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Notizie 16-31 maggio 2016


Il professor Rugge in missione accademica in Israele

Il professor Antonio Rugge
PAVIA, 31 mag. - È partita ieri la delegazione della Crui, la conferenza dei rettori italia e guidata dal pavese Fabio Rugge, in missione in Israele fino a giovedì 2 giugno. L'obiettivo è consolidare gli accordi in ambito di ricerca e sviluppo tra i due Paesi. I delegati degli atenei italiani visiteranno diverse istituzioni scientifiche e atenei israeliani.
Il professor Rugge, delegato della Crui per l'internazionalizzazione, presenterà il sistema universitario italiano e il valore della missione accademica per rafforzare i rapporti bilaterali. Il 2 giugno al "Peres center for peace" di Tel Aviv, alla presenza del ministro Stefania Giannini, si aprirà il forum "15 anni di relazioni scientifiche". Nel corso del forum saranno illustrati i nuovi accordi di collaborazione e i risultati principali della cooperazione scientifica, in particolare in ambito di chirurgia robotica e plastica, psicologia e psicoanalisi, genetica, biologia, neuroscienze, fisica e agricoltura.
Il rettore dell'ateneo pavese, insieme alla professoressa Yaffa Zilbershats, presidente del Council for higher education israeliano, annuncerà il vincitore italiano del "premio Rita Levi Montalcini per la cooperazione scientifica tra Italia e Israele" istituito dalla fondazione Crui, d'intesa con il Maeci e con il Miur.

(la Provincia Pavese, 31 maggio 2016)


Netanyahu apre a negoziati con paesi arabi per porre fine al conflitto con i palestinesi

GERUSALEMME - Israele è pronto a tenere colloqui con i palestinesi sulla base dell'iniziativa di pace dell'Arabia Saudita: lo ha dichiarato a sorpresa il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a margine del giuramento del nuovo ministro della Difesa, Avigdor Lieberman. "Rimango impegnato a conseguire la pace con i palestinesi e con tutti i nostri vicini", ha detto Netanyahu in una conferenza stampa. "L'iniziativa di pace araba include elementi positivi che possono aiutare a rilanciare negoziati costruttivi con i palestinesi", ha aggiunto. "Siamo disposti a negoziare con gli Stati arabi una revisione ditale iniziativa in modo che rifletta i drammatici cambiamenti nella regione dal 2002, ma che mantenga l'obiettivo concordato di due Stati per due popoli", ha detto il primo ministro israeliano. Nata nel 2002, l'iniziativa di pace araba, a lungo rifiutata da Israele e nota anche come "iniziativa saudita", chiede di normalizzare le relazioni tra i paesi arabi e Israele, in cambio di un ritiro completo da parte israeliana ai confini precedenti al 1967, trovando una soluzione al problema dei rifugiati palestinesi. Inizialmente il piano saudita vincolava il riconoscimento di Israele al completo abbandono delle aree occupate nel 1967, ma nel 2013 i leader arabi hanno ammorbidito la loro posizione aprendo anche alla possibilità di scambi territoriali tra Israele e i palestinesi. La proposta araba è stata rivalutata sia da parte israeliana che dei paesi dell'area, in particolare l'Arabia Saudita, dopo la firma dell'accordo sul nucleare iraniano avvenuta a Vienna lo scorso 14 luglio 2015, che ha reso Riad e Gerusalemme di fatto alleati nella lotta contro l'Iran.
  Lo scorso 14 febbraio nel suo intervento alla Conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco di Baviera l'allora ministro della Difesa, Moshe Ya'alon, aveva rivelato che i rapporti fra Gerusalemme e diversi paesi arabi sono divenuti più stretti, sottolineando l'organizzazione in passato di incontri segreti con i paesi del Golfo: "Abbiamo canali di comunicazioni non solo con la Giordania e l'Egitto. Io parlo anche di altri paesi del Golfo e dell'Africa del nord. Purtroppo non sono qui nella platea. Anche per loro Iran e Fratelli Musulmani sono il nemico. L'Iran è un male per noi e per i regimi sunniti. Ovviamente loro non ci stringono le mani in pubblico, ma ci siamo incontrati in modo segreto". Israele avrebbe già pianificato l'avvio di incontri per discutere la proposta araba del 2002 nel quadro della rafforzata coalizione di governo. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", il deputato del Likud, Tzachi Hanegbi, che ha prestato giuramento come ministro senza portafoglio con compiti relativi alla politica estera e alla difesa, sarà coinvolto nelle nuove iniziative diplomatiche del premier Netanyahu, che comprenderanno anche il mantenimento dei contatti con i partner arabi.
  Nelle scorse settimane il premier ha inoltre elogiato l'offerta del presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi, il quale si è detto disposto ad impegnarsi per far avanzare le iniziative di pace nella regione. Lo stesso Lieberman, il quale in passato ha avuto posizioni molto dure sull'Egitto, si è d'accordo con la posizione di Nentanyahu in merito al piano di pace arabo e ha ribadito come il partito Yisrael Beiteinu sostenga da tempo la soluzione dei "due stati". Fonti vicine al leader di Bayit Yehudi, sostengono che il leader del partito della destra religiosa Naftali Bennett avrebbe difficoltà a sostenere tali iniziative diplomatiche. La posizione di Bennet contraria ad accordi con i vicini arabi potrebbe presentarsi come una delle varie dispute che potrebbe mettere in difficoltà la rafforzata coalizione di governo nelle prossime settimane. La proposta, pur avendo da un lato il parziale appoggio degli israeliani, è ostacolata da parte degli stessi palestinesi, i quali sostengono che la continua espansione degli insediamenti nega di fatto la possibilità di creare uno Stato palestinese composto da Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme est come capitale. A partire dallo scorso ottobre i continui casi di attacchi da parte di singoli cittadini palestinesi contro coloni e membri delle forze di sicurezza divenuta nota come "Intifada dei coltelli" ha spinto Israele ad inasprire le misure di sicurezza, bloccando anche per settimane le vie d'accesso a Gerusalemme ovest e dando il via a perquisizioni e arresti in Cisgiordania. In sette mesi gli attacchi lanciati dai palestinesi hanno ucciso 28 israeliani e due turisti statunitensi. Le forze israeliane hanno ucciso almeno 195 palestinesi, 134 dei quali definiti come assalitori.

(Fonte: Agenzia Nova, 31 maggio 2016)


2 Giugno: le manifestazioni in Israele per Festa Repubblica

"Italia e Israele: le nostre forti radici, il nostro grande futuro". Con il ministro Stefania Giannini.

GERUSALEMME - Sarà il ministro dell'educazione e della scienza Stefania Giannini a celebrare in Israele la Festa della Repubblica del 2 giugno nella residenza dell'ambasciatore italiano Francesco Maria Talò. Il ministro - in visita dal 2 al 5 giugno - incontrerà il responsabile dell'istruzione israeliano Naftali Bennett e, nell'ambito delle manifestazioni in programma,interverrà al Centro Peres per la pace a Tel Aviv al Convegno per i 15 anni dell'Accordo scientifico e industriale tra Italia e Israele.
   Giannini - che vedrà anche l'ex presidente Shimon Peres - consegnerà il 5 giugno al presidente Reuven Rivlin il primo volume della traduzione del Talmud in italiano ad opera del Rabbino capo di Roma Riccardo Disegni e di Rav Adin Steinsaltz, presentato di recente a Roma al Capo dello stato Sergio Mattarella.
   Ma sono molte le manifestazioni organizzate - prima e dopo il 2 giugno - dall'ambasciata italiana per festeggiare la Festa delle Repubblica all'insegna dello slogan "Italia e Israele: le nostre forti radici, il nostro grande futuro". Tra queste una forte delegazione di accademici e scienziati italiani che, insieme ai colleghi israeliani, partecipera' a 10 conferenze congiunte in tutto il paese (dalla robotica alla cardiologia), le cui somme saranno tirate nel Convegno del 2 giugno. Inoltre una Festa della Taranta in piazza a Tel Aviv; una serie di iniziative durante giugno organizzate dell'Ice (con lo Sheraton) volte a promuovere il cibo italiano e i prodotti italiani kosher. Il 22 del mese a Gerusalemme, in collaborazione con l'Israeli Opera, sarà rappresentato 'Rigoletto' di Giuseppe Verdi diretto da Francesco Cilluffo. A fine mese - il 22 e il 23 - arriverà in Israele in ministro dell'agricoltura Maurizio Martina che incontrerà il suo omologo israeliano Uri Ariel.

(ANSAmed, 31 maggio 2016)

*


Il rettore del Politecnico di Torino ricuce con il Technion di Haifa

Dopo le polemiche, il Politecnico di Torino vola in Israele per «rinsaldare la collaborazione con il Technion» di Haifa. Il rettore Marco Gilli fa parte della delegazione del ministro Giannini che oggi andrà in Israele. Nei mesi scorsi i rapporti con l'Università e il Poli sono stati al centro di un caso con l'invito al boicottaggio da parte di una cinquantina di docenti, per l'accusa al Technion di collaborare con l'esercito. Anche l'ambasciatore di Israele aveva scritto al rettore, preoccupato. «Questo viaggio servirà a rafforzare ancora di più i legami accademici», dice Gilli.

(La Stampa, 31 maggio 2016)


Auguri a Bernard Lewis, lo studioso centenario che ha spiegato l'islam

E' stato il primo occidentale a basarsi principalmente sulle fonti in arabo. Ha capito e amato una civiltà senza scusarne i difetti. Fiamma Nirenstein e Harold Rhode - già analista della cultura islamica presso iI Ministero della Difesa Usa e oggi Distinguished fellew del Gatestone Institute - raccontano il loro rapporto con Bernard Lewls, importante storico dell'Islam che compie cent'anni. Il racconto parte dalla festa dei suoi novant'anni.


Analisi
Dagli anni '70 denunciò la tendenza musuimana a occupare iI potere
Equilibrio
Ha sviscerato in modo identico la complessità del Medio Oriente


di Fiamma Nirenstein e Harold Rhode

 
Bernard Lewis
Arrivammo a Filadelfia da tutto il mondo, e fu un novantesimo compleanno molto allegro, precisamente dieci anni fa. Ci accolse Bouncy Churchill, elegante ed energica, grande via v atrice, il grande amore da almeno vent'anni di Bernard che compie 100 anni il 31 di maggio. Lui è il più grande storico del Medio Oriente, il professor Bernard Lewis. Ancora british come il suo accento, come la sua giacca di tweed, come i suoi modi riservati nonostante sia negli USA dal 1974, Bernard oggi preferisce un compleanno più quieto. E' il suo stile di sempre: riservatezza, understatement.
   Ma alla festa per il suo novantesimo compleanno eravamo tanti. Abbiamo celebrato per due giorni. Ospiti dall'Oriente e dall'Occidente, laici e appartenenti alle tre religioni monoteistiche ci riunimmo per festeggiare lui e il suo contributo alla comprensione del mondo islamico. Insieme, rappresentavamo il complicato universo dell'uomo che per primo e più di tutti ha avuto il coraggio sia di amare l'Islam e di considerarlo parte essenziale degli studi umanistici occidentali, sia di individuarne la pericolosità. Già aveva parlato ancora giovanissimo dello «scontro di civiltà», già nel gennaio del '76 scriveva su Commentary. «L'Islam dalle sue origini è una religione di potere, e nel mondo musulmano è giusto e proprio che il potere sia gestito da musulmani, e dai musulmani soltanto. Gli altri possono ricevere la tolleranza, persino la benevolenza dello Stato musulmano, a patto che ne riconoscano la supremazia. Che i musulmani debbano govemare i non musulmani è giusto e morale, che i non musulmani governino dei musulmani è un'offesa contro le leggi di Dio. L'Islam non è una religione nel limitato senso occidentale, ma una comunità, una fedeltà, un modo di vivere...».
   Fra le massicce mura di quello che fu il Bellevue Stratford Hotel, famoso a Filadelfia per avere ospitato l'ultimo Zar, Nicola II, abbiamo discusso per un'intera giornata di Islam: c'erano tailleur e veli, cravatte e turbanti. Non c'era né approvazione né animosità nel discutere, ma una specie di ineluttabilità scientifica eppure affettuosa nel descrivere una realtà incandescente. No, né allora né oggi si è stati in grado di trovare il vaccino: forse nonostante quello che abbiamo creduto nel passato, esso non esiste. Ma Bernard, col suo innato ottimismo, cercò allora come cerca sempre di accendere una luce di speranza alla fine del tunnel. Sempre, nella sua immensa opera di analisi sulla descrizione del pericolo imminente e inevitabile all'orizzonte brilla una speranza di miglioramento: forse deriva dall'orgoglio britannico, forse dalla fiducia per la grande società americana democratica che lo ha ospitato per 57 anni.
   Dozzine di saggi, tomi poderosi, letture innumerevoli, viaggi in aereo ma anche sul cammello, da giovane ufficiale di Sua Maestà, conoscenza di tutte le lingue mediorentali con accento accurato e persino esibito: così aveva potuto prevedere l'avvento del mostruoso regime di Khomeini quando tutti incensavano la rivoluzione iraniana, e poi capire, lui solo, la trasformazione in guerra senza quartiere della dichiarazione di guerra di Bin Laden contro «crociati ed ebrei». Noi abbiamo sempre saputo che Bernard ci può spiegare una cosa in più parlando dell'Islam, qualcosa che non ti aspetti.
   Per questo, quell'anno venimmo tutti insieme a Filadelfia e prevedemmo l'addensarsi della tempesta nella sala delle conferenza, nei corridoi, a cena, a colazione. Fra la miriade di amici c'era il vicepresidente Dick Cheney, che venne apposta per Lewis, e anche Henry Kissinger, con cui Bernard spesso si intratteneva in conversazioni, c'era il leader dei Sufi, Sheikh Kabbani, sempre intento a trovare un contatto coi non musulmani; c'era Fouad Ajami, il grande storico libanese ormai scomparso che aveva avuto il coraggio di scrivere The dream palace of the arabs, il palazzo dei sogni della cultura araba, un critica senza pietà della sua stessa cultura; e poi Zyab al Suwaij, irachena, presidente del congresso islamico americano di Basra, Iraq, piena di sorrisi e di calore, e Ayian Hirsi Aly, ancora molto triste, da poco rifugiata in America, ferita dalla terribile persecuzione, ma fiera e pronta, come disse, alla battaglia. E poi c'eravamo noi i suoi appassionati figliocci, Harold suo allievo e, Fiamma che l'aveva incontrato nel '91 e non se ne era mai più staccata, e Aydan Kodaloglu, una incredibile business woman turca legata allora al governo turco, e Ron Dermer, ora ambasciatore di Israele negli USA, Dan Diker, analista e direttore del World Jewish Congress in Israele, Martin Kramer, uno storico di prima classe, appuntito e severo... e tanti altri, con cui ci scusiamo perché non possiamo allungare troppo la lista. Bernard tenne in chiusura uno dei suoi discorsi senza un appunto, offrendoci una visione del mondo Islamico, un panorama immenso illustrato da cento citazioni testuali a memoria, un discorso perfetto che di nuovo compiva la magia di cui è sempre stato capace: essere fair e rispettoso verso l'Islam e insieme scorgerne i barbagli di furore.
   Un amore condiviso con chi scrive è certamente Israele: Bernard l'ha alimentato di anno in anno passando tre mesi in una casa con la finestra sulle onde a Tel Aviv. Una volta una cena a casa di Fiamma a Gerusalemme ha messo insieme, oltre ad altri, Teddy Kollek, il mitico sindaco di Gerusalemme, un leone amato odiato da arabi e da ebrei, e Nashashibi, l'antico sindaco palestinese di Gerusalemme, tutti e tre con delle meravigliose giacche di tweed di taglio inglese, tutti e tre con il bicchiere di whisky in mano prima di cena. A quella cena, o a un'altra delle tante, c'era anche lo storico Benny Morris quando ancora biasimava gli israeliani per la fuga dei palestinesi durante la guerra del '48: Morris apostrofò Bernard sostenendo che non c'erano prove che gli arabi avessero invitato i palestinesi ad andarsene per poi farli ritornare sulla punta del loro fucile. Bernard spedì Fiamma a prendere un volume nello studio di casa, le ingiunse di andare a una certa pagina, e là lesse una nota in cui si citava l'appello del Primo Ministro Iracheno Nuri al Said e quello del primo ministro siriano Haled al Azim che chiedeva ai «fratelli palestinesi» di lasciare momentaneamente le loro case. Morris tentò di reagire, ma Bernard sempre cortese e disposto ad ascoltare, chiuse i battenti. Forse Benny, uomo intelligente ha tenuto in conto l'atteggiamento di Lewis quando ha cambiato idea. Bernard ha fatto cambiare idea a tanta gente.
   E' inutile qui ripercorrere l'immensa bibliografia di cui tutti conoscono almeno II Medio Oriente, Il Medio Oriente e l'Occidente, Gli arabi nella storia, Semiti e antisemiti... Preferiamo ricordare di lui che è il sottile senso del suo lavoro quello che più colpisce oggi: è l'unico storico che si è basato interamente su fonti ottomane e arabe quando gli arabi chiudevano le porte agli studi occidentali. La sua esposizione è veramente globale. Legge la storia del Medio Oriente comprendendo che la sfida e l'impatto occidentale sul mondo islamico sono il vero spartiacque che determinerà il futuro di tanta parte dell'umanità. Per questo What went wrong, un libro cristallino che spiega tutto ciò che vediamo intorno a noi oggi nel mondo islamico, è un grido di dolore. Per questo la sua quieta ma costante e ripetuta predilezione per Israele è sempre stata tanto paterna e calda di fronte al rifiuto arabo. Vogliamo concludere festeggiando il centesimo compleanno di Lewis, condividendo l'augurio ebraico che gli fece il vicepresidente Cheney a Filadelfia: Bernard, ad mea ve esrim, fino a centoventi anni!
   
(il Giornale, 31 maggio 2016)



Netanyahu: accordo di riconciliazione tra Israele e Turchia molto vicino

GERUSALEMME - La riconciliazione tra Turchia e Israele è "molto vicina". Lo ha detto il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, parlando ieri ad un incontro con esponenti del Congresso Usa in visita a Gerusalemme. Netanyahu ha aggiunto che i rapporti tra i due paesi non torneranno "immediatamente" ai livelli di 10 anni fa, ma la riconciliazione sarà comunque "un bene per entrambi". Fonti del governo israeliano hanno riferito al quotidiano "Haaretz" che per ora l'unico ostacolo ad una normalizzazione dei rapporti è la richiesta israeliana per la chiusura della rappresentanza diplomatica del movimento palestinese Hamas ad Istanbul. Negli ultimi mesi sono proseguiti i colloqui tra le squadre dei negoziatori israeliani e turchi per la riconciliazione dopo l'incidente della Mavi Marmara. Anche il console israeliano a Istanbul, Shai Cohen, a inizio mese, aveva detto che, una volta insediatosi il nuovo governo turco, sarebbe stato possibile arrivare all'intesa finale tra Ankara e Gerusalemme per la normalizzazione dei rapporti. "Credo che ci vorrà un altro round di colloqui o due per concludere l'accordo", aveva affermato Cohen pochi giorni prima della designazione del nuovo primo ministro turco, Binali Yildirim.

(Agenzia Nova, 31 maggio 2016)


Hamas esegue tre condanne a morte a Gaza

Ignorando di fatto appelli urgenti alla clemenza giunti nelle settimane scorse dall'Onu e dalla Ue, le autorità di Hamas hanno ordinato la scorsa notte la esecuzione di tre condanne a morte in una prigione di Gaza.

Tutti e tre i reclusi (di cui non è stata pubblicata l' identità) erano stati giudicati colpevoli di omicidio. Due sono stati impiccati, mentre il terzo - che era inquadrato nelle forze di sicurezza di Hamas - è stato ucciso con un colpo di pistola.
La imminenza di queste esecuzioni era stata preannunciata di recente dal leader locale di Hamas, Ismail Haniyeh, e pubblicamente approvata dai parlamentari di Hamas della striscia di Gaza. In carcere restano intanto altri dieci reclusi condannati a morte.
Secondo la stampa locale, queste esecuzioni rientrano negli sforzi di Hamas di combattere una ondata di criminalità che semina la paura nella popolazione.

(ATS News, 31 maggio 2016)


L'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede incontra la comunità ebraica di Trani

Zion Envroy ha visitato anche il museo di Scolagrande

TRANI, 30 mag. - Si è svolto questo pomeriggio, presso la sinagoga Scolanova, l'incontro tra l'ambasciatore dello Stato di Israele presso la Santa Sede, Zion Evrony, e la comunità ebraica tranese presso la sinagoga Scolanova. E' stata la prima volta che un alto rappresentante dello Stato di Israele ha incontrato ufficialmente la comunità ebraica di Trani, che è una sezione di quella di Napoli.
«Sono molto felice di essere qui a Trani», ha detto Evrony, che ha fatto la conoscenza di una comunità antica, sebbene ricostituita solo nel 2004. L'ambasciatore israeliano ha anche ammirato la sinagoga di Scolanova, una delle più antiche d'Europa. All'incontro è seguita una visita al museo ebraico di Scolagrande (una delle sezioni del Polo museale gestito dalla Fondazione Seca e di proprietà della Diocesi di Trani) in via la Giudea.

(TraniViva, 30 maggio 2016)


Arabia Saudita-Iran: scontro su pellegrinaggio alla Mecca acuisce la divisione tra sunniti e sciiti

ROMA - Lo scontro tra Iran e Arabia Saudita relativo al pellegrinaggio alla Mecca sta assumendo sempre di più connotati dai risvolti religiosi oltre che politici che rischiano di acuire la violenza delle guerre per procura in corso in Siria, Yemen e Iraq e il confronto sulle quote di produzione petrolifera interno all'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Poco dopo l'annuncio da parte di Teheran dell'esclusione dei suoi pellegrini dall'Hajj, che inizierà a giugno, il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, ha sfruttato la visita dell'omologo britannico Philip Hammond a Riad per denunciare l'interferenza iraniana nella regione e i suoi tentativi di dividere i musulmani. Per il ministro degli Esteri, Teheran avrebbe imposto "richieste inaccettabili", tra cui il diritto di organizzare dimostrazioni durante il pellegrinaggio, di avere privilegi e ciò, a detta di al Jubeir, causerebbe il caos durante l'Hajj.

(Agenzia Nova, 30 maggio 2016)


Gli 80 anni della sinagoga: «L'ultima prima della follia»

L'edificio inaugurato nel 1935, le leggi razziali furono emanate nel 1938. II rabbino capo Momigliano: «La storia degli ebrei deve far riflettere, chi arriva da fuori può essere risorsa per la città».

di Alessandra Costante

 
Kippah tra i riccioli biondi dei bambini. Kippah su teste grigie. Pochi giovani. Uomini e donne seduti gli uni accanto alle altre nel tempio, come non potrebbe mai accadere durante i riti sacri e le preghiere. Ma ieri per la sinagoga di Genova è stata una giornata speciale, il ricordo dei suoi primi 80 anni di vita, la commemorazione di un momento storico e drammatico. Fu l'ultima sinagoga (insieme a Trieste, Roma e Livorno una delle quattro monumentali costruite in Italia nel Novecento) ad essere eretta prima delle leggi razziali (18 settembre 1938). La sua inaugurazione avvenne tre anni prima. Otto anni dopo (3 novembre 1943) la retata nazista di Genova. Date indelebili nei ricordi della comunità ebraica genovese.
   Una grande foto in bianco e nero campeggia nel centro della sinagoga, davanti all'altare. «E' uno scatto del 1935, la foto dell'inaugurazione. Ritrae il consiglio della comunità e il rabbino, Dario Disegni» spiega Ariel Dello Strologo, presidente della comunità ebraica genovese. Ottant'anni dopo, tra il pubblico della commemorazione, ci sono i nipoti del rabbino di Torino: Dario (presidente della comunità ebraica di Torino) e Giulio (Unione comunità ebraiche italiane).
   «Sono stati anni non banali, ci sono stati momenti tragici. Da parte degli italiani ci sono stati atti di grande solidarietà verso la nostra comunità, ma molti sono stati parte attiva nella tragedia di cui siamo stati protagonisti. Dopo la guerra abbiamo dovuto ricostruire il rapporto di fiducia tra comunità ebraica e italiana».
   Oggi a Genova la comunità ebraica ha circa 350 membri. Adulti e anziani, soprattutto. Ma quando l'idea della sinagoga monumentale prese corpo, la comunità di Genova era forte, composta da più di tremila persone che vollero lasciare il piccolo tempio della Malapaga (dietro il porto Antico) e abbandonare il ghetto di via dei Tessitori per costruire il loro luogo di culto in via Bertora, piccola strada laterale a via Assarotti. «Ci sono vicende nella storia degli ebrei che devono portare insegnamenti anche oggi. Bisogna fare attenzione quando si respinge qualcuno perché si possono perdere occasioni importanti» osserva il rabbino capo, Giuseppe Momigliano. Parla delle difficoltà con cui Genova si aprì agli ebrei sefarditi che nel 1492 furono cacciati dalla Spagna. A metà del 1500 tra i pochi ebrei ai quali era consentito vivere in città, c'era un medico, Youssef Cohen, «che fu anche uno storico e si occupò del Nuovo Mondo. Molti altri ebrei potevano essere utili allo sviluppo di Genova». Oggi la storia ha altre diaspore, altre migrazioni. Altre occasioni che possono andare perdute? «E così».

(Il Secolo XIX, 30 maggio 2016)


Hezbollah: "nessuna guerra quest'estate a meno che Israele non la voglia"

BEIRUT - "Non ci sono segni che Israele si sta preparando per un nuovo assalto al Libano, ma se dovesse decidere in tal senso, troverà Hezbollah pronto". Lo ha detto il vicecapo del partito militante libanese, lo sceicco Naim Qassem, durante una cerimonia nel sud del paese. Nel suo discorso, Qassem ha spiegato che mentre durante l'estate i conflitti in Siria, Iraq e Yemen sono destinati a continuare, è improbabile un conflitto con Israele in territorio libanese. Qassem ha inoltre ribadito che il ruolo di Hezbollah è stato decisivo nel ritiro di Israele dal sud del Libano nel 2000, spiegando che "la vittoria" del gruppo, in ultima analisi, "potrebbe portare alla caduta di Israele".

(Agenzia Nova, 30 maggio 2016)


Trieste - Lavry, le note della Memoria

 
Un nuovo appuntamento in sinagoga, a Trieste, per il Festival Viktor Ullmann dedicato alla musica concentrazionaria, degenerata e dell'esilio. Terzo dei quindici eventi in programma quest'anno, il concerto-tributo in ricordo compositore Marc Lavry eseguito dall'Orchestra Abimà diretta da Davide Casali ha portato all'attenzione del folto pubblico presente, oltre 500 spettatori, quattro brani in prima esecuzione assoluta.
"La musica di Marc Lavry - ha affermato Casali - si può considerare molto vicina a quella popolare ebraica, mantenendo però il rigore della musica classica post-romantica; l'intreccio degli strumenti porta l'ascoltatore ad avvicinarsi con la mente alla terra d'Israele con tutta la sua magia e felicità. Sono molto presenti i temi ebraici che in qualche momento sembra quasi musica klezmer. Marc Lavry è un compositore solido, che meriterebbe di essere eseguito molto di più, proprio perché la sua musica lascia nell'ascoltatore un senso di tranquillità".
Ad assistere al concerto anche la figlia del compositore, Efrat. Mentre i saluti della Comunità ebraica sono stati portati dal rabbino capo Eliezer Di Martino e dal Consigliere UCEI Mauro Tabor.

(moked, 30 maggio 2016)


Israele - Il governo approva Lieberman alla Difesa

Approvato all'unanimità

Il governo israeliano ha approvato oggi all'unanimità la nomina di Avigdor Lieberman (Israel Beitenu) alla carica di ministro della Difesa: lo rende noto un comunicato ufficiale. Con questa sostituzione il premier Benyamin Netanyahu ha esteso la base parlamentare della coalizione da 61 a 66 dei 120 deputati. La cerimonia di giuramento di Lieberman avrà luogo nel pomeriggio alla Knesset (Parlamento). Lieberman prende il posto di Moshe Yaalon (Likud), che si era dimesso dopo avere appreso la decisione di Netanyahu di sostituirlo. In protesta per l'ingresso di Lieberman al governo si é dimesso anche il ministro dell'ambiente Avi Gabbay, del partito centrista Kulanu.

(ANSAmed, 30 maggio 2016)


Lugano - Tutto pronto per il prossimo Israel Day

Yaakov Perry
L'ospite d'onore dell'Israel Day 2016 sarà Yaakov Perry, ex direttore dei servizi di sicurezza israeliani e oggi deputato alla Knesset, il parlamento locale. 'È la prima volta che ospitiamo un rappresentante istituzionale israeliano' sottolinea Iris Canonica, membro della commissione comunicativa dell'associazione Svizzera-Israele, che organizza la giornata. Perry tratterà il tema dell'applicazione di scienza e tecnologia nella lotta al terrorismo. L'evento si terrà domenica 5 giugno alle 17, nella sala B del Palacongressi di Lugano. Si proseguirà con con un aperitivo a base di specialità e vini israeliani. L'ingresso è libero e gratuito.

(laRegione, 30 maggio 2016)


Delegazione di accademici italiani in Israele contro il Bds

Riportiamo da Nena News, sito palesemente ostile a Israele, la prima parte di un articolo che dà informazioni su un'interessante iniziativa di accademici italiani contro l'ignobile campagna di boicottaggio del Bds. Naturalmente alla notizia troppo favorevole a Israele l'articolista aggiunge un inevitabile, consueto, "doveroso" contrappeso di biasimo anti-israeliano, che volutamente abbiamo tralasciato. NsI

«Rispondere al boicottaggio lanciato all'inizio di quest'anno da oltre 300 accademici italiani e rafforzare i rapporti con lo stato ebraico. Sono questi i motivi principali che spingeranno questa settimana decine di ricercatori e studiosi provenienti dall'Italia a incontrare i loro colleghi israeliani in una serie di conferenze di carattere per lo più scientifico.
"E' uno sforzo senza precedenti per rispondere concretamente ad una questione delicata" ha detto al quotidiano israeliano Ha'Aretz Francesco Talo, ambasciatore italiano in Israele. "Crediamo che la ricerca e le università debbano essere libere, aperte al dialogo e allo scambio". Il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane ha avuto meno successo in Italia che in altri paesi occidentali. Eppure qualcosa si sta muovendo: lo scorso gennaio più di 300 accademici hanno firmato un petizione in cui si chiede alle università italiane di cancellare gli accordi di cooperazione con il Technion di Haifa e con altre istituzioni accademiche israeliane.
Le iniziative congiunte di questa settimana, che si svolgeranno da martedì a venerdì in varie città d'Israele e avranno come centro Tel Aviv, mirano pertanto a stroncare sul nascere questa protesta e a ribadire la vicinanza tra i due Paesi. "Abbiamo pensato che la migliore risposta sia agire: fare concretamente il contrario di quello che alcune persone ci chiedono di fare portando un significativo numero di ricercatori e accademici in Israele" ha aggiunto Talo. "Tutti sono liberi di dire quello che vogliono - ha precisato il diplomatico - ma noi risponderemo con le azioni".
La risposta delle autorità italiane non sorprende: Roma ha sempre espresso una forte contrarietà alla campagna internazionale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) nei confronti dello stato ebraico. Emblematiche in tal senso furono le parole del premier Renzi nel suo discorso alla Knesset lo scorso luglio quando affermò che "chiunque boicotta Israele, sta boicottando se stesso" e "tradendo il suo futuro".
La delegazione italiana che giungerà in queste ore in Israele sarà la più numerosa di sempre: guidata dal ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, comprenderà oltre 60 ricercatori a cui si uniranno anche i rappresentanti della Conferenza italiana dei rettori (che riunisce i capi delle maggiori università italiane). Diversi i temi che gli studiosi italiani e israeliani affronteranno: nuovi trattamenti per le malattie cardiache, l'uso dei robot per aiutare le persone anziane e i disabili, gli ultimi progressi compiuti nel campo della chirurgia plastica, bioetica, psicologia ed economia.
Non solo dibattiti culturali però. Giovedì mattina, infatti, l'intera delegazione raggiungerà il Centro Peres per la Pace a Tel Aviv dove verranno firmati tre accordi di cooperazione in campo scientifico tra le università dei due Paesi. Per giovedì, in concomitanza con la festa della repubblica italiana, sono previsti inoltre diversi avvenimenti e celebrazioni. Tra questi, la presentazione della recente traduzione in italiano del Talmud e un festival di danze popolari italiane.»

(Fonte: Nena News, 30 maggio 2016)


Usa - La svolta anti-israeliana del Partito democratico

 
                                    James Zogby                                                                 Cornel West                                                               Bernie Sanders
NEW YORK - Sino a non troppo tempo fa, il Partito democratico statunitense era considerato a tutti gli effetti il partito pro-Israele della politica Usa, scrive il "Wall Street Journal" in un editoriale non firmato, attribuibile alla direzione. Il presidente democratico Harry Truman riconobbe Israele pochi momenti dopo la sua dichiarazione d'indipendenza, nel 1948; John Fitzgerald Kennedy vendette a Tel Aviv avanzati missili antiaerei, ponendo fine all'embargo di fatto alla cessione di armi a quel paese. Bill Clinton era noto per la sua vicinanza al premier israeliani Yitzhak Rabin. Quel partito, oggi, "è morto o quasi", scrive il quotidiano; ad assestare il colpo di grazia alla linea pro-israeliana del Partito è stato il socialista Bernie Sanders, che la scorsa settimana ha ottenuto dalla dirigenza democratica la possibilità di nominare due membri del comitato responsabile della piattaforma programmatica. Sanders ha scelto James Zogby dell'Arab-American Institute e il professor Cornel West, entrambi noti per la loro ostilità a Israele .
   West, ricorda il quotidiano Usa, diede un assaggio di questa ostilità su Facebook, nel 2014, durante l'ultimo conflitto a Gaza. "Non lasciamoci ingannare", scrisse. "Il massacro israeliano di innocenti palestinesi, in particolare bambini, è un crimine contro l'umanità! I razzi di Hamas saranno anche moralmente sbagliati e politicamente inefficaci, ma questi crimini sbiadiscono di fronte al massacro di civili inermi perpetrato da Israele con il sostegno degli Usa".
   Zogby, invece, è un entusiastico sostenitore del programma di boicottaggio accademico e finanziario di Israele "Boicott, Divestment and Sanctions" (Bds), che ha definito "una risposta morale e legittima alla politica israeliana". Si tratta, secondo la direzione del "Wall Street journal", di posizioni che si spingono ben oltre i limiti della critica legittima di Israele. Nessun altro paese al mondo, ricorda il quotidiano, è oggetto di una campagna internazionale di boicottaggio al pari di Israele: né feroci dittature, né "paesi genuinamente occupanti come la Cina con il Tibet".
   I democratici pro-Israele possono sempre replicare che West e Zogby sono due figure all'interno di un comitato di 15 membri: ciò, secondo il quotidiano, "non basta a nascondere la decisa svolta anti-Israele del progressismo statunitense". Persino la candidata presidenziale del Partito, Hillary Clinton, "è moderata nei confronti di Israele soltanto se paragonata alla sinistra democratica": dei suoi quattro anni alla guida del dipartimento di Stato "sono ben note le numerose denunce di Israele". Eppure, conclude il quotidiano, "il sostegno a un democrazia liberale come quella israeliana dovrebbe essere connaturata al Partito democratico: l'ultima volta che abbiamo controllato, era assai meglio essere donne, omosessuali, ambientalisti o dissidenti politici a Tel Aviv che a Gaza".

(Agenzia Nova, 30 maggio 2016)


Oltremare - Cervelli

di Daniela Fubini, Tel Aviv

La regola che si impara una cosa nuova ogni giorno (pena la perdita di preziosi neuroni che altrimenti non saprebbero che fare, con le mani in mano) immagino valga a ogni latitudine. In Israele ho sempre avuto l'impressione che questa regola valga al quadrato, a qualunque età si arrivi.
Ieri per esempio, ho imparato una parola nuova che è tutto un mondo: Hackathon. E no, non è ebraico moderno. È qualcosa che sta fra l'inglese e una parola greca anglizzata, "hacker" e "marathon", ed è una occupazione assolutamente pacifica e non contro la legge, nonostante la prima metà del nome.
Ricetta: si mettono una ottantina di cevelli giovani o medio-giovani in uno spazio chiuso con wi-fi, acqua, molte bibite gassate, cibo (scadente e ipercalorico), si permette loro di dividersi autonomamente in gruppi di cinque o sei cervelli individuali, ma con computer ovvero cervello supplementare al seguito. Si immettono in questo sistema chiuso cervelli più vecchi ma altrettanto attivi. chiamati esperti. Si lascia che i gruppi di cervelli giovani producano idee e fantasie in formato digitale, con l'ausilio o il disturbo dei cervelli vecchi che vagano, probabilmente cercando di capire la lingua misteriosa parlata dai giovani.
Dopo due giorni e mezzo senza sonno, si prendono i cervelli giovani raggruppati, li si interroga sulle genialità inarrivabili che hanno prodotto. Nella maggioranza dei casi, cose del tutto inutili all'umanità e scarsamente utili al loro curriculum. Alle volte, sprazzi di genio vero e puro di insinuano fra l'insonnia e i resti di pizza, e allora ci si rende conto di perché tutta questa fatica, calorie e bollicine.
Mi pare lapalissiano perché gli hackathon sono popolarissimi in Israele. Uno stato-isola, in mezzo a un mare di nemici di varia gradazione, che basa la propria esistenza su invenzioni e idee prodotte sotto uno stress enorme e cibi fortemente calorici. Ah, dimenticavo il chamsin, ma quello negli Hackathon non c'e': l'aria condizionata è la differenza più rilevante fra loro e la realtà.


(moked, 30 maggio 2016)


Egitto - "Hamas incubatore per gruppi terroristici della regione"

IL CAIRO - L'ex capo delle forze speciali della sicurezza egiziana, generale Mustafa Kamil, ha affermato che il movimento islamico palestinese di Hamas a Gaza "rappresenta un incubatrice naturale per i gruppi armati che crescono lungo il confine con l'Egitto". Intervistato dall'emittente televisiva privata egiziana "al Ghad", l'ufficiale ha spiegato che "il triangolo più pericoloso è quello di al Arish, Rafah e Sheikh Zuid, una zona di morte per chi combatte i terroristi in Egitto, un'area provoca imbarazzo per il paese". Secondo quanto emerge da un'analisi pubblicata dal quotidiano "Daily News Egypt", la situazione nel Sinai continua ad essere critica, nonostante il silenzio della stampa filo-governativa, che offre spazio soprattutto alle operazioni compiute dalle forze di sicurezza impegnate nella campagna "Diritto dei martiri", che a detta dell'esercito avrebbe portato all'uccisione nelle ultime settimane di centinaia di presunti militanti islamisti.

(Agenzia Nova, 30 maggio 2016)


Al via il festival Jewish in the City. Una Comunità a porte aperte

 
MILANO, 29 mag - Al via questa mattina a Milano il festival di cultura ebraica Jewish in the City, dedicato quest'anno alle celebrazioni dei 150 anni della Comunità ebraica di Milano. "Insieme, allo stesso tavolo" il titolo dell'evento di apertura, un momento di convivialità svoltosi alla Rotonda della Besana, che testimonia fin da subito la vocazione della rassegna e della Comunità ebraica stessa alla condivisione e all'apertura nei confronti della città. Dopo il successo delle prime due edizioni, Jewish in the City #150 - con la direzione scientifica, culturale e organizzativa affidata a rav Roberto Della Rocca con Cristiana Colli, mentre la responsabilità del progetto è di Gadi Schoenheit - propone dunque tre giorni di incontri culturali in vari luoghi del capoluogo lombardo, allo scopo di far conoscere al pubblico il mondo ebraico, le sue tradizioni, la sua cultura e lo stretto legame con la città. Ad accogliere il pubblico sotto i porticati della Rotonda, introdotti dal presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano Ferruccio De Bortoli, il vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Roberto Jarach, il rabbino capo della città rav Alfonso Arbib, i presidenti della Comunità ebraica milanese Raffaele Besso e Milo Hasbani, e il vice sindaco Francesca Balzani.
   Raccontare i primi 150 della Comunità ebraica di Milano significa automaticamente parlare di integrazione e di condivisione, poiché ne è essa stessa un esempio, come ha sottolineato Besso, "sia per quanto avvenuto al suo interno, composto da più gruppi etnici che hanno sperimentato in prima persona il valore dell'accoglienza, sia all'esterno per il costante dialogo con la realtà urbana e le altre religioni". In questo senso, ha proseguito Hasbani, "la Comunità è per molti versi internazionale, e Jewish in the City rende conto attraverso il tuo programma della sua capacità di integrarsi con il tessuto cittadino e di mantenersi sempre attaccata alle sue radici". Concorda Balzani, che ha affermato come la manifestazione costituisca "un'occasione per riscoprire il significato più profondo dell'essere cittadini del mondo".
   Importante per Jarach la volontà della Comunità di aprire le sue porte in vari momenti, oltre che durante la Giornata europea della Cultura ebraica, "per aumentare le occasioni di incontro e contribuire a creare una società migliore". Una missione fondamentale per l'ebraismo, come ha sottolineato Arbib, il quale ha citato una massima dei Maestri dei Pirkè Avot secondo cui "è saggio chi impara da chiunque". "Tutti imparano dagli altri e tutti insegnano agli altri, e quando si smette di imparare si smette di vivere. E questo - le sue parole - è l'elemento centrale del rapporto tra gli ebrei e il luogo in cui vivono". Una lezione particolarmente rilevante nel momento attuale, la considerazione di De Bortoli, poiché "costruire ponti e dialogo con tutti è fondamentale in un'Europa con troppi muri".

(moked, 29 maggio 2016)


Netanyahu ringrazia Putin per la restituzione di un tank

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ringraziato il presidente russo Vladimir Putin per aver accettato di restituire un carro armato che le truppe siriane avevano preso come trofeo di guerra nei primi anni '80. L'esercito israeliano ha perso il carro armato "Magah" (la versione del modello americano M48) nel 1982 in una battaglia nei pressi del villaggio libanese meridionale di Sultan Yaakub. Il destino dei 3 membri del suo equipaggio è rimasto sconosciuto sin da quel momento. Successivamente il carro armato è stato consegnato all'URSS ed ora il mezzo è esposto ad un museo a Mosca.
La questione della restituzione in patria del tank è stata sollevata da Netanyahu durante la sua visita di aprile a Mosca. "Ha chiesto di trasferire il carro armato in Israele come unica prova della memoria per le famiglie dei soldati dispersi in quella battaglia," — riporta l'ufficio stampa del governo israeliano.
A Mosca si trova una delegazione militare israeliana che insieme con i partner russi sta lavorando sui dettagli tecnici per il trasporto del tank.

(Sputnik, 29 maggio 2016)


Netanyahu più forte con Lieberman alla Difesa

di Fiamma Nirenstein

Netanyahu aveva 61 seggi in un parlamento che ne conta in tutto 120. Pochi davvero, il suo governo era sempre in bilico. La trattativa con la sinistra di Ytzchak Herzog, segretario dei laburisti dell'Unione Sionista, è fallita sui dissidi interni di quel partito. Disponibile invece, dopo una lunga trattativa, il partito di Avigdor Lieberman, «Israele la nostra casa», una formazione moderata laica sostanzialmente russa, 6 seggi, un capo verbalmente molto aggressivo soprattutto, in realtà, contro Netanyahu stesso. Per accoglierlo deve avere superato molte pesanti memorie, ma ora il governo è un po' più forte. Legittimo? Eppure una moda vieta, scontata, basata su assunzioni fantasiose usa moltissimo scrivere e ripetere oggi che Israele è su una china autoritaria pericolosissima, che anzi quasi sta diventando un regime fascista, e soprattutto che la pace è svanita all'orizzonte perché Lieberman mai si piegherà alle concessioni necessarie per fare la pace coi palestinesi. Oltretutto abita nei territori! Un peccato mortale.
   Ricordiamo, come di prammatica, che fu Begin, non certo un «liberal» a siglare la pace con l'Egitto. E Avidgor «Yvette» Lieberman, anche se è di sicuro un conservatore (peccato mortale, sempre, per la stampa internazionale, e «on top» per quella italiana) è anche un personaggio decisamente laico, per niente messianico e quindi niente affatto geloso di ogni pezzettino di terra biblica, abbastanza ambizioso da volere ascrivere anche a se stesso un' eventuale progresso verso la pace. È vero che considera essenziale, a ragione, la sicurezza per Israele in tempi di terrorismo ampiamente diffuso anche dalle parte dei palestinesi. E tuttavia non è un caso, scrive Alex Fishman su Yediot Ahronot, che a una recente conferenza per gli studenti del Centro Interdisciplinare di Herzlya Lieberman abbia detto che vede all' orizzonte «un accordo onnicomprensivo con la mediazione del mondo arabo». Una formula vuota? Niente affatto, probabilmente, dice Fishman, parte della trattativa con Bibi: e quest'idea potrebbe rappresentare un'autentica svolta da quando Abdel Fattah al Sisi ha fatto il 17 maggio un discorso in cui si offriva come mediatore di una trattativa diretta fra Israele e i palestinesi. Netanyahu ha risposto con un caloroso benvenuto all'idea di al Sisi e pare che il già capo del Quartetto Tony Blair gli abbia dato un segnale di via (dopo aver conferito con Netanyahu, si può pensare) per parlarne ai sauditi e ai paesi del Golfo.
   E sulla scena si è visto profilarsi un incontro al Cairo da contrapporre all'iniziativa francese che dovrebbe aver luogo quanto prima contro il parere di Israele, che si aspetta il preannunciato atteggiamento tutto filopalestinese dell'Europa. Lieberman, proprio all'apposto di quel che si pensa in giro, potrebbe aver già stretto con Bibi Netanyahu un accordo per mandare avanti su un terreno diverso un processo di pace rinnovato, il cui slogan sia sicurezza e elasticità.
   È un peccato, certamente, che per ora sia uscito dall'orizzonte Moshe Ya'alom, che è stato un ottimo ministro della Difesa. Ma il personaggio è di tale competenza e popolarità che un ritorno alla politica, come avviene nelle democrazie avanzate come Israele, non si farà aspettare.

(il Giornale, 29 maggio 2016)


È il web la nuova trincea di Israele

L'Intifada dei coltelli ispirata dall'islam radicale su Internet. Si prepara la cyberguerra

di Carlo Panella

 
Udi Sommer, esperto di cybersecurity dell'Università di Tel Aviv
«Il social media è la nuova moschea radicalizzata e jihadista». Udi Sommer, esperto di cybersecurity dell'Università di Tel Aviv parafrasa così la consegna pronunciata da Hillary Clinton nella Silicon Valley: «Togliere ai terroristi l'agibilità sul loro terreno virtuale, significa togliergli il loro terreno reale, concreto, materiale». Un terreno su cui Israele si impegna a tal punto che il 20% degli investimenti mondiali nella ricerca cyber è israeliano, con centro a Beersheba, nel Negev. Una ricerca, diretta dal 2015 dalla National Cyber Agency e dalla Special Entity che dipende direttamente dal primo ministro, che ha prodotto gli straordinari risultati di Iran Dome (ogni sua batteria costa 50 milioni di dollari), che intercetta missili e razzi lanciati dai 3 ai 72 chilometri (nemmeno gli Usa erano stati capaci di un tale risultato) e che oggi sviluppa i sistemi David Slim e Arrow, che intercetteranno missili a medio e lungo raggio. Progetti che si realizzano anche grazie a una situazione unica: i ricercatori Cyber di Israele sono personalmente, individualmente, anche i soldati di Israele e formano un cerchio formidabile tra forze armate, università e industria. Sul piano sociale e politico poi, la Rete come moltiplicatore del terrorismo è un dato di fatto concreto e devastante in Israele come in un nessun altro paese.
   Gilad Erdan, ministro della Sicurezza, ma anche e non a caso degli Affari Strategici e dell'Informazione, mi illustra con una slide i dati sui costi umani di quella che in Europa, erroneamente, chiamiamo Intifada dei coltelli: dall'ottobre 2015 al maggio 2016 190 attacchi di palestinesi a israeliani, 110 col coltello; 30 i civili israeliani uccisi, anche bambini, donne e vecchi; 2 turisti uccisi; 320 israeliani feriti; 98 assalitori palestinesi uccisi prima o dopo l'attacco; 74 catturati; il 21% degli assalti da parte di donne palestinesi.
   Questa ondata di attentati terroristici nel nuovo format - praticato anche in Inghilterra, in Europa e negli Usa, vedi San Bernardino - spiega Gilad Elan, «non è affatto promossa da organizzazioni palestinesi, ma è eccitata dalla Rete. Israele, come sempre, reagisce facendo conto sulla sua grande capacità di resilienza. Ma anche denunciando le incredibili falle della Rete quanto a sicurezza, a partire dal rifiuto di Facebook di chiudere le pagine e i siti di chi, usando un criptico lessico religioso islamico, incita a uccidere gli ebrei».
   Udi Sommer fa parte della folta rete di esperti di antiterrorismo che in Israele, per la prima volta, sente il bisogno urgente di una collaborazione internazionale per una regolamentazione della Rete che contrasti il suo ruolo di coordinamento del terrorismo e del jihadismo e anche di incitamento a compiere atti di terrorismo: «Il terrorismo nuota nell'immenso arcipelago di Facebook, col suo miliardo e mezzo di users. Si pone quindi una questione inderogabile: la comunità internazionale può imporre o no alle Companies della Rete di eliminare-contrastare l'anonimato e di segnalare alle autorità ed eliminare i messaggi criptati che incitano alla violenza politico-religiosa? È evidente che è indispensabile trovare un equilibrio tra le ragioni della sicurezza e la indispensabile difesa della privacy. Compito complesso. Ma sfida indispensabile per Israele e per tutte le nazioni con cui siamo pronti a lavorare di concerto».
   Lo stupore di sentire per la prima volta tutti gli esperti di cybersecurity israeliana che incontro parlare di contemperare sicurezza e privacy, moltiplica quello per il ribadito e corale riferimento alla collaborazione di Israele col contesto internazionale per garantire la propria sicurezza. Mai, nei decenni passati, ma proprio mai, ho sentito un esponente israeliano che non subordinasse rigidamente la difesa della privacy alla sicurezza. Ora il tema è reso ancora più scottante dal veicolo culturale, ideologico e lessicale che diffonde il proselitismo e il messaggio terrorista: la religione, l'islam.
   Israele, prima nazione del mondo, e sola, ha compreso la profonda natura religiosa e islamica del rifiuto arabo alla sua stessa esistenza. Dopo essersi illuso per decenni che il conflitto con arabi e palestinesi fosse essenzialmente legato alla «terra», dal 2000, con le stragì dell'Intifada di al Aqsa, Israele ha preso atto dell'irremovibile nodo religioso che motiva i suoi nemici.
   Gilad Erdan tocca quotidianamente con mano l'essenza coranica della rivolta palestinese perché al centro delle preoccupazioni del suo ministero è la gestione della Spianata delle moschee e del Muro, presidiate da ben 3.500 agenti israeliani. Da qui, dal 1929 a oggi, è partita ogni sommossa palestinese nel nome di un dogma che ha dell'incredibile: non è vero che sulla Spianata delle moschee sorgeva il Tempio degli ebrei. Una negazione della Storia, che motiva il rifiuto a riconoscere il diritto storico degli ebrei al loro Stato.

(Libero, 29 maggio 2016)


Portolano (Unifil) tranquilizza Israele

Le torrette di avvistamento erette nelle ultime settimane in territorio libanese a ridosso della linea di demarcazione con Israele saranno utilizzate esclusivamente dall'esercito nazionale libanese. Lo ha precisato secondo Ynet il comandante della missione Unifil nel Libano sud, il generale Luciano Portolano, ai margini di una conferenza da lui tenuta venerdì all'Universita' di Tel Aviv. Le sue parole, rileva Ynet, dovrebbero adesso ridurre le apprensioni della popolazione ebraica dell'Alta Galilea che alla vista di quelle torrette ha paventato invece che esse possano rientrare in progetti offensivi degli Hezbollah. Richiesto di esprimere un giudizio sulla possibilità di un nuovo conflitto sul confine, il generale - secondo Ynet - ha replicato che le probabilità non sono elevate, anche se tutto resta possibile. In linea generale, Portolano ha ribadito che Israele e Libano si sentono ancora vincolati alla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che mise fine al conflitto del 2006.

(ANSAmed, 29 maggio 2016)


Le donne yiddish? Più forti dei diamanti

Un ironico affresco del mondo ebraico tra Anversa e la Londra degli Anni 10. Un ricco mercante di pietre preziose prepotente (con la moglie) ma anche fragile.

di Ada Treves

Anversa. Poi Londra, quando l'avvicinarsi della guerra obbliga la comunità di commercianti e tagliatori di diamanti, tutti ebrei, a fuggire. Ma lo shtetl è vicino e sempre presente, quasi tangibile, nelle pagine di L'uomo che vendeva diamanti di Esther Kreitman Singer, sorella maggiore di Israel Joshua e di quell'Isaac Bashevis che nel 1978 ricevette il premio Nobel per la letteratura.
   Una scrittrice dotata di talento non minore di quello dei suoi più noti fratelli e di un grande senso della storia e degli eventi che riesce a rendere in poche frasi, con una lucidità che spiazza. Esther però ha avuto un destino molto differente da quello degli uomini di famiglia e per le sue ambizioni di scrittrice ha dovuto combattere aspramente. A lei, che si chiamava in realtà Hinde Esther, non è stato permesso studiare, ed è stata data in sposa appena possibile, in un matrimonio combinato che l'ha portata a vivere in quell'Anversa in cui fiorivano i tagliatori di diamanti dove ha poi ambientato il libro scritto nel 1944, il cui titolo originale era semplicemente Brilyantn, in yiddish, Diamonds nella versione inglese. Ha tentato in tutti i modi di allontanarsi dal marito, andando a vivere prima a Varsavia, dove ha tradotto in yiddish opere di Dickens e di Bernard Shaw, e poi a Londra. E proprio le pagine dedicate a Londra sono quelle che maggiormente mettono in luce la sua capacità di delineare nitidamente luoghi e persone, pagine in cui riesce a dare un quadro dell'ebraismo londinese di quel tempo che si distanzia moltissimo dalle descrizioni della Polonia degli shtetl, caratteristici delle opere dei suoi fratelli, e le cui eco risuonano imprescindibili anche nelle vicende dei suoi personaggi.
   Nella stessa Londra di cui racconta così magistralmente l'imprenditoria sviluppatasi nella comunità di rifugiati ebrei durante la prima guerra mondiale, nel 1936 venne pubblicato Deborah. In questo caso, a differenza di Brilyantn, il titolo yiddish originale Der Sheydims Tants verrà ripreso in italiano con La danza del diavolo che uscirà in autunno per Bollati Boringhieri nella traduzione di Marina Morpurgo, che già ha fatto un lavoro magistrale con L'uomo che vendeva diamanti.
   
È difficile non vedere tracce della storia personale dell'autrice nelle pagine che descrivono figure di donne spesso infelici, travolte da forze che non sanno o non possono controllare, fra i demoni di una società estremamente tradizionale e il sessismo di cui lei stessa ha fatto esperienza diretta.
   In Brilyantn il protagonista assoluto parrebbe essere Gedaliah Berman, che è riuscito a lasciarsi alle spalle la durissima vita dello shtetl della sua infanzia per diventare un ricco e invidiato commerciante di diamanti. Prepotente e fragile allo stesso tempo, rabbioso e invidioso, attraversa le pagine del libro alternando successi lavorativi e sfortuna personale, in un crescendo drammatico che non riesce a offuscare le figure femminili, altrettanto sfortunate e mai pienamente realizzate, in un accumularsi di colpi inferti dalla vita.
   Nel grande affresco le donne parrebbero essere più forti: combattono tenaci, cercano instancabili una strada che le porti lontano dalla estrema povertà ma soprattutto dalla dipendenza dalle decisioni degli uomini che si trovano a fianco, raramente per scelta. È anche la vicenda di Deborah, protagonista dell'altro romanzo di Esther Kreitman Singer, che come la sua autrice tenta di ribellarsi a una vita che le è stata imposta, per studiare, come succede in Yentl, novella di Isaac Bashevis Singer che deve molta della sua notorietà al film interpretato da Barbra Streisand, ma è la storia di Esther. Che ha scritto pagine colme di un'ironia dolente e non aveva meno talento dei fratelli, ma ha avuto meno fortuna. Con l'ebraismo cantato sia da Israel Joshua che da Isaac Bashevis, Esther Kreitman Singer ha cercato di fare in conti. Con dolorosa chiarezza.

(La Stampa, 29 maggio 2016)


Il contributo degli ebrei alla storia di Milano

di Davide Romano*

Cos'hanno in comune l'asilo Mariuccia, la Banca Popolare di Milano, l'Università Bocconi e l'Umanitaria? La risposta più naturale sarebbe quella di dire che sono alcune delle istituzioni più significative del "modello Milano", composto dal felice incontro tra capitalismo, formazione e solidarietà. Pochi sanno invece che questi enti nacquero grazie al contributo degli ebrei, tornati ad abitare Milano dopo 18 secoli di divieto a risiedervi.
   Entusiasti delle prime liberta acquisite grazie all'emancipazione napoleonica, furono tanti gli ebrei milanesi che si lasciarono coinvolgere nella battaglia per il nascente Regno d'Italia. Guardavano a esso come a un'opportunità per affermare uno Stato con diritti per tutti, senza discriminazioni. In molti presero parte al Risorgimento e alle Cinque Giornate di Milano, cosi come furono numerosi quelli arruolati con i Mille di Garibaldi. Ebrei milanesi furono anche i tipografi Treves a cui dobbiamo la scoperta e le prime pubblicazioni di Verga e D'Annunzio. Cosi come era ebrea la milanese d'adozione Anna Kuliscioff, che fu tra i fondatori del Partito socialista italiano, ma che i milanesi conoscevano come "la dottoressa dei poveri" per le sue meritorie attività mediche. Di questo grande contributo fornito dalle poche migliaia di ebrei milanesi si parlerà nella terza edizione del Festival di Cultura ebraica "Jewish in the city", che ha inizio oggi e che si concluderà martedì. Sarà dunque - come spesso capita quando si parla di ebraismo - una riscoperta delle nostre radici. In questo caso non bibliche, ma meneghine.
   Oltre agli intrecci tra la storia di Milano e della sua comunità ebraica, al festival "Jewish in the city" saranno centrali anche altri temi più classici. A partire da quello del dialogo con il cristianesimo e l'Islam: un tema particolarmente interessante ( e di scottante attualità) visto che la comunità ebraica milanese è un ponte naturale tra le religioni abra-mitiche.
   Essa infatti è composta per metà da ebrei di origine italiana o europea ( quindi Paesi di cultura cristiana) e per l'altra metà di iscritti fuggiti da Paesi islamici come Iran, Libano, Libia ed Egitto. Si parlerà quindi anche di formazione, integrazione e cittadinanza: al fine di capire come il modello di accoglienza vissuto dagli ebrei immigrati dal mondo islamico a Milano negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso possa essere utile e applicabile alle nuove ondate migratorie che arrivano nella nostra città, di rimbalzo dalle navi dei disperati che approdano sulle coste della Puglia e della Sicilia.
   Un particolare spazio sarà dedicato anche all'etica ebraica che tanto ha contribuito a quella cristiana, anche se sono in pochi a saperlo. La nota frase di Gesù «ama il prossimo tuo come te stesso», per esempio, altro non era che una citazione delle fonti ebraiche da parte di un ebreo che le aveva studiate.
   Da notare infine come il Festival si svolga simbolicamente in sedi che rappresentano per molti versi il meglio della cultura ebraica: ci saranno infatti eventi a teatro, in università, in sinagoga e al cinema. Nessun evento si terrà allo stadio. Mi si permetta la battuta, l'ennesima conferma di come noi ebrei nel campo sportivo siamo drammaticamente negati.
* Assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Milano

(la Repubblica, 29 maggio 2016)


Hezbollah si prepara con tunnel e nuovi sistemi alla prossima guerra contro Israele

BEIRUT - Il movimento scita Hezbollah si starebbe preparando alla prossima guerra con lo Stato di Israele scavando tunnel nei pressi della linea di demarcazione nel sud del paese, monitorando i movimento dell'esercito e posizionando arsenali di armi e postazioni lancia razzi. Lo riferisce il quotidiano libanese "As Safir", in un'analisi pubblicata nei giorni scorsi ne quadro delle celebrazioni del 16mo anniversario del ritiro di Israele dal sud del Libano. "Combattenti della Resistenza non stanno a guardare, facendo i preparativi per scavare gallerie in modo da far perdere il sonno a militari nemici e ai coloni", sottolinea il quotidiano vicino al movimento. Secondo l'analisi, il movimento avrebbe piazzato punti di osservazione munite di strumentazioni per la visione notturna avanzata per osservare attentamente la recinzione che attraversa la linea di demarcazione, dove è attiva la missione delle Nazioni Unite Unifil. Attraverso tali strumentazioni, prosegue "as Safir", i miliziani sono in grado di trasmettere informazioni in tempo reale.

(Agenzia Nova, 28 maggio 2016)


Il Museo ebraico a Lecce

di Luisa Ruggio

 
 
Il passato storico del capoluogo salentino è ricco di frammenti da riscoprire, tra i percorsi restituiti alla città c'è quello inaugurato in questi giorni nel Museo ebraico di Lecce, un luogo unico nel suo genere, sotterraneo e ricco di tracce della vita quotidiana medievale cittadina.
Stamattina vi portiamo nel Museo ebraico appena inaugurato a Lecce e ricco di tracce della vita quotidiana medievale cittadina. La giudecca si trovava nell'attuale cuore storico del capoluogo salentino e l'esposizione che racconta il periodo storico compreso tra il IX secolo e sino alla Gherush è allestita accanto a Santa Croce, negli spazi di Palazzo Taurino dove è stata riportata in vita la principale sinagoga leccese.
La giudecca, infatti, si trovava nell'attuale cuore storico del capoluogo salentino e l'esposizione che racconta il periodo storico compreso tra il IX secolo e sino alla Gherush è allestita accanto a Santa Croce, negli spazi di Palazzo Taurino dove è stata riportata in vita la principale sinagoga leccese.
Lecce riscopre la cultura israelita e apre lo scrigno di un pezzo di storia condividendo i reperti del Museo Ebraico a Palazzo Taurino. I resti di una storia travagliata e poco conosciuta sono oggi protagonisti nelle stanze sotterranee da attraversare dopo un silenzio durato secoli. La Giudecca leccese fu presa d'assalto nel 1495 e si verificò la definitiva cacciata della comunità ebraica dal Salento.
Grazie a questo nuovo museo, Lecce riscopre e condivide la cultura israelita e apre lo scrigno di un pezzo di storia condividendo i reperti del Museo Ebraico a Palazzo Taurino. I resti di una storia travagliata e poco conosciuta sono oggi protagonisti nelle stanze sotterranee da attraversare dopo un silenzio durato secoli. La Giudecca leccese fu presa d'assalto nel 1495 e si verificò la definitiva cacciata della comunità ebraica dal Salento.
Promotori dell'iniziativa gli imprenditori Michelangelo Mazzotta e Francesco De Giorgi che hanno voluto valorizzare il lavoro iniziato anni prima dall'attuale proprietario dell'antico palazzo, Bruno Taurino, con un museo simbolo di ospitalità per i turisti di provenienza israeliana ed ebraica in generale.
Corridoi preziosi e reperti custoditi nei sotterranei di quella che un tempo era la sinagoga ci consentono di riscoprire ciò che il tempo ha coperto con nuovi palazzi e percorsi.

(Salentoweb.tv, 28 maggio 2016)


Teheran lancia un ultimatum a Riad

L'Iran ha intimato all'Arabia Saudita di raggiungere un accordo entro domani sulle modalità di partecipazione dei pellegrini della Repubblica islamica al prossimo hajj, il pellegrinaggio alla Mecca di settembre.

TEHERAN - L'Iran ha intimato all'Arabia Saudita di raggiungere un accordo entro domani sulle modalità di partecipazione dei pellegrini della Repubblica islamica al prossimo hajj, il pellegrinaggio alla Mecca di settembre, o Teheran non manderà i propri fedeli. È quanto ha dichiarato il negoziatore iraniano, Saeed Ohadi, che si trova da giorni a Riad in trattativa con la controparte saudita
Il pellegrinaggio iraniano alla Mecca si presenta quest'anno particolarmente problematico in quanto le due potenze del Golfo non hanno più rapporti diplomatici. Lo scorso gennaio Riad, in un crescendo di tensioni, aveva deciso di ritirare il proprio ambasciatore da Teheran, dopo che la sua sede diplomatica era stata assaltata da un gruppo di facinorosi in protesta per la decapitazione di un imam sciita nel Regno saudita. Secondo quanto riferiscono gli iraniani, ci sono ancora "cinque punti in sospeso" nel negoziato sull'Hajj e soprattutto la questione della sicurezza: lo scorso anno nella calca al santuario islamico, morirono migliaia di persone, tra cui centinaia di iraniani. Sulla questione dei visti è stata trovata un'intesa: saranno rilasciati per via elettronica e non in un paese terzo, come proponeva inizialmente Riad. L'iraniano Ohadi si è lamentato con la Presstv di non riuscire ad avere risposte definitive alle richieste di Teheran da parte del ministro saudita dell' Hajj, Mohammad Saleh bin Taher Benten, in quanto il "il ministero degli Esteri del Regno interferisce e vuole dare ordini".

(Corriere del Ticino, 28 maggio 2016)


A Savignano un omaggio alla scrittrice ebrea Etty Hillesum

Etty Hillesum
Un recital dai toni delicati e intensi per far conoscere una donna straordinaria. Domenica 29 maggio nel salone nuovo della Parrocchia di Castelvecchio, in via Castelvecchio 107 (ore 21.15) si svolgerà una lettura scenica tratta dagli scritti di Etty Hillesum. In scena le voci recitanti Liana Mussoni e Angelo Trezza, con l'ambientazione scenografica di Luciano De Paoli e la regia di Liana Mussoni. Ingresso libero.
"Prima, quando stavo seduta alla mia scrivania, mi sentivo sempre molto in ansia, come se stessi perdendo qualcosa della vita. (...) Dovevo fuggire in una stanza silenziosa. Adesso porto con me questa 'stanza silenziosa' e posso rifugiarmi là in qualsiasi momento, anche se mi trovo su un tram affollato o su un treno che si ferma con tutto il suo peso".
Etty Hillesum, ebrea olandese, studentessa di lingue e letterature slave, morta ad Auschwitz nel 1943 a soli 29 anni e considerata una delle vette spirituali del novecento accanto a Simone Weil ed Edith Stein. Ciò che qui viene proposto è il suo sguardo introspettivo sulla vita e sulle cose di ogni giorno, l' incapacità di odiare, la sua umanissima fede costruita momento per momento e intrisa di una spiritualità laica, mai dogmatica, le sue sorgenti poetiche dalle quali trova nutrimento, per regalare a tutti noi un pensiero di una purezza e un amore sorprendente che ha la capacità di donarci un approccio prettamente femminile alla cruda realtà di quel periodo e che ci è di grande aiuto anche in questo triste momento storico. Sul palco viene ambientata la sua stanza, la scrivania che è il luogo del suo mondo letterario e poetico, il suo pane quotidiano, pieno di libri di grandi poeti: Rilke, Dostoesvskij, San'Agostino. Queste voci vengono portate in scena da Angelo Trezza che interpreta dei brani da poesie e testi di questi autori, mentre Liana Mussoni sintonizza la sua voce con quella di Etty in un emozionante viaggio interiore che passa attraverso la musica e la poesia per arrivare al centro del suo "cuore pensante". Camminando al suo fianco arriva nella sua stanza silenziosa per condurre i passi di Etty sulla soglia di tutti i cuori in ascolto.

(CesenaToday, 28 maggio 2016)


Obama ne fa una giusta: niente scuse per Hiroshima

di Carlo Panella

A Hiroshima Barack Obama ha fatto una cosa giusta: si è rifiutato di fare ammenda per l'atomica sganciata sulla città e su Nagasaki nel 1945 da Harry Truman. Ma poi, incorreggibile, ha rovinato il senso delle mancate scuse perché ha augurato «un mondo senza bomba atomica». Auspicio privo di senso. Frase degna della passerella di un concorso per miss vuote di zucca. Invece, se fosse quel Commander in chief che non è, avrebbe dovuto avere il coraggio di spiegare perché gli Usa si rifiutano di chiedere scusa a nome per aver fatto strage di civili giapponesi in quel cupo agosto del 1945. Soprattutto perché nelle stesse ore, lo stesso Obama ha ordinato di lanciare la campagna contro l'Isis a Raqqa, dove vi sono molto meno dei 5.000 kamikaze giapponesi pronti a seminare morte nel 1945 e dove la sua aviazione seminerà morte fra i civili siriani,come ha già fatto a Ramadi, in Iraq. Ovviamente, contro l'Isis, Obama non impiega la bomba atomica, ma segue una dottrina militare che porta a conseguenze simili a quelle di Hiroshima: seguendo il cinico modello bellico russo in Cecenia, Obama fa infatti bombardare e polverizzare le abitazioni civili delle città siriane e irachene. E miete migliaia e migliaia di morti civili incolpevoli. In altre parole: fa la guerra. Ma su Hiroshima come su Raqqa non ha il coraggio di rivendicare il suo agire. Non ha la forza intellettuale ed etica di affrontare di petto, di fronte al mondo,il tema terribile e complesso della «guerra giusta», indispensabile contro un nemico che semina morte in nome dell'apocalisse e di un dio crudele, come è oggi l'Isis ed era ieri il Giappone dello Shogùn.

 La guerra giusta
  Hiroshima è in realtà il massimo simbolo di questo atroce dilemma etico, di noi, figli di Caino. La ragione per cui gli Usa fanno bene a non chiedere scusa al Giappone per quella terribile bomba salta agli occhi se solo si guarda il calendario e si noti la data in cui fu sganciata: 6 agosto 1945. Hitler era morto il 30 aprile, più di tre mesi prima e con lui era finita la guerra in Europa. Il Giappone non aveva più -ed era chiarissimo- la minima possibilità non solo di vincere, ma addirittura di resistere ad una continuazione della guerra. Ma Tokio intendeva fermamente continuare sino in fondo quella guerra inutile mettendo in campo un esercito mastodontico che avrebbe seminato morte - e centinaia di migliaia di vittime civili - non solo in patria, ma anche in Manciuria e in Cina. I 5.000 kamikaze erano piccola parte di un'armata che contava 1,5milioni di soldati in Giappone, un milione di soldati in Cina e 800.000 in Manciuria. Dunque,in piena e fanatica sintonia col Palazzo Imperiale, col governo e i generali, 3 milioni e 300.000 soldati erano pronti a dare e ricevere morte in Giappone, così come in una Cina e in una Manciuria in cui si erano comportati peggio dei nazisti in Europa (fatta eccezione per la Shoah, naturalmente). Un'attitudine fanatica e apocalittica provata da un fatto storico indiscutibile.Persino dopo Hiroshima e Nagasaki la maggioranza schiacciante del Consiglio della Corona dello Shogùn era decisa a continuare la guerra. Fu Hiroito a imporre la resa e a incidere su disco il messaggio alla nazione. Ma la notte il palazzo imperiale fu preso d'assalto da truppe ribelli per distruggere il messaggio di resa. Un golpe ordito dai massimi comandi che però fallì. In questo contesto, contro un Giappone fanatico, Harry Truman fu costretto nel 1945 all'orribile calcolo dei costi e dei benefici umani. E tra i costi non vi erano solo quelli dei militari americani che sarebbero morti in battaglia. Questo è il punto che Obama ha evitato di affrontare: in guerra, allora come oggi contro l'Isis, si è costretti a calcolare costi e benefici. Un computo eticamente pesantissimo. Ma che va affrontato a testa alta, che va spiegato di fronte alla Storia e ai popoli,con trasparenza.Lo stesso calcolo che fecero Winston Churchill e il Comando inglese quando grazie a Turing l'Inghilterra riuscì a svelare il codice Enigma dei nazisti. Con quella decrittazione potevano salvare dagli U Boot nazisti tutti i vitali convogli navali che portavano armi e viveri attraverso l'Oceano verso l'Inghilterra e l'Urss.

 L'ora delle scelte
  Ma,se lo avessero fatto,i nazisti avrebbero scoperto che Enigma era stato violato e avrebbero impiegato un altro codice. Così, Churchill e il Comando inglese,usarono un algoritmo che calcolava quanti convogli potevano salvare senza che i nazisti scoprissero che avevano violato Enigma. Ma l'algoritmo indicava numeri, non quali convogli salvare e quali lasciare affondare. Così Churchill e il Comando dovettero decidere quali marinai della Royal Navy e quali marinai civili inglesi e americani dovevano lasciare morire per i siluri degli U Boot,e quali potevano salvare. Compito atroce. Questa è la terribile etica della guerra moderna. Evitare di affrontarla, cedere al pacifismo confuso, rifugiarsi nella facile utopia di un mondo senza guerre,è semplicemente irreale, sbagliato. Prelude a guerre senza riflessione etica. Questo, purtroppo, è l'unico obiettivo che l'umanità realisticamente può darsi.

(Libero, 28 maggio 2016)


Unione, Israele e il futuro per la pace

di Domenico Letizia

 
Dan Haezrachy
Cultura, politica, diplomazia e difesa, sono numerose le tematiche che lo stato di Israele tenta di affrontare nei suoi rapporti internazionali. Ne parliamo con l'Ambasciatore Dan Haezrachy, vice capo missione diplomatica dell'Ambasciata di Israele a Roma.

- Lo scorso 12 febbraio, il primo ministro israeliano Natanyahu ha avuto un colloquio con l'Alto rappresentante dell'Unione europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini. I due hanno discusso delle sfide comuni che Israele e l'Unione stanno affrontando nella lotta al terrorismo. Che rapporti si prevedono per il futuro con l'Ue?
  Israele vede nell'Unione europea un partner importante. Questo per diversi motivi, che spaziano dalla comunanza dei valori, alla storia comune e alla prossimità geografica. Quest'ultimo, in particolare, è indubbiamente un fattore che rende alcune problematiche attuali, delle sfide comuni da affrontare insieme. La lotta al terrorismo e il contrasto al traffico di esseri umani, ad esempio, sono sicuramente due questioni centrali, in cui l'Unione europea può avere in Israele un partner prezioso. Perché questa cooperazione dia veramente i suoi frutti, però, è necessario che l'Unione sappia condannare fortemente non solo il terrorismo che colpisce Parigi e Bruxelles, ma anche il terrorismo palestinese che, costantemente, colpisce i civili israeliani. L'odio alla base di questo terrorismo è lo stesso e non deve esistere un doppio parametro di giudizio. Per quanto concerne l'Italia, la cooperazione su queste tematiche è già in atto. Le basti sapere che solamente qualche giorno fa il Sottosegretario agli Interni, Domenico Manzione, ha visitato Israele proprio per uno scambio di opinioni e una collaborazione nel settore della lotta al terrorismo e nel contrasto al traffico di esseri umani.

- Nel mese di gennaio il presidente dello Stato d'Israele Reuven Rivlin è intervenuto alla conferenza con gli ambasciatori, i consoli generali e i capi missione israeliani di tutto il mondo tenutasi al ministero degli Affari esteri israeliano a Gerusalemme. Presente anche S.E. Naor Gilon, ambasciatore di Israele in Italia. Il servizio diplomatico estero israeliano nel suo insieme costituisce l'elemento centrale ed essenziale per la salvaguardia della democrazia nel Paese e fuori da esso. Che futuro immagina per la diplomazia di Israele e per quella internazionale?
  La diplomazia oggi ha due volti: da un lato il volto classico, quello che la storia ci ha tramandato, con le sue necessarie eleganti formalità. Al fianco di questa "diplomazia 1.0", però, si sta affermando la cosiddetta "diplomazia 2.0", ovvero la capacità dei diplomatici di usare le nuove forme di comunicazione che la Rete offre - prima di tutto i social network - per comunicare con l'esterno. In tal senso, Israele è sicuramente all'avanguardia e i diplomatici israeliani, a cominciare dal ministero degli Esteri a Gerusalemme (ove esiste uno specifico dipartimento di Public Diplomacy), cercano sempre di lanciare un messaggio che sia capace non solo di rappresentare Israele al meglio, ma anche di raggiungere un pubblico sempre più vasto. Per noi si tratta di una sfida importante anche per vincere quei pregiudizi antisemiti e antisionisti che, purtroppo, ancora esistono e che, proprio nei social network, trovano spesso un terreno fertile. Proprio il 26 maggio scorso è stato consegnato il Premio Exodus al Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Anche in quell'occasione, Napolitano ha denunciato l'antisemitismo che si maschera da antisionismo e la necessità di mantenere sempre la "massima limpidezza di posizioni" sulle ragioni di Israele ad esistere in sicurezza.

- Sempre in tale evento il presidente Rivlin ha dichiarato: "Oggi Israele è un Paese forte. Le Forze di Difesa Israeliane e i servizi di sicurezza sono esperti nel settore operativo e capiscono bene le crescenti sfide derivanti da un panorama internazionale, che diventa sempre più complicato". Quali sono le maggiori preoccupazioni diplomatiche e internazionali dello Stato di Israele oggi?
  Come ha detto il presidente Rivlin, Israele è oggi un Paese forte, stabile, dinamico e sviluppato in ogni settore. Ovviamente, considerando soprattutto l'ambiente in cui Israele si trova, le sfide alla sicurezza del Paese sono tante. Penso all'Iran, un regime fondamentalista che non solo nega l'Olocausto, ma predica la cancellazione di Israele dalle mappe. Penso al dramma siriano, ove diversi gruppi terroristi - sia sunniti che sciiti - si sono inseriti come un tumore. Penso al terrorismo islamista portato avanti anche da diverse organizzazioni terroriste palestinesi, verso il quale la Comunità internazionale sembra spesso chiudere gli occhi. Penso quindi al movimento di boicottaggio di Israele, dietro il quale si mascherano pericolosamente le nuove forme di antisemitismo. Nonostante tutto, sono fermamente convinto che Israele, grazie ai valori stessi dell'ebraismo, possieda i giusti anticorpi per vincere queste sfide e divenire sempre più forte, più stabile e più democratico.

- Nelle scorse settimane numerose Organizzazioni non Governative italiane hanno sostenuto una campagna in cui veniva denunciata la sistematica violazione dei diritti umani in Iran. La Ong "Nessuno tocchi Caino" ha soffermato la propria attenzione anche sulla negazione della shoah da parte delle istituzioni iraniane. Lei ha seguito tali iniziative e cosa prevede per il futuro dei diritti umani in Iran?
  Il regime iraniano ha fatto dell'antisemitismo un leitmotiv, utile alla sua leadership clericale per mantenere il potere creando un fittizio nemico esterno. Così facendo, Teheran non ha inventano nulla, inserendosi pienamente nella classica linea del terrore che ha caratterizzato tutte le peggiori dittature contemporanee. La campagna di "Nessuno tocchi Caino" di denuncia del negazionismo iraniano - promosso direttamente dalla Guida Suprema Ali Khamenei - è particolarmente importante per due motivi. In primis perché rappresenta un'autorevole voce occidentale, davanti a troppi silenzi della Comunità internazionale. Silenzi legati a ragioni geopolitiche, che non possono assolutamente giustificare la ripresa di un dialogo con Teheran senza delle chiare precondizioni, anche legate ai valori fondamentali. Secondariamente, perché la denuncia di "Nessuno tocchi Caino" si inserisce nella più importante battaglia per la transizione verso lo Stato di Diritto, di cui la lotta all'antisemitismo è parte integrante.

- Pochi giorni fa ci ha lasciato il leader dei radicali Marco Pannella, da sempre amico di Israele. Nelle scorse settimane alcuni giornali hanno ripreso la notizia di una visita dell'ambasciatore Naor Gilon al leader radicale, allora, gravemente malato. Che ricordo ha di Marco Pannella e cosa ha lasciato al mondo israeliano?
  
Pochi minuti dopo aver appreso della scomparsa di Marco Pannella, ho personalmente mandato un messaggio ai vertici di "Nessuno tocchi Caino", per esprimere il mio sincero e profondo cordoglio. Pannella, come ho scritto nel messaggio, è stato un "haver amiti" - un vero amico - di Israele e di tutto il popolo ebraico. Quando abbiamo saputo dell'aggravamento delle condizioni di salute di Marco, con l'ambasciatore Naor Gilon abbiamo deciso di recarci fisicamente a fargli visita, per poterlo abbracciar e ringraziare a voce. Per quanto riguarda Israele, quindi, non vogliamo solamente ricordare i gesti di solidarietà fatti da Pannella nei momenti difficili della nostra storia - come l'organizzazione di un congresso Radicale a Gerusalemme in piena Prima Intifada - o la più nota campagna per l'ingresso di Israele nell'Unione europea. Vogliamo soprattutto ricordare come, proprio in questi ultimi anni, Pannella abbia rappresentato una delle poche voci fuori dal coro per quanto concerne i nuovi rapporti tra l'Occidente con l'Iran. Per Marco era chiaro che questi nuovi rapporti dovessero essere basati primariamente sul riconoscimento di Israele e sulla fine dell'antisemitismo dei Mullah. Per tutte queste ragioni, Israele resterà sempre riconoscente a Pannella e le nostre porte resteranno sempre aperte agli amici del mondo Radicale.

- Che futuro prevede per Israele, per la democrazia e il pluralismo di tale Stato in un contesto geografico e politico dominato dal dispotismo e dall'orrore dello stato islamico?
  
Proprio Pannella diceva sempre che i Paesi intorno ad Israele, non temono Israele per il suo esercito, ma soprattutto per i suoi valori. Nonostante gli orrori, quindi, sono positivo sul futuro del mio Paese. Credo fortemente che sapremo trovare la via per migliorare la nostra democrazia e renderla sempre più pluralista e inclusiva. Allo stesso tempo, spero che i nostri vicini arabi - in primis i palestinesi - sappiano a loro volta comprendere che la crisi nell'Islam, rappresenta anche un'occasione per avviare con Israele un nuovo rapporto, fondato su relazioni pacifiche e di cooperazione. Se sapranno far questo, credo non solo che il Medioriente riuscirà a sconfiggere i suoi tumori, ma anche a creare un futuro di positivo sviluppo, non solo politico, ma anche economico. Questa cooperazione, tra le altre cose, potrebbe portare a risultati importanti anche nella lotta - mondiale - ai cambiamenti climatici. Proprio in questi giorni sono stato ad una interessante conferenza sul tema organizzata, tra gli altri, dalle università Roma Tre e Federico II e dall'organizzazione Beautiful Israel. Qui, si è parlato esplicitamente di unire le forze per vincere questa sfida importante. Come ho detto in quell'occasione, noi riteniamo che tutti gli attori della Regione mediorientale, debbano lavorare insieme sulle tematiche ambientali e crediamo che questo sforzo comune possa servire da strumento essenziale per la riconciliazione e la pace.

(L'Opinione, 28 maggio 2016)


In aumento il numero di ebrei immigrati in Israele nel 2015

Particolarmente notevole l'incremento degli arrivi da Russia e Ucraina.

Lo scorso anno si è registrato un aumento dell'immigrazione ebraica in Israele, soprattutto di giovani e professionisti. E' quanto emerge da un rapporto dell'Ufficio Centrale di Statistica pubblicato mercoledì da cui risulta che nel 2015 vi sono stati 27.908 nuovi immigrati in Israele, pari ad un aumento del 16% rispetto all'anno precedente.
Dopo la nascita dello stato nel 1948, sono stati circa 3,2 milioni gli ebrei che hanno fatto aliyah, cioè si sono stabiliti in Israele. Il 42% di questi dal 1990 in poi....

(israele.net, 28 maggio 2016)


Rony Hamaui, il Mulino: "Ebrei a Milano" e la nascita della Bpm

di Rony Hamaui

FIRST online pubblica la premessa di Rony Hamaui al suo nuovo libro "Ebrei di Milano", che l'autore presentera' domenica 29 maggio alla Rotonda della Besana di Milano (h.12, Festival Jewish#150 in the City) e il capitolo sulla fondazione, 150 anni fa, della Bpm ad opera di Luigi Luzzatti.

 Premessa
Il racconto, dalla creazione del mondo lungo le generazioni che si sono succedute, costituisce un attributo qualificante della tradizione ebraica. La rilettura annuale della Torah e le infinite discussioni talmudiche che l'accompagnano sono il tratto più evidente di questa cultura. Eppure solo recentemente l'attenzione si è spostata sulla storia degli individui, delle famiglie e delle comunità che compongono l'universo ebraico. Ancora oggi non esiste alcun racconto compiuto sulla storia della Comunità ebraica di Milano, la seconda per importanza in Italia e certamente molto diversa da tutte le altre. Non ho scritto questo libro per colmare un vuoto storiografico. Questo non è un saggio per specialisti. Ho invece speso alcuni anni di lavoro per trasmettere un sentimento di consapevolezza ai miei figli, alla mia comunità e a tutti coloro che troppo spesso identificano gli ebrei con pochi topoi classici come la Shoah, Israele o alcuni simboli religiosi. Per comprendere io stesso il ruolo degli ebrei milanesi nel tessuto urbano sotto il profilo economico, civile, e culturale. Per aprire una discussione sull'incerto futuro di questa piccola comunità. Un'ultima avvertenza. Sia il termine ebreo sia il termine milanese sono stati intesi privilegiando l'esistenza di legami forti con l'ebraismo e la città piuttosto che la fedeltà ai canoni della Halakhah o a quelli anagrafici.

 Luigi Luzzatti e la sua "primogenita prediletta": la Banca Popolare di Milano
  Nel grande salone di piazza Meda, davanti alla riproduzione dell'Ultima cena di Leonardo da Vinci e alla colonna dorata di Giò Pomodoro, trionfa su un piedistallo nero il busto di marmo Maurizio Weill Babetta Schott Alberto Filippo Cimone Sofia Leone Enrico Guastalla.
  La famiglia Weill-Schott (in corsivo i gestori della Banca Figli Weill-Schott). 80 Capitolo quarto bianco di Luigi Luzzatti; sotto, la scritta: «La Banca Popolare di Milano al suo fondatore». In effetti nel 1865 Luzzatti, a soli ventiquattro anni, fondò la banca cooperativa, di cui fu prima presidente per cinque anni e poi presidente onorario fino alla morte: la sua «primogenita prediletta», come ebbe a scrivere pochi mesi prima di morire. Luigi Luzzatti è forse l'ebreo più noto e influente nella storia politica italiana. Giurista ed economista, fu presidente del Consiglio nel 1910-11, dopo essere stato quattro volte ministro del Tesoro e una dell'Agricoltura. Tra i primi assertori delle politiche sociali a favore delle classi dei meno abbienti e delle leggi a tutela del lavoro femminile e minorile, ostile al liberismo assoluto e favorevole a uno «statalismo sussidiario» pragmatico, contribuì al risanamento delle finanze pubbliche e al consolidamento della lira sui mercati internazionali.
  Nato a Venezia nel 1841 da una benestante famiglia ebraica, ricevette un'educazione ispirata ai valori della tolleranza e del laicismo, cui rimase sempre fedele. Dopo aver completato gli studi di giurisprudenza scrisse il suo primo lavoro, La diffusione del credito e le banche popolari, dove, ispirandosi ad alcuni economisti tedeschi, promosse la funzione sociale del credito e la lotta all'usura. In questo contesto introdusse anche il concetto di responsabilità limitata, voto capitario e frazionamento del credito. Trasferitosi a Milano, dove sposò Amelia Levi, ben presto attirò su di sé l'attenzione della polizia austriaca, a causa delle sue lezioni di economia politica. Assieme a Tiziano Zalli nel 1864 fondò la Banca Popolare di Lodi, prima banca cooperativa italiana, sul modello delle esperienze tedesche. Nello stesso anno l'allora sindaco di Milano Antonio Beretta istituì una commissione con il compito di promuovere la Compagnia del credito sul lavoro di Milano. Nel febbraio del 1865 a palazzo Marino venne nominato un consiglio di amministrazione provvisorio presieduto dallo stesso Luzzatti. Nei mesi successivi si svolsero una serie di assemblee cittadine, volte a preparare l'istituzione della banca e il suo statuto. Finalmente, il giorno di Sant'Ambrogio (7 dicembre) dello stesso anno, Luzzatti convocò a palazzo Marino l'ultima assemblea preparatoria, e nella stessa sede, pochi giorni dopo, il notaio Girolamo Corridori redasse l'atto di costituzione della società anonima a responsabilità limitata, denominata Banca Popolare di Milano.
  La prima sede della banca fu presso alcuni locali del palazzo della Ragione. L'attività creditizia ebbe inizio ufficialmente gennaio del 1866, grazie all'apporto di 404 soci, che avevano sottoscritto un capitale di 56 mila lire. Lo statuto prevedeva un limite massimo di 50 azioni per ciascun socio del valore di 50 lire cadauna pagabili anche ratealmente. Negli anni successivi la crescita fu costante e impetuosa, così che al quinto anno i soci erano diventati 2.500 e il capitale versato era salito a 1,5 milioni di lire. Ancora più importante è che l'esempio milanese e lodigiano ebbe un grande seguito in numerosissime città italiane. Nasceva così il sistema delle banche popolari. L'analisi compiuta da Maifreda sui lasciti testamentari nel corso dell'Ottocento ha poi mostrato come moltissimi ebrei milanesi, soprattutto piccoli risparmiatori, detenessero azioni della Popolare. La fiducia nei confronti dell'iniziativa di Luzzatti era tale che le azioni della banca erano in assoluto le più presenti nei portafogli analizzati. Vale per altro la pena di ricordare che, fra le grandi famiglie ebraiche milanesi, i Weill-Schott furono da subito tra i più convinti sostenitori e soci dell'iniziativa del correligionario Luzzatti. Alberto Weill-Schott divenne anche, per un breve periodo di tempo, vicepresidente della banca.
  La carica ricoperta all'interno della Popolare fu particolarmente significativa, essendo egli uno dei pochi soci fondatori con un'esperienza nel settore. Tuttavia, due anni dopo, Alberto Weill-Schott uscì dal consiglio dell'istituto di credito a causa dei contrasti circa le strategie che Luigi Luzzatti voleva seguire: «Mantenere alla banca l'indole sua primiera, popolare, municipale, cauta e sicura». Seppure su posizioni laiche, Luzzatti s'interessò tutta la vita ai problemi legati alla libertà religiosa e scrisse numerosi saggi sull'argomento. I suoi rapporti con l'ebraismo ortodosso e il sionismo non furono affatto sereni. Tuttavia non rinnegò mai le sue origini e anzi ebbe a scrivere: "Io sono nato israelita e ci ritorno fieramente ogni volta che mi si rimprovera di esserlo e che l'esserlo mi espone a un pericolo. Vi è una dignità a sostenere il peso della persecuzione e sarebbe vile scansarlo. Ma fuori di questo, la mia educazione, le mie aspirazioni intendono a un largo cristianesimo, come traspare dai miei scritti".
  Nel secondo dopoguerra un altro imprenditore di origine ebraica fu prima membro del consiglio di amministrazione e poi presidente per sei anni (1965-71) della Banca Popolare di Milano: Guido Jarach.

(FIRST online, 28 maggio 2016)


La curiosa storia degli ebrei che fecero Milano

Dalla banca popolare all'Asilo Mariuccia, dal socialismo al fascismo, dal Risorgimento alla Resistenza. Storia di una comunità ebraica anomala. Che Rony Hamaui ha raccontato in un libro.

di Francesco Cancellato

Fu Luigi Luzzatti, ebreo, a fondare la Banca Popolare di Milano. Anche la Banca Commerciale Italiana nasce con capitali ebraici, tre dei suoi primi quattro ammini- stratori delegati erano ebrei. Gli ebrei avevano un terzo del sistema bancario mi- lanese, pur essendo un duecentociquantesimo della popolazione. E poi facevano grande attività filantropica, culturale, politica.
Milano anche oggi rimane una città molto aperta. Negli ultimi mesi, però, ci sono stati alcuni episodi di antisemitismo. Forse è un caso, forse è un'onda lunga che arriva da lontano.

«Milano, per la comunità ebraica italiana, è un'anomalia». Senza ghetto, senza sinagoghe nascoste, senza cimiteri abbandonati. Ma nello stesso tempo, non c'è città italiana - sicuramente non negli ultimi due secoli - che debba così tanto agli ebrei nel definirne l'identità economica, sociale e culturale. A raccontarlo, Rony Hamaui, nel suo nuovo libro "Ebrei a Milano" (il Mulino) che sarà presentato nell'ambito della manifestazione Jewish in the city, festival internazionale di cultura ebraica giunto alla sua terza edizione, che si terrà dal 29 al 31 maggio a Milano.

- Hamaui, perché Milano è un'anomalia, nella storia degli ebrei italiani?
  Quello dei ghetti ebraici, delle comunità chiuse non è solo uno stereotipo. È lo standard perlomeno per le comunità ebraiche italiane, Roma in particolare.

- Perché Milano non fa parte di questo standard, quindi?
  Perché quella di Milano è una comunità ebraica recente, molto eterogenea, che ha trovato nella città un terreno fertile nell'integrazione.

- In cosa consiste questa fertilità?
  Facciamo un passo indietro. Gli ebrei a Milano non erano potuti vivere per molti secoli. Erano stati tenuti lontani dalla città. Con l'illuminismo austriaco prima e con Napoleone poi, Milano diventa un polo molto attraente. È una città con un clima di libertà e di tolleranza. E soprattutto è un polo economico in crescita. Il luogo ideale per lavorare L'aperturta dello sportello di sconto della Banca d'Italia a Milano, nella seconda metà dell'ottocento, fu un momento di svolta. Per Milano fu un momento di enorme sviluppo. Ed è anche per questo che molti ebrei affluirono sotto la Madonnina.

- Da dove?
  Da tutta Italia, anche dal nord Europa, ma soprattutto da Mantova.

- Come mai proprio Mantova?
  Era la comunità più vicina ed è una città con una lunga tradizione ebraica. Milano nasce come un appendice della comunità Mantovana. Molti mantovani erano andati a vivere a Milano. Non è un caso che anche il primo rabbino di Milano venga da Mantova. Questo fino al 1866 - giusto centocinquant'anni fa - quando c'è il distacco amministrativo e giuridico della comunità ebraica milanese, non senza opposizione da parte dei mantovani.

- E cosa succede, a questo punto?
  Succede che ancora di più Milano continua ad attrarre ebrei da tutta Italia e da tutta Europa. A Milano, però, arrivano ebrei che non si conoscono tra di loro e non parlano la stessa lingua. Faticano a diventare una comunità. Le strutture che nascono per loro, prima fra tutta la scuola ebraica, sono poco frequentate. Non a caso, Il tempio viene costruito molti decenni dopo, nel 1892, in via Guastalla.

- Come mai?
  Perché gli ebrei milanesi hanno voglia di integrarsi, di guadagnarsi uno status sociale. L'Italia era un po' da costruire. E come diceva D'Azeglio c'erano da fare anche gli italiani. C'era un clima di grande eterogeneità, in Italia e soprattutto a Milano. E la sociologia moderna ci insegna che strutture eterogenee inglobano molto meglio l'immigrazione. In più - altro elemento che ha facilitato il processo - gli ebrei milanesi erano di alto livello culturale.

- Qual è l'effetto su Milano di questa integrazione?
  È determinante per lo sviluppo della città, sotto ogni punto di vista.

- Qualche esempio?
  Il Risorgimento milanese ha una fortissima matrice ebraica. I Finzi, ad esempio, giocarono un ruolo fondamentale nelle Cinque Giornate di Milano. E lo stesso Enrico Guastalla, figura emblematica nel risorgimento italiano, era ebreo, così come tantissimi garibaldini.

- Come mai?
  Perché la libertà dagli austriaci, era la loro libertà. Non è solo una tendenza milanese, questa. Gli ebrei romani, ad esempio, erano così pro risorgimentali che il papato cominciò a preoccuparsi. E non a caso qualche traccia di antisemitismo c'è, a quell'epoca.

- Anche a Milano?
  No, a Milano no. Basta pensare a Giuseppe Verdi, che rappresenta il Nabucco alla Scala, mettendo al centro della liberazione il popolo ebraico. Sarebbe stato impensabile in un contesto antisemita. Milano era un luogo in cui gli ebrei erano davvero protagonisti dello sviluppo economico e sociale.

- Qualche esempio?
  Fu Luigi Luzzatti, ebreo, a fondare la Banca Popolare di Milano. Anche la Banca Commerciale Italiana nasce con capitali ebraici, tre dei suoi primi quattro amministratori delegati erano ebrei. E poi ci sono le banche familiari: gli ebrei avevano un terzo del sistema bancario milanese, pur essendo un duecentocinquantesimo della popolazione. E poi facevano grande attività filantropica, culturale, politica.

- Come?
  L'Umanitaria presenta elementi fortissimi di ebraicità. L'asilo Mariuccia fu fondato da ebrei. E parlando di cultura, ricordo che furono i Treves, con la loro tipografia, a pubblicare per la prima volta Verga e D'Annunzio. Mentre a livello politico va ricordato l'impegno nella creazione del socialismo riformista milanese, di cui Anna Kuliscioff è un esempio, ma anche del fascismo, con Margherita Sarfatti.

- Addirittura il fascismo?
  Gli ebrei si distribuirono anche a destra. Margherita Sarfatti, ebrea, fu amante di Mussolini e scrisse Dux, libro che aveva l'obiettivo di far conoscere Mussolini nel mondo. Non a caso, la prima edizione fu in inglese. Lui la ripudiò per motivi personali e politici. Scappò in America latina per via delle leggi razziali.

- Ecco, parliamone, delle leggi razziali...
  Il periodo delle leggi razziali è una cesura storica. Milano era la città più liberale d'Europa, in quegli anni. Non credevano ai loro occhi, gli ebrei, quando nel 1938 furono emanate le leggi razziali. Fu una pugnalata. Ma in quel momento l'ebraismo milanese trovò un'unità che non aveva mai trovato prima. Si può dire che le leggi razziali misero d'accordo tutti gli ebrei. Che, ad esempio, iniziarono a mandare i figli in una scuola ebraica. Nacque una specie di ghetto sociale, lì dove non c'era mai stato.

- Ci fu qualche forma di resistenza contro il nazifascismo?
  C'erano centri di resistenza molto forti. Soprendentemente, l'università Bocconi fu uno di quelli. Erano ebrei personaggi come Sraffa, Delvecchio, Mortara. La Bocconi è una storia nella storia molto interessante.

- E oggi?
  Milano anche oggi rimane una città molto aperta. Negli ultimi mesi, però, ci sono stati alcuni episodi di antisemitismo. Qualche segno di preoccupazione c'è. Le recenti aggressioni dei ragazzi con papalina, o del rabbino per Milano sono una specie di choc. Non era mai successo prima. C'era una matrice anti-istraeliana, politica, ma niente di antisemita. Milano era un isola felice, da questo punto di vista. Forse è un caso, forse è un'onda lunga che arriva da lontano. Qualche attenzione in più è necessaria, però.

(LINKIESTA, 27 maggio 2016)


La musica di Lavry con la figlia Efrat

La eseguirà l'Orchestra Abimà insieme ai solisti Victoria Mikulina, Roberto Fabbriciani, Tatiana Donis.

di Gianfranco Terzoli

Marc Lavry con la figlia Efrat di cinque mesi
TRIESTE - Il "Festival Viktor Ullmann" ricorderà domenica alle 18 il compositore Marc Lavry con un concerto-tributo a ingresso libero dell'Orchestra Abimà diretta da Davide Casali alla Sinagoga (in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste) alla presenza della figlia dell'artista, Efrat. Al flauto ci sarà Roberto Fabbriciani e il mezzo soprano Victoria Mikulina canterà il poema "Madre" accompagnata all'arpa da Tatiana Donis. Per l'occasione, verranno eseguiti cinque brani del musicista nato a Riga nel 1903, scomparso nel 1967 e considerato il compositore nazionale di Israele, quattro dei quali in prima assoluta.
  Efrat Lavry introdurrà la serata illustrandone la vita, lo stile e il contributo alla musica israeliana e raccontando alcuni aneddoti. «Mio padre - spiega - era una persona amichevole e aperta. Era un bell'uomo con sognanti occhi blu, intelligente e con un gran senso dell'umorismo. Era un genitore amorevole: amava stare in famiglia ed era presente nelle nostre vite. Componeva sempre a casa, seduto al piano o alla scrivania. Terminato di scrivere, era solito riunirci sul divano, anche se giovanissimi ed eseguire la nuova composizione per ricevere la nostra approvazione». Direttore dell'opera di Israele, ha diretto tutte le orchestre nazionali. «Ho avuto la fortuna - ricorda ancora Efrait Lavry - di assistere a molti suoi concerti. A 2 anni, quando salì sul podio, mi alzai, corsi da lui e gli tirai la giacca. Tutti risero: non lo feci più. I miei genitori ospitarono i più importanti musicisti passati per Gerusalemme: Leonard Bernstein, Arthur Rubinstein, Yehudi Menuhin e, ovviamente, tutti quelli israeliani».
  Levry studiò in Germania, dove divenne direttore del Berliner Sinfonieorchester, con Bruno Walter, ma a causa delle leggi razziali decise di emigrare a Gerusalemme. «Non posso dire - afferma Efrait Lavry, che vive ad Haifa, ma è spesso in giro per il mondo - di sperimentare episodi di antisemitismo. È un paradosso: viviamo in una zona dove, da quando ho ricordi, non abbiamo avuto pace con i nostri vicini. Tuttavia, la vita quotidiana è molto calma e sicura. La situazione è difficile, ma spero giunga (presto) il giorno in cui avremo pace».
  A lungo la sua musica non venne eseguita in Europa. «Mio padre - riprende - è stato abbastanza fortunato da vedere tutte le sue composizioni rappresentate e negli ultimi anni la sua musica ritorna ad essere suonata in tutto il mondo (Usa, Giappone, Belgio, Germania, Russia). Molte delle sue composizioni sono basate su testi biblici: compose anche un Servizio sacro basato sulle preghiere mattutine dello Sabbath e della vigilia del Venerdì che diresse in molte sinagoghe degli Stati Uniti. Il concerto in sinagoga a Trieste rappresenta quindi un po' un completamento di quanto era mio padre: un israeliano, un ebreo e un compositore. Trieste - conclude - è un luogo importante per Israele: le navi dei sopravvissuti all'olocausto partivano da qui per giungere ad Haifa. Non l'ho mai visitata e quindi sono ansiosa di vedere questa bellissima città, specialmente i luoghi con eredità ebraica che hanno così tanto significato per il mio paese». «Sarà - promette Casali, presidente dell'associazione organizzatrice, Musica Libera - un bellissimo concerto di facile ascolto: la musica di Lavry si può considerare molto vicina a quella popolare ebraica, mantenendo però il rigore della classica post romantica. L'intreccio degli strumenti porta l'ascoltatore a viaggiare con la mente nella terra d'Israele, con tutta la sua magia e felicità. In lui sono particolarmente presenti i temi ebraici, tanto da apparire a momenti quasi klezmer. Meriterebbe di essere eseguito molto più spesso perché la sua musica lascia nell'ascoltatore un senso di tranquillità».

(Il Piccolo, 27 maggio 2016)


Elton John torna in concerto in Israele dopo 23 anni

Elton John torna in Israele dopo 23 anni d'assenza: la popstar britannica si è esibita a Tel Aviv in una delle tappe del suo 'A crazy wonderful night tour'. Il baronetto di sua maestà ha incantato gli oltre 40mila del pubblico israeliano con una carrellata dei suoi più grandi successi, accompagnato dalla sua band storica. Due dei musicisti, addirittura, lo seguono da più di 40 anni. Il risultato è stato un successo: migliaia di fan entusiasti hanno cantato e applaudito il cantautore felici di poter finalmente assistere di nuovo a un suo live. Il concerto ha di fatto aperto la stagione estiva della musica live in Israele, con un calendario ricco di appuntamenti.

(LaPresse, 28 maggio 2016)


Lecce - Un ponte tra Puglia e Israele

di Yehuda Pagliara
Comunità ebraica di Napoli

 
Inaugurata, con un enorme afflusso di pubblico, alla presenza delle autorità cittadine, il nuovo "Medieval Jewish Lecce" a Palazzo Taurino. Un luogo che, per espressa volontà dei titolari, Michelangelo Mazzotta e Francesco De Giorgi, imprenditori leccesi, vuol essere un punto di riferimento per iniziative culturali e centro di ospitalità del sempre più affluente turismo di provenienza israeliana ed ebraica in generale.
   Da oggi è possibile visitare, nel cuore della Lecce ora barocca, a pochi metri di distanza da Santacroce, una mostra permanente, curata dal professor Fabrizio Lelli, dell'Unisalento, sulla vita e sull'importante presenza ebraica in Lecce e dintorni, soprattutto nel periodo che va dal IX secolo e sino al Gherush, che proprio in città visse gli episodi più drammatici e violenti, culminati con il pogrom del 12 marzo 1496.
   La volontà di riprendere le fila di un discorso, bruscamente interrotto, è quanto muove i promotori dell'iniziativa che hanno voluto sin dall'abbrivo, legarsi alla Comunità ebraica locale, rappresentata dalla sezione di Trani della Comunità di Napoli che, con i suoi rappresentanti, ha seguito e segue le attività di Palazzo Taurino.
   "Avendo un'attività commerciale nel cuore dell'antica giudecca - dichiara Michelangelo Mazzotta a Pagine Ebraiche - sono entrato spesso in contatto con chi voleva riscoprire le proprie origini. Da qui è nata l'idea di realizzare un progetto che potesse raccontare nel dettaglio il ruolo della comunità ebraica nella città di Lecce. Per ora, il riscontro del pubblico è stato positivo e le emozioni che ho provato mostrando il progetto a chi voleva riscoprire la sua storia sono state molteplici e forti".
   Gli fa eco il co-gestore di Palazzo Taurino, Francesco De Giorgi: "Speriamo che il lavoro svolto fino ad oggi possa essere apprezzato dal pubblico. Continueremo a impegnarci affinché la mostra che abbiamo allestito possa arricchirsi di materiale multimediale e nuovi contenuti".
   Fabrizio Lelli, docente di lingua e letteratura ebraica all'Università del Salento e curatore della mostra, afferma: "Quest'iniziativa, in un luogo così importante per la memoria dell'ebraismo leccese, è un modo per proporre al grande pubblico alcuni dei principali risultati delle ricerche scientifiche svolte negli ultimi decenni. Riemergono dal passato nomi e eventi ignoti ai più, manoscritti e reperti ebraici quasi sconosciuti, che permettono al visitatore di farsi un'idea della vita di un'importante comunità ebraica della fine del Medioevo."
   Il rabbino capo di Napoli, Umberto Piperno, rivolto al folto pubblico, affascinato dalla riscoperta della presenza ebraica nel Salento, ha sottolineato: "Nel giorno di Lag Ba'omer che celebra la rivelazione del patrimonio mistico del popolo ebraico, inaugurare un Centro di Studi ed Accoglienza nella Puglia significa ricreare il ponte con la Terra d'Israele.
   L'uscita del Rabbino Shimon Bar Yochai dalla grotta, dopo 20 anni di studio, è l'immagine che vogliamo offrire al mondo ebraico e ai flussi turistici internazionali per costruire, nel futuro immediato, un albero di vita che abbia le radici ben salde in Puglia i cui rami tendano verso il Cielo.
   Grano, vite ed ulivo che accomunano la Puglia alla Terra d'Israele rappresentano nella loro progressione di durata un programma e una sfida di rilancio per tutti noi. Rilancio della dieta mediterranea e della tavola casher come ideale simposio d'incontro di idee e di valori per brindare alla vita!".

(moked, 27 maggio 2016)


L'accordo con la Turchia per l'esportazione di gas Leviathan "è solo questione di tempo"

ANKARA - Presto compagnie israeliane e turche concluderanno un accordo per la costruzione di una conduttura sottomarina su cui far transitare il gas estratto dal giacimento Leviathan, nel Mediterraneo orientale. "E' solo questione di tempo": lo ha detto il console israeliano ad Istanbul, Shai Cohen, in un'intervista all'agenzia di stampa turca "Anadolu", in cui ha sottolineato come la Turchia sia "l'unico paese in grado di garantire le infrastrutture adeguate per l'esportazione del gas in Occidente". Secondo Cohen, "un accordo turco-israeliano" è la conseguenza "naturale" di quello che sta avvenendo attualmente nella regione. "La situazione attuale richiede questo tipo di cooperazione energetica tra Israele e Turchia", ha aggiunto il console israeliano. "Da un punto di vista geopolitico - ha spiegato Cohen - senza la Turchia come hub per le risorse energetiche e in particolare per il flusso del gas naturale da est ad ovest e da nord a sud, sarà molto difficile essere efficaci nella diversificazione delle fonti". Cohen ha aggiunto che un eventuale gasdotto tra il giacimento israeliano del Leviathan, nel Mediterraneo orientale, e le coste turche sarebbe "molto costoso" e richiederebbe "una buona volontà" da parte degli investitori, delle compagnie di costruzione e di entrambi i governi. Il costo del progetto, secondo Cohen, sarebbe vicino ai 4 miliardi di dollari, "senza contare le spese" da sostenere successivamente.
  L'amministratore delegato di Turcas Petrol, Batu Aksoy, ha annunciato il 10 aprile scorso che almeno 15 compagnie energetiche turche sarebbero interessate a creare un consorzio per portare il gas israeliano in Europa attraverso la Turchia. Aksoy ha confermato che da mesi i gestori delle riserve naturali di gas di Israele sono in contatto con le società turche per l'esportazione del gas israeliano. "I potenziali partner del consorzio sono compagnie che usano o distribuiscono gas - ha spiegato Aksoy -. Sono operatori attivi nel settore". Aksoy ha ricordato che per l'esportazione del gas israeliano saranno necessari accordi bilaterali tra Turchia e Israele, Israele e Cipro e tra Cipro e Turchia. Per l'amministratore delegato di Turcas, il progetto di una conduttura tra Israele e Turchia potrebbe risolvere "problemi regionali di lunga data. Se le parti lo vogliono e si crea il giusto clima politico, il gas potrebbe raggiungere la Turchia nel 2021". A febbraio due società private, Edeltech Group e il partner turco, Zorlu Enerji, hanno firmato un accordo da 1,3 miliardi di dollari con la statunitense Noble Energy e l'israeliana Delek Group, incaricate della fase di sviluppo del giacimento Leviathan, uno dei principali del Mediterraneo. In virtù di questo accordo, Edeltech e Zurlo acquisteranno 6 miliardi di metri cubi di gas in 18 anni che saranno destinati a due impianti gestiti dalle due società: le centrali di Tamar e Solad. La prima fornirà energia agli stabilimenti petrolchimici di Haifa, mentre la seconda gli impianti di Ahsdod.
  Secondo quanto riportano i media israeliani, la firma del contratto rappresenta un preludio per il futuro sfruttamento del giacimento che potrebbe essere operativo entro la fine del 2019. Lo scorso 18 maggio, il governo israeliano e il consorzio Leviathan, composto dalle israeliane Delek Drilling (22,67 per cento), Avner Oil & Gas (22,67 per cento), Ratio Oil (15 per cento) e dalla statunitense Noble Energy (39,66 per cento), hanno modificato la "clausola di stabilità" dell'accordo sul gas che lo scorso marzo era stata respinta dalla Suprema corte di giustizia israeliana. L'emendamento è stato poi approvato dal governo ed è stato rimesso alla Corte a cui ora spetta bloccare lo sviluppo del giacimento, che, secondo le stime, dovrebbe contenere fino a 500 miliardi di metri cubi di gas. Nel frattempo, sono proseguiti anche i colloqui tra le squadre dei negoziatori israeliani e turchi per la riconciliazione tra i due paesi dopo l'incidente della Mavi Marmara. Lo stesso Cohen, a inizio mese, aveva detto che, una volta insediatosi il nuovo governo turco, sarebbe stato possibile arrivare all'intesa finale tra Ankara e Gerusalemme per la normalizzazione dei rapporti. "Credo che ci vorrà un altro round di colloqui o due per concludere l'accordo", aveva affermato Cohen pochi giorni prima della designazione del nuovo primo ministro turco, Binali Yildirim.
  Le due squadre di negoziatori israeliani e turchi si sono incontrate l'ultima volta l'8 aprile scorso a Londra e in quell'occasione hanno deciso di accelerare le trattative per concludere quanto prima l'accordo di riconciliazione. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, aveva annunciato, durante una visita in Croazia il 28 aprile scorso, che Turchia e Israele erano ormai vicini ad una piena riconciliazione. Erdogan aveva spiegato che Ankara e Gerusalemme stanno discutendo l'avvio di una serie di progetti umanitari nella Striscia di Gaza per far fronte ai problemi legati ai frequenti blackout e alla carenza di acqua nel territorio palestinese. I progressi fatti erano stati confermati poi martedì 17 maggio ad Ankara dall'incaricata d'affari dell'ambasciata israeliana, Amira Oron, nel corso di un ricevimento organizzato per le celebrazioni della Festa dell'indipendenza dello Stato d'Israele. "Negli ultimi 68 anni - aveva detto la Oron - lo Stato d'Israele ha investito sforzi considerevoli per sviluppare rapporti di pace con i paesi del mondo; uno di questi è la Turchia che consideriamo molto importante. La Turchia è il primo paese musulmano ad aver stabilito relazioni diplomatiche con Israele nel novembre del 1949". La Oron aveva sottolineato come da allora i due paesi abbiano stabilito legami molto buoni, aggiungendo che nel 2015 ci sono stati progressi nello sviluppo dei rapporti e "crediamo che questa tendenza continuerà perché è basata sulla volontà politica di entrambe le parti". La Turchia era uno degli interlocutori regionali più vicini a Israele prima del 31 maggio 2010 quando un commando israeliano ha assaltato la nave Mavi Marmara che stava cercando di violare il blocco imposto dallo Stato ebraico su Gaza e ucciso dieci attivisti turchi.

(Agenzia Nova, 28 maggio 2016)


Israele istituisce unità di protezione civile in vista di un conflitto con Hezbollah

GERUSALEMME - Israele sta formando unità di protezione civile in tutto il nord del paese per sostenere le truppe nell'eventualità di un conflitto con Hezbollah. Lo ha riferito il colonnello Eren Makov, comandante regionale del Comando del nord, nel corso di una intervista a "The Media Line". "C'è un grande cambiamento nella popolazione araba in Israele, è molto più disposta a collaborare con noi", ha detto Makov. Il comandante ha spiegato che più della metà della popolazione del nord di Israele è costituita da cittadini arabi israeliani, che condividono con gli altri israeliani la stessa minaccia missilistica da parte di Hezbollah. Le nuove unità di volontari, ha precisato Makov, verranno coordinate dall'Home Front Command e non vestiranno divise.

(Agenzia Nova, 27 maggio 2016)


Israele avvisa: l'Isis userà l'atomica

Netanyahu cerca alleanze con turchi e sauditi per prepararsi alla sfida nucleare. Di Iran e jihadisti.

di Carlo Panella

Dore Gold
GERUSALEMME - «Stiamo entrando in un mondo diverso, in cui i terroristi ci minacceranno con armi nucleari...», con questa catastrofica previsione, pronunciata con un sorriso serafico sulle labbra, entra nel vivo il mio viaggio tra i massimi esperti dell'antiterrorismo nel paese più minacciato al mondo dai terroristi: Israele. Dore Gold, direttore generale del ministero degli Esteri di Israele mi riceve in una torrida Gerusalemme. Pacato, col linguaggio del corpo che esprime l'autorevolezza di un millenario visir asiatico, Dore Gold basa su questa sua apocalittica analisi una svolta radicale nel contrasto al terrorismo. Sempre col sorriso sulle labbra spiega lo sviluppo degli eventi: «Quando chiedemmo ai Servizi dell'India perché non avessero compiuto ritorsioni contro il Pakistan, nonostante fosse appurato che i suoi Servizi avevano aiutato i terroristi che avevano fatto strage a Mumbai ci risposero: "Non potevamo fare ritorsioni. Il Pakistan ha l'atomica!" Pensate cosa sarà il mondo quando i terroristi potranno usare la deterrenza...».
   Il quadro a cui guarda Dore Gold è complesso: «Hamas è il fondamentale retroterra politico, militare e logistico dell'Isis che attacca in Egitto e Libia, e fa esplodere gli aerei. Quindi Hamas, indirettamente, è una minaccia anche per l'Europa. Hezbollah, che è sotto comando formale dell'Iran, è in grado di lanciare dalla Siria e dal Libano missíii armati di atomica su Israele e su tutti gli Stati arabi. L'Iran ha forse - forse - sospeso il suo programma nucleare. Ma si dota di nuovi missili che hanno senso solo se armati di testate nucleari, non di esplosivi tradizionali». La conclusione è semplice: «Israele si deve dotare di un ombrello che la protegga da questi missili». Ma soprattutto deve impostare una politica regionale di svolta che parta dalla normalizzazione dei rapporti con la Turchia - imminente, per impegno di Netanyahu - e porti a un'inedita alleanza con i paesi arabi sunniti, inclusi i regni e gli emirati del Golfo. Svolta sintetizzata così da Ofer Shelah, deputato di Yesh Atid: «Israele è nato grazie alla consegna di Ben Gurion: si deve difendere da solo. Ma oggi questo postulato non regge più, per l'intersecarsi di terrorismo e minaccia nucleare».
   Chi frequenta Israele da 50 anni resta colpito profondamente da questa novità, dalla certezza che è ora indispensabíle un suo stretto concerto operativo con la comunità internazionale e con vicini per decenni nemici. Strategia ribadita da tutti gli esperti dell'antiterrorismo israeliano che incontro. E' il segno dell'esaurirsi dello «splendido isolamento», della piena autosufficienza della propria forza militare, che, da destra come da sinistra, permea da 70 anni tutte le strategie di difesa della patria degli ebrei. Finisce così la lunga fase in cui Israele chiedeva agli Stati Uniti e a un'ignava Europa aiuto, finanziamenti e armamenti per usarli sul terreno, nelle guerre, basandosi solo sulla propria capacità di combattere.
   Ovviamente, questa svolta è radicata su una constatazione che solo Barack Obama e molte cancellerie non percepiscono: la centralità del contenzioso palestinese-israeliano ormai è un ricordo. Il nuovo conflitto è imperniato su un apocalittico e globale contrasto ira l'islam politico e l'Occidente. Contrasto in cui le forze radicali sciite e sunnite vedono sì in Israele il più pesante oltraggio alla umma musulmana, ma vedono anche come nemici da abbattere i regimi arabi e islamici «corrotti». In un contesto dominato dall'espansionismo rivoluzionario dell'Iran, che ripropone oggi la spinta egemonica plurimillenaria della Persia verso il Mediterraneo, supportata dall'ideologia khomeinista.
   Non solo l'Isis e Al Qaeda vanno dunque annoverati tra i principali nemici che ci minacciano, ma anche Hezbollah e Hamas che non sono più avversari solo di Israele, ma anche di larga parte dei paesi del Medio Oriente. Una percezione che Usa e Europa, che pure considerano Hezbollah «organizzazione terrorista», sono ben lungi dall'avere chiara, nonostante la lezione del disastro siriano provocato dalla strenua difesa del regime del macellaio Assad da parte di Hezbollah, Pasdaran iraniani (e della Russia).
   Per questo, in tutti i miei incontri si delinea una propensione di Israele, straordinariamente nuova, a costruire una rete di alleanze con la Turchia e tutti i paesi sunniti, Arabia Saudita inclusa.
   Naturalmente, né Dore Gold - che ha dato inizio a questo processo con un incontro il 4 giugno a New York con Anwar Eshky, già top adviser del governo saudita - né gli altri miei interlocutori intendono infastidire il governo di Riad evidenziando intese sino a pochi mesi fa impensabili. Ma l'allinearsi discreto di Israele con la «trincea» turco arabo sunnita, in funzione anti-terrorista e anti-iraniana è qui ornai palpabile.

(Libero, 27 maggio 2016)


Ferrara, scuola di museo

Meis, il nuovo percorso didattico

 
Sarà presentata domenica una novità che viene ad arricchire il panorama museale a tema ebraico in Italia: il Meis, infatti, il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, inaugura il percorso didattico della mostra "Torah fonte di vita".
La mostra, che illustra il ruolo centrale della Torah nella vita ebraica, avrà un percorso dedicato, focalizzato sulla didattica e sulla possibilità di coinvolgere i visitatori più piccoli, continuando così sulla stada della sperimentazione e del gioco con il pubblico che già caratterizzano le scelte del Meis. Il percorso per bambini vedrà anche la comparsa di un personaggio narrante di riferimento, che possa presentarsi al pubblico e segnare l'inizio della visita, guidando i più piccoli attraverso le sale, a partire per esempio dalla prima. Lì dove vengono raccontati i luoghi dell'ebraismo, dalla sinagoga alla comunità come centro aggregativo della vita religiosa e sociale, verrà aggiunto un contributo video con il ritorno del personaggio di riferimento e l'introduzione dei temi della mostra, con la spiegazione visiva dei concetti di sinagoga e comunità.
Tutto il percorso didattico è strutturato in modo da essere interattivo e tattile, in modo da portare i giovani visitatori alla riflessione e a una partecipazione attiva, che prevede la possibilità di esprimersi, fare domane e interagire con il museo anche grazie ai vari giochi predisposti lungo il percorso di visita. Con l'obiettivo di stimolare l'apprendimento della cultura e delle tradizioni millenarie della minoranza ebraica italiana attraverso un allestimento che sappia unire l'educazione al gioco, in modo da costruire un bagaglio culturale che fin dagli anni anni dell'infanzia possa influire in maniera positiva sulla formazione di nuovi cittadini.

(moked, 27 maggio 2016)


Attenzione ragazzi, è pericoloso portare la kippah

Lettera a Furio Colombo
    Caro Furio Colombo,
    xmi riferisco a un articolo che ho appena visto su Repubblica del 24 maggio. Racconta di un ragazzino malmenato in un parco di Milanoperché indossava la kippah. Mi sembra un segnale pericoloso.
    Maurizio
È pericolosa la relativa indifferenza con cui fatti gravi di questo genere vengono raccontati come modesti atti di teppismo. Nel caso citato dal lettore, il rapporto della polizia dice testualmente che il ragazzino assalito, insultato e malmenato, ha riportato lievissime contusioni" e - sulla base delle testimonianze raccolte da altri ragazzi - hanno descritto l'assalitore come "un bulletto della zona che dice anche 'nero di merda' a un immigrato, e 'ciccione' a un ragazzo obeso, solo per il gusto di insultare". Ovviamente si tratta di una piccola inchiesta per un fatto che, dal punto di vista dell'ordine pubblico, appare d ipoca importanza. Resta strano che "il bulletto", che a quanto pare agisce in una sua area territoriale, al punto da essere mentalmente schedato da molti frequentatori del parco, non è mai stato notato da un vigile urbano o da qualche adulto attivo nella zona, che non è isolata, che è un normale, popolato borgo cittadino. Resta anche da domandarsi come mai questo "bulletto" di periferia (il diminutivo suggerisce che si tratti di persona molto giovane) abbia riconosciuto prontamente il berretto ebraico sulla testa di un ragazzino estraneo al quartiere, che era venuto da Roma a trovare, solo per quel giorno, degli amici milanesi, in un luogo privo di identificazioni salvo quello indicato nel verbale della polizia, "area di gioco nel verde cittadino". Interessante anche il dettaglio della testimonianza secondo cui il giovane protagonista della bravata "insulta tutti". Ovvio che l'affermazione serve per dire che il soggetto in questione non è anti-semita, ma solo maleducato. L'affermazione non è così ingenua per dei giovani testimoni improvvisati che, d'istinto, sanno come "normalizzare" l'accaduto, tipo "quello lì (di cui però nessuno sa nulla, come se fosse Zorro) se la prende con tutti". Segue, implicita la frase "ma non ce l'ha con nessuno in particolare. È solo astioso".
Insomma, il caso emerge perché è stato necessario chiamare la polizia urbana perché c'è stata una aggressione a un ragazzino italiano identificato come "ebreo". Ma poi il caso viene rapidamente sommerso da un giudizio di ovvia e tipica mini-brutalità cittadina, per non doversi porre il vero problema: allora, va bene così? Basta non portare la kippah per non provocare i bulletti? Dato il modo in cui viene data la notizia (parlo del modo in cui è stata raccolta e narrata da chi ha redatto il verbale) si direbbe che c'è una grande voglia di dire che qui nessuno è anti-semita e che sarebbe sbagliato fare una gran storia da un evento così piccolo. Il dubbio, fondato, temo, è che non sia né piccolo né casuale.

(il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2016)


La pasionaria «islamica» sotto accusa nella Londra di Khan

Algerino-musulmana, Malia Bouattia è la prima donna a capo del movimento studentesco. Ma le sue posizioni scatenano un mucchio di polemiche.

di Enrico Franceschini

Malia Bouattia, 28 anni, eletta presidente del Nus, il movimento studentesco britannico
LONDRA - La recente elezione della prima donna, nera e musulmana, alla presidenza della National Union of Students (Nus), volto ufficiale del movimento studentesco britannico, poteva essere un'occasione da celebrare come l'ennesima prova del multiculturalismo di questo Paese, la cui capitale ha già eletto Sadiq Khan, il primo sindaco musulmano. Invece sta suscitando polemiche senza precedenti. La neo-leader, Malia Bouattia, 28 anni, originaria dell'Algeria, è accusata di antisemitismo e sostegno allo Stato Islamico. Le sezioni della Nus di Oxford, Cambridge, London School of Economics, King's College, University of Westminster e altre università inglesi minacciano di ritirarsi dall'associazione nazionale formando un'associazione alternativa di studenti. I giornali la presentano come un'estremista. Lei si difende, affermando di essere stata citata in modo erroneo e che le sue posizioni vengono deliberatamente travisate dai media. Ma la polemica, scoppiata per coincidenza insieme alle accuse di antisemitismo contro l'ex-sindaco di Londra Ken Livingston e altri esponenti del partito laburista, è tutt'altro che conclusa.
   Emigrata nel Regno con i genitori (il padre è un accademico) durante la guerra civile algerina, Bouattia è laureata in scienze politiche a Birmingham, dove sta conseguendo un dottorato di ricerca. La controversia nei suoi confronti si basa principalmente su due episodi. Il primo è un documento in cui definiva l'ateneo di Birmingham, con la sua una numerosa comunità di studenti di origine ebraica, «un baluardo del sionismo», commento seguito da un articolo in cui parlava dell'oppressione dei «media sionisti» sul sud del pianeta. Il secondo incidente riguarda una mozione di condanna dell'Is da lei bloccata quando era dirigente nazionale, ma non ancora presidente, della Nus. «Non sono razzista né antisemita, e non ho mai difeso l'Is» replica ora Bouattia. Sul primo punto distingue tra anti-sionismo e anti-semitismo; sul secondo precisa che il linguaggio della mozione a suo parere era una condanna implicita di tutti i musulmani: quando la forma è stata cambiata, ha sbloccato la mozione. Ma per i suoi critici sono giustificazioni «totalmente insoddisfacenti». Si fa notare che per Bouattia ogni trattativa di pace fra israeliani e palestinesi costituisce «un rafforzamento del colonialismo» e «la resistenza all'occupazione israeliana viene dipinta come terrorismo» dai media occidentali e «sionisti» . Altri sottolineano che il metodo di elezione della National Union of Students va cambiato: pur rappresentando 7 milioni di studenti e avendo decine di migliaia di iscritti, solo il comitato direttivo vota il presidente, cosicché Malia Bouattia è stata eletta con soli 372 voti contro 328, un mandato forse troppo ristretto.

(la Repubblica - il Venerdì, 27 maggio 2016)


Fiom, Cobas e Arci per il boicottaggio d'Israele

di Giulio Meotti

Hanno firmato anche sigle sindacali come la Fiom e i Cobas, oltre ad associazioni come l'Arci e movimento di protesta contro il Muos, l'appello di 350 organizzazioni europee per il boicottaggio di Israele in Europa. Tanti le associazioni italiane "pacifiste". Nel 1982, la Cgil promosse il blocco di navi e aerei da e per Israele. "Ha sempre un significato, per il movimento sindacale italiano, organizzare un boicottaggio, azione e lotta politica, solidarietà internazionale, rifiuto ad essere spettatori passivi di fronte ad avvenimenti internazionali di eccezionale gravità", disse Lucio De Carlini, segretario generale della federazione trasporti Cgil.
Per otto giorni non partirono voli per Tel Aviv dagli aeroporti italiani. Furono boicottate anche le due navi israeliane nel porto di Livorno. Quando un volo della compagnia israeliana El Al atterrò a Fiumicino, i passeggeri dovettero raggiungere a piedi il terminale. Nella manifestazione sindacale per il Libano si udirono per la prima volta slogan su "Nazi-Israele", con la tramutazione della stella di David (la stessa che portavano sulla giubba i deportati) in croce uncinata. Per la prima volta, i rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni operaie israeliane furono esclusi dalle iniziative internazionali della sinistra, subendo il ricatto arabo-islamico che preconizzava la distruzione dello stato ebraico. Trent'anni dopo, siamo ancora lì.

(Il Foglio, 27 maggio 2016)


EDIPI all'inaugurazione del Padiglione di Israele alla Biennale di Architettura

 
L'Ambasciatore Naor Gilon all'inaugurazione del Padiglione di Israele alla biennale di Venezia
Facciate viventi, autopulenti, biosensori per monitorare gli inquinqmenti ambientali, nanomateriali innovativi e prospettive sulla bioluminescenza: benvenuti al Padiglione di Israele di Venezia!
Giovedì 26 maggio alla presenza dell'Ambasciatore Naor Gilon si è infatti inaugurato il padiglione che lo stato di Israele ha costruito ai Giardine della Biennale fin dal 1950, due anni dopo la sua nascita, a sottolineare l'importanza della cultura per Israele.
Il presidente di EDIPI, past. Ivan Basana, ha approfittato dell'occasione per sollecitare l'Ambasciatore riguardo all'operazione "Costruire Israele" relativamente all'invio di centinaia di operai edili italiani in Israele.
L'opportunità è stata propizia in quanto si è parlato di edilizia tradizionale inserita nel contesto della nuova architettura operante tra biologia, botanica e le loro ibridazioni.
Quella offerta dal padiglione di Israele alla Biennale d'arte è stata una panoramica vorticosa. Dalla scala microscopica degli organismi unicellulari, alla resilienza di quello spicchio di Medio Oriente provato da conflitti e cambiamenti climatici di portata epocale, toccando le prospettive della biomimesi in archittetura.
Le intenzioni del padiglione sono da configurarsi come una piattaforma di ricerca, uno stadio in divenire a tutti gli effetti, variamente connesso al tema "Lifeobject: Merging Architecture and Biology".
Il gruppo di curatori per il padiglione israeliano dell'edizione 2016 comprende gli architetti Bnaja Bauer, Arielle Blonder, Noy Lazarovich e lo scienziato Ido Bachelet, coordinati da Yael Eylat Van-Essen.
Da loro è partita l'idea di invitare un gruppo di sette tra architetti e scienziati tra i quali figura il prof. Dan Stechtman, premio Nobel per la chimica nel 2011, grazie allo studio sui "cristalli quasiperiodici" e a cui è stata affidata la prolusione dell'inaugurazione dopo l'intervento introduttivo dell'Ambasciatore Naor Gilon.
Presente anche il rabbino capo di Venezia Rav Scialom Bahbout, tra l'altro laureatosi in Fisica all'Università La Sapienza di Roma.
Particolarmente curato e vario il buffet offerto alla fine con scelta di vini veneti prestigiosi, un'originale bevanda fresca ed esotica a base di foglie di menta e tra l'altro un connunbio tra la tradizione culinaria ebraica e quella veneziana: una specie di falafel con impanatura al sesamo e ripieno di baccalà mantecato. Solo questa prelibatezza meritava la visita!

(EDIPI, 27 maggio 2016)


Roma-Tel Aviv sfide e incontri tra calcio e libri dal maxxi a cinecittà

ROMA - Due città, ventidue scrittori e un'idea semplice come la palla che rotola sull'erba: usare il calcio come pretesto per un'altra narrazione della nostra contemporaneità, nel segno del dialogo e dello sport.
  Così è nato "Roma-Tel Aviv: Letteratura Football Club". Una doppia partita e molte storie intorno. Perché anche gli scrittori giocano a calcio. E lo amano, profondamente. In questi anni, l'Osvaldo Soriano Fc (nazionale italiana scrittori fondata nel 2001 da Alessandro Baricco) e l'Israel Writers Football Team (2007: fondatore Etgar Keret) hanno sviluppato amicizia e collaborazioni, oltre a sfidarsi sul campo. L'ultima volta ad Haifa, nell'estate del 2013, quando la squadra italiana conquistò la "Writers League" battendo in finale proprio gli israeliani.
  E da domani con un evento culturale e sportivo, ispirato dal confronto tra Roma e Tel Aviv. Inseguendo un pallone e i suoi rimbalzi a forma di sogni, attraverso i racconti.
  Perché, come sottolinea il capitano della squadra italiana Carlo D'Amicis, (centrocampista, maglia numero 5, ultimo romanzo pubblicato: Quando eravamo prede, Minimum Fax, 2014): "Pallone e letteratura sono due modi di giocare con i propri sogni. Nel primo caso prendendoli a calci, nel secondo prendendoli in mano".
  Sullo stesso tema risponde il capitano israeliano, Assaf Gavron (attaccante con il 10 sulle spalle, ultimo romanzo pubblicato in Italia: La Collina, Giuntina, 2015): "Tra calcio e letteratura c'è un legame profondo, sono entrambi rappresentazioni della vita e di come esprimiamo le nostre emozioni". Gavron cita a esempio "due portieri speciali, Nabokov e Albert Camus, di cui condivido la frase: Tutto quello che so sulla moralità e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio".
  Entrambi, D'Amicis e Gavron saranno protagonisti del "primo tempo" dell'evento. Ovvero la Partita dei racconti"( Auditorium del MAXXI, venerdì 27 maggio, ore 18.30): cinque per squadra, due attori (Francesca Guercio e Alessio Caruso), una conduttrice-arbitro (Anna Maria Giordano di RadioTre), la proiezione dei disegni "live" di Paolo Samarelli. E il voto finale del pubblico.
  La sfida comprende anche testi di Yonatan Berg, Etgar Keret, Amichai Shalev e Noam Slonim per l'Israel Writers Team. E quelli di Gian Luca Favetto, Carlo Grande e Giampaolo Simi per l'Osvaldo Soriano Fc.
  L'indomani poi, tutti in campo (ore 10) per la partita di calcio a 11 tra le due nazionali,
  nell'ambito del Calcio Solidale inFest, presso l'Asd Cinecittà Bettini (via Quinto Publicio 39) preceduta dall'incontro con gli studenti dell'Iis Di Vittorio-Lattanzio che partecipano all'iniziativa con i loro racconti.
  Perché poi, come tutte le storie, anche quella di "Roma-Tel Aviv: Letteratura Football Club" continua. E già si prepara un "match" di ritorno in Israele, a fine ottobre.

(BCRMagazine, 27 maggio 2016)


In Iran svolta riformista? Quante sciocchezze

Al Consiglio degli esperti eletto l'ultra-conservatore Jannati. Un chiaro segnale.

di Carlo Panella

 Macché vittoria dei riformisti in Iran!
 
Il parlamento iraniano
  L'ennesimo equivoco creato ad arte da un mondo politically correct e obamiano - alla frenetica ricerca di contratti milionari - è durato lo spazio di un mattino.
Con l'elezione dell'ultra-conservatore ayatollah Mohammed Jannati alla presidenza del Consiglio degli esperti il trucco mediatico occidentale è saltato ed è emersa la verità.
Il Consiglio degli esperti, infatti, a differenza del Majlis - il parlamento - è l'unica istituzione iraniana dotata di un immenso potere reale, eletto a suffragio universale.
E l'elettorato ha scelto una sua composizione nettamente conservatrice.

 Potere assoluto
  L'Assemblea degli esperti - si badi bene - non solo elegge il Rahbar, la Guida della Rivoluzione, cioè il successore dell'ayatollah Ali Khamenei, ma ha anche il potere di destituirlo, oppure di stabilire che la carica venga ricoperta da un Consiglio collegiale scelto al suo interno (Consiglio che con questa maggioranza non potrà che essere nettamente conservatore, se non ultra-conservatore).
E il Rahbar ha un potere assoluto esclusivo e monocratico, non sottoponibile a nessun bilanciamento: è il capo operativo delle Forze armate, dei Pasdaran e dei Bassiji, è il titolare esclusivo della politica estera, è il capo del potere giudiziario e infine e ovviamente nomina il presidente della Repubblica.
Per essere chiari: l'intero programma nucleare e missilistico dipende esclusivamente e direttamente dal Rahbar.

 Illusione occidentale
  La vulgata politically correct occidentale aveva letto il successo di voti riscosso da Ali Rafsanjani come il preludio certo di una sua elezione alla presidenza dell'Assemblea degli esperti, a garanzia di una successione "riformista" di Khamenei.
Rafsanjani è tutt'altro che un riformista. Ha accompagnato e gestito dalle più alte cariche (inclusa la presidenza dell'Assemblea degli esperti nel passato) tutte le svolte più repressive e sanguinarie del regime khomeinista dal 1979 in poi, incluso lo sterminio o l'espulsione dal potere nel 1981 di tutta la prima leva di governo nominata da Khomeini nel 1979 (Gothbzadeh Sadegh, Banisadr, Yazdi, eccetera), la destituzione degli ayatollah riformisti Shariat Madari e Montazeri e l'epurazione e uccisione di non meno di 2 mila mullah e di migliaia di oppositori laici.
Ma, emarginato durante la presidenza di Ahmadinejad, anche perché incredibilmente corrotto (è uno degli uomini più ricchi del Paese), si è proposto ed è stato accettato - obtorto collo, spesso - come leader dei riformisti in una logica di puro esercizio comunque sia del potere.

 Nel segno dell'oltranzismo
  Ora, nei fatti, la sua candidatura è stata sbeffeggiata dagli esperti, perche Jannati ha ottenuto addirittura 51 voti su 86, una beffa per i moderati.
Un voto che prefigura una successione a Khamenei (che è stato operato nel 2014 per un grave cancro alla prostata e che ha 77 anni) di piena continuità nel segno dell'oltranzismo.
Khamenei infatti si è distinto per un ruolo di mediazione formale, che però ha alla fine sempre lasciato prevalere le scelte dell'ala oltranzista e ai Pasdaran, come ben si vede dall'accelerazione al programma e nella costruzione di missili a lunga gittata, all'indomani della firma dell'accordo sul nucleare, contro il quale inutilmente si sta scagliando l'amministrazione Obama.
I missili a lunga gittata infatti hanno senso solo e unicamente se dotati di testate nucleari, perché il loro potere distruttivo con cariche tradizionali non va oltre allo sbriciolamento di un isolato, risultato misero a fronte del loro enorme costo di costruzione e di lancio.

 Obama ha le mani legate
  Ma Obama ha le mani legate e non si decide a rallentare il programma di eliminazione delle sanzioni, perché così facendo dimostrerebbe al mondo che il suo azzardo nell'accettare quel pessimo accordo sul nucleare lo ha consegnato mani e piedi all'iniziativa degli ayatollah.
Non va sottovalutato infine un particolare non secondario: il nuovo presidente della Assemblea degli esperti, Jannati, è suocero di Ahmadinejad (tutta la dirigenza iraniana è intrecciata di rapporti famigliari stretti) ed è sempre stato un suo sponsor politico.
Nel 2017 sono previste le elezioni presidenziali e non sono pochi gli indizi - inclusa questa elezione - che indicano che sarà di nuovo lui il candidato del fronte conservatore-oltranzista (solidamente appoggiato dal blocco Pasdaran-clero combattente).

 Non ci sarà mai una svolta
Non sarebbe inopportuno che le cancellerie occidentali tenessero in grande conto questa evoluzione del regime iraniano, cessassero di ragionare sulla base del wishful thinking e prendessero finalmente atto che in Iran non c'è e non ci sarà mai - fatta salva una nuova rivoluzione popolare - una svolta riformista.
Come ben si vede peraltro nella continuazione della politica militare oltranzista iraniana - regnante Rohani - in Iraq, Siria, Yemen, Gaza e Libano.

(Lettera43, 26 maggio 2016)


Ofer Sachs
Netanyahu nomina il nuovo ambasciatore in Italia

Ofer Sachs, nominato nuovo ambasciatore di Israele in Italia dopo la rinuncia di Fiamma Nirenstein. E' il direttore dell'Istituto israeliano per l'esportazione.

(Fonte: la Repubblica, 26 maggio 2016)


Non riportiamo l'articolo di Repubblica, che non dà notizie oltre questa ma come al solito aggiunge soltanto osservazioni piene di acredine su Netanyahu. M.C.


Giovane ebreo aggredito a Milano, la Digos dà la caccia a quindici bulli

II ragazzo preso a pugni domenica perché portava la kippah

di Davide Milosa

Milano tra via Soderini e via San Gimignano, i ristoranti kosher sono molti. Qui si concentra buona parte degli ebrei della città.Qui c'è la scuola ebraica piantonata giorno e notte da camionette dell'esercito. Qui nel novembre scorso è stato accoltellato un ebreo ortodosso di circa 40 anni. Indagini in corso e aggressore ancora in libertà. E sempre qui domenica pomeriggio un ragazzino ebreo di 15 anni, residente in zona ma nato a Roma, è stato picchiato dal branco al grido: "Ebreo di merda, qui non puoi stare, vattene".
  La vittima, in quel momento, indossava la kippah, tradizionale copricapo ebraico. Nulla stava facendo, se non bere alla fontanella del campo Olimpia, struttura sportiva di via Soderini frequentata da famiglie e bambini. In realtà il ragazzo, assieme agli amici, stava camminando sul marciapiede. Nel campo è entrato solamente per bere. Anche per questo motivo è forte l'ipotesi che gli aggressori non siano della zona. Inizialmente l'episodio era stato derubricato a semplice ragazzata. Dopodiché le indagini della Digos coordinate dal dottor Claudio Cicimarra hanno chiarito meglio lo scenario. Nessuna ragazzata, ma un atto violento e di bullismo con marcate connotazioni razziali. Di più: se l'aggressore che alla fine del diverbio ha sferrato un pugno in volto al ragazzino è uno solo, il gruppo che per tutto il tempo lo ha spalleggiato, ridendo e urlando, è composto da almeno quindici persone. Molti ragazzi ma, sospettano gli investigatori, anche alcuni maggiorenni. Le indagini proseguono non senza difficoltà. Visto che la zona del campetto non è monitorata dalle telecamere. Fortunatamente alla scena hanno assistito molti testimoni che in questi giorni sono stati tutti sentiti dalla polizia. La vittima, medicata sul posto e non trasportata in ospedale, ha fornito indicazioni non sul suo aggressore ma sulla composizione del gruppo in generale. Per capire se il branco dei 15 è della zona oppure no, la Digos sta accertando se nelle ultime settimane tra viaSoderini evia San Gimignano ci siano state altre aggressioni di questo tipo.
  Ma certo l'episodio allarma, visto il precedente di novembre. Allora furono diverse coltellate a ferire Nathan Graffi, 40 anni. "Ha mirato subito al volto, mi voleva uccidere", dirà la vittima dopo il ricovero all'ospedale Niguarda. Ad oggi, però, e nonostante la diffusione di un identikit, l'aggressore non è ancora stato catturato.

(il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2016)


La Spezia ricorda l'esodo ebraico con un premio a Napolitano

Settant'anni fa salpavano dalla città ligure due navi cariche di profughi diretti verso il futuro Stato d'Israele.

di Stefano Stefanini

 
Una nave carica di profughi ebrei salpa l'8 maggio 1946 verso la Palestina
Nel 1961 il film Exodus di Otto Preminger, Oscar per la colonna sonora, tenne per tre ore attanagliati al grande schermo gli spettatori italiani. AI cinema Goldoni di Lerici, il proiettore cigolava, e ogni tanto s'inceppava, come nell'indimenticabile Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, premiato a Cannes e a Los Angeles quasi trent'anni dopo. Sulle sgangherate sedie di legno, nella nebbia delle sigarette, un'indisciplinata platea pendeva dalle labbra doppiate di Paul Newman e Eva Marie Saint. Il cinema era la finestra sul mondo.
   Il Goldoni non è andato a fuoco; l'edificio ospita oggi una banca. Il tempo passa. Per fortuna la memoria rimane. Anzi, re suscita. Quando il film Exodus arrivò alla Spezia e poi a Lerici, quasi nessuno volle parlare dell'Exodus reale di cui la città era stata teatro una quindicina d'anni prima. Dal molo Pirelli (oggi Pagliari), a pochi chilometri in linea d'aria, 1'8 maggio 1946 erano salpate alla volta della Palestina le navi Fede e Fenice, stipate all'inverosimile di profughi. A Portovenere dall'altra parte del Golfo dei Poeti, il cantiere dell'Olivo che ristrutturò il vero Exodus.
   Nell'800 Lord Byron nuotava attraverso il braccio di mare per venire a trovare Percy Shelley a San Terenzo (impresa ripetuta annualmente da qualche centinaio di appassionati). Ma, si sa, il passato remoto si ricorda più facilmente del passato prossimo. Nel 1961 La Spezia aveva rimosso dalla memoria il ruolo della città e della popolazione nel sostenere l'emigrazione ebraica verso la Palestina, tanto fuga dagli orrori dell'Europa dei campi di sterminio e dell'antisemitismo quanto anelito verso la «terra promessa». Solo qualche decina di migliaia (23.000 da tutta l'Italia) arrivò, ma fecero la differenza nel gettare i semi internazionali dello Stato d'Israele.
   Il legame di civiltà, cultura e umanità che unisce Israele all'Italia e all'Europa nasce allora. Nasce dai gesti di generosità, di riscatto e di solidarietà di un'Italia prostrata dalla guerra, indecisa fra monarchia e repubblica, con le cicatrici della Resistenza ancora aperte, col rimorso sotterraneo delle complicità antisemite (ce le ricorderà molto più tardi un altro Oscar, La vita è bella di Roberto Benigni). Un'Italia francescana, che non aveva gli occhi per piangere, eppure sapeva aiutare disinteressatamente il prossimo. La speranza nel futuro avrebbe premiato entrambi: con l'Italia del miracolo e con lo Stato d'Israele.
   Nel 1961, in piena Italia del miracolo, la memoria si è fatta corta. Le ferite, rimarginate dal successo, sono ancora tenere. Rimessasi in piedi, l'Italia guarda avanti, non indietro. Il conflitto arabo-israeliano bolle in pentola, i venti di guerra soffiano in Medio Oriente, a metà strada fra la crisi di Suez del 1956 e la guerra dei Sei Giorni del 1967. La Guerra fredda spacca il mondo, e l'Italia, in due. È una guerra di culture e d'intellettuali, non solo di divisioni e testate nucleari. Israele galleggia sulle sabbie mobili della «correttezza politica» del tempo. Meno se ne parla, meglio è. Solo nell'autunno del 1999, Carlo Azeglio Ciampi effettuerà la prima visita di Stato italiana in Israele.
   La Spezia non è sola nello stendere un velo di silenzio su una pagina di storia cittadina di cui avrebbe tutti i motivi per andare orgogliosa. Lo solleva solo agli albori del nuovo secolo. L'8 maggio 1996 (cinquantenario) il Comune pone una lapide sul molo Pagliari; nel 2000 istituisce il Premio Exodus per «celebrare la straordinaria pagina civile» di cui è stata protagonista e che (nell'ignoranza di molti spezzini) le è valsa l'appellativo «Porta di Sion». Nel settantesimo anniversario, Exodus va al Presidente emerito, Giorgio Napolitano. Nel consegnarglielo, oggi a Roma, il sindaco della Spezia, Massimo Federici, assieme il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche in Italia (Ucei), Renzo Gattegna, chiude anche la parabola cittadina di recupero della memoria.
   Giorgio Napolitano ha lasciato un'impronta profonda, in Italia, in Europa, in campo internazionale, e non solo nei nove anni di Presidenza della Repubblica. Lo testimonia il Premio Kissinger assegnatogli quasi un anno fa a Berlino «per la difesa della democrazia in Italia». Fu il primo non americano e non tedesco a riceverlo. La città della Spezia tocca oggi un altro tasto. Exodus non premia tanto la dimensione politica quanto quella civile, intellettuale e culturale. Da politico come da massima carica istituzionale, Giorgio Napolitano ha sempre saputo nobilitare la prima con la seconda.

(La Stampa, 26 maggio 2016)



Parashà della settimana: Bechukotài (Le mie leggi)

Levitico 26:3-27-34

 - Il terzo libro della Torah, il Levitico, termina con questa parashà che possiamo definire ''terrificante'' per le maledizioni che (D.o non voglia) si abbatteranno sul popolo ebraico se questo si allontanerà dalle strade indicate dal Signore. Bechukotai significa ''con le Mie leggi''.
 ''Se seguirete le Mie leggi… la terra darà il suo prodotto… e mangerete pane a sazietà'' (Levitico 26.3).
  ''Ma se non eseguirete i Miei precetti... e violerete il Patto con Me stabilito… rivolgerò la Mia faccia contro di voi… e manderò gli animali selvatici che vi priveranno dei figli'' (Levitico 26.14)
 Dopo oltre tremila anni queste parole della Torah appaiono di una drammatica attualità. Come dimenticare due milioni di bambini ebrei ridotti in cenere dalle fiamme delle ''bestie feroci'' del nazifascismo?
 Quali sono allora queste regole da cui il popolo ebraico, popolo dalla ''dura cervice'' si è allontanato? Secondo l'insegnamento dei nostri maestri (cazal) i precetti infranti riguardano in particolare il riposo sabatico della Terra e l'anno Giubilare, legati alla maledizione dell'esilio.
 ''I-o stesso desolerò la Terra e desolati saranno i vostri nemici che vi abiteranno… e Voi spargerò tra i popoli'' (Levitico 26.33)
 In questa maledizione, la più grave, il rabbino Rashì vede un barlume di speranza. Difatti durante i duemila anni dell'esilio nessuna Nazione è riuscita a far rivivere la Terra d'Israele, che è restata sempre ''desolata'', per rifiorire solo quando il popolo ebraico è ritornato a stabilirsi su di questa. Esiste dunque un legame indissolubile tra il popolo, la Terra e D-o Benedetto, legame che trova nella Torah d'Israele il suo punto di riferimento e di incontro.
 Ora la domanda è questa: come mai le tremende maledizioni vengono descritte proprio nel libro del Levitico, considerato il fatto che questo parla esclusivamente del servizio dei sacerdoti (Cohanim) nel Tempio di Gerusalemme?
 Perché il Tempio è il luogo della connessione tra il cielo e la terra, l'unico luogo sacro per la tradizione ebraica, da cui verrà proclamato il Suo Nome e la Sua unità (Zaccaria 14.9).
 Il sacerdozio di Israele dunque come sinonimo di responsabilità verso gli uomini e verso D-o, che consiste nell'osservanza della Legge da cui Israele non deve allontanarsi. ''Tutti quelli che ti abbandonano saranno scritti nel libro dei maledetti della Storia'' (Geremia 17.13).
 Maledetto sia l'uomo che costruisce contro il Signore, l'uomo che innalza la torre di Babele e l'uomo che rinuncia alla sua libertà per servire un altro uomo. La fonte delle maledizioni sta quindi nel comportamento errato dell'uomo, che non intende mettersi in ascolto della parola di D-o.
 Ed è sempre Geremia nel nostro caso che tenta di dare una risposta a questa recidiva sordità.
 ''Tu che hai fatto uscire il tuo popolo Israele dal paese d'Egitto… hai dato loro questa terra stillante latte e miele… ma essi (Israele) non hanno dato ascolto alla tua voce… ed ora che la città (Gerusalemme) sta per essere espugnata dai Caldei, perché mi ordini di comprare un campo?'' (Geremia 32. 21-25).
 La domanda del profeta è quella di tutti gli uomini e di tutte le epoche storiche, che si domandano: "Come la Redenzione potrà arrivare finché la permanenza d'Israele nella sua Terra dipende dalla sua condotta?''
 E' questo il mistero della Redenzione. D-o solo può rendere possibile quello che sembra impossibile. Difatti D-o risponde a Geremia in questi termini: "I-o sono il Signore di ogni essere e c'è forse un miracolo che mi sia impossibile fare?'' (Geremia 32.26).
 E' tempo che l'uomo ritorni alla sorgente di vita e cominci a guardare la realtà con gli occhi dell'anima e non con quelli del corpo, per apprendere un insegnamento straordinario. Egli può beneficiare di un flusso di ''benedizioni'' infinite e cominciare a gustare le primizie dell'era messianica, mettendosi in ascolto della voce del Sinài, senza paura delle sue conseguenze.
 Nel terminare la spiegazione di questa parashà, rivolgo un invito alle Nazioni del mondo perché smettano di ostacolare Israele nella realizzazione del progetto Divino nella storia.
 Nello stesso tempo estendo l'invito alla Comunità di Israele a non ''allontanarsi'' dall'osservanza della Torah e riflettere su quanto è scritto: "Essi Mi fecero provare gelosia per chi non era D-o e Mi fecero adirare con le loro vane divinità. Perciò I-o li farò diventare gelosi di gente che ''non è un popolo'', li farò irritare a causa di una nazione indegna'' (Deuteronomio 32.21). F.C.

*

 - Il capitolo 26 del Levitico introduce una novità nel modo di rapportarsi di Dio col popolo. Mai prima d'ora il Signore aveva rivolto al popolo una simile serie di terrificanti e particolareggiate minacce. Ci si può chiedere allora: perché soltanto adesso? perché Dio non aveva presentato subito al popolo i rischi che correva a stringere un patto con Lui? Si possono confrontare le parole di questo capitolo con quelle del capitolo 23 dell'Esodo, pronunciate prima della firma del contratto (Esodo 24:8). Dio chiede soltanto che si ubbidisca alla sua voce (non parla di precetti) e che si distruggano gli idoli; da parte sua s'impegna a benedire il pane e l'acqua, a cacciare i nemici dalla terra promessa, ad allontanare le malattie, e non aggiunge alcuna postilla minacciosa in caso di inadempienza da parte del popolo. Come mai?
  La cosa si spiega considerando che il patto proposto da Dio al popolo non era un contratto d'affari ma un patto d'amore di tipo matrimoniale. Oggi nei matrimoni è invalso l'uso che gli sposi si scambino pubbliche promesse. Così si può sentire lo sposo che promette alla sposa di avere sempre cura di lei e di proteggerla in tutti i modi e in ogni caso. Ma non si sentirà certo aggiungere avvertimenti del tipo: "Però ricordati che se mi tradisci con qualcun altro ti riempio di botte e ti caccio via di casa". La cosa potrebbe anche accadere in seguito, ma nel momento in cui si contrae il vincolo d'amore non ci si vuole neppure pensare.
  Supponiamo allora che la cosa invece accada e che lo sposo tradito dalla moglie decida in un primo momento di cacciarla via di casa, ma poi, per l'amore che ancora le porta, ci ripensi e decida di continuare la convivenza. A questo punto il discorso con la moglie sarà di altro tipo: adesso dovranno essere poste precise clausole di comportamento, con relative minacce in caso di inadempienza, perché a questo punto non c'è soltanto un futuro di comunione da preparare, ma anche un passato di tradimento da sanare e da impedire che si ripeta.
  Proprio questo è accaduto nella storia di Israele. Si rilegga la prima stesura del patto del Sinai contenuta nei capitoli da 19 a 31 del libro dell'Esodo, scritta su tavole fatte personalmente da Dio, senza farsi condizionare da quello che è accaduto dopo. Si vedrà un Signore che corteggia il popolo per indurlo ad accettare spontaneamente il vincolo d'amore che gli offre. Un vincolo naturalmente rispettoso della differenza che esiste e ci deve essere fra Creatore e creatura. Quel patto è stato accettato dal popolo e subito dopo violato (Geremia 31:32). Ed è stato violato proprio lì, ai piedi del monte Sinai. Ed era un patto di sangue, quindi richiedeva la morte di chi non l'avesse mantenuto.
  Il fatto del vitello d'oro non è una delle tante storie di infedeltà come quelle commesse in seguito dal popolo, così come il peccato di Adamo ed Eva non è uno dei tanti peccati che gli uomini hanno commesso e continuano a commettere nella loro vita. In entrambi i casi quei peccati si trovano all'inizio di una storia e ne costituiscono l'origine che condiziona tutto lo svolgimento successivo dei fatti. La seconda stesura del patto del Sinai, quella scritta su tavole che non Dio ma Mosè ha fatto, non deve essere fusa e confusa con la prima. I drammatici capitoli 32 e 33 dell'Esodo costituiscono uno spartiacque che non permette di tornare indietro. Si potrebbe dire che la seconda stesura del patto del Sinai sta alla prima come il patto con Noè sta al patto con Adamo. In entrambi i casi il primo patto è stato violato in origine, e in entrambi i casi con il secondo patto Dio ha rinunciato, dopo un primo momento, al proposito di distruggere.
  Secondo una linea interpretativa ebraica, il patto con Mosè è riservato agli ebrei e il patto con Noè a tutti gli altri. La cosa si può anche accettare se si pensa che entrambi i patti sono conseguenza di peccati originali: il patto con Noè è stato introdotto dal Signore per non distruggere l'umanità dopo il peccato di Adamo ed Eva, e il patto con Mosè di seconda stesura è stato stilato autonomamente da Dio, su richiesta del profeta, per non distruggere Israele dopo il peccato di Aaronne e popolo ai piedi del Sinai. Si può dire allora che il patto con Mosè ricorda ai figli d'Israele la loro posizione di peccatori davanti a Dio, e il patto con Noè ricorda la stessa cosa a tutti gli altri. In entrambi i casi si tratta dunque di patti che ricordano agli uomini il loro peccato e servono a preservare dalla distruzione, ma da soli non conducono a niente di veramente nuovo e salvifico. Legano tutti, "giudei e greci", ad un presente di male che non si riesce ad eliminare, offrendo solo qualche rimedio parziale e temporaneo che può aiutare a sopportarlo, ma non sono portatori di autentica speranza per il futuro.
  Anche la speranza però "viene dai giudei". Ma non arriva attraverso il patto con Mosè, né tanto meno attraverso quello con Noè. Il Tanach, la Bibbia ebraica, detta anche Antico Testamento, parla di un "nuovo patto".
  "Ecco, i giorni vengono, dice l'Eterno, che io farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci coi loro padri il giorno che li presi per mano per trarli fuori dal paese d'Egitto: patto che essi violarono, benché io fossi loro Signore, dice l'Eterno; ma questo è il patto che farò con la casa d'Israele, dopo quei giorni, dice l'Eterno: io metterò la mia legge nell'intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo" (Geremia 31:31-33).
  Questo nuovo patto, citato alla lettera anche nel Nuovo Testamento (Ebrei 8:8-12), è nuovo rispetto al patto con Mosè, ma è il compimento di un patto antico ricordato anche nella parashà di questa settimana:
  "Ma se allora il cuor loro incirconciso si umilierà, e se accetteranno la punizione della loro iniquità, io mi ricorderò del mio patto con Giacobbe, mi ricorderò del mio patto con Isacco e del mio patto con Abraamo, e mi ricorderò del paese" (Levitico 26:41-42).
  
Il patto veramente salvifico che dà speranza e porta benedizione al mondo non è dunque quello con Mosè, né quello con Noè, che sono patti originati da peccato, ma quello con Abramo, che scaturisce da un'originaria e unilaterale volontà salvifica di Dio. In questo patto si parla di una "grande nazione", che certamente è Israele, ma si dice anche che in lui "saranno benedette tutte le famiglie della terra" (Genesi 12:3), quindi non solo gli ebrei. Ed è in relazione ad Abramo che la Bibbia usa per la prima volta la parola "giustizia" (zedaka). Come l'ha ottenuta Abramo? Quali precetti della legge ha puntigliosamente osservato? Quali opere buone "supererogatorie" ha compiuto per meritarla? Il testo non dice nulla in proposito, ma nello stesso versetto in cui si parla per la prima volta di giustizia, si usa anche per la prima volta il verbo "credere" (aman):
  "Poi lo condusse fuori e gli disse: «Mira il cielo e conta le stelle, se le puoi contare», quindi aggiunse: «Così sarà la tua progenie». Ed egli credette all'Eterno, che gli contò questo come giustizia" (Genesi 15:5-6). M.C.

(Notizie su Israele, 26 maggio 2016)


Studenti americani ben lieti di finanziare le stragi di Hamas

Un colpo d'occhio sugli agghiaccianti frutti del veleno sparso dalle campagne anti-israeliane

Il film-maker ebreo americano Ami Horowitz ha recentemente girato sui prati della Portland State University (Oregon) una sorta di candid-camera per vedere fino a che punto è possibile spingere i sentimenti anti-israeliani degli studenti soggetti alle campagne BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele).
Fingendosi il rappresentante di una immaginaria organizzazione denominata "Amici americani di Hamas", Horowitz fermava gli studenti dicendo che stava raccogliendo donazioni per la causa di Hamas e affermando esplicitamente che i soldi donati avrebbero finanziato propositi violenti volti a promuovere la distruzione dello stato di Israele....

(israele.net, 26 maggio 2016)


Venezia: la città e il suo Ghetto selezionati da "Best in Europe"

La buona notizia di oggi riguarda la città di Venezia che, con il suo cinquecentenario Ghetto, è stata selezionata tra le destinazioni "Best in Europe", lo speciale tradotto in nove lingue, sulle dieci migliori mete nel Vecchio Continente, realizzato dalla prestigiosa guida turistica Lonely Planet le cui classifiche, da sempre, sono punto di riferimento per viaggiatori ed operatori del settore.
La notizia, ovviamente, è stata accolta con soddisfazione dall'amministrazione comunale e, particolarmente, dall'assessore al turismo Paola Mar che parla di un riconoscimento importante perché sottolinea la bellezza, tra le tante di Venezia, proprio del Ghetto, che con la sua storia ha saputo contribuire in maniera significativa alla vita cittadina mantenendo sempre la propria identità e dove si respira un'atmosfera particolare per una conformazione architettonica e urbanistica unica in città.
L'assessore ha approfittato dell'occasione per ringraziare il comitato che ha organizzato e sta gestendo, con la collaborazione dell'Amministrazione comunale, tutti gli eventi legati a questa importante ricorrenza come la cerimonia-concerto inaugurale al Teatro La Fenice, la mostra "Venezia, gli Ebrei e l'Europa. 1516-2016? e la conferenza internazionale "Birth and evolution of Venice Ghetto" entrambe a Palazzo Ducale, l'opera teatrale "Il mercante di Venezia" di Shakespeare in Campo del Ghetto nuovo.

(Venezia Radio TV, 25 maggio 2016)


Parte la quinta edizione di Start-Up Tel Aviv Boot Camp

Start Tel Aviv è un concorso internazionale promosso dal Ministero degli Affari Esteri Israeliano e la Municipalità di Tel Aviv. Il contest punta a selezionare le migliori start up di 23 Paesi del mondo e a riunirle in Israele, in un 'boot camp' (corso d'addestramento) di cinque giorni ospitato a Tel Aviv, il cuore del sistema dell'innovazione israeliano, negli stessi giorni della DLD Conference, dedicata alla tecnologia.
   L'edizione 2016 parla al mondo delle startup "in rosa" e uno dei criteri di selezione è costituito dalla composizione del team, che deve essere declinata al femminile. Insieme alle ideatrici di start up selezionate negli altri Paesi del mondo che hanno aderito all'iniziativa, la vincitrice italiana di Start Tel Aviv 2016 parteciperà al boot camp che si terrà in Israele dal 25 al 29 settembre, a margine della DLD Tel Aviv Conference.

(Notiziario Finanziario, 25 maggio 2016)


Vacanza al mare in Israele, tra spiagge, cultura e cibo

Per una vacanza dedicata al mare ed alla spiaggia, Israele offre qualità, sicurezza, tutela dell'ambiente e moltissimi comfort.

 
In Israele si è aperta ufficialmente la stagione balneare, le temperature finalmente permettono di poter godere del sole sulla pelle e del piacere del bagnarsi in mare. Sempre più belle e sicure, molte delle quali sono state premiate con la Bandiera Blu (similarmente all'Italaia), che garantisce una situazione ambientale ottimale dove la purezza dell'acqua e la sicurezza della spiaggia sono la chiave principale per ottenere questo ambito riconoscimento.
E l'attenzione all'ambiente è talmente alto che anche i porti turistici di Herzeliya e di TelAviv hanno ottenuto anch'essi la Bandiera Blu.
Le spiagge più rinomate in Israele sono la Dado di Haifa regno dei surfisti ed amata molto dai più giovani e poi Chanz, Onot, Amfy, Herzl, Sironit Nord, Sironit Sud, Laguna-Argaman, Poleg e Netanya che ha addirittura un ascensore per arrivare alla spiaggia situata al di sotto della scogliera. A Tel Aviv vi sono la spiaggia di Metzizim e Gerusalemme sul Mar Mediterraneo, la spiaggia HaKachol è a Rishon Lezion; vi sono poi quelle di Mei Ami, Oranim, Lido, Kshatot, Yod Alef, Riveria ad Ashdod e la Hash'hafim Beach a Eilat, detta anche la "spiaggia dei gabbiani" collocata sul Mar Rosso.
In tutte queste spiagge, per rispettare l'ambiente e la natura non è possibile l'utilizzo di veicoli a motore, barche ma anche moto d'acqua, a riva e neppure qualsiasi altro veicolo a motore anche in spiaggia e sul lungomare.
In alcune spiagge vi sono zone apposite dove poter stare con i propri animale sempre rispettando l'ambiente.
La tutela dei bagnanti è garantita dalla presenza di bagnini, altrimenti è vietato fare il bagno.
Altre quattro spiagge, sempre affacciate sul Mediterraneo a nord di TelAviv, sono totalmente attrezzate per persone con disabilita e sono Tzuk, Tzuk Nord, Metzizim e Hilton.
Da Israele sino a Jaffa tutte le spiagge sono attrezzate con spogliatoi, docce, servizi igienici e poi trovate anche palestre all'aperto, giochi per bambini, locali, pub, ristoranti per un ristoro adatto a tutti.
E a completare la vacanza vengono organizzati eventi e manifestazioni dove poter conoscere meglio la cultura del luogo e assaggiare tutte le varie specialità israeliane.

(Vera Classe, 25 maggio 2016)


Milano - Giornalisti ebrei e musulmani fanno formazione insieme

Ebrei e islamici assieme per la formazione e l'aggiornamento dei giornalisti italiani, affrontando temi scottanti come il corretto inquadramento e la corretta lettura delle diverse identità dell'Italia plurale, l'etica medica, la strategia della comunicazione.
In una giornata ricchissima nei contenuti e nei diversi spunti a disposizione, che si è svolta a Milano nella prestigiosa Sala del Grechetto di Palazzo Sormani, un primo centinaio di giornalisti italiani ha intrapreso un processo di conoscenza e di maturazione capace di migliorare la qualità e la credibilità delle testate per cui lavorano.
Il seminario "Mondo islamico ed ebraico a confronto: etica, bioetica, terminologia" organizzato dall'Ordine dei giornalisti della Lombardia, introdotto dal Consigliere nazionale dell'Ordine dei giornalisti Stefano Jesurum, ha visto la partecipazione di IlhamAllah Chiara Ferrero e Abd as Sabur Turrini, rispettivamente esperta di bioetica e direttore generale della Comunità religiosa islamica (Coreis) per parte islamica, del responsabile dell'area cultura dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane rav Roberto Della Rocca e del medico e Consigliere UCEI Giorgio Mortara. Assieme a loro, per offrire un quadro delle strategie di comunicazione attuate dalle istituzioni dell'ebraismo italiano, il direttore dell'area Comunicazione e della redazione giornalistica dell'Unione, Guido Vitale.

(ANSAmed, 25 maggio 2016)


Ismail e l'islam nel Pd: «Io ho una visione laica, Sumaya è conservatrice»

La portavoce somala: moschea, l'iter va rivisto, il mio islam è lontano da Sumaya.

di Pierpaolo Lio

Maryan Ismail, 56 anni, portavoce della comunità somala, è componente della segreteria metropolitana del Pd e candidata al Consiglio comunale
Sumaya Abdel Qader, 37 anni, tre lauree, è responsabile culturale del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e candidata Pd al Consiglio comunale
MILANO - «I Fratelli Musulmani non possono essere, né devono essere interlocutori dell'amministrazione. Lo dico a chiunque sarà sindaco. A maggior ragione se a essere eletto sarà Beppe Sala. Se sarò in Consiglio comunale non permetterò mai che abbiano spazio persone legate alla Fratellanza».
A lanciare l'appello è Maryan Ismail, storica portavoce della comunità somala di Milano, 56 anni, da oltre 35 in Italia. Docente di antropologia dell'immigrazione, musulmana sufi, è componente della segreteria metropolitana del Partito Democratico e candidata per l'aula di Palazzo Marino.

- Quando parla di Fratelli Musulmani si riferisce a Sumaya Abdel Qader, altra candidata pd, su cui si è polemizzato nei giorni scorsi?
  «No. È stata lei stessa a spiegare di non fare parte della Fratellanza. Anzi, a lei va la mia solidarietà per le minacce che ha subito. Però la sua visione della religione non è la mia. Siamo entrambe donne, musulmane, candidate nel Pd. Ma lei ha una visione ortodossa mentre la mia è laica».

- Si riferisce allora al Caim?
  «Certo, perché rappresenta un'ideologia religiosa wahabita, ortodossa e conservatrice che non appartiene a tutto l'Islam, e che soffoca la ricchezza culturale e religiosa del mondo musulmano. Non vorrei che Sala si ritrovasse a doversi confrontare solo con quell'interpretazione. Sarebbe un grave errore. Spero vorrà dialogare e conoscere anche le altre anime della comunità. Sarebbe drammatico che la politica non ascolti anche gli altri. Sarebbe un riproporre a Milano le lacerazioni presenti nei nostri Paesi d'origine».

- Lei aveva già criticato il Caim in passato, in occasione del bando della giunta Pisapia sui luoghi di culto. Ma secondo lei va costruita a Milano una moschea o no?
  «Ribadisco il mio sì, il diritto di culto va garantito. Ma serve una "via meneghina". Per questo spero che il prossimo sindaco riveda il percorso seguito finora. Serve una grande moschea dove siano rappresentate tutte le anime dell'lslam, dove religione e politica siano separate, e dove nessuna componente sia egemone sulle altre. E poi ci vuole un direttorio per la sua gestione che comprenda anche una rappresentanza istituzionale che vigili con attenzione. Non solo: la moschea va costruita insieme alla città. VuoI dire ascoltare i dubbi dei residenti del quartiere, magari con un questionario diffuso, e iniziare un percorso di dialogo per creare il giusto consenso».

- Quali sono gli altri punti del suo programma?
  «Vorrei lavorare sul diritto di voto alle amministrative agli stranieri lungo residenti, favorire la cultura della solidarietà e dell'accoglienza di questa città, impegnarmi su temi come le pari opportunità e il contrasto alla violenza contro le donne, oltre che su un progetto importante come il "fiume verde" immaginato da Stefano Boeri negli ex scali Fs».

(Corriere della Sera, 25 maggio 2016)


Il vero nemico di Israele è l'Iran

Teheran trasforma Hamas ed Hezbollah in un esercito allo scopo di annientare lo Stato ebraico.

di Carlo Panella

Israele è l'unica democrazia occidentale in contatto fisico, quotidiano, con i jihadisti dell'Isis e di Al Qaeda. E non solo. Ragione ulteriore per accettare l'invito per un viaggio tra i suoi massimi esperti di antiterrorismo.
   Viaggio che inizia, appunto, dalle alture del Golan, dalle quali, in una giornata di sole spazzata dal vento teso, posso vedere più di 60 chilometri della frontiera di Israele con la Siria i cui villaggi sono presidiati vuoi da Al Nusra, vuoi dall'Isis. A occhio nudo, senza binocolo, vedo i loro pick-up e minibus che pattugliano discretamente le strade a ridosso della linea di confine che parte dal monte Hermon. A sud invece, tutta la frontiera tra Israele ed Egitto pullula di miliziani di Beit al Maqdis, inseriti nell'Isis, che fanno stragi di militari egiziani, con la media di 10 al mese a El Arish, Sheikh Zuwald e Rafah. Ma anche la frontiera tra Gaza e Israele segna il confine materiale con l'Isis.
   Il generale Yoav Mordechai, coordinatore dell'esercito nei Territori, valuta infatti che l'Isis ormai conti su un migliaio di aderenti dentro la Striscia di Gaza e riceva da Hamas aiuti e supporto logistico per le sue azioni terroristiche nel Sinai. E 1'Isis, sul Golan, dispone di armi chimiche. Sia quelle prese all'esercito di Assad (che le usa tuttora, nonostante la commedia del disarmo chimico inscenata dall'Onu), che quelle che produce autonomamente a Mosul. Pure, Israele, non considera l'Isis o Al Qaeda i più pericolosi tra i suoi avversari.
   E questa è una notizia. Da qui si parte per comprendere una delle tante differenze che separano l'unica democrazia piena del Medio Oriente dal punto di vista dell'Occidente.
   Abituato a soffrire la morsa degli attentati terroristici, i più infami, sulla pelle dei propri abitanti, anche i civili, le donne, i bambini, i vecchi, Israele non ragiona sul breve periodo, come l'Europa. Ha imparato a guardare avanti e in profondità. A separare il pericolo di attacchi, anche ignominiosi, alla vita dei propri abitanti nelle città, da quello - esiziale - alla propria stessa esistenza.
   Israele è l'unico Stato al mondo che guarda a un terrorismo che punta direttamente - e lo urla a gran voce nelle moschee e sui media - a «spazzare via dalla terra l'entità sionista». Slogan - va ricordato alle anime belle del politically correct - sotto cui sfilavano pasdaran e militari iraniani nella prima parata a Teheran presieduta dal neo eletto presidente Rohani. Il «riformista».
   Nessun'altra nazione democratica al mondo guarda alla sua sicurezza in modo così ultimativo, perché in realtà è il contrasto alla negazione della sua stessa esistenza. Ma questa è l'impostazione d'obbligo, naturale, acquisita da anni, di tutti gli esperti di antiterrorismo israeliani che incontro in questo viaggio, a partire da Emmanuel Nahshon, portavoce del ministero degli Esteri, che esordisce con un poco rassicurante: «Viviamo nel terremoto e nessuno può dire cosa succederà da qui a tre mesi». Nahshon ha chiaro il contesto, la configurazione delle faglie tettoniche che si scontrano, con epicentro su Israele: «L'Europa e l'Occidente faticano a dominare la complessità dei conflitti e si rifugiano nel dogma della centralità del conflitto israelo-palestinese, panacea per tutte le strategie. Ma non è così. Il tema centrale oggi è la distruzione di Stati come la Siria, l'Iraq, lo Yemen, il conflitto devastante tra sciiti e sunniti, la fuga e l'emigrazione di decine di milioni di profughi (più di 6 milioni solo dalla Siria, milioni da Iraq e Yemen). Il tutto accompagnato dalla presa dell'islam jihadista su decine, centinaia di migliaia di musulmani.
   Viviamo in un conflitto permanente». Un conflitto che ormai lambisce l'Europa, che si illude di arginarlo con i muri per i profughi. Profughi che sono il sintomo di superficie di un terremoto ben più profondo.
   Beniamin Degan, responsabile del Center for Policy Research, ragiona sulle cause del sisma incombente partendo da un assunto: «Negli ultimi anni i parametri economici di molti paesi mediorientali sono disastrosamente crollati. Ed è in questo contesto che l'Iran sviluppa il suo programma missilistico aggressivo contro Israele, ma anche contro Turchia, Arabia Saudita, emirati del Golfo, Yemen e Egitto. E sobilla le guerre civili in Iraq, Siria e Yemen. Ma soprattutto l'Iran cura il passaggio ad una dimensione militare nettamente più aggressiva di Hamas e Hezbollah. Oggi Hezbollah dispone in Siria e in Libano di un efficiente esercito regolare con la massima professionalità, dotato di blindati e corazzati, droni, razzi e addirittura missili di media gittata».
   Il fondato timore di Israele è dunque che Hezbollah - organizzazione terroristica sia per la Ue che per gli Usa - si doti di ogive nucleari per i suoi missili, sia quelle in preparazione in Iran, sia quelle acquisibili sul mercato clandestino (dominato dalla Corea del Nord e dalle bande caucasiche).
   Questa è la vera dimensione del terrorismo su cui ragiona Israele. Questa è la ragione per cui tanta parte dell'Occidente, a partire da Barack Obama, non capisce Israele.

(Libero, 25 maggio 2016)


Cambiamenti climatici e salute. Italia e Israele a confronto

Un confronto tra esperti dei due paesi, giovedì 26 maggio all'Università Roma 3, con la presenza del ministro dell'ambiente Gian Luca Galletti, per capire come le variazioni del clima si ripercuotono sulla salute fisica e psichica. Nella tradizione ebraica l'attenzione per la natura ha radici antiche: dei 613 precetti biblici che l'ebreo dovrebbe osservare, ben 213 sono legati alla tutela della salute o al rispetto dell'ambiente.

di Eva Antoniotti

 
Si terrà giovedì 26 maggio, nella sede di Via Ostiense 234 dell'Università Roma 3, il convegno organizzato dall'associazione Beautiful Israel per mettere a confronto le esperienze e le conoscenze acquisite in Italia e in Israele sui cambiamenti climatici e sulle loro ripercussioni sulla salute e sull'ambiente. Sarà presente il Ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti, il professor Marcello Sternberg dell'Università di Tel Aviv, lo psicanalista David Meghnagi, il rabbino Gianfranco Di Segni e lo psichiatra Alberto Sonnino.
   Mettere a confronto conoscenze ma anche esperienze sul campo, per affrontare la grande sfida del futuro, proprio come hanno solennemente affermato i capi di Stato e di Governo nella Conferenza sul Clima di Parigi, lo scorso dicembre: "Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta".
   Giovedì 26 maggio, alle ore 9,30, si terrà l'introduzione di Emilio Nacamulli e David Megnhagi, seguiranno le relazioni di Marcelo Sternberg sugli effetti del cambio climatico nell'ecosistema mediterraneo, di David Megnhagi su psiche ed ecologia e di Alberto Sonnino della Società Psicoanalica Italiana (SPI) Consigliere "Italian Council for a Beautiful Israel" su clima e salute mentale.
   Il dott. Gianfranco Di Segni dell'Istituto di Biologia cellulare e Neurobiologia CNR e membro del Collegio Rabbinico Italiano affronterà il tema "Ebraismo ed ecologia". Nella cultura e nella tradizione ebraica l'attenzione per la natura ed il conseguente rispetto per l'ambiente hanno radici antiche: la custodia del mondo è, infatti, uno dei primi compiti affidati ad Adamo, che fu posto nel Giardino dell'Eden "per lavorarlo e custodirlo", come recita il versetto della Genesi. Dei 613 precetti biblici che l'ebreo dovrebbe osservare, ben 213 sono legati direttamente o indirettamente alla tutela della salute o al rispetto dell'ambiente.
   L'approccio multidisciplinare e il lavoro per sviluppare una coscienza civica fondata sul rispetto e sulla tutela della natura e dell'ambiente, attraverso interventi nelle scuole, sulla cittadinanza e nelle istituzioni sono fondamentali per l'Italian Council for a Beautiful Israel che, quest'anno, propone una approfondita riflessione scientifica su questi inderogabili temi per il futuro dell'umanità.
   Nella sessione serale, presso la sede della Comunità Ebraica di Roma, interverranno il Ministro per l'Ambiente Gian Luca Galletti, Rav Riccardo Di Segni Rabbino Capo di Roma, Amb. Dan Haezrachy Vice Capo Missione Ambasciata d'Israele, Fulvio Mamone Capria Presidente LIPU Onlus e Ruth Dureghello Presidente Comunità Ebraica di Roma.
   Massimo Finzi, medico e socio fondatore "Italian Council for a Beautiful Israel", affronterà il complesso tema delle conseguenze dei cambiamenti climatici sulla salute.
PROGRAMMA

(quotidianosanità.it, 25 maggio 2016)


Valls nega la cittadinanza a Ramadan, star islamica delle banlieue

"Voglio inviare un messaggio: l'islam è parte della Francia" dice il predicatore svizzero. Ma il premier continua a sostenere che "non c'è alcun motivo" di dare la nazionalità a Ramadan. "Quando si aspira a essere francesi, bisogna aspirare a condividere determinati valori".

di Giulio Meotti

Il Primo Ministro francese Manuel Valls
ROMA - Sulla carta, la richiesta di cittadinanza francese è più che legittima: sua moglie è francese, i suoi quattro figli pure ed è in Francia che il predicatore svizzero Tariq Ramadan è emerso nei primi anni Novanta. Ha preso la decisione di chiedere la cittadinanza dopo la proposta della privazione della stessa agli islamisti, voluta da François Hollande il 16 novembre dopo gli attentati di Parigi e mai approvata. E' allora che Ramadan ha lanciato la sua sfida al governo. "Voglio inviare un messaggio: l'islam è parte della Francia". Di questi giorni la risposta del premier Manuel Valls, che ha detto che "non c'è alcun motivo" di dare la nazionalità a Ramadan. "Quando si aspira a essere francesi, bisogna aspirare a condividere determinati valori", ha detto Valls alla radio ebraica di Parigi Radio J prima di partire per Israele. Ramadan manda "un messaggio contraddittorio" e proprio tali "ambiguità sono il terreno su cui attecchiscono violenza e radicalizzazione". Nell'intervista, Valls attacca anche Clémentine Autain, femminista e ideatrice di Ensemble, che con Tariq Ramadan ha organizzato numerosi incontri. Secondo Valls i due formano un "islamo-sinistrismo".
   Alla fine di aprile, il segretario di stato per i Rapporti con il Parlamento, Jean-Marie Le Guen, aveva pubblicato un libro in cui li accusava di "separatismo". Jean Baubérot, studioso di laicità, ha stabilito un parallelo tra Ramadan e la cultura comunista. Entrambi condividono l'idea di una egemonia culturale. E infatti Ramadan, che il 3 giugno sarà a Milano a ridosso delle elezioni comunali, ha messo in piedi una formidabile macchina di propaganda e seduzione. E' nella banlieue parigina che si trova il quartier generale di Ramadan, da cui coordina altri quattro uffici (Londra, Doha, Ginevra, Washington). Con due milioni di fan sul proprio account Facebook, autore di trenta libri e di cinquantamila audiocassette che le edizioni Tawhid hanno distribuito ai giovani delle periferie, il volto di Ramadan campeggia in un maxischermo alla cena di gala del Comitato contro l'islamofobia. Dopo un messaggio di solidarietà agli ospiti, Ramadan si offre per mettere all'asta un pranzo con lui. Cattedre in tutto il mondo, da Friburgo alla Malesia, direttore del Centro di ricerca per la legge islamica a Doha (Qatar), presidente della Rete europea musulmana (Emn), membro dell'Unione internazionale degli studiosi musulmani, star di al Jazeera come dell'iraniana Press Tv, Ramadan ha appena pubblicato "Il genio dell'islam" (Presses du Châtelet), che fa il verso al "Genio del cristianesimo" di Chateaubriand.
   "Ci sono ormai cloni di Ramadan che imitano il suo look e il suo modo di parlare", accusa Abdelaziz Chaambi, che presiede la Coalizione contro l'islamofobia, una struttura rivale. Uno dei "ragazzi" di Ramadan, Marwan Muhammad, ha appena assunto l'incarico di consulente sull'islamofobia all'Ocse a Vienna. "Quello di Ramadan è l'unico movimento intellettuale che alimenta una riaffermazione dell'identità islamica", accusa Didier Leschi, ex prefetto di Saint-Denis. Ramadan è legato a personaggi diversi fra di loro, dal pastore Jean-Claude Lenoir al guru degli indignados, il compianto Stéphane Hessel, fino al filosofo Edgar Morin, con cui ha scritto un libro nei giardini della Mamounia, hotel di lusso a Marrakech. Una macchina di propaganda ben oliata dal Qatar, "il suo sassolino nella scarpa", come dice Haoues Seniguer, ricercatore presso Sciences Po di Lione. Il Qatar promuove Ramadan per la nomina di docente all'Università di Oxford (Mediapart ne ha anche diffuso lo stipendio mensile: 4.800 euro). In realtà, gran parte del lavoro che oggi svolge è quello presso la facoltà di Scienze islamiche di Doha.
   Tariq Ramadan ci trascorre due settimane al mese. "Il Qatar ha comprato Ramadan", ha detto il politologo Vincent Geisser.
   La Francia sta facendo ancora i conti con questo enigma dal successo planetario, che ha imparato a conoscere nel dicembre 1993 a una conferenza a Bourget, quando per la prima volta apparve questo ginevrino ben vestito e dalla barba curata, dall'impeccabile francese e a proprio agio con il Corano e la laicità. Il Monde lo definì "uno choc", che Ramadan continua ad alimentare dal suo ufficio a Saint-Denis, al fianco delle tombe dei re cristiani di Francia, quel sobborgo che Gilles Kepel ha definito "la Mecca dell'islam francese".

(Il Foglio, 25 maggio 2016)


Predicatore anti-Israele. Parisi e Boeri «alleati» della comunità ebraica

Sulla rottura fra ebrei e islamici si schierano l'ex capolista del Pd e il candidato del centrodestra.

di Alberto Giannoni

 
Tariq Ramadan
Si allarga e si rafforza il fronte dei preoccupati. E si intravede qualche crepa nel mondo dei centri islamici milanesi (Caim). Sale la tensione per l'arrivo in città di Tariq Ramadan, previsto a due giorni dalle elezioni e a tre dall'inizio del mese sacro per i musulmani.
   Ramadan è un personaggio controverso. Di origini egiziane, nipote del fondatore dei Fratelli musulmani, lo scrittore ginevrino è osannato come una star carismatica dai musulmani di mezzo mondo. Al contrario, gli ebrei (ma non solo) lo considerano il campione di un islam ambiguo, bifronte e per questo insidioso. L'accusa, che gli viene rivolta anche da intellettuali importanti, è nota: avrebbe posizioni anti-israeliane che sfocierebbero nell' antisemitismo. La Comunità ebraica milanese si è mobilitata contro l'incontro del 3 giugno (promosso dall'European muslim network con il Caim alla Camera del lavoro). Ha chiesto una presa di posizione di istituzioni e partiti. E ha avvertito: le sue posizioni «sono state recentemente condannate dalla Conferenza degli imam di Francia».
   Contro l'intervento della Comunità ebraica si è scagliato il coordinatore del Caim, Davide Piccardo, che ha usato parole di fuoco: «Siamo di fronte - ha scritto - all'ennesimo tentativo di censura da parte di esponenti della comunità ebraica milanese nei confronti delle voci critiche verso Israele». Piccardo ha parlato addirittura di «squadrismo sistematico».
   La Comunità ebraica ha riposto duramente: «Sentire tale linguaggio in bocca a un esponente religioso ci preoccupa, oltre che ricordarci tempi oscuri». La Comunità si è appellata agli altri dirigenti del Caim, «perché prendano le distanze da queste parole di odio». L'appello non è stato accolto forse dai dirigenti del Caim, ma si è schierato invece Stefano Boeri, capofila di un' area importante del Pd, che è stato candidato sindaco nel 2010 e poi assessore alla Cultura dopo aver fatto registrare il record di preferenze l'anno dopo. Boeri cita la comunità ebraica milanese che ha sollevato il problema delle «posizioni integraliste» di Ramadan e ammette: «Penso che Milano, città aperta alle posizioni più diverse, sappia arricchirsi anche dei contrasti e delle polemiche, anche le più dure. Ma poi - aggiunge - leggo un post di Davide Piccardo, rappresentante del Caim che definisce come "sistematico squadrismo" le critiche della comunità ebraica a Ramadan. E mi viene subito da pensare che giudicare "squadristi" i membri di una comunità che ha pagato un prezzo immenso alla barbarie del nazifascismo, solo per avere espresso un giudizio, per quanto duro, va al di là, ben al di là dei limiti tollerabili».
   Boeri conclude con due auspici: «Mi aspetto che i rappresentanti del Caim correggano subito questo giudizio». E mi aspetto che i protagonisti della politica milanese - tutti - non stiano in silenzio». Al primo risponde Reas Syed, responsabile legale del Caim: «Le parole di Piccardo, per quanto possano essere non condivisibili, giudicano chi oggi guida la comunità ebraica meneghina. Non certo la storia della comunità ebraica in toto». Al secondo risponde Stefano Parisi, candidato sindaco del centrodestra, che definisce giusto il richiamo di Boeri. E scrive: «Grazie Stefano, servono parole chiare come le tue. È importante che la politica non sia ambigua sui temi dell'antisemitismo».

(il Giornale - Milano, 25 maggio 2016)


Anniversario - Israele, antiche emozioni

di Marcello Malfer,
Presidente Associazione Trentina Italia-Israele

Le recenti celebrazioni per il 68o anniversario dell'indipendenza dello Stato d'Israele, hanno riproposto, in tutti coloro che si sentono partecipi in vario modo delle sorti del popolo ebraico e di ciò che esso rappresenta, antiche e nuove emozioni, riflessioni, trepidazioni.
   Un rinnovato sgomento innanzi al pensiero di chi è stato travolto dalla più spaventosa ecatombe della storia del mondo consumata in un ribaltamento fuori da ogni morale e giustizia; una rinnovata ed eterna gratitudine per le migliaia di giovani militari che hanno sacrificato le loro meravigliose esistenze in difesa di quel piccolo fazzoletto di terra, che tanto significava per loro, così come per le generazioni vissute prima di loro e per quelle che sarebbero venute dopo; un rinnovato orgoglio e l'ammirazione per i meravigliosi progressi raggiunti dal piccolo Paese in molti campi, nonostante le innumerevoli difficoltà e il continuo stato di guerra; la preoccupazione per le sempre vive minacce del presente e del futuro, alimentate da un antisemitismo cieco e rabbioso che, in inquietante crescita in vari stati, va a gonfiarsi in modo impressionante ai confini di Israele, e rendendo terribilmente seri i proclami di violenza e distruzione. La ricorrenza di tale anniversario è una rinnovata e ferma determinazione a non cedere mai, a rafforzare gli sforzi di difesa della sua democrazia, della libertà, della civile convivenza, contro tutti i predicatori dell'odio. Israele - disse Rabin - non sarà mai stanca di difendersi, e mai stanca di lottare per la pace. Nella medesima intervista aggiunse che le speranze di pace saranno tanto più concrete quanto più Israele sarà forte.
   Ma qual è la forza d'Israele? Una risposta immediata fa pensare a Tsahal, il suo esercito, e questa dà una concretezza tutta particolare a quel sentimento di gratitudine prima ricordato. Ma tutti sanno che i soldati di Israele non sono soli. Accanto a loro c'è l'amore delle loro famiglie, la fratellanza dei loro compagni, il sostegno del loro popolo. Intorno a loro, il contributo di tutti coloro che, giorno dopo giorno, ora dopo ora, fanno progredire il Paese con il loro impegno, nelle fabbriche, nelle scuole, nelle fattorie, nei centri di ricerca, nei kibbutz, nelle università, nei teatri, nelle istituzioni, nei giornali, nei tribunali. Dietro di loro c'è stata la tenacia, la perseveranza, il coraggio di tutte quelle generazioni di uomini che, nei secoli, hanno mantenuto la fedeltà a un antico patto, conservando quell'apparenza e quella identità che il mondo avrebbe voluto cancellare e hanno permesso che un'idea di Alleanza, di comunità e di solidarietà restasse sempre viva e attuale, fino a rifiorire, nuova e diversa, grazie al miracolo sionista; la visione di quei pionieri che nell'ultimo secolo e mezzo hanno incominciato in Eretz Israel una nuova vita e di tutti quelli che avrebbero voluto farlo ma non hanno potuto. E se il resto del mondo è prevalentemente stato con il popolo ebraico indifferente e ingiusto, in questo suo rinnovato anniversario, Israele non dimentica quei tanti uomini di altre fedi e di altre nazioni che lo hanno difeso e hanno sostenuto la nascita del suo Stato, giusto 68 anni fa.

(Corriere del Trentino, 25 maggio 2016)


La russa Gazprom non più interessata al giacimento israeliano Leviathan nel Mediterraneo

MOSCA - La compagnia russa Gazprom non è più interessata a partecipare allo sviluppo del progetto israeliano di estrazione offshore Leviathan. Lo ha detto un rappresentante della società al quotidiano russo "Vedomosti". In passato la compagnia era in trattative per acquistare il 30 per cento del progetto da un consorzio di società operative che comprendeva l'israeliana Delek Drilling (22,67 per cento), Avner Oil & Gas (22,67 per cento), Ratio (15 per cento) e Noble Energy degli Stati Uniti (39,66 per cento). Il rappresentante di Gazprom non ha spiegato le cause che hanno portato Gazprom a perdere interesse nei confronti del progetto Leviathan. "Attualmente la compagnia russa non sta prendendo in considerazione né il Leviathan, né altri progetti in Israele", secondo quanto dichiarato dal rappresentante della compagnia di stato russa.

(Agenzia Nova, 25 maggio 2016)


Roma - Krav Maga per Tzedakà

di Claudia Sermoneta

Sulla scia del successo dello scorso anno, l'Assessorato alle politiche giovanili della Comunità ebraica di Roma, in collaborazione con la Securdan Krav Maga, ha organizzato un evento di beneficenza denominato "Krav Maga per Tzedakà" a favore dei ragazzi che volontariamente e giornalmente si adoperano per garantire la sicurezza dei luoghi più sensibili.
Una lezione di Krav Maga,il sistema ufficiale di difesa personale e di combattimento a contatto dell'esercito israeliano, che negli ultimi anni ha avuto una maggiore diffusione nelle palestre e nei centri sportivi grazie alla sua praticità ed efficacia.
Il Capo Istruttore Daniele Rossi, manager nel settore della sicurezza, grazie alla sua formazione sportiva maturata in Italia e in Israele nelle file del Maccabi e cresciuta con la sua preparazione atletica nell'ambito delle diverse e specifiche arti marziali, è uno dei massimi esperti, primo ad importare in Italia questa disciplina, un mix di tecniche di autodifesa e psicologia del confronto rendendolo fruibile ad un pubblico adulto, sempre più vasto.
L'incidenza e l'aumento casi di violenza comune e di femminicidio spingono moltissime persone a frequentare i suoi corsi, sia quelli diretti agli operatori della sicurezza sia quelli dedicati alla difesa personale, corsi specifici dedicati anche all'autodifesa femminile.
Lo stesso assieme ai suoi istruttori terrà - a titolo gratuito - questa lezione che ha riscontrato un successo inaspettato con una emissione di più di duecento biglietti.
Tutti gli acquirenti si sono prestati a una simpatica foto ricordo per sponsorizzare e supportare un evento che unisce tutta la Comunità. Una maniera per ringraziare tutti coloro che ogni giorno garantiscono sicurezza e serenità con la loro discreta presenza.

(moked, 24 maggio 2016)


Iran: possiamo distruggere Israele in pochi minuti, "peggio dell'ISIS"

di Daniele Chicca

Hassan Rohani, presidente della Repubblica islamica iraniana, ha reso noto con un discorso che l'Iran è pronto a entrare in un anno di prosperità economica dopo che il suo governo è riuscito a mantenere la promessa di far revocare le sanzioni internazionali.

NEW YORK - La Guida Suprema dell'Iran ha annunciato che il paese resta un nemico degli Stati Uniti e che continuerà a ignorare le richieste del governo americano, proseguendo nella fabbricazione del suo arsenale missilistico balistico. Il paese "sionista", fanno sapere dall'Iran, è raggiungibile dai missili del paese a guida sciita.
   L'affronto lanciato dal capo religioso iraniano è stato riferito da Ahmad Karimpour, consulente del corpo speciale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, la Quds: "Se gli ordini della Guida Surpema dovessero venire eseguiti, con le capacità e armi a nostra disposizioni, saremmo in grado di distruggere il regime sionista in meno di otto minuti".
   Per l'esercito dell'Iran l'Isis e il fronte al-Nusra, affiliato ad al-Qaeda, sono il male minore, "piccoli nemici", se confrontati alla minaccia israeliana e americana. Uno dei suoi generali ha detto chiaramente che i due violenti gruppi estremisti sono stati creati dagli americani e che Teheran è in grado di difendersi con la forza.
   Se da un lato le Guardie Rivoluzionarie rappresentano l'ala estrema conservatrice di un paese ancora non secolare, il presidente attuale Hassan Rohani rappresenta invece l'ala moderata e riformista, che tiene con l'Occidente un atteggiamento molto più conciliante. Detto questo, nonostante gli accordi di Ginevra, anche Rohani ha espresso il suo sostegno al programma missilistico dell'Iran.
   Nell'ultima puntata del Trono di Spade (Game of Thrones), la serie tv di enorme successo tratta dalla saga di fantascienza nata dalla mente di George R. Martin, si scopre che sono stati i primi cittadini abitanti di Westeros, (mondo di ispirazione medievale, fantastico ma molto simile al nostro) a creare la più grande minaccia per l'umanità: l'armata degli Estranei, i non-morti White Walkers. La speranza dei Children of Men (i Figli della Foresta nella traduzione italiana) era quella di difendersi dall'avanzata degli esseri umani e di impedirli di conquistare le loro terre.
   Allo stesso modo alcuni politologi e paesi nemici degli Stati Uniti sostengono che questi ultimi dopo aver armato e reso più potenti le forze talebane, per respingere la minaccia comunista sconfiggendo i russi in Afghanistan negli anni della Guerra Fredda, avrebbero in seguito anche gettato le basi per la nascita di al-Qaeda, nonché per quella di uno dei gruppi che oggi minacciano l'esistenza dell'intera umanità occidentale, l'ISIS, la cui idea fondatrice è nata nelle prigioni irachene controllate dagli americani durante la guerra del Golfo.

(Wall Street Italia, 24 maggio 2016)


L'obiettivo è sempre quello: invadere Israele

Per Fatah, diritto al ritorno significa diritto di stabilirsi dentro Israele invece che nello stato palestinese. E senza rinunciare agli indennizzi internazionali.

Zakaria al-Agha, membro del Comitato esecutivo dell'Olp e del Comitato centrale di Fatah, il movimento che fa capo al presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha recentemente dichiarato che il "diritto al ritorno" dei palestinesi, così come formulato nella risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è fuori discussione, e che comunque "chi ritorna ha anche il diritto di ottenere un risarcimento". "Si tratta di ritorno ed anche di risarcimento" ha detto Al-Agha. Zakaria al-Agha ha anche chiarito che per "ritorno" si intende che i profughi devono tornare "alle loro città, villaggi e case", e non nello stato palestinese che verrà istituito. L'intervista è andata in onda su Palestine TV l'11 maggio 2016. Eccone i brani salienti....

(israele.net, 24 maggio 2016)


Che regalo al terrorismo l'abbraccio del papa all'imam

L'abbraccio «di pace» del Papa all'imam amico dei kamikaze. Perfino la Boldrini prese le distanze

di Magdi Cristiano Allam

 
Un'abbraccio, il papa non lo nega a nessuno. L'uno o l'altro per lui pari sono
E' più che un tradimento dello spirito di Ratisbona, la testimonianza dell'indissolubilità di fede e ragione, che è intrinseca al cristianesimo mentre è incompatibile con l'islam. È più che uno schiaffo alla politica della schiena dritta di Benedetto XVI nei confronti dell'islam, quando nel gennaio 2011 denunciò l'ennesima strage di cristiani in Egitto. L'abbraccio in Vaticano di Papa Francesco al Grande Imam della Moschea-Università di Al Azhar, Ahmed al-Tayyeb, è una imbarazzante legittimazione di un apologeta del terrorismo islamico suicida palestinese, di un feroce predicatore di odio, violenza e morte degli ebrei e degli israeliani.
   Persino l'islamofila Laura Boldrini fu costretta lo scorso anno ad annullare un invito ufficiale ad al-Tayyeb che avrebbe dovuto tenere alla Camera una lectio magistralis dal titolo beffardo «Islam, religione di pace». Perché soltanto dopo scoprì che questo «Papa dell'islam maggioritario sunnita» disconosce la ragione e il cuore e riconosce solo ciò che Allah prescrive nel Corano e ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Quando il 3 febbraio 2015 i terroristi dell'Isis diffusero un video in cui si vedeva la scena del pilota giordano musulmano Muaz Kassasbe, catturato e arso vivo in una gabbia, al-Tayyeb emise una «fatwa», sentenza legale islamica, in cui condannava «questo vile atto terrorista, che merita la punizione prevista nel Corano per quegli aggressori corrotti che combattono Dio e il suo profeta: la morte, la crocifissione o l'amputazione delle loro mani e piedi». La sua condanna dei terroristi si basa sul versetto 33 della sura 5 del Corano che, incredibilmente, è la stessa sura invocata dai terroristi islamici per bruciare vivo il pilota giordano!
   Il 4 aprile 2002 al-Tayyeb disse: «La soluzione al terrore israeliano risiede nella proliferazione degli attacchi suicidi che diffondono terrore nel cuore dei nemici di Allah». Nel 2003 al-Tayyeb confermò: «Le operazioni di martirio in cui i palestinesi si fanno esplodere sono permesse al cento per cento secondo la legge islamica».
   Nessun cristiano vittima del genocidio islamico iniziato nel VII secolo, nessun ebreo e israeliano, principali bersagli del terrorismo islamico, potranno mai concepire che i' abbraccio tra il Papa e il Grande Imam di Al Azhar sia «un messaggio contro il terrorismo».

(il Giornale, 24 maggio 2016)


E Francesco porge l'altra guancia all'Islam

Era dai tempi del discorso di Ratzinger a Ratisbona nel quale il predecessore di Francesco collegava chiaramente la religione islamica alla violenza e dalla forte denuncia seguita all'attentato alla cattedrale copta di Alessandria dopo il quale Benedetto XVI denunciava la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente che un Imam del calibro di Ahmed al-Tayeb non si affacciava dalle parti del Vaticano. Per quel discorso Ratzinger (Benedetto XVI) fu messo in croce, accusato di islamofobia, la sua figura trasformata in fantoccio a cui dare fuoco come avvenne in Palestina e in India, il suo accostamento dell'Islam alla violenza e la sua più che giusta richiesta di "un dialogo sincero" tra Islam e Cristianesimo vennero prese dal mondo islamico (e anche da molti "progressisti" occidentali) come una offesa. La Chiesa Cattolica venne crocefissa per aver detto la verità e non aver porto l'altra guancia come ci si aspetterebbe da un "buon cristiano"....

(Right Reporters, 24 maggio 2016)


Insulti antisemiti dopo la partitella poi il pugno in faccia a un ragazzo ebreo

Milano, via Soderini, gruppo di scout con la kippah aggredito da giovani italiani del quartiere. La polizia ha evitato il peggio ma il responsabile è fuggito. Il presidente della comunità: "La vigilanza resti alta".


La partita
Alle 15 di domenica un gruppo di ragazzi scout della comunità ebraica gioca a calcio nel campo di via Soderini 47 nei pressi della sede della scuola.
Gli insulti
Da fuori arrivano gli insulti di un gruppo di giovani italiani che inveiscono contro gli scout che indossano la kippah con epiteti riferiti alla loro religione.
L'aggressione
Quando i giovani ebrei escono dal campo trovano ad aspettarli i ragazzi che passano agli spintoni. Un giovane ebreo romano viene preso a pugni.


di Zita Dazzi e Simone Bianchin

MILANO - Non avevano fatto altro che giocare a calcetto per poi andare a rinfrescarsi alla fontana. Come fanno tutti i ragazzi del mondo, dopo una partita su un campo in terra battuta, in un pomeriggio afoso. Solo che quei ragazzi al campo Olimpia di via Soderini 47, zona Frattini, avevano sul capo la kippah, la papalina di stoffa che indossano spesso gli ebrei praticanti. E questo è bastato a scatenare gli insulti di un altro gruppo di ragazzi, tutti italiani, che hanno cominciato ad inveire urlando «ebrei di m.» ai coetanei che stavano ancora in campo. I giovani scout della comunità ebraica sul momento hanno fatto finta di niente, senza rispondere alle ingiurie e alle provocazioni. Erano abbastanza tranquilli anche quando sono usciti poco dopo dalla recinzione del campetto, che si trova a poca distanza dalla sede della comunità ebraica. Ma qui ad attenderli hanno trovato di nuovo il gruppo di giovani del quartiere, che dalle parole è passato agli spintoni e alle botte.
   L'episodio è avvenuto domenica pomeriggio ed è stato registrato anche dalla pattuglia della polizia di Stato che in quel momento stava nei pressi della struttura sportiva. Pattuglia che è riuscita ad intervenire quasi subito a fermare il pestaggio, anche se non a individuare il 15enne che ha steso con un pugno un giovane della comunità ebraica di Roma, ospite a Milano, colpito al volto. L'ambulanza chiamata subito per i soccorsi ha medicato sul posto il 16enne, che non ha voluto andare in ospedale e al momento non ha sporto denuncia. Nel rapporto steso dagli agenti della volante si parla degli insulti a sfondo antisemita che tutti i ragazzi scout ebrei hanno riferito. «Purtroppo ogni tanto questi episodi avvengono — commenta il presidente della comunità ebraica Raffaele Besso — . Chi è ebreo e indossa qualche capo che individua la sua identità, rischia. Per fortuna il nostro quartiere è ben presidiato dalle forze dell'ordine, che controllano nei pressi della scuola e della comunità, oltre a continuare a girare per le strade. Ma anche questo non basta ad avere la sicurezza completa».
   Il ragazzo ferito dal pugno è rientrato a Roma e non commenta i fatti, come i suoi amici, che sono molto spaventati e sorpresi dell'aggressione, in quello che hanno sempre considerato il "loro" quartiere. La polizia sta cercando di individuare il giovane aggressore, che dai racconti dei testimoni pare esser già stato notato per i suoi comportamenti aggressivi verso altri abitanti. A poca distanza da dove è avvenuta l'aggressione di domenica, davanti a un ristorante kosher di via San Gimignano, il 12 novembre venne aggredito Nathan Graff, 40 anni, anche lui riconosciuto per la kippah, genero del rabbino Hetzkia Levi. Graff venne ricoverato all'ospedale Niguarda con sei ferite, provocate da coltellate alla schiena, al volto, alla gola e a un braccio. Anche in quel caso non si riuscì ad identificare l'aggressore. «Chiediamo alle forze dell'ordine di mantenere alta la sorveglianza sul quartiere, che come si vede da questi episodi è a rischio», commenta il presidente Besso.

(la Repubblica, 24 maggio 2016)


Meno i matrimoni e pochi i figli

C'è in Italia un preoccupante calo demografico, confermato anche dal trend nella comunità ebraica romana.

di Daniele Toscano

 
Secondo i dati ISTAT, nel 2013 in Italia sono stati celebrati 194.057 matrimoni, 13.081 in meno rispetto al 2012, per un calo di 53 mila negli ultimi cinque anni. Non solo: per la prima volta il numero dei matrimoni è sceso sotto quota duecentomila. L'unica variazione positiva è del 2012, un lieve aumento che si inserisce in una generale tendenza alla diminuzione dei matrimoni in atto dal 1972. In particolare, negli ultimi 20 anni il calo annuo è stato in media dell'1,2%. Qual è stato il ruolo della Comunità Ebraica di Roma in questi numeri?
   Negli ultimi dieci anni c'è stato un andamento altalenante, che non permette di individuare un vero e proprio trend. Considerando il totale dei matrimoni (religiosi e misti, con questi ultimi che costituiscono sempre una percentuale inferiore al 20%, considerando ovviamente solo coloro che lo denunciano) dal 2005 ad oggi la media è di 47 all'anno, con il minimo di 36 nel 2012 e il massimo di 60 nel 2008. I 51 matrimoni del 2013 e i 42 del 2014 rendono l'idea dell'assenza di una vera e propria tendenza. In altri termini, un ipotetico grafico presenterebbe una forma a zig-zag, ma senza discostarsi troppo dal centro, vista la non eccessiva discrepanza tra le cifre che si alternano.
   Ciò che può preoccupare maggiormente sono invece i dati relativi alle nascite: dai 115 del 2004, si è progressivamente scesi, fino a una media di 71 nati tra il 2012 e il 2014. I morti tra il 1997 e il 2007 sono sempre stati tra 120 e 150: numeri che suscitano quantomeno qualche perplessità in vista del futuro, con un ricambio generazionale che risulta insufficiente.
   I motivi sociali, economici e di altro genere che sono alla base di questi fenomeni demografici sono numerosi e abbastanza noti, spesso legati a processi che coinvolgono tutto il Paese. Le emigrazioni dalla Comunità di Roma, ad esempio, sono raddoppiate: ad abbandonare la Capitale erano tra le 20 e le 30 persone l'anno nel periodo compreso tra il 1997 e il 2006, mentre si riscontra una media di 60 negli ultimi 5 anni.
   Basterà mantenere stabile il numero dei matrimoni nei prossimi decenni per mantenere la solidità della più antica comunità della Diaspora? Poi ci sono anche i divorzi, ma cerchiamo di rimanere ottimisti!

(Shalom, maggio 2016)


Tunisia: forze di sicurezza schierate a Gerba per il pellegrinaggio ebraico

TUNISI - Il governo tunisino ha schierato le forze di sicurezza nell'isola di Gerba in vista della celebrazione del pellegrinaggio ebraico che si tiene ogni anno in questo periodo presso la sinagoga di Ghirba. In vista dell'arrivo di ebrei provenienti da tutta l'Europa tra domani e dopodomani, sono state prese misure di sicurezza eccezionali secondo quanto riferisce l'emittente radiofonica locale "Shems Fm". Il ministero della Difesa ha anche allestito dei centri di pronto soccorso sull'isola tunisina. L'annuale rito del pellegrinaggio ebraico alla sinagoga di Ghirba prenderà il via domani. Secondo la tradizione, la sinagoga di Ghirba è la più antica dell'Africa: è stata fondata nel 586 avanti Cristo da un gruppo di ebrei in fuga dopo la distruzione del tempio di Salomone ad opera dei babilonesi.

(Agenzia Nova, 24 maggio 2016)


«Sono degli ignoranti Giorgio salvò tanti ebrei»

di Manuel Fondato

Signora Almirante, otto anni dopo è tornata d'attualità la proposta di una strada per suo marito.
«È ammirevole la proposta di Giorgia Meloni, spero solo che questa volta si riesca a fare dal momento che anche Alemanno l'aveva lanciata senza riuscire a mantenere l'impegno. Spero che Giorgia, che mi sembra molto decisa, riesca ad andare fino in fondo».

- Anche in questo caso le reazioni contrarie sono state immediate.
  «Pacifici ha detto che su quel giornale, la "Difesa della Razza", hanno scritto molte persone che da fascisti sono diventate di sinistra. Non vedo perché ci può essere apprezzamento per loro e non per Giorgio. Lui ha una storia politica democratica lunga molti anni. Lui stesso ha riconosciuto di aver scritto articoli in età giovanile dai quali successivamente si è distaccato. Bisogna avere rispetto per chi, come Almirante, ha lavorato per il bene del paese, commettendo errori gioventù, dei quali si è pentito per poi dimostrare con la sua correttezza, onestà, capacità, di meritare un posto nella storia».

- Quali furono i rapporti di suo marito con l'ebraismo?

  «Mio marito salvò la vita a un suo amico ebreo e alla sua famiglia, che ricambiarono quando Giorgio, nel dopoguerra, fu costretto alla clandestinità. Un'altra nostra amica ebrea ha pagato di tasca sua per piantare un ulivo dedicato a lui sul monte di Gerusalemme. Non capisco francamente tutto questo astio da parte della comunità, ma sono convinta che non tutti la pensino come Pacifici. Secondo me sono problematiche superate anche all'interno della comunità essendo passati tanti anni. Tengo comunque a dire che abbiamo il massimo rispetto per la tragedia che ha subito il popolo ebraico, che comunque è stato perseguitato anche dai comunisti in Russia. È giusto che i giovani conoscano quelle tragiche vicende ma bisogna andare oltre rancori e divisioni».

- Alemanno propose anche una via a Berlinguer e una a Craxi. Lei è favorevole?

  «Assolutamente sì. A quei tempi io parlai con Alemanno proponendo un dibattito politico e storico anche insieme alla comunità ebraica, carte alla mano, per dimostrare che Almirante non ha nulla a che fare con lo sterminio del popolo ebraico. Questo dibattito venne meno per l'indisponibilità della Comunità ebraica. Ripeto, a suo tempo ci potevano essere delle ragioni storiche per determinate contrapposizioni, ora penso che sia venuto il momento di andare oltre l'odio. Dobbiamo dialogare tutti insieme senza arroccarsi ognuno sulle proprie posizioni».

(Il Tempo, 23 maggio 2016)


Israele-Egitto, gasdotto al Arish-Ashkelon, risarcimento a compagnia elettrica israeliana

GERUSALEMME - L'Egitto potrebbe presto risarcire la Israel Electric Corporation (Iec) per la mancanza di rifornimenti di gas attraverso il gasdotto al Arish-Ashkelon, bloccati da febbraio 2011. Se dovesse essere firmato, l'accordo prevede che l'Egitto paghi 865 milioni di dollari in 14 mesi, una cifra inferiore rispetto a quella richiesta dall'Iec, pari a 1,73 miliardi di dollari. La somma, versata a titolo di compenso, sarebbe stata stabilita in seguito alle trattative bilaterali durate anni. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Yediot Ahronot".
   Il gasdotto ha interrotto le forniture nel 2011, in seguito alla caduta del ex presidente egiziano Hosni Mubarak e ai numerosi attacchi, condotti da gruppi terroristici, che ne hanno compromesso il funzionamento. In quel periodo molti attivisti egiziani avevano chiesto che fossero fermati i rifornimenti ad Israele perché, secondo loro, Mubarak aveva concesso delle tariffe "molto basse".
   La firma di questo accordo rappresenterebbe un viatico alla realizzazione di altri accordi che sono rimasti fermi per più di due anni. La conduttura al Arish-Ashkelon a regime fornirebbe gas naturale ad Israele, e fa parte del Gasdotto arabo, che transita attraverso Giordania, Libano e Siria. La condotta sottomarina parte da al Arish, nel nord della penisola del Sinai, passa per Aqaba, in Giordania, e si conclude ad Ashkelon, in Israele. La lunghezza complessiva del gasdotto è 1,200 chilometri e il costo della sua costruzione ammonta a 1,2 miliardi di dollari. Il primo segmento del gasdotto, Ya Libnan, che collega al Arish con Aqaba è stato costruito nel 2003. Mentre i lavori della seconda sezione, che prosegue il tracciato fino ad Ashkelon, sono iniziati nel 2008. La conduttura appartiene al consorzio israelo-egiziano East Mediterranean Gas Company (Emg). L'accordo iniziale stabiliva che l'Egitto avrebbe fornito all'Iec 1,7 miliardi di metri cubi di gas all'anno. Secondo questi accordi Israele sarebbe diventato il principale paese importatore del gas egiziano. La capacità totale della conduttura è di 9 miliardi di metri cubi di gas.

(Agenzia Nova, 23 maggio 2016)


Israele e Parma uniti dalla musica: concerto in Palatina

La musica che unisce - Tesori del barocco ebraico

 
In un periodo storico di grande conflittualità tra culture e religioni, un messaggio di speranza arriva dalla musica. Da anni la violinista milanese Lydia Cevidalli si dedica a mettere in luce i legami nascosti, ma strettissimi, tra i compositori di area ebraica e quelli della tradizione cristiana-occidentale. Il suo instancabile impegno - che si concentra in particolare sul repertorio di barocco, di cui è tra le interpreti più autorevoli - ha sottratto all'oblio molte bellissime pagine, che la Cevidalli ha eseguito alla testa dell'Ensemble Salomone Rossi in sedi prestigiose, di recente anche al Palazzo del Quirinale in diretta su Rai Radio3 e al Festival EffettoBibbia di Bergamo.
La prossima occasione per ascoltare queste preziose riscoperte è fornita da un seminario internazionale realizzato in collaborazione con la Biblioteca Nazionale di Israele e dedicato ai Manoscritti ebraici conservati nella Biblioteca Palatina di Parma. Giovedì 26 maggio nella Sala Maria Luigia della Biblioteca Palatina si terrà un concerto dell'Ensemble Salomone Rossi, per l'occasione formato dal baritono Alessandro Nuccio, dal violoncellista Issei Watanabe, dal virtuoso di tiorba Diego Leveric, oltre che dalla stessa Cevidalli. Il variegato programma comprende le Sonate ispirate ai salmi ebraici del veneziano Benedetto Marcello, i raffinati Madrigaletti scritti dal compositore ebreo Salomone Rossi che lavorò a fianco di Claudio Monteverdi alla corte dei Gonzaga a Mantova, le gustose Villotte parodistiche del bolognese Filippo Azzaiolo, l'affascinante Cantata ebraica scritta nel 1861 a Venezia da Carlo Grossi e molto altro ancora. Il risultato è un affresco dai colori vividi, dove ritmi, melodie e armonie creano una felice integrazione culturale attraverso il linguaggio universale della musica.
Giovedì 26 maggio, ore 17.00
Parma, Biblioteca Palatina, Sala Maria Luigia
La musica che unisce - Tesori del barocco ebraico
Ensemble Salomone Rossi: Alessandro Nuccio, baritono;Lydia Cevidalli, violino; Issei Watanabe, violoncello; Diego Leveric, tiorba
Musiche di: Benedetto Marcello, Salomone Rossi, Carlo Grossi, Filippo Azzaiolo, Giovanni Giacomo Gastoldi
Ingresso libero - tel. 0521-220411

(parmadaily.it, 23 maggio 2016)


Coppie di fatto dai legali

La legge sulle unioni civili apre la porta a nuove opportunità per gli avvocati

di Roberto Miliacca

In molti hanno segnato la data dell'11 maggio ~ 2016 tra quelle da ricordare nella storia dell'ordinamento giuridico italiano. L'approvazione, da parte della Camera, della legge sulla «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze» ha, infatti, consentito all'Italia di sanare un vuoto normativo: oggi il Belpaese è il ventisettesimo Stato europeo che regolamenta le convivenze al di fuori del matrimonio e riconosce legalmente le coppie omosessuali: La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale farà iniziare a decorrere i tempi per l'adozione, da parte del governo, di una serie di provvedimenti di natura pubblicistica, di attuazione della legge. Ma la legge Cirinnà, come ampiamente illustrato anche da ltaliaOggi in questi giorni (da ultimo, la settimana scorsa, proprio da ltaliaOggi Sette), ha previsto un nuovo strumento, il contratto di convivenza, che vedrà gli avvocati e i notai parti attive nell'attuazione della legge. «I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza», si legge all'articolo 50 della legge. Si tratta, di fatto, del riconoscimento legislativo di una attività di consulenza alle famiglie nella quale i legali sono già molto spesso coinvolti per scelta dei propri assistiti. Per gli studi legali, così come emerge dall'inchiesta condotta da Affari Legali questa settimana, si tratta insomma di una nuova opportunità di lavoro su cui gli avvocati possono avere molto da dire. Molti studi, poi, specie quelli di matrice anglosassone, sono da tempo attenti al tema del sexual orientation, sia nei confronti della propria clientela che dei propri associati. E oggi, con la legge Cirinnà, ci sono anche gli strumenti normativi per le nuove tutele.

(ItaliaOggi, 23 maggio 2016)


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Divisioni razziali e unioni civili

di Marcello Cicchese

Nel settembre del 1941 la Demorazza (Direzione generale per la demografia e la razza), a tre anni dall'emanazione delle leggi razziali, inviò al sottosegretario all'Interno una relazione in cui si diceva che le leggi sui matrimoni misti erano state applicate «con scrupoloso senso del rigore», ma si ammetteva che restavano molti nodi da sciogliere. Nel rapporto era scritto:
    «Maggiori difficoltà presentano, invece, le soluzioni dei vari quesiti che dalle provincie, ove risiede il maggior numero di ebrei, vengono continuamente inoltrate e che riflettono le questioni più disparate: dalle semplici concessioni amministrative alle licenze di pubblica sicurezza, ai permessi ed alle autorizzazioni varie, alle richieste di assistenza, di ricovero, ai permessi di importazione ecc. che, specie nei riguardi degli ebrei e anche degli ariani appartenenti a famiglie miste, non sempre permettono delle soluzioni che possono conciliare la direttiva razziale colla opportunità politica e con le esigenze umanitarie quando, come spesso accade, la intransigenza razziale si risolverebbe in un grave danno, spesso essenziale per la vita di ariani o misti considerati non ebrei dalla legge. In molti casi la severità dell'applicazione può far nascere delle gravi ripercussioni nei genitori e nei fratelli di misti non ebrei, che per tale situazione, essendo in servizio militare, possono trovarsi in guerra o addirittura prigionieri o dispersi e feriti.
    Queste, e molte altre delicatissime situazioni (consorti e familiari di personalità di senatori di ex ministri, generali, ammiragli. consiglieri nazionali, eminenti scienziati ecc, genitori di caduti in guerra e decorati al valor militare nell'attuale conflitto, familiari di caduti per la rivoluzione fascista), non permettono la emanazione di uniformi e rigide disposizioni legislative razziali che, data la grande disparità e diversità delle situazioni stesse, darebbe adito a increscìoee possibilità di ingiustizie. Così, per esempio, il caso di ariane mogli di ebrei alle quali è stata inibita ogni attività che possa procacciare sostentamento alla famiglia (portieri. affittacamere, venditori ambulanti, albergatori ecc.) in evidente contrasto con le mogli ebree di ariani, personalità che, appartenendo alle classi privilegiate, non risentono alcun danno né morale né materiale dalla loro posizione razziale.» (Riccardo Calimani, "Storia degli Ebrei italiani", Vol. III, p. 566)
Leggendo queste pagine del pregevole testo di Calimani, in cui l'autore cerca di raccontare quel groviglio di problemi giuridici e umani che si accumulavano ogni giorno dopo l'emanazione delle leggi razziali, prima ancora di essere colpiti dalla loro cattiveria si è colpiti dalla loro stupidità. E viene fatto di chiedersi: ma quale forma di ottundimento collettivo aveva colpito la classe dirigente di quel tempo? Che motivo c'era, con tutte le nubi che si presentavano all'orizzonte politico in quel momento, di crearsi in piena autonomia una serie autosviluppantesi di problemi laceranti senza che ce ne fosse il minimo tornaconto, né in termini sociali né in termini politici?
   Follia, pura follia, che finisce per non essere più riconoscibile proprio a causa del suo lento, graduale estendersi a tutta la popolazione.
   Qualcosa di analogo sta accadendo oggi con l'omofilia, ma di tipo speculare. Se ieri si sono volute fare innaturali, stupide divisioni; oggi si vogliono fare innaturali, stupide unioni. Quello che è accaduto ieri alla popolazione si sta ripetendo oggi.
   Ieri la gente in massima parte era disinteressata al tema; la stessa cosa è vera oggi.
   Ieri il tema era stato portato all'attenzione e successivamente imposto attraverso leggi alla nazione da una piccola minoranza della popolazione; la stessa cosa avviene oggi.
   Il groviglio di leggi, decreti circolari per indicare che cosa si dovesse fare in una molteplicità di casi diversi l'uno dall'altro, ha portato ieri a una fioritura di malcontenti, ingiustizie, corruzioni di cui solo i peggiori si sono avvantaggiati. La stessa cosa comincia a verificarsi oggi, e già se ne presentano i segni.
   Ieri bisognava stabilire caso per caso quanto "ariana" fosse una coppia per decidere se poteva rimanere giuridicamente unita; oggi si dovrà stabilire caso per caso quanto "di fatto" sia la coppia che chiede di avere il riconoscimento giuridico.
   Come si dice nell'articolo precedente, ci sarà davvero molto lavoro da fare per avvocati e giudici. Quanti casi "interessanti" saranno sottoposti alle autorità competenti! Ne proponiamo solo uno a mo' di esempio.
   Otello e Clorinda si sposano e mettono al mondo un figlio. Dopo due anni Otello pianta moglie e figlio e senza divorziare va a convivere con Filippo per otto anni. Arrivata la legge, Filippo ne vuole approfittare e chiede che gli sia riconosciuta la coppia "di fatto" con Otello. Ne ha titolo, più di Clorinda, perché lui ha vissuto ben otto anni con Otello, cioè quattro volte più di Clorinda. Clorinda però può dire che ha vissuto due anni con Otello come coppia "di diritto", avendone avuto anche un figlio. E due anni come coppia di diritto, costituita oltretutto da un uomo e una donna che hanno messo al mondo un figlio, non valgono forse più di otto anni vissuti come coppia di fatto tra due uomini?
   Si potrà sorridere, ma di tipo simile erano i problemi giuridici che si presentavano alle autorità che al tempo del fascismo dovevano dirimere problemi di "arianità". A un certo punto la Demorazza, non sapendo più come venire fuori da una serie interminabile di casi e sottocasi intricati, fece una proposta semplificante e risolutiva: "arianizzare" tutti i membri ebrei di famiglie miste e espellere tutti gli altri. Forse un giorno, davanti al guazzabuglio di casi e sottocasi che sarà venuto a crearsi con le leggi sulle coppie di fatto unisex, si arriverà a decidere qualche sanatoria dello stesso tipo: si "fattualizzeranno" tutte le coppie, senza indicazione di sesso, che ne faranno formale richiesta "in carta bollata", come si diceva una volta.
   Follia, pura follia, che finisce per non essere più riconoscibile proprio a causa del suo lento, graduale estendersi a tutta la popolazione.
   La morale che qui si vuole trarre è semplice, quindi anche facilmente individuabile per chi vuole fare il tiro al bersaglio: l'omofilia è l'aberrazione spirituale speculare dell'antisemitismo. Con tutte le conseguenze che prima o poi ne verranno.

(Notizie su Israele, 23 maggio 2016)


Un banco di pegni di Ebrei a Vallo di Diano agli inizi del '500

Gli ebrei Daniele e Michele prestavano denaro, ricevendo in deposito dei pegni

di Arturo Didier

Non dovevano essere soddisfacenti le condizioni economiche e sociali del Vallo di Diano (SA) agli inizi del Cinquecento, se troviamo in piena funzione, nel febbraio del 1510, a Diano (Teggiano), un banco di pegni tenuto dagli ebrei Daniele e Michele, i quali prestano danaro a molti clienti provenienti da Sala, Polla, San Giacomo, Sassano, Padula, Sanza e dalla stessa Diano, ricevendo in deposito dei pegni il cui valore corrisponde più o meno al danaro dato in prestito. Il saldo del prestito deve avvenire, a seconda dei casi, entro due o al massimo undici mesi; trascorso tale periodo, i creditori insolventi incorreranno in una penale consistente nel pagamento del doppio della somma ricevuta in prestito.
   Le somme erogate oscillano da quella di 1 tarì e un grano per una pezza di fustagno a quella di 1 oncia d'oro e 20 tarì per diversi anelli d'oro ed altri oggetti di valore. L'operazione bancaria viene gestita non da Daniele e Michele ma da alcune interposte ed autorevoli persone di Diano e viene debitamente riportata in un registro di protocolli notarili del famoso notaio Giacomo Carrano.
   Ed è proprio dall'odierno Archivio Carrano di Teggiano che provengono gli 11 documenti che attestano l'esistenza del suddetto banco dei pegni a Diano nel 1510. Va detto che i clienti di questo banco (complessivamente risultano 113 persone, provenienti dai suddetti paesi) non erano dei poveri, ai quali peraltro provvedevano le locali istituzioni civili e religiose, ma semplicemente dei valligiani che certamente attraversavano un momento di indigenza per varie ragioni che non è dato di sapere. Sta di fatto che tra essi sono presenti anche un magister ed un mastro, che sono esponenti del ceto professionistico. Quanto alla tipologia dei pegni depositati dai clienti, risulta che essa comprendeva anelli d'oro, collane, tuniche, mantelli, cinture decorate, lenzuola, coperte, tovaglie, pezze di stoffa e casse.
   Quella di Teggiano è una delle rarissime attestazioni della presenza di un banco dei pegni di Ebrei nel Mezzogiorno medievale, tanto da essere evidenziata dalla rivista "Italia Judaica".

(ondanews.it, 22 maggio 2016)


Ricordare la storia. Un nuovo museo in Polonia

Lo scorso marzo, a Markowa, nel profondo sud-est della Polonia, ha inaugurato un nuovo museo dedicato a un importante capitolo storico. Una narrazione delle eroiche vicende della famiglia Ulma, i cui membri vennero fucilati dai nazisti il 24 maggio 1944. Colpevoli di aver cercato di salvare alcuni ebrei.

di Giuseppe Sedia

 
Karolina Ozog, direttrice dell'Ulma Family Museum di Markowa
 
Ulma Family Museum di Markowa
 
Ulma Family Museum di Markowa
Abbiamo incontrato Karolina Ozog, curatrice indipendente che ha lavorato all'allestimento del nuovo Museo dei polacchi che salvarono gli ebrei, il piccolo spazio espositivo a otto chilometri dal centro di Lancut, celebre per la splendida residenza settecentesca voluta dal nobile polacco Stanislaw Lubomirski.
Un'esposizione a dimensione umana, che va a completare, lontano dai centri urbani che contano, l'offerta museale in Polonia in un segmento specifico che già può avvalersi del Museo della Fabbrica di Schindler a Cracovia e del Museo di Storia degli ebrei polacchi a Varsavia.

- Com'è nata l'idea di mettere in piedi il Museo dei polacchi che salvarono gli ebrei?
  Quando mi hanno chiesto di unirmi al progetto, la parte dedicata agli Ulma era già in corso di allestimento. Tutto è cominciato da un monumento per commemorare l'eroismo di questa famiglia, voluto fortemente, qualche anno fa, da Mateusz Szpytma dell'Istituto per la Memoria Nazionale (IPN) e attualmente direttore del neonato museo. È stato possibile realizzare questo progetto anche grazie alla tenacia e all'impegno di altri protagonisti, come il cittadino israeliano Abraham Segal, uno dei sopravvissuti ai pogrom di Markowa.

- Quali sono le maggiori difficoltà incontrate nell'allestimento?
  È stato un progetto estremamente impegnativo da tutti i punti di vista. Abbiamo optato per una segnaletica in tre lingue. Oltre alla lingua polacca, le informazioni presenti nel percorso espositivo sono disponibili anche in inglese ed ebraico. Tra i vari compiti che mi sono stati assegnati, c'è stato proprio il coordinamento della traduzione in ebraico. Ma è stata una sfida difficile, soprattutto per i grafici.

- Qual è stato il suo ruolo nell'allestimento degli spazi espositivi?
  Mi sono occupata delle parti storiche dedicate alla fase prebellica e alla Seconda guerra mondiale. Durante la mia ricerca mi sono imbattuta in alcuni materiali molto interessanti. In particolare, abbiamo rispolverato il diario di Barbara Rosenberg, allora 15enne, che racconta la furia nazista abbattutasi su Przeworsk, uno dei paesini della zona, poco dopo l'invasione della Polonia. Barbara descrive l'incendio della sinagoga del suo villaggio da parte dei tedeschi. Ho ritrovato per caso una foto che documenta tale evento durante un'asta in Rete. Tutti materiali che sono stati messi a disposizione dei visitatori del museo.
Non sappiamo che cosa ne sia stato di Barbara: è probabile che sia finita, una volta e per sempre, come molti ebrei della zona, nel campo di concentramento di Belzec. "Voglio partire in America, punto e basta", sono state le ultime parole ritrovate nel diario della ragazza.

- Potrebbe fornirci qualche dato in più sulla superficie museale?
  Il museo non è affatto grande. Lo spazio espositivo a Markowa infatti misura appena 117,3 mq. Non so come sia stato possibile includere anche un piccolo ambiente per le mostre temporanee. Eppure ci siamo riusciti. Al centro del museo troviamo una ricostruzione a grandezza naturale dell'ultima abitazione degli Ulma. Alcuni elementi in mostra rimandano direttamente alla morte, come la porta di una stalla crivellata da colpi di proiettile e una fotografia macchiata di sangue ritrovata nella casa degli Ulma, subito dopo la loro fucilazione.

- Come si presenta la struttura museale all'esterno?
  Le mura del museo sono circondate da un Giardino della memoria con dieci file di alberi da frutto che rimandano, allo stesso tempo, a una delle attività del capofamiglia Jozef Ulma e, sul piano simbolico, ai corpi dei superstiti messi in salvo dalla sua famiglia. All'esterno si trova anche una targa commemorativa con la lista delle persone morte nel tentativo di aiutare la popolazione ebrea della zona.

- Il percorso espositivo fa riferimento anche gli episodi di collaborazionismo da parte dei polacchi nei pogrom antiebrei, come il massacro di Jedwabne?
  Lo spazio espositivo di Markowa è un museo dedicato alla memoria storica degli abitanti e dei luoghi della zona [il pogrom di Jedwabne ha avuto luogo nel nord-est del Paese, lontano dalla regione Podkarpackie in cui si trova Markowa, N.d.R.]. Questo non vuol dire che non ci siano stati episodi di collaborazionismo da parte dei cittadini della regione.
Il museo di Markowa è destinato a suscitare un dibattito sulla questione. Soltanto guardando alla complessità delle relazioni tra polacchi ed ebrei, sarà possibile apprezzare veramente l'eroismo della famiglia Ulma e delle altre persone impegnate a salvare delle vite il cui destino appariva già segnato sin dall'inizio della guerra.

- In che modo il Museo di Markowa intende promuovere le proprie attività educative e di divulgazione sul territorio?
  Molte scuole, anche a Tel Aviv, hanno mostrato interesse nei confronti del nostro progetto. Attualmente nella società israeliana è in corso un dibattito sul modo in cui tramandare ai giovani la memoria dell'Olocausto. In molti si stanno rendendo conto che organizzare delle visite all'estero soltanto nei luoghi dello sterminio non aiuta di certo i giovani ebrei a capire la complessità degli eventi, né sembra poter favorire un dialogo con i discendenti degli abitanti dei luoghi della tragedia.
Il Museo di Storia degli ebrei polacchi a Varsavia è stato concepito proprio con l'intento di cambiare le cose e facilitare un percorso di avvicinamento. Da parte mia, posso confermare che sto già lavorando a un'offerta formativa per insegnanti e alunni a Markowa, utilizzando dei canovacci basati su una documentazione e materiali interamente "locali" legati allo spazio espositivo.

- In che modo intendete potenziare l'offerta turistica della regione?
  Intanto posso confermare un buon riscontro da parte del pubblico. Nonostante le dimensioni lillipuziane e la carenza di collegamenti nella zona, il museo ha già superato la soglia dei 10mila visitatori due mesi dopo l'apertura. Vogliamo anche sfruttare la collocazione del museo, che si trova a pochi chilometri dallo splendido castello di Lancut, senza dimenticare che a Markowa è presente anche un interessantissimo museo etnografico all'aperto.

(ARTRIBUNE, 22 maggio 2016)


"L'antisemitismo esiste ancora in Europa". Intervista a Michael Sfaradi

di Mattia Sacchi

- Michael Sfaradi, che cos'ha scritto questa volta?
  Chi ha letto i miei libri mi conosce come scrittore di thriller e di romanzi di investigazione. In questo caso invece racconto la storia di un ragazzo che, dopo aver vissuto alcuni episodi di antisemitismo in Italia, decide di lasciare tutto per andare in Israele. Un libro che ho scritto non con l'inchiostro ma con le lacrime e il sangue.

 
Michael Sfaradi
- Un libro dai contorni autobiografici…
  Faccio parte di quella generazione, presente in tutta Europa, che tra gli anni '70 e gli '80 ha deciso di non accettare più di vivere in posti dove non si sentiva bene accetto e anzi, era straniero in casa propria. Me ne andai dall'Italia per trasferirmi in Israele a 23 anni, come tanti miei coetanei. E' stata una piccola immigrazione, 4-5000 persone. Però fanno parte della mia storia e di quella dei miei amici: non volevo andasse persa.

- Cos'era Israele per voi ragazzi ebrei?
  Una "terra promessa", dove si poteva vivere lontano dall'antisemitismo. In Israele ho incontrato persone che venivano dal Sudamerica, dall'Europa, da paesi impensabili, anche la Svizzera italiana. Ognuno aveva lasciato la propria terra natia con motivazioni differenti, ma il minimo comun denominatore era la discriminazione religiosa costante che avvertivamo nella nostra quotidianità. Eravamo stufi di vivere in quella condizione, volevamo stare in un posto dove era possibile difendersi autonomamente da qualsiasi tipo di attacco.

- In quegli anni Israele era impegnata nella guerra del Libano: non era più pericoloso che stare in Europa?
  Assolutamente no. Per gli ebrei era più rischioso essere in posti come Italia o Germania. Basti pensare agli attentati di Monaco, con i terroristi sopravvissuti che sono stati addirittura liberati e accolti come eroi in Libia. I governi europei locali scendevano a patti con i terroristi per evitare attentati sul proprio suolo nazionale: si ragionava ribaltando le responsabilità delle violenze, come se la stessa esistenza di Israele fosse una colpa. Le vittime diventavano colpevoli.

- In Israele ha trovato la "terra promessa" che cercava?
  Sotto certi aspetti sì, anche se ero cosciente che non sarebbe mai stato possibile sperare in una tranquillità completa e assoluta. Ma tutti quelli che hanno fatto il mio stesso percorso hanno sicuramente trovato un modo diverso di affrontare la vita, rispetto a quello che avrebbero fatto rimanendo nei paesi natii. Gli episodi di discriminazione ci hanno segnato, questo cambio di vita ci ha fatto crescere e diventare persone diverse. Aprendo molte possibilità che non avremmo mai avuto nei paesi d'origine.

- Ad esempio?
  Personalmente, mai avrei pensato di diventare scrittore o giornalista. In Israele ho potuto. Figuriamoci in Italia, dove la libertà di stampa è a dir poco pessima: pensate che non potevo parlare della situazione mediorientale altrimenti sarei stato immediatamente censurato. Mentre il tanto discusso Israele è uno dei pochi paesi al mondo dove la stampa araba non viene sottoposta a censura governativa.

- La convivenza tra ebrei e arabi è mai stata possibile?
  Sicuramente in questi anni si stanno deteriorando certi rapporti, ma la realtà è molto diversa all'immagine che vogliono dare i media internazionali. Io ogni sabato da ragazzo andavo al centro di Gaza per fare la spesa nello splendido mercato della città, che era piena di israeliani che convivevano in tutta serenità con i palestinesi. Anzi, eravamo ben visti perché portavamo un sacco di lavoro. Pensate che, nei conflitti del '67 e del '73, gli arabi israeliani facevano i turni doppi e gli straordinari per non chiudere le fabbriche dove lavoravano gli ebrei impegnati al fronte. Era una società multietnica che aveva reciproci vantaggi. Gli arabi delle zone di confine sapevano che con i coloni arrivavano le fabbriche, il lavoro, acqua, energia, quando la Giordania non aveva mai costruito nulla: i boicottaggi contro Israele non fanno male non solo agli israeliani ma anche agli stessi palestinesi.

- E allora come mai nonostante i trattati di pace non si riesce a far cessare le tensioni?
  Credo che alcune volte abbiano avuto per assurdo gli effetti contrari. Come quello di Oslo, che ha sezionato alcuni territori, creando divisioni e disparità all'interno della stessa popolazione palestinese, causando tensioni sociali. Tutti i miliardi arrivati dall'Europa e dagli Stati Uniti sono finiti nelle tasche di gente corrotta e non sono stati investiti nei progetti per far progredire la popolazione. Parliamo di miliardi, che dovevano avviare scuole, ospedali e infrastrutture e che invece sono finiti nel tesoro di Arafat… Ma tanto basta dire che è tutta colpa di Israele e i movimenti di massa si comportano come un'onda anomala.

- Come si esce da questa situazione?
  L'unica soluzione è la convivenza. Far convivere culture, religioni, situazioni diverse. E' la grande sfida dei prossimi anni. L'attualità internazionale racconta di ragazzi di seconda e terza generazione che provengono da famiglia musulmane e che si rendono autori di terribili atti di terrorismo. Bisogna convivere mettendo quei paletti che servono alla difesa culturale delle proprie tradizioni e del rispetto reciproco. Non possiamo cancellare il nostro passato.

- A proposito di convivenza, le politiche di molti governi europei vanno però in direzione opposta.
  Esatto. E la cosa mi preoccupa molto. Non so quanto ancora i governi europei possano continuare a pretendere che la popolazione accetti cose che la maggior parte di loro ormai non vuole più sentire. Il rischio è che la situazione sfugga di mano, con il potere che finirà in mano a chi saprà cavalcare il malcontento con politiche estremiste e ancora più dannose. La realtà è che l'Europa non è pronta a questa immigrazione di massa, gestita senza pianificazione. Ci sono decine di rapporti del Mossad che già tanti anni fa spiegavano come tra il 20% degli immigrati che arrivavano in Europa si nascondessero terroristi o cellule dormienti. Rapporti totalmente ignorati dai paesi europei.

- Torna regolarmente in Italia: c'è un differente approccio verso gli ebrei rispetto a quando è partito?
  Torno meno di un paio di settimane l'anno e posso constatare che la differenza è più dal punto di vista formale. All'epoca l'antisemitismo era comunque nascosto da un certo pudore. Che oggi manca: la gente non ti dice più che è antisemita ma che è antisionista, giustificando quindi un certo disprezzo e le critiche a Israele, qualsiasi decisione il governo israeliano prenda. Mentre lo stesso non è stato fatto verso il governo palestinese, nonostante scelte scellerate ed egoistiche prese dai loro capi di stato. Io di fronte a questo non voglio rimanere in silenzio: è nostro compito denunciare la realtà e raccontarla ai quattro venti.

(TICINOlive, 23 maggio 2016)


"Monte del Tempio, onestà sulle definizioni"

Dopo la risoluzione dell'ONU sui luoghi santi di Gerusalemme.

di Sergio Della Pergola

Il 21 aprile scorso l'Unesco ha approvato una mozione che, fra l'altro, definisce i Luoghi Santi a Gerusalemme. La mozione elimina dalla terminologia dell'Unesco l'espressione Monte del Tempio (in ebraico: Har Habayt) e indica la Spianata solo come al-Haram al-Sharif (in arabo: Il Santuario Nobile) e sede della moschea di al-Aqsa. La risoluzione è passata con 33 voti favorevoli (fra cui la Francia), 6 contrari (Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Estonia e Lituania) e 17 astenuti (fra cui l'Italia). Il governo francese ha poi dichiarato che si è trattato di un malinteso e che in futuro la cosa non si ripeterà. Ossia non ha detto che chiede di annullare la votazione, ma solamente che non voterà di nuovo a favore della stessa mozione (ora che è già stata votata). Il che vuol dire o essere o prendere il mondo per imbecilli. Da parte sua, l'astensione dell'Italia su una questione che riguarda le coscienze non solo di tutti o quasi tutti i cittadini italiani nella circoscrizione di Gerusalemme, ma anche di tutti gli Ebrei e di tutti i Cristiani al mondo, non è un atto ammissibile. Al di là della scelta di un certo codice linguistico ad esclusione di un altro, il voto dell'Unesco implica infatti la scelta di cancellare il legame cardinale fra Israele, la sua terra, e i Luoghi Santi, e con questo la storia degli ultimi 3000 anni. Ma anche il Cristianesimo risulta vittima di questo tentativo di cancellare la storia. La predicazione di Gesù, così ci è stato insegnato per 2000 anni, avveniva sulla Spianata del Tempio, e si rivolgeva criticamente agli ebrei. Oppure tutto il tempo ci siamo sbagliati e invece Gesù predicava (in arabo) ai Palestinesi a Haram al-Sharif? Il voto dell'Unesco appare come un evidente oltraggio alla storia, un'inutile provocazione ai danni del popolo ebraico e dello stato d'Israele, e un attentato alla pacifica convivenza fra i diversi popoli e le diverse religioni a Gerusalemme. L'astensione dell'Italia in questa votazione appare come un vergognoso atto di opportunismo politico, anche di fronte al voto negativo di molti importanti Paesi dell'Unione Europea e degli Stati Uniti. Chiediamo al Governo italiano, attraverso la sua rappresentanza presso l'Unesco, di far re-inserire la dicitura "del Tempio" accanto alla definizione "Spianata delle Moschee". Dopo; anzi, meglio se prima. Confrontiamoci con la storia onestamente e apertamente. Non è politica, è rettitudine etica.

(moked, 22 maggio 2016)




Gesù e il Tempio

Dai quattro Vangeli
  • Mt 21:12 - Gesù entrò nel tempio, e ne scacciò tutti quelli che vendevano e compravano; rovesciò le tavole dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombi.
  • Mt 24:12 - Mentre Gesù usciva dal tempio e se ne andava, i suoi discepoli gli si avvicinarono per fargli osservare gli edifici del tempio.
  • Mt 26:55 - In quel momento Gesù disse alla folla: «Voi siete usciti con spade e bastoni, come contro un brigante, per prendermi. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare e voi non mi avete preso;
  • Mr 11:11 - Gesù entrò a Gerusalemme nel tempio; e dopo aver osservato ogni cosa intorno, essendo già l'ora tarda, uscì per andare a Betania con i dodici.
  • Mr 11:15 - Vennero a Gerusalemme e Gesù, entrato nel tempio, si mise a scacciare coloro che vendevano e compravano nel tempio; rovesciò le tavole dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombi;
  • Mr 12:35 - Gesù, mentre insegnava nel tempio, disse: «Come mai gli scribi dicono che il Cristo è Figlio di Davide?
  • Lu 2:27 - Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le prescrizioni della legge,
  • Lu 21:37 - Di giorno Gesù insegnava nel tempio; poi usciva e passava la notte sul monte detto degli Ulivi.
  • Gv 5:14 - Più tardi Gesù lo trovò nel tempio, e gli disse: «Ecco, tu sei guarito; non peccare più, ché non ti accada di peggio».
  • Gv 7:14 - Verso la metà della festa, Gesù salì al tempio e si mise a insegnare.
  • Gv 7:28 - Gesù dunque, insegnando nel tempio, esclamò: «Voi certamente mi conoscete e sapete di dove sono; però non son venuto da me, ma colui che mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete.
  • Gv 8:20 - Queste parole disse Gesù nella sala del tesoro, insegnando nel tempio; e nessuno lo arrestò, perché l'ora sua non era ancora venuta.
  • Gv 8:59 - Allora essi presero delle pietre per tirargliele; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
  • Gv 10:23 - e Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone.
  • Gv 11:56 - Cercavano dunque Gesù; e, stando nel tempio, dicevano tra di loro: «Che ve ne pare? Verrà alla festa?»
  • Gv 18:20 - Gesù gli rispose: «Io ho parlato apertamente al mondo; ho sempre insegnato nelle sinagoghe e nel tempio, dove tutti i Giudei si radunano; e non ho detto nulla in segreto.
Se il Tempio ebraico non è mai esistito, neanche Gesù è mai esistito. Com’è allora che il suo “Vicario” sulla terra esiste? E visto che esiste, ha qualcosa da dire in proposito? E il nostro cattolico Presidente del Consiglio, che istruzioni ha dato alla delegazione italiana all’Unesco? Forse anche in questo caso avrà detto: sono cattolico, ma prima viene l’Onu, poi il Vangelo. Appoggio all’omofilia, appoggio all’antisemitismo: su questi punti di mondiale attualità il nostro governo non vuole assolutamente restare indietro. M.C.

(Notizie su Israele, 22 maggio 2016)


Nuovo messaggio dell'Isis: 'Attaccate gli Usa, i cristiani e gli ebrei'

Nuove minacce da parte dello Stato Islamico rivolte contro l'Occidente.

di Salvatore Santoru

Abu Muhammad al Adnani, il portavoce dell'Isis
I militanti dello Stato Islamico sono tornati a minacciare l'Occidente, questa volta direttamente con un messaggio audio del portavoce Muhammad al Adnani. Secondo quanto è stato riferito dal sito web antiterrorismo di Eva Katz "SITE" e riportato sul quotidiano "il Messaggero", l'ISIS ha diffuso un messaggio che invita a lottare contro gli Stati Uniti e dove si sostiene che la sola possibilità che la "coalizione anti-ISIS" ha di vincere è quella di "strappare il Corano dai nostri cuori".
Il messaggio audio di al Adnani è stato diffuso dalla Al Fuqan Media, uno dei più importanti media di proprietà dello Stato Islamico.

 Il monito all'Occidente, ai 'crociati' e agli ebrei
  Nel messaggio audio diffuso dalla "Al Furqan Media", al Adnani ha lanciato un forte monito agli Stati Uniti D'America nonché ai cristiani e agli ebrei, considerati nemici in quanto "infedeli".
Secondo quanto riportato dall'ANSA, in tale messaggio al Adnani ha affermato che "Ascoltate USA, ascoltate crociati e ascoltate ebrei, vi combatteremo, non abbiamo paura di voi, né delle vostre forze, né delle vostre minacce. Sarete sconfitti".
In tal modo, il portavoce dell'Isis ha inteso esortare i seguaci dello Stato Islamico a continuare a combattere contro l'Occidente nel nome della guerra "santa" che il Califfato sostiene di stare intraprendendo.

 Le responsabilità della politica estera USA sull'attuale situazione in Iraq e l'avanzata dell'ISIS
  Sull'attuale situazione dell'Iraq c'è da segnalare che vi sono grosse responsabilità della politica estera degli USA. Difatti, dopo la fine della guerra e la caduta del regime di Saddam Hussein, gli States non sono riusciti a preparare il paese verso una seria transizione democratica e hanno contribuito ad aizzare il malcontento nella popolazione sunnita, popolazione sunnita che si è vista discriminata dal nuovo governo sciita sostenuto dall'Iran e dagli stessi Stati Uniti.
Tale malcontento è sfociato nell'abbraccio a posizioni estremiste per alcuni settori dell'islamismo sunnita locale, ed è da questa "radicalizzazione" che sono nate formazioni estremiste come la stessa Isis.

(blastingnews, 22 maggio 2016)


Addio Nella Fortis, comunità ebraica in lutto

Impegnata nell'Associazione donne ebree d'Italia e molto conosciuta, era vedova del già rabbino capo di Livorno Bruno Polacco e madre della guida del Benè Berith toscano Gadi.

 
Bruno Polacco e Nella Fortis durante una festa per la ricorrenza ebraica del Purim
LIVORNO - Nel corso del sabato ebraico è scomparsa a 85 anni, all'ospedale di Livorno, Nella Fortis, vedova del già rabbino capo di Livorno Bruno Polacco. Pluridecennale la sua attività nel mondo delle comunità ebraiche nelle quali ha vissuto e operato: Venezia, Ferrara e Livorno. Forte il suo impegno, anche con incarichi di presidenza, nell'Adei (Associazione donne ebree d'Italia) che in una nota diffusa all'indomani della scamparsa la ricorda "valorosa e assidua componente della nostra associazione, anzi una delle sue colonne portanti per molti decenni, oltre che maestra di numerosissime generazioni di giovani ebrei livornesi che la ricordano con grande nostalgia e affetto".
   Già prima che la notizia venisse diffusa,al termine del riposo sabbatico, in molti hanno raggiunto la camera mortuaria di Livorno o hanno inviato messaggi nelle pagine social delle comunità ebraiche.
Classe 1931, Nella Fortis arrivò a Livorno nel 1960, quando il marito venne chiamato dal rabbino Alfredo Shabbetai Toaff per affiancarlo nella conduzione religiosa della comunità labronica (diverrà poi rabbino capo nel 1963,dopo la scomparsa del primo). Tra le sue attività, anche molti anni di direzione di colonie per la gioventù dell'Organizzazione sanitaria ebraica (Ose). Il figlio maggiore, Daniele, è attualmente consigliere della comunità ebraica di Livorno, mentre
   il secondogenito Gadi è ora alla guida del Benè Berith toscano nonché esponente liberale. Riposerà nel cimitero ebraico di Venezia, al Lido, accanto al marito scomparso nel 1967. Sempre al cimitero ebraico del Lido di Venezia sarà celebrato l'ultimo saluto lunedì 23 maggio a mezzogiorno.

(Il Tirreno, 22 maggio 2016)


I giorni di Exodus, 70 anni fa la partenza dal Golfo verso la vita

Maggio 1946, partono le navi degli ebrei scampati. Domani la cerimonia, poi un premio a Napolitano.

di Marco Ferrari

Settant'anni fa salparono dal Molo Pirelli della Spezia le navi "Fede" e "Fenice" che aprirono la via dell'emigrazione in Palestina degli ebrei scampati ai lager nazisti. Erano le ore lO dell'8 maggio 1946 quando le due imbarcazione con 1.014 profughi lasciarono gli ormeggi con un coro di canzoni ebraiche che si spense nel Golfo. Quelle navi raggiunsero Haifa in modo regolare, dopo un viaggio avventuroso, aprendo di fatto la strada all'emigrazione di migliaia di persone. I protagonisti di quella vicenda sono passati alla storia come i primi veri cittadini del nascente stato israeliano. n sostegno della gente, la resistenza dei profughi, l'intervento dei giornalisti e la visita a bordo di Harold Lasky, segretario del partito laburista britannico, costrinsero le autorità londinesi -le cui navi bloccavano l'uscita dal porto della Spezia - a togliere il blocco alle due imbarcazioni. Per un destino beffardo aguzzini e vittime dei campi di sterminio si trovarono poco distante sulla via del mare: all'operazione Exodus dalla Spezia corrispose l'Operazione Odessa da Genova, la fuga dei gerarchi nazisti sopravvissuti alla distruzione di Berlino. «Nella storia dell'immigrazione ebraica dalle coste europee - ha scritto Mario Toscano nel libro "La Porta di Sion" - la vicenda della Spezia segnò una svolta sotto il profilo politico e sotto quello qualitativo». Da quella mattinata La Spezia divenne per migliaia di sopravvissuti ai lager la "Porta di Sion", il porto dal quale spiccare il volo per lasciarsi alle spalle l'orrore dell'Europa e ritornare alla Terra dei Padri. Gli occhi di coloro che si erano salvati dallo sterminio e avevano conosciuto la persecuzione hitleriana, la Shoà, l'inferno dei campi di concentramento, un'esperienza che non fu a lungo raccontabile, ora guardavano al mare con la speranza di raggiungere la "Terra promessa".
   La riuscita dell'operazione portò alla costituzione nell' estate del 1946 della base operativa del Mossad a Bocca di Magra. L'accoglienza della comunità e la solidarietà delle autorità spezzine convinsero gli organizzatori del Mossad a puntare sulla Spezia con operazioni di maggior peso. Alcune imbarcazioni presero il largo dalla Spezia, da Bocca di Magra, Marina di Carrara, Genova, Bogliasco, Vado, ritornò e ripartì il Fede; nella notte tra il 7 e l'8 maggio 1947 1a nave "Trade Winds/Tikva", allestita in Portogallo, salpò dal Golfo della Spezia portando in Palestina 1.414 profughi.
Nelle stesse ore era giunta nelle acque del Golfo della Spezia la nave "President Warfield", un goffo e pesante battello da crociera adatto a portare i turisti per il Potomac, da Baltimora a Norfolk, in Virginia. Nel cantiere dell'Olivo a Portovenere fu allestita per ospitare 5 mila persone e assunse il nome di "Exodus".
   A narrarci le peripezie dei profughi dello sterminio ebreo ci ha pensato Ada Sereni nel suo libro "I clandestini del mare. L'emigrazione ebraica in terra d'Israele dal 1945 al 1948" uscito in Italia per le Edizioni Mursia nel 1973 e recentemente ristampato, da cui è stato tratto un discusso sceneggiato televisivo a puntate. Ma già nel 1958 Leon Uris pubblicò il celebre romanzo "Exodus". A "Exodus" è dedicato anche il film del 1960 di Otto Preminger interpretato da Paul Newman, Peter Lawford e Eva Marie Saint. n libro "n comandante dell'Exodus" di Yoram Kaniuk è incentrato sulla figura di Yossi Harel, il marittimo che cercò di portare a Haifa uomini, donne, bambini e orfani, volti dal sorriso indecifrabile. Nel 2007, poco prima di morire, Harel è tornato alla Spezia per ricevere il Premio Exodus.
n nome "Exodus" da allora significò il desiderio di giustizia di ogni migrazione. Ma solo con la fine del mandato britannico i profughi che si trovavano su quella nave respinta dai soldati britannici a pochi metri dalla meta sarebbero potuti entrare nella Erez Israel (terra d'Israele). Quei fatti di solidarietà è valsa la Medaglia d'Oro al merito Civile al Comune della Spezia consegnata il25 aprile 2006 dall' allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
   Cosa resta oggi di quell' episodio? Il giorno dell'anniversario, a differenza di dieci anni fa, nessuna cerimonia a Molo Pirelli, oggetto di una ristrutturazione portuale. Appuntamento rinviato a domani, 23 maggio alle 17,30 in Sala Dante con il Premio Exodus consegnato al Vescovo della Spezia Mons. Luigi E. Palletti, ai volontari della Caritas, della Croce Rossa e del Gruppo Betania Sermig Onlus, che si sono distinti per l'impegno nell' accoglienza ai profughi e rifugiati. n26 maggio a Roma verrà consegnato un altro Premio Exodus 2016 al presidente emerito Giorgio Napolitano.

(la Repubblica, 22 maggio 2016)


Sos terrorismo, l'esperto israeliano: «Tra i profughi possibili infiltrati»

di Giuseppe Crimaldi

 
Intervista a Yoram Schweitzer (a destra)
All'indomani degli attentati di Bruxelles è stato l'uomo inviato dal governo Netanyahu per fornire informazioni e collaborazione nelle indagini contro le cellule dei foreign fighters. Yoram Schweitzer è il massimo esperto israeliano in terrorismo internazionale, direttore del programma "Terrorismo e Conflitti Minori" dell'Istituto di Studi per la Sicurezza Nazionale di Tel Aviv. Da due giorni è a Napoli, dove ha partecipato a un seminario di studi organizzato in un albergo del lungomare. «Il quadro generale della situazione - esordisce - è tale da non lasciare molto spazio all'ottimismo: il terrorismo di matrice islamica, quello che considera apostati e dunque nemici tutti gli "infedeli", è pronto a colpire di nuovo. E lo farà, probabilmente, utilizzando anche nuove forme di attacchi clamorosi». Impossibile non cominciare, allora, dai misteri che ancora avvolgono l'incidente aereo del boeing Egyptair.

- Fonti governative americane, ma anche molti media francesi, parlano di un attentato. Lei che idea si è fatto su quest'ultima tragedia aerea?
  «Non sono abituato a giudicare senza avere elementi oggettivi, e in questo caso nessuno ha ancora elementi sufficienti per poter affermare che dietro l'incidente ci sia la mano del terrorismo. Se dovesse essere confermata l'ipotesi dell'attentato questa sarebbe davvero una cattiva notizia per tutti, specialmente per i sistemi di sicurezza di Francia ed Egitto. Sarebbe un fatto gravissimo, specie dopo la tragedia di Sharm el Sheik dove precipitò un aereo civile russo».

- Che cosa ci dobbiamo aspettare adesso? Come si muove la galassia del terrorismo jihadista?
  «Queste organizzazioni, che dispongono di fonti economiche ingentissime, puntano su due strumenti: l'innovazione e la sorpresa. Vogliono stupire, vogliono dimostrare di essere in grado di bypassare i sistemi di sicurezza, anche quelli più raffinati ed elevati. È il nuovo jihadismo globale. Un movimento che dispone di esperti in esplosivi e che con determinazione cambia sempre il proprio modus operandi. Per mia natura non sono mai un allarmista, e non voglio ingenerare paura: ma le capacità e le dotazioni di questi gruppi oggi sono tali da non dover essere sottovalutate».

- Esiste dunque anche un rischio legato all'impiego di armi chimiche?
  «La loro strategia è chiara. Dopo aver iniziato a spargere terrore e morte utilizzando un livello tutto sommato basso e "convenzionale", adesso studiano nuove forme di attacchi. Probabilmente anche con sostanze chimiche. L'obiettivo resta comunque quello di determinare nella gente un fortissimo choc. Dobbiamo purtroppo prendere in considerazione anche questa eventualità».

- Ma chi c'è dietro questi terribili progetti?
  «Vede, ho sempre considerato un errore considerare Al Qaeda estranea all'Isis, e viceversa. Molti continuano a credere che Al Qaeda guardi all'Occidente solo per i propri interessi economici, privilegiando i conflitti locali in Medio Oriente e in Asia. Il nuovo terrorismo ha forme molto più complesse e vuole colpire con nuovi attentati sempre più complessi e anche spettacolari».

- Quanto rischia l'Italia di fronte a queste nuove minacce?
  «A mio avviso non c'è un Paese che non rischi. Dunque anche l'Italia, che dal jidahismo è massimamente considerata come l'emblema dell'apostasia deve prendere in seria considerazione ogni fattore di rischio e calcolare che - oltre a soggetti forse già presenti sul territorio nazionale - i fattori di ulteriore pericolo possono magari venire da Paesi vicini, come la Libia, o dai Balcani».

- Esiste in Italia un rischio concreto che il terrorismo cerchi nuove sponde e magari anche alleanze con le mafie?
  «Partiamo da un presupposto: la criminalità organizzata, secondo un abusato clichè, è poco ideologizzata e punta solo a fare affari sporchi, a cominciare dal traffico di droga. Il denaro è tuttavia il più pericoloso attrattore che rende reale questa saldatura. E le occasioni possono essere rappresentate da tanti fattori: dal traffico degli esseri umani a quello delle armi, per non parlare della droga. Dove ci sono i soldi c'è anche questo pericolo: e l'Isis di soldi ne ha davvero tanti...».

- E dunque esiste anche un rischio di infiltrazioni terroristiche legate agli sbarchi dei clandestini che arrivano dal Nordafrica?
  «Certamente. Tra le migliaia di profughi che fuggono dal regime del macellaio Assad questa è una possibilità da non escludere. Napoli, inoltre, è da sempre una centrale di rifornimento di falsi documenti. Per questo serve un impegno straordinario da parte dei servizi segreti e degli organi di polizia nell'identificazione di tutti i soggetti che sbarcano in Italia. C'è bisogno di una vera e propria task force per combattere questi pericoli e prevenire ogni rischio».

(Il Mattino, 21 maggio 2016)


Auschwitz, anello e collana d'oro trovati in una tazza rubata a un ebreo deportato

I nazisti, durante la Seconda Guerra Mondiale, si divertivano anche a privare gli ebrei delle loro cose di valore, come gioielli e oggetti preziosi, oltre che privarli della loro dignità. Ebbene, dopo 70 anni è stata fatta una scoperta straordinaria: in una tazza verniciata, appartenuta a una delle tante persone uccise nel lager di Auschwitz, sono stati trovati una collana d'oro e un anello. La notizia è stata diffusa dal portavoce del museo, Pawel Sawicki, secondo cui gli oggetti preziosi sono stati notati in occasione delle attività di conservazione di oggetti smaltati trafugati dai nazisti alle persone segregate e poi uccise nel campo di sterminio di Auschwitz. Sawicki ha spiegato:

"E' altamente probabile che la tazza appartenesse a un ebreo portato nel campo per essere sterminato. La scoperta dimostra che la persona era consapevole che gli oggetti potevano essere rubati ma, allo stesso tempo, nutriva speranza che potessero essere usati in futuro".

 
La tazza ritrovata
Il fondo della tazza
L'anello
L'anello e la collana erano infagottati in un drappo e nascosti in un doppiofondo composto da un contenitore di metallo. Gli oggetti sono stati esaminati attentamente ed è stato scoperto che entrambi furono realizzati in oro. Una vecchia tazza, tutta arrugginita, ha nascosto dunque un segreto per oltre 70 anni. La tazza fa parte di una vasta collezione di reperti appartenuti alle vittime del lager di Auschwitz, che ultimamente sono stati sottoposti a manutenzione. Lo stupore è stato grande quando sono stati scoperti l'anello e la collana nel doppiofondo arrugginito della tazza. Molti ebrei nascondevano gli oggetti di valore nei loro bagagli quando venivano trasferiti nei campi di sterminio, come quello di Auschwitz, tristemente noto. Rammentiamo che tra il 1940 e il 1945 furono uccisi nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, in Polonia, 1,1 milioni di ebrei ed oltre 100.000 prigionieri. Il Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau ha reso noto che "i gioielli, come gli altri oggetti scoperti per caso, sarebbero stati accuratamente documentati e garantiti. Sono poche, comunque, le probabilità di rintracciare i proprietari, o i loro parenti, perché sugli oggetti non ci sono tracce tali da permettere di risalire a loro".
La tazza smaltata è solo una delle 12.000 tazze, ciotole, pentole e brocche custodite nel Museo, ovvero oggetti rubati dai nazisti agli ebrei arrivati nel lager di Auschwitz-Birkenau durante il Secondo Conflitto Mondiale. Hanna Kubik, membro dello staff del Museo, ha dichiarato:

"Si è scoperto che una delle tazze ha un doppio fondo, ben nascosto a causa del passar del tempo. I materiali si sono deteriorati. Il secondo fondo è separato dalla tazza".

Il direttore del museo polacco, Piotr Cywinski, ha asserito:

"Il nascondiglio degli oggetti di valore è spesso citato nei racconti dei sopravvissuti all'Olocausto. Il fatto che molti oggetti di valore furono nascosti, dimostra da un lato la consapevolezza degli ebrei della natura della deportazione; dall'altro la speranza delle famiglie ebree di poter usare tali oggetti per sopravvivere in caso di liberazione".

Forse non tutti sanno che i nazisti hanno lasciato alla Germania un'immensa quantità di oro e preziosi. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale si pensò di imballare tutto il materiale prezioso e riporlo in diversi magazzini. Sono passati 70 anni dal declino del nazismo ma la Germania detiene ancora oggetti preziosi, dipinti di immenso valore, mobili, arazzi, tappeti, libri, orologi etc. che i nazisti trafugarono agli ebrei deportati nei campi di sterminio. Secondo voi, è giusto tutto questo? E poi la Germania fa la morale agli altri! In base a una recente stima, gli oggetti rubati agli ebrei sarebbero circa 20.000, tra cui 2.300 quadri di valore. Il problema è che tali reperti non sono nascosti nei magazzini ma ostentati: molti si trovano anche nell'ufficio del presidente della Repubblica e negli uffici della Cancelleria. Nessun cancelliere tedesco, da Adenauer alla Merkel, si è preoccupato della delicata questione. Tutto il materiale dovrebbe essere restituito ai parenti delle vittime della carneficina nazista! Se vogliono fare una buona azione, i tedeschi dovrebbero vendere tutti gli oggetti preziosi di incerta provenienza, dai quadri ai libri, e devolvere il ricavato ai familiari delle vittime del nazismo.

(zz7.it, 21 maggio 2016)


Video: 68 fatti che probabilmente non conoscevate a proposito di Israele

Un video scanzonato, pieno di dati reali

Alcuni giorni fa, in occasione del 68esmo anniversario della nascita di Israele, il Ministero degli esteri di israeliano ha diffuso un video che in poco più di sei minuti propone 68 buoni motivi per festeggiare Israele: pluralismo, hi-tech, divertimento, gastronomia e molto, molto altro....

(israele.net, 21 maggio 2016)


Iran: Kim Kardashian è una minaccia alla sicurezza

Kim Kardashian
Per l'ala più conservatrice del governo, la star dei reality show in America incoraggerebbe le donne iraniane a pubblicare su Instagram immagini di sé, violando i codici di abbigliamento obbligatori e i valori morali del Paese.
Chi avrebbe mai pensato che la regina dei selfie e dei reality show americani Kim Kardashian fosse un pericolo per la sicurezza! Ebben, in Iran la pensano così. Almeno questa è l'opinione degli esponenti più conservatori del governo, secondo i quali la moglie di Kanye West incoraggerebbe le donne iraniane a pubblicare su Instagram immagini di sé, violando i codici di abbigliamento obbligatori e di conseguenza i valori morali del Paese.
A riferirlo è stato il riferisce il Financial Times. Mostafa Alizadeh - portavoce del Centro che combatte il cyber-crimine organizzato, un organismo statale - ha riferito che Kim Kardashian sta collaborando con la app Instagram proprio per attuare quel piano messo a punto da alcuni Paesi del Golfo e dal Regno Unito, che ha garantito "un sostegno finanziario serio" per prendere di mira donne e giovani.
Per mettere al sicuro la moralità del Paese, è stata lanciata l'Operazione Spider II. Circa 150 tra saloni di bellezza e studi fotografici sono stati chiusi e una trentina di modelle, truccatrici e fotografi sono ora perseguiti; otto di loro restano in carcere. Alcuni concerti sono stati cancellati e non è mancato chi è stato fermato mentre guidava per comportamento "non islamico".
Secondo Khamenei Kim Kardashian sarebbe una spia che "lavora per Instagram, in un complicato piano volto a prendere di mira giovani e donne, per corromperli con immagini che inneggiano a uno stile di vita lontano anni luce dall'Islam".

(globalist, 21 maggio 2016)


Il vero motivo del risentimento arabo verso gli ebrei
     Articolo OTTIMO!


di Fred Maroun
Fred Maroun è un giornalista canadese di origine araba orientato a sinistra, scrive tra l'altro per New Canadian Media. Maroun ha vissuto in Libano dal 1961 al 1984.
  • Il mondo arabo continua oggi a non accettare l'idea di uno Stato ebraico di qualsiasi dimensione o forma. Anche l'Egitto e la Giordania, che hanno firmato degli accordi di pace con Israele, non accettano il fatto che Israele sia uno Stato ebraico e continuano a promuovere l'odio antisemita contro Israele.
  • Durante la guerra d'indipendenza di Israele, gli ebrei furono sottoposti a pulizia etnica a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e negli anni successivi nel resto del mondo arabo.
  • Gli ebrei rivendicano il diritto ad esistere, e di esistere alla pari degli altri, sulla terra in cui vivono e che appartiene a loro da più di tremila anni.
  • Preferiamo dire che il conflitto riguarda "l'occupazione" e "gli insediamenti". Gli ebrei vedono cosa stanno facendo gli integralisti islamici ai cristiani e alle altre minoranze, che erano in Medio Oriente migliaia di anni prima della nascita del profeta Maometto.
  • Il vero motivo del risentimento arabo verso gli ebrei è dovuto al fatto che essi esistono.
Come arabi, siamo molto bravi a pretendere che i nostri diritti umani vengano rispettati, almeno quando si vive nelle democrazie liberali come in Nord America, Europa e Israele. Ma che succede quando siamo noi a non rispettare i diritti umani degli altri, in particolare degli ebrei?
  Quando esaminiamo il nostro atteggiamento nei confronti degli ebrei, storicamente e al presente, ci rendiamo conto che esso è finalizzato a negare loro il più fondamentale dei diritti dell'uomo, quello senza il quale nessun altro diritto umano è rilevante, vale a dire il diritto di esistere.

 Il diritto di Israele di esistere in Medio Oriente prima del 1948
 
                                   Nel maggio 1948, la Legione araba giordana espulse tutti i circa 2000 ebrei che vivevano
                                   nella Città Vecchia di Gerusalemme e poi ridusse in macerie il quartiere ebraico.

  Gli antisionisti spesso ribadiscono l'accusa che prima della nascita del moderno Stato di Israele, gli ebrei erano in grado di vivere in pace in Medio Oriente e che la creazione dello Stato di Israele ha generato l'ostilità araba verso gli ebrei. Questa è una bugia.
  Prima della nascita del moderno Stato di Israele, come lo storico Martin Gilbert ha scritto, "gli ebrei vivevano in condizione di dhimmi, in stato di inferiorità, anche se veniva loro accordata la possibilità di professare la propria fede sotto la protezione statale, soggetti a molte restrizioni vessatorie e umilianti nella vita quotidiana". Come ha scritto anche lo storico G.E. von Grunebaum, in Medio Oriente gli ebrei hanno dovuto far fronte a "una lunga lista di persecuzioni, confische arbitrarie, tentativi di conversioni forzate o pogrom".

 Il diritto di esistere come Stato indipendente
  Il sionismo è nato dalla necessità degli ebrei di essere padroni del loro destino: non più vittime di discriminazioni o massacri per il semplice fatto di essere ebrei. Questo progetto è stato accettato e formalmente riconosciuto dagli inglesi, ai quali era stato concesso dalla Lega delle Nazioni un mandato sulla Palestina. Il mondo arabo però non ha mai accettato il riconoscimento formulato dalla Gran Bretagna nella Dichiarazione Balfour del 1917 e nemmeno il piano di spartizione approvato dalle Nazioni Unite nel 1947, che riconosceva il diritto degli ebrei ad avere un proprio Stato.
  Il rifiuto arabo di accettare il diritto dello Stato ebraico di esistere, un diritto che ha un peso giuridico più internazionale del diritto di esistere di quasi tutti gli altri paesi, ha dato luogo a una serie di guerre, a partire dalla guerra d'indipendenza del 1948-1949. Il mondo arabo continua oggi a non accettare l'idea di uno Stato ebraico di qualsiasi dimensione o forma. Anche l'Egitto e la Giordania, che hanno firmato degli accordi di pace con Israele, non accettano il fatto che Israele sia uno Stato ebraico e continuano a promuovere l'odio antisemita contro Israele.

 Il diritto di esistere a Gaza, in Cisgiordania e Gerusalemme Est
  Nel 2005, Israele evacuò le truppe e la popolazione ebraica da Gaza, nella speranza che questo avrebbe portato alla pace, almeno su quel fronte, per permettere alla Striscia di Gaza, abbandonata dagli ebrei, di diventare una fiorente Riviera araba o una seconda Singapore, e magari fungere da modello per la Cisgiordania. L'esperimento è fallito miseramente. Questo è un caso in cui gli ebrei hanno rinunciato volontariamente al loro diritto di esistere su un pezzetto di terra, ma che purtroppo i palestinesi di Gaza non hanno preso come un'opportunità di pace ma come un segnale che se avessero continuato a sparare agli ebrei, questi se ne sarebbero andati - e così hanno continuato a sparare.
  Esistono molteplici punti di vista tra i sionisti in merito a cosa fare della Cisgiordania. C'è chi parla di completo ritiro unilaterale come a Gaza, di annessione piena e di altre alternative. Al momento, prevale lo
Tutti sanno, nonostante la sleale riscrittura della storia da parte dell'Unesco, che prima che quel fazzoletto di terra fosse chiamato Cisgiordania, fu chiamato Giudea e Samaria per più di duemila anni.
status quo, senza piani specifici per il futuro.
Tutti però sanno, nonostante la sleale riscrittura della storia da parte dell'Unesco, che prima che quel fazzoletto di terra fosse chiamato Cisgiordania, fu chiamato Giudea e Samaria per più di duemila anni.
Tutti sanno che Hebron è secondo la tradizione biblica il luogo di sepoltura dei Patriarchi e della Matriarche, i cui resti riposano all'interno della Grotta dei patriarchi, ed è considerato il secondo luogo sacro per l'Ebraismo. Ogni persona di buon senso sa che gli ebrei dovrebbero indiscutibilmente avere il diritto di esistere in questo territorio, anche se è sotto la giurisdizione araba o musulmana. Tuttavia, tutti sanno che nessun regime arabo è in grado e nemmeno disposto a proteggere la sicurezza degli ebrei che vivono sotto la propria giurisdizione dall'odio antisemita proveniente dal mondo arabo.
  Gerusalemme Est, che è stata divisa dal resto della città dal Regno di Giordania durante la guerra d'indipendenza, fa parte di Gerusalemme e lì si trova il Monte del Tempio, il sito più sacro per gli ebrei. La Città Vecchia, a Gerusalemme Est, era abitata dagli ebrei fino a quando essi furono sottoposti a pulizia etnica dalla Giordania nella guerra del 1948-1949.
  Anche se Israele ha offerto in passato per due volte - la prima sotto il premier Ehud Barak e la seconda sotto il primo ministro Ehud Olmert - Gerusalemme Est come parte di uno Stato palestinese, un'offerta simile non potrà essere avanzata di nuovo. Gli ebrei sanno che questo significherebbe una nuova ondata di pulizia etnica, che negherebbe il diritto ebraico di esistere su quel pezzo di terra in cui questo diritto è più importante che altrove.

 Il diritto di esistere ora in Medio Oriente
  Durante la guerra d'indipendenza di Israele, gli ebrei furono sottoposti a pulizia etnica a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e negli anni successivi nel resto del mondo arabo.
  Oggi, i nemici di Israele, molti dei quali arabi, mettono in discussione il suo diritto di esistere, e quindi il diritto di esistere degli ebrei, su due fronti: minacciandolo di distruzione nucleare e di annientarlo soffocandolo demograficamente.
  Il regime islamista iraniano ha ribadito più volte le sue intenzioni di distruggere Israele usando armi nucleari. Solo nel caso in cui l'Iran non abbia "successo", il cosiddetto movimento "pro-palestinese", tra cui il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), ha un piano diverso per distruggere lo Stato ebraico: un unico Stato con il "ritorno" di tutti i discendenti dei profughi palestinesi. Il rifiuto del presidente palestinese Mahmoud Abbas e del suo predecessore Yasser Arafat di accettare qualsiasi soluzione dei due Stati a loro presentata fa parte di questo piano.

 Il diritto di esistere altrove
  Gli antisionisti affermano che gli ebrei sono imperialisti in Medio Oriente, come lo furono gli inglesi e i francesi, e proprio come questi dovrebbero tornarsene a casa loro. Ovviamente, quest'analogia non è vera: in Medio Oriente, gli ebrei hanno una storia ancora più lunga di quella dei musulmani o degli arabi.
  Ma gli ebrei appartengono all'Europa, che solo pochi decenni fa ha cercato di uccidere ogni ebreo, uomo, donna o bambino? Gli ebrei appartengono al Nord America dove fino a qualche centinaio di anni fa non c'erano europei, ma solo nativi americani?
  Dire che gli ebrei "appartengono" a questi luoghi è solo un'affermazione comoda per gli antisionisti.

 Gli ebrei non si arrenderanno
  Da arabi, ci lamentiamo del fatto che i palestinesi si sentono umiliati ad attraversare i posti di blocco israeliani. Ci lamentiamo perché Israele costruisce in Cisgiordania senza il permesso palestinese e protestiamo perché Israele osa difendersi dai terroristi palestinesi. Ma quanti di noi hanno mai pensato come questa situazione si sia venuta a creare? Quanti di noi hanno il coraggio di ammettere che fare una guerra dopo l'altra contro gli ebrei al fine di negare il loro diritto di esistere, rifiutando ogni ragionevole soluzione al conflitto, ha portato alla situazione attuale?
  Il messaggio che abbiamo lanciato agli ebrei, nel corso della storia e in particolare quando hanno avuto l'audacia di voler autogovernarsi, è stato chiaro: non possiamo tollerare la vostra stessa esistenza.
  Tuttavia, gli ebrei rivendicano il diritto ad esistere, e di esistere alla pari degli altri, sulla terra in cui vivono e che appartiene a loro da più di tremila anni.
  Inoltre, negare a un popolo il diritto di esistere è un crimine di proporzioni inimmaginabili. Noi arabi facciamo credere che la nostra mancanza di rispetto per il diritto degli ebrei di esistere non sia la causa del conflitto esistente tra gli ebrei e noi. Piuttosto, preferiamo dire che il conflitto riguarda "l'occupazione" e "gli insediamenti". Gli ebrei vedono cosa stanno facendo gli integralisti islamici ai cristiani e alle altre minoranze, che erano in Medio Oriente migliaia di anni prima della nascita del profeta Maometto: yazidi, curdi, cristiani, copti, assiri, aramei e molti altri. Dove sono ora queste popolazioni autoctone dell'Iraq, della Siria e dell'Egitto? Vivono liberamente o sono perseguitare, costrette a lasciare la loro terra, massacrate dagli islamisti? Gli ebrei sanno che questo è ciò che sarebbe accaduto a loro se non avessero avuto un proprio Stato.
  Il vero motivo del risentimento arabo verso gli ebrei è dovuto alla loro esistenza. Vogliamo che gli ebrei scompaiano o siano sottomessi ai nostri caprici, ma gli ebrei rifiutano di piegarsi al nostro bigottismo e non accettano di farsi influenzare dalle nostre minacce e calunnie.
  E chi, con un briciolo di cervello, può biasimarli?

(Gatestone Institute, 19 maggio 2016)


Alunergy, in Israele spunta una batteria basata sull'alluminio

di Davide Comunello

 
TEL AVIV - Mentre le Case automobilistiche lavorano sull'elettrico e sull'idrogeno, nella Silicon Valley israeliana (a Tel Aviv e dintorni) c'è chi vuole rivoluzionare tutto con una tecnologia basata sull'alluminio: un obiettivo molto complicato da raggiungere ma altrettanto intrigante, sostenuta dall'ambizione di chi l'ha studiata - la start-up Phinergy - e dalla curiosità di diverse aziende automotive.

 L'idea
  Come ci spiega Aviv Tzidon, Ceo e fondatore dell'azienda, "Alunergy" è di fatto una soluzione fuel cell alimentata da batterie alluminio-aria: "Con un chilogrammo di alluminio, un litro d'acqua e un chilo di ossigeno possiamo sviluppare 8,1 kW", esordisce l'ideatore. Stando ai suoi calcoli, un pacco con una capacità di 50 kWh potrebbe garantire mediamente "300 o 400 km di autonomia, senza problemi per quanto riguarda l'approvvigionamento".

 La sosta in stazione
  Ovviamente, nel processo di scarica l'alluminio si consuma, ma non solo: all'interno della batteria, la reazione chimica produce idrossido di alluminio, il quale deve essere eliminato rigenerando l'elettrolita "esausto". Stando alla Phinergy, quest'ultima operazione potrebbe avvenire in soli tre minuti grazie a macchinari dalle dimensioni molto contenute: dove? Nelle normali stazioni di servizio, un'infrastruttura esistente in cui la nuova tecnologia potrebbe affiancarsi alle propulsioni tradizionali. I pellegrinaggi in stazione dipendono ovviamente dalle percorrenze: nel caso di un taxi, comunque, non si dovrebbe andare oltre la sosta quotidiana. Infine, il consumo dell'alluminio richiede la sostituzione della batteria dopo 1.500 miglia (circa 2.400 km): per semplificare la procedura, la start-up ha studiato un sistema a cassetto in grado di risolvere tutto in tre minuti.

 I costi e il modello di business
  Per far quadrare i conti, Phinergy pianifica di rivendere l'idrossido di alluminio dopo averlo separato dall'elettrolita grazie a speciali macchine sviluppate dall'Alcoa: il prodotto, infatti, è utilizzato in vari settori, ad esempio nell'industria della plastica, nel trattamento delle acque e nelle costruzioni. "Da un chilo di alluminio si ottengono tre chili di idrossido", assicura Tzidon. Aiutato dal basso costo delle batterie ("il 50% in meno rispetto agli ioni di litio") e idealmente ancorato a materie prime prodotte con energie rinnovabili, l'ecosistema israeliano potrebbe garantire costi finali "decisamente inferiori a quelli della benzina" a fronte di un impatto ambientale minimo.

 Occhi puntati
  Phinergy ha già studiato delle architetture ibride in cui un accumulatore alluminio-aria da 100 kWh può essere affiancato a una batteria tradizionale da otto, in modo da ottenere autonomie fino a 680 km: sono numeri ancora teorici, ma in linea con le prospettive dell'idrogeno. Secondo la start-up, rispetto al carburante green l'alluminio presenta diversi vantaggi, soprattutto sul fronte dello stoccaggio: in ogni caso resta la sfida infrastrutturale, peraltro condivisa dalle altre fuel cell. Solo il tempo dirà se ci troviamo di fronte a un'occasione imperdibile o a una missione impossibile: di certo, il progetto della Phinergy sta riscuotendo un certo interesse, soprattutto in Cina (dove la tecnologia potrebbe essere applicata ai bus) e nel quartier generale di un importante Costruttore europeo.

(Quattroruote, 20 maggio 2016)


Perché Israele è considerata la patria delle start-up

Il Paese ha trovato il modo di sviluppare l'imprenditorialità promuovendo la sicurezza interna.

di Stefania Medetti

 
Con una popolazione di meno di otto milioni di abitanti, Israele è considerata la patria delle start-up e, con l'esclusione di Stati Uniti e Cina, è il Paese con il maggior numero di imprese quotate al Nasdaq. In termini pro-capite, Israele conta il maggior numero di venture capital, start-up, scienziati e professionisti della tecnologia di qualsiasi altro paese del mondo. Perché? Secondo Forbes, tutto ha a che fare con la Unit 8200, una divisione di intelligence che conta circa 5000 persone e che utilizza la tecnologia più innovativa, molto spesso in situazioni di vita o di morte, senza supervisione. "Il fatto che nessuno ti dia istruzioni dà un grande libertà di pensare in un modo diverso e quando sei un imprenditore è una qualità molto importante. Quando segui cinque, dieci, venti progetti di questo tipo, hai già sperimentato con almeno tre cose che potrebbero diventare una start-up", racconta uno dei partecipanti al programma.
  Dunque, basta moltiplicare queste condizioni per migliaia di geni tecnologici e decenni di lavoro per capire come mai, secondo le stime di Forbes, oltre mille aziende sono state fondate da ex-membri della Unit 8200, da Waze a Check Point a Mirabilis e tante di queste sono state vendute per centinaia di milioni di dollari. Negli ultimi tre anni, per esempio, Microsoft ha comprato Adallom, una società specializzata nella privacy dei dati per 320 milioni di dollari; Facebook ha acquisito per 150 milioni di dollari Onavo, una società che analizza il mobile e PayPal ha speso 60milioni di dollari per CyActive, un servizio che prevede gli attacchi informatici.
  La Unit 8200 affonda le radici nella storia dei servizi segreti israeliana e, proprio per non correre il rischio che i nemici sappiano a cosa sta lavorando, è strutturata a compartimenti separati, come una galassia di start-up. Consapevole del fatto di non poter contare sulla tecnologia fornita da altri, 8200 è diventata anche il centro di ricerca e sviluppo del Paese. Il 90% dei dati su cui lavora l'intelligence israeliana, inoltre, proviene dal lavoro della Unit 8200 che è un'alternativa al servizio militare obbligatorio che dura quattro anni, mentre il team della Unit 8200 ha un turnover annuale del 25%.
  Come se non bastasse, le procedure di recruiting dei talenti contano sull'intero bacino della popolazione studentesca e i giovani possono essere selezionati già al liceo, in base al loro rendimento: si valutano matematica, lingue straniere, capacità di apprendere velocemente. Il pool di talenti, dunque, è molto più ampio rispetto a quello delle principali università del mondo che possono selezionare solo sulla base alle candidature ricevute. Ma non finisce qui. Perché i colloqui di selezione sono condotti dai soldati ventenni dell'8200 che valutano persone in grado di prendere il loro posto. Anche la mancanza di risorse economiche, in certi casi, viene utilizzata come una leva per produrre buone idee: ai nuovi team, infatti, vengono presentati problemi che i team precedenti non hanno risolto, ma senza informarli di ciò e questo è un modo per affrontare l'ostacolo da prospettive sempre nuove. Una volta finito il servizio nell'unità, i partecipanti possono essere selezionati per contribuire a nuove start-up fuori dal settore militare, semplificando a questo modo il processo di recruiting e rimettendo in gioco le competenze acquisite.

(Panorama, 20 maggio 2016)


Il giallo dei giornalisti scomparsi a Beirut

Toni e De Palo svaniti dopo Ustica e Bologna

di Gabriele Paradisi

Il 2 settembre 1980, un mese dopo la strage alla stazione di Bologna, i giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo sparirono da Beirut.
Da quel giorno di loro non si è saputo più nulla, né i loro corpi sono mai stati ritrovati. Erano partiti da Roma il 22 agosto. Intendevano svolgere un'inchiesta sul traffico d'armi e i campi di addestramento palestinesi in Libano.
Italo Toni aveva 50 anni. Era diventato famoso nel 1968 con uno scoop sui guerriglieri palestinesi in Giordania. Graziella De Palo aveva 24 anni. Era una brillante promessa del giornalismo investigativo italiano. Dal marzo 1980 scriveva per Paese Sera.
Sul tragico destino dei due giornalisti, precipitati in quel terribile groviglio politico-diplomatico che ha riguardato i rapporti tra lo Stato italiano e le organizzazioni palestinesi (l'Olp e il Fronte popolare per la Liberazione della Palestina) si è estesa l'ombra lunga del vero indicibile segreto della Repubblica, che il defunto presidente Cossiga ha chiamato il «lodo Moro», ossia gli inconfessabili patti segreti tra lo Stato italiano e i palestinesi. Il fine dell'accordo era preservare il territorio nazionale da attacchi terroristici, permettendo il libero transito di armi ed esplosivi da parte dei palestinesi e la loro liberazione nel caso fossero fermati o arrestati. Era stato Aldo Moro a tessere la sottile trama di quella "diplomazia parallela" che incarnava la "ragion di Stato" e coinvolgeva inevitabilmente gli apparati dell'intelligence, la diplomazia "ufficiale", la magistratura.
Tra i protagonisti di questa dolorosa vicenda si situa il colonnello Stefano Giovannone, capocentro del Sid, poi Sismi, a Beirut dal 1972 al 1981. Giovannone, evocato da Aldo Moro in due lettere dalla prigionia brigatista, alzò una spessa cortina fumogena intorno a tutti coloro che cercarono di indagare sulla scomparsa dei due giornalisti, famigliari compresi. I tentativi dell'allora ambasciatore italiano a Beirut Stefano D'Andrea di contrastare Giovannone risultarono vani, tanto che l'ambasciatore fu rimosso e trasferito in altra sede. Una vicenda nella quale ancora una volta la ragion di Stato, tramite la diplomazia parallela, aveva prevalso sulla diplomazia ufficiale.
Messo alle strette nell'inchiesta giudiziaria sulla scomparsa di Toni e De Palo, nel 1984 Giovannone oppose il segreto di Stato «sui rapporti a suo tempo tenuti dal Sismi con l'Olp».
Segreto di Stato ratificato dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e poi prolungato fino al limite della massima durata di 30 anni da Silvio Berlusconi. Quel segreto di Stato è scaduto il 28 agosto 2014. La nuova commissione Moro, che ha ottenuto l'estensione della Direttiva Renzi alle proprie attività di indagine, ha acquisito le carte della vicenda Toni-De Palo coperte dal segreto di Stato, ma le ha riclassificate come «segrete», rendendole di fatto inaccessibili per chiunque, a parte i 60 componenti della Commissione, che però non possono divulgarne i contenuti. Un segreto di Stato infinito?

(Il Tempo, 21 maggio 2016)


In ricordo di Marco Pannella

Il Presidente di EDIPI ci invia questo ricordo di Pannella

Pur con opinioni diverse, su un punto concordavamo con Marco: la vera amicizia per Israele.
In alcune occasioni in Italia e in particolare a Bruxelles al Parlamento Europeo avevamo più volte discusso sulla sua utopia di vedere Israele all'interno dell'Unione Europea, come unica soluzione per la situazione israeliana in Medio Oriente. A nulla sono valse le mie argomentazioni bibliche sull'assurdità di questa posizione; accettava comunque senza polemiche anche se era evidente che parlavamo due lingue diverse.
Ivan Basana

(Notizie su Israele, 21 maggio 2016)


Startup Tel Aviv Boot-Camp, si punta sulle donne

Mancano sei giorni al Wired Next Fest.

Dopo il successo degli scorsi anni, parte la quinta edizione di Startup Tel Aviv Boot-Camp, concorso destinato a giovani startupper promosso dall'Ambasciata d'Israele in Italia e la Municipalità di Tel Aviv.
Il contest punta a selezionare le migliori startup di 23 Paesi del mondo e a riunirle in Israele, in un bootcamp di 5 giorni ospitato a Tel Aviv, il cuore dell'ecosistema dell'innovazione israeliano, negli stessi giorni della DLD Conference.
   L'edizione 2016 parla al mondo delle startup in rosa e uno dei criteri di selezione è costituito dalla composizione del team, che deve essere declinata al femminile.
Insieme alle startupper selezionate negli altri Paesi del mondo che hanno aderito all'iniziativa, la vincitrice italiana di Start Tel Aviv 2016 parteciperà al bootcamp che si terrà in Israele dal 25 al 29 settembre, a margine della DLD Tel Aviv Conference.
   Conosciuto in tutto il mondo come la startup nation, Israele investe molto nel suo capitale umano: genera molte più startup dei più grandi paesi industrializzati del mondo, in termini d'investimenti pro-capite ad alto rischio attira oltre il doppio di quanto investito negli Stati Uniti e cifre 30 volte superiori in confronto a tutti i Paesi membri dell'Unione Europea messi insieme.
   Tel Aviv è la capitale commerciale di Israele e l'hub dell'innovazione israeliana, con un ecosistema che riunisce, nello stesso spazio, talenti di fama mondiale nel campo dell'innovazione tecnologica, decine d'importanti multinazionali e centinaia di startup. Il Wall Street Journal l'ha nominata hub tecnologico leader in Europa, Startup Genome l'ha indicata come il secondo miglior posto al mondo per aprire una startup e, più recentemente, Savills l'ha classificata tra le tre migliori tech cities al mondo, insieme a San Francisco e Austin .
   La DLD-Tel Aviv Digital Conference è il più grande evento di carattere internazionale organizzato in Israele sul tema della tecnologia. Vi si ritrovano centinaia di startup, VC, investitori e le più grandi multinazionali del mondo. Polo d'attrazione dei migliori talenti dell'innovazione, dei più alti investimenti di capitale ad alto rischio e dei maggiori leader di settore come Google, Microsoft, Kimberly Clark, Amazon, GM, Amdocs, Facebook e altri ancora, Tel Aviv è il posto migliore per conoscere da vicino l'intero ecosistema dell'innovazione israeliana.

(Wired, 20 maggio 2016)


Così si difende l'aeroporto più sicuro del pianeta

Siamo stati al "Ben Gurion" di Tel Aviv. "Gli attentatori di Bruxelles? Da noi non avrebbero fatto un passo nell'aeroporto".

di Giuseppe Marino

 
Tel Aviv, aeroporto Ben Gurion
TEL AVIV - I duri della sicurezza aeroportuale israeliana? Sembrano ragazzini, studenti un po' secchioni. E lo sono: a proteggere il "Ben Gurion" di Tel Aviv è un corpo di guardia interno con poteri di polizia.
   La prima interfaccia con i passeggeri ha il volto rassicurante di studenti universitari, spesso part time, che però, come è normale in Israele, devono avere svolto il servizio militare. "Preferiamo giovani e studenti, anche part time", spiega l'alto ufficiale della sicurezza aeroportuale che racconta al Giornale come si difende l'aeroporto più sicuro del mondo nel Paese con più nemici al mondo. Una lezione interessante nelle ore in cui tutta Europa si interroga su come il volo MS804 della Egyptair sia potuto sparire nel nulla, forse a causa di un'azione terroristica dai contorni ancora tutti da chiarire.
   Il governo ha dichiarato lo scalo infrastruttura strategica, anche perché essendo l'unico internazionale è il ponte che mantiene il Paese in contatto con il mondo, il che implica, tra l'altro, essere regolamentati direttamente direttamente dall'Agenzia israeliana per la sicurezza. L'intelligence del resto è il primo delle dodici cerchie di sicurezza che bisogna fanno da scudo agli aerei in transito nello scalo. "Ma è un bonus, se hai informazioni sul passeggero sospetto tanto meglio, altrimenti i nostri sono addestrati a considerare di avere sempre potenzialmente davanti a sé una valigia che contiene esplosivo o un potenziale kamikaze", spiega l'esperto.
   Lo scalo è gestito da Shmuel Zakay, ex generale della brigata Golan, l'elite della fanteria israeliana. In Israele l'attenzione alla sicurezza è una costante, ma sull'aeroporto si concentra una particolare attenzione, anche perché secondo l'intelligence israeliana sta sviluppando una strategia del terrore volta a colpire l'Occidente in un punto debole: il diritto a volare che sostiene una delle sue libertà, quella di movimento, e che lo rende interconnesso. Se la paura ci costringe con i piedi a terra, le nostre economie soffriranno sempre di più.
   Israele l'ha capito e sta rafforzando sempre più lo scudo intorno all'aeroporto, tanto che durante l'ultima operazione militare a Gaza, "Protective Edge", contro il Ben Gurion Hamas ha sparato centinaia di razzi in poche ore. Le maglie del sistema anti missili sono così fitte che l'aeroporto non è mai stato colpito, non ha chiuso e alla fine anche le compagnie straniere si sono convinte di poter continuare ad atterrare e decollare senza troppi rischi.
   Ogni attentato messo a segno in altri aeroporti occidentali viene studiato e replicato in forma simulata al Ben Gurion. "Nessuno di quegli attacchi avrebbe funzionato da noi", dice orgoglioso l'ufficiale, "Quei tipi dell'aeroporto di Bruxelles? Da noi non avrebbero fatto un passo dentro all'aeroporto".
   In effetti, oltre alle più avanzate tecnologie di sorveglianza, dai radar agli scanner, i raggi X, gli infrarossi e le telecamere che riconoscono le targhe e le controllano automaticamente su un database dei veicoli sospetti, Israele conta molto sull'addestramento del proprio personale di sicurezza, cui viene chiesto di fermare le macchine in arrivo all'aeroporto e porre semplici domande, apparentemente ingenue, come: "Lei porta con sé un'arma?". Gli addetti sono addestrati a "leggere" le reazioni anche attraverso il linguaggio del corpo e in ogni zona dell'aeroporto ci sono sia addetti alla sicurezza sotto copertura, nascosti tra i passeggeri, sia team di pronto intervento in grado di scattare in pochi secondi in caso di allarme. Un modello diventato oggetto di studio anche per le autorità aeroportuali europee, incluse quelle italiane che sono attese nei prossimi giorni a Tel Aviv per confrontare le rispettive esperienze e studiare i meccanismi del Ben Gurion.
   "Anche l'Europa dovrà adeguarsi, ad esempio adottando il database dei passeggeri schedati attraverso un numero di riconoscimento, il Pnr", dice l'ufficiale, "in questa guerra al terrore, pur mantenendo i propri valori, bisogna cedere qualcosa alle esigenze della sicurezza. O vinceranno loro".

(il Giornale, 20 maggio 2016)


Biennale, biomimesi e resilienza al padiglione di Israele

"LifeObject": fin dal titolo architettura e biologia si incontrano

 
 
Facciate viventi, autopulenti, biosensori per monitorare gli inquinanti ambientali, nanomateriali innovativi e prospettive sulla bioluminescenza: ecco alcuni dei temi proposti alla Biennale di Venezia
   Architettura, biologia e le loro ibridazioni. È una panoramica vorticosa quella offerta dal padiglione di Israele alla Biennale di Venezia. Dalla scala microscopica degli organismi unicellulari alla resilienza di quello spicchio di Medio Oriente provato da conflitti e cambiamenti climatici di portata epocale, toccando le prospettive della biomimesi in architettura.
   Le intenzioni del padiglione sono di configurarsi come una piattaforma di ricerca, uno stadio in divenire a tutti gli effetti, variamente connesso al tema centrale: "LifeObject: Merging Architecture and Biology". Il panel di curatori per il padiglione israeliano dell'edizione 2016 comprende gli architetti Bnaya Bauer, Arielle Blonder, Noy Lazarovich e lo scienziato Ido Bachelet, coordinati da Yael Eylat Van-Essen.
   Da loro è partita l'idea di invitare un gruppo di 7 tra architetti e scienziati, tra i quali figura il prof. Dan Shechtman, premio Nobel per la chimica nel 2011 grazie agli importanti studi sui cristalli quasiperiodici.
   A loro si devono le installazioni e tutto l'ampio ventaglio di materiale dell'esibizione, da progetti e idee che possono verosimilmente venire implementate fin da subito, fino a quelle che vengono definite "nuove visioni per il futuro". Più nel dettaglio, si spazia dall'impiego di nanomateriali per il controllo naturale della trasparenza negli edifici situati nell'ambiente desertico all'uso - vagamente spaesante - di tecniche di trattamento del cancro per affrontare l'aumento della densità urbana.
   Al centro del padiglione domina la scena il LifeObject che riassume ed esemplifica il resto dell'esibizione e mette fin da subito la biomimesi in primo piano: una struttura autoportante ispirata alla scansione 3D di un nido d'uccello. Questa struttura combina materiali di differenti origini - composti e leghe, ma anche materiale biologico - e funzioni (ad esempio dispositivi intelligenti integrati).
   Altra sezione di estremo interesse è il "cabinet de curiosités". Il nome di gusto barocco anticipa una Wunderkammer di oggetti, ipotesi di lavoro ma anche idee non prive di ambiguità. Un esempio su tutti, la possibilità di trasformare in sensori ambientali dei batteri geneticamente modificati. L'esempio presente al padiglione unisce un "elemento senziente" - una molecola che si attiva in presenza di composti tossici - e un "elemento rispondente", qui un gene derivato da una specie di medusa che viene attivato dalla molecola e stimola l'organismo a sintetizzare una proteina verde fluorescente.
   La bioluminescenza ottenuta, spiegano gli organizzatori del padiglione israeliano della Biennale, potrebbe essere impiegata per creare delle "sentinelle in tempo reale" per il monitoraggio della qualità di acqua, aria, terreno o cibo. Più o meno su questa lunghezza d'onda prosegue il "cabinet". Dei minuscoli invertebrati acquatici, appartenenti al phylum dei Briozoi, capaci di architettare colonie fatte di strutture estremamente complesse, per creare facciate viventi e nuovi materiali da costruzione. O ancora si ipotizza di migliorare la sostenibilità complessiva di un edificio sfruttando i funghi responsabili della carie del legno, grazie alla loro azione scolorante che deriva dalla capacità di "digerire" la lignina e altre molecole con strutture simili.

(Rinnovabili.it, 20 maggio 2016)


Pacifici: "Pannella ha insegnato agli ebrei a non isolarsi"

L'intervento dell'ex capo della Comunità di Roma: «Con noi un rapporto privilegiato».

di Riccardo Pacifici

L'ex presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, con Marco Pannella
Difficile fare una sintesi di ciò che Marco Pannella ha rappresentato per noi ebrei.
Negli anni 70/80 in cui imperava il pensiero unico, figlio delle politiche catto-comuniste, l'Italia intera era prostrata al filo arabismo.
Yasser Arafat, fondatore e capo assoluto dell'organizzazione terroristica dell'OLP veniva ricevuto con tutti gli onori nel nostro Paese nonostante un Mandato cattura internazionale per forniture armi alle Brigate Rosse.
Chiunque volesse sostenere in quegli anni le ragioni dello Stato d'Israele, unica democrazia in medio oriente, nel migliore dei casi gli veniva impedito parlare in altri rischiava il linciaggio. Specie nelle università.
Marco Pannella ed il Partito Radicale decisero come loro stile di andare controcorrente. Ai Congressi del Partito Radicale i banchetti degli amici d'israele erano sempre aperti e a noi studenti ebrei veniva concesso poter parlare su Israele.
Marco aveva un rapporto privilegiato, poi che con i leader della comunità, in particolare con il nostro rabbino capo Elio Toaff z.l. ma soprattuto con tutta la base. Ed ogni volta veniva accolto nel Portico D'Ottavia con affetto e onore.
Mai dimenticherò la sua accoglienza, dopo l'attentato alla Sinagoga del 9 ottobre 1982. Un privilegio concesso solo a lui e Giovanni Spadolini. Gli unici a rappresentare quelle forze politiche che mai si erano allineate all'odio antisionista.
Con Marco ed Emma Bonino, si anticiparono anche i temi d'israele non solo sotto gli aspetti politici. Israele era avamposto di progresso , di ricerca e soprattutto sui temi dell'ambiente che ancora oggi sono il pilastro del l'agenda politica israeliana.
Marco Pannella ci ha insegnato a non temere i nostri nemici e detrattori. Ci ha incoraggiati a non isolarci e se oggi le nostre comunità godono maggior rispetto nel dibattito società civile, lui ha certamente una porzione di merito
Grazie Marco e noi "non molleremo" come ci hai sempre chiesto di fare.
Shabbat Shalom

(La Stampa, 20 maggio 2016)


L'archeologo Dan Bahat a Verona

Verona, 26 maggio, conferenza su "La Citta' di Davide"

Organizzata dall’Associazione Veronese Italia-Israele e dalla Comunità ebraica di Verona, relazionerà il famoso archeologo biblico Dan Bahat.
L'incontro è anche in preparazione all'Archeotour EDIPI 2016 sull'archeologia biblica di Gerusalemme, in programma dal 15 al 22 giugno, organizzato dall'associazione Evangelici d'Italia per Israele.
Per informazioni ivan.b@edipi.net - 3475788106

(EDIPI, 20 maggio 2016)


Antisemitismo, Piras: "Interrogazione al Governo, valutare l'incandidabilità in casi simili"

ROMA - Molte proteste sta scatenando in Sardegna l'ex sindaco dal 2001 al 2006 del paese di Bonorva nel sassarese, Antonello Zanza, e di nuovo candidato per le sue esternazioni su facebook di chiara matrice antisemita "Per gli ebrei ho un forno artigianale. Quella domenica … a pranzo agnelli e porcetti cotti qui, lo stesso forno». «Il costo per lo Stato è minimo… fornetti crematori monouso della ditta riassorbiamoli». «Ecco bravo… capisci perche' sono nati i campi di sterminio… per sostituire i campi coltivati a merda». Pubblica poi selfie col saluto fascista, o foto di gruppo con la mano tesa, condivide l'inno nazionale delle SS italiane. Presenteremo un'interrogazione dei deputati di Sinistra Italiana al governo - annuncia l'on. Michele Piras - mentre i nostri legali stanno approfondendo il testo della legge Mancino ma presto chiederemo che Zanza risponda del reato di apologia del fascismo. Il network Facebook - prosegue l'esponente della sinistra - e' da considerare non solo per la sua natura ludica ma perche' ha implementato il mondo dell'informazione online, assumendo anche il ruolo di veicolo per le campagne elettorali o per la propaganda politica, e siamo preoccupati soprattutto dell'immediatezza del mezzo e dell'estrema diffusione che possono raggiungere tali messaggi devastanti. Chiediamo al ministro Alfano se non intenda disporre misure piu' stringenti per evitare che vi sia, soprattutto da parte di personaggi istituzionali e pubblici, la diffusione di messaggi caratterizzati da contenuti discriminatori, di odio e di violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, cosi' come previsto dalla normativa nazionale - conclude Piras - e se non ritenga di valutare l'incandidabilita' di chi porta avanti tali messaggi.

(Prima Pagina News, 20 maggio 2016)


Pane challah e frittelle, a Milano il primo corso di cucina ebraica

Tre appuntamenti curati dalla cuoca Daniela Di Veroli durante il festival «Jewish in the City».

di Laura Ballio

 
Challah, pane a forma di treccia preparato secondo la tradizione ebraica
Non tutti lo fanno per credo religioso. Ma anche per molte più prosaiche ragioni come il gusto, la salute e la curiosità. il cibo kasher (in ebraico vuoI dire permesso, adatto), che nei soli Stati Uniti ha un giro d'affari vicino ai 200 miliardi di dollari, è ormai diffuso su tutte le tavole, tanto che gli ebrei che lo consumano costituiscono solo il 20% del mercato. Con questa premessa, il festival Jewish in the City (in programma a Milano, dal 29 al 31 maggio), ha organizzato tre incontri presso la sede di Eataly, all'ex Teatro Smeraldo, che daranno vita al primo corso di cucina kasher sotto stretta osservanza rabbinica, aperto a tutti, ebrei e non. La cheftutor è Daniela Di Veroli: classe '61, tre figli, «romana di Testaccio» ma a Milano dal 1998, attiva nelle comunità ebraiche di Roma e Milano e presso il Memoriale della Shoah, è anche riuscita a coltivare la sua passione per la cucina fino a trasformarla in una professione e a essere accolta nella Federazione italiana cuochi.
   «La mia base è la cucina ebraica romanesca», dice Daniela, «che ho imparato da mia madre quand'ero ancora piccolissima. Ma il mio obiettivo è sempre stato quello di realizzare una cucina "culturale", in cui le regole alimentari ebraiche di origine biblica (come il divieto di mescolare carne e latte, di mangiare maiale, coniglio e molluschi, di usare una serie di conservanti, ndr) si unissero alla storia e alle tradizioni dei diversi Paesi».
   E questa impostazione Daniela Di Veroli la proporrà anche nei tre giorni del corso dedicato alla preparazione dei cibi delle feste. La prima lezione (domenica 29, ore 17) sarà dedicata ad Hannukkah, la festa delle luci, e presenterà cibi della tradizione askenazita e sefardita come le latkes, frittelle di patate e cipolle; la seconda (lunedì 30, ore 19) affronterà le ricette di Purim, la festa delle sorti, tra cucina libanese e romana; nell'ultima lezione (martedì 31, ore 19), invece, saranno realizzati i piatti del Sabato, lo Shabbat, il giorno in cui gli ebrei cessano ogni tipo di attività e si dedicano allo spirito e al legame con il Creatore: per questo giorno speciale la chef insegnerà a fare il tipico pane che non può mai mancare sulla tavola del sabato, la challah, e poi ricette tratte dalla tradizione persiana e tripolina, tutte rigorosamente da preparare il giorno prima, visto che di Shabbat non si cucina e non si accendono i fuochi. Informazioni su: www.jewishinthecity.it.

(Corriere della Sera, 20 maggio 2016)


Aereo EgyptAir, proseguono le ricerche in mare

Secondo il ministro della Difesa greco Panos Kammenos il volo Egyptair ha effettuato una virata prima di precipitare in mare
   Proseguono le ricerche del volo Egyptair partito mercoledì sera dallo scalo parigino di Roissy Charles de Gaulle e atteso quattro ore dopo al Cairo, ma poi scomparso dai radar sopra il mare Egeo. A bordo viaggiavano 66 persone. Le autorità stanno ispezionando una vasta area a sud dell'isola di Creta alla ricerca degli eventuali relitti dell'aereo. Secondo il ministro della Difesa greco Panos Kammenos il volo Egyptair ha effettuato una virata prima di precipitare in mare. L'esercito egiziano afferma che nessun segnale di sos è stato inviato da parte del pilota. Ieri il ministro dell'aviazione egiziano Sherif Fathi aveva affermato che la probabilità che l'aereo sia stato abbattuto a seguito di un attacco terroristico è "superiore alla possibilità che si sia verificato un guasto tecnico". I parenti dei passeggeri hanno trascorso la notte in un albergo al Cairo in attesa di notizie.
   Disastro aereo nel Mediterraneo su una rotta calda del terrorismo, fra Parigi e Il Cairo. Un Airbus A320 della Egyptair partito ieri sera con 66 persone a bordo dall'aeroporto parigino di Roissy Charles de Gaulle e atteso nella capitale egiziana dopo 4 ore è sparito dai radar attorno alle 2.45 mentre stava ancora sorvolando la Grecia. In serata una serie di notizie si sono susseguite sul ritrovamento dei rottami, annunciato prima dalla Grecia, poi confermato dall'Egyptair alla Cnn e poi smentito sia dalle autorità greche che dalla stessa compagnia aerea. Incidente o terrorismo? Una fatalità o un attentato, un'esplosione a bordo o un attacco dall'esterno? Tutte le ipotesi sono al momento in piedi e fino a sera non è arrivata alcuna rivendicazione. Che possa trattarsi di un attentato tutti l'hanno ipotizzato, nessuno l'ha sancito. Dagli Stati Uniti, fonti dell'amministrazione Obama si sono sbilanciate: "Indicazioni di una bomba", ma poi la Casa Bianca ha frenato.

(Corriere quotidiano, 20 maggio 2016)


Si possono prevenire gli attacchi. Basta utilizzare il metodo israeliano

di Carlo Panella

L'aeroporto di Sharm El Sheik
L'analisi delle caratteristiche dell'Isis in Egitto che mi fomisce «Ron», anonimo portavoce del Military Intelligence Corp, che mi riceve nel Quartier Generale delle forze armate di Israele, porta a conclusioni interessanti, che indicano che la responsabilità dell'esplosione sopra il cielo di Karpathos, non va fatta risalire probabilmente all'Isis egiziano, ma a quello che opera in Libia.
Non c'è dubbio infatti che l'Airbus russo sia esploso il 31 ottobre scorso sul Sinai grazie a un ordigno imbarcato a Sharm El Sheik dall'Isis. Ma è difficile raccordare le caratteristiche dell'Isis in Egitto, che è radicato solo nel Sinai, con quelle di un'organizzazione in grado di posizionare una bomba o un Kamikaze a Parigi o altrove.
   «L'Isis nel Sinai - mi spiega Ron - è una organizzazione "glocal". "Local", perché è formata da beduini, ben radicati sul territorio e tra la popolazione, "global" per il richiamo al Califfato universale. È tanto "local" che i suoi singoli clan operano per comparti, è difficile che membri di un clan beduino collaborino con altri clan in un'azione».
   Dunque, è facile immaginare come abbiano fatto a convincere uno dei tanti beduini che lavorano nell'aeroporto di Sharm El Sheik a posizionare l'esplosivo sull'aereo russo. Ma ora, come hanno fatto questi beduini dell'Isis, così "local" a operare persino a Parigi? D'altronde, in Egitto, l'Isis agisce esclusivamente nel Sinai. Non al Cairo. Dunque, si apre un'inquietante pista. Che cioè l'attentato sia stato organizzato dal più vicino raccordo dell'Isis egiziana, del Sinai, dall'Isis che opera in Libia. Una risposta, una ritorsione, contro l'offensiva militare che l'Egitto sta operando contro Sirte, tramite l'esercito di Khalifa Haftar, che agisce in nome e per conto del presidente Abdelfattah al Sisi.
   Come Ron, anche Shmuel Zakay, ex generale di brigata, con grande esperienza in guerra e nell'antiterrorismo, direttore dell'Israel Airport Authority, responsabile plenipotenziario e operativo della sicurezza dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, mi risponde che «è troppo presto per avere certezze sull'esplosione dell'aereo dell'Egypt Air ». Poi aggiunge: «Ad un aereo della nostra compagnia area, la El Al, non potrebbe mai accadere un'esplosione a bordo», ma subito accompagna questa sua affermazione con un energico colpo di nocche sulla scrivania (in Israele, come altrove, lo scongiuro si fa toccando il legno, non il ferro), segno di un auspicio, non di una certezza assoluta. Poi specifica: «Un attentato a bordo è il nostro principale incubo, per questo i nostri aerei sono sempre ispezionati palmo palmo e se sono fermi in sosta all'estero, anche per due giorni, sono chiusi ermeticamente e sorvegliati a vista».
   I passeggeri invece - come ben sa chi viaggia in Israele - non solo hanno i bagagli controllati da strumenti ben più raffinati di quelli in uso negli altri aeroporti, ma sono anche sottoposti a una serie di domande, a volte sorprendenti come «lei ha armi o esplosivi?»
   La ragione di questa domanda - apparentemente assurda - è semplice: «Noi conosciamo personalmente ogni passeggero, lo valutiamo; la short interwiew ci permette di valutare non tanto le parole delle risposte, ma il linguaggio del corpo che i nostri addetti sanno interpretare attraverso i movimenti degli occhi, delle mani, i tic eventuali, il nervosismo appena percettibile di chi ha qualcosa da nascondere».
   Certo, Israele ha solo un aeroporto internazionale da difendere e solo 47 vettori civili. Ma sta di fatto che, dopo la strage di Lod del 1972, ha prevenuto ogni attacco, a terra o in aria. Questo, grazie a un sistema complesso, basato sulla priorità assoluta dell'obbiettivo di garantire la sicurezza dell'aria, assegnandola a terra a un'organizzazione, la Israel Airport Authority, che presidia capillarmente l'aeroporto con consistenti forze di sicurezza autonome, ben armate e addestrate (la polizia ha autorità e può intervenire solo all'esterno dell'aeroporto). Un modello che dovrebbe essere imitato.
   
(Libero, 20 maggio 2016)


Viaggi di Boscolo e Israele incontrano le agenzie a Milano

 
Salvatore Sicuso e Avital Kotzer Adari
Tappa a Milano per il roadshow "I cinque sensi di Viaggi di Boscolo", un percorso multisensoriale attraverso le destinazioni del tour operator di Padova che è iniziato in aprile e si concluderà a Catania il 15 giugno. L'evento si è tenuto all'hotel Boscolo Exedra, nel centro storico della città, in partnership con l'ente del turismo israeliano e la partecipazione di una sessantina di agenti di viaggio. «Abbiamo coinvolto Israele perché si tratta di una meta in grado davvero di coinvolgere i cinque sensi - ha dichiarato Salvatore Sicuso, direttore vendite Viaggi di Boscolo - e oggi più che mai è una destinazione leisure a tutti gli effetti, dove si mangia benissimo e si degustano ottimi vini. La proponiamo da maggio a ottobre con tre tour di gruppo a partenze fisse e garantite, con accompagnatore dall'Italia e guida in italiano: "Galilea e Mar Morto" e "Mar Morto e Gerusalemme" di 5 giorni e "Israele classico" di 8 giorni».
«Quest'estate - ha poi ricordato Avital Kotzer Adari, direttore per l'Italia dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo (nella foto con Sicuso) - l'aeroporto Ben Gurion, che si trova a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, sarà collegato all'Italia da ben 70 collegamenti diretti alla settimana, con la possibilità di raggiungere la destinazione in meno di quattro ore di volo partendo da Milano, Venezia, Roma e Napoli». E Pietro De Arena, direttore marketing dell'Ufficio, ha aggiunto: «Tra gli eventi di spicco segnaliamo il prossimo Gay Pride di Tel Aviv, perché si tratta di una festa coloratissima ed elettrizzante che coinvolge tutta la città, anche le famiglie: l'appuntamento è dal 29 maggio al 4 giugno, con una previsione di 180 mila partecipanti da tutto il mondo». A rappresentare Gerusalemme c'era invece Elisa Eterno, di Interface Tourism, che ha ricordato il Festival Opera Jerusalem (22-26 giugno) che si aprirà con una rappresentazione all'aperto del Rigoletto di Verdi ai piedi della Città Vecchia, mentre il Jerusalem Light Festival si terrà dal 25 maggio al 2 giugno.

(Travel Quotidiano, 20 maggio 2016)


Rottura fra islamici ed ebrei. Pd travolto dalle polemiche

Tensione alle stelle per la visita a Milano di un predicatore anti-Israele. Ma intanto Beppe Sala annuncia che vuole un minareto «velocemente».

di Alberto Giannoni

Beppe Sala annuncia che vuole una moschea «velocemente». «Oggi gli scantinati sono incontrollabili. Bisogna fare in fretta» ha detto il candidato del Pd rammaricandosi del fallimento di un piano comunale che prevedeva due minareti.
   Intanto il previsto arrivo a Milano di Tariq Ramadan il 3 giugno (due giorni prima delle elezioni comunali, tre prima dall'inizio del Ramadan) sta innescando reazioni a catena, nel mondo musulmano e nel Pd. Osannato dalle folle islamiche di mezzo mondo, indesiderato negli Usa, accusato di essere nemico di Israele, lo scrittore di origini egiziane (il nonno fu fondatore dei Fratelli musulmani al Cairo), è una «star» controversa e ambigua. E la sua presenza eccita tutte le contraddizioni irrisolte nelle moschee milanesi e fra i «dem» che per il voto comunale con questo mondo hanno stretto un patto. La trepidazione con cui Ramadan è atteso dai giovani musulmani è pari alla preoccupazione manifestata degli ebrei, che hanno chiesto a partiti e istituzioni una presa di distanze dal personaggio, le cui idee - hanno ricordato - «sono state recentemente condannate dalla Conferenza degli imam di Francia». Un intervento, quello degli ebrei, che ha scatenato una reazione inferocita di Davide Piccardo, leader del Caim, il coordinamento delle moschee milanesi che organizza l'evento del 3 giugno con l'European muslim network alla Camera del lavoro. Piccardo ha usato parole di fuoco: «Siamo di fronte - ha scritto - all'ennesimo tentativo di censura da parte di esponenti della comunità ebraica milanese nei confronti delle voci critiche verso Israele. Si tratta di uno squadrismo sistematico con cui mirano a intimidire chiunque osi mettere in discussione la sacralità di Israele e delle sue politiche criminali». Piccardo si è detto anche preoccupato nel vedere «i responsabili di una comunità religiosa italiana che lavorano al servizio di uno Stato straniero».
   Reazione sempre più preoccupata dalla comunità ebraica (che aveva già interrotto i rapporti col Caim dall'invito a Milano di un imam che inneggiava al «martirio religioso» dei kamikaze). «La violenza dei vocaboli utilizzati da Piccardo - dicono dalla comunità - si commenta da sola: sentire tale linguaggio in bocca a un esponente religioso e rivolto alla comunità ebraica ci preoccupa, oltre che ricordarci tempi oscuri». «Speriamo solo che tali affermazioni non siano condivise dagli altri nove membri dell'esecutivo del Cairo, a cui ci appelliamo perché prendano le distanze da queste parole di odio».
   Ormai imbarazzatissimo il Pd, che in lista schiera Sumaya Ab-del Qader responsabile cultura del Caim che il giorno precedente, dopo un discorso (maldestro) sullo Stato ebraico e sulla Brigata ebraica, ha subito l'altolà di Lele Fiano, responsabile sicurezza del partito ed ex presidente della comunità ebraica: «Basta ambiguità su Israele».
   
(il Giornale, 20 maggio 2016)


Pannella, bestione politico

Marco il politico, il fisico roccioso, il conversatore instancabile, l'amerikano, l'israeliano. Pannella nella frontiera piu' estrema d'Europa: Israele.

di Giulio Meotti

 
Il primo grande gesto di Marco Pannella a favore di Israele risale al 1986, quando con il Premio Nobel Elie Wiesel vola a Gerusalemme a perorare l'emigrazione degli ebrei sovietici, rinchiusi nei manicomi e nei Gulag. La moglie di Nathan Sharansky, Avital, in segno di riconoscenza si iscrisse al Partito Radicale assieme ad altri venti ebrei russi. A Roma, Pannella aveva indetto una manifestazione anche di fronte all'ambasciata sovietica di Via Gaeta per protestare contro la repressione degli "ebrei del silenzio". L'ambasciatore d'Israele a Roma, Naor Gilon, ha ringraziato così Pannella: "Per l'amicizia con Israele anche quando era difficile e voi radicali eravate isolati per questo". E il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, ha detto che "con Marco Pannella scompare un grande amico di Israele e del mondo ebraico". Forse uno dei pochi, assieme a Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini.
   Nel 1988, durante la Prima Intifada, Pannella chiamò addirittura a raccolta i membri del consiglio federale dei Radicali in un grande albergo di Gerusalemme. Fu quando tutto il mondo cominciò ad associare Israele al colonialismo che Pannella ebbe il genio di riconoscere che "se Israele si fosse ritirato dai Territori dieci o vent'anni fa, vi si sarebbero verificati orrori e stragi e lo stesso Ara-fat avrebbe chiesto asilo in Israele".
   Passano gli anni, è la Seconda Intifada, ben peggiore della prima, e Pannella torna a Gerusalemme in segno di solidarietà con Israele. Stavolta fece visita a un luogo simbolo del terrorismo dei kamikaze assassini: il Moment Caffè, subito dopo un attentato suicida che si era portato via dodici giovani ebrei. Nel visitare il caffè, Pannella si allacciò la bandiera israeliana al petto, mentre i voli da e per Israele erano vuoti, abbandonati. "Israele è una marca di frontiera dell'Europa" disse il leader dei Radicali. E propose di far entrare lo stato ebraico nell'Unione europea, "l'unica possibilità di andare a una rivoluzione democratica in tutto il medio oriente. Israele può forse rappresentare lo 0,2 per cento dell'intera superficie del medio oriente, ma gli stati arabi guardano a Israele come a una specie di melanoma mentre in realtà ciò che temono è la sua democrazia". Secondo Pannella, "Israele è l'avamposto della democrazia in medio oriente" e per questo gli stati arabi che lo circondano lo vogliono "eliminare chirurgicamente perchè ne hanno paura come di un tumore democratico".
   Pannella aderì al decennio di campagne del Foglio in favore dello stato ebraico e difese apertamente il sionismo, ricordandone le "radici profondamente umanistiche", dicendo di averne mai tollerato l'assimilazione all'imperialismo, come aveva fatto l'Onu. L'Europa era in piena ondata pacifista e Pannella ricordò come a volte il pacifismo delle democrazie si fosse dimostrato "vile" come nell'Europa del 1939 che non seppe opporsi ad Hitler e tradì gli ebrei. Pannella disse di "ribellarsi" a quel pacifismo per cui "un arabo, un palestinese diventa un uomo solo se ha la fortuna di incontrare una pallottola israeliana".
   La sua battaglia per Israele aveva qualcosa di prometeico, di impossibile, di utopistico, dall'adesione di Gerusalemme alla Ue all'idea di "israelizzare il medio oriente" (la Ue oggi marchia i prodotti israeliani e il medio oriente rigetta la sola presenza ebraica). Ma fu straordinario proprio per questo, Marco Pannella, perché in un'Italia e in un'Europa pilatesca, che si lavava le mani sulla sorte degli ebrei oppure li demonizzava, lui scelse di diventare il portabandiera delle ragioni di Israele. Per questo Pannella manifestava affinché gli fosse riconosciuta la sua vera nazionalità: quella israeliana. Per questo i suoi Radicali esponevano sempre tre drappi agli eventi ufficiali: italiano, americano e israeliano. Per Pannella era questo il minuscolo stato ebraico coi suoi mille chilometri stretti fra il mare e cinque nazioni ostili, ottanta volte pit vaste e venti volte pitt popolate: "la frontiera pitt estrema di trecento milioni di europei". Per questo andava difesa.
   
(Il Foglio, 20 maggio 2016)


Israele, un tesoro romano riaffiora dall'acqua: scoperte statue e bronzi di 1600 anni fa

di Luisa Mosello

Una pesca fortunata. Soprattutto per il mondo dell'archeologia che ora ha un nuovo tesoro in più. Tutto merito di due sub israliani Ran Feinstein and Ofer Ra'anan che hanno rubato al mare un bottino davvero ricco, di storia e cultura millenaria: il relitto di un mercantile romano affondato nelle acque del porto di Cesarea, a nord di Tel Aviv, ben 1600 anni fa. I due erano lì per un'immersione di routine e mai si sarebbero immaginati di essere protagonisti di un ritrovamento tanto importante.
Ai loro occhi annebbiati dalle onde si è mostrato a poco a poco il prezioso carico rappresentato da sculture, piccoli bronzi fusi e riciclati e vari manufatti conservati alla perfezione nella stiva di quell'antichissima nave divenuta l'attenta custode di veri e propri gioielli dell'universo romano. Come i 20 chili di monete con le effigi impresse, quelle del volto dell'Imperatore Costantino (312-324 dopo Cristo) e del suo rivale Licinio. Accanto a lampade con l'immagine del Dio Sole o con la testa di uno schiavo africano, una statuina della dea Luna e una carrellata di oggetti scolpiti a forma di animale.
I due sub hanno subito segnalato alla Soprintendenza archeologica israeliana la loro scoperta marina, la più importante del genere degli ultimi trent'anni.

(Il Messaggero, 20 maggio 2016)


I vincoli matrimoniali fra famiglie ebraiche fiorentine e ferraresi

Ne parleranno alla libreria Sognalibro Rav Luciano Meir Caro, rabbino della Comunità Ebraica di Ferrara, e Lionella Neppi Modona.

Mercoledì 25 maggio alle ore 17.30 presso la libreria Sognalibro di via Saraceno 43, Rav Luciano Meir Caro, rabbino della Comunità Ebraica di Ferrara e Lionella Neppi Modona parleranno del denso reticolo di vincoli matrimoniali che si stabilì alla fine dell'Ottocento tra alcune famiglie ebraiche fiorentine e ferraresi, i conseguenti legami commerciali e finanziari che si instaurarono.
   Lionella Viterbo Neppi Modona, laureata in scienze matematiche a Firenze, al termine della sua carriera di docente e preside si è dedicata allo studio della storia e della vita della Comunità ebraica fiorentina anche come corrispondente per varie testate "Israel", "Shalom" e "Il Portavoce". Ha pubblicato i seguenti volumi: "Spigolando nell'archivio della Comunità ebraica di Firenze", "La comunità ebraica di Firenze nel censimento del 1841", "Le Comunità ebraiche di Siena e Pitigliano nel censimento del 1841 e il loro rapporto con quella fiorentina", "Di amare di essere amata non osavo sperarlo. Antologia di lettere tra i fidanzati Giulia Ambron - Costante Carpi e Ada Carpi - Leone Neppi Modona".

(estense.com, 20 maggio 2016)


Israele - Via Moshe Yaalon, per lui gli Esteri

Bibi sceglie di nuovo Lieberman, sarà il suo ministro della Difesa

di Daniel Reichel

Si parlava di un'apertura a sinistra del Premier Benjamin Netanyahu, di una trattativa con il leader laburista Itzhak Herzog, e invece ad entrare dalla porta principale nel governo di Gerusalemme sarà Avigdor Lieberman, ovvero la destra oltre la destra. Stupendo molti, Netanyahu ha infatti offerto a Lieberman, leader del partito ultranazionalista Israel Beitenu, il ministero della Difesa. Un doppio schiaffo del Premier, commentano i quotidiani locali, a Herzog da una parte e all'attuale capo della Difesa, Moshe Yaalon, dall'altra. "Non sono sorpreso e non sono preoccupato", avrebbe detto Yaalon riguardo alla prospettiva di lasciare il suo attuale incarico. Secondo i media israeliani, il suo futuro sarà al ministero degli Esteri, attualmente ricoperto ad interim dal Primo ministro Netanyahu. "Yaalon non è ferito o offeso - ha dichiarato una persona a lui vicina a Yedioth Ahronoth - Sapevamo di questa mossa che stava prendendo forma dietro le quinte". "Bibi - continua la fonte del quotidiano - voleva ampliare il suo governo ad ogni costo e le tensioni con Yaalon hanno giocato un ruolo". Con l'entrata nella coalizione, infatti, il risicato seggio su cui poggiava sino ad oggi la maggioranza alla Knesset (il parlamento israeliano), passerebbe a più sette grazie ai sei seggi di Israel Beitenu.
   Sorprendente questo nuovo ingresso vista la fragorosa rottura tra Lieberman e Netanyahu prima dell'ultima tornata elettorale, con il primo fortemente critico nei confronti del Premier. Una frattura costata cara in termini di consensi al leader di Israel Beitenu che alle elezioni di un anno fa aveva quasi rischiato di non entrare alla Knesset e che aveva visto i suoi seggi ridursi dai 15 del 2009 ai citati sei nel 2015.
Per spiegare questo ritorno, Gil Hoffman del Jerusalem Post cita la celebre frase di Orson Welles, "Nessuno ottiene giustizia: la gente ottiene solo fortuna o sfortuna". E a Lieberman, il cui bacino elettorale attinge soprattutto tra le migliaia di immigrati dell'ex Unione Sovietica (lui è nato nell'attuale Moldavia), la fortuna è tornata a sorridere, sottolinea Hoffman. Ma la sostituzione alla guida della difesa, secondo l'editorialista del Post così come per altri analisti, è la dimostrazione che chi mette in discussione la leadership di Netanyahu viene affossato. Yaalon infatti si è scontrato recentemente con Netanyahu sia sulla questione del processo al soldato israeliano che ha ucciso a Hebron un terrorista palestinese disarmato (il caso è nelle mani del Tribunale militare di Tsahal) sia sulle parole del vice capo di Stato maggiore Yair Golan, che aveva fatto un paragone tra il clima che si respirava prima dell'avvento del nazismo in Germania con l'attuale atmosfera in Israele. Nel primo caso Yaalon aveva detto che il soldato dovrebbe essere punito per come ha agito mentre Netanyahu non era stato così netto: ipocrita e ingiustificato il giudizio invece di Lieberman sul processo, con un attacco diretto al capo di Stato maggior Gadi Eisenkot. Sulla seconda questione, Yaalon aveva difeso la critica mossa da Golan definita invece da Netanyahu "oltraggiosa e infondata". Haaretz, quotidiano progressista, si spinge a definire la nomina di Lieberman come una punizione voluta dal Netanyahu contro i generali israeliani, colpevoli di aver espresso posizioni critiche nei suoi confronti o meglio di averne contrastato alcune decisioni nell'ambito della Difesa. Ora con il leader di Israel Beitenu, che sin dall'operazione Zuk Eitan aveva preso aspramente posizione contro Yaalon e i vertici militari di Tsahal, la situazione potrebbe avere un punto di svolta. Gli equilibri sono drasticamente cambiati all'interno della coalizione ma, cambiamenti, potrebbero esserci anche sul fronte dei rapporti governo-esercito.

(moked, 19 maggio 2016)


Perché il movimento BDS distrugge il futuro Stato palestinese

di Fred Maroun*
  • Israele avrebbe potuto rispettare le regole arabe ed espellere tutti gli arabi dei territori che ha occupato, ma non lo ha fatto. Proprio perché Israele ha rispettato i diritti umani degli arabi, e nonostante fosse contro il suo stesso interesse, lo Stato ebraico ha fornito ai palestinesi una piattaforma da cui cercare di distruggere Israele.

  • Si può solo sperare che i palestinesi, come l'Egitto e la Giordania, decideranno presto di vivere in pace con un vicino che ha dimostrato di trattarli molto meglio di come li trattano i loro stessi "fratelli arabi" - tutto sommato, non così male. Si può solo sperare che i leader palestinesi inizieranno a promuovere una cultura di pace anziché una cultura dell'odio.
Dal quando Israele ha dichiarato la propria indipendenza, una delle principale tattiche usate dagli arabi è stata quella di sfruttare il tallone di Achille degli ebrei: la loro cultura altamente sviluppata, che rispetta e valorizza la vita e il sostegno offerto ai diritti umani.
    Essendo io di origine araba, conosco bene lo stereotipo arabo sull'Occidente e Israele, secondo il quale essi sono deboli perché si preoccupano della vita della loro popolazione e desiderano rispettare i diritti umani dei loro nemici. Nelle parole di Golda Meir: "Noi possiamo perdonare agli arabi il fatto che uccidono i nostri figli, ma non perdoneremo mai il fatto che costringono a uccidere i loro figli".
   Fino a oggi, il comportamento di Israele si è conformato a questo stereotipo arabo, come nel caso della
 
tecnica detta "bussare sul tetto" utilizzata a Gaza, in base alla quale i soldati israeliani avvertono i residenti di evacuare gli edifici usati per scopi militari prima di colpirli, ma parlando con i sionisti pare che questo atteggiamento stia cambiando. Se è vero che gli ebrei daranno sempre valore alla vita, la loro determinazione a contenere le perdite dei nemici e rispettare i loro diritti umani a oltranza potrebbe venire meno e saranno i palestinesi a rischiare di farne le spese.
   Durante la guerra d'Indipendenza, la parte araba assicurò che non un solo ebreo sarebbe rimasto a vivere nel lato arabo delle linee armistiziali del 1949, ma a un gran numero di arabi fu permesso dagli ebrei di restare nel lato israeliano. Oggi, questi arabi costituiscono il 20 per cento della popolazione israeliana.
   Il rispetto mostrato da Israele per i diritti umani degli arabi che vivono nello Stato ebraico è stato utilizzato dagli arabi contro Israele. L'idea della presenza di ebrei nei territori arabi è demonizzata e qualsiasi tentativo di "normalizzare" i rapporti con gli ebrei viene scoraggiato in modo aggressivo.
   Al contrario, gli arabi che vivono in Israele hanno sempre eletto parlamentari arabi, anche quelli antisionisti che appoggiano apertamente i terroristi palestinesi. Se Israele espellesse questi politici dalla Knesset - come una proposta di legge intende fare - sarebbe accusato dall'Occidente di essere antidemocratico, ma se non li espellesse verrebbe visto come debole dagli arabi.
   Durante la guerra dei Sei giorni del giugno 1967 - una guerra difensiva condotta contro gli eserciti arabi, tra cui quelli della Giordania e dell'Egitto - Israele si estese in vaste aree di terra araba, come la penisola del Sinai, la Cisgiordania e Gaza. Ma subito dopo propose di restituire quei territori in cambio del riconoscimento e della pace. Meno di tre mesi dopo, il 1o settembre 1967, la risposta arrivò nella forma dei famosi "tre no" della Conferenza di Khartoum: no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no ai negoziati con Israele.
   Israele avrebbe potuto rispettare le regole arabe ed espellere tutti gli arabi dei territori che ha occupato, ma non lo ha fatto. Proprio perché Israele ha rispettato i diritti umani degli arabi, e nonostante fosse contro il suo stesso interesse, lo Stato ebraico ha fornito ai palestinesi una piattaforma da cui cercare di distruggere Israele.
   Oggi, il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) continua ad applicare ipocritamente la regola dei due pesi e due misure in un tentativo evidente di eliminare Israele. I suoi leader hanno dichiarato senza mezzi termini che non sono interessati a una soluzione dei due Stati. Vogliono uno Stato arabo al posto di Israele. Essi contano sul presupposto che prima o poi Israele sarà costretto ad annettere la Cisgiordania e dare la cittadinanza israeliana a tutti i suoi abitanti. Dopo questo, la distruzione di Israele come Stato ebraico sarebbe solo una questione di tempo.
   La sensazione dominante da parte sionista è che la soluzione dei due Stati accettata dalla maggior parte degli ebrei sin dagli anni Quaranta come etica oggi non funziona affatto. La stragrande maggioranza dei sionisti dà la colpa di questo all'inesorabile rifiuto arabo di accettare una soluzione del genere e al fatto che nel momento in cui sono state avviate trattative in proposito, i palestinesi non abbiano mai pensato di formulare una contro-offerta ragionevole. Anche il presidente dell'Autorità palestinese Mahmous Abbas, presumibilmente il leader più moderato dei palestinesi, non ha mai accettato una soluzione a due Stati che non includesse un "diritto al ritorno" palestinese, che porterebbe a uno Stato completamente arabo accanto a uno Stato a maggioranza araba: un altro modo per tentare di distruggere lo Stato ebraico.
   Messo con le spalle al muro, Israele dovrà prima o poi scegliere se rinunciare allo Stato ebraico o abbassare i suoi standard di tutela dei diritti umani dei palestinesi. Sembra sempre più chiaro che gli israeliani non sceglieranno la prima opzione. Al loro posto, non lo farei neanche io. Un segnale in tal senso sono due proposte di legge volte rispettivamente a espellere le famiglie dei terroristi e i membri della Knesset che appoggiano apertamente i terroristi.
   Alan Dershowitz, l'avvocato americano difensore dei diritti umani, ha ripetutamente avvertito che il movimento BDS sta vanificando la prospettiva di una soluzione dei due Stati, inducendo i leader palestinesi a credere che non hanno alcun bisogno di scendere a compromessi. Dershowitz non ha osato dire cosa accadrebbe se il BDS proseguisse sulla strada intrapresa. Ha però fatto una previsione generale e ovvia che si arriverebbe a "più guerre, più morti e più sofferenza".
   Se questa tattica continuasse, Israele potrebbe spostarsi a destra del suo attuale primo ministro, Benjamin Netanyahu, ed eleggere un governo per il quale il rispetto dei diritti umani palestinesi è una priorità minore. Un governo del genere sarebbe molto meno riluttante di Netanyahu all'idea di espandere gli insediamenti in Cisgiordania e a rispondere brutalmente agli attacchi terroristici, rendendo così la vita dei palestinesi molto più difficile e danneggiando seriamente i sogni di uno Stato palestinese.
   I sostenitori del BDS sembrano basarsi sulla convinzione che Israele non lo farebbe mai, ma si sbagliano per svariati motivi:
  • Gli ebrei di Israele non saranno disposti a suicidarsi. Finora, ogni volta che si sono rifiutati di adottare approcci contrari alla tutela dei diritti umani, queste decisioni non sono state fatali per Israele. La soluzione di uno Stato unico con diritti uguali per tutti sarebbe invece fatale per Israele e la maggior parte degli ebrei di Israele non l'approverà.
  • Israele vede che nel resto del Medio Oriente è attuata impunemente una pulizia etnica - da quella degli ebrei a quella dei cristiani e tutti gli altri gruppi - e vede anche che l'Occidente non intraprende alcuna azione concreta per impedirlo.
  • Gli israeliani sanno che gli arabi maltrattano i palestinesi da quasi 70 anni, pertanto i paesi arabi non rischieranno di perdere altre guerre per il bene dei palestinesi, che in ogni caso disprezzano (sempre che gli arabi divisi siano comunque in grado di formare una possibile coalizione contro Israele).
  • Uno dei fattori che attualmente frenano l'ala destra di Israele è il rischio di perdere il sostegno dell'Occidente. Tuttavia, con la crescita del movimento BDS, Israele potrebbe pensare di aver perso in ogni caso l'appoggio occidentale e che non ci sia più niente da perdere.
Da quasi 70 anni gli arabi conducono un gioco molto pericoloso, contando sugli scrupoli degli ebrei per trasformare ogni sconfitta in una vittoria parziale. Nel corso della storia, coloro che perdono le guerre - in particolare le guerre che essi stessi hanno iniziato - sono costretti a vivere secondo le regole del vincitore. Ma gli arabi hanno sempre rifiutato di vivere secondo le regole degli israeliani così come hanno rifiutato costantemente una soluzione intermedia come quella dei due Stati, che sarebbe stata ragionevole per entrambe le parti. Si può solo sperare che i palestinesi, come l'Egitto e la Giordania, decideranno presto di vivere in pace con un vicino che ha dimostrato di trattarli molto meglio di come li trattano i loro stessi "fratelli arabi" - tutto sommato, non così male. Si può solo sperare che i leader palestinesi inizieranno a promuovere una cultura di pace anziché una cultura dell'odio.


* Fred Maroun è un giornalista canadese di origine araba orientato a sinistra, scrive tra l'altro per New Canadian Media. Maroun ha vissuto in Libano dal 1961 al 1984.

(Gatestone Institute, 18 maggio 2016 - trad. Angelita La Spada)


Gerusalemme - Medici curano bambino palestinese con rara malformazione al piede

 
Un ragazzo palestinese di Beit Jala, che soffriva di una rara malformazione al piede ha ora risolto i suoi problemi grazie ad una delicata operazione effettuata presso lo Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme.
Il giovane paziente, Hana Zeitun, che a causa della sua malattia non usciva da casa ormai da molti anni, può ora uscire e giocare con i suoi amici.
Hana soffriva di una malformazione arterovenosa, una connessione anormale tra le sue arterie. Questa malformazione ha reso la vita di Hana particolarmente dolorosa e invalidante.
Le condizioni sono peggiorate circa 2 anni fa, a tal punto da rendere impossibile la normale deambulazione. Il bambino ha ricevuto numerosi trattamenti in diversi ospedali senza mai riuscire a risolvere il problema. La maggior parte dei medici sosteneva che, a causa della comparsa di coaguli nel sangue, sarebbe stato necessario un intervento di amputazione della gamba all'altezza del ginocchio.
Fortunatamente allo Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme i medici hanno deciso di provare a chiudere quelle connessioni arteriose che risultavano problematiche. L'operazione è stata effettuata dal Dott. Ehud Lebel, Capo dell'Unità di Ortopedia pediatrica. Il piede del bambino è salvo e dopo un periodo in cui dovrà utilizzare le stampelle, in breve tempo sarà perfettamente autonomo e potrà tornare a camminare.

(SiliconWadi, 19 maggio 2016)


Turchia-Israele - Diplomatico israeliano parteciperà al vertice umanitario mondiale ad Istanbul

Dore Gold, direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, rappresenterà il suo paese al Vertice umanitario mondiale che si terrà ad Istanbul il 23 e il 24 maggio. Gold arriverà ad Istanbul il 23 maggio secondo quanto riferito da una fonte diplomatica israeliana al quotidiano "Hurriyet", ma non si recherà ad Ankara malgrado i progressi fatti negli ultimi mesi nei rapporti tra i due paesi. Una piena normalizzazione delle relazioni bilaterali avverrà infatti una volta che il governo turco si sarà stabilizzato dopo le dimissioni del premier Ahmet Davutoglu. "Non ci sono piani per tenere un incontro sul tema della normalizzazione dei rapporti in occasione del vertice umanitario mondiale", ha spiegato la fonte ad "Hurriyet".

(Agenzia Nova, 19 maggio 2016)


La Palestina ha un museo. Ma è vuoto

di Fiamma Nirenstein

SI, sarà molto interessante il Museo Nazionale dei Palestinesi, inaugurato ieri a Bir Zeit vicino a Ramallah dopo quasi 20 anni di preparazione. Diciamo «sarà» perché al momento benché il grande monumento a forma di W (vinceremo!) sia costato 28 milioni di dollari e risplenda di vetro e pietra, non ospita alcuna mostra. Un lapsus dovuto all'affanno di costruire una storia virtuale che cancelli quella ebraica? Per ora si sa che l'esposizione inaugurale di oggetti dei rifugiati palestinesi è stata cancellata per divergenze fra giunta direttiva del Museo e vecchio direttore, licenziato. Quello nuovo, Jack Persekian, non aveva niente di pronto.
Ma verrà il momento, e molti visitatori stranieri vedranno che non mancherà nulla della famosa «narrativa» palestinese che si è impegnata a cancellare la verità della storia ebraica di Israele, e a sostituirla con un'invenzione per cui i palestinesi esistono come popolo storico della zona e gli ebrei ci sono capitati ora per caso, anzi, solo per causare sofferenze al popolo palestinese. II museo racconterà una storia fantastica che cancella dal Monte dove oggi sorgono le Moschee, del Primo (quello di Salomone) e del Secondo Tempio ebraico, meraviglia del mondo, di cui si racconta in tante cronache storiche; cancellerà la Gerusalemme del re David; cancellerà il popolo che ha concepito il monoteismo; cancellerà Gesù Cristo ebreo per forme un palestinese. Cancellerà l'amicizia di Haj Amin Al Hussein con Hitler per fame il primo eroe della resistenza contro un invasore coloniale e malvagio; definirà illegale la nascita dello Stato d'Israele, rifiuterà le risoluzioni della Lega delle Nazioni i cui 51 membri dichiararono la loro volontà di veder ricostituito la «casa nazionale del Popolo Ebraico» riconoscendone i legami col territorio, e rifiuterà la partizione dell'Onu cui seguì una guerra di aggressione; presenterà come una situazione di paura e necessità la fuga volontaria dei profughi su invito dei paesi arabi mentre Ben Gurion chiedeva ai palestinesi di restare e creare insieme il nuovo stato; via via cercherà di dimostrare soprattutto che il terrorismo è lotta di liberazione e che i terroristi che uccisero degli innocenti come gli atleti di Monaco, come i bambini di Lod, come le vittime della seconda Intifada, sono in realtà eroi. Sarà un museo pieno di censure, per esempio quella dell'educazione all'omicidio attraverso stampa e tv e l'esaltazione di Stato, di tanti bambini e ragazzi; mancherà il pure storico testo della Carta di Hamas che chiede di ammazzare tutti gli ebrei in nome del Corano. II diritto alla difesa di Israele verrà visto come un crimine. Ma forse saremo smentiti da qualche bella sorpresa.

(il Giornale, 19 maggio 2016)


"Israeliani, siete porci negazionisti". Le frasi choc della candidata a Napoli

Polemiche su Eleonora De Majo, che sostiene De Magistris

di Francesco Maesano, Antonio E. Piedimonte

ROMA - «Siete dei porci, accecati dall'odio, negazionisti e traditori anche della vostra stessa tragedia. Che schifo». Si conclude così il lungo messaggio pubblicato da Eleonora De Majo il 21 ottobre del 2015 sulla sua pagina Facebook all'indirizzo degli israeliani. Studentessa universitaria, compagna del leader indiscusso degli antagonisti napoletani Egidio Giordano, De Majo oggi è candidata al consiglio comunale di Napoli per Democrazia Autonoma, lista arancione che sostiene Luigi De Magistris. E sugli israeliani lo scorso autunno scriveva questi giudizi: «II sionismo è nazismo, i metodi di violenza efferata utilizzati dagli israeliani contro i palestinesi ricordano quelli che portarono alla morte di quattro milioni di ebrei. Mai avremmo pensato però che la follia sionista potesse costruire da sola i ponti di questa continuità».
   Non solo. Il 27 gennaio, nel giorno della memoria delle vittime dell'Olocausto, De Majo scriveva: «Israeliano scatta foto ricordo al cadavere di un giovane palestinese appena ammazzato. La memoria a chi la merita. Buon 27 gennaio».
   Lei, come altri che si candidano per De Magistris, proviene da «Insurgencia», centro sociale partenopeo vicinissimo al sindaco di Napoli. Arriva da lì anche Ivo Poggiani, anche lui candidato, in prima fila negli scontri in occasione della visita di Renzi a Bagnoli. A sostegno del sindaco anche Rosa Schiano, attivista fotografata a Gaza mentre faceva il segno della vittoria in mezzo a un gruppo di uomini armati e col volto coperto. Un rapporto, quello tra il sindaco e i centri sociali, che si sta rinsaldando ora in prossimità del voto, ma che durante il mandato del sindaco si è rafforzato via via, quando ai collettivi è stato lasciato in gestione l'Asilo Filangeri o l'ex ospedale psichiatrico giudiziario.
   Il tutto tenuto assieme dalla comune causa anti-israeliana e anti-sionista. Basta una notazione: nel 2013 De Magistris ha conferito la cittadinanza onoraria di Napoli ad Abu Mazen, cortesia che gli è stata restituita nel dicembre dello stesso anno a Betlemme dall'autorità palestinese. E nella tarda serata di ieri il sindaco, durante un evento elettorale dedicato alla «shoah palestinese», ha ribadito vicinanza a Rosa Schiano, spiegando che «fin quando non si darà dignità a un popolo oppresso la città sarà schierata al fianco dei palestinesi», aggiungendo di avere messo in bella vista sulla sua scrivania «il passaporto palestinese».

(La Stampa, 19 maggio 2016)


L'antisemitismo secondo il Labour

"Le persone possono cambiare idea". L'esito inutile dell'inchiesta

Jeremy Corbyn, leader del partito laburista inglese
L'inchiesta della baronessa Royall sull'antisemitismo nell'Oxford University Labour Club non ha trovato traccia di "un antisemitismo istituzionale", anche se ammette che il Partito laburista ha "difficoltà" a far sì che gli studenti ebrei siano a loro agio nel campus inglese. Lady Royall ha stabilito anche che chiunque sia stato espulso dal Labour a causa di posizioni antisemite non dovrebbe essere escluso a vita perché "le persone possono cambiare idea". Infine dice che il partito dovrebbe trovare "una definizione del discorso antisemita", adottando regole e meccanismi che portino ad "azioni rapide" qualora si verificassero delle violazioni. Queste sono le conclusioni dell'inchiesta che la baronessa ha condotto nel campus di Oxford dove erano stati riscontrati alcuni casi di antisemitismo prima che anche parlamentari e soprattutto l'ex sindaco di Londra Ken Livingstone mostrassero, senza mai pentirsi, il loro istinto antisemita.
Che cosa ci sia nel resto del report non è dato sapere, perché il comitato che guida il Labour ha deciso di rendere pubbliche soltanto conclusioni e raccomandazioni: il partito "ha soppresso" i risultati dell'inchiesta, titolava ieri mattina il Daily Mail. Tale accondiscendenza, al netto del tatticismo elettorale (la questione scoppiò a una settimana dalle amministrative dello scorso 5 maggio) potrebbe portare ora a un reintegro di Livingstone e anche della parlamentare che sosteneva che Israele andrebbe spostato negli Stati Uniti. Così sarebbe chiaro a tutti che il Labour di Jeremy Corbyn non ha mai voluto affrontare con serietà questa crisi, semplicemente perché non considera l'antisemitismo un problema.

(Il Foglio, 19 maggio 2016)


Ecco perché l'iniziativa francese è destinata a fallire

La storia insegna che i palestinesi rifiutano ogni proposta che non comprenda il cosiddetto "diritto al ritorno". Ma che siano loro a dire "no", e non Israele.

L'iniziativa di pace francese è nata sbagliata. Infatti non è partita come un'iniziativa, è partita come una minaccia: se Israele non accetta il diktat di riconoscere lo stato palestinese che gli viene imposto, senza trattative e senza che i palestinesi debbano riconoscere Israele come stato nazionale ebraico, allora la Francia sosterrà le rivendicazioni palestinesi.
L'iniziativa prevede richieste fatte a Israele, come fermare la costruzione negli insediamenti al di là della Linea Verde, compresi i quartieri di Gerusalemme come Gilo e i principali blocchi di insediamenti destinati a restare in ogni caso parte di Israele in qualunque accordo futuro. Ma non prevede richieste fatte ai palestinesi, né sul cosiddetto "diritto al ritorno" (in realtà, un diritto di invasione), né sulla cessazione dell'indottrinamento e dell'istigazione: niente. Insomma, non è una cosa seria....

(israele.net, 19 maggio 2016)


I Fratelli musulmani non sono lontani. L'islam politico agita le elezioni a Milano

Tutte le incongruenze di Sumaya Abdel Qader, candidata del Pd nella capitale lombarda, che ha sempre smentito i legami con l'organizzazione persino in Arabia Saudita. Il marito Kabakebbji a convegno con i capi della Fratellanza, il ruolo di Piccardo nella difesa dell'imam estremista Tareq Al-Suwaidan.

di Luciano Capone

 
Sumaya Abdel Qader con il marito Abdallah Kabakebbji
Il Foglio aveva parlato di Sumaya Abdel Qader, candidata al consiglio comunale di Milano nelle liste del partito Democratico in appoggio a Beppe Sala, leader affermata della galassia Ucoii (l'unione delle comunità islamiche italiane) e del Caim (il Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano), associazioni cresciute nell'alveo dei Fratelli Musulmani, l'organizzazione internazionale fautrice dell'islam politico e bandita in diversi paesi. La candidata, sociologa di origini giordano-palestinesi ma nata a Perugia, dopo le polemiche ha smentito la sua vicinanza all'organizzazione estremista nata in Egitto: "Non mi riconosco nei Fratelli Musulmani", ha dichiarato, aggiungendo, lei che è responsabile culturale del Caim, che non le risulta che nella sua associazione ci siano persone vicine alla Fratellanza. Le cose non stanno proprio così.
  Una figura importante nella candidatura e nella campagna elettorale di Sumaya è suo marito, Abdallah Kabakebbji: "Accettare questa sfida è stato un po' come decidere di fare un figlio", ha scritto l'uomo su Facebook dopo l'esplosione della polemica riguardo alcuni suoi commenti sullo stato di Israele. Libero ha infatti pubblicato un post di Kabakebbji su Facebook in cui scrive: "Israele non fa errori. Israele è un errore storico, politico, una truffa. In caso di errore che crea danno, sai cosa si fa a casa mia? Ctrl+Alt+Canc!". L'uomo si è difeso dagli "attacchi di Libero" dicendo che le sue parole non volevano indicare la cancellazione dello stato di Israele, ma "l'avvio di una sessione di riassetto e controllo degli errori". Sarà, anche se la giustificazione sembra un'arrampicata sugli specchi. La figura di Kabakebbji, oltre che per i suoi commenti su Israele, è rilevante in questa vicenda perché smentisce le affermazioni della moglie a proposito della vicinanza sua e della sua associazione, il Caim, alla Fratellanza musulmana.
  Abdallah Kabakebbji infatti nell'agosto 2013, attraverso l'associazione "Libertà e democrazia per l'Egitto", è stato uno degli organizzatori a Milano della manifestazione in sostegno a Mohamed Morsi, l'ex presidente dell'Egitto e leader dei Fratelli Musulmani all'epoca da poco deposto. Negli stessi giorni collaborò per la tenuta di un convegno al Westin Palace, sempre nel capoluogo lombardo, al quale parteciparono Goma Amin, vice guida generale dei Fratelli Musulmani, e Mahmoud El Abiary, responsabile della Fratellanza in Europa. Difficile sostenere che nel Caim, di cui anche Kabakebbji come sua moglie Sumaya fa parte, non ci siano persone vicine ai Fratelli Musulmani perché il marito della candidata del Pd era seduto proprio a fianco a El Abiary e ne traduceva il pensiero (nei servizi di seguito del Fatto quotidiano e del tg de La7 è l'uomo in cravatta e camicia bianca). E su Facebook Kabakebbji definiva il numero 3 dei Fratelli Musulmani "fratello dr. Mahmud el Abiary".
  A sostegno della campagna elettorale di Sumaya Abdel Qader c'è anche Davide Piccardo, coordinatore del Caim, l'associazione di Sumaya e suo marito, che per il 3 giugno, due giorni prima delle elezioni, ha invitato per un convegno a Milano il controverso intellettuale svizzero Tariq Ramadan, nipote di Hasan al Banna, il fondatore dei Fratelli Musulmani. Piccardo, che è uno dei leader dei giovani musulmani italiani, nei giorni scorsi ha preso anche le difese dell'imam Tareq Al-Suwaidan, noto per le sue posizioni estremiste e antisemite e per questo bandito dagli Stati Uniti, dal Belgio e recentemente anche dall'Italia per decisione del ministro dell'Interno Angelino Alfano che tra le motivazioni ha indicato proprio la vicinanza dell'imam Suwaidan ai Fratelli Musulmani.
  Ecco alcune delle tesi sostenute dall'imam difeso da Piccardo: "Tutte le madri della nazione islamica - non solo quelle palestinesi - dovrebbero nutrire i loro figli con l'odio verso gli Ebrei. Li Odiamo. Loro sono il nostro nemico. Dobbiamo instillare questo nelle anime dei nostri figli, finché una nuova generazione crescerà e li spazzerà via dalla faccia della Terra... Ciascuno di noi, uscendo da questa sala, dovrebbe pensare a un piano per annientare Israele". Tuttavia per Piccardo l'imam kuwaitiano è un moderato: "Alfano vieta a Tareq Sweidan di entrare in Italia accusandolo di estremismo. Ho avuto il piacere di conoscere Tareq Sweidan e posso dire senza timore di smentita che non ha mai in nessun modo sostenuto posizione estremiste o violente, tutt'altro, è uno strenuo oppositore delle posizioni letteraliste e oscurantiste. Sweidan subisce questo ostracismo solo a causa delle sue posizione anti-sioniste a sostegno del popolo palestinese".
  Evidentemente Sumaya Abdel Qader non ha detto tutta la verità rispetto ai rapporti suoi e del Caim con i Fratelli Musulmani e forse è il caso che anche il Partito Democratico, se all'oscuro di tutto, chieda chiarezza alla sua candidata.

(Il Foglio, 18 maggio 2016)


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Islamici contro Israele. Il caso scoppia nel Pd «Ora basta ambiguità»

Nuove polemiche sulla candidata musulmana Sumaya Fiano. «È inaccettabile avere dubbi sullo Stato ebraico».

di Alberto Giannoni

«Basta ambiguità su Israele». Dopo giorni di malumori il caso è scoppiato apertamente. Le due anime del Pd sono uscite allo scoperto e si fronteggiano. Al centro della polemica, il nervo scoperto di sempre: l'esistenza e le scelte dello stato ebraico in Medioriente. Politica estera? No, non solo. La contrapposizione può replicarsi sul tema milanese per antonomasia: la moschea. Finora silenzioso, solitamente cauto, al centro della polemica da ieri c'è un peso massimo del Pd, Emanuele Fiano. Oggi responsabile sicurezza Pd, in passato presidente della comunità ebraica, Fiano è intervenuto sulla candidata (indipendente) Sumaya Abdel Qader. E l'ha fatto per richiamare la posizione del partito: «Avere dubbi sul diritto all'esistenza dello Stato d'Israele non è concepibile» ha detto, ricordando che questa è «esattamente la stessa linea» delleader Matteo Renzi. Fiano ha definito inaccettabile «che qualcuno che si candidi con il Pd trovi difficoltà a sfilare dietro il vessillo della Brigata ebraica». E rivolgendosi alla Abdel Qader: «A volte è difficile essere chiari e non ambigui su questioni spinose, è difficile specificamente con la propria comunità che magari pretende obbedienza ad una tradizione». La sostanza è chiarissima: «Su Israele non ci possono essere ambiguità nel Pd», Ma perché si è reso necessario questo richiamo? La Abdel Qader era intervenuta dopo le polemichedei giorni scorsi su alcune (vecchie) posizioni del marito (leader dei Giovani musulmani).
   Sentendosi chiamata a un chiarimento, Sumaya ha ammesso che «signori, Israele c'è. Esiste e non si può pensare altrimenti. Possiamo essere in disaccordo su come è nata ma la storia oggettiva di milioni di profughi, terre confiscate (io sono nata in Italia perché nipote di profughi) e le migliaia di morti resta». Poi la precisazione sui partigiani ebrei: «Non ho sfilato con la Brigata ebraica il 25 aprile, ero appena dietro con il corteo del Pd e sono passata a fianco più volte alla ricerca di amici». «Sfilerei con la Brigata ebraica senza problemi - ha aggiunto - se non confondesse il suo essere profondamente italiana con Israele che non rappresenta me e tanti italiani».
   Distinguo che non sono piaciuti a Daniele Nahum, altro candidato Pd, altro esponente della comunità, fautore di posizioni ragionevoli (e perciò minoritarie a sinistra) sul tema-moschee. «Il punto non è riconoscere l'esistenza di Israele» - ha detto, anticipando Fiano - ma «le ragioni storiche della sua nascita in quanto Stato ebraico e democratico. Un candidato del Pd non può esimersi dal farlo. Senza alcuna ambiguità». Lapidario anche Sergio Scalpelli, ex assessore, amico di Israele e oggi grande sostenitore del Pd e di Beppe Sala candidato: «Ai compagni Pietro Bussolati e Lia Quartapelle è stata tirata la classica sòla», ha detto, evocando una «fregatura» presa dalla sinistra interna.

(il Giornale, 19 maggio 2016)



Parashà della settimana: Behar Sinài (Sul monte Sinai)

Levitico 25:1-26:2

Secondo una tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa consuetudine fissa, e questa è la terza volta che sulla parashà della settimana compaiono due commenti di provenienza diversa, ebraica ed evangelica. La consuetudine dunque può dirsi fissata, almeno nelle intenzioni.

 - Il Signore parlò a Moshè sul Monte Sinài (Behar Sinài) dicendo: 'Parla ai figli d'Israele e dì loro: "Quando sarete entrati nella Terra che sto per darvi, la Terra dovrà riposare un Sabato in onore del Signore'' (Levitico 25.1).
  Le parole di D.o Benedetto rivolte al profeta Moshè, riguardano le regole sulla Schemità (riposo della Terra) e quelle sul Giubileo (Jovel) che sono state date al popolo ebraico sul Monte Sinài, regole dunque legate al dono della Torah.
  Il riposo della Terra d'Israele da ogni attività produttiva è detto ''anno sabatico''.
  La prima domanda da porsi è questa: "Cosa avrebbe avuto da mangiare il popolo se durante il settimo anno la Terra d'Israele non deve essere lavorata? Difatti il testo biblico continua: "Per sei anni seminerai il tuo campo e per sei anni poterai la tua vigna e ne raccoglierai il prodotto, ma nel settimo anno ci sarà una completa cessazione dal lavoro per la Terra un sabato del Signore'' (Levitico 25.3).
  A questa domanda risponde D-o stesso: "Non preoccupatevi perché I-o decreterò la Mia benedizione a vostro favore e nel sesto anno la Terra produrrà un raccolto sufficiente per tre anni" (Levitico 25.21).
  Facendo cioè i conti la Terra deve dare spontaneamente i frutti per tutto il settimo anno, che dovranno essere sufficienti anche per l'ottavo e per il nono anno quando si potranno di nuovo raccogliere i frutti dalla semina avvenuta nell'ottavo anno.
  La realizzazione di una tale promessa può provenire soltanto da un intervento provvidenziale e straordinario di D.o. Il fatto che la Terra nel sesto anno possa produrre un raccolto sufficiente per tre anni, è davvero miracoloso.
  Ma l'uomo si è abituato a dubitare della parola di D.o, nonostante i profeti d'Israele abbiano ammonito il popolo dalla ''dura cervice'' a non disubbidire alle regole sulla Schemità e sul Giubileo. La violazione di queste Leggi sarà ritenuta dai profeti come la causa della distruzione del Tempio di Gerusalemme e dell'esilio del popolo ebraico. Sono leggi difficili da osservare perché esse non si basano su di una logica umana oppure su delle leggi naturali, ma solo sulla benedizione di D.o, che apre le porte alla vita.
  Che cosa significa fare uno Shabat per il Signore? Vuol dire che la Terra ritornerà a D.o essendo questo lo scopo della Creazione, nell'insegnamento di ricordare all'uomo che egli non è il vero proprietario della Terra bensì solo un beneficiario del dono ricevuto.
  Qualora un uomo o una società sostengano di essere i soli proprietari del loro ''campo'', come sovente accade, e non lasceranno la Terra riposare per trarrne un maggiore profitto, questo cieco accanimento sarà la causa della loro caduta morale e materiale.
  Il versetto biblico ''la Terra tornerà al Signore'' significa dunque che l'uomo deve rendersi conto dei meccanismi di giustizia che regolano la Creazione, riflettere su questi e correggere la propria superbia e ingordigia mediante il ritorno a D.o (teschuvà).
  Il Giubileo, in ebraico Jovel ''montone'' prende questo nome dal suono del corno del montone con cui veniva dato inizio a questa solenne festività biblica.
  "E conterai sette settimane di anni, sette anni sette volte e la durata delle sette settimane di anni ti risulterà in quarantanove anni... E consacrerete il cinquantesimo anno e 'Voi' proclamerete la libertà nella terra per tutti i suoi abitanti: è il Giubileo" (Levitico 25.8).
  Il cinquantesimo anno provoca automaticamente il ritorno di tutte le terre vendute ai suoi proprietari iniziali e la liberazione degli schiavi. Le vendite avvenute durante i quarantanove anni hanno di certo un carattere giuridico ma nessun carattere definitivo sulla proprietà della Terra perché questa appariene a D.o e la sua vendita è solo temporanea.
  La Torah intende mettere ogni ebreo in uno stato di libertà tale che la sua condizione umana non venga ostacolata per servire D.o e il suo prossimo.
  In questa ottica anche lo schiavo nell'anno giubilare viene liberato ''.... ed egli uscirà presso di te con i suoi figli e tornerà alla sua famiglia e al possesso dei suoi padri tornerà" (Levitico 25.41).
  E' necessario puntualizzare le differenze tra queste due regole della Torah. La Schemità è santificata per il Signore, mentre il Giubileo è santificato per l'uomo.
  La prima riguarda il tempo che l'uomo deve dedicare a D.o come lo studio della Torah, mentre la seconda riguarda i rapporti tra gli uomini relativi alla libertà e alla proprietà. E' pertanto facile immaginare come questa seconda legge sia un flagello per le grosse proprietà fondiarie che sono spesso uno Stato nello Stato per dominare la ricchezza della Nazione secondo il loro tornaconto.
  La parashà si chiude con il divieto di prestare denaro ad interesse, con il divieto di costruire idoli da adorare e con l'obbligo da parte dei figli d'Israele di aver ''rispetto del Mio Santuario'' (Levitico 26.1), che nei tempi messianici sarà "Una Casa di preghiera per tutti i popoli della terra" (Isaia 56.7).
  Per quanto riguarda il "prestito'' in generale possiamo aggiungere che questo non è una pratica in contrasto con l'etica dell'uomo. Però se la Torah esige in maniera categorica di rinunciare agli interessi significa che vuole insegnarci qualcosa altro e cioè il dovere di ''solidarietà'' che deve regolare la società. Il danaro allora non è più un mezzo per accedere al potere, ma un sostegno per il prossimo.
  In Israele soprattutto nei quartieri religiosi esistono delle piccole banche chiamate ''cuppot zedakà'' (casse di beneficenza) dove il denaro viene fatto circolare senza interesse per il bene della collettività, in ottemperanza alla Legge biblica. F.C.

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 - Gli ordini contenuti in questo brano riguardano due punti: la terra e gli uomini. In linguaggio odierno potremmo dire: ecologia ed etica sociale. No allo sfruttamento intensivo della terra per soddisfare i nostri smisurati bisogni; no al libero mercato insensibile ai bisogni primari del prossimo che ci vive accanto. Potremmo ricavare questo dal nostro testo di oggi, e probabilmente saremmo pronti a seguirne volentieri le raccomandazioni. Certo - potremmo dire -, oggi non è possibile seguire queste istruzioni alla lettera perché il quadro storico è cambiato, ma tuttavia potremmo coglierne lo "spirito" e lasciarci guidare da esso nelle nostre azioni. In linguaggio giuridico, lo spirito di una legge prende il nome di ratio legis, ed è costituita dal passato che ne causa la formulazione e dal futuro a cui la legge tende come obiettivo. Nel nostro caso lo spirito di queste leggi va ricercato negli indicativi del testo, prima che negli imperativi.
  Esaminiamoli.
  "Il settimo anno sarà un sabato di riposo per la terra, un sabato in onore dell'Eterno" (25:4). Si parla di riposo della terra, tema ecologico, che però secondo il testo deve avvenire "in onore dell'Eterno". Dunque se si vuol comprendere lo spirito di questa norma bisogna cercare di capire perché l'Eterno vuol essere onorato in questo modo. Questa non è ecologia, ma teologia.
  "Le terre non si venderanno per sempre, perché la terra è mia; poiché voi siete forestieri e affittuari con me" (25:23). Qui c'è una forte limitazione del libero mercato, ma perché? Per ragioni morali? No, per motivi giuridici. Perché il proprietario di tutta la terra è l'Eterno, e se ha deciso di fare così avrà le sue buone ragioni, su cui si può riflettere ma che non possono essere messe in discussione. Cercare di capirle non è ecologia, ma teologia.
  C'è anche una legge contro l'usura che si applica a chi si è gravemente impoverito: "Non gli darai il tuo danaro a interesse, né gli darai i tuoi viveri per ricavarne un utile" (25:37), ordine diretto, semplice e sempre attuale. Ma qual è l'indicativo che lo sostiene? "Io sono l'Eterno vostro, che vi ho tratti dal paese d'Egitto per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio" (25:38). Dunque è nell'azione redentrice di Dio verso il suo popolo che va ricercata in questo caso la ratio legis. E anche questa è teologia.
  C'è poi una norma alquanto imbarazzante che oggi darebbe scandalo: riguarda gli schiavi, termine che già in sé non suona molto bene. "Se il tuo fratello che è presso di te è impoverito e si vende a te, non lo farai servire come uno schiavo, starà da te come un lavorante, come un avventizio" (25:39). Giusto - pensiamo noi - Dio non può che essere contrario alla schiavitù; proprio per questo ha liberato gli ebrei dalla tirannia del Faraone egiziano. Il vero motivo però non è questo, almeno stando a quanto dice il testo: "Quanto allo schiavo e alla schiava che potrete avere in proprio, li prenderete dalle nazioni che vi circondano; da queste comprerete lo schiavo e la schiava" (25:44). Dunque gli schiavi possono benissimo esserci; possono essere comprati, venduti e anche lasciati in eredità: "vi servirete di loro come schiavi, per sempre" , ma... non devono essere ebrei: "ma quanto ai vostri fratelli, i figli d'Israele, nessuno dominerà sull'altro con asprezza" (25:46).
  Ancora una volta, il motivo di fondo di questi ordini è concreto e giuridico, non astratto e morale. Come nel caso della terra, anche nel caso degli uomini è una questione di proprietà. La terra appartiene a Dio, e se ha deciso di darne una parte in usufrutto al suo popolo, non per questo i singoli che ne godono possono considerare la parte ricevuta come loro proprietà trasferibile ad altri. In modo analogo, il popolo d'Israele appartiene totalmente a Dio, quindi nessun suo membro può essere considerato come proprietà personale trasferibile ad altri. "Poiché essi [i figli d'Israele] sono miei servi, che io ho fatto uscire dal paese d'Egitto, non devono essere venduti come si vendono gli schiavi" (25:42).
  Qui c'è una cosa interessante da notare: in tutte le edizioni della Bibbia che ho consultato, in questo versetto si parla di "miei servi" , traducendo in questo modo il termine ebraico עבד che in altri casi, anche nello stesso versetto, è tradotto col termine "schiavi". Forse non si è voluto attribuire a Dio l'espressione "miei schiavi" per non fargli fare brutta figura, ma sarebbe stato molto meglio usare lo stesso termine proprio per mettere in evidenza che qui non si tratta di differenza di trattamento, ma di proprietà. La stessa cosa si ripete nel versetto 25:55, dove invece di dire "schiavi", come si fa in tutti gli altri casi che non si riferiscono a Dio, si usa il termine "servi" per addolcire la frase: "Poiché i figli d'Israele sono servi miei; sono miei servi, che ho fatto uscire dal paese d'Egitto. Io sono l'Eterno vostro». In questa frase, come in tutto il paragrafo sugli schiavi, l'accento è posto sull'aspetto giuridico dell'aggettivo possessivo miei, non sugli aspetti morali del sostantivo schiavi. Come è mia tutta la terra, così è mio questo popolo, dice il Signore che ha espresso la sua signoria d'amore liberando il popolo che si era formato da una sicura morte e presentandolo alle nazioni come popolo suo. In questo modo Dio manifesta nello stesso tempo la natura del suo amore e la forza della sua autorità. L'avvertimento implicito rivolto a tutti è che chiunque si pone in relazione di pace o di guerra con questo popolo e con la terra a lui destinata, alla fine dovrà fare i conti con Lui.
     Si sa che l'accentuazione della particolarità unica del popolo ebraico provoca irritazione, imbarazzo e molto peggio, ma è ineliminabile dalla Bibbia. Chi crede che la Bibbia sia davvero Parola di Dio dovrebbe semplicemente dire a se stesso: "La cosa effettivamente è strana, ma se quello che leggo esprime davvero ciò che Dio ha detto e fatto nei secoli, allora desidero conoscere meglio non questo strano popolo, ma questo strano Dio. Un Dio che ordina a un membro del suo popolo di andare a predicare ravvedimento agli abitanti di un feroce popolo nemico; un Dio che con tutti i lebbrosi che si trovavano in Israele ne guarisce solo uno: il capo di un esercito nemico di Israele. Chi legge in giusto modo la Bibbia arriva prima o poi a scoprire che il personaggio principale di questo libro unico è Dio stesso, proprio Lui. Sono molti invece quelli che leggono la Bibbia convinti di avere ormai capito tutto quello che c'è da capire intorno a Dio e rivolgono la loro intera attenzione a indagare scrupolosamente quello che devono fare per "mettersi a norma" con Lui. Ma davanti a stranezze come quelle di un anno sabatico e un giubileo oggi impraticabili, che probabilmente non sono mai stati praticati nella storia, senza che per questo Dio abbia deciso di abbandonare il suo popolo, prima di chiedersi: "E noi oggi che dobbiamo fare?", sarebbe meglio chiedersi: "Ma chi è questo Dio? perché ha parlato e agito così?" Il Signore, a cui molti chiedono che cosa devono fare, invita anzitutto ebrei e non ebrei a "cercare la sua faccia". "Il mio cuore mi dice da parte tua: Cercate la mia faccia" (Salmo 27:8), dice Davide in una sua preghiera accorata. Chi fa questo, prima o poi vede venirgli incontro un Dio strano, imprevedibile, spesso irritante, ma alla fine affascinante; un Dio che si ama e che non si vorrebbe mai diverso da quello che è.
     "Sì, in questo strano paese di Israele c'è un Dio strano e succedono cose strane", dice il personaggio di un racconto scritto qualche anno fa per rappresentare in forma fantastica uno stranissimo episodio della Bibbia. Può servire come spunto di riflessione: "Il generale Naaman, ovvero: una questione di principio". M.C.

(Notizie su Israele, 19 maggio 2016)


Bosnia - L'improbabile rinascita ebraica di Kreševo

di Andrea Zambelli

 
Kreševo
La famiglia Martinčević torna dalla Norvegia al suo paesino natale, Kreševo, incastonato nelle vallate della Bosnia centrale. La stranezza? I Martinčević sono ebrei, e Kreševo ora intende offrire a tutti gli alunni delle scuole dell'obbligo qualche ora di conoscenza della religione e cultura ebraica.
   Frano Martinčević (Yehuda Kolonomos) è un virtuoso organista, con alle spalle concerti internazionali e lavoro nella cooperazione tra Norvegia e Bosnia, oltre ad aver suonato perfino in Vaticano. Kreševo è un paesino di 5.500 abitanti, di cui due terzi cattolici e un quarto musulmani. Qui Frano ha voluto far ritorno tre anni fa con la moglie Ana e i cinque figli: Rebecca, Isaac, Joshua, David e Moshe. L'anno scorso aveva deciso di offrire ai compaesani dei corsi di musica (cultura musicale, musica sacra e fisarmonica), in collaborazione con l'Università di Mostar. Ora ai dirigenti della locale scuola elementare i Martinčević hanno proposto di estendere a tutti gli altri bambini ciò che già facevano coi loro figli - lo studio della religione e cultura ebraica.
   "Il consiglio scolastico ha risposto in maniera molto favorevole, e anche le autorità municipali hanno visto di buon occhio la nostra iniziativa", ha detto Frano in un'intervista alla tv N1. "L'educazione religiosa è molto importante nella vita di una famiglia ebraica. Il nostro contributo all'educazione religiosa a scuola è altrettanto importante, perché dimostra che noi ebrei in Bosnia esistiamo. In più, la nostra è la più numerosa famiglia ebraica in Bosnia ed Erzegovina", sorride Frano.
   "Siamo tornati a casa. Kreševo è piccola, ma ha molta anima e cuore. Siamo grati a tutti coloro che ci hanno accettati e possiamo solo ringraziare Dio per ogni nuovo giorno della nostra avventura. E vogliamo che anche i nostri figli restino qui in Bosnia ed Erzegovina", ha raccontato Ana.
 Il ritorno della famiglia Martinčević a Kreševo ha ricevuto il sostegno della comunità ebraica di Sarajevo, la più numerosa nel paese. L'idea è di estendere il più possibile la possibilità per i bambini bosniaci di entrare in contatto e conoscere la cultura ebraica. "Questo è solo un primo passo nel ritorno alle nostre radice e alle nostre tradizioni, che in qualche modo attualizziamo in quella che è la società di oggi, in un paese multietnico," conclude Frano.
   Generazioni di ebrei sefarditi in Bosnia ed Erzegovina, durante l'epoca socialista, sono cresciute con l'educazione tradizionale, ma non quella religiosa. Il loro linguaggio, il ladino, è oggi pressoché scomparso. La rinnovata presenza ebraica a Kreševo, dicono i Martinčević, dovrebbe essere presa ad esempio: perché nessuno in città dovrebbe sentirsi piccolo o insignificante.
   La comunità ebraica di Sarajevo farà domanda al ministero dell'istruzione, per poter organizzare corsi di cultura e religione ebraica anche nelle scuole della capitale, all'avvio del nuovo anno scolastico, dopo l'estate. Così oltre a Kreševo anche Sarajevo, città che ancora custodisce la Haggadah, ritesserà i fili con la sua millenaria tradizione ebraica.

(East Journal, 18 maggio 2016)


Tariq Ramadan sotto la Madonnina

Il 3 giugno a Milano, mentre in Francia è "persona non grata".

Tariq Ramadan
Il controverso professore svizzero, che si muove nell'alveo dei Fratelli musulmani, è ormai "persona non grata" nell'establishment politico della Francia. Dal premier Manuel Valls a Najat Vallaud-Belkacem, ministro dell'Istruzione, tanti hanno rifiutato di partecipare a convegni in cui c'è lui, Tariq Ramadan. L'ex segretario socialista, Martin Aubry, e il dirigente del partito Laurent Fabius, hanno ritirato la propria firma da petizioni in cui c'era anche il nome di Ramadan. Aubry, come sindaco di Lilla, ha boicottato l'invito della Lega islamica nella sua città perché al convegno c'era Ramadan. Bernard Kouchner, fondatore di Medici senza frontiere e già ministro degli Esteri, ha definito Ramadan "un uomo estremamente pericoloso", così come Bertrand Delonoè, da sindaco socialista di Parigi, ha dichiarato Ramadan "unfit" per il Forum sociale europeo, in quanto "sospetto di antisemitismo". Lo stesso hanno fatto Aurélie Filippetti, ministro della Cultura. Non c'è incontro pubblico di Ramadan in Francia in cui non venga criticato (due giorni fa l'islamologo è stato contestato dalle Femen). Speriamo che il Partito democratico prenda nota di questi e altri casi provenienti dalla sinistra francese, visto che Ramadan dovrebbe essere a Milano il 3 giugno, due giorni prima delle elezioni comunali, su invito di Davide Piccardo, leader dei giovani islamici. Mentre si attendono conferme della presenza di Ramadan sotto la Madonnina, c'è da chiedersi se il "fratello Tariq" andrà a sostenere la candidatura nel Pd di Sumaya Abdel Qader, rappresentante dell'islam politico a scapito di altre musulmane in lista.

(Il Foglio, 18 maggio 2016)


L'islamica dei dem: mio marito odia Israele solo quando è turbato

E' candidata a Milano per Sala e difende il consorte che sui social si era augurato la distruzione dello Stato ebraico: «C'era la guerra e morivano donne e bambini». Ma la Lega attacca: è antisemita. Tensione nella comunità musulmana, che non aveva gradito la scelta della donna di sfilare il 25 Aprile vicino alle bandiere con la Stella di David.

di Andrea Morigi

Suo marito è al centro di un'aspra polemica sul diritto all'esistenza di Israele, ma Suma-ya Abdel Qader, la musulmana candidata nel Pd al comune di Milano, nega tutto: «Io penso che non si possa prescindere o dall'esistenza di Israele come Stato. E ha il diritto di continuare ad esistere. Ora pero ci vuole la pace». Anzi, quel «post pubblicato di getto, sull'onda dell'emozione» due anni fa, si giustifica «perché c'erano i bombardamenti e morivano donne e bambini e civili. Però mio marito non inneggia alla distruzione di Israele».
   Magari le frasi sul profilo Facebook di Abdallah Kabakebbji, ripubblicate ieri da Libero, potranno rappresentare uno scandalo per l'elettorato di centrodestra. La reazione di Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e segretario della Lega Lombarda, e di Davide Boni, segretario della Lega Nord Milano, mette in luce le contraddizioni nel campo avversario: «Giuseppe Sala si è accorto che nella sua coalizione è candidata una signora vicinissima ai fondamentalisti dei Fratelli Musulmani, Sumaya Abdel Kader, il cui marito su Facebook appena due anni fa, non due secoli fa, inneggiava alla distruzione di Israele e alla sua cancellazione dalla carte geografiche? Questo non è antisemitismo?», si chiedono.
   Per quanto riguarda il popolo di sinistra, invece, il cavallo di battaglia filopalestinese e antisionista morde il freno. Fra i musulmani, è un tema condiviso. Tutta pubblicità, insomma. Anche perché dalla dialettica fra estremisti e moderati, l'aspirante consigliere comunale pub trarre vantaggio. Dopo aver affermato di aver sfilato il 25 aprile con la Brigata ebraica, si era trovata bollata come apostata dagli ultrafondamentalisti che l'accusano «perché è entrata in politica con l'esplicito intento di tutelare i musulmani, ma si candida con un partito sionista e difende apertamente le unioni gay. Già il solo fatto di partecipare alla democrazia non è accettato dall'Islam, figuriamoci allearsi con i Giudei e difendere i diritti dei sodomiti!». Ora, proprio grazie alle dichiarazioni del marito, potrebbe recuperare un po' di consensi nelle frange più estremiste dell'islam. Kabakebbji, dal suo profilo Facebook, prova a smorzare i toni: «Non voglio né penso che bisogna cancellare Israele. Quel post non dice che voglio cancellare Israele. Quel post criticava Israele in un momento in cui bombardava anche la popolazione di Gaza. Ctrl Alt Canc vuol dire n avvio del sistema. Riavvio del processo di Pace, ripensare questa vicenda storica». Lo incalza uno storico esponente radicale milanese, Alessandro Litta Modignani: «Eppure qui c'è scritta, chiara e tonda, un'altra cosa. Che Israele è un errore. E che gli errori si cancellano».
   A gettar benzina sul fuoco nei rapporti fra religioni e culture diverse, arriva infine l'annuncio della tournée di Tariq Ramadan, che il 3 giugno sarà a Milano, invitato da Islamic Relief, organizzazione fondata da esponenti dei Fratelli Musulmani. In una nota la comunità ebraica di Milano esprime la propria «preoccupazione» per la tendenza in atto «in questi tempi di tensioni inter-religiose», nei quali «in Italia e in Lombardia in particolare», sono «così spesso chiamate a parlare personalità dell'islam più controverso invece che autorità nel campo del dialogo e del rispetto reciproco. Ricordiamo che è solo di un paio di mesi fa l'invito all'imam fanatico e antisemita Al Suwaidan, bloccato dal ministro Alfano». Quanto alle posizioni di Ramadan, gli ebrei milanesi ricordano che «sono state recentemente condannate dalla Conferenza degli imam di Francia». Del resto Ramadan aveva messo «in dubbio il carattere antisemita della strage del museo ebraico di Bruxelles del 2014».
   L'arrivo dell'intellettuale Ramadan, previsto per festeggiare l'inizio dell'omonimo mese sacro ai musulmani, fra l'altro precederà di poco anche le elezioni comunali. Percib la comunità ebraica lancia un appello affinché «i partiti e le istituzioni della Città di Milano prendano posizione su questo incontro, che non è d'aiuto al clima positivo che tutti assieme stiamo cercando di costruire».

(Libero, 18 maggio 2016)


Per lo scrittore pacifista Tariq Ali lo stato ebraico va cancellato

Il romanziere ha spiegato perché la cancellazione di Israele sarebbe un bene per tutti

di Giulio Meotti

 
Tariq Ali
Tariq Ali non è un passante. Romanziere pubblicato in Italia da case editrici come Fazi e Nottetempo, guru della sinistra radical britannica, regista e firma della New Left Review, pachistano educato a Oxford, amico del segretario del Labour Jeremy Corbyn, editorialista della London Review of Books e del Guardian, ex marxista le cui opere vengono lette da Barack Obama e tanto altro ancora. Tariq Ali è stato appena invitato a tenere una conferenza alla University of London Students' Union. Lì lo scrittore ha spiegato perché la cancellazione di Israele sarebbe un bene per tutti. "La soluzione è quella di uno stato in cui ebrei, cristiani e musulmani vivono insieme. Ho dibattuto con un membro del Likud al Parlamento israeliano. Mi ha detto che 'così smetteremmo di essere…'. Io gli ho chiesto: 'Cosa? Cosa smettereste di essere?'. Disse: 'Uno stato ebraico'. Gli dissi che anche lui ne avrebbe beneficiato, certamente i suoi figli e nipoti".
  Tariq Ali ha spiegato, fra gli applausi di chi ritiene naturale, logico, giusto, che Israele incassi le offese al proprio territorio e alla propria gente, che con la scomparsa dello stato ebraico anche "antisemitismo e criticismo di Israele svaniranno". Secondo Uk Media Watch, un volantino distribuito al panel accademico spiegava che "alcune persone stanno brandendo l'accusa di 'antisemitismo' come un bastone per abbattere la leadership di Corbyn" (cinquanta membri del Labour sono stati cacciati con l'accusa di antisemitismo). Tariq Ali ha anche accusato che "questa non è una decisione che è stata presa qui (in Gran Bretagna, ndr) o a Washington, DC. Questa è una decisione che è stata presa dal governo israeliano in Israele". Ali ha poi detto che insegnare l'Olocausto "come un crimine unico" minimizza "altre atrocità globali". Intanto montava la protesta proprio contro quella Students' Union che ha ospitato il dibattito dello scandalo. L'Università di Newcastle è il secondo istituto britannico che interrompe i rapporti con l'Unione nazionale degli studenti dopo l'elezione di Malia Bouattia che sostiene il boicottaggio di Israele e il terrorismo palestinese contro gli israeliani. Lo stesso aveva deciso l'Università di Lincoln, dopo che Bouattia aveva descritto la Birmingham University come un "avamposto sionista".
  E' stata una settimana molto proficua per l'odio antiebraico: un concorso di vignette negazioniste a Teheran con la partecipazione di una folta delegazione francese, un elogio di Settembre Nero al Festival del Cinema di Cannes, una risoluzione dell'Unesco che cancella le radici ebraiche di Gerusalemme e ora il grande scrittore pacifista che, senza vergogna e come un ayatollah qualsiasi, espone in pubblico la propria "Soluzione Finale 2.0".

(Il Foglio, 18 maggio 2016)


"Israele, oltre conflitto e retorica un mondo tutto da raccontare"

di Alice Fubini

Una serata dedicata a Israele nelle sue infinite sfaccettature, al di là del conflitto, della politica, delle tensioni. Israele come società viva ed in costante evoluzione. Raccontarla in questa prospettiva è la sfida della redazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, come hanno spiegato ieri, nelle sale della Comunità ebraica di Torino, i redattori di Pagine Ebraiche Daniel Reichel e Ada Treves assieme a Daniela Fubini, apprezzata firma del giornale dell'ebraismo italiano.
Non solo conflitto. Israele società viva" il titolo dell'incontro organizzato dalla redazione UCEI in collaborazione con la Comunità ebraica di Torino, introdotto dal direttore dell'area informazione dell'Unione Guido Vitale, che ha sottolineato quale sia la sfida più grande rispetto all'informazione giornalistica su Israele: quella di andare oltre il tema del conflitto, onnipresente sui media, e raccontare il Paese reale, la vivacità, il fascino e problematiche quotidiane di milioni di israeliani.
   "L'idea - ha spiegato Vitale - è quella di sviluppare dei giornali che parlino di altri aspetti e questo ci ha spinto a pensare ad un notiziario settimanale come Sheva Eretz, che racconti la realtà oltre la gabbia del conflitto".
   Ad aprire l'incontro, i saluti di David Sorani, consigliere con delega alla Cultura della Comunità ebraica di Torino. I tre relatori hanno poi portato tre punti di vista diversi della realtà israeliana: Ada Treves ha presentato i risultati dell'indagine sociodemografica sulla popolazione israeliana dell'autorevole istituto americano Pew Research Center; Daniel Reichel ha illustrato il nuovo notiziario settimanale UCEI dedicato a Israele, Sheva Eretz. E infine Daniela Fubini, consulente di Gvahim - organizzazione non profit che orienta gli olim hadashim, i nuovi immigrati in Israele, con titolo accademico nella ricerca di un lavoro - ha raccontato come è cambiata la sua prospettiva rispetto al Paese nelle vesti di cittadina israeliana di recente aliyah e del suo lavoro affianco di chi decide di trasferirsi in Israele.

(moked, 18 maggio 2016)


Napoli - Bufera sulla candidata in posa con i palestinesi

Nel mirino la Schiano, in lista al Comune per Dema. In rete la foto dell'attivista di Solidarity Movement a Gaza insieme con uomini armati e incappucciati.

di Pietro Treccagnoli

Una nuova grana per le liste per le Comunali di Luigi de Magistris. A scatenare il caso, questa volta, sono la Federazione nazionale Italia-Israele e l'Associazione Italia-Israele di Napoli che esprimono «sconcerto e indignazione per la presenza» nella lista principale Dema (il core business dello schieramento che punta alla riconferma del sindaco) di Rosa Schiano, 33 anni, attivista dell'Intemational Solidarity Movement (quello al quale apparteneva Vittorio Arrigoni, per capirci). Nel comunicato diffuso ieri e firmato dal Presidente di Italia-Israele di Napoli e vicepresidente nazionale Federazione, Giuseppe Crimaldi, la Schiano è definita «una persona che si è pubblicamente distinta per inqualificabili posizioni ostili e aggressive nei confronti dello Stato di Israele. Posizioni, le sue, esplicitamente evocatrici di violenza e sopraffazione. Un atteggiamento che stride con la vocazione di pace, tolleranza e dialogo della città di Napoli e con la sua tradizione democratica e antifascista».
   Il casus belli è, in particolare, una foto che ritrae l'attivista napoletana a Gaza insieme a uomini incappucciati e armati, mentre fa il gesto della vittoria. Ma sul web girano anche altre foto meno chiare e
Rosa Schiano festeggia in mezzo ai terroristi di Hamas
da contestualizzare meglio, oltre a molti suoi testi sulla situazione arabo-israeliana, chiaramente favorevoli alla causa palestinese. «Duole dover constatare che chi assume delicate responsabilità politiche e istituzionali non eserciti la dovuta vigilanza sulla composizione delle liste elettorali» aggiunge la nota di Italia-Israele che prosegue: «Si fa appello alla coscienza civile e democratica del popolo di Napoli - città Medaglia d'Oro alla Resistenza - affinché sappia fare muro contro tali inquietanti e regressivi fenomeni», ricordando anche altre scelte di Palazzo San Giacomo che l'associazione reputa censurabili. Il riferimento non esplicitato è alla cittadinanza onoraria conferita al leader palestinese Abu Mazen. Per Italia- Israele si tratta di «posizioni squilibrate e faziose sul piano del dialogo interculturale e dell'amicizia tra i popoli che hanno palesemente inquinato la politica della consiliatura comunale uscente non sembrino affatto abbandonate da una parte politica, determinando così una deriva verso un pericoloso crinale di estremismo e di irresponsabilità».
   Un attacco duro, anche se moderato nel lessico, dal quale la Schiano si è difesa, in serata, con un post pubblicato sul profilo Facebook nel quale ha tenuto a chiarire il clima in cui è stata immortalata nell'immagine contestata e che è nota da tempo. Rosa è stata molte volte a Gaza, da dove è tornata definitivamente nell'aprile del 2014. «Anche se mi tengo costantemente in contatto con gli amici e i militanti che sono in Palestina» puntualizza. Sulla foto, la Schiano resta sulle difensive e ammette: «È stata scattata durante una parata militare. Farmi ritrarre così è stata un'ingenuità. La foto è nata in un contesto di conflitto, nel quale può capitare si essere ripresi in situazioni che non si condividono completamente». Però il gesto della «v» di vittoria, è inequivoco. La Schiano chiarisce: «I palestinesi non hanno un vero esercito e io riconosco il diritto di un popolo alla resistenza ( anche armata) contro un'oppressiva occupazione militare». Ma si farebbe scattare ancora una foto del genere? «No, perché è stata strumentalizzata».
   La Schiano ci tiene, comunque, a collocare il proprio impegno sotto una luce che ritiene più corretta. E lo fa sul social network: «Non ho mai espresso posizioni aggressive né evocatrici di violenza nei confronti dello stato di Israele, ho invece denunciato la sua politica aggressiva nei confronti dei palestinesi, l'occupazione militare, le violazioni dei diritti umani sulla popolazione civile riportate altresì da organismi internazionali, l'espansione coloniale che continua in barba al diritto internazionale e che rende di fatto ormai impossibile la creazione di uno Stato di Palestina».
   In che cosa consista la propria azione di sostegno per i palestinesi lo racconta così: «Nella mia esperienza di volontariato nella Striscia di Gaza ho messo in pratica la difesa dei diritti umani, diventando con altri attivisti scudo umano a difesa di civili disarmati intenti a svolgere il proprio lavoro». E aggiunge: «Ho documentato la vita sotto assedio, svolgendo un lavoro costante di cronaca e denuncia dei fatti sul posto, sono stata accanto ai feriti negli ospedali durante le aggressioni militari». Hamas, però, ha posizioni diverse. «Al loro interno non ci sono posizioni univoche» spiega al telefono. «La maggioranza dei palestinesi vuole solo la fine del conflitto e dell'occupazione militare».
   Sia come sia, questo nuovo attacco alle eterogenee liste di de Magistris (l'eterogeneità è, comunque, una caratteristica che sembra accomunare quasi tutti gli schieramenti) sta creando molto imbarazzo nelle file arancioni, anche se formalmente c'è una difesa della Schiano. Ci si appella all'ingenuità di uno scatto fotografico che, commentano, non può offuscare il lavoro di solidarietà e volontariato che l'attivista porta avanti da anni.

(Il Mattino, 18 maggio 2016)


"Gloria ai martiri palestinesi"


Trani, la città con la cattedrale sul mare

di Lucia Morgantetti

 
La Cattedrale di Trani
Trani, una delle pittoresche e caratteristiche cittadine pugliesi affacciate sul mare a circa 50 km a nord di Bari, è una meta turistica molto apprezzata e affascinante sia per la bellezza paesaggistica sia per il suo patrimonio storico-artistico. La città deve senza dubbio la sua grande notorietà alla bellissima Cattedrale di San Nicola Pellegrino, uno degli esempi più significativi dell'architettura romanica in Puglia. Progettata in una posizione scenografica, su una splendida e ampia piazza affacciata direttamente sul mare, testimonia ancora oggi lo splendore della Trani medioevale. La Cattedrale è costruita con la particolare pietra di Trani, una varietà di tufo calcareo dalle tonalità che vanno dal bianco al rosa chiaro che al tramonto assume sfumature calde e affascinanti. Altrettanto famosi sono il campanile duecentesco alto 59 metri che domina tutta la zona costiera e il ricco portale chiuso dalla porta bronzea di Barisano da Trani del 1179. L'attuale porta è una copia dell'originale che, dopo il restauro, è conservata e visibile all'interno. Di fronte alla cattedrale è situato il Castello Svevo, risalente al 1233 e edificato su un banco roccioso per proteggere la città da eventuali assalti dal mare. Anticamente un fossato, forse di origine naturale, lo separava dalla terraferma. Il castello venne poi modificato in epoca angioina e usato come carcere nell'Ottocento. Il porto di Trani è stato in passato uno dei porti principali e più importanti della Puglia crocevia delle rotte commerciali tra Oriente e Occidente. Ogni giorno molti pescatori con le loro bancherelle affollano la banchina e si attardano fino a sera a vendere il pesce appena pescato. In estate l'arrivo di numerose imbarcazioni da tutto il mondo lo fanno diventare un vero e proprio albergo sull'acqua a testimonianza che l'insenatura naturale sulla quale si erge maestoso il campanile della "Regina delle Cattedrali di Puglia" risulta ammaliante con il suo fascino storico e naturale. Percorrendolo con lo sguardo si può godere di una visuale suggestiva, quella che fa amare al turista questa città: la sfilata di bellissimi pescherecci a sinistra dai colori intensi e dai nomi evocativi, e la distesa di barche da diporto a destra, entrambi segnali di un mare "abitato", di un porto funzionante e attrezzato, di una città che ancora guarda al mare, pur senza l'onere di una supremazia da affermare e da difendere. Merita una visita anche il Palazzo Antonacci Telesio. Edificato nel 1761 dalla famiglia Antonacci passò poi per successione ai duchi Telesio che tuttora lo abitano. Con la facciata principale rivolta verso il porto sulla odierna Piazza Quercia, dopo la demolizione delle mura federiciane nel 1845 ha subito un ampliamento sul lato est ad opera dell'architetto Luigi Castellucci di Bitonto; lo stesso architetto adeguò pure la facciata di Piazza Quercia allo stile neoclassico. Il palazzo ospita al suo interno il Marè Resort, un lussuoso albergo, e il suggestivo Museo delle Carrozze dove si può ammirare una raccolta di 33 carrozze ottocentesche, appartenenti per lo più alla famiglia Telesio, oltre a finimenti e divise da cocchiere. Raccolta importante in quanto illustra l'abilità artigianale dell'epoca e fa rivivere la storia di un'intera classe sociale e di tutti coloro che per essa operavano. Lasciato il porto ci si addentra verso il borgo antico e percorrendo vicoli e stradine caratteristiche si arriva al quartiere della Giudecca che testimonia l'incontro, agli inizi dell'anno mille, della storia di Trani con quella del popolo ebraico.
    «In due giorni di viaggio arrivai a Trani, situata in riva del mare; grazie alla comodità del suo porto, Trani è luogo di raccolta dei pellegrini diretti a Gerusalemme; è una città grande e bella, abitata da circa 200 ebrei con a capo rabbi Eliah, rabbi Nathan il commentatore e rabbi Yaaqov.»
Questi appunti annotava nel suo diario di viaggio il grande Chacham (dottore della Legge ebraica) Beniamin da Tudela giunto a Trani nel 1165. A Trani confluirono ben 6 diaspore: gli Ebrei d'Israele fatti schiavi da Tito, gli Ebrei di Venosa cacciati dai Saraceni nel IX sec., gli Ebrei in fuga dalla Spagna islamica degli Almohadi, gli Ebrei scampati al furore antiebraico della crociata tedesca di Worms e Magonza del 1096, quelli in fuga da Bari distrutta nel 1156 da Guglielmo I il Malo e quelli espulsi dalla Francia di re Filippo Augusto e giunti a Trani verso il 1182. Grazie alla concessione degli Svevi nel 1155 gli Ebrei tranesi vivevano nella Giudecca a pochi passi dal porto e dalla cattedrale. Il porto di Trani era a quell'epoca molto più incavato nella città e dalla via che porta alla chiesa di Ognissanti si accedeva a un diaframma urbano tuttora conosciuto come La Galera, usata dai marinai per far stazionare i galeotti rematori. Un intero quartiere di vicoli e cortili a diversi piani con le terrazze contigue, praticamente l'una attaccata all'altra. Sembra che proprio attraverso le vie di fughe sulle terrazze i tranesi siano riusciti a salvarsi dagli assedi dei saraceni. Gli Ebrei tranesi si distinguevano anche nella colorazione dei tessuti e della lana, nella sartoria di classe e, non ultimo, nel diritto marittimo. Basti pensare che nel 1063 furono redatti a Trani gli Statuti Marittimi (tuttora internazionalmente validi) e, accanto al console cristiano Nicola de Roggero, gli altri due consoli firmatari erano gli ebrei Simone de Brado e Angelo de Bramo.
   Ancora oggi Trani è il capoluogo ebraico della Puglia. La comunità ebraica si riunisce nella Sinagoga Scolanova mantenendo vivi gli antichi riti come quello della Hanukkah, la festa delle luci, che si svolge ogni anno a dicembre nella caratteristica piazzetta davanti al tempio. Non si può lasciare Trani senza aver scoperto e degustato la cucina tranese che utilizza ingredienti tipici della tradizione pugliese. Immancabile il tradizionale piatto "patate, riso e cozze al forno", con l'aggiunta di cipolle, aglio, prezzemolo e, ovviamente, olio extravergine d'oliva, e poi la frittata di lampascioni, piccoli bulbi simili a cipolle usatissimi nell'Italia meridionale, e le sempre presenti orecchiette alle cime di rape, serviti nella variante tranese con tre alici e abbondante pepe.

(Gazzetta Italia, 18 maggio 2016)

Israele - Ritrovato in fondo al mare un tesoro risalente a 1.600 anni fa

Riscoperte antichità affondate nei pressi del porto di Cesarea
A nord di Tel Aviv, nei pressi del porto di Cesarea, due subacquei hanno scoperto parte del carico di un mercantile risalente a circa 1.600 anni fa. Monete, statuette raffiguranti gli dei, statue di bronzo, una lampada con la testa a forma di schiavo africano, frammenti di giare, ancore, un rubinetto a forma di cinghiale: tutto risalente al periodo tardo romano. I due mucchi di monete ritrovati, di circa 20 chili, riportano l'immagine degli imperatori e avversari politici Costantino e Licinio. Secondo il direttore del settore subacqueo del Dipartimenti alle antichità d'Israele, la nave era affondata non distante dal porto a causa di una tempesta. Per gli archeologi questo è il ritrovamento più significativo degli ultimi 30 anni.

(Il Foglio, 17 maggio 2016)


Israele celebra l'Indipendenza con 1.500 ospiti

Al ricevimento il saluto pieno di emozione dell'ambasciatore Gilon, a fine mandato.

di Paola Pisa

"Sono particolarmente emozionato perché festeggiamo il sessantottesimo anniversario dell'Indipendenza di Israele, ma anche perché vi comunico la notizia che sto per lasciare l'Italia e questa è l'occasione per salutarvi. Dopo quattro anni e mezzo il mio mandato scade e presto partirò. Arrivando ho trovato ottimi rapporti tra il mio Paese e il vostro e spero di aver contribuito a lasciarli altrettanto buoni. I nostri due popoli sono amici. Viva l'Italia, viva Israele», dice l'ambasciatore Naor Gilon che ha accanto la moglie Orly. Battono le mani in 1.500 nella immensa sala dell'hotel stellare di Monte Mario. Suonano gli inni. Poi tutti intorno alla immensa torta con i colori di Israele e la Stella di David, per il tradizionale taglio.
Il diplomatico ringrazia le molte personalità presenti, appartenenti a istituzioni, politica, diplomazia. Tra loro: il ministro Roberta Pinotti, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, Pier Ferdinando Casini, Fabrizio Cicchitto, Mara Carfagna, Mauro Moretti, ad Finmeccanica. Tra i primi ad arrivare, l'ambasciatore Usa John Phillips. Gilon nel suo discorso invita a visitare Israele, mentre sul megaschermo appaiono le immagini del Paese moderno e antico, e nei video si alternano grattacieli e spiagge, Mar Morto e Tel Aviv. Ci sono anche il padiglione di Israele all'Expo e quello alla Biennale di Venezia. Grandi applausi dalla immensa sala dove non possono mancare il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, la presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, Riccardo Pacifici, Renzo Gattegna, Matteo Arpe, Marisela Federici, Bruno Piattelli, Sandro Di Castro e moltissimi altri brindano e salutano il diplomatico.

(Il Messaggero, 17 maggio 2016)


Sulla piattaforma del gas che lancerà Israele nell'export

Tecnici texani e misure di sicurezza anti-terrorismo. Ma si cercano 7 miliardi di dollari per le infrastrutture.

di Giordano Stabile

 
Vista dall'alto sembra un enorme fenicottero. Con la gru che si protende verso il cielo, 80 metri sopra la superficie del mare, i piloni d'acciaio che sprofondano nell'acqua, fino a 300 metri di profondità. Un corpo fatto di tubi grigi e rossi, ringhiere gialle. E come coda la pedana dove si posa l'elicottero. La piattaforma Tamar, a 27 chilometri al largo di Ashkelon, è la centralina del gas di Israele. Da qui passa il metano estratto a 150 chilometri di distanza: viene scaldato, filtrato, ripulito e inviato nel centro di stoccaggio sulla terraferma. E qui ci sono le manopole che regolano il flusso, a seconda della domanda di energia.
   Ma la Tamar, a metà strada fra Libano, Cipro, l'Egitto, è anche al centro della battaglia energetica nel Mediterraneo orientale. Una gara ad arrivare primi nello sfruttamento dei giacimenti che vengono scoperti uno dopo l'altro, e stanno facendo di questo spicchio di mare un nuovo Golfo del Messico. Israele ha, assieme all'Egitto, le maggiori potenzialità. È partita per prima ma rischia di rimanere indietro. Il giacimento di Tamar ha riserve per 250 miliardi di metri cubi, ne produce 8 miliardi all'anno e copre il consumo interno. Un secondo giacimento ancora da sfruttare, il Leviathan, 450 miliardi di metri cubi di riserve, ha le potenzialità per trasformare lo Stato Ebraico in esportatore.
   Non è semplice. In Israele il metano è anche una questione di sicurezza nazionale. Le leggi hanno favorito le compagnie locali, che però non hanno i mezzi e le competenze delle multinazionali. Il premier Netanyahu con un decreto - respinto poi in parte dall'Alta Corte per violazione dell'Antitrust - ha aperto agli stranieri. Una joint venture fra la texana Noble Energy e l'israeliana Delek Drilling ha fatto decollare il giacimento di Tamar.
   A bordo della piattaforma sono quasi tutti texani. La bandiera con una stella sola si vede sui giubbotti e nelle bacheche nei corridoi, nelle schermate di Facebook. Il cuore del complesso è nel piano abitato, simile all'interno di una nave. Corridoi, cabine per l'equipaggio, la mensa, sale riunioni. E il centro di controllo. È una stanza con tre grandi tavoli, una decina di computer, istruzioni appiccicate sulle pareti. «Possiamo gestire ogni singola valvola» spiega Elliott Parchmon, arrivato qui dopo anni nel Golfo del Messico. Per esempio, il gas passa lungo il fondo del mare e tende a raffreddarsi, al centro del controllo devono immettere e dosare un composto chimico, Meg, che evita il congelamento.
   Anche il procedimento di filtraggio, separazione dalle parti liquide e raffinazione è gestito a colpi di clic. La Tamar deve regolare il flusso del gas a seconda della domanda del mercato israeliano, l'unico a cui è collegata. «La gestione della pressione è uno dei compiti più delicati» conferma Parchmon. L'altro grande nemico sono le perdite di gas e Parchmon gira con un apparecchietto al collo che rileva ogni minima anomalia. E c'è anche la «madre di tutte le valvole» in grado di chiudere il gasdotto in caso di incidente grave. O anche, scherza il texano, per qualche razzo in arrivo da Gaza, a soli 30 chilometri.
   Le misure di sicurezza sono un'ossessione, i comportamenti corretti ripetuti su pannelli esposti ovunque. Camminando sugli scalini in grate d'acciaio, con il blu del mare che si intravede a decine di metri sotto i piedi, si capisce perché. Il pericolo è a ogni passo. Per il settore energetico israeliano, invece, ci sono due sfide all'orizzonte. Una è trovare i 7 miliardi di dollari che serviranno a rendere operativo il giacimento Leviathan. L'altra è agganciarsi ai mercati esteri.
   Un'ipotesi è collegarsi all'Egitto. È vero che l'italiana Eni ha scoperto in acque egiziane il giacimento Zohr, 5 volte più grande del Leviathan. Ma per la Delek Drilling «the more, the merrier», più si è meglio è. Secondo uno studio della McKinsey, neanche Zohr coprirà il fabbisogno del Cairo nei prossimi anni. E a Damietta c'è un terminal sottoutilizzato. Le altre ipotesi sono agganciarsi alla Turchia o, via Cipro, alla Grecia. Sono più costose, ma secondo fonti diplomatiche potrebbe entrare in campo un'altra azienda italiana, l'Edison. Il tutto in attesa della decisione finale dell'Alta Corte sul decreto-Netanyahu. Senza un quadro legislativo definitivo difficilmente arriveranno investitori esteri.

(La Stampa, 17 maggio 2016)


Il marito dell'islamica Pd vuoi cancellare Israele

Per sostenere l'aspirante consigliere sbarca anche il discusso predicatore Tariq Ramadan. Frasi anti ebraiche del consorte della candidata a Milano Sumaya Abdel Qader. E spuntano legami con i terroristi di Hamas.

di Andrea Morigi

Il post su Facebook del marito di Sumaya Abdel Qader
L'Intifada punta a Palazzo Marino. Ora che Sumaya Abdel Qader si è candidata con il Pd al Comune di Milano, suo marito Abdallah Kabakebbji ha scelto una strategia comunicativa più istituzionale. Peccato che non abbia ancora deciso di togliere di mezzo, benché siano visibili soltanto ai suoi amici di Facebook, i post nei quali dichiara che «Israele è un errore storico, politico, una truffa. In caso di errore che crea danno, sai cosa si fa a casa mia? Ctrl-Alt-Cancl», cioè si dà il comando che consente di resettare e sbloccare un computer. A casa sua c'è anche la consorte velata e in lizza per un posto di consigliere, che ha impostato la propria campagna elettorale tentando di accreditarsi come moderata e propensa al dialogo.

 Computer e jihad
  Se ci sia un'analogia fra informatica e jihad e se questa comporti anche la cancellazione dello Stato ebraico, bisogna dedurlo dallo slogan «Gaza vive, resiste, vince», con cui Kabakebbji chiude il proprio post del 17 luglio 2014.
  In ogni caso, è pubblico e visibile a chiunque sulla sua bacheca quello che pensa, quando fa riferimento a un «rabbino fanatico che abita nell'entità (sic!) sionista chiamata Israele». È la classica formula utilizzata da chi non riconosce il diritto all'esistenza dello Stato che ha per capitale Gerusalemme e con il quale notoriamente i Paesi arabi in genere non intrattengono rapporti diplomatici.
  Nel caso specifico, Gaza è governata con la violenza e l'intimidazione da Hamas, un movimento terrorista inserito nella lista nera dell'Unione europea e che ha nel proprio statuto affermazioni come la seguente: «Di fronte all'usurpazione della Palestina da parte degli ebrei, dobbiamo innalzare la bandiera del jihad. Questo richiede la propagazione di una coscienza islamica tra il popolo a livello locale, arabo e islamico. È necessario diffondere lo spirito del jihad all'interno della umma, scontrarsi con i nemici, e unirsi ai ranghi dei combattenti». La sfida si rivela piuttosto estesa: «L'invasione sionista è veramente malvagia. Non esita a prendere ogni strada e a ricorrere ai mezzi più disonorevoli e ripugnanti per compiere i suoi desideri. Nelle sue attività di infiltrazione e spionistiche, si affida ampiamente alle organizzazioni clandestine che ha fondato, come la massoneria, il Rotary Club e i Lions Club, e altri gruppi spionistici. Tutte queste organizzazioni, siano segrete o aperte, operano nell'interesse del sionismo e sotto la sua direzione. Il loro scopo è demolire le società, distruggere i valori, violentare le coscienze, sconfiggere la virtù, e porre nel nulla l'islam. Sostengono il traffico di droga e di alcol di tutti i tipi per facilitare la loro opera di controllo e di espansione».

 I fratelli musulmani
  A Kabakebbji importa relativamente, tanto che il 26 luglio 2014 pubblica una dichiarazione dell'ex ministro palestinese Osama Al Issawi che preannunciava una terza intifada in Cisgiordania. Due anni dopo, gli accoltellamenti di ebrei sono una tragica realtà quotidiana. Del resto, era una profezia auto avverante perché sono stati proprio i vertici di Hamas a organizzare la rivolta. Fra l'altro, anche Al Issawi è un personaggio familiare nel giro dei Fratelli musulmani lombardi, perché scrive sul suo profilo di aver studiato architettura al Politecnico di Milano. Chissà, se Sumaya Abdel Qader dovesse ottenere un buon successo alle urne, magari potrebbero proporlo come assessore e affidare proprio a lui la costruzione della tanto sospirata moschea metropolitana. Intanto, è già fra i contatti di Kabakebbji, che su Facebook lo chiama addirittura «il nostro».
  Se si consulta il profilo twitter del marito della candidata del Pd, risultano «suoi» anche noti predicatori di odio verso Israele come Youssuf Al Qaradawi e Tareq AI Suwaidan. Quel che non trova condivisibile, invece, è l'atteggiamento del governo italiano (a guida Pd) nei confronti di Benjamin Netanyahu. Il 21 luglio scorso, Kabakebbji criticava in modo sibillino i risultati di un vertice bilaterale: «Adesso che so che visione ha Renzi con maggior chiarezza, capisco bene che Renzi o non sa cosa sia Israele, o non... ».
  Certo, il Pd ha candidato sua moglie e non lui, che si definisce cofondatore della Gioventù Musulmana Italiana «tollerante nella vita» ed esercita la professione di dentista dalle parti del Castello Sforzesco, ma si sa che il Corano impone alle donne di obbedire al marito. In caso di dubbio, ci penserà l'ideologo Tariq Ramadan a spiegare chi comanda in famiglia. Sarà a Milano il 3 giugno, in tempo per lanciare l'ultimo appello ai Fratelli musulmani prima del voto.

(Libero, 17 maggio 2016)


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Sumaya: "Non è in discussione Israele, ho sfilato con Brigata Ebraica" </EdIndex> mpe_title

Intervista a Sumaya Abdel Qader, candidata musulmana del Pd al centro delle polemiche.

di Fabio Massa

 
Sumaya Abdel Qader
Sumaya Abdel Qader, 37 anni, candidata con il Pd al Consiglio Comunale di Milano, fin dall'inizio della sua candidatura ha affrontato un fuoco di fila di polemiche. L'ultima, legata a un vecchio post di suo marito, musulmano come lei, nel quale si attacca lo Stato di Israele. "E' un post di due anni fa, successivo a un attacco militare che vide centinaia di bambini morire sotto le bombe. Lo ha scritto perché molto colpito da quelle immagini e quelle notizie", spiega adesso lei ad Affaritaliani.it.

- Sumaya, partiamo dall'inizio. Lei chi è?
  Sono vista come una outsider, tanti travisano perché sono nata e cresciuta a Perugia. Fino ai 20 anni ho vissuto là, poi mi sono trasferita a Milano per studiare e perché mi sono sposata. Mio marito abitava a Gallarate e studiava odontoiatria.

- Quanti figli ha?
  Tre figli.

- Perché si è candidata?
  Perché mi è stato proposto. Non ho mai pensato di fare questo tipo di politica, io sono sempre stata attiva a livello associativo. E poi sono occupata in università, sono appena diventata cultrice della materia sotto la cattedra di sociologia.

- Si è mai sentita discriminata?
  Normalmente no. Infatti sono attiva in università, sono sempre stata chiamata a fare la relatrice. Quando ho cercato lavoro non ho ricevuto alcun no per quello che sono.

- I suoi figli?
  Non sono mai stati discriminati. Ai tempi dell'11 settembre forse qualche battutina, ma non le ho mai reputate forme di razzismo.

- Lei fa parte dei fratelli musulmani?
  Io non ne faccio parte. A Milano i Fratelli Musulmani non esistono come organizzazione. Io li ho studiati anche all'Università: sono una realtà complessa per quello che sono oggi. Sono una realtà plurale e sono diventati specifici in diversi Paese e portano avanti programmi diversi. Vedi la Tunisia o il Marocco. Ma sono espressioni differenziate.

- Se domani fosse eletta e di fianco a lei ci fosse Daniele Nahum, esponente ebreo, come sarebbe il vostro rapporto?
  Con Nahum non c'è alcun problema. Lo conosco da 15 anni e da 15 anni abbiamo intrapreso un percorso di dialogo, quando lui era presidente dei giovani ebrei e io ero tra i giovani musulmani. E firmammo un documento congiunto con le Acli.

- Sarò più chiaro: che cosa ne pensa di Israele?
  Voglio dirlo in modo netto: nessuno può mettere in discussione Israele. E noi non l'abbiamo mai fatto, né io né mio marito. Io penso che non si possa prescindere oggi dall'esistenza di Israele come Stato. E ha il diritto di continuare ad esistere. Ora però ci vuole la pace. Il piano di pace arabo nel 1993 potrebbe essere una buona base su cui lavorare per portare avanti una situazione di pacificazione tra le due realtà, tra quelli che dovrebbero essere due Stati.

- Suo marito però ha messo post inneggianti a ben altro, su Facebook, come rivela Libero.
  Attenzione. Due cose: stiamo parlando di un post di due anni fa che qualcuno si è conservato da allora e che ripropone strumentalmente oggi. Un post pubblicato di getto, sull'onda dell'emozione.

- Non l'ha pubblicato lui?
  Sì, l'ha pubblicato per fare una grossa critica ad Israele perché c'erano i bombardamenti e morivano donne e bambini e civili. Però mio marito non inneggia alla distruzione di Israele. Questa è la seconda cosa che voglio dire.

- Beh, c'è una immagine Ctrl-Alt-Canc…
  Sì, che vuol dire riavviare le trattative, non eliminare uno Stato. Tra l'altro io mi chiedo: perché nessuno lo ha chiamato e gli ha chiesto di spiegare?

- Suo marito è un suo supporter?
  E' il mio primo supporter.

- Non sono suoi supporter alcuni musulmani, però.
  Ricevo minacce e messaggi e altro quasi tutti i giorni. Ho paura per i miei figli, ma avrei ancora più paura se non facessi niente.

- Torniamo a Israele. Che cosa ne pensa della Brigata Ebraica?
  E' stata ed è un orgoglio perché ha combattuto insieme ai partigiani. C'ero anche io, un po' indietro, ma all'interno di quel corteo. Ho sfilato anche io con la Brigata Ebraica. Più di questo che cosa devo dire?

- Se fosse eletta in consiglio comunale si farebbe portatrice degli interessi di una lobby islamica?
  Chi viene eletto in consiglio è eletto da tutti i cittadini. Al massimo io posso mettere a disposizione la mia sensibilità per capire le istanze e i problemi di una comunità, ma se fossi eletta vorrei fare gli interessi di tutti i milanesi. Anche perché noi siamo milanesi, vorrei ribadirlo con forza.

(Affaritaliani.it, 17 maggio 2016)


Israele smina il luogo del battesimo di Gesù

Dopo quasi 50 anni dalla guerra arabo-israeliana del 1967, Israele sminerà il sito di Qasr alYahud, sulla sponda occidentale del Giordano, dove secondo la tradizione cristiana fu battezzato Gesù. L'area, di circa un chilometro quadrato, sarà bonificata con particolare cura per non danneggiare i monasteri medievali adiacenti, ha reso noto il ministero della Difesa israeliano. Negli anni scorsi era stato consentito l'accesso al fiume, ma attraverso un percorso circondato da campi minati.

(Libero, 17 maggio 2016)


Tensioni fra i Cedri

di Andrea Marcigliano (*)

La morte, nei pressi di Damasco, di Mustafa Badreddine, il leader di Hezbollah che comandava le milizie del Partito di Dio libanese che combattono in Siria al fianco delle forze fedeli ad Assad, resta avvolta da una sorta di cortina di fumo. Di primo acchito infatti, fonti di intelligence avevano parlato di un raid israeliano che aveva finalmente regolato i conti con quello che veniva considerato uno dei più pericolosi comandanti dell'organizzazione armata degli sciiti libanesi; poi, però, un comunicato ufficiale di Hezbollah ha voluto specificare che Badreddine era morto per un colpo di mortaio sparato dalle milizie dei ribelli siriani contro cui stava combattendo. Dichiarazione che lascia intravvedere la volontà di "minimizzare l'accaduto" e, soprattutto, di evitare, per quanto possibile, di aprire in questo momento un nuovo conflitto con Israele.
  Infatti è palese che, ormai, anche i vertici politico-militari del partito di Nasrallah, che controlla il Sud del Libano ed esercita forti pressioni sul governo di Beirut, siano preoccupati per i pesanti riflessi che il perdurare della guerra in Siria sta riverberando in territorio libanese. Dove, per altro, hanno in questi anni trovato rifugio ondate crescenti di profughi: oltre un milione secondo le stime dell'Onu, addirittura due milioni secondo fonti ufficiose di Beirut. Una vera e propria bomba demografica ad orologeria, e non solo perché il piccolo Libano - nemmeno 5 milioni di abitanti - non è certo in grado né di assimilare, né di sostentare tale massa di disperati, ma anche, e forse soprattutto perché questa sta sconvolgendo i delicati equilibri su cui da anni si regge la fragile struttura dello Stato. Stato che è, da sempre, un complesso mosaico di comunità etnico-religiose diverse e distinte fra loro; sunniti, sciiti, drusi, alawiti, cristiano-maroniti…solo per citare le più consistenti. Comunità a loro volta frammentate in partiti e fazioni spesso fondate su legami tribali e/o familiari.
  Un equilibrio precario, sempre sul punto di infrangersi, che si basa sulla ripartizione delle principali cariche di governo fra le diverse comunità. Si può quindi facilmente comprendere come l'arrivo di due milioni di rifugiati - per altro tutti di lingua araba come i libanesi, in gran parte musulmani sunniti - non possa non finire con lo sconvolgere questo complesso bilancino politico-religioso. E il recente passato sta lì, come un tragico monumento alla memoria, a testimoniarlo. Infatti la lunghissima e sanguinosa guerra civile, combattuta fra il 1975 ed il 1990, fu innescata proprio da un consimile fenomeno migratorio: le decine di migliaia di palestinesi che avevano trovato rifugio nei campi profughi libanesi dopo la guerra con Israele. Una presenza ingombrante che sconvolgeva il tradizionale equilibrio fra cristiani e musulmani, e che finì con lo scatenare un conflitto che, in breve tempo, si trasformò in una sorta di biblica guerra di tutti contro tutti. E questo dopo un periodo, gli anni Sessanta e Settanta, che aveva visto il Libano crescere economicamente e fiorire al punto di venire soprannominato la Svizzera del Medio Oriente. All'opposto, oggi, la massa di profughi, incomparabile per dimensioni alla vecchia migrazione palestinese, interviene su un Paese già in notevoli difficoltà economiche e dove le diverse coalizioni e milizie di fazione di fatto controllano buona parte del territorio, esautorando il Governo di Beirut e le sue forze armate. E mentre le milizie interne stanno sempre più riarmando, vengono da tempo segnalate intense attività, sul confine siriano, di gruppi jihadisti sunniti legati o all'Is o al rivale Al Nusra, affiliata alla rete di Al Qaeda.
  Una delle ragioni per le quali Hezbollah, di fatto la forza meglio organizzata ed armata del Libano, è intervenuta in Siria al fianco dei "fratelli" alawiti; e forse, oggi, la ragione principale per cui Nasrallah minimizza, anzi nega il ruolo di Gerusalemme nella morte del suo sodale Badreddine. Un ritorno israeliano sulla scena libanese potrebbe significare il disastro per Hezbollah e la fine della sua egemonia su vaste aree del Paese.


(*) Senior fellow de "Il Nodo di Gordio"

(L'Opinione, 17 maggio 2016)


L'Assemblea rabbinica: "Sulle conversioni rivendichiamo la più assoluta autonomia"

Il Presidente dell'Assemblea rabbinica italiana ha reso noto il documento che segue:
"Il Consiglio dell'Assemblea rabbinica italiana ha deciso di rendere pubblica la seguente nota riguardo alle conversioni all'ebraismo - ghiyurim.
Ci vediamo costretti a intervenire per chiarire una questione estremamente delicata, quella delle conversioni all'ebraismo.
È un intervento non programmato, avremmo voluto intervenire su questioni più generali e con un intervento più propositivo e di principi - ci riserviamo comunque di farlo in futuro - ma il tema è stato portato all'attenzione di tutti nei programmi per le elezioni Ucei.
Riteniamo quindi necessario chiarire la nostra posizione e precisare quanto segue:
    La questione è di esclusiva competenza dei Battè Din (Tribunali rabbinici); qualunque interferenza politica sulla questione è assolutamente inaccettabile e viola la divisione dei ruoli prevista dallo Statuto Ucei.
    Il rabbinato italiano e i suoi tribunali rabbinici devono essere indipendenti in primo luogo da interferenze politiche. Non possono evidentemente essere indipendenti dalla Halakhà, né ignorare gli standard a cui si attengono gli altri Battè Din ortodossi, europei, americani e israeliani. La serietà e la coerenza del modo di agire dei tribunali rabbinici italiani rappresentano una garanzia per tutto l'ebraismo italiano davanti al mondo".
(moked, 17 maggio 2016)


Vicino a figli di madre non ebrea ma serve un Ghiur completo

Rav Korsia scrive a rav Di Segni

Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha fatto pervenire alla redazione di Pagine Ebraiche la nota seguente:
"Desidero segnalare una nota di chiarimento che il rabbino capo di Francia, rav Haim Korsia, mi ha inviato a proposito della sua posizione sui figli di madre non ebrea e padre ebreo.
Il chiarimento segue la citazione delle parole dello stesso rav Korsia in occasione della presentazione di un programma per le elezioni dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane da parte di un candidato".
    Egregio Rabbino Capo,
    desidero precisare alcune cose concernenti la 'regolarizzazione' di cui parlo riguardo ai figli di padre ebreo e madre non ebrea. Bisogna attribuire loro rispetto poiché portano un nome ebraico e fanno anch'essi parte del popolo ebraico. Ma questo segno di rispetto per la loro storia, il loro impegno e il loro desiderio di sentirsi ebrei deve essere ratificato da un percorso di Ghiur (conversione) completo, che saprà, ovviamente, riconoscere il cammino già compiuto nella pratica delle mitzvòt e della partecipazione comunitaria. (...)
    Rav Haim Korsia
(moked, 16 maggio 2016)


"Ebreo per parte di madre"


Per media israeliani il leader di Hezbollah Badreddine è stato vittima di una faida interna

DAMASCO - Mustafa Badreddine Amine, capo di Hezbollah, morto lo scorso 10 maggio in un presunto raid aereo vicino all'aeroporto di Damasco, in Siria, "non è stato ucciso dai ribelli siriani ma è vittima di una faida interna al suo partito". Il sito israeliano "Debkafile" legato all'intelligence, ritiene che "Badreddine Amine stava facendo rientrare le milizie di Hezbollah dalla Siria al Libano avendo adottato la linea di uscire dalla guerra siriana e questo non è stato accettato dal regime di Damasco e dalla Russia". Inoltre prima di morire, egli avrebbe avuto un incontro con il generale Qassem Suleimani, il quale aveva invitato Badreddine Amine a non ritirare i suoi uomini. Secondo gli analisti, la sua morte è un segnale di Siria e Russia ad Hezbollah per dire al movimento che "è impossibile uscire dalla guerra".

(Agenzia Nova, 16 maggio 2016)


Olocausto, la rabbia di Israele per la mostra di vignette in Iran

Il premier Netanyahu: negano e preparano una nuova Shoah.

di Giordano Stabile

TEL AVIV - «L'Iran ospita un concorso di vignette per negare l'Olocausto e prepara un nuovo Olocausto. Una vergogna. Non statevene in silenzio». Il premier israeliano sceglie Twitter e in 160 caratteri alza di nuovo l'allarme nei confronti dell'avversario di sempre, la Repubblica islamica iraniana. Accusata di volere la distruzione totale di Israele.
  A dare il via alla nuova contesa è la mostra-concorso intitolata «Seconda esposizione internazionale di caricature sull'olocausto», in corso a Teheran. Solo che la parola «Olocausto» è messa tra virgolette e da un primo sguardo alle 150 caricature ammesse a partecipare, provenienti da 50 Paesi, si capisce che il tema non è lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti ma lo Stato ebraico.
  Una vignetta riproduce la cancellata e l'insegna sinistra di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», ma dietro le sbarre si intravede la Cupola della Roccia, il santuario più sacro ai musulmani di Gerusalemme. Un modo per dire che il vero olocausto è quello che i palestinesi starebbero subendo da parte di Israele nei Territori occupati della Cisgiordania.
  Ribadisce il concetto un disegno con un aquilone dai colori della bandiera palestinese che sfugge da un altissimo muro a forma di svastica. Un'altra vignetta raffigura invece lo stesso Netanyahu con la scritta Daesh, cioè Isis, e riprende le accuse complottiste secondo le quali la più feroce organizzazione islamista sarebbe in realtà una creatura dello Stato ebraico e dell'America.

 Negazionismo
  Ce n'è abbastanza per fare indignare e preoccupare il premier israeliano. «Occorre comprendere che il nostro problema con l'Iran - ribadisce Netanyahu in una nota - non è solo la sua politica di destabilizzazione e aggressione regionale, ma anche una questione di valori: quel Paese nega la Shoah, ridicolizza la Shoah e prepara una nuova Shoah. Tutti i Paesi devono mobilitar si e condannare chiaramente tutto ciò».
  Il premier ha anche chiamato il segretario di Stato americano John Kerry per chiedere la solidarietà occidentale. Il nuovo scontro cade in una data simbolica, quella della fondazione di Israele il 15 maggio 1948. Che però per il palestinesi è il giorno della Nabka, la Catastrofe, ed è celebrata nel segno totalmente opposto.
  Al di là delle vergognose vignette in Iran, la questione palestinese resta centrale. Ieri Netanyahu ha incontrato il ministro degli Esteri di Parigi Jean-Marc Ayrault a Gerusalemme e ribadito il suo no alla «iniziativa francese» che punta a una grande conferenza di pace internazionale per sbloccare il negoziato. «La strada per una vera pace passa attraverso negoziati diretti - ha spiegato il leader israeliano -. Ogni soluzione diversa allontana la pace e concede ai palestinesi una scappatoia per evitare la radice del conflitto: il riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico».

(La Stampa, 16 maggio 2016)


Israele, la spazzatura e il rapper

di Mario Baudino

TORINO - È noto che nell'Ulisse di Joyce Leopold Bloom dà inizio alla sua giornata-viaggio dublinese alzandosi dal water. È appena nato - dal punto di vista della letteratura - e già ha buttato qualcosa. Ora sappiamo da Alessandro Zaccuri, critico e romanziere, che l'arte in generale non fa altro se non gettare via, e subito riafferrare, riutilizzare, riciclare: perché il suo è un viaggio curioso e colto fra letteratura, cinema, televisione e arti visive nel loro rapporto con la spazzatura. Non è tutto da buttare (La Scuola) farà crollare molte certezze. Se n'è parlato in centro a Torino, nell'ambito degli incontri del Salone Off: e proprio ai Giardini Sambuy, la bella piazza di fronte alla stazione. Che, dato il grande passaggio, ha notoriamente non pochi problemi di spazzatura.

 Rifiutare
In una giornata segnata da una particolare attenzione alle tragedie di questo mondo, spiccava l'incontro intorno allibro di Ugo Volli Israele. Diario di un assedio (Proedi Editore) con, oltre all'autore, Elena Loewenthal, Claudia De Benedetti, il direttore della Stampa Maurizio Molinari, Angelo Pezzana. Il tema è ovviamente controverso. Ma è soprattutto una buona occasione per buttare via qualcosa, per esempio l'antisemitismo. Possibilmente senza riciclo.

 Assediare
Le prime partecipanti a un incontro previsto allo stand Rai per le 18 sono arrivate .. alle 9 di mattina. Dieci ragazze, come diceva la canzone, per dire di sì a Mattia Briga, rapper romano autore per Rai-Eri del romanzo Non odiare me. Pare non si siano mosse di lì per tutto il giorno.

(La Stampa, 16 maggio 2016)


Oltremare - Prospettiva

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Uno dei vantaggi di scrivere di Israele da Israele è che basta aprire la finestra e l'aria è indubitabilmente israeliana, specie in questa stagione di ondate di chamsin toglifiato, quando sembra che il cielo si sia trasformato nottetempo in un immenso asciugacapelli che nessuno sa come spegnere, e non c'è verso di staccare la spina. Restando prudentemente immersi nel clima meteorologico, politico e sociale, è fin troppo naturale scrivere cose israeliane senza fatica. In questi giorni invece mi trovo in una nuova prospettiva, immersa in una appena tiepida e poco soleggiata primavera italiana, a parlare di Israele dall'Italia, senza il riferimento tattile abituale.
E come nella nota barzelletta ebraica del buon ebreo che vuole trasgredire il sabato e dice vedi, tutto intorno è shabbat, ma qui accanto a me è giovedì, nel mio caso tutto intorno è Italia, ma accanto a me è Israele.
Che io voglia o no, il fatto di essere in Italia mi rende a tutti gli effetti un media ambulante, cui si fanno domande e da cui si pretendono risposte. Non si conta il fatto che dalle mie parti basta non sentire i notiziari orari per 24 ore per entrare in un vacuum informativo incolmabile al rientro. Tutto è veloce, dalle crisi politiche interne alla politica internazionale. Erdogan avrà deciso se le relazioni diplomatiche con Israele gli convengono o no? Perchè Bibi e Boogie (primo ministro e ministro della difesa) stanno di nuovo litigando? Cosa è venuto in mente ai palestinesi di marcare il Nakba Day, che ricorda la fondazione dello Stato d'Israele dal loro lato, con una sirena? D'accordo, una sirena lunga 68 secondi, un secondo per ogni anno che è passato da quando si son ritrovati con chiavi che non aprono nessuna porta. Ma una sirena, andiamo. È la cosa più israeliana disponibile sul mercato della memoria.
In questi giorni italiani mi accompagna un momento di silenzio al Ben Gurion airport, rotto da una bambina di tre o quattro anni che giocando sul pavimento ha iniziato a cantare l'Hatikva. Una piccola sabre, inconsapevole e allegra, ecco l'Israele che sta tutta intorno a me, e un passo più in là è già Italia.


(moked, 17 maggio 2016)


«Un mese prima del sequestro Moro ho dato l'allarme agli 007 di Roma»

Abu Sharif, ex portavoce del Fronte popolare; una donna misteriosa mandata dall'Italia a Beirut.

di Davide Frattini

GERICO - Di dita ne ha perse quattro dopo averle appoggiate sulla copertina delle Memorie di Che Guevara, l'occhio destro è cristallizzato in uno sguardo di stupore. Quel regalo del Mossad serve a Bassam Abu Sharif per riordinare i ricordi, c'è un prima e un dopo il 25 luglio del 1972, «doveva essere passato un anno dalla bomba, sì era la fine del 1973», mormora sotto al gracidare elettrico dell'apparecchio acustico.
  A 70 anni qualche nome l'ha dimenticato, le facce invece sono ancora lì davanti a lui, soprattutto il sorriso di quella bella italiana che bussa al suo ufficio a Beirut e chiede di parlare con George Habash, il leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Finito sulla copertina di Time come il «volto del terrore» durante i dirottamenti di Dawson's Field, Bassam allora dirige la rivista Al Hadaf (il Bersaglio) e si occupa della politica estera dell'Fplp. «Mi dice di essere la moglie di un ufficiale italiano e di voler vedere il capo. Le spiego che se l'avevano mandata per conquistare Habash con la bellezza, non avrebbe funzionato, era un monaco. Mi ha risposto: no, sono qui perché sostengo la vostra causa».
  La donna misteriosa si ripresenta il giorno dopo - «da bionda era diventata castana» - e nell'incontro chiede ad Habash dettagli sull'intesa siglata dal gruppo marxista-Ieninista palestinese con l'Italia, quello che sarebbe il Lodo Moro: nel 2008 Bassam ha già raccontato al Corriere dell'accordo che permetteva all'organizzazione di muovere uomini e armi lungo la Penisola. In quest'altro pomeriggio nella sua villa di Gerico, circondata dalle rocce del Monte delle tentazioni, rivela altri dettagli.
  «Non ho mai capito a quale pezzo degli apparati appartenesse. Qualcuno a Roma voleva verificare i resoconti di Stefano Giovannone (capocentro del Sid e poi del Sismi a Beirut, ndr): avevamo discusso i dettagli del patto con lui e con l'Ammiraglio. La signora voleva assicurarsi che l'avremmo rispettato, che non avremmo commesso attentati in Italia. In cambio ci offrì perfino di inviare istruttori dell'esercito per i nostri combattenti».

- Avete avvertito dell'intesa le nazioni arabe che vi appoggiavano?
  «La Libia, lo Yemen, l'Iraq, l'Algeria, la Siria. Muammar Gheddafi si mise a ridere: "Ricordate agli italiani che ci sono debitori per l'epoca coloniale, il vostro accordo non risolve le faccende tra noi e 10- ro"».

- In Italia una commissione parlamentare sta indagando sul rapimento di Aldo Moro. È emerso un cablogramma del 18 febbraio 1978 spedito da Beirut, molto probabilmente da Giovannone. Scrive di aver incontrato «il suo abituale interlocutore» nel Fplp che lo ha avvertito: gruppi europei stanno organizzando «un'operazione terroristica di notevole portata» e potrebbe coinvolgere l'Italia.
  ««L'allarme riguarda Moro?».

- È quello che i parlamentari stanno cercando di capire.
  ««lo lanciai un allarme: Moro era in pericolo. Credo un mese prima del sequestro (avvenuto il 16 marzo del 1978, ndr). In quei giorni Giovannone non era a Beirut, incontrai un suo giovane assistente e gli riferii quel che mi aveva raccontato una delle ragazze di Carlos. Era tedesca e aveva partecipato a una riunione dov'era stata discussa l'idea di colpire Moro. Le feci capire che il Fronte lo considerava un errore: Moro era contro l'egemonia americana, non andava toccato».

- Avevate influenza sui gruppi europei?
  ««Fin dal 1968 in Giordania e poi in Libano il mio incarico è stato quello di gestire i campi di addestramento per gli occidentali, anche italiani. Lì ho conosciuto Andreas Baader e Ulrike Meinhoff (i fondatori della Rote Armee Fraktion, ndr). Ho reclutato io llich Ramirez Sanchez e gli ho dato Carlos come nome di battaglia. Lo Sciacallo, quello ci è diventato da solo».

(Corriere della Sera, 16 maggio 2016)


Santo sepolcro, il "miracolo" del restauro. Dopo un anno trovato l'accordo

I rappresentanti delle comunità religiose hanno trovato una intesa per ristrutturare il sito, che appartiene a tutte le Chiese cristiane. Ma non resterà chiuso un solo giorno: negli otto mesi di lavori, il progetto dell'Università di Atene prevede di garantire sempre l'accesso dei fedeli.

di Fabio Scuto

 
GERUSALEMME - Il chiarore dietro il Monte degli Ulivi annuncia l'alba. Un uomo di piccola statura, baffi e capelli grigi, scende rapidamente i vicoli della Old City che dalla Porta di Jaffa digradano verso il quartiere cristiano. Si infila in una angusta stradina in discesa, che però porta all'ingresso del santuario del Santo Sepolcro. Nelle mani compaiono delle grandi chiavi, ne sceglie una lunga 15 centimetri e la infila nella grande serratura e apre la porta del santuario consacrato alla morte di Cristo. Alle sette di sera, dopo il tramonto, tornerà per chiuderla. E' un rituale che si ripete due volte al giorno da quasi dieci secoli, dal 1192 quando Saladino assegnò la custodia delle chiavi del Santo Sepolcro alla famiglia musulmana dei Nusseibeh, i cui discendenti da secoli - esattamente come Wajeeh Nusseibeh stamattina - con orgoglio e onore si tramandano la custodia della chiave che apre l'unica porta di ingresso al Santuario, sulla quale nessuna Chiesa ha diritti. Perché dietro la pesante porta di legno, varcata ogni anno da milioni di turisti e pellegrini, ci sono rivalità insanabili tra le sei Chiese che si contendono la gestione e i luoghi santi della cristianità. La Chiesa ortodossa greca, la Chiesa apostolica armena, la Chiesa cattolica romana. E poi ancora - la Chiesa ortodossa copta, la Chiesa ortodossa etiope e la Chiesa ortodossa siriaca - con influenze più limitate.
  Con uno sforzo che è sembrato quasi un Concilio, più di un anno di sedute e incontri fra i vari rappresentati delle diverse comunità, è stata finalmente raggiunta una rara intesa - c'è chi già grida al miracolo - sul procedere rapidamente al restauro del santuario diventato necessario dal progressivo degrado della struttura, in particolare l'instabile struttura dell'Edicola, che venne ingabbiata dagli inglesi durante il Mandato britannico perché già a rischio di crollo. E poi il degrado di malte e cemento, per l'umidità, i fughi del legno, i milioni di lumi e candele accesi ogni anno al suo interno, che ne facevano «un antro buio e tetro» già ben decritto ai tempi di Chateubriand che visitò questo luogo sacro prima del grande incendio del 1808. Per evitare forse altri pericolosi ritardi nell'avvio dei restauri - in particolare per la ripartizione delle spese - re Abdallah di Giordania, un sovrano musulmano - ha deciso di pagare di tasca sua i 3,5 milioni di dollari necessari alla realizzazione del progetto e dalla scorsa settimana sono stati avviati i lavori. Il sovrano giordano - su cui ricadeva la tutela dei luoghi santi islamici e cristiani prima della guerra del 1967 - lo ha annunciato con una lettera al patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo III. Un modo per ribadire le sue prerogative sui luoghi santi - come appunto la Spianata delle Moschee che dista da qui meno di 300 metri - sancite anche dall'accordo di pace con Israele degli Anni Novanta. Ma anche di evitare nuovi scontri nella litigiosa comunità cristiana e dare un evidente segno di dialogo e di rispetto, perché alla fine sarà un sovrano musulmano a sostenere le spese di restauro del Santo Sepolcro, il luogo a Gerusalemme più venerato dai cristiani di tutto il mondo.
  Antonia Moropoulou, l'esperto di restauro a capo del progetto dell'Università di Atene, dice che durante gli otto mesi di lavori, nei quali verrà rimossa la gabbia in ferro che tiene insieme l'Edicola costruita dagli inglesi nel 1947 per evitarne il crollo dopo le lesioni dovute al terremoto del 1927, il santuario resterà aperto a pellegrini e visitatori.
  Non sarà facile - come accaduto l'anno scorso anche per i restauri nella Basilica della Natività a Betlemme - tenere tranquilli gli animi dei religiosi durante i lavori. Perché le comunità cristiane controllano il Santo Sepolcro in una maniera che sembra sconcertante per gli estranei. In Terrasanta i luoghi sacri nei secoli si sono trasformati un litigioso condominio regolato da un intreccio di norme scritte e orali, sovrapposte e spesso in contraddizione fra loro, dove ciascuna delle confessioni si muove con sospettosa diffidenza nei confronti delle altre, nel proprio spazio di santità e competenza e il Santo Sepolcro non è differente. Nel 1852 proprio per mettere fine alle controversie fra le varie Chiese, la Sublime Porta emanò il decreto dello "Statu Quo". La legge che sancisce e regola la gestione del Santuario da parte delle diverse comunità cristiane, dando precise indicazioni sugli spazi, gli orari e i tempi delle funzioni e tutto ciò che concerne il funzionamento del luogo santo. Ma spesso nel Santo Sepolcro è un susseguirsi caotico di messe, processioni, liturgie e prassi più disparate. Basta la semplice sosta di un religioso "dove non è di sua competenza" per scatenare lo scontro fisico, come ai tempi del Vecchio Testamento. L'ultimo nel 2008 quando dovette intervenire la polizia israeliana in Chiesa per fermare la rissa, con pope e sacerdoti sanguinanti, con due di loro portati via in manette davanti agli occhi stupefatti di migliaia di pellegrini.

(la Repubblica, 16 maggio 2016)


Il miglior regalo che si possa fare ai negazionisti

Risposta di Sergio Romano a un lettore che ha commentato la legge sul negazionismo.

Uno storico francese di origine ebraica, Pierre Nora, ha fondato qualche anno fa l'associazione Liberté pour l'histoire e ha lanciato un appello che dice, tra l'altro,
    «Preoccupati dei rischi di una moralizzazione retrospettiva della storia e di una censura intellettuale, noi ci appelliamo alla mobilitazione degli storici europei e alla saggezza dei politici. La Storia non deve essere schiava dell'attualità né essere scritta sotto dettatura da memorie concorrenti. In uno Stato libero nessuna autorità politica ha titolo per definire la realtà storica e per restringere la libertà dello storico sotto la minaccia di sanzioni penali».
Con altri storici ho firmato quell'appello e non ho cambiato idea. È stato detto che la legge sul negazionismo combatte il razzismo. A me sembra invece che permetta ai negazionisti di proclamarsi vittime di un divieto. È il miglior regalo che si possa fare a quel genere di persone.
Sergio Romano

(Corriere della Sera, 16 maggio 2016)


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