogni tipologia con l'intento di preparare la classe dirigente del futuro e poi fare ritorno.
  Alla vigilia della Giornata della Memoria, ne parliamo con la scrittrice pugliese Tina Aventaggiato, che ha approfondito queste tematiche nel romanzo storico "L'occhio guarda a Sion", appena pubblicato (gennaio 2016) da Salomone Belforte, editore in Livorno sin dal 1805.

- Domanda: Dottoressa Aventaggiato, da dove venivano e perché gli Ebrei giunsero nel Salento?
  
Gli Ebrei che, dal 1945 al 1947 sostarono nel Salento, erano quelli sfuggiti alle persecuzioni naziste. Alla fine della guerra, tutti i campi di prigionia, di lavoro e di sterminio venivano chiusi e i prigionieri aiutati dagli Alleati a tornare a casa, nei loro paesi. Molti Ebrei sopravvissuti non vollero tornare nei luoghi, specie in Germania, dove l'amico li aveva traditi e il vicino di casa venduti per poche lire o per impossessarsi dei loro beni.
  L'orrore nazista aveva creato in loro un grande bisogno di sicurezza che dava nuovo vigore al sogno mai sopito della Terra Promessa. Questo produsse un grande moto migratorio verso la Palestina e perciò verso i porti dell'Europa meridionale, da cui speravano di imbarcarsi e raggiungere la Palestina, anche illegalmente.
  I campi profughi del Salento furono i campi con maggiore concentrazione di Ebrei dell'Europa dell'Est. I campi furono il n. 36 a Santa Cesarea Terme; campo n. 39 a Tricase Porto; campo n. 35 a Santa Maria di Leuca; campo n. 34 il territorio costiero di Nardò, soprattutto Santa Maria al Bagno e Santa Caterina.

- Perché alla fine della guerra c'erano tanti Polacchi in Terra d'Otranto?
  
La domanda è perché i Polacchi alla fine della guerra restavano nel Salento invece di tornare, come tutti i soldati, a casa loro. Non tornavano in Polonia perché rifiutavano il nuovo governo comunista. L'anticomunismo polacco era di lunga data, ma era stato alimentato ulteriormente dalle vicende della seconda guerra mondiale, l'eccidio di Katyn nel 1940 e la distruzione di Varsavia da parte dei nazisti nel 1944 mentre l'Armata Rossa restava a guardare senza aiutare gli insorti polacchi.
  I Polacchi accusavano Stalin di aver ucciso la classe dirigente polacca (Katyn) e di aver permesso la sua eliminazione da parte dei nazisti nel 1944. La Polonia comunista privò Anders e 75 ufficiali polacchi della cittadinanza polacca dal 26/09/1946.
  Militari polacchi alloggiavano nei Comuni di Campi Salentina, San Pietro in Lama, Diso, Castro, Marittima, Squinzano, Galatina e Andrano. Nardò ospitò un Ospedale militare. Hanno funzionato Scuole Medie e di specializzazione umanistica a Alessano e a Matino; di agricoltura a Lecce; per ferrovieri del genio polacco a Maglie; a indirizzo scientifico-matematico a Casarano; Scuole militari a Galatone e a Gallipoli dove c'era anche il Comando.

- Perché così tante scuole lontani dalla patria?
  
Aprirono in Occidente una rete di scuole, "la piccola Polonia", con lo scopo di creare velocemente una generazione colta di Polacchi che fosse in grado di governare il Paese quando il governo comunista fosse caduto.

- I Salentini come accolsero gli uni e gli altri?
  
I documenti lasciati dagli Ebrei testimoniano che il loro soggiorno nel Salento è stato di rinascita: vivevano finalmente in case vere, al mare e al sole. La sensazione di essere rinati deve presupporre che si sentissero ben accolti. Sappiamo che c'erano scambi di prodotti alimentari tra Ebrei e Salentini. I prodotti a lunga conservazione (scatolame, cioccolata, latte e uova in polvere, ecc...) forniti dall'Unrra (acronimo di United Nations Relief and Rehabilitation Administration) agli Ebrei erano scambiati con i prodotti freschi dei contadini (pomodori, verdura, frutta fresca).
  Le sarte salentine cucivano o adattavano i vestiti che arrivavano nei campi dalle organizzazioni assistenziali. Le testimonianze dei Salentini mostrano che questa vicinanza produceva curiosità su come gli Ebrei vestivano (le donne in pantaloni!), mangiavano, i loro matrimoni, i battesimi.
  La diffidenza che ci si aspetta di trovare verso un popolo che, nella vulgata comune del Salento cattolico e della propaganda fascista, aveva ucciso Cristo, non c'è nei ricordi dei Salentini che sono entrati in contatto con loro. Bisogna aggiungere però che i proprietari delle case requisite per ospitare gli Ebrei, si adoperarono in vari modi per farli spostare altrove e tornare in possesso delle loro case.
  La chiara disposizione all'accoglienza della popolazione contadina del Salento è confermata dai rapporti che questa ebbe con i Polacchi: rapporti amichevoli, innamoramenti, feste in comune.
  D'altro lato, nell'immaginario collettivo del Salento, è ancora vivo il sentimento che i Polacchi fossero fascisti. Sentimento alimentato dal fatto che all'esercito polacco furono affidati, a fine guerra, compiti di ordine pubblico e nelle elezioni del 1946 alcuni Polacchi furono coinvolti in forme di repressione nei confronti di sedi di partiti di sinistra e di Camere del Lavoro.

- Dopo 70 anni, cos'è rimasto di quei passaggi e di quelle etnie?
  
Molto poco: tombe con i nomi polacchi nei cimiteri e pochi ricordi. Il linguaggio porta qualche segno, come il mercato dell'usato a Lecce è ancora il mercato dei Polacchi e a Poggiardo, tutt'ora, andare dagli Ebrei significa andare nella parte del mercato settimanale riservato all'usato.
  Ma i segni che il Salento sta cercando con determinazione di ricostruire questo momento storico sono evidenti. Pubblicazioni ed eventi che disegnano la nostra identità si moltiplicano. L'assenza del Salento dai libri di Storia ci pesa e stiamo cercando il nostro posto all'interno dei grandi eventi. La scuola chiede Storia. Il Salento ha bisogno di definire la propria identità portando alla luce le orme che ha lasciato nella Storia.

(Giornale di Puglia, 23 gennaio 2016)


Il bravo dottore

Hans Asperger ha scoperto l'autismo. Ma ora un libro lo accusa di aver preso parte all'eutanasia nazista dei bambini a Vienna.

di Giulio Meotti

La clinica Spiegelgrund a Vienna dove si eseguivano le eutanasie infantili sotto il nazismo
Hans Asperger è considerato un benefattore dell'umanità. E' stato lui, alla fine degli anni Trenta, a coniare la parola "autismo", quando formulò l'espressione "Autistischen Psychopathen": psicopatici autistici. Fu lui a dare il proprio nome alla "sindrome di Asperger", la cui giornata viene celebrata il 18 febbraio ogni anno e in tutto mondo.
   Indica le persone che hanno interessi singolari, ossessivi, ristretti, che sono maldestri nei movimenti, che usano spesso un linguaggio pomposo, che sono pedanti, privi di senso dell'umorismo. Si tratta, infatti, di un disturbo pervasivo dello sviluppo mentale che si manifesta nell'incapacità di interagire socialmente. Chi ne è affetto è segnato da un comportamento goffo, da scarso coordinamento dei movimenti, dall'incapacità di capire gli stati d'animo e i sentimenti delle persone che si relazionano con lui. Come il matematico britannico Alan Turing, interpretato recentemente da Benedict Cumberbatch nel film "The Imitati on Game".
   Adesso un libro in uscita negli Stati Uniti, dal titolo "In a Different Key, The Story of Autism", getta una luce nuova, sinistra, sul bravo dottore, il pioniere delle malattie comportamentali. Gli autori, John Donvan e Caren Zucker, sono due giornalisti americani che hanno trascorso molti anni a collezionare i documenti e le carte per questa loro storia dell'autismo.
   Basandosi su materiale documentario d'archivio scoperto da uno storico austriaco, i due non ritraggono Asperger come il pediatra gentile che fece del suo meglio per proteggere i suoi insoliti piccoli pazienti autistici elogiando il "loro potenziale", ma come un medico che fu conforme alla politica nazista di uccidere i suoi "improduttivi" cittadini disabili, in nome dell'eugenetica. Ci sono ordini medici in cui appare la firma di Asperger che decise di mandare bambini profondamente disabili in un ospedale di Vienna, dove era ben noto che un regime eutanasico di routine avrebbe portato alla loro morte precoce.
   Centinaia di bambini austriaci malati, con malformazioni o portatori di handicap di vario tipo, furono uccisi dai nazisti fra il 1940 e il 1945 in una clinica di Vienna: in quei cinque anni furono ben 772 i bambini eliminati perché ritenuti "non degni di vivere" all'Am Spiegelgrund. Dei loro organi - in particolare cervelli e midollo spinale - i nazisti si servivano poi per condurre "ricerche scientifiche". Lo Spiegelgrund costituiva una parte dell'attuale ospedale psichiatrico Baumgartner Hohe di Vienna, dove i bambini venivano uccisi in vario modo: o venivano fatti morire di fame o venivano uccisi con dosi potenti di medicinali o con esperimenti di nuovi farmaci.
   Uno dei medici responsabili di tali atrocità, Heinrich Gross, è morto a Vienna ultraottantenne, stimatissimo psichiatra e studioso, mentre Ernst Illing, il primario dello Spiegelgrund, fu condannato a morte da un tribunale di Vienna nel 1945. Gli amici socialdemocratici di Gross avevano perfino fondato per lui l"'Istituto Ludwig Boltzmann per la ricerca delle deformazioni dei sistemi nervosi", da Gross diretto fino al 1989. Ma cosa hanno scoperto Donvan e Zucker di così esplosivo da inchiodare post mortem un famoso pediatra e scienziato come Hans Asperger Una lettera. Una lettera del 1941 rinvenuta negli archivi dello Spiegelgrund, che allora fungeva da autentico centro di sterminio. La lettera è firmata da Asperger, allora capo della Heilpadagogische Abteilung (la clinica universitaria pediatrica di Vienna) ed è indirizzata all'amministrazione dell'ospedale e riguarda la valutazione di una bambina di nome Herta Schreiber. Aveva due anni la piccola, la più giovane di nove figli e soffriva di encefalite. La sua salute non dava segni di miglioramento e la madre la portò dal dottor Asperger. Il famoso medico e scienziato confermò che aveva sofferto di un danno al cervello, che il suo sviluppo mentale si era "fermato", che il suo comportamento si era "disintegrato". Asperger non sapeva che diagnosi formulare, se idiozia o disordine della personalità. Poi quella frase: "Quando è a casa, la piccola è un peso insopportabile per la madre, che deve prendersi cura di altri bambini". Così Asperger decise: "La sua dislocazione permanente allo Spiegelgrund appare come assolutamente necessaria". La lettera era firmata a mano "Hans Asperger". Era una sentenza di morte. Herta venne ammessa allo Spiegelgrund il 1o luglio 1941 e venne uccisa il 2 settembre 1941, il giorno dopo il suo terzo compleanno. Sul certificato di morte fu scritto "pneumonia". In realtà era stata una dose di barbiturici a ucciderla.
   Il caso Asperger sembra dunque ricordarne un altro, quello del professor Hans Joachim Sewering, che nel 1993 fu costretto a dimettersi da presidente dell'Associazione medica mondiale. A inchiodarlo fu un suo ordine scritto di trasferire una quattordicenne handicappata in un centro per l'eutanasia nazista. Nel febbraio 1942 Asperger era il pediatra più anziano che rappresentava la città di Vienna e che doveva vagliare lo stato di salute di 210 bambini austriaci. Di questi, rimasero fuori dalle scuole 26 maschi e nove femmine. Il loro destino venne segnato da Asperger: la morte per eutanasia. II segno "più" significava che il soggetto doveva subire il "trattamento", come si chiamava l'eliminazione, nella terminologia del programma. Il segno "meno" significava che il paziente poteva essere mantenuto in vita almeno per un certo tempo. Quei 35 bambini furono selezionati da Asperger per la "Jekelius Aktion".
   Erwin Jekelius, il fidanzato della sorella di Hitler e direttore dello Spiegelgrund, uno degli architetti della "dolce morte" dei disabili e dei malati nel Terzo Reich. John Donvan e Caren Zucker nel loro libro suggeriscono anche una maggiore affinità tra Asperger e i nazisti di quanto abbiano ammesso finora altri studiosi. Dalla scheda che il partito nazista teneva su di lui, risulta che Asperger era stato più volte giudicato un austriaco di cui le autorità naziste potevano fidarsi. Pur non essendo un membro del partito, veniva considerato come un medico che "rispettava i principi nazisti" nello svolgimento del suo lavoro. In un caso, un funzionario di partito scrisse che Asperger era "conforme ai principi della politica di igiene razziale". Sono state trovate lettere con la calligrafia di Asperger che salutava alla fine con "Heil Hitler". Una prassi non certo obbligatoria.
   E' stata anche trovata una domanda di lavoro compilata a mano da Asperger in cui il medico si candida per l'Associazione dei medici nazisti. Il celebre medico e scienziato, scomparso nel 1980, sembra che abbia dunque partecipato all'uccisione di bambini nei padiglioni pediatrici di Vienna. E non fu certo il solo. La cronaca di quegli anni è piena di luminari della pediatria che parteciparono alle uccisioni. Come Murad Jussuf Bey Ibrahim, un pediatra egiziano, docente all'Università Schiller di Jena, che prese parte alle uccisioni eutanasiche di bambini disabili e oggi dà il nome alla malattia "Beck-Ibrahim" della pelle dei neonati. Come Ernst Wentzler, illustre pediatra a capo della "Operazione T4", che avrebbe inventato persino una incubatrice per i prematuri. Come Werner Catel, pediatra a capo della clinica universitaria di Lipsia che partecipò ai progetti nazisti di eutanasia infantile per la soppressione di bambini portatori di handicap. Nel 1947 divenne direttore della clinica pediatrica Mammolshohe e nel 1954 fu nominato professore di Pediatria all'Università di Kiel, dove si sarebbe affermato come uno dei maggiori pediatri del dopoguerra.
   Ad Auschwitz non mancavano i professori universitari. Come Johann Kremer, docente di Anatomia e Genetica all'Università di Münster, celebre per gli studi sul tessuto muscolare in stato di denutrizione. E ancora oggi le tavole anatomiche più accurate a disposizione della medicina sono quelle elaborate nella Germania di Hitler. E' la storia dei più oscuri eponimi in medicina, i casi di quegli scienziati cioè che danno il nome alle malattie da loro scoperte e che si sono macchiati di crimini terribili. Come "l'artrite di Reiter", dal nome di un medico coinvolto negli esperimenti sulle cavie. Come "la granulomatosi di Wegener", dal nome di un medico che selezionò chi mandare a morte nel ghetto di Lodz.
   Come hanno potuto dei luminari della scienza e della medicina come Asperger, titolari di cattedre, autori di ricerche straordinarie, medici che avrebbero fatto la storia della scienza nel Novecento, tradire il giuramento di Ippocrate e distruggere così tante vite umane perché disabili o malate E cosa rappresenta quella storia indicibile per noi Perché la esorcizziamo ripetendoci che quelli erano dei "mostri". Condannare non è sufficiente.
   Quei medici e scienziati non erano dei sadici o dei pazzi, ma dei luminari, medici dal curriculum impeccabile, ricercatori stimati, scienziati di grido. E' questo il tragico paradosso di questa storia inedita: che molti dei responsabili di quei crimini efferati, compreso forse il professor Hans Asperger, lo fecero nella ferma convinzione della rettitudine morale del loro operato.
   Pensavano di "fare del bene".

(Il Foglio, 23 gennaio 2016)


Nella formula medica del “non degni di vivere” i nazisti hanno inserito anche gli ebrei. Che c’è di strano dunque, all’interno di questa mentalità? Il mondo occidentale oggi si scandalizza dell’applicazione di questa mentalità agli ebrei, ma non ad altri esseri umani non ancora venuti alla luce o venuti alla luce solo da poco o da troppo tempo. Esaminiamo dunque i fatti, ma non corriamo subito a scandalizzarci: il nazismo in noi forse aspetta soltanto il momento adatto per emergere. M.C.


Tel Aviv - Shoah, la musica della memoria risuona in Israele

Nell'orrore dei campi di concentramento nazisti la musica ha continuato a essere scritta e suonata. Molti prigionieri, infatti, lasciarono in eredità i propri brani scritti durante la detenzione: note che tornano a suonare oggi grazie al pianista Francesco Lotoro che, a partire dal 1989 ha raccolto oltre 5.000 pezzi di musica concentrazionaria. Dallo sconosciuto polacco Józef Kropiński (addetto all'infermeria di Buchenwald, scrisse circa 400 opere di notte) fino ad alcuni dei più grandi musicisti del '900 come Viktor Ullmann (a Theresienstadt scrisse 3 sonate per pianoforte e l'opera Der Kaiser von Atlantis, completata pochi giorni prima di morire nelle camere a gas ad Auschwitz): le note lasciate da questi compositori risuoneranno il 27 gennaio alle 20,30 al Conservatorio israeliano di Tel Aviv in un concerto dell'Orchestra da Camera israeliana. Il concerto, in occasione della Giornata della memoria, è frutto della collaborazione dell'Ambasciata d'Italia in Israele e dell'Istituto italiano di cultura di Tel Aviv con l'Istituto di Letteratura musicale concentrazionaria, il Conservatorio israeliano di musica di Tel Aviv, l'Orchestra israeliana da Camera e l'associazione Last Musik Onlus.

(Farnesina, 22 gennaio 2016)


Das Auschwitz Lied



E' solo odio, bellezza !

di Deborah Fait

Da molti anni MEMRI, l'Istituto di ricerca sul Medio Oriente, pubblica video/interviste di bambini arabo-palestinesi in cui si sentono cose da far gelare il sangue nelle vene. Bambini di 5, 6 anni, dai visetti innocenti, che alle telecamere, accanto a maestri o a genitori sorridenti e orgogliosi, proclamano il loro odio per gli ebrei .... sono scimmie.... sono maiali.... vorresti ammazzarli? Chiede l'intervistatore... sì... rispondono sorridendo, dicono di voler diventare grandi non per fare il dottore o il pompiere o la maestra, desideri di tutti i bambini del mondo a quell'età. Sono educati all'odio, alla violenza e al rancore, nel silenzio complice del mondo intero, sono diversi, altro che "farò il dottore o l'astronauta", niente infermiera o pompiere, no, niente di tutto ciò. Loro, i piccoli palestinesi, vogliono diventare shahid, cioè assassini.
  "Voglio diventare grande per ammazzare gli ebrei", dicono, generazione dopo generazione, e sorridono soddisfatti, certi di ricevere lodi e carezze e di far felici mamma, papà e maestri.
  Quei bambini, dopo anni di lavaggio del cervello e di incitamento all'odio, si trasformano in adolescenti dal cuore di pietra e l'animo avvelenato dall'odio, prendono i coltelli e vanno, ognuno in cerca di uno o più ebrei da ammazzare come gli è stato insegnato sin dalla più tenera infanzia. Il più giovane tra questi assassini in erba aveva 11 anni e, insieme al cugino quindicenne, hanno aspettato un bambino ebreo fuori da un negozio di dolciumi e gli hanno piantato un coltello nel collo.
  Giorni fa, come avrete letto, un sedicenne è riuscito a entrare in una casa di ebrei, la casa della famiglia Meir, è stato bloccato da Dafna, la madre, lui ha incominciato a colpirla con il coltello e a questo punto
Il terrorista voleva estrarre il coltello dal corpo di Dafna per andare a cercare gli altri della famiglia ma lei lottando con tutte le sue forze teneva il coltello stretto dentro di sé, impedendo all'assassino di estrarlo.
ecco che la dolce Dafna, la mamma che a quattro figli suoi aveva voluto aggiungere anche due figli adottivi, si è trasformata nella tigre che difende i suoi cuccioli. Il terrorista voleva estrarre il coltello dal corpo di Dafna per andare a cercare gli altri della famiglia ma lei lottando con tutte le sue forze teneva il coltello stretto dentro di sé, impedendo all'assassino di estrarlo.
Alla fine, forse impressionato da tanto coraggio e ormai incapace di estrarre l'arma dal corpo della sua vittima, è scappato. Natan Meir, il padre, ha detto "Non abbiamo rabbia. Io non sono arrabbiato con nessuno. Non ci consoliamo con quella. Noi non malediciamo gli arabi. Mi siedo e parlo con i miei figli e non ho sentito una sola parola di rabbia neppure da parte loro. Non siamo persone che odiano, non lo era Dafna e non lo siamo noi".
  E il padre del giovane assassino che ha detto? "Sono orgoglioso di lui" ha detto!
  Parole che fanno sentire impotenti di fronte alla barbarie palestinese e che riempiono di amarezza di fronte al mondo che non condanna, nemmeno li critica, nemmeno mezza parola di rimprovero. Niente.
  Io non sono nobile d'animo come la famiglia Meir e devo dire che tutto questo mi suscita una rabbia infinita non tanto verso i palestinisti ormai ridotti a una popolazione di possibili assassini, no, la mia rabbia, la mia indignazione sono per gli occidentali e la loro complicità.
  Esiste un motivo che impedisca ai media italiani ed europei di raccontare cosa accade quotidianamente in Israele da più di tre mesi? Dove sono le femministe? Beh, che domanda retorica, quelle non si vedono più da decenni ormai, ogni tanto fanno capolino per difendere il machismo islamico.
  Dov'è l'Unicef? Perché nessuno vuole salvare i bambini palestinesi dall'odio con cui vengono avvelenati? Il mondo inorridisce di fronte ai bambini dell'Isis addestrati ad uccidere, quello stesso mondo senza memoria e senza coscienza non ricorda che non li ha inventati Al Baghdadi i ragazzini dai 6 anni in poi, vestiti da soldati, armati e bardati con i giubbotti esplosivi e pistole in mano!
  Li ha inventati Arafat i bambini soldato, l'adorato Arafat, l'amore dell'Europa, quello cui hanno dato il premio Nobel, il terrorista più furbo della storia, quello che ha preso in giro l'universo! E' stato lui, Yasser Aarafat, quando Al Baghadadi ancora non era nato, a volere i campi militari estivi per bambini dove, da più di 40 anni, si addestrano piccoli e piccolissimi arabi-palestinesi nell'arte del coltello e dello sgozzamento, in nessun campeggio mancano i pupazzi vestiti da ebrei da sventrare a coltellate.
  Tutti lo sapevano, noi lo scrivevamo, Memri diffondeva i filmati di quella vergogna ma la reazione dell'Europa era un'alzata di spalle e la solita parola... occupazione... senza occupazione i palestinisti sarebbero angioletti con le ali, peccato che hanno incominciato ad ammazzare ebrei molto ma molto prima della rifondazione di Israele. Un mondo cieco di fronte ai bambini-soldato palestinesi adesso si indigna per quelli addestrati dall'Isis? L'ipocrisia è davvero senza limiti.
  Giorni fa, nei Territori, hanno commemorato il Fatah Day, 51simo anno dalla fondazione del gruppo terrorista e Abu Mazen, davanti a giovanissimi vestiti da soldati e armati fino ai denti pronti a marciare in parata, ha detto di essere orgoglioso dei ragazzi che commettono attacchi terroristici contro i sionisti e ha incoraggiato tutti, dai più piccoli, bardati con cinture esplosive, a continuare.
  Per quale motivo i palestinesi sono sempre esenti da critiche e da giudizi?
  Per quale motivo possono commettere i peggiori delitti impunemente?
  Perché nessuno si indigna?
  Perché l'Europa e gli USA di Obama vogliono essere complici di quella gentaglia assassina che violenta
L'Europa, ormai preda degli isla- mici, dei movimenti filopalesti- nesi, delle organizzazioni neo- naziste come il BDS è diventata il nemico numero uno di Israele, aggressioni, boicottaggio, inciviltà sono quotidiani nelle capitali europee.
persino i suoi propri figli?
Tutte queste domande hanno una sola risposta, l'odio, l'odio senza confini per il popolo ebraico. L'Europa ormai preda degli islamici, dei movimenti filopalestinesi, delle organizzazioni neonaziste come il BDS è diventata il nemico numero uno di Israele, aggressioni, boicottaggio, inciviltà sono quotidiani nelle capitali europee.
In un college di Londra, uno dei più prestigiosi, doveva tenere una conferenza Amy Ayalon, ex capo dello Shin Bet, uomo di sinistra, molto di sinistra, ma per gli odiatori è sufficiente essere un ebreo israeliano per essere aggredito e per impedirgli di parlare. Orde di delinquenti in kefiah sono andati a manifestare davanti al King's College per impedire la conferenza con lanci di sedie, bombe incendiarie, sassi, urla " free Palestine, Fuck Israel".
  La polizia inglese non ha effettuato nemmeno un arresto perché, hanno detto, quando sono arrivati era quasi tutto finito... si, anche la conferenza... Sempre in Inghilterra un gruppo di medici, che definire criminali è poco, ha chiesto l'espulsione di Israele dall'Associazione Mondiale dei Medici.
  Criminali, antisemiti e, come tutti gli antisemiti, stupidi perché bloccare la ricerca israeliana significa danneggiare anche la ricerca mondiale. Al giorno d'oggi tutto è collegato, le accademie collaborano le une con le altre, eliminare Israele sarebbe come spezzare un anello da una catena rendendola inutile ma l'odio e l'esigenza di compiacere gli arabi e l'islam sono talmente forti, che questi antisemiti rischiano la loro stessa vita e la salute di milioni di persone che la ricerca scientifica israeliana può salvare da brutte epidemie e da malattie invalidanti.
  Insomma, non esiste più un solo posto al mondo dove un ebreo sia sicuro e possa vivere in pace e tranquillità, talmente braccati da far dire al Rabbino di Francia "tenete in tasca la kippà".
  Il 27 gennaio il mondo occidentale commemorerà la Shoah e già si leggono sul web le solite cretinate dettate da odio e ignoranza, uno ha scritto " e perché non si ricordano i piemontesi uccisi dai Savoia?".
  La Memoria della Shoah scatena i sentimenti peggiori, gli antisemiti diventano violenti, gli stupidi diventano ancora più stupidi e c'è anche chi invita in visita ufficiale, il rappresentante del paese che finanzia il terrorismo mediorientale, che invoca una seconda e definitiva Shoah di ebrei ...." a breve lo stato sionista cesserà di esistere", che dileggia e nega la Shoah. Già, già, arriva Hassan Rohani, presidente iraniano, in un'Europa prostrata ai suoi piedi . Ho letto che sarà a Roma, da dove inizierà il suo tour, il 25 gennaio. Incontrerà anche il Papa. Che tempismo, Europa, complimenti!

(Inviato dall'autrice, 23 gennaio 2016)


«L'Italia alzi lavoce con l'Iran: L'Europa ricordi chi le è amico»

Intervista al vice ministro degli Esteri di Gerusalemme. Tzipi Hotovely: «La dirigenzapalestinese continua a sostenere il terrorismo». E sugli ayatollah «atomici»: Rohani sarà a Roma, Renzi non gli si inginocchi.

di Marco Gorra

Tzipi Hotovely
«Ci aspettiamo che l'Italia faccia sentire la propria voce con l'Iran». Tzipi Hotovely è viceministro degli Esteri del governo israeliano (quasi ministro vero e proprio, dal momento che a rivestire il ruolo del titolare è il premier Benjamin Netanyahu) e si trova in Italia in visita istituzionale. Esauriti gli impegni - tra cui la visita ad Expo e l'incontro col sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova - accetta di rispondere alle domande di Libero.

- Come sono i rapporti col governo italiano?
  
«Ottimi. L'Italia conferma il suo ruolo e la sua amicizia nei confronti di Israele nello spirito delle nostre consolidate relazioni bilaterali. Il presidente Matteo Renzi è sicuramente un alleato prezioso nella ricerca di una risposta alle nuove minacce del terrorismo e del radicalismo islamico».

- Un problema che tocca Israele ma pure l'Europa.
  
«È una delle sue caratteristiche principali: il radicalismo islamico pone problemi che vanno al di là delle frontiere e che possono manifestarsi allo stesso modo a Gerusalemme, a Parigi, a Bruxelles o negli Stati Uniti».

- Eppure, a sentire certe voci anche e soprattutto istituzionali del Vecchio Continente si direbbe che il problema sono le politiche di Israele...
  
«Ed è profondamente sbagliato. L'Europa è il primo partner commerciale di Israele, i rapporti sono buoni da molto tempo. Tempo durante il quale la posizione di Israele non è mai cambiata».

- E qual è questa posizione?
  
«È la posizione di chi cerca una soluzione al problema, non di chi vuole crearlo».

- E allora chi è che vuole crearlo?
  
«I palestinesi, anche loro rimasti fermi nella loro posizione storica, sempre la stessa che è stata prima di Arafat e poi di Abu Mazen».

- Ovvero?
  
«Una specie di doppio binario, per cui sullo scacchiere internazionale si cerca di cogliere tutti i vantaggi politici a disposizione, mentre sul versante domestico si continua ad agire more solito, con le piazze intitolate ai terroristi, il denaro usato per fornire un sostentamento pubblico alle famiglie dei guerriglieri e - più in generale - con l'aperto appoggio del terrorismo».

- E il famoso processo di pace?
  
«Per noi la strada negoziale è sempre aperta e siamo pronti a percorrerla in qualsiasi momento. Il problema è la controparte: è da un anno e mezzo ormai che i palestinesi hanno abbandonato il tavolo e non danno l'impressione di volerci tornare. Non esiste alcun "circolo di violenza" tra israeliani e palestinesi; esiste una violenza unilaterale da parte loro».

- Fin qui la Palestina. Per tacere di altri attori del Medioriente che non sono estranei a certe connivenze pericolose...
  
«Vale per tutti l'esempio dell'Iran. Un Paese che da una parte appoggia apertamente il terrorismo ed il radicalismo islamico e che dall'altra porta avanti un programma di negazione dell'Olocausto, anche attraverso operazioni di pessimo gusto come il famoso concorso per le miglori vignette sulla Shoah».

- Iran il cui presidente Rohani sarà in visita a Roma tra qualche giorno.
  
«Ed in quasi concomitanza con la giornata della memoria dell'Olocausto, per giunta».

- Si aspetta che l'Italia faccia sentire la propria voce sul tema?
  
«Ce lo aspettiamo sicuramente. È bene che, nonostante gli accordi che può avere firmato con le superpotenze, l'Iran possa essere visto in tutte le sue sfaccettature e complessità».

- Va detto che quanto ad antisemitismo anche l'Europa manda brutti segnali. Nell'ultimo anno circa diecimila ebrei europei hanno intrapreso l'Aliyah, l'immigrazione verso Israele.
  
«Il che di per sé non è un male: dalla dichiarazione di indipendenza in poi, Israele ha sempre fatto il possibile per favorire l'insediamento degli ebrei nel nostro Stato».

- Resta il fatto che non si tratta di un bel segnale riguardo l'antisemitismo in Europa...
  
«Ma è anche vero che è un problema più complesso: mettiamo anche che tutti gli ebrei che vivono in Europa ad un certo punto tornino in Israele. Lei crede che l'antisemitismo in Europa scomparirebbe?».

- Lei sembra convinta di no.
  
«Certo che no. Si aggiornerebbe, prenderebbe una nuova forma. Magari lo si maschererebbe da anti-israelismo o da anti-sionismo, ma sempre della stessa cosa si tratterebbe».

- E come se ne esce?
  
«Risolvendo il problema culturale e psicologico che c'è alla base. Le generazioni europee del dopoguerra hanno avuto come un bisogno di mettersi la coscienza a posto prendendo le difese della parte percepita come più debole, ed hanno scelto i palestinesi. Ma non sempre chi appare più debole è anche chi è dalla parte del giusto».

(Libero, 22 gennaio 2016)


Yoel Levi dirige la Toscanini

di Leonetta Bentivoglio

Yoel Levi
ROMA - Nel 1936 Arturo Toscanini, impavido lottatore (a suon di musica e invettive ) contro il fascismo, nonché primo campione del podio assurto al ruolo di star mediatica globale, giunse a Tel Aviv per "battezzare" la Palestine Symphony Orchestra, radice dell'attuale Filarmonica d'Israele. «Fu un evento straordinario in senso storico e musicale, racconta Yoel Levi, che il 27 gennaio dirigerà a Roma la Filarmonica Toscanini nel concerto che celebra il Giorno della Memoria.
Dagli Usa, dove Toscanini aveva deciso di vivere e lavorare in polemica con l'Europa afflitta dalle leggi razziali, spiega il maestro Levi, l'intrepido musicista, rifiutando ogni compenso e affrontando un viaggio lungo e pericoloso, sbarcò a Tel Aviv per dare il via alla prima orchestra interamente ebraica, voluta e formata dal violinista Bronislaw Huberman, il quale aveva salvato numerosi musicisti perseguitati dal nazismo facendoli venire in Israele a proprie spese. Rispondendo all'invito di Huberman, e dando con la sua presenza un rilievo mondiale all'impresa, Toscanini lanciò all'umanità un messaggio forte di opposizione ai regimi. Non c'erano sale da concerto a Tel Aviv, e fu costruita apposta per l'evento un'immensa tenda. In due ore vennero venduti tremila biglietti. L'appuntamento del 27 a Roma ripropone il programma eterogeneo (Rossini, Brahms, Schubert, Mendelssohn, Weber) scelto da Toscanini per la serata di ottant'anni fa: «Sono onorato di eseguire questo revival, afferma Levi, nato in Romania e cresciuto in Israele. Musicista di solida esperienza internazionale, con una carriera oggi divisa soprattutto fra Stati Uniti ed Estremo Oriente (è direttore musicale stabile a Seul ), Levi è stato spesso ospite d'istituzioni musicali italiane, e la Filarmonica Toscanini, con sede a Parma, figura tra quelle con cui ha collaborato di più. Intenso è stato il suo lavoro come Principal Guest Conductor della Israel Philharmonic, e se gli si chiedono i motivi dell'impressionante talento musicale ebraico segnala «la speciale volontà di promozione della musica, anche a livello pedagogico, che distingue la cultura e la società israeliane.

(la Repubblica, 22 gennaio 2016)


Gli altri rifugiati: gli ebrei

Il 2015 è stato l'anno record di fuga dall'Europa in direzione di Israele Secondo la Jewish Agency, il 2015 è stato un anno record: 9.880 ebrei europei hanno lasciato le loro case per andare in Israele, di questi circa 8.000 sono partiti dalla Francia. Circa il doppio rispetto a soltanto due anni fa. Il New York Post ha registrato e commentato il dato in un editoriale dal titolo importante: "Gli altri rifugiati: perché gli ebrei stanno lasciando l'Europa".
   La ragione, secondo il quotidiano americano, "è ovvia": buona parte dell'Europa occidentale ha registrato un chiaro e fastidioso aumento dell'antisemitismo negli ultimi quindici anni, "soprattutto in Francia, dove si verifica un numero crescente di attacchi" ai danni degli ebrei. Il maestro attaccato con il machete a Marsiglia, soltanto dieci giorni fa, per esempio. Ma l'elenco è lungo, e ancora pesano sulla coscienza del paese, e dell'Europa intera, l'assedio e gli assassinii nell'épicerie ebraica il giorno dopo l'attacco a Charlie Hebdo, un anno fa. Secondo i dati, gli ebrei in Francia rappresentano l'un percento della popolazione, ma il 51 per cento degli "hate crime" ha preso di mira gli ebrei.
   Gli attentatori sono soprattutto terroristi islamici, ma "la retorica anti ebraica proviene regolarmente anche dagli ultranazionalisti - scrive il board editoriale del New York Post - Altri paesi, come il Regno Unito, il Belgio, la Danimarca e la Svezia, registrano un aumento degli attacchi". Il commento finale è definitivo: "A 70 anni dalla fine dell'Olocausto, gli ebrei non si sentono più al sicuro nelle strade delle democratiche nazioni occidentali". Al punto che alcuni suggeriscono di non indossare più simboli religiosi, in modo da non essere individuati, e magari così riuscire a sopravvivere.
   Nascondersi non è la soluzione: il Foglio organizza per il 27 gennaio, in concomitanza con la Giornata della memoria, la Giornata della kippah (ve la regaliamo noi, se volete mandarci le vostre foto con una kippah speditele a kippah@ilfoglio.it), per ricordarci e ricordare che difendere Israele significa difendere l'occidente. Il monito è ancor più importante oggi, con il mondo capovolto da una guerra mediorientale spietata, gli attentati in Europa, l'accordo con l'Iran e il rapporto tra Israele e America pericolosamente fragile.

(Il Foglio, 22 gennaio 2016)


Viaggio in Israele - Dal 22 al 29 maggio

Il Gruppo Sionistico Piemontese ha organizzato un viaggio in Israele nel mese di maggio destinato soprattutto a coloro che vogliono approfondire le proprie conoscenze sul sionismo di ieri e di oggi. L'iniziativa è rivolta anche a persone che siano interessate a conoscere Israele, il suo territorio, le sue realtà e i suoi problemi.
Chi vuole iscriversi è invitato a compilare il modulo allegato e a inviarlo all'indirizzo dell'agenzia indicato sullo stesso e in copia a questo indirizzo e-mail: grupposionistico.piemontese@gmail.com
N.B. - Si ricorda che è necessario il passaporto con validita' di almeno 6 mesi dalla data di partenza.

Programma
Modulo di iscrizione

(Gruppo Sionistico Piemontese, 22 gennaio 2016)


Kippah, simbolo eterno, proteggiamo chi la indossa

L'intera società francese si è sentita testimone dell' antico dilemma tra il comandamento ebraico di coprirsi il capo e quello di pensare a salvare la propria vita quando i «pogromisti» tirano fuori i coltelli.

di Bernard-Henri Lévy

Bernard-Henri Lévy
Che strano dibattito. E quanto baccano. Ci sono i bravi medici, come Rony Brauman e altri, che nella kippah hanno visto un segno di fedeltà alla politica di un Israele demonizzato. Ci sono i furbastri che, come all'epoca, nel 2012, in cui Marine Le Pen voleva buttare nelle reti di una stessa legge i fanatici del velo e i sostenitori della kippah, ne hanno approfittato per insinuare che la kippah era, non meno di un chador o un niqab, un segno «di ostentazione».
   C'è stato un momento di grande indiscrezione in cui l'intera società si è sentita prendere a testimone di una lite vecchia come il vivere ebreo, e come il dilemma di quei rabbini che, in Lituania, in Galizia e altrove, hanno sempre dovuto fare da arbitri fra il comandamento (recente) di coprirsi il capo e quello (molto più antico poiché ha l'età di Noè) di pensare a salvare la propria vita quando i «pogromisti» tirano fuori i coltelli.
   C'è stata una grande agitazione, il più sovente mossa da buone intenzioni, e segnata da alcuni bei gesti: un presidente della Repubblica che giudica «insopportabile» che dei francesi debbano «nascondersi» ... , un Primo ministro che si impegna a proteggere, su tutto il territorio, i suoi concittadini presi di mira dall'islamo-fascismo ... , un club di tifosi che rispondono all'appello di un grande rabbino di Francia ... , uno scrittore che, di fronte all'incultura dei sicari di questa nuova barbarie, in un programma televisivo tira fuori la sua kippah e cita un libro di Emmanuel Levinas. C'è stato dunque uno psicodramma su un pezzo di stoffa elevato al rango di oggetto di transizione o di totem di una Repubblica stanca di sé (la kippah è la Francia siamo tutti ebrei da kippah, una pioggia di hashtag virtuali scomparsi da Internet con la stessa rapidità con cui vi erano apparsi... Senza parlare degli zucchetti con impressi i colori dell'Olympique di Marsiglia, o personalizzati con l'effigie di Batman ... ).
   Ci sono poi stati (non bisognerebbe evidentemente dimenticarlo, perché è qui che tutto è cominciato!) gli emuli della gang dei barbari, gli imitatori di Mohamed Merah o degli assassini dell'Hypercacher, per i quali il fatto di portare la kippah, quella vera, significa aver il permesso di uccidere.
   Ebbene, davanti a tale clamore, al cui proposito non posso evitare di chiedermi cosa avrebbero detto, se fossero ancora in vita, alcuni di coloro che portavano la kippah - Benny Lévy, André Neher, Léon Ashkenazi...-, vorrei ricordare alcune verità di storia e di pensiero. La kippah, per esempio, è un segno, per chi la porta (e io non sono fra questi) di separazione, non di sottomissione. Ciò che la kippah separa è, da un lato, il corpo del Soggetto e, dall'altro, il cielo che egli non raggiunge e la terra che egli abita solo in virtù di infinite precauzioni. Il fatto di portare la kippah, poiché è la prova di tale separazione e di tale frontiera, poiché è una delle modalità di un taglio senza rottura, di una delimitazione di sé - che sono al centro dello spirito del giudaismo - , poiché dice insomma che il mondo non è una enorme massa dove si mescolerebbero in una pigra unità le cose di quaggiù, i nomi dell'Altissimo e il sé che li esamina, non è un gesto sacro, ma, nel senso proprio ,del termine, un gesto santo. E santa, in particolare, l'iscrizione di coloro che danno importanza a questa storia di kippah, non nei luoghi terreni, ma nella lunga, lunghissima durata dei secoli in cui attingono ispirazione e forza; non nello spazio che le nostre infaticabili webcam esplorano fino alla nausea (e di cui c'è in fondo sempre meno da dire), ma in questo tempo, questo altro tempo dove vive chi è ancora capace di sognare sulla teoria di Pascal dei due infiniti, sulla vertiginosa scoperta proustiana di una durata che è la vera casa degli uomini o ancora ( e questo è rigorosamente la stessa cosa ...) su una pagina del Talmud in cui ci si domanda, come nei tempi immemorabili, perché Rabbi Akiva voleva che due gocce di latte cadessero su un pezzo di carne, mentre Rabbi Eliezer diceva tre gocce.
   Infine, desidero ricordare come in tutto questo ci sia un'avventura singolare, propria a ciascuno, che è una odissea dello spirito quanto della carne e del corpo e di cui gli agenti della moderna condanna a morte del tempo non hanno più la minima idea.
   Lasciamo in pace i francesi che portano la kippah. Che la Repubblica li protegga, che i loro amici li difendano, ma che li si lasci vivere - come hanno imparato a fare nella lentezza dei secoli - il loro faccia a faccia con i mondi. C'è un pezzo di tessuto, una particella di materia che ho voglia di interpretare nei due sensi: quello che esprime la piccola parte, il simbolo minuscolo, appena visibile, e quello che, nella stessa parola, esprime distinzione e nobiltà. Ebbene, il segreto di questa particella, il suo contributo discreto all'abbellimento di un mondo, di cui Baudelaire credeva già stesse finendo nella indifferenziazione splenetica di una umanità senza Altro, l'intensità di quello che essa aggiunge all'economia dell'essere e delle nazioni, sono cose ben troppo preziose per essere gettate in pasto a una opinione pubblica che mescola tutto. Lasciamo che coloro che hanno scelto di vivere la propria libera peregrinazione di umani nell'ombra chiara della kippah edifichino serenamente, pazientemente, nel tempo, la loro parte del mondo che viene.

(Corriere della Sera, 22 gennaio 2016 - trad. Daniela Maggioni)


"Quand'è che i terroristi palestinesi hanno avuto l'esclusiva del titolo di shahid?"

Il furibondo "j'accuse" di un autore arabo musulmano contro le menzogne della stampa araba.

di Abdullah al-Hadlaq

Abdullah al-Hadlaq, editorialista di Al-Watan, autore di questo articolo
Vorrei iniziare porgendo un saluto allo stato di Israele e al popolo ebraico, che io considero veri amici. In quanto scrittore e giornalista del Kuwait che segue l'attuale ondata terroristica di coltelli e pietre e di crimini palestinesi contro soldati e cittadini israeliani innocenti, non posso che esprimere il mio sostegno per ogni azione civile e militare che lo stato libero e indipendente di Israele intraprende per la legittima difesa della vita dei suoi cittadini e della sua terra.
Sono sconcertato dal silenzio della comunità internazionale di fronte ai crimini commessi dai terroristi palestinesi contro il popolo israeliano. E sono altrettanto sconcertato dal clamore della comunità internazionale contro il diritto legale di Israele di difendere se stesso e i suoi soldati, e contro il legittimo diritto di Israele di vivere e tener duro....

(israele.net, 22 gennaio 2016)


Israele in mostra dietro le porte tra selfie e tesori

Per reclamizzarsi in tempo di crisi, lo Stato di Israele ha scelto un modo insolito: una mostra che, dopo l'inaugurazione al Complesso del Vittoriano, dove resterà aperta fino all'11 febbraio (Salone centrale, ingresso da via San Pietro in Carcere), partirà in tour per vari paesi, tra cui la Francia, gli Stati Uniti, la Cina, la Polonia, la Russia, il Giappone, l'Argentina, il Brasile. Per far conoscere a tutti le bellezze del paese e con la speranza di incrementare il turismo.
Anche se i visitatori non avessero nessuna voglia di salire su un aereo e di sorvolare il Mediterraneo, tuttavia si divertiranno a seguire il percorso dell'esposizione organizzato come un gioco. «Open a door to Israel.
Discover/Esperienze/Connect», dice il titolo del progetto voluto dal ministero degli Esteri e dall'ambasciata israeliana. E nel salone del Vittoriano si incontrano infatti nove porte, di legno e con la maniglia, qualcuna ha anche il campanello, ciascuna è verniciata in un colore diverso. Colori brillanti che invogliano ad aprire.
Si gira la maniglia della porta azzurra, dove c'è scritto «Famiglia», e appare un frigorifero spalancato, zeppo di frutta, ortaggi, dolci, formaggi, bevande.
Si suona il campanello e la scena cambia: la famiglia è riunita a tavola al gran completo, madre, padre, figli, parenti. Una mensa imbandita con porcellane e cristalli e vino rosso nei bicchieri. I commensali si voltano verso di voi, si alzano in piedi e brindano alla vostra salute, come se foste entrati veramente nella loro stanza da pranzo.
Se suonate ancora il campanello, vi ritrovate in mezzo alla festa di compleanno dei bambini, e così via.
Aprite la porta rossa ed ecco un'aula scolastica, i ragazzi vi fanno delle domande per verificare il vostro stato di conoscenza storica e culturale della loro terra: potete rispondere cliccando sullo schermo.
Dietro la porta gialla vi aspetta un signore con una racchetta in mano che vi invita a giocare. Potete iniziare una partita impugnando la racchetta reale che trovate appesa nella parte interna dell'anta.
   Si va avanti così per una quarantina di minuti. Alla fine dei bei ragazzi vi invitano a farvi un selfie con loro. Vi avvicinate, loro scattano, voi digitate la vostra mail sullo schermo e la foto ricordo arriverà sul vostro computer.

(Corriere della Sera, 22 gennaio 2016)


*


Israele come non l'avete mai vista. Al Vittoriano, Open a Door to Israel

 
 
 
"Open a Door to Israel", al Vittoriano di Roma dal 22 gennaio all'11 febbraio. Ieri nella cornice del Vittoriano di Roma, alla presenza di Naor Gilon, Ambasciatore di Israele in Italia è stata ufficialmente presentata l'esposizione multimediale itinerante per conoscere Israele a 360 gradi. Una mostra composta da nove schermi a forma di porta che i visitatori possono aprire per conoscere le diverse peculiarità di Israele: cultura, musica, innovazione, sistema di istruzione e molto altro.
  Un'installazione tutta da scoprire, che comprende anche uno spettacolo multimediale sulla creatività israeliana, sincronizzato con la tecnologia di screening robotica.
  Si tratta di una esperienza multisensoriale unica che dona ai visitatori l'opportunità di gustare lo spirito unico di Israele.
  Aprite la porta e potreste essere invitati a giocare a matkot (una sorta di tennis da spiaggia che anima le estati israeliane). Apritene un'altra e potrete essere ospiti in una casa ebraica durante lo Shabbat.
  Alla conferenza stampa di presentazione hanno preso parte Alessandro Cecchi Paone in qualità di moderatore, Naor Gilon, Ambasciatore di Israele in Italia, Joel Lion, Direttore Affari Pubblici dell'Israel Ministry Of Foreign Affairs e Alessandro Nicosia, Direttore del Complesso del Vittoriano.
  Durante la conferenza l'Ambasciatore Gilon ha voluto sottolineare come questa mostra evochi il tenere aperta una porta metaforica già virtualmente inaugurata durante Expo Milano 2015. Il Paese si svela dietro ogni porta e permette di farsi conoscere in maniera divertente perché l'obiettivo è l'interazione e quindi la viva partecipazione del visitatore. Come Ambasciatore di Israele in Italia, Gilon è entusiasta che per la prima mondiale di questa mostra sia stata scelta la città di Roma. Questa scelta è simbolo delle importanti e solide relazioni che legano i due paesi.
  Alessandro Cecchi Paone ha sottolineato come grazie a questa mostra si abbia la possibilità di entrare nelle case, nelle scuole, nei laboratori scientifici degli israeliani e di giocare con loro immersi in un caleidoscopio fatto di colori, luci e movimenti che dona un'energia che ultimamente è difficile trovare altrove.
  Perché il numero delle porte è 9 e non ad esempio 11? L'obiettivo, come dichiarato da Joel Lion Direttore Affari Pubblici dell'Israel Ministry Of Foreign Affairs, è quello di presentare la vibrante società ed i suoi valori chiave. 9 è il numero dei valori globali universalmente conosciuti, come l'ospitalità, l'istruzione e gli aiuti al prossimo. Oltre alle porte il visitatore assisterà anche ad un breve video che mostra le altre innumerevoli peculiarità dello Stato d'Israele. La tecnologia è il mezzo con cui Israele vuole raccontare se stessa. Il robot utilizzato per il video è una sorta di secondo schermo capace di "tirare fuori" dallo stesso oggetti, cibo e frame del filmato.
  Alessandro Nicosia, Direttore del Complesso del Vittoriano, ha ringraziato lo Stato di Israele per aver portato a Roma un prodotto tecnologico straordinario. La tecnologia israeliana, sempre all'avanguardia, riesce a portare un messaggio che facilmente arriva al prossimo perché si tratta di una tecnologia portatrice di un concept che in questo caso è la fruizione.
  La presentazione della mostra è proseguita con una serata inaugurale a cui l'Ambasciata israeliana in Italia a voluto dedicare due momenti di live streaming mediante l'utilizzo della tecnologia Periscope ed a cui hanno partecipato tra i tanti, anche l'Ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon, il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca italiana Stefania Giannini e il vice ministro degli Esteri israeliano Tzipi Hotovely.
  Giannini e Hotovely hanno partecipato ad un tour esclusivo dell'installazione multimediale, interagendo con gli schermi a led. Successivamente nelle terrazze del Complesso del Vittoriano tutti i presenti hanno partecipato ad un cocktail, un momento conviviale nel quale Giannini e Hotovely hanno ribadito la profonda stima e amicizia che lega i due paesi.
  La mostra è itinerante e migliaia di persone in tutto il mondo potranno assistere a questa installazione interattiva che utilizza tecnologie avanzatissime e design innovativi. Tutto il percorso ha la durata di circa 40 minuti, in cui il pubblico avrà la sensazione di essere trasportato in un viaggio virtuale all'interno del paese. Dopo Roma arriverà in Francia, Russia, Corea del Sud, Giappone, Cina, Stati Uniti e in altre prestigiose sedi.

Vi aspettiamo al Complesso del Vittoriano
ALA BRASINI dal 22 Gennaio all'11 Febbraio tutti i giorni dalle 9.30 alle 19.30.
L'INGRESSO È GRATUITO!

(SiliconWadi, 22 gennaio 2016)


…pregiudizio

di Sergio Della Pergola

Massimo D'Alema in una lettera al Corriere della Sera (15.1.2016) in risposta all'ambasciatore di Israele Naor Gilon, rivendica il diritto di critica a Netanyahu senza che ciò implichi l'accusa di essere contro Israele. Il diritto è accordato, ne ha facoltà. L'affermazione che nessuno possa criticare la politica di Israele senza essere accusato di antisemitismo è falsa, anzi è faziosa, e lo dimostra ampiamente la recente grande ricerca sulle percezioni dell'antisemitismo fra gli ebrei europei sponsorizzata dall'Unione Europea e pubblicata dal Jewish Policy Research Institute di Londra. Gli ebrei europei sono disposti ad ascoltare critiche nei confronti del governo di Israele, a condizione che non degenerino nella diffamazione e nella demonizzazione dello stato. Sono invece insofferenti a forme di antisemitismo come la negazione della Shoah o le classiche accuse di strapotere economico e politico. Reiterare l'affermazione sulla non criticabilità di Israele, come fa ora D'Alema, è quindi una forma non solo di demagogia ma anche di vilipendio. Ma D'Alema non si ferma a Netanyahu e attacca altri obiettivi. Il primo è quando afferma che Israele ha invaso per tre volte il Libano "provocando la morte di decine di migliaia di vittime civili". Questo dato è manifestamente falso, gonfiato e provocatorio. Certo ci sono state vittime in Libano, come in Israele causa i missili di Hezbollah, ma non certo decine di migliaia e per nulla comparabili quantitivamente con le odierne stragi di civili in Siria e in molti altri paesi arabi. D'Alema prosegue e scrive che "le forze israeliane si sono rese complici dell'orrendo massacro di ottocento fra donne e bambini palestinesi compiuto dai loro alleati falangisti nei campi profughi di Sabra e Chatila". D'Alema si rituffa così nel feroce vortice di odio e di disinformazione del fatale anno 1982. I testi pubblicati allora dal Manifesto, dall'Unità, dalla Repubblica, dal Corriere della Sera e da tanti altri organi italiani di stampa costituiscono fino ad oggi un documento agghiacciante di violenza verbale antiisraeliana e antiebraica senza precedenti in tutti gli anni a partire dalla fine del regime fascista. La strage di Sabra e Chatila fu compiuta dai soldati delle falangi cristiane affiliate alla fede maronita che fa parte della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Non mi risulta che nessuno sia stato scomunicato per la strage di palestinesi compiuta dai cristiani, e se mi sbaglio sarò lieto di essere smentito. Gli israeliani all'epoca commisero l'errore di non impedire la strage perpetrata dai cristiani per vendicare l'assassinio avenuto pochi giorni prima del loro capo Bashir Giumayel. Dopo la strage operata dalle falangi, la commissione d'inchiesta Kahan deliberò l'interdizione a vita dal dicastero della difesa per l'allora ministro Ariel Sharon. Israele seppe prendersi le sue reponsabilità, e i cristiani si prendano le loro senza scaricarle sugli altri. Ma il fatto notevole è che Sabra e Chatila non c'entrano poprio nulla con la polemica odierna con Netanyahu, a meno che la polemica non sia contro Israele in quanto tale. Se D'Alema desidera polemizzare contro Israele a tutti i costi, come fatto inerente e senza connessioni logiche di tempo e di spazio, allora abbia la bontà di metabolizzare la vergognosa sequela fino in fondo. Subito dopo Sabra e Chatila attivisti della Cgil organizzarono la processione in cui fu deposta una bara davanti alla Sinagoga centrale di Roma. Gli attacchi infiammatori sulla stampa italiana continuarono senza sosta specialmente da sinistra, finché pochi giorni dopo quasi inevitabilmente ci fu l'attacco terrorista al tempio che causò la morte di Stefano Gaj Taché e il ferimento di 40 persone. Se a 33 anni dai fatti l'odierna Israele deve portare la croce di Sabra e Chatila, con la stessa logica Massimo D'Alema si assuma la sua parte nelle responsabilità della sua fazione politica di allora per la morte del piccolo Stefano. La polemica velenosa e insinuante a tutto campo, dove non è affatto chiaro se la causa di tutti i mali sia un certo primo ministro di Israele o la stessa esistenza dello stato ebraico, alimenta il senso di assedio che prova oggi una parte notevole della comunità ebraica in Italia. Nel 2015, 353 persone sono emigrate dall'Italia in Israele, la cifra più alta a partire dal 1950. Grazie anche all'effetto D'Alema.

(moked, 21 gennaio 2016)


America contro Israele, again

Washington approva l'etichettatura dei prodotti degli insediamenti.

 
Lo scontro diplomatico tra Israele e Stati Uniti sta tornando ai suoi picchi di acidità, dopo qualche tempo di calma, almeno apparente, e di grandi rassicurazioni da parte di Washington, soprattutto per quel che riguarda il deal iraniano. I toni sono di nuovo ostili, coloriti, irrimediabili. Due giorni fa il portavoce del dipartimento di stato americano, John Kirby, ha detto: "Non pensiamo che etichettare l'origine dei prodotti dei settlements sia un boicottaggio di Israele, così come non pensiamo che etichettare l'origine dei prodotti equivalga a un boicottaggio". Kirby stava discutendo della politica degli insediamenti di Israele, condannandola ("il governo americano non ha mai sostenuto i settlement"), e a domanda diretta sulla politica europea di etichettatura dei prodotti degli insediamenti ha risposto avallandola. La questione - i lettori del Foglio lo sanno bene - non è marginale, fa parte di una cultura demonizzante nei confronti di Israele che in Europa va sempre forte e che contagia l'America. L'ambasciatore statunitense in Israele, Daniel Shapiro, parlando lunedì alla conferenza dell'Institute for National Security Studies a Tel Aviv, ha detto: "Troppe attività di vigilanza di Israele in Cisgiordania sono senza controllo, mancano inchieste chiare, a volte sembra che Israele abbia due standard di rispetto dello stato di diritto in Cisgiordania, uno per gli israeliani e uno per i palestinesi".
   Nello stesso giorno, si tenevano i funerali della mamma di sei bambini uccisa da un palestinese, e una donna incinta è stata assalita e ferita in un altro attacco. L'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito le dichiarazioni di Shapiro "inaccettabili e scorrette", e poi toni si sono ulteriormente inaciditi. Un ex collaboratore di Netanyahu, Aviv Bushinsky, commentando in tv il discorso di Shapiro, ha detto: "Per metterla giù in modo schietto, queste sono parole tipiche di un 'Yehudon'", che è un'espressione denigratoria tradotta più o meno con "ragazzino ebreo". Dopo le proteste, Bushinsky ha ribadito che non è la prima volta che sente un "nonsense" simile, è già successo, sempre detto da ebrei "che vogliono apparire liberal ed equilibrati". Il dipartimento di stato americano, sostenendo che l'etichettatura dei prodotti degli insediamenti non è un boicottaggio, ha anche difeso l'ambasciatore Shapiro. Ovviamente.

(Il Foglio, 21 gennaio 2016)


«Troppe attività di vigilanza di Israele in Cisgiordania sono senza controllo, mancano inchieste chiare, a volte sembra che Israele abbia due standard di rispetto dello stato di diritto in Cisgiordania, uno per gli israeliani e uno per i palestinesi», dice l’ambasciatore statunitense. Di nuovo una questione di diritto. Ma di quale diritto si può parlare in una regione il cui solo nome ricorda l’occupazione fatta in una guerra di aggressione da una pseudonazione fondata artificialmente su un territorio che aveva il nome puramente geografico di Transgiordania, trasformato poi nel nuovo nome nazionale di Giordania? L’antisemitismo giuridico si estende, favorito dal fatto che per ignoranza o malafede l’osservazione generale è puntata su altre cose. M.C.


La chiamata di Putin agli ebrei: "Lasciarono l'Urss, è ora che ritornino"

Il presidente russo si è detto "pronto ad accogliere gli ebrei d'Europa", in fuga dalla crescente ondata di antisemitismo che percorre l'Occidente.

di Giulia Bonaudi

Putin, venuto a sapere della crescente violenza antisemita, ha fatto sapere che "Gli ebrei dovrebbero venire qui, in Russia", "Hanno lasciato l'Unione Sovietica, adesso è tempo che ritornino", ha poi aggiunto.
La dichiarazione è stata rilasciata durante l'incontro con il presidente dell'European Jewish Congress, Moshe Vyacheslav Kantor.
Kantor ha apprezzato la proposta, definendola "Un'idea fondamentalmente nuova" e promettendo di presentarla ai leader della comunità ebraica europea in occasione della prossima assemblea dell'European Jewish Congress. Il leader ebreo, inoltre, si è espresso a favore del coinvolgimento russo in Siria, asserendo che il congresso "Sostiene in maniera decisa le azioni della Federazione Russa contro lo Stato Islamico".
Secondo un recente studio, si stima che in Francia il 43% della popolazione ebraica abbia valutato la possibilità di emigrare. "Perché gli ebrei stanno scappando dall'Europa che fino a poco tempo fa era sicura? Stanno scappando non solo a causa degli attacchi terroristici contro la nostra comunità a Tolosa, Bruxelles, Parigi, Copenhagen e adesso Marsiglia; ma perché temono il semplice fatto di camminare per le strade delle città europee", ha detto Kantor.
Le dichiarazioni di Putin sono state ben accolte, tant'è vero che per il movimento "World Israel Beytenu", Putin è da considerarsi un esempio: "Per il suo atteggiamento positivo nei confronti della comunità ebraica e dello Stato ebraico". Tuttavia, gli ebrei ucraini si sono dimostrati meno disponibili nei confronti dell'invito avanzato dal presidente russo: infatti il direttore del comitato degli ebrei ucraini, Eduard Dolinsky, ha fatto sapere che la sua chiamata sarebbe come quella del "Faraone verso gli ebrei".
Putin dal canto suo ribatte accusando l'Ucraina di anti-semitismo da quando, due anni fa, il presidente Victor Yanukovich è stato rovesciato dalla rivolta di Kiev; scatenando così la rabbia verso il Cremlino da parte degli ebrei ucraini che hanno creduto di essere stati manipolati e usati come pedine dalla propaganda nel conflitto.

(il Giornale, 21 gennaio 2016)


Una nuova formazione palestinese prende il posto di Hamas nei rapporti con Teheran

GAZA, 20 gen 13:26 - Una nuova formazione palestinese è sorta nella Striscia di Gaza e ha già preso il posto di Hamas come partner privilegiato dell'Iran. Secondo quanto scrive il quotidiano arabo "al Sharq al Awsat", da fonti palestinesi, il governo iraniano ha cominciato a sostenere un movimento sciita nella Striscia di Gaza sotto il nome di "al Saberoon". Le fonti hanno rivelato al quotidiano che Teheran ha abbandonato Hamas e il Jihad islamico, a causa del loro rifiuto di schierarsi contro l'Arabia Saudita dopo la rottura dei suoi rapporti con l'Iran. ''La nuova formazione sciita è riuscita ad attrarre molti nuovi aderenti grazie al denaro di Teheran, e a istituire una propria ala militare''.

(Agenzia Nova, 20 gennaio 2016)


Israele: neutralizzata una cellula guidata da Nasrallah jr

Cinque palestinesi arrestati in Cisgiordania, sventati attacchi

GERUSALEMME - Una cellula terroristica guidata via internet dagli Hezbollah libanesi e' stata neutralizzata in Cisgiordania con l'arresto di cinque palestinesi di Tulkarem che progettavano una vari attacchi. Lo ha reso noto oggi lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano.
La cellula, secondo lo Shin Bet, ha ricevuto ordini e primi finanziamenti dall'Unita' 133 degli Hezbollah: in particolare da Jawad Nasrallah, figlio del leader Hassan Nasrallah. La cellula progettava anche attacchi suicidi e l'episodio, aggiunge lo Shin Bet, conferma che gli Hezbollah cercano di ''cavalcare'' e di alimentare (''finora invano'') i venti di rivolta fra i palestinesi della Cisgiordania.

(ANSAmed, 20 gennaio 2016)


Accordo segreto Svizzera-OLP nel 1970

 
I passeggeri e l'equipaggio dell'aereo Swissair dirottato sul campo d'aviazione "Campo di Dawson" vicino Zerqa in Giordania (9 settembre 1970)
Un accordo segreto fra la Svizzera e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) decisa nel settembre del 1970, durante il sequestro di una aereo Swissair e altri due velivoli nel deserto Giordano. È la tesi del libro di un giornalista della NZZ.
L'autore Marcel Gyr ricostruisce nel volume il periodo fra il febbraio 1969 e il settembre 1970, quando la Svizzera si trovò nel mirino del terrorismo palestinese.
L'accordo segreto sarebbe stato raggiunto dall'allora consigliere federale Pierre Graber (PS) - senza chiedere il parere dei colleghi di governo - in un incontro con il responsabile degli affari esteri dell'OLP, Farouk Kaddoumi, organizzato a Ginevra dall'ex consigliere nazionale Jean Ziegler (PS).
Quella decisione portò alla liberazione di tre terroristi palestinesi che il 18 febbraio 1969 attaccarono un aereo della compagnia israeliana El-Al che stava decollando da Zurigo-Kloten.
Nell'attacco morirono il pilota e un terrorista palestinese, ucciso da un agente della pubblica sicurezza israeliana che si trovava a bordo. Gli altri tre attentatori furono arrestati e condannati a dodici anni di reclusione. Nel settembre 1970 la loro liberazione fu patteggiata con quella di 400 persone prese in ostaggio dal "Fronte popolare di liberazione della Palestina" (FPLP).
Il rilascio dei tre attentatori avvenne quando gli ostaggi che si trovavano sugli aerei della Swissair, della compagnia britannica BOAC e dell'americana TWA erano già stati liberati. I tre velivoli furono dirottati fra il 6 e il 9 settembre 1970 e fatti atterrare a Zerqa, nel deserto della Giordania, dove dopo tre settimane furono fatti saltare in aria davanti alle telecamere delle tv.
L'accordo segreto ebbe tuttavia conseguenze anche sull'inchiesta per quello che l'autore definisce "il più grave atto criminale della storia recente della Svizzera": il 21 febbraio 1970, una bomba fece schiantare a terra un velivolo della Swissair a Würenlingen (AG), provocando la morte di tutte le 47 persone che si trovavano a bordo.
La deflagrazione fu provocata da una bomba esplosa nel bagagliaio grazie a un meccanismo collegato ad un altimetro. L'inchiesta stabilì che il pacco con la carica esplosiva fu spedito da Monaco, per un destinatario di Gerusalemme. I mittenti erano i cittadini giordani Sufian Radi Kaddoumi e Badawi Mousa Jahwer, che non sono però mai finiti davanti a un tribunale.
Non si è mai potuto chiarire se il terrorista Sufian Kaddoumi fosse imparentato con il rappresentante dell'OLP, Farouk Kaddoumi, incontrato a Ginevra da Pierre Graber.
Anche quell'attentato fu tuttavia rivendicato dal gruppo terroristico palestinese FPLP. Il pacco bomba in realtà era destinato a un aereo della compagnia israeliana El-Al, ma fu smistato sul Coronado della Swissair perché l'aereo israeliano era in ritardo.
Il giornalista si chiede come mai l'inchiesta su quei fatti fu archiviata senza che nessuno sia mai stato chiamato in giudizio. Marcel Gyr ritiene di aver raccolto molti indizi secondo cui l'archiviazione era legata all'accordo segreto. A distanza di 46 anni i documenti conservati nell'archivio federale sono ancora coperti da segreto, ma finiranno di esserlo dopo 50 anni. Possibile quindi che fra qualche anno se ne saprà di più.

(swissinfo.ch, 20 gennaio 2016)


Roma - Accordo Ama-Comunità Ebraica per la raccolta differenziata

Una joint-venture strategica per la gestione integrata del ciclo dei rifiuti della Capitale

ROMA - Soluzioni innovative per la gestione territoriale dei rifiuti e incremento dei volumi di raccolta differenziata. Sono questi i punti cardine dell'accordo sottoscritto oggi fra la Comunità Ebraica di Roma e Ama, con il coinvolgimento e il sostegno dell'attuale Amministrazione Straordinaria capitolina.

 Ama e la Comunità Ebraica firmano un accordo
  L'accordo - informa una nota - è stato firmato presso la sede del Museo della Comunità Ebraica in largo Stefano Gaj Tachè dal Presidente Ruth Dureghello e dal Presidente di Ama, Daniele Fortini, alla presenza del Sub Commissario con delega ai Rifiuti e all'Ambiente di Roma Capitale, Generale Camillo De Milato. Il testo dell'intesa - «Lettera di intenti tra Ama Spa e Comunità Ebraica di Roma» - definisce una "joint-venture" strategica tra le parti, con l'obiettivo di attuare un progetto pilota territoriale innovativo in tema di gestione integrata del ciclo dei rifiuti. Nel progetto saranno coinvolte le attività imprenditoriali (ristorazione, negozi, ecc.) e sociali (scuole, centri sportivi, luoghi di aggregazione) della comunità, a partire dalla zona del "Portico d'Ottavia".

 Una collaborazione multiculturale per la gestione dei rifiuti urbani
  Un team tecnico Ama-Comunità Ebraica studierà la mappatura delle aree interessate e le azioni da programmare, che saranno poi pianificate e sperimentate a partire dalla seconda metà del 2016. Tra gli obiettivi prefissati, l'attivazione di campagne informative congiunte sulle buone pratiche della raccolta differenziata. La collaborazione che viene avviata è particolarmente importante in quanto, come si legge nel testo dell'accordo, «nella matrice multiculturale del tessuto cittadino della Capitale il rilievo economico-sociale, peraltro fortemente radicato, della Comunità Ebraica, è un indubbio elemento propulsore per la sperimentazione di nuove tecnologie e implementazioni nel campo della gestione dei rifiuti giornalmente prodotti da tutte le attività imprenditoriali e sociali».

(Diario di Roma, 20 gennaio 2016)


Raiz
Sinagoga, Raiz & Radicanto in concerto

Raiz in concerto alla Sinagoga di Napoli: 24 gennaio 2016.

Tornano insieme nella Sinagoga napoletana Raiz e i Radicanto, domenica 24 gennaio alle ore 18.00, per portarci sulle note della loro musica, fatta di tradizioni e mescolanze, fondendo insieme i canti ebraico sefarditi e la musica tradizionale napoletana. Il progetto, che nasce dall'incontro di Raiz con il gruppo barese Radicanto (Giuseppe De Trizio e Fabrizio Piepoli), rende evidente, tra una cantiga sefardita, un tradizionale mediorientale e una qualche nota canzone napoletana, come tutti i popoli mediterranei abbiano radici e musicalità comuni.
Un concerto che travalica i confini, da qui il titolo "Yam Gadol" (mare grande), portando un messaggio di pace, mutuo riconoscimento e rispetto in una parte di mondo ancora purtroppo attraversata da dolorosi conflitti.

(Napoli today, 20 gennaio 2016)


Servizi di sicurezza palestinesi: "Sventati duecento attacchi contro gli israeliani"

L'intelligence ha anche arrestato circa cento palestinesi

RAMALLAH - I servizi di sicurezza palestinesi hanno sventato almeno duecento attentati contro israeliani e arrestato circa cento palestinesi che stavano progettando attacchi. Lo ha detto - citato dai media locali - il capo dell'intelligence palestinese, generale Majd Faraj.
Secondo il generale, le forze palestinesi continueranno ad operare coordinandosi con quelle israeliane al fine di prevenire "caos e ingresso di elementi radicali come quelli dell'Isis" all'interno della Cisgiordania.
"Mantenere il coordinamento alla sicurezza è importante fino a che non ripartiranno i negoziati" ha detto Faraj: "la violenza e il terrorismo - ha aggiunto - non aiuteranno i palestinesi a raggiungere il loro sogno".

(tio.ch, 20 gennaio 2016)


Il sondaggio di Paris Match. I francesi difendono la kippah

Ha aperto subito un grande dibattito sui valori della libertà religiosa e della lotta all'antisemitismo l'appello del rappresentante del Consistoire di Marsiglia Zvi Ammar a non indossare più la kippah
"fino a giorni migliori", dopo l'attentato terroristico perpetrato contro un insegnante ebreo diretto in sinagoga. Immediata è stata la risposta contraria del gran rabbino di Francia Haim Korsia - che ha affermato la necessità di "non cedere a nulla" - e del presidente del Conseil Représentatif des Institutions juives de France Roger Cukierman. A essere d'accordo con loro, ha rivelato in questi giorni un sondaggio del settimanale Paris Match, è il 70 per cento dei cittadini d'Oltralpe, che si è dichiarato convinto che gli ebrei non debbano rinunciare a portare la kippah....

(moked, 20 gennaio 2016)


Rabbini contro l'ampliamento del Kunsthaus di Zurigo

La costruzione sorgerà su un presunto antico cimitero ebraico della città - La protesta è avvenuta ieri davnti al consolato svizzero di New York.

La sede storica della Kunsthaus di Zurigo
NEW YORK - Un centinaio di rabbini hanno protestato ieri a New York, davanti al consolato generale della Svizzera, contro il progetto di ampliamento del Kunsthaus di Zurigo. La costruzione sorgerà su un terreno che ricopre il più antico cimitero ebraico della città sulla Limmat. I rappresentanti di "Asra Kadisha", organizzazione ebreo-ortodossa impegnata da quasi 50 anni per la salvaguardia dei cimiteri ebraici in tutto il mondo, hanno manifestato ieri sera (ora locale) davanti alla sede consolare elvetica nonostante il freddo pungente.
I lavori d'ampliamento del Kunsthaus di Zurigo, approvati in votazione nel 2012, sono iniziati la scorsa estate. La nuova ala del museo, disegnata dall'architetto David Chipperfield, si trova su un terreno dove si presume esista, a una profondità di 5-7 metri, un cimitero ebraico risalente al 1380, quando agli ebrei fu permesso di ritornare a Zurigo dopo un periodo di persecuzioni. In vista della realizzazione del progetto, i responsabili del museo e le autorità cittadine avevano assicurato che i lavori sul cantiere saranno eseguiti con il massimo rispetto per il luogo sacro. In accordo con organizzazioni ebraiche di Zurigo si è inoltre deciso che le salme ritrovate durante gli scavi saranno traslate in un luogo adatto.
"Asra Kadisha" e le organizzazioni ebraiche di Brooklin si oppongono alle traslazioni. Per la religione ebraica quel terreno è sacro e non può essere toccato, ha detto all'ats il portavoce "Asra Kadisha" Sam Stern. I dimostranti hanno trasmesso le loro rimostranze al console generale di Svizzera a New York André Schaller. Il rappresentante diplomatico ha assicurato che trasmetterà le richieste alle autorità competenti in Svizzera, ha dichiarato il portavoce.

(Corriere del Ticino, 20 gennaio 2016)


Il ripudio degli ebrei

Il 27 gennaio indossiamo la kippah contro il pilatismo dell'Europa

E' dunque arrivato, nelle conclusioni del Consiglio degli Affari esteri dell'Unione europea, il documento di cui ha scritto ieri il Foglio e che stabilisce il principio che "tutti gli accordi tra Israele e l'Ue dovranno inequivocabilmente ed esplicitamente indicare l'inapplicabilità nei territori occupati da Israele nel 1967". Una dichiarazione talmente ostile allo stato ebraico da spingere i ministri europei a specificare che "non si tratta di un boicottaggio di Israele".
Invece lo è, eccome: dopo aver marchiato i prodotti israeliani con lo stigma di "made in Territori occupati", adesso l'Europa decide a tavolino che Israele "occupa" il proprio stesso territorio, quello della guerra del 1967 che dovrebbe essere oggetto di negoziati con i palestinesi e non di decisioni unilaterali. C'è una strana sincronia di tempi e segni: mentre l'Europa rimuove le sanzioni alla Repubblica islamica dell'Iran, che festeggerà la Giornata della memoria in Europa (27 gennaio) con un altro concorso di vignette irriverenti sulle camere a gas, la stessa Europa si appresta a celebrare la Giornata della memoria imponendo altre sanzioni, altra solitudine, allo stato degli ebrei. II 27 gennaio, Papa Francesco, benemerito, andrà in moschea a Roma a omaggiare l'islam, le cui frange radicali sono impegnate nella distruzione di Israele. Noi del Foglio indosseremo una piccola kippah, la regaleremo pure ai nostri lettori: una testimonianza contro quest'aria pilatesca di ripudio degli ebrei che tira in tutta Europa.

(Il Foglio, 20 gennaio 2016)


Sergio Levi pediatra e scienziato, l'Ospedale Meyer sacrificò il suo talento

Libro e convegno sul medico ebreo. La sua camera fu distrutta dalle leggi razziali. In seguito la famiglia finì sterminata ad Auschwitz.

di Maria Cristina Carratù

Sergio Levi
Fra il 1935 e il 1938 il dottor Sergio Levi, classe 1910, era stato un giovane e promettente pediatra dell'Ospedale Meyer, destinato a una fulgida carriera.
   Il 13 ottobre dell'anno XVI dell'Era Fascista, a poche settimane dal varo delle leggi razziali, è cacciato dal suo incarico di assistente volontario con poche righe del rettore dell'Ateneo: "Levi dottor Sergio ... di razza ebraica ... è sospeso dai suoi obblighi universitari". E' un giovedì, per fare le valigie dal Meyer ha tempo tre giorni, dal lunedì dirà addio alla carriera di medico universitario. Potrà esercitare la professione in privato, ma solo per i bambini ebrei. La tragedia europea è alle porte, Levi ne uscirà vivo, e però amputato del suo sogno. Una storia che sta per diventare un libro ("1938-1945. Una vita sospesa", Castelvecchi editore), a firma del figlio Giulio, e sarà raccontata per la prima volta il 26 gennaio prossimo
In realtà la data è il 12 febbraio. Ved. in seguito
nel luogo che più di ogni altro era tenuto a saldare il suo debito con il giovane pediatra, passato di lì nell'epoca sbagliata: l'ospedale Meyer. Con un convegno voluto dal direttore generale Alberto Zanobini, che frugando nell'archivio dell'ospedale ha scoperto questo caso dimenticato, e dedicato a Levi una targa.
   Una storia cominciata in una normale famiglia della borghesia ebraica fiorentina, proseguita con la laurea in Medicina, a pieni voti, la specializzazione in pediatria e l'ingresso all"'ospedalino" come assistente volontario, preludio ai ranghi accademici ospedalieri. Un esordio di successi, ricorda il figlio Giulio, «che lo aveva predestinato a una carriera sicura». Finché, come un colpo di mannaia, arrivano le leggi razziali. Sergio Levi ha appena 28 anni ed è già sposato con Matilde "Tilde" Vita, il piccolo Giulio ha poco più di un anno. Apre uno studio in centro, ma curare i bambini di una comunità ebraica piccola come quella fiorentina significa non campare. Tenta perciò la sorte all'estero, prima in Francia, poi in Inghilterra, tornando quasi subito indietro. Troppe difficoltà, nessun appoggio su cui contare, mentre a Firenze la famiglia lo reclama (sta per arrivare una bambina, che nascerà nel '39).
   Il clima politico, intanto, peggiora. Le campagne di stampa contro gli ebrei si intensificano, i delatori sono ovunque, stare in città è diventato pericoloso. Quando scoppia la guerra, nel '40, Sergio, Matilde e i due piccoli sono al Bandino, in una villa della famiglia Vita. Lui cura bambini ebrei e (di nascosto) non ebrei, ma per sopravvivere deve anche occuparsi del podere, studia agronomia e teme di dover dire addio alla medicina. Finché, con 1'8 settembre, tutto precipita Bisogna dileguarsi, la famiglia di un bimbo ex paziente accoglie i Levi a Greve, poi li nasconde alla Badiaccia, in casa di un boscaiolo, dove Sergio è salvato dalla sua professione: un fascista della squadraccia che irrompe nella casa, cui è morto un figlio al Meyer, si commuove sentendo che è pediatra, e gli dà modo di fuggire. E' il gennaio del '44. Parte della famiglia di Levi, sfollata poco distante, è stata già segnata: scoperta dalla banda Carità, presto sarà sterminata ad Auschwitz. Stessa sorte attende padre e madre di Sergio, e suo fratello minore Aldo, mentre il maggiore, Cesare, scamperà fortunosamente alla retata Il cerchio si stringe: il dottore, con moglie e bambini, riparati in una casa di Firenze, tentano la fuga in Svizzera, a piedi, attraverso le Alpi. E' un grande rischio: ma si salvano. Sergio trova posto come pediatra in un campo di profughi, dove resta con Tilde, mentre i bambini sono destinati a due diverse famiglie a Lucerna e Zurigo. Per un anno, genitori e figli si vedranno solo ogni tanto. E quando tornano a Firenze è già il luglio del 1945. Sergio ha 35 anni, deve ricominciare da zero. Al Meyer altri hanno preso il suo posto, il sogno della carriera ospedaliera è finito. Il primario, però, il professor Cocchi, che ricorda bene il brillante allievo di un tempo, gli apre le porte dell'ospedale Umberto I di via Gabriele D'Annunzio, che ospita bambini con disagi fisici e psichiatrici. Levi diventa direttore e ricomincia a studiare, si specializza in neuropsichiatria psichiatria infantile, insieme a Giovanni Bollea contribuisce allo sviluppo degli studi in questo campo, ammoderna e rilancia l'ospedale.
   Quando, nel 1966, a 56 anni, muore per un ictus, è un medico famoso, e un libero docente. La commissione esaminatrice, che valutava i suoi studi per conferirgli il titolo accademico, aveva girato il coltello nella piaga: non ci fossero state le leggi razziali, gli aveva chiesto, cosa sarebbe stato già pubblicabile? Già, non ci fossero state le leggi razziali.

(la Repubblica, 20 gennaio 2016)


Un bresciano a scuola con gli agenti israeliani

È stato uno dei pochi italiani ammesso alla scuola di addestramento delle forze speciali israeliane. Andrea Bonera, titolare della palestra «No pain-No gain» a Concesio è in questi giorni a Tel Aviv per apprendere i segreti del krav maga, un'arte marziale inventata dagli israeliani nella prima metà del '900 e poco conosciuta in Italia. Dopo aver superato vari step Bonera - già istruttore civile di difesa personale israeliana della federazione Ikmf - sta partecipando al corso Law Enforcement che si svolge nella base militare Idf. Il percorso di formazione rivolto prevalentemente a soldati e poliziotti dei reparti speciali ma anche ad agenti del Mossad, affronta tutti i tipi di tecniche di aggressione a mano nuda o armata. Con lui si stanno addestrando anche 16 operatori delle forze speciali Israeliane. Al termine del corso, se la sessione di esami sarà positiva, Andrea Bonera, 41 anni, riceverà l'attestato di addestratore per le forze dell'ordine pubblico e privato.

(Bresciaoggi, 20 gennaio 2016)


Dispositivo israeliano alla scoperta di Giove

 
Nel 2030, se tutto dovesse andare secondo i piani, gruppi di ricerca di tutto il mondo riceveranno dati sul pianeta Giove - per fare ciò si serviranno anche di un dispositivo made in Israel.
Il dispositivo decollerà nel 2022 a bordo della JUICE - JUpiter ICy satellite Explorer. La missione è stata pianificata dall'Agenzia Spaziale Europea per investigare sulle proprietà del più grande pianeta del sistema solare. Tra le altre cose, i gruppi di ricerca sperano di scoprire la possibile esistenza di condizioni necessarie per la vita in prossimità del pianeta.
Commenta il Dott. Yochai Kaspi, del Weizmann Institute:

Questa sarà la prima volta che un dispositivo costruito in Israele sarà portato oltre l'orbita terrestre.

Il contributo israeliano è un orologio atomico che misurerà piccole oscillazioni in un fascio radiofonico fornito da un team italiano. Questo orologio deve essere così accurato che non può perdere nemmeno un secondo in 100.000 anni.
Kaspi quindi si è rivolto alla ditta israeliana AccuBeat, che produce orologi usati negli aerei ad alta tecnologia. Gli ingegneri di AccuBeat, insieme a Kaspi e al suo team, tra cui il Dott. Eli Galanti e la Dott.ssa Marzia Parisi, hanno trascorso gli ultimi due anni nella ricerca e sviluppo di un dispositivo che non solo risponda alle esigenze della sperimentazione, ma che possa anche sopravvivere al viaggio di otto anni verso Giove e che possa funzionare nel lontano spazio esterno.
I progettisti sono stati recentemente informati che il loro design è stato approvato per il volo da parte dell'Agenzia Spaziale Europea. Ministero della Scienza e della Tecnologia di Israele finanzierà la ricerca, la costruzione e il montaggio del dispositivo.
Il 2022 è la data di lancio e durante l'attesa Kaspi intende lavorare sulla costruzione di modelli teorici che possano essere testati e confrontati con i dati che riceveranno in futuro dai loro strumenti.
La ricerca del Dott Yohai Kaspi è supportata dall'Helen Kimmel Center for Planetary Science.

(SiliconWadi, 20 gennaio 2016)


Scandalo a Gerusalemme. Truffe sui viaggi ad Auschwitz

Nove israeliani in manette. I manager di sei agenzie turistiche accusati di lucrare sull'Olocausto Avevano costituito un cartello per alzare le tariffe delle gite scolastiche

di Maurizio Stefanini

Secondo l'uso italiano di chiamare gli scandali dai tempi di Tangentopoli, bisognerebbe forse chiamarlo Auschwitzopoli. Secondo l'uso anglo-sassone dai tempi del Watergate, Auschwitzgate. In realtà, la vicenda che ha portato all'arresto di nove manager di agenzie del turismo israeliane non è né una questione di mazzette, né di spionaggio, ma un caso di cartello economico. Le imprese si sarebbero messe d'accordo, per lucrare al massimo sui prezzi delle visite degli studenti negli ex-campi di sterminio in Polonia.
   Può sembrare poca roba in un Paese che ha molte virtù ma in cui i politici sono altrettanto facili a finire sotto inchiesta che in Italia, e in cui sono attualmente in carcere sia un ex-presidente che un ex-primo ministro. L'uno, Moshe Katsav, capo dello Stato tra 2000 e 2007, condannato il 22 marzo 2011 a sette anni per stupro, molestie sessuali, atti di libidine violenta, intimidazione di testimone e ostruzione della giustizia; l'altro, Ehud Olmert, capo del governo tra 2006 e 2009, condannato il 13 maggio 2014 a sei anni per abuso di fiducia e corruzione. In Europa al massimo le normative anti-trust sono punite con sanzioni amministrative, in genere multe salatissime. Negli Usa lo storico Sherman Act prevede invece fino a un anno di carcere, ma anche lì più che altro si interviene per smantellare l'accordo. In Israele, però, l'Olocausto tocca sensibilità ancora molto vive, che riguardano l'identità e la ragione di essere stessa dello stato Ebraico. E non solo in Israele, d'altronde. La stessa Germania ha ora aperto un processo contro una ex-Ss ormai 95enne che come infermiere a Auschwitz si sarebbe reso complice dell'uccisione tra 3.681 deportati: compresa quello che è forse la vittima più simbolica di tutta la Shoah, Anna Frank.
   Tra l'altro, uno dei grossi argomenti della propaganda antisemita è oggi proprio quello che Israele starebbe «lucrando sull'Olocausto». Insomma, gonfiare i biglietti dei giovani che vanno a vedere i luoghi dove i loro coetanei e correligionari venivano mandati nelle camere a gas e nei forni crematori è percepita nello Stato ebraico come un'infamia difficilmente perdonabile. La polizia ha dunque perquisito gli uffici e le case di diversi sospetti, congelando alcuni conti. Sono almeno sei le agenzie di viaggio finite nel mirino delle autorità, sospettate di essersi messe d'accordo sui prezzi prima di partecipare a una gara del ministero dell'Educazione per portare gli studenti nei luoghi dell'Olocausto. Infatti, quando il ministero si è rivolto alle differenti compagnie, si è accorto che varie agenzie gli rispondevano con le stesse tariffe, cosa che ha fatto scattare un campanello di allarme. Dal 1988, migliaia di giovani israeliani ogni anno si recano in Polonia per la «Marcia della Vita», pagando il viaggio migliaia di shekel. «Se le accuse dovessero essere confermate la notizia susciterebbe un'enorme ondata di sdegno del Paese», ha commentato il corrispondente della Bbc da Gerusalemme Kevin Connolly. «È inaccettabile che si speculi sulle visite ai luoghi simbolo dell'Olocausto, considerato dai giovani israeliani un rito di passaggio, carico di significato e solennità». Appena il4 gennaio la stampa israeliana aveva informato che nel corso del 2015 in visita ad Auschwitz era andata una cifra record di 1.720.000 visitatori: nel 2014 erano stati 1.534.000, e la cifra è andata via via crescendo ogni anno a partire dai 500.000 del 2000.
   Nel 2015, 425.000 dei visitatori erano venuti dalla stessa Polonia, 220.000 dal Regno Unito, 141.000 dagli Usa, 93.000 dalla Germania, 76.000 dall'Italia, 68.000 dalla Spagna, 61.000 da Israele, 57.000 dalla Francia, 47.000 dalla Repubblica Ceca e 43.000 dai Paesi Bassi. Il 12 gennaio papa Francesco ha fatto sapere che si recherà in visita a Auschwitz quest'estate.

(Libero, 20 gennaio 2016)


Il francese Valls durissimo in difesa della lalcité (e di Israele)

A Parigi il premier entra nella "querelle Badinter" e attacca "le organizzazioni che contribuiscono al clima nauseabondo".

Manuel Valls
PARIGI - "Un collaboratore di un osservatorio della République non può prendersela con una filosofa come Elisabeth Badinter. Non perché è una filosofa, e nemmeno perché si chiama Elisabeth Badinter, ma per le sue dichiarazioni: quella di Badinter è una difesa intransigente della laicità in molti ambiti che condivido. E questo deve essere ricordato a tutti. L'osservatorio è indipendente, ma in questo caso sono state varcate delle linee". Con queste parole il primo ministro, Manuel Valls, è intervenuto ieri nella querelle che ha visto protagonisti in questi giorni la femminista Elisabeth Badinter e alcuni membri dell'Observatoire de la laicité, organo che assiste il governo nella sua azione di difesa della laicità. Invitato dagli Amis du conseil représentatif des institutions juives de France (Crif), Valls ha difeso la Badinter, che la scorsa settimana, su France Inter, aveva dichiarato che la laicità va difesa anche a costo di "farsi trattare da islamofobi" e per questo era stata accusata da Jean-Louis Bianco e Nicolas Cadène, direttore e relatore generale dell'Observatoire, di aver "distrutto" con un'intervista "un lavoro di pedagogia di tre anni sulla laicità".
  Ha parlato di molte cose, Valls, durante la serata organizzata ieri dal Crif. Si è soffermato a lungo sugli attentati terroristici che hanno insanguinato Parigi nel 2015, ha detto che "le critiche alla politica di Israele si sono trasformate in un 'antisionismo' che dissimula pressoché sistematicamente un antisemitismo", ha tuonato contro le numerose "organizzazioni che partecipano a questo clima nauseabondo", a partire dalla campagna internazionale di boicottaggio di Israele "BDS", ma del suo discorso è la parentesi sulla laicità che ancor più delle altre ha suscitato grande approvazione. Oltre alla polemica virulenta che ha coinvolto la Badinter, il primo ministro ha fustigato la decisione dell'Observatoire de la laicité di firmare un appello su Libération, intitolato "Nous sommes unis", accanto a Samy Debah e Yasser Louati, direttore e portavoce del controverso Collectif contre l'islamophobie en France (Ccif), Radia Bakkouch, presidente dell'associazione interconfessionale Coexister, e Nabil Ennasri, giovane leader musulmano e figura ambigua vicina ai Fratelli musulmani: "L'Observatoire de la laicité - che è sotto la mia responsabilità - non può essere un organo che snatura la realtà di questa laicità. Deve essere chiaro sugli appelli che firma: non si possono firmare appelli, compresi quelli per condannare il terrorismo, con organizzazioni che ritengo corresponsabili di un clima nauseabondo. Non è possibile". Chiarezza e intransigenza, dunque, sulla sacra laicité: un tema che al premier socialista sta a cuore da molto tempo. Il suo primo libro, "La laicité en face" (2003), è una raccolta di interviste realizzate ai tempi in cui era sindaco di Evry, dalla quale emerge il suo attaccamento ai princìpi della legge del 1905 che separa la chiesa dallo stato. Dieci anni dopo, sulla stessa scia, ha pubblicato "La laicité en France", manifesto della sua battaglia per una "laicità esigente". Valls è l'unico in seno all'esecutivo socialista ad aver capito che il politicamente corretto è il miglior alleato dell'islamismo, che autocensurarsi quando si tratta di nominare la matrice religiosa del terrorismo - quel "silence religieux" denunciato dal giornalista del Monde Jean Birnbaum in un saggio appena uscito - non soltanto elude un problema che rischia di peggiorare, ma fa male ai milioni di fedeli che in giro per il mondo si battono per un islam dialogante e compatibile con le società occidentali. Alla sinistra pol. corr., Valls preferisce la "gauche Badinter".

(Il Foglio, 20 gennaio 2016)


Netanyahu in partenza per Davos

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è in partenza per Davos, in Svizzera per partecipare alla riunione annuale del World economic forum dove incontrerà sia politici sia imprenditori. Per quanto riguarda gli incontri a tema politico il premier israeliano incontrerà gli omologhi di Argentina e Olanda, mentre per quelli a carattere economico incontrerà i rappresentanti di Hewlett-Packard, di Uber e di Kaspersky lab. Secondo il programma, Netanyahu dovrebbe partecipare ai lavori del forum giovedì per poi fare rientro nel paese a Tel Aviv venerdì. Della delegazione israeliana che prenderà parte al forum faranno parte Eli Groner, direttore generale dell'ufficio del primo ministro, Avi Simhon, consigliere economico del premier e Evyatar Matanya, capo del National cyber bureau.

(Agenzia Nova, 20 gennaio 2016)


Il doppio gioco di Hamas, tra Iran e Arabia Saudita

Rischia di far esplodere il Medio Oriente

di Davide Vannucci

L'offerta, secondo il giornale saudita Asharq al-Awsat, che cita fonti palestinesi, sarebbe arrivata un paio di settimane fa, in preparazione alla fine delle sanzioni che per anni hanno impedito all'Iran di accedere a fondi depositati presso banche estere (non ci sono cifre ufficiali, ma si parla di cento miliardi di dollari): tornate sotto la nostra ala protettiva, vi daremo del denaro, vi sosterremo, ed in cambio voi prenderete le nostre parti nelle disputa con l'Arabia.
   Il latore della proposta sarebbe stato il ministro degli Esteri iraniano Javed Zarif, in un incontro con il rappresentante di Hamas a Teheran, Khaled Qaddumi, il quale avrebbe rifiutato. Al di là dell'episodio, però, tutto da verificare, è evidente come il movimento islamista, già in difficoltà nel gestire la Striscia di Gaza e nel far fronte alla "concorrenza" di gruppi ancora più estremisti, come lo Stato Islamico, si trovi invischiato in una disputa, quella tra Iran ed Arabia Saudita, che mette a nudo una delle sue contraddizioni fondamentali.
   Hamas, infatti, è un'organizzazione sunnita, ma, almeno fino allo scoppio della primavera araba, è stata sostenuta dall'Iran sciita e dal suo alleato, il presidente siriano Bashar al Assad. La leadership politica del movimento, rappresentata da Khaled Meshaal, è stata ospitata proprio a Damasco, fino all'inizio della guerra civile in Siria. A quel punto, Hamas è stata costretta a scegliere tra il fronte sunnita, che si era rivoltato contro Assad, e quello sciita, da cui l'organizzazione veniva finanziata. Meshaal ha optato per la prima soluzione e ha preso la strada di Doha, accettando la protezione del Qatar (uno dei principali sostenitori della rivolta siriana).
   L'anno scorso, poi, l'Arabia Saudita - che, pur essendo sunnita, era stata ostile ad Hamas, così come alle altre espressioni della Fratellanza Islamica - ha deciso di ricucire lo strappo con quel mondo (nel luglio 2015 una delegazione del movimento, guidata da Meshaal e dal suo braccio destro, Musa Abu Marzouk, è andata in visita a Riad). Allo stesso tempo, l'Iran, bisognoso di alleati nella scacchiera geopolitica mediorientale, in un'era di rinnovata contrapposizione con i sauditi, ha cercato di tornare agli antichi rapporti col movimento.
   Le tensioni di inizio anno tra le due potenze regionali, avviate dall'esecuzione in Arabia dello sceicco sciita Nimr al Nimr e sfociate nella rottura delle relazioni diplomatiche, hanno messo Hamas in una posizione ancora più difficile. Di fronte alla presunta offerta degli iraniani, Meshaal avrebbe rifiutato, temendo di perdere il sostegno del fronte sunnita ("l'equazione è chiara: come movimento di liberazione, abbiamo bisogno del supporto di tutti, per cui non ci uniremo mai ad un'alleanza contro il mondo sunnita", ha dichiarato al giornale saudita un funzionario di Hamas che vive nella West Bank).
   La posizione di Meshaal, però, non sarebbe condivisa da tutto il movimento: i capi dell'organizzazione a Gaza, infatti, tornerebbero volentieri sotto l'ala protettiva di Teheran, così come l'ala militare di Hamas, le Brigate Ezzedin al Qassam. Del resto, nel coacervo di gruppi fondamentalisti della Striscia ce ne sono altri sostenuti dall'Iran (lo era la Jihad Islamica Palestinese, prima che rompesse con Teheran riguardo alla guerra in Yemen, lo è ancora adesso un'organizzazione Harakat al-Sabireen, che porta simboli molto simili a quelli di Hezbollah e dei pasdaran iraniani).
   Il mese scorso Ismail Haniyeh, l'ex premier di Hamas a Gaza, in un videomessaggio ha chiesto l'aiuto di Teheran per sostenere la "terza intifada" (quella che è stata battezzata da più parti "intifada dei coltelli" e che in realtà è nata al di fuori della leadership tradizionali). Meshaal, invece, propende più per i sunniti. Una scelta che potrebbe avere conseguenze anche sul piano interno. L'Anp di Abu Mazen fa parte della coalizione creata da Riad contro lo Stato Islamico e Riad potrebbe lavorare ad un riavvicinamento tra le due grandi fazioni palestinesi, Hamas e al Fatah (e, in prospettiva, a una tregua dell'organizzazione con Israele, il nemico per antonomasia dell'Iran). Chissà se il movimento riuscirà a resistere al corteggiamento di Teheran. Il timore di israeliani e sauditi è che parte dei fondi sbloccati dalla fine delle sanzioni vadano ad accrescere questo pressing.

(East Magazine, 19 gennaio 2016)


L'Ue spara su Israele: «I Territori palestinesi sono un altro Paese»

di Giuseppe Marino

ROMA - Da Bruxelles una nuova cannonata contro Israele. Se serviva la conferma che il vento della politica estera europea soffia sempre più in direzione contraria a Gerusalemme, ieri è arrivata, nero su bianco. Sotto forma di conclusioni del Consiglio degli affari esteri dell'Ue presieduto da Federica Mogherini. Nel documento, l'organismo che rappresenta i ministri degli Esteri europei stabilisce il principio che «tutti gli accordi tra lo Stato di Israele e l'Ue dovranno inequivocabilmente ed esplicitamente indicare l'inapplicabilità nei territori occupati da Israele nel 1967». La dichiarazione, auspicata da Hamas e proposta da Svezia e Irlanda, è così perentoria e polemica da spingere i ministri a specificare che «non si tratta di un boicottaggio di Israele». A quello in realtà l'Europa ci aveva già pensato col precedente provvedimento, quello che impone di specificare nell'etichettatura dei prodotti la provenienza dai Territori palestinesi. Lo statement di ieri ha però un significato politico molto forte perché, anche se le pressioni israeliane sono riuscite a evitare una posizione ancora più dura, cioè porre come obiettivo della politica estera Ue la divisione tra Israele e i Territori, resta il fatto che questa divisione per la prima volta viene certificata e può diventare un precedente, un esempio anche per altri Paesi.
   Da Israele non nascondono il fastidio: «In quel documento - dice Amit Zarouk, portavoce dell'ambasciata israeliana in Italia - quando c'è da condannare un'azione di Israele, viene citata esplicitamente, quando si condannano azioni palestinesi si parla di "entrambe le parti"».Una classica ipocrisia delle burocrazie europee che da sempre fa infuriare Gerusalemme. Per di più la mossa di Bruxelles arriva proprio mentre in Israele si moltiplicano gli attentati terroristici palestinesi.

(il Giornale, 19 gennaio 2016)


Troppi silenzi su Abu Mazen. Ebrei scontenti del Papa

Bergoglio ha preferito parlare di ecologia piuttosto che di Palestina

di Salvatore Lontrano

Grande comunicatore, ma attento diplomatico. Il discorso di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma, domenica 17 gennaio (7 Shevat 5776 nel calendario ebraico), è stato applaudito ma si è notato - e qualche commento è scappato all'interno del tempio ebraico da parte di qualcuno dei presenti - come sia pure un bel discorso esso sia stato cauto nel tratteggiare le relazioni tra la Chiesa e il Medio Oriente. Va bene l'ecologia globale e sottolineare le comuni radici tra cattolicesimo ed ebraismo, ma il discorso del Papa è stato - per motivi anche diplomatici - meno sostenuto di quello che ad esempio è stato pronunciato dalla presidentessa della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello. Ecco le sue parole: "Dobbiamo ricordare che la pace non si conquista seminando il terrore con i coltelli in mano, non si conquista versando sangue nelle strade di Gerusalemme, di Tel Aviv, di Ytamar, di Beth Shemesh e di Sderot". E ancora: "Non si conquista scavando tunnel, non si conquista lanciando missili". Il riferimento è molto chiaro: sta parlando della Palestina, che all'inizio di Gennaio la Santa Sede ha riconosciuto. Insomma, il richiamo è chiaro: non si può pregare insieme ad Abu Mazen e poi non dirgli che così le cose non vanno.
   Dureghello dice chiaramente che: "La Fede non genera odio, non sparge sangue, richiama al dialogo". E sottolinea che il messaggio dell'accoglienza, pace, libertà, rispetto dell'altro "possa trovare la collaborazione anche dell'Islam". Guardacaso nelle prime file c'è Yahya Pallavicini, imam della Coreis Italiana, l'associazione che rappresenta una quota importante dell'Islam tricolore e che dialoga fattivamente col mondo ebraico.
   Di terrorismo parla anche il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, per il quale: "le differenze religiose non devono però essere giustificazione all'odio e alla violenza, ma ci deve essere invece amicizia e collaborazione (…). Dobbiamo insieme fare sentire la nostra voce contro ogni attentato di matrice religiosa, in difesa delle vittime.
Il Papa pronuncia un discorso per metà dedicato al rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, poi parla di grandi sfide. Nell'ordine: un'ecologia integrale, seguita da queste poche parole: "La violenza dell'uomo sull'uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche (…). Ogni essere umano (…) è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza religiosa". Poi parla della difesa di poveri, malati, emarginati e ricorda che: "Né la violenza né la morte avranno mai l'ultima parola davanti a Dio, che è Dio dell'amore e della vita). E chiude ricordando la Shoah e la deportazione nazista del Ghetto il 16 ottobre 1943, con la giusta standing ovation (tre in totale) per i testimoni della Shoah presenti in prima fila e che Francesco ha salutato con calore.
   Una curiosità a proposito di ecologia e sobrietà stile Bergoglio: una Golf 7 TDI targa SCV nera (la targa nera è quella "comune", la targa rossa è per le vetture "speciali" del Papa e di pochi eletti) ha trasportato in Sinagoga Domenico Giani, il capo della Gendarmeria vaticana, insieme a monsignor Leonardo Sapienza, Reggente della Prefettura della Casa Pontificia. Sobrietà, poco consumo e no, la Golf 7 non monta il motore EA189 finito nell'ambito del Dieselgate.

(La Notizia, 19 gennaio 2016)


Bergoglio in Sinagoga, Obama in Israele

di Marcello Cicchese

Quando si parla di ebrei è indispensabile ogni tanto fare zoom all'indietro, a volte di secoli o millenni, altre volte soltanto di qualche anno. In questo caso la visita di Bergoglio alla comunità ebraica di Roma fa ritornare alla mente una visita del recente passato, di genere diverso naturalmente, ma in qualche modo confrontabile con quella del presente: la visita di Obama in Israele del marzo 2013.
Il parallelismo avviene seguendo due linee diverse: quella politica per Obama, quella religiosa per Bergoglio. Nel primo caso, ad accogliere era uno Stato, nel secondo una Sinagoga. E poiché lo Stato è quello di Israele, il collegamento con la Sinagoga è del tutto naturale. I due ospiti invece non hanno fatto questo collegamento, né nel primo caso (dove non era necessario e non è stato richiesto) né nel secondo (dove era necessario e molti se l'aspettavano).
In entrambi i casi gli ospiti si sono presentati con le migliori buone intenzioni, e in entrambi i casi le sedi ospitanti hanno accolto con grande calore e simpatia gli illustri visitatori, nutrendo vivide speranze per un futuro migliore.
Ricordiamo allora qualche commento che è stato fatto in occasione della prima visita.
Giampiero Gramaglia, giornalista e consigliere per la comunicazione dell'Istituto Affari Internazionali, scrive:
    "La visita di Obama è importante perché è la prima volta. Durante il suo primo mandato il presidente americano non era mai andato in Israele. Invece, adesso, è la prima missione all'estero del secondo mandato. Ma bisogna capire che in realtà non è stato lasciato nessun segno nel processo di pace tra israeliani e palestinesi. La situazione è ferma su quel fronte".
Anche per Bergoglio è una prima volta, e anche per la sua visita si può dire che "in realtà non è stato lasciato nessun segno nel processo di pace", e non solo in quella tra israeliani e palestinesi. Certo, Bergoglio e Di Segni si sono addirittura abbracciati. Lo consideriamo un segno?

Sergio Minerbi, in un articolo dal titolo "Strategia del sorriso", scrive:
    «Per gli israeliani Barack Obama è affascinante e sprizza simpatia da ogni poro. Molti sono disposti a dimenticare quando sembrava ostile a Israele o piuttosto al suo primo ministro. Si potrebbe dire che Obama è sempre lo stesso, ma non essendo riuscito a convincere con le maniere forti, ha invertito l'ordine dei fattori ed è diventato simpatico, amichevole, quasi collegiale. Dice le stesse cose di prima, ma con un largo sorriso e un abbraccio forte.»
Il paragone in questo caso è più che evidente: anche Bergoglio "sprizza simpatia da ogni poro" e molti ebrei ne sono stati affascinati, soprattutto per la sua "semplicità", come è stato detto.
Obama era simpatico, ma ha taciuto. Ha taciuto su fatti che erano e sono ancora di vitale importanza. In un nostro commento allora dicevamo:
    Come interpretare il silenzio sull'ultimo lancio di missili da parte di Hamas? Obama ha taciuto, e non ha nemmeno chiesto ad Abu Mazen di esprimersi in merito. Eppure anche quelli di Gaza sono palestinesi del futuro stato che dovrebbe vivere in pace con Israele. Obama ha detto che i palestinesi "hanno diritto ad avere uno stato", ma non sono palestinesi anche quelli che da Gaza lanciano missili su Israele e sparano alle immagini degli uomini politici israeliani? Per motivi che hanno a che fare con l'Iran, Obama evidentemente pensa che oggi Israele possa essere utile o addirittura indispensabile alla sua politica, ma il suo parlare di oggi non è sostanzialmente diverso da quello di ieri, e con le sue generalissime dichiarazioni di amicizia si è lasciato aperte tutte le possibilità.
Bergoglio era simpatico, ma ha taciuto. Ha parlato di ebrei, naturalmente, li ha perfino abbracciati, ma lo Stato d'Israele non ha niente a che vedere con gli ebrei che ha abbracciato? E anche lui non ha chiesto niente ad Abu Mazen, né ha detto nulla su un certo "Stato di Palestina", da pochi giorni riconosciuto ufficialmente dallo Stato del papa, che se nascesse e funzionasse come dice oggi il suo attuale leader Abu Mazen non sarebbe calpestabile da nessuno di quegli ebrei che lui, Bergoglio, idealmente ha abbracciato tutti.
A credere che Obama con la sua visita abbia effettivamente dato una spinta al processo di pace in corso era proprio, stranamente, Fiamma Nirenstein, che in un suo commento scrive:
    "Dopo la visita di Obama: per chi si lamenta che il presidente Usa non lascia il processo di pace aperto, attenti che invece ce n'è uno in corso, e ancora più importante di quello con i palestinesi. È quello fra Israele e la Turchia [...].
A commento di questo ottimismo obamiano, in quell'occasione abbiamo scritto:
    I politici e gli analisti pragmatici concentrano le loro analisi e valutazioni sugli aspetti "concreti" dei fatti. La cosa funziona in molti casi, ma non con la nazione d'Israele e la città di Gerusalemme. Il fatto che il Presidente degli Stati Uniti non abbia voluto entrare nel Parlamento israeliano, e il fatto che abbia continuato a parlare di Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est (dove si trova il Monte Sion) sono segni più gravi e forieri di sciagure per il popolo ebraico della simpatia popolare ottenuta nella popolazione e della "pace" che sarebbe riuscito a strappare nei rapporti fra Israele e Turchia. Barack Obama, presidente della più importante tra le "nazioni buone" che pretendono di insegnare allo Stato ebraico qual è il suo vero bene e come si deve comportare, è un oggettivo nemico di Israele che in questa occasione ha saputo giocare bene le sue carte. E proprio per questo è più pericoloso di molti altri.
Una particolare attenzione ai fatti l'ha mostrata anche il rabbino Di Segni, che rispondendo in un'intervista a chi gli faceva notare lo scetticismo di alcuni ebrei per visita del papa, proprio per alcune sue affermazioni, ha risposto:
    «Chi crede che il mondo ebraico sia un blocco omogeneo commette un grave errore. Ci sono tante sensibilità. Io bado alla sostanza dei fatti: ogni volta che ho riscontrato un problema, non ho esitato a segnalarlo. Conta il bilancio complessivo. Che, a oggi, è positivo».
Anche in questo caso quindi si guarda alla “sostanza dei fatti”. Ma per uno che crede nel Dio d’Israele quali sono i fatti che contano?

(Notizie su Israele, 19 gennaio 2016)


La "guerra a Israele" passa da Palazzo Berlaymont. Ecco chi c'è dietro

Dagli "eminenti" ai burocrati fino al pensatoio finanziato da Soros. Chi lavora alle sanzioni allo stato ebraico Netanyahu e la "macchina Ue".

di Giulio Meotti

Christian Berger
ROMA - Ogni giorno sembra che ministri europei annullino viaggi a Gerusalemme. E' successo a quello austriaco dell'Economia, Reinhold Mitterlehner, e a quello degli Esteri belga, Didier Reynders, che ha avuto un ruolo centrale nella decisione di Bruxelles di marchiare i prodotti israeliani. Il Consiglio degli Affari esteri dell'Unione europea starebbe per adottare una risoluzione secondo cui tutti gli accordi economici e politici stipulati fra Israele e la Ue dal 1995 a oggi valgono soltanto per i confini pre-1967. Sarebbe un colpo terribile per la diplomazia israeliana (si applica anche a Gerusalemme). "La Ue continuerà a distinguere in modo inequivocabile ed esplicito fra Israele e tutti i territori occupati da Israele nel 1967", recita la bozza del documento di cui si è fatto latore a Bruxelles il governo svedese, il cui ministro degli Esteri Margot Wallström ha persino ordinato un'inchiesta sull'uccisione di terroristi palestinesi durante gli assalti ai civili israeliani (domenica una madre israeliana è stata assassinata in casa di fronte ai figli nell'insediamento di Otniel).
   Il premier israeliano Netanyahu ha detto che Israele non ha problemi con gli stati europei, ma con la "macchina della Ue". Chi sono gli uomini e le agenzie di Bruxelles che gestiscono questa "guerra a Israele"? Su tutti, Christian Berger, diplomatico austriaco direttore della sezione mediorientale presso la European External Action Service, braccio operativo del ministro degli Affari esteri della Ue, Federica Mogherini, che pare fosse comunque contraria alla marchiatura dei prodotti. E' Christian Berger ad aver lavorato ai principali documenti punitivi di Bruxelles nei confronti dello stato ebraico.
   Il pregiudizio antisraeliano dell'austriaco Berger deriva dal periodo trascorso a Gaza, dal 1988 al 1994, a lavorare con l'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Collaboratore di Berger è un italiano, Leonello Gabrici. E' stato Berger a formulare il "documento delle sanzioni", che prevede il ritiro degli ambasciatori europei da Israele se la costruzione degli insediamenti avanza nelle "aree sensibili" di Cisgiordania e di Gerusalemme Est, come nella zona El tra Ma'aleh Adumim e Gerusalemme o nel quartiere di Givat Hamatos. Un documento di due pagine che include i "bastoni" da usare contro Israele e le "carote" da offrire ai palestinesi. Si va dalla proposta di riconsiderare l'impegno dell'Unione europea a non partecipare ai dibattiti in seno al Consiglio per i diritti umani dell'Onu fino al divieto di ingresso in Europa a determinati "coloni ebraici".
   Altra fonte di questi rapporti antisraeliani è la European Heads of Mission a Gerusalemme e Ramallah, detta "HoMs". A fine anno, ogni anno, questa agenzia produce un rapporto su Israele che invia alla Commissione. Poi ci sono gruppi di pressione di ex alti funzionari europei, come gli "Eminenti europei", fra cui Javier Solana, Miguel Moratinos e Ruprecht Polenz, ex segretario generale della Cdu tedesca di Angela Merkel. All'origine delle direttive antisraeliane ci sono poi centri di ricerca come lo European Council on Foreign Relations (Efcr), finanziato dal magnate George Soros e dalla fondazione tedesca Friedrich Ebert Stiftung. Nel luglio di un anno fa, proprio questo pensatoio aveva suggerito alla Ue una serie di sanzioni contro Israele. Il documento "EU Differentiation and Israeli settlements" è di un ricercatore italiano, Mattia Toaldo. Fondato nel 2007 dal premio Nobel finlandese Martii Ahtisaari e da Joschka Fischer, l'Efcr riceve fondi anche dai governi europei più impegnati contro Gerusalemme. Il cofirmatario del paper di Toaldo, Hugh Lovatt, twitta da "Electronic Intifada" e da altri movimenti antisraeliani, mentre un altro ricercatore, Dimi Reider, promuove il boicottaggio culturale di Israele. Questo gruppo ha proposto alla Commissione Ue altre sanzioni contro Israele, per punire le banche israeliane che offrono mutui ai proprietari di case in Cisgiordania e le università israeliane con sede nei Territori.
   Assieme al Palais des Nations, che a Ginevra ospita il Consiglio dei diritti umani dell'Onu a dir poco ostile a Israele, adesso la guerra allo stato ebraico passa anche da un altro sontuoso monumento alla diplomazia, il Palazzo Berlaymont di Bruxelles, dove ha sede la Commissione europea.
   
(Il Foglio, 19 gennaio 2016)


Il ministro indiano Sushma Swaraj incontra ministro della Difesa israeliano Ya'alon

NUOVA DELHI - Il ministro degli Esteri indiano, Sushma Swaraj, ha incontrato ieri il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, nel secondo giorno della sua visita ufficiale a Israele. Il quotidiano "Business Standard" ricorda che nei giorni scorsi, l'ambasciatore israeliano in India, David Carmon, aveva sottolineato come la cooperazione nel settore della difesa tra i due paesi costituisca "il pilastro centrale del rapporto bilaterale". Carmon aveva inoltre aggiunto che le aziende della difesa israeliane sono "aperte e flessibili" all'iniziativa 'Make in India', promossa dal governo di Nuova Delhi per dare impulso all'industria della difesa domestica. Carmon ha poi ribadito che i legami della difesa in India e in Israele sono andati ben oltre il rapporto tra il compratore e il venditore e ora proseguono nella ricerca e nello sviluppo congiunti.

(Agenzia Nova, 19 gennaio 2016)


La città del futuro ha bisogno di poeti

L'archistar davanti ai problemi dell'instabilità climatica e del surriscaldamento globale: "La nostra è un'arte sociale, è comunicazione. Dobbiamo operare per la sostenibilità".

 
Daniel Libeskind
Architetto e designer di fama internazionale, Daniel Libeskind è più un intellettuale che un archistar, figlio com'è di ebrei polacchi sopravvissuti all'Olocausto: spesso la sofferenza dà più profondità all'esistenza. Ama la musica, la filosofia e la letteratura, vive a New York - ci arrivò da bambino prodigio, con una borsa di studio vinta suonando la fisarmonica - ma ama anche Milano, dove ha sede il suo secondo studio più importante, diretto dal figlio Lev, che cura progetti europei, asiatici e africani. I lavori di Libeskind significano originalità e architettura sostenibile; suo il masterplan per la ricostruzione dell'area del World Trade Center a New York (Ground Zero e Freedom Tower) e quello per «Citylife» della Fiera di Milano (e del progetto per residenze e terza torre), il Museo ebraico a Berlino, la Filarmonica di Brema, l'addizione al Victoria and Albert Museum di Londra.
  «II surriscaldamento globale e l'instabilità climatica sono un problema enorme», dice. «Architetti e urbanisti devono operare per la sostenibilità,

- Lei lavora in tutto il mondo, da Berlino a Singapore e Hong Kong, in Sud America: sa quanto le metropoli siano inquinate.
  «Per abbattere i gas serra dobbiamo creare sistemi e edifici intelligenti (con standard ecologici elevatissimi, ad esempio per annullare la dispersione termica), ridurre la dipendenza dalle auto private e aumentare trasporti pubblici e infrastrutture. Servono grandi pedonalizzazioni, verde, spazi pubblici e metropolitane, qualità dell'innovazione e dell'abitare, selezione dei materiali; bisogna ripensare l'uso della tecnologia, tornare alla tradizione: gli antichi avevano poche risorse ma sapevano costruire con materiaIi poveri».

- Cos'è per lei la tecnologia?
  «È innanzitutto "tecnologia mentale", pensare più liberamente, mettere radici; il teorico americano David Owen nel libro Green Metropolis dice che città come Manhattan e Hong Kong sono più verdi di luoghi meno densamente popolati perché percentuali più elevate di abitanti si muovono a piedi, in bici o con trasporti pubblici, condividono servizi in modo più efficiente, vivono in spazi più piccoli e consumano meno energia per scaldare le case. La città può aiutarci a essere liberi».

- La sua aria renderà liberi, oggi si direbbe renda molti più malati e soli.
  «Ma ha potenzialità enormi: occorre connettere le persone, dar loro accesso al lavoro, aiutarle a vivere meglio. E questo dipende daIla volontà politica, dalle strategie a lungo termine. TI mercato del domani lo creiamo noi, se lo progettiamo».

- Di fronte all'emergenza delle polveri sottili, nelle settimane scorse, alcuni politici speravano soprattutto nel cattivo tempo e facevano la danza della pioggia.
  
«È vero, ma anche in Asia ci sono committenze progressiste, sanno che il modello occidentale ha troppi limiti. Sono consapevoli dei problemi locali e globali. Ogni città richiede soluzioni specifiche, a New York come a Milano. Bisogna "connetterle" e rispettare il genius loci. Non basta un po' di verde sui balconi. La città sono le persone, l'empatia, i luoghi d'incontro. Sono il mondo, quello che il mondo produce. I desideri del mondo vengono dalle città: sono imprevedibili, misteriose».

- Dove va l'architettura oggi?
  «In molte direzioni, prima di tutto torna alle radici, cerca di capire cosa serve agli uomini. Tanti pensano che la tecnologia risolverà tutti i problemi, ma la cosa che dà speranza è comprendere la complessità umana. Servono meno tecnocrati e burocrati e più poeti, astronomi, letterati, danzatori. Più qualità e meno quantità».

- Lei ricorda Lewis Mumford, newyorkese purosangue che analizzava «dal basso» gli edifici ed era implacabile contro architettura e urbanistica nemiche del bene collettivo.
  «Sì, mi interessa il punto di vista dalla strada, cosa coinvolge la gente. L'architettura non è astrazione, è un'arte sociale, comunicazione. Il cuore dei problemi è la comunità. Possiamo iniziare un nuovo Rinascimento, l'architettura è di fronte a nuove scoperte. Mi ispirano le piccole città italiane e le metropoli come Torino e Milano, capolavori trasformati nei secoli, e i momenti di passaggio, i luoghi dove avviene il cambiamento, la nascita delle periferie... Andiamo verso un'architettura "vernacolare", in India ad esempio, verso architetture locali».

- Lei compie frequenti incursioni nel mondo dell'arte e della musica. A cosa lavora attualmente? Sempre diffidente verso le «sleek curves», le curve «gentili»?
  «A maggio prenderà il via un grande progetto con la Filarmonica di Francoforte, ventiquattr'ore di spettacoli, concerti e postazioni musicali in tutta la città: ospedali, metropolitana, librerie, parchi. È vero, non mi piace l'idea di superfici "gentili", la realtà è più complicata delle curve; ma ci sono molte eccezioni, ci sono "curve Libeskind" in "Reflections at Keppel Bay" a Singapore, nei tre grattacieli a Busan in Korea, nel palazzo residenziale a Covington negli Usa, nella galleria d'arte a Majorca, nel grattacielo di Varsavia e in quello a CityLife ... Sono "curve acute", una contraddizione molto Libeskind!».

- Cosa augura per questo 2016 agli abitanti delle metropoli?
  
«Di avere quello che conta nella vita: pace, giustizia e integrazione, di "rispondere" agli altri, essere una porta aperta verso chi non conosciamo. Di accettare, incorporare, rendere tutti cittadini, perché la città è un enorme simbolo. Ha presente il film City of God? Penso alle periferie cittadine e mondiali (come l'Africa, sto lavorando in Kenya) ai luoghi e alla gente negletta».

- E a se stesso?
  
«Mi auguro di continuare a sognare e desiderare, essere libero di camminare, parlare, lavorare. Spero in una vita piena, di essere veramente vivo».

(La Stampa, 19 gennaio 2016)


Lissone, il Grande fratello made in Israele per sorvegliare le strade

Un sistema di videosorveglianza mobile con tecnologia made in Israele per rendere più sicure le strade di Lissone e più tranquilli parchi, giardinetti e gli altri luoghi pubblici. Sperimentazione a Lissone, per la prima volta in Lombardia.

di Elisabetta Pioltelli

 
Controlli a Lissone
Un sistema di videosorveglianza mobile con tecnologia made in Israele per rendere più sicure le strade di Lissone e più tranquilli parchi, giardinetti e gli altri luoghi pubblici. Il tutto grazie a un dispositivo che permetterà di sorvegliare a 360 gradi il territorio attorno alla stazione mobile della Polizia Locale. A Lissone per la prima volta in Lombardia.
Da febbraio, per sei mesi, la Polizia Locale di Lissone sperimenterà un sistema di 6 telecamere integrate fra loro in grado di riprendere a 360 gradi tutto ciò che avviene attorno al veicolo, sia che sia fermo o in movimento, con una sensibilità tale da consentire di avere immagini molto nitide in condizioni esterne non favorevoli (di sera, con la pioggia).
Un occhio elettronico totale che consentirà di controllare tutto ciò che accade e ogni possibile infrazione alla guida, dalla mancata precedenza al non rispetto dei segnali stradali, dall'uso del cellulare al volante alla svolta vietata, dai parcheggi su marciapiedi o nelle fermate dei bus alla sosta in seconda fila, sulle strisce pedonali o nei posti riservati ai disabili.
Come pure verificare, semplicemente leggendo le targhe, se le auto in circolazione hanno l'assicurazione, sono in regola con la revisione o magari sono rubate.
Lissone è stata scelta dalla ditta produttrice come centro per la sperimentazione in regione dell'innovativo dispositivo di videosorveglianza mobile: l'azienda israeliana Safer Place ha proposto al comando di via Gramsci di sperimentare in città una tecnologia usata per pattugliare le zone sensibili di Israele.
Il mezzo che funzionerà da stazione mobile sta per essere attrezzato. E da inizio febbraio la vettura con il dispositivo di telecamere potrebbe essere in giro per le strade. Tra gli impieghi previsti anche quelli di presidio per aumentare la sicurezza nei quartieri e di accertamento delle infrazioni al codice della strada: il sistema «transitando in qualsiasi località è in grado di acquisire tutte le targhe dei veicoli presenti intorno e interfacciarle con le banche dati» relative ad assicurazione, revisione e vetture rubate, individuando quindi quelle non in regola, come pure «documentare in modo inoppugnabile» i comportamenti illeciti degli automobilisti, dall'uso del cellulare alla guida alla sosta vietata.

(il Cittadino, 18 gennaio 2016)


L'esercito israeliano torna a presidiare posizioni in Cisgiordania abbandonate da anni

GERUSALEMME - A quattro mesi dall'inizio dell'ondata di terrorismo palestinese, le Forze di difesa israeliane hanno rivisto il loro dispiegamento operativo in Cisgiordania tornando a presidiare posizioni che avevano abbandonato negli anni precedenti. Nel corso delle ultime settimane, scrive il quotidiano "Haaretz", il Comando centrale delle unità di costruzione delle Forze di difesa israeliane ha predisposto le infrastrutture all'arrivo dei loro presidi militari. Un presidio permanente è già stato posizionato presso l'avamposto Shdema, vicino alla città palestinese di Beit Sahour, nella regione di Betlemme. Durante la seconda Intifada, Shdema era servito da punto di osservazione, ma nel 2006 l'Esercito aveva deciso che non era più necessario e lo aveva abbandonato. Nei mesi successivi era nata una disputa sulla conversione dell'infrastruttura a fini civili: Beit Sahur voleva trasformarlo in un ospedale, mentre l'organizzazione Women in Green tentò di farne un insediamento ebraico. L'avamposto venne rioccupato dalle forze armate nel 2010 e poi nuovamente abbandonato sino ad oggi.

(Agenzia Nova, 18 gennaio 2016)


Oltremare - Periferia

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Di recente il bisogno di distrazione è aumentato. Le notizie cui ogni israeliano è assuefatto, nello stillicidio del notiziario orario o (forse peggio) nel ricapitolo serale delle otto, sono sempre meno edificanti. E anche grazie ad uno stile giornalistico piuttosto aggressivo, grazie al quale ormai si mostra tutto e subito, quasi senza filtri, ci sono giorni in cui bisogna alzare le difese. Io, come tutti sanno, per alzare le difese e per distrarmi vado al cinema. Poi finisco spesso per preferire il cinema israeliano, che ammettiamolo è un po’ un tirarsi la zappa sui piedi: per distrarsi forse sarebbe meglio una commedia inglese o un noir francese. Ma ho ancora il riflesso dell’ulpan, dove l’insegnante ci spingeva ad andare al cinema per assorbire la cultura israeliana al di là della grammatica. Quindi ho visto di recente in sequenza “Hayored lemala (Colui che scende verso l’alto)” e “Chatuna mi-niyar (Matrimonio di carta). Sono due film diversissimi per temi e per stile, possono piacere moltissimo o lasciare indifferenti o perfino infastiditi. Hanno peró un punto in comune: il luogo in cui sono girati è uno dei personaggi principali del film, ed è un personaggio piuttosto problematico. Il primo è tutto girato sulle scale che collegano a Haifa la città alta da quella bassa, fino al porto. Il secondo a Mitzpe Ramon, sul bordo del cratere, con tutta la bellezza e la solitudine della vita davanti al deserto. Da telavivese probabilmente non reggerei una settimana a Haifa, città così verticale e arzigogolata da dare le vertigini, né a Mitzpe, appiattita nel silenzio surreale rotto solo dagli zoccoli dei piccoli stambecchi. Ma mentre guardavo ciascun film tifavo internamente perchè i protagonisti umani non si allontanassero da quello geografico, perchè trovassero un modo fantasioso per far pace con le difficoltà delle loro città dai molti limiti, e restare. Che noia sarebbe, una Israele tutta Gerusalemme e Tel Aviv.

(moked, 18 gennaio 2016)


Società israeliane hanno scoperto un grande giacimento di gas nel Mediterraneo

GERUSALEMME - Due aziende israeliane di esplorazione del gas hanno annunciato di aver individuato un grande giacimento di gas naturale al largo di Israele, nel Mediterraneo. Come riferisce il quotidiano locale "Times of Israel", l'annuncio è stato fatto ieri e rappresenta l'ultimo di una serie di scoperte di gas al largo delle coste di Israele, Egitto e Cipro, che comprendono alcuni tra i più grandi giacimenti al mondo. Secondo le dichiarazioni rilasciate dalle compagnie Isramco Negev 2 e Modiin Energy il giacimento scoperto a est e a ovest della zona Daniel ha una portata stimata di 8,9 miliardi piedi cubi di gas. "Le riserve di gas di queste dimensioni potrebbe cambiare in modo significativo il mercato del gas israeliano", ha detto Tzahi Sultan, uno dei dirigenti di Modiin. Secondo il ministro dell'Energia l'israeliano, Yuval Steinitz, gli esperti stimano almeno 10.000 miliardi di metri cubi di gas nel bacino a est del Mediterraneo, una quantità che sarebbe sufficiente a soddisfare le esigenze interne di Israele e le esportazioni in Europa.

(Agenzia Nova, 18 gennaio 2016)


Intifada dei coltelli nelle case dei coloni. Caccia all'uomo

Dopo l'omicidio di un'infermiera israeliana con sei figli

 
Dafna Meir con il marito
ROMA - E' caccia all'uomo in Cisgiordania
dopo che un uomo, si sospetta un palestinese, ha fatto irruzione nella casa di un'infermiera israeliana, madre di sei figli, negli insediamenti vicino Hebron e l'ha accoltellata davanti alla figlia maggiore. Un omicidio seguito a poche ore di distanza da una nuova aggressione all'arma bianca, sempre nelle colonie: questa volta ad essere ferita da un 17enne palestinese è stata una trentenne, incinta, nuora di un noto rabbino. Secondo i media locali è la prima volta che un attacco della cosiddetta "intifada dei coltelli" si verifica all'interno di un'abitazione negli insediamenti. L'ultimo episodio di un accoltellamento risale al marzo 2011 quando venne sterminata un'intera famiglia nella propria abitazione a Itamar, ricorda il Jerusalem Post.
L'accaduto ha già portato a un ulteriore inasprimento delle misure di sicurezza imposte da Israele: oggi l'esercito ha impedito l'ingresso ai lavoratori palestinesi negli insediamenti a Hebron, dove è avvenuto l'omicidio, e ha fatto sgomberare alcune aree industriali nelle colonie a Sud di Gerusalemme, fino a nuovo ordine dopo il ferimento dell'altra donna.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato di voler rafforzare i controlli e "chiunque proverà a colpirci sarà portato davanti alla giustizia" e, parlando dell'omicidio di domenica, ha assicurato che "il terrorista sarà preso e pagherà il prezzo".
L'esercito israeliano ha lanciato perlustrazioni nell'area di Hebron alla ricerca dell'uomo che ha accoltellato a morte la 38enne Dafna Meir. Secondo le forze di sicurezza israeliane il fuggitivo si sarebbe nascosto nel vicino villaggio di Khirbet Karameh. "I militari stanno cercando il terrorista", ha dichiarato l'ufficio stampa dell'esercito israeliano. Ai residenti della colonia di Otniel, dove si è verificato l'omicidio, è stato chiesto di restare nelle proprie case.
Domenica l'aggressore di Dafna Meir si è introdotto facilmente nella sua abitazione dove erano presenti anche i figli, perché la porta non era chiusa a chiave. E' stato subito individuato da Meir e tre dei suoi figli: due si sono allontanati immediatamente, mentre la 17enne, la più grande, è rimasta a fianco della madre, ha spiegato il portavoce della colonia. Dopo averla colpita a morte il sospetto è fuggito senza rimuovere il coltello dal corpo dell'infermiera. Pochi giorni prima dell'aggressione mortale, Dafna aveva scritto sui social a proposito della sicurezza negli insediamenti: "La situazione non è facile e a volte mi sembra che sia una roulette russa".
A poche ore di distanza dalla morte della 38enne, un altro attacco all'arma bianca si è verificato negli insediamenti di Tekoa a Gush Etzion. In questo caso un 17enne palestinese ha ferito con un coltello una donna in stato di gravidanza, Michal Froman, nuora del rabbino Menachem Froman, recentemente scomparso, ma noto per i suoi sforzi di pacifica convivenza tra palestinesi e israeliani ma anche per le sue posizioni favorevoli all'espansione della presenza israeliana nei Territori occupati.
La donna, soccorsa dopo l'attacco, ha riportato ferite di diversa entità nella parte alta del corpo, ed è stata trasportata cosciente in ospedale. L'aggressore, invece, è stato neutralizzato con un colpo d'arma da fuoco esploso da un residente israeliano ed è in condizioni critiche.

(askanews, 18 gennaio 2016)


In Israele clima di sconfitta, "ha vinto l'Iran"

Netanyahu, ma senza di noi Teheran avrebbe già le armi nucleari

GERUSALEMME - "La vittoria iraniana": con questo titolo il diffuso tabloid israeliano Yediot Ahronot ammette a tutta pagina il successo della politica degli ayatollah con la rimozione delle sanzioni e la sconfitta della politica di tenace opposizione ai loro progetti nucleari che per anni ha contraddistinto Benyamin Netanyahu. "In Iran si festeggia - conferma Israel ha-Yom, un giornale vicino al premier - e nel Medio Oriente c'è preoccupazione". Un titolo accompagnato da una vignetta di scherno che mostra il segretario di Stato Usa John Kerry genuflesso e sottomesso ai piedi del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif. L'Occidente - viene affermato nei commenti di questi giornali - ha commesso un grave errore che, in prospettiva, mette in serio pericolo la sicurezza nazionale di Israele.
    Nella riunione odierna del consiglio dei ministri, Netanyahu ha trovato motivo di consolazione nella constatazione che "in assenza degli sforzi israeliani per le sanzioni sul programma nucleare iraniano, Teheran si sarebbe dotata di armi atomiche già molto tempo fa". Anche oggi, ha chiarito, Israele resta determinato ad impedire che l'Iran si doti di armi nucleari. Nei commenti traspare un atteggiamento di fatalismo. La rimozione delle sanzioni, argomenta un analista di Yediot Ahronot, "garantisce al regime di Teheran la forza necessaria per rinfocolare il conflitto fra sciiti e sunniti", per destabilizzare l'Arabia Saudita e altri Paesi della regione e per puntellare Bashar Assad in Siria. "Le potenze occidentali - secondo questo analista - hanno elargito all'Iran non solo legittimazione e un vento favorevole, ma gli hanno fornito anche i mezzi concreti per realizzare la sua visione distruttrice". Un'analisi in cui, in Israele, si riconoscono non solo i dirigenti del Likud, ma anche quelli dell'opposizione laburista.
    La sensazione diffusa da queste parti è che Obama, fra una monarchia declinante in Arabia Saudita e un Iran ricco di prospettive, abbia puntato sul secondo. Per le prospettive di un'intesa israelo-palestinese si tratta logicamente di un ulteriore passo indietro. Le maggiori disponbilità economiche dell'Iran gioveranno infatti a due suoi alleati regionali: gli Hezbollah libanesi e i palestinesi di Hamas. L'indebolimento del fronte regionale sunnita viene inoltre a scapito del presidente Abu Mazen, che ha nell'Egitto, nella Giordania e nell'Arabia Saudita i suoi puntelli principali.
    Nell'odierna seduta di governo, Netanyahu ha assicurato che Israele continuerà a vigilare sulla realizzazione degli accordi sul nucleare iraniano e che eventuali violazioni saranno rese note alla comunità internazionale. Per i prossimi anni, ritengono esperti locali, l'Iran starà alle regole del gioco fissate dalle grandi potenze. Ma una volta rilanciata l'economia del Paese - scommettono - Teheran cercherà di liberarsi da quei vincoli. Per Israele dunque è cominciato un conto alla rovescia in cui la maggiore comprensione viene non più dai tradizionali alleati occidentali, bensì dai Paesi sunniti del Vicino Oriente.

(ANSA, 18 gennaio 2016)


E' tornato l'Iran. E ha ucciso il petrolio

di Rossana Prezioso

Quello che si era temuto da tempo alla fine è accaduto e per di più con un mese d'anticipo: l'Iran si è visto cancellare le sanzioni imposte dall'Occidente e potrà così tornare sul mercato del petrolio.
  Quello che si era temuto da tempo alla fine è accaduto e per di più con un mese d'anticipo: l'Iran si è visto cancellare le sanzioni imposte dall'Occidente e potrà così tornare sul mercato del petrolio per di più triplicando la propria produzione e andando quindi anche oltre quel milione di barili temuto per arrivare a toccare i 3, una volta concluso il percorso di ammodernamento delle proprie tecnologie. Percorso che rientra in quadro molto più ampio e cioè quello del maquillage di una nazione che adesso si è trasformata da nemico del mondo a nuovo mercato: automobili, costruzioni, macchinari insomma tutto quanto finora era stato negato a Teheran adesso potrebbe inondarlo.

 Inizia la guerra interna
  Una notizia che di certo non è piaciuta alle borse mediorientali le quali ieri (la finanza islamica non riconosce la domenica come giorno festivo) hanno registrato un vistoso calo, in particolare la Borsa di Riad che ha chiuso a -5,44% come anche Dubai con il suo 4,64%. Peggio di tutti lo ha fatto il Qatar (-7,2%) sulla spinta dei timori di economie nazionali in crisi perché troppo dipendenti dal greggio. Bastian contrario, ma d'altra parte era facilmente prevedibile, proprio la borsa iraniana che ha registrato una giornata in vantaggio con una chiusura a +1% dopo il 2% di sabato.
  Tutto questo, però, è anche sintomo di qualcosa di ben più ampio: se da una parte i vertici politici iraniani hanno sottolineato che l'economia della nazione è destinata a crescere nei prossimi anni del 6-8% (come detto l'Iran è in cerca di partners anche per tutti gli altri settori della produzione), dall'altra stanno aumentando le tensioni geopolitiche che vedono non solo Teheran in aperta guerra finanziaria e non con Ryad, ma anche la stessa Opec in pericolo. Il cartello dei paesi esportatori di petrolio, infatti, pare aver perso da tempo sia la bussola per una strategia compatta e univoca sia l'autorevolezza nei confronti dei propri interlocutori internazionali: al centro di tutto la diatriba tra i paesi che, come il Venezuela, hanno dovuto fare i conti, letteralmente, con una crisi economica e ancora di più sociale, e altre nazioni le quali, come l'Arabia Saudita, riescono a reggere, anche se non si sa per quanto tempo, i ritmi di un petrolio che con ogni probabilità nelle prossime settimane toccherà senza problemi i 20 dollari al barile. Conseguenza prevedibile: la necessità di una riunione di emergenza che in molti stanno chiedendo per marzo. Da tempo, inoltre, l'Opec deve subire la concorrenza di altri produttori sempre più agguerriti e organizzati che sono stati in grado di sottrarre grandi fette di mercato approfittando dell'opportunità di offrire un petrolio a prezzi più conveniente. In questo caso la parola magica, particolarmente odiata da Ryad e non solo, è shale oil e riguarda sia gli Stati Uniti ma anche il Canada, mentre la Russia si è organizzata anche sul fronte del gas.
  Quello che si era temuto da tempo alla fine è accaduto e per di più con un mese d'anticipo: l'Iran si è visto cancellare le sanzioni imposte dall'Occidente e potrà così tornare sul mercato del petrolio.

 Il punto di non ritorno
  La prima domanda che arriva è quella di cercare di capire quando si fermerà la discesa del petrolio: essendo impossibile allo stato attuale fare ogni tipo di previsione dal momento che le variabili che agiscono sule dinamiche dei prezzi sono molteplici e solo relativamente correlate, quello che è più importante capire al momento è il punto di equilibrio sul quale i paesi riescono a raggiungere sotto il quale non conviene a nessuno che il prezzo del greggio scenda; analizzando la disparità dei numeri (si passa dai 10 dollari del costo al barile per l'Arabia Saudita fino ad arrivare ai 65 per la maggior parte degli altri) orientativamente si guarderebbe a una media di 40 dollari al barile. Quando potrebbe essere raggiunta una soglia del genere? Inizialmente si pensava a metà di quest'anno ma con l'entrata in scena dell'Iran il limite sembra spostarsi ulteriormente in là nel tempo.

(Trend online, 18 gennaio 2016)


Una giornata nera per il Medio Oriente

Revocate le sanzioni, miliardi di dollari affluiranno nelle casse di Teheran ampliando la sua capacità di alimentare terrorismo e bagni di sangue.

Il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha twittato sabato che "è giunto il momento per tutti, soprattutto per le nazioni musulmane, di prendersi per mano e liberare il mondo dall'estremismo violento. L'Iran è pronto".
L'affermazione è giunta in perfetta coincidenza con la notizia della morte per fame di un altro abitante di Madaya, la città siriana assediata da mesi dalle forze del presidente Bashar Assad, alleato dell'Iran. Ed è anche giunta nel mezzo alle continue notizie sulle uccisioni quotidiane di civili perpetrate in Siria dalle forze di Assad, sostenute da combattenti delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e dagli Hezbollah libanesi armati dall'Iran. Si calcola che siano circa 250.000 le persone uccise, per la maggior parte ad opera delle forze del regime assistite dall'Iran, dall'inizio della guerra civile siriana, quasi cinque anni fa....

(israele.net, 18 gennaio 2016)


Papa Francesco superstar

Qualche titolo dai giornali di oggi.

 La violenza
  Il Papa in sinagoga "La violenza è in contraddizione con ogni religione"
  «Mai violenza in nome di Dio»
  Francesco in Sinagoga: "Violenza incompatibile con ogni religione"
  Papa Francesco nella sinagoga "Incompatibili fede e violenza"
  Papa Francesco e Di Segni in sinagoga "Basta violenze in nome di Dio"
  Il Papa: la violenza contraddice ogni religione
  Il Papa: non uccidete in nome di Dio. In Siria l'lsis massacra trecento civili

 La pace
  Grido di pace di Francesco in sinagoga
  Il Papa nel Tempio come un fratello: «La sua visita ci dà speranza di pace»

 I fratelli
  Francesco star in Sinagoga «Noi e gli ebrei siamo fratelli»
  Il Papa: «Ebrei, fratelli maggiori»
  Il Papa prega in Sinagoga «Siamo fratelli nella fede»
  Il Papa in Sinagoga: «Ebrei nostri fratelli»
  Il Papa in Sinagoga «Fratelli ebrei» - «Ebrei, fratelli maggiori»

 La Shoah
  L'analisi - La Shoah e Francesco
  L'abbraccio di Francesco agli ebrei. Francesco ricorda la Shoah: «La barbarie più disumana»
  Roma, il Papa in Sinagoga: la Shoah lezione perenne
  Il Papa: «La Shoah lezione perenne, violenza incompatibile con la fede»

 Ghetto e Sinagoga
  Controlli e ghetto blindato per Francesco in Sinagoga
  Il Papa in Sinagoga: la mia prima visita
  Retroscena - L'abbraccio con la gente del ghetto "Conquistati dalla sua semplicità"

 Israele
  Adesso Francesco riporti i cattolici al fianco di Israele (Fiamma Nirenstein)

Missione compiuta: Papa Francesco ha mantenuto accesa la luce dei media su di sè, riportando la chiesa cattolica al centro dell'attenzione mondiale. Cambierà qualcosa in meglio dopo questa performance francescana? No, niente. Soprattutto per Israele, ma anche per gli ebrei. M.C.

(Notizie su Israele, 18 gennaio 2016)


Microsoft HoloLens: da Tel Aviv arrivano interessanti news

di Giovanni Mattei

 
Direttamente da Tel Aviv e più specificatamente da un evento Microsoft tenutosi nell'importante centro commerciale di Israele, arrivano interessanti news su uno dei più particolari prodotti di Redmond di questi ultimi anni: HoloLens.
Come infatti riporta Petri.com, Bruce Harris - Microsoft Technical Evangelist - ha tolto il velo su alcune specifiche del visore VR che finora erano rimaste un po' nell'ombra. Si parte dalla conferma che il dispositivo sarà completamente wireless (supporto a reti Wi-Fi e Bluetooth) quindi libero da qualsiasi legame a cavi e cavetti che in qualche modo ne minano la sua godibilità, con 2 GB di memoria RAM a bordo e processore x86 a Hz di refresh.
A questo si aggiunge la possibilità per il visore di utilizzare nativamente qualsiasi applicazione universale per Windows 10 oltre che ad un'autonomia nominale da ben 5,5 ore che scendono a circa la metà nel caso in cui si utilizzi HoloLens per task molto impegnativi. Il campo visivo, ovvero l'area del dispositivo attraverso cui si potranno vedere le proiezioni tridimensionali, avrà un'ampiezza pari a quella di un display da 15? piazzato a circa mezzo metro di distanza dagli occhi.
Si tratta sicuramente di una bella notizia per il dispositivi di casa Redmond che verrà rilasciato agli sviluppatori nel corso del primo trimestre 2016. Ultima chicca: Microsoft ha previsto anche la funzionalità "link" tramite cui allineare due o più dispositivi HoloLens sulla stessa visione olografica.
Non ci resta che aspettare qualche mese per scoprire qualcosa in più su questo interessantissimo dispositivo per la realtà virtuale.

(ridble, 18 gennaio 2016)


L'islamofobia non c'entra niente con l'antisemitismo

Lettera al direttore di VareseNews

di Demetrio Shlomo Yisrael Serraglia

Mi trovo a constatare il fatto che, troppo spesso, per analizzare la realtà che viviamo ci si affida all'ideologia e si tende all'auto-censura attraverso un'ostentazione di perbenismo; per questa eccessiva preoccupazione di risultare offensivi per la sensibilità altrui, si arriva al punto di mascherare i fatti, si smussiamo gli angoli, fin quasi ad accusare sé stessi dei crimini subiti.
  Molti commentatori, evidentemente, utilizzano una lente deformata da una propaganda strisciante per analizzare gli attacchi terroristici, una lente che viene deformata da millenni di antisemitismo (antigiudaismo, antisionismo), o addirittura una lente rotta dalla propaganda terzomondista in cui si usano stereotipi razzisti per giustificare coloro che compiono gli attentati.
  Una certa ideologia, che io vedo all'interno di quella che, secondo me è una pseudo sinistra, con un volo pindarico arriva al punto di accostare l'islamofobia all'odio antiebraico. Anche qui è necessario evitare la mistificazione della realtà, poiché omologa tutto, azzerando le differenze, arrivando a legittimare l'invenzione di fatti e fonti che non sono mai esistiti pur di far stare in piedi affermazioni assurde come quella appunto che individua una similitudine, per non dire una identità, tra odio antiebraico ed islamofobia.
  È bene ricordare che la paura per l'islam risiede nel fatto che la matrice dei numerosi attentati terroristici che sono avvenuti in questi primi anni del XXI secolo (e non solo) sono di matrice islamica (gli attentatori si sono esplicitamente rifatti alla loro religione per giustificare i massacri e le violenze). A che religione si rifacevano gli attentatori dell'11 settembre 2001, quelli di Bali, Madrid, Beslan, Mosca, Londra, Parigi, Gerusalemme, Tel Aviv, ecc.?
  Ma mi sembra altresì opportuno ricordare che le violenze in siria, iraq, iran, afghanistan, libia, nigeria, "isis", ecc. sono perpetrate in nome dell'islam.
  Mi sembra interessante sottolineare che il terrorismo dei "palestinesi" nei confronti di Israele viene legittimato anche attraverso una pretesa islamica su Gerusalemme. Questa si fonda sul fatto che sarebbe la terza città sacra per l'islam poiché nel corso di un presunto viaggio "interstellare" di maometto, il cavallo di questi avrebbe posato uno zoccolo a Gerusalemme (anche se il corano non cita mai il nome di Gerusalemme). Questo tipo di mitologia, quando viene considerato storia, non solo da quanti l'hanno inventata ma anche dal resto del mondo, può arrivare a deformare talmente la realtà da portare a ignorare qualunque elemento archeologico, storico, documentale descriva e narri il legame tra Gerusalemme ed il popolo ebraico.
  È ormai palese che le violenze di Colonia sono state fatte da islamici nei confronti di donne occidentali, in maniera collettiva ed in un certo senso strutturata; con l'avvallo culturale offerto dal fatto che l'islam considera le donne come proprietà degli uomini, e che ritiene parte della conquista di terre, popoli e nazioni lo stupro collettivo delle donne delle popolazioni che l'islam vuole assoggettare.
  Questo fatto, come anche gli attentati sopra citati e quelli che purtroppo continuano ad essere compiuti quotidianamente, sono basati su fonti chiare, chi decide di ignorarli lo fa sapendo che sta narrando una favola, che sta mentendo a sé stesso ed al resto del mondo. Certo, si può sempre credere al mito del "buon selvaggio", si può pensare che l'islam sia una minoranza da tutelare e difendere anche a scapito della propria sicurezza, nonostante i numeri e le azioni dicano esattamente il contrario. Ma non si può negare che una certa fobia, il comportamenti dell'islam la può giustificare. La storia contemporanea e la cronaca ci raccontano che spesso, vari imam, ovunque nel mondo, hanno predicato l'odio verso l'occidente, o per meglio dire l'odio verso tutti coloro che la pensano in maniera diversa. Non si tratta di fare di tutta l'erba un fascio ma di constatare il fatto che, purtroppo, sono pochi gli islamici che pubblicamente denunciano il terrorismo, che accusano l'antisemitismo, che vogliono vivere in un clima di reciprocità pacifica.
  Parlando di antisemitismo, invece, troviamo che tutte le teorie che avvallano questa ideologia criminale trovano le loro radici nella menzogna e nell'odio verso il diverso. L'antisemitismo si radica in quello che fu l'antigiudaismo che, a partire dall'assurda accusa di deicidio perpetrato dagli ebrei, giustificò tutta l'azione nel medioevo ed in età moderna della chiesa e dell'inquisizione che ha considerato noi ebrei responsabili di ogni male al mondo, attribuendoci ogni tipo di colpa, costringendoci a conversioni forzate o uccidendoci, e in ogni caso distruggendo tutti i nostri libri e rubando tutti i nostri beni. In età contemporanea la scena non cambia gli ebrei sono sempre considerati colpevoli di tutto, e nel clima laicista post rivoluzionario francese l'antigiudaismo diviene antisemitismo, il problema non è più la religione ebraica e la morte di cristo ma il pretesto secondo il quale gli ebrei tendono a non integrarsi con il resto della società e quando lo fanno, a detta dei detrattori, lo fanno con secondi fini, con lo scopo di acquisire potere e di controllare la società, un esempio di documenti falsi su cui vengono costruite le azioni scellerate compiute assecondando queste stupidaggini sono i "protocolli dei savi di sion".
  Arrivando agli anni post Shoah, vediamo che l'odio antiebraico viene legittimato attraverso una nuova definizione: antisionismo. Ora dopo 6 milioni di morti non è più possibile per i "benpensanti" attaccare gli ebrei, ma diviene con un artificio lessicale possibile definire il proprio odio antiebraico attraverso l'odio verso lo Stato d'Israele, non è l'ebreo come singolo che viene odiato ma lo Stato ebraico. Si tratta di un odio collettivo/individuale verso l'ebreo che ha avuto l'ardire di formare uno Stato democratico, l'ebreo che ha imparato a difendersi, l'ebreo che non si presta ad essere un elemento di folkore ma che diviene entità politica indipendente.
  Allo Stato d'Israele viene attribuita ogni sorta di colpa sia a livello internazionale ma anche, purtroppo ed ovviamente, a livello interno: se si difende dagli attentati non va bene, se si ritira da Gaza non va bene, se fa la pace con gli Stati contermini non va bene, se nel suo parlamento siedono deputati arabi non va bene, se tutte le libertà fondamentali vengono tutelate e difese non va bene, se investe in sanità non va bene, se combatte la desertificazione non va bene, se condanna coloro che commettono reati (sia che siano ex premier, ex presidenti, o terroristi) non va bene. L'unica cosa che andrebbe bene per gli antisionisti è, evidentemente, lo scioglimento dello Stato d'Israele, l'assimilazione degli ebrei e magari l'abbandono dell'ebraismo… e quindi la storia riparte come un ciclo infinito di odio che si cerca di legittimare adducendo fatti mai avvenuti. Per gli antisemiti/antisionisti è diventato principio base la regola del gerarca nazista Goebbels "Una menzogna ripetuta all'infinito diventa la verità".
  Questo excursus per dire che è quanto meno inappropriato accostare odio antiebraico ad islamofobia. Perchè il primo parte da un pregiudizio infondato di odio verso gli ebrei, mentre la seconda attiene l'esperienza di una paura causata dal terrorismo di matrice islamica.
  Noi non possiamo fare la parte nostra come società occidentale e fare anche la parte dell'islam.
  Da parte nostra dobbiamo mantenere una base etica che si fondi su principi morali alti: l'amore per la vita e il rigetto della morte. Un'etica che non sia solo enunciazione ma che sia vita vissuta e condivisa.
  Da parte loro, gli islamici e le loro società se vogliono dimostrare di essere diversi lo devono fare combattendo essi stessi il terrorismo, devono vivere in un clima di reciprocità con l'occidente senza usare la minaccia e la violenza, e quando vengono nelle nostre città sia come turisti che come immigrati devono rispettare le nostre leggi e le nostre tradizioni, e non devono tentare di convertirci al loro credo ma neppure al loro stile di vita.
  Non è mistificando la realtà ed assimilando parole assai diverse per significato e storia che si risolvono i problemi, e le tensioni esistenti oggi a causa della forte ondata di violenza terroristica che ci sta colpendo. E' naturale avere paura, la paura è una reazione sana ad una situazione di pericolo, ciò che può fare la differenza è la capacità di affrontare e superare la paura, agendo e reagendo alle aggressioni quando è necessario.

(VareseNews, 17 gennaio 2016)


Accordo con Iran, Stati Uniti capitolano

AIEA dà via libera, fine delle sanzioni

di Bernardino Ferrero

1938, Neville Chamberlain sfoggia gli accordi di Monaco
"Stati Uniti e Iran confermano l'accordo della fine delle sanzioni" (comparsa su Israel Hayom)
Uno scambio di prigionieri degno della Guerra Fredda sancisce l'accordo tra Stati Uniti e Iran sul nucleare di Teheran, che rimette definitivamente in pista la teocrazia islamica, sempre più "stato guida" del Medio Oriente. Ricorderemo questo "Iran Deal" come l'ultimo atto in politica estera della presidenza Obama, la mano tesa che ha il sapore della capitolazione al tradizionale avversario dell'America, lo stato canaglia che torna come agnello nel consesso internazionale. La Casa Bianca ha addirittura parlato di "gesto umanitario" per la liberazione degli ostaggi.
L'accordo segna il via libera al ritorno di Teheran sul mercato del petrolio, che gonfierà i forzieri della teocrazia islamica: un Paese che non ha abbandonato il suo programma militare nucleare, continua ad essere una forza destabilizzante in Medio Oriente ed "esporta terrorismo in tutto il mondo", come ha detto ieri il premier israeliano Netanyahu commentando l'accaduto. Ieri sera a Vienna la AIEA ha dato via libera all'accordo, dopo lo scambio di prigionieri avvenuto tra Washington e Teheran. Pochi minuti dopo, Ue, Usa e Onu hanno annunciato la la revoca delle sanzioni internazionali contro il regime iraniano, che permetterà ai mullah di recuperare oltre 100 miliardi di asset congelati all'estero, oltre a riprendere i propri traffici petroliferi.
  Secondo il numero uno della diplomazia europea, Federica Mogherini, si tratta di un "accordo storico", "forte" e "giusto". Mogherini ha fatto le sue dichiarazioni da Vienna con accanto il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, lo stesso Zarif che nei giorni scorsi avrebbe telefonato al segretario di Stato Usa, John Kerry, minacciando di far saltare il tavolo diplomatico che andava avanti da oltre un anno. Per tutta risposta, Kerry ha esaltato "il potere della diplomazia nell' affrontare sfide significative", mentre il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha definito l'accordo "un traguardo significativo che riflette lo sforzo e la buona fede di tutte le parti per rispettare gli impegni presi". Di "vittoria gloriosa" parla naturalmente il presidente dell'Iran, Hassan Rohani.
  La candidata alle primarie del partito democratico Usa, Hillary Clinton, pur esprimendo soddisfazione sulla liberazione dei prigionieri americani da parte di Teheran, ha guastato la festa a Obama, Ban e Mogherini. Hillary chiede nuove sanzioni contro l'Iran per i suoi test sui missili balistici. La Clinto non poteva fare altrimenti viste le critiche sull'accordo che sono piombate dai banchi dei Repubblicani al Congresso. "Oggi l'amministrazione Obama comincia a togliere le sanzioni economiche contro il principale Stato che sostiene il terrorismo nel mondo", ha detto lo speaker della Camera, Paul Ryan, aggiungendo che "molto probabilmente" Teheran sfrutterà l'occasione per continuare "a finanziare il terrorismo". "L'Iran sta ottenendo sette persone, quindi essenzialmente ottiene 150 miliardi di dollari più sette persone," ha detto polemicamente Donald Trump, primo nei sondaggi alle primarie del partito repubblicano. A conti fatti, "The Don" ancora una volta ha ragione.

(l'Occidentale, 17 gennaio 2016)


«0ra nuove armi per Hezbollah e Hamas»

Il primo obiettivo dell'Iran sarà usare i nuovi fondi liberati dalle sanzioni in acquisizioni militari e non per investimenti civili. Nelle ore che precedono la fine dell'embargo economico dell'occidente nei confronti di Teheran, una delle maggiori preoccupazioni di Israele l'ha sintetizzata la Radio Militare. «L'attuazione dell'accordo sul nucleare ci porta in un nuova e pericolosa epoca nella quale l'Iran è libera da gran parte delle sanzioni economiche, senza dover lasciare il suo programma nucleare o dare spiegazioni per le sue attività militari» ha detto invece il ministro degli Affari strategici del governo Netanyahu Gilad Erdan. Per Israele l'applicazione di quell'accordo avrà un impatto diretto sulla regione con il rifornimento di nuove e moderne armi a gruppi «terroristici come Hezbollah e Hamas», entrambi destinatari della «generosità iraniana». Il che per Israele significa pericolo a nord e sud del Paese.

(Il Messaggero, 17 gennaio 2016)


«Finito il rapporto privilegiato tra Usa e Israele»

Il professor Donno: i rapporti tra i due Stati contraddistinti da relazioni controverse.

BOLZANO - I rapporti tra Israele e gli Stati Uniti d'America, una storia di relazioni difficili e controverse, sono stati al centro della conferenza tenuta ieri da Antonio Donno, professore di Storia e Istituzioni delle Americhe presso l'Università di Lecce, organizzata da Alessandro Bertoldi. Una storia, quella che unisce la cultura ebraica agli Usa, che ha origini molto antiche, ovvero nella colonizzazione da parte degli Europei del Nord America, coloni bianchi anglosassoni di religione protestante. «I coloni avevano come punto di riferimento la Bibbia ebraica. Proprio come gli Ebrei liberati dalla cattività egiziana tornavano verso Sion — ha spiegato Donno — anche i coloni volevano fondare una loro nuova Sion, una città in cui vivere liberi. Tutti i testi dei Padri fondatori americani contengono elementi di cultura ebraica a testimonianza di come questo fondamento filosofico sia rimasto nei nervi dell'America del Nord».
   Tuttavia la politica americana prese spesso direzioni diverse rispetto a questa adesione culturale filo-ebraica e la prima dimostrazione si ebbe quando il presidente Wilson prese le distanza dalla dichiarazione di Balfour, documento ufficiale della politica del governo inglese del 1917 in meri- Relatore Al centro, Antonio Donno, professore di Storia e istituzioni delle Americhe presso l'Università di Lecce. to alla spartizione dell'Impero Ottomano all'indomani della prima guerra mondiale. «Wilson nel 1917 prese le distanze perché non voleva che l'Impero ottomano di dividesse per non andare contro gli interessi degli stati europei — ha continuato Donno — Wilson dimostrò come la Realpolitik poteva andare in direzione opposta rispetto al suoi ascendenti filosofici. Nel 1948 Israele nasce grazie all'Unione sovietica e non agli Stati Uniti, mentre l'Urss accetta lo Stato di Israele de iure, gli Usa lo accettano solo de facto. Una bella differenza. L'Unione sovietica appoggia in quell'occasione la nascita dello Stato di Israele perché vuole che fosse il suo punto di riferimento in Medio oriente. Intanto Stalin conduceva invece una politica interna antisemita».
   Fu Reagan il primo vero presidente degli Usa favorevole senza ambiguità ad Israele, successivamente Clinton lavorò molto a livello diplomatico con lo storico rifiuto di Arafat di creare le condizioni di pace «perché lui non voleva istituire uno Stato arabo accanto a Israele, ma al posto di Israele, le ragioni dell'odio arabo nei confronti degli Ebrei si ritrovano già nel Corano. Con Obama è finito il rapporto privilegiato degli Usa con Israele».

(Corriere dell'Alto Adige, 17 gennaio 2016)


Treni, porti, costruzioni e industria: Italia pronta a ritagliarsi la sua fetta

A fine mese Rohani incontra a Roma 500 imprenditori. In gioco 3 miliardi di export.

di Teodoro Chiarelli

«Se saremo bravi credo che nel giro di poco più di un anno l'export italiano verso l'Iran potrà crescere di almeno 3 miliardi di euro rispetto al miliardo e mezzo attuale». Carlo Calenda, viceministro per lo Sviluppo economico, non nasconde la sua soddisfazione. A fine novembre ha guidato la più numerosa missione di imprenditori mai sbarcata a Teheran: 380 fra industriali, professionisti e banchieri che hanno incontrato oltre mille loro colleghi iraniani. L'Italia è stata per anni il principale partner commerciale dell'Iran con importanti accordi industriali in campo energetico, infrastrutturale e siderurgico. Con la fine delle sanzioni, si tratta di recuperare il terreno perduto. «L'obiettivo di tornare ai 7 miliardi di interscambio ante sanzioni - insiste Calenda - è a portata di mano».
   Il 25 e 26 gennaio ci sarà la visita a Roma del presidente iraniano Hassan Rohani (dopo il rinvio a seguito degli attentati di Parigi). La prima sera avrà una cena riservata con i top manager dei più importanti gruppi imprenditoriali italiani. La mattina del 26, prima di essere ricevuto da Papa Francesco, il presidente iraniano incontrerà 500 imprenditori insieme ai ministri Gentiloni, Del Rio, Guidi e Franceschini. A metà febbraio nuova missione italiana in Iran guidata da Del Rio, Martina e Calenda. Settori di interesse: agricoltura, agrindustria, infrastrutture e oil&gas. Insomma, l'Italia è pronta a tornare in forze nell'importante Paese mediorientale, un mercato di grande interesse, forte dei suoi quasi 80 milioni di abitanti, la metà dei quali sotto i 30 anni, con alti livelli di istruzione, il 60% dei laureati donne, una «fame» diffusa di beni di consumo e di infrastrutture di ogni genere.
«L'Iran ha bisogno di costruire nuove infrastrutture, ponti, autostrade e case - aveva detto a "La Stampa" la vicepresidente di Confindustria, Licia Mattioli durante la missione a Teheran -. Nei prossimi anni gli iraniani avranno bisogno di 4 milioni di unità abitative. Il mercato dell'auto passerà da 1,5 a 2 milioni di vetture l'anno. Ma non mancano le opportunità per chi costruisce macchinari e per chi si occupa di tecnologie "verdi" e di biomedicale».
   Il settore economicamente più rilevante è ovviamente quello petrolifero, dove il soggetto coinvolto al massimo livello è l'Eni. Il Cane a sei zampe sbarcò in Iran nel lontano 1957, ai tempi di Enrico Mattei. Da allora l'Eni ha messo a segno colpi importanti, ma le sanzioni hanno di fatto bloccato ogni sviluppo. I rapporti con la Nioc, compagnia petrolifera di Stato, sono sempre rimasti buoni. E una bozza di intesa per l'espansione della cooperazione bilaterale nel campo delle perforazioni petrolifere con la National Iranian Drilling Company sarebbe già stata firmata.
   Un comparto ricco di opportunità è l'automotive. L'Iran ha la necessità di rinnovare un parco circolante (14 milioni di unità) molto vecchio. In prima linea per il ritorno nel Paese ci sono le francesi Psa e Renault, già presenti con vecchie joint venture. Gli iraniani, però, premono per uno sbarco in forze di Fiat Chrysler Automobiles. Se son rose, fioriranno.
Anche i trasporti offrono ottime prospettive di domanda. Le sanzioni che vietano al Paese di acquistare aerei occidentali fin dagli Anni 70 hanno contribuito a creare una flotta aerea antiquata e di scarsa qualità. L'Iran ha annunciato che tolte le sanzioni partirà il rinnovo: nei piani c'è l'acquisto di 400 aerei. Un preaccordo sarebbe già stato raggiunto con Airbus per l'acquisto di 114 velivoli. A fine novembre Vladimir Putin, nel corso della sua visita a Teheran, ha «piazzato» 100 Sukhoi Superjet, nell'ambito di accordi commerciali per 21 miliardi di dollari.
   Stesso discorso per treni e ferrovie. Numerosi costruttori inglesi e francesi sono alla porta per l'ampliamento e il rinnovo della rete. Ma anche qui le aziende italiane possono dire la loro. Tra i settori dove gli italiani possono fare business spiccano autostrade, alta velocità, i porti, l'ambiente, rinnovabili, meccanica, materiali edili, medicale, ma anche elicotteri, navi, servizi finanziari, gioielleria, pelletteria e agroalimentare.

(La Stampa, 17 gennaio 2016)


Nella Marsiglia del kippah-pride. "Chi ci minaccia non! avrà vinta"

"No alla paura. Non la togliamo tanto se vogliono sanno bene dove trovarci. Con la paura non si batte il terrorismo."

di Anais Ginori

MARSIGLIA - Daniel arriva davanti alla sinagoga di rue Breteuil all'ora del tramonto, quando appare la terza stella e finisce lo shabbat. Lega la bicicletta a un palo, si mette una mano nel giaccone, estrae la kippah e se la mette in testa per percorrere i pochi metri che lo separano dal cancello d'ingresso. Non bisogna dargliela vinta, spiega. Quarant'anni, piuttosto in carne, professione geometra. Tira dritto senza badare ai militari di guardia. "Tanto se vogliono, sanno dove trovarci" aggiunge con un tono che mischia coraggio a fatalismo. Rue Suffren, la strada che attraversa il quartiere ebraico, lentamente si anima. Bar e ristoranti riaprono per il sabato sera, qualche locale ha deciso di fare una serata kippah. "Ci sono anche non ebrei che sono venuti per solidarietà" racconta Gilbert, il gestore della pizzeria Kikar. Tutti aspettano con ansia la partita di mercoledì, Olympique Marseille-Montpellier: calciatori e tifosi indosseranno il copricapo. "Dobbiamo essere prudenti, ma non è nascondendoci che vinceremo il terrorismo" spiega Habay Sobol, presidente del centro culturale Fleg che ha in cartellone il concerto del gruppo JazzPora.
   Alla fine Zvi Ammar è andato in sinagoga senza rinunciare allo zucchetto ebraico. È il presidente del Concistoro israelita che ha provocato il kippah-pride. "Hanno chiamato da tutta la Francia, da Stati Uniti e Brasiles" racconta nel suo ufficio di rue Breteuil, insegne sul citofono discrete. Dopo il suo appello a "nascondersi un po'" e non indossare la kippah per non trasformarsi in obiettivi mobili dei jihadisti, Ammar è stato travolto dalle critiche. Il Concistoro nazionale lo ha smentito, così come il gran rabbino di Francia, Halm Korsia. Anche il governo e il presidente François Hollande si sono schierati per la libertà di culto. "Ho provocato un elettroshock" dice Ammar, 58 anni, manager nell'import-export, "Se non avessi parlato con il cuore saremmo rimasti nell'indifferenza generale". II quartiere ebraico di rue Suffren è vicino alla kasbah di place Castellane. La città portuale è da sempre esempio di convivenza e tolleranza tra cristiani, ebrei e musulmani. La comunità ebraica rappresenta quasi il 10 per cento della popolazione ed è una delle più grandi e antiche d'Europa, dopo Parigi e Londra. Un modello che ha resistito alle scosse del tempo. II recente esodo di tanti ebrei francesi partiti per Israele a Marsiglia non c'è stato, o quasi.
   "Quando sono arrivato al Concistoro, quindici anni fa, c'erano 24 sinagoghe, ora ne abbiamo 58" spiega ancora Ammar. Qualcosa però sta cambiando, e in fretta. "II ministro Bernard Cazeneuve è venuto in sinagoga tre giorni fa - confessa - gli ho chiesto buone ragioni per convincere i miei correligionari a non fuggire dalla Francia". Negli ultimi mesi, la procura di Marsiglia ha aperto oltre settanta inchieste per atti di antisemitismo avvenuti in città. Non solo insulti e attacchi a simboli, ma aggressioni. Una settimana fa, Benjamin Amsalem stava entrando nella scuola La Source. Un ragazzino armato di machete ha colpito più volte l'insegnante di religione. "Voleva decapitarmi" racconta Amsalem che si è protetto con la Torah che teneva in mano. II giovane che compirà domani 16 anni, era un buon alunno a scuola, sconosciuto all'antiterrorismo. Fermato per miracolo da due passanti, ha rivendicato il suo attacco in nome di Daesh e ha confessato ai poliziotti che il suo unico rimpianto è non essere riuscito a uccidere l'insegnante.
   Amsalem non è andato in sinagoga ieri. Non riesce ancora a realizzare. "Sto cercando di capire come sia potuto succedere" racconta la vittima, 35 anni, padre di tre figli. "Mi perseguita lo sguardo di quel ragazzino. Era pieno di odio, disumanizzato. Vorrei capire perché". Il suo avvocato, Fabrice Labi, aveva difeso anche un insegnante della scuola ebraica di Tolosa, dove Mohammed Merah nel 2012 ha ucciso un maestro e due bambini. "All'epoca non c'era stata una vera presa di coscienza" ricorda il legale_ Il paese aveva cercato di dimenticare la nuova barbarie. "Con gli attentati di gennaio e poi di novembre è diventato chiaro in quale epoca ormai viviamo".
   Quando è ormai sera, Daniel esce dalla sinagoga. "La solidarietà ci fa bene, ma ci aspettiamo giorni migliori. Ne abbiamo diritto". Appena fuori dal cancello, saluta i soldati e si guarda intorno. Una, due volte. Poi si toglie la kippah.

(la Repubblica, 17 gennaio 2016)


Ebrei in fuga da Parigi. «È la paura dell'Islam»

Nel 2015 ne sono partiti 7.900 per fare ritorno in Israele.

Mauro Zanon

Inseguito agli attentati dello scorso anno e al clima di insicurezza percepito nella quotidianità, sempre più francesi di confessione ebraica sono tentati dall'«Al-yah», dal ritorno in Israele.
   Ad abbandonare la Francia, nel corso del 2015, sono stati 7.900 ebrei, secondo le cifre appena diramate dall'Agence Juive, organo incaricato di preparare le partenze verso Israele. L'assassinio di quattro persone di religione ebraica, tra cui tre bambini, commesso nel 2012 a Tolosa dal terrorista islamico Mohammed Merah, aveva già fatto lievitare il numero di partenze in direzione Gerusalemme. E la strage jihadista perpetrata da Amedy Coulibaly, che nel gennaio 2015 ha provocato quattro morti al supermercato kosher HyperCachera Parigi, ha contribuito a peggiorare la situazione.
   «Dal 2013, le cifre dell'Alyah in Francia non sono solo in costante aumento, ma si iscrivono in una tendenza», ha dichiarato Daniel Benhaim, direttore dell'Agence Juive, a pochi giorni di distanza dall'attacco antisemita a un professore di confessione ebraica alle porte di una sinagoga a Marsiglia.
   «Si ha l'impressione che questa tendenza non sia pronta ad arrestarsi» ha aggiunto Benhaim. Le cifre più sconcertanti riguardano le partenze delle giovani famiglie di confessione ebraica, che preferiscono abbandonare l'Esagono, dove non si sentono più al sicuro, per costruirsi un futuro in Israele. Queste rappresentano il 50% dei 7.900 ebrei francesi partiti nel 2015. È questo il "grande boom", sottolinea l'Agence Juive, che rilancia tristemente la Francia al primo posto nella classifica mondiale della nuova diaspora ebraica. «La Francia è per il secondo anno consecutivo il primo paese al mondo per numero di cittadini ebrei partiti. Non era mai successo dal 1948 e dalla creazione dello Stato d'Israele», ha affermato il direttore dell'Agence Juive, prima di aggiungere: «Oggi, per essere ebreo in Francia, bisogna vivere protetto o vivere nascosto. Non c'è forse l'impressione che ci possano essere altri attacchi antisemiti, o persino nuovi attentati terroristici a carattere antisemita? Sarebbe un'utopia pensare il contrario».
   Le conseguenze di questa emigrazione di massa degli ebrei di Francia sono anche economiche. Secondo quanto riportato dal quotidiano Le Parisien, i proprietari degli esercizi kosher hanno registrato in media un calo di clienti pari al 30% nell'ultimo anno. «Partono quelli che hanno le possibilità economiche per permettersi la vita costosa di Israele. Sono i medici, gli avvocati e i liberi professionisti che stanno voltando le spalle alla Francia», spiega al Parisien uno dei commercianti.
   La situazione è in egual misura drammatica per quanto riguarda il numero di iscritti alle scuole ebraiche, in costante calo. Secondo le cifre del Fond social juif unifié, che raggruppa 31.000 studenti francesi di confessione ebraica, a non essersi presentati al rientro scolastico nel 2015 sono in 1.500. L'inquietudine della comunità ebraica francese è tornata ad alti livelli dopo che la scorsa settimana si è verificata l'ennesima aggressione antisemita, a Marsiglia, con protagonista un quindicenne turco che in «nome di Allah e dello Stato islamico» ha attaccato a colpi di machete un insegnante che stava entrando in una sinagoga della città focese. Episodio che ha fatto dire al presidente del concistoro israelitico di Marsiglia, Zvi Ammar, che gli ebrei di Francia farebbero bene, d'ora in avanti, a «non indossare la kippah negli spazi pubblici, «in attesa di giorni migliori». La dichiarazione di Ammar, che ha invitato i suoi correligionari a nascondere la propria appartenenza religiosa, a fare un passo indietro per il quieto vivere, ha fatto tuttavia sobbalzare i principali rappresentanti del culto ebraico francese. Che hanno individuato nelle sue parole "un gesto di resa". Roger Culdermann, presidente del Crif (Conseil représentatif des institutions juives de France) ha respinto l'«atteggiamento disfattista» di Ammar, prima di aggiungere: «Non dobbiamo cedere a niente, continueremo a portare la kippah». Posizione condivisa dal Grande Rabbino di Francia, Haim Korsia, che ha invitato gli ebrei di Francia a «non cedere a niente»: «Continueremo a indossare la kippah», perché rinunciarvi sarebbe un'«abdicazione». Korsia, intervistato dal Parisien, si è poi spinto più in là, lanciando un appello per una «mobilitazione generale dei cittadini contro l'antisemitismo»".
   Dai piani alti della politica, le reazioni all'attacco antisemita di Marsiglia e alle cifre nefaste sulle partenze verso Israele, non sono certo mancate. Il presidente della Repubblica, François Hollande, ha riaffermato martedì il diritto degli ebrei di vivere la loro religione apertamente in Francia: «È insopportabile che dei cittadini si sentano inquieti, aggrediti e colpiti per via delle loro scelte religiose e che possano arrivare alla conclusione di doversi nascondere». II premier Valls, il ministro dell'Interno Cazeneuve e la Guardasigilli Taubira si sono anch'essi detti «sconvolti» per l'«aggressione antisemita», promettendo le misure necessarie affinché gli ebrei possano tornare a sentirsi protetti in Francia e continuare a esporre liberamente la loro appartenenza religiosa.
   Non sarà un lavoro semplice quello dell'esecutivo socialista, perché il senso di insicurezza tra gli ebrei di Francia è molto profondo. Proprio in questi giorni la Fondation Jean-Jaurès ha pubblicato un libro curato da due brillanti giornalisti e esperti di sondaggi come Jérôme Fourquet e Sylvain Manternach. Il titolo è «L'an prochain à Jérusalem? Les Juifs de France face à l'antisemitisme ed è una raccolta di testimonianze inedite (frutto di una serie di interviste realizzate la scorsa estate) che mostrano come molti ebrei non abbiano aspettato l'invito del presidente del concistoro israelitico di Marsiglia per nascondere la kippah. «Mio marito porta la kippah a Sarcelles (sobborgo a nord di Parigi), ma non la porta dappertutto in Francia», racconta una giovane donna. «Alcune settimane lavora a Lunel, lì dove molti giovani sono partiti per fare il jihad, e non la porta. Nemmeno quando va a Lilla la indossa». In sempre più zone di Francia mostrare la propria appartenenza alla religione ebraica è diventato un problema.

(Il Mattino, 17 gennaio 2016)


I disegni di Helga, la bimba prigioniera a Terezin

Nella sinagoga di Reggio Emilia le opere che la giovane ebrea creò nel campo di concentramento dal 1941 sino al trasferimento ad Auschwitz.

 
"Disegna ciò che vedi" fu l'invito del papà alla piccola Helga, nel campo di concentramento nazista
 
REGGIO EMILIA - Una mostra sui disegni di una bimba prigioniera in un campo nazista. Istoreco organizza l'esposizione "Disegna ciò che vedi", basata sui disegni della giovane ebrea Helga Weissova a Terezin dal 1941 sino al trasferimento ad Auschwitz, dove tutti i suoi parenti furono uccisi. Sono tavole che raccontano la prigionia, la deportazione, viste con gli occhi di una bimba, disegnate con il talento dell'artista.
   L'appuntamento è alle 10 di domenica 17 gennaio per il taglio del nastro alla sinagoga di via dell'Aquila, nell'ex ghetto cittadino, alla presenza dell'assessore alla Città internazionale del Comune di Reggio Serena Foracchia. Per Istoreco interverranno Alessandra Fontanesi e la presidente Simonetta Gilioli. A chiudere, letture da "Il Diario di Helga. La testimonianza di una ragazza nei campi di Terezin e Auschwitz" (Einaudi 2014) a cura di NoveTeatro.
La mostra sarà visitabile sino al 7 febbraio e sarà affiancata da diverse iniziative sul tema della memoria. Il 26 e 27 gennaio la stessa Weissova sarà a Reggio per incontrare gli studenti del Viaggio della Memoria. Nel 2016, infatti, i Viaggi della Memoria Istoreco porteranno a Praga e al campo di Terezin, e dal campo di Terezin arriva a Reggio questa mostra, basata sui disegni che la giovane ebrea Helga fece nel campo di Terezin dal 1941, su esortazione del padre con cui era stata imprigionata lì assieme a tutta la famiglia. "Disegna ciò che vedi", le disse consapevole che il talento grafico della ragazza avrebbe potuto essere una delle pochissime testimonianze a sopravvivere a quei giorni.
   Il risultato è una serie di tavole che ancora oggi rappresentano la prima dimostrazione della bravura di Helga Weissovà-Ho?kovà, poi diventata un'artista conosciuta al grande pubblico. «Disegna ciò che vedi, furono le parole di mio padre dopo che gli avevo portato di nascosto, all'interno del campo maschile, il disegno di un pupazzo di neve. Era il dicembre 1941, poco dopo il nostro arrivo a Terezin. Il pupazzo di neve sarebbe rimasto il mio ultimo disegno veramente infantile. Spinta dalle parole di mio padre mi sentii chiamata, da quel momento in poi, a rappresentare nei miei disegni la vita quotidiana del Ghetto», ha raccontato anni dopo Helga.
   Dopo l'inaugurazione di domenica 17 gennaio alle 10, la mostra sarà aperta venerdì 22 gennaio, 29 gennaio e 5 febbraio dalle 10 alle 13; sabato 23 gennaio, 30 gennaio, 6 febbraio dalle 17 alle 20; domenica 17 gennaio, 24 gennaio, 31 gennaio, 7 febbraio dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20. E' possibile prenotare visite guidate per scuole e gruppi fuori dall'orario di apertura (info 3351294582 - didattica@istoreco.re.it)
   In calendario anche altri appuntamenti collegati. Sabato 23 gennaio alle 17 la mostra ospiterà il dibattito "Il Fascismo è un'opinione o un reato? Contro la banalizzazione della Storia: una legge sul saluto romano e i gadget fascisti" con il parlamentare Emanuele Fiano, promotore di una proposta di legge 3343 che chiede un'integrazione al Codice penale introducendo un nuovo reato per propaganda a favore del regime fascista e nazista.
   Sabato 30 gennaio alle 17 è in programma la presentazione dell'albo illustrato "La città della stella" di S.R. Mignone e S. Possentini (EGA 2016), mentre sabato 6 febbraio Elisabetta Del Monte di Istoreco curerà la conferenza "L'arte come testimonianza", sempre alle 17.

(Il Resto del Carlino, 16 gennaio 2016)


"Non rinunceremo alle nostre kippah, ma fuori dal Ghetto c'è chi la nasconde"

Una giornata con residenti e commercianti tra le strade del quartiere ebraico di Roma: "A volte siamo costretti a proteggerla sotto un cappello".

(la Repubblica, 15 gennaio 2016)


Il papa chiede aiuto al rabbino

L'incontro a Roma tra un papa e un rabbino

di Marcello Cicchese

L'incontro è evidentemente asimmetrico. Il papa è un capo di stato; il rabbino no. Il papa è il leader di una religione con più di un miliardo di adepti nel mondo; il rabbino non è leader di nessuna religione, ma è soltanto il leader di una comunità religiosa locale di qualche migliaio di aderenti. Sembrerebbe dunque che il maggior onorato sia il rabbino, e che sia lui quello che trae maggiore vantaggio dall'incontro. Forse non è così. Era così nel passato, ma tutto fa pensare che le cose siano cambiate, anzi invertite. E' stato gia detto da molti che l'incontro di domani sarà diverso dagli altri, ma perché? Le cause indicate sono diverse. Una di queste sta certamente nel differente carattere dei due ultimi papi, che potrebbero essere visti come tipi umani rappresentanti con le loro persone un momento topico dell'inevitabile declino della chiesa cattolica. Ratzinger rappresenta l'ultimo sforzo di difesa teologica dell'istituzione; Bergoglio rappresenta il vecchio-nuovo progetto gesuitico di far navigare la barca cattolica al centro del flusso storico, con l'aspirazione a condizionarne e guidarne in modo decisivo gli eventi. Se per il primo continuava ad essere di una certa importanza quello che si dice di credere, per il secondo è molto più importante quello che si riesce a fare. A questo scopo i solenni rituali di una volta, anche se non possono essere troppo repentinamente aboliti per non averne contraccolpi interni, devono essere gradualmente abbandonati. Pragmatismo ci vuole. Bergoglio lo sa e lo sa fare. Ratzinger no.
  Così oggi non sono più gli ebrei che vanno a baciare la pantofola del papa in Vaticano, ma è il papa, proprio lui in persona, che va in Sinagoga, in forma dimessa, raccomandandosi di non fare troppa pompa intorno a lui, ad onorare gli ebrei. Così si deve fare oggi. Come ieri si dovevano fare altre cose. Sempre per ottenere i medesimi risultati. Aggiornarsi bisogna, e questo Bergoglio lo sa fare.
  Ma da sagace gesuita, Bergoglio probabilmente ha anche avvertito che il vento sta cambiamdo e che tra la Basilica di San Pietro e la Sinagoga chi oggi è più a rischio è la prima, non la seconda. Forse in Vaticano ha cominciato ad insinuarsi il dubbio che quanto a durata temporale la Sinagoga finisca per superare la Basilica. E allora, come hanno fatto tante altre volte i papi nel passato, in caso di minaccia dall'esterno è sempre bene tenersi buoni gli ebrei. Fermo restando, comunque, che questo appaia al di fuori non come espressione di debolezza, ma come gesto di magnanimità da parte di chi è superiore verso chi è inferiore. Perché è il papa - no, dico, il papa, mica uno qualsiasi -, che va di persona a trovare gli ebrei a casa loro. Saranno in grado gli ebrei di afferrare la grandezza di un simile gesto? E' dubbio. Perché si sa, gli ebrei sono sempre ebrei, e certe cose loro fanno fatica a capirle. Ma anche se non le capissero, saranno tutti gli altri a capirle. Capiranno di star assistendo a un sublime, teatrale esempio di misericordia da parte di un papa che arriva al punto di degnarsi di andare a casa degli ebrei. Potranno criticarlo, gli ebrei, dopo tutto questo? Israele? Che c'entra Israele? Lo stato di Palestina? Certo, perché? che c'è da dire? Lì il papa ha lasciato un angelo di bontà che gli ebrei residenti in Terra Santa dovranno soltanto riconoscere e accondiscendere. Interessi vaticani in Palestina? Forse, ma di questo il papa non s'interessa. Ci sono altri in Vaticano che se ne occupano. Lui invece ha altri compiti. Lui deve rappresentare la sublime misericordia papale verso tutti, perfino verso gli ebrei. Davanti alle telecamere. Davanti al mondo.

(Notizie su Israele, 16 gennaio 2016)


Anche in Francia coltellate agli ebrei

Lettera al Giornale

La settimana scorsa qui in Francia ci sono stati due morti accoltellati, ma la tv non ne ha parlato e i giornali hanno accennato ai due omicidi senza fornire le generalità dei morti e degli accoltellatori. Inoltre un ragazzo di origine turca di 15 anni ha accoltellato un insegnate ebreo che si recava a scuola. E un consigliere comunale ebreo è stato ritrovato morto accoltellato a casa sua. Poi si giudica severamente il premier israeliano Benjamin Netanyahu il quale invita gli ebrei francesi a emigrare a Gerusalemme dove è vero che gli accoltellamenti sono quotidiani, ma almeno si possono condannare gli assassini.
Nerio Fornasier
Suresnes Nanterre (Ile de France)


(il Giornale, 16 gennaio 2016)


17 screens. I fratelli Bouroullec a Tel Aviv

Museum of Arts, Tel Aviv - fino al 19 marzo 2016. Ronan ed Erwan Bouroullec danno vita a una scenografia rarefatta di assemblaggi materici sorprendenti. In gioco, una speculazione sull'idea di "bordo" che ci spinge, ancora una volta, a interrogare i confini tra arte e design.

di Giulia Zappa

 Oltre i limiti disciplinari
  Una mostra sul confine, sul suo spessore (parafrasando Gilles Clément) e sulla liminalità nei possibili approcci alla definizione dello spazio. È quella che Ronan e Erwan Bouroullec, i fratelli più celebri del design francese, mettono in scena presso il Tel Aviv Museum of Arts attraverso la concezione di 17 installazioni - da cui il titolo della mostra, 17 Screens, a cura di Meira Yagid-Haimovici - in bilico tra geometria ed evanescenza.
  Questo esperimento curioso, indubbiamente il più plateale "fuori tema" all'interno del loro corpus creativo, è il frutto di una ricerca libera da committenti privati, avviata un anno fa. Un esercizio di ibridazione disciplinare, potremmo dire, che parte dal disegno a mano libera, esplora accostamenti e assemblaggi materici ingegnosissimi (ceramica, vetro, tessuto, alluminio, plastica) e arriva a definire una rete di esili recinti site specific calati sulle peculiari dimensioni della sala.

 Design e intimità
  In questo viaggio tra le possibili scansioni dello spazio, tra modularità e composizioni libere, l'appassionato di design non potrà esimersi dallo scovare qua e là riferimenti al loro portfolio, nella maggioranza dei casi di tipologia squisitamente industriale: la bacchetta per montare le tende di Ready Made Curtain per Kvadrat, i moduli in plastica e tessuto di Algue e Clouds (rispettivamente per Vitra e Kvadrat), la libreria Cloud per Cappellini.
  Eppure, le assonanze trascendono le citazioni più o meno esplicite e arrivano ad esplorare un terreno ben più metafisico qual è quello dato dal nostro senso di intimità: il perimetro identificato da un nastro basta a definire un passaggio, una stanza, una cuccia? Allo stesso modo, quale presupposto di divisione evoca una linea retta? E, infine, in chiave squisitamente meta-progettuale: come esportare l'idea di un perimetro avvolgente in un'architettura di interni domestica e reale?

1 2 3 4 5 6  mootools lightbox gallery by VisualLightBox.com v6.0m
Tel Aviv, fino al 19 marzo 2016
Ronan and Erwan Bouroullec - 17 Screens
a cura di Meira Yagid-Haimovici
Tel Aviv Museum of Art
27 Shaul Hamelech Blvd
+972 (0)3 6077020

(Artribune, 16 gennaio 2016)


Nel 2015 record di ebrei in fuga dall'Europa

In tutto sono stati 9880. La maggior parte viveva in Francia: "Non ci sentiamo più al sicuro".

Nel 2015 vi è stata la più alta emigrazione in Israele di ebrei dall'Europa occidentale: in tutto 9880. Lo ha annunciato l'Agenzia ebraica che ha indicato come causa del fenomeno la crescita di atti antisemiti in Occidente. In testa ci sono gli ebrei francesi: in circa 8.000 hanno lasciato la terza più grande comunità del mondo spinti dall'aumento degli attacchi antisemiti. Subito dopo gli ebrei inglesi (circa 800), poi quelli italiani e belgi.
«Questo numero record di ebrei europei in fuga indica che l'Europa non è più la loro casa e dovrebbe allarmare i leader Ue e servire - ha detto Nathan Sharansky, presidente dell'Agenzia ebraica citato dai media - come sveglia per tutti quelli interessati al futuro del Vecchio continente».
Proprio in Francia in questi ultimi giorni l'insegnate di una scuola ebraica di Marsiglia ha subito l'aggressione a colpi di machete da parte di un giovane arabo. Un episodio - senza dimenticare la strage all'Hypercacher di Parigi e a Charlie Hebdo - che ha indotto un esponente della locale comunità a chiedere agli ebrei di non andare in giro con la kippa' (il copricapo religioso) in modo da non essere individuati.

(La Stampa, 15 gennaio 2016)

*


Emigrazione record di ebrei dall'Europea occidentale verso Israele

Sharansky: Un campanello d'allarme per l'Europa, un motivo d'orgoglio per Israele

il flusso di immigrati ebrei dall'Europa occidentale in Israele sta toccando cifre da record storico come diretta conseguenza dell'aumento di aggressioni e attacchi antisemiti. Lo sottolinea l'Agenzia Ebraica, l'ente non profit che opera a stretto contatto con il governo israeliano e funge da collegamento con gli ebrei di tutto il mondo.
Secondo i dati diffusi giovedì, nel 2015 sono immigrati in Israele 9.880 ebrei dell'Europa occidentale: il dato annuale più alto mai registrato. La stragrande maggioranza, quasi 8.000, sono arrivati dalla Francia, dove un clamoroso incremento di manifestazioni e attacchi di stampo marcatamente antisemita ha fatto a pezzi il senso di sicurezza della terza comunità ebraica più grande del mondo...

(israele.net, 16 gennaio 2016)


Le note che tornano

Il 22 gennaio alle ore 12 sarà dedicato un albero di sughero al Maestro Arturo Toscanini all'Auditorium Parco della Musica di Roma, che il 27 gennaio ospiterà il concerto per il Giorno della Memoria "Toscanini: il Coraggio della Musica".

di Viviana Kasam

 
Il maestro Arturo Toscanini
Toscanini fu un uomo eccezionale. Nelle qualità e nei difetti. Grandissimo musicista, creò l'immagine divistica del direttore d'orchestra che è entrata nel nostro immaginario collettivo. Come la Callas, è diventato un mito, e le sue interpretazioni sono considerate insuperabili.
   Aveva però un pessimo carattere, irascibile, litigioso, aggressivo. Era quello che oggi si direbbe un maniaco sessuale, e se fosse vissuto nel XXI secolo sarebbe probabilmente finito come Strauss Kahn. Ma era anche uomo di grandissimi ideali e principi etici, e utilizzò il carisma della sua immagine per opporsi platealmente a fascismo e nazismo. Dante avrebbe definito il suo "il gran rifiuto" ma in accezione positiva: rifiutò infatti per ben due volte di suonare "Giovinezza" in apertura di un concerto a Bologna nel 1931, nonostante la pressante richiesta di Galeazzo Ciano, sottosegretario agli Interni e presente in sala. Questo gli valse un pestaggio delle camicie nere, e la confisca del passaporto da parte di Mussolini, che dovette però prontamente restituirglielo a causa delle proteste internazionali. Appena rientrato in possesso del documento, Toscanini si autoesiliò in America, giurando che non sarebbe è più tornato a suonare in Italia fino alla caduta del fascismo. Non solo. Rifiutò anche di inaugurare nel 1933 il Festival di Bayreuth, il più prestigioso evento musicale al mondo, nonostante avesse un contratto firmato con Furtwangler; e non valse a smuoverlo dalla sua decisione una lettera personale di Hitler.
  Amico di Einstein, Toscanini si definiva "ebreo onorario", e amava ripetere che forse il suo nome, toponimo della regione Toscana, aveva radici ebraiche. E sua figlia Wanda si era sposata con il pianista ebreo Vladimir Horowitz.
  Fin qui la storia che tutti conoscono. Meno nota invece, se non a qualche musicologo, un'altra pagina delle sua vita, quella che lo vide protagonista della operazione di salvataggio di un centinaio di musicisti ebrei, ideata dal violinista Bronislaw Huberman. Huberman, considerato il massimo virtuoso del suo tempo, si convertì al sionismo dopo aver suonato in Palestina e aver constatato la passione per la musica della popolazione ebrea residente, di tutte le classi sociali.
  Avendo assistito impotente al licenziamento dei musicisti ebrei dalle orchestre del Reich (ne rimasero in carica solo alcuni che suonavano con i Berliner, per insistenza di Furtwangler), e prevedendo che le persecuzioni si sarebbero inasprite, ebbe l'idea di costituire una orchestra di sommi musicisti ebrei e trasferirla in pianta stabile in Palestina, aggirando, grazie al prestigio dell'iniziativa e al nome di Toscanini, le difficoltà che il Mandato Britannico opponeva alla concessione di visti per gli ebrei, per via delle proteste degli arabi e dei frequenti incidenti tra le due popolazioni residenti. Toscanini aveva promesso a Huberman che, se fosse riuscito nel suo intento, avrebbe diretto gratis il primo concerto, trasformandolo in un evento mondiale. Così fu. Quell'orchestra, la Palestine Orchestra (PO), che sarebbe divenuta la Israel Philharmonic Orchestra (IPO) alla fondazione dello Stato di Israele, divenne subito famosa grazie al nome del direttore italiano e a quello di Einstein, che ne fu nominato presidente onorario e che si coinvolse personalmente nella levata di fondi in America. Un centinaio di musicisti e le loro famiglie ebbero così salva la vita (i pochi che per un motivo o per l'altro tornarono in Europa morirono tutti durante la Shoah).
  Da anni ho il desiderio di fare qualcosa con questa bellissima storia e il desiderio si è intensificato negli ultimi tempi, perché Toscanini e Huberman ci danno un esempio di idealismo e di impegno e un messaggio di speranza più che mai necessari in questo momento. Ho pensato perciò di replicare quel concerto per il Giorno della Memoria, con una orchestra che di Arturo Toscanini porta il nome, e un direttore, Yoel Levi, che è il primo israeliano ad essere stato nominato Principal Guest Conductor della Israel Philharmonic Orchestra e che ne tiene alta l'eredità di eccellenza.
  A ottant'anni da quella serata del 1936 replicheremo il programma del concerto di Toscanini, e saranno simbolicamente presenti tre musicisti della IPO, uno dei quali, il contrabbassista Gaby Vole, è il nipote di uno dei musicisti che Toscanini diresse allora. L'attore Umberto Orsini racconterà la storia di Toscanini, e avremo anche un filmato di clip e fotografie d'epoca, realizzato per noi da Josh Aronson, regista e produttore americano, autore del film Orchestra of exiles che ricostruisce la vicenda (di Aronson sta per uscire per i tipi di Penguin Random House anche l'omonimo libro, scritto insieme a Denise George).
  A Toscanini dedicheremo anche, grazie all'associazione Gariwo, un albero di sughero e un cippo che ricorderà il suo impegno per salvare gli ebrei nel giardino dell'Auditorium Parco della Musica a Roma, perché il suo gesto sia si perenne memoria. Dopo aver organizzato per il Giorno della Memoria del 2014, insieme a Marilena Citelli Francese e in collaborazione con l'UCEI, il concerto "I violini della speranza", in ricordo degli strumenti che contribuirono a tener viva la spiritualità dei perseguitati in fuga e dei prigionieri, e nel 2015 "Tutto ciò che mi resta", una raccolta di musiche scritte nei campi di concentramento, mi sembra che "Toscanini: il potere della musica" chiuda il ciclo con un messaggio oggi estremamente importante: e che cioè ognuno di noi può fare qualcosa, che non siamo necessariamente oggetti passivi del terrorismo, ma che possiamo opporci con il nostro impegno e dare un esempio di coraggio e di dignità. È importante ricordare le vittime della ferocia nazista e fascista. Ma, come ho spesso discusso con il mio maestro, Haim Baharier, bisogna cercare di sottrarsi alla retorica, che finisce per imbalsamare la storia, ed evitare la tendenza a focalizzare l'identità ebraica in quella di vittime.
  Vittima è una accezione passiva, e mortifica l'identità identità culturale e spirituale del nostro popolo. Insieme al ricordo delle vittime, dobbiamo, credo fermamente, ribadire la nostra creatività, il nostro pensiero, la nostra visione del mondo.
  Con i tre concerti per il Giorno della Memoria ho cercato di ridare la voce e l'identità culturale a coloro cui la persecuzione ha cercatodi toglierla: agli strumenti destinati a tacere per sempre, alle musiche che si è cercato di cancellare, uccidendo chi le scriveva e chi leinterpretava, e impedendone l'esecuzione pubblica. Ora, con questo concerto, spero di contribuire a diffondere la consapevolezza che si può resistere al Male, che si possono avere e realizzare grandi sogni anche nelle avversità, e che ognuno di noi ha il dovere di far proprio l'esempio di Toscanini e di Huberman e difendere la dignità umana e la vita di tutti coloro che sono vittime di persecuzioni e discriminazioni.

(Pagine Ebraiche, gennaio 2016)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.