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Notizie 16-31 luglio 2016


In Israele un'assicurazione vende una polizza contro i rischi di Pokemon Go

Simile a quella sottoscritta dai praticanti di sport estremi

La succursale israeliana di un'assicurazione internazionale ha emesso una speciale polizza assicurativa contro i rischi derivanti dall'utilizzo di Pokémon GO, dopo una serie di incidenti che questo popolare gioco ha causato in tutto il mondo. La polizza, che viene commercializzato a partire da questi giorni, è un nuovo tipo di assicurazione "antinfortunistica" ed è simile a quelle sottoscritto da coloro che praticano sport estremi, ha riferito oggi il quotidiano Yediot Aharonot.
L'assicuratore, che non ha rivelato il prezzo della polizza, garantisce il risarcimento in caso di lesioni o morte derivante dal gioco. La febbre "Pokemon Go" ha già causato alcuni incidenti gravi in Israele, tra cui quello riguardante un minore che è stato colpito alla testa mentre inseguiva in bici un Pokemon. Il gioco ha anche messo in allerta per la sicurezza interna dell'esercito israeliano, che ha vietato il suo uso in basi militari per timore che le strutture segrete fossero fotografate.
L'app ha suscitato molto interesse in Israele al punto che anche uno dei giornali più conservatori e ultra-ortodossi, il Yeted Neeman, ha dedicato tre pagine nella sua edizione di questo fine settimana al gioco, mettendo in evidenza i pericoli morali di questa esperienza digitale.

(LaPresse, 31 luglio 2016)


"Gli invisibili legami tra arte e politica"

Intervista a Ruth Direktor, curatrice al Museo d'arte di Tel Aviv

 
Il Museo d'arte di Tel Aviv
- Ruth Direktor, lei è curatrice d'arte contemporanea al Museo d'arte di Tel Aviv: mi descrive il suo museo?
  "II Museum of Art di Tel Aviv ospita arte moderna e contemporanea ed è stato iI primo a essere allestito in Israele. Fu fondato nel 1932, agli albori della città, e la sua prima sede fu la residenza privata del primo sindaco, Meir Dizengoff. Dizengoff diceva che ogni città degna del nome dovrebbe avere un viale, una piazza e un museo. Non era un esperto d'arte e aveva una visione piuttosto ingenua del museo, ma adorava l'arte. Lui e la moglie non avevano avuto figli e nel testamento scrisse che iI museo era la sua "adorata creatura". Chiese a Marc Chagall - il più famoso artista ebreo del tempo - di dirigerlo. Chagall non poté accettare l'offerta, ma mantenne i contatti con Dizengoff fu lui a donare il primo dipinto al Museo: "Ebreo con la Torah", del 1925. Ancora oggi è registrato con il numero "1" nella nostra collezione. In seguito ci furono altre donazioni, soprattutto da collezionisti e artisti ebrei. Gradualmente il museo ha messo insieme una collezione completa e importante di arte moderna, che è permanente, e anche una raccolta più piccola di antichi maestri".

- Cosa è accaduto al museo dopo la morte di Dizengoff?
  "Nel 1936 l'edificio fu più volte ristrutturato per adattarlo alle esigenze museali. Ma, espandendosi il museo, la casa divenne sempre più inadeguata e nel 1959 fu trasferito in una nuova sede. Nel 1971 il museo ebbe di nuovo bisogno di spazi più grandi e venne trasferito nell'attuale sede. Nel 2011 fu aggiunta un'ala e, quindi, oggi presenta tre diversi stili".

- Che tipo di mostre e che genere di eventi organizzate?
  "Ogni anno abbiamo circa 34 mostre temporanee, accanto alle collezioni permanenti di arte israeliana e internazionale. Ci sono diversi auditorium polifunzionali che ospitano letture, conferenze, concerti, proiezioni cinematografiche, spettacoli di danza e altro ancora".

- Ad esempio?
  "Le cito un'esibizione davvero unica che si è tenuta l'anno scorso: è una performance del gruppo israeliano Public Movement. Il punto di partenza è un fatto storico, la proclamazione dello Stato d'Israele nella galleria del Tel Aviv Museum, il 14 maggio 1948. I Public Movement volevano dimostrare come l'identità nazionale sia legata all'identità artistica. Vestiti con uniformi bianche, si esibivano a orari fissi. Accompagnavano gruppi di 25 persone in una specie di visita guidata. Una delle tappe era una replica della galleria che ospitò la proclamazione, compresi i dipinti originali appesi ai muri come silenziosi testimoni di quel momento storico. Lì mettevano in scena una cerimonia basata su quell'evento, con una variante: cantavano il loro inno e non quello nazionale. II museo stesso serviva come materia prima per il lavoro dei Public Movement. Correvano e saltavano; camminavano in formazione da parata e danzavano la hora, una danza folkloristica, declamavano tutti insieme e si baciavano. La loro sintassi si fonda sull'estetica, sulla coreografia e sul potenziale erotico dei movimenti dei giovani corpi. Le loro coreografie s'ispirano a un mondo di azioni militari, movimenti giovanili cerimonie solenni ed eventi in contesti nazionalisti. II loro tour di 50 minuti lascia confusi: è una cerimonia? Una parata? Chi impersonano i membri dei Public Movement? Sono ironici? E vero quello che dicono?"

- Quanti visitatori avete?
  "Circa 650 mila all'anno. Il numero di visitatori è considerato un indice di successo. Ma, se posso tornare al caso dei Public Movement, non sempre il numero è ciò che conta. Essendo una performance ad accesso limitato, il loro spettacolo è andato avanti solo per sei settimane con 26 repliche per settimana e 25 persone per volta. E, nondimeno, è stato un progetto eccezionale".

- L'arte contemporanea è viva in Israele?
  "C'è una vivace vita artistica. Ci sono molte scuole d'arte e la maggior parte ha un master in belle arti. A Tel Aviv ci sono gallerie private, spazi gestiti dagli artisti stessi e spazi non-profit, oltre a un fitto programma di esibizioni ed eventi artistici".

- Quali sono i maggiori artisti israeliani?
  "Quelli di maggior successo sono Michal Rovner, Yael Bartana, Sigalit Landau, Guy Ben Ner, Omer Fast, Mika Rutenberg, Keren Zitter, flit Azoulay, Nevet Itzhak e altri. Non sorprende che la maggioranza siano videoartisti o, comunque, artisti che lavorano soprattutto con i video. A differenza della pittura e della scultura, campi in cui gli artisti israeliani sentono lo svantaggio dell'essere privi di una tradizione artistica, con i video il discorso è diverso".

- La difficile situazione del suo Paese ha grande influenza sugli artisti?
  "La situazione politica influisce molto. E presente in modo dichiarato nelle opere d'arte e anche in modi più nascosti. Un artista, Moshe Gershuni, nel 1977, scrisse nell'ambito di un lavoro sperimentale a Gerusalemme: "Il problema della pittura è il problema palestinese." Anche se è stata scritta quasi 50 anni fa, è ancora una frase che colpisce e fa pensare: davvero il problema dell'arte è il conflitto politico?".

(La Stampa, 31 luglio 2016)


«Siamo in guerra, niente buonismo». Il rabbino: ebrei e cristiani sotto tiro

Laras: contro la strategia del ricatto, l'Europa torni a pensare. Devastati dalla mediocrità delle nostre classi dirigenti, non c'è adeguata selezione.

di Cristiano Bendin

«Siamo in guerra. Per ora è una strategia della tensione, del ricatto economico e del terrore. Ma l'esito potrebbe essere la soumission, consapevole o meno». Tra le titubanze della Chiesa e il politicamente corretto della classe politica, Giuseppe Laras, presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, è tra i pochi intellettuali italiani a esprimere senza riserve «grave preoccupazione» per l'attuale situazione dell'Italia e dell'Europa.

- Rav Laras, che pensa delle recenti dichiarazioni del Papa circa la matrice «non religiosa» degli attacchi terroristici?
  
«Disgraziatamente la realtà parla con evidenza da sé. Leggiamo, per maggiore profitto, il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI».

- Non crede che una condanna più decisa da parte della Chiesa infiammerebbe un mondo islamico già incandescente?
  
«E al mondo non islamico che subisce queste violenze e che, per converso, ha accolto e almeno tentato di integrare milioni di musulmani, andando incontro a una sua modificazione nel futuro ed esponendosi a ipoteche socioculturali e simboliche epocali, cosa dice la Chiesa Cattolica? E, circa queste stesse violenze, che hanno devastato negli scorsi due secoli i cristianesimi orientali in Terra di Islàm, con un'accelerazione nelle ultime decadi, a cosa ha giovato non averle condannate con forza e presentate a suo tempo agli ordini del giorno delle agende culturali e politiche occidentali?».

- Dopo l'uccisione di padre Jacques Hamel i luoghi di culto cattolici in Europa sono a rischio?
  
«Le sinagoghe e le scuole ebraiche, tra Francia e Belgio, sono già state attaccate. Le chiese in Egitto registrano anch'esse attacchi da decenni. E che dire di Siria, Iraq, Pakistan? Ora, con l'uccisione di padre Hamel tale attacco è realizzabile anche in Europa. È stato dato un segnale. Per decenni c'è stato troppo incosciente silenzio sulle sorti di ebrei e cristiani di Oriente in relazione all'Islam».

- Quali, a suo giudizio, gli elementi di debolezza dell’Occidente?
  
«I partiti e le grandi istituzioni culturali ed economiche da troppo tempo non hanno formato e selezionato con severità, attento vaglio e puntiglio la nuova classe dirigente. La mediocrità ha una capacità di erosione e di istupidimento che ci ha devastati. Tutto ciò è una delle debolezze più insidiose, specie per la vita democratica dei nostri Paesi e per il mantenimento di quanto abbiamo ereditato. Bisogna investire nella formazione di eccellenze».

- Cosa dobbiamo aspettarci?
  
«Se le bocce si muoveranno, come è verosimile, il conflitto esploderà ma non esaurirà le violenze jihadiste in Occidente. Occorre prepararci anche con un serio armamentario di idee e studi. Iniziando, per esempio, a leggere le storie dei cristiani e degli ebrei in Terra di Islàm. Chi ha coscienza dei massacri, a decine di mogliaia, di cristiani maroniti in Libano agli inizi dell'800? O dei cristiani assiri? E che dire dei massacri di centinaia di migliaia di armeni nel corso del XIX secolo, ben prima del loro Genocidio? Chi conosce le misure e le ragioni teologiche della dhimmitudine cui erano sottoposti ebrei e cristiani?».

- È possibile un dialogo tra cristiani, ebrei e musulmani?
  
«L'urgenza non è dialogare ma il dovere di coesistere, garantendo vite dignitose e non nuocendo vicendevolmente, favorendo un sentimento di amicizia civile».

- Quale 'rivoluzione dell'intelletto' servirebbe agli europei?
  
«Credo che il fariseismo cui si riferisce il Papa sia oggi rappresentato dal politically correct. Gli europei devono riprendere a pensare, cestinando terzomondismo, pacifismo oltranzista, indulgenza colpevole e buonismo».

(Nazione-Carlino-Giorno, 31 luglio 2016)


Vienna, dove c'erano gli ebrei

In giro per la città alla ricerca delle poche tracce di un'antica presenza ebraica

di Fabio Astrologo

 
Vienna - Judenplatz
 
Vienna - Monumento alla Shoà
 
Vienna - Sinagoga
Vienna è così come te l'aspetti, sembra un'anziana ricca signora che seduta sul suo antico e prezioso sofà, con ancora indosso il trucco e i gioielli della festa, riflette malinconica sui bei tempi andati. Le vie del centro sono piene ma non affollate, la maggior parte dei bar hanno ancora gli arredi in legno e ottone come cento anni fa, i portieri degli hotel vestono in tait e indossano grandi cappelli a cilindro. I viennesi hanno modi gentili ed educazione d'altri tempi.
   Per trovare una traccia dell'ebraismo in città, bisogna armarsi di pazienza e avere buone gambe. Il nostro itinerario comincia da una piazza un po' isolata, fuori dai consueti itinerari turistici o dello shopping, e più precisamente dalla Judenplatz che nel medioevo era il centro della vita ebraica.
   Qui si potevano incontrare ebrei intenti nel commercio, mentre si recavano alla sinagoga o più semplicemente mentre passeggiavano. Oggi al centro della Judenplatz si erge un edificio basso e largo di colore chiaro, realizzato da Rachel Whitread, è il " monumento viennese alla Shoà. Avvicinandosi alla costruzione si nota che i mattoni di color beige sono stati realizzati in modo da sembrare libri, con il dorso rivolto verso l'interno della costruzione stessa, come a simboleggiare le tante storie delle vittime del nazismo che non sono mai state scritte e non saranno mai raccontate. Nelle piastrelle pavimentali che circondano l'edificio sono incisi i nomi dei campi di sterminio dove trovarono la morte gli ebrei viennesi.
   Dando ora le spalle al solitario monumento, davanti a noi, su un lato della piazza, ci troviamo di fronte ad una delle due sedi del museo ebraico. Il museo si erge sulle rovine di una sinagoga medioevale, riportate ora alla luce. Il nucleo centrale dell'esposizione mostra le condizioni di vita, le attività culturali e l'integrazione nella società, degli ebrei viennesi. La mostra si interrompe al 1421 anno in cui il duca Albrecht V emise un editto di espulsione contro tutti gli ebrei per motivi che vanno ricercati nell'antisemitismo latente all'interno della società austriaca.
   Per trovare l'altra sede del museo ebraico bisogna incamminarsi per le strette vie, dirigersi verso il corso principale di Vienna e fermarsi nella Drother gasse. Riaperto nel 2011 il museo è diviso in tre tronconi principali. Il primo è dedicato ad un grande spazio espositivo di carattere temporaneo e raccolte d'arte private, il secondo troncone e composto da un laboratorio ed una mostra di oggetti di uso quotidiano per le normali preghiere e funzioni religiose, come talledim, sefarim, bicchieri del kiddush e altri strumenti utilizzati nelle preghiere. Nel terzo troncone si può visitare la mostra permanente e fulcro centrale del museo, "La nostra città" che mette in risalto la storia dell'ebraismo viennese, dai primi del 900 ad oggi ed il suo intreccio con la storia della città. Per capire quanto sia forte questo legame basta pensare che prima del 1938 gli ebrei in città erano circa l' 11 % della popolazione, e qui nacquero personaggi illustri del calibro di Freud, padre della psicoanalisi, dei banchieri Rothschild, degli scrittori Joseph Roth e Karl Kraus, solo per citarne alcuni.
   Usciti dal museo e percorsi qualche centinaio di metri bisogna recarsi in Seitenstetten gasse per trovare la sinagoga (Stadttempl) di Vienna. Questa si trova all'interno di un anonimo e grigio condominio, poiché all' epoca della sua costruzione, solo le chiese potevano stare su strada ed essere visibili, e fu questa la sua fortuna, infatti delle 94 sinagoghe viennesi fu l'unica ad essere risparmiata dai pogrom del '38. Era il 1825 quando Josef Kornhausel, il più importante architetto del biedermier viennese cominciò ad erigere la Stadttempl, fu poi ristrutturata nel 1895 e nel 1904 da Wilhelm Stiassny che aggiunse una gran parte degli ornamenti. Varcata la porta di ingresso si entra in un ambiente ovale ornato da 12 colonne ioniche che rappresentano le 12 tribù di Israele. L' aron e la tevà sono collocati di fronte all'entrata sopraelevati rispetto al pubblico, per accedervi bisogna salire due scalinate marmoree, che le circondano. La luce all'interno è garantita da un ampio lucernario posto in alto al soffitto. I posti a sedere per il pubblico sono distribuiti tra piano terreno, gli uomini, e il matroneo diviso in due piani, le donne. In tutto la sinagoga può contenere 700 persone. Tutto l'insieme rende la sinagoga molto più simile ad uno di quei teatri ottocenteschi che si vedono nei film d'epoca, piuttosto che alle grandi sinagoghe monumentali alle quali siamo, forse, più abituati. Vale veramente la pena di assistere ad una funzione religiosa, non solo per immedesimarsi negli ebrei viennesi del secolo scorso, ma anche per ascoltare il famoso cantore Barzilai, le cui melodie vi consiglio di ascoltare su internet. Questa sinagoga ospitò le bare di Teodoro Herzel e dei suoi genitori prima di essere trasferite in Israele nel 1949. Purtroppo, come troppe volte accade, la sinagoga è stata teatro di un attentato, nel 1981 quando, alla fine di un bar mitzvà, furono uccise da colpi di pistola, esplosi da vili attentatori, due persone e ne furono ferite 30. Ora nello stesso edificio ci sono anche gli uffici comunitari e del rabbinato.
   Usciti dalla Stadttempl, per trovare tracce che gli ebrei hanno lasciato in città, bisogna fare una lunga strada ed arrivare fino alla zona Rossau e più precisamente alla Berg gasse 19, dove tra il 1891 e il 1938 il dottor Sigmund Freud abitò, fino alla fuga in Inghilterra, in seguito alle leggi razziali. Nell'appartamento, nel 1971, fu allestito un museo all'interno del quale ci si può immergere nella vita quotidiana di Freud. L'allestimento è composto per lo più da mobili e dalla biblioteca dell'epoca. L'itinerario storico alla ricerca della vita ebraica passata finisce qui. Per la solita misteriosa alchimia già vista in numerose città europee, le vie del vecchio ghetto ora sono diventate il centro della vita notturna di Vienna, entrando a far parte di diritto, della tappa principale dei tour enogastronomici dei viennesi.
   La vita ebraica oggi si è spostata dall'altra parte del fiume, nel quartiere di Leopoldstadt, dove ci sono 4 ristoranti kosher e le scuole ebraiche. Un'altra zona dove è concentrata la vita ebraica è quella del Prater dove nel nuovo campus oltre ad una casa di studi ci sono la casa di riposo e le sedi dei movimenti giovanili e del locale Maccabi. Per capire bene quanto la storia di Vienna e quella degli ebrei sia intrecciata bisogna riflettere su alcuni numeri: prima del 1938 gli ebrei nella città erano 200.000, 65.000 furono uccisi e 140.000 furono gli esuli. Oggi si possono contare 7.000 ebrei la maggior parte dei quali provenienti dall'Europa dell'est. La traccia del popolo ebraico in città è di certo indelebile, ma non così marcata come sarebbe potuta essere se non si fosse incrociata col delirio e la barbarie del nazismo.

(Shalom, luglio 2016)


Netanyahu: Francia e altri paesi dell'Europa sostengono gruppi anti-israeliani

GERUSALEMME - Un'indagine del governo israeliano ha rilevato come alcuni paesi europei, inclusa la Francia, abbiano sostenuto organizzazioni apertamente anti-israeliane. Lo ha rivelato quest'oggi il primo ministro Benjamin Netanhyahu all'inizio di una riunione dell'esecutivo. "Completeremo l'indagine e presenteremo i risultati al governo francese", ha promesso il capo del governo di Tel Aviv, senza tuttavia precisare quali siano le organizzazioni coinvolte nelle attività sospette. Già in passato il governo israeliano aveva più volte condannato il sostegno occidentale a Ong apertamente filo-palestinesi, alcune delle quali ree di promuovere il boicottaggio di prodotti israeliani. Due settimane fa, inoltre, la Knesset ha adottato una nuova legge che prevede che le Ong dichiarino l'origine dei propri finanziamenti.

(Agenzia Nova, 31 luglio 2016)


«Il mio violino per la Tunisia. Una sola musica, un solo Dio»

Il concerto del Maggio

di Edoardo Semmola

FIRENZE - Yehezkel Yerushalmi ha un'enorme fede nel potere della cultura: «Se c'è un solo Dio - dice - c'è anche una sola musica». Portare l'opera italiana qui a El Jem «è come portare un quadro di Michelangelo al Museo del Bardo, è come se tutte le religioni monoteistiche dimenticassero i diversi modi che abbiamo creato per pregare lo stesso Dio e si concentrassero sul sentimento di quella preghiera, perché anche la musica è una sola anche se i popoli hanno sviluppato modi diversi di metterla in scena».
   A poche ore dall'atteso concerto dell'Orchestra del Maggio a El Jem, il «piccolo colosseo» ai confini del deserto, a un'ora di macchina di Tunisi, è il primo violino del Maggio Yehezkel Yerushalmi a farsi carico della carica emotiva della spedizione fiorentina in Nord Africa. «Sono israeliano figlio di un polacco che è dovuto scappare dalla Polonia e di una marocchina che è dovuta scappare dal Marocco - spiega il primo violino che ieri sera è stato diretto dal maestro Fabrizio Maria Carminati insieme ai Solisti dell'Accademia in occasione del trentunesimo Festival Internazionale di Musica Sinfonica di El Jem su arie di Rossini, Verdi e altri compositori italiani - e per questo ho suonato in Polonia per portare al popolo di mio padre un messaggio di speranza e forza; e ho suonato in Marocco per infondere lo stesso sentimento nel popolo di mia madre. Come israeliano mi sento molto vicino a chi scappa dagli orrori e credo fortemente nella capacità della musica di valicare le differenze culturali». Anche per questo Yehezkel Yerushalmi è stato uno dei 30 orchestrali - sui cento in totale che compongono l'organico del Maggio - a non aver mai avuto dubbi a partecipare a questa serata «di unione fra i popoli». Due terzi dell'orchestra ha invece rinunciato, per la paura di attentati. «Chi è rimasto a Firenze lo ha fatto per un legittimo sentimento di timore, ma chi è qui con me si sta rendendo conto che non c'è nulla da temere: l'umore dell'orchestra è ottimo, ci godiamo il sole e il mare in attesa delle prove finali e siamo consapevoli di essere qui a fare qualcosa di importante». Oggi, prima di tornare a Firenze «abbiamo anche in programma una visita alla medina di Tunisi perché vogliamo che questa esperienza ci aiuti a sentirci parte di questa città e desideriamo essere considerati la freccia che indica la direzione giusta da prendere per superare questo momento difficile».
   Anche l'altro professore d'orchestra di religione ebraica, la prima viola, Igor Polesitzk, era stato tra i pochi a votare sì al referendum indetto dagli stessi orchestrali sul gradimento di questa trasferta (referendum che un mese e mezzo fa aveva visto vincere i «no» ad ampia maggioranza). E si è giocato il posto con l'altra prima viola Jörg Winkler. Ha perso, e quindi è rimasto a Firenze. Quello delle viole è stato l'unico caso di sovrabbondanza di volontari per il concerto tunisino, mentre in tutti gli altri comparti si è verificato il problema opposto e l'Orchestra ha dovuto sopperire alla mancanza di musicisti ingaggiando una decina di aggiunti ad hoc. Da Firenze sono partiti in 60, di cui 45 orchestrali, 35 dell'organico del Maggio e una decina di esterni. «Siamo ambasciatori di pace», ha esordito il direttore artistico Pierangelo Conte. «La Tunisia sta vivendo una crisi di turismo durissima dopo gli attacchi al Bardo di due anni fa - prosegue Yehezkel Yerushalmi - e appena ci hanno visti arrivare molti tunisini ci hanno scambiato per turisti e ci hanno riempito di feste. I camerieri del nostro albergo mi dicono che a El Jem ci sarà il pienone, ho incontrato alcuni turisti russi che verranno a sentirci suonare e anche molti tunisini che vedono in questo concerto un'occasione importante di rilancio turistico. Uno mi ha anche fatto delle richieste sul programma: voleva sentire il Bolero».
   Non è la prima volta che Yerushalmi si esibisce con il Maggio a El Jem. «Dodici anni fa venimmo qui con il maestro Muti all'interno di un progetto simile a questo. Ricordo che mentre suonavamo il Mefistofele di Boito sentimmo il muezzin che con i suoi altoparlanti invitava i fedeli alla preghiera. Nell'anfiteatro la sua voce arrivava fortissima. E Muti, che pure è tipo molto severo in queste circostanze, smise di suonare e ci fece rimanere per cinque minuti in religioso silenzio. Era il suo e il nostro modo di dare un senso forte di fratellanza e unione religiosa e culturale. Siamo qui per questo».

(Corriere Fiorentino, 31 luglio 2016)


Crescete e moltiplicatevi

Un solo paese occidentale e ricco continua a fare figli: Israele. Miracolo della democrazia in guerra

di Giulio Meotti

Sono state sfatate le cassandre del "campo della pace" che prevedevano il sorpasso palestinese grazie alla demo- grafia Dall'Europa all'America, in occidente è in corso un drammatico declino demografico. Resiste solo il Davide israeliano E' una questione religiosa: in America gli ebrei stanno scomparendo per assimilazione, matrimoni misti e poche nascite In Unione sovietica gli ebrei avevano smesso di fare figli. Una volta arrivati in Israele sono tornati a crescere

Israele può vantare molti record. In trent'anni, il suo prodotto interno lordo è aumentato del 900 per cento; la pressione fiscale è scesa dal 45 al 32 per cento; gli aiuti americani erano il dieci per cento del pil, mentre oggi solo l'un per cento; le esportazioni sono aumentate dell'860 per cento; trent'anni fa Israele non aveva fonti indipendenti di energia, mentre oggi il 38 per cento proviene dalle proprie risorse; e se non c'era acqua desalinizzata trent'anni fa, oggi oltre il 40 per cento dell'acqua consumata proviene da impianti di desalinizzazione.
   Un recente studio condotto dall'Economist ha cercato di indovinare dove sarebbe meglio vivere nel 2030. Israele è al ventesimo posto, prima di Regno Unito, Francia, Italia, e Giappone. I tassi di mortalità in Israele sono i secondi più bassi dell'Ocse. E per il Wall Street Journal, Israele è il secondo paese più colto del mondo, dietro il Canada e prima del Giappone. Da anni, gli israeliani sono più felici di quanto non siano la maggior parte delle persone nel mondo occidentale.
   Per la maggior parte degli indicatori sulla qualità della vita, Israele è conforme ai paesi sviluppati: la maternità infantile è bassa e l'aspettativa di vita di 82 anni è la più alta in Asia occidentale. Con gli indicatori di salute tra i primi dieci paesi al mondo, la popolazione presenta alti livelli di istruzione e di reddito in crescente aumento. Ma c'è un record che rende unico questo paese, ed è perfino surreale per lo stato ebraico, uno stato-guarnigione che finisce sui nostri notiziari della sera soltanto per i morti del terrorismo e per le guerre terribili, le maschere antigas, i bunker a prova di missile, gli accoltellamenti, i kamikaze. Quel record è il tasso di fertilità.
 
   Il "campo della pace" in Israele e i suoi sostenitori internazionali hanno utilizzato a lungo questo argomento grezzo ma potente: gli arabi fanno più figli degli ebrei e se non si crea uno stato palestinese indipendente, una bomba a orologeria demografica trasformerà Israele in un apartheid sullo stile dei sudafricani bianchi. Tale prospettiva certamente sembrava reale quando il processo di pace di Oslo ha avuto inizio nel 1990. La fertilità tra gli ebrei israeliani si attestava a una media di 2,6 figli per donna, rispetto a 4,7 tra i musulmani in Israele e a Gerusalemme Est e sei tra i palestinesi a Gaza e Cisgiordania. Yasser Arafat dichiarava orgoglioso che il ventre della donna palestinese è l'arma più potente del suo popolo. La paura demografica ha motivato l'allora primo ministro Ehud Olmert a offrire ai palestinesi metà di Gerusalemme e la quasi totalità della Cisgiordania in cambio di un accordo di pace (fallito) nel 2007. Tutte le concessioni israeliane sono state motivate dalla paura della fecondità araba.
   Eppure, come racconta ora il Wall Street Journal, "negli ultimi dieci anni si è verificata una rivoluzione demografica con conseguenze politiche di lunga durata". In meno di vent'anni, il numero annuo di nascite fra gli ebrei israeliani è salito del 65 per cento, passando dalle 80.400 nascite del 1995 alle 132 mila del 2013. Il tasso di natalità degli ebrei in Israele ha avuto un incredibile balzo in avanti, mentre il tasso di natalità fra gli arabi è molto diminuito. Il tasso di fertilità ebraica in Israele è stato di 3,11 figli per donna nel 2014, l'ultimo anno completo per cui sono disponibili i dati, mentre tra i cittadini arabi di Israele e di Gerusalemme est era solo una tacca più alta a 3,17, secondo le statistiche ufficiali di Israele. I tassi di fertilità palestinesi sono scesi a 3, 7 in Cisgiordania da 5,6 nel 1997 e a 4,5 da 6 nella Striscia di Gaza. La scolarizzazione, la pianificazione familiare e l'occidentalizzazione hanno fatto scendere il tasso demografico degli arabi, mentre lo stesso è cresciuto per gli ebrei israeliani.
   Nei quindici anni dal 1994 al 2009, il numero delle nascite arabe in Israele è rimasto stabile intorno a 39 mila, mentre le nascite di ebrei sono passate da 80 a 120 mila. L'Europa meridionale, dalla Spagna all'Italia, è votata al suicidio demografico con tassi di 1,4 figli per donna. Stesso scenario per l'Europa dell'est, che sta vivendo l'unica perdita di popolazione dalla fine della Seconda guerra mondiale. La Germania è scossa da una guerra silenziosa, una vera e propria "carestia delle nascite". Vanno un po' meglio, con tassi di fertilità attorno a 1,8, Francia e Inghilterra, grazie soltanto al contributo delle comunità islamiche. Vanno male gli Stati Uniti, dove escono libri come "What to Expect When No One's Expecting?" di Johnatan Last, in cui sono spiegate cause e conseguenze dal calo della fertilità americana, un tasso che è attorno all'l,9 soltanto perché i figli della crescente comunità ispanica alzano la media.
   Poi c'è Israele, questo piccolo paese, enclave occidentale conficcata nel cuore del mondo islamico, che è da anni e di gran lunga il paese più demograficamente prolifico tra le economie avanzate del mondo. Gli ebrei israeliani hanno oggi più figli, in media, persino dei prolifici egiziani o libanesi. "Questa è l'unicità di Israele, che non troverete in nessun'altra società in tutto il mondo", ha detto Arnon Soffer, professore presso l'Università di Haifa e uno dei maggiori demografi del paese. Sorprendentemente, questo baby boom sta avendo luogo soprattutto tra gli ebrei laici o moderatamente religiosi.
   Negli ultimi dieci anni, i tassi di fecondità sono diminuiti nella comunità ultraortodossa. A differenza di venti anni fa, quando gli ebrei laici nell'area metropolitana di Tel Aviv potevano avere uno o al massimo due bambini, oggi il loro numero è cresciuto fino a tre o quattro.
   Se i tassi demografici rimarranno inalterati, Israele avrà una popolazione più grande della Polonia nel 2085. Ancora più notevole è che Israele avrà in assoluto più giovani rispetto all'Italia o alla Spagna e un numero pari a quelli della Germania alla fine del secolo, se il tasso di incremento della fertilità rimarrà invariato. Un secolo e mezzo dopo l'Olocausto, cioè, lo stato ebraico avrà più uomini in età di vestire una divisa, e sarà in grado di mettere in campo un esercito di terra più grande di quello della Germania. Il 28 per cento degli israeliani ha meno di 15 anni, e il 10 per cento ne ha più di 65, a fronte di proporzioni europee del 16 per cento per entrambi.
   "La parola 'miracolo' in ebraico non possiede alcuna connotazione di soprannaturale" ha scritto il famoso rabbino J. B. Soloveitchik. "Miracolo descrive solo un evento straordinario che provoca stupore". Definizione che andrebbe usata per spiegare questa unicità di Israele, l'unico paese industrializzato, moderno e occidentale che ha tassi demografici che l'Europa non conosce più da mezzo secolo. Solo gli Stati Uniti, ma di gran lunga sotto, sono tra le nazioni industriali del mondo con un tasso di fertilità intorno al livello di sostituzione di due; Europa e Asia orientale sono diretti verso un apocalittico calo della popolazione con un tasso di fertilità di appena 1,5 figli per donna.
   Le donne israeliane, al contrario, hanno tre figli in media; le donne ebree non ortodosse hanno una media di 2,6 figli. Che la fertilità eccezionale di Israele nasca dalla religione, piuttosto che dall'etnicità, è facilmente spiegato dall'enorme contrasto tra tassi di natalità ebrei ortodossi e laici negli Stati Uniti. Da nessuna parte il divario di fertilità tra religiosi e non religiosi è più estremo che tra gli ebrei americani. Come gruppo, gli ebrei americani mostrano la fertilità più bassa di qualsiasi gruppo etnico del paese. Alan Dershowitz, il giurista ebreo di Harvard, ha non a caso intitolato un suo libro "The Vanishing American Jew". L'ebreo americano in via di estinzione.
   Due terzi degli ebrei americani non appartiene a una sinagoga, un quarto non crede in Dio e un terzo ha un albero di Natale in casa durante le feste. Anche l'ex rabbino capo del Regno Unito, Jonathan Sacks, ci ha scritto un libro, dal titolo emblematico: "Avremo ancora nipotini ebrei?". Gli ebrei potrebbero sparire, assimilati dai non ebrei. La domanda posta da Sacks è terrificante:
   "Riuscirà l'assimilazione a ottenere ciò che a Hitler non riuscì?". Invece della Shoah, la dissoluzione. Anche il premio Pulitzer Charles Krauthammer, l'editorialista ebreo più rispettato e influente d'America, ha commentato i dati. "Come fa una comunità a decimarsi nelle condizioni benigne degli Stati Uniti? Facile: bassa fertilità e matrimoni misti. In tre generazioni, la popolazione sarà dimezzata. Negli Stati Uniti oggi gli ebrei si sposano più con i cristiani che con altri ebrei".
   Qualcosa di simile era successo in Unione sovietica, dove gli ebrei, aggrediti da decenni di ateismo di stato comunista, avevano un tasso di fertilità di appena 0,8 figli per donna. Sarebbero scomparsi nel giro di poche generazioni. Oggi l'aumento della fertilità per gli ebrei di Israele si deve non soltanto agli "yuppie di Tel Aviv", ma anche proprio agli immigrati dall'ex Unione sovietica. In Russia gli ebrei avevano uno dei tassi di natalità più bassi al mondo, ma quando gli ex ebrei sovietici sono arrivati in Israele, i loro figli hanno subito assunto le abitudini demografiche israeliane. Rispetto a Israele, crollano anche le nascite nel suo arcinemico: la Repubblica islamica dell'Iran. I dati di 49 paesi a maggioranza musulmana ci dicono che dagli anni Ottanta ai primi dieci anni del Duemila, la natalità è calata del 41 per cento. L'Iran è sceso del 70 per cento, uno dei declini più rapidi che si sia mai visto nella storia. Mai le donne iraniane avevano partorito due figli per coppia, la media era sempre stata di cinque. Alla fine del secolo, la popolazione iraniana sarà diminuita del cinquanta per cento.
   A fronte della passione israeliana per i bambini, legata al trauma della Shoah, al permanente stato di guerra, alla tradizione religiosa di un piccolo popolo da sempre sotto assedio e che vuole diventare più numeroso, più forte. Un popolo, gli israeliani, che sembra amare la vita e odiare la morte più di qualsiasi altro al mondo. Compresi non soltanto i mortiferi vicini di casa, ma anche i libertini occidentali.

(Il Foglio, 30 luglio 2016)


Il bimbo palestinese costretto dal papà a provocare i soldati. Ma…

Questa volta la propaganda di "Pallywood" non è riuscita.
La combinazione telecamera+bambino in avanscoperta, tanto cara ai palestinesi, si è rivelata un boomerang.
Come si può vedere dal video, il tentativo consisteva nell'usare un bambino come scudo, sperando di provocare una reazione sbagliata da parte delle guardie di frontiera israeliane in modo da diffondere l'ennesimo video propagandistico.
Alle spalle del bambino ci sono uomini adulti, tra cui presumibilmente il padre che lo fomenta. Potrebbero essere loro ad affrontare gli uomini in divisa. Invece no, viene mandato avanti il bambino, istruito e redarguito, a scopo propagandistico. Un bambino che, quindi, è costretto a rischiare sulla sua pelle.
Qualcosa va storto. Mentre alcuni membri delle Ong "pacifiste" urlano ai megafoni, quello che appare come il padre del piccolo spinge il figlio verso i militari, urlando "Sparategli". Alto concetto del valore della vita del proprio figlio.
Il bambino però non risponde alle speranze dell'affettuoso papà, si avvicina al soldato e ricambia il "cinque" che quest'ultimo gli offre.
A quel punto scatta il piano b: il padre ordina al piccolo di lanciare sassi, il bimbo senza capire è costretto ad eseguire l'ordine impartito, liberando peraltro la strada dagli ostacoli.
Un video che dice tutto: la propaganda palestinese, lo scarso rispetto per la vita persino dei bambini, la vigliaccheria, le telecamere nascoste a riprendere scene studiate a tavolino (provocazioni nei confronti dei soldati, bambini usati come scudi).

(Sostenitori.info, 30 luglio 2016)


"Gli ebrei immigrati dall'Etiopia sono discriminati in Israele"

Gli ebrei immigrati dall'Etiopia (Falasha) sono vittime di discriminazioni in Israele sia da parte delle istituzioni statali e religiose sia da parte di privati.
Lo riconosce per la prima volta in forma ufficiale - secondo quanto anticipa Yediot Ahronot - la 'Commissione interministeriale per la lotta al razzismo verso gli ebrei originari dell'Etiopia' in un rapporto che include anche decine di proposte concrete per contrastare il fenomeno.
Il rapporto, che sarà pubblicato la settimana prossima, menziona la distruzione sistematica di donazioni di sangue da parte di Falasha; la loro separazione nei reparti di maternità negli ospedali; l'istituzione di classi separate per i loro allievi; ed episodi di brutalità poliziesca spesso arbitraria. Tra le proposte la necessità di lottare negli uffici pubblici contro le 'molestie di carattere razzista' con la stessa determinazione con cui si lotta contro le molestie sessuali.
I Falasha sono circa 140 mila su 8 milioni di israeliani. Sono immigrati in massa in Israele con due grandi 'ponti aerei', nel 1984 e nel 1991.

(Corriere del Ticino, 29 luglio 2016)


Gli ebrei di Anticoli, concerto di musica klezmer

 
Domenica 31 luglio alle ore 21 alla Portella, nel quartiere ebraico di Anticoli (Fiuggi), di scena il quintetto Klezmer (Massimo De Santis, voce ecitante, Gaetano Bongarzone clarinetto, Attilio Gualtieri chitarra, Giuseppe Gualtieri fisarmonica, Alessandro Sansalone pianoforte e Francesco Leone contrabbasso) in un concerto su improvvisazioni di temi di compositori anonimi ebrei. Il titolo della serata, offerta dal Festival delle Città Medievali, e promossa dalla Fondazione Levi-Pelloni è "Gli ebrei, Anticoli, la solidarietà tra i popoli", ed è presentata da Pino Pelloni.
Una occasione per i cittadini e il pubblico termale di conoscere la storia degli ebrei di Anticoli e di visitare l'antico Ghetto con la famosa Menorah di via del Macello (XV secolo) in attesa del Giornata Europea della Cultura Ebraica del prossimo 18 settembre.
La parola klezmer viene dalla fusione di due parole ebraiche, kley e zemer, letteralmente strumento musicale. E' la musica popolare ebraica strumentale dell'est Europa. Una tradizione ricchissima che ha avuto origine circa quattrocento anni fa in particolare in Polonia, Russia, Ucraina, Romania. E' una musica che ha assorbito e rielaborato il folclore musicale dei numerosi paesi est europei e balcanici in cui si sono sviluppate comunità ebraiche.
Il klezmer si genera all'interno delle comunità ebraiche dell'Europa orientale, in particolare delle comunità khassidiche, ed è patrimonio e prerogativa di musicisti che per scelta o costrizione sono in continuo movimento: vi ritroviamo infatti elementi tedeschi, magiari, boemi, bulgari, transilvani, turchi, greci, ucraini, oltre agli influssi della musica tzigana.
I klezmorim erano musicisti itineranti, e portavano la musica secolare (vocale e strumentale) nei matrimoni e nelle feste. Lo strumento emblematico del mondo ebraico degli zhtetl e dei ghetti è sicuramente il violino, ma nel klezmer acquisterà crescente rilievo il clarinetto apportando un contributo centrale che marcherà il carattere delle sonorità più tipiche. Ma svolgeranno un ruolo importante anche gli ottoni, in particolare la tromba, gli strumenti percussivi, melodico percussivi come il cymbalon e altri strumenti come il cello, usato in funzione di bassetto portatile. Legato al destino della sua gente, il klezmer ha subito ogni sorta di vessazione. Ha subito proibizioni, revoche delle proibizioni, revoche delle revoche. È stato in balia del ridicolo furore di poteri locali laici e religiosi che ne chiedevano il contingentamento, così che era lecito esibirsi in un trio ma non in un quartetto e altre bizzarie del genere. Il klezmer, secolarizzandosi e laicizzandosi, è in qualche misura "decaduto", ma nel suo profondo mantiene i suoi geni di musica "povera" proveniente da una cultura a lungo vessata e disprezzata.

(Com. Unica, 29 luglio 2016)


Alta tecnologia in Israele: l'identificazione facciale delle persone dalle foto

di Maria Grazia Roversi

 
Israele è da sempre molto avanzato dal punto di vista della tecnologia; Faception è quella tecnologia che permette di risalire alla identificazione di una persona a partire da una foto. Faception permette di "profilare" la personalità di un soggetto partendo da un sistema di riconoscimento facciale sviluppato da Israele; una tecnica pionieristica.
La tecnologia Faception funziona in questo modo: basta caricare dal Pc la foto di una persona, che viene poi analizzata da algoritmi messi a punto dalla Computer Visione e Machine Learning. Un grande database di informazioni permette alla macchina di rilevare i tratti della personalità che emergono dalla foto. Ad esempio la macchina ha permesso finora di ricostruire ben quindici profili di identità fra cui quello del genio, del professore universitario, del promoter, del giocatore di bingo.
La personalità si trasmette sul viso? Evidentemente sì, per mezzo di segni che Faception riesce a cogliere e che quindi accosta a determinare tipologie di persone. Il tasso di precisione con cui Faception ha individuato dei giocatori di poker partendo solo dai tratti somatici è del 93%, almeno 25 giocatori su 27.
La tecnologia israeliana potrebbe aiutare nel settore della sicurezza, ma anche nel settore della comunicazione, del marketing, e servizi finanziari. "Il sistema fornisce un'accuratezza senza precedenti " hanno sostenuto i responsabili.

(Wegeek.net, 29 luglio 2016)


Netanyahu: la pace Israele-Egitto è 'ancora di stabilità' per il Medio Oriente

Salutiamo gli sforzi di pace del presidente al-Sisi

GERUSALEMME - Quarant'anni dopo la sua firma ''il trattato di pace fra Israele e Egitto rappresenta un'ancora di stabilità per il Medio Oriente'': la ha affermato il premier israeliano Benyamin Netanyahu partecipando ieri ad un ricevimento offerto dall'ambasciatore dell'Egitto Hazem Kahirat in occasione della Festa nazionale del suo Paese. ''Salutiamo gli sforzi del presidente al-Sisi per far avanzare la pace e per includere altri Stati arabi nel tentativo di raggiungere una pace allargata a tutti i popoli del Medio Oriente''
Netanyahu ha anche rilevato che millenni fa il popolo egiziano e quello ebraico diedero entrambi contributi molto rilevanti alla cultura mondiale, una cultura che - ha osservato - gruppi terroristici cercano oggi di distruggere. ''Dobbiamo lavorare assieme contro il terrorismo e lavorare assieme per la pace'', ha concluso il premier.

(ANSAmed, 29 luglio 2016)

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Israele e i sui rapporti con l'Egitto

GERUSALEMME - Tra gli argomenti che potrebbero spingere il governo del Cairo ad avvicinarsi a Gerusalemme vi sono le preoccupazioni relative alla costruzione della Diga della rinascita che l'Etiopia sta costruendo un affluente del Nilo. Un secondo aspetto che mette in evidenza l'analisi del quotidiano israeliano è l'interesse del Cairo nei confronti del recente accordo per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Israele, soprattutto per quanto la clausola che permette che Ankara diventi un importante fornitore di beni di consumo e materiali da costruzione a Gaza.

(Agenzia Nova, 30 luglio 2016)


Da Qatar, Turchia e Arabia Saudita un flusso di denaro per l'Islam italiano

La Charity dell'emirato investe in grandi progetti ma anche in centri culturali minori

di Alessandra Coppola e Giuseppe Alberto Falci

In Italia come in Francia, senza finanziamenti dall'estero - leggi: dai Paesi del Golfo - non si costruiscono moschee. O quanto meno non si avviano progetti ambiziosi. Perché le bonifiche, le ristrutturazioni, i cantieri richiedono fondi ingenti e le donazioni dei fedeli al venerdì in genere non bastano a coprire le spese.
La prima grande moschea in Italia, disegnata nel 1984 e inaugurata a Roma nel '95, fu edificata grazie all'investimento economico della famiglia reale saudita, e ancora oggi si regge sul contributo di Riad. Da allora, per le complicazioni burocratiche e, a monte, per la mancanza di un «concordato» con l'Islam italiano, le moschee ufficiali sono soltanto sette, compresa quella di Segrate, alle porte di Milano, che nasce in realtà come cappella adiacente al cimitero. Una cifra irrisoria a fronte di una comunità di fedeli arrivati ormai a un milione e settecentomila (fonte Ismu). Al tempo stesso, per rispondere alle richieste dei praticanti musulmani, il territorio è disseminato di «centri di cultura» facenti funzione di luogo di culto. Alcuni ampi e accoglienti, moltissimi «di risulta», negli scantinati, nei magazzini e nei garage. Se ne stimano - ma è impossibile una mappa precisa - circa 8oo.
Ufficiali o ufficiose, da dove arrivano i soldi? Protagonista assoluta dei più recenti investimenti in moschee in Italia (ma anche altrove in Europa) è la Qatar Charity. Formalmente un'organizzazione non governativa, di fatto chiara emanazione dell'emirato. Secondo alcune stime, si parlerebbe di cifre attorno ai 6 milioni di euro l'anno. Grazie al contributo dell'ente, sono state costruite le moschee di Ravenna e di Colle Val d'Elsa, nel Senese. E nel sostegno della Charity speravano anche i musulmani milanesi che avevano fatto progetti sull'area dell'ex Palasharp, prima del fallimento del bando comunale. Appena oltre confine, a Fiume, è stato lo stesso emiro a inaugurare, nel 2012, una grande struttura su tre piani da 7,4 milioni di euro.
Da informazioni del Corriere, però, la Qatar Charity sta acquisendo lungo la penisola diversi immobili da destinare a «moschee di fatto», per aiutare la comunità nell'attesa della costruzione di luoghi di culto ufficiali. In molti casi non si tratta di progetti completamente finanziati dall'ong dell'emirato, ma di una quota che si somma all'investimento dei fedeli. Che resta ancora la principale fonte di finanziamento.
«La nostra prospettiva è l'autosufficienza», spiega Davide Piccardo, portavoce del Cairo, il Coordinamento delle associazioni islamiche milanesi. La speranza è anche aver accesso a fondi pubblici un giorno, «alla luce del fatto che i cittadini musulmani pagano le tasse come i fedeli delle altre confessioni».
Qualcuno, anche tra i politici italiani, ha lanciato l'ipotesi di coinvolgere le associazioni islamiche nella distribuzione dell'8 per mille (ma resta, a monte, l'impossibilità di avere un rappresentante unico dei musulmani che sigli un'intesa con lo Stato).
Oltre che da Qatar e Arabia Saudita, i contributi all'Islam italiano arrivano da Paesi dell'area come il Kuwait. E anche dalla Turchia, che ha una tradizione di investimenti in centri islamici tra le comunità emigrate all'estero. Con il marchio del governo Erdogan ma anche con il sostegno del «rivale» Fethullah Gillen.
In totale si parla di decine di milioni di euro. Che, però, sono tracciabili: a preoccupare non sono i grandi flussi di denaro provenienti dalle megafondazioni del Golfo, spiega al Corriere il vicepresidente del Copasir, Giuseppe Esposito. L'attenzione «oggi è concentrata sui piccoli finanziatori dietro cui si possono nascondere cellule terroristiche e soprattutto sul denaro in uscita dal nostro Paese: ogni settimana ci sono decine di milioni di operazioni in uscita». Quello che è importante intercettare, allora, è un altro flusso. Ragion per cui dal primo agosto la Guardia di Finanza renderà operativa una nuova divisione del secondo reparto che si chiamerà: «Gruppo di investigazione finanziamento al terrorismo». Meno visibile e più pericoloso.

(Corriere della Sera, 30 luglio 2016)


Il doppio standard di Mosca con Israele

Giancarlo Elia Valori, Honorable de l'Académie des Sciences de l'Institut de France, fa l'analisi della situazione in Medio Oriente.

di Giancarlo Elia Valori

Dal 25 luglio scorso, l'Esercito Arabo Siriano di Bashar el Assad ha martellato con la sua artiglieria, spesso sostenuta logisticamente dai russi, il fronte israeliano della alture del Golan.
   L'obiettivo è, evidentemente, quello di provocare una risposta dello Stato Ebraico e di far entrare direttamente in guerra, quindi, proprio Gerusalemme nel quadrante siriano.
   Un suicidio inutile per Israele, un ritorno delle vecchie e ormai inutili linee della guerra fredda nel Medio Oriente. Ciò significherebbe peraltro l'inizio di una pressione sul fronte sud, verso il Golan appunto, da parte sia di Hezbollah, ormai ritiratosi verso il confine tra Libano, Siria e Israele, che delle FF.AA. iraniane e dei loro "volontari". La direzione, per tutti, sarebbe quella verso il confine Nord israeliano, mentre la Russia sosterrebbe, con ogni evidenza, questa operazione unificata contro Gerusalemme.
   Per Mosca, la guerra in Siria è stata il grande catalizzatore di una sua nuova alleanza egemonica in Medio Oriente, non una posizione nuova nei confronti dello Stato Ebraico, visto ancora come "dente" degli USA in quel quadrante.
   Certamente, il centro del problema, per tutti, è la dichiarazione di Netanyahu che le alture del Golan saranno comunque escluse da ogni futura trattativa sulla Siria. Ma la Russia vuole rimanere, sulla questione delle Alture, ancora il punto di riferimento di Egitto, Iran e di tanti altri "non allineati" che temono un legame troppo forte tra la Russia e Israele.
   Mosca giocherà a favore di Israele solo fino al punto di non creare nuove tensioni con il suo "fronte dei non allineati". Ma cosa vogliono davvero le grandi potenze globali e quelle regionali dopo la cessazione delle ostilità in Siria?
   Gli Usa desiderano, soprattutto, la definizione di un "corridoio curdo" da Iskanderun ad Orumyel e, a sud, da Mosul fin quasi ai confini della Georgia. Sarebbe un'area dove stazionerebbero permanentemente le forze Nato. Con o senza partecipazione turca.
   L'area intorno a Israele, fino a Nord verso, e oltre, le Alture del Golan, compresa una parte del territorio della provincia di Damasco, sarebbe poi la zona controllata indirettamente o meno dallo Stato Ebraico, dagli USA e, ancora, dalla Nato.
   La Turchia, anche dopo il controgolpe di Erdogan, non può non accettare il "corridoio curdo" ma non a spese del confine sud di Ankara. Senza questa accettazione, Ankara rimane senza il sostegno Usa, l'unico disponibile in Occidente e l'unico a garantire l'estraneità della Turchia all'egemonia russa nell'area. Senza poi dimenticare il sostegno turco a Jabhat al Nusra, la frazione siriana di Al qaeda recentemente separatasi dalla "casa madre" nell'area di Aleppo, all'Isis e al jihad turkmeno.
   È lo strumento per fare una guerra non dichiarata ai russi e ai siriani, che Ankara rimetterebbe subito in piedi se il "corridoio curdo" non venisse controllato dalle forze NATO.
   Niente vieta che, però, in seguito alla frammentazione della Siria in zone di influenza, l'Alleanza Atlantica non si decida a frazionare la stessa Turchia nella sua componente anatolica e in quella costiera. Ci sono piani a Mons che riguardano questa ipotesi, che non deve essere affatto scartata.
   Peraltro, molti analisti segnalano il forte favore con il quale, nel "nuovo" esercito turco uscito dalla purghe del golpe, i soldati vedono i jihadisti. Se la strategia israeliana attuale riesce, Gerusalemme potrebbe difendere ai lati le alture del Golan, deviare verso la valle della Bekaa i jihadisti sunniti diretti contro Hezbollah, infine controllare meglio la dislocazione delle forze di Bashar el Assad verso il confine siriano con Israele.
   Teheran, peraltro, ha come obiettivo primario nell'area quello di mantenere integro al massimo lo stato alawita siriano degli Assad, antemurale necessario contro la Turchia sunnita e inevitabile protezione nei confronti di una penetrazione da parte del jihad sunnita dei suoi confini occidentali. La Russia, poi, cosa può volere dopo la fine delle operazioni in Siria?
   Vediamo allora le opportunità strategiche di Mosca.
   O al Cremlino vogliono una Siria piccola, che difenda soprattutto i porti russi sul Mediterraneo, oppure la Russia desidera una Siria un po' più grande, con Damasco, Homs, Aleppo e Hama, tanto grande da fare da antemurale alla Turchia, coprire l'Iran ma insufficiente a difendersi da sola.
   Oppure, Mosca potrebbe anche desiderare il ritorno della Grande Siria del pre-2011, ma questo implicherebbe uno sforzo militare e strategico russo elevatissimo e, probabilmente, non corrispondente al proprio obiettivo strategico primario.
   Che è quello di isolare la Nato nel Mediterraneo e impedire all'Alleanza una presenza di terra significativa. Si può perfino pensare che Mosca accetti la "linea" approvata alla Conferenza "Ginevra Tre", con una Grande Siria ma priva di Bashar el Assad, ma sempre con una forte presenza alawita a garanzia degli interessi mediterranei russi.
   Per ora, comunque, il pericolo vero, per Israele, non viene dall'Isis-Daesh, che non ha punti di contatto con lo Stato Ebraico, ma da Hezbollah, che può già diventare una minaccia seria sulle Alture del Golan ed è, peraltro, un asset terrestre irrinunciabile per i russi, che operano in gran parte solo dal cielo e battono in particolare le postazioni dei "ribelli" anti-Assad.
   Se la Siria permane forte e negli stessi confini attuali, essa diventerà il dente strategico dell'Iran contro l'Arabia Saudita e lo Stato di Israele, e Mosca potrà fare ben poco per fermare questa nuova configurazione geopolitica.
   Gli interessi che legano la Russia a Teheran sono ben più forti e stabili di quelli che hanno finora legato Mosca a Gerusalemme. Per la Russia, l'Iran è la necessaria linea di continuità verso tutta l'Asia centrale, il punto di collaborazione energetica con la Cina, l'antemurale strategico contro le insorgenze a sud e a est nel Grande Medio Oriente.
   Per Mosca, Israele è invece un partner economico, un elemento di stabilità nell'area, un futuro produttore di gas naturale ma, anche, un limite al progetto russo di riunificazione di tutte le istante antijihadiste contrarie all'egemonia saudita, letta come il punto di forza della presenza USA in quel quadrante. Mosca vuole un Mediterraneo orientale libero appunto dalla presenza della NATO, da Nord a Sud, e non legge ancora Israele come un attore strategico del tutto autonomo rispetto a Washington. Mosca vuole "vedere", per usare il gergo del poker, la distanza effettiva tra Gerusalemme e Washington.
   Quindi, per Israele si aprono ora due possibilità geopolitiche: o una alleanza tacita con l'Arabia Saudita e la Turchia, sotto l'egida degli USA, con ciò chiudendo la finestra di opportunità per una collaborazione strategica con Mosca. Oppure si tratta di accordarsi con la Russia per una Siria senza Bashar e più piccola, garantendo gli interessi strategici di Mosca sul Mediterraneo e verso la Turchia.
   Tutto passa però, oggi, da Aleppo, in gran parte riconquistata da Assad e dalle forze russe. Se la città viene ripresa stabilmente dalla coalizione iraniano-russo-siriana, la Turchia, pur riavvicinatasi a Mosca recentemente, non avrà più possibilità logistica e strategica per sostenere le forze anti-Assad, che passa appunto da Aleppo; e perderà anche il suo leverage a sud, verso il "corridoio curdo".
   La Turchia, peraltro, ha già inviato truppe in Iraq, richiedendo parte del territorio di quello stato ormai fallito, mentre Ankara non può permettersi, oggi, uno scontro con l'Iran per la Siria né, tantomeno, una forte tensione con la Russia, che fornisce alla Turchia il 55% del suo consumo di gas, ancora sotto embargo. Se quindi Ankara potrà accordarsi con Mosca e anche con Israele per una sua presenza anti-Assad in Siria, senza il timore di una guerra conclamata tra la Russia e la NATO, allora la Nuova Siria potrebbe restringersi ad una striscia di terreno tra Turchia e Iran, garantita da Mosca e fortemente condizionata da Israele sul suo fronte sud.
   E Israele, cosa che Mosca non vuole, potrebbe ampliare la sua zona di sicurezza nel Golan, creando quindi reazioni siriane verso la Russia e innescando l'arrivo in forze di materiale bellico per una operazione da Nord contro Israele. Il Golan è il simbolo dei "non allineati", Mosca non può dimenticarlo troppo facilmente. Tutto il sistema siriano è allora una equazione con troppe incognite da risolvere, che Gerusalemme fa molto bene a congelare, in vista della soluzione della tensione curda e siriana.

(BergamoNews, 30 luglio 2016)


L'Università di Tel Aviv e la missione Juno

 
La Prof.ssa Ravit Helled del Dipartimento di Geoscienze presso l'Università di Tel Aviv ha svolto un ruolo importante nel progetto internazionale della NASA che ha avuto il suo culmine in orbita il 4 luglio con il lancio della sonda Juno su Giove, il pianeta più grande del nostro sistema solare, che andrà a rivoluzionare la comprensione della formazione dell'universo.
Dopo un viaggio di 5 anni nello spazio su una distanza di 2,7 miliardi di chilometri, il satellite Juno è recentemente entrato nell'orbita attorno a Giove.
Queste le parole della Prof.ssa Helled:
È davvero emozionante ed eccitante! È bello vedere che il pubblico sia interessato, ci auguriamo che possa incoraggiare i giovani a diventare scienziati.
Juno farà il giro attorno a Giove 37 volte in 20 mesi. La ricerca della Prof.ssa Helled si concentrerà sulla struttura interna di Giove e sulla sua formazione interna.
Giove è un pianeta misterioso. È enorme, non ha alcuna superficie solida, è attraversato da forti venti e campi magnetici e non sappiamo esattamente di cosa sia fatto.
Il pianeta è stato precedentemente sorvolato da altri veicoli spaziali, ma nessuno di essi era dotato di strumenti altamente tecnologici che invece sono a bordo di Juno e che permetteranno di offrire una panoramica sulle sue origini, sulla sua atmosfera e magnetosfera.
La JunoCam può fare degli interessanti zoom sul pianeta Giove e, secondo la NASA, svelerà i segreti del pianeta gigante: ha un nucleo solido? Che cosa c'è sotto le sue dense nuvole? Quanta acqua c'è nell'atmosfera? Quale è la profondità della sua gigante macchia rossa?
La Prof.ssa Helled spiega che Juno è stato appena messo in orbita, per cui ci varranno alcune settimane per ottenere i primi risultati.
Non vedo l'ora di ricevere informazioni sul suo campo gravitazionale, che potranno essere utilizzate per descrivere la sua composizione; Voglio sapere se Giove ha un nucleo e capire meglio la formazione dei pianeti giganti.
Giove, il primo pianeta a essersi formato nel nostro sistema solare, possiede indizi essenziali sul modo in cui si è creato e formato. La missione Juno aiuterà gli scienziati a capire i sistemi planetari nelle altre parti dell'universo.
Anche se Juno è una missione della NASA, essa è composta da scienziati provenienti da tutto il mondo ed è stato incredibile prenderne parte.
La missione Juno si concluderà il 20 febbraio 2018 ed il satellite dovrebbe schiantarsi su Giove.

(SiliconWadi, 29 luglio 2016)


Napoli - Quelle antiche testimonianze finalmente in mostra

di Claudia Campagnano

 
NAPOLI - Accantonati per lungo tempo nei depositi del Museo Archeologico più importante d'Italia, trovano finalmente collocazione permanente alcune delle più interessanti e antiche testimonianze del giudaismo in Campania. La nuova sala "Dall'Oriente" è solo una piccola ma significativa parte del progetto "Egitto Pompei", nato dalla collaborazione tra il Museo Egizio di Torino, la Soprintendenza di Pompei e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che culminerà 1'8 ottobre con la riapertura in un nuovo allestimento della Collezione Egizia e della Sezione Epigrafica del Museo napoletano. La nuova sala, il cui allestimento è stato curato da Valeria Sampaolo con la consulenza di Giancarlo Lacerenza per i materiali giudaici e aramaico-nabatei, si propone di presentare accanto alle straordinarie testimonianze del culto isiaco in Campania, documenti inediti o poco noti sulle altre religioni e presenze orientali con cui il mondo romano venne a contatto.
   Nella nuova esposizione, le testimonianze giudaiche, mai esposte al pubblico in precedenza, consistono di una decina di epigrafi e due lucerne.
   Il più antico dei testi esposti è il graffito latino Sodom(a) Gomor(ra), rinvenuto a Pompei agli inizi del '900: staccato e a lungo conservato nei depositi del Museo, il graffito, oggi appena leggibile, suggerisce che qualcuno, rammentando il destino delle due città sul Mar Morto, passando da Pompei dopo l'eruzione, forse in uno dei numerosi tentativi di recuperare oggetti dalle case distrutte, abbia citato il passo biblico fornendo allo stesso tempo un giudizio sull'accaduto. Forse un ebreo, in ogni caso qualcuno che doveva conoscere la storia delle due città annientate dalla furia divina a causa dei loro peccati. Oltre a questo graffito sono esposte, anche queste per la prima volta, alcune iscrizioni giudaiche, da Napoli e da Roma, scelte fra quelle ancora custodite nei depositi. Le epigrafi di Napoli, ritrovate in un sepolcreto lontano dal centro cittadino, nella zona dell'Arenaccia, confermano la testimonianza di Procopio di Cesarea che in epoca bizantina (Procopio si riferisce all'anno 536 e.v.) la presenza giudaica fosse già da tempo affermata e integrata nella società locale. Le epigrafi sono in latino e presentano una struttura simile agli epitaffi cristiani, ma i simboli delle menorot, degli ethroghim, dei lulavim, nonché i nomi in caratteri ebraici e alcune scritte in ebraico quali shalom e amen, ne indicano inequivocabilmente l'appartenenza giudaica. In alcuni testi, come l'epitaffio di Numerius o di Criscentia, la parola "ebreo/ebrea" è esplicita e si distingue da quella "giudeo" più spesso utilizzata. Una sola iscrizione in greco, senza alcuna simbologia, ricorda Beniamino da Cesarea, una personalità di riguardo e proveniente dalla Giudea. In un'altra epigrafe si accenna a un cittadino della Mauritania, in Nordafrica. Esposta anche quella che sembra essere la più antica attestazione in Occidente (IV o V secolo e.v. circa) della parola "rabbi": si tratta di un'epigrafe rinvenuta a Brusciano, nel nolano, in cui si fa riferimento all"'onorato Rebbi Abba Mari". L'epigrafe è corredata da un lulav e uno shofar stilizzati.
   Altre due epigrafi esposte invece non sono campane, ma provengono dalle Catacombe di Monteverde a Roma. Esse entrarono a far parte della collezione del cardinale Stefano Borgia e passarono poi nella collezione partenopea. Sono un po' precedenti a quelle campane, e molto particolari per la documentazione figurativa. La prima è caratterizzata da un Aron ha-qodesh aperto con all'interno visibili sei rotoli della Torah; la seconda, in greco, ricorda una Flavia Antonina e ha raffigurati simboli quali la menorah, il lulav, l'ethrog e lo shofar. Di provenienza incerta e datate tra il IV e il VI secolo e.v. sono due lucerne con menorah e lulavim stilizzati, anch'esse mai esposte in precedenza.
   In conclusione, il nuovo spazio "orientale" del Museo Archeologico Nazionale di Napoli offre finalmente l'occasione di vedere direttamente alcune delle più antiche testimonianze sulla diffusione dell'ebraismo a Napoli e in Campania, e chiude il cerchio espositivo della nostra storia iniziato nel 2014 con le mostre sui 150 anni della Comunità ebraica di Napoli.

(Italia Ebraica, agosto 2016)


Alla Cinemateque di Gerusalemme mostra dedicata al talento del mondo degli autistici

Una mostra d'arte che presenta dipinti di 11 giovani artisti provenienti da un villaggio per le persone con autismo (ASD) e disturbi della comunicazione, avrà luogo dal 1o al 31 agosto presso la Cinemateque di Gerusalemme ubicata in Hebron Road 11.
La cerimonia di inaugurazione della mostra avrà luogo Lunedì I agosto alle ore 8:00. La mostra sarà aperta al pubblico fino al 31 agosto 2016.
Shimon Village è una casa famiglia per 24 persone affette da autismo di età compresa tra i 20 e i 37 anni.
Il villaggio fu fondato nel 1995 da un'organizzazione non-profit ed è gestito da volontari con esperienze professionali. La casa famiglia è stata fondata e gestita per 16 anni dalla signora Shoshana Bayer e negli gli ultimi 5 anni la gestione è stata svolta dalla Ilan Blum. Il presidente, Moshe Palves, è un terapeuta clinico che lavora a stretto contatto con il villaggio.
L'idea fondamentale della convivenza in questo villaggio è quella che ogni persona ha una indole speciale, talenti unici e abilità promettenti che sono solo in attesa di essere scoperti e sviluppati nell'ambiente più consono.
Ogni residente si trova nelle condizioni migliori per sviluppare i propri talenti speciali e le proprie abilità, essendo circondato da un ambiente amorevole e sensibile, avendo sviluppato soprattutto un grande senso di appartenenza.
Ogni persona della piccola comunità lavora dalle 4 alle 6 ore al giorno producendo una grande varietà di manufatti, partendo dalla materia prima ed arrivando fino al prodotto finito, di grande valore estetico.
Alla realizzazione degli oggetti artistici partecipano laboratori di carpenteria, lavorazione della lana, e ancora laboratori di pittura, ceramica, musica.
Questa vasta gamma di attività e opportunità di apprendimento contribuiscono ad accresce le capacità intellettuali e sensuali di questi potenziali artisti esponendoli a una eccezionale varietà di stimoli.
La filosofia educativa del villaggio si riflette anche nei dintorni del villaggio stesso che appare ben curato e circondato da pittoreschi, splendidi ed ampi campi aperti (2,5 acri).
Per vivere la indimenticabile emozione di una straordinaria vacanza in Israele in occasione di questo o di altri eventi, per organizzare un viaggio attraverso eccezionali offerte visita: citiesbreak.com, go.goisrael.it

(Faro di Roma, 29 luglio 2016)

Senatori Usa premono per aggiungere 320 miliardi di dollari alla difesa missilistica Israele

GERUSALEMME - Un gruppo bipartisan di senatori statunitensi che include il candidato alla vicepresidenza di Hillary Clinton, Tim Kaine, chiede al Congresso di aggiungere 320 milioni di dollari per la difesa missilistica israeliana alla versione del disegno di legge in Senato sugli stanziamenti per la difesa. In una lettera ai presidenti delle commissioni Forze armate 36 senatori sono d'accordo ad aumentare la cooperazione con Israele. "In mezzo a crescenti minacce di razzi e missili in Medio Oriente, è prudente per gli Stati Uniti e Israele avanzare e accelerare la cooperazione bilaterale in materia di tecnologie di difesa missilistica", si legge nel testo. L'aumento proposto del National defense authorization act 2017 comprenderebbe tre programmi di difesa missilistica Stati Uniti-Israele e altri acquisti dei sistemi Iron Dome. Lo scorso 22 giugno, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha dichiarato che le trattative tra Gerusalemme e Washington sui fondi statunitensi da destinare alla difesa israeliana potrebbero concludersi a novembre. "Abbiamo bisogno di un buon accordo entro un tempo ragionevole e non vedo alcuna contraddizione tra i due (governi). Credo che possiamo raggiungere un accordo entro novembre", ha detto Lieberman in riferimento ai negoziati in corso per la stesura di un nuovo memorandum d'intesa della durata di dieci anni per i fondi statunitensi destinati al programma di difesa missilistica israeliano. "C'è un accordo sulla maggior parte delle questioni. Le controparti stanno cercando di migliorare le proprie posizioni sui negoziati", ha dichiarato il ministro Lieberman.
  Nelle settimane precedenti il consigliere per la sicurezza nazionale israeliano, il generale Yaakov Nagel, ha riferito che le divergenze tra Gerusalemme e Washington sono "ancora vaste" perché "gli Usa offrono meno di quello che vuole Israele". Nagel ha precisato che Israele ha chiesto agli Usa una cifra compresa tra i 40 e i 50 miliardi di dollari in dieci anni, mentre la controparte ne offre 34-37 miliardi di dollari. Infine, Il consigliere per la sicurezza nazionale ha sottolineato la volontà del premier Benjamin Netanyahu di concludere l'accordo entro la fine del mandato del presidente statunitense Barack Obama, ma "non a qualsiasi prezzo". Il 14 giugno la Casa Bianca ha annunciato la totale opposizione a una proposta del Congresso di aumentare di 455 milioni di dollari i fondi destinati dal bilancio di previsione della Difesa Usa per il 2017 al programma di difesa missilistica di Israele. Un comunicato pubblicato dall'Ufficio di gestione e bilancio della Casa Bianca ribadisce che l'amministrazione presidenziale è "contraria all'aggiunta di 455 milioni di dollari da destinare alle acquisizioni e ai programmi di cooperazione allo sviluppo per la difesa missilistica israeliana nel 2017". Lo scorso mese di maggio, la commissione per gli stanziamenti del Senato ha suggerito di allocare 600 milioni di dollari per l'anno fiscale 2017, che rappresenterebbe un incremento di 113 milioni rispetto ai fondi destinati lo scorso anno. Le indicazioni del Senato superano di 454 milioni di dollari la cifra prospettata dal presidente statunitense Barack Obama.
  Precedentemente anche l'American Israel public affairs committee (Aipac), un gruppo di pressione statunitense noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, ha manifestato la sua "profonda disapprovazione" per l'opposizione della Casa Bianca all'aumento di 455 milioni di dollari di fondi per il programma di difesa missilistica israeliano. L'Aipac ha sottolineato "l'importanza dei finanziamenti statunitensi nel settore della Difesa", soprattutto alla luce delle tensioni regionali. "I programmi di cooperazione, che includono i progetti Iron Dome, Arrow e David's Sling, sono critici per la Difesa israeliana per contrastare una crescente varietà di minacce missilistiche e danno un importante contributo ai programmi di difesa missilistica statunitensi", si legge nel comunicato dell'Aipac.

(Agenzia Nova, 29 luglio 2016)


Quell'odio ha radici religiose'. L'esperto: Europa, apri gli occhi"

Lo psicanalista Meghnagi: la jihad vagheggia la purezza islamica

di Cristiano Bendin

 
David Meghnagi
«Non ci sono dubbi che, alla base di certi atti criminosi, possano esserci turbe psichiche irrisolte ma questo è solo un elemento del problema che non autorizza a ridurre fenomeni di portata storica a considerazioni di ordine meramente psicologico. In altri contesti e ambiti, chi ha problemi psichici irrisolti raramente commette atti come questi». David Meghnagi, psicoanalista, direttore del laboratorio di psicologia clinica e docente di psicologia della religione all'Università Roma Tre, non crede alla vulgata secondo cui i terroristi che hanno colpito negli ultimi giorni siano «solo dei malati psichici» o «schegge impazzite».

- Professore, sulla base di quali considerazioni si sente di escluderlo?
  «Il terrorismo di matrice islamico-jihadista ha dei fondamenti perversi che si richiamano esplicitamente a categorie di natura teologica. E una ideologia che viene da lontano e che demonizza l'Occidente e la democrazia, e che identifica gli ebrei con il male. E' una visione del mondo che attualizza, assolutizzandola, la polemica antiebraica presente in importanti Sure del Corano, a discapito di altre più tolleranti, e che ha come scopo il ritorno del mondo islamico a una purezza 'incontaminata'. Si tratta di una guerra che, dall'interno del mondo islamico, dove ha procurato centinaia di migliaia di vittime, dilaga ora in Occidente, mettendo a rischio le basi della convivenza su cui poggia la nostra civiltà».

- Una sorta di odio teologico?
  «Sì. Un odio che demonizza gli ebrei, che guarda a Israele come a un nuovo Satana, che fa sua — islamizzandola — la falsa leggenda del complotto dei Savi di Sion (vedi lo Statuto di Hamas), che converte i cristiani a forza e vende le donne come schiave. Una catastrofe per l'intera civiltà islamica, un pericolo per la convivenza tra fedi e culture in Occidente. Se tutto questo fatto non viene messo bene a fuoco, il rischio è di una deriva dalle conseguenze devastanti».

- Perché questa insistenza sul disagio psichico allora?
  «Il primo motivo è la paura di provocare, in una popolazione già impaurita, una spirale di terrore e di sospetto verso chiunque sia percepito come un possibile pericolo. Dall'altro c'è la difficoltà di prendere coscienza che, di colpo, il tema religioso possa costituire, come già avvenuto nel '500 e nel '600, un elemento di conflitto devastante. L'aspetto paradossale di questo processo è che mentre in Europa si vive, almeno ufficialmente, come se il terrorismo jhadista non avesse alcuna valenza di natura religiosa, nel mondo arabo e islamico a nessuno verrebbe in mente di negarlo».

- Può spiegarsi meglio?
  «L'Europa non è psicologicamente e culturalmente preparata a un fatto inquietante, che rischia di farci sprofondare indietro di secoli, quando la guerra di religione era un elemento costitutivo della realtà quotidiana, con cattolici e protestanti che si scannavano e gli eserciti islamici erano arrivati alle porte di Vienna».

- L'Europa laica pensava che con la fermata dei musulmani a Vienna nel 1683 questo ciclo fosse finito e invece non è così?
  «Per un europeo di formazione laica è quasi impensabile pensare che per motivi religiosi ci si possa uccidere. Scoprire che non è più così, non in un paese lontano, ma nella vita di tutti i giorni, nel cuore delle nostre metropoli, è fonte di smarrimento. Da qui la tendenza a chiamare il problema con altri nomi più rassicuranti».

- La visione jihadista è un sorta di riconquista?
  «Nella mentalità jihadista tutte le terre che un tempo sono appartenute al Dar al-Islam' (letteralmente la casa dell'Islam) devono tornare islamiche».

- Non può essere che l'Isis apponga ex post il suo marchio ad azioni criminose compiute da pazzi?
  «Certo. Ma il problema è che questo richiamo funziona, e che le menti folli non operano nel vuoto ma all'interno di una vasta zona grigia di complicità e di tolleranza. Inoltre c'è un effetto emulazione. Ma questo non deve farci perdere di vista la sfida culturale e religiosa sottesa a questo nuovo grande pericolo per la convivenza in Europa».

- Come uscire da questa spirale?
  «Non negando la dimensione religiosa e imparando a leggere la realtà anche con i loro stessi occhiali, senza però esserne catturati. Bisogna imparare un po' dagli israeliani: hanno sperimentato per primi questa sfida e hanno saputo combatterla conservando le basi dello Stato di diritto».

(Nazione-Carlino-Giorno, 29 luglio 2016)


Il Governo di Israele approva aiuti per gli abitanti del Golan siriano

Iniziativa di una Ong privata per favorire una "zona sicura"

Il governo israeliano sostiene l'iniziativa di una ong privata di inoltrare verso l'area di Quneitra (Siria) aiuti umanitari al fine di crearvi una zona sicura a beneficio dei suoi 200mila abitanti. La conferma è giunta al Jerusalem Post dal viceministro per la Cooperazione regionale Ayub Kara (un dirigente druso del Likud). «Lo Stato islamico è in fase di ripiegamento e in quell'area - ha affermato - operano l'Esercito libero della Siria (Fsa) e il Fronte al-Nusra'». La politica israeliana, ha spiegato, si poggia su due elementi centrali: facilitare il trasferimento di aiuti umanitari, ma non accettare l'ingresso di profughi. Queste affermazioni sono giunte a sostegno dell'iniziativa della ong Amaliah, gestita dall'uomo d'affari israelo-americano Moti Kahana che si prefigge di inoltrare verso la Siria, dal Golan controllato da Israele, quantita' di aiuti medici necessarie per la realizzazione di un ospedale da campo. Amaliah inoltrerà anche cibo e materiale educativo: ma nessuno dei suoi membri entrerà fisicamente in territorio siriano. L'obiettivo della operazione è di costituire a ridosso del Golan controllato da Israele una zona sicura dove agiscano forze locali «di cui - secondo Kahana - l'esercito israeliano sa di potersi fidare. In ogni caso - ha insistito il viceministro Kara - non vogliamo che radicali arrivino sul nostro confine».

(ANSAmed, 28 luglio 2016)


Tutti i pro e i contro sulla zona sicura tra Siria e Israele

di Fulvio Scaglione

 
Kamal al Labwani è uno dei personaggi più noti, e anche tra i più rispettabili, dell'opposizione siriana a Bashar al-Assad. Medico, romanziere e poeta, è stato tra i promotori della Primavera siriana e ha scontato due periodi in carcere. Liberato nel 2001, ha ottenuto lo status di rifugiato politico in Svezia. Qualche giorno fa, Al Labwani ha compiuto una specie di "visita di Stato" in Israele da dove ha proseguito per Giordania, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, per promuovere ovunque la stessa idea: la creazione di una "zona sicura" in territorio siriano, oltre le Alture del Golan occupate da Israele nel 1967 durante la Guerra dei Sei Giorni, in cui proteggere le popolazioni locali (in maggioranza drusi) e gli eventuali profughi in fuga dalla guerra.
   È interessante la visione di Al Labwani. La "zona" (che lui immagina profonda dieci chilometri e larga venti, tale da inglobare una popolazione di circa 15 mila persone) dovrebbe essere creata con la cooperazione di Israele, Arabia Saudita, Qatar, Usa, Giordania e Turchia e resa sicura dall'attività di "determinati gruppi militari", armati e organizzati dai suddetti Paesi. Questi gruppi, dice Al Labwani, si sbarazzerebbero delle eventuali interferenze degli islamisti come di un ritorno di fiamma di Bashar al-Assad.
   La proposta di Al Labwani, nel modo in cui è stata esposta, è irrealizzabile. E pure politicamente insostenibile: chiedere ai Paesi del Golfo Persico, inventori e finanziatori dell'Isis e di altre formazioni islamiste attive in Siria, di farsi garanti di un'iniziativa di pace nel territorio sovrano di un altro Stato, è come chiedere alla volpe di custodire il pollaio. Però è vero che in Israele, pubblicamente o no, si è molto dibattuto di un'idea che a questa somiglia o, per dir meglio, somiglia a quella "fascia di sicurezza" che nel 1985 lo Stato ebraico si ritagliò nel Sud del Libano dopo aver occupato parte del Paese nel 1982.
   Anche adesso, con la crisi siriana, Israele accarezza l'idea di proteggersi acquisendo territorio altrui, con la stessa identica strategia che l'ha animata in tutti i conflitti vittoriosi finora sostenuti con altri Paesi o con i palestinesi. Dal 2011, cioè da quando è scoppiata la guerra civile in Siria, Israele non ha mai colpito gli islamisti ma solo uomini o installazioni dell'esercito regolare siriano o delle milizie iraniane o libanesi accorse a sostenerlo. Al Labwani lo ha anche detto in pubblico, ma tutti già sapevano che negli ospedali israeliani del confine sono curati molti combattenti anti-Assad. E i segnali negli ultimi tempi sono stati chiarissimi: l'esercito dello Stato ebraico ha creato una speciale unità di collegamento con le popolazioni del Sud della Siria, controllato dai ribelli; ha distribuito aiuti e viveri, per il Ramadan, in decine di villaggi della stessa zona; ha mandato unità del genio e carri armati di protezione a svolgere misteriosi lavori nell'area di Quneitra, in territorio siriano.
   In termini strategici, quindi, Israele teme più l'avvicinamento dell'Hezbollah libanese e dei pasdaran iraniani che non quello dei miliziani islamisti. Ci si può chiedere perché, e rispondersi nei modi più vari: per esempio, ipotizzando che Israele abbia avuto precise garanzia dai burattinai che manovrano l'Isis. Ma è chiaro che la lotta all'Isis e ai suoi cugini non è la priorità dello Stato ebraico.
   Secondo Al Labwani, sulla "zona di sicurezza" sono tutti d'accordo: Netanyahu, Obama, i reali sauditi… La vera domanda, quindi, diventa: perché Israele non procede, visto che avrebbe tutti gli strumenti tecnici, politici e militari per andare avanti? Perché non usa la tattica di sempre, stabilendo la "zona", mantenendola anche a conflitto finito, inglobandola infine di fatto nello Stato ebraico com'è successo con le Alture del Golan?
   Possiamo provare con una serie di considerazioni sparse. La creazione di una zona di sicurezza nel Sud della Siria, giustificata magari con la protezione della minoranza drusa, potrebbe innescare un processo analogo a Nord, con i curdi, e aprire di fatto un contenzioso indiretto con la Turchia, con cui Israele ha appena riallacciato i rapporti e che detesta una simile ipotesi. Analogo problema potrebbe crearsi con la Russia, alleata fedele di Assad e poco disposta a far smembrare pezzo a pezzo una Siria già sconvolta. I rapporti tra Mosca e Gerusalemme sono cauti ma intensi, Netanyahu in un anno ha incontrato tre volte Putin e una sola volta Obama.
   Ma soprattutto: ne varrebbe la pena? Se osservato dall'alto, il Medio Oriente oggi offre a Israele una situazione ideale: il nemico Assad rischia grosso, l'amico-nemico Erdogan ha altri problemi, l'Iraq sciita è sotto l'influenza dell'Iran ma devastato, le petromonarchie del Golfo Persico sono di fatto alleate dello Stato ebraico, il Libano rischia il tracollo sotto il peso dei profughi siriani, Egitto e Giordania sono Paesi amici. E l'Isis garantisce che questa situazione si protragga. Impegnarsi sul terreno potrebbe portare più problemi che vantaggi.

(Eastonline, 28 luglio 2016)


Netanyahu ai terroristi islamici: «Se ci colpite semineremo morte sulla Jihad»

di Guglielmo Gatti

L'Operazione Margine Difensivo - condotta contro Hamas a Gaza nel luglio 2014 - «ci ha dato i due anni più tranquilli nell'ultimo decennio. Noi non possiamo plasmare l'ambiente strategico in cui viviamo, ma abbiamo la capacità di stabilire un deterrente verso i nostri nemici e, quando necessario, la capacità di colpire in modo significativo le loro infrastrutture». Lo ha detto oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu visitando villaggi israeliani situati ai margini della striscia di Gaza. «Calma da noi significa calma anche a Gaza. Ma se veniamo colpiti sapremo seminare distruzione per Hamas, per la Jihad islamica e quanti oltre il confine abbiano propositi ostili. Ad ogni tentativo di attacco contro i nostri villaggi risponderemo con potenza». Netanyahu ha visitato i villaggi di frontiera dopo il completamento in queste settimane di opere di fortificazione. Le sue parole sono giunte inoltre in risposta a critiche da esponenti politici della sua coalizione per la conduzione della operazione Margine Difensivo nell'estate 2014, in particolare per asseriti ritardi nella neutralizzazione dei tunnel militari scavati da Hamas sotto al confine.

(Secolo d'Italia, 28 luglio 2016)


Roma - Sfrattate tre famiglie al ghetto

La comunità ebraica: «Affitti regolarmente pagati»

È in corso, in via Santa Maria del Pianto a Portico d'Ottavia, secondo quanto appreso dalla Comunità ebraica, lo sfratto di tre nuclei familiari con gravi disagi sociali. Il Comune di Roma, infatti, ha proceduto a portare a termine la procedura di sfratto di tre appartamenti, il cui canone di locazione però, secondo quanto riferito, «è regolarmente saldato dalla Comunità ebraica di Roma che nel 2000 ha preso in carico le famiglie, facendosi garante del loro affitto». Sul posto, oltre a tanti residenti del quartiere che stanno portando la loro solidarietà, anche il presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello e il Rabbino capo Riccardo Di Segni. Il problema, secondo quanto si apprende, sembra nascere dal fatto che il Campidoglio non ha portato a termine l'iter amministrativo per quanto concerne la concessione degli appartamenti. Le famiglie, per il Comune, sono quindi occupanti.

(Il Messaggero, 28 luglio 2016)


Disoccupazione in Israele diminuita al 4,8 per cento nel secondo trimestre

GERUSALEMME - Il tasso di disoccupazione tra la popolazione israeliana che ha più di 15 anni è sceso al 4,8 per cento nel secondo trimestre di quest'anno. Lo rivela un rapporto pubblicato oggi dall'Ufficio centrale di statistica nazionale, precisando che rispetto al trimestre precedente si è registrato un decremento della disoccupazione dello 0,4 per cento. La percentuale della popolazione occupata è salita, pertanto, al 61,2 per cento nel periodo compreso tra il primo aprile ed il 30 giugno del 2016. L'aumento relativo maggiore dell'occupazione si è registrato nella parte meridionale di Israele, dove il tasso è passato dal 57,4 per cento del primo trimestre al 58,8 per cento nel secondo trimestre dell'anno. Il numero medio settimanale di ore lavorate è aumentato a 36,5 ore nel secondo trimestre, rispetto alle 36,1 del primo trimestre.

(Agenzia Nova, 29 luglio 2016)


CartOrange, viaggio nel tempo in Israele tra arte, cultura e divertimento

Israele è la destinazione ideale per un viaggio al di fuori delle tradizionali rotte turistiche, ideale per un long weekend o per una vacanza indimenticabile e CartOrange ha deciso di inserirla nella sua programmazione.
"Una decisione che è frutto anche di un'importante intesa con l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo che ci accompagnerà nella promozione e nella formazione su questo paese - ha spiegato Silvia Romagnoli, Travel Stylist di CartOrange - Israele è una terra unica, ricca di storia e contrasti: un viaggio in Terra Santa porta alle origini della nostra storia e della nostra cultura. È una meta che si trova a 4 ore di volo dall'Italia ed è adatta anche a un weekend lungo. Inoltre il Paese ha dimensioni relativamente ridotte e i tempi per spostarsi da un luogo all'altro sono brevissimi: da Tel Aviv a Gerusalemme, ad esempio, ci si impiega circa un'ora d'auto".
"Israele è una destinazione sempre più amata dai turisti - ha detto Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia - Organizzare una vacanza in Israele è facile e lo sarà ancora di più grazie alla professionalità e alla competenza dei Consulenti CartOrange. Siamo orgogliosi di questa collaborazione e su di essa puntiamo molto. Israele è un paese meraviglioso e inaspettato, che sa stupire e sorprendere".
Per visitare Israele, CartOrange ha messo a punto degli itinerari per viaggiatori individuali o piccoli gruppi, accostando alle destinazioni più gettonate dai turisti altre più originali, sempre in tutta sicurezza: si va dal long weekend (4 giorni e 3 notti), all'itinerario luxury per 2 persone con autista, fino ad arrivare agli itinerari tematici di una settimana per piccoli gruppi (minimo 6 passeggeri), il primo 'Gusti DiVini', che abbina la visita a un itinerario enogastronomico, il secondo 'Tra Antico e Moderno' per svelare le due facce di Israele, paese con storia, cultura e tradizioni e un occhio rivolto al futuro.
"Con CartOrange, vogliamo promuovere due aspetti di Israele: tradizione e lusso da una parte, turismo per giovani e puro leisure dall'altra - ha aggiunto Avital - Tutto questo è riassunto da due città che si armonizzano nelle differenze che le caratterizzano: Gerusalemme e Tel Aviv che rappresentano tradizione e modernità, spiritualità e divertimento. Israele è perfetta per coppie, giovani e famiglie".

(Travelnostop, 28 luglio 2016)


Un papa immobile di fronte al jihad

L'ex rabbino capo di Milano sferza una chiesa tiepida sull'islamismo e si rallegra: "Ringrazio Dio che esiste lo stato d'Israele".

di Giuseppe Laras

Rav Giuseppe Laras
Folle o non folle, lupo solitario o branco, con l'uccisione di padre Hamel in chiesa, l'ultima diga è stata rasa al suolo. Uccidere i cristiani nei loro luoghi di culto durante le preghiere non è una novità: si pensi ai copti in Egitto, massacrati nel silenzio dell'occidente; ai cristiani filippini; ai cristiani in Pakistan; ai cristiani iracheni e al loro sterminio. Alcune immagini le abbiamo perfino viste in diretta, comprese le donne vendute schiave, rinchiuse in gabbia come polli. Le femministe in occidente tacquero e non manifestarono, le chiese europee furono troppo tiepide o comunque troppo silenti nei confronti dei loro fratelli di oriente… Da questa prospettiva, non stupisce che drammaticamente in Europa, in una chiesa, un sacerdote, oggi martire, sia stato sgozzato come un animale. Dalla Normandia alle Filippine, dai fatti di questi mesi a quelli che perdurano ormai da decenni, il minimo comune denominatore è l'islam jihadista, di cui Daesh è solo un'espressione acuta, assieme al silenzio assordante - o alle parole non bastanti - di tanti altri musulmani per bene, contrari sì ma titubanti o impauriti. Non stupisce tristemente che, dopo le sinagoghe, si sia passati alle chiese: dopo "quelli del sabato", "quelli della domenica". Eppure l'oscenità perpetrata martedì scorso in casa nostra, verso un nostro concittadino europeo, verso un nostro fratello anziano, è talmente un "inedito" da rappresentare simbolicamente l'ultimo baluardo abbattuto. Un fatto tremendo, espressione di una realtà polimorfa che si sente sufficientemente forte e che percepisce l'occidente e le sue espressioni simboliche (religiose, culturali e politiche) sufficientemente deboli e vecchie. Un simile atto, contro chiesa o sinagoga che sia, avrà certamente epigoni, silenzi e - temo! - ancora molte parole a vanvera.
   Il Grande imam di al Azhar, Ahmad Al Tayyieb, caro alla Comunità di S. Egidio e ad alcuni politici italiani, condanna quanto è accaduto ieri, giustamente. Mi chiedo però dove fosse quando è accaduto altrettanto nei centri ebraici europei, da Tolosa a Parigi. E mi chiedo - e lo chiedo, in relazione a lui e alle sue dichiarazioni - con acribia a cristiani, ebrei e musulmani, come pure a politici e intellettuali- che pensi del libro "Banu Israil fi al Quran wa-al Sunna" del suo insigne predecessore alla medesima cattedra, l'imam Muhammad Sayyid Tantawi (morto recentemente nel 2010), ove questi così scriveva a chiare lettere: "Il Corano descrive gli ebrei con le loro proprie caratteristiche degenerate, quali uccidere i profeti di Allah, corrompere le Sue parole inserendole in luoghi sbagliati, consumare frivolmente il benessere degli altri popoli, rifiutare di prendere le distanze dal male che essi compiono e altre oscene caratteristiche originate dalla loro profondamente radicata lascivia ... soltanto una minoranza degli ebrei mantiene la parola data ... Non tutti gli ebrei sono uguali. Quelli buoni diventano musulmani, i cattivi no".
   La chiesa cattolica, nelle sue massime istituzioni, nei suoi dirigenti e persino, talora, nei suoi teologi per secoli ha spesso saputo essere - e purtroppo è stata - una persecutrice eccezionale. Questo, almeno, è stato per lo più il rapporto tra cristiani ed ebrei sino a tempi recenti. Leggendo i giornali di questi giorni e molte esternazioni di vescovi e cardinali, il fatto di essere divenuta vecchia e tremebonda, almeno in occidente, non rappresenta purtroppo in sé un progresso morale. Specie se risulta difficile persino chiamare il male per nome e dire che si tratta di islam jihadista e che l'islam jihadista, che non esaurisce l'islam e il mondo variegato dei musulmani, ma che comunque ne è disgraziatamente parte attiva, nutrita, ben radicata e ricca, è un'ipoteca epocale per il sussistere, almeno in Europa, della nostra civiltà. Al riguardo, l'ultimo discorso meritorio, serio e puntuale è stato il magistrale e profetico discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, che andrebbe rivendicato, diffuso, riletto e profondamente meditato. Difendere la nostra civiltà, pur con tutti i suoi molti limiti e la sua storia difficile e contraddittoria, ha dei costi. Costi in vite umane, che abbiamo già iniziato a pagare. E costi in arte, letteratura, poesia, architettura, filosofia, teologia, musica, libera ricerca scientifica e, infine, scienza politica. Tutto questo ha richiesto infinito tempo e infinita fatica. Pensare che tutto ciò, che è preziosissimo, non meriti la fatica e le lacrime di essere difeso, costi quel che costi, anche la vita, è o perversione e corruzione oppure già la stessa resa. E il fattore "tempo" è anch'esso non a nostro favore.
   Circa i cristiani di oriente e gli ebrei - o almeno parte di loro -, non posso che rallegrarmi interiormente, a fronte di sì inaudito sfacelo in occidente, che vi siano oggi almeno gli stati di Armenia e di Israele, ben difesi e determinati a resistere a ogni costo. Io ringrazio Dio che vi siano questi due stati che, da quando esistono, hanno insegnato ai nostri rispettivi nemici, antichi e presenti, in oriente e in occidente, che, per la prima volta nella storia, il nostro sangue ha finalmente un prezzo. E un prezzo elevato. Mentre prima, per secoli, fu possibile che venisse versato a ettolitri senza che nessuno fiatasse, ne chiedesse conto e ne esigesse non vendetta ma giustizia.
   Il Libro dei Salmi, il libro per ebrei e cristiani universalmente conosciuto e citato, da entrambi quotidianamente impiegato per la preghiera, è un inno altissimo alla religiosità, ma è anche un fermo monito contro la violenza - o, meglio, contro i malvagi -, che attentano al prossimo, che perseguitano, uccidono e violentano il mondo. E lì se ne invoca la dispersione e la neutralizzazione.
   Oggi gli europei e, nello specifico, i cristiani europei, si trovano a dover operare, volenti o nolenti, una vera rivoluzione della sensibilità e dell'intelletto, dello studio e dell'informazione, scegliendo se vorranno - se non per loro stessi, almeno per i loro figli e nipoti! - affrontare un lungo ed estremamente rigido inverno, dagli esiti incerti, oppure sollazzarsi con le ultime giornate estive, ancorché già perturbate, di sole e di chiacchiere. Giornate che, allora, non torneranno.

(Il Foglio, 28 luglio 2016)


Marocchino denuncia il fratello estremista e dalla comunità arrivano minacce di morte

 
Fouad Bamaarouf, di spalle, con il sindaco di Monselice, che si è impegnato a trovargli una nuova abitazione
Fouad e Adil Bamaarouf. Due fratelli marocchini, entrambi di Monselice (Padova). Fouad, 43 anni, operaio in un'azienda della zona, nessun conto aperto con la giustizia, ha denunciato Adil, 37 anni, che dopo aver perso il lavoro ha iniziato a inneggiare all'Isis, ha giurato «Farò esplodere Roma» ed è stato espulso dall'Italia con un provvedimento firmato dal ministro Alfano in persona. Eppure, oggi, il condannato (a morte) tra i due è Fouad, quello «pulito». Tradito due volte. Da una fetta della comunità islamica locale, che gliel'ha giurata: «Hai venduto un nostro fratello, la pagherai». E anche dall'Italia, perché da quando la sua storia è diventata di pubblico dominio nessuno vuole più affittargli casa. Paura di ritorsioni, poca voglia di immischiarsi. Il contratto di affitto di Fouad scadrà il 6 novembre e non sarà rinnovato. Ieri, con la «regia» del segretario provinciale leghista Andrea Ostellari che ne ha sposato la causa, il marocchino ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Aiutatemi. Non ho fatto niente di male».
   Un aiuto, per così dire, gliel'avevano offerto alcuni suoi connazionali. Dopo aver denunciato il fratello ai carabinieri, un anno fa, a casa Bamaarouf si è presentato un sedicente emissario della comunità islamica. «Mi ha chiesto se era vera la storia della denuncia» racconta Fouad «mi ha messo paura, e all'inizio ho negato tutto. Allora mi hanno offerto soldi e aiuto per la casa, ma solo se avessi pubblicato un video in cui scagionavo mio fratello. Sarebbe stato troppo, e ho rifiutato. Ho risposto che non mi serviva niente. Da quel momento nessuno mi parla più, e ricevo minacce anonime sul cellulare. Pazienza, in moschea non ci andavo nemmeno prima, ho visto troppe teste calde».
   A riprova che i sospetti di Fouad erano fondati, Adil fu espulso lo scorso 29 dicembre dopo essere stato seguito per diverse settimane. Biglietto di sola andata per il Marocco, ma oggi potrebbe essere ovunque, anche in Siria. «Con me non parla più, perché dice che l'ho venduto» spiega ancora Fouad. «Era venuto a stare da me dopo aver perso il lavoro. Aveva in piedi una causa col titolare, e da allora ha iniziato a prendersela con gli italiani. Odiava il mondo. Si svegliava alle 11 perché di notte guardava i filmati di propaganda dell'Isis in rete. Quando ha iniziato a parlare di minacce concrete l'ho denunciato». Ora Adil è lontano, quello che preoccupa è l'affitto che scade: «Entro nelle agenzie, mi trovano l'appartamento, poi controllano il mio nome in internet e mi richiamano. Il proprietario non è più disponibile, rispondono. Hanno paura. Loro. Io no, perché ho fatto una cosa giusta. Per mio fratello, per l'Italia, per tutti».

(La Stampa, 28 luglio 2016)


Ma l'Ue pensa a boicottare Israele

Anche quattro europarlamentari italiani chiedono il diritto di sostenere il sabotaggio contro Tel Aviv
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Un attentato terroristico di matrice islamica al giorno, ma il problema è Israele. Almeno secondo il Parlamento europeo che, al solito tetragono agli avvenimenti ed al senso del ridicolo, ha ritenuto di impreziosire una delle settimane più sanguinose da che la jihad ha alzato il tiro nel Vecchio Continente con un'iniziativa dalla ampia discutibilità.
Trentadue parlamentari europei - per l'Italia si segnalano gli tsipristi pentiti Barbara Spinelli, Curzio Maltese ed i grillini Fabio Massimo Castaldo e Rosa d'Amato - hanno infatti prodotto un appello (indirizzato all'Alto rappresentante per la politica estera e di difesa comune, l'italiana Federica Mogherini) affinché l'Unione conceda il riconoscimento politico al Bds. Trattasi del movimento internazionale che si batte contro lo Stato ebraico (la sigla sta per "boicottaggio, disinvestimento e sanzioni"). Insieme all'organizzazione, i proponenti chiedono anche che l'Unione usi un occhio di riguardo per uno dei fondatori della medesima, il celebre dottor Omar Barghouti, riconoscendone lo status di «difensore dei diritti umani», con lo scopo di «garantire protezione e assistenza adeguate a lui e ad altri difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali».
Se è presto per dire quando l'appello riceverà una risposta da parte delle autorità, non lo è per notare come i favori del pronostico arridano ai proponenti. Da tempo, infatti, l'Unione europea non perde occasione per schierarsi dalla parte dei palestinesi quando non di attaccare direttamente Israele. Il caso più clamoroso è anche quello più recente: nel novembre scorso, un analogo appello ad introdurre un'etichettatura speciale per i prodotti israeliani provenienti dalle colonie era stato rapidamente accolto dalla Commissione. Cui poco importò di avere scritto una delle peggiori pagine del già non esaltante libro delle relazioni tra Israele ed Ue: «Ci dispiace», dichiarò il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, «che la Ue scelga di fare un passo discriminatorio ed eccezionale come questo in un momento in cui Israele si trova ad affrontare un'ondata di terrore diretta contro tutti i cittadini ovunque si trovino». «L'Europa non sostiene alcuna forma di boicottaggio», ebbero la faccia di rispondere da Bruxelles.

(Libero, 28 luglio 2016)



SPIEGAZIONE - Ci è stato fatto notare che i nostri commenti alle parashot sono avanti di una settimana. Per esempio, sabato 23 luglio nelle sinagoghe italiane è stata letta la parashà Balak, che noi avevamo commentato in riferimento al sabato precedente, 16 luglio. Gli ebrei sanno il perché, ma per gli altri sarà opportuno dare una spiegazione. Nei giorni di festa, come pesach, la pasqua ebraica, in sinagoga si legge il testo predisposto per quella particolare solennità e la parashà che si sarebbe dovuto leggere viene spostata alla settimana successiva. Quest'anno la pasqua ebraica è caduta di venerdì, ma per un'antica regola rabbinica questa festa in diaspora dura un giorno in più. In diaspora dunque la pasqua è caduta di sabato, quindi la parashà non è stata letta e loro sono rimasti indietro di una settimana rispetto a Israele. Chiarito questo, pensiamo di continuare come prima, perché ci sembra giusto dare la precedenza a chi prepara il commento da Gerusalemme, "la città del gran Re" (Salmo 48:2), oggi capitale dello Stato ebraico.

Parashà della settimana: Matot (Tribù)

Numeri 30:2-32.42

 - Nella parashà di Matot (tribù) Moshè parla ai capi delle tribù d'Israele sulle leggi che riguardano i "voti" in generale e in particolare quelli pronunciati da una donna maritata.
"Chi farà un voto al Signore e pronuncerà un giuramento per sottoporsi ad un divieto, non deve profanare la sua parola, ma faccia secondo quanto uscito dalla sua bocca" (Numeri 30.2).
Sembra questo un intervento divino diretto riguardo al soggetto del voto. La legislazione inerente al rispetto del voto come pure al suo annullamento, non trova una base legale nella Torah anche se D-o stesso nella Sua collera aveva fatto il voto di distruggere il popolo a causa del peccato del vitello d'oro.
La minaccia non venne messa in atto, ma arrivò il perdono del Signore in seguito alla preghiera di Moshè.
Spesso un voto può essere un mezzo autoeducativo, che produce risultati apprezzabili, ma in nessun caso l'uomo deve pronunciarlo se non ha la possibilità materiale di realizzarlo. Guardati bene, dicono i nostri saggi, di pronunciare un voto quando sei in collera con te stesso oppure con gli altri e trovarti poi nella condizione di non poterlo rispettare.
Uno statuto speciale è riservato ai voti pronunciati dalle donne sposate, che devono essere approvati dal marito prima che divengano effettivi. La ragione di questo permesso non è legato all'autorità del marito, ma alla natura più sensibile della donna che potrebbe incorrere in scelte poco confacenti alla pace familiare.
"Nel giorno in cui il marito sente i suoi voti e li vieterà, egli rende nullo il voto" (Numeri 30.9).
Per questo la Torah introduce elementi di ponderazione idonei a difendere lo "shalom bait" cioè la pace della casa.

La spedizione contro Midian
Moshè parlò al popolo dicendo: "Armate fra di voi degli uomini per l'esercito che vadano contro Midian per compiere la vendetta del Signore su Midian" (Numeri 31.3).
E' la prima volta che si assiste nella Torah ad un'azione punitiva su vasta scala e per ragioni morali. Non bisogna dimenticare che le donne di Midian sono state la causa della depravazione sessuale dei figli d'Israele con tutti i danni che questa apportò ai costumi della vita familiare come abbiamo studiato nella parashà di Pinehas.
La reazione violenta da parte di Israele è motivata dalla necessità di salvaguardare le sue regole morali quando queste vengono minacciate da comportamenti errati e finalizzati alla sua distruzione.
E' da notare difatti che questa spedizione punitiva, non ha portato alcun beneficio materiale ad Israele in quanto solo una piccola parte del bottino di guerra è stato dato ai soldati. La spedizione dunque non venne intrapresa per motivi di lucro, ma per consolidare il rispetto e l'osservanza della Legge etica.

La Trans-Giordania
Dissero i figli Ruben e i figli di Gad a Moshè: "Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi sia dato questo paese quale retaggio ai tuoi servi. Non farci oltrepassare il fiume Giordano" (Numeri 32.5).
Moshè rispose loro: "Devono i vostri fratelli entrare in guerra e voi rimane qui?" (Numeri 32.6).
Il problema di scegliere tra un vantaggio materiale ed una missione ideale è attuale ai nostri giorni dopo la creazione dello Stato d'Israele. Una richiesta di importanza capitale venne avanzata dalle due tribù che avevano il loro interesse a restare in Transgiordania per la presenza di verdeggianti pascoli adatti alle loro numerose greggi.
Ecco un nuovo ostacolo nella conquista della Terra promessa causato non dalla ribellione degli esploratori, ma dalla nostalgia di un paese abitato dove è possibile installarsi . "Qui dimorerò perché è da me desiderato" (Salmo 132.14).
La risposta di Moshè è un grido d'angoscia che nasce nel profondo del suo cuore per il mancato impegno etico, lasciando la Comunità a lottare senza il loro aiuto. E' il comportamento di molti ebrei che vivono oggi nella diaspora, che hanno il desiderio di vivere fuori d'Israele, contravvenendo alla Parola della Torah.
Le nuove generazioni di ebrei devono invece intendere il grido di Moshè e rispondere: "Eccomi!" come disse Abramo nostro padre, che uscì dalla sua casa di Ur per il Paese che D-o gli avrebbe mostrato.
Nessuna Torah fuori dalla Terra d'Israele può eguagliare la Torah che è in Israele. Per scoprirla è necessario vivere nella Terra, amarla e rispettare i suoi sabati.
E' questo amore che spinse l'ebreo Gesù a dire "Date a D-o quello che è di D-o."
La Terra d'Israele non può essere data a "Cesare" perché appartiene a D-o. F.C.

*

 - "Come l'Eterno aveva ordinato a Mosè". E' un'espressione che compare più volte nel Pentateuco e in certi passi è ripetuta continuamente, in un modo che a noi oggi sembrerebbe quasi ossessivo, ma che voleva sottolineare l'autorità indiscutibile di chi dà l'ordine, che non è Mosè, ma Dio stesso. Nel nostro testo compare tre volte. La prima volta si dice: "Essi marciarono dunque contro Madian, come l'Eterno aveva ordinato a Mosè, e uccisero tutti i maschi" (Numeri 31:7). Mosè compare qui come un capo militare che esegue un preciso ordine di guerra: "Compi la vendetta dei figli d'Israele contro i Madianiti" (Numeri 31:1) e subito dopo: "Mobilitate fra voi uomini per la guerra, e marcino contro Madian per eseguire la vendetta dell'Eterno su Madian" (Numeri 31:3). Dunque si parla chiaramente di vendetta. Ma la vendetta non è un atteggiamento disdicevole da biasimare ed evitare in tutti i casi? Qui sembra di no. Passi come questo mettono a disagio molti cristiani, che allora cercano affannosamente di trovare qualche spiegazione per difendere un Dio che agli occhi del mondo appare poco presentabile. Bisogna esaminare il contesto - dicono - ed è indubbiamente vero, ma contestualizzare non significa alleggerire, anzi, in certi casi il contesto ben compreso può anche appesantire il testo, cioè renderne la spiegazione ancora più indigesta di quel che appare a prima vista.
  Per l'infedeltà che Israele aveva commesso partecipando a orge idolatriche con donne madianite a Baal Peor, Dio aveva già punito il popolo facendo morire ventiquattromila uomini. Ma se Israele è stato punito, adesso Madian dev'essere annientato: "Trattate i Madianiti come nemici e uccideteli, poiché essi vi hanno trattati da nemici con gl'inganni mediante i quali v'hanno sedotti nell'affare di Peor" (Numeri 25:17). E' questo l'ordine preciso che Mosè riceve dal Signore, insieme ad altre disposizioni.
  Alcuni fatti meritano attenta riflessione.
  La seduzione operata dai Madianiti è più grave di un'azione militare perché se la guerra è un fatto tra uomini in cui vince il più forte, la seduzione che spinge all'idolatria vuol colpire un rapporto vitale fra due soggetti, di cui uno è Dio e l'altro è il popolo.
  Dio dunque ordina a Mosè di fare due vendette 1) una per il popolo contro i Madianiti: "Compi la vendetta dei figli d'Israele contro i Madianiti"; 2) una per Dio contro Madian: "Mobilitate fra voi uomini per la guerra, e marcino contro Madian per eseguire la vendetta dell'Eterno su Madian".
  Uomini e popoli che si mettono contro Israele non per motivi comuni a tutti i mortali ma per il rapporto specifico che Dio ha con quel popolo, prima ancora di essere nemici d'Israele sono nemici di Dio. "I tuoi nemici tumultuano, e quelli che ti odiano alzano il capo" dice al Asaf al Signore nel Salmo 83. Per capire chi sono questi nemici di Dio basta osservare quello che fanno: "Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» (Salmo 83:3-4).
  I nemici di Israele sono dunque nemici di Dio. Per essere nemici di Israele però non ci vuole molto: basta negare o mettere in dubbio che Dio l'abbia scelto come suo popolo particolare. Si diventa nemici di Dio per il semplice fatto che non si accetta quello che Dio ha deciso di fare con quel popolo.
  La vendetta dell'Eterno in questo caso è molto dura: strage di Madianiti, senza pietà. Guerra santa? Sì, indubbiamente, perché è Dio stesso che dirige le operazioni. Vengono arruolati 12.000 uomini, 1000 per tribù, a dimostrazione del fatto che è il popolo intero a combattere, non un esercito di mercenari. Insieme all'esercito si muove Fineas, figlio del sacerdote Eleazar, portando le trombe di acclamazione, a testimonianza del carattere sacro della guerra. Come risultato vengono uccisi tutti i madianiti maschi e tutte le donne che hanno avuto rapporti sessuali con uomini. Quanto al bottino, viene diviso tra i combattenti e la comunità, ma dalla parte che spetta agli uomini di guerra deve essere sottratta una percentuale come "tributo all'Eterno", in altre parole si potrebbe dire che anche il Signore vuole partecipare al bottino. Alla fine dello scontro Israele riconosce con gioia che non manca nessun uomo: sono tornati tutti sani e salvi. I combattenti allora presentano al sacerdote Eleazar un'offerta spontanea di oggetti d'oro sottratti agli uccisi "per fare l'espiazione per noi davanti all'Eterno" (Numeri 31:50). Dunque è veramente una guerra santa, voluta esplicitamente da Dio e vissuta dagli uomini come un atto sacro, alla stessa stregua di riti espiatori sacrificali.
  Si possono immaginare allora le perplessità: ma allora le crociate... e adesso l'Isis... possono trovare in tutto questo un esempio e una giustificazione. Si può decidere quale opinione si vuole avere della Bibbia, ma la Bibbia è questa, non quella che piace a noi. Sorpresa e indignazione scaturiscono da un'unica radice: l'incredulità. Non si crede che esista davvero un Dio che agisce proprio come è descritto nella Bibbia, e allora la si respinge in toto o si cercano per lei collocazioni adatte al proprio modo di pensare all'interno della propria cultura. Ma nella nostra cultura occidentale racconti come questo non entrano proprio, quindi vengono ignorati o sublimati in quelle metafore paraboliche che si chiamano miti. Se invece si crede davvero che sia stato Dio a dare quei precisi ordini in un particolare tempo e per i suoi particolari scopi, nessuno può permettersi di fare analogie con altri fatti che non hanno alcun riferimento con la rivelazione di Dio contenuta nella Scrittura. Dio ha ordinato guerre particolari perché aveva ed ha un piano particolare per un suo popolo particolare in un tempo storico particolare. Non è lecito fare estensioni di tempo o generalizzazioni di luogo. Spetta a noi uomini di ascoltare e cercare di capire chi è Dio e come agisce: non spetta a Dio di doversi giustificare davanti a noi.
  Dalla Bibbia si evince che nel programma storico di Dio avvengono cambiamenti di regime. Fino ad un certo punto della storia Dio ha ordinato al suo popolo di fare guerre contro popoli che si opponevano al suo piano. Da un certo momento in poi Dio non l'ha ordinato più. Quando sono cambiate le cose? Non quando è venuto sulla terra il "buon Gesù" a mettere a posto i "cattivi ebrei", come forse penserebbe qualche cristiano, ma quando è caduto il primo Tempio ebraico. Qualcosa in quel momento si è rotto in modo irreversibile: Dio non ha più ordinato guerre sante a Israele.
  Dopo l'esilio il popolo è ritornato nel paese, come aveva annunciato il profeta Geremia, e il Tempio è stato ricostruito, ma tutto questo non è avvenuto per una gloriosa riconquista del paese attraverso vittoriose guerre di liberazione, ma è stato ottenuto per il grazioso consenso di autorità pagane come Ciro re di Persia, di cui la Bibbia dice che il Signore "gli destò lo spirito" (2 Cronache 36:22).
  Dopo il tragico fatto della distruzione del Tempio di Salomone i tempi sono davvero cambiati, non per l'evoluzione dei costumi o il progresso tecnologico, ma per il procedere inesorabile del processo storico-salvifico di Dio.
  Non si tratta dunque di fare analogie o trarre morali indebite, ma di saper riconoscere il mutare dei tempi di Dio. «Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia! e la mattina dite: Oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo! L'aspetto del cielo dunque lo sapete discernere, e i segni dei tempi non arrivate a discernerli?» (Matteo 16:2-3). M.C.

  (Notizie su Israele, 28 luglio 2016)


Gli ebrei, canarini nella miniera d'Europa

Un decimo è già scappato dalla Francia. Ma noi eravamo distratti.

Il 17 ottobre del 1943 Alois Brunner, capitano delle SS, arrivò a Nizza con i suoi collaboratori e scelse come base logistica l'Hotel Excelsior. Si apriva così la pagina più tragica della storia della Costa Azzurra: la deportazione degli ebrei francesi nei campi di sterminio nazisti. Ogni tre giorni, al treno Nizza-Parigi veniva agganciato un carro bestiame nel quale venivano stivati cento ebrei.
Gli ebrei di Nizza non vogliono finire di nuovo sui treni. E a pochi giorni dalla strage di 84 persone sulla Promenade des Anglais, 200 ebrei francesi, fra cui molti dalla Costa Azzurra, sono atterrati in Israele per non fare più ritorno. "Non c'è futuro per gli ebrei in Francia a causa degli arabi, e a causa di una posizione anti israeliana nella società", ha detto da Parigi il presidente dell'Agenzia ebraica, Natan Sharansky. Negli ultimi due anni, 15 mila ebrei francesi sono immigrati in Israele. In dieci anni, un decimo degli ebrei di Francia ha lasciato il paese. "A Nizza gli unici ebrei che vedi in giro con una kippah sono i turisti stranieri", ha detto Chalom Yaich, esponente della comunità ebraica in città. Gli ebrei sono come i canarini nella miniera. Quelli che morendo segnalano la presenza di gas ai minatori. Se gli ebrei sono l'un per cento della popolazione francese, la metà degli attentati per odio ideologico in Francia è diretta contro di loro. Numerosi canarini ebrei sono stati uccisi in questi anni. Ma noi minatori, troppo presi a rimestare bugie contro Israele, non prestavamo attenzione e ora ne stiamo pagando il prezzo.

(Il Foglio, 28 luglio 2016)


Migranti palestinesi, scafista israeliano

Succede anche questo, sui mari e tra le onde della speranza. Accade che sei migranti di presunta nazionalità palestinese siano stati bloccati in Salento su una barca a vela di 15 metri condotta da uno scafista israeliano. Quest'ultimo, Buddy Marlen Mansour, di 63 anni, è stato arrestato per favoreggiamento all'immigrazione clandestina. Una storia che scavalca ogni guerra, anni si strisce e conflitti, decenni di sanguinose contraddizioni. Il segno dei tempo. E la spia della condizione dei profughi. Che, tuttavia, viaggiavano su un veliero in ottime condizioni. Perfino buono per crociere un po' più amene di quelle che portano alla costruzione di una vita migliore.
La barca, battente bandiera greca, è stata bloccata poco dopo la mezzanotte, a circa tre miglia a largo di Torre Vado, sulla costa ionica, a pochi chilometri dal capo di Leuca. A rintracciarla è stata un da un guardacoste del Reparto Operativo Aeronavale della Guardia di Finanza di Bari. I finanzieri, nonostante le cattive condizioni del mare, si sono avvicinati e, affiancata l'imbarcazione, hanno subito rilevato la presenza di un gruppo di migranti, tutti uomini, ed individuato il presunto scafista. La barca dell'israeliano è stata portata a Gallipoli e sottoposta a sequestro. La fine di una storia che supera il tempo.

(Corriere del Mezzogiorno, 28 luglio 2016)


Al Museo d'Israele in mostra l'Antico Egitto. La star? Una mummia con le carie

Si chiama Alex, sacerdote durante l'età dei Tolomei. È lui il protagonista indiscusso della mostra in programma presso l'Israel Museum di Gerusalemme: soffriva di carie e di osteoporosi, ma oggi è la mummia più bella del museo.

di Federica D'Alfonso

 
La maschera funeraria di Alex
 
Carie, osteoporosi, vita sedentaria e dieta ricca di carboidrati: problemi quotidiani che affliggono di migliaia di persone nel mondo. Grazie ad una mummia vecchia di più di duemila anni, è ormai possibile ipotizzare come questi malesseri fossero comuni anche nell'antico Egitto. "Alex", questo il soprannome della mummia, è la star di una mostra inaugurata in questi giorni all'Israel Museum di Gerusalemme: il corpo mummificato, l'unico in Israele, era stato donato al Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme in intorno al 1930 dai gesuiti di Alessandria. Alex è appena arrivato nelle sale del museo, e viene esposto al pubblico rivelando particolari interessanti circa gli usi e le abitudini dell'Egitto tolemaico.
In occasione della mostra, il Museo di Israele ha collaborato con il Medical Center di Haifa e gli scienziati di Tel Aviv conoscere la vita di Alex e le circostanze della sua morte. Contrariamente a quanto pensavano i responsabili dell'Istituto gesuita, Alex non era un adolescente, e non ha vissuto nel IV secolo a.C: la datazione al radiocarbonio delle sue bende ha collocato la data di morte nel II a.C., e la tac ha rivelato che Alex aveva fra i 30 e i 40 anni quando è morto. Una circostanza inusuale per un uomo egiziano dell'antichità, in un periodo in cui la mortalità infantile era dilagante e le prospettive di vita non erano altissime.
Considerato lo stile di vita sedentario rivelato dalle analisi e le iscrizioni sulla bara, Alex era quasi sicuramente un sacerdote, vissuto nella città di Panopoli (la moderna Akhmim), nell'Alto Egitto, durante l'epoca dei Tolomei. Dopo la sua morte, Alex è stato sottoposto al tradizionale processo di imbalsamazione e mummificazione: gli organi interni sono stati rimossi e collocati in vasi canopi, il cervello è stato tirato fuori attraverso il naso, e il corpo è stato riempito e ricoperto di natron e poi avvolto nel lino. Il curatore del museo d'Israele, Galit Bennet, ha spiegato al Times come "per la sua età, Alex è molto ben conservato". Non soltanto le ossa, ma anche i denti, le orecchie, i tessuti delle cosce e delle mani sono ben visibili. Ha ancora la maggior parte dei denti, ma soffriva di carie e gengivite, e anche di osteoporosi.
Anche se le tecniche di mummificazione e lo stile di sepoltura seguono la tradizione egizia, l'epoca in cui Alex è vissuto era quasi totalmente ellenizzata, in seguito alla conquista dell'Egitto da parte degli eserciti di Alessandro Magno. Anche se la religione locale e le tradizioni funerarie vennero conservate e rispettate dai Tolomei, l'influenza della cultura greca è presente: la targa dipinta poggiata sul petto è usanza caratteristica del periodo tolemaico, così come anche la maschera mortuaria stilizzata, simbolo di una persona di elevato rango sociale.

 La mostra
 
L'ibis mummificato che accompagna Alex nella mostra
  Grazie ad Alex, il Museo d'Israele cerca di fare luce sulle tradizioni funerarie dell'antichità, sulla percezione che gli antichi egizi avevano della morte e sulla misteriosa simbologia legata ai processi di mummificazione e imbalsamazione. Ad accompagnare Alex nella sua vita ultraterrena presso il Museo, anche un vasto assortimento di maschere funerarie di epoca ellenistica e romana: alcune, come quella di Alex, sono stilizzate, e imitano la rappresentazione tradizionale egiziana del defunto, con gli occhi a mandorla e una lunga parrucca. Altre sono ritratti realistici e di rara bellezza. Il percorso offre la possibilità di ammirare anche amuleti a forma di animali e realizzati a mano in ceramica, avorio, oro o pietre semipreziose, che erano state collocate sul corpo del defunto per proteggerlo nell'aldilà.
L'unica altra mummia nelle sale del museo è quella di un ibis, l'uccello sacro a Thoth, dio egizio della scrittura e della saggezza. Il sarcofago che racchiude i resti mummificati del uccello sacro è stato un regalo per l'ex vice primo ministro Moshe Dayan dal presidente egiziano Anwar Sadat, dopo la firma del trattato di pace tra Israele e l'Egitto nel 1979.

(Fanpage, 27 luglio 2016)


Turchia: L'accordo con Israele resiste al golpe

di Irene Vlad

A sei anni dall'interruzione delle relazioni diplomatiche fra Israele e Turchia i due paesi hanno imboccato la strada della riconciliazione firmando l'accordo di Roma del 28 giugno. In una dichiarazione rilasciata ad Al Jazeera, Erdogan ha affermato: "Turchia ed Israele hanno stretto un accordo. Quest'ultimo non subirà modifiche nonostante i drammatici eventi che hanno da poco sconvolto la Turchia". Nonostante l'instabile situazione del dopo-golpe permane dunque l'intenzione di rispettare i termini dell'accordo con Israele.

 Lo schiaffo della Mavi Marmara
  L'accordo firmato il 28 giugno conclude la lunga crisi diplomatica seguita all'incidente della Mavi Marmara nel 2010, quando nove attivisti turchi venivano uccisi in acque internazionali dalle forze speciali israeliane nel tentativo di forzare il blocco su Gaza. L'incidente aveva radicalizzato l'opinione pubblica turca nelle sue posizioni verso Israele e al contempo avveniva in una fase di intensa retorica anti-israeliana alimentata dal presidente Erdogan. Le relazioni diplomatiche venivano quindi sospese e i rispettivi ambasciatori richiamati.
   Bisogna rammentare però che i protagonisti dell'accordo non nutrono una rivalità antica: siglando il patto, dunque, non inaugurano un'amicizia fra 'vecchi nemici', ma più che altro riabilitano una relazione che in passato era stata eccellente. Non a caso la Turchia nel 1949 fu il primo stato musulmano a riconoscere lo stato d'Israele e a considerare quest'ultimo un partner strategico nella regione. L'ingresso nella Nato nel 1952 aveva rafforzato questo legame, approfondendo le relazioni politiche, economiche e militari.

 Piantare una bandierina a Gaza
  L'accordo avrà conseguenze importanti sul piano economico e la politica energetica: Israele sarà in grado di adoperare il gasdotto turco per trasportare il gas del grande bacino Leviathan in Europa. E già si intravedono effetti anche negli equilibri della regione. Una delle condizioni poste da Ankara per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Israele era il miglioramento della situazione umanitaria a Gaza. La Turchia è infatti il principale sponsor di Hamas, movimento politico affiliato alla Fratellanza Musulmana, in questo momento in difficoltà proprio a causa del deterioramento delle condizioni di vita nella Striscia.
   Nell'esercitare questa influenza, tuttavia, la Turchia si scontra inevitabilmente con lo stato che storicamente fa da mediatore nel conflitto israelo-palestinese: l'Egitto di Al-Sisi viene considerato dagli israeliani un importante interlocutore sulla questione palestinese poiché in grado di esercitare una notevole influenza sull'ANP. La visita in Israele del ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry (10 luglio), a nove anni dall'ultima di un ministro egiziano, dimostra la rinnovata assertività del Cairo sia sulla questione palestinese che nel teatro regionale.

 Il triangolo Ankara - Tel Aviv - Il Cairo
  Durante questa visita Shoukry ha espresso la contrarietà dell'Egitto all'accordo Ankara-Tel Aviv: oltre a volersi assicurare il ruolo privilegiato nel conflitto (anche a dispetto dell'iniziativa di pace francese, che pure dice di sostenere), il Cairo anti-islamista di Al-Sisi intende contenere Hamas ed impedire qualsiasi agevolazione per i militanti della Fratellanza Musulmana palestinese. L'accordo tra Ankara e Tel Aviv, che libera alcuni spazi di manovra per la Turchia a Gaza, non fa che aggiungere ulteriore tensione alla rivalità turco-egiziana. Erdogan e la sua politica filo-islamista si pongono infatti in posizione antitetica all'Egitto di Al-Sisi, nato proprio dal colpo di stato del luglio 2013 che ha deposto il governo islamista di Morsi.
   L'accordo con Israele e le sue conseguenze con l'Egitto mettono in luce un aspetto fondamentale della Turchia di Erdogan, ovvero l'attrito fra l'islamismo come vettore di politica estera da un lato, e dall'altro lato un potere militare che, sotto il vessillo del laicismo, preme per seguire altri binari e geometrie di alleanze. Questa tensione si manifesta contemporaneamente su due piani: su quello interno, con il colpo di stato e il coinvolgimento dell'anima kemalista che vi ha partecipato; e su quello esterno, dove l'accordo con Israele e le conseguenti tensioni con l'Egitto ne sono una manifestazione evidente.

(East Journal, 27 luglio 2016)


Sopravvisuti all'Olocausto tornano a suonare i violini della memoria

Trenta violini, tutti ''sopravvissuti'' alla Shoah. Ritrovati, restaurati, curati: ora pronti per suonare, insieme, in una serie di concerti dell'Orchestra per musica da Camera di Gerusalemme. Tutto merito del liutaio Avshalom Weinstein, restauratore e collezionista di numerosi strumenti salvati dall'Olocausto, che ha creato il progetto "Violini per la speranza". A suonare il primo violino è il musicista Guy Braunstein. Lo strumento che stringe tra le mani apparteneva a un violinista dell'orchestra di Auschwitz: il proprietario veniva costretto a suonare durante tutto il giorno per accompagnare le ore del lavoro forzato, spesso nel braccio della morte. "Il profumo di questo violino è diverso da tutti gli altri, suonando ho sentito come un paletto nel cuore, perché conosco la sua storia", ha confessato Braunstein dietro le quinte. Il liutaio Weinstein, proveniente da una famiglia scampata all'Olocausto, ha trascorso più di venti anni nel suo laboratorio di Tel Aviv, tra odore di vernice e lacca, per aggiustare gli strumenti, spesso recuperati in uno stato terribile. Il suo obbiettivo è quello di entrare in possesso di tutti i violini costruiti o usati durante la Shoah, per dargli nuova vita. La sua collezione conta circa sessanta strumenti. Ognuno di loro è una testimonianza: la maggior parte sono stati prodotti in Germania e Cecoslovacchia. Spesso sul legno vi è incisa una stella di David.

(la Repubblica, 27 luglio 2016)


Rapporti Russia - Israele

di Giancarlo Elia Valori

Il nuovo rapporto per lo scambio di dati di intelligence che si era instaurato tra Mosca e Gerusalemme nell'Aprile scorso è ormai in pericolo. Il segno più evidente di questa crisi bilaterale lo vediamo nella blanda reazione alle proteste israeliane riguardanti le vendite, o i trasferimenti a Hezbollah, da parte dei russi, di materiale militare, spesso evoluto. La polemica si è rinfocolata anche nell'ultimo contatto telefonico tra Netanyahu e Putin, lo scorso sabato 23 Luglio.
   Tra l'altro, durante lo scambio tra i due leader si è discusso di un altro tema molto sensibile, l'entrata nello spazio aereo israeliano del Golan di un UAV (unmanned aerial vehicle) direttamente dalla Siria. L'UAV doveva fotografare alcune attrezzature e operazioni speciali di Gerusalemme in quell'area. Ben tre missili di Israele, lanciati da un F-16, non sono riusciti a colpire l'UAV, che è ritornato intatto in Siria. La Russia lo ha segnalato sui suoi radar, naturalmente, ma non ha fatto nulla per segnalarlo ad altri o per colpirlo da sola. Ovvio: Mosca non ha nessun interesse a perdere l'Iran per Israele. Stabile alleato negli equilibri petroliferi, che ora Teheran spinge al rialzo le vendite dopo la firma del JCPOA, efficace antemurale contro l'Islam sunnita, quasi integralmente schierato con gli USA, l'Iran è il punto fermo di Mosca nel Grande Medio Oriente; e non potrebbe essere diversamente.
   Teheran è infatti molto utile alla Russia in Siria, dato che è l'inevitabile protettore primario di Bashar el Assad; e comunque Mosca non ha nessun motivo di modificare gli equilibri bellici interni alla Siria e al Medio Oriente durante la guerra contro il Daesh-Isis, che ha stabilito proprio la stabile egemonia della Russia nell'area. Egemonia alla quale, secondo la presidenza russa, non si può sottrarre nemmeno Israele, né come partner, né come satellite, dopo che il disastro geopolitico generato da Barack Obama ha lasciato il Medio Oriente senza nessun player globale, a parte appunto la Russia.
   La Turchia si allontana dalla NATO e dagli USA dopo il golpe, l'UE paga Ankara per farsi prendere in giro sui migranti, l'Arabia Saudita tratta con Mosca in funzione di un suo allentamento dall'Iran, l'Iraq si rivolge alla Russia dopo il recente vuoto di potere: un successo strategico di Mosca su tutta la linea.
   Ma Israele deve e può avere qualche altro partner affidabile e stabile in Medio Oriente, ora che gli USA non sono più presenti nell'area, o come "vecchi compari" dei sauditi o come idealistici organizzatori di "lotte di liberazione" dai soliti "tiranni". Il drone, naturalmente, è in primo luogo il segnale della potenza tecnologica di Hezbollah nei confronti di Israele, se attaccato. Chi ha dato la tecnologia per gli UAV al "partito di Dio"? La Russia? L'Iran, che ha un parco-droni molto vasto ed evoluto, soprattutto nel settore dei droni armati a medio-lungo raggio? O sono tecnologie rubate agli avversari, come spesso accade durante le ormai numerose "piccole guerre" del Medio Oriente? Non lo sappiamo, ma ora Israele sa che Hezbollah può arrivare con un UAV sul suo territorio e colpirlo. E soprattutto sa che Mosca non muoverà un dito contro il suo alleato iranian-libanese, almeno fino a quando Gerusalemme non si legherà stabilmente al sistema e agli interessi militari russi nell'area, che non coincidono comunque con quelli israeliani, comunque vadano le attuali trattative. Ad Israele, in fondo, è stato ricordato che il Golan è un fronte aperto, e che l'interesse dello stato ebraico ad una Siria frantumata e in guerra non può durare in eterno.
   Ancora in altri termini, l'UAV del gruppo libanese vuol dire che Israele non può pensare, in tempi brevi, ad inglobare le alture del Golan che, pure, sono essenziali alla sua difesa da Nord. Fra l'altro, dopo il golpe di Erdogan successivo al tentativo di rivolta delle forze armate turche, vi sono già "ufficiali di collegamento" turchi presso il governo di Assad a Damasco.

(Agielle, 27 luglio 2016)


L'esercito israeliano uccide il killer del rabbino Miki Mark

Operazione militare in un villaggio vicino a Hebron: usati razzi e bulldozer.

di Giordano Stabile

BEIRUT - In una operazione militare con uso di artiglieria, razzi e bulldozer, l'esercito israeliano ha ucciso il palestinese, militante di Hamas, che lo scorso 1 luglio aveva assassinato il rabbino Miki Mark, e ferito la moglie e due dei figli che viaggiavano in macchina con lui.
L'operazione è stata condotta nel villaggio di Zarif, vicino alla città di Hebron. La casa del terrorista è stata circondata e attaccata con mezzi blindati. Dopo un violento scambio a fuoco con armi leggere e lanciarazzi, un bulldozer ha demolito l'abitazione è ucciso il giovane palestinese, Mohammed Fakieh, 29 anni.
Fra le macerie sono stati trovati un Kalashnikov e bombe a mano artigianali. Una vicina di casa è stata leggermente ferita nello scontro a fuoco. Fakieh era già stato in carcere per i suoi legami con la Jihad Islamica, ma in prigione era diventato un militante di Hamas, secondo i servizi israeliani dello Shin Bet.
Il primo luglio Fakieh, probabilmente con alcuni complici, aveva affiancato con la sua auto quella del rabbino Michael Mark, molto conosciuto in Israele, lungo la Route 60, la superstrada che passa vicino a Hebron. Aveva poi sparato 19 colpi di pistola. L'auto si era rovesciata. Mark era morto sul colpo, la moglie ferita gravemente, due figli di striscio.
Secondo lo Shin Bet l'attacco è stato condotto da una cellula di Hamas. Nei giorni scorsi sono stati fatti tre arresti, legati a Fakieh. Fra di loro anche un membro dei servizi di sicurezza palestinesi, Mohammed Omaireh, 38 anni.

(La Stampa, 27 luglio 2016)


Filmato mentre lo sgozzavano. L'Isis rivendica: «Sono nostri soldati»

I feriti sono tre. Prima di tagliargli la gola lo hanno fatto inginocchiare.

di Riccardo Pelliccetti

 
La chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray
Non si fermano più. I terroristi islamici hanno assaltato per la prima volta una chiesa europea sgozzando il parroco e ferendo suore e fedeli. Due jihadisti gridando «Daesh» (acronimo dello Stato Islamico) hanno fatto irruzione ieri, durante la messa mattutina, nel luogo di culto di Saint-Etiennedu-Rouvray, poco distante da Rouen, nel cuore della Normandia. I terroristi sono entrati armati di coltelli dalla porta posteriore, mentre in chiesa c'erano il sacerdote, tre suore e due fedeli. Hanno preso tutti in ostaggio e poi si sono accaniti sul parroco 84enne, padre Jacques Hamel, tagliandogli la gola. Stessa sorte per una suora che, nonostante il tentativo di sgozzamento, sta ancora lottando fra la vita e la morte e per altre due persone, che però non sono state ferite gravemente.
   Una suora sopravvissuta ha raccontato alla tv che il sacerdote, prima di essere ucciso, è stato obbligato a mettersi in ginocchio. I due jihadisti «hanno registrato un video mentre recitavano una sorta di sermone vicino all' altare», ha spiegato la religiosa. I sopravvissuti sono stati poi messi in salvo dalle forze speciali del Bri (Brigate di pronto intervento) che sono arrivate in pochi minuti, grazie all' allarme lanciato da una suora che era riuscita a fuggire dalla chiesa durante l'attacco jihadista. «Sono entrati improvvisamente - ha riferito la religiosa - parlavano arabo e ho visto un coltello. Sono scappata quando hanno cominciato ad aggredire padre Jacques, Non so nemmeno se si siano resi conto che stavo fuggendo». Quando i due terroristi con i coltelli in mano sono apparsi sul sagrato gridando «Allah akbar», gli agenti li hanno abbattuti. La chiesa è stata poi ispezionata dagli artificieri che hanno trovato un ordigno e la cintura che indossava uno dei due jihadisti. Non è ancora chiaro se si trattava di armi finte o di veri esplosivi.
   L'azione è stata, come di consueto, rivendicata dall'lsis che ha parlato dell' attacco di «due nostri soldati» alla chiesa. Lo stile è identico a quello di lunedì, quando una profugo siriano si è fatto saltare in aria nella città tedesca di Ansbach: dopo che le autorità hanno attribuito l'attentato all'Isìs, il braccio mediatico dello Stato Islamico ha subito fatto proprio l'attacco terroristico con le stesse parole «era un nostro soldato».
   Ma chi erano i due killer islamici che hanno preso di mira la chiesa? Uno dei due è il diciannovenne Adel Kermiche, che avrebbe tentato di raggiungere la Siria per ben due volte, la prima attraverso la Germania, la seconda passando per la Svizzera. L'ultima volta, dopo essere stato respinto alla frontiera turca nel maggio dello scorso anno, è stato arrestato quando è sbarcato all' aeroporto di Ginevra e poi estradato in Francia. Qui è finito in carcere con l'incriminazione di associazione per delinquere di stampo terroristico e, dopo un breve periodo di detenzione, è stato messo in libertà vigilata con l'obbligo di indossare un bracciale elettronico. Il giovane jihadista era stato quindi già schedato con la «S», sigla che in Francia identifica i criminali pericolosi, compresi i terroristi. Il secondo terrorista sarebbe invece un minorenne proveniente dall'Algeria, di cui però non sono state diffuse le generalità.
   Il presidente François Hollande, dopo aver visitato il luogo dell' attacco jihadista, ha riunito nel pomeriggio all'Eliseo il premier e i ministri dell'Interno e della Giustizia per esaminare la situazione. «Siamo di fronte a una prova grandissima - ha detto Hollande -la minaccia per il nostro Paese resta estremamente elevata».

(il Giornale, 27 luglio 2016)

*

Riproponiamo un articolo comparso sul Messaggero di ottobre 2015, quando Israele si trovava in piena “intifada dei coltelli”.

Come uccidere un ebreo. Le "istruzioni" dei terroristi dell'Isis a quelli di Hamas

di Giulia Aubry

Mille modi per uccidere un ebreo. I supporters e i disseminatori dello Stato Islamico soffiano sul fuoco delle tensioni tra israeliani e palestinesi. E non certo per spegnerne le fiamme.
   Nei tweet, che imperversano in queste ore nei social di affiliati e sostenitori di Isis, si inneggia alle brigate di Al-Aqsa e ad Hamas, considerati come parte del grande disegno del Califfato. Con gli hashtag #الانتفاضه_انطلقت (l’intifada è stata lanciata) e #الاقصى (Al-Aqsa)). Vengono ripubblicate vecchi manuali - incluso Black Flags from Palestine, uno degli istant book prodotti dal sedicente Stato Islamico - sottolineandone i riferimenti specifici a come costruire bombe e armi artigianali per infliggere un numero più alto di vittime al nemico, o come muoversi all'interno di città come Gerusalemme o Tel Aviv.
   Nei forum di Isis si discute sulla giustificazione e l'ineluttabilità della distruzione di Israele e degli ebrei, che vanno eliminati uno a uno in ogni modo possible. E i coltelli con cui militanti palestinesi feriscono e uccidono, in questi giorni, gli israeliani vengono addirittura glorificati, e paragonati a quello con cui Jihadi Joe ha compiuto le efferate decapitazioni degli ostaggi stranieri nelle mani di Isis. In maniera non diversa, all'inizio di quest'anno e pochi giorni dopo i tragici eventi di Parigi, nei social media aveva fatto la comparsa l'hashtag #jesuiscouteau (io sono un coltello) per celebrare il giovane che, a bordo di un autobus aveva accoltellato tredici persone, a Tel Aviv.
   Messi in difficoltà dai bombardamenti russi, dopo la morte di otto dei loro comandanti per mano dell'esercito iracheno, con le voci - smentite - della scomparsa del loro leader Al-baghdadi gli uomini di Isis si concentrano su possibili nuovi teatri operativi. E lo fanno con il loro consueto immaginario (e non solo) degli orrori.
   Isis non ha mai fatto mistero di voler strumentalizzare a proprio favore il conflitto tra israeliani e palestinesi. In passato, in alcune manifestazioni a Gaza, sono comparse le bandiere di Isis e lo Stato Islamico aveva anche lanciato una pubblicazione, non particolarmente fortunata, specifica per i Territori palestinesi. Il momento di crisi in Siria e Iraq e la concomitanza con il riaccendersi della violenza in Israele e Palestina potrebbero ora diventare una miscela esplosiva, anche se al momento le minacce arrivano solo via web. Un rischio che un Medio Oriente, già sin troppo in fiamme, non può proprio permettersi.

(Il Messaggero, 13 ottobre 2015)



Il giorno dopo sul nostro sito compariva questa frase


Quando il mondo vede che Israele è colpito
cominci pure a tremare
perché presto qualcosa di peggio
si abbatterà su di lui.

 

Da Nizza all'Africa, ascoltiamo Israele

di Domenico Letizia

 
Dan Haezrachy
Un anno politico intenso per la realtà transnazionale e per la geopolitica. Gli attentati in Francia, la politica occidentale, i rapporti con l'Iran e le relazioni dello Stato di Israele con il Continente africano. Analizziamo le varie questioni sollevate con l'ambasciatore Dan Haezrachy, vice capo missione dell'Ambasciata di Israele a Roma.

La Francia, l'Europa e il terrorismo. Israele da sempre è vittima di tali attentati e nel Paese vi era anche chi aveva avvisato il Continente europeo della crescente ondata di odio nei confronti della cultura liberale e democratica. Cosa sta avvenendo in Europa?
  
In primis mi permetta di esprimere un sincero dolore per quanto accaduto sia in Francia, che in Germania. Sono rimasto colpito dalla brutale esecuzione dell'anziano prelato in Normandia. A Nizza, come lei ha rilevato, i terroristi hanno voluto colpire in una data simbolo della libertà europea. Purtroppo, mi spiace rilevare che il terrorismo palestinese ha inventato molti di questi modelli di attacco. Azioni a basso costo, ma con un drammatico "successo" in termini di perdita di vite umane. Questi attacchi dimostrato come al terrorismo non serva possedere grandi eserciti per fare stragi. Bastano pochi individui radicalizzati, un "lupo solitario" in possesso di un coltello, di un camion, di un'ascia, per causare enormi tragedie. Israele ha più volte avvertito l'Occidente del fatto che, non condannare quanto accade ai civili israeliani, significa fare il proprio male. Perché il terrorismo innova poco e imita molto.

L'Europa continua ad aprire le proprie porte all'economia iraniana, nonostante le continue violazioni dei diritti umani e i rischi per le imprese. Ampio spazio da parte della stampa è stato dedicato alla delegazione di 50 imprenditori delle Marche in Iran. A denunciare la non "normalità" iraniana alcune Organizzazioni non governative come Nessuno tocchi Caino e personalità come l'ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, presidente del Global Committee for the Rule of Law - Marco Pannella, che in un recente articolo ha ribadito: "Hassan Rouhani aveva chiaramente dichiarato che il suo interesse per i negoziati è stato guidato non da considerazioni moderate, ma per convenienza politica". Perché l'Italia sembra non dare ascolto a tali voci?
  
Purtroppo, dopo il luglio 2015, l'Europa è diventata l'oggetto del desiderio dell'Iran. Ciò fa parte di un piano studiato da parte di Teheran, che ha sia lo scopo di dividere l'Occidente - Stati Uniti ed Europa - sia quello di sfruttare la crisi economica del Vecchio Continente. Riguardo l'Italia, non posso certo dire io al presidente delle Marche quello che deve fare. Posso rilevare che serve un'attenzione particolare, soprattutto in Italia. L'Iran, come ha dichiaratamente detto Rouhani, intende fare dell'Italia la "porta di ingresso verso l'Europa". Considerando la realtà del regime iraniano, mi auguro che chiunque avvii una cooperazione con Teheran lo faccia con ferme precondizioni, tra le quali il netto rifiuto dell'ideologia antisemita e antisionista dell'Iran. Quello che denuncia l'ambasciatore Terzi è verissimo e mi permetta di ringraziarlo pubblicamente per tutto il suo impegno in favore del rispetto dello Stato di Diritto.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha iniziato una missione ufficiale in Africa, visitando quattro Stati: Uganda, Ruanda, Kenya ed Etiopia. Quali prospettive si stanno istaurando tra Israele e il Continente africano?
  
Si è trattato di un viaggio molto importante, sia a livello di relazioni internazionali che a livello emotivo. Emotivamente parlando, Netanyahu è anche tornato ad Entebbe, lì dove suo fratello Jonathan è stato ucciso. Per quanto concerne le relazioni diplomatiche, questo viaggio ha permesso a Israele di ritornare in Africa, dopo l'importante lavoro fatto da Golda Meir. Israele ritiene l'Africa un Continente molto importante, sia per la vitalità della sua popolazione, che per quanto Israele può condividere con i Paesi africani in termini di tecnologia applicata a settori quali l'agricoltura e la medicina. Ci tengo a ricordare due cose: grazie a questo viaggio, Israele e Guinea hanno ristabilito le relazioni diplomatiche dopo oltre quarant'anni. Secondariamente, l'Africa offre opportunità di cooperazioni triangolari: basti qui pensare che Italia e Israele cooperano nel settore agricolo in Burkina Faso.

Il vicepresidente della Camera dei deputati, Luigi Di Maio, ha detto che il Movimento 5 Stelle quando sarà al Governo riconoscerà immediatamente la Palestina. Recentemente, una delegazione del M5S in visita proprio in Palestina ha protestato asserendo che "il governo israeliano ci ha negato il permesso di entrare oggi nella Striscia di Gaza". Possiamo chiarire cosa è avvenuto?
  
Israele ritiene il Movimento 5 Stelle una realtà del panorama politico italiano con cui è necessario avere un dialogo. È stato questo lo spirito che ci ha portato a offrire ad alcuni loro rappresentanti, tra cui il vicepresidente Di Maio, l'opportunità di visitare Israele. Ho letto le varie dichiarazioni che i rappresentanti del M5S hanno rilasciato. Per quanto riguarda Gaza, l'impossibilità d'ingresso era stata comunicata loro prima di intraprendere il viaggio, non potendo Israele garantire la sicurezza dei suoi ospiti. Israele, quindi, si è comportato in maniera franca e corretta. Ho letto anche della volontà eventuale dei Cinque Stelle di riconoscere lo Stato Palestinese. Secondo quanto riporta la stampa, questo riconoscimento includerebbe le aree del Golan. Personalmente, invito il M5S a indicarci un partner a cui cedere la parte delle Alture del Golan in possesso di Israele. Spero non si voglia pensare di consegnarle in mano a gruppi terroristi quali Hezbollah o Al Qaeda. Detto questo, ribadisco che siamo contenti di aver invitato i rappresentanti del Movimento 5 Stelle in Israele e ci spiace che solamente parte delle notizie sulla loro visita sia stata pubblicata dai media. Ci sono stati, infatti, anche importanti incontri bilaterali con le controparti presenti nel Parlamento israeliano. Incontri che so essere andati in maniera proficua.

(L'Opinione, 27 luglio 2016)


Noemi Di Segni

Dopo 18 anni, alla guida dell'Unione delle comunità ebraiche italiane è tornata una donna. Commercialista, mamma di 3 figli, si divide tra Roma e Israele «dove si convive con il terrorismo, però né a casa né a scuola si trasmette la paura»

di Emanuela Zuccalà

Noemi Di Segni

«Quando sono stata eletta, ho avuto una palpitazione fortissima. Ma il traguardo non è solo mio: è del gruppo con cui da anni lavoro per dare un'impronta nuova alla nostra associazione». Noemi Di Segni è la neo-presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), ed era dal 1998, con l'uscita di Tullia Zevi, che non si vedeva una donna alla guida dell'ebraismo nel nostro Paese. La sua rivoluzione, però, era iniziata già nel 2012: «C'eravamo presentate con una lista tutta al femminile» racconta «per spiazzare un ambiente maschile e tradizionalista. Solo alle elezioni di quest'anno è entrato qualche uomo nel nostro gruppo. Abbiamo fatto le cose al contrario: invece delle quote rosa, le quote blu». Noemi Di Segni ha 47 anni ed è commercialista. Nata a Gerusalemme da famiglia italiana, dopo il servizio militare (in Israele obbligatorio anche per le donne) si è trasferita a Roma «seguendo il cuore». Ma continua a viaggiare tra i due Paesi «con valigie piene di cibo, quadri e libri»

- Che significato ha, per le comunità ebraiche d'ltalia, una donna al comando?
  Non è una questione di sesso, quanto di approccio nuovo: una gestione dell'Ucei più condivisa, con la partecipazione di tutte le anime dell'ebraismo italiano.

- Ci racconti queste anime.
  Delle nostre 21 comunità, 2 sono grandi, Roma e Milano, alcune medie,
come Torino, Firenze e Bologna, e altre piccolissime. Gli ebrei in Italia sono circa 30.000, con modi diversi di vivere la religione: c'è chi è molto osservante, chi si sente laico ma è legato alle tradizioni ebraiche, chi proviene da altri Paesi. Noi accogliamo tutti senza dare i voti a chi è più religioso.

- Quali valori può portare l'ebraismo, oggi, in Italia e in Europa?
  La vocazione a confrontarsi, ad approfondire, al porre sempre domande cercando risposte. L'importanza dell'alfabetizzazione, del saper leggere dalla prima infanzia, della conoscenza: non a caso siamo detti "il popolo del Libro". E il valore della vita, che per noi è sacra e va salvata a ogni costo: non esiste farsi esplodere per uccidere. Un precetto ancora più importante oggi.

- Israele convive con il terrorismo da sempre: come possiamo vivere qui in quest'epoca di paura?
  Le autorità devono riconoscere i segnali di pericolo e in Italia credo che siamo in buone mani. Ma la nostra vita quotidiana deve andare avanti e a noi genitori e insegnanti tocca spiegare ai giovani quanto il mondo sia cambiato senza però trasmettere la paura. Bisogna insegnare ai bambini l'affettività, la carezza, il rispetto: ognuno di noi ha la propria ricchezza culturale e va apprezzata. Non si può crescere nel timore dell'altro.

- I rapporti con l'Islam in Italia sono diventati più tesi?
  No, noi condividiamo tanto con le altre fedi, dai musulmani ai cattolici, e io penso che i valori di ogni religione, alla fine, siano gli stessi. Il problema è chi strumentalizza la religione, facendone bandiera di conquista. Sono sicura che la mamma musulmana che entra con me al supermercato non si riconosca in quell'Islam che fa stragi e guerre. Sono questi musulmani i primi a dover trovare il modo di esprimere dissenso e dolore.

- La Shoah ebraica è il paradigma di ciò che può accadere quando predominano intolleranza e odio. Il 2 luglio è morto Elie Wiesel, che nei suoi libri ci ha raccontato quell'orrore: ora che i superstiti ci stanno lasciando, sarà più difficile conservare la memoria?
  Occorre mantenere alto l'interesse per la Shoah nelle scuole, raccontandola fin dalle elementari, perché quando non ci saranno più i testimoni diretti, ognuno sarà chiamato a tramandare ciò che ha ascoltato. La Giornata della memoria, il 27 gennaio, è fondamentale perché come ricorrenza aiuta a costruire identità e appartenenza.

- La sua famiglia è stata toccata dalla Shoah?
  Un fratello di mio nonno paterno, con la moglie e la figlia, sono morti ad Auschwitz. I miei nonni materni hanno lasciato Torino nel '38 per le leggi razziali. I miei nonni paterni, invece, si nascosero a Roma e si salvarono. Ma mia nonna mi diceva che, con mio padre piccolo e lei incinta, non aveva accettato accoglienza in un convento perché, in cambio, pretendevano che battezzasse la neonata. Poi per fortuna trovarono un altro convento che spalancò loro le porte. Questi ricordi mi hanno accompagnata per tutta l'infanzia, tramandati dalle donne di famiglia.

- Ha nostalgia di Israele?
  Sì: forse anche per questo mi sono imbarcata nell'avventura all'Ucei . Israele è nel cuore di tutti noi. Oggi però s'aggiunge l'orgoglio di un Paese moderno, democratico, iper-tecnologizzato, che sopravvive in un contesto geopolitico difficile. La maggiore dei miei 3 figli, di 22 anni, già ci vive, e il secondo, di 20, vuole studiare là.

- Cosa sogna per il futuro dei suoi figli?
  Che mantengano gli orizzonti aperti, senza essere costretti a rinunciare ai loro progetti perché guerre, terrorismo o dissesti politici sbarrano la loro strada. Sono abituati a viaggiare, a incontrare giovani di altre religioni, e spero che possano sempre vivere così: senza confini.

(Donna Moderna, 27 luglio 2016)


Israele progetta nuove case a Gerusalemme est, l'Olp protesta

Il segretario generale dell'Olp chiede l'intervento dell'Onu così da ''mettere fine ai progetti coloniali di espansione'' di Israele.

di Edith Driscoll

Ha sollevato da più parti reazioni di protesta l'avvio dell'esame in questi giorni nel municipio di Gerusalemme di progetti per la costruzione in tempi brevi di 770 alloggi per israeliani nella valle compresa fra il rione ebraico di Gilo (Gerusalemme est) e il villaggio palestinese di Beit Jala (Betlemme) dove si trova il monastero Cremisan. Le nuove unità verranno considerate da Israele come parte del "distretto di Gerusalemme" e fanno parte di un piano edilizio più vasto che comprende un totale di 1200 unità abitative. Se non saranno sollevate obiezioni, entro due mesi potranno avere inizio i lavori, peraltro già approvati nel 2013. Questa ultima tranche procederebbe in parallelo - secondo il sito web Walla - agli altri lavori preliminari legati alla edificazione della Barriera di separazione.
Immediate le proteste dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), un'organizzazione politica e paramilitare palestinese fondata a Gerusalemme nel maggio 1964 da una riunione di 422 personalità nazionali. È considerata dalla Lega araba a partire dal 1974 la legittima "rappresentante del popolo palestinese". "Ancora una volta - ha dichiarato il membro dell'Olp Hanan Ashrawi - il governo israeliano sta mostrando le proprie vere intenzioni, distruggendo la possibilità per la creazione di uno Stato palestinese. Queste politiche pericolose provocheranno estremismo ed instabilità nella Regione". Il segretario generale dell'Olp, Saeb Erekat, ha perorato un intervento del Consiglio di sicurezza dell'Onu tale da "mettere fine ai progetti coloniali di espansione" di Israele.
Il capo del comitato per la pianificazione coloniale della municipalità, Meir Turgeman, ha dichiarato, a dispetto della condanna internazionale agli insediamenti israeliani, che le costruzioni di unità abitative andranno avanti sia a Gerusalemme Est sia in Cisgiordania e che farà di tutto per "tenere i giovani a Gerusalemme".

(In Terris, 27 luglio 2016)


Ecco ciò di cui si preoccupano i leader palestinesi, diligentemente riportato da un giornale che ha come direttore un sacerdote e si presenta come una voce che parla “Con i piedi in terra guardando il cielo” Che cosa dice il cielo su Gerusalemme? Che deve essere divisa con i palestinesi? Si guardi bene. M.C.



I campi di Hamas, dove i quindicenni imparano a combattere Israele

Ragazzini addestrati alla guerra dalle brigate al-Qassam

GAZA - Decine di ragazzini, armi in pugno, all'assalto. Siamo nella Striscia di Gaza e questo è uno dei campi di addestramento militare organizzato in estate da Hamas per insegnare ai ragazzi palestinesi a combattere. I partecipanti sono molto giovani, hanno tutti fra i 15 e i 20 anni, e vengono addestrati dagli uomini delle brigate Ezzedine al-Qassam, l'ala armata di Hamas, il movimento islamico che governa Gaza.
La base è vicino al confine fra Israele e Gaza, spesso bersaglio di raid israeliani: qui in una settimana sono stati addestrati 30mila ragazzi. I genitori li mandano qui per dare il loro sostegno ad Hamas e per far sì che imparino a combattere "il nemico che distrugge le nostre case e ci impone l'embargo", raccontano alcuni di loro.
"Non è un segreto che il nemico educa i bambini ad odiare il popolo palestinese - racconta un cittadino di Gaza in visita al campo - noi educhiamo i nostri bambini ad amare la loro patria e mostriamo loro che possono reclamarla anche se questo richiede un grande sacrificio".
Questi campi di addestramento sono aspramente criticati dalle associazioni per i diritti umani internazionali e locali che vedono nel coinvolgimento dei bambini un danno non solo per il loro futuro ma per il futuro dei due paesi, Israele e Palestina, condannati ad una spirale di odio e violenza che passa da una generazione all'altra senza fine.

(askanews, 26 luglio 2016)


Sorrento, arriva in visita il console Mandelli

 
Sorrento
 
Eilat
Fred Mandelli, console italiano ad Eilat, importante centro dell'estremo sud di Israele, è stato ricevuto al Palazzo Municipale dal sindaco di Sorrento, Giuseppe Cuomo. La visita segue l'approvazione all'unanimità della deliberazione con la quale il consiglio comunale di Sorrento, nella seduta del 21 luglio scorso, ha manifestato la volontà di attuare un patto di gemellaggio tra la località del Golfo di Napoli e la cittadina affacciata sulle rive del Mar Rosso.
Riscontrati tanti settori di comune interesse, e quindi di possibile cooperazione e scambi, l'iniziativa ha trovato slancio nell'ambito del programma dell'amministrazione comunale relativo al capitolo turismo e alla conseguente volontà di diversificare l'offerta attraverso nuovi segmenti di mercato.
Abitato da circa 60mila residenti, su un territorio di 87mila ettari, Eilat e l'omonimo golfo sono situati tra la penisola del Sinai e quella araba. Si tratta di uno dei siti già importanti dal mondo per osservazioni e immersioni marine e una località di grande pregio storico. Oggi è sede di uno dei più importanti porti israeliani, che accoglie anche numerose crociere, e di un grande centro turistico-climatico, oltre ad eventi e festival che richiamano ogni anno quasi 3 milioni di visitatori.
"Il gemellaggio con Eilat potrebbe aprire la strada ad un turismo di incoming verso Sorrento di grande interesse per le attività economiche locali - spiega il sindaco, Giuseppe Cuomo - Flussi favoriti anche dall'attivazione, lo scorso anno, di un volo di linea diretto tra Napoli e Tel Aviv e l'imminente inaugurazione di un nuovo scalo aeroportuale proprio ad Eilat".

(il denaro.it, 26 luglio 2016)


Mihajlovic: grandi potenzialità per la cooperazione con Israele

di Monica Ranieri

Gli investitori provenienti da Israele sono i benvenuti in Serbia, poiché il potenziale per la cooperazione è grande, ha dichiarato il Vice Primo Ministro e Ministro dell' Edilizia, trasporti e infrastrutture Zorana Mihajlovic il 25 luglio in occasione della riunione con una delegazione di investitori israeliani, presieduta dal presidente dell'Airport City Belgrade, Gili Dekel.
   "Stiamo attraversando il processo delle riforme, e lavorando duramente per sviluppare le infrastrutture e non sono impaziente di vedere le possibilità che abbiamo davanti", Mihajlovic ha dichiarato parlando con i rappresentanti di cinque grandi società di investimento israeliane le cui attività comprendono la costruzione e gli investimenti nel settore dei beni immobili e delle infrastrutture.
I rappresentanti del Ministero hanno presentato alle compagnie israeliane le trasformazioni che sono state apportate alla legislazione al fine di migliorare l'ambiente di investimento e i progetti in programma in cui gli investitori stranieri possono essere coinvolti.
   Si è parlato della crescita e degli sviluppi che si dovrebbero verificare nel mercato immobiliare a seguito dell'approvazione della Legge sulla Pianificazione e Costruzione, grazie alla quale è stato rimosso uno dei principali ostacoli agli investimenti stranieri, consistente nella durata eccessiva nel rilascio dei permessi di costruzione. Come previsto dall'attuale legislazione, il periodo per il rilascio del permesso dovrebbe essere in media di otto giorni.
   La posizione strategica della Serbia, in quanto paese che sta costruendo corridoi e intraprendedno la realizzazione di progetti per infrastrutture stradali di grande importanza per la regione, come l'autostrada Nis-Merdare, è stato anche sottolineato durante l'incontro con gli investitori israeliani.

(Serbian, 26 luglio 2016)


Calcio - Arrestati 56 ultras del Beitar Jerusalem

Pugno duro della polizia israeliana nei confronti di un gruppo radicale di tifosi del Beitar Jerusalem football club: le forze dell'ordine hanno arrestato 56 componenti della fazione chiamata 'La Familia'. Il blitz, che ha coinvolto 400 agenti, è avvenuto nella notte come conferma la portavoce della polizia Luba Samri. Gli arresti sono la conseguenza di un'indagine durata sei mesi, i componenti del gruppo sono sospettati di essere coinvolti in una serie di gravi episodi di violenze e di aver comprato e venduto armi e oggetti illegali quali pistole stordenti e fumogeni poi utilizzati allo stadio. 'La Familia', composta da estremisti di destra, è nota alle forze dell'ordine per le sue posizioni razziste nei confronti degli arabi, il club è l'unico della prima divisione israeliana a non avere mai avuto in rosa un giocatore arabo.

(la Repubblica, 26 luglio 2016)


Noemi Di Segni domani in visita al ghetto di Venezia

VENEZIA - Domani la neo eletta presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni sarà a Venezia per la sua prima visita ufficiale in Laguna: in mattinata incontrerà a Ca' Farsetti il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e successivamente visiterà la mostra realizzata in occasione dei 500 anni del Ghetto "Venezia, gli ebrei e l'Europa" a Palazzo Ducale.
Nel pomeriggio, dalle 17.00 alle 19.00 presenzierà alla Scola Grande di San Rocco al Mock Trial (finto processo) a Shylock nell'ambito del progetto The Merchant In Venice. Infine in serata sarà in campo di Ghetto Novo per lo spettacolo "The Merchant of Venice", prodotto da Università di Venezia Ca' Foscari e Compagnia de' Colombari.

(Adnkronos, 26 luglio 2016)


Le Forze di difesa israeliane vietano l'applicazione Pokemon Go nelle installazioni militari

GERUSALEMME - L'applicazione Pokemon Go, sviluppata da Nintendo, diventa un tabù anche per le Forze di difesa israeliane: il timore delle autorità militari israeliane è che i soldati e il personale delle installazioni militari possano scaricare un'applicazione sosia e rivelare inavvertitamente dati sensibili. Per questo motivo la Divisione per la sicurezza delle Forze di difesa israeliane ha bandito questa settimana tutte le funzioni dell'applicazione per smartphone all'interno delle basi militari. Fonti militari spiegano che la decisione è stata adottata dopo che le autorità sono venute a conoscenza di una applicazione "clone" sviluppata appositamente per il furto di dati e informazioni.

(Agenzia Nova, 26 luglio 2016)


Crollano gli alibi pacifisti: il terrore islamico colpisce anche la Germania

Una strage sfiorata. Un kamikaze fedele all'Isis si fa esplodere a due passi da un concerto. Provoca 15 feriti e fa scoprire ai tedeschi che la neutralità non basta per fermare "il più grave assalto alla democrazia dai tempi dei Baader Meinhof". Parla Henryk Broder.

di Giulio Meotti

 
Henryk Broder
ROMA - "E' pazzesca la miopia di questo grande ricco paese. Noi tedeschi avevamo creato un paradiso di pace e benessere. Ma non ci eravamo accorti che il paradiso era perduto". Fra i più influenti commentatori in Germania, intellettuale ebreo firma di punta del gruppo Springer, Henryk Broder non è affatto sorpreso dai quattro attentati che in una settimana hanno causato morti e feriti sui treni, nei centri commerciali, nelle strade e nei bar. Mohammed Delel, il kamikaze, profugo siriano, che si è fatto esplodere in un ristorante ad Ansbach, provocando quindici feriti, a due passi da un concerto con 2.500 persone, è il primo ad aver giurato fedeltà al Califfato. "In un video l'uomo minaccia in arabo un nuovo attentato in Germania nel nome dell'Isis", ha detto il ministro dell'Interno della Baviera, Joachim Herrmann. "Mi domando perché non ci siano stati prima attentati", dice Broder. Dalla Seconda guerra mondiale, la Germania si è votata a un rigido pacifismo. Prima ci fu l'opposizione alla guerra in Iraq, quando Gerard Schroeder con Dominique de Villepin mise il veto della "vecchia Europa" all'intervento americano. Nei giorni scorsi parlamentare tedeschi, come la verde Renate Künast, hanno persino criticato la polizia per aver ucciso il terrorista che con un'ascia ha seminato morti in un treno a Würzburg. "L'aggressore non poteva essere fermato senza ucciderlo????", ha chiesto Künast, con quattro punti interrogativi.
  "E' la dolce vita delle democrazie che gli islamisti vogliono", dice al Foglio Broder, ex Spiegel oggi editorialista della Welt. "I tedeschi avevano voluto dimostrare che erano di nuovo buoni espiando il senso di colpa per il nazismo con l'accoglienza di milioni di stranieri. Distinguono tra islam 'religione di pace' e islamismo, come se non avessero nulla a che fare con l'altro, come se tra alcool e alcolismo non ci fosse collegamento. E lo Stato Islamico diventa il 'cosiddetto Stato Islamico', come una volta la 'cosiddetta DDR'. Siamo ancora il paese del pacifismo di Günter Grass e Heinrich Böll. Il guru teatrale Peter Zadek ha detto che gli americani 'sono paragonabili ai nazisti'. E la Gestapo vive a Guantanamo, Abu Ghraib è la nuova Auschwitz e la Nsa ha assunto la direzione della sede della Sicurezza del Reich. Ma senza l'intervento alleato non ci sarebbe il movimento per la pace in Germania o le marce di Pasqua. E chiamarlo 'pacifismo' sarebbe un tradimento di Carl von Ossietzky, che ha pagato con la vita per le proprie convinzioni. Il pacifismo tedesco del XXI secolo è uno stile di vita che gli altri pagano, è il revisionismo di classi istruite che hanno imparato come formulare il risentimento in modo sottile. Questo misto di ricchezza e pacifismo è stato un disastro e ha causato codardia, la perdita di ogni standard occidentale. La Germania oggi discute di trans e gender in un declino morale associato alla ricchezza. Oppure del burkini, il costume da bagno delle musulmane. Viviamo nel XXI secolo ma abbiamo a che fare con problemi del VII secolo, come la nudità delle persone nelle piscine pubbliche".
  Chi sono i responsabili? "Gli intellettuali, i media, i politici sono colpevoli per questa situazione, non le persone comuni, i tedeschi capiscono cosa sta succedendo. Ma settant'anni di 'pace' hanno fatto perdere alla Germania la voglia di combattere per la libertà. Oggi la Germania dice che la colpa è della Francia che esclude i musulmani nelle banlieu, come dieci anni fa la colpa era di Bush". Dopo l'attacco al centro commerciale di Monaco c'è stata una corsa a trovare segni di pazzia nel terrorista. "E' il potere della negazione: il terrorismo non può avere radici islamiche, così si cerca il 'pazzo'", ci dice Broder. "Hanno consentito di entrare a più di un milione di persone senza controllo. Mi rispondono: 'Ma i migranti sono in maggioranza pacifici'. Vero, ma neppure la maggioranza dei tedeschi ha votato per Hitler. E la Rote Armee Fraktion non ha mai avuto più di mille terroristi. Adesso affrontiamo il primo test per la democrazia tedesca dal terrorismo della Baader Meinhof, che colpivano obiettivi precisi, i 'porci', mentre oggi si colpisce la gente per strada. Anche allora non si capì che la Rote Armee Fraktion (il cui avvocato è stato lo stesso di Broder, Otto Schilly, ndr) era un movimento fascista nella tradizione tedesca. Il loro obiettivo era distruggere la società democratica, instillare paura, ricattare. Gli islamisti vogliono la stessa cosa".
  La vita di ogni giorno sta già cambiando. "Sono forse uscito dal ghetto ebraico per entrare in un ghetto multiculturale? Vicino alla Università Tecnica di Berlino, i musulmani bloccano il traffico per pregare in massa il loro dio, Allah. Mai cristiani, ebrei, ortodossi avevano pregato nella università. Forse avrebbero negato loro la possibilità. Chiunque crede che l'islam sia parte della Germania, non dovrebbe esitare a fare un passo avanti: la sharia appartiene alla Germania. Senza sharia, non c'è islam e l''Euro-Islam' è una chimera, come lo era l''Euro-Comunismo'. Ci risparmieremmo un sacco di tempo e sarebbe la fine di tutti i dibattiti sulla parità tra uomini e donne, il matrimonio per tutti, il velo, la separazione dei poteri in politica, la separazione tra chiesa e stato, le caricature e la satira. I giornalisti tedeschi sono in una sottomissione volontaria, apri i giornali e trovi pochissime voci libere, anticonformiste. Anche settant'anni fa iniziò così, con la chiusura delle menti. Un giornalista, Christian Bommarius della Frankfurter Rundschau, ha appena scritto che 'la probabilità di perdere la vita sulle strade è superiore alla probabilità di essere bersaglio di una bomba'. Un altro, Arno Frank della Zeit, ha chiesto alla gente di rilassarsi. 'Serenità'". Cosa potrebbe succedere di così terribile ai bravi tedeschi?

(Il Foglio, 26 luglio 2016)


Hot air baloon festival: il festival delle mongolfiere!

Ogni anno in tutto il mondo si tengono decine e decine di manifestazioni dedicate alle mongolfiere. Ecco alcune foto dell'ultimo evento tenutosi in Israele lo scorso 22 luglio

C'è qualcosa di più poetico di una mongolfiera che fluttua pacifica incontro ad un tramonto?
Bhe, anche se non siete dei romanticoni (insensibili!), non potrete che rimanere a bocca aperta di fronte alle originalissime mongolfiere apparse al Festival di Israele! La fantasia prende il volo!
Il 22 luglio del 2016 si è tenuto all'Eshkol Park di Netivot, città dello Stato di Israele, uno dei tanti Hot Air Baloon Festival che ogni anno si tengono nel mondo.
In tali occasioni si radunano tutti palloni aerostatici più belli e fantasiosi, trasformando il cielo in una vera parata di strane creature volanti.

(Focus Junior, 26 luglio 2016)


Al via le selezioni per la nomina del nuovo ambasciatore di Israele in Turchia

GERUSALEMME - Il ministero degli Esteri israeliano ha pubblicato oggi un "concorso" interno per ricoprire la carica di ministro degli Esteri in Turchia. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Haaretz", questa mossa del primo ministro ed ministro degli Esteri ad interim Benjamin Netanyahu denota la volontà di non fare una nomina politica, bensì una designazione basata sulla valutazione dei diversi candidati. Fonti ufficiali riferiscono che l'annuncio è rivolto a tutti i diplomatici israeliani e che le esaminazioni inizieranno presto. La nomina di un ambasciatore rappresenta uno dei primi passi per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra due paesi. Nel settembre del 2011, Ankara ha espulso l'allora ambasciatore israeliano in Turchia Gabi Levy, in seguito all'assalto da parte di un commando israeliano alla nave turca Mavi Marmara, in cui nel maggio 2010 rimasero uccisi dieci attivisti. Lo scorso 28 giugno le autorità di Gerusalemme ed Ankara hanno firmato un accordo che mette fine a sei anni di gelo diplomatico.

(Agenzia Nova, 25 luglio 2016)


La delegazione saudita in visita non ufficiale a Gerusalemme apre nuove prospettive

GERUSALEMME - La stampa israeliana ha evidenziato la rarità di questa visita, dal momento che Riad e Gerusalemme non hanno relazioni diplomatiche ufficiali, sebbene nei mesi scorsi siano emerse prove di accordi di tipo economico tra i due paesi. L'ex generale saudita Eshki ha promosso l'iniziativa di pace araba, affermando che la creazione di due Stati, uno israeliano ed uno palestinese, eliminerebbero le scuse dell'Iran per sostenere i gruppi terroristici regionali. Eshki ha inoltre evidenziato che la risoluzione del conflitto israelo-palestinese porterebbe alla normalizzazione delle relazioni tra Israele ed il mondo arabo. "Non ci sarà pace con i paesi arabi prima che ci sia un accordo con i palestinesi", ha detto l'ex generale saudita. In merito alle voci che di tanto in tanto circolano sulla stampa di una possibile cooperazione tra Riad e Gerusalemme, il funzionario saudita ha detto: "Per quanto ne so, non c'è alcun tipo di cooperazione contro il terrorismo tra Israele ed Arabia Saudita, sebbene i due paesi condividano lo stesso approccio nel trovare delle soluzioni".

(Agenzia Nova, 25 luglio 2016)


Fenicia porta Camicissima in Israele

Fenicia ha siglato in Israele un contratto strategico con il Gruppo Hamashbir Lazarchan per lo sviluppo del marchio Camicissima.
Il piano di sviluppo concordato prevede 40 aperture distribuite su tutto il territorio, da effettuarsi entro i prossimi 5 anni.
Il piano ha già iniziato a concretizzarsi nel mese di giugno con l'apertura dei primi tre punti vendita siti nei department store Hamashbir, nei mall della capitale Gerusalemme, di Haifa, capitale dell'omonimo distretto affacciata sul mare, e di Rishon LeZion, quarta città più grande d'Israele poco più a sud di Tel Aviv.
"Siamo molto felici di poter affrontare questo importante mercato con il supporto di un partner di grande solidità e già ben inserito nel territorio. Israele è un paese con un pil interessante e in crescita, nonché fortemente sviluppato: siamo quindi certi che gli oltre 8 milioni di abitanti ci potranno offrire un bacino d'utenza più che adeguato per garantire la redditività dei 40 negozi programmati", ha sottolineato Fabio Candido, amministratore delegato di Fenicia.
In termini di proposta, il marchio per il mercato israeliano manterrà il suo dna affiancando al proprio core business un total look che ne sottolinei e rafforzi lo stile italiano.

(FashionUnited, luglio 2016)


Il paradigma del ventriloquo

"Il mio nome è Shylock" di Howard Jacobson l'autore fa apparire il personaggio di Mehdi Mehdi, comico franco-algerino accusato di incitare all'odio contro gli ebrei propagando l'ideologia nazista. Ecco perché l'esempio è perfetto per capire cosa sta succedendo oggi.

di Antonio Gurrado

Ho trovato una delle considerazioni più sagge sul rapporto fra terrorismo islamico e responsabilità individuale lì dove non me la sarei mai aspettata, fra le righe di un romanzo inglese ispirato a Shakespeare: "Il mio nome è Shylock" di Howard Jacobson (Rizzoli).
Fugacemente l'autore fa apparire il personaggio di Mehdi Mehdi, comico franco-algerino accusato di incitare all'odio contro gli ebrei propagando l'ideologia nazista. Se non che, di mestiere, Mehdi-Mehdi fa il ventriloquo; pertanto si difende facendo inoppugnabilmente notare che a propagare l'ideologia nazista è caso mai il pupazzo che porta in grembo, il quale infatti non perde occasione di salutare il pubblico a braccio teso. Se il saluto nazista viene poi reiterato da isolate frange estremiste o da giovani particolarmente suggestionabili, sostiene Mehdi Mehdi, la colpa è del pupazzo di cui seguono l'esempio, e non del ventriloquo che di per sé "non ha né personalità né ideologie proprie". Ovvio che è assurdo, è un romanzo satirico. Eppure ogni volta che dopo avere contato i cadaveri usiamo le espressioni "cane sciolto", "lupo solitario", "soggetto a rischio", "maniaco depressivo", "folle isolato", "falso musulmano", stiamo incolpando il pupazzo per assolvere il ventriloquo.

(Il Foglio, 25 luglio 2016)


I dimenticati ad est. L'Olocausto in Transnistria degli ebrei di Romania troppe volte negato

di Ida Valicenti

 
Una celebrazione in Romania per ricordare l'Olocausto
Il 22 giugno 1941 ha inizio l'Operazione Barbarossa, con cui le truppe tedesche entrarono in Unione Sovietica. Ebbe così inizio una guerra totale. Deciso a mantenere la sovranità territoriale della Romania, conquistata con il Trattato di Versailles del 1918, Ion Antonescu si alleò con l'Asse, diventando il principale alleato esteuropeo della Germania nazista.
   A ottobre 1941 cominciò la campagna di espulsione di 150.000 ebrei verso la regione della Transnistria, territorio a Est del fiume Nistro, a quel tempo sotto amministrazione romena. I legionari di Horia Sima fecero della pulizia etnica il loro principale obiettivo. Nelle regioni della Bucovina, Moldova e Bessarabia i gendarmi arrestarono e poi consegnarono 172.000 ebrei all'Einsatzgruppe, le unità operative delle SS impiegate a Est. Esse avevano il compito di operare l'annientamento di ebrei, zingari e commissari politici attraverso fucilazioni di massa e deportazioni su autocarri convertiti in camere a gas. In Bucovina, Moldova, Bessarabia, Crimea e Caucaso settentrionale era impiegata la Einsatzgruppe D.
   Il 22 ottobre 1941, la Romania occupò Odessa. Fu allora che il generale Nicolae Macici, con la complicità del governatore della città Gheorghe Alexianu, diede l'ordine di massacrare 20.000 civili, la maggior parte ebrei. Il 28 ottobre, 50.000 ebrei furono deportati nei campi di concentramento di Bogdanovka e Berezovka, in Transnistria. Prima dell'occupazione romena, Odessa vedeva una fiorente comunità ebraica di circa 90.000 persone. Nel 1942 vi erano solo 703 ebrei vivi.
   L'anno seguente, il 22 gennaio, la Guardia di Ferro uccise 125 ebrei a Bucarest e altri 2000 vennero reclusi in centri di tortura. Le loro proprietà furono confiscate e vandalizzate, le donne stuprate e le sinagoghe date alle fiamme. Un episodio drammatico si consumò anche a IIaşi, dove vi era una comunità ebraica ben organizzata che contava circa 45.000 persone. 15.000 di loro trovarono la morte nel pogrom di Iaşi accusati di essere spie, sabotatori e complici dei bolscevichi, altri stipati in vagoni bestiame vennero deportati in Transnistria, dove le autorità romene avevano istituito campi di lavoro e campi di sterminio. Si ricordano il campo di Berezovka, Akmechetka, Domanevka, Bogdanovka. Qui, alla fine del 1941, vi erano già 54.000 detenuti, di cui 48.000 provenienti da Odessa e 7.000 dalla Bessarabia. 5.000 di loro furono bruciati vivi nei fienili, mentre colonne di 300 e 400 persone furono abbandonate nella foresta vicina. Circa 30.000 persone vi morirono di stenti.
   Secondo la Commissione per l'Olocausto in Romania, istituita nel 2003 da Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace nel 1986 e scrittore romeno di origine ebraica, sopravvissuto ad Auschwitz, sotto la responsabilità romena furono uccisi circa 300.000 ebrei, 11.000 Rom, la maggior parte di loro nei campi di concentramento della Transnistria.
   Il 20 agosto 1944, l'Armata Rossa, forte di 90.000 soldati, avviò la grande offensiva Iaşi-Chişinau, riconquistando la Bessarabia in cinque giorni. Mentre le truppe sovietiche avanzavano in Romania, re Mihai destituì il generale Antonescu. Arrestato, il conducator fu fucilato a Bucarest il 26 maggio 1946.
   Con l'entrata dell'Armata Rossa a Bucarest, la Romania intraprese il percorso del quarantennio comunista. Il Comunismo scaricò le responsabilità dell'Olocausto romeno in Transnistria sugli invasori ungheresi e tedeschi, minimizzando il ruolo della Romania nel genocidio degli ebrei. Solo negli ultimi decenni, la Romania, grazie anche al contributo di Elie Wiesel, ha iniziato a riconciliarsi con il proprio passato, nei confronti degli ebrei e dell'Olocausto.
   Con la Commissione del 2003 il governo romeno ha assunto la responsabilità dell'Olocausto al di là del Nistro, ha riconosciuto il 9 ottobre come giornata della commemorazione e ha creato l'Istituto nazionale per lo studio dell'Olocausto in Romania. Passi importanti per estirpare il negazionismo, purtroppo, ancora radicato nella società politica del Paese.

(East Journal, 25 luglio 2016)


Il free-press filo-Netanyahu è il quotidiano più letto in Israele

Nel week-end, distribuite 550 mila copie

Israel ha-Yom, il free-press finanziato dall'uomo d'affari statunitense Sheldon Adelson a sostegno del premier Benyamin Netanyahu, continua ad avanzare e si conferma al primo posto fra i quotidiani piu' letti in Israele, seguito di misura dal tabloid indipendente Yediot Ahronot. Il venerdi', nell'edizione del week-end, Israel ha-Yom e' ora distribuito in 550 mila copie. Questi dati sono stati divulgati oggi dall'agenzia TGI che monitorizza la 'esposizione' degli israeliani alla stampa e agli altri media locali.
Partendo dal presupposto che gli israeliani prendano in mano piu' di un giornale al giorno, la 'esposizione' di Israel ha-Yom e' stata fissata nella prima meta' del 2016 al 39,7 per cento dei lettori della carta stampata, mentre quella di Yediot Ahronot (che pure viene distribuito gratuitamente nei principali mezzi di trasporto di massa) e' del 34,9 per cento.
I giornali di opinione sono seguiti da un pubblico ristretto: Haaretz ha una 'esposizione' del 3,9 per cento, Maariv del 3,6 per cento. Nella stampa economica il piu' letto e' Calcalist (allegato a Yediot Ahronot, con l'11,3 per cento) seguito da Marker (Haaretz, 5,4 per cento) e da Globes, con il 4,6 per cento.

(ANSAmed, 25 luglio 2016)


L'israeliana Elbit starebbe per acquisire aziende brasiliane per un valore di 50 milioni di dollari

GERUSALEMME - L'azienda produttrice di componenti elettroniche per la difesa israeliana Elbit Systems starebbe per acquistare alcune imprese della società brasiliana Odebrecht Defesa e Tecnologia per un valore complessivo di circa 50 milioni di dollari. Secondo quanto riferisce il quotidiano d'informazione economica israeliano "The Maker", le imprese che verranno acquisite da Elbit appartengono alla Mectron, sussidiaria della Odebrecht Defesa e Tecnologia, specializzata in prodotti ad alta tecnologia e sistemi di difesa per scopo civile e militare (dual-use). Mectron ha visto un calo del fatturato dopo che il governo brasiliano ha dimezzato la spesa per il programma nucleare sottomarino del paese. Il mercato dell'America Latina ha rappresentato l'11 per cento del fatturato di Elbit nel 2015, che si sta aggiudicando un numero crescente di contratti in Brasile, dopo la decisione del governo di spostare il fulcro della difesa all'ambito della sicurezza nazionale. Brasilia, infatti, intende garantire la sicurezza, in particolare, della regione amazzonica e dei giacimenti petroliferi offshore del paese. La notizia dei negoziati di Elbit per l'acquisizione di aziende brasiliane è stata confermata dalla Odebrecht, ma non ha ricevuto commenti da parte della società israeliana.

(Agenzia Nova, 25 luglio 2016)


In calo in Israele il numero dei migranti africani

Ma nei rioni poveri di Tel Aviv sale la tensione.

E' in calo in Israele il numero dei migranti africani entrati illegalmente nel Paese attraverso il Sinai: Dei 64 mila arrivati dal 2006 ne restano oggi 41.685, di cui quasi tre quarti eritrei e i rimanenti sudanesi. E' quanto emerge da un rapporto pubblicato di recente dal 'Centro di ricerca e di informazione' della Knesset (Parlamento) sulla base di informazioni talvolta lacunose, per il rifiuto di alcune strutture statali di rispondere alle domande ricevute.
   Il rapporto precisa che circa 3.000 migranti sono attualmente nel 'Centro di accoglienza' di Holot (Neghev), dove non possono svolgere alcun lavoro. Negli anni 2013-16 altri 13.600 hanno lasciato "di propria volontà Israele" (dopo aver ricevuto incentivi materiali) e si sono diretti per lo più verso altri Paesi africani, indicati dalla stampa locale in Ruanda ed Uganda.
   I ricercatori della Knesset non sono riusciti a stabilire con certezza quanti siano oggi i migranti africani che popolano cinque rioni poveri nel settore Sud di Tel Aviv. Le stime sono comprese fra 17mila e 30mila, inseriti in una popolazione complessiva di circa 30mila israeliani. In questi quartieri, secondo il rapporto, é iniziato un processo di 'emigrazione' e negli ultimi anni quasi 3.000 abitanti ebrei si sono trasferiti altrove.
   Il rapporto, presentato questa settimana al governo dal ministro degli interni Arye Deri (Shas), é stato accolto con clamore nei rioni poveri di Tel Aviv da attivisti israeliani contrari alla massiccia presenza dei migranti. In immagini diffuse sul web essi mostrano alcuni migranti africani inneggiare pubblicamente ad Adolf Hitler, per schernire gli israeliani.

(ANSAmed, 25 luglio 2016)


A proposito di Turchia. Cari Lerner e Boldrini, com'era quella barzelletta sull'islam moderato?

Quando cominceremo a capire che nella Turchia post colpo di Stato Recep Tayyip Erdogan sta semplicemente portando alle estreme conseguenze quella che rischia di essere una rivoluzione islamica del suo paese? La tesi di Soner Cagaptay che non piace all'internazionale dei Peter Pan.

di Claudio Cerasa

 
Soner Cagaptay è uno scienziato della politica con radici turche e americane, lavora come senior fellow al Washington Institute for Near East Policy, e qualche giorno fa ha scritto per il Wall Street Journal un articolo semplicemente perfetto su un aspetto cruciale legato al delicato destino della Turchia. Il senso del ragionamento è chiaro e lineare e suona più o meno così e non farà piacere all'internazionale dei Peter Pan dell'islamismo che vede da sempre in Turchia e non solo un modello gustoso e generoso di magnifico Islam moderato. In sintesi: cari amici, quando cominceremo a capire che nella Turchia post colpo di Stato Recep Tayyip Erdogan sta semplicemente portando alle estreme conseguenze quella che rischia di essere una rivoluzione islamica del suo paese? "La Turchia - ha scritto Cagaptay - è a un momento epocale della sua storia dopo il fallimento del colpo di Stato, ma come in tutti i momenti epocali adesso Ankara è davanti a un dilemma. Il presidente ha ottenuto nuova legittimità e guadagnato un nuovo alleato, l'impeto religioso nelle strade, e adesso potrà usare questo impeto per ottenere il potere esecutivo a cui anela oppure incoraggiare le forze religiose a prendere il controllo del paese, incoronando se stesso come leader islamico. Nella notte del colpo di Stato, mentre il coup era in corso, Erdogan - continua Cagaptay - ha fatto appello al sentimento religioso nel paese, spingendo i suoi sostenitori alla reazione. Su suo ordine, all'una e un quarto di notte i richiami alla preghiera hanno risuonato nelle 80 mila moschee della Turchia".
  l tentativo di Erdogan di spingere più in là la notte della Turchia, archiviando il laicismo di Atatürk, proietta il paese verso il suo momento 1979 e può permettere alla guida suprema della politica turca di realizzare una rivoluzione islamica non troppo diversa da quella messa in campo proprio nel 1979 in Iran. Nella notte del golpe in molti hanno notato che il governo turco, sullo stile dello Stato islamico, ha diffuso immagini di un soldato decapitato ma gli stessi che oggi si meravigliano della trasformazione della Turchia, delle purghe di Erdogan, della archiviazione del secolarismo, sono gli stessi che prima del golpe credevano che la deriva integralista di Erdogan fosse un fenomeno tutto sommato gestibile e accettabile, fingendo di non vedere le 17 mila moschee edificate nel giro di pochi anni ("Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati"), le donne turche nuovamente coperte con il velo, i muezzin nella vecchia basilica di Santa Sofia trasformata in passato da Atatürk in un simbolo della laicità del paese. Cagaptay conclude il suo buon ragionamento toccando la carne viva della grande contraddizione che vive all'interno della definizione di "islam moderato", notando che negli ultimi tempi l'Occidente ha scelto di investire forte su due paesi come la Turchia e come l'Iran in cui il processo di islamizzazione ha compresso e compromesso le libertà individuali e in cui le ambiguità con il terrorismo di matrice islamista hanno contribuito ad alimentare su vari fronti il terrorismo jihadista.
  Il problema è evidente, dunque, e riguarda uno dei grandi temi che andrà messo a fuoco anche per capire che mondo lascia Obama dopo otto anni alla Casa Bianca. È davvero un rischio accettabile lasciare il medio oriente nelle mani di un paese (l'Iran) che teorizza la necessaria cancellazione dalle mappe geografiche dell'unica democrazia matura della zona, ovvero Israele? È davvero un rischio accettabile non muovere un dito di fronte a un paese (come la Turchia) che potrebbe convertire la reazione religiosa al colpo di Stato in una controrivoluzione islamica, ponendo fine allo status della Turchia come democrazia secolare? È davvero un rischio accettabile non porsi nemmeno un interrogativo sull'opportunità che il paese guidato da Erdogan sia "indispensabile" per la Nato a prescindere dal suo progressivo "fanatismo religioso", come lo ha saggiamente definito su queste colonne Giorgio Napolitano? L'impotenza dell'Europa e delle società occidentali di fronte alle continue rivoluzioni islamiche dei due grandi pivot del medio oriente (l'Iran sciita, la Turchia sunnita) la si spiega non solo con la condizione di smarrimento vissuta dalle nostre società nell'epoca del disimpegno americano ma anche attraverso un'altra lente di ingrandimento (distorta) che è la stessa che non ci consente di mettere a fuoco il dramma del terrorismo jihadista. E quando ci copriamo gli occhi per non vedere la rivoluzione turca, quando ci copriamo gli occhi per non vedere il totalitarismo iraniano, quando ci copriamo gli occhi per non vedere la sharia applicata da stati amici come il Pakistan e la Turchia, quando ci copriamo gli occhi per non vedere la vera matrice del terrorismo che da mesi colpisce la libertà dell'Occidente, facciamo sempre la stessa cosa e ignoriamo sempre lo stesso problema, fischiettando spensierati per distrarci un po' e non pensare all'unica parola che andrebbe messa a fuoco quando si parla di Turchia, di Iran e di nuovi totalitarismi: l'islamismo.
  L'uomo occidentale - ha detto Rémi Brague, tra i più grandi medievisti viventi, professore emerito alla Sorbona e cattedra "Romano Guardini" a Monaco di Baviera, in un testo raccolto sul Foglio dal nostro Matteo Matzuzzi - è incapace di reagire perché non sa chiamare le cose con il loro nome, non sa definire il problema, non riesce a vederlo come dovrebbe e come potrebbe e non capisce che, per l'islamista, "la violenza è solo un mezzo che, come tale, prevede uno scopo: l'implementazione, a livello mondiale, di una legislazione che altro non è che una forma o l'altra di sharia, capace di decidere sulla moralità individuale, la famiglia, l'economia. Forse, anche per governare il sistema politico". Caro Gad Lerner e cara Laura Boldrini, scusate, com'era la barzelletta sull'Islam moderato?

(Il Foglio, 25 luglio 2016)


«Dopo tante primavere bidone, ora una vera rivoluzione. Non m'interessa neppure chi l'abbia innescata, quel che conta è che a quasi 100 anni da Atatürk la Turchia torna a essere una grande nazione musulmana di fatto e di diritto. Allah protegga nostro fratello Recep Tayyip Erdogan, e tutto il popolo turco».
Proprio questo ha detto Hamza Roberto Piccardo, membro fondatore dell'Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d'Italia) dopo il fallito colpo di stato in Turchia e il conseguente inizio della vendetta di Erdogan. Questo fa capire che i “musulmani moderati” come Piccardo sono persone che pazientemente e “moderatamente” lavorano per raggiungere l’obiettivo radiosamente raggiunto in Turchia: l’islamizzazione di fatto e di diritto della nazione in cui vivono, con conseguente abbattimento di legislazioni laiche come quella di Atatürk. Si atteggiano a “moderati” perché il loro compito adesso è soltanto quello di estendere l’islamizzazione di fatto, ma sono sempre in attesa di raggiungere l’obiettivo finale: "una nazione musulmana di fatto e di diritto", a quel punto se necessario anche con la violenza. Si può ritenere che non lo raggiungeranno mai, ma non saper riconoscere le loro intenzioni è grave anche per le scelte politiche immediate, perché non fa capire come ci si debba comportare di fronte alle loro richieste o pretese. M.C.


Lo schiavismo moderno e la paura che ci blocca

di Pierluigi Battista

ROMA - Avanza su Via Nazionale un omone corpulento, enorme. Ai polsi, attorno al collo, sulle dita di entrambe le mani sembra una semovente miniera d'oro massiccio: anelli, orologio, braccialetti, catenine e catenone. Guarda le vetrine distrattamente, camminando con affaticata lentezza, per non sfidare troppo la canicola romana. Dietro di lui un'ombra nera. Non possiamo sapere nulla del bipede infagottato in una tunica nera che avvolge tutto il corpo, la testa, il volto, gli occhi nascosti da un paio di occhiali da sole, ai piedi scarpe nere piatte, che possiamo solo intravvedere tra le pieghe del sudario che arrivano fino all'asfalto. Una donna, ecco. Totalmente cancellata come essere umano. Una figura invisibile che cammina a piccoli passi per star dietro all'omone che è il suo padrone, e che ostenta la sua arrogante indifferenza verso la nonpersona che lo segue come una schiava che nel nome del Corano deve solo obbedire, compiacere il suo tiranno. Magari è solo una bambina, chi lo sa. Non possiamo vedere nulla di lei, trattata e nascosta come un nulla. È la prima volta che ho visto una scena simile a Roma. L'avevo vista a Londra e a Vienna. Qui fa un po' più impressione, forse è l'effetto sorpresa. Mi domando però se dobbiamo farci l'abitudine, a questo triste spettacolo dello schiavismo moderno. Mi domando se il senso di repulsione che questa scena mi suscita sia il frutto di un pregiudizio «etnocentrico» o se non sia una forma di sano imbarazzo puramente umano. E se non ci si debba ribellare, nelle coscienze almeno, a questo sfoggio di umiliazione delle donne, a questa nullificazione di esseri umani che, sole e calpestate, non possono cambiare il loro destino.
   È un costume che va rispettato, per convivere pacificamente con l'Islam? A me sembra di no. Se noi vedessimo una donna, o un bambino, o un qualunque soggetto debole, trascinato con un guinzaglio al collo da un uomo prepotente non faremmo in modo di fermarlo? Non vorremmo veder finito quello spettacolo osceno e mortificante? Ci appelleremmo alla pluralità dei costumi, alla varietà vitale delle culture, alla diversità dei modelli sociali, al rispetto che si deve ad ogni fede? Quell'essere minuto senza corpo, senza volto, senza sguardo, senza sesso e genere sembra piuttosto la vittima designata della nostra ignavia e del nostro conformismo. Se potesse ribellarsi. Se noi le dessimo una mano a ribellarsi. Ma non vogliamo farlo, nascosti anche noi, sotto le nostre paure.

(Corriere della Sera, 25 luglio 2016)


"Auschwitz, non è umano chi ci gioca o lo permette"

Lo sconcerto delle presidenti delle Comunità israelitiche d'Italia e di Roma.

di Virginia Della Sala

Demenza digitale? Forse
Auschwitz non è solo un luogo sacro per gli ebrei. E il cimitero dell'umanità, è il pun to dove l'umanità ha incontrato il baratro e ha toccato il suo punto più basso. Anche solo pensare di poter giocare ad Auschwitz è inconcepibile".
A dirlo è Ruth Dureghello, presidentessa della Comunità ebraica di Roma riferendosi alla presenza, nel campo di sterminio, di 136 Pokemon, i mostriciattoli protagonisti del gioco a firma Niantec, Nintendo, Pokemon e Google, scaricato da oltre 30 milioni di utenti in tutto il mondo e diventato un fenomeno senza pari. "Anna Frank diceva di volere credere nell'intima bontà dell'uomo - spiega Dureghello - e lo stesso voglio fare anche io. Voglio credere che sia stata una svista, un errore, una superficialità".
Il tema comunque, è più complesso della decisione di permettere che ci siano Pokemon ad Auschwitz e nei luoghi della memoria: si allarga alla memoria e al suo rispetto. Se ci sono i mostriciattoli da catturare significa che c'è chi prova a catturarli. "Più che fenomeno di costume, la caccia globale ai Pokemon rischia di assumere i contorni di una vera e propria patologia. E un'ulteriore fonte che alimenta a gocce l'oceano della violenza - spiega al Fatto Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane-. Che umanità è quella che si mette alla ricerca dei mostriciattoli ad Auschwitz, nei luoghi dove si consumò il più grave crimine mai commesso dall'uomo contro l'uomo? E a quali codici etici e comportamentali risponde chi, tra i dirigenti della Nintendo, permette che tutto questo accada senza porre argini e filtri? Il gioco senza confini e la demenza digitale sono una minaccia molto grave, troppo spesso sottovalutata". Poi, il riferimento ai risvolti commerciali. "È ancora più grave che vi sia chi, sfruttando tutte le potenzialità - fragilità di queste fasce di consumatori, non si faccia scrupoli a violare luoghi e testimonianze che dovrebbero essere dedicati a ben altro tipo di attività. Alle autorità competenti, chiedo di intervenire con fermezza per porre fine a questo abominio, ai genitori che ancora possono decidere il destino dei loro figli chiedo nelle parole di Levi, di riflettere che questo è stato".
Appena qualche giorno fa, è stata chiusa la app "Campo di Auschwitz Online", dopo le proteste delle comunità ebraiche e degli utenti. Era stata creata dalla Trinit.es, scuola professionale spagnola con sede a Saragozza. Sulla home della app, la stella di David e l'immagine della ferrovia con fermata "Auschwitz concentration camp". Due soldati in divisa Wehrmacht e il messaggio: "Vivere come un vero ebreo nel campo di concentramento Auschwitz". Sul web, resiste la moria dei commenti lasciati sul negozio online di Google. Si va da "Le 5 stelle ve le do quando lo fate funzionare, ero più emozionato di Adolf all'inaugurazione dei campi" a "Il problema è che ogni 20 minuti trovo il forno pieno e devo entrare a togliere la cenere".
A giugno, poi, Google aveva dovuto rimuovere un'estensione del browser Chrome dal proprio shop online dopo aver scoperto che alcuni neonazisti lo usavano per identificare sul web persone di religione ebraica.

(il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2016)


Ebrei a Milano: prima la vita, poi la religione

Estratto del saggio di Rony Hamaui, "Ebrei a Milano. Due secoli di storia fra integrazione e discriminazioni", il Mulino 2016.

di Rony Hamaui

L'ebraismo milanese oggi conta oltre una quindicina di luoghi di culto frequentati più o meno regolarmente dai fedeli. Sinagoghe che soddisfano le più diverse esigenze religiose, rituali, etniche e culturali: si spazia dal rito italiano a quello ashkenazita o sefardita, dai templi che raccolgono persiani e siriani a quelli guidati dai Chabad o dai Reform. Tre sono invece le scuole ebraiche, che accolgono bambini e ragazzi dalla scuola materna ai licei, in cui l'offerta formativa è ricca e articolata sotto l'aspetto sia culturale sia religioso. Molti di più sono i centri di studio, i circoli culturali, le organizzazioni giovanili e le associazioni ebraiche, (...) che rendono il patrimonio socioculturale dell'ebraismo milanese ricchissimo, come mai lo era stato nei secoli precedenti. Ogni settimana la lista di conferenze, convegni e iniziative di vario genere a sfondo ebraico è quanto mai lunga.
   Un'indagine recente ha mostrato come gli ebrei milanesi, grazie a un maggiore e migliore accesso a strutture educative e culturali ebraiche, inclusi giornali e social media, hanno un livello di conoscenza e consapevolezza della loro condizione molto più elevato di quello in possesso delle generazioni passate. Particolarmente efficace sembra il sistema delle scuole ebraiche, dato che il numero dei frequentanti e degli anni trascorsi in esse è molto elevato, soprattutto tra i ragazzi del ceto medio. Questo non significa che gli ebrei milanesi siano particolarmente religiosi o praticanti, anche se negli ultimi anni l'osservanza ai precetti sembra essere aumentata soprattutto tra i giovani (il 36% si dichiara più osservante dei propri genitori, mentre solo il 28% meno osservante) e le differenze fra le diverse componenti dell'ebraismo milanese rimangono piuttosto marcate. Israele è diventato per la stragrande maggioranza un punto di riferimento e una componente imprescindibile dell'identità ebraica, seppure con marcate differenze di giudizio sull'operato dei suoi governi sulla laicità dello Stato. Diffusa è invece tra gli ebrei milanesi l'opinione che l'informazione relativa a Israele sia insufficiente e distorta e che le critiche allo Stato ebraico siano spesso eccessive, se non infondate.
   Questo forte senso di appartenenza all'ebraismo, peraltro, si sposa nella stragrande maggioranza dei casi con un forte senso di italianità e con un solido legame con la città nella quale vivono, che sempre più spesso corrisponde alla città nella quale sono nati. Quest'ultimo aspetto è una forte novità per la Milano ebraica, che, per la prima volta nella sua storia da oltre mezzo secolo, non accoglie forti correnti migratorie, ma, anzi, vede il numero delle partenze superare largamente il numero dei nuovi arrivi.
   Molto alta, soprattutto fra le nuove generazioni, è la percentuale di laureati, mentre il tasso di disoccupazione si mantiene relativamente basso nonostante la crisi. Ciò non vuol dire che negli ultimi anni non siano aumentate le sacche di povertà o di bisogno, ma queste sono contenute e soccorse da una rete di assistenza e solidarietà non solo familiare.

(ilsussidiario.net, 25 luglio 2016)


Israele: Exit per 3.32 miliardi di dollari

 
Il successo strepitoso del settore tecnologico israeliano è riconducibile ad una incredibile sinergia tra numerose grandi aziende americane e molti piccoli imprenditori israeliani.
Secondo un rapporto della IVC Research Center, che analizza e monitora l'industria high-tech israeliana, nel primo semestre del 2016 ci sono state 45 exit di startup israeliane per un valore di 3.32 miliardi di dollari.
Il rapporto stima che entro la fine del 2016 le exit raggiungeranno quota 100, per un ricavo totale di circa 7 miliardi di dollari.
Eric Schmidt, ex amministratore delegato di Google e ora Presidente di Alphabet, ha recentemente dichiarato in pubblico:
Per un paese relativamente piccolo, Israele ha un ruolo eccellente nel campo dell'innovazione tecnologica.
Come spiegato nel rapporto, nella prima metà del 2016 le più grandi occasioni hanno riguardato:
  • Acquisizione di EZchip da parte di Mellanox per 811 milioni di dollari;
  • Acquisizione di Xura per 643 milioni di dollari;
  • Acquisizione di Ravello da parte della Oracle per 430 milioni di dollari.
Queste prime tre offerte hanno rappresentato il 57% delle exit totali.
Lo Stato di Israele deve il suo successo nel settore high-tech, alla cultura delle exit. Il paese è piccolo ed ha bisogno di uscire dal proprio perimetro.
Moltissime aziende americane hanno compreso il ruolo strategico di Israele, infatti ci sono circa 350-400 centri di ricerca e sviluppo delle aziende più stimate al mondo. Il laboratorio israeliano di Intel dà lavoro a 10.000 persone, IBM 2.200 e HP 6.000.

(SiliconWadi, 25 luglio 2016)


Venezia - Confindustria guarda a Israele

Tempo di sinergia tra Venezia e Israele. Nei giorni scorsi, si apprende dall Nuova Venezia, si è svolto un incontro dall'esito positivo tra la Confindustria locale e l'ambasciata israeliana. Ora il calendario prevede una serie di incontri tra le imprese veneziane e alcune start up israeliane dei sttori arredo casa e interior design, vetro-illuminazione, agroalimentare, innovazione e turismo.
   «Bisogna puntare sull'innovazione per cogliere le opportunità di crescita», ha commentato il presidente di Confindustria Venezia, Matteo Zoppas (foto, dall'archivio), «auspico dunque che questo sia soltanto il primo passo per concretizzare iniziative congiunte nel segno del business fra le nostre aziende e quelle di un Paese considerato la patria delle start up e che, Cina e Stati Uniti a parte, ha il maggior numero di imprese quotate al Nasdaq». A fare da contorno all'iniziativa, le celebrazioni per i 500 anni del Ghetto di Venezia.

(VVox, 25 luglio 2016)


Chi vuole cambiare il rabbinato

di Rossella Tercatin

 
Una revisione, non una rivoluzione. E' quello che il presidente dell'Agenzia ebraica Nathan Sharansky chiede al Rabbinato centrale di Israele. Una revisione delle procedure, per fare sì che la massima istituzione religiosa del paese acquisti maggiore trasparenza e obiettività nei criteri con cui si rapporta alle altre autorità rabbiniche, e in particolare quelle che appartengono all'ebraismo Modern Orthodox, in Israele ma soprattutto della Diaspora. L'occasiione per lanciare il messaggio è stato un caso che ha suscitato grande interesse mediatico: il mancato riconoscimento, da parte del tribunale rabbinico della città di Petah Tikvah, cittadina a nord est di Tel Aviv, di una conversione effettuata da un noto rabbino newyorkese, Haskel Lookstein. Lo stesso che ha seguito e certificato il passaggio all'ebraismo di lvanka Trump, figlia del candidato repubblicano alla presidenza americana Donald.
   "Sono qui come capo dell'Agenzia ebraica per combattere una battaglia per rafforzare il rapporto tra Diaspora e Israele", ha dichiarato Sharansky partecipando alla dimostrazione organizzata per sostenere rav Lookstein davanti alla sede della Corte suprema rabbinica di Gerusalemme all'inizio di luglio."Mandiamo i nostri shlichim (emissari che l'Agenzia ebraica - ente governativo - invia presso le varie comunità nel mondo ndr) e giorno e notte spieghiamo co1ne gli ebrei della Diaspora debbano sentirsi orgogliosi del loro legame con Israele. E poi Israele arriva e dice "I vostri leader non sono i nostri leader, i vostri rabbini, persino i più sionisti di tutti, coloro che portano avanti la più stretta osservanza della Halakhah (la legge ebraica ndr), non sono i nostri rabbini, non li riconosciamo" Un problema che diventa particolarmente profondo nel caso della comunità statunitense, tradizionalmente uno dei pilastri del sostegno allo Stato sia in termini economici sia in termini politici. Che si fa ancora più complicato andando oltre il caso specifico di rav Lookstein, membro della Rabbinica! Council of America, la più importante associazione rabbinica ortodossa americana, e già guida dell'antica sinagoga Kehilathjeshurun di Manhattan, fondata proprio dalla famiglia di Lookstein nel 1872. La maggior parte degli ebrei d'America infatti non si riconosce nell'ebraismo ortodosso, ma in quello portato avanti da altre denominazioni, in particolare conservative e reform. In Israele esse non hanno formale riconoscimento. Il che comporta per esempio il non poter celebrare matrimoni validi. Nello Stato ebraico non esiste infatti la possibilità di sposarsi civilmente, ciascuno può rivolgersi alle strutture della propria confessione religiosa, ma per gli israeliani di religione ebraica l'istituzione in questione è necessariamente quella del Rabbinato centrale, ortodosso. Con alcuni nodi da non sottovalutare, persino per chi nell'ortodossia si riconosce: in particolare il fatto che la maggioranza dei suoi funzionari appartengono al mondo ebraico haredì. Un mondo che rappresenta circa il 10% dei cittadini israeliani, il cui stile e scelte di vita sono però separate da quelle del resto del paese da una profonda frattura, che si sta accentuando anche verso la comunità Modem Orthodox (o datì leumi, nazional-religiosa), come sottolineato dalle dure parole contro la decisione di Petach Tikvah pronunciate dal ministro dell'Istruzione Naftali Bennett, leader del partito nazional-religioso Habayt Hayehudì (La Casa ebraica).
   Anche se il caso di rav Lookstein può probabilmente considerarsi chiuso (il Rabbinato centrale ha infatti rilasciato un comunicato in cui si specificava corne i dubbi avanzati dalla corte di Petah Tikvah e reiterati nella decisione dell'istanza di appello riguardino solo la singola persona coinvolta, riconoscendo però in via generale,l'autorità del rabbino), il tema rimane quanto mai attuale: dal funzionamento della controversa piattaforma davanti al Kotel che dovrebbe garantire lo svolgimento di funzioni religiose ebraiche non ortodosse davanti al Muro che fu del Tempio di Gerusalemme, ai diversi tentativi di cancellare il monopolio del Rabbinato centrale in fatto di matrimonio e casherut, i fronti aperti sono tanti. Per trovare una soluzione che, come auspicato da Sharansky, aiuti a rafforzare il legame tra lo Stato d'Israele e gli ebrei. Quelli che vivono fuori, ma anche all'interno, dei suoi confini.

(Pagine Ebraiche, agosto 2016)


Isolamento d'Israele?

Nonostante i continui avvertimenti degli europei, Israele sta assistendo a una serie di sviluppi positivi nelle sue relazioni con il resto del mondo.

"Il Medio Oriente è nel caos, l'Europa si va sgretolando e la politica degli Stati Uniti è incerta a vacillante. L'unico punto solido è Israele". Me lo ha scritto la scorsa settimana un esperto di Medio Oriente assai addentro all'attuale processo decisionale americano in materia di politica estera. I fatti ci dicono che questa affermazione, sebbene un tantino esagerata, è tuttavia fondata nella realtà. La stabilità è un concetto relativo, naturalmente; ma ciò che questo esperto americano ha sottolineato è il fatto che, nonostante le tensioni pressoché costanti nel governo israeliano e nella coalizione che lo sostiene, Israele è stato capace di superare una sfida dopo l'altra, come appare evidente dalla fioritura delle sue relazioni con l'estero. La conferma più recente è stata la ripresa, dopo 49 anni, delle relazioni diplomatiche con la Guinea, una nazione africana musulmana, e la notizia di un possibile miglioramento dei rapporti ufficiosi con il Ciad, altro paese africano con popolazione a maggioranza musulmana e l'arabo come lingua ufficiale....

(israele.net, 25 luglio 2016)


L'estremismo islamico è una patologia

di Fiamma Nirenstein

Non è davvero un motivo di sollievo, come invece molti sembrano credere, che una delle molle della ferocia del terrorista di Monaco sia stata la depressione. Si sente argomentare in tv, alla radio, sui social che se si trattava un depresso sociale, la cui ansia e tristezza era legata alla condizione di un ragazzo di origine iraniana bistrattato dai compagni, oggetto di bullismo e di disprezzo, allora i motivi del suo gesto sono tutti personali, non risiedono nel generale movimento di odio antioccidentale di origine islamica, non fanno parte della ferocia tagliateste che ha il suo centro nell'Isis e che si sta diramando nelle nostre città.
Ma le cose sono molto più complicate: la depressione clinica di un terrorista è probabilmente, in forme varie, quasi sempre presente. Il terrorista depresso è probabilmente un fenomeno generalizzato. Inutile pensare che ci siano in giro solo dei poveri ragazzi sconvolti, che se trattati meglio non si daranno da fare con pistole e machete. Non diminuirà il terrore se ci porremo a salvaguardare l'onore dei nostri compagni di strada e dall'altra a mobilitare i presidi psicologici. Ambedue queste cose sono buone e giuste, ma non funzionerà. Tutti i terroristi, rispetto al nostro modo di intender la vita, sono degli squilibrati, anche se non sono passati per patologie riconosciute nelle ASL o in ospedale: chi vuole uccidere quanti più passanti e bambini con l'arma da fuoco, è matto quanto uno che pensa che sia cosa buona e giusta avventarsi con l'ascia sui passeggeri di un treno, o uno che spazza la passeggiata di Nizza con un camion, o uno che a Gerusalemme, a Bruxelles, a Parigi cerca di ammazzare della gente che non c'entra nulla con la sua «depressione» e la sua arrabbiatura.
   La sua mente pompata ideologicamente vacilla, e vacilla in massa, non soggettivamente, perché ha delle leadership religiose e sociali preda della sua medesima sindrome: vittimismo, senso di emarginazione, senso di impotenza e insieme, decisione a recuperare, a conquistare, a vincere una volta per tutte. Qualche volta ne abbiamo sofferto tutti, adesso è diventata una pazzia di massa che ha preso le armi, il dottore deve tenere presente anche il Califfo o l'Ayatollah.
   I terroristi islamici, anche se questo terrorista era un tipo a parte, sono nell'insieme dei personaggi patologici che si armano, si creano strutture mentali interne a un mondo che è in genere quello di un patologico estremismo islamico. Dunque, non c'è contraddizione fra depressione e ondata di terrorismo, effetto copycat specie nei ragazzi che appartengono al mondo islamico dell'immigrazione.

(La Stampa, 24 luglio 2016)


In viaggio in Israele per la Festa dell'Amore tra le antiche mura di Beit Guvrin

Dal 18 al 20 agosto, Israele festeggia l'antica ricorrenza del Tu BeAv, la festa dell'amore e della rinascita sotto gli influssi della luna piena. Le sue origini sono di una festa per il buon raccolto così come lo è il Sukkot che invece segna la fine della mietitura. Una festa della tradizione contadina che nel tempo si è trasformata in una sorta di San Valentino ebraico ma dalle connotazioni decisamente meno commerciali. L'usanza era di vestire di bianco e ballare nelle vigne con un possibile sposo. Nella Tel Aviv di oggi, meno rurale e più tecnologica, la festa si è trasformata in un calendario di appuntamenti di concerti delle top star israeliane che si tengono nel bassopiano della Giudea a Beit Guvrin, il suggestivo sito archeologico dichiarato patrimonio dell'Umanità formato da 3500 camere sotterranee ricavate nella roccia.

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Le occasioni di viaggio per la destinazione Tel Aviv hanno una motivazione forte anche per i vegani. La città israeliana è stata riconosciuta dai media americani Daily Meal e Condè Nast Traveller, come le migliori mete mondiali per i ristoranti vegetariani. Un primato che si sintetizza con un buon 10% di israeliani che hanno adottato questo stile alimentare, tanto che il prossimo 24 settembre la città ospiterà il Vegan Festival, per ora il più grande al mondo.

(PRIMAPRESS, 24 luglio 2016)


Italia, squadre di 007 negli obiettivi sensibili

Attentati fai-da-te, non solo militari ma anche intelligence in strada. Il modello Israele

di Valentino Di Giacomo

I controlli
Le principali città italiane da mesi sono presidiate da migliaia di militari
L'iniziativa
Cittadini chiamati a segnalare messaggi e video sospetti nel web
La Santa Sede
Dalla data di inizio del Giubileo Roma è blindata: controlli a tappeto

Nuove figure dell'anti-terrorismo per prevenire gli attacchi del jihad e la paura crescente che pervade anche il nostro Paese. Cambiano le modalità del terrorismo internazionale e dovrà necessariamente cambiare il meccanismo di difesa anche nel nostro Paese.Ne ha parlato diffusamente il sottosegretario con delega ai Servizi, Marco Minniti, nel corso dell'ultima riunione del Copaslr. La strage di Nizza è un caso-scuola di come il pericolo terroristico sia per certi versi ìmprevedibìle a causa della velocità con cui i soggetti riescono a radicalizzarsi al fondamentalismo islamico e di come questi individui siano capaci, in gruppo o attraverso azioni isolate, nel compiere attentati in qualsiasi luogo e con qualsiasi mezzo. Un'evidenza che imporrà al governo di rivedere per buona pane i meccanismi di contrasto e prevenzione utilizzati fino ad oggi dall'anti-terrortsmo. Non bisogna più soltanto fronteggiare l'lsis e le cellule jihadiste europee, ma confrontarsi con la sfida dei cosiddetti terroristi «fai-da-te» che riescono a compiere attentati. anche senza l'uso di anni, ma soltanto con un camion dei gelati proprio come è successo a Nizza.
  Si punta ad adottare il modello-Israele, cittadini costantemente in allerta, pronti a segnalare la prima valigia abbandonata o il personaggio sospetto che si aggira in luoghi pubblici, una sorta di mobilitazione permanente come risposta a una guerra «invisibile». Non è stato ancora stabilito se saranno create nuove unità specializzate per il contrasto di questo genere di azioni terroristiche. Saranno però certamente implementati attraverso nuovi strumenti, anche conoscitivi, le attuali unità dell'anti-terrorìsmo. Ogni misura è allo studio per tradurre a livello operativo le nuove sfide poste dal jihadismo internazionale. Non bastano più i militari armati nei luoghi strategici con i fucili puntati. Questo tipo di difesa - è stato rilevato - è un ottimo dispositivo dal punto di vista della deterrenza, ma non basta per prevenire o sventare attentati. Ecco perché i militari saranno affiancati da investigatori dell'intelligence o delle forze dell'ordine per cercare di istituire la figura di una «mente» operativa, un decisore, che possa indirizzare gli uomini in divisa sui pericoli che di volta in volta dovessero presentarsi.Negli aeroporti, nelle stazioni o nei pressi dei luoghi turistici ci saranno quindi dei detective che cercheranno di «fiutare» i pericoli prima che possano verificarsi. In caso di attentato - si è valutato - gli uomini armati possono certamente intervenire, ma quando ormai l'azione terroristica è già avvenuta. Gli investigatori saranno quindi utili nel difficile compito di comprendere per tempo la possibilità di un attacco imminente e dislocare sul posto gli uomini per bloccare sul nascere qualsiasi tentativo terroristico.
  Così come cambia la risposta operativa sul campo, dovrà mutare anche la strategia di prevenzione della radicalizzazione islamica. Per questo Minniti ha proposto di istituire una commissione di saggi a cui sarà affidato il compito di studiare le modalità con cui determinati soggetti possono cedere alla fascinazione del Califfato. Come ha accennato anche Renzi ieri all'assemblea del Pd, sarà una commissione di esperti, senza politici, che si occuperà di studiare il fenomeno della radicalizzazione e varare strumenti adeguati di prevenzione sia nell'immediato chenellungo pertodo. In particolar modo i saggi dovranno esaminare soprattutto le dinamiche con cui i soggetti sul nostro territorio nazionale possono entrare in contatto attraverso il web con i dettami dell'Isis. L'intelligence italiana è già massicciamente al lavoro per captare sul web, sulle chate sulle app di messaggistica ogni comunicazione sensibile. Un materiale che non sarà più soltanto analizzato per prevenire gli attentati, ma che sarà anche studiato per comprendere al meglio le dinamiche con cui ragazzini sempre più giovani sono indottrinati al jihadismo e alla guerra santa. Più di rutto a creare timori è il fenomeno dell'emulazione da parte di giovanissimi che vivono il Jihad come una sorta di gioco di cui rendersi protagonisti. Soggetti fragili psicologicamente e alienati che decidono di agire senza prima parlarne con nessuno e questo rende impossibile per l' intelligence riuscire a captare qualsiasi forma di comunicazione e quindi prevenire possibili attentati.

(Il Mattino, 24 luglio 2016)


Giudeofobia, islamofobia, omofobia

di Marcello Cicchese

Da un po' di tempo è invalsa l'abitudine giornalistica di usare il suffisso "fobia" fuori dal contesto puramente medico, soprattutto in riferimento a due chiassose presenze sociali che oggi reclamano pubblica attenzione: islam e omosessualità. Islamofobia, omofobia, da dove viene il successo giornalistico di queste due parole? Entrambe sono usate soprattutto da islamici e omosessuali in un atteggiamento di difesa-attacco: "Non osate parlare male di noi, altrimenti vi indichiamo come soggetti psicologicamente tarati, bisognosi di cure mediche e pericolosi per la salute pubblica", sembrano dire i sostenitori dei due movimenti. Un risultato indubbiamente lo ottengono: quello di intimidire chi "osa" mettere in discussione l'ideologia che li sostiene. Davanti a discorsi su islam e omosessualità si hanno infatti reazioni dello stesso tipo: da noi in Italia la grande maggioranza dei cittadini è quasi sicuramente contraria all'estensione sia dell'islamismo sia dell'omosessualità dichiarata, e soprattutto alla loro presa di possesso di strumenti legislativi, ma molti esitano a pronunciarsi in modo chiaro e pubblico per timore di essere irrisi oggi come islamofobi o omofobi, e domani forse denunciati. Si dice a qualcuno che è islamofobo non tanto per indicare che ha paura dell'islam, quanto per provocare in lui la paura di dire qualcosa contro l'islam. Insomma, se la paura prima non ce l'aveva, adesso gli deve venire. La stessa cosa avviene con l'omosessualità, ma con la differenza che mentre con l'islam qualche paura prima ci poteva effettivamente essere, per quel che riguarda l'omosessualità più che di paura sarebbe più appropriato parlare di disgusto.

 Giudeofobia
  C'è però anche un altro motivo a cui attribuire forse il successo di questo suffisso: l'affinità con un termine di suono simile, ma di storia più antica e di maggiore aderenza ai fatti, oltre che di un uso più onesto da parte di chi l'ha introdotto: "giudeofobia".
Sembra che il primo ad usare questo termine in senso traslato sia stato il medico ebreo di Odessa Leon Pinsker nel suo pamphlet "Autoemancipazione". In questo libro Pinsker caldeggia la riconquista di un'esistenza nazionale indipendente per gli ebrei, dando per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che era arrivato il momento di riaverla. La malattia della nazione ebraica - dice Pinsker - sta nel fatto che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, mentre non ha perso la sua parte "spirituale", cioè l'elemento vitale unitario che l'ha tenuta in vita per tanti secoli. Senza terra e senza sovranità la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell'impossibilità di disgregarsi e disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo ha continuato a mantenere nei secoli la sua unità "spirituale", nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.
    «Questa apparizione spettrale, questa figura d'un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
    La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
    Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di 'demonopatia': ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
    La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile». (Leon Pinsker, Autoemancipazione).
Pinsker dunque usa il termine "giudeofobia" non come un'accusa da scagliare contro i non ebrei, ma piuttosto come una spiegazione parzialmente giustificativa di un loro comprensibile timore davanti all'apparizione di uno spettro appartenente a una nazione che non ha più corpo. Per togliere questa paura, la cosa migliore sarebbe stata dare a questo spettro un corpo, cioè una terra e una sovranità per la nazione ebraica.
La terra è stata ottenuta, e la sovranità anche, sia pure tra infinite difficoltà, ma la pace per gli ebrei non è arrivata. L'evanescente paura degli spettri si è trasformata molto presto in un concretissimo odio per gli uomini in carne e ossa.
Dunque il termine "giudeofobia", almeno nel senso usato da Pinsker, oggi non è più appropriato ad esprimere l'odio antiebraico che ha preso la "forma nobile" di un antisionismo di facciata.

 Islamofobia
  Quanto all'islamofobia, ebbene sì: la paura potrebbe essere più che giustificata, perché l'islam non è uno spettro che turba i sonni nella notte, ma un'ideologia molto concreta che ha come programma di sottomettere tutti i cittadini del mondo, con le buone o con le cattive. E i fatti che continuano ad avvenire nel mondo fanno vedere che ci sono islamici davvero desiderosi di essere fedeli all'islam; fedeli al punto da sentire l'obbligo di sgozzare, se necessario, chi non vuole sottomettersi. Perché non dovrebbe esserci negli altri una comprensibile paura? Non spetta dunque agli islamici gridare all'islamofobo, perché l'esistenza dell'islamofobia dovrebbe essere un problema loro, non degli altri. Se fanno bene i non islamici a dirsi: "Non facciamoci dominare dalla paura", sono però gli islamici che dovrebbero chiedersi: "Ma perché noi facciamo paura?" Pinsker esortava i suoi fratelli ebrei a lavorare per la formazione di una nazione ebraica al fine di guarire gli altri dalla loro "giudeofobia", sperando così di avere pace con loro e anche per loro. Non sembra essere questa la preoccupazione principale degli islamici.

 Omofobia
  Quanto all'omofobia, è un neologismo introdotto in modo puramente strumentale per ingiuriare e intimorire chi non manifesta consenso all'ideologia omofiliaca nelle sue varie forme: omosessualità, bisessualità, transgender e altro. La paura qui non c'entra niente. Il rifiuto di questo modo di pensare, vivere e fare pressioni sulla società ha diversi motivi che possono essere non condivisi, ma che sono comunque tutti validi. Il motivo può essere:
  • Emotivo - Senso di repulsione davanti a sfacciate e "fiere" esposizioni in pubblico di effusioni omosessuali.
  • Politico - Convinzione che l'accettazione legalmente riconosciuta dell'omosessualità sia un elemento di grave disgregazione della società, il che implica che tutti devono avere il diritto di esprimere la propria netta opposizione senza ricevere epiteti ingiuriosi e intimidatori.
  • Religioso - Fede in un Dio che ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza ("li creò maschio e femmina", Genesi 1:27), e conseguente convinzione che rapporti come quelli propugnati dal movimento omofilo sono in aperta ribellione a Dio, e che ad essi dunque è doveroso opporre decisa resistenza, non con la lapidazione o il pugnale come fanno gli islamici, ma con una parola ferma e chiara, oltre che con l'esempio.
Quest'ultimo punto pone un collegamento con il sostegno ad Israele che si vuol dare in questo sito. Purtroppo lo Stato ebraico si è spinto così avanti nell'approvazione e nella pratica di depravati costumi sessuali occidentali da arrivare al punto di vantarsi del primato raggiunto nella loro omologazione giuridica. E' un fatto grave, un'emblematica scelta di indipendenza da quel Dio da cui in ultima analisi proviene il suo fondamentale diritto a vivere e governare su quella terra. Questo diritto non gli sarà tolto, ma è certo che di questo e di altro ancora dovrà un giorno rendere conto al Signore.
E dovranno renderne conto anche tutti coloro che proprio su questo punto lodano e appoggiano Israele.

(Notizie su Israele, 24 luglio 2016)



Un capolavoro del diavolo
Essere riuscito a fare in modo
che il mondo considerasse Tel Aviv
come capitale degli omosessuali
e nello stesso tempo scegliesse Tel Aviv
come capitale d'Israele al posto di Gerusalemme
è un capolavoro del diavolo.

 


Il presidente cipriota Anastasiades domani in Israele

Focus su sfruttamento di risorse in zona economica esclusiva

NICOSIA, 23 lug - Gli ultimi sviluppi nel settore energetico, in particolare per quanto riguarda il terzo round di concessioni per lo sfruttamento delle risorse nella Zona economica esclusiva (Zee) di Cipro. E' questo il tema principale al centro della visita del presidente cipriota Nicos Anastasiades in Israele, in programma domani. Ad accompagnare il presidente anche il ministro dell'Energia Yiorgos Lakkotrypis, che ha confermato davanti ai giornalisti a Larnaca che lo scopo della visita è quello di discutere degli ultimi sviluppi nel settore energetico alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte per i nuovi blocchi nelle acque cipriote. Dall'altra parte il ministro dell'Energia cipriota ha evidenziato che un gasdotto per le acque territoriali di Cipro non è un progetto realizzabile senza arrivare prima ad una risoluzione della questione della divisione di Cipro.

(Agenzia Nova, 23 luglio 2016)


Israele, un generale saudita in visita per rilanciare il processo di pace

Un altro segno della collaborazione fra i due Paesi, ufficialmente ancora senza relazioni diplomatiche.

di Giordano Stabile

Il generale saudita Anwar Eshki
BEIRUT - Un generale saudita in pensione, ma ancora molto influente, ha visitato Israele, nonostante fra i due Paesi non ci siano ancora relazioni diplomatiche, in una missione volta a rilanciare il piano di pace di Riad del 2002 per un accordo fra lo Stato ebraico e i palestinesi.

 L'incontro con Dore Gold
  La visita del generale Anwar Eshki si è svolta la scorsa settimana, con incontri con il direttore generale del ministero degli Esteri Dore Gold e il coordinatore delle attività nei Territori palestinesi, generale Yoav Mordechai. Eshki, che ora dirige un think tank a Riad, guidava una delegazione di accademici e imprenditori sauditi. Ha incontrato anche parlamentari della Knesset per incoraggiare il dialogo in Israele sulla Iniziativa araba di pace, come è stato ribattezzato il piano saudita.
Eshki ha avuto incarichi di massimo livello nello Stato maggiore saudita e al ministero degli Esteri. Anche se la sua posizione ufficiale nel governo di Riad non è chiara, i suoi rapporti con la casa regnante sono molto stretti. La visita non era ufficiale ma è stata di sicuro autorizzata dal governo di Riad.

 Incontri accademici
  Eshki e Gold si erano già incontrati pubblicamente nel giugno 2015 in un centro di ricerche di Washington e svariate altre volte in occasioni di convegni accademici sulle guerre arabo-israeliane. In seguito Gold aveva assunto l'incarico di direttore generale del ministero degli Esteri.
Il generale Eshki e la sua delegazione hanno anche incontrato il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen e altri ministri del governo di Ramallah. Gli incontri con i rappresentanti israeliani non si sono tenuti in uffici governativi ma all'hotel King David di Gerusalemme.

 Mediazione assieme all'Egitto
  Il generale ha anche incontrato delegati dell'opposizione alla Knesset, come Michal Rozin del partito Meretz e Ksenia Svetlova e Omer Bar-Lev dell'Unione sionista. Un altro incontro è stato con il presidente di Yesh Atid Yair Lapid. Tutti gli incontri, come hanno rivelato alcuni parlamentari al quotidiano "Haaretz", avevano come obiettivo il rilancio dei colloqui di pace, fermi da due anni. L'Arabia saudita ha assunto un ruolo di mediatore negli ultimi mesi in tandem con l'Egitto e ha anche cercato di organizzare un incontro fra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e Abu Mazen al Cairo.

 Regno dell'odio
  Il generale Eshki, nell'incontro con i parlamentari, ha anche raccontato dei suoi rapporti con Gold, che dieci anni fa aveva scritto un libro anti-sauditi, intitolato "Il regno dell'odio". Gold si è scusato per le sua accuse contro i sauditi e ha ammesso di aver scritto cose sbagliate. Il suo obiettivo ora è "rafforzare le relazioni fra i due Paesi".

(La Stampa, 23 luglio 2016)


Hijab e sneakers: il girl power delle A-Wa

di Giorgia Furlan

 
Si scrive A-Wa, si pronuncia Ay-Wa e in slang arabo significa "sì". Ma soprattutto A-Wa è il nome del trio composto da tre sorelle ebree yemenite, Tair, Liron e Tagel Haim (rispettivamente 32, 30 e 26 anni), che con i loro ritmi arab folk e hip hop riempiono i club di Tel Aviv e fanno ballare migliaia di ragazzi nei vari festival del globo. Hijab e djellaba ricamati da vere regine del deserto, tute hip-hop con motivi optical e sneakers, si presentano così le A-Wa ai loro concerti. E ad ascoltarle ci sono folle altrettanto composite per stili, gusti estetici e provenienze. Hipster, famiglie con bambini, giovani, vecchi, polacchi, francesi, israeliani, marocchini, non ha molto importanza chi tu sia e da dove tu venga. L'unica cosa che conta è che ti piaccia la musica.
  E il métissage che carattarizza le A-Wa ha conquistato anche i media internazionali. Magazine e quotidiani francesi come Le Monde hanno già pubblicato recensioni entusiastiche del primo singolo "Habib Galbi" (quasi 4milioni di visualizzazioni su YouTube), mentre, dall'altra parte dell'Oceano, Rolling Stones Usa le ha indicate fra i dieci artisti da conoscere e tenere d'occhio. Un ottimo risultato per essere solo il primo album. 12 tracce - oltre ad "Habib Galbi" che dà il nome all'intero disco e a due remix di P.A.F.F e Kore - che Tair, Liron e Tagel hanno recuperato dai canti della tradizione yemenita e contaminato con sonorità elettroniche, dance e ritmi hip hop. Un viaggio sonoro e culturale che presto farà tappa anche in Italia, all'Ariano Folkfestival, dove le A-Wa si esibiranno il 19 agosto nell'unica data italiana del loro tour europeo estivo realizzata in collaborazione con FramEvolution - World Music Management.
  Che Tair, Liron e Tagel siano israeliane di origini yemenite e cantino in un dialetto arabo, è molto più di una scelta artistica. La loro identità è il frutto 50 anni di cambiamenti storici. Tra il 1949 e il 1950, infatti, dopo la nascita di Israele, ci fu una massiccia immigrazione di ebrei dai Paesi arabi. Più di 200mila persone provenienti dal Marocco, dall'Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia, dall'Egitto, dal Libano, dall'Iraq, dalla Siria e dallo Yemen lasciarono le loro case per trasferirsi nel nuovo Stato. Di queste circa 50mila erano ebrei yemeniti arrivati in Palestina per via aerea grazie a un'operazione denominata Tappeto Volante. I loro antenati avevano vissuto nelle lande meridionali della penisola arabica per circa duemila anni, e molti di loro, provenendo da comunità poverissime, prima di quel momento non avevano mai visto un aeroplano.
- Dallo Yemen a Tel Aviv. Ci raccontate qualcosa di voi e della vostra famiglia?
  Tutto inizia nel 1949 quando i nostri nonni emigrarono dallo Yemen e si trasferirono in Israele. Per la precisione a Gedera, una città nella zona centrale del nuovo Stato. Ebbero dieci figli, uno dei quali era nostro padre. Noi invece siamo cresciute in un piccolo villaggio della Valle di Arava chiamato Shaharut, nel sud di Israele, non troppo lontano dal confine egiziano. Shaharut è un posto bellissimo, magico, vivevamo circondate da animali, cavalli, cammelli, polli, anatre. La nostra infanzia nel deserto è stata meravigliosa…

(Left.it, 23 luglio 2016)


Sulle purghe islamiste, i nostri baroni restano silenti
     Articolo OTTIMO!


Ipocriti professori occidentali: boicottano Israele e tacciono sulla purga accademica in Turchia.

di Giulio Meotti

ROMA - 59.628 professori cui è stata ritirata la licenza di insegnamento. 1.577 rettori universitari costretti alle dimissioni. Un clima di persecuzione, delazione e sospetto nelle aule universitarie, nelle scuole, al ministero dell'Istruzione. E' la grande purga accademica che il presidente turco Recep Erdogan ha lanciato dopo il fallito golpe. Numeri, scrive Newsweek, che ricordano le purghe accademiche in Urss. Alla luce di questa aggressione alla libertà intellettuale in Turchia, uno si aspetterebbe che le legioni accademiche occidentali siano in fermento per dimostrare solidarietà ai colleghi turchi assediati. Eppure, campioni della libertà che hanno abbracciato il "Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni" contro Israele, come l'American Anthropological Association o l'American Studies Association, non trovano il tempo di lanciare campagne contro la purga turca, indegna anche di un sopracciglio di sussiego. In Inghilterra, la National Association of Teachers in Further and Higher Education e la Association of University Teachers, che hanno adottato il boicottaggio di Israele, non hanno parlato di Turchia. Stesso silenzio dalla US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel, cui hanno aderito cinquecento professori americani. Silenti i trecento accademici italiani che hanno promosso il boicottaggio israeliano.
  Tutta l'ira va riservata all'unica democrazia del medio oriente, quell'Israele dove la libertà accademica vale anche per i più acerrimi critici dello stato ebraico. "Ehi, professori amanti del Bds, perché siete così quieti sull'assalto accademico in Turchia?", si domandava ieri la rivista americana Tablet. Una doppia morale emersa già dalle parole di Curtis Marez, il presidente della American Studies Association. Quando gli è stato chiesto il motivo per cui la sua organizzazione stesse attaccando soltanto Israele e non, per esempio, la Cina o l'Arabia Saudita o la Turchia, Marez aveva risposto: "Uno deve cominciare da qualche parte". Il docente ha iniziato sì da qualche parte (Israele), ma si è fermato lì. Il presidente della American Studies Association aveva detto anche che il boicottaggio di Israele "è il modo migliore per proteggere ed espandere la libertà accademica e l'accesso all'istruzione". Questo non vale per i 59.628 insegnanti turchi.
  Gli amici del boicottaggio avrebbero la possibilità di dimostrare che non sono gli utili idioti del rifiuto arabo-islamico. Avrebbero l'occasione per dire no all'occupazione turca di Cipro e alla discriminazione turca contro i curdi che, a differenza dei palestinesi, non hanno autonomia, governo, parlamento, tribunali, polizia, scuole. Avrebbero l'occasione di rifiutare di consumare le delizie della cucina turca: la causa lo richiede. La loro campagna potrebbe penalizzare i poveri turchi, come ha fatto il Bdscon i palestinesi. Ma questo è un piccolo prezzo da pagare.
  Oltre all'odio unidirezionale nei confronti di Israele, un'altra possibile spiegazione sulla mancata solidarietà accademica ai colleghi turchi può essere il coinvolgimento della Turchia nel boicottaggio di Gerusalemme. Sono ben 111 le università in Turchia che si sono allineate con il boicottaggio di Israele su ordine stesso di Erdogan e 87 rettori turchi hanno interrotto le relazioni con i colleghi israeliani. Un barone accademico di Londra o New York potrebbe mai andare contro il proprio protettore? Sarebbe chiedere troppo per la loro ipocrisia. Come quella sfoggiata dall'Unione europea che, stando a un rapporto rivelato dalla Stampa, in un documento secretato addossa a Israele la colpa della Terza Intifada. D'altronde, uno deve iniziare "da qualche parte". E da dove se non dagli ebrei?

(Il Foglio, 23 luglio 2016)


«I grillini deformano la realtà di quel che avviene a Gaza per pregiudizio e ignoranza»

L'ambasciatore israeliano Gilon: rigurgiti antisemiti. "D'Alema ossessionato da noi, Renzi è un grande amico"

di Francesca Schianchi

Il MSS al governo riconoscerebbe subito la Palestina? Siamo in disac- cordo: prima servono negoziati È già capitato che chi era molto critico con noi all'opposizione, al governo abbia cambiato idea

 
ROMA - «Italia e Israele condividono il Mediterraneo, che non è solo un mare ma anche una cultura. Ho lavorato qui con tre governi, con tutti abbiamo avuto ottimi rapporti». Arrivato a fine mandato, alla vigilia della sua partenza da Roma, l'ambasciatore israeliano Naor Gilon fa un bilancio dei suoi quattro anni nel nostro Paese.

- Qua e là in Europa si assiste ancora oggi a rigurgiti di antisemitismo. In Italia che situazione ha trovato?
  
«Nonostante tutti i governi si siano sempre espressi in modo forte e chiaro contro l'antisemitismo, qualche elemento ancora c'è anche in Italia: come ha detto l'ex presidente Napolitano, si tratta di un tipo nuovo, che si definisce anti-sionismo, contrario alla politica di Israele, ma in realtà è spesso basato sull'antisemitismo».

- A cosa pensa?
  
«Ad esempio c'è un giornale italiano, Il Fatto quotidiano, che propone spesso teorie della cospirazione e usa i rapporti con Israele come elemento per attaccare i politici, come se Israele fosse il male assoluto e il Mossad ancora di più. Ci sono anche politici italiani che parlano la stessa lingua».

- Chi?
  
«E' chiaro a tutti chi considera l'unica democrazia del Medio Oriente come il male assoluto, usandola a fini di politica interna».

- Lei ha avuto polemiche con Massimo D'Alema.
  
«Per me chi rappresenta il Pd è il suo segretario, Matteo Renzi, che è un grande amico di Israele».

- Ma qual è il problema con D'Alema? E' troppo critico con Israele?
  
«Deve chiedere a D'Alema della sua ossessione per Israele».

- Che rapporti ha avuto in questi anni con le forze politiche italiane?
  
«Ottimi, con tutti i partiti. Abbiamo appena inaugurato l'Associazione di amicizia interparlamentare Italia-Israele, a cui hanno già aderito circa 150 onorevoli. Di tutti i partiti tranne uno».

- Quale?
  
«Il Movimento Cinque Stelle».

- Ha conosciuto qualcuno dei suoi esponenti?
  
«Il mio staff ha incontrato Di Maio, e io alcuni parlamentari della Commissione Esteri come Di Stefano e Di Battista».

- Come li ha trovati rispetto a Israele?
  
«Ho avuto l'impressione che in parte siano animati da pregiudizi, e in parte ci sia un'ignoranza della realtà. Da lì è nata l'idea di una visita a Israele».

- Una delegazione M5S ha fatto questa visita la settimana scorsa: ma si sono lamentati perché non li avete lasciati entrare a Gaza.
  
«Non dovevano sorprendersi: già qualche giorno prima li avevamo avvertiti via mail. Hanno avuto molti incontri, seri e importanti: mi dispiace che abbiano scelto di fare uscire sulla stampa italiana la parte negativa più di quella del dialogo».

- Non avete dato il permesso perché, avete spiegato, Gaza è controllata da Hamas, «organizzazione terroristica ostile a Israele». Di Stefano sottolinea però che Hamas ha vinto libere elezioni.
  «Sì, ma meno di due anni dopo ha preso il controllo della zona con la violenza contro il governo legittimo di Abu Mazen. Mi ha sorpreso per esempio anche che chiedano di ritirarci dal Golan».

- Perché? Anche la Ue non riconosce le alture del Golan come israeliane ...
  
«Nella parte siriana del Golan c'è Isis che ammazza i dissidenti e quelli che si oppongono. Vogliamo rischiare che i terroristi controllino anche la parte del Golan israeliano?».

- Di Maio ha annunciato che, se vincerà il M5S, riconosceranno la Palestina. Sarebbe un problema per voi?
  
«Tutti i governi israeliani dagli accordi di Oslo in poi hanno accettato il principio di due popoli e due Stati. Ma ci si può arrivare solo attraverso negoziati diretti tra Israele e l'Autorità palestinese: se creiamo un Paese debole, rischia di diventare un covo di Daesh. Creare un altro Paese instabile sarebbe un problema per il mondo intero, e per Israele un vero suicidio».

- L'M5S dice riconoscimento senza condizioni. Siete in pieno disaccordo?
  
«Sicuramente sì. Il riconoscimento deve avvenire dopo un processo e dopo che i palestinesi hanno mostrato la loro capacità di controllare il Paese».

- La preoccupa che l'M5S possa andare al governo?
  
«No, noi lavoriamo con tutti tranne con gli antisemiti. E abbiamo esempi in altri Paesi di persone molto critiche con Israele all'opposizione, che al governo hanno cambiato idea, come Syriza in Grecia. Come recita un detto israeliano, le cose che si vedono da una posizione, si vedono diversamente da un'altra».

(La Stampa, 23 luglio 2016)


Hamas apre i suoi tunnel al turismo in Palestina

Quelli del gruppo palestinese sono tra i più avanzati. E ora sono visitabili dal pubblico.

Tunnel e gallerie sotterranee sono sempre state una costante di ogni conflitto. Come abbiamo ricordato in un nostro servizio, la loro importanza in alcuni dei più caldi teatri della regione del Mediterraneo non è da sottovalutare, ma è da inquadrare in un più ampio mutamento del fenomeno bellico che assegna ormai un ampio peso al campo di battaglia urbano. L''impiego dei tunnel nei teatri bellici può avere uno scopo dichiaratamente offensivo, ma i tunnel possono avere anche una grande funzione difensiva e logistica.
Uno dei gruppi che più si è distinto nell'uso di queste cavità è sicuramente Hamas, i cui tunnel sono strutturalmente molto più avanzati e constano di ampi spazi, lavori di muratura e simili che richiedono soldi, lavoro e conoscenze specifiche. E oggi in Palestina è anche possibile visitarli. Infatti il ramo militare di Hamas, Iz ad-Din al-Qassam, ha aperto una mostra nel quartiere Shuja'iyya di Gaza per celebrare l'anniversario dei due anni dall'ultimo conflitto armato con Israele. Come parte della mostra, Hamas ha aperto una delle sue gallerie per il turismo. Un qualcosa di inusuale ma che ha attirato centinaia di palestinesi e non solo.

(L’Indro, 22 luglio 2016)


Le frange del talled e il concerto dei Klezroym: Sorgente di Vita, 24 luglio Rai2

"Una piccola azienda veneta, una delle tante eccellenze del made in Italy, ricava dai bozzoli di seta, le frange del 'talled', il manto rituale ebraico. Si apre così la puntata di 'Sorgente di Vita', in onda domenica 24 luglio su Rai2", diffonde in una nota la tv di Stato.

"Una piccola azienda veneta, una delle tante eccellenze del Made in Italy, ricava dai bozzoli di seta, le frange del 'talled', il manto rituale ebraico. La filanda collabora con il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, e rinnova l'antica tradizione italiana della filatura della seta, per uso religioso ebraico" viene scritto in un comunicato dalla tv di Stato.
"Si apre così la puntata di 'Sorgente di Vita', in onda domenica 24 luglio alle 24.50 su Rai2. Si cercherà poi di scoprire cosa si nasconde dietro la storia del dirottamento del volo Tel Aviv- Parigi verso l'aeroporto di Entebbe in Uganda: nel 1976 un gruppo di terroristi del Fronte Popolare della Liberazione della Palestina, prese in ostaggio i passeggeri del volo" si prosegue.
"Doron Almog, paracadutista del reparto speciale dell'aviazione israeliana, racconta come riuscì a liberare gli ostaggi grazie a una straordinaria operazione di salvataggio. Infine il gruppo dei Klezroym, storica band romana, in concerto a Firenze nei giardini della sinagoga, che eseguono delle canzoni in ladino, tramandate dagli ebrei provenienti dalla Spagna, fino alla musica klezmer, tipica dei villaggi dell'Europa dell'est" specifica infine la Rai.

(Mainfatti, 22 luglio 2016)


«Come ebrei difendiamo la libertà di culto, ma per gli ignoranti non c'è spazio»

Dopo le parole dell'esponente del Caim

 
                                               Milo Hasbani                                                                                          Hamza Roberto Piccardo
MILANO - "Quelle parole denotano l'ignoranza di chi le ha scritte". Così Milo Hasbani, presidente assieme a Raffaele Besso della Comunità ebraica di Milano, sulle dichiarazioni dell'esponente del Caim Hamza Roberto Piccardo. Quest'ultimo nelle scorse ore ha pubblicato sui social network un post in cui inneggiava alle recenti azioni del presidente turco Recep Erdogan, protagonista di una feroce campagna di epurazioni interna (oltre 60mila persone incarcerate o allontanate - dai giudici agli insegnanti) dopo il fallito golpe della scorsa settimana. Per Piccardo "il partito AKP [il partito di Erdogan, ndr] che ha tra il 48 e il 52% dei consensi (insieme agli altri partiti) ha sconfitto un tumore interno al Paese e allo Stato. Un tumore originato da una sudditanza imperialista e sionista che aveva prodotto le sue metastasi nei corpi separati dello Stato".
  "Non mi pronuncio nello specifico sulla situazione turca ma queste esternazioni dimostrano già di per sé l'ignoranza di chi le ha scritte", afferma Hasbani, la cui moglie ha una parte della famiglia in Turchia. "Sono molto preoccupati di quanto sta accadendo. La Comunità ebraica lì è molto integrata e la virata verso il radicalismo islamico dei vertici li spaventa". "La loro vita in ogni caso è lì. Per loro andare via dalla Turchia è impensabile", continua il presidente che poi torna sulla questione Piccardo. Il figlio (che ha esternato posizioni simili al padre, in favore della repressione di Erdogan) infatti è alla guida del Caim, a cui l'amministrazione di Milano in passato - prima che l'iter fosse bloccato - aveva pensato di affidare la costruzione della moschea cittadina. "Come abbiamo già ribadito sia io sia Besso - sottolinea Hasbani - noi siamo non solo favorevoli ma difendiamo la libertà di culto. Non siamo contrari a una moschea ma deve essere chiaro che gli interlocutori dell'amministrazione non possono essere persone che incitano all'odio".
  Un'eventuale riassegnazione della costruzione della moschea da parte della nuova giunta milanese guidata da Giuseppe Sala al Caim, viste le posizioni dei suoi esponenti più di spicco, sarebbe un segnale preoccupante per la Comunità ebraica. Il presidente della Keillah milanese sottolinea poi la mancanza di ogni fondamento rispetto alle deliranti affermazioni complottiste di Piccardo che parla di "sudditanza sionista" da parte di corpi dello Stato turco (quelli che hanno compiuto il golpe). "Israele recentemente, con molta fatica e prima di quanto accaduto la scorsa settimana, ha lavorato per cercare di ristabilire dei rapporti diplomatici con Ankara". Gerusalemme ha infatti siglato a metà giugno con i turchi un accordo che pone fine un lungo periodo di crisi diplomatica tra i due paesi, iniziata con la vicenda della Mavi Marmara. L'auspicio di molti era che questa intesa potesse essere il segno di un'apertura del governo Erdogan, ma i fatti della scorsa settimana dimostrano il contrario. ""Per me questo spregio della libertà di pensiero e di vita per migliaia di turchi è inaccettabile e lo condanno senza sconti. Non approvo un golpe, ma chi approva quello che succede in Turchia sta dalla parte della violenza e della dittatura", ha sottolineato Emanuele Fiano, deputato Pd e già presidente della Comunità ebraica di Milano. d.r.

(moked, 22 luglio 2016)


Sicurezza negli aeroporti: perché adottare il sistema israeliano?

di Gabriele Mirabella

La drammatica strage avvenuta a Nizza nel giorno della festa nazionale francese ancora una volta ha fatto piombare l'Europa nell'incubo del terrorismo di matrice jihadista. L'umanità ha assistito in modo inerme e silenzioso alle angoscianti immagini di sangue e di dolore provenienti dalla Costa Azzurra, teatro dell'ennesimo attentato alla libertà, agli usi e ai costumi tipicamente occidentali compiuto dal Daesh, il quale si è servito delle cosiddette cellule "dormienti" per paralizzare nuovamente il Vecchio Continente. Quanto è accaduto fa tornare inevitabilmente d'attualità il tema della sicurezza in rapporto a luoghi particolarmente affollati ed esposti a potenziali attacchi terroristici.
   Tenere sotto controllo le stazioni aeroportuali in maniera quanto più scrupolosa è il miglior biglietto da visita che uno Stato possa offrire agli occhi del mondo intero. Lo sanno bene in Israele dove, nel corso degli anni, è stato messo a punto un efficiente sistema di sicurezza, già tenuto d'occhio dall'Europa all'indomani della strage di Zaventem del 22 marzo scorso. Tuttavia, il modello israeliano deve essere inquadrato necessariamente in relazione alla particolare posizione dello Stato di Israele dal punto di vista geopolitico, da sempre stretto nella morsa dei Paesi arabi confinanti.
   L'efficacia di questo sistema risiede principalmente nell'abilità di un personale di sicurezza altamente qualificato più che nell'utilizzo accentuato dei body scanner o di qualche altro macchinario all'avanguardia. Poco importa se i passeggeri sono costretti ad attendere tre ore prima di imbarcarsi, passando attraverso ben cinque livelli di sicurezza, se ciò significa assicurare l'incolumità fisica di fronte alla minaccia globale del terrorismo. In attesa di passare dalle parole ai fatti, in questo momento le forze di sicurezza stanno riflettendo soprattutto sull'effettiva applicabilità del sistema adottato a Ben Gurion rispetto al contesto sociale in cui viviamo.

(Voci di Città, 22 luglio 2016)


Marzio Deho e Pietro Sarai parteciperanno alla Epic Israel

Epic Israel 2015
Il Team Olympia-Polimedical conferma la presenza alla quarta edizione della gara Uci: 'Epic Israel'. A scendere in campo il giovanissimo Pietro Sarai e l'irriducibile icona dell'MTB Marzio Deho, due atleti che porteranno alti i colori del Team.
La manifestazione si svolgerà a coppie dal 29 settembre al 1 ottobre 2016 a nord di Israele, nella zona dell'Alta Galiliea. Sarà una sfida caratterizzata da un percorso suddiviso in 3 tappe per un totale di circa 300km e 6000mt di dislivello, contraddistinto da un susseguirsi di laghi, colline, aspre montagne e single track.
La 'Epic Israel' è una gara nata in memoria di Giora Tsachor, la prima di questo tipo nata in Israele. Per il Team Olympia-Polimedical sarà una sfida importante nella quale i due campioni nero - verde fluo scenderanno in campo con tutta la grinta e l'energia necessaria per portare a casa il miglior risultato dando il meglio di sÈ.
?E' la prima esperienza di Sarai in una gara a tappe di livello come la Israel Epic, Pietro sarà a fianco di una colonna portante come Marzio Deho che sicuramente saprà guidarlo e dargli consigli corretti. Pietro e Marzio sono grandi atleti e sono certa che ci daranno delle grandi soddisfazioni anche in questa occasione assieme alle super Olympia IRON? ? ha dichiarato Loredana Manzoni, Presidente del Team Olympia-Polimedical.

(Solobike.it, 22 luglio 2016)


Il rabbino messianico moldavo Shimon Pozdirca di Chisinau in visita ad EDIPI

Padova 26 luglio 2016, ore 20:30

Il rabbino ebreo-messianico Shimon Pozdirca della congregazione moldava di Chisinau farà visita a EDIPI nella sede di Padova. Il presidente di Evangelici d'Italia per Israele, Past. Ivan Basana, ha previsto un incontro speciale per martedì 26 luglio nella sede della congregazione "The new Thing" di Nuova Pentecoste a Padova alle 20:30. Sarà un'occasione preziosa per aver notizie di prima mano sulla situazione degli ebrei messianici e non in Moldova, considerando che la congregazione di Chisinau è la più antica ed inoltre quella fondata ancora alla fine dell'800 da Joseph Rabinowitz, a buon diritto definito il Theodor Herzl del movimento messianico.
Oltre alle notizie e alle testimonianze, all'ordine del giorno ci sarà anche la discussione sul progetto editoriale della straordinaria biografia di Rabinowitz che EDIPI ha l'intenzione di pubblicare per il prossimo anno.

(Comunicazione EDIPI, 22 luglio 2016)


I devastanti effetti globali della rinuncia a denunciare il male

Il trattamento riservato a Israele dimostra da anni una discesa nel relativismo amorale

Una generazione fa la parola "male" aveva un significato. Non c'erano cuori teneri - certamente non ce n'erano fra gli ebrei - che minimizzavano il più possibile la malvagità dei nazisti. Il male era il male.
Oggi, con il relativismo morale imperante, il mondo ha di fatto abbandonato il concetto di male, sostituendolo con una "sofisticata" correttezza politica nella quale gli aggressori e le vittime sono spesso considerati eticamente equivalenti. Così, ad esempio, chi denuncia il terrorismo islamico viene accusato di islamofobia.
Naturalmente c'è uno "shock" di fronte alle stragi e alle decapitazioni ad opera di fondamentalisti islamisti, ma ci viene detto che è fuorviante descrivere questi comportamenti come "malvagi" perché questo distoglie l'attenzione dalla vera causa, che naturalmente sta nello sfruttamento coloniale, nell'imperialismo occidentale eccetera. E più e più volte sentiamo ripetere il mantra che è la sofferenza economica e sociale quella che causa la disperazione e fornisce l'incentivo per il reclutamento jihadista. E poco importa se in realtà la maggior parte dei terroristi dell'ISIS che colpiscono nelle città occidentali, come già quelli di al-Qaeda di dieci-quindici anni fa, sono persone provenienti da famiglie della classe media e che hanno potuto studiare....

(israele.net, 22 luglio 2016)


Meno liberté. Parigi copia Israele

Prorogato di sei mesi lo stato di emergenza. Anche la Ue chiede aiuto ai tecnici dello Stato ebraico.

di Fausto Carioti

 
I fatti hanno la testa dura e alla lunga prevalgono sulle opinioni che negano l'evidenza. Così, dopo qualche centinaio di morti, l'idea che il terrorismo abbia reso le nostre vite a rischio come quelle degli israeliani, e che dunque dovremmo modellare il nostro stile di vita sul loro, comincia a farsi strada tra le ingenuità e l'arteriosclerosi del vecchio continente. Meno privacy e meno attenzione alle libertà civili in cambio di maggiori possibilità di sopravvivenza non è più considerato un baratto scandaloso.
   L'Italia si concede ancora il lusso di guardare cosa fanno gli altri, ma la Francia non può permetterselo. Tra le proteste delle associazioni per i diritti civili, a Parigi ieri il parlamento ha approvato l'estensione dello stato d'emergenza sino al 2017: altri sei mesi, poi si vedrà. Doveva essere un provvedimento estremo ed eccezionale adottato per soli tre mesi dopo gli attentati di novembre. A febbraio era stato rinnovato per novanta giorni e al termine di questi per altri due mesi, con l'ottimo pretesto dei campionati europei di calcio. La fine era prevista tra pochi giorni, il 26 luglio, stavolta sul serio. Il presidente
   Francois Hollande ne aveva fatto una questione di orgoglio nazionale: «Non possiamo estendere indefinitamente lo stato di emergenza. Vorrebbe dire che non siamo più una Repubblica che applica lo stato di diritto» aveva detto durante il suo intervento nell'anniversario della presa della Bastiglia. Poche ore dopo, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, islamico tunisino con passaporto francese, irrompeva col suo camion sul lungomare di Nizza uccidendo 84 persone e spiegando a una Francia e a un'Europa riluttanti a capirlo che il nostro mondo è cambiato e che i barbari non sono alle porte, ma li abbiamo già dentro casa. Come a Gerusalemme e a Tel Aviv.
   Così liberté, égalité e fraternité sono state messe ufficialmente da parte. I valori fondanti della République sono diventati un optional, in questa fase conta solo l'essenziale e l'essenziale per i francesi è sopravvivere e per Hollande e il premier, Manuel Valls, è arrivare alle elezioni presidenziali del 2017 con qualche possibilità di vittoria. Lo stato di emergenza autorizza il governo francese a sospendere l'applicazione di una parte della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Le forze dell'ordine potranno adottare misure restrittive nei confronti di persone ritenute «pericolose», anche se non hanno commesso un reato, e potranno eseguire perquisizioni nelle case di chiunque in qualunque ora. I prefetti avranno la facoltà di dichiarare il coprifuoco, fermare la libera circolazione, chiudere locali e vietare ogni manifestazione pubblica. A un passo dallo stato di guerra: la Francia cambia, per non morire.
   Si guarda a Israele anche per le tecnologie con cui contrastare il terrorismo. L'attentatore di Nizza, l'aspirante macellaio che era salito sul treno tedesco armato di accetta e coltello e i loro correligionari che hanno insanguinato l'Europa e gli Stati Uniti negli ultimi mesi appartengono alla categoria dei lupi più o meno solitari, privi di legami con cellule strutturate del terrorismo. Individui semi-emarginati che non appaiono radicalizzati al punto da destare sospetti nelle forze dell'ordine e che trovano nella umma, la comunità musulmana, la risposta a un bisogno d'appartenenza, e nell'Isis l'ispirazione che li spinge a volerci morti. Potenzialmente sono moltissimi e le loro tracce sono più difficili da seguire rispetto a quelle di chi ha compiuto tutte le tappe del percorso jihadista. Controllare ognuno di loro è impossibile.
   Per il nostro continente rappresentano un pericolo nuovo, ma per Israele no. Per questo le agenzie di intelligence europee stanno studiando con interesse le soluzioni - poco rispettose della privacy, ma molto efficaci - adottate nell'unica democrazia del Medio Oriente. Se seguire uno per uno i milioni di potenziali lupi solitari non è fattibile, ci si può facilitare il lavoro con gli algoritmi, ed è qui che i software e gli hardware israeliani si rivelano utili.
   Si tratta di controllare l'attività dei social network alla ricerca dei segnali che possono fare scattare un primo allarme. Spionaggio automatizzato su vastissima scala, in altre parole. Gli ufficiali israeliani, racconta il quotidiano Jerusalem Post, non rivelano fino a che punto è arrivata questa tecnologia, ma gli esperti privati assicurano che essa è già in grado di fornire una indicazione dei potenziali aggressori, alla quale devono seguire indagini specifiche.
   Il coordinatore anti terrorismo della Ue, Gilles de Kerchove, nei giorni scorsi è andato a Tel Aviv proprio per capire cosa l'Europa può copiare da Israele. Il problema, ha ammesso lo 007 di Bruxelles durante una conferenza, è che le norme europee sulla privacy e gli altri diritti civili rendono difficile l'uso di simili tecnologie intrusive. Ostacolo che non esiste in Israele, dove il principio secondo il quale bisogna rinunciare a una quota di certe libertà per aumentare la propria sicurezza è condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione. Ma altre strade per una lotta efficace al terrorismo non se ne vedono. Con molta fatica, lo si sta cominciando a capire anche in Europa. La speranza è che non servano altri morti per convincere chi si ostina a non vedere.

(Libero, 22 luglio 2016)


Dalla Russia all'Egitto e Israele. Tutti i nemici giurati del Sultano

A chi pensa il leader turco quando accusa gli stranieri

di Fiamma Nirenstein

 
E' quasi rassicurante che il presidente turco Tayyip Erdogan abbia dichiarato in un'intervista che ritiene che «potenze straniere possono essere comvolte nel fallito colpo di Stato» nel suo Paese: Erdogan ha sempre trovato molti capri espiatori per i suoi guai, per la mancanza di quel consenso totalitario che desidera, per un'economia che si inceppa, per i rapporti internazionali stupefatti dalla sua smania di essere il nuovo sultano. Ai tempi della rivolta di Gezy Park, a turno sono stati accusati la Cia, l'Europa gelosa dei suoi successi, la Lufthansa preoccupata per il suo progetto di un immenso aeroporto, la «congiura telecinetica» (sic) e, molto, la lobby ebraica, la sua preferita. Sull'America, il più classico fra i fantasmi cospirativi, Erdogan è stato frenato dalla determinazione di Obama a considerare la Turchia un partner fondamentale sin dall'inizio, il primo fra i Paesi islamici visitati nel 2009, ed Erdogan un interlocutore cui mostrare segni di pubblico rispetto. Adesso la richiesta insistente di estradare Gulen disegnato come il primo responsabile del colpo e il ritegno giuridico e politico dell'amministrazione americana a farlo svelano che da tempo cova il fuoco del dissidio sotto le ceneri, ma è improbabile che Erdogan si riferisse agli Usa o solo agli Usa dicendo «potenze straniere».
  I nemici preferiti di Erdogan sono naturalmente (oltre ai curdi che certo avrebbero molto amato una discesa agli inferi di Erdogan ma non sembrano in grado di occuparsene a fondo): Israele, la Russia, la Siria di Assad. La Turchia abbattè un aereo Sukhoi il 24 novembre scorso, e uno dei due piloti fu ucciso dai ribelli siriani: fu il punto più basso di rapporti con Putin già devastati dalla guerra in Siria. Volarono gli stracci del sostegno turco ai salafiti di Ahrar al Sham e Jaysh al Islam alleati di Al Nusra. L'intervento dell'aviazione russa aveva lasciato che Assad conquistasse Homs e Hama e Palmira fosse strappata all'Isis, Fu messo sotto accusa il rapporto Erdogan-Isis, che ha fatto della Turchia una pista di arrivo e partenze di foreign fighters. La Russia si risentì duramente, Erdogan non voleva porgere la sue scuse. Ultimamente invece, il 26 di giugno, le ha porte, e questo nel quadro generale di una ricomposizione altrettanto clamorosa, quella del rapporto avvelenato dall'antisemitismo conclamato di Erdogan, con Israele, col ritorno dei rapporti diplomatici e la promessa di una ricompensa di 200 milioni di dollari ad Ankara per gli incidenti della Mavi Marmara del 2010. Un buon accordo? Certo strategico e stabilizzante in un'ottica di lunga durata, così come le scuse a Putin: difficile una diabolica lungimiranza degli uni e degli altri nell'agire proprio ora contro Erdogan. Anche perché Israele tende in questo periodo di terremoto mediorientale alla salvaguardia della neutralità, non intende affrontare se non è obbligata il conflitto sciita-sunnita o quello intrasunnita. Semmai, spera che possa servire a contenere Hamas, la passione ricambiata di Erdogan per il gruppo terrorista padrone di Gaza: una passione che ha indotto Ismail Haniyeh addirittura a presentarsi dopo il fallito golpe inneggiando alla democrazia (lui, un autocrate islamista genocida!) con una gran torta su cui erano istoriati sorridenti fra lui e il raìs turco. Netanyahu ha preso, come del resto Putin, la strada delle congratulazioni per la ristabilita normalità democratica. Ma per fare un po' di maretta un deputato arabo israeliano della lista araba Tareb Abu Ararar ha accusato il governo di sostenere «ideologicamente» il fallito colpo e i media arabi hanno citato come fautore del golpe Akin Ozturk, un generale in pensione che è stato attaché militare negli anni 1996-98 con base in Israele.
  Molta acqua da allora è passata sotto i ponti: la Turchia è stata una grande alleata dell'Occidente, poi via via si è spostata sulla scia islamista di Erdogan. Nel 2003 rifiutò alle truppe Usa il passaggio in Irak, nel 2010 ha votato contro le sanzioni all'Iran dell'Onu, ha spostato i cannoni (ideali) con la guerra in Siria che l'ha messa all'angolo e l'ha contrapposta di nuovo agli Usa. Perché Obama non ha intenzione di soppiantare Assad, come invece Erdogan vuole. Il suo rapporto con la Nato è inattendibile, la sua forza in quell'ambito si chiama memoria di un sogno e suggerisce il rischio delle testate nucleari nelle sue mani; il suo disegno di entrare in Europa al giorno d'oggi suona grottesco: Mogherini ripete che le cose saranno messe in discussione se rientra in vigore la pena di morte. La pena di morte c'è di già! Applicata in questi giorni a centinaia, forse a migliaia di persone insieme con la violazione di tutti i possibili diritti umani. E insieme, Erdogan tiene in mano il cappio dell'ingresso dei profughi e il guinzaglio sul collo di parte del terrorismo. L'Iran è suo amico, ma alleato del nemico Assad. L'Egitto è sunnita, ma Sisi è il maggior nemico della Fratellanza musulmana di Erdogan. E dunque, chi sono quelli che avrebbero potuto non volere più Erdogan fra i piedi? Tutti, nonostante i voli americani che di nuovo decollano dalla base di Inçirlik contro l'Isis.

(il Giornale, 22 luglio 2016)


Turchia - Questa repressione piace troppo agli islamici "moderati"

"Dopo tante primavere bidone, ora una vera rivoluzione. Non m'interessa neppure chi l'abbia innescata, quel che conta è che a quasi 100 anni da Atatürk la Turchia torna a essere una grande nazione musulmana di fatto e di diritto. Allah protegga nostro fratello Recep Tayyip Erdogan, e tutto il popolo turco".
Hamza Roberto Piccardo
Già membro fondatore dell'Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d'Italia)

(Il Foglio, 22 luglio 2016)


Bruxelles: "L'Intifada dei coltelli colpa dell'occupazione d'Israele"

Polemiche per il report segreto dei diplomatici Ue

di Marco Bresolin

I recenti attentati terroristici palestinesi «sono dovuti in gran parte all'occupazione israeliana». A sostenerlo non è una Ong umanitaria, ma un report della Ue. L'accusa è contenuta in un documento interno, steso e firmato da tutti i diplomatici dei Paesi europei che hanno una rappresentanza a Gerusalemme o Ramallah. Non è stato ancora reso pubblico e probabilmente non lo sarà nemmeno in futuro. Ma il dossier di 39 pagine, steso nel dicembre del 2015, servirà come «riferimento per gli incontri ministeriali» e per «indirizzare le politiche europee».
   A pochi mesi dalle tensioni legate alla volontà espressa da Bruxelles di adottare etichette per contrassegnare i prodotti provenienti dai territori occupati, il report potrebbe portare a nuove frizioni tra l'Unione e Israele. Sulle radici del terrorismo palestinese, infatti, c'è una totale differenza di vedute. Secondo Israele non c'è distinzione tra il terrorismo contro Israele e quello che colpisce il resto del mondo, perché entrambi «hanno radici nell'estremismo islamico», Secondo l'Ue, invece, gli attacchi con coltelli e auto-ariete sono una risposta all'occupazione dei territori. Il report parla di «radici psicologiche» del terrorismo, dovute alla perdita di speranza di vedere realizzato il progetto dei due Stati, alimentata dalle «condizioni di vita in povertà». Tanto che «i giovani palestinesi», autori degli attentati, «sono apparentemente slegati da fazioni politiche o gruppi militanti». Per i diplomatici europei la risposta del governo israeliano «non fa altro che peggiorare le cose».
   Il report citato da «EuObserver», che ne ha visionato il contenuto, dice che «entrambe le parti» sono colpevoli di una «retorica incendiaria». E aggiunge altre accuse, sostenendo che l'occupazione israeliana «ha spinto ad alti livelli di abuso di droghe, sradicamento delle famiglie, violenze domestiche, perdita di identità, alti livelli di stress e depressione».
Torna poi sul capitolo dell'etichettatura dei prodotti provenienti dai territori occupati, chiedendo all'Ue di implementare un nuovo codice per differenziare i prodotti israeliani da quelli delle zone contestate. I diplomatici scrivono che l'Europa è «contro il boicottaggio», ma gli Stati membri dovrebbero «avvertire» le loro imprese dei «rischi» che comporta il fatto di operare in quelle aree.
   Il governo israeliano, interpellato dal «Jerusalem Post», ha fatto sapere che risponderà a queste accuse solo se e quando saranno rese pubbliche. E il portavoce del ministro degli Esteri, Emmanuel Nahshon, ha colto l'occasione per augurare «buone ferie ai diplomatici Ue, nella speranza che durante le loro vacanze in Europa non incappino in atti di violenza compiuti da estremisti islamici».
   
(La Stampa, 22 luglio 2016)


Nasce l'«Israeli Innovation Centre» presso il Centro Peres per la Pace

In collaborazione con gli Stati Uniti, Israele promuove una "start-up Nazione" per la leadership mondiale della tecnologia.

di Miriam Martinez

"The Jerusalem Post" dà la notizia in prima pagina: nasce l'Israeli Innovation Centre (Centro dell'Innovazione di Israele), su quattro piani, presso il Centro Peres per la Pace, che si prevede "attirerà centinaia di migliaia di studenti, soldati, capi di Stato, turisti e delegazioni commerciali, per assistere alla straordinaria storia di come Israele sia diventata leader di avanguardia dell'innovazione nel mondo".
Il progetto, in collaborazione con gli Stati Uniti d'America, presenta Israele come una "start-up Nazione" - scrive il quotidiano israeliano -, cioè, come una realtà in crescita, nella storia, anche come "brand" di innovazione tecnologica, cui si devono importanti conquiste e scoperte, molte delle quali hanno cambiato il sistema di vita umana sul pianeta. Tra queste, i sistemi di irrogazione dei campi a pioggia o i pannelli solari. Ma, anche, gli israeliani detengono il primato nelle tecnologie militari e per la sicurezza.
Così, scrive "The Jerusalem Post", uno Stato "nato sulle paludi e il deserto è diventato leader globale, grazie all'innovazione di Israele che ha cambiato ".
Oggi, all'inaugurazione, sono intervenuti Shimon Peres, Presidente fino al 2014, insieme all'attuale Rivlin, il Primo ministro Netanyahu e il sindaco di Tel Aviv - Jaffa Ron Huldai. La presenza delle massime autorità dello Stato testimonia l'importanza strategica, e non soltanto culturale, del nuovo Centro, che aprirà le porte nel 2018.

(In Terris, 21 luglio 2016)


Startup israeliana PamBio lotta contro gli effetti dell'ictus

 
PamBio, una startup biotecnologica di Nazareth, Israele, ha annunciato di aver ricevuto 7 milioni di dollari da un investitore privato, che si vanno a sommare ad altri 3 milioni recentemente ottenuti dal governo israeliano e dall'incubatore NGT3.
La società sta lavorando su un trattamento per l'ictus emorragico, un tipo di ictus che si verifica quando vi è la rottura di un vaso sanguigno cerebrale. Il trattamento previene il sanguinamento e protegge contro i danni al cervello, i quali rappresentano l'effetto collaterale finale che affligge la maggior parte delle vittime di ictus.
L'obiettivo è quello di fermare l'emorragia in corso durante l'episodio di ictus.
La redazione di siliconwadi.it ha contattato il CEO di PamBio, Dott. Amos Ofer, il quale ha spiegato l'importanza di questa soluzione, perché si tratta dell'unico trattamento farmacologico noto per l'ictus emorragico.
La biomolecola terapeutica contenuta nel farmaco sviluppato da PamBio ha un doppio effetto, antifibrinolitico e neuroprotettivo.
Numerosi sono gli effetti benefici in caso di ictus emorragico:
  • L'unico farmaco che consente un trattamento in un lasso di tempo di 3 ore;
  • Minima tossicità;
  • Alto grado di somiglianza con una proteina umana (tPA) che riduce al minimo il potenziale di tossicità dei tessuti;
  • Effetti collaterali ridotti.
Gli studi hanno dimostrato che la biomolecola riduce il sanguinamento nel cervello dei topi e che il farmaco risulta essere efficace per prevenire il sanguinamento generale. Nei test tale diminuzione si riscontra sia nel sanguinamento della coda del topo sia a livello epatico.
Queste le parole del Dott. Amos Ofer, CEO di PamBio:
La soluzione che abbiamo sviluppato per prevenire e arrestare l'emorragia, si basa su una comprensione innovativa della fibrinolisi, responsabile della coagulazione del sangue. In futuro, questo farmaco consentirà il trattamento di disturbi della coagulazione, che oggi non hanno un trattamento sicuro ed efficace, come ad esempio le lesioni alla testa, le emorragie del sistema digestivo, le emorragie post-partum e altri disturbi della coagulazione, rendendolo di fatto l'unico agente anti-sanguinamento disponibile.
PamBio è stata fondata dal Prof. Abd Al-Roof Higazi, che dirige la Divisione dei laboratori e il Dipartimento di Biochimica Clinica presso l'Hadassah di Gerusalemme e dalla moglie Dott.ssa Nuha Higazi, dottoressa in neurologia con il supporto di Hadasit, la società di trasferimento tecnologico dell'Hadassah University Hospitals.
Il denaro sarà investito nella ricerca scientifica, in attesa del 2019, anno in cui si darà avvio alla Fase I di sperimentazione umana.

(SiliconWadi, 22 luglio 2016)


Nasce l'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele

ROMA, 21 lug - "Italia e Israele sono da sempre Paesi amici. E' nel rispettivo dna dei due popoli condividere valori e una comune prospettiva sul presente e sul futuro, alla luce soprattutto delle importanti sfide che abbiamo di fronte.
Per questo, siamo molto soddisfatti della nascita dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele, a cui hanno gia' aderito circa 150 parlamentari di tutto l'arco costituzionale".
Ad affermarlo, e' l'on. Maurizio Bernardo, presidente dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele e della Commissione Finanze della Camera, che oggi ha ricevuto alla Camera la delegazione diplomatica dello Stato d'Israele in Italia, guidata dall'ambasciatore Naor Gilon, in occasione della nascita dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele.
"Un'iniziativa significativa - ha aggiunto - che vuole andare al di la' dell'ambito istituzionale per rinsaldare un rapporto e una cooperazione che ci vede proficuamente impegnati in piu' settori, dalla cultura al commercio, dalla sicurezza al turismo.
Su questa strada crediamo ci si debba muovere e, in tal senso, confidiamo nel lavoro dell'associazione e del contributo di tutti gli aderenti".
"Vedo nell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele non solo un ponte per rafforzare la cooperazione tra i due Parlamenti, ma anche un veicolo per implementare ulteriormente le già ottime relazioni esistenti in tutti i campi tra i nostri due Paesi e popoli - ha dichiarato Gilon - Italia ed Israele, quali Paesi democratici liberali, fanno parte di una minoranza che oggi è sotto attacco e come tali si devono unire e l'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele opera proprio in questa direzione".

(ANSAmed, 21 luglio 2016)


Tel Aviv: arte, mare, innovazione. Ecco perché andarci

di Eugenio Spagnuolo

"Tel Aviv: mare. Luce. Celeste, sabbia, impalcature... chioschi lungo i viali, una città ebraica bianca, lineare, che cresce fra agrumeti e dune. Non soltanto un luogo per il quale compri un biglietto dell'autobus della Egghed, no, un altro continente". Sono passati 13 anni da quando Amos Oz è riuscito a racchiudere in 3 righe l'anima di Tel Aviv. E la città non le ha mai tradite: la luce, il mare, i chioschi, sono sempre lì. Semmai nuove impalcature hanno preso il posto di quelle vecchie, perché la Tel Aviv nel frattempo è cresciuta. Oggi è una metropoli "che non si ferma mai", come vuole il claim delle brochure turistiche.
  "Tel Aviv non dorme perché a ogni ora del giorno e della notte è possibile mangiare, ballare, ascoltare, vedere, girare. La vita notturna è qui motivo di vanto e, ancora una volta, di distacco da Gerusalemme, dove con a calar del buio scende anche il silenzio", ha scritto Elena Lowenthal in La Nuvola Nera, libro fondamentale per capire la città. È vero: chi va a Tel Aviv spesso lo fa per le sue notti selvagge. Che però non sono l'unico motivo per andarci. Eccone altri 5.
  Il mare, naturalmente. Ammettiamolo: le metropoli bagnate dal mare hanno un fascino irresistibile. Secondo il National Geographic, Tel Aviv ha lidi tra i migliori al mondo. Ci sono otto grandi spiagge, ognuna con il proprio pubblico e carattere, frequentate più o meno da aprile a ottobre: dall'affollata e modaiola Mezizim a Hof Hadatiyim, la "spiaggia separata", dove uomini e donne possono accedere a giorni alterni (per motivi religiosi), dalla celebre Hilton Beach, su cui sventolano i vessilli arcobaleno della comunità Lgbt, a Gordon beach, popolare tra i turisti e a pochi passi dall'Hotel Carlton, dalla cui terrazza è possibile cogliere con un solo sguardo tutta la città.
  Tanta arte (e design). Fondato nel 1932, ancora prima dello stato d'Israele, il Museo d'arte di Tel Aviv custodisce opere di Klimt, Picasso, Monet, Renoir, Degas, Pissarro, Cézanne, Van Gogh, Matisse, Gauguin, Kandinsky, Klimt, Mondrian, Modigliani, Braque, Miró, Léger. Un catalogo da far impallidire molti musei europei, che negli anni 50 si è arricchito di un trentina di "masterpiece" provenienti dalla collezione di Peggy Guggenheim. E nel 1989 di un murale di Roy Lichtenstein, che accoglie i visitatori all'ingresso: arte pop come biglietto da visita.
  Ma di musei ce ne sono per tutti i gusti. Non ultimo il Design Museum Holon, spuntato nel 2010 a sud di Tel Aviv in un vorticoso edificio rosso, prima opera pubblica importante dell'architetto anglo-israeliano Ron Arad.
  Il Bauhaus. Se Tel Aviv è (anche) "la città bianca" lo deve alla imponente presenza dell'architettura Bauhaus: più o meno 4.000 edifici riconosciuti dall'Unesco come Patrimonio dell'Umanità. Un patrimonio estetico davvero unico da esplorare attraverso i tour a piedi del Bauhaus Center Tel Aviv, che non vi prenderanno più di due ore (ben spese).
  Perché è la nuova Silicon Valley. A Tel Aviv, Google ha aperto un Campus per cogliere lo zeitgeist della città, dove è tutto un pullulare di start up tecnologiche, responsabili secondo il Wall Street Journal di un nuovo boom. "I ricchi israeliani - scrive il quotidiano finanziario - hanno a lungo gravitato nell'atmosfera cosmopolita di Tel Aviv, ma questa vecchia ricchezza è stata recentemente raggiunta da giovani imprenditori che hanno fatto le loro fortune nelle start-up tech, un importante motore di crescita in Israele, che ha portato all'arrivo di molti investitori stranieri". L'ecosistema hi-tech di Tel Aviv secondo gli analisti è secondo solo a quello della Silicon Valley, il che si traduce in spazi di co-working, creatività diffusa, eventi e un intensa vitalità culturale che anche da semplici turisti non è difficile cogliere.
  Il momento politico. Ci sono politici che segnano la storia di un posto. Pensate a Rudy Giuliani a New York negli anni 90 o a Bertrand Delanoe a Parigi, nel decennio successivo. A Tel Aviv è sotto il municipio del sindaco laburista Ron Huldai, al governo dal 1998, che sono avvenuti i grandi cambiamenti. Paladino dei diritti civili e della laicità dello Stato, sostenitore dell'economia delle start-up, spesso critico verso la politica israeliana nei territori palestinesi, Huldai è l'uomo che ha spinto per aprire Tel Aviv al mondo e modernizzarla, col sostegno dei suoi abitanti. E la storia ci insegna che le città quando c'è un governo apprezzato e popolare, sono più belle. O no?

(L'Huffington Post, 21 luglio 2016)


La targa del Chiassetto degli Ebrei torna a casa

Era il luglio del 2008 quando Cristina Moro e Donald Levine decisero di acquistare casa all'Aquila, prima che il terremoto la distruggesse. E' stato amore a prima vista per il piccolo locale sulla via del Chiassetto degli Ebrei. Lei aquilana, originaria di Filetto, lui newyorkese di origini ebraiche decisero di comprare casa a poca distanza dalla loro abitazione principale che è a Roma. Per il signor Donald è stato come ritrovare le sue origini. Ebreo nel chiassetto degli ebrei. Tra il labirinto vicoli, subito dopo la Chiesa di San Flaviano, c'è questo pezzo di città, sconosciuto a molti, dal punto di vista storico: "Qui vivevano gli ebrei, vi si insediarono alla fine del 300. Poi l'antica denominazione venne sostituita con Chiassetto della prima Pinciara" - spiega Cesare Ianni del Gruppo di Azione Civica Jemo 'nnanzi che esattamente un anno fa, con una lettera aperta al Sindaco Massimo Cialente, chiede di poter restituire la denominazione originaria. "Detto e fatto", in pieno stile Jemo 'nnanzi che, dopo un lungo iter burocratico, ottiene l'autorizzazione. Ieri, 20 luglio 2016, esattamente 551 anni dopo che Ferdinando d'Aragona concesse agli Ebrei Aquilani uguali privilegi, la targa con l'antica denominazione torna e restituisce un pezzo di storia. "Se i nostri padri hanno ritenuto importante questa presenza è giusto ricordarlo"- sottolinea Ianni.

(Il Capoluogo, 21 luglio 2016)


Confindustria Venezia: le aziende veneziane guardano alle startup israeliane

Il Presidente Matteo Zoppas: "Confindustria Venezia promuove l'internazionalizzazione e lo sviluppo innovativo quali driver per una nuova imprenditorialità per far conoscere l'eccellenza del nostro comparto manifatturiero alla controparte israeliana
   Si é svolto ieri pomeriggio, mercoledì 20 luglio 2016, presso la sede di Confindustria Venezia, un meeting tra i vertici dell'associazione e l'ambasciata Israeliana per ufficializzare un calendario di incontri finalizzati a creare sinergia fra le start up israeliane e le imprese associate, con particolare attenzione nei settori dell'arredo casa ed interior design, vetro/illuminazione, agroalimentare, terziario avanzato/innovazione e turismo. Sono intervenuti per Confindustria Venezia, il Presidente Matteo Zoppas, il Direttore Generale Carlo Stilli, Agnese Lunardelli, Presidente PMI Confindustria Venezia e past president sezione legno arredo, Raffaele Dammicco, Presidente Consorzio Invexport, Stefano Ariel Zanon, Consigliere Generale di Confindustria Venezia e facilitatore culturale per le attività per i 500 anni del Ghetto di Venezia, mentre per l'Ambasciata Israeliana, Olga Dolburt Ministro Consigliere per gli Affari Economici e Scientifici, Ambasciata d'Israele, Renzo Gattegna Past President Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) e Avital Kotzer Adari direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia.
   Bisogna puntare sull'innovazione per cogliere le opportunità di crescita. Auspico dunque, - sottolinea Matteo Zoppas-,che questo sia soltanto il primo passo per concretizzare iniziative congiunte nel segno del business fra le nostre aziende e quelle di un Paese considerato la patria delle start up e che, Cina e Stati Uniti a parte, ha il maggior numero di imprese quotate al Nasdaq. Un sistema nazione che crede molto nei giovani sostenendoli con finanziamenti e fondi appositi. Confindustria Venezia promuove l'internazionalizzazione e lo sviluppo innovativo quali driver per una nuova imprenditorialità per far conoscere l'eccellenza del nostro comparto manifatturiero alla controparte israeliana".
   Il progetto di collaborazione nasce anche sull'onda di un evento storico, i cinquecento anni del Ghetto di Venezia, il più antico d'Europa. L'incontro é stato preceduto da un momento culturale. I vertici di Confindustria hanno infatti accompagnato in mattinata la delegazione israeliana a visitare la mostra al Palazzo Ducale di Venezia, "Venezia, gli Ebrei e l'Europa 1516 - 2016?.
   Tra le sessioni della giornata una é stata dedicata al turismo dove Avital Kotzer Adari ha incontrato una quindicina di imprenditori del settore coordinati da Francois Droulers, Presidente della Sezione per Confindustria Venezia. Un incontro proficuo che ha suscitato estremo interesse nelle aziende locali alla luce degli importanti investimenti che Israele sta destinando al comparto promuovendo le sue bellezze paesaggistiche e storico-artistiche presso i player italiani.
   Secondo gli ultimi dati IVC (Israeli Venture Capital) research Centre e KPMG sul quarto trimestre 2015, Israele con i suoi 8 milioni di abitanti è stato definito startup nation: conta fino ad oltre 4000 startup tecnologiche, è il Paese a più alta concentrazione di startups e venture capital, spesso nati intorno aTel Aviv nella Silicon Wadi. Nell'anno 2015, si è verificato un aumento del 30% della raccolta del capitale high-tech, raggiungendo il valore record di $ 4,43 miliardi (valore più alto nei round annuali di finanziamento mai registrato).
   Gli investimenti di venture capital quest'anno a livello globale si sono rafforzati, grazie a fattori divers quali +48% dei "mega-deal" (olre $100milioni) degli USA e +62% di "large deals"(sopra o uguali $20 milioni) in Israele.

(Impresa Mia, 21 luglio 2016)


«Dovete tutti sentirvi parte di un esercito in guerra»

L'ambasciatore israeliano: «Israele, come noto, non è immune dal terrorismo. Ma lo Stato agisce sempre in maniera lucida: identifica la minaccia, la chiama per nome e la elimina. Siamo sempre in allerta contro chi vuole distruggerci. C'è una questione sicurezza: noi investiamo il 6% del Pil, l'Europa 1'1,5%. Basta?»

di Fausto Carioti

 
Naor Gilon
Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma, pesa le parole con attenzione. Premette: «Non sta a me giudicare o dare consigli all'Europa su come affrontare il terrorismo sul suo territorio».

- Fatto sta, signor ambasciatore, che adesso che l'Europa ha scoperto di avere in casa migliaia di potenziali terroristi, la parola d'ordine è diventata «dobbiamo fare come Israele».
  «È chiaro che si tratta di una grande sfida che richiede unione di forze, cooperazione, leggi appropriate e consenso civile sull'applicazione di modus operandi in passato non accettati. In Israele, purtroppo, noi viviamo con il terrorismo sin dalla fondazione dello Stato. Il nostro modello non consiste in un set di strumenti, ma nella presa di coscienza collettiva di quello che occorre fare per non con - sentire al terrorismo di impadronirsi delle nostre vite».

- In concreto cosa significa?
  «Ad esempio significa partecipazione civile nell'allertare gli organi di sicurezza su un oggetto o una persona sospetti. Accettare i controlli di borse e zaini all'ingresso di centri commerciali e ristoranti, anche se questo tocca la nostra privacy. Approvare leggi che blocchino l'attività di istigazione alla violenza sui social network. Stabilire pene che siano deterrenti efficaci per chi è coinvolto nella realizzazione di azioni terroristiche, sin dalla fase dell'istigazione al terrorismo, passando per il reclutamento, il finanziamento, la collaborazione diretta o indiretta. E così via».

- Israele investe in sicurezza una quota importante del proprio reddito.
  «Israele investe oggi circa il 6 per cento del Pil in sicurezza. Appena un decennio fa spendevamo circa il 10 per cento: in termini di denaro ora investiamo di più, ma rispetto al totale delle spese investiamo di meno, perché nel frattempo l'economia israeliana è cresciuta. E buona parte della nostra spesa per la sicurezza torna sul mercato, perché va alle industrie israeliane che operano in questo settore e finanzia così start-up e compagnie capaci di sviluppare tecnologie innovative».

- Dopo decenni di tagli alla spesa militare e per la sicurezza, lei crede che sia davvero possibile "riconvertire" la società europea al modello di autodifesa israeliano?
  «L'Europa, in media, investe circa l'1,5% del suo Pil in sicurezza. Oggi pare che il vecchio continente si trovi di fronte a una minaccia più seria che in passato e pertanto la risposta finanziaria richiede un cambiamento anche nello stanziamento delle risorse nel vecchio continente. Ma spetta alla classe dirigente e ai cittadini europei decidere quale investimento sia sufficiente. Io, ripeto, non sono interessato a dispensare consigli all'Europa».

- Quanto è importante per la capacità di autodifesa dei cittadini israeliani avere svolto il servizio militare?
  «Il servizio militare obbligatorio è una pietra fondante della società israeliana. Il fatto che l'esercito sia un esercito di popolo, nel senso più semplice e immediato del termine, rende tutti i cittadini partecipi in maniera attiva della propria difesa. Si tratta di una necessità per il mio Paese sin dal giorno della sua fondazione, ma il fatto che la maggior parte dei cittadini presti servizio nelle forze di sicurezza per due o tre anni ha una ricaduta sulla disposizione d'animo e sulla capacità di comprendere quali siano le minacce e cosa occorra fare per eliminarle».

- L'intelligence israeliana ha fama di essere la più efficiente del mondo. Che politiche adotta lo Shin Bet, il vostro servizio di sicurezza interno?
  «I servizi di sicurezza israeliani svolgono il loro compito nell'ambito della legge e sono sotto il controllo continuo del sistema giudiziario. Siamo uno Stato di diritto, combattere il terrorismo non vuol dire che tutto è consentito. Tuttavia la legislazione in Israele consente di adottare misure soddisfacenti a tutela della vita dei cittadini. È possibile che a volte, per questo, venga toccata sotto qualche minimo aspetto la qualità della vita. Ma il diritto di vivere deve avere la precedenza».

- Non crede che ci sia anche un'enorme differenza culturale tra Europa e Israele? In tutti questi anni i governi europei hanno adottato un approccio idealistico e politicamente corretto nei confronti del terrorismo islamico, mentre Israele ha sempre affrontato il problema in modo estremamente realistico.
  « Anche Israele, come noto, non è immune dal terrorismo. Ma lo Stato di Israele, da parte sua, agisce sempre in maniera molto razionale e lucida: si deve identificare la minaccia, chiamarla per nome ed agire per eliminarla. Eliminarla significa agire anche nell'ambito dell'istruzione e della prevenzione, con gli strumenti della legge e del diritto».

- Vi accusano di essere il Paese dei muri.
  «Chi ha visitato Israele sa che non è un Paese di muri e steccati. Circa il 20 per cento della sua popolazione è composto da arabi, in gran parte musulmani, e il loro coinvolgimento nel terrorismo è minimo. Per la maggior parte sono integrati nella società, ben rappresentati in parlamento, partecipi dell'economia del Paese e presenti in posti importanti degli organi statali. Tutto questo, però, non ci impedisce di definire il problema per quello che è: davanti a una minaccia da parte del terrorismo islamico radicale, la si deve combattere distinguendo il più possibile fra terrorismo e suoi sostenitori e chi, invece, non è coinvolto».

(Libero, 21 luglio 2016)


Ecco i tre segreti della sicurezza israeliana

Perquisizioni e interrogatori nei luoghi pubblici, denuncia dei comportamenti ritenuti sospetti o degli individui «devianti», sorveglianza dei luoghi sensibili agli ex militari. Meno comfort e privacy valgono il prezzo della libertà.

di Carlo Panella

«Dobbiamo imparare a vivere come in Israele»: finalmente, con anni di ritardo, molti comprendono in Italia e in Europa che l'unico modo per ridurre - non per annullare - la minaccia terroristica è imparare dagli israeliani, che convivono da sempre con un terrorismo islamico feroce, ma sanno contrastarlo e contenerlo come nessuno al mondo.
Inconvenienti accettati
I cittadini israeliani sanno bene che durante un'uscita al cinema o un viaggio in bus, potranno incappare in perquisizioni da parte della polizia o dei militari. Ma nessuno si sogna di denunciare l'intrusione nella vita privata come un attentato alla privacy.

*
Buon senso
Mentre nei luoghi sensibili dello Stato ebraico la sicurezza è affidata ad ex uomini dei servizi segreti o delle forze armate, in Italia i vertici militari esperti di terrorismo sono mandati in pensione a 63 anni.

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La naja per davvero
Il servizio militare, obbligatorio per uomini e donne, dura tre anni per i primi e due per le seconde. Terminata la naia, però, si è inseriti nella Riserva con la quasi matematica certezza di essere richiamati in servizio negli anni successivi. In questo modo, la mobilitazione è permanente.
Purtroppo, per seguire questa giustissima consegna, bisogna innanzitutto che in Europa ci si renda conto che abbiamo lo stesso nemico di Israele. Pochi lo capiscono, ma il terrorismo arabo-palestinese che colpisce da sempre Israele ha le stesse, identiche radici, gli stessi "cattivi maestri" che fanno ora strage in Europa e nel resto del mondo. Non perché non esista una specifica "questione palestinese", più che reale, ma semplicemente e drammaticamente perché questa questione non può essere risolta con una trattativa (come sono state risolte tutte le più brucianti questioni nazionali, persino quella basca dell'Eta e irlandese dell'Ira) proprio e solo a causa del terrorismo jihadista (incluso quello promosso da Arafat, che laico non era per nulla).
In Occidente, invece, si continua a rifiutare la presa d'atto che siamo vittime del jihadismo prodotto da uno scisma dell'Islam e continuiamo - continuano - col trastullo, con la falsa coscienza di analisi farlocche su terroristi motivati da turbe psichiche, omosessualità repressa e amenità simili (come se le Ss naziste non fossero afflitte da turbe psichiche e omosessualità repressa, vedi la fine delle Sa). Dobbiamo ancora prendere coscienza che i terroristi sono mossi da una ideologia chiara e netta, di marca islamica. Da una nuova religione di morte. Diffusa.
Bisogna poi comprendere che, in Israele, tutti i cittadini hanno ben chiaro da sempre che sono in guerra, che sono minacciati individualmente, non solo come Stato. In Europa, in Italia, invece, si mette la testa sotto la sabbia e ci si rifiuta di capire che "loro" ci fanno una guerra di civiltà e che non conta nulla che noi non abbiamo nessuna voglia di fare questa guena. Una volta introiettata questa realtà di una guena diffusa, incombente, feroce, bisogna capire che però potremo vivere solo parzialmente come in Israele, perché là ogni cittadino e cittadina fa un lungo servizio militare per tre anni (gli uomini) o per due anni (le donne). Poi entra nella Riserva e può essere richiamato - ed è richiamato - sino a tarda età. Nessuna delega ad altri della difesa. In Occidente, invece, deleghiamo la nostra difesa a professionisti, a corpi separati dal nostro contesto sociale: polizia, Forze Armate, Servizi Segreti ecc ...
Fatta questa differenza, arriviamo al punto: il segreto di Israele si basa su alcuni pilastri. Il primo è il patto che ogni israeliano stipula con lo Stato: accetta che le ragioni della sicurezza prevalgano su quelle della sua privacy. Sino a poco tempo fa lo Stato poteva ad esempio sequestrare per ragioni di sicurezza le automobili private. Ogni cittadino israeliano accetta con serenità di subire interrogatori di ore agli aeroporti. Non batte ciglio se viene perquisito pesantemente persino all'ingresso di una pizzeria o di un hotel.
È un patto su cui però vigila una magistratura rispettata e autorevole ( un ex presidente della Repubblica è stato condannato al carcere da un giudice monocratico arabo-israeliano, e questo non ha provocato alcuna polemica). Differenza non piccola con l'Italia.
Il secondo pilastro è una capillare - ma calma - sorveglianza sociale dei comportamenti deviati, che possono indicare iniziative di terrore e morte. In Israele il Tir di Nizza, per due giorni in divieto di sosta, sarebbe stato perquisito subito e mai un poliziotto lo avrebbe lasciato entrare sulla Promenade des anglais sulla base della motivazione verbale di una consegna di gelati.
Ma l'elemento di forza di Israele è anche un altro: ogni situazione di emergenza è prevista da protocolli minuziosi (al Bataclan le teste di cuoio della Gnr, pronte subito, non poterono intervenire a causa della esclusiva competenza della polizia di Parigi, che arrivò tre ore dopo ...)
e i principali snodi della security civile - come gli aeroporti - sono affidati a ex militari, che importano la loro grande professionalità nel contesto civile.
In Italia, invece, mandiamo in pensione a 63 anni (!!!) ufficiali e generali che hanno contrastato per decenni il terrorismo interno, quello algerino degli anni '90 e quello islamico recente. Professionalità straordinarie sprecate in omaggio a norme sindacai-amministrative. Dobbiamo, insomma, percorrere ancora un lungo cammino ...

(Libero, 21 luglio 2016)



Parashà della settimana: Pinehas (Fineas)

Numeri 25:10-30:1

 - La parashà di Pinehas, nipote del sacerdote Aronne, è il seguito della precedente parashà, in cui si racconta come il consiglio di Bilaam sia stato realizzato mediante la depravazione sessuale con le donne medianite.
Il popolo ebraico sta vivendo una corruzione morale senza precedenti. Moshè stesso è incapace di contrastare un simile flagello e invece di combattere, incrocia le braccia. In un momento così critico e disperato un uomo come Pinehas riuscirà a dare al popolo, con la sua azione, certezza e speranza per un mondo diverso.
"Pinehas, figlio di Eleazar, figlio del sacerdote Aronne, fece retrocedere la Mia ira dai figli di Israele perché animato dallo zelo verso di Me" (Numeri 25.10).
Cosa era accaduto? Zimrì, figlio di Salù della tribù di Simeone, era stato trafitto insieme alla medianita Cozbi dalla lancia di Pinehas mentre erano nella loro tenda a consumare l'adulterio.
Pinehas aveva visto il pericolo che minacciava il popolo d'Israele causato dalla promiscuità con le figlie di Midian. Per questo si levò ed uccise Zimrì l'uomo che aveva peccato pubblicamente insieme alla donna medianita, che era a giacere con lui.
Per la prima volta nella storia d'Israele, in occasione di un grave contrasto tra la condotta di un individuo e l'etica della Torah, interviene un ebreo di sua iniziativa al posto di lasciare a D-o questa responsabilità.
Pinehas appare in questo frangente come il difensore della pace tra D-o e gli uomini, perché la vera pace non è fatta di rinunce pur di arrivare ad una pace a qualsiaisi prezzo. Difatti tutte le esitazioni, tutte le tendenze a tergiversare oppure a fuggire difronte ai pericoli portano alla catastrofe.
Il termine "shalom" ha un significato soprattutto "morale". Pertanto se non viene rispettata questa dimensione etica , la pace è qualcosa di artificiale che non può durare.
Dal comportamento di Pinehas si apprende che ogni uomo, anche se piccolo, può prepare la Redenzione senza abbandonare il suo impegno, quando la morale è in pericolo. Per questa ragione il midrash (tradizione orale) identifica Pinehas con il profeta Elia che annuncerà la Redenzione.
La ricompensa all'azione di Pinehas è la pace come scritto nella Torah: "I-o gli accordo il Mio patto: la pace" (Numeri 25.12).

Spartizione della Terra d'Israele.
"Il Signore parlò a Moshè dicendo: Tra le tribù deve essere ripartito il Paese secondo il numero dei casati…" (Numeri 26.52).
Un tema fondamentale che la nostra parashà tratta è la divisione della Terra d'Israele tra le dodici tribù dei figli di Giacobbe. Israele sta per diventare un popolo sedentario e deve risolvere la spartizione del territorio in modo equo.
Secondo la tradizione orale la divisione della Terra viene fatta e attribuita ad ogni famiglia che, come tale, era uscita dall'Egitto. Essendo i padri periti nei quaranta anni di peregrinazioni nel deserto, furono i figli maschi ad ereditare la loro parte di terra. Si pose allora il problema per le figlie di Tselofoad perché costui non aveva avuto figli maschi.
In questo caso alle figlie di Tselofohad vennero assegnate le proprieta materiali della terra, secondo equità come per gli eredi maschi. La legge ebraica riconosce alle donne identiche qualità fisiche e morali degli uomini. Ma c'è qualcosa di più.
Rashì spiega in questo modo: "Le donne non furono colpite per il peccato commesso dagli esploratori (maldicenza) perché esse amavano questa terra. Ed aggiunge: "Le figlie di Tselofohad erano discendenti di Giuseppe che chiese ai suoi fratelli di essere sepolto in Israele (Shekem): "Voi, dall'Egitto, porterete le mie ossa nella terra dei padri".
Ancora oggi la tomba di Giuseppe si trova a Shekem nella Samarìa ed è stata più volte profanata (incendiata) da arabi-palestinesi.
Cedere la Terra d'Israele a popolazioni straniere, è contravvenire alla Parola di D-o, che viene pagata sempre cara (vedi Oslo-Intifada).

L'investitura di Giosuè
Moshè, l'uomo dei miracoli, giunto al termine della sua straordinaria missione, consegna le future responsabilità del popolo a Giosuè figlio di Nun per continuare il cammino verso la Terra promessa.
La nuova guida, alla testa del popolo ebraico, non sarà un capo autocrate, ma si conformerà alle direttive della Legge, dimostrando fede e osservanza alla Parola di D-o. Moshè trasmette il potere a Giosuè in presenza di tutto il popolo e del gran sacerdote Eleazar, con l'imposizione delle mani, sul suo fedele discepolo. Questo gesto rituale entrerà a far parte della Tradizione biblica e continuerà con i saggi del Talmud affinchè la Torah di Moshè venga ripresa dai suoi discepoli nella Torah di Israele.
La parashà di Pinehas viene letta nelle sinagoghe nel sabato precedente il digiuno del 17 del mese di Tammuz, digiuno per ricordare la breccia aperta nelle mura di Gerusalemme da parte dei Romani con la sua conquista e distruzione nel 70 e.v.
Inizia la tragedia dell'esilio, di cui Israele subisce ancora le conseguenze. Secondo il profeta Geremia (2.3) questa catastrofe nazionale è stata il risultato della decadenza morale del popolo ebraico dell'epoca, su cui bisogna riflettere ancora oggi e trarne la lezione dalla Storia.
La tradizione orale ebraica ritiene che la causa della distruzione del Tempio di Gerusalemme sia stato il "sinat hinam" cioè l'odio gratuito verso il prossimo. F.C.

*

 - In un commento breve a un testo abbastanza lungo della Bibbia bisogna necessariamente scegliere su quale punto dirigere l'attenzione. Possiamo fermarci allora a considerare le feste bibliche, di cui si parla in due interi capitoli. Il fatto interessante è che tutte queste feste sono celebrate ancora oggi dal popolo ebraico, anche se in forma diversa da come sono ordinate nella Bibbia. Ciò che oggi manca, in modo vistoso, sono i sacrifici. Facciamo un elenco veloce degli animali che in queste occasioni dovevano essere immolati.
Ogni giorno: 2 agnelli dell'anno, mattina e sera, come olocausto perpetuo.
Ogni sabato: 2 agnelli dell'anno, in aggiunta all'olocausto perpetuo.
Ogni novilunio: 2 giovenchi, 1 montone, 7 agnelli dell'anno, 1 capro, oltre all'olocausto perpetuo.
Pasqua, ogni giorno per sette giorni: 2 giovenchi, 1 montone, 7 agnelli dell'anno, 1 capro, oltre all'olocausto perpetuo.
Pentecoste: 1 giovenco, 2 montoni, 7 agnelli dell'anno, oltre all'olocausto perpetuo.
Festa delle trombe: 1 giovenco, 1 montone, 7 agnelli dell'anno, 1 capro, oltre all'olocausto perpetuo.
Giorno dell'espiazione: 1 giovenco, 1 montone, 7 agnelli dell'anno, 1 capro, oltre all'olocauso perpetuo.
Festa delle capanne, ogni giorno per sette giorni: 2 montoni, 14 agnelli, 1 capro; quanto ai giovenchi si cominciava con 13 il primo giorno e si andava avanti scalando di 1 ogni giorno fino ad arrivare a 7. Dopo sette giorni il totale complessivo degli animali immolati era: 70 giovenchi, 14 montoni, 98 agnelli, 7 capri, oltre all'olocausto perpetuo.
  In conclusione, nei giorni di festa il sangue di animali scorreva a fiumi. Detta così, la frase sembra dispregiativa, invece vuole soltanto sottolineare il fatto che lo spargimento di sangue non è un accessorio nel rapporto tra Dio e l'uomo, ma ne è parte essenziale, come mette in evidenza tutta la storia del popolo ebraico.
  La prima volta che compare il termine "sangue" nella Bibbia si trova nelle parole del Signore a Caino: "La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra" (Genesi 4:9). Dopo il peccato di Adamo ed Eva, Dio aveva maledetto la terra, non l'uomo; ma dopo che il sangue dell'ucciso ha bagnato la terra, la maledizione si è estesa anche all'uccisore.
  "La vita di ogni carne è il sangue; nel suo sangue sta la vita" (Levitico 17:14), dice la Scrittura, dunque il sangue sparso è segno di una vita che si perde, cioè di morte, e quindi anche segno di ciò che l'ha fatta entrare nel mondo: il peccato, come distacco dell'uomo dal Datore della vita.
  Il sangue sparso di animali in sostituzione di quello dell'uomo ricorda che il rapporto di Dio con l'uomo è una questione di vita o di morte, e non solo di pedagogica istruzione. Il peccato che fa passare dalla vita alla morte ha bisogno di un'espiazione che faccia passare dalla morte alla vita. Nei sacrifici di animali questo avveniva simbolicamente attraverso l'uccisione della vittima, il che consentiva a chi si immedesimava in lei di morire in un certo senso con lei e tuttavia di essere recuperato alla vita dopo il sacrificio compiuto.
  "La vita della carne è nel sangue. Per questo vi ho ordinato di porlo sull'altare per fare l'espiazione per le vostre persone; perché il sangue è quello che fa l'espiazione, per mezzo della vita" (Levitico 17:11).
  Sacrifici espiatori si compivano anche in altre religioni, ma perché nel caso di Israele non erano mai stati ordinati né permessi sacrifici umani? Per un rifiuto assoluto della "pena di morte", come richiedono oggi le nazioni più "civili"? No di certo, perché la legge di Dio non solo permetteva, ma in molti casi esigeva che il trasgressore fosse messo a morte. Dunque perché? Perché per poter fare l'espiazione a beneficio di altri la vittima doveva essere innocente rispetto alla colpa per cui veniva messa a morte. Giovenchi, agnelli, montoni e capri erano certamente innocenti rispetto a quello che avveniva, e questo era simbolicamente rappresentato dal fatto che dovevano essere scelti tra i capi privi di ogni difetto, mentre nessun uomo poteva dirsi innocente di fronte a Dio, e quindi la sua morte non avrebbe mai potuto essere espiatoria perché sarebbe avvenuta come pena per i suoi stessi peccati e non per quelli di altri.
  E adesso che i sacrifici di animali non si fanno più, come si risolve il problema del peccato dei singoli e del popolo? Non c'è più possibilità di perdono? Se fosse così, come mai il popolo d'Israele esiste ancora e non è sparito sotto l'ira di un Dio che non può più essere placato? Qualcuno dirà che i sacrifici non erano essenziali e che possono essere sostituiti da volontari atti di devozione come preghiere ed elemosine. Altri invece sono convinti che i sacrifici erano effettivamente importanti, perché da una parte indicavano la gravità del peccato umano che merita la morte, e dall'altra manifestavano la misericordiosa grandezza del Dio d'Israele che con quegli atti annunciava e preparava la soluzione definitiva del problema del peccato del suo popolo e di tutti coloro che avrebbero creduto in Lui. In che modo questo è avvenuto? Tutto il Nuovo Testamento è lì per rispondere a questa domanda. In questa sede ci limiteremo a citare un autore ebreo del primo secolo d.C.
  «Secondo la legge, quasi ogni cosa è purificata con sangue; e senza spargimento di sangue non c'è perdono. Era dunque necessario che i simboli delle realtà celesti fossero purificati con questi mezzi. Ma le cose celesti stesse dovevano essere purificate con sacrifici più eccellenti di questi. Infatti Cristo non è entrato in un luogo santissimo fatto da mano d'uomo, figura del vero; ma nel cielo stesso, per comparire ora alla presenza di Dio per noi; non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote, che entra ogni anno nel luogo santissimo con sangue non suo. In questo caso, egli avrebbe dovuto soffrire più volte dalla creazione del mondo; ma ora, una volta sola, alla fine dei secoli, è stato manifestato per annullare il peccato con il suo sacrificio» (Ebrei 9:22-26). M.C.

  (Notizie su Israele, 21 luglio 2016)


Per le società israeliane conta solo la dimensione globale

Il segreto del successo? Parlare in inglese

di Jonathan Pacifici

Nella scuola in cui vanno le mie bambine a Gerusalemme si parlano almeno dieci lingue. Le mie sono trilingue: io parlo loro in italiano, mia moglie in francese e gli altri in ebraico. Sin dalla prima elementare, hanno iniziato a studiare l'inglese che sarà la loro quarta lingua, privando me e mia moglie dell'ultimo rifugio di privacy. Non sono diverse dagli altri. Hanno un'amichetta che parla ebraico, italiano e svedese, un altro che parla portoghese e inglese. In Israele si parla un numero impressionante di lingue e questo è più che un fenomeno antropologico: è uno strumento fondamentale nell'internazionalizzazione delle aziende israeliane. Come viene spesso ricordato, mentre altrove le società crescono e diventano da locali a multinazionali, in Israele o nasci multinazionale o non vai da nessuna parte. Il mercato interno è infatti ininfluente. Amdocs, il gigante del customer care e billing di Raanana, nel centro d'Israele, serve buona parte degli operatori telefonici internazionali. Oltre 2 miliardi di clienti finali. Ma anche le piccole start up ragionano in termini globali. Questo spiega in primo luogo un'enorme discriminante che c'è tra le start up israeliane e quelle che si vedono altrove.
 
  Quasi il 100 per cento delle start up israeliane si occupa di enabling technologies. Di tecnologie o servizi cioè che permetteranno di dare un servizio o un prodotto. Per capirci: ordinare pizze online in provincia di Caserta non è un'enabling technology. Creare la piattaforma per costruire siti (anche per ordinare le stesse pizze in provincia di Caserta), come hanno fatto i ragazzi di Wix.com, è un'enabling technology. Quando crei un'enabling technology, la crei per il mondo intero e spesso hai bisogno di persone che con questo mondo intero ci sappiano parlare.
  Israele è anche la patria dei più grandi siti online nel campo del gioco online e del forex, l'investimento sulle valute, e delle relative società tecnologiche. Molte di esse sono quotate in Borsa, come 888 o Playtech, presenti sul mercato di Londra.
  In un mondo sempre più interconnesso e globalizzato, la capacità di poter dialogare in tutte le lingue è una necessità, non un bonus. E' allora anche grazie alle lingue che Israele è diventato un vero hub globale. Ancora una volta, mi sembra che le radici di ciò siano molto antiche. Nel Medioevo, gli ebrei parlavano le lingue europee dei paesi nei quali vivevano, ma le scrivevano in caratteri ebraici. Erano un'isola di alfabetizzazione in un mondo largamente analfabeta. Ma era aleph-beth. Abbiamo, ad esempio, numerosi manoscritti in caratteri ebraici nei diversi dialetti dell'Italia medioevale. E' l'intersezione tra la lingua e il carattere ad aprire un mondo. Infatti è stato possibile per gli studiosi ricostruire la pronuncia di alcuni di questi dialetti proprio sulla base della trascrizione in caratteri ebraici, quasi fosse una sorta di Stele di Rosetta. L'altro pezzo della storia è il vero miracolo della resurrezione dell'ebraico come lingua corrente. Questo miracolo, operato da Eliezer Ben Yeuda, è ancora più evidente nella cacofonia delle lingue parlate per le strade di Tel Aviv e Gerusalemme.
  Oggi l'ebraico è un collante straordinario per il popolo ebraico in tutto il mondo. Ed è proprio in Israele che sorgono società come Babylon, il precursore dei dizionari online, Onehourtransaltions, uno dei leader mondiali nelle traduzioni umane online e Bablic.com (full disclosure, una delle nostre società di portafoglio) che consente di riprodurre qualsiasi sito in qualsiasi lingua in poche ore. L'apertura alle lingue è lo specchio di un'apertura mentale verso il diverso, verso l'altro. La Eyron di Ramat Gan è una delle società leader al mondo nell'adattare sistemi chiusi - come i software dei cellulari - in lingue non europee. Tradurre è un conto, cimentarsi con il senso di marcia inverso dell'ebraico e dell'arabo, da destra a sinistra, è un altro. Per non parlare delle lingue asiatiche. Più recentemente, Lexifone ha messo a punto un servizio di traduzione simultanea per telefonate internazionali. Io ho una marea di amici che non parlano altro che il loro dialetto, nemmeno l'italiano. L'Italia è piena di dirigenti che si sentono male quando parli di organizzare una conference call in inglese. Siamo nell'autarchia dell'ignoranza. L'italiano medio ha internet ma non ha modo di interagire con la quasi totalità del sapere, che è in altre lingue. Ha i film in lingua originale a disposizione ma da noi, si sa, il film si doppia. Non si capisce quanto questa ignoranza linguistica pesi sul sistema-paese Italia. E' un vero macigno sulla mancata internazionalizzazione delle nostre imprese e sulla crescita economica e culturale del Belpaese.
  C'è una foto a casa di mia nonna alla quale penso sempre quando si parla di lingue. Siamo poco dopo la guerra dei Sei Giorni e la Comunità ebraica riceve un giovane Shimon Peres nella bellissima casa dei miei avi. Nonno Fernando e nonna Mirella sono in conversazione con l'illustre ospite ma c'è un velo di insoddisfazione nell'espressione di nonno. Era nonna con il suo francese a intrattenere Shimon Peres. L'ignoranza linguistica è rimasta per lui una delle maggiori frustrazioni di una vita, altrimenti di gran successo. Dopo le leggi razziali nonno decise di provare a imparare l'inglese in vista di una possibile emigrazione. Fu rifiutato come studente proprio perché ebreo e quell'umiliazione rimase per lui, che pure nella guerra perse il fratello ad Auschwitz, come una delle maggiori ferite. Fu l'ultima cosa di cui parlammo, pochi giorni prima della sua morte, ma la sua voce è ancora con me: "Mi raccomando, le lingue! Impara le lingue!".

(Il Foglio, 21 luglio 2016)


Israele e Cisco firmano straordinario accordo strategico digitale

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e John Chambers, il Presidente di Cisco Systems Inc., leader nella fornitura di apparati di networking, hanno firmato un Memorandum per la cooperazione strategica che mira ad accelerare la digitalizzazione di Israele nel corso dei prossimi tre anni.
L'accordo è stato firmato alla presenza del Ministro per l'Uguaglianza Sociale Gila Gamliel e il Direttore Generale di Cisco Israel, Oren Sagi. La cooperazione si concentrerà sull'applicazione delle tecnologie digitali in tutto il settore pubblico, compresi sistema di istruzione, salute e lo sviluppo di città intelligenti. Oltre alla cooperazione, Cisco ha anche annunciato l'acquisto della startup israeliana CloudLock che sviluppa tecnologie di sicurezza per le applicazioni cloud aziendali, fornendo potenti soluzioni di sicurezza facili da implementare e semplici da gestire.
Nella prima fase della nuova partnership, Cisco ha comunicato un progetto in collaborazione con il Ministero per l'uguaglianza sociale e la Regione Eshkol del Negev. Il Negev orientale diventerà la prima regione completamente digitalizzata di Israele.
Come parte del progetto, Cisco creerà un centro digitale che offrirà numerosi servizi per migliorare la qualità della vita dei residenti della regione e porterà nuovi posti di lavoro per promuovere l'iniziativa.
Chambers ha sottolineato:
È un grande onore essere partner di questo paese, dei suoi cittadini e dei capi di governo di Israele, per questo cambiamento.
Sagi:
Cisco vede Israele come un mercato molto importante e uno dei leader mondiali in materia di innovazione e imprenditorialità, e quindi noi siamo uno dei centri più importanti per Cisco in tutto il mondo. Il progetto sul Negev, renderà l'area di Israele la prima regione digitale.
Fino ad oggi, Cisco ha investito 7 miliardi di dollari in investimenti diretti e indiretti in Israele. Cisco ha anche acquisito 11 aziende israeliane, investito in più di 30 startup made in Israel e in quattro fondi di venture capital.
(SiliconWadi, 20 luglio 2016)


Monte San Savino celebra 'Un matrimonio ebraico'

Un progetto del comitato per la Rete di Cultura Ebraica in Toscana, è questo il tema dell'evento in programma domenica 24 luglio a Monte San Savino

 
Sinagoga di Monte San Savino
MONTE SAN SAVINO — La Sinagoga e il teatro all'aperto faranno da sfondo ad evento programmato nell'ambito della rassegna del 'Festival delle musiche'. Un "inno alla vita" per celebrare l'antica presenza ebraica a Monte San Savino il cui programma si aprirà alle ore 19:00 presso l'antica Sinagoga di via Salomon Fiorentino con 'Il baldacchino nuziale' e le musiche tradizionali degli ebrei di Toscana.
«Si partirà dai locali della antica sinagoga dove celebreremo il rito della "chuppà", il baldacchino nuziale, con i canti della tradizione ebraica toscana - spiega Enrico Fink, direttore artistico della Rete di Cultura Ebraica in Toscana - poi un corteo di musicisti attraverserà il centro storico cittadino e accompagnerà "chattàn e kallà", sposo e sposa, fino allo splendido giardino del Palazzo Comunale e all'Anfiteatro dove tutti i partecipanti potranno partecipare al buffet preparato secondo le regole della cucina ebraica».
L'Orchestra Multietnica di Arezzo nasce nel 2007 da un percorso formativo, aperto alla partecipazione di musicisti italiani e stranieri e finalizzato alla conoscenza e all'approfondimento delle strutture di base delle musiche tradizionali delle aree del mediterraneo, per incrociarle con la tradizione italiana ed europea e predisporre un repertorio basato sulla contaminazione. Enrico Fink, musicista, attore, autore teatrale, è considerato uno dei principali interpreti della tradizione ebraica in Italia, mentre per quanto riguarda la presenza ebraica a Monte San Savino i primi documenti risalgono al 1626 attestando la concessione da parte del marchese Bertoldo Orsini agli ebrei Elia Passigli e Angelo Pesaro di aprire un banco di prestito e gestire altre attività mercantili. Esiste ancora oggi nel centro cittadino la via del piccolo quartiere ebraico, con la casa del rabbino e la sinagoga.
Infine i possessori del biglietto della mostra 'Andrea Sansovino profeta in patria' hanno il diritto all'accesso degli spettacoli a pagamento del Festiva del Festival Musicale Savinese a prezzo ridotto. Viceversa anche per i possessori del biglietto del Festival Musicale Savinese per la mostra 'Andrea Sansovino profeta in patria'.

(Qui News Valdichiana, 20 luglio 2016)


I tic e i cliché di un'opinione pubblica che non vuole guardare in faccia la realtà

Dove sono le manifestazioni di milioni di musulmani sconvolti e indignati per l'abuso della fede fatto dai loro correligionari?

le azioni omicide in diversi paesi del mondo ad opera di individui islamici possono anche nascere da una combinazione di certe dinamiche familiari, disfunzioni personali e rivendicazioni politiche locali, ma ciò che prevale in queste azioni individuali è la convinzione condivisa dagli autori che esse, per quanto assassine, siano giustificate in nome dell'islam.
Noi in Israele siamo inorriditi, ma non sorpresi, di fronte al crescente numero, all'estero, di attacchi omicidi contro innocenti come quelli che noi subbiamo da fin troppo tempo. E mentre assistiamo alla duplicazione esatta di quelle atrocità al di fuori di Israele, constatiamo in modo sempre più acuto l'ipocrisia, l'ambiguità, soprattutto il pericolo che risulta dall'esplosione del terrorismo islamista, per quella che è, nel migliore dei casi, una lettura grossolanamente sbagliata di questo flagello del nostro tempo; e nel peggiore, una forma di condiscendenza, un chiudere gli occhi, quasi una condivisione che non può che perpetuare una realtà che nel futuro sarà sempre peggio....

(israele.net, 20 luglio 2016)


Più di 200 ebrei francesi migrano in Israele, ma il numero è in calo

Nel 2016 attesi in 5.000, problemi a trovare lavoro e alloggio.

ROMA - Andare in Israele per non rimanere vittima degli attacchi dell'Isis? E' sicuramente uno dei motivi che ha spinto alcuni dei 200 immigrati ebrei della Francia ad andare in Israele. Sono arrivati sventolando le bandiere dello Stato d'Israele.
"Quando hanno attaccato la sinagoga Rue de la Roquette per noi è stato qualcosa di mai visto. E poi abbiamo una bimba di 6 anni e così siamo qui", racconta questo immigrato.
La ministra dell'Integrazione israeliana Sofa Landver aggiunge: "Chiederò agli immigrati di fare uno sforzo comune: qui non vengono solo accolti, devono anche fare uno sforzo per facilitare la loro integrazione".
Circa 5.000 ebrei di Francia hanno in programma di andare in Israele nel 2016, una diminuzione di circa il 30% in confronto al 2015, secondo Daniel Benhaim, direttore dell'agenzia ebraica per Israele in Francia e presente all'aeroporto di Lod, nel centro di Israele, dove ha accompagnato il gruppo di 210 francesi.
La barriera linguistica, i problemi nel far riconoscere i diplomi, la difficoltà di trovare un lavoro e un alloggio sono i principali ostacoli dei francesi che decidono di emigrare in Israele. Dopo l'attacco al supermercato Kosher a Parigi il 9 gennaio 2015, il governo israeliano ha approvato un piano da 42 milioni di euro per favorire l'immigrazione degli ebrei di Francia, ma anche di Belgio e Ucraina, nel paese.

(askanews, 20 luglio 2016)


Droni, il Giappone tentato dall'offerta israeliana

TOKYO - Il Giappone intende acquistare una nuova generazione di droni per la sorveglianza aerea, ma si trova nella difficilissima posizione di dover scegliere tra una allettante offerta israeliana, e quella dello storico Alleato statunitense. Il ministero della Difesa giapponese, scrive il quotidiano "Asahi", guarda con estremo interesse alla tecnologia israeliana, ma la scelta naturale, per Tokyo, sarebbe quella di optare per la piena integrazione con i sistemi e le tecnologie impiegati dagli Stati Uniti, cui il paese è legato da una alleanza strategica. Il Global Hawk proposto dal Pentagono a Tokyo, però, è caratterizzato da costi di manutenzione e operativi elevatissimi. Di contro, Israele potrebbe fornire al Giappone apparecchi assai meno dispendiosi - gli Heron Tp di Iai - nell'ambito di un progetto di sviluppo congiunto, e porre a garanzia dell'affare l sua lunga esperienza nel campo dei velivoli a pilotaggio remoto (Uav). Tokyo è perciò molto tentata dalla "opzione" israeliana, ma come spesso accade teme le conseguenze diplomatiche di un rifiuto dell'offerta statunitense. Stando a fonti citate dal quotidiano giapponese, l'interesse di Tokyo per i droni israeliani è andato consolidandosi nell'arco degli ultimi tre anni, ed è culminato in un colloquio a porte chiuse tra un funzionario dell'Agenzia per le acquisizioni della Difesa giapponese, Toru Hocchi, e funzionari del ministero della Difesa israeliano, nel corso della rassegna Eurosatory 2016, tenutasi Parigi il mese scorso.

(Agenzia Nova, 20 luglio 2016)


Il video del 17enne afghano. "Colpirò la Germania"

Dopo l'assalto sul treno in Baviera lo Stato islamico festeggia: "Uno dei nostri". Era un profugo arrivato nel 2015. A Parigi arrestato tassista con degli esplosivi.

di Alessandro Alviani

 
Le sue parole: "Ora sono in mezzo a voi,
o infedeli, e con questo coltello io vi taglierò la
testa. E voi, fratelli miei, voi che siete impediti
di fare la Jihad nel nostro stato islamico, anche
voi, ognuno di voi, deve uccidere qui gli infedeli"
BERLINO - Il giorno dopo l'assalto di Muhammad Riyad, il 17enne afghano che con ascia e coltello ha seminato il panico su un treno nei pressi di Wurzburg, in Baviera, è arrivata la rivendicazione dell'Isis. «È un combattente dello Stato islamico», ha fatto sapere l'agenzia Amaq, vicina agli islamisti. Poco dopo la stessa Amaq ha diffuso un video che il giovane le avrebbe spedito prima dell'aggressione. «Sono un soldato del Califfato, compirò un attacco da martire in Germania», spiega in lingua pashtu il ragazzo, armato di coltello. Il filmato è con ogni probabilità autentico, ha detto alla tv Zdf il capo della cancelleria federale, Peter Altmaien.
   Gli inquirenti tedeschi sono convinti che il giovane fosse un lupo solitario. Si sarebbe radicalizzato da solo. La famiglia alla quale era stato affidato da luglio non si era accorta di nulla. «Era gentile e premuroso», ha detto la madre affidataria, che ha aggiunto di non aver visto la bandiera dell'Isis nella stanza del ragazzo. «Non c'erano stati segnali di radicalizzazione», ha aggiunto il procuratore capo Erik Ohlenschlager. Il ragazzo sarebbe rimasto scosso dalla notizia della morte di un amico in Afghanistan, che ha ricevuto sabato. In seguito ha fatto molte telefonate.
   Il 17enne era un sunnita credente, ma non andava regolarmente in moschea. Era arrivato in Germania nel giugno 2015 e aveva ottenuto a marzo il permesso di soggiorno. Non ci sono indizi di legami con l'Isis prima dell'ingresso in Europa. Nulla che potesse far pensare a un fanatico radicale. E invece, secondo gli inquirenti, avrebbe agito per vendicarsi di quello che gli «infedeli» hanno fatto ai suoi fratelli musulmani. «E ora prega per me, affinché possa vendicarmi su questi infedeli e possa andare in paradiso», ha lasciato scritto in una lettera indirizzata al padre. Durante l'aggressione indossava due magliette: su una ci sarebbero simboli che rimandano all'Isis.
   Il 17enne, che faceva un tirocinio presso una panetteria, è uscito lunedì alle 20 dalla casa di Ochsenfurt, vicino Wurzburg, in cui era ospitato presso la famiglia affidataria, spiegando che sarebbe andato a fare un giro in bici. È salito su un treno regionale per Wurzburg, si è chiuso in un bagno, ha tirato fuori l'accetta e il coltello che aveva nello zaino e si è scagliato contro i passeggeri, urlando «Allah Akbar» e ferendo alla testa e al corpo una famiglia di Hong Kong. Alle 21,13 una donna, che lavora nello stesso centro per rifugiati in cui il ragazzo viveva fino a due settimane fa e che si trovava per caso sullo stesso treno, ha chiamato la polizia. Dopo che un passeggero ha tirato il freno d'emergenza, il 17enne è balzato fuori dal treno. Durante la fuga ha attaccato una passante e l'ha ferita al volto. Poi si è nascosto in una sterpaglia e si è scagliato con l'accetta contro due agenti. I poliziotti hanno esploso 4 colpi, uno dei quali alla fronte, e l'hanno ucciso.
   Le autorità tedesche sono convinte che il 17enne abbia agito da solo. Un timore, quello del lupo solitario, che ieri è tornato a materializzarsi anche in Francia, dove gli agenti hanno trovato 4 candelotti di dinamite a casa di un tassista di 23 anni e sequestrato documenti che lasciano pensare a una radicalizzazione. Sempre in Francia, a Laragne, un 37 enne ha accoltellato una donna e le tre figlie in un villaggio vacanze.
   Nel frattempo Gilles de Kerchove, coordinatore Ue nella lotta al terrorismo, ha lanciato l'allarme sugli oltre 5.000 europei che sono andati in Siria e Iraq per combattere con l'Isis e che potrebbero rientrare ora in Europa per compiere attentati.

(La Stampa, 20 luglio 2016)


Nizza e Israele
   Articolo OTTIMO!


di Eva Ruth Palmieri

Quando Israele gridava aiuto e lanciava l'allarme per gli attentati suicidi tra i civili, compiuti da fanatici terroristi, gli fu risposto che gli attentatori non erano terroristi ma "resistenti all'occupazione", che se la sbrigasse da sola. Quando Israele metteva l'Europa in guardia dai pericoli dell'"ideologia malata del fanatismo terrorista", la risposta fu che andavano boicottati i prodotti frutto dell'"occupazione", che se la sbrigasse da sola.
Quando ci furono attentati tra i civili nei ristoranti, nei centri commerciali, e tra i civili inermi in Israele, il mondo girò la testa dall'altra parte, perché sarebbe stato sufficiente "mettere fine all'occupazione", che se la sbrigasse da sola. Quando Israele mostrò al mondo la ferocia di Hamas che festeggiava ogni morto ebreo, il mondo pensò che non li riguardava. Quando le stragi di civili avvennero con le stesse modalità della strage di Nizza, Israele fu lasciata sola. In risposta al silenzio del mondo sui suoi morti Israele ha aperto le sue porte a migliaia di ebrei francesi ed europei, lasciati soli dai propri governi. Ha continuato a credere e a promuovere la democrazia, a mantenere fermo il suo intento di restare un Paese inclusivo, democratico e multietnico, ha continuato da sola a credere nei valori universali della convivenza e a credere nella pace. Israele è stata abbandonata.
Davanti alla strage di Nizza, Israele ha dichiarato la propria vicinanza e solidarietà con il popolo francese, ha riaffermato la sua volontà di combattere insieme contro chi vuole annientare la Libertà, la Fratellanza, e l'Uguaglianza. E che il Male si sconfigge solo restando uniti. Trovate le differenze.

(L'Opinione, 20 luglio 2016)


14 ottobre 2015, in Israele infuria l’«intifada dei coltelli» e il mondo, tranquillo, osserva. Riflessioni.


"L'Europa è sotto attacco e non lo sa. Rinunci a Schengen o unisca i servizi"

L'analista israeliano Boaz Ganor, direttore dell'Istituto internazionale per l'Anti terrorismo: contro i lupi solitari collaborino i cittadini, serve un equilibrio tra democrazia e sicurezza, i terroristi vogliono cambiare la nostra società

di Francesco Olivo

Boaz Ganor
- Professor Ganor, come fa l'Europa a difendersi da questi lupi solitari?
  «Intanto serve prendere consapevolezza del fatto che l'Europa, specie quella centrale, è al centro di un'ondata di terrorismo e questo, peraltro, non è il picco. Bisogna che gli europei se ne rendano conto».

- Non ce ne rendiamo conto?
  «Non completamente».

- L'ondata di cui parla è caratterizzata dalle azioni dei cosiddetti lupi solitari, come a Nizza e suI treno tedesco?
  «Le tipologie di attacco sono fondamentalmente due: gli attacchi pianificati nei dettagli da gruppi organizzati e quelli di matrice indipendente, i lupi solitari. È evidente che l'intelligence, che lavora soprattutto intercettando le comunicazioni, è fondamentale nel primo caso e molto meno nel secondo».

- Come ci si difende dai lupi solitari?
  «Bisogna formare i corpi di polizia e convincere le società europee che facendo attenzione a quello che ci circonda ogni giorno si possono sventare molti attentati».

- Non si rischia di creare psicosi? Gli europei dovranno rinunciare ai diritti civili?
  «I rischi esistono. La grande sfida del nostro tempo è trovare un equilibrio tra democrazia e sicurezza. L'obiettivo del terrorismo è proprio cambiare il nostro modello politico e sociale».

- Se è vero quello che dice, che senso ha fare la guerra all'lsis in Siria e in Iraq?
  «Resta fondamentale. Perché anche i lupi solitari si ispirano alle azioni dell'Isis. Quindi colpire lo Stato islamico significa contrastare l'arma della propaganda».

- Il lavoro dell'intelligence è meno utile di un tempo?
  «No, perché gli attentati pianificati continuano a essere molti, pensiamo al Bataclan, a Bruxelles o all'aeroporto di Istanbul».

- C'è un modello che l'Europa può seguire?
  «Israele: una democrazia liberale che ha sviluppato sistemi efficaci per difendersi».

- Dove sbaglia l'Europa?
  «II vostro continente ha un grande problema: Schengen ha abolito le frontiere. Così, se c'è uno Stato debole, come nel caso del Belgio, i problemi ricadono su tutti gli altri».

- Quindi l'unica strada è abolire un trattato che è stato simbolo dell'Unione?
  «Un'alternativa esiste. Se l'Europa, legittimamente, non vuol rinunciare a Schengen, allora l'unica strada è uniformare le intelligence, così da compensare le debolezze di alcuni degli Stati membri».

- L'attentato di Nizza sarebbe potuto accadere in Israele?
  «No. L'attentatore sarebbe stato fermato molto prima. Nel giorno in cui si celebra l'indipendenza un camion che prima sosta in una zona chiusa, poi supera i varchi dicendo alla polizia di portare dei gelati avrebbe destato sospetti non solo negli agenti, ma anche nelle persone comuni».

(La Stampa, 20 luglio 2016)


Il grande assalto islamista all'Europa assuefatta. Forum

Intellettuali americani su un continente che chiede solo di "morire in pace". Parlano Thornton, Weigel, Berman e Novak.

di Giulio Meotti

ROMA - "Non riesco a cancellare dalla mia memoria le esplosioni dei due aerei che si schiantano contro le Torri gemelle di New York e la perdita di vite americane a Washington, tra cui quella di una mia cara amica, la giornalista Barbara Olson". Si apre così, legando gli 84 morti di Nizza ai tremila americani, la conversazione con il Foglio di Michael Novak, filosofo, politologo ed ex ambasciatore americano al Consiglio dei diritti umani di Ginevra. "Mai quanto oggi, dalla Seconda guerra mondiale, l'occidente è stato senza guida. Ma in occidente, il fuoco della libertà arde nel cuore. E quando gli occidentali ne hanno avuto abbastanza, alcuni hanno cominciato a soffiare sulla brace facendo ardere di nuovo la brace. Non è l'ora di questo 'abbastanza'? Sta agli occidentali decidere se vivere liberi o cadere prostrati. E' sempre possibile che gli occidentali spengano la propria luce interiore. Ma soltanto loro possono farlo". Già, che destino ha di fronte l'Europa e come ci siamo arrivati? Ne parliamo con quattro fra i massimi intellettuali americani.

Bruce Thornton
"Oggi non c'è alcuna volontà politica di fare la guerra all'Isis", dice al Foglio Bruce Thornton, docente di Studi classici alla California State University, affiliato al pensatoio di Stanford, la Hoover Institution, liberale straussiano autore di "Greek Ways: How the Greeks Created Western Civilization" e di "Bonfire of Humanities". "Richiederebbe centomila soldati, il massiccio bombardamento per eliminare i jihadisti, l'abbandono di regole di ingaggio che privilegiano le vite del nemico alle nostre, essere in grado di rispondere alla critica globale sulle vittime civili, aumentare la sorveglianza e le deportazioni e chiedere pubblicamente che le comunità musulmane in occidente sconfessino il jihadismo e la sharia". Ma secondo Thornton, al di là dei mezzi da dispiegare, è culturale l'afasia. "Il prestigio dell'occidente è a brandelli, perché i nostri alti ideali sono visti come debolezza dai jihadisti e come segni di corruzione religiosa e mancanza di qualsiasi altro bene superiore che non sia il nostro piacere. Non scompariremo in guerra, ma noi e i nostri figli, supponendo che ne avremo ancora, passeremo attraverso una lenta erosione della nostra libertà e cederemo sempre più della nostra civiltà al Califfato".
Bruce Thornton ritiene che la democrazia possa non farcela, come ha appena detto Michel Houellebecq dal palco di Collisioni a Barolo. "Il jihadismo in Francia sta prendendo piede", sostiene l'autore di "Sottomissione". "I jihadisti, come ci dicono da secoli, vogliono tornare alla gloria dell'islam, quando l'Europa tremava di fronte agli eserciti di Allah", prosegue Thornton. "Il loro obiettivo è il discorso d'addio di Maometto: combattere gli uomini fino a che non diranno che 'non c'è altro dio che Allah'. Naturalmente capiscono che non possono raggiungerlo militarmente. Ma possono realizzarlo con un'erosione della nostra volontà in modo che cediamo sempre di più della nostra civiltà al controllo musulmano. E' questo il 'Grande Jihad', come i Fratelli musulmani lo chiamano, e questo è a buon punto, specie in Europa". Possono vincere? "Non se provocano una reazione di tutti quei milioni di europei derisi dalle élite europee, gli 'xenofobi', i 'fascisti'. Non se questi sapranno eleggere leader che ridaranno vigore alla politica estera, investiranno nella difesa, celebreranno i successi della civiltà occidentale e smetteranno di compiacere i musulmani. La domanda è: questa reazione eroderà le fondamenta liberali dell'occidente, una volta che il genio sarà uscito dalla bottiglia? Noi occidentali dobbiamo fare come Churchill dopo la Conferenza di Monaco, quando disse di 'sollevarsi e riprenderci la libertà come ai tempi antichi'".
Potrebbe l'Europa sopravvivere a un disimpegno americano, avviato da Obama e minacciato anche da Trump? "Solo se ricordasse la propria gloriosa storia e cultura, smettendo di fare i 'pigmei militari', come ha detto il capo della Nato Lord Robertson", continua al Foglio Bruce Thornton, classicista della California State University. "Sotto Obama, gli Stati Uniti hanno tagliato la spesa militare, revocato la leadership da tutto il mondo, e perseguito una politica estera basata sulla debolezza, il tutto incipriato con il pensiero magico dell''impegno diplomatico', gesti futili che il nemico giudica a ragione come un segno di debolezza e paura. Lo scopriremo nei prossimi anni se la maggioranza dei cittadini statunitensi vuole essere come l'Europa. In tal caso, chi andrà a sostituire gli Stati Uniti come il custode dell'ordine globale? La Russia? La Cina? In questo momento l'occidente piagnucola, tiene veglie per i morti e piange invece di mostrare la rabbia giusta. Chi si ricorda di Charlie Hebdo? Abbiamo appena cambiato canale".

 
Paul Berman
Non è d'accordo Paul Berman, intellettuale della New Left, autore di "Terrore e liberalismo" (Einaudi). Berman parla di Obama. "Ci sono due presidenti", dice Berman al Foglio. "Quello di giorno che scrive discorsi e si presenta in termini pensati per non suscitare emozioni o aumentare le aspettative di nessuno. Quando invia messaggi in Europa, Obama lo fa come se fosse il presidente del Paraguay. Egli vuole bene all'Europa. Ma Obama capisce che l'America è abbastanza forte per assorbire i colpi, e il resto del mondo dovrà cavarsela. Ecco perché, quando la Francia subisce una atrocità terroristica, il giorno dopo Obama manda le condoglianze a Hollande, invece di inviare rassicurazioni pubbliche al popolo francese. Buona fortuna, amici!".
Vi è poi un Obama notturno: "Non ha alcuna relazione con la personalità umile e schiva del giorno. La notte Obama è il capo della Cia dagli occhi freddi. Egli ordina attacchi militari in molti più paesi rispetto a George W. Bush. I suoi droni assassinano capi terroristi dal nord Africa al Pakistan. Sarebbe facile immaginare un altro presidente americano che faccia di più, e a mio avviso sarebbe bene. E tuttavia la campagna militare contro lo Stato islamico sembra aver compiuto progressi significativi, visibili in Iraq e Siria, e forse anche in Libia. Perché Obama non rende la sua personalità timida di giorno conforme a quella aggressiva di notte? Non riesco a spiegarlo, se non supponendo che, nel profondo del suo cuore, Obama sia in conflitto e che abbia risolto il conflitto interiore vivendo una doppia vita. La sua doppia vita ha creato una percezione sbagliata per cui l'America sembra intenzionata a ritirarsi dall'Europa e dal mondo. Il ritiro non sta avvenendo. Quindici anni dopo l'11 settembre, siamo ancora nel bel mezzo della lotta. Obama ha commesso l'errore di permettere che le proprie confusioni diventassero visibili. Ma l'alleanza occidentale ha sconfitto il fascismo, ha sconfitto il comunismo, e alla fine sconfiggerà gli islamisti".

George Weigel
Anche secondo George Weigel il problema dell'occidente è nel comprendere chi ha di fronte. "La mancanza di volontà di nominare questa minaccia per quello che è va considerata parte del problema della incapacità dell'occidente di affrontare la minaccia con successo, sconfiggendola", dice al Foglio Weigel, acclamato biografo di Karol Wojtyla e considerato uno dei più influenti e ascoltati intellettuali cattolici degli Stati Uniti. "Se l'occidente non è disposto ad affrontare il fatto che è stato il ritiro della propria potenza militare da Iraq e Afghanistan ad aver creato il vuoto da cui è emerso il veleno dell'Isis, non ci sarà risposta soddisfacente alla minaccia islamista o alla crisi dei rifugiati che paralizza l'Europa. Il presidente Obama, naturalmente, ha la responsabilità maggiore per questo ritiro e per il conseguente vuoto riempito dall'Isis, e ciò che è ancora peggio è stata la sua mancanza di volontà di imparare dagli errori". Dieci anni fa, Weigel fu uno dei primi a inquadrare il conflitto interno all'Europa nel best-seller "La cattedrale e il cubo". Dove il Cubo è La Grande Arche de la Défense, l'edificio voluto a Parigi da Mitterrand come monumento alla laicità, mentre la Cattedrale è quella cattolica di Notre-Dame.
"Quando ho provato a discutere di questi problemi morali e culturali con gli europarlamentari a Bruxelles, mi è stato detto, in poche parole: 'Non venire qui a provocare, sappiamo che siamo finiti, ma preferiamo morire in pace'", continua Weigel al Foglio. "Questo messaggio mi ossessiona fin da allora. Se l'Europa e l'occidente in generale ridurranno la libertà a mero arbitrio personale - la 'Repubblica del Me' - allora non c'è motivo di pensare che andremo a resistere con successo alla sfida esistenziale posta dai jihadisti dell'islam. O a risolvere i nostri molteplici problemi. O a invertire un inverno demografico auto-indotto. Sarebbe utile che i leader della chiesa cattolica in tutta l'Europa occidentale si concentrassero su tali questioni piuttosto che perdere tempo a stabilire la morale sessuale cattolica e l'etica del matrimonio. La crisi morale della civiltà in Europa è, in fondo, una crisi di un secolarismo inacidito in un nichilismo e in uno scetticismo che alla fine producono ciò che il cardinal Joseph Ratzinger ha chiamato nel 2005 la 'dittatura del relativismo'. La decadenza spirituale e intellettuale, a quanto pare, è invalidante per la civiltà come la decadenza materiale".
Secondo Weigel, il problema è anche ormai una incapacità europea nel giustificare una eventuale guerra al terrore islamista. "L'occidente ha bisogno di giustificare i propri impegni verso la democrazia liberale. Questo è il presupposto assoluto per la difesa della democrazia liberale. E sembra ormai chiaro che la licenziosità nelle sue varie forme non fornisce tale giustificazione. La visione biblica della persona umana e quella della società umana sono tra i fondamenti culturali dell'occidente e, a meno che non venga recuperata, l'occidente è nei guai. Stiamo andando verso un periodo molto difficile. La mancanza di leadership politica in tutto l'occidente - e certamente includo gli Stati Uniti in questa accusa - è assolutamente spaventosa. Abbiamo bisogno di una figura come quella di Giovanni Paolo II per recuperare le parti più nobili del nostro patrimonio culturale, compreso l'impegno per la tolleranza e il pluralismo, e quindi ricostruire le democrazie su basi forti. Democrazie che sanno che possono e devono sconfiggere l'islamismo terrorista".

 
Michael Novak
Più ottimista l'altro intellettuale cattolico di fama, Michael Novak: "Ricordiamo come questi eventi sono iniziati", dice al Foglio. "Nel 631, gli eserciti di Maometto con la loro nuova religione guerriera stavano convertendo il mondo intero con la forza. Damasco, Beirut, Gerusalemme, Alessandria, Il Cairo, Tunisi, Casablanca, Toledo, Navarra… In meno di cento anni, le truppe di Maometto avevano conquistato l'intera sponda meridionale d'Europa, attestandosi a Poitiers, in Francia. L'Europa ha avuto il coraggio di combattere sotto la guida di Carlo Martello. Da allora in poi, per centinaia di anni, le navi musulmane sono scese nell'Europa meridionale e lungo tutta la costa d'Italia. L'Europa è stata lenta a reagire anche allora. La volontà, la morale e la tecnologia superiore hanno dato all'occidente le brillanti vittorie difensive a Malta (1565), Lepanto (1571), e poi a Vienna (1683). Solo allora una lunga pace è scesa sul Mediterraneo. No, noi occidentali non siamo 'condannati'. Abbiamo i mezzi e le conoscenze per difendere ciò che amiamo. Abbiamo la libertà. Quello che ci manca è un leader. E' un grande vuoto. Quando gli Stati Uniti depongono le armi, l'occidente è senza leader. Solo gli Stati Uniti hanno il potere di correre il rischio. Quale altra nazione ha il potere di farlo?".
Novak incolpa il welfare state europeo per la demoralizzazione diffusa. "Senza la libertà, l'esistenza umana è inutile, vuota, il nulla. Come Franklin Roosevelt ha previsto nel 1935, uno stato sociale eccessivo snerva milioni di cittadini. Diventano assuefatti a prendere, mai a dare; a ricevere passivamente, senza creare. Diventano sempre più dipendenti dagli altri, meno responsabili, incoraggiati a vivere una mezza vita". Ma Novak non crede affatto che in occidente siamo più "decadenti" rispetto ai musulmani. "Vedo molte prove del contrario. Una civiltà superiore non ispira terrore, non usa la conversione forzata, non mette il coltello alla gola di persone di altre religioni dicendo loro: 'Convertitevi o morirete'. Queste possono essere perversioni dell'islam; ma non sono certamente ragioni per rivendicare una virtù morale superiore". Secondo Michael Novak, il nerbo che l'occidente ha perso è culturale: "Gli eserciti romani dell'antichità non erano cristiani, ma erano coraggiosi, audaci, avevano fiducia nel significato della loro civiltà, nella ragione e nella legge. Al contrario il nostro 'illuminismo' non può sopportare la realtà di essere giudicati se non per se stessi. L'unico modo per sbarazzarsi del giudice è quello di sbarazzarsi del giudizio, cioè, di trasformarlo nella perdita di significato: il nichilismo. Sulla base del nichilismo, come Albert Camus ha sottolineato, il nazismo era giustificato e quindi i crimini del comunismo. Il nichilismo, il relativismo, questi sono la resa dell'occidente. Questi sono l'ammissione di inutilità dell'occidente".
Molte volte, il cristianesimo è venuto in soccorso dell'Europa in crisi. Saprà farlo di nuovo? "In Italia lo fece nel prevenire la vittoria del comunismo nelle elezioni degli anni Quaranta; in Russia lo fece quando Stalin riaprì le chiese e aperto la strada al potere interiore delle vecchie donne con i loro libri di preghiere; nei monasteri benedettini che sorsero in Italia e hanno salvato i grandi classici di Atene e di Roma riproducendo centinaia di manoscritti che altrimenti sarebbero andati perduti. E senza Giovanni Paolo II, il Grande, come avrebbe potuto il comunismo essere pacificamente cacciato via dalla Polonia? Non è necessario diventare cristiani al fine di riconoscere i nostri debiti verso la fede cristiana. Tutto ciò che serve è l'onestà. Come quando la cristianità è andata in soccorso dell'Italia sopraffatta dalla flotta turca, con la vittoria a Lepanto, che ha evitato che la lingua italiana venisse sostituita da quella turca".

(Il Foglio, 20 luglio 2016)


A Brescia un concerto per gli ottant'anni dell'orchestra Filarmonica di Israele

L'orchestra fu tenuta a battesimo da Arturo Toscanini nel 1936.

ROMA - Brescia celebra l'ottantesimo anniversario della Fondazione della Filarmonica di Palestina, ora filarmonica di Israele, che nel 1936 venne tenuta a battesimo nel concerto inaugurale diretto da Arturo Toscanini, con un concerto dell'orchestra Filarmonica della Franciacorta, diretta dal maestro statunitense - per la prima volta in Italia - James Feddeck, al Teatro Grande il 9 settembre prossimo, alle ore 20.
L'iniziativa è patrocinata dall'ambasciata israeliana in Italia, dalla Regione Lombardia, Provincia di Brescia, Città di Brescia, e sostenuto dal ministero del Turismo dello Stato ebraico.
I legami tra Toscanini e il popolo ebraico sono profondi. Nel 1933 il grande direttore d'orchestra fu infatti il primo firmatario di un telegramma indirizzato a Hitler per protestare contro il bando ai musicisti ebrei che erano stati esclusi dalle orchestre tedesche. Pochi giorni dopo aver ricevuto quel telegramma, Hitler invitò personalmente il Maestro affinché tornasse a dirigere al Festival di Bayreuth, ma Toscanini rifiutò. Nel 1936, invece, accolse molto volentieri l'invito a dirigere i primi concerti della neonata Orchestra di Palestina (oggi Filarmonica di Israele), formata interamente da musicisti ebrei che erano stati costretti a lasciare l'Europa. Toscanini pose una sola condizione: sarebbe andato, ma a proprie spese e senza alcun compenso. La presenza di Toscanini fu un eccezionale lancio per la nuova orchestra. Nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia, il Maestro volle dare un nuovo segno di vicinanza al popolo ebraico. Tornò a dirigere l'orchestra che aveva fatto nascere. In questa occasione, per la prima (e ultima) volta l'orchestra eseguì musiche di Wagner.
L'evento "Toscanini e gli ottant'anni della Filarmonica di Israele (1936-2016)" sarà presentato domani, nel corso di una conferenza stampa ospitata a Palazzo Broletto, a Brescia, cui prenderanno parte, fra gli altri, Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo di Milano e Emiliano Facchinetti, presidente dell'Orchestra Filarmonica della Franciacorta.

(ANSAmed, 20 luglio 2016)


L'università israeliana interessata a Prato, si parte con una summer school

Prato, contatti tra il sindaco Matteo Biffoni e il rettore della Shenkar University Yuli Tamir per unire formazione teorica ed esperienze di lavoro nelle aziende tessili

Il sindaco Biffoni durante l'incontro con la Shenkar University
Il sindaco Biffoni con la rappresentante della Shenkar University
PRATO - La buona esperienza di altre università straniere come la Monash University, la posizione strategica nel cuore della Toscana, la possibilità di unire formazione ed esperienza nelle aziende studiando da vicino le imprese del distretto pratese. Sono questi i principali motivi di attrazione che Prato può offrire agli studenti che decidono di trascorrere un periodo della loro carriera accademica in Italia e questi sono anche i punti di forza che hanno convinto l'israeliana Shenkar University a guardare con interesse a Prato.
Martedì 19 luglio il sindaco Matteo Biffoni , in missione in Israele e Palestina con Anci Toscana, ha incontrato Yuli Tamir, rettore della Shenkar, Leah Peretz, direttore del dipartimento di fashion design, Katya Oicherman, direttore del dipartimento di design tessile e Esther Wynhorst, direttore dell'ufficio internazionale. L'università, con sede a Ramat-Gan (Tel Aviv), è punto di riferimento per le sue facoltà di ingegneria e design, specializzata in particolare nel tessile.
   Questo incontro segue quello avuto dal sindaco Biffoni e dall'assessore all'Università Daniela Toccafondi un mese fa con l'ambasciatore israeliano in Italia che ci aveva anticipato l'interesse della Shenkar a inviare i propri studenti a Prato: "Un interesse confermato oggi qui in Israele, soprattutto per la possibilità di unire un percorso di formazione con l'esperienza diretta nelle nostre imprese, eccellenza del settore tessile - sottolinea Biffoni a margine dell'incontro -. Per questo l'università israeliana sta valutando di iniziare con una summer school già nel 2017, per poi sviluppare ulteriormente la propria presenza a Prato se l'esperienza sarà positiva. Prossimamente ci confronteremo quindi con le categorie economiche del settore per poter dare gambe a questa possibilità di collaborazione".
   Con il sindaco Biffoni era presente anche il direttore del Pin Enrico Banchelli: il Polo ha infatti il compito, per conto del Comune di Prato, di attrarre università straniere sul territorio. "L'attenzione di una nuova università per Prato è sicuramente un fattore di grande interesse - ha concluso il sindaco - sia per le partnership che possiamo creare con altri Paesi, sia perché la presenza di studenti stranieri contribuisce a rendere Prato una città giovane, dinamica e più conosciuta all'estero per le bellezze che può offrire".
Durante la missione in Palestina e in Israele il sindaco Matteo Biffoni e il direttore di Anci Toscana Simone Gheri ha incontrato i sindaci palestinesi e quelli israeliani. Le iniziative sono sostenute dal Protocollo Anci-Regione, per integrare e dare continuità al lavoro svolto dagli altri attori toscani, in particolare il progetto Paden (Peace And Developing Networking), che sostiene lo sviluppo locale in Palestina e Israele, favorendo il rafforzamento del ruolo di governo del territorio e delle capacità di programmazione delle amministrazioni municipali mediorientali, con la collaborazione della società civile locale.

(Il Tirreno, 20 luglio 2016)


Quei soldati messi alla gogna. Quando il potere umilia gli sconfitti

di Pierluigi Battista

Umiliazione
Il rito dell'umiliazione dei vinti non è un residuo arcaico liquidato dalla modernità
Esibizione
La gogna oggi si fissa in un'immagine, una foto, un video, un selfie, di sopraffazione esibita

Quei corpi ammassati e denudati di ufficiali puniti da Erdogan perché considerati golpisti. Che poi forse non è neanche vero che lo siano stati. Chissà. Un autocrate non ha bisogno di prove, come in uno Stato dove prevale il diritto, per schiacciare il suo popolo con il pugno di ferro e per inventarsi colpe mai commesse eppure da espiare come segno di feroce vendetta, di spietata rappresaglia.
   Però, se si pensava che il rito dell'umiliazione sul vinto fosse oramai un residuo arcaico liquidato dalla modernità, il ricordo di un passato buio, tramontato come quello strumento di materiale sevizia, quella composizione oscena di ceppi di legno con tre buchi e chiusi come una cerniera attorno al collo del reprobo chiamata «gogna», dobbiamo purtroppo ricrederci. Perché la gogna oggi si fissa in un'immagine, una foto, un video, un selfie, di sopraffazione esibita. Nel calpestare la dignità dello sconfitto. E troppo di frequente: nella Bosnia martoriata dalle milizie dei carnefici serbi con quelle colonne di esseri umani oramai diventati scheletri semoventi. Nell'Iraq in cui i «liberatori» hanno sottoposto il dittatore Saddam Hussein all'umiliazione di un prigioniero ispezionato, violato, deriso. A Donetsk dove i separatisti filorussi hanno fatto sfilare in catene i soldati ucraini lealisti, laceri, sporchi, sbeffeggiati e riempiti di sputi dalla popolazione aizzata dall'odio. Troppo, troppe volte. In Turchia adesso: un potere violento che fa dei corpi degli sconfitti tanti patetici manichini da dileggiare, impaurire, ostentare come monito e minaccia.
   Non è lo scempio dei cadaveri degli sconfitti raffigurato una volta per sempre dal corpo straziato di Ettore trascinato nella polvere da un furibondo Achille. Non è quella escrescenza terrificante delle guerre in cui a piazzale Loreto hanno prima i potenti fascisti di allora esibito i partigiani impiccati, e poi come crudele legge del contrappasso, sono stati scempiati i corpi a testa in giù di Mussolini e di Claretta. E non è nemmeno una di quelle fotografie disgustose dell'Alabama dei primi decenni del Novecento in cui i bianchi orribili del Ku Klux Klan si felicitavano spudoratamente sotto i corpi dei due neri che penzolavano senza vita dal ramo di un albero. No, qui sono corpi vivi e però umiliati, messi in mostra, esibiti, portati sul palcoscenico per essere esposti al pubblico ludibrio. Il rito dell'umiliazione di un pugno di soldati americani senza onore che nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq, si divertivano a mostrare i prigionieri terrorizzati, nudi, ammucchiati in pose degradanti, con un cane lupo che abbaiava per vedere i prigionieri paralizzati dal panico. Il rito della degradazione pubblica che in quello stesso Iraq, ma stavolta sotto il tallone d'acciaio di un dittatore sanguinario come Saddam Hussein, fu messo televisivamente in scena durante una riunione del gruppo dirigente del partito Baath quando i «traditori» presunti venivano chiamati uno ad uno ad alzarsi sotto lo sguardo severo del despota e farsi trascinare nella più vicina prigione per essere giustiziati senza processo.
   Il potere che umilia, calpesta, priva di dignità chi deve subire in silenzio la gogna e l'umiliazione. Come quelle migliaia e migliaia di «borghesi», professori, intellettuali, maestri, musicisti, costretti a sfilare durante la Rivoluzione culturale in Cina con cartelli appesi al collo e in testa un cappello con le lunghe orecchie da somaro, mentre nugoli di Guardie Rosse fanatizzate e sotto il comando degli alti papaveri del partito maoista insultavano le loro vittime. Come i controllori del campo di internamento di Coltano a pochi chilometri da Pisa che dopo il 25 aprile tennero segregato in una «gabbia del gorilla», esposto come un «animale nello zoo» scrisse una volta Truman Capote, il poeta Ezra Pound, reo di aver tradito la patria americana sostenendo alla radio l'azione del nemico Mussolini. Come gli ufficiali giapponesi, proprio loro che avevano trattato con una brutalità inimmaginabile i loro prigionieri, che venivano fotografati e immortalati mentre l'imperatore, spogliato dei suoi attributi divini, annunciava la resa disonorevole per il suo popolo. Come i processi farsa dell'epoca di Stalin in cui gli imputati torturati confessavano i delitti più inverosimili.
   Residui arcaici, tracce di un passato che nell'antichità contemplava la gogna dei prigionieri costretti a sfilare sotto il giogo, faceva pronunciare lo spietato «Guai ai vinti», costringeva gli sconfitti a trascinarsi nell'orrore delle forche caudine. La lettera scarlatta del disonore, la colonna infame del linciaggio. Purtroppo ancora attuale. A Istanbul, adesso. In Italia quando le Brigate Rosse esibivano le immagini dei prigionieri umiliati, Taliercio, Moro, Roberto Peci ammazzato per punire attraverso di lui il fratello «pentito». Il rito dell'umiliazione, della degradazione, l'ultimo sigillo di un potere spietato e senza controlli.

(Corriere della Sera, 20 luglio 2016)


Dal "Jerusalem Post": serie di battute d'arresto diplomatiche per l'Autorità palestinese

GERUSALEMME - Dal fallimento dell'ultimo round dei colloqui di pace con Israele, nel maggio del 2014, la leadership palestinese ha rinnovato la strategia internazionale per ottenere la creazione di uno Stato. I suoi sforzi si sono concentrati principalmente sull'adesione ad istituzioni internazionali come la Corte penale internazionale e sulla ricerca di un maggiore sostegno internazionale alle sue rivendicazioni politiche. La leadership palestinese ha ottenuto alcuni successi, come testimonia l'iniziativa di pace francese, osteggiata da Tel Aviv; ma di recente ha rimediato anche diverse sconfitte e battute d'arresto, elencate dal quotidiano "Jerusalem Post". La prima risale ai primi di giugno, quando il Gruppo dei paesi dell'Europa Occidentale e Altri (Weog) ha nominato Israele presidente del comitato giuridico delle Nazioni Unite (Onu), uno dei sei comitati permanenti dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. La leadership palestinese si era opposta con forza alla candidatura, e con il supporto dello Yemen aveva ottenuto l'organizzazione di un voto all'interno dell'Assemblea. Tuttavia, la maggioranza dell'assemblea - 103 su 175 votanti - ha deciso a favore dell'assegnazione della presidenza del comitato a Israele. L'esito del voto è stato una grande delusione per la leadership palestinese e ha rivelato che i palestinesi non possono contare sul sostegno certi di diversi Stati "amici" dell'Assemblea generale, inclusi alcuni Stati arabi tradizionali sostenitori della leadership palestinese.
  Un altro brutto colpo per la diplomazia palestinese risale agli inizi di luglio, quando il Qatar ha pubblicato il suo attesissimo rapporto sul processo di pace israelo-palestinese. Il documento contiene un duro e inatteso atto d'accusa proprio nei confronti dell'Autorità palestinese (Anp), accusata di non aver fatto abbastanza per arginare la violenza. Il particolare, il rapporto qatariota sostiene che l'Anp dovrebbe "agire con decisione e intraprendere tutte le misure possibili per cessare l'incitazione alla violenza e rafforzare gli sforzi di contrasto al terrorismo, specie tramite la condanna inequivocabile degli atti terroristici". Infine, la sconfitta diplomatica più recente subita dalla leadership palestinese coincide con la recente visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu in Africa, che ha portato all'apertura di una nuova era di relazioni diplomatiche tra Tel Aviv e diversi paesi di quel continente, e potrebbe culminare con la riammissione di Israele nell'Unione africana nel ruolo di osservatore.

(Agenzia Nova, 19 luglio 2016)


"Non bisogna aver paura da chi è scappato dalla guerra"

Intervista a Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah. "In tre mesi l'anno scorso ne abbiamo ospitati oltre 4500".

Roberto Jarach
E' un sì convinto all'accoglienza degli stranieri, quello che viene da Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah, non ci ha pensato due volte quando gli hanno chiesto di ospitare i migranti al Binario 21.

- Non ha paura, Jarach?
  
«lo no e non mi sembra che i milanesi ne abbiamo. Anche dopo l'attentato di Nizza, non noto un cambiamento di opinione rispetto all'ospitalità di chi fugge dalla fame e dalla guerra».

- Voi li accogliete in un posto "speciale": il binario da dove partivano i vagoni blindati per Auschwitz.
  
«Proprio quell'esperienza ha insegnato a noi ebrei che il perseguitato, il sofferente, va aiutato. Chi scappa dal proprio Paese non lo fa per divertimento e noi abbiamo il dovere di aiutare. È una questione umanitaria di fronte alla quale non si deve sfuggire».

- C'è molta paura, però.
  
«Bisogna conoscersi, parlarsi da vicino. Pensare a questi temi con i paraocchi del pregiudizio politico, non aiuta. L'anno scorso abbiamo ospitato oltre 4500 persone al Memoriale in tre mesi. Abbiamo lavorato tutti assieme: noi, la comunità ebraica, la comunità di sant'Egidio, le varie altre realtà che hanno collaborato, dalle parrocchie alle chiesa anglicana».

- È stato un esperimento positivo?
  
«Non abbiamo avuto mai problemi. C'è stata una sola persona che provocava, ed è stata allontanata. Per il resto ho conosciuto tante persone distrutte dalla stanchezza, dal viaggio, dalla guerra. Persone delle quali era, ed è, impossibile avere paura. Basta avvicinarsi per sconfiggere la paura».

- Quali difficoltà incontrate?
  
«Questi ragazzi che vengono dall'Eritrea - l'85 per cento di quelli che ospitiamo sono di questa nazionalità - aspettano tantissimo prima di avere una risposta alla domanda di asilo. Noi diamo loro ricovero la notte, ma di giorno dove vanno? Stamattina ho visto uscire quattro ragazze fra i 14 e i 16 anni che avevano dormito da noi. Mi sono chiesto chi le protegge durante il giorno».

- E il dibattito sulla moschea?
  
«Il dialogo fra le religioni è fondamentale in questo momento. La strumentalizzazione religiosa ci preoccupa. Noi siamo per il dialogo con l'Islam, a patto che ci sia chiarezza di interlocutori. Il diritto di culto va garantito a tutti. Noi ebrei abbiamo le sinagoghe, è giusto che loro abbiano le moschee. Purché si controlli che non ci sia istigazione all'odio da parte di predicatori legati a sigle internazionali discutibili, come i Fratelli Musulmani.

(la Repubblica, 19 luglio 2016)


Ricercatori israeliani scoprono una vulnerabilità in Google Chrome

 
Una falla nella sicurezza della tecnologia di Google, che dovrebbe proteggere i video in streaming tramite Google Chrome, è stata scoperta da un team di ricercatori del Negev Cyber Security Research Center (CSRC) presso l'Università Ben Gurion, in collaborazione con un ricercatore della Telekom Innovation Laboratories di Berlino. Questo tipo di vulnerabilità permette agli hacker di rubare film e contenuti protetti.
  Con un video esplicativo il team ha dimostrato questa pericolosa falla, illustrando come sia semplice rubare contenuti e dati da un video protetto.
  La vulnerabilità presente nella tecnologia di crittografia, Widevine EME / CDM, apre un modo facile per gli aggressori di dirottare i contenuti protetti e distribuiti mediante i diversi e popolari servizi di streaming. In questo modo il contenuto viene reso non protetto e disponibile per la distribuzione illegale.
  La DRM (Digital Rights Management) è una tecnologia che mira a salvaguardare da furto e distribuzione illegale tutti quei contenuti protetti da copyright. Il CDM (Content Decryption Module) è un componente del browser che controlla la riproduzione del contenuto protetto da DRM. Con l'acronimo EME (Encrypted Media Extensions) si intende una API HTML5 che fornisce un canale di comunicazione tra il browser e il CDM.
  David Livshits, un ricercatore di sicurezza sotto la direzione del Dott. Asaf Shabtai, ha sviluppato un attacco che è in grado di salvare una versione decifrata di qualsiasi contenuto in streaming protetto da Google Widevine DRM e riprodotto tramite Google Chrome sul disco di un computer.
Queste le parole di Livshits:
La semplicità con cui abbiamo rubato i contenuti protetti, rappresenta un grave rischio per l'industria di Hollywood, che si basa su tali tecnologie per proteggere i loro "beni".
Per poter effettuare un simile attacco è sufficiente installare un file eseguibile su qualsiasi computer con Google Chrome.
  I vari attacchi eseguiti e tutti i dettagli sulla vulnerabilità rilevata, sono stati segnalati al team di sicurezza di Google. I ricercatori israeliani stanno aiutando il team nel processo di risoluzione della vulnerabilità per assicurarsi che il problema venga risolto nel più breve tempo possibile.

(SiliconWadi, 19 luglio 2016)


"Siamo davvero pronti a morire per la democrazia?"

Intervista a Boualem Sansal: ''L'Europa islamizzata rischia la guerra civile, come la mia Algeria"

di Giulio Meotti

Boualem Sansal
ROMA - Il mese scorso, dopo l'assassinio di due agenti di polizia a Magnanville da parte di un islamista, il grande scrittore algerino Boualem Sansal aveva paragonato la situazione in Francia a quella dell'Algeria della guerra civile (150 mila morti), il terrorismo che percorre per primo la strada dei massacri indiscriminati dei civili e che introduce l'atroce pratica dello sgozzamento rituale. Le donne e i bambini, ammassati come animali impauriti, imploravano gli islamisti: "Uccideteci con le pistole, non tagliateci la gola". A Sidi Rais, i bambini vennero gettati dai balconi (in tutto, furono 1.200 i bambini assassinati dagli islamisti). A Nizza, un altro islamista ha appena ucciso dieci bambini con un Tir. "E' di nuovo il momento della gola tagliata", ha detto Sansal alla stampa francese (scrive sul Monde e Libération). Il suo ultimo romanzo, "2084", uscito da Gallimard, è stato un successo planetario (in Italia per Neri Pozza). "Con dolore, rabbia e lucidità": così, in questa intervista al Foglio, Sansal dice di aver appreso della notizia della strage di Nizza. "Il dolore di vedere tutte quelle vite innocenti che muoiono; la rabbia di vedere la barbarie continuare la propria opera di distruzione; la lucidità perché questo attacco non è né il primo né l'ultimo". La Francia, colpita per ben tre volte in un anno, è una vittima prelibata. "La Francia è destinata a subire più di qualsiasi altro paese europeo", continua Sansal al Foglio. "Gli islamisti hanno molte lamentele contro di essa, la accusano di sostenere i dittatori arabi, di interventi militari in Mali, Libia, Siria, e questi islamisti ritengono che sia in guerra contro l'islam (laicità, divieto del velo, espulsione degli imam). La loro guerra contro Parigi crescerà. E' anche possibile che degeneri in una guerra civile a causa della rapida radicalizzazione degli islamisti in Francia e l'ascesa dell'estrema destra. La tragedia è che non esiste una soluzione politica, perché in Francia come altrove in Europa, i negoziati con gli islamisti per un concordato sono assolutamente impossibili. Gli islamisti non attaccano l'occidente perché sarebbe responsabile di qualcosa, fanno solo ciò che la loro fede e il loro califfo gli hanno ordinato: combattere gli infedeli e imporre la legge di Allah in tutto il mondo. Che tu sia responsabile o no, il prezzo è lo stesso".
  Lo scrittore algerino Boualem Sansal, autore dell'acclamato "2084", non accetta di separare l'islam dall'islamismo. "Quest'ultima è una parola inventata dall'occidente per criticare il fanatismo di alcune nazioni musulmane senza far arrabbiare i musulmani che avevano un rapporto conciliante con la loro religione", dice Sansal. "Per i musulmani, la distinzione non ha senso, l'islam è diviso soltanto dalla 'fitna', vale a dire, la divisione della ummah, il più grande peccato che un musulmano possa commettere. Quando facciamo questa distinzione dobbiamo sapere che è un insulto supremo per i musulmani in quanto dividiamo i musulmani. Musulmani e islamisti sono differenti nella forma, non la sostanza. Si riferiscono allo stesso testo, il Corano, la Sunna (la biografia del Profeta) e gli Hadith (i detti del Profeta e dei califfi). Possiamo incolpare l'occidente di aver mancato di intelligenza e non capire che, fino a quando l'islam non avrà fatto la sua riforma, rimarrà al proselitismo e al combattimento".
  Difficile fare previsioni. "L'evoluzione del terrorismo è imprevedibile", continua Sansal. "La sicurezza proteggerà i siti sensibili, i quartieri alti, i centri commerciali, lasciando il resto al terrorismo e alla criminalità che lo accompagna. Questo è quello che vediamo oggi in tutti i paesi arabi. Ad Algeri, non c'è mai stato alcun attacco nei quartieri alti, mentre le aree suburbane sono state completamente consegnate agli islamisti". Le mattanze di villaggi sperduti erano state dichiarate "offerta ad Allah" dagli imam. "Nessun governo al mondo ha i mezzi per garantire l'intero paese", dice Sansal. "I jihadisti, come in Algeria, potrebbero anche prendere intere regioni. Dipende dagli sviluppi nei paesi arabi. Se l'attuale caos si mantiene, la situazione in Europa è destinata a peggiorare". Sansal ne ha anche per l'occidente: "L'Europa ha bisogno di una nuova luce, una nuova avventura. Comfort e beni di consumo, che sono stati l'obiettivo dopo la Seconda guerra mondiale, hanno fatto il loro tempo. Per gli islamisti, l'occidente è decadente perché ha abbandonato la religione. L'islam sostiene di essere il successore del cristianesimo e dell'ebraismo. La guerra con l'islamismo durerà a lungo. Cambierà molte cose della civiltà occidentale. Se l'Europa non avrà una base più solida, sarà islamizzata e sotto la condizione di dhimmi (le minoranze vessate nel mondo islamico, ndr)".
  Cosa vogliano gli islamisti è ormai chiaro, conclude l'algerino Boualem Sansal: "La domanda è un'altra: l'occidente ritiene a sufficienza che la democrazia vada difesa fino alla morte?"

(Il Foglio, 19 luglio 2016)


Gli imprenditori israeliani non temono ripercussioni sugli accordi commerciali con Ankara

GERUSALEMME - Il capo dello sviluppo economico della società israeliana Moshe Mozafi Food Marketing, Vered Mozafi ha dichiarato che la società importatrice di cui fa parte ha continuato ha fare buoni affari nel periodo di tensione diplomatica tra Ankara e Gerusalemme. Ieri, 17 luglio, è intervenuto anche il premier Netanyahu sulle possibili conseguenze nelle relazioni turco-israeliane. "Crediamo che il processo (di normalizzazione delle relazioni bilaterali tra i due paesi) continuerà a prescindere dai drammatici eventi accaduti in Turchia durante il fine settimana", ha dichiarato Netanyahu.
Recentemente gli scambi commerciali tra i due paesi hanno registrato un significativo declino. Secondo le stime dell'Istituto israeliano delle esportazioni, il volume degli scambi tra Ankara e Gerusalemme è diminuito nell'ultimo anno del 24 per cento, pari a 4,1 miliardi di dollari. La diminuzione degli scambi commerciali bilaterali, che non tiene conto del commercio di diamanti, è stata dovuta principalmente alla diminuzione delle esportazioni israeliane verso la Turchia del 40 per cento. Nei primi cinque mesi del 2016, gli scambi commerciali sono diminuiti di un altro 17 per cento, pari a 1,2 miliardi di dollari, dovuti principalmente alla diminuzione delle esportazioni israeliane verso la Turchia, che hanno registrato un'inflessione del 37 per cento.

(Agenzia Nova, 18 luglio 2016)


Egitto ed Israele, prove di mediazione

di Jacqueline Rastrelli

Un Ministro degli Esteri egiziano in visita ufficiale in Israele dopo nove anni di stallo nei rapporti tra i due Paesi. Questa visita, inedita a così alto livello dal 2007, ha come obiettivo il rilancio del processo di Pace israelo-palestinese, in stallo da più di due anni.
   Per la prima volta dopo nove anni, un Ministro degli Esteri egiziano si è recato in Israele per incontrare il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e tentare di sbloccare i negoziati con i Palestinesi. La visita di Sameh Choukry segue la proposta fatta lo scorso Maggio dal Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sissi di aiutare a rilanciare un processo di Pace tanto delicato quanto fondamentale per la stabilità della Regione. Poche settimane fa, un alto funzionario americano aveva sottolineato che se i dirigenti israeliani e palestinesi non avessero cambiato politica, qualsiasi speranza di arrivare alla pace con una soluzione a due Stati sarebbe stata distrutta. Il Ministero degli Esteri del Cairo ha fatto sapere che il capo della Diplomazia egiziano e il Premier israeliano avevano riesaminato a fondo il dossier e studiato delle misure che rilanciassero la fiducia per poter "creare un ambiente favorevole alla ripresa dei negoziati diretti" tra le due parti "con il fine di arrivare ad una soluzione definitiva e giusta". Da parte sua, Netanyahu ha dichiarato essere "felice" per questa visita, che è "importante per diversi motivi." Il Primo Ministro spiega che questa "riflette i cambiamenti che ci sono sati nelle relazioni tra Israele ed Egitto, che si sono tradotti nell'importante appello del Presidente egiziano per far avanzare il processo di Pace con i Palestinesi e i Paesi arabi". Per la radio pubblica israeliana, la visita del Ministro egiziano anticipa un possibile viaggio di Benjamin Netanyahu al Cairo.
   Samed Choukr, che dirige la diplomazia egiziana dal 2014, si è già recato a fine giugno a Ramallah in Cisgiordania, sede dell'Autorità Palestinese presieduta da Mahmoud Abbas, per incontrarvi dei dirigenti palestinesi. L'Egitto tenta di giocare un ruolo chiave di mediatore dopo essere diventato nel 1979 il primo Paese arabo - e uno dei soli ad oggi con la Giordania - ad aver firmato un accordo di Pace con Israele. Le relazioni tra i due Paesi rimangono tuttavia un soggetto delicato per l'opinione pubblica e i media egiziani. Per questo motivo Sissi aveva già affermato in Maggio che una Pace duratura tra Israeliani e Palestinesi avrebbe permesso di riscaldare i rapporti tra il suo Paese e Israele. Ricordiamo che lo scorso 3 Giugno, una trentina tra ministri e rappresentanti dei Paesi arabi e occidentali, rappresentanti delle nazioni Unite e dell'Unione Europea, si è riunita a Parigi per appoggiare l'iniziativa della Francia che punta ad organizzare una Conferenza Internazionale con Israeliani e Palestinesi entro la fine dell'anno. Benjamin Netanyahu ha categoricamente respinto la proposta francese, accolta invece da Palestinesi e UE. Anche il "Quartetto" per il Medio Oriente composto da Stati Uniti, Russia, UE e ONU è intervenuto esortando, in un rapporto reso pubblico all'inizio di Luglio, Israele a rinunciare alla colonizzazione dei Territori palestinesi chiedendo contemporaneamente ai Palestinesi di rinunciare alla violenza. Le conclusioni del Quartetto sono state criticate sia da Israele che dai Palestinesi. La visita di Choukr arriva in un momento di continua violenza nei Territori palestinesi, Israele e Gerusalemme. Da quando sono ripresi lo scorso Ottobre gli attentati e le violenze, sono morti 314 Palestinesi, 34 Israeliani, 2 Americani, un Eritreo e un Sudanese. Secondo Israele la maggior parte dei palestinesi uccisi sono autori, o autori presunti, di attacchi.
   Ma non c'è solo la ripresa dei negoziati di Pace tra gli obbiettivi della ripresa dei rapporti tra Israele ed Egitto. Israele avrebbe compiuto dei bombardamenti con l'ausilio dei droni contro i terroristi che operano nella penisola del Sinai, afferma un ex dirigente israeliano, rimasto anonimo, durante un'intervista a Bloomberg. I bombardamenti sarebbero stati compiuti con la benedizione dell'Egitto. Anche se la stretta cooperazione tra Gerusalemme e il Cairo sulle misure di sicurezza nel Sinai e a Gaza sia diventata un segreto di Pulcinella, molte informazioni su questa relazione sono rimaste un segreto ben custodito. L'articolo è stato pubblicato proprio durante la visita del Ministro degli Esteri egiziano a Gerusalemme e illumina un po' di più lo stato della cooperazione sulle operazioni di sicurezza segrete, arrivate con il riavvicinamento politico dei due Paesi. I terroristi islamici presenti nell'aspro Sinai, che da tempo hanno fatto giuramento di fedeltà al sedicente Stato Islamico, si scontrano continuamente contro le forze egiziane da quando è stato fatto cadere il Presidente Hosni Mubarak nel 2011. I combattimenti si sono intensificati dopo il colpo di Stato dell'attuale Presidente al-Sissi per prendere il potere al Presidente Morsi, legato ai Fratelli Musulmani. Secondo l'Ambasciatore israeliano al Cairo, Haim Coren i due Paesi hanno "nemici comuni in materia di terrorismo, o, se si preferisce, di terrorismo radicale islamico, nato dalla stessa radice, poco importa si tratti di Hamas o dei Fratelli Musulmani, dell'Isis,al-Nosra o Al-Qaida. Sissi ha capito molto presto che siamo sulla stessa barca."
   La relazione speciale tra Israele e l'Egitto di Sissi permetterà di sbloccare il dossier israelo-palestinese? Molte le questioni da risolvere. Se sul piano sicurezza tutto sembra filare liscio e che pare sia in procinto di partire un progetto di cooperazione regionale per la costruzione di infrastrutture per l'export di gas, un dossier delicato e da risolvere è quello della costruzione da parte dell'Etiopia della diga della Rinascita prevista sul Nilo, e per la quale l'Egitto teme essere molto penalizzato. Israele ha da pochissimo firmato un contratto con Addis Abeba per il trasporto dell'elettricità prodotta da questa diga. Altre questione spinosa è capire se l'Egitto di al-Sissi, alleato del monarca saudita, è incaricato di riportare all'ordine del giorno l'iniziativa di Pace araba proposta nel 2002 al Summit della Lega dal defunto Re Abdallah. Qualunque sia lo stato dei fatti, l'opposizione di Netanyahu al Quartetto e alla Francia, l'iniziativa unilaterale dell'Egitto, così come il suo via libera alla costruzione di abitazioni nelle colonie, non portano proprio all'ottimismo.

(Futuro Europa, 18 luglio 2016)


Il padre, un estremista maghrebino che ha allevato i figli a pane e jihad

Complicità nei villaggi dove sono cresciute tre generazioni di terroristi

di Massimo Numa

Cresciuto a pane e jihad. Mohamed Lahouajej Bouhlel, 31 anni, il camionista assassino di Nizza, originario di Mseken, in Tunisia, era figlio di un noto estremista islamico che fa parte del partito islamico Ennahda, che, rispetto ai vecchi gruppi combattenti salafiti, radicati da sempre nel distretto di Sousse, sta come il Sinn Fein all'Ira. C'è un filo rosso che unisce i terroristi di oggi, di seconda o terza generazione (come i cittadini inglesi di origine pakistana che fecero saltare nel luglio 2006 il metro di Londra), con i fanatici coinvolti nelle vecchie inchieste sui Gruppi Salafiti di Combattimento, germinati negli Anni 80 e 90 fra Tunisia e Algeria, e altri gruppi minori poi diffusi nel Sud della Francia e pure in Italia. Nella sua comunità Mohamed è già un «martyr». Lo seppelliranno presto nel suo paese, non lontano dalla spiaggia dove un commando Isis trucidò decine di turisti, in un clima di complicità e di rispetto per il suo «sacrificio». Nato e vissuto «in un contesto familiare - osserva il sito tunisino TunisieSecret.com - favorevole alla violenza e al radicalismo». In un continuo interscambio di contatti e coperture.
  Questi assassini-suicidi sono figli, fratelli o amici delle famiglie dei terroristi attivi dieci o vent'anni fa. In percentuale altissima. Scorrendo le pagine degli atti giudiziari dell'epoca emergono fantasmi dimenticati. Allora il brand era quello di Al Qaeda, oggi il faro è il Califfato. Ma il bacino di reclutamento è lo stesso. Sigle dimenticate: il Gia, Gruppo Salafiti per la predicazione e il combattimento, con i suoi cloni diffusi in Italia, Tunisia, Marocco e nel Corno d'Africa. Il Gspc, tra il '95 e il 2008 predicava l'odio contro l'Occidente ma soprattutto contro la Francia. A Milano fu catturato il pianificatore degli attentati di Madrid del marzo 2004, con decine di morti. A Torino la Digos fermò l'uomo che con i camion-bomba aveva fatto saltare le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. Gli investigatori della ex Ucigos (ora Dcpp, Direzione centrale polizia di prevenzione) e i colleghi francesi scoprirono solo una parte delle rete logistica. Solo una percentuale era stata oggetto di arresti o semplicemente di un censimento uomo per uomo. In quelle case si respirava l'odio religioso e l'odio antifrancese. I loro ragazzi vanno a scuola, istruiti a non far trapelare nulla della loro formazione, a proteggere dalla polizia familiari e amici ricercati o in fuga.
  I profili degli attentatori belgi e francesi sono straordinariamente simili. Anonimi, invisibili, indecifrabili attraverso un'attività routinaria di Intelligence. Da qui lo stupore dei media (se non degli inquirenti) per le loro vite normali o contraddittorie rispetto agli stereotipi del radicalismo. Vanno in discoteca, non osservano il Ramadan, hanno pure precedenti per piccoli reati, vestono e vivono come i loro coetanei, bevono alcol e altro ancora. Chi ricorda, oggi, il nome di Khaled Kelkal? Ucciso a Lione dalla polizia, aveva fatto esplodere una bomba artigianale nel luglio 1995 in una stazione ferroviaria a Saint Michel. Dieci morti e decine di feriti. Dice il questore Giuseppe Petronzi, ex capo della Digos: «Attenzione a non categorizzare in modo rigido gli ultimi episodi, dagli Usa alla Turchia, ma i collegamenti col passato ci sono, vanno interpretati alla luce dei continui cambiamenti».
  Nel marzo 2012 il primo atto della «guerra per tutti». Quella di oggi. Senza logistica, quasi a costo zero, senza pietà. Mohammed Merah, 24 anni, rapper ma radicale islamico undercover, indottrinato anche in famiglia, fa irruzione nella scuola ebraica Eleves Ozah Hatorah di Tolosa e uccide un maestro e tre bambini. Tante stragi, lo stesso rituale: i video di auto-presentazione sui siti Isis, ma anche foto su Facebook di assassini con la maglia dei campioni di calcio, le sere in discoteca, la passione per auto o moto, i «mi piace» sui profili Fb di star della musica o del cinema. Le interviste del dopo-strage, ad amici, familiari e conoscenti, iniziano, molto spesso, così: «No, non avremmo mai pensato ... ».

(La Stampa, 18 luglio 2016)


Rintracciati i Sermoneta. «Non si trovavano a Nizza»

Si temeva che fossero tra i dispersi, ma erano a Londra. L'annuncio della comunità ebraica romana: «Stanno tutti bene»

di Lorena Loiacono

ROMA - Due giorni di ansie e paure e poi, ieri, la bella notizia a far tirare un sospiro di sollievo: la famiglia di Sai Sermoneta, irreperibile da giovedì scorso, non è tra le vittime del terribile attentato terroristico che il 14 luglio ha colpito la città di Nizza. Una famiglia romana, molto presente nella comunità ebraica, su cui si temeva il peggio. Ieri sono stati rintracciati e stanno bene. Salvatore Sai Sermoneta, di 55 anni con passaporto italo canadese, era in viaggio con la moglie Wioletta Podpora, di origini polacche, e la figlioletta di 4 anni Sinead.
   Erano partiti due settimane fa diretti a Londra e il loro viaggio doveva attraversare anche la Costa Azzurra. Di lì i timori che quei nomi potessero restare nella lista dei dispersi e poi in quella delle vittime del terrorismo. Immediate infatti le ricerche, inizialmente senza buon esito. I Sermoneta non erano rintracciabili infatti né al telefono né ai messaggi di allarme diramati dai famigliari di Roma tramite i social network su cui è partito un tam tam serrato. Per giorni nessuna notizia, come scomparsi. La famiglia risiede tra Roma e il Canada ed è molto nota nella Comunità ebraica romana. Sermoneta in - fatti, conosciuto da tutti come Sai il canadese, ha una famiglia italiana residente a Roma, da cui è partito l'allarme ed è poi arrivata buona notizia del ritrovamento. «Siamo stati molto in ansia - ha spiegato Chelsea Sermoneta, la figlia maggiore di Salvatore Sai Sermoneta - anche per mia sorella piccola. Fortunatamente è andato tutto bene. Ieri sera (sabato, ndr) avevamo fatto denuncia di sparizione che oggi abbiamo revocato».
   I tre stanno bene e presto torneranno a Roma. A mettersi in contatto per primi con i Sermoneta sono stati i parenti polacchi della seconda moglie di Sai, Wioletta Podpora, che avrebbero poi informato e quindi tranquillizzato i famigliari nella Capitale. Una buona notizia per Roma e per tutta la comunità ebraica capitolina. «Tramite la famiglia - ha assicurato la presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello - abbiamo appreso che Salvatore Sai Sermoneta con Wioletta e la figlia sono stati rintracciati e stanno bene». Secondo le prime informazioni sembrerebbe che i Sermoneta, il 14 luglio, fossero ancora a Londra.

(Leggo Roma, 18 luglio 2016)


«I primi razzisti e islamofobi sono gli islamici»

«C'è un'apartheid per emarginare i credenti africani. Il Comune di Milano ha favorito i fedeli più ricchi e ideologizzati. I Fratelli Musulmani sono degli intransigenti politici. Ma non fatemi dire che sono estremisti»

di Francesco Borgonovo

Maryan Ismail
Maryan Ismail, antropologa, è una donna di sinistra. A lungo militante e pure dirigente del Pd milanese, dopo le Amministrative ha lasciato il partito, in polemica con alcune scelte della dirigenza locale. Scelte legate all'islam. Già, perché Maryan è una musulmana sufi, rappresentante della comunità somala. Suo fratello è stato ucciso dai jihadisti di al-Shabaab. E lei - da tempo impegnata per un cambiamento all'interno del mondo islamico, a partire dalla condanna del terrorismo - non ha potuto tollerare che il Pd desse la precedenza al dialogo con rappresentanti di un islam politico intransigente. Prima di iniziare la conversazione con Libero, afferma con una certa decisione che il titolo «Bastardi islamici» non le è piaciuto affatto. E ci tiene a precisare che lei resta convintamente di sinistra, anche se questa mattina a Milano parteciperà a una conferenza stampa assieme a Stefano Parisi, già candidato sindaco del centrodestra.

- Nei giorni scorsi il ministro Alfano ha annunciato l'apertura di un confronto con le comunità islamiche italiane. Un confronto a cui anche lei parteciperà. Da parte vostra, dei musulmani, c'è la volontà di raggiungere un'intesa?
  
«Parlo per me: la mia volontà è quella di trovare un'intesa. Non è utile: è necessario concordare su alcuni punti da rispettare».

- Finora, fra le associazioni islamiche, sembra avere un ruolo predominante l'Ucoii.
  
«Non sembra, è così. Non a caso, a vincere i due bandi per le moschee a Milano sono state due sigle affiliate al Caim, il quale Caim si rifa all'Ucoii».

- Si riferisce al bando per la costruzione di luoghi di culto proposto dall'assessore del Pd Pierfrancesco Majorino?
  
«Sì. Già questo ci fa capire che ad aver predominato è stato un discorso economico e non un ragionamento culturale e giuridico di sintesi del mondo islamico. Il bando milanese non ha favorito un'intesa fra di noi ma ha fatto emergere la parte più ricca e più ideologizzata dei musulmani».

- Come mai le associazioni a cui lei ha fatto riferimento sono più ricche?
  
«Perché ci sono dietro la Turchia, il Qatar, l'Arabia Saudita: i soliti grandi finanziatori di queste opere religiose».

- Questa cosa non può farci stare tranquilli ...
  
«Questi Paesi finanziano un certo tipo di islam.Non danno i soldi ai sufi, per dire. Non ho mai visto dei sufi del Mali prendere soldi dal Qatar. Se tu, in quanto musulmano, professi una ideologia che si basa sulla purezza e il ritorno alle origini, allora il tuo pensiero politico può essere finanziato da questi Stati».

- Chi professa questo genere di ideologia non può certo essere definito un «moderato».
  
«Sono ortodossi. Sono quelli "puri", che si rifanno all'inizio dell'era islamica. E questa cosa, applicata all'oggi, pone alcuni problemi. Il mondo è complesso, e l'islam non può chiudersi in se stesso e dire soltanto: "Tomo allo spirito del Profeta". Se purezza significa essere un bravo cittadino e un bravo musulmano va bene. Ma questo atteggiamento si lega anche a precise posizioni politiche. E allora dobbiamo chiederci: questo tipo di condotta è applicabile, nel mondo di oggi? Io non credo. E non vale solo per
l'Occidente. Certe posizioni ideologiche puriste non sono applicabili nemmeno nei Paesi islamici».

- E perché?
  
«Ogni Paese islamico ha un connotato etnico: è impossibile scimmiottare un connotato diverso dal nostro. Io, che sono somala, non mi ci ritrovo a vestirmi alla saudita.Non me la sento di mettere il velo. Ho le mie stoffe colorate, il mio abito tradizionale. Però, se lei dà uno sguardo alla Somalia di questi anni, vedrà che i colori sgargianti dell'Africa sono andati perduti. Si è affermato un certo tipo di velo».

- Cioè l'hijab. Il velo alla saudita, come dice lei. E poi abiti che coprono molto il corpo, che nascondono le forme.
  
«Quella è una divisa politica».

- La divisa di un islam ortodosso, rigido. Il Pd da cui lei è uscita ha fatto eleggere in Consiglio comunale a Milano una persona che quella divisa la indossa, cioè Sumaya Abdel Qader del Caim.
  
«Su questo punto il Pd deve fare una riflessione».

- Lei quella riflessione l'ha sollecitata pubblicamente.
  
«Guardi, mi fa male il fatto che il partito non abbia risposto. Che il sindaco di Milano non abbia risposto. Glielo voglio dire molto chiaramente, e continuerò a ripeterlo. Il Partito democratico sapeva già prima delle elezioni che io mi sarei dimessa. Sia che fossi stata eletta sia in caso contrario. Lo avevo detto ben prima delle elezioni, questa cosa è a verbale. Non accetto le insinuazioni e i sorrisetti di chi dice che mi sono dimessa perché non sono stata eletta. E non accetto di stare in un partito che dialoga con gli esponenti di certe associazioni senza che prima abbiano rifiutato l'ideologia dei Fratelli musulmani».

- Insomma, lei ha lasciato il Pd perché ha candidato una persona che esprime un pensiero estremista.
  
«Il mio non è un attacco alla persona. Io non ci sto a fare giochini, come hanno fatto in alcuni casi i giornali di destra. Non voglio fare il gioco delle parti, fare la musulmana laica contro quella ortodossa. Non voglio farlo perché questo svilirebbe un discorso culturale e politico molto importante. Qui il discorso è: quale islam vogliamo? Quale islam vuole Milano e quale islam vuole il Pd? Perché ha scelto solo quella parte e non ha allargato democraticamente ad altri? Perché ha scelto quel velo? Quello è un velo politico, che rappresenta un'ideologia politica che è alla base di movimenti come gli al-Shabaab nella mia Somalia. Però voglio precisare una cosa».

- Dica.
  «Lei ha usato la parola "estremista". È sbagliata».

- Beh, io ritengo che l'islam politico come quello dei Fratelli musulmani o quello wahabita di origine saudita sia estremista.
  
«La parola estremista è fuorviante, e le spiego perché. Bisogna distinguere. Chi applica queste ideologie è un intransigente. Gli estremisti sono quelli che usano questa intransigenza dottrinale a scopi terroristici».

- Mi sembra una distinzione capziosa.
  
«Ascolti. Dire che un'associazione come il Caim è estremista è banalizzare la questione. Dire che sono estremisti è come dire che sono jihadisti. E questo vanifica anche il mio lavoro. Perché se lei mi dice che quelli del Caim sono jihadisti, io sono costretta a dire che non è così».

- E allora come dobbiamo definire chi si rifà per esempio ai Fratelli musulmani?
  
«Sono degli intransigenti politici. Mi permetta il paragone: sono come il Tea Party. Con la differenza che il Tea Party non ha un'ala militare».

- Non mi sembra una differenza da poco ...
  
«È ovvio. Sto solo cercando, con molta difficoltà, di trovare un paragone che sia comprensibile a tutti. Voi giornali di destra sbagliate quando mi fate dire che questi sono estremisti. Lo ha fatto anche il Pd, ed è stato un errore. Le spiego dove sta il pericolo: nel fatto che c'è un'intransigenza religiosa e politica. E questa intransigenza è pericolosa perché viene utilizzata da movimenti jihadisti come Boko Haram, al-Shabaab, Isis ... ».

- Lei ha ricevuto minacce per via delle sue posizioni?
  
«Certo che le ho ricevute. E questo dopo che il coordinatore del Caim ha scritto in un post che sono come Souad Sbai. È stato molto doloroso per me, mi sono sentita sfregiata. Ed ero sola, non ho avuto nessuno a fianco, nemmeno il partito».

- Questo mi fa venire in mente il discorso fatto dall'intellettuale siriano Bassam Tibi. Anni fa sosteneva che potesse nascere un islam europeo, compatibile con le istituzioni democratiche. Quest'anno ha ammesso di avere fallito, perché hanno vinto i radicali.
  
«Certo. Ha perfettamente ragione. E ha fallito anche perché l'Occidente sembra avere dentro di sé una certa voglia di oscurantismo. Quando vedono me, senza il velo, mi dicono: tu non sei musulmana. È come se l'immagine della musulmana col velo fosse rassicurante per l'Occidente. E questo obbliga la massa dei musulmani credenti a recitare un ruolo. In realtà, ci sono tanti intellettuali islamici che si stanno dando da fare per cambiare le cose».

- Un po' comodo dare la colpa all'Occidente.
  
«Le responsabilità non sono solo dell'Occidente, ovviamente. Ma sono anche dell'Occidente. E poi dei musulmani. Non è successo a nessuna religione del mondo che non ci fosse la possibilità di far evolvere il pensiero religioso in un'ottica di modernità. Solo all'islam. Sembra che la sua dannazione sia quella di ripetere all'infinito un modello stanco. Sa quanti musulmani mi dicono: "Mi stanno facendo odiare la mia religione?" Siamo sfiniti».

- Io ho la sensazione che i musulmani abbiano fatto un grande errore. Hanno fatto prevalere il vittimismo. E questo fa comodo ai leader radicali. Sono loro che paragonano i musulmani agli ebrei all'epoca della Seconda guerra mondiale. Sono loro che parlano di «islamofobia».
  
«Questa visione vittimistica ricade anche sui musulmani che cercano di cambiare le cose. Ci viene detto che abbiamo torto, che siamo degli apostati! Questa è islamofobia nei nostri confronti».

- Sta dicendo che anche i musulmani sono islamofobi?
  
«Certo! Io stessa ho denunciato il leader di una organizzazione islamica per islamofobia nei miei confronti, perché ha detto che sono una apostata. Ha aizzato i suoi contro di me, perché faccio parte di una minoranza (sono sufi). Forse che l'islam africano non deve parlare? Non abbiamo diritto al nostro imam? Nelle moschee italiane di imam africani non ce ne sono: sono tutti arabi o italiani convertiti».

- Ripeto la domanda: esiste una islamofobia interna al mondo islamico?
  
«Sì. Se tu non sei uguale a quelli che stanno cercando di colonizzarti - cioè i Fratelli musulmani e i sauditi - sei perseguitato dall'islamofobìa del potere teocratico. Come vogliamo chiamarla se non islamofobia?»

- Non sarebbe il caso di buttarla via, questa parola? È la scusa che si usa per tappare la bocca a chiunque critichi l'islam.
  
«No. Dobbiamo rigirare l'islamofobia contro di loro come un boomerang.Nei miei confronti hanno portato avanti una discriminazione razziale e religiosa».

- Se i soldi per la moschea a Milano li mette il Qatar, bisogna prenderli o rifiutarli?
  
«Quando si parla del Qatar la risposta che ti danno sempre è che il Qatar si sta comprando mezza Milano. Vero, però si tratta di palazzi privati. Andiamo oltre il discorso sul Qatar: servono garanzie di sicurezza. Serve tracciabilità dei fondi, chiarezza su tutto. Diciamo che i soldi non devono venire dal Qatar? Bene. Mettiamolo nero su bianco e partiamo».

- La Regione Lombardia ha provato a fare una legge per garantire la sicurezza. Ma la Consulta l'ha respinta. Era una legge sbagliata?
  
«Non era sbagliata. Era una risposta politica al bando di Majorino, che faceva emergere l'islam politico. Dunque era anche giusto dare una risposta politica. Ma non si possono discriminare intere fette di popolazione musulmana per questo motivo. È ora di provare a fare un percorso diverso».

(Libero, 18 luglio 2016)


La strage di Nizza diventa un mistero: la bici, le finte armi e l'ultimo sms

"Il killer aveva complici e non ha agito da martire". Il selfie prima del massacro.

di Carlo Bonini

NIZZA - La storia della strage del 14 luglio va riscritta. Ne va certamente riavvolto il nastro. Perché troppe cose cominciano a non tornare. Perché, per dirla con una qualificata fonte dell'Intelligence francese, "più l'inchiesta va avanti, più è ragionevole ipotizzare che Mohamed Lahouaiej Bouhlel non sia il solo protagonista di questa vicenda. Che fosse parte di un piano in cui qualcosa non è andata per il verso giusto. O comunque non come era stato fatto credere a Mohamed che dovesse andare. Sicuramente, il comportamento di Mohamed prima e durante la strage non è stato quello di un martire. Sicuramente nella corsa di quel tir sulla Promenade des Anglais c'è qualcosa che non torna. Una cosa è certa: le persone con cui è stato in contatto possono avvicinarci alla verità". Sette di loro sono in stato di fermo. Sei uomini e una donna, tutti figli di un milieu di piccola criminalità locale che Mohamed aveva preso a frequentare e sensibile alle sirene dell'Is. Tra questi, una coppia di albanesi trattenuta da ieri negli uffici della polizia, che avrebbe fornito a Mohamed la calibro 7.65 con cui ha fatto fuoco dalla cabina di guida del camion prima di essere abbattuto dai colpi della polizia. Vedremo nelle prossime ore se saranno rilasciate o meno (come è accaduto per la ex moglie). Vedremo, soprattutto, se saranno in grado di sciogliere i nodi che non tornano di questa storia. Che non sono pochi.

 Un martire "incongruo"
  Al netto della significativa assenza di un qualsivoglia testamento, privato piuttosto che religioso, e dei ricordi di vicini di casa o degli habitué della palestra che frequentava (che parlano di un uomo perso dietro ogni femmina che incrociava e bottiglia che svuotava), c'è una testimonianza che rende faticoso credere che Mohamed si stesse preparando a morire. Quella del fratello Jabeur. Rintracciato a Tunisi dall'agenzia di stampa Reuters, dice: "Sentivo spesso Mohamed al telefono. L'ultima volta è stata il pomeriggio di giovedì 14 luglio. Mi disse che era a Nizza per celebrare con i suoi amici europei la festa nazionale francese. Sembrava molto felice, contento. Non faceva che ridere. Mi mandò anche delle foto dal suo cellulare in cui si vedeva lui nella folla" . Jabeur aggiunge dell'altro: "Negli ultimi tempi non faceva che chiedermi dei nostri genitori. Mi aveva detto che sarebbe tornato presto a vivere a Msaken. E aveva anche cominciato a spedire telefoni cellulari e del denaro. Piccole somme. Trecento, quattrocento euro alla volta". Non a quanto pare, dunque, la "fortuna" di cui hanno scritto alcuni quotidiani inglesi (100 mila euro). In ogni caso del denaro. Messo insieme chi sa come, o dato da chi. Forse prelevato dal conto in banca a Nizza, che aveva recentemente chiuso, o frutto della vendita della sua macchina, di cui si era liberato. È un fatto che, quel 14 luglio, Mohamed torni a ripetere al fratello che ha intenzione di lasciare Nizza in tempi brevi. È un fatto che, a poche ore dalla notte in cui avrebbe deciso di immolarsi, si mostri per una volta sereno. Si dirà che è sempre impossibile decifrare con gli strumenti della logica l'emotività erratica di chi sta per farla finita. Tuttavia, sempre quel 14 luglio, c'è un altro gesto di Mohamed quantomeno incongruo per chi si prepara a morire. Per raggiungere il Tir con cui percorrerà dopo le 22.30 i 2 chilometri della Promenade usa una bicicletta che, curiosamente, non abbandona, ma carica diligentemente nel cassone del camion. Come se a un certo punto di quella notte gli dovesse servire. Come se ci debba essere un dopo, appunto.

 Un sopralluogo illogico
  Anche il 12 e 13 luglio Mohamed fa qualcosa di incomprensibile. Ripete in due giorni diversi un sopralluogo della Promenade des Anglais. Per giunta, e come mostrano i nastri delle telecamere di sorveglianza acquisite dall'inchiesta, a bordo del Tir bianco da 19 tonnellate che ha noleggiato il 4 luglio e ritirato l'11. Perché? Per quale diavolo di motivo un uomo che vive a Nizza e che conosce la Promenade come le sue tasche dovrebbe, per ben due volte, percorrere una strada dritta come un fuso su cui, di lì a meno di 48 ore, dovrà immolarsi dopo aver fatto strage di innocenti? Cosa dovrebbe verificare? C'è una sola plausibile risposta. Mohamed percorre quella strada perché, evidentemente, esiste un piano per la notte del 14 che richiede che vadano mandate a memoria distanze, incroci, palazzi. E quel piano difficilmente può essere una corsa a 90 chilometri orari prima di essere abbattuto. Perché per quella, va da sé, non sono necessari sopralluoghi.

(la Repubblica, 18 luglio 2016)


In Israele anche i cittadini vigilano contro i kamikaze

 
Il tram di Gerusalemme
Il treno leggero attraversa Gerusalemme da nord a sud, da est a ovest, le sue rotaie corrono sulla Linea Verde che fino al 1967 separava la città che i parlamentari israeliani hanno votato indivisibile.
   Per il sindaco e il governo - che l'hanno voluto - il tram moderno è il simbolo dell'unità, per i palestinesi, l'impronta mobile della sopraffazione. Di certo rappresenta la quotidianità per tutti, gli ebrei e gli arabi, una quotidianità fatta anche di paura e sospetti.
   Quelli che ieri hanno spinto un paio di guardie a controllare l'uomo che si muoveva in modo strano, gli hanno impedito di salire sui vagoni, lui ha confessato sul posto «ho la borsa piena di bombe».
   Esplosivi artigianali ma anche coltelli da cucina, ancora una volta oggetti quotidiani, perché gli attacchi degli estremisti - in Israele come in Europa - possono nascere in casa e con le armi che in casa si trovano.
   «Abbiamo sventato un attentato su larga scala», commenta il sindaco Nir Barkat. «Invitiamo i cittadini a restare vigili e a continuare la vita normale». La normalità della vigilanza che gli israeliani hanno sviluppato durante i sei anni della seconda intifada, dei kamikaze con la camicia a coprire l'imbottitura di tritolo, quando la guerra con i palestinesi era arrivata nei ristoranti delle città.
   I servizi segreti interni faticano quanto quelli occidentali a fermare i cosiddetti «lupi solitari», l'ondata di violenza che va avanti dall'ottobre dell'anno scorso è soprattutto opera loro.
   Così i passanti sanno che la responsabilità è anche individuale, che la polizia non basta: non è un appello a girare armati e a farsi giustizia da soli, anche se i ministri della destra oltranzista si sono lasciati andare a incitamenti da Far West. Sul lungomare di Tel Aviv, qualche mese fa, l'accoltellatore è stato fermato da un ragazzo. A colpi di chitarra.

(Corriere della Sera, 18 luglio 2016)


«Facciamo come in Israele. Ognuno diventi sentinella»

Dureghello (presidente della Comunità ebraica romana). Civiltà in pericolo. Va alzata l'attenzione da parte di tutti .

di Filippo Caleri

Cambiamento
Non possiamo più girarci quando c'è qualcosa che non va.
Obiettivo
Il terrore vuole travolgere il modello europeo, oggi debole.
Comunità
L'attentato di Nizza non ha cambiato nulla. Siamo sempre vigili.

«Al terrore non si può rispondere con la violenza. Occorre sfruttare la paura per instillare nella libera civiltà europea un nuovo senso di solidarietà collettiva. Al pari di quanto accade in Israele ogni cittadino deve diventare un guardiano della sicurezza dei propri simili. Girare lo sguardo dall'altra parte non basta più e va alzato il livello di attenzione». La risposta della comunità ebraica romana alle atrocità di Nizza è netta: «Non ci dobbiamo rassegnare al terrore» dice a Il Tempo Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica romana.

- Qual è stata la sua reazione dopo gli eventi di Nizza?
  
«È l'ennesimo choc emotivo. Sono stati attaccati i valori di civiltà per i quali abbiamo lottato per secoli. Ed è simbolico che l'attacco sia arrivato proprio il 14 luglio che celebra in Francia e in tutto il mondo occidentale la conquista della libertà».

- Sarà così per molto tempo. Cosa propone?
  
«Non possiamo rassegnarci a vivere nella paura. Dobbiamo imparare a rispondere. Ma non usando gli stessi metodi del terrore: la violenza genera solo altra violenza».

- Difficile pensare ad altre soluzioni soprattutto quando l'emotività prevale.
  
«Il modello da adottare è quello di chi vive Israele basato sulla crescita del senso di solidarietà collettiva. Un possibile attacco terroristico interessa tutti, è un problema non più del singolo individuo. Così gli occhi che controllano non sono più solo quelli delle forze di polizia ma di migliaia di cittadini che al minimo segnale di pericolo lanciano l'allarme. Insomma il livello di allerta nella società israeliana si è alzato. Mille occhi vedono più di due se sta per arrivare un pericolo».

- Sembra un bel concetto. Ma questo è sufficiente a fermare un pazzo che si getta in mezzo alla folla con un camion e uccide senza pietà?
  
«Se l'obiettivo è la vita dobbiamo fare di tutto per difenderla. Dunque ribadisco che il primo cambiamento deve avvenire dentro di noi. Occorre insegnare a tenere gli occhi aperti, a non considerarsi solo individui ma parte di una comunità più grande. I problemi sono di tutti e non possiamo più girarci dall'altra parte quando vediamo qualcosa che non va. Poi è chiaro che la tecnologia può aiutarci ma non è la soluzione vincente».

- Per molti sembra esserlo.
  
«Se dietro una macchina non c'è innanzi tutto la prevenzione e l'educazione civica delle persone, se nonostante i computer e le telecamere si resta silenti dinnanzi all'odio, se non ci si assume la responsabilità di agire tempestivamente, allora la tecnologia serve a ben poco».

- Perché a suo giudizio nel mondo si sta instaurando questo clima di terrore generalizzato?
  
«Il terrorismo ha un solo obiettivo in questo momento: travolgere il modello europeo che oggi è debole ed è messo in discussione dai suoi componenti. Per questo se ne esce solo se l'Europa si concentra e trova risposte concrete su tematiche comuni come la politica dell'integrazione e dell' accoglienza».

- Eppure molti terroristi sono figli di un'Europa che li ha comunque accolti.
  
È mancato qualcosa. La sofferenza sociale generata nei ghetti creati dall'isolamento ha convinto molti a credere nei messaggi fuorvianti che arrivano dalle sirene dei violenti».

- Soluzioni?
  
«Politiche di integrazione condivise da tutti gli Stati europei e stop all'isolamento culturale».

- Chi deve mettersi in moto?
  
«La responsabilità è ancora una volta della politica che deve trovare unità. Se si combatte un fenomeno complesso come il terrorismo islamico serve un esercito di individui che si muova in sintonia. Solo con l'unità si ferma il potenziale distruttivo dei messaggi di odio».

- Cosa è cambiato nella comunità ebraica di Roma dopo Parigi e Nizza?
  
«Assolutamente nulla. L'attenzione e le vigilanza sono costanti come prima. Non ci siamo mai rassegnati alla paura».

- Ma praticamente il famoso livello di allerta collettiva si è alzato?
  
«I nostri figli sono abituati da anni ad andare a scuola con la scorta delle forze dell'ordine che non finiamo mai di ringraziare per la dedizione che assicurano alle nostre vite. Non abbiamo bisogno di choc come Nizza per comprendere che la sicurezza è un bene collettivo da tutelare in ogni momento e non solo dopo l'impatto di un evento terroristico».

(Il Tempo, 18 luglio 2016)


Il deserto israeliano accoglie la torre solare più alta del mondo

 
Gli ingegneri israeliani sono al lavoro per costruire la torre solare più alta del mondo
 
Come i girasoli, gli specchi gireranno a seconda della rotazione del sole.
Nel bel mezzo del deserto del sud di Israele, gli ingegneri sono al lavoro per costruire la torre solare più alta del mondo, che aprirà un nuovo scenario all'interno del panorama delle energie rinnovabili.
Una volta completato, alla fine del 2017, la Torre Ashalim sarà più alta della Tour Montparnasse di Parigi.
Rivestita in acciaio inox, la torre che spicca nel deserto del Negev assomiglia ad un faro gigante e sarà visibile da decine di chilometri di distanza.
Un campo di specchi che copre 300 ettari - la dimensione di oltre 400 campi da calcio - indirizzerà la luce solare verso la vetta della torre, che si presenta come una lampadina gigante.
La caldaia, la cui temperatura salirà a 600 gradi Celsius, genera il vapore che viene incanalato verso i piedi della torre, dove si produrrà energia elettrica.
La costruzione ha un costo stimato di 500 milioni di euro ed è stata finanziata dalla statunitense General Electric, la francese Alstom ed il fondo di investimento privato israeliano Noy.
La torre dovrebbe fornire 121 megawatt o il 2% del fabbisogno di energia elettrica di Israele, abbastanza per una città che accoglie 110.000 famiglie.
L'energia solare offre un'alternativa pulita all'attuale combustibile, che contribuisce al riscaldamento globale.
Eitan Parnass, Capo dell'Associazione Green Energy, sottolinea:
Israele in teoria potrebbe soddisfare tutti i suoi bisogni di energia elettrica attraverso l'energia solare, utilizzando solo il 4% del deserto del Negev.
L'energia solare è già da molto tempo parte integrante della vita degli israeliani, moltissimi pannelli solari sono installati sui tetti delle case per riscaldare i serbatoi d'acqua.
La torre Ashalim sarà dotata di 55.000 specchi, pari a una superficie che complessivamente riflettente un milione di metri quadrati.
Come i girasoli, gli specchi gireranno a seconda della rotazione del sole.
Gli ingegneri hanno sviluppato dei serbatoi a cui è affidato il compito di immagazzinare calore per quando il sole non c'è. Questo è il grande vantaggio della tecnologia della torre solare, perché permette di stoccare l'energia nelle ore notturne.
Tutto è collegato tramite WiFi invece che da cavi. La torre e la sua caldaia sono progettati anche per ridurre i costi. Tutto è fatto per perseguire la redditività.

(SiliconWadi, 18 luglio 2016)


Il «depresso» di Nizza e i fanatici dell'Apocalisse

di Pierluigi Battista

Da più parti, nei giornali e tra i commentatori solitamente più inclini a separare il terrorismo dalla sua matrice religiosa islamica, si sottolinea con malcelato sollievo che lo stragista jihadista di Nizza pare fosse un «depresso», un asociale, un folle insomma. Come se fosse più rassicurante attribuire la carneficina al gesto di uno psicopatico. Come se, soprattutto, una personalità disturbata, clinicamente incline alla depressione nientemeno, contribuisse ad annullare, o comunque a lasciar sbiadire, la matrice ideologico-religiosa di un atto terroristico così infame. Come se il fanatismo assoluto, la consacrazione di sé a una Causa santa che prevede il martirio e lo sradicamento del Male attraverso il sacrificio di innumerevoli esseri umani non fosse, appunto, una formidabile e sanguinaria risposta al banalissimo male di vivere, all'insignificanza della vita, al vuoto dell'esistenza, a un'umanità affamata di significati da servire con dedizione intransigente. Come se nella storia i «fanatici dell'Apocalisse», come li definì il grande studioso Norman Cohn in un libro straordinario del 1957, The Pursuit of the Millennium, non abbiano ripetutamente trovato nei miti della rigenerazione apocalittica, nel febbrile millenarismo ideologico a sfondo religioso, un formidabile rimedio persino ai loro «problemi quotidiani». Erano tutti sani di mente, estranei a ogni forma di psicopatologia i forsennati seguaci di Pol Pot che svuotarono le città cambogiane per riempire i campi di sterminio in cui gli assassini invasati erano i bambini che uccidevano i loro genitori? Il fanatismo islamista fornisce appunto il vocabolario cui attingono senza requie i «lupi solitari» che oggi vorremmo raccontare come se fossero tanti sociopatici somiglianti al Robert De Niro che in Taxi driver usciva di testa per purificare la città corrotta. Anzi, il «depresso» trova nel manicheismo estremo dello jihadismo un ricco repertorio di motivi per annientare le città peccaminose, punire gli infedeli, depurare il mondo da tutto lo sporco che impedisce la via della santità e della purezza e così trovare un senso mistico di appartenenza al partito dei puri e dei santi disposti a morire per guadagnare il vero paradiso. Una terapia efficacissima per la «depressione» dei singoli. E la storia dimostra che il fanatismo apocalittico ha richiamato a sé molti più pazienti di qualunque psichiatra.

(Corriere della Sera, 18 luglio 2016)


Israele in allarme: misterioso drone viola spazio aereo

Lanciati tre missili, ma l'UAV
UAV (Unmanned Aerial Vehicle)
non è stato abbattuto


di Franco Iacch

 
Patriot PAC-2
"Nonostante tre missili lanciati, non siamo stati in grado di abbattere ed identificare un drone che, poche ore fa, ha violato il nostro spazio aereo". Strana ammissione quella delle Forze di Difesa israeliane, costrette a chiarire quanto avvenuto ieri pomeriggio, quando sono stati lanciati tre missili contro un velivolo non identificato.
Il drone proveniva dalla Siria e questo è l'unico dato certo. Pochi secondi dopo averlo rilevato sulle alture del Golan, gli israeliani lanciano due missili intercettori Patriot PAC-2 in rapida sequenza: entrambi mancano il bersaglio. Lo Stato Maggiore decide allora di inviare un F-16 per abbattere la minaccia, mentre tutte le postazioni di difesa missilistiche nel nord di Israele vengono messe in allarme e pronte al combattimento. Il caccia inquadra il drone, gli lancia un missile, ma non riesce a colpirlo. Il drone non sarà mai abbattuto.
Secondo l'IDF, il drone potrebbe essere di fabbricazione russa. In queste ore l'esercito sta cercando di accertare il vero obiettivo del velivolo non identificato. Israele teme che il drone possa essere stato inviato da Hezbollah, che sta attualmente combattendo al fianco delle forze del presidente siriano Bashar Assad, per fotografare le manovre militari nel Golan.
In precedenti occasioni, Israele ha già abbattuto dei droni nemici sul Golan, ma quanto avvenuto ieri dimostra l'efficacia della minaccia UAV, in grado di superare anche uno dei migliori schermi difensivi del mondo come quello di Israele.
Dalla Israel Air Force precisano che il "drone è stato monitorato immediatamente, ma ogni tentativo di intercettarlo si è rivelato vano". Lo Stato Maggiore israeliano conferma un'indagine interna per appurare la natura del drone e le circostanze che hanno impedito la sua intercettazione. Quanto avvenuto ieri dimostra il progresso della tecnologia UAV, probabilmente un passo avanti rispetto alle attuali schermature. Se tale divario dovesse allungarsi, gli scenari futuri potrebbero essere imprevedibili.
Sebbene avanzate, le difese aeree di Israele sono state incapaci di intercettare una sola minaccia UAV. Se fosse stato un attacco a sciame, la direzione in tale senso è ormai presa, i sistemi Iron Dome e David's Sling potrebbero non essere in grado di intercettare una minaccia stratificata.
Mistero, infine, sulle caratteristiche del drone. Massimo riserbo dall'IDF, ma se si trattasse di un drone a bassa osservabilità, Israele potrebbe essere costretta a rivedere la strategia difensiva e confermerebbe le capacità di Hezbollah.

(Difesa online, 18 luglio 2016)


Haaretz stronca la visita di Di Maio

«Al di sotto dell'apparente neutralità, i "grillini" in visita nascondevano a stento una profonda diffidenza verso Israele, mostrando invece la volontà di ascoltare e credere a qualunque cosa venisse raccontata loro dalla parte palestinese, fino al punto di propagare grottesche distorsioni». Haaretz, il principale quotidiano israeliano, stronca la visita di Di Maio e Di Stefano, titolando: «Sono apertamente ostili a Israele, ma allora perché questi politici italiani vengono in visita qui?».

(La Stampa, 18 luglio 2016)


Haaretz non è affatto “il principale quotidiano israeliano”, è soltanto quello più citato all’estero perché è quello più di sinistra e più antisraeliano. In questo caso probabilmente ha usato la difesa di Israele come un comodo proiettile da lanciare contro i 5stelle, bersaglio doveroso anche per la sinistra israeliana. M.C.


Intervista alla rabbina Barbara Aiello

"Molti calabresi hanno origini ebraiche, a breve primo matrimonio a Serrastretta"

di Alessandra Renda.

Barbara Aiello
SERRASTRETTA (Catanzaro) - "Molti calabresi hanno radici ebraiche. Il mio compito qui non è quello di fare proselitismo ma aiutare tanti di loro a riscoprire le proprie origini". Rabbi Barbara Aiello, italo-americana, la prima rabbina donna (e riformata) d'Italia, ci apre le porte della sua Sinagoga a Serrastretta, paese d'origine dei suoi antenati, che ogni anno, soprattutto d'estate, ospita visitatori provenienti da tutto il mondo. Il motivo è semplice: in questo piccolo paesino della Calabria, rinomato per la lavorazione delle sedie artigianali, Rabbi Barbara accoglie famiglie americane con origini italiane, ebraiche e calabresi, per celebrare matrimoni misti e Bar mitzvà. Mentre ci mostra la sacra Torah e la sua collezione di "menorah" (candelabri della tradizione ebraica), Rabbi Barbara ci racconta di provenire da una famiglia di "anusim", ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo durante l'inquisizione. "Dopo aver vissuto la terribile esperienza dei campi di concentramento - afferma - mio padre, originario di Serrastretta, ha voluto che noi figli scoprissimo le nostre radici. Prima di morire, nel 1980, mi disse "figlia, la mia speranza è che tu faccia qualcosa per gli ebrei in Italia", infatti eccomi qui".
   Ed è proprio per rendere omaggio alle sue origini che Rabbi Barbara Aiello nel 1999 si è fatta ordinare Rabbina e, dopo aver operato anche a Milano, adesso vive tra la Calabria e l'America, dove è nata, intenta a far rifiorire il giudaismo, in particolare nella sua sinagoga sorta a Serrastretta nel 2006, dal nome, "Ner Tamid del Sud", (luce eterna del sud), divenendo un punto di riferimento per tante famiglie che non sapevano di avere antenati calabresi e tradizioni ebraiche. "Ogni anno tra maggio e settembre - ci racconta - qui ospitiamo circa 100, 150 persone, per lo più americani, australiani, canadesi, e inoltre, nonostante alcune usanze siano presenti da secoli qui a Serrastretta, a settembre celebreremo il primo vero matrimonio ebraico, tra una ragazza svizzera e un ragazzo italiano" ci dice emozionata.
   In Sinagoga, insieme a lei, incontriamo anche Michael Pollack, 25 anni, del Recostructionist Rabbinical College di Philadelfia, che sarà in visita a Serrastretta una volta al mese ed è al quinto anno di seminario per diventare rabbino. "E' la prima volta in tutta Italia che uno studente rabbinico decide di aiutare e supportare una sinagoga moderna e liberale - afferma Rabbi Barbara nel presentarcelo - e il fatto che sia voluto venire fin qui in Calabria è un grande onore per me".
   Sì, perché la nascita della Sinagoga e del centro studi ebraici proprio nel profondo sud, è stata una vera rivoluzione, soprattutto in contrasto con l'ebraismo di tradizione ortodossa. Le attività portate avanti da Rabbi Barbara sposano infatti una visione del tutto riformata e moderna, che accetta il rabbinato femminile e l'uguaglianza delle donne in tutti i settori della vita ebraica, riconoscendo inoltre ebrei, non solo i figli di madre ebrea ma anche quelli di solo padre se ricevono un'educazione ebraica. Esistono poi tracce indelebili e, proprio parlando della Calabria, la Aiello ci descrive molti riti ebraici che nelle usanze, come i matrimoni, o i funerali, hanno finito per essere adottati da gran parte della comunità cattolica. Tracce e prove tangibili di una industriosa comunità ebraica che sono presenti inoltre anche a Lamezia Terme, nel quartiere Timpone ("Judeca").
   "Timpone è un tesoro" ribadisce la rabbina, ricordando come, anche secondo le parole del professore lametino Vincenzo Villella, in questa zona, siano ancora evidenti i segni di una nutrita comunità ebraica che un tempo fece rifiorire l'economia della città e che oggi dovrebbe essere maggiormente valorizzata. "Proprio la chiesa di Sant'Agazio - aggiunge poi - presenta delle similitudini architettoniche con una sinagoga, basti pensare al rosone della facciata che è stato modificato ma che in origine rappresentava la stella di David".
   Oggi la Aiello è ben voluta da tutta la comunità di Serrastretta con la quale condivide progetti ed iniziative. Non nasconde però come in passato abbia riscontrato diverse resistenze nel suo cammino. "C'è chi pensa che vogliamo prendere persone dalla Chiesa ma in realtà noi non facciamo proselitismo, non vogliamo la conversione, ma solo aiutare chi lo desidera a ricostruire la storia e le radici della propria famiglia ."Ci sono persone che frequentano ormai sia la Chiesa che la Sinagoga, perché credo che più di tutto sia importante avere una vita spirituale. Quando si parla di questi argomenti c'è ancora molta paura - conclude - ma antisemitismo no, qui non l'ho visto".

(Il Lametino, 18 luglio 2016)


Gerusalemme - Fermato un uomo con esplosivi

Bakrat: "Abbiamo sventato un attentato di grandi dimensioni"

Sul posto sono intervenuti gli artificieri. Le vie del centro limitrofe sono state chiuse al traffico e la circolazione della metropolitana leggera in quel tratto è stata sospesa Tweet Tensione a Gerusalemme: 6 famiglie di ebrei si stabiliscono in una casa nel rione islamico Gerusalemme, bomba devasta un bus: 21 feriti Accoltellate 2 guardie israeliane alla Porta di Damasco a Gerusalemme: agenti feriti in modo lieve Gerusalemme, giovane israeliano accoltellato. Arrestati 2 palestinesi Gerusalemme, auto contro la fermata dei bus: 11 feriti. La polizia: "Ucciso l'attentatore" 17 luglio 2016 La polizia israeliana ha arrestato un palestinese che trasportava esplosivi fatti in casa in uno zaino e che stava per salire su un tram nel centro di Gerusalemme, vicono a King George Street, secondo quanto riferito da un portavoce della polizia. L'uomo, identificato dalle forze di sicurezza come un palestinese di 21 anni residente in Cisgiordania, è stato arrestato. Testimoni oculari hanno riferito che pochi istanti il fermo, le forze di sicurezza hanno fatto allontanare tutte le persone presenti, hanno chiuso i negozi e transennato l'area. La polizia ha trovato diverse bombe artigianali in un sacchetto trasportato dall'uomo: sul posto sono intervenuti gli artificieri. Le vie del centro limitrofe sono state chiuse al traffico e la circolazione della metropolitana leggera in quel tratto è stata sospesa. Il sindaco di Gerusalemme, NIr Barkat ha commentato che oggi è "stato sventato un attentato di grandi dimensioni". Ed ha aggiunto: "I terroristi cercano di disseminare la paura. Il nostro messaggio al pubblico - prosegue - è che deve continuare la propria routine, essere vigile e non arrendersi al terrorismo". Barkat ha poi concluso: "Dobbiamo dare la caccia ai terroristi e al tempo stesso continuare a sviluppare Gerusalemme".

(RaiNews, 17 luglio 2016)


Cantico dei Cantici: ispirate al celebre testo biblico

In mostra al Museo Ebraico di Lecce le immagini di Norma Picciotto

 
Una delle opere di Norma Picciotto in mostra al Museo Ebraico di Lecce
A un mese dall'allestimento a Lecce del museo ebraico "Palazzo Taurino - Medieval Jewish Lecce", che si approssima a diventare anche un polo di ricerca sulle tradizioni dell'ebraismo del XX secolo, si inaugura il calendario di attività temporanee che vanno ad affiancare la mostra permanente del museo realizzata e curata dal Prof. Fabrizio Lelli, docente di Lingua e Letteratura ebraica presso l'Università del Salento. Ad aprire la serie di eventi in cartellone, il prossimo 18 luglio alle 18.00, è la mostra fotografica "Cantico dei cantici" di Norma Picciotto che si concluderà il 18 settembre 2016, in occasione della Giornata internazionale della cultura ebraica, con una rappresentazione al teatro "G. Paisiello" sul Cantico dei cantici in rilettura parziale in dialetto salentino. L'inaugurazione si concluderà con un concerto de "Il Duo Sepharad".

 Il Cantico dei Cantici
  Quando Re Shlomò scrisse Il Cantico dei Cantici volle suscitare l'interesse di tutte le nazioni verso il profondo amore che lega Israel al Creatore. Pertanto compose per similitudine, questo poema d'amore allegorico in cui descrisse l'amore e la passione che lega due fidanzati. Nel Cantico, il vino viene paragonato ai migliori piaceri terreni, alle azioni misericordiose e ai miracoli; al frutto offerto a Dio, ai Giusti del popolo; all'insegnamento sereno e dolce impartito alla gente dai saggi e alla dimostrazione dell'amore verso l'Altissimo. Le vigne vengono paragonate alle case di studio e il melograno ricco di chicchi succosi ai 613 precetti. Nelle fotografie di Norma Picciotto il concetto che lega le vigne all'amore terreno oltre a quello spirituale è dato dall'inserimento nelle foglie di vite di frasi d'amore raccolte in tutto il mondo da coppie di innamorati, che hanno inciso i loro nomi sui fusti degli alberi, sui muretti e sulle panchine come a rendere indelebile e immortale il loro sentimento.

 Il Museo Ebraico di Lecce
  Il "Palazzo Taurino - Medieval Jewish Lecce", nato da una iniziativa di privati, è un museo sotterraneo che racconta una parte del passato della città di Lecce precedente il celebre Barocco, accompagnando il visitatore alla scoperta dell'antica giudecca medievale, quartiere della comunità ebraica leccese. Nel luogo in cui oggi sorge il palazzo, nel XV secolo si ergeva la principale sinagoga poi convertita nella Chiesa dell'Annunziata. Nei sotterranei sono visibili ancora alcune vasche probabilmente utilizzate per le abluzioni rituali (miqweh) così come una vano in cui era collocata la mezuzah, oggetto rituale ebraico consistente in una pergamena su cui sono stilati i passi della Torah corrispondenti alle prime due parti dello Shema, preghiera fondamentale della religione ebraica, solitamente racchiusa in un apposito contenitore. Nel museo sono state allestite anche una mostra fotografica sulle condizioni dei sotterranei prima dei lavori di restauro ed una esposizione di abiti medievali. Michelangelo Mazzotta, responsabile amministrativo di Palazzo Taurino, ha espresso come questo museo, oltre a raccontare una parte meno conosciuta della città, interpreta il grande interesse verso il quartiere ebraico da parte dei numerosi turisti che visitano Lecce. Il museo infatti, in poco più di un mese ha registrato più di 2500 presenze diventando un importante polo di attrazione.

Palazzo Taurino - Medieval Jewish, Lecce
Via Umberto Io, 9
Ore 18.00
Info: tel.0832 247016

(Fame di Sud, 17 luglio 2016)


Vanno innalzati i livelli di difesa, l'Europa adotti il modello Israele»

L'allarme «L'insicurezza alimenta xenofobia e estremismi». Gilon, ambasciatore a Roma: «Intensificare il controllo delle informazioni personali».

di Giuseppe Crimaldl

«L'Europa deve fare presto. Ha il dovere di muoversi adesso, senza ulteriori ritardi, perché altrimenti - oltre al rischio di nuovi attentati, oltre alla minaccia terroristica jihadista - prenderanno il volo altri fenomeni non meno pericolosi: a cominciare dalla xenofobia, dal populismo e dai vari estremismi locali». Più che un consiglio, quello di Naor Gilon, ambasciatore d'Israele a Roma, ha il sapore di un appello. «In Israele - dice - purtroppo conosciamo bene cosa sia la convivenza con la paura. Ma noi questo steccato l'abbiamo superato da tempo».

- Ambasciatore, che cosa significa convivere con la paura?
  
«Il nostro modo di convivere con la paura è diverso dal vostro. La differenza è che noi israeliani viviamo in permanente condizione di allerta terroristica da decenni, mentre voi state la scoprendo adesso. Abbiamo sviluppato un modello di sicurezza che pure tante volte altre nazioni hanno criticato. Ma soprattutto abbiamo puntato sull'intelligence. E il risultato è arrivato: il numero degli attentati è notevolmente calato».

- Esiste un «modello Israele» esportabile nel resto del mondo?
  
«In Europa è diverso. Voi avete Schengen, la libera circolazione delle persone tra più nazioni. E in alcuni casi considerate alcuni rimedi di difesa interna come compressioni delle libertà individuali. Noi - che pure siamo una democrazia liberale e attenta ai diritti civili- abbiamo adottato un metodo di controllo delle informazioni personali che - se applicato nei vostri Paesi - farebbe gridare qualcuno allo scandalo. Se ti imbarchi all'aeroporto di Tel Aviv ti fanno un lungo interrogatorio: ti chiedono "dove" "come" "quando" e "perché" ti stai muovendo. Questo non significa certo abdicare ai diritti e alle libertà individuali. Ma soprattutto funziona e produce effetti quando la democrazia è sotto attacco. La paura si vince innalzando i metodi e i livelli di difesa. Per questo dico che dovete fare subito qualcosa: perché, altrimenti, oltre agli attentati, si amplificheranno i rischi legati a xenofobia, populismo ed estremismi locali».

- L'attentato di Nizza ricorda quelli che qualche tempo fa si succedettero a Gerusalemme e a Tel Aviv, dove i terroristi «fai-da-te» utilizzavano le auto per investire e uccidere civili israeliani alle fermate degli autobus.
  
«Un triste deja vu che noi conosciamo bene. Purtroppo questo è il modo più facile e meno prevedibile di fare attentati. Perché tu puoi anche riuscire a intercettare chi acquista un kalashnikov o dell'esplosivo, ma come fai a individuare come terrorista uno che si mette alla guida di un camion o di un'auto? Impossibile fermare questi fenomeni che, peraltro, creano un devastante effetto emulativo pericolosissimo, perché i socialnetwork fanno da amplificatore al fanatismo».

- L'Europa fa abbastanza per combattere queste nuove forme di terrorismo?
  
«No. Evidentemente no. Come dimostrano i fatti di Nizza, da voi continua a esserci un terrorismo replicante. Per non parlare degli attentati di Parigi e Bruxelles: le indagini hanno dimostrato che gli autori dei primi venivano dal Belgio e quelli dei secondi anche dalla Francia. Il che significa che, oltre a sfruttare le frontiere aperte a tutti, i protagonisti avevano una perfetta conoscenza dei luoghi. Ciò rende purtroppo vulnerabile anche l'Italia, anche se devo dire che in questi quattro anni e mezzo di permanenza a Roma ho apprezzato l'egregio lavoro che fanno sia le vostre autorità governative che quelle di polizia».

- Molti Paesi arabi «moderati» fanno ancora troppo poco contro il terrorismo di matrice islamica. Che ruolo possono avere la politica internazionale e la diplomazia per stanare i Paesi canaglia che foraggiano le centrali del terrore?
  
«Tutto l'Islam più moderato, e con esso le tante comunità islamiche presenti in Europa, hanno il dovere di fare di più. Non solo a parole, ma con i fatti. Incominciando a denunciare e collaborare con le varie polizie. Solo così riusciranno a spiegare a tutti che Islam non equivale a fondamentalismo».

- Lei sta per lasciare l'Italia. Qual è il bilancio della sua esperienza?
  
«Sono innamorato dell'Italia. La cultura, la gente, le bellezze naturali, il cibo. Siete una grande nazione e tra voi e noi israeliani ci sono tante affinità. Per me è stato un onore rappresentare Israele in Italia».

(Il Mattino, 17 luglio 2016)


Il terrorismo, l'islam e la coscienza nazionale di un'Italia distratta

Non basta l'impegno delle forze dell'ordine, non si può navigare a vista.

di Giuseppe Laras

Niente di nuovo sotto il sole, diceva Qohelet. Drammaticamente è accaduto di nuovo, con profanazione idolatrica di vite, con strage di corpi, con terrore e in mondovisione. Non è la prima volta e neppure l'ultima, siamo solo agli inizi. Non è nemmeno nuova l'idea di lanciarsi con mezzi motorizzati, più o meno grandi, contro la popolazione inerme: l'attentatore l'ha imparato dagli attentati di Hamas contro gli ebrei israeliani (per chiarire che Fratelli Musulmani, Hamas, Hezbollah e Daesh, pur diversi e concorrenti, rispondono a dottrine mortifere non dissimili).
   Non è nuova neppure l'impreparazione di politici, critici televisivi e intellettuali, anche blasonati, a decifrare i fatti. Continua la politica suicida e ostinatamente ideologica per cui l'Islam non c'entra nulla. Persiste anche l'attenuante del disagio delle periferie, della drammaticità dell'emigrazione, della mancata integrazione e così via. Si rivisita la storia con paragoni alla Shoah per l'emigrazione islamica incontrollata in Italia e in Europa. Gli ebrei però non fuggivano dai loro correligionari, queste persone sì; gli ebrei non hanno ucciso in massa, fatto stragi di civili tedeschi, austriaci, italiani o ungheresi nel corso della Seconda guerra mondiale, gli attentatori invece sì, e peraltro non mi risulta che ora ci siano in Europa nazisti o fascisti ai governi. Vi è poi il paragone più che improprio con l'emigrazione italiana in America nel '900: gli italiani, disagiati e poveri, non compivano queste oscenità e i terroristi islamici con i loro crimini non sono accostabili ai mafiosi italoamericani. L'Italia da cui emigravano gli italiani, infine, era un Paese povero: molti Paesi islamici sono invece Stati ricchissimi. Molti di questi stessi Paesi, che foraggiano il terrorismo, investono in Europa, condizionando l'economia e dunque, specie in tempi di crisi come i nostri, le scelte politiche e persino valoriali ( si pensi alle statue velate per non turbare la sensibilità di un politico iraniano, talmente morale da pubblicamente uccidere le persone omosessuali, negare i diritti civili, voler distruggere i milioni di ebrei che vivono in Israele e altre amenità). Quando si hanno così enormi capitali da investire, l'investimento legale e manifesto non è certamente l'unico a disposizione: si possono infatti agilmente addomesticare a cascate di petrodollari giornalisti, politici e intellettuali occidentali. E i paradisi fiscali non tracciabili in questi Paesi oggi non mancano. Tutto questo, che pure è vero, non rende però veritiera l'equazione falsa e razzista che tutti gli immigrati musulmani siano terroristi o potenzialmente tali.
   La domanda da farsi in Italia circa i fatti francesi, quindi, non è se accadrà anche da noi, bensì quando, dove e come accadrà. E questo pone questioni pesanti. La prima sul generale cattivo stato della nostra coscienza nazionale. È bastato l'evento della partita dell'Italia per circoscrivere lo choc e il lutto per i connazionali uccisi in Bangladesh: questo è un immenso problema culturale e democratico. Vi è poi il fatto catastrofico di una classe dirigente non educata all'impegno e alla fatica, inclusa quella del pensiero e della strategia. Questo purtroppo riguarda, generalmente, a livello culturale, il mondo cattolico, con intellettuali spesso ottusi dal pacifismo panbuonista e con l'incidenza pressoché nulla di un episcopato rarefatto, ove si avverte l'assenza di personaggi eminenti e di genio, pur tra loro in dissonanza (da C. M. Martini e G. Biffi, da Dossetti a Giussani, da Paolo VI a Giovanni Paolo II). Questo riguarda gli intellettuali, in teoria coscienza critica, strategica e orientativa di un Paese: molti, oltre ad aver abdicato al loro difficile e impegnativo ruolo, svilendolo a salotto radical chic, hanno educato ideologicamente, anche quando non più organici di partito, al terzomondismo più acritico e arrendevole (salvo essere iperaggressivi con Israele, il Sionismo e gli ebrei). Questo riguarda, latitando personaggi di spessore e di sostanza, la politica - e dunque la tenuta democratica del Paese - , con una destra priva di un leader, inchiodata alla parabola medica di Berlusconi, e con una sinistra moderata prossima all'implosione se dovesse cadere il governo Renzi. Quando avverrà in Italia l'analogo dei fatti francesi, è in siffatto contesto che accadrà. Se non è ancora accaduto, è anche merito dei nostri servizi di intelligence e di antiterrorismo, tra cui la Digos, i Ros e alcuni reparti dell'Esercito. Quando accadrà ciò che non è ancora accaduto, ci troveremo tuttavia dinanzi a politici, scandalizzati e moralisti, pronti a chiedere loro ragione, a opinion makers critici e sdegnati, a giornalisti che parleranno di falle nell'antiterrorismo.
   Non si può chiedere solo alle forze dell'ordine di salvare la situazione: servono la politica e la cultura; serve non soltanto navigare a vista, ma pensare al futuro e quindi anche alla massiccia crescente demografia islamica in Italia e in Europa; servono e serviranno scelte coraggiose e severe e politiche molto dure. Serve uscire dall'irenismo ottundente e dal vezzo narcisista e nichilista di voler apparire buoni e tolleranti quando però il sangue versato è quello altrui. Resta una speranza, a suo modo messianica: l'essere umano è capace sì di bassezze abissali e di grande stupidità, ma anche di insperati riscatti. Per continuare a vivere dobbiamo impegnarci fattivamente per rendere possibile un necessario domani, migliore dell'oggi.

(Corriere della Sera, 17 luglio 2016)


Turchia - La strada verso la dittatura è aperta. Ora si rischia un islam senza limiti

Tra golpe fallito e atientato rivendicato. L'Isis festeggia due volte. Erdogan si riprende il potere grazie agli islamisti. E il Califfo rivendica la strage del camion.

di Fiamma Nirenstein

Erdogan per ora ha battuto il colpo di stato militare, una rivoluzione alla rovescia in cui il popolo ha salvato il suo autocrate islamista. Non a caso il 50 per cento dei turchi gli ha conferito per 15 anni la vittoria: è l'anima nazionalista-religiosa che ha sempre combattuto la modernizzazione laica di Kemal At turk.
   Erdogan continua a trasmettere l'idea che le cose ancora non sono risolte e chiede alla gente di seguitare a uscire, mentre nel cielo di piazza Taksim ruggiscono ancora alcuni F16. Ma ormai non pare ci siano dubbi sul fatto che oggi sia lui a cantare vittoria. Lui, il sultano che ha trasformato la Turchia in una zona in cui si chiudono i giornali, si sbraitano slogan antisemiti, si mette la gente in galera per dissenso, ci sono duemila persone accusate del crimine di averlo «insultato», i curdi sono diventati il nemico numero uno, l'economia è sull'orlo del fallimento, l'immunità dei parlamentari è stata cancellata, Hamas è foraggiato, la disonestà personale sua e della sua famiglia viene questionata da giudici coraggiosi e poi finiti male, l'islamismo rampante ha le bandiere spiegate sot-o l'ala della Fratellanza musulmana. Tutto questo si consoliderà: il popolo lo vuole.
   Molti soldati, si dice, sono stati linciati dalla gente chiamata da Erdogan in piazza, migliaia di arresti sono già stati compiuti dalla polizia e le forze speciali del presidente, i tremila giudici con tutto il corpo giudiziario sono stati licenziati, volano nell'etere bombastiche affermazioni che la Turchia è tornata alla democrazia per l'eroismo del suo popolo contro i terroristi e i gulenisti. Per la Turchia si sta compiendo, potenziato, il medesimo destino di questi 15 anni, che sarà peggiorato da un stretta che impedisca nel futuro la sorpresa che il sultano ha dovuto affrontare.
   L'esercito custode della legalità laica stavolta non ce l'ha fatta. La Turchia è di nuovo a caccia di prede nel mare magno dell'islamismo interno e internazionale, alla ricerca del passato imperiale ottomano fra le sabbie mobili dell'estremismo. Erdogan, se la sua vittoria si consoliderà, stringerà prima di tutto i suoi tentacoli religiosi sulla società: è questo che gli ha consentito di chiamare la gente a uscire di casa. Le moschee verranno potenziate, in omaggio al fatto che hanno cominciato subito a invitare dai minareti alla sua difesa. Nei quartieri verranno potenziati i presidi dei fedeli a sorveglianza continua. La scuola diventerà sempre più ossessivamente legata ai testi religiosi, decretando il declino dei curricula degli studenti: il lavaggio del cervello che è riuscito a operare fra i giovani e gli intellettuali, e che tuttavia non ha impedito la generosa rivolta del 2013, si intensificherà con la chiusura di altri giornali, punirà scrittori e studiosi che già hanno conosciuto in questi anni a migliaia i rigori degli interrogatori e del carcere.
   Erdogan aveva cacciato via solo il 24 maggio il primo ministro (Ahmet Davutoglu, che aveva portato il suo partito - l' Akp - alla vittoria sei mesi fa), non perché avesse agito contro di lui, ma perché non si era mostrato abbastanza ossequioso verso il suo disegno di fargli votare i pieni poteri dal Parlamento. L'apparato della giustizia e l'esercito sono neutralizzati, la strada verso la dittatura è aperta: adesso il sostituto di Davutoglu, Binali Yildirim, suo mani e piedi, potrà farlo rapidamente.
   Tutto il mondo occidentale adesso, in base ai principi democratici ridotti a paravento della paura come ai tempi delle primavere arabe, si congratula per la ristabilita legalità: anche la Russia, con cui era in corso un processo di riavvicinamento molto fragile, e Israele che aveva appena ristabilito rapporti, dichiarano la loro preferenza per la stabilità. Ma chissà se essa verrà: si vedranno moltissime condanne a morte, cambieranno le leggi in senso autoritario, saranno imprigionati tutti quelli che non sono d'accordo, si assisterà ancora ad attentati terroristici che seguiteranno a distruggere il turismo e quindi porteranno instabilità economica. La Turchia sarà al contempo membro della Nato e amica dell'Isis, teoricamente in guerra con i Paesi occidentali contro il Califfo, di fatto apripista della sua forza militare e dei foreign fighter. Erdogan seguiterà su questa strada, forte del suo ricatto che fa inchinare tutta Europa di fronte al ruolo di custode della strada verso la guerra all'Isis e del contenimento dei profughi. È un ruolo potente, che gli consentirà di intrattenere rapporti con molte organizzazioni terroriste e di professare il suo amore per Hamas e il suo atteggiamento antisemita. Ieri si sono viste manifestazioni di gioia a Gaza. I curdi, gli unici veri combattenti contro l'Isis, invece si preparano al peggio. La Turchia era l'unico Paese musulmano secolare, senza ambizioni shariatiche, forte della memoria di Kemal Ataturk, il grande riformatore. E adesso, che cos'è?

(il Giornale, 17 luglio 2016)


Repressione in Turchia: Putin e Netanyahu tendono la mano a Erdogan

Il presidente della Russia incontrerà presto il "sultano" e da Israele dicono: la riconciliazione andrà avanti.

In queste ore la Turchia caposaldo della Nato a oriente accusa gli Stati Uniti di aver appoggiato il tentativo di golpe e Erdogan usa la scimitarra per silenziare l'opposizione.
Ma proprio in questi giorni due "nemici" si stanno per riappacificare e nemmeno gli ultimi drammatici eventi e la repressione interna sembrano aver fermato la distensione.
Così in queste ora c'è stato un colloquio telefonico tra il presidente russo Vladimir Putin e il leader turco Recep Tayyip Erdogan nella quale i due hanno concordato di incontrarsi di persona "presto". Lo hanno riferito le agenzie russe Interfax e Tass.
Nello stesso tempo da Tel Aviv arriva un chiaro messaggio: "Israele e Turchia hanno concordato un processo di riconciliazione e noi supponiamo che esso proseguirà indipendentemente dagli ultimi eventi in quel Paese": lo ha affermato il premier israeliano Benyamin Netanyahu, nella seduta del consiglio dei ministri.
Nel frattempo il quotidiano economico Calcalist sostiene che fra i responsabili all'economia in Israele si avverte ''sollievo'' per il fallimento del colpo di Stato. La spiegazione è che Israele spera di concludere un accordo con la Turchia per la vendita di ingenti quantita' di gas naturale dal giacimento Leviathan nel Mediterraneo. Un avvicendamento al vertice in Turchia in questa fase, scrive il giornale, avrebbe probabilmente provocato il rinvio di un accordo che Netanyahu considera molto importante per l'economia di Israele.

(globalist, 17 luglio 2016)


Berto l'edicolante - Museo

di Mario Pacifici

 
Berto aveva seguito la campagna elettorale con abulica indifferenza. Candidati scialbi, messaggi confusi e programmi inconsistenti avevano stroncato in lui quel poco di interesse per la cosa pubblica, sopravvissuto all'interminabile sequela di scandali e ruberie.
A dire il vero c'erano stati tempi in cui aveva creduto al potere taumaturgico della partecipazione e si era speso per i suoi palpitanti ideali di progresso e di crescita sociale.
Ma poi la cialtroneria senza colore degli eletti, l'inossidabile sistema dei privilegi e la protervia degli amici degli amici avevano spento i suoi ardori giovanili e ridotto in frantumi speranze e aspettative. Ormai assisteva ai balletti della politica col disincantato scetticismo di chi troppe ne aveva viste per concedere ancora fiducia a gente mossa solo dalle tangibili gratificazioni del potere.
Andava a votare solo perché non era capace di impedirselo. La più imperfetta delle democrazie si ripeteva, è pur sempre meglio della più virtuosa delle dittature. E la linea di demarcazione, si diceva, passa da lì, dalle urne. Disertarle è come voltare le spalle a chi ha versato il sangue o patito la galera per guadagnare a noi quel privilegio.
Così alla vigilia delle elezioni si sorbiva la sua quotidiana dose di chiacchiere e proclami. E poi, dopo l'ordalia delle schede elettorali, l'overdose televisiva di analisi e congetture basate sul nulla. Bandiere appassite e progetti infranti che cedevano il passo al trionfalismo dei vincitori inebriati dal successo.
Va bene, avete vinto, pensava Berto col suo innato buonsenso, ma pensate davvero che le vostre ricette siano così diverse da quelle di chi vi ha preceduto? Va bene, certo, voi siete onesti, bravi, coraggiosi: ma non dicevano così anche quegli altri? E non hanno miseramente fallito, uno dopo l'altro?
Le buche, il degrado, l'abusivismo. Gli sprechi, la corruzione, le mafie. Le pastoie burocratiche. I privilegi corporativi. Il deficit fuori controllo. Se questi avessero un minimo di sale in zucca, rifletteva amaro, non sarebbero così spavaldi!
Uno vale l'altro, si ripeteva del resto come in un mantra silenzioso: eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la sindrome del papa.
Per secoli gli ebrei avevano atteso la fumata bianca del conclave per chiedersi trepidanti: come sarà per noi? Sarà meglio o sarà peggio per il Ghetto? Sarà clemente o intollerante? Santo o briccone?
Beh, ancora oggi, ad ogni elezione, Berto si faceva la stessa domanda: come sarà per noi? E in quel noi, metteva i suoi fratellastri ebrei, i suoi ideali libertari, lo stato di Israele e tutto ciò che più gli stava a cuore. Se lo chiedeva per un sindaco o per un papa, per un presidente americano o per un rais egiziano.
Che gli altri li giudicassero per la politica, l'economia, il sociale. Lui si chiedeva solo: come sarà per noi?
E cominciava a chiederselo prima ancora che fossero eletti, giacché quella era la sola bussola che lo guidasse nel barrare le sue schede elettorali o nel maturare le sue preferenze.
Scartava le destre nostalgiche, i nipotini del Duce, i trogloditi del saluto romano. E poi a seguire i fautori del boicottaggio, i simpatizzanti del BDS, gli antisionisti e i negazionisti. Gli apologeti dei kamikaze e dei loro mandanti. I demonizzatori di Israele e dei suoi sostenitori.
E gli altri? Quelli presentabili, amichevoli, comprensivi e rispettosi? Come saranno quelli per noi?
Il suo setaccio aveva trama sottile perché, come ripeteva spesso, chi si è scottato con l'acqua calda ha paura anche di quella fredda.
E dunque non gli bastavano le dichiarazioni di facciata, le corone di fiori, i discorsi contriti. Lui voleva di più.
Voleva rispetto, riguardo e comprensione, certo, ma non li voleva ancorati alla memoria. Lui li voleva proiettati alla vita e declinati al futuro.
Non si può piangere sui morti, sulle loro tragedie, sulle loro vestigia, senza curarsi del presente e del futuro, dei sogni e delle aspirazioni di una piccola comunità che tanto ha dato al fiorire della cultura italiana.
Quella sovraesposizione della memoria Berto la trovava fastidiosa e fuorviante perché concepita, realizzata e portata avanti come un atto dovuto, come una sorta di risarcimento postumo offerto agli ebrei di oggi per i lutti di ieri.
Beh, pensava Berto, sarebbe ora che qualcuno avesse il coraggio di dire che agli ebrei non servono i rituali della memoria. Quelli si ricordano del Faraone e di Paolo IV, figurati se dimenticano Mussolini e i suoi alleati con la svastica. La memoria serve agli altri. A tutti gli altri. A quelli che hanno già dimenticato. A quelli propensi a ritenere il negazionismo una tesi storica discutibile piuttosto che un falso oltraggioso. Questo malanimo per la ritualità della memoria era un sentire di pancia che Berto aveva a lungo soffocato come un qualcosa di blasfemo e inconfessabile. Per lui che aveva avuto i nonni trucidati ad Auschwitz, la memoria era parte imprescindibile delle radici. Eppure, a poco a poco, quei pensieri avevano trovato la via di una razionale comprensione ed erano emersi con disarmante chiarezza.
La cartina tornasole era stato il Museo della Shoah.
Uno dopo l'altro, sindaci e candidati lo avevano promesso agli ebrei romani come un dono propiziatorio, come un incomparabile trofeo, come la perfetta quietanza di debiti inestinguibili. come la perfetta quietanza di debiti inestinguibili.
Lo faremo, dicevano, vaticinando un'operazione tanto ambiziosa quanto confusa. Lo faremo per voi, per i vostri deportati, per i vostri sopravvissuti.
Berto era indignato dalle ambiguità di quella prospettiva. E inorridiva a veder politici boriosi e progettisti ambiziosi tirare per la giacca i vecchi reduci dei lager.
Il Museo, pensava, se pure si farà mai, non sarà per loro. Non sarà per noi. Sarà semmai per la cittadinanza. Per le future generazioni. Per le ambizioni di una Roma Capitale che dovrebbe porsi oggi ben altre priorità.
Se vogliono manifestare agli ebrei la propria vicinanza, comincino a capirli. Si rendano conto che metà delle loro famiglie ha in Israele figli, parenti o amici. E che l'altra metà ha in Israele il cuore. Vogliono gratificare gli ebrei? Creino borse di studio, programmi scientifici, scambi culturali con le Università Israeliane. Offrano sponde diplomatiche ad Israele. Mandino messaggi chiari a chi ne sogna la distruzione. E soprattutto facciano sentire gli ebrei ancora a casa loro.
Il malanimo, l'acrimonia e l'ostilità che trasudano dal web e dai programmi televisivi hanno un nome che nessuno pronuncia: si chiamano antisemitismo.
Inutile camuffarli sotto vesti aliene. Non sono antisionismo. Non sono libertà di espressione. Non sono critica politica. Sono il vecchio becero e inestinguibile odio che da secoli accompagna gli ebrei. Tutto questo Berto lo vedeva con chiarezza ma a chi poteva andarlo a raccontare?
E allora si stringeva nelle spalle e pensava incupito che il vero sogno degli ebrei era quello di risvegliarsi in un paese popolato solo da italiani brava gente.
Già un'altra volta lo avevano sognato.

(Shalom, luglio 2016)


Dopo l'attentato di Nizza l'Europa è sempre più simile a Israele

I continui attentati spingono le forze dell'ordine a militarizzare la vita pubblica. Il rischio é che l'Europa si trasformi come Israele.

Prima la strage di giornalisti a Charlie Ebdo, poi gli attentati di Parigi, con il massacro al Bataclan. I terroristi hanno preso di mira l'aeroporto di Bruxelles e ora Nizza. Ad ogni attacco la risposta dell'opinione pubblica e dei politici é stata quella di aumentare i controlli, innalzare il livello di guardia, restringere le libertà personali nel nome di una (presunta) maggiore sicurezza.

Il camion della strage
In molti invocano il modello Israele per garantire la sicurezza ai cittadini
  Dopo l'attentato all'aeroporto belga di Zaventem molti analisti hanno suggerito di adottare anche in Europa i controlli di sicurezza in vigore negli scali israeliani. Controlli ai metal detector prima di entrare in aeroporto, passaporti biometrici, restrizioni al transito delle automobili e cosí via. Piò controlli, piò sicurezza, é stato il mantra.

 Il codice Pnr approvato dopo un lungo dibattito sulla privacy
  Tutti gli Stati hanno aumentato il livello di guardia e camminando per Strasburgo, il cuore politico dell'Europa, a Natale c'erano piò militari che turisti. Da poche settimane Bruxelles ha approvato il Pnr, il codice identificativo personale che viene associato ad ogni passeggero che voli sui cieli europei. In questo modo le autorità possono controllare chi si sposta dove, su quali rotte e in quali giorni. Uno strumento che serve a garantire la sicurezza ma che, dicono in molti, sconfina nel diritto di ognuno alla privacy. Sconfinamento inutile, affermano molti eurodeputati, visto che praticamente tutti gli attentatori erano europei e si sono mossi in auto.

 Il pericolo di vivere in uno Stato sotto assedio
  Il pericolo é che con questi attentati l'Europa cambi il suo modo di vivere e di concepirsi. Non piò uno spazio di sicurezza e libertà, ma un luogo di sospetto e di paura. 'Chi vorrebbe vivere in Israele?' E' la domanda che si fanno in molti. Un Paese dove il rischio di essere accoltellati per strada é alto. Dove i posti di blocco sono la norma. Dove bisogna sempre girare con il passaporto in tasca e dove esistono cittadini di serie A e di serie B. Il rischio, e l'obiettivo dei terroristi, é proprio quello di trasformare l'Europa in Israele. E le reazioni a Nizza fanno pensare che gli estremisti siano sulla strada giusta.

 Il prefetto di Milano: la risposta é vivere città in modo sereno
  "Siamo consapevoli che azioni di emulazione potrebbero verificarsi" dopo l'attentato di Nizza. "Sappiano che il rischio zero non esiste ma la risposta migliore al terrorismo e' vivere nel modo piu' sereno possibile la nostra citta'. Non dobbiamo chiuderci in casa. Cosi' il prefetto di Milano Alessandro Marangoni, al termine della riunione straordinaria convocata in prefettura.

 Zaia, e' guerra; leggi speciali per nemico invisibile
  "Abbiamo capito che siamo in guerra e questa e' una guerra non convenzionale, non di quelle studiate sui libri. Abbiamo capito che non tutti gli islamici sono terroristi ma abbiamo capito che tutti i terroristi sono islamici. Ora non si devono fare sconti e dobbiamo rinunciare magari un po' di piu' alla nostra privacy. Siamo in guerra e alla guerra si risponde scendendo in campo con leggi speciali". Cosi' il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha commentato l'attacco terroristico di Nizza. "E' difficile combattere un nemico invisibile - ha continuato a margine di un incontro organizzato a Padova - e questo e' inquietante soprattutto quando pensando alle grandi manifestazioni che abbiamo qui in veneto. Ne abbiamo parlato in occasione del carnevale di Venezia, ne parliamo anche oggi pensando al Redentore di sabato. Non deve esserci mai un calo di attenzione e dobbiamo sapere che il nemico puo' essere dietro l'angolo".

 Londra, sindaco Khan rafforzerà sicurezza grandi eventi
  In una citta' da 9 milioni di abitanti e dove ogni giorno si tengono grandi eventi pubblici nelle piazze, negli stadi, nelle strade e lungo il Tamigi, il sindaco di Londra, Sadiq Khan, dopo i tragici fatti di Nizza ha promesso di "rivedere le misure di sicurezza" partendo da quelle da prendere in relazione a grandi assembramenti di persone in spazi aperti. Oggi Khan, che in mattinata aveva visitato l'aeroporto di Gatwick per alcuni incontri con il management dello scalo, ha detto che "la capitale restera' unita assieme alla Francia" e che "questi terroristi velenosi e tossici" saranno sconfitti. Khan, di origine pakistana e musulmano praticante, ha poi detto: "Io e il capo della Metropolitan Police faremo di tutto per tenere i londinesi al sicuro". "Questi terroristi non vinceranno, non a Londra né altrove", ha concluso Khan, primo cittadino dallo scorso 5 maggio.

 Alfano, incrementati controlli a frontiere Francia
  "Immediatamente dopo quanto accaduto a Nizza abbiamo deciso di incrementare i controlli alle frontiere con la Francia", in Liguria e in Piemonte. Lo ha ribadito il ministro dell'Interno Angelino Alfano, spiegando che a Ventimiglia, in particolare, e' stato predisposto l'impiego di "30 unita' della Polizia di Stato e di 9 dell'Esercito", con un un aumento delle pattuglie "ai valichi di Ponte San Luigi, Ponte San Ludovico e Fanghetto". In Piemonte sono state coinvolte 28 unita', "tra Limone Piemonte, Bardonecchia e Monte Bianco".

 App "allerta attentato" scatta solo tre ore dopo strage
  Annunciata solennemente alla vigilia dell'inaugurazione degli Europei di Calcio, in Francia alla prima prova sul campo ha miseramente fallito l'obiettivo l'applicazione gratuita per smartphone 'Saip', acronimo di Sistema d'Allerta e Informazione per la Popolazione, nota piu' comunemente come 'Alerte Attentat'. Secondo quanto denunciato dall'edizione on-line del quotidiano gratuito '20 Minutes', gli utenti hanno ricevuto notifica di un 'alert attentat' soltanto all'1,34 del mattino. Il sito ha pubblicato in proposito tante foto di display di telefonini che dimostrano il ritardo con cui l'allerta e' giunta ai cittadini.

(Affaritaliani.it, 16 luglio 2016)


Schweitzer: «Contro il terrore l'Ue imiti Israele»

Forze preparate, esercitazioni militari e uso della forza. Sul modello di Tel Aviv. La ricetta anti terrore dell'esperto Schweitzer: «Bisogna essere tempestivi».

di Anna Momigliano

 
Yoram Schweitzer
No, l'Europa non sta diventando come Israele, ma le due realtà si stanno avvicinando, dice a Lettera43.it Yoram Schweitzer, uno dei massimi esperti di terrorismo israeliani. E soprattutto, ci sono alcune cose che i Paesi europei più colpiti dagli attentati, come la Francia, potrebbero imparare dall'esperienza israeliana, specie sul contenimento dei cosiddetti 'lupi solitari', i terroristi che agiscono da soli e di propria iniziativa.

 Convivere con il terrorismo
  All'indomani del tragico attentato di Nizza, dove un giovane francese di origine tunisina alla guida di un camion ha travolto la folla che celebrava in strada la festa nazionale uccidendo almeno 84 persone, molti commentatori e analisti hanno invocato il paragone con lo Stato ebraico, che convive dalla sua nascita con il terrorismo. Ne abbiamo discusso con Yoram Schweitzer, il capo del programma di studi sul terrorismo dell'Istituto per gli studi della sicurezza nazionale dell'università di Tel Aviv.

- Quello che l'Europa sta attraversando in questi anni, da Charlie Hebdo a Nizza passando per Bruxelles, è poi così diverso da quello che succede in Israele da decenni?
  Fermo restando la comprensibilissima tensione di queste ore, direi che il paragone è sbagliato. Sostenere che l'Europa sta diventando come Israele è eccessivo: bisogna ricordare che, nei momenti più difficili, Israele ha sofferto anche un attacco terroristico al giorno.

- Ma?
  Ma è indubbio che la minaccia terroristica sia in aumento in Europa e che è un fatto molto grave.

- Com'è spiegabile che un attentato di queste proporzioni sia avvenuto in Francia, nonostante tutti i precedenti e lo stato di emergenza?
  Vorrei evitare di commentare il fatto specifico, dato che nuovi elementi continuano a emergere. Però è giusto ricordare che l'antiterrorismo è soprattutto una questione di adattamento alle circostanze. L'Europa sta fronteggiando una situazione nuova, e dunque deve adattarsi.

- Come ci si adatta, in pratica?
  In molto modi, ma uno soprattutto: esercitazioni, esercitazioni, esercitazioni. La polizia, l'esercito e le forze speciali hanno bisogno di addestrarsi in base alle nuove circostanze, e sono cose che richiedono tempo.

- L'anti-terrorismo però si basa anche sulla prevenzione, cioè l'intelligence.
  L'intelligence è il punto di partenza, certo. Ma è importante essere preparati ad affrontare i casi dove c'è stato un fallimento dell'intelligence. L'obiettivo è sventare gli attentati. Però se le informazioni mancano o non arrivano in tempo, allora bisogna agire nel modo più tempestivo possibile per contenere i danni. E come si preparano le forze dell'ordine a fronteggiare una simile eventualità? Esercitazioni, esercitazioni, esercitazioni.

- Quanto serve l'intelligence ai tempi dell'Isis? Quest'organizzazione agisce incitando i lupi solitari; come si fa ad anticipare le loro mosse, visto che non fanno parte di un'organizzazione.
  Tanto per iniziare, sarei estremamente attento prima di dire che c'entra l'Isis. Ma più in generale è rischioso mettersi a parlare di Isis quando si tratta di criminali che non hanno legami con quest'organizzazione. Perché si rischia di ingigantire l'immagine dell'Isis, che è precisamente quello che loro vogliono. L'Isis è un'organizzazione terroristica che sta diffondendo una filosofia dell'odio, e io sono convinto che vada sconfitta con la forza. Ma non possiamo metterci a fare il loro gioco.

- Resta il problema dei terroristi che agiscono da soli, di testa loro, come nel caso di Orlando. Non è un ostacolo ulteriore per l'intelligence?
  L'intelligence in realtà può essere preziosa in questi casi. In Israele per esempio negli ultimi tempi ci siamo trovati a fronteggiare un tipo nuovo di terrorismo, attacchi coi coltelli portati avanti da persone che per lo più agiscono in modo individuale. Prima invece eravamo abituati ad attentati pianificati da gruppi interi. Come dicevo prima, l'anti-terrorismo richiede un costante adattamento alle nuove circostanze, e così l'intelligence israeliana ha cominciato a cercare nuove strategie.

- Ne ha trovata una?
  Internet si è rivelata una risorsa preziosa. Israele non è la Cina o la Russia, c'è un web aperto. E così l'intelligence israeliana ha cominciato a monitorare la presenza online di individui che sembravano a rischio di diventare lupi solitari. In alcuni casi si trattava di giovanissimi, e le forze dell'ordine sono andate a parlare coi genitori. Il risultato? Attentati sventati. Certo non tutti possono essere fermati, ma molti sì.

(Lettera43, 16 luglio 2016)


Ma il terrorismo si sconfigge, non è un destino ineluttabile. La lezione di Israele

Possiamo studiarlo, spiarlo, capirlo, prevederlo. E così respingerne gli attacchi.

di Fiamma Nirenstein

Fra le immagini spaventose che tutti gli schermi del mondo ci hanno mostrato da Nizza, una colpisce particolarmente, perché è l'autoritratto dell'Europa: una madre appoggiata a un muretto, immobile, stupita di essere viva, lei e il suo bambino terrorizzato, fermo anche lui, riverso sull'unica fonte della sua sicurezza, il calore della mamma. Quella mamma è il Vecchio Continente, una madre stupefatta, in preda a un incubo da cui non sa uscire, consapevole di dover proteggere i suoi figli, ma impietrita di fronte a questa necessità.
   Il terrorismo non è però il destino dell'Europa, è un'evento catastrofico da affrontare, da cui difendersi, da definire con precisione, piantandola finalmente con le stupide diatribe sulla sua componente religiosa. La bandiera dell'Isis viene piantata dove colpisce, e si aggiunge così una pietra alla costruzione che deve rendere il mondo uguale a quello dell'ottavo secolo, quando Maometto marciava vittorioso alla testa delle sue truppe.
   Non abbiamo voglia di confessare a noi stessi questa verità perché evidentemente non siamo abbastanza sicuri di non essere «islamofobicì», dovremmo invece una volta per tutte invece essere abbastanza sicuri delle nostre buone intenzioni, del liberalismo della società democratica per capire che non la stiamo attaccando quando identifichiamo i terroristi, ma che la stiamo difendendo, e con essa anche i musulmani che intendono, se vivono da noi, rinunciare alla shariah che non è compatibile con le nostre norme democratiche.
   Non abbiamo tempo, dobbiamo difenderci e se l'acqua in cui nuotano è vitale per i terroristi, là bisogna agire. Il terrorismo non è imperscrutabile. Lo si può capire, in parte prevedere, studiare e spiare. In Israele l'uso dello shabbach e del mossad per prevenirlo è intensivo, ci sono gruppi, i «mistaravim», che vivono coraggiosamente mescolati con gli arabi e portano informazioni preziose.
   Gli attacchi con le auto sui cittadini inermi nascono in Israele durante questa ultima Intifada sono stati già 46, le fermate degli autobus sono state uno degli obiettivi più facili. Adesso gli attacchi con le auto sono diminuite, la gente ha imparato a stare attenta, e la polizia sta in allerta. Si dice che la gente a Nizza non abbia capito a lungo che si trattava di un terrorista, e ha invece pensato a un guidatore colpito da malore. Ci vuole più quieta consapevolezza, niente panico. Importanti anche gli aggiornamenti continui alle leggi, adesso per esempio è in discussione il progetto di trattenere ai palestinesi l'equivalente del denaro che versano mensilmente ai palestinesi condannati per terrorismo e, se sono morti, alle loro famiglie: veri stipendi al terrore. Il circolo familiare è stato individuato come culla del sostegno alle loro attività, quindi un terrorista sa che se ucciderà la sua casa verrà distrutta, e i suoi parenti, se hanno un permesso di soggiorno se lo vedranno ritirare. Il numero delle forze dell'ordine, sempre coadiuvate dai volontari, è stato recentemente aumentato specie nei centri urbani; i mezzi di comunicazione, autobus, treni, sono tutti sottoposti a stretta sorveglianza. Se un attentato esce da un villaggio particolare, il luogo viene circondato e bloccato finché non si prendono i ricercati. È efficace? Fino a un certo punto, non sempre funziona, purtroppo a volte i terroristi uccidono con tale crudeltà e velocità che nessuna mossa funziona. Ma altre volte può funzionare, deve funzionare. Per esempio Israele è una città che vive e si sviluppa senza toccare la sua democrazia respingendo ogni giorno decine di attacchi conosciuti e sconosciuti. Ma sempre, il punto principale percombattere e il consiglio biblico di Isaia: non avere paura.

(il Giornale, 16 luglio 2016)


L'illusione di poter difendere la nostra libertà con la forza immobile della pace

Oltre je suis Nice. Capire che l'Europa è come Israele è il primo passo per combattere il disegno razionale dei terroristi islamici.

di Claudio Cerasa

Il giorno dopo lo diciamo tutti ed è giusto ripeterlo anche oggi. Je suis Charlie, certo. Je suis Bataclan, ci mancherebbe. Je suis Nice, certo che sì. Lo siamo tutti, ovvio. Ma in definitiva, andando al nocciolo della questione, chi dall'Italia osserva oggi con orrore i successi dell'internazionale dell'integralismo islamista può davvero dire con consapevolezza oui, je suis conscient? Diceva Winston Churchill che la persona conciliante è una persona che nutre un coccodrillo nella speranza che questo lo mangi per ultimo e da un certo punto di vista l'immagine conciliante che l'occidente offre quando si ritrova a fare i conti con i successi del coccodrillo jihadista è la stessa fotografata da Churchill. Vale per l'Italia ma vale anche per tutto il resto d'Europa. I più coraggiosi (Manuel Valls) dicono che siamo in guerra e che il terrorismo è una minaccia per la nostra vita e che dobbiamo convivere con questa nuova condizione di terrore permanente. Ma un minuto dopo l'ormai consueta strage (solo nell'ultimo anno, 84 morti a Nizza, 281 a Baghdad, 49 a Orlando, 72 a Lahore, 35 a Bruxelles, 18 in Costa d'Avorio, 12 a Jakarta, 45 a Istanbul, 14 a San Bernardino, 130 a Parigi, 103 ad Ankara, 145 in Nigeria tra Maiduguri e Monguno, 38 a Sousse, 38 a Tunisi, altri 17 a Parigi, 3 a Sydney, 224 in Egitto, 137 in Yemen) siamo tutti pronti ad affermare che la guerra non ci cambierà, che i terroristi non trasformeranno le nostre vite e che nessuno di noi regalerà la nostra libertà ai tagliagola islamici.
  Quello che l'occidente spaccia per un punto di forza (resistere, resistere, resistere) alla lunga rischia però di trasformarsi in un dramma che coincide con una condizione di resa. E non comprendere che la guerra deve necessariamente cambiare le nostre vite, illudendoci per esempio che le azioni portate avanti dai terroristi siano solo frutto di una "follia omicida" (Papa Francesco) e non invece frutto di un'ideologia islamista che arma i jihadisti abbeverandosi ai passaggi più violenti del Corano, significa vivere nell'illusione che la libertà dell'occidente si possa difendere con la forza immobile della pace. Nella nostra testa, i terroristi sono dei folli che agiscono in modo irrazionale spinti da una incomprensibile follia omicida e non da una lucida e programmatica razionalità e il nostro istinto naturale di difesa (il terrorismo non ci cambierà) è insieme un punto di forza (continuiamo a vivere) ma anche di debolezza. E in questo senso, la dinamica della strage di Nizza ci dice qualcosa di importante rispetto al rapporto tra l'uomo occidentale e il coccodrillo jihadista. In Israele, in un paese che ogni giorno dell'anno si muove sapendo che in un qualsiasi istante della giornata potrebbe spuntare fuori da ogni angolo un fondamentalista islamico pronto a colpire al cuore la libertà di un ebreo di essere ebreo, quando si organizza un evento in strada con molte persone si blocca quella strada mettendo di traverso alcuni pullman all'inizio e alla fine del percorso. Sono misure di sicurezza basilari ormai di dominio pubblico tra le forze dell'ordine israeliane ma sono misure che si applicano quando vi è una consapevolezza che in Israele c'è e in Europa ancora no: vivere a contatto con i fondamentalisti islamici che sognano ogni giorno di colpire al cuore la libertà di un occidentale di essere occidentale.
  L'Europa oggi è come Israele ma finge misteriosamente di essere su un altro pianeta. E pur ammettendo che siamo in guerra continuiamo a far finta di nulla e continuiamo a comportarci come se in guerra ci fosse soltanto il nostro nemico, il coccodrillo, e come se quello che stiamo vivendo in questi giorni fosse semplicemente un attacco di un qualche pazzo omicida, non invece una guerra mondiale combattuta contro il mondo libero (Parigi, Bruxelles, Tunisi, Orlando, Dacca, Nizza) da parte dei fondamentalisti dell'Islam. In una celebre e profetica intervista rilasciata nel 2014 da Bibi Netanyahu alla tv francese, il capo del governo israeliano, quando il je suis Charlie e il je suis Bataclan erano ancora lontani, disse che la battaglia di Israele contro il fondamentalismo di matrice islamista non è soltanto la battaglia di Israele contro chi minaccia la sua esistenza ma è il simbolo della battaglia dell'occidente che prova ogni giorno a difendere il diritto a essere libero e non sottomesso ai precetti del fondamentalismo. "Se noi non stiamo insieme, questi attacchi terroristici arriveranno da voi. It will come to you, it will come to France". Non rinunciare a vivere la nostra quotidianità è doveroso ma per dimostrare che l'occidente è più forte di chi semina qualsiasi forma di odio contro un occidente libero che gli islamisti vorrebbero distruggere con la violenza e il lucido assassinio di vittime innocenti è necessario osservare il nemico negli occhi, conoscerlo, combatterlo, distruggerlo.
  E' necessario ricordarsi che chi relativizza certe azioni (i terroristi che tagliano la gola ai bambini israeliani) involontariamente legittima tutte le altre ed è necessario anche opporsi a tutti i tribunali del popolo che vogliono trasformare la guerra in una questione morale e che non capiscono che il terrorismo si combatte esportando la democrazia, non allontanando la democrazia dai paesi dove prolifera il terrore. Vale per l'America, vale per l'Europa, vale per l'Italia, che nell'ultimo anno, pur essendo stata graziata sul suo territorio, ha sperimentato sulla sua pelle, con i nove morti di Dacca di pochi giorni fa e i quattro morti al museo del Bardo di Tunisi di un anno fa, cos'è il terrorismo islamista. Il problema è la sicurezza, certo, è il trasformare l'Europa e l'Italia, i suoi porti e le sue spiagge (le spiagge, le spiagge), in una grande Israele. Ma il punto dolente, oggi ma non solo oggi, è che non c'è piena coscienza della condizione che viviamo (dove sono in Italia gli Onfray e i Finkielkraut?) e come sempre, dopo un attacco terroristico, osservatori, politici e twittaroli progressisti (e non solo) proveranno a dimostrare che il problema della proliferazione del terrorismo dipende dagli errori dei servizi segreti, o magari dal gun control quando il terrorismo colpisce l'America, e lo faranno per la solita ragione: concentrarsi troppo sul jihad significherebbe non solo chiamare le cose con il proprio nome (islamismo radicale) ma significherebbe dover ammettere che la strategia più efficace per combattere il terrorismo riguarda più la politica estera che la politica di sicurezza nazionale. E per questo la guerra non finirà se l'occidente continuerà a difendere la sua libertà coprendosi dolcemente gli occhi per non guardare i passeggini insanguinati e mostrando con orgoglio solo i muscoli della pace. Je suis Nice. Mais je suis conscient?

(Il Foglio, 16 luglio 2016)


L'imam che critica l'islamismo e il gesuita che parla di Corano radice dell'odio

di Matteo Matzuzzi

ROMA - "Spero che gli imam di Francia la smettano con le loro riserve negative e che, soprattutto, non parlino nelle prediche del venerdì di argomenti che nulla hanno a che fare con l'attentato di Nizza. Il loro compito prioritario è di combattere l'odio e l'integralismo religioso". Scriveva così, ieri mattina di buon'ora in una nota, appena la dimensione del massacro si palesava in tutta la sua enormità, Hocine Drouiche, vicepresidente della Conferenza degli imam di Francia, imam di Nîmes e candidato alla carica di rettore della Grande moschea di Parigi. In procinto di recarsi nella città della Costa Azzurra, annunciava le dimissioni da ogni incarico in seno alla comunità musulmana locale, in polemica con "queste istituzioni incompetenti che non fanno nulla per la pace sociale e che non cessano di ripetere che l'estremismo non esiste perché sono i media che lo creano". E' vero, dice subito dopo in tono ironico: "Sono stati Bfm tv, Tf1 e iTele a fare quella barbara carneficina a Nizza". L'islam, aggiunge Drouiche, "è innocente, ma necessita di uomini coraggiosi per provare ciò. Perché oggi è molto difficile distinguere l'islam inteso come religione dall'islamismo considerato alla stregua d'una ideologia". Solo qualche giorno fa, dopo la strage di occidentali nel quartiere diplomatico di Dacca, in Bangladesh, Drouiche aveva ribadito quanto grave fosse la crisi interna al mondo musulmano: "Avevamo sempre pensato che il terrorismo fosse nato in Iraq e in Afghanistan a causa dell'orgoglio dell'Amministrazione Bush. La primavera araba ha mostrato con chiarezza che il problema dell'islamismo è legato alla crisi teologica e giuridica dell'islam".
  All'indomani del massacro del Bataclan, lo scorso novembre, sottolineava in un'intervista al Foglio che "non si potranno mai fare passi avanti se i musulmani europei non si mettono in testa che l'estremismo è diventato un fenomeno evidente all'interno della loro stessa comunità. Dobbiamo dire la verità", aggiungeva: "Dai musulmani non è arrivato un vero impegno a trovare una soluzione al grande problema della radicalizzazione e dell'odio. Io auspico che gli eventi di Parigi possano svegliare i musulmani in Francia, in Italia e in tutta Europa per salvare la nostra convivenza e il futuro delle nostre società". L'odio, riconosceva Drouiche, "è divenuto l'elemento caratterizzante del discorso islamico, specialmente in Europa, così da poter mobilitare i giovani musulmani contro l'occidente". L'obiettivo, osservava, "è quello di manipolare i fedeli nel mondo. Da una parte si tende a 'passare per vittime': il messaggio dell'islam politico si basa sulla pericolosa idea che tutta la Terra è contro l'islam e i musulmani. E' la strategia della paura, che mira a far sì che più gente possibile si aggreghi a quel progetto. Per questa tipologia di islam, l'attuale sottosviluppo dei musulmani deriva dall'imperialismo occidentale e dai complotti orditi dai sionisti". Intanto, il Consiglio francese del culto musulmano e la Grande moschea di Parigi hanno condannato "fermamente" l'attentato, giudicato, un "odioso e orribile atto criminale di massa", mentre il Gran Mufti d'Egitto ha bollato l'attentatore come "un estremista che segue le orme del diavolo".
  Padre Laurent Basanese, gesuita e direttore del Centro Studi interreligiosi della Pontificia Università Gregoriana di Roma, non vede nell'attentato di Nizza alcuna evoluzione rispetto a episodi più o meno analoghi, dalla fusillade nella redazione di Charlie Hebdo al Bataclan, fino alla strage di Bruxelles. Quanto accaduto lungo la Promenade des Anglais "si situa nella logica degli attentati precedenti. E ce ne saranno altri, siccome niente è stato fatto per rivedere le fonti che alimentano quest'odio: il Corano e gli hadith (le cosiddette tradizioni orali di Maometto). Niente è cambiato. Anzi, sentiremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni le stesse condanne di coloro che si appoggiano sulle medesime fonti".
  Qualche esempio padre Basanese lo fa: "Già l'Università di al Azhar del Cairo in un comunicato ha dichiarato che questi attacchi 'contraddicono gli insegnamenti fondamentali dell'islam'". Ma "affermano senza dimostrare. Aspettiamo ora le condanne dei Fratelli musulmani e di altri salafiti, della Francia, dell'Arabia Saudita, del Qatar o di altre parti. Saranno soltanto parole vuote e ipocrite, perché il lavoro di fondo non è stato finora intrapreso". Niente di nuovo, insomma, a giudizio dell'esperto gesuita: "C'è semmai la conferma di un odio nei confronti della civiltà occidentale e del cristianesimo (che ne è la radice lontana), la conferma di un doppio linguaggio da parte di molti esponenti musulmani, la conferma che un lavoro di verità sull'islam e la sua tradizione deve essere compiuto adesso, non domani. Se aspettiamo, ci saranno altri morti".

(Il Foglio, 16 luglio 2016)


Perché è cruciale il ruolo degli imam nella lotta alla violenza jihadista

Lettera al diretto della Stampa
    Caro Direttore,
    a proposito dell'attentato di Nizza penso che non basti più essere solidali con le vittime e con il popolo colpito, condannare ogni manifestazione di follia omicida, di odio, di terrorismo e ogni attacco contro la pace, ma che sia ora di pretendere che soprattutto la comunità musulmana scenda in piazza a fiumi per manifestare contro questi orrori (gli altri già lo fanno). Le mie certezze sull'accoglienza, sulle porte aperte per tutti vacillano senza una presa di posizione chiara e netta da parte dell'Islam moderato e democratico, che in questo frangente deve dimostrare di esistere e di dissociarsi senza se e senza ma. Cordiali saluti
    Emilia Marzioni
Cara Marzioni,
ad evidenziare l'importanza di quanto lei scrive c'è la decisione di Hocine Drouiche, vice presidente della Conferenza degli Imam di Francia, di dimettersi in segno di protesta contro il ripetersi in troppe moschee di sermoni che anziché condannare la violenza jihadista in quanto tale la attribuiscono a politiche, decisioni ed errori dell'Occidente. Ad ulteriore conferma dell'entità del problema interno al mondo dell'Islam vi sono le dichiarazioni di leader religiosi e politici di Egitto, Giordania, Marocco ed Emirati Arabi Uniti a favore dello sradicamento del jihadismo dalle moschee. È dunque legittimo auspicare la moltiplicazione di voci dell'Islam europeo a fianco di queste prese di posizione. Tanto più che la grande maggioranza dei 13 milioni di musulmani europei è costituita da immigrati e cittadini che percepiscono il jihadismo come una minaccia a integrazione, sicurezza e prosperità. Trattandosi di comunità che vivono spesso attorno a moschee e centri culturali, ciò che più conta è il ruolo degli imam. Ed in alcuni Paesi, come la Francia, i sermoni ad alto tasso di pericolosità sono tali e tanti da aver spinto il re del Marocco, Mohammed VI, a chiedere alla propria scuola di formazione di imam - a Rabat - di formare i predicatori francesi insegnando il Corano in maniera da delegittimare chi lo considera una fonte che giustifica la violenza. Poiché lo scontro fra modernità ed oscurantismo dentro l'Islam si gioca sull'interpretazione del testo del Corano, è cruciale il ruolo degli imam. Ecco perché le parole di Hocine Drouiche devono essere ascoltate.

(La Stampa, 16 luglio 2016)


L'Aquila: nuova targa per Chiassetto degli Ebrei

 
L'AQUILA - Il 20 luglio sarà scoperta la nuova targa di Chiassetto degli Ebrei all'Aquila.
L'iniziativa è nata dall'idea del gruppo di azione civica Jemo 'Nnanzi, che nel 2015 aveva lanciato la proposta di restituire al Chiassetto, che si trova a pochi metri di distanza dalla chiesa di San Flaviano, l'antica denominazione.
L'evento vedrà la presenza del sindaco del capoluogo, Massimo Cialente e dell'assessore Giovanni Cocciante.
"Era evidente che il Chiassetto indicava il luogo ove vivevano gli ebrei, dopo che giunsero in città alla fine del 300, ma, successivamente, detta antica denominazione venne sostituita con Chiassetto della prima Pinciara", scrive in una nota il gruppo.
"La nostra proposta si è concretizzata dopo aver seguito tutto l'iter burocratico. Come promesso a suo tempo, abbiamo fatto realizzare la relativa targa stradale, con le caratteristiche indicate dall'Ufficio Toponomastica del Comune, peraltro, con un bellissimo gesto che denota profondo senso civico, la ditta Cialente Marmi, da noi incaricata, ha inteso donare la targa alla Comunità, senza chiedere remunerazione alcuna", aggiunge il gruppo.
"Mercoledì 20 luglio (proprio il 20 luglio 1465 Ferdinando d'Aragona concesse agli Ebrei Aquilani uguali privilegi, grazie ed immunità già concessi a tutti i correligionari del Regno) ci vedremo in piazza Duomo per poi raggiungere Chiassetto degli Ebrei dove verrà scoperta la nuova targa".
Il gruppo invita tutti gli aquilani a partecipare.

(AbruzzoWeb, 16 luglio 2016)


Il rabbino imprudente

di Paolo Dionisi

La nomina del nuovo capo dei servizi di rabbinato dell'Esercito israeliano, l'Ordinario militare nelle nostre forze armate, ha scatenato una furiosa polemica in Israele. Il capo di Stato Maggiore dell'esercito, il generale Gadi Eisenkot, ha designato nei giorni scorsi il Rabbino Eyal Karim, quale Rabbino Capo militare, la massima carica religiosa nelle forze armate israeliane. Per essere ufficializzata la sua nomina dovrà avere ora l'approvazione del ministro della Difesa, Avigdor Lieberman.
Rav Eyal Karim
Il Rabbino Karim era stato protagonista di una tempesta mediatica nel 2012, quando alcuni giornali avevano pubblicato alcune dichiarazioni da lui rese dieci anni prima su un sito religioso. Dalle sue parole sembrava che il rabbino in qualche modo giustificasse i soldati israeliani a commettere atti di stupro in tempo di guerra. Nel 2013 sempre Karim aveva avuto un altro incidente di percorso quando la rivista religiosa delle forze armate israeliane, da lui diretta, aveva pubblicato un articolo nel quale si leggeva che "il concetto che i non-ebrei debbano avere gli stessi diritti degli ebrei in Israele va contro il parere della Torah e i rappresentanti dello Stato non hanno alcuna autorità per agire contro la volontà della Torah.
Sull'onda delle proteste, il portavoce delle forze armate era dovuto immediatamente intervenire per prendere le distanze ufficiali dall'articolo e dichiarare la netta contrarietà alle tesi svolte nel testo. In passato, Karim era anche stato uno dei principali protagonisti della campagna scatenata da alcuni leader religiosi israeliani contro l'affidamento a donne di ruoli di combattimento nell'esercito.
Lo sponsor principale della nomina del rabbino Karim alla massima carica religiosa militare è stato il Rabbino Capo ashkenazita d'Israele, David Lau, molto conosciuto dal grande pubblico per essere stato il primo a curare una trasmissione sulla Torah in televisione. Lau ha salutato la designazione di Karim come la più appropriata in questi tempi e lo ha definito un "devoto, un rabbino ben voluto da tutti, che farà progredire il Rabbinato militare in tutti i settori e santificare il nome di Dio". Prima di intraprendere gli studi religiosi, Karim è stato ufficiale dei paracadutisti, ha comandato reparti speciali ed ha partecipato a diverse operazioni militari. Dopo le polemiche dei giorni scorsi, seguite alla notizia della designazione di Karim a Rabbino Capo militare, il ministero della Difesa ha immediatamente avviato un provvedimento disciplinare per accertare i fatti e la commissione di disciplina ha convocato il Rabbino Eyal per un'audizione.
Il rabbino incriminato si è scusato se le sue affermazioni del 2002 sono state travisate, sostenendo che erano prese del tutto fuori dal contesto della sua argomentazione e ha ribadito che non può esservi alcuna giustificazione, né in tempo di pace né in tempo di guerra, per commettere violenza sulle donne, ebree o non ebree che siano. La commissione dovrà in tempi brevi esprimersi con un parere da sottoporre al ministro Lieberman. La sua nomina a Rabbino Capo potrebbe ora essere ripresa in considerazione, specie dopo i commenti di uno dei precedenti Rabbini Capi militari, Israel Weiss, che ha dichiarato che le parole del Rabbino Karim sono comunque molto gravi, quale che fosse la reale intenzione o il suo vero pensiero. Da Rabbino Capo Militare bisogna rendersi conto che ogni parola è valutata e amplificata e occorre dunque mantenere un profilo morale altissimo e lontano da ogni critica. Per uno degli eserciti definiti tra "i più morali del mondo", quello israeliano, un Rabbino Capo con ombre sul suo passato e sulla sua etica potrebbe essere un peso difficile da accettare.

(L'Opinione, 16 luglio 2016)


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