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Notizie novembre 2014


Medio Oriente: incendiata un'aula di una scuola arabo-ebraica

Un'aula della scuola arabo-ebraica di Gerusalemme è stata data alle fiamme. Si tratta di un'istituto, il cui nome è "mano nella mano", in cui i bambini studiano insieme, in arabo e in ebraico.
Un luogo-simbolo della pacificazione, nella città al centro di mille contrasti.
"Morte agli arabi" e "nessuna coesistenza con il cancro" hanno scritto gli assalitori su un muro.
"Chiunque colpisca questo tipo di centri sociali della coesistenza non colpisce solo gli arabi ma anche gli ebrei, colpisce un'idea e un'ideale che vivono da quindici anni. È molto triste, ma traiamo forza dall'abbraccio della nostra comunità", ha commentato il presidente dell'associazione dei genitori e degli insegnanti.
Il governo ha promesso il massimo sforzo per far luce sull'attacco, che il premier ha condannato:
"Stiamo facendo grandi sforzi per riportare la pace e la tranquillità a Gerusalemme. Naturalmente non tolleriamo attacchi da nessuna parte, e non tolleriamo che si dia fuoco alla scuola bilingue come la notte scorsa".
Gli inquirenti hanno subito indicato una probabile matrice nazionalista, cioè dell'estrema destra anti-araba, ma l'inchiesta è appena iniziata. Al momento dell'attacco l'istituto era deserto. Gli allievi, circa seicento dalla materna alle medie, si sono accorti dell'accaduto in mattinata, al rientro a scuola. La domenica in Israele è il primo giorno della settimana lavorativa.

(euronews, 30 novembre 2014)


Kobane, gli jihadisti: "Abbiamo rapito Gill Rosenberg, combattente israelo-canadese"

L'Isis: "Valutiamo se giustiziarla o usarla come merce di scambio". Il Canada cerca conferme. La donna, 31 anni, aveva annunciato il 20 novembre su Facebook la partenza per combattere a fianco dei peshmerga.

 
Gill Rosenberg
Gill, soldatessa israeliana
BAGHDAD - I terroristi dell'Isis hanno rapito Gill Rosenberg, la giovane israeliana-canadese andata a combattere in Siria contro gli islamisti al fianco delle milizie curde: lo sostiene il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", secondo cui la notizia del sequestro è stata diffusa oggi dal alcuni siti jihadisti e al momento non è chiaro in quale aree sia stata rapita la giovane.
Il quotidiano cita fonti della resistenza curda che escludono un eventuale coinvolgimento della Rosenberg fra le milizie attive a Kobane, la città siriana al confine con la Turchia teatro in questi giorni di violenti combattimenti fra guerriglieri curdi e terroristi.

LA CONFERMA DEI JIHADISTI - Gli jihadisti sunniti di Isis confermano di aver rapito in Siria una donna soldato israeliana di origine canadesi che combatteva al fianco dei peshmerga curdi a Kobane e starebbero discutendo ora del suo destino: o giustiziarla o usarla come merce di scambio con loro prigionieri nelle mani dei curdi. Lo riferisce Site, la struttura speicalizzata nel monitoraggio dei siti web jihadisti. Confermato anche il nome: si tratta di Gill Rosenberg. Il governo canadese sta cercando di verificare l'attendibilità della notizia.

CHI E' LA RAPITA - La donna, 31 anni, aveva annunciato la sua partenza verso la Siria lo scorso 20 novembre con un messaggio sulla sua pagina Facebook. Nel caso la notizia del suo sequestro fosse confermata, Gill Rosenberg sarebbe la prima donna di origini occidentali nelle mani dei terroristi dell'Isis.
Secondo l'israeliano Haaretz, Rosenberg abita a Tel Aviv. Era immigrata in Israele nel 2006 dal Canada lasciando una carriera di pilota da aerei di linea e per due anni aveva effettuato il servizo militare nelle forze armate israeliane. Nel 2009 venne estradata negli Usa per una truffa internazionale legata ad una falsa lotteria a premi telefonica di cui rimasero vittime alcuni anziani.
Negli Usa ha scontato una condanna a tre anni di reclusione. All'epoca era a corto di denaro e aveva anche tentato invano di diventare un agente del Mossad. In uni'intervista alla radio israeliana ai primi di novembre aveva annunciato la sua intenzione di unirsi ai peshmerga curdi in difesa di Kobane, prima donna straniera a prendere le armi contro Isis in Siria.

(La Nazione, 30 novembre 2014)


"Riconoscere l'uomo", in attesa dell'incontro a Taormina con il rabbino di Firenze Joseph Levi

di Valerio Morabito

Rav Yoseph Levi
TAORMINA - Martedì 2 dicembre, presso il Palazzo Duchi di S.Stefano, il rabbino capo di Firenze, Yoseph Levi, terrà un incontro dal tema "Riconoscere l'uomo". Il presidente della Fondazione Mazzullo, Alfio Auteri, si è detto orgoglioso di ospitare quest'evento e in attesa di ascoltare il rabbino proviamo ad attraversare la filosofia ebraica e il suo interesse per l'Altro tramite Martin Buber ed Emmanuel Levinas
   La filosofia occidentale e l'Altro - "Riconoscere l'uomo" per vivere meglio il presente, per rapportarci in maniera diversa con l'Altro, inteso come colui che ci sta accanto nei diversi momenti della giornata. La filosofia del secondo Novecento ha posto l'attenzione sul tema dell'Altro. Ha provato a colmare un vuoto secolare che ha caratterizzato l'accademismo occidentale. Pensatori del calibro di Jean-Paul Sartre, Jose Ortega y Gasset ed Emmanuel Levinas hanno scritto libri e tenuto convegni sul tema dell'Altro. "Lo sguardo che oggettiva" lo definiva l'autore della "Nausea", "l'interiorità nascosta" e le sorprese che ci può riservare ? stato il concetto messo in evidenza da Ortega y Gasset, mentre il filosofo ebreo Levinas si è soffermato sul volto dell'Altro puntando il dito contro il pensiero occidentale che «non ha saputo rispettare l'altra persona come un Altro».
   Levinas, Buber e l'Altro - «I filosofi hanno sempre cercato di tradurre l'Altro in quello che si chiama "lo Stesso: nei miei stessi concetti», continua Levinas. Ma cosa vuol dire incontrare l'Altro e riconoscere l'uomo che è in lui? La risposta del pensatore morto a Parigi nel 1995 è interessante: «Incontrare veramente l'Altro significa incontrarlo come radicalmente differente. L'Altro è sempre oltre i miei orizzonti. E questo significa che la sua comparsa disintegra il mio mondo egocentrico. Quando l'Altro entra nel mio mondo non sono più libero di fare quello che voglio. Ora ho nuove responsabilità: devo riconoscere altre persone. Il volto dell'Altro esprime la domanda etica: "Non uccidermi!" - non cancellarmi». Già, la filosofia ebraica è sempre stata molto attenta al tema dell'Altro. Anche Martin Buber, per esempio, nella dialettica "Io e Tu", ha posto in evidenza come «Io non sono una cosa separata. Sono definito in termini delle mie relazioni. Non sono un'entità autosufficiente, indipendentemente dagli altri. Le mie relazioni sono parte di chi sono».
   Yoseph Levi e l'attualità dell'incontro - L'Altro cambia il nostro mondo, rende precari i confini dentro i quali viviamo. Cambiamo di fronte al suo sguardo, assumiamo diversi atteggiamenti. Ne siamo attraversati e condizionati. E' una visione della realtà che si pone in antitesi al nichilismo dell'indifferenza. In realtà lo sguardo dell'Altro è destinato a incidere sul nostro vissuto. Il problema, però, è la reazione a un qualcosa a cui non siamo abituati. Non lo siamo perché la società in cui siamo cresciuti non ci ha educato a soffermarci sull'Altro e sull'aspetto umano e inoltre siamo disabituati a confrontarci con l'Altro a causa delle contraddizioni sociali in cui viviamo: una società iper-tecnologica che ci da l'illusione di poter oltrepassare ogni confine e invece non siamo in grado neanche di andare al di là dello sguardo dell'Altro. In un contesto del genere, promette di essere interessante il tema "Riconoscere l'uomo" che verrà affrontato dal rabbino capo di Firenze Yoseph Levi. Non è un caso che sarà un autorevole esponente della Comunità ebraica italiana a soffermarsi su questo argomento.
   «L'ebraismo un fenomeno dell'umanità» - Nel relativismo imperante, dove non sembra esserci più alcun punto fermo, l'ebraismo si mostra come la religione in grado di mostrare la propria identità e particolarità. Come diceva Martin Buber nel suo scritto "Discorsi sull'ebraismo", edito da Gribaudi, «noi ebrei portiamo con noi il grande patrimonio dei tempi. […] Non solo il costume dei padri, ma anche la loro sorte, tutto, pena, miseria, vergogna, tutto questo ha contribuito a formare la nostra essenza, la nostra individualità». Per provare a riconoscere l'uomo in quanto tale, si può fare riferimento al rapporto tra ebraismo e umanità. Martin Buber aveva riflettuto sulla questione: «Un popolo che ha nell'edificio dell'umanità il suo posto determinato, saldo, sicuro, circoscritto chiaramente e precisamente dalla terra, dalla lingua e dalle forme della vita, non ha bisogno affatto di aver coscienza della sua importanza di fronte all'umanità». L'ebreo si sforza di raggiungere l'unità. Il riferimento non è a qualcosa di etnico, bensì di più profondo, umano. Il dualismo di "apparire" ed "essere", l'antitesi per eccellenza dell'uomo raggiunge nell'ebreo il tentativo miracoloso di unità. «Il tendere che fa l'ebreo all'unità - dice Buber - fa dell'ebraismo un fenomeno dell'umanità, della questione ebraica una questione umana». Dunque non vediamo l'ora di ascoltare le parole del rabbino di Firenze Yoseph Levi.

(blogTaormina, 30 novembre 2014)


Una nuova guida per Tsahal

 
Il generale Gadi Eisenkot
Nel 2011 aveva indicato il generale Benny Gantz per la nomina a Capo di Stato Maggiore. Ora sarà lui, il maggiore generale Gadi Eisenkot, a ricoprire una delle posizioni più importanti e delicate per la sicurezza di Israele. È infatti arrivata ieri sera l'investitura ufficiale (preannunciata venerdì) di Eisenkot, già comandante delle Brigate Golani nonché vice di Gantz dal gennaio 2013, alla guida di Tsahal. Dal prossimo 15 febbraio Eisenkot diventerà dunque il ventunesimo Capo di Stato Maggiore di Israele. Scelto dal ministro della Difesa Moshe Yaalon, con il benestare del premier Benjamin Netanyahu, il nuovo comandante dell'esercito israeliano dovrà confrontarsi con la nuova ondata del terrorismo palestinese, con le tensioni che minacciano i confini del paese e con il nuovo grande nemico d'Oriente, l'Isis. "Non è una questione di fortuna se sei stato opportunamente scelto per questo ruolo - le parole del presidente israeliano Reuven Rivlin, nel complimentarsi Eisekot per la nomina - ma per le tue notevoli abilità e per il talento mostrato come comandante e come soldato in questi lunghi anni di servizio". "Siamo di fronte a un periodo di profonde sfide rispetto alla sicurezza - ha continuato il presidente - e sono sicuro che Tsahal, sotto il tuo comando, continuerà a costituire una barriera difensiva che protegge lo Stato di Israele". A mettere in pericolo la sicurezza del paese, nelle ultime ore, sono però le tensioni interne: una scuola bilingue di ebraico e arabo è stata investita da un incendio ieri sera a Gerusalemme. La polizia e i pompieri - che sono riusciti a spegnere le fiamme - sospettano si tratti di incendio doloso legato a movimenti estremisti israeliani visto che sui muri dell'edificio sono comparse scritte come "Kahane (fondatore del partito razzista Kach) aveva ragione" e "Non si può convivere con il cancro". "Poche settimane fa in questa scuola gli studenti hanno appeso poster in cui c'era scritto 'qui c'è cooperazione, amore e amicizia tra arabi ed ebrei - ha dichiarato il ministro della Giustizia Tzipi Livni, condannando assieme a diversi esponenti politici l'accaduto - Questa scuola è una riserva naturale che qualcuno ha cercato di bruciare questa notte. Quindi dovrebbe essere chiaro: non permetteremo agli estremisti di bruciare la coesistenza che è ancora difesa. La legge e il dipartimento di Giustizia sapranno come trattare i responsabili".

(moked, 30 novembre 2014)


Se Francesco legittima l'islam

di Magdi Cristiano Allam

Le dichiarazioni rese da Papa Francesco in Turchia raffigurano una Chiesa cattolica irrimediabilmente persa nel relativismo religioso che la porta a concepire che l'amore per il prossimo, il comandamento nuovo portatoci da Gesù, debba obbligatoriamente tradursi nella legittimazione della religione del prossimo, a prescindere dalla valutazione razionale e critica dei suoi contenuti, incorrendo nell'errore di accomunare e sovrapporre persone e religioni, peccatori e peccato. Quando il Papa ha giustamente detto «la violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l'Onnipotente è Dio della vita e della pace», dimentica però che il Dio Padre che concepisce gli uomini come figli, che per amore degli uomini si è incarnato in Gesù, il quale ha scelto la croce per redimere l'umanità, non ha nulla a che fare con Allah che considera gli uomini come servi a lui sottomessi, legittimando l'uccisione degli ebrei, dei cristiani, degli apostati, degli infedeli, degli adulteri e degli omosessuali («Instillerò il mio terrore nel cuore degli infedeli; colpiteli sul collo e recidete loro la punta delle dita... I miscredenti avranno il castigo del Fuoco! ... Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi, Sura 8:12-17).
   Quando il Papa all'interno della Moschea Blu si è messo a pregare in direzione della Mecca congiuntamente con il GranMufti, la massima autorità religiosa islamica turca che gli ha descritto la bontà di alcuni versetti coranici, una preghiera che il Papa ha definito una «adorazione silenziosa», affermando due volte «dobbiamo adorare Dio», ha legittimato la moschea come luogo di culto dove si condividerebbe lo stesso Dio e ha legittimato l'islam come religione di pari valenza del cristianesimo. Perché il Papa non si fida dei propri vescovi che patiscono sulla loro pelle le atrocità dell'islam, come l'arcivescovo di Mosul, Emil Nona, che in un'intervista all'Avvenire del 12 agosto ha detto «l'islam è una religione diversa da tutte le altre religioni», chiarendo che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e sostenendo senza mezzi termini che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam»?
   Quando il Papa intervenendo al «Dipartimento islamico per gli Affari religiosi» ha detto «noi, musulmani e cristiani, siamo depositari di inestimabili tesori spirituali, tra i quali riconosciamo elementi di comunanza, pur vissuti secondo le proprie tradizioni: l'adorazione di Dio misericordioso, il riferimento al patriarca Abramo, la preghiera, l'elemosina, il digiuno...», ha reiterato la tesi del tutto ideologica e infondata delle tre grandi religioni monoteiste, rivelate, abramitiche e del Libro, che di fatto legittima l'islam come religione di pari valore dell'ebraismo e del cristianesimo e, di conseguenza, finisce per delegittimare il cristianesimo dato che l'islam si concepisce come l'unica vera religione, il sigillo della profezia e il compimento della rivelazione.
   Così come quando il Papa ha aggiunto che «riconoscere e sviluppare questa comunanza spirituale - attraverso il dialogo interreligioso - ci aiuta anche a promuovere e difendere nella società i valori morali, la pace e la libertà», ha riproposto sia una concezione errata del dialogo, perché concepisce un dialogo tra le religioni mentre il dialogo avviene solo tra le persone e va pertanto ccontestualizzatonel tempo e nello spazio, sia una visione suicida del dialogo dal momento che il nostro interlocutore, i militanti islamici dediti all'islamizzazione dell'insieme dell'umanità, non riconosce né i valori fondanti della nostra comune umanità né il traguardo della pacifica convivenza tra persone di fedi diverse dall'islam.
   Anche quando il Papa ha detto«è fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani - tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione -, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri», ci trova assolutamente d'accordo. A condizione che l'assoluta parità di diritti e doveri concerne le persone, ma non le religioni. Perché se questa assoluta parità dovesse tradursi nella legittimazione aprioristica e acritica dell'islam, di Allah, del Corano, di Maometto, della sharia, delle moschee, delle scuole coraniche e dei tribunali sharaitici, significherebbe che la Chiesa ha legittimato il proprio carnefice che, sia che vesta il doppiopetto di Erdogan sia che si celi dietro il cappuccio del boia, non vede l'ora di sottometterci all'islam.

(il Giornale, 30 novembre 2014)


Israele e l'Expo: "Così rendiamo fertili i terreni"

È un anticipo di quello che mostreranno nel loro padiglione che crescerà come un giardino verticale: tra assaggi di falafel, un clown e laboratori di cucina (oggi dalle 14 alle 17) per far giocare i bambini, musica, filmati e un convegno dedicato ai contenuti che vogliono affrontare nel 2015. È così che Israele si è presentato alla città, con un'anteprima dello spazio di Rho-Pero andata in scena per due giorni in pieno centro, all'Expo Gate. Affacciato sul viale centrale del sito espositivo, il padiglione sta crescendo: la struttura è una di quelle in fase più avanzata e gli organizzatori assicurano che sarà consegnata in orario. Uno spazio che, dicono, durante i sei mesi sarà animato da un calendario di eventi che poi si allargherà anche alla città. Il tema di Expo lo declineranno affrontando quello che è un campo su cui sono protagonisti: la tecnologia sviluppata per rendere fertile un terreno che naturalmente non lo è, per aumentare la sicurezza alimentare, la gestione dell'acqua e lo sviluppo sostenibile. E di innovazione, dopo una prima giornata più Iudica, è il titolo del convegno che sarà organizzato oggi sempre all'Expo Gate.

(la Repubblica - Milano, 30 novembre 2014)


L'Isis minaccia la Palestina: "Tutte le donne devono mettere velo"

Questo l'avvertimento lanciato dallo Stato Islamico (Isis) con volantini distribuiti in un campus universitario della Striscia e su Facebook

GAZA - Entro una settimana tutte le donne di Gaza possono comparire in pubblico solo se velate, altrimenti andranno incontro ad una severa punizione: questo l'avvertimento lanciato dallo Stato Islamico (Isis) con volantini distribuiti in un campus universitario della Striscia e su Facebook. Ma le autorità locali (Hamas) cercano di rassicurare la popolazione affermando che a Gaza lo Stato Islamico "non è presente".
Fonti locali precisano che i volantini hanno destato apprensione in particolare a Gaza City - dove una percentuale elevata di donne non si copre il capo - mentre in aree rurali della Striscia la quasi totalità già osserva le strette regole della ortodossia islamica.
I volantini non specificano quali potrebbero essere le punizioni per le donne giudicate prive di modestia. Ma secondo fonti locali è possibile che si accenni al lancio di un liquido acido sul loro volto, per deturparle.
Il ministero degli interni locale ha precisato che si tratta di minacce infondate e che i servizi di sicurezza sanno per certo che a Gaza non esiste alcuna presenza dello Stato Islamico.
Eppure, aggiungono fonti giornalistiche, è possibile che si siano creati nuclei di fiancheggiatori desiderosi di emulare a Gaza le fanatiche azioni dell'Isis in Iraq e in Siria.

(tio.ch, 30 novembre 2014)


Così parla l'Eterno
Il credente
legge la Bibbia
per conoscere la Parola
che Dio ha detto agli uomini
e metterla in pratica.
* Così parlano gli uomini
L'incredulo
legge la Bibbia
per conoscere le parole
che gli uomini hanno detto su Dio
e aggiungervi le sue.
 

Gli inventori delle app, un premio ai giovani dai rabbini d'Europa

di Gabriele Islan

Un premio dalla conferenza europea dei rabbini ai migliori giovani inventori di applicazioni digitali. La cerimonia - presentata da Riccardo Luna, con la musica di Raiz e dei Radicanto - si terrà mercoledi sera all'Ara Pacis. «Cerchiamo i nuovi Mark Zuckerberg, ed è la prima volta che la consegna annuale di questi riconoscimenti si tiene a Roma. spiega Riccardo Di Segni, rabbino capo della capitale e vicepresidente della Conferenza europea guidata dal rav di Mosca Pinchas Goldschmidt. «Con la comunicazione si possono realizzare le cose migliori e le peggiori, dice ancora Di Segni che ha suoi profili su Facebook e su Twitter «anche se quei 140 caratteri sono proprio pochini». La domanda è lecita: quali profili segue Di Segni? «Tutti e nessuno: diverse agenzie, soprattutto, ma assisto a un bombardamento di notizie che diventa iperinformazione. I nuovi media possono però aiutare le religioni. Una volta il prete o il rabbino parlavano da un pulpito, oggi le possibilità si sono enormemente ampliate. E l'opportunità di condividere un messaggio non può essere ignorata».
I vincitori del premio arrivato quest'anno alla sua seconda edìzione sono il sedicenne belga Sacha Nasan checon i suoi genitori ha creato Get Talenty, una app che ha collezionato 83mila download in due giorni dal lancio, e l'ingegnere aerospaziale israeliano Meidad Pariente e la moglie Maya per la Mayday App, che consente di inviare un messaggio a un indirizzo e-mail predeterminato o di generare fino a 50 sms in caso di incidente. Nessun italiano premiato: «Seminiamo per il futuro. conclude Di Segni.

(la Repubblica - Roma, 30 novembre 2014)


Milano - La Shoah negli occhi di Hillesum

L'appuntamento è per oggi al Teatro I in via G. Ferrari, ed è dedicato alla scrittrice ebrea olandese a 100 anni dalla nascita.

Etty Hillesum
«Per un nuovo senso delle cose». È il titolo di un evento speciale organizzato stasera al "Teatro i" (via Gaudenzio Ferrari) per ricordare, nel centenario della nascita, la vita e l'opera della scrittrice ebrea olandese Etty Hillesum deportata con tutta la famiglia ad Auschwitz dove morì, in una camera a gas, proprio il 30 novembre del 1943, a soli 29 anni.
La serata (inizio alle 20) verrà introdotta da Giulia Calligaro che ne ha curato la drammaturgia. Subito dopo Tiziana Mazzoleni, operatrice di Medici Senza Frontiere racconterà l'esperienza dell'associazione ad Haiti e Gaza, «luoghi di crisi dimenticate». Al termine della testimonianza, per il pubblico è previsto il reading intitolato «Deve trattarsi di un autentico amore per la vita», con la lettura del "Diario" di Etty Hillesum declamate dalle attrici Federica Fracassi e Laura Marinoni. «Solo con i' amore, costruendo la pace dentro se stessi in ogni momento della nostra esistenza, è possibile vincere la guerra e l'odio»: è questo il messaggio di speranza - carico di senso religioso - che la scrittrice ha voluto trasmettere dal campo di lavoro di Westerborke poi in quello di sterminio di Auschwitz, fino alle ultime ore del suo calvario, soprattutto alle giovani generazioni. La lettura sarà commentata dalle musiche originali per fisarmonica di Guido Baldoni. 10 spettacolo ha la supervisione del regista Renzo Martinelli.

(Avvenire, 30 novembre 2014)


Ebraismo per iscritto

di Giulio Busi

Non stanno mai ferme. Rotolano a testa in giù, scivolano lungo in bordi, s'allargano come per boria o stentano, magre, a reggersi. Anche le lettere dell'alfabeto ebraico vivono una loro diaspora nella diaspora, forse ne hanno viste troppe per rimanere pazienti al loro posto. C'è un'energia che quasi straripa dai vecchi testi nella lingua santa, e un'impazienza che freme nell'inchiostro degli amanuensi. E non importa che siano passati secoli e secoli da quando la penna ha solcato carta e pergamena, o dal giorno in cui lo scalpello ha graffiato la pietra: decifrare l'ebraico, o anche solo contemplarne i tratti, è arte per spiriti inquieti. Prendete quel che è rimasto del giudaismo in Italia meridionale, prima dell'espulsione del 1492-1541.
Centinaia di lapidi, decine e decine di codici, un monte di storia, nomi, destini, frammenti di vita, tutto avvolto di parole. A sfogliare il volumone a colori sulla Cultura ebraica scritta tra Basilicata e Puglia, dedicato alla memoria di Cesare Colafemmina, non pare di avere a che fare con un passato remoto. Tanto è il vissuto che s'assiepa in ogni riga, e così variegato. Ebrei che viaggiano per il Mediterraneo, si fermano e ripartono, scrivono, bisticciano, discutono con greci, latini, arabi, normanni. Luci, ombre, rivalità, umanità. Catacombe (straordinarie quelle di Venosa) sinagoghe, cimiteri, scuole rabbiniche. C'è da leggere per ore e ore, sempre che loro, le lettere, la smettano con le capriole.
Ketav, sefer, miktav, La cultura ebraica scritta tra Basilicata e Puglia,
a cura di Mariapina Mascolo e Mauro Perani, Edizioni di pagina, Bari.


(Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2014)


L'eroe di Budapest

di Giampiero Mughini

 
Raoul Wallenberg
Città letterariamente e storicamente meno rievocata che non altri capoluoghi simbolici della Seconda guerra mondiale - da Parigi a Varsavia a Stalingrado - Budapest offre una scenografia altrettanto drammatica quanto ai suoi attori e alle sue tragedie. Su tutte la persecuzione degli ebrei. Capitale di un'Ungheria alleata della Germania che nel marzo 1944 era stata occupata dalle truppe nazi perché poco vogliosa di opporsi alla bruciante avanzata dell'Armata Rossa, dove poteva avvenire se non a Budapest che, una sera di novembre del 1944, sedessero a cena il diplomatico svedese trentaduenne Raoul Wallenberg e il trentottenne tenente colonello delle SS Adolf Eichmann?
   Che sedessero uno di fronte all'altro l'uomo che forse più di ogni altro in Europa s'era dato a proteggere dal massacro nazi le vite degli ebrei (in questo caso gli ebrei ungheresi) e l'ufficiale delle SS che era uno dei boia principi di quel massacro, mentre alle finestre della sala da pranzo scintillavano i bagliori nemmeno troppo lontani dei colpi sparati dall'artiglieria dell'Armata Rossa, i cui soldati avrebbero completato l'accerchiamento di Budapest da lì a un mese, il 27 dicembre 1944.
   Che sedessero uno di fronte all'altro Wallenberg, impegnato a convincere Eichmann che il regime nazi era allo stremo e che era pazzesco continuare a braccare uno a uno gli ebrei ungheresi, e l'alto ufficiale delle SS il quale rispondeva che lui sarebbe rimasto fedele a Hitler sino alla fine. E del resto una sorte tragica li attendeva entrambi, seppure a notevole distanza di anni. Eichmann che l'aveva fatta franca alla fine della guerra e se ne era andato a vivere in Argentina, venne rapito dal Mossad israeliano nel 1960, processato a Israele e impiccato il 31 maggio 1962. Wallenberg sarebbe stato catturato il 17 gennaio 1945 dai russi arrivati vittoriosi alle soglie di Budapest e ai quali lui si era presentato da amico, detenuto per due anni nelle celle sovietiche e liquidato non sappiamo esattamente come attorno al luglio 1947. A tutt'oggi i russi non hanno mai rivelato ufficialmente le circostanze dell'assassinio di Wallenberg.
   Di tutti i crimini compiuti dallo "Stato canaglia" staliniano, la messa a morte dell'"eroe di Budapest" resta uno dei più inspiegabili. Talmente impossibile da spiegare che il nome di Wallenberg resta sconosciuto ai più, e a differenza di altri eroi che durante la Seconda guerra mondiale si levarono a proprio rischio in difesa degli ebrei. L'italiano Giorgio Perlasca e l'industriale tedesco Oskar Schindler, tanto per fare due nomi. Quando ho finito di leggere l'accuratissimo libro dello storico svedese Bengt Jangfeldt, The Hero of Budapest (pubblicato adesso in inglese dalla casa editrice I. B. Tauris dopo l'edizione originale svedese del 2012), ho chiesto a due dei miei amici più colti se avessero mai sentito pronunciare il nome di Raoul Wallenberg. Mai.
   Proveniente da un'agiata famiglia della borghesia svedese, Wallenberg era un uomo il cui destino sembrava inizialmente quanto di più lontano dagli itinerari e dalle febbri della politica. Nei suoi vent'anni aveva studiato architettura e viaggiato in tutto il mondo. L'arte cui pareva destinato era quella degli affari, ben nota alla sua famiglia decisamente altolocata. Gli piaceva molto stare con gli altri, conoscerli, "trattare" con loro. La Svezia, durante la Seconda guerra mondiale, era un Paese neutrale, e siccome il governo svedese aveva capito che l'Ungheria occupata dai nazi si sarebbe trasformata in un inferno per i 750mila ebrei che ci vivevano, qualcuno pensò che il giovane Wallenberg fosse atto alla bisogna: quella di mandarlo a capo della legazione svedese a Budapest, lì dove avrebbe potuto "trattare" una a una le vite degli ebrei ungheresi in pericolo.
   Alla cena con Eichmann il boia, Wallenberg stava per l'appunto "trattando", verbo ineliminabile da ogni situazione che presenti i tratti dell'emergenza e della tragedia. Il fatto è che immediatamente dopo l'occupazione nazi era cominciata la marcia verso la morte degli ebrei ungheresi residenti nelle città di provincia. Un massacro da quantificare nell'ordine di un treno carico di tremila ebrei che ogni giorno e per tre mesi partiva dall'Ungheria verso la rampa di Auschwitz-Birkenau, un massacro cui presiedeva personalmente Eichmann, accompagnato dal suo complice Theo Dannecker, il trentunenne capitano delle SS che aveva guidato il rastrellamento degli ebrei parigini nel luglio 1942 e quello degli ebrei romani il 16 ottobre 1943. Solo che lo stesso governo ungherese retto dall'ammiraglio Miklós Horthy era sì un governo antisemita, ma non a tal punto. Il 6 luglio 1944 le SS tedesche vennero stoppate.
   Fino a quel momento gli ebrei di Budapest erano stati risparmiati. Immenso e rischiosissimo era stato il lavorìo quotidiano a loro favore di Wallenberg e dei suoi numerosissimi colleghi della legazione svedese, ma anche della legazione svizzera e di quella spagnola. Wallenberg aveva firmato passaporti a migliaia di persone che attestavano un qualche rapporto del titolare con la Svezia, aveva trovato case e rifugi per gli ebrei braccati, aveva fornito cibo ad alleviare la condizione di uomini e donne allo stremo delle forze. Tutto questo in una Budapest dove erano feroci le milizie delle Croci Frecciate, il partito politico ungherese spasmodicamente antisemita ricostituitosi nel 1939 dopo essere stato messo fuori legge due anni prima. Nell'ottobre del 1944 la riluttanza dell'ammiraglio Horthy a precipitare nel burrone della imminente sconfitta nazi lo aveva spinto a voler firmare un accordo di pace separata con i russi.
   
(Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2014)


Il traditore compiaciuto, onorato e riverito

Amos Oz, traditore israeliano di grande successo, ospite in questi giorni di Bookcity a Milano dove ha presentato il nuovo romanzo "Giuda", in un'intervista riportata su Repubblica ha donato al pubblico sentenze memorabili. Eccone alcune:
     
  • "Mi hanno chiamato spesso 'traditore', ma solo chi esce dalle convenzioni della comunità cui appartiene è capace di cambiare se stesso e il mondo".
  • "Uno non può amare il proprio paese se non ne visita un altro, non può amare la propria lingua se non ne impara un'altra e non riesce a capire l'amore vero se non quando ama la seconda volta".
  • "Continuo a pensare che uno stato indipendente palestinese sia l'unica soluzione al conflitto, ma viene ostacolata dai moltissimi militanti fanatici, da una parte e dall'altra".
  • "Due uomini che amano la stessa donna non possono arrivare a un compromesso, invece due popoli che amano la stessa terra sono come due uomini che hanno una stessa casa: possono dividerla in due piccoli appartamenti e arrivano a un compromesso".
(Notizie su Israele, 29 novembre 2014)


Ricostruzione in 3d del Ghetto di Roma prima della demolizione

ROMA - Giovedì 4 dicembre alle ore 17, nelle sale del Museo Ebraico di Roma, per la prima volta sarà possibile rivivere l'antico Ghetto di Roma prima della sua demolizione. Il Presidente e il Rabbino Capo di Roma, insieme con la Direttrice del Museo, inaugureranno il tavolo interattivo su cui sarà proiettata la ricostruzione tridimensionale del Ghetto in un evento straordinario della nostra Comunità. La riproduzione dell'area del Portico d'Ottavia è avvenuta sulla base di fonti documentarie e iconografiche di vario genere: acquarelli, dipinti, incisioni, fotografie d'epoca e documenti catastali e urbanistici.

(AgenParl, 28 novembre 2014)


«L'uomo che non accetta l'Eterno come Dio, deve costruirsi un altro dio. Un dio che non solo non salva, ma non resta neppure inerte. Il feticcio che l'uomo si costruisce comincia presto a sprigionare una misteriosa forza d'attrazione, una specie di risucchio che attira l'anima del costruttore in un vortice senza via d'uscita. Dal momento che la creazione di un idolo fa uscire l'uomo dalla dipendenza del Dio vivente, e poiché l'unica possibilità autonoma dell'uomo è quella di scegliere la morte, l'idolo che egli si costruisce cade nelle mani della morte e diventa uno strumento per la sua distruzione.
L'uomo dunque non può in alcun modo fabbricare un Dio che lo libera e lo salva; ma può fabbricare un mostro che lo rende schiavo e l'uccide.
«Ascolta Israele: l'Eterno, l'Iddio nostro, è l'unico Eterno. Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze» (Deut. 6:4-5).
Con queste parole comincia la famosa preghiera «Sh'ma Israel» (Ascolta, Israele), tratta dal libro del Deuteronomio, che l'ebreo pio recita tutti i giorni. Con questa ripetuta recitazione il pio israelita ricorda continuamente a sé stesso l'importanza del primo comandamento.
II famoso «gran comandamento» dell'amore che Gesù cita in risposta alla domanda di uno scriba non è dunque una specie di undicesimo comandamento, ma una formulazione del primo, il quale vieta solennemente all'uomo di dividere il suo cuore, la sua anima, la sua mente, le sue forze tra diversi dei. L'Eterno, e soltanto l'Eterno, deve essere amato.»
 

Ma Erdogan sogna la rivincita islamica contro l'Occidente

di Maurizio Molinari

L'Occidente non ci ama, vuole solo sfruttare le nostre ricchezze ed è per questo che si interessa dei conflitti in Medio Oriente»: il presidente turco Recep Tayyp Erdogan sfodera contro Europa e Stati Uniti un linguaggio convergente con i gruppi islamici che sostiene, dai Fratelli Musulmani a Hamas, proiettandosi nel ruolo di leader regionale intenzionato a guidare l'ostilita più aggressiva contro gli «stranieri».
   La cornice per l'exploit anti-Occidente del presidente turco è la riunione a Istanbul del Comitato permanente sulla cooperazione economica dell'Organizzazione della conferenza islamica (Oci) che riunisce i 57 Paesi musulmani. «Voglio dirlo apertamente - esordisce Erdogan, poche ore prima dell'arrivo di Papa Francesco - gli stranieri amano il petrolio, l'oro, i diamanti e la manodopera a basso costo del mondo islamico. Gli piacciono i conflitti, gli scontri e le dispute in Medio Oriente. Ma credetemi, noi non gli piacciamo affatto». E ancora: «Sembrano nostri amici ma ci vogliono morti, gli piace veder morire i nostri figli, fino a quando lo sopporteremo?». Da qui l'imperativo di «risolvere da soli i nostri problemi» perché «l'unica maniera per superare le crisi del mondo islamico è unità, solidarietà e alleanza» al fine di «porre fine alla solitudine della Palestina che dura da quasi un secolo, ai massacri in Iraq e in Siria».
   Proponendo l'unificazione dell'Islam contro l'Occidente Erdogan fa proprio il messaggio dei Fratelli Musulmani, sin dalla fondazione da parte di Hassan El Banna in Egitto nel 1928, i cui leader egiziani e del Golfo sono approdati in novembre a Istanbul dopo essere stati allontanati dal Qatar. Assieme a loro sono arrivati esponenti di Hamas, che ora ha in Turchia la sede di più alto profilo fuori dalla Striscia di Gaza. La recente visita del vicepresidente Usa Joe Biden ad Ankara è nata proprio dal desiderio della Casa Bianca di appurare l'entità della svolta pro-fondamentalisti di Erdogan - che guida la nazione con il secondo esercito della Nato - e la risposta è arrivata dopo l'ultimo colloquio fra i due quando il presidente turco ha commentato, riferendosi agli americani: «Li incontro sempre ma continuo a pensarla allo stesso modo, sono sensibili solo al petrolio». L'ostilità dichiarata nei confronti dell'Occidente si somma alle misure aggressive contro ciò che più lo rappresenta - da Twitter alla moda femminile per le studentesse nei campus - trasformando la Turchia nella roccaforte di un progetto di islamizzazione del mondo musulmano che, secondo l'opposizione del Partito del popolo repubblicano, evoca i «Sultani ottomani del passato».
   Tanto più che, secondo fonti di stampa turche, Erdogan gestisce un bilancio tre volte maggiore rispetto alla Regina d'Inghilterra, e lo usa per progetti faraonici come il nuovo Palazzo Bianco di Ankara e l'acquisto di jet privati per volare no-stop da Istanbul a Los Angeles.
   In un Medio Oriente segnato dal progetto del Califfo Abu Bakr al Baghdadi di unificare il mondo arabo facendo leva sulla violenza più brutale, le mosse di Erdogan svelano il tentativo di diventare anch'egli un unificatore dell'Islam, richiamandosi all'eredità dei Sultani ottomani, anch'essi «Califfi» ovvero successori di Maometto. Si spiega così la reiterata difesa della teoria della scoperta dell'America da parte dei musulmani come anche l'imminente vertice bilaterale con Vladimir Putin per trattare, da pari a pari, sulla sorte della Siria e dell'intero Medio Oriente. Perché Erdogan resta convinto che sarà il rovesciamento di Bashar al Assad a trasformarlo nella potenza di riferimento dei gruppi islamici emergenti di questo inizio secolo.

(La Stampa, 29 novembre 2014)


"Così Helena mi salvò dai nazisti"

Erano due bambine, una ebrea l'altra intenzionata a salvarla. Non si erano più viste dopo la guerra, ieri si sono riabbracciate all'aeroporto Kennedy di New York: "Un'emozione grandissima".

di Paolo Mastrolilli

Helena Weglowski e Mira Wexler
NEW YORK - Mira aveva sei anni, Helena il doppio. Due ragazzine, che la guerra aveva messo davanti al rischio di morire: la prima, perché era ebrea in Polonia nel 1942; le seconda perché voleva salvarla, e le portava da mangiare di nascosto dai nazisti. Mercoledì si sono rincontrate, per la prima volta da allora, all'aeroporto Kennedy di New York.
Mira Wexler veniva da una famiglia ebrea, che prima ancora della guerra aveva fatto amicizia con la famiglia cristiana di Helena Weglowski. Vivevano a Stara Huta, dove i Weglowski avevano un mulino. Quando era scoppiata la guerra, e i nazisti avevano invaso la Polonia, non si spiegavano perché avrebbero dovuto rompere quell'amicizia. Però il padre di Mira, Jacob, era stato ammazzato dai tedeschi, e allora la madre, Chana, aveva deciso di nascondersi. I Weglowski li avevano accolti nel mulino, ma ben presto anche quella sistemazione era diventata insicura: i soldati era dappertutto, e il mulino con una fattoria vicina era troppo grande perché lo ignorassero. Quindi Chana e Mira si erano rifugiate nella foresta, nel gelo dell'inverno polacco. Di giorno vagavano tra gli alberi, dove Helena portava loro cibo e vestiti caldi. La sera poi, quando potevano, cercavano di tornare al mulino per scaldarsi ed evitare il freddo. Per anni era andata avanti così, e aveva funzionato. Chana e Mira avevano evitato la deportazione, ma alla fine della guerra si erano separate dai loro soccorritori. Mira si era trasferita a Rio de Janeiro, dove aveva ricostruito la propria vita lontano dall'Europa.
Qualche tempo fa, però, l'hanno raggiunta i rappresentanti della Jewish Foundation for the Righteous, che indagano e riconoscono gli atti di eroismo fatti dai gentili per salvare gli ebrei. Avevano una buona notizia: Helena era ancora viva, e le due ex bambine potevano incontrarsi. L'appuntamento è stato organizzato a metà strada, a New York. Mira, che ora ha 78 anni, è arrivata da Rio, mentre Helena, che ne ha 85, è volata dalla Polonia. Invece di piangere, si sono salutate con un sorriso. «La famiglia di Helena - ha raccontato Mira - ha sempre rischiato la vita, perché i soldati in quella zona scendevano anche con i paracadute, e quindi non li vedevano arrivare. Però hanno continuato a sfamarci, e quando potevano ad accoglierci nel mulino. E' molto toccante per me rivedere Helena, non avrei mai immaginato che fosse possibile». Helena ha risposto con un sorriso: «La guerra ha distrutto tutto, ma noi siamo ancora qui, e possiamo di nuovo stare insieme. E' una sensazione indescrivibile, grazie a Dio».

(La Stampa, 28 novembre 2014)


Gli ebrei a Castrovillari durante la Seconda Guerra Mondiale. I retroscena in un libro

di Federica Grisolia

E' la storia di un paese, Castrovillari, che negli anni 1940-43, in pieno conflitto mondiale, rientrava in quella ventina di comuni della provincia di Cosenza, scelti dal regime fascista per l'internamento, cosiddetto libero, degli ebrei. E' la storia di un intero popolo, perseguitato, sterminato nei campi di concentramento, e costretto a non uscire da quel perimetro urbano. A Castrovillari erano internate diverse decine di famiglie di ebrei. Ed è soprattutto la storia di queste famiglie, che per la prima volta viene svelata, grazie al rinvenimento negli archivi comunali di una copiosa documentazione, in un libro di Luigi Troccoli dal titolo «L'internato in oggetto - Tre anni di concentramento in un Comune del Sud - Ebrei a Castrovillari (1940-43)», edizioni Prometeo.
Le condizioni di una vita ristretta e limitata nei movimenti e nella libertà, nei mezzi di sostentamento e nella quotidianità. Una vita da internati, una non-vita. E' la storia di bambini che scrivevano a Milano, su fogli di quaderno, per chiedere un po' di cioccolata o vestiti adatti alla loro età, alla Delasem, un'organizzazione ebraica di assistenza. E' la storia di uno di loro, Lucio Pinkus, che nacque in internamento a Castrovillari e, adulto, diventa medico e docente universitario di psicologia negli atenei di Roma e Venezia.
Ma anche di Leone Treves, apolide, nato a Costantinopoli, l'unico internato che riuscì ad ottenere dal ministero dell'interno un permesso per recarsi a Milano, da dove non rientrò, dandosi alla macchia.
E' la storia di alcuni ebrei che fuggirono da Bratislava a bordo di una battello a motore, il Pentcho, lungo il Danubio, il mar Nero e l'Egeo, e finirono a Ferramonti e da qui, un paio dinanzi al Tribunale di Castrovillari, da imputati per banali reati commessi in internamento. Ed è la storia di una decina di persone che, non trovando alloggio in città, dovettero essere ospitati nelle stanze e nel corridoio del municipio. Due percorsi contrapposti segnarono la storia di alcune famiglie. Ci fu chi chiese di essere trasferito al Nord e lì, in seguito all'armistizio dell'8 settembre, venne catturato dai tedeschi e ucciso ad Auschwitz, mentre altri riuscirono ad imbarcarsi per l'America, salvandosi dalla deportazione.
Nel libro, vengono, inoltre, pubblicati i processi penali a carico degli internati di Ferramonti, che si tennero presso la Pretura di Spezzano Albanese ed il Tribunale di Castrovillari e documenti che testimoniano che anche la città di Cosenza fu sede di internamento temporaneo per alcune famiglie di ebrei.

(Paese24.it, 28 novembre 2014)


Quando l'«altro» entra in casa di Shabbat

I non ebrei, alcuni anche personaggi famosi, che sono chiamati a svolgere lavori che gli ebrei non eseguono per rispetto del riposo sabbatico.

Generaìmente un ebreo non può chiedere ad un non ebreo di compiere alcuni tipi di lavori creativi (melachot) che halachicamente sono vietati a lui stesso durante lo Shabbat. Tuttavia esistono contesti e realtà halachiche dove il lavoro di un goy di shabbat è permesso, non in virtù di un raggiro della halachà, ma proprio perché la logica della normativa ebraica lo permette.
   Elementi che permettono il lavoro svolto da un non ebreo durante lo Shabbat e le feste sono per esempio il tipo di contratto con il quale il non ebreo è inquadrato, l'assenza diretta di un beneficio per il lavoro che il non ebreo svolge di Shabbat, il tipo di lavoro che egli compie, se vietato dalla Torà o per decreto rabbinico: insomma molte sono le logiche e le riflessioni halachiche che possono portare all'esistenza di quello che in yiddish veniva chiamato lo "shabbos gay", il goy di Shabbat, Quindi per poter assumere uno shabbos goy dobbiamo per forza di cose porre domande ad un rabbino. Guardando alla storia degli shabbos goym scopriamo nomi interessanti e personaggi famosi di grande livello che per una parte della loro vita hanno lavorano tra le pieghe della santità del giorno dello Shabbat.
   Il generale Colin Powell, Segretario di Stato americano dal 2001 al 2005 è stato uno shabbos goy durante i suoi anni giovanili, così come il politico italo americano Mario Cuomo, governatore di New York dal 1979 al 1982, il regista Martin Scorsese e persino il grande Elvis Presley.
   In una realtà americana ed in special modo newvorxese dove i confini tra i quartieri italiani, ebraici, irlandesi fino agli anni del 1970 erano netti eppure così deboli l'osmosi culturale ed i punti di incontro tra ebrei e non ebrei hanno prodotto anche questa ìntìmità quorìdìana della quale lo shabbos goy è un prodotto. Perché di fatto lo shabbos goy non è solo una dimostrazione halachica di riflessìone ed influenza rabbinlca rispetto ad alcune esigenze pubbliche di sicurezza o di gestione del riscaldamento di una sìnagoga o di un luogo di culto, bensì lo shabbos goy è un'intima presenza che gode la fiducia totale della comunità che lo assume e che dà a lui, di Shabbat, pieni poteri sulla cosa pubblica ebraica, sui locali comunitari, sul bene comunitario stesso.
   Sono certo che nella memoria di molti ebrei italiani, specie di quelli nati in piccole o medie comunità, esiste l'immagine dello shabbos goy-portiere-manutentore-aiutante che apriva o apre il cancello elettronIco di Shabbat, che accende il riscaldamento del Tempio, che conosce tutti ed è conosciuto da tutti in una osmosi affettiva che va ben oltre le competenze rabbiniche.
   Forse lo shabbos goy è il vero punto di contatto tra una lealtà ebraica ed una realtà non ebraica, perché ci si incontra quando la prima chiede aiuto e la seconda offre il proprio lavoro ben coscìente di avere un ruolo che seppur tecnico sale in alto, molto in alto. P.P.P.

(Shalom, novembre 2014)


Adesso Israele ha energia da vendere

Entro fine anno il governo ha l'obiettivo di firmare accordi di esportazione di gas con Giordania, Egitto e Autorità Palestinese. Un vantaggio anche politico.

di Danilo Taino

Che l'energia estratta dal sottosuolo possa diventare un plus economico e politico per Israele è una svolta ironica nella storia del Medio Oriente del petrolio e degli idrocarburi monopolizzati da arabi e iraniani. La possibilità che il Paese diventi una potenza, piccola ma significativa, nell'estrazione è data da due grandi giacimenti di gas nel Mare Mediterraneo, chiamati Tamar e Leviathan, scoperti tra il 2009 e il 2010 e ora pronti a produrre per l'esportazione: si stima che, assieme, contengano 29mila miliardi di metri cubi di gas naturale, molto più di quanto il Paese può consumare nei prossimi decenni. Il lato più interessante di questo sviluppo va al di là di quello economico, che pure potrebbe avere un valore annuo, in termini di esportazioni, attorno all'uno per cento del Pil: è la posizione geopolitica di Israele che potrebbe maggiormente beneficiarne. Secondo il governo, si tratta "di un enorme vantaggio strategico che ci permette di raccogliere frutti sia economici che politici: il risultato della nostra scoperta di gas naturale è che siamo molto più accettati nel mondo". Per quanto nella regione non sempre sia in testa alle priorità, l'economia è una lingua che permette di aprire discorsi e socchiudere porte che altrimenti rimarrebbero sbarrate.
In concreto, entro la fine dell'anno gli israeliani hanno l'obiettivo di firmare accordi di esportazione di gas del valore di alcuni miliardi annui con la Giordania, con l'Egitto e con l'Autorità Palestinese. Nonostante negli ultimi tempi i rapporti con Recep Tayyip Erdogan si siano deteriorati, sono anche in corso trattative con la Turchia per arrivare a un accordo. Non sarà un'impresa facile: trasportare il gas in una zona calda come quella che circonda Israele è un'impresa piena di rischi. I benefici potenziali, però, fanno pensare che ne valga la pena.

CON ANKARA SI VEDRÀ - Contribuire alla sicurezza, anche energetica, della Giordania messa sotto pressione dal conflitto in Siria e Iraq è un obiettivo di Gerusalemme. Mantenere rapporti aperti con l'Egitto, che dopo la Primavera araba ha visto calare la produzione di energia, è un altro interesse del governo israeliano. E la fornitura di gas potrebbe essere un passaggio che distende le relazioni con la Striscia di Gaza. Con Ankara si vedrà. Fatto sta che l'ingresso di Israele nel settore è un ulteriore cambiamento nel mondo dell'energia. Soprattutto, è un fattore di riequilibrio nei rapporti di forza nel quadrante strategico del Medio Oriente.

(Corriere della Sera - Sette, 28 novembre 2014)


Hamas voleva colpire uno stadio di calcio: il jihad, di nuovo, contro lo sport

di Emanuele Rossi

 
Il Sammy Ofer Stadium di Haifa
Lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna israeliano) ha fatto sapere giovedì di aver bloccato una cellula di Hamas, focalizzata in Cisgiordania, che aveva in previsione di compiere attentati contro uno stadio e contro alcuni tram.
   Sono stati arrestati 30 militanti, che, secondo quanto riportato dai servizi, si sarebbero addestrati all'estero: sono quasi tutti palestinesi, ma tra loro c'è pure un giordano e un kuwaitiano. L'intelligence israeliana ha collegato i nomi dei catturati a due attentati avvenuti nel nord del West Bank il 31 agosto. In quell'occasione non ci furono vittime, ma la vicenda, adesso, si inquadra nella situazione di tensione attuale: negli ultimi mesi sono stati uccisi 11 israeliani per mano di attentatori palestinesi.
   Sembra che alcuni membri della cellula, fossero stati "assunti" in Giordania già nel 2012, mandati poi a fare addestramento in Siria, Striscia di Gaza e Turchia, prima di rientrare come operativi in territorio palestinese. Proprio dalla Turchia, secondo le rivelazioni diffuse da Shabak, sarebbero arrivati gli ordini per iniziare a pianificare gli attacchi.
   La storia è interessante per varie ragioni: primo, perché dimostra (di nuovo, se ce ne fosse bisogno) come il passaggio di informazioni e di uomini, nella regione mediorientale sia molto fluido e in fin dei conti senza troppi dreni: terroristi che entrano e escono da territori delicati, messaggi che arrivano da un paese Nato, senza che questo possa accorgersi di niente - ma, trattandosi della Turchia, tutto è relativo. Non una circostanza nuova, di certo.
   Altro aspetto molto interessante, sta nell'individuazione del principale degli obiettivi che la cellula si poneva: attaccare il Teddy Stadium di Gerusalemme. Stadio di calcio da oltre 20 mila posti, che ospita le partite del Beitar e dell'Hapoel, e che spesso è usato come campo casalingo dalla nazionale israeliana. Il Beitar Gerusalemme è noto per avere un gruppo di sostenitori radicali, ultra conservatori e nazionalisti, che negli anni sono stati protagonisti di manifestazioni razziste e aggressioni violente contro le minoranze etniche e religiose.
   Ma dietro alla volontà di colpire lo stadio, non c'è solo la rappresaglia di Hamas contro le ali radicali dell'ebraismo (le realtà Utras ne sono covo), e non c'è semplicemente la necessità, macabra, di portare attacchi contro centri di assembramento di persone - inutile dire, per procurare il maggior numero di vittime possibili. Il tutto si inquadra anche, nella volontà generale del jihadismo attuale di minare il mondo sportivo.
   Domenica nella provincia orientale afghana di Paktika, un kamikaze in moto si è lanciato contro gli spettatori di una partita di volley - organizzata dalla polizia locale, nota da non sottovalutare, giustamente. Il bilancio è stato di un cinquantina di morti e svariati feriti: si tratta del più grande attacco contro civili che si è registrato negli ultimi mesi - a luglio, per l'attentato in un mercato, erano rimaste uccise 90 persone, ma in quell'occasione i Taliban non rivendicarono l'azione.
   Analogamente, si ricorderanno gli attenti degli Shabaab somali contro gli spettatori, televisivi, dei Mondiali di calcio: uomini e donne e bambini, raccolti in bar e posti pubblici a vedere le partite in Tv, fatti saltare in aria da attentatori kamikaze o autobombe.
   La guerra della jihad allo Sport, non passa solo dalle stragi, ma anche dalle privazione che il mondo radicale islamico via via ha provato ad imporre: dalle minacce alle divise sportive, al divieto iraniano di vedere squadre maschili alle donne. Numerose fatwa e trattati religiosi hanno avuto come fulcro le nudità - considerate improprie - mostrate dagli atleti durante alcune competizioni (compresi, appunto, i pantaloncini da calcio che scoprono le gambe), e la sconveniente promiscuità che uomini e donne potrebbero avere sugli spalti delle competizioni sportive. Faceva notare tempo fa Roberto Tottoli sul CorSera, che certe visioni, si richiamano direttamente «alla condanna di Maometto verso certi giochi del suo tempo», ma quelli «erano spesso giochi d'azzardo» dal giustamente incerto valore etico e morale.
   Tuttavia, sebbene ci siano di mezzo precetti e azioni violente, lo Sport - il calcio in primo luogo - stanno riuscendo dove altri prodotti liberali (occidentali?), non hanno avuto spazio. Scriveva sempre Tottoli: «Più che nei costumi, nelle misure di veli e vestiti e nelle pratiche di ogni giorno, è infatti forse nello sport che si realizza l'effetto più dirompente dei processi di globalizzazione. Pratiche e passioni sportive sono infatti da decenni, dal Marocco innamorato del calcio al Pakistan campione di cricket, del tutto simili a quel che accade in Europa o America».
   Gli integralisti islamici, i jihadisti, lo sanno bene, e sanno che combattere la passione sportiva è molto più difficile che far girare proclami e propaganda anti-Occidente. Per questo pianificano azioni violente, punitive, rappresentative.
   E il prossimo Mondiale di calcio, è previsto in Qatar.

(formiche.net, 28 novembre 2014)


Israele. Si allontana il progetto di Stato ebraico

[...]

(Avvenire, 28 novembre 2014)


Di questo articolo del cattolico "Avvenire" riportiamo soltanto il titolo e il nostro commento, perché per il resto non vale la pena di leggerlo. Sono le solite chiacchiere sui "due piani: uno ebraico e uno non ebraico", sui "principi basilari della democrazia" ecc. per non dire l'essenziale, cioè che non si vuole che esista sulla faccia della terra un luogo in cui gli ebrei possano dirsi a casa loro e gli altri debbano dire agli ebrei: questa è casa vostra. Ci riusciranno, e con il consenso di molti ebrei. Ma questo avverrà perché a far pronunciare agli uni e agli altri quelle dichiarazioni dovrà essere un giorno Qualcuno che ha un'autorità ben maggiore dell'Onu e della Knesset. "Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi", scriveva nel 1882 il medico ebreo polacco Leon Pinsker nel suo famoso pamphlet "Autoemancipazione", usando un linguaggio che ricorda da vicino alcune parole di Gesù: «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo»" (Luca 9:57-58). Quando i piedi del Messia “si poseranno sul Monte degli Ulivi, che sta di fronte a Gerusalemme” (Zaccaria 14:4) allora anche gli ebrei che nel Messia avranno creduto poseranno il loro capo sulla terra che il Signore ha riservato a loro. M.C.


Alluvione a Gaza: dopo alcuni giorni di piogge intense, la città è sott'acqua

Le case sono allagate ed è stato evacuato un intero quartiere.

La Striscia di Gaza, tristemente famosa per la questione israeliana, è stata colpita, dopo giorni di pioggia intensa, da una vera e propria alluvione, che ha allagato diverse abitazioni e ha fatto evacuare un intero quartiere, quello di Sheikh Radwan. L'ONU ha dichiarato lo stato di emergenza per gli sfollati dell'alluvione, che vanno a sommarsi a quelli rimasti senza casa dopo i bombardamenti della scorsa estate proprio sulla Striscia di Gaza.
Alluvione a Gaza, dove giorni di pioggia intensa hanno allagato alcune case e costretto ad evacuare un quartiere. Fonte: ilpost.it
La situazione è critica a Gaza, in Palestina, dove le forti piogge cadute nei giorni scorsi hanno provocato diversi problemi alla città: ci sono stati allagamenti diffusi nelle case, che sono state invase da fango e rifiuti, mentre le scuole sia a Gaza che nel Nord della Striscia sono state chiuse. I maggiori problemi derivano dalla mancanza di gasolio e dalla conseguente impossibilità di poter far funzionare le idrovore. Situazione difficile anche in Cisgiordania, messa in ginocchio dalle forti piogge. La situazione meteorologica è in miglioramento già da oggi, con le piogge che hanno cessato di cadere su Gaza e dintorni, impedendo che l'emergenza continui ad aggravarsi.

(Centro Meteo Italiano.it, 28 novembre 2014)


A Careggi la musica klezmer del Balagan Cafè Orkestar

Domenica 30 novembre, ore 10.30, ingresso libero, Largo Brambilla 3, Firenze

A.Gi.Mus. Firenze, Comunità Ebraica di Firenze, Fondazione Careggi e Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi insieme per festeggiare a "Careggi in Musica" il Centenario dell'Azienda Ospedaliera di Careggi.
Questa domenica, 30 novembre, ore 10.30 (Largo Brambilla 3, ingresso libero) l'Aula Magna del Nuovo Ingresso di Careggi si animerà a festa al suono della musica klezmer del Balagan Cafè Orkestar.
Il concerto fa parte della lunga serie di eventi che l'Azienda Ospedaliero Universitaria dedica ai festeggiamenti per i suoi primi cento anni, a cui anche le domeniche musicali A.Gi.Mus., nate proprio in collaborazione con Careggi nel 1999, aderiscono.
Il Balagan Cafè Orkestar è nato come laboratorio di musica Klezmer all'interno della Comunità ebraica di Firenze. Coordinati e diretti da Enrico Fink, musicista e docente di musica della tradizione ebraica, un gruppo eterogeneo di musicisti professionisti e non, di ogni età, accomunati dall'amore per la musica klezmer si sono ritrovati per suonare insieme. Il gruppo è un laboratorio aperto a tutti coloro che vogliono conoscere questo genere di musica e per questo non sempre per le esibizioni sono presenti tutti i componenti del gruppo.
Il Balagan Cafè Orkestar si è esibito in concerti e spettacoli teatrali fra cui: Teatro La Pergola Firenze per la Giornata della Memoria; Conservatorio Luigi Cherubini Firenze: Serata in onore di Ruth Pardo; al Balagan Café: manifestazione estiva organizzata dalla Comunità Ebraica di Firenze; festa dell'Independence Day organizzata dall'Associazione Toscana USA; ha accompagnato la Compagnia Teatri d'Imbarco in diversi spettacoli teatrali fra cui "Bartali" per il riconoscimento del grande ciclista come "Giusto fra le nazioni" alla presenza del figlio Andrea; a Siena al museo della Contrada della Torre nell'ambito della manifestazione "I Musei in Contrada", e ancora a Siena per la Giornata Europea della Cultura Ebraica.
La musica klezmer è nata nelle comunità ebraiche dell'Europa dell'est. La prima fase di diffusione si ebbe agli inizi del Novecento, con l'ondata migratoria dall'Europa verso gli Stati Uniti, rafforzata poi durante la seconda guerra mondiale dagli Ebrei sfuggiti alle persecuzioni razziali. Nei decenni seguenti, il repertorio klezmer sopravvisse, spesso con difficoltà, nella pratica dei musicisti ebrei, con reciproche influenze con il rock, il blues, il jazz. Infine, sull'onda del fenomeno della world music, si è diffuso anche in Europa.
Direzione artistica: Mo Fabiana Barbini - Mo Luca Provenzani

(Met, 28 novembre 2014)


Intervista a Rachel Netanel

Rachel Netanel è un ebrea messianica nata a Gerusalemme da famiglia sefardita di origine marocchina. Ha vissuto per un certo tempo anche in Italia e da qualche anno gestisce con il marito Ghilad il centro di studi biblici e testimonianza Beit Netanel a Ein Kerem, un verde sobborgo di Gerusalemme.

Beit Netanel
Nella recente visita che Rachel Netanel ha fatto a Padova dal past. Ivan Basana (la congregazione pentecostale The New Thing di Padova è gemellata con Beit Netanel) per concordare il suo intervento al prossimo 13o Raduno nazionale EDIPI di Catania, siamo riusciti ad avere in esclusiva la seguente intervista.

- I.B.: La giornalista de "La Stampa" Elena Loewenthal in un articolo del 20 ottobre 2014 con il titolo "Gerusalemme Silenzio parlano i muri" descrive con entusiasmo la visita che ha fatto a Beit Netanel di Ein Kerem, il verde sobborgo di Gerusalemme alla cui fonte i Vangeli narrano l'incontro fra Maria ed Elisabetta.
  R.N.: Infatti Elena è rimasta molto colpita dalla mia casa che si affaccia su un vecchio cimitero islamico, con buona parte dei suoi muri plurimillenarì e una grotta all'interno ancora più antica. Il salotto tra luci e penombre crea dei veri effetti speciali tra Menorah e simboli ebraici. Ha dovuto fare attenzione a non sbattere la testa contro lo spuntone di ferro che un tempo serviva per tenerci legato l'asino.

- I.B.: Ti ha definito un fiume in piena quando hai raccontato come hai voluto questa casa contro tutto e tutti. Vicini ebrei e musulmani, archeologi e autorità.
  R.N.: Essermi definita "ebrea messianica" l'ha ulteriormente incuriosita avendo verificato come nel giardino della casa ci sia un gran via vai di gente a cui annuncio con intenso fervore la Buona Notizia di Yeshua agli israeliani, ebrei e arabi, nel loro contesto culturale.

- I.B.: Certo il tuo carattere aperto e la tua spontanea ospitalità, aggiunta ad una passata esperienza di poliziotta, venditrice e ottima cuoca, ti permette di raggiungere numerosissime persone.
  R.N.: Infatti nella casa di Beit Netanel s'incontrano vari gruppi in momenti diversi. Oltre alla celebrazione dello Shabbat al venerdì sera, ogni domenica si riunisce un gruppo per lo studio biblico. Nel corso della settimana, invece, hanno luogo colloqui personali e piccoli incontri, durante i quali si suona, si canta (lode e adorazione), si studia la Bibbia, si prega. Quasi sempre viene offerto uno spuntino che si consuma in comunione. Dopo il matrimonio con mio marito Ghilad, di origine austriaca, anche la testimonianza tra gli arabi si è fatta più efficace, in quanto, nella cultura araba, una donna sola non viene presa in considerazione.

- I.B.: Hai qualche esperienza particolare da raccontarci.
  R.N.: Si è quella di un giovane proveniente da una famiglia di rabbini del movimento Chabad. Mi trovavo a Elat per un fine settimana con una mia amica. Insieme abbiamo pernottato su una nave, dove in passato, avevo lavorato e con il cui propprietario sono ancora in buoni rapporti. La sera, mentre ero in coperta e studiavo la Bibbia, da una imbarcazione vicina, fui chiamata da un trentenne che mi chiese cosa stessi facendo. Gli ho spiegato: "Studio la Bibbia e leggo ciò che dice sul mio Salvatore!". L'uomo ha risposto: "Interessante!". L'ho invitato a raggiungermi e abbiamo parlato di Yeshua fino alle due di mattina. Lui era molto aperto e ha osservato: "E' da una vita che sto cercando proprio questo". Da allora studia intensamente la Bibbia e nel frattempo ha affidato la propria vita a Yeshua.

- I.B.: L'hai poi più rivisto?
  R.N.: Quando ha deciso di non frequentare più la Yeshiva Chabad (scuola particolare della Torà), la famiglia ha interrotto ogni contatto con lui, come fosse morto. Così è andato all'estero guadagnandosi da vivere con lavori saltuari. Più tardi ha iniziato a frequentare una scuola di discepolato di ebrei messianici e ha finalmente trovato una cornice regolare per la sua vita in comunione con credenti che lo aiutano a crescere nella fede.

- I.B.: In effetti c'è un importante lavoro di cura delle anime dopo la tua opera di evangelizzazione, come lo hai risolto.
  R.N.: Quanti hanno avuto la rivelazione che Gesù è il Messia di Israele e vogliono crescere nella fede, vengono indirizzati in due congrgazioni messianiche di Gerusalemme, con le quali collaboro da anni: quella di Asher Intreter e di Meno Kalisher.

- I.B.: Allora ci vediamo a Catania per il nostro 13o Raduno Nazionale EDIPI.
  R.N.: Sì, vi aspetto numerosi, per nuove e belle notizie da Ein Kerem, la zona degli evangelisti.

- I.B.: Possiamo ben dire: da Giovanni Battista
a Beit Kerem secondo la tradizione nacque Giovanni Battista
a Rachel Netanel!

(EDIPI, 27 novembre 2014)


Rachel Netanels life story


Cercate l'Eterno mentre lo si può trovare,
invocatelo mentre è vicino.
Lasci l'empio la sua via
e l'uomo iniquo i suoi pensieri,
e ritorni all'Eterno che avrà pietà di lui,
al nostro Dio che è largo nel perdonare.
«Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri
né le vostre vie sono le mie vie», dice l'Eterno.
«Come i cieli sono alti al di sopra della terra,
così le mie vie sono più alte delle vostre vie
e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri.
Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
in modo da dare il seme al seminatore
e pane da mangiare,
così sarà la mia parola, uscita dalla mia bocca:
essa non ritornerà a me a vuoto,
senza avere compiuto ciò che desidero
e realizzato pienamente ciò per cui l'ho mandata.
Sì, voi partirete con gioia e sarete ricondotti in pace.
I monti e i colli proromperanno in grida di gioia davanti a voi
e tutti gli alberi della campagna batteranno le mani.
Al posto delle spine crescerà il cipresso,
al posto delle ortiche crescerà il mirto;
sarà per l'Eterno un titolo di gloria,
un segno perpetuo che non sarà distrutto.»
dal libro del profeta Isaia, cap. 55
 

Lo Stato d'Israele è l'espressione democratica dell'autodeterminazione del popolo ebraico

Fronteggiando vivaci contestazioni, Netanyahu ha difeso in parlamento il disegno di legge su "Israele, stato ebraico"

Con un discorso più volte interrotto da vivaci contestazioni, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha difeso mercoledì alla Knesset il controverso disegno di legge su Israele come stato nazione del popolo ebraico, accusando i suoi avversari di volere uno stato d'Israele bi-nazionale (senza più nulla di ebraico e sionista) accanto a uno stato palestinese ripulito da ogni presenza ebraica. Netanyahu ha detto che il disegno di legge è necessario per correggere uno squilibrio storico che ha visto i diritti civili acquisire supremazia sui diritti del popolo ebraico ad avere il proprio stato nazionale. "Il disegno di legge che sottoporrò alla Knesset - ha detto - si fonda sul fatto che lo stato di Israele è uno stato ebraico e democratico. Questi principi sono intrecciati fra loro e l'uno non sostituisce l'altro. Israele garantisce uguali diritti a tutti i suoi cittadini, senza discriminazioni di religione, sesso o etnia"....

(israele.net, 27 novembre 2014)


Expo: l'innovazione israeliana all'Expo Gate nel week end

Una due giorni per presentare il padiglione 'Fields of tomorrow'

 
GERUSALEMME - Israele vuole essere protagonista sui temi centrali del prossimo Expo 2015: per questo scende da subito in campo con una due giorni (sabato 29 e domenica 30) dedicata alle tradizioni "della terra del latte e del miele", all'Expo Gate di Milano.
Tecnologia, agricoltura, sicurezza alimentare, gestione dell'acqua, sviluppo sostenibile: tutti temi sui quali Israele ha una grande esperienza che vuole condividere con la comunità internazionale attraverso il confronto quotidiano con le sfide della povertà e la fame nel mondo. E non è un caso che il Padiglione di Israele all'Expo si intitoli 'Fields of tomorrow', come ha ricordato il commissario generale Elazar Cohen. "Un paese con risorse naturali limitate come Israele, fin dalla sua nascita - ha detto Cohen annunciando l'iniziativa di sabato e domenica - ha dovuto impostare la sua politica agricola sulla base di un approccio a lungo termine. La scarsità delle risorse naturali ha portato il Paese ad essere un pioniere nell'uso di tecnologie innovative, al fine di compensare la carenza naturale di risorse. Pur con un'eredità di migliaia di anni in cui i cambiamenti nel corso del tempo sono stati lenti, oggi il comparto agricolo è interamente basato sulla tecnologia e riesce a tenere il passo grazie alla rapidità delle innovazioni". Israele - ha insistito Menachem Gantz, nominato portavoce del Padiglione - è un paese giovane con un'eredità antica: in soli 66 anni ha trasformato una terra arida con poche risorse naturali in un terreno fertile grazie alla spinta data dalla ricerca e continue attività sperimentali. E proprio di questo si discuterà nella due giorni del prossimo fine settimana, che culminerà con un workshop condotto da Alessandro Cecchi Paone in cui si parlerà di biotecnologie, irrigazione, salvaguardia delle risorse e innovazione.
Un'occasione - è stato spiegato - per conoscere da vicino anche i risultati concreti dello sviluppo tecnologico di attività sperimentali installate in aree agricole circostanti l'area di Milano - e direttamente dalle parole degli ospiti (tra cui Roger Abravanel, ingegnere, manager e scrittore) - incontrare alcune delle eccellenze israeliane alla presenza delle autorità, ospitati dall'ambasciatore di Israele Naor Gilon.
Musica dal vivo, un incontro culinario con degustazione dei sapori della tradizione ebraica, intrattenimento per i bambini faranno da cornice alle pillole video sulle eccellenze del paese che i visitatori potranno ammirare sugli schermi all'interno degli spazi dell'Expogate.

(ANSA, 27 novembre 2014)


Hamas SpA

Il concetto che esponenti di Hamas di primo piano come Mousa Abu Marzook e Khaled Meshal, che ordinano la violenza in nome del jihad, possano al contempo essere imprenditori che hanno ammassato una fortuna che farebbe invidia agli uomini d'affari di Londra, Parigi o New York; può colpire molti lettori ignari, o risultare propagandistico o fantascientifico. Ma in Medio Oriente la retorica politica o religiosa e i profitti terreni non sono affatto antitetici. Anzi, spesso procedono di pari passo.
Ne' la commistione fra interessi politici e militari, e interessi economici è di esclusiva pertinenza di Hamas, o di altre organizzazione islamiche. Quando ero governatore militare israeliano del distretto di Tiro durante la Prima Guerra del Libano, chiesi di incontrare il locale responsabile di polizia, ma mi fu riferito: «è disponibile soltanto di mattina. Nel pomeriggio si prende cura dei suoi affari». «Affari?», esclamai. «Certo!», rispose il mio interlocutore; «gestisce una catena di supermercati»....

(Il Borghesino, 28 novembre 2014)


Israele lancia le mongolfiere di sorveglianza

GERUSALEMME - Mongolfiere che volano nel cielo portando in alto telecamere di sorveglianza: succede a Gerusalemme, dove la polizia ha introdotto da qualche tempo un sofisticato sistema basato su tre palloni aerostatici, molto delicati e con un'autonomia di 72 ore.
"Diamo ai nostri clienti una terza dimensione", spiega Rami Shmuely, amministratore delegato della Rt-Lta Systems, l'azienda che fornisce il sistema. "Una visione - aggiunge - dall'alto che permette di identificare quelle persone che lanciano pietre, anche se si nascondono dietro ai palazzi o dentro i giardini. Sono davvero poche le zone che non riusciamo a coprire".
"Le mongolfiere permettono di capire dall'alto cosa succede nelle strade - spiega Micky Rosenfeld, portavoce della polizia -. Così riusciamo a intervenire in modo più veloce ed efficace di fronte a incidenti, attività criminali e disordini locali".
A Gerusalemme est, la parte palestinese della città, la cosa naturalmente è vista con sospetto e sembra essere un altro elemento del controllo israeliano sui palestinesi.
"Le mongolfiere penetrano nelle vite delle persone. Voglio scoprire tutto quello che succede, chi va, chi viene, chi è quella persona".
Dello stesso parere un altro residente della zona.
"E' evidente che Israele sta riducendo la nostra libertà con l'osservazione di ogni minimo dettaglio", spiega questo residente.

(LaPresse, 27 novembre 2014)


Importanza del nome

di Marcello Cicchese

L'abbiamo imparato fin da quando andavamo a scuola: per gli ebrei il nome è molto importante. E ci fecero sapere che - fatto per noi stranissimo - non vogliono mai nominare il nome di Dio. Oggi puoi trovare un ebreo israeliano che ti chiede: che significa il tuo nome? Al che, naturalmente, quasi nessuno sa rispondere, cosa che sorprende molto l'israeliano. Pare invece che a molti ebrei, israeliani e non, il nome dell'unico Stato che in qualche modo realizza il sogno che Theodor Herzl espresse nel 1986 nel suo "Der Judenstaat", non interessi. O meglio, interessa, sì, ma al contrario: cioè interessa precisamente che in quel nome non compaia il termine "ebraico".
Non tutti, certo. Tra chi invece lo vuole c'è addirittura l'attuale Primo Ministro d'Israele, ma per molti questa forse è la volta buona per metterlo in minoranza e mandarlo a casa. Che splendida occasione, molto attesa anche fuori d'Israele! Due centri con un tiro solo: niente nome ebraico per Israele e Netanyahu fuori dai piedi. Proprio ieri un giornale titolava: "Gli israeliani devono sfiduciare Netanyahu". Chissà se i cittadini dello Stato ebraico (qualcuno mi perdoni se uso questo aggettivo) seguiranno questo consiglio. E' possibile, perché i "consigli" che vengono dal di fuori sono molto ascoltati da una parte della classe politica israeliana. Qualcuno vuole cedere sui nomi perché pensa in questo modo di difendere cose pratiche più importanti. Ma in molti casi non è così. E non è così in modo particolare per Israele.
Solo qualche esempio.
Gli Accordi di Oslo del 1993 riguardavano Israele e quella che fu chiamata "Autonomia Palestinese", governata da una "Autorità Palestinese". Col passar del tempo, senza che nessuna nuova decisione fosse presa e senza che nessuno vi desse gran peso, il termine nazione è entrato nei territori palestinesi e si è cominciato a parlare di "Autorità Nazionale Palestinese", al punto che ormai nessuno immagina che la dizione originaria fosse un'altra. Dopo di che l'Autorità Palestinese è diventata tout court Palestina, al punto ormai che alcuni, nella loro ignoranza, pensano che la Palestina sia uno stato esistito da sempre, molto prima che lo Stato d'Israele tornasse alla luce. E se molti mettono in dubbio la legittimità di uno Stato oggi esistente come Israele, ben pochi mettono in dubbio la legittimità di uno Stato palestinese, di cui ancora oggi esiste poco più che il nome.
Fino a qualche tempo fa in Israele si insisteva nel sottolineare che le terre di Cisgiordania (usiamo la dizione più diffusa) e Gaza sono "territori contesi", adesso tutti parlano di "territori occupati". E si potrebbe notare la voluttà con cui certi filopalestinesi pronunciano questa dizione del tutto inappropriata, e la leggerezza con cui la usano israeliani e filoisraeliani.
Dal nostro punto di vista di semplici osservatori e commentatori, diciamo che l'invito a rinunciare al termine "ebraico" per l'unico Stato sulla terra che ha i titoli per averlo, sarà un altro "atto di buona volontà" che il mondo richiede a Israele, che Israele dopo qualche resistenza concederà, e che alla fine peggiorerà la situazione di Israele.

(Notizie su Israele, 27 novembre 2014)


Splendido "J'accuse" all'Onu

L'ambasciatore israeliano al Palazzo di vetro dice al mondo: voi non siete per il popolo palestinese, voi siete contro Israele. Ora dovete scegliere se davvero volete la pace. Pubblichiamo il discorso che l'ambasciatore israeliano Ron Prosor ha pronunciato al Palazzo di vetro davanti all'Assemblea dell'Onu nell'ambito del Giorno di solidarietà internazionale per il popolo palestinese, lunedì 24 novembre.

Signor Presidente,
 
Ron Prosor, Ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite
mi presento qui davanti al mondo come rappresentante orgoglioso dello stato di Israele e del popolo ebraico. Sono qui davanti a voi con la consapevolezza che la verità e la forza morale sono dalla mia parte. E nonostante questo, sono qui sapendo che oggi in questa Assemblea la verità sarà ribaltata e la forza morale sarà messa da parte. Quando i membri della comunità internazionale parlano del conflitto israelo-palestinese, scende una nebbia che offusca ogni logica e ogni trasparenza morale. Il risultato non è la realpolitik, ma la surrealpolitik.
   L'attenzione inesorabile del mondo sul conflitto israelo-palestinese è un'ingiustizia nei confronti di decine di milioni di vittime della tirannia e del terrorismo in Medio oriente. Mentre parliamo, gli yazidi, i bahai, i curdi, i cristiani e i musulmani sono uccisi e costretti alla fuga da estremisti radicali al ritmo di mille persone ogni mese.
   Quante risoluzioni avete votato nell'ultima settimana per occuparvi di questa crisi? E quante sessioni speciali avete convocato? La risposta è zero. Cosa ci dice questo della preoccupazione internazionale per la vita umana? Non molto, ma è invece chiaro il messaggio sull'ipocrisia della comunità internazionale.
   Sono qui davanti a voi per dire la verità. Dei 300 milioni di arabi nel Medio oriente e nel nord Africa, meno di mezzo punto percentuale sul totale è davvero libero - e sono tutti cittadini di Israele. Gli arabi israeliani sono tra i più istruiti del mondo. Sono i nostri migliori medici e chirurghi, sono eletti nel nostro Parlamento e sono giudici nella nostra Corte suprema. Milioni di donne e uomini in Medio oriente darebbero il benvenuto a queste opportunità e libertà. Nonostante questo, nazione dopo nazione oggi salirà su questo palco e criticherà Israele - la piccola isola di democrazia in una regione piagata dalla tirannia e dall'oppressione.
   Signor presidente, il nostro conflitto non è mai stato sulla creazione di uno stato palestinese. E' sempre stato sull'esistenza dello stato ebraico. Sessantasette anni fa, in questa stessa settimana, il 29 novembre dei 1947, le Nazioni Unite votarono per dividere la terra tra uno stato ebraico e uno stato palestinese. Semplice. Gli ebrei dissero sì. Gli arabi dissero no. Ma non dissero soltanto no. L'Egitto, la Giordania, la Siria, l'Iraq, l'Arabia Saudita e il Libano lanciarono una guerra per annichilire il nostro stato appena nato. Questa è la verità storica che gli arabi stanno cercando di distorcere. Gli errori storici degli arabi continuano ad avere conseguenze - in quanto a vite perse in guerra, vite perse a causa del terrorismo, e vite rovinate dai limitati interessi politici degli arabi.
   Secondo le Nazioni Unite, circa 700 mila palestinesi sono stati sfollati nella guerra iniziata dagli stessi
La peggiore oppressione del popolo palestinese ha luogo nelle nazioni arabe. In gran parte del mondo arabo, i palestinesi sono discriminati con aggressività ed è vietata loro la cittadinanza. Non hanno il diritto di possedere la terra e non è loro permesso di intraprendere alcune professioni.
arabi. Allo stesso tempo, 850 mila ebrei sono stati costretti a fuggire dai paesi arabi. Ma perché, 67 anni dopo, la fuga degli ebrei è stata completamente dimenticata da questa istituzione, mentre quella dei palestinesi è soggetta a un dibattito annuale? La differenza è che Israele ha fatto del suo meglio per integrare i rifugiati ebrei nella società. Gli arabi hanno fatto esattamente il contrario. La peggiore oppressione del popolo palestinese ha luogo nelle nazioni arabe. In gran parte del mondo arabo, i palestinesi sono discriminati con aggressività ed è vietata loro la cittadinanza. Non hanno il diritto di possedere la terra e non è loro permesso di intraprendere alcune professioni. E nonostante questo nessuno - nessuno - di questi crimini è menzionato nelle risoluzioni che avete davanti.
   Se foste davvero preoccupati delle gravi condizioni del popolo palestinese ci sarebbe una, almeno una risoluzione rivolta ai palestinesi uccisi in Siria. E se foste davvero così sinceramente preoccupati dei palestinesi ci sarebbe almeno una risoluzione per denunciare il trattamento dei palestinesi nei campi profughi in Libano. Ma non c'è alcuna di queste risoluzioni. La ragione è che nel dibattito di oggi il discorso non è sulla pace o in favore del popolo palestinese — è contro Israele. Non è altro che un festival di odio e di attacchi contro Israele.
   Signor presidente, le nazioni europee dicono di aderire ai valori di Liberté, Egalité, Fraternité — libertà, uguaglianza e fraternità — ma niente può essere più lontano dalla verità. Spesso sento i leader europei proclamare che Israele ha il diritto di esistere entro confini sicuri. Questo è molto gentile. Ma devo dire che per me questo ha lo stesso senso di mettermi qui a proclamare che la Svezia ha il diritto di esistere entro confini sicuri. Quando poi si parla di questioni di sicurezza, Israele ha imparato nella maniera più dura che non possiamo fare affidamento sugli altri — certamente non sull'Europa.
   Nel 1973, nel giorno dello Yom Kippur — il più sacro del calendario ebraico — le nazioni arabe confinanti hanno lanciato un attacco contro Israele. Nelle ore prima che la guerra iniziasse, Golda Meir, il nostro primo ministro di allora, prese la decisione difficile di non lanciare un attacco preventivo. Il governo israeliano capì che se avessimo lanciato un attacco preventivo, avremmo perso il sostegno della comunità internazionale. Mentre le armate arabe avanzavano su tutti i fronti, la situazione in Israele diventava grave. Il numero dei nostri caduti stava crescendo ed eravamo pericolosamente a corto di armi e munizioni. Allora, nell'ora del bisogno, il presidente americano Richard Nixon e il segretario di stato Henry
Gli stati arabi ci stavano circon- dando e la nostra esistenza era minacciata — e nonostante questo, l'Europa non concesse nemmeno che gli aerei facessero rifornimento.
Kissinger decisero di inviare aerei Galaxy carichi di tank e di munizioni per rifornire le nostre truppe. L'unico problema era che i Galaxy avevano bisogno di fare rifornimento sulla strada verso Israele. Gli stati arabi ci stavano circondando e la nostra esistenza era minacciata — e nonostante questo, l'Europa non concesse nemmeno che gli aerei facessero rifornimento. Gli Stati Uniti intervennero ancora e ottennero che agli aerei fosse concesso di rifornirsi nelle Azzorre. Il governo e il popolo di Israele non dimenticheranno mai che, quando la nostra esistenza era in gioco, un unico paese è venuto in nostro aiuto, gli Stati Uniti d'America.
   Israele è stanco delle promesse vuote dei leader europei. Il popolo ebraico ha la memoria lunga. Non dimenticheremo mai che ci avete tradito negli anni 40. Che ci avete tradito nel 1973. E ci state tradendo ancora una volta oggi. Ogni Parlamento europeo che ha votato per riconoscere prematuramente e unilateralmente uno stato palestinese sta dando ai palestinesi esattamente quello che vogliono — sovranità senza pace. Offrendo loro uno stato sul piatto d'argento, state ricompensando le azioni unilaterali ed eliminando ogni incentivo per i palestinesi a negoziare o a fare compromessi o a rinunciare alla violenza. State veicolando il messaggio secondo cui l'Autorità palestinese può stare al governo con i terroristi e incitare la violenza contro Israele senza pagare alcun prezzo.
   Il primo membro dell'Unione europea a riconoscere ufficialmente la Palestina come nazione è stata la Svezia. Bisognerebbe chiedersi perché il governo svedese fosse così ansioso di fare questo passo. Quando si tratta di conflitti nella nostra regione, il governo svedese invoca negoziati diretti tra le parti — ma per i palestinesi, sorpresa!, srotola il tappeto rosso. Il segretario di stato Karin Söder potrebbe pensare che siamo qui per celebrare il cosiddetto riconoscimento storico fatto dal suo governo, quando in realtà non è altro che un errore storico. Il governo svedese potrà anche ospitare la cerimonia del premio Nobel, ma non c'è niente di nobile nella sua cinica campagna politica per placare gli stati arabi al fine di ottenere un seggio nel Consiglio di sicurezza. Le nazioni nel Consiglio di sicurezza devono avere buonsenso, giudizio e sensibilità. Bene, il governo svedese non ha dimostrato né buonsenso né giudizio né sensibilità. Solo assurdità.
   Israele ha imparato nella maniera più dura che dare ascolto alla comunità internazionale può avere conseguenze devastanti. Nel 2005, abbiamo smantellato unilateralmente ogni insediamento e spostato tutti i nostri cittadini dalla Striscia di Gaza. Questo ci ha portato più vicino alla pace? Per niente. Ha sgombrato la via affinché l'Iran mandasse i suoi delegati terroristi per creare una roccaforte del terrore alle nostre porte. Posso assicurarvi che non faremo ancora lo stesso errore. Quando si parla della nostra sicurezza, non possiamo affidarci agli altri. Israele deve essere in grado di difendersi da solo.
   Signor presidente, lo stato di Israele è la terra dei nostri avi — Abramo, Isacco e Giacobbe. E' la terra in cui Mosè ha guidato il popolo ebraico, dove David ha costruito il suo palazzo, dove Salomone ha costruito il Tempio ebraico, e dove Isaia ha visto la pace eterna. Per migliaia di anni, gli ebrei hanno vissuto in modo continuativo nella terra di Israele. Abbiamo resistito all'ascesa e alla caduta degli assiri, dei babilonesi, dei greci e dell'impero romano. E siamo sopravvissuti a centinaia di anni di persecuzioni, cacciate e crociate. Il legame tra il popolo ebraico e la terra ebraica è indistruttibile. Nulla può cambiare una semplice verità: Israele è la nostra casa e Gerusalemme è la nostra capitale eterna. Allo stesso tempo, riconosciamo che Gerusalemme ha significati speciali per altre fedi religiose. Sotto la sovranità di Israele, tutte le persone — e ripeto, tutte le persone — indipendentemente dalla loro religione e dalla loro nazionalità possono visitare i siti sacri. E noi vogliamo che sia per sempre così.
   Gli unici che vogliono cambiare lo status quo al Monte del Tempio sono i leader palestinesi. Il presidente dell'Anp Abu Mazen dice alla sua gente che gli ebrei stanno contaminando il Monte del Tempio. Ha fatto appello per giornate della rabbia e ha chiesto ai palestinesi di evitare che gli ebrei vadano al Monte del Tempio usando, e cito, "tutti i mezzi necessari". Sono parole irresponsabili e inaccettabili. Non dovete
Voi, la comunità internazionale, state tendendo una mano agli estremisti e ai fanatici. Voi, che predicate tolleranza e libertà religiosa, dovreste vergognarvi. Israele non lascerà mai che ciò accada.
essere cattolici per visitare il Vaticano, non dovete essere ebrei per visitare il Muro, ma alcuni palestinesi vorrebbero che un giorno soltanto i musulmani possano visitare il Monte del Tempio. Voi, la comunità internazionale, state tendendo una mano agli estremisti e ai fanatici. Voi, che predicate tolleranza e libertà religiosa, dovreste vergognarvi. Israele non lascerà mai che ciò accada. Faremo in modo che i luoghi sacri restino aperti sempre per tutti i popoli e tutte le religioni.
   Signor presidente, nessuno desidera la pace più di Israele. Nessuno deve spiegare l'importanza della pace ai genitori che hanno mandato i loro figli a difendere la loro terra. Nessuno sa meglio degli israeliani che cosa significa avere successo o fallire. Il popolo di Israele ha speso troppe lacrime e ha sepolto troppi figli e figlie. Siamo pronti alla pace, ma non siamo ingenui. La sicurezza di Israele è di massima importanza. Soltanto se Israele è forte e sicuro può raggiungere una pace onnicomprensiva. Gli ultimi mesi devono chiarire a tutti che Israele ha esigenze immediate e pressanti per quel che riguarda la sua sicurezza. Nelle ultime settimane, i terroristi palestinesi hanno sparato o accoltellato i nostri cittadini e per due volte hanno lanciato le loro auto in mezzo a folle di pedoni. Soltanto qualche giorno fa, terroristi armati di asce e pistole hanno selvaggiamente attaccato fedeli ebrei durante le preghiere del mattino. Abbiamo raggiunto il punto in cui gli israeliani non riescono nemmeno a trovare un santuario contro il terrorismo nel santuario di una sinagoga. Questi attacchi non sono emersi dal nulla. Sono il risultato di anni di indottrinamento e incitamento. Un proverbio ebraico dice: "Gli strumenti della morte come della vita sono nel potere della lingua".
   Come ebreo e israeliano, so con assoluta certezza che, quando i nostri nemici dicono che vogliono attaccarci, lo dicono sul serio. L'atto costitutivo genocida di Hamas chiede la distruzione dello stato di Israele e l'uccisione di ebrei ovunque si trovino nel mondo. Per anni, Hamas e altri gruppi terroristi hanno mandato attentatori suicidi nelle nostre città, hanno lanciato missili contro le nostre città, hanno mandato terroristi a rapire e uccidere i nostri cittadini.
E cosa possiamo dire sull'Autorità palestinese? Guida una campagna sistemica di incitamento. Nelle scuole ai bambini insegnano che la "Palestina" andrà dal fiume Giordano al Mediterraneo. Nelle moschee, i leader religiosi propagandano feroci calunnie accusando gli ebrei di distruggere i luoghi sacri dell'islam. Negli stadi, le squadre hanno i nomi dei terroristi. Sui giornali le vignette incitano i palestinesi a commettere atti di terrorismo contro gli israeliani. I bambini, nella maggior parte del mondo, crescono guardando Topolino che canta e balla. Pure i bimbi palestinesi vedono Topolino, ma nella tv palestinese Topolino danza con cinture esplosive e canta "Morte all'America e morte agli ebrei".
   Vi sfido oggi ad alzarvi e a fare qualcosa di costruttivo. Denunciare pubblicamente la violenza,
La battaglia cui stiamo assistendo
è tra chi santifica la vita e chi celebra la morte. Dopo il feroce attacco alla sinagoga di Gerusalemme, sono esplosi i festeggiamenti nelle cittadine palestinesi. La gente ballava per strada e distribuiva caramelle.
l'incitamento all'odio, la cultura dell'odio. La maggior parte della gente pensa che nel suo profondo il conflitto sia tra ebrei e arabi o israeliani e palestinesi. Sbaglia. La battaglia cui stiamo assistendo è tra chi santifica la vita e chi celebra la morte. Dopo il feroce attacco alla sinagoga di Gerusalemme, sono esplosi i festeggiamenti nelle cittadine palestinesi. La gente ballava per strada e distribuiva caramelle. I ragazzi si facevano fotografare con le asce, i megafoni delle moschee urlavano congratulazioni, i terroristi erano celebrati come "martiri ed eroi". Non è la prima volta che vediamo i palestinesi che festeggiano per l'assassinio di civili innocenti. Li abbiamo visti gioire dopo ogni attacco contro i cittadini israeliani, sono scesi in piazza per celebrare l'attacco dell'11 settembre a New York. Immaginate che genere di stato questa società può produrre. Davvero il Medio oriente ha bisogno di un'altra "terrore-crazia"? Alcuni membri della comunità internazionale ne stanno aiutando e favorendo la creazione.
   Signor presidente, quando siamo arrivati alle Nazione Unite abbiamo mostrato le bandiere dei 193 membri. Se si mette a contarle, scoprirà che ci sono 15 bandiere con la mezzaluna e 25 con la croce. E ce n'è una con la stella di David ebraica. Tra tutte le nazioni del mondo, c'è uno stato, un piccolo stato, per il popolo ebraico. E per alcuni, questo unico stato è già di troppo. Qui davanti a voi oggi, mi sono tornati in mente tutti gli anni in cui il popolo ebraico ha pagato con il sangue per l'ignoranza e l'indifferenza del mondo. Non vogliamo che ci sia un altro giorno così.
   Non chiederemo mai scusa per essere un popolo libero e indipendente nel nostro stato sovrano. E non chiederemo mai scusa per il fatto che ci vogliamo difendere. Alle nazioni che continuano a permettere che sia il pregiudizio a prevalere sulla verità, dico "J'accuse". Vi accuso di ipocrisia. Vi accuso di doppiezza. Vi accuso di fornire legittimità a chi vuole distruggere il nostro stato. Vi accuso di parlare del diritto di Israele a difendersi soltanto in teoria, negandone la pratica. E vi accuso di richiedere concessioni da Israele senza domandare nulla ai palestinesi. Di fronte a queste offese, il verdetto è chiaro. Non siete dalla parte della pace e non siete dalla parte del popolo palestinese. Siete semplicemente contro Israele. I membri della comunità internazionale devono fare una scelta. Potete riconoscere Israele come lo stato del popolo ebraico o permettere alla leadership palestinese di negare la nostra storia senza che ci siano conseguenze. Potete pubblicamente annunciare che il cosiddetto "diritto al ritorno" non è un punto di partenza, o potete permettere che questo diritto resti come maggior ostacolo a ogni accordo di pace. Potete prematuramente riconoscere lo stato palestinese o potete incoraggiare l'Anp a rompere il suo patto con Hamas e a tornare ai negoziati diretti.
   La scelta è vostra. Potete continuare a indirizzare i palestinesi naturalmente, o creare la via per una pace vera e duratura.
   Grazie, signor presidente.

(Il Foglio, 27 novembre 2014)


Tutto ha un senso
Il Festival Nessiah di Pisa, a partire da questa edizione, si pone l'ambizioso obiettivo di esplorare le 5 dimensioni sensoriali aggiungendone una sesta legata alla sfera mistica e spirituale. Ciascun evento sarà identificato da uno o più sensi. I Simbolisti francesi sostenevano che la poesia non sta nelle cose ma "fra" le cose. Le nostre esistenze sono costellate da apparizioni di senso, che fanno capolino nei momenti in cui siamo distratti, o quando, occupati a guardare il centro, non vediamo la periferia. Saper vedere le connessioni fra i fatti apparentemente più diversi, mettere in relazione episodi della nostra esistenza estranei l'uno all'altro è ciò che rende poetica la nostra vita, in altre parole: l'arte di vivere. Nella tradizione ebraica, il Midrash è quel gioco con il testo che sa creare legami fra storie, fatti e personaggi anche lontani fra loro, gettare ponti fra due mondi per completare una storia, aggiungere significato. È un esercizio tutto umano, poiché il testo biblico, donato una volta dal cielo alla terra, resta poi a quest'ultima per sempre da interpretare. In quel gioco a riscrivere storie, infinitamente rinnovabile, sta l'ingegno umano, la possibilità di elevarsi data all'uomo, la scala che unisce cielo e terra. Questa scala può essere semplicemente una scala musicale come nel caso dei concerti di Enrico Fink o Davide Casali, oppure l'esplosione di colori e suoni di Uri Revah, o il sapore di ricette antiche che prendono forma nelle opere di Lisa Batacchi, oppure ancora l'incontro tra un personaggio misterioso e la trasfigurazione di un grande Maestro rappresentato nello spettacolo di Miriam Camerini. Dopo 18 anni di successi Nessiah si ripresenta sotto forma di laboratorio sensoriale con l'auspicio di poter continuare ad offrire questa esplorazione anche negli anni a venire.
Programma
Sito

(Comunità Ebraica di Pisa, 27 novembre 2014)


Netanyahu: vado avanti su 'Israele nazione ebraica'

In un acceso discorso alla Knesset, il premier Benjamin Netanyahu ha confermato che la settimana prossima avvierà l'iter della legge che definisce Israele "stato nazionale del popolo ebraico".
È necessaria, ha affermato il premier, per sventare iniziative volte a cambiare l'inno e la bandiera di Israele ed evitare che il Paese sia "inondato" da profughi palestinesi.
C'è poi il rischio di autonomie arabe in Galilea e nel Neghev, oltreché di un flusso inarrestabile di migranti africani.

(swissinfo.ch, 26 novembre 2014


Il progetto del ministro Federica Guidi: un gasdotto israeliano per neutralizzare Putin

La proposta arriva dal ministro dell'energia Silvan Shalom che punta a vendere il gas dei giacimenti scoperti al largo tra Israele e Cipro. Per farlo arrivare in Europa, cliente finale in crisi con la Russia, servirebbe un gasdotto che passi attraverso la Grecia e termini in Italia. Il costo si aggira intorno ai 5 miliardi di euro. La promotrice del progetto, che però si scontra con il Tap (il gas che dall'Azerbaijan arriverà nel 2020 in Puglia), è il ministro Guidi.

di Filippo Santelli

Il Ministro dell'Energia israeliano Silvan Shalom
MILANO - Da una parte i lacci energetici di Putin. Dall'altra l'instabilità politica del Nord Africa. «Noi offriamo all'Europa una fonte di gas affidabile»: ecco la proposta con cui il ministro dell'Energia israeliano Silvan Shalom è arrivato la scorsa settimana a Roma. Un gasdotto che partirebbe dai nuovi giacimenti a largo di Israele, passerebbe attraverso Cipro e Grecia, per approdare sulle coste dello Stivale, nodo di smistamento per tutto il Continente. Un disegno che non ha lasciato indifferente il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi: «Siamo solo all'inizio - dicono dal Mise - ma questo è uno dei progetti che, per sicurezza delle forniture, offrirebbe le garanzie maggiori».
   Il metano arriverebbe dai campi offshore di Tamar e Leviathan, scoperti di recente nel Mediterraneo. Oltre mille miliardi di metri cubi già accertati che il governo di Israele ha destinato per il 40% all'estero. Ora che il gas comincia a essere pompato però trovare dei compratori si sta rivelando difficile. Le tensioni con il mondo arabo non aiutano: un contratto pluriennale di fornitura era stato chiuso con la Giordania, ma dopo i recenti scontri a Gerusalemme Amman sembra intenzionata a stracciarlo.
   Se Israele guarda all'Europa è anche per mettere pressione ai vicini. «Il costo dell'infrastruttura - stima Shalom - è di sei miliardi di dollari». Poco meno di cinque miliardi di euro che dovrebbero essere in larga parte finanziati con risorse comunitarie. La strada per convincere Bruxelles però è in salita: l'Europa ha già investito sul Tap, il gasdotto che entro il 2020 dovrebbe portare sulle coste della Puglia il metano dell'Azerbaijan. Sarà il ministro Guidi a illustrare ai colleghi europei questo nuovo progetto, magari già durante i consigli su energia e competitività previsti per il 4 e il 5 dicembre, tra gli ultimi appuntamenti del semestre di presidenza italiano.
   Difficile si decida a breve, come chiede Shalom. Una delle alternative per Israele sarebbe far liquefare il gas, a Cipro o in Egitto. A Roma il ministro ha incontrato anche i vertici di Eni: la multinazionale è pronta a mettere a disposizione l'impianto di Damietta, sul delta del Nilo, oggi inattivo. Ma il governo del Cairo non ha ancora assicurato il suo via libera. Buone notizie invece per Edison. L'esecutivo israeliano ha appena ridefinito i confini dei campi di Tanin e Karish, risorse stimate tra i 50 e i 70 miliardi di metri cubi. L'antitrust locale ha intimato al consorzio formato da Delek e Noble di cederli, per sanare la posizione dominante nell'area, e Edison è da mesi in prima fila: «Ora i due lotti sono definiti - ha detto Shalom - questo aiuterà a venderli».
   
(la Repubblica, 26 novembre 2014)


L'ingiusto aggressore

Lo ha detto papa Francesco: "Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto". Si può fermare un aggressore solo col consenso della "comunità internazionale". Inoltre, ha sottolineato il pontefice, fermare un aggressore non significa fargli la guerra: "Sottolineo il verbo 'fermare', ha detto Sua santità, "non dico bombardare o fare la guerra. Ma fermarlo".
Evito, per non apparire irrispettoso, ogni commento sul fatto che si dovrebbero fermare i tagliagola dell'Isis senza usare nei loro confronti la minima violenza (forse qualcuno pensa ad un intervento miracoloso della divina provvidenza) e mi limito ad una modestissima domanda....

(Il Borghesino, 26 novembre 2014)


Mosca, scritte antisemite al Centro per lo studio della Torah

di Nina Achmatova

La denuncia del portavoce del Congresso ebraico russo: "Episodio doloroso, perché arriva nei giorni in cui nelle nostre sinagoghe si prega ancora per le vittime dell'attentato a Gerusalemme".

MOSCA - Mentre in Russia non si ferma la retorica della lotta "contro i nazisti di Kiev", come vengono definite le autorità ucraine salite al potere dopo la caduta del presidente Viktor Yanukovich, a Mosca si verificano nuovi episodi di antisemitismo. Il 24 novembre, i dipendenti del Centro per lo studio della Torah, "Limmud", hanno trovato sulle mura dell'edificio dove ha sede l'organizzazione la scritta con vernice nera: "Questo è il covo dei sionisti. Fuori!". A riferire l'accaduto all'agenzia Interfax è stato il responsabile del servizio stampa del Congresso ebraico russo, Mikhail Savin.
"Si tratta del secondo caso di evidente antisemitismo quest'anno, dopo le uscite dei nazionalisti a Perm, durante la Marcia Russa del 4 novembre", ha denunciato Savin. Il 4 novembre, festa dell'Unità nazionale, è anche giornata in cui tradizionalmente tutti i gruppi dell'estrema destra russa organizzano un corteo in diverse città del Paese. In quel giorno a Perm, sotto il portico della sinagoga locale, erano stati attaccati adesivi antisemiti. Fino a novembre non vi erano stati, quest'anno, né attacchi, né atti di vandalismo, ha riferito sempre il portavoce del Congresso ebraico russo.
"In questi giorni, in cui in tutte le sinagoghe russe si prega in memoria delle vittime dell'attentato a Gerusalemme, incidenti di carattere antisemita come questi per noi sono particolarmente dolorosi", ha ammesso Savin, che ha esortato la polizia a "indagare fino in fondo" e a "punire i vandali". "La loro impunità - ha aggiunto - provoca inevitabilmente nuove manifestazioni di odio etnico e religioso".

(AsiaNews, 26 novembre 2014)


Ikande, gol da antologia

Il giovane nigeriano dell'Hapoel Tel Aviv sblocca l'incontro contro l'Hapoel Beer Sheva con un tiro potente e preciso che sorprende tutti, a cominciare dal portiere avversario: il 24enne centrocampista ha cominciato la sua carriera professionistica nelle giovanili del Milan e, in Italia, ha giocato anche nel Monza e nel Poggibonsi.

(Gazzetta TV, 26 novembre 2014)


Israele decide l'espulsione della vedova di uno degli attentatori della sinagoga

La vedova di uno dei terroristi autori del massacro nella sinagoga di Har Hof a Gerusalemme sarà espulsa da Israele. Lo ha deciso il ministero degli Interni israeliano, sottolineando che Nadia Abu Jamal abita a Gerusalemme solo in virtù del permesso permanente di residenza del marito, il palestinese Abed Abu Jamal. "Chi è coinvolto in atti di terrorismo deve tener conto delle conseguenze che ciò avrà sulla propria famiglia", ha dichiarato il ministro degli Interni Gilad Erdan, citato sul Jerusalem Post. La donna perderà anche il diritto ad ogni beneficio della sicurezza sociale.
L'espulsione della vedova di uno dei due responsabili dell'attacco del 18 novembre, che ha causato cinque morti, potrebbe preludere a futuri provvedimenti anche più duri verso gli autori di attacchi terroristici e le loro famiglie. Un piano antiterrorismo portato oggi in Parlamento dal partito Likud del primo ministro Benyamin Netanyahu, secondo quanto rivela il sito Ynetnews, prevede che gli arabo israeliani coinvolti in atti di terrorismo perdano la cittadinanza israeliana. Ciò significa che, una volta scontata la loro pena in carcere, saranno espulsi dal paese. Anche i familiari perderanno la nazionalità, e saranno deportati a Gaza, se esprimeranno sostegno per gli atti terroristici compiuti dal loro parente. Analogamente è prevista la revoca del permesso di residenza per i palestinesi di Gerusalemme est.
Il piano stabilisce anche che il corpo dei terroristi uccisi non venga restituito ai familiari, ma sepolto senza rito funebre in un luogo sconosciuto. Le case degli autori di atti di terrorismo verranno distrutte entro 24 ore. Infine il progetto di legge prevede che chi venga accusato di lancio di sassi o bombe molotov rimanga in carcere fino al processo. In caso di condanna è prevista anche la revoca dei benefici del welfare e della patente di guida per dieci anni.

(Adnkronos, 26 novembre 2014)


Il presidente e il cantante

di Deborah Fait

 
Amir Benayoun
Il Presidente di Israele Rueven Rivlin ha negato la partecipazione di Amir Benayoun alla commemorazione degli ebrei scacciati in massa dai paesi arabi negli anni immediatamente successivi alla fondazione dello Stato di Israele. Amir Benayoun, di origine algerina, una delle voci più amate e note in Israele, si è visto inaspettatamente estromesso dalla residenza presidenziale a causa delle parole di una sua canzone ritenute razziste.
Il fatto senza precedenti ha creato giustamente una serie di accese e veementi polemiche tra le varie anime politiche israeliane e di grande delusione tra i cittadini e i tanti ammiratori del cantante. Posso capire la decisione del Presidente in un momento così delicato, con una terza intifada alle porte, con il terrorismo palestinese che ogni giorno, ogni santo o maledetto giorno, fa vittime tra gli israeliani. Sì, posso capire ma posso anche non capire e pensare che sia stata commessa un'ingiustizia, che la decisione sia stata presa in modo troppo impulsivo, di pancia, a causa di un eccessivo sentimento policamente corretto. Benayoun, proprio pensando agli ultimi terribili attentati, ha scritto una canzone in cui esprime la realtà degli arabi israeliani, cittadini a tutti gli effetti, con gli stessi diritti allo studio e al lavoro che, nonostante siano tra gli arabi i più fortunati proprio perché vivono in una democrazia, si rivoltano contro di essa arrivando in alcuni casi alla violenza e all'assassinio.
Ecco le parole della canzone incriminata:
    E' vero che arriverà il momento in cui tu ti girerai
    e allora io ti pugnalerò.
    E' vero che ho studiato nelle migliori università.
    Oggi sorrido e sono moderato.
    Domani vorrò andare in paradiso.
    Io manderò uno o due ebrei all'inferno.
    Sono un ingrato. E' vero,
    ma non mi sento colpevole.
    Non sono nato nell'amore.
    La verità è che arriverà il momento
    in cui voi mi volterete la schiena
    e io pianterò un'ascia in quella schiena.
Giudicate voi se queste parole sono razziste o se rispecchiano esattamente la realtà. In questi giorni in Israele si commemora l'espulsione in massa degli ebrei dai paesi arabi nel momento in cui l'ONU decise, a maggioranza, per la fondazione dello Stato di Israele. 850.000 ebrei che vivevano in quei paesi da centinaia d'anni, furono scacciati, depredati di tutti i loro beni, molti furono uccisi, i sopravvissuti costretti a fuggire. Arrivarono in Israele dove furono accolti e, nonostrante le difficoltà, guerra e seri problemi economici, del neonato Stato di Israele, nel giro di pochi anni furono completamente integrati.
Il mondo non ricorda questa enorme ingiustizia, questo crimine contro gli ebrei, nessuno ne parla come se non fosse mai accaduto. Il mondo ricorda invece molto bene, incolpando chi la guerra la stava subendo, che nello stesso periodo fuggirono da Israele, su ordine degli stati arabi e della Lega araba, 600.000 arabi viventi nella Palestina del Mandato britannico. Israele non costrinse nessuno ad andarsene, i paesi arabi promisero che sarebbero tornati non appena avessero distrutto lo Stato ebraico. Il mondo, dopo quasi 70 anni, ancora ci incolpa, ci insulta, ci odia per quei profughi e non dice nemmeno una parola per gli altri... erano solo ebrei.
Gli arabi rimasti divennero cittadini di israele, con ogni diritto ma anche con qualche dovere, spesso disatteso. La Dichiarazione della Fondazione dello Stato di Israele comincia con queste parole:
    "In ERETZ ISRAEL è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l'eterno Libro dei Libri. Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel ripristino in essa della libertà politica."
E conclude:
    "Lo Stato d'Israele sarà aperto per l'immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d'Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Lo Stato d'Israele sarà pronto a collaborare con le agenzie e le rappresentanze delle Nazioni Unite per l'applicazione della risoluzione dell'Assemblea Generale del 29 novembre 1947 e compirà passi per realizzare l'unità economica di tutte le parti di Eretz Israel. Facciamo appello alle Nazioni Unite affinché assistano il popolo ebraico nella costruzione del suo Stato e accolgano lo Stato ebraico nella famiglia delle nazioni. Facciamo appello - nel mezzo dell'attacco che ci viene sferrato contro da mesi - ai cittadini arabi dello Stato di Israele affinché mantengano la pace e partecipino alla costruzione dello Stato sulla base della piena e uguale cittadinanza e della rappresentanza appropriata in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti. Tendiamo una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e facciamo loro appello affinché stabiliscano legami di collaborazione e di aiuto reciproco col sovrano popolo ebraico stabilito nella sua terra. Lo Stato d'Israele è pronto a compiere la sua parte in uno sforzo comune per il progresso del Medio Oriente intero."
La democrazia non è mai abbastanza, su questo non ci piove, Israele ne è la bandiera e la luce ma capita a volte che per essere giusti verso qualcuno si sia ingiusti verso altri. E' inevitabile e secondo me è esattamente quanto accaduto tra il Presidente e il cantante. Non vedo nessun tipo di razzismo nelle parole della canzone di Benayoun, quello che noto è tristezza, rabbia e delusione per una realtà dolorosa provocata dalla propaganda di odio della leadership palestinese di Ramallah e dal desiderio infame di un definitivo genocidio degli ebrei della leadership di Gaza.
Amir Benayoun ha scritto sulla sua pagina di Facebook:
    "La canzone - Ahmed loves Israel - esprime dei sentimenti dolorosi e non parla nel modo più assoluto di violenza. Io sono contro ogni tipo di violenza. Chi è rimasto scioccato dalle parole di una canzone dovrebbe essere scioccato dal terrorismo che attraversa il Paese, dal massacro di ebrei in preghiera. Dai terroristi che mandano missili contro le nostre scuole e gli ospedali al sud. Vi sono molte cose più scioccanti di una canzone che esprime dolore, paura e nulla più."
Questo scrive Amir Benayoun. Giudicate voi.

(Inviato dall'autrice, 26 novembre 2014)


"Giudicate voi", dice l'autrice. Ha ragione, è il giudizio di chi scrive. Ha ragione a dire che l'autore della canzone non meritava di essere messo al bando perché le sue parole non esprimono odio, ma soltanto "tristezza, rabbia e delusione per una realtà dolorosa provocata dalla propaganda di odio della leadership palestinese". Si potevano fare commenti alle sue parole, qualcuno poteva aggiungerne altre per spiegare che non si vuole rispondere all'odio con l'odio, ma il volerle soffocare rischia di dare alimento e maggior forza all'odio. M.C.


A gennaio la terza Gran Fondo nel punto più basso della Terra

La corsa ciclistica si tiene nell'area del Mar Morto

ROMA - Partirà il 10 gennaio 2015 la terza edizione della Gran Fondo Israele, che si terrà nell'area del Mar Morto. Si tratta di una corsa ciclistica che si svolge nel punto più basso della Terra, ad oltre 400 metri sotto il livello del mare. Tre le opzioni possibili per chi si voglia cimentare: la Gran Fondo vera e propria, un tour circolare con una distanza totale di 155 Km; il Medio Fondo, di 100km; il Mini Fondo, 50 km. La partenza sarà da Ein Bokek, la zona degli hotel sulle rive del Mar Morto. Da qui la corsa prende il via verso sud, verso il paesaggio selvaggio del deserto di Israele, salendo verso la famosa, ripida e tortuosa via di Ma'ale Akrabim (Il passo degli scorpioni). I ciclisti percorreranno poi la salita di Hatrorim (250 metri sopra il livello del mare) e da qui, fin verso la fine, vi sarà una corsa in discesa verso Ein Bokek. Negli anni scorsi, l'evento ha attirato la partecipazione dei ciclisti provenienti da tutto il mondo. La Gran Fondo del Mar Morto è organizzata da Gran Fondo Israele con il sostegno del Consiglio Regionale Tamar, il Comune di Arad, Il Ministero Israeliano del Turismo, il Ministero della Cultura e dello Sport e l'associazione israeliana di ciclismo.

(askanews, 26 novembre 2014)


La storia secondo l'islam
Articolo magistrale, da leggere e diffondere.


Non ci sono corsi di storia decenti nelle università islamiche perché non ci sono altri testi, se non il Corano. Questo spiega quel che sta accadendo a Gerusalemme.

di Carlo Panella
  • "Abramo non era ebreo, è il primo musulmano" (Corano).
  • "Abramo ha costruito la Kaaba alla Mecca" (Corano).
  • "I cananei non erano fenici, erano arabi" (Regno Saudita).
  • "Sulla Spianata non è mai esistito il Tempio di Gerusalemme" (Saeb Erekat, Olp).
  • "Il Rotary club e i Lions hanno scatenato le due guerre mondiali" (Hamas).
  • "L'America è stata scoperta nel XII secolo dai musulmani" (Recep Tayyip Erdogan, Turchia).
Queste perle rappresentano solo alcuni esempi di un revisionismo storico islamico pervasivo che si inventa una meta-storia. Una storia sfacciatamente a proprio uso e consumo. Una visione del cammino dell'umanità plasmata sulla lettura formale del Corano a cui i dati di fatto, quelli veri, devono piegarsi, distorcendo e ribaltando gli avvenimenti reali.
   Se non si parte da questa distorsione, poco o nulla si comprende del conflitto israelo-palestinese. Inclusa l'ennesima crisi che ha al centro oggi quella Spianata delle Moschee che è il baricentro dell'intera Rivelazione coranica, quindi, della negazione di ogni legittimità storica dello stato ebraico.
   La convinzione che quel conflitto abbia come posta "la terra" (come indubbiamente è, ma in subordine) deriva dall'ignoranza di questa meta-storia islamica. "Il Tempio? Ma io non vedo nessun Tempio!": così nel 2000 Saeb Erekat, negoziatore palestinese degli accordi falliti di Camp David e Taba, rispondeva ironico e sfottente a Ehud Barak che pure era pronto a riconoscere a Yasser Arafat la spartizione di Gerusalemme, capitale dei due stati. Ed è proprio qui, in questa storia distorta che ispira Saeb Erekat, una storia che nega l'ebraicità intrinseca di Israele, la ragione vera, insuperabile, della non soluzione del conflitto. Unica questione nazionale del Novecento non risolta.
   Chi scrive che oggi con l'assassinio dei quattro rabbini della sinagoga Kehilat Yaakov, il conflitto "rischia di diventare guerra tra religioni", non sa, perché non vuole sapere, che i primi, terribili, fatti di sangue tra
I primi, terribili, fatti di sangue tra sionisti e palestinesi iniziarono con una guerra di religione nel 1929, proprio a causa del Tempio. Prova provata della centralità della leva religiosa, ben più che di quella nazionalista, in tutte le rivolte palestinesi.
sionisti e palestinesi iniziarono con una guerra di religione nel 1929, proprio a causa del Tempio. Prova provata della centralità della leva religiosa, ben più che di quella nazionalista, in tutte le rivolte palestinesi. Fulcro del "rifiuto arabo di Israele". Nel 1929, il Gran Mufti di Gerusalemme Haji al Hussein - futuro alleato di Adolf Hitler - prese a pretesto l'incauta decisione degli chassidim ebrei, non avallata dai sionisti, di costruire un muretto esile che dividesse le donne dagli uomini davanti al Muro, per scatenare una campagna mondiale contro la profanazione ebraica della Spianata delle Moschee. In particolare della moschea della Roccia, al cui centro vi è il masso su cui Abramo sarebbe stato pronto al sacrificio di Isacco e da cui Maometto si sarebbe involato sul cavallo alato al Buraq per la sua ascensione nell'iperuranio. Il pretesto era specioso, perché l'inopportuno muretto nulla aveva a che fare con la Spianata, era perpendicolare al Muro, alla base della collina. Ma ebbe uno straordinario e sanguinoso successo: il Gran Mufti denunciò la profanazione ebraica, chiamò i fedeli al jihad contro i giudei, organizzò tre squadre di un migliaio di uomini armati che razziarono gli ebrei di Gerusalemme. Pogrom anche a Giaffa, Tel Aviv, Gaza, Lydda e Motza. In pochi giorni i seguaci del leader palestinese massacrarono 133 ebrei e ne ferirono 339. Vittime di una guerra di religione.
   Sull'onda del successo di quel massacro e dell'indignazione che quell'inesistente sfregio ebraico alla Spianata provocò in tutto il mondo islamico, il Gran Mufti lanciò una campagna diretta alla umma islamica denunciando la volontà degli ebrei di distruggere la Spianata delle Moschee e diffuse nelle moschee di tutto il mondo fotomontaggi in cui fiamme voraci divoravano la moschea della Roccia. Nel dicembre del 1931 organizzò un Congresso islamico mondiale, presieduto da Muhammad Iqbal, famoso poeta pachistano (grande ammiratore del nazifascismo), i cui 139 delegati condannarono formalmente il sionismo come antislamico (dunque una formale apertura della guerra di religione), proclamarono che non solo la Spianata delle Moschee, ma anche il Muro del Pianto che la sorregge, sono luoghi santi dell'islam, negando in maniera decisa il suo carattere sacro per gli ebrei e attribuirono al Graln Mufti la leadership islamica mondiale. A quella fatwa si riferisce ancora oggi Saeb Erekat quando nega l'esistenza passata del Tempio a ridosso del Muro.
   Da allora, infiniti sono stati gli episodi di sangue originati dalla negazione islamica dell'esistenza del Tempio ebraico e quindi della sacralità del Muro. Tra il 1948 e il 1967, quando il Muro e la Spianata erano sotto sovranità della Giordania, fu impedito agli ebrei di recarsi davanti al Muro a pregare. Incidenti feroci si ebbero quando, dopo il 1967, iniziarono gli scavi archeologici che sono poi culminati nello scavo di quella fantastica galleria che fiancheggia le fondamenta del Muro costruite da Erode il Grande. Nel 2000, la passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata, regolarmente autorizzata sia dalla Custodia giordana sia dall'Autorità nazionale palestinese, fu presa a pretesto per il lancio della Seconda Intifada. Due anni fa, nel marzo del 2012, Yousef Adeis, capo dei Tribunali islamici nei Territori ha lanciato l'ennesimo allarme fasullo: "La moschea di al Aqsa (denominazione araba della Spianata) è in estremo pericolo per la guerra che il governo di occupazione sionista e i coloni intendono condurre distruggendola per costruire un tempio al suo posto. Recentemente in molte riunioni segrete membri dell'esercito, rabbini e gruppi di coloni hanno discusso vari piani per demolire le moschee della Spianata. Uno consiste nel provocare un terremoto artificiale con delle mine piazzate negli scavi archeologici blasfemi effettuati".
   Non è dunque né una novità né un caso, che il tentativo di lanciare una Terza Intifada, con una nuova, massiccia ondata terroristica, come chiede Marwan Barghouti, leader delle Brigate dei martiri di al Aqsa, di
Il Corano è innervato dalla denuncia delle falsità e menzogne degli ebrei. Le sure Medinesi si incentrano tutte sul tradimento da parte ebraica della fede in Dio, con conseguente uccisione dei suoi Profeti e irrisione della sua Legge (per la quale gli ebrei "furono trasformati in scimmie e porci").
al Fatah, abbia al centro la Spianata, terzo luogo santo dell'islam con la Mecca e la Medina. Né deve stupire la negazione palestinese e islamica della palese evidenza storica della millenaria presenza ebraica in Gerusalemme, incentrata prima sul Tempio, poi sul Muro. Il Corano è innervato dalla denuncia delle falsità e menzogne degli ebrei. Soprattutto nelle sure Medinensi, dettate dal Profeta negli anni della guerra con gli idolatri della Medina e dello scontro sanguinoso con le tribù ebraiche della Medina stessa. La struttura di queste numerosissime sure si incentra tutta sul tradimento da parte ebraica della fede in Dio, con conseguente uccisione dei suoi Profeti e irrisione della sua Legge (per la quale gli ebrei trasgressori "furono trasformati in scimmie e porci").
   Qui ha le sue radici il revisionismo storico islamico, del tutto svincolato dalla realtà dei fatti. Lo schema coranico è semplice: l'islam è la continuazione lineare della vicenda biblica iniziata, appunto, con il primo "musulmano" - hanif - Abramo, disattesa e tradita con disonore prima dagli ebrei e poi dai cristiani. In questo contesto, la legittimità della continuità profetica viene a Maometto, che vive a centinaia di miglia da Gerusalemme, proprio dal racconto del suo viaggio mistico. L'arcangelo Gabriele lo trasporta sulla Roccia della Spianata. La Roccia di Gerusalemme diventa dunque il luogo da cui Dio sceglie di farlo ascendere, vivente, nell'iperuranio. Simbolo concreto del suo essere il "sigillo della Profezia". Da qui, solo da qui, viene il carattere sacro per l'islam di Gerusalemme, che i primi fedeli del Profeta mai avevano neanche visto. Con questo passaggio Maometto fa sua Gerusalemme, così come fa sua, reinterpretandola, tutta la tradizione islamica (e parte di quella cristiana).
   Il dramma è che per la quasi totalità dell'islam contemporaneo, il rifiuto della modernità si incarna nella proibizione di ogni interpretazione, esegesi, del testo coranico. Chi propone di applicare la ragione alla fede viola il dogma del Corano Increato, che vuole il Libro incarnazione sacra della parola di Dio, preesistente ad Adamo ed estesa nell'infinità del tempo dopo il Giudizio ultimo. Chi la propone, chi separa le sure Meccane, intrise di Rivelazione (dense di affiato unitario con ebrei e cristiani) da quelle Medinensi, dettate nel vivo di un jihad sanguinario con gli abitanti della Mecca e del conflitto aperto con gli ebrei della Medina che vale loro l'esilio e poi la strage, è apostata. Il grande teologo sudanese Mohammed Taha viene impiccato su mandato di al Azhar nel 1985 per questa "colpa".
   Ecco allora che nella visione del mondo islamica si restringe, sino a estinguersi, lo spazio per la storia, per la narrazione strutturata dalla ragione e basata sui dati reali. Storia e storiografia infatti non esistono nel contesto musulmano, che conosce al massimo delle cronache. Solo Ibn Khaldoun, vissuto nel XIV secolo elabora una teoria storiografica, ma è un fenomeno isolato. La Sira, la Storia con la esse maiuscola, per l'islam è solo quella che ricostruisce gli avvenimenti della vita di Maometto. E non si basa - il dato è essenziale - su documenti scritti, al di là del Corano, ma sulla attendibilità della "catena di trasmissione" orale dei fatti e dei detti del Profeta. Detti che nei secoli successivi vengono raccolti negli Hadith che fanno parte integrante della Rivelazione. Incluso quello che dice: "Il giorno del Giudizio non verrà fino a quando l'ultimo ebreo non verrà ucciso...", baricentro programmatico dello Statuto di Hamas.
   La veridicità dei fatti affidata solo alla tradizione orale per quanto riguarda il Profeta non solo diventa il metodo storiografico principe nell'islam, ma si irradia poi su tutto quanto riguarda gli avvenimenti del passato, negando interesse per la documentazione scritta. Si inficia così dalle fondamenta qualsiasi ricerca di storia reale. Il tutto, accompagnato dalla pena di morte comminata in tutto il mondo musulmano a chi stampi un libro. Una follia che mutila il mondo islamico di libri stampati, di fatto sino al Novecento, causa determinante dei tanti mali dell'islam contemporaneo.
   Né la formidabile spinta alla ricostruzione storica data da Napoleone con la Déscription de l'Egypte, opera delle decine di scienziati portati al suo seguito, riesce a innescare in un mondo culturale arabo sclerotico un minimo interesse per lo studio scientifico della propria storia. Una semina nel deserto.
   Caduta l'unitarietà della vicenda musulmana, con la fine del Califfato decretata da Kemal Atatürk nel 1924, a fronte del drammatico problema di una umma sottoposta per molti decenni a venire al dominio politico dell'occidente cristiano, la meta-storia coranica diventa l'asse portante della legittimità delle
I "Protocolli dei Savi di Sion", dopo la Nachba, la sconfitta di tutti gli eserciti arabi a opera dei sionisti nel 1948, vengono assunti a paradigma, assurgono al ruolo di chiave per spiegare gli eventi. Diventano e sono tutt'oggi un bestseller nel mondo arabo.
rivendicazioni politiche e nazionali. Sempre svincolata dai dati di fatto reali, sempre priva di strumenti scientifici storiografici, ignorati dalla tradizione delle università coraniche e delle madrasse. Ecco allora che i "Protocolli dei Savi di Sion", dopo la Nachba, la sconfitta di tutti gli eserciti arabi a opera dei sionisti nel 1948, vengono assunti a paradigma, assurgono al ruolo di chiave per spiegare gli eventi. Diventano e sono tutt'oggi un bestseller nel mondo arabo (la traduzione più diffusa in Egitto è opera del fratello di Nasser, Shawqi). Tutto lo Statuto di Hamas è dichiaratamente plasmato sui "Protocolli", che costituiscono l'asse portante della "cultura politica", per così dire, della sua leadership e dei suoi quadri dirigenti. Il "complotto ebraico" che determina gli avvenimenti mondiali (guerre e rivoluzioni in primis) è perfettamente aderente alla definizione coranica degli ebrei che tradiscono il Libro e la Legge. Il tutto dentro una tradizione islamica che addebita agli ebrei sia la morte del Profeta (l'ebrea apostata Zaynab, figlia di Harish, che avrebbe dato a Maometto un boccone di agnello avvelenato) sia tutte le scissioni religiose, a partire da quella tra sunniti e sciiti provocata dall'ebreo falsamente convertito Abdullah Ibn Saba, che avrebbe spinto Ali, genero del Profeta, a uccidere il califfo Uthman e a credersi di ascendenza divina, dando inizio allo scisma. Ovviamente Abdullah Ibn Saba non è neanche mai esistito.
   In epoca recente, il memorandum del ministero degli Affari esteri del regno Saudita, che spiega il proprio rifiuto a firmare la Dichiarazione dei diritti dell'uomo dell'Onu, così motiva il diritto arabo esclusivo alla terra di Palestina: "Il popolo palestinese è stato privato dei propri diritti fondamentali nella sua patria storica, dove era vissuto sin dall'epoca degli arabi cananei, migliaia di anni fa, e ben prima della nascita di Israele. Quest'ultimo si era rifugiato in Egitto con i suoi dodici figli, che là si moltiplicarono con il passare dei secoli. Un giorno, i loro discendenti decisero di liberarsi della schiavitù faraonica e fuggirono verso la Palestina che invasero e devastarono, allo scopo di fondare una patria, e fecero ciò aggredendo una popolazione araba che possedeva il diritto esclusivo di sovranità su quella terra, sua patria storica". Dopo un fantasioso riassunto degli avvenimenti successivi (inclusa una inesistente distruzione del Tempio ad opera di Alessandro Magno), il memorandum afferma: "Quando gli arabi musulmani giunsero nel VII secolo a liberare la Palestina dai Bizantini, non trovarono alcun ebreo in quel paese". Il fatto è che i cananei sono una popolazione fenicia originaria di Creta, non hanno nulla a che spartire con gli arabi, le cui piccole tribù beduine più settentrionali arrivavano solo al Sinai. Inoltre nel 637, al momento della conquista arabo-islamica, vi erano così tanti ebrei a Gerusalemme che pochi decenni prima nel 614 si erano ribellati con successo all'imperatore bizantino Eraclio, riuscendo a imporre per 15 anni, sino a1629, un regno ebraico autonomo.
   Nel contesto arabo-islamico, in cui a tutt'oggi non esistono istituti universitari di Storia a un livello minimo di decenza (lo afferma l'insospettabile Edward Said), la storia è un'opinione vaga, piegata con violenza al proprio tornaconto politico. Ultimo, risibile esempio di queste farneticazioni storiche viene da Recep Tayyip Erdogan, presidente turco, al primo Summit dei leader musulmani dell'America latina, svoltosi a Istanbul: "Marinai musulmani arrivarono in America nel 1178. Nei suoi diari, Cristoforo Colombo ha fatto riferimento alla presenza di una moschea sulla cima di una montagna a Cuba, quindi la religione islamica era diffusa già prima dell'arrivo degli europei nel 1492". Esempio da manuale della strampalata metodologia storica di un leader musulmano, questa affermazione si basa sulla risibile opera "storica" del 1996 di Youssef Mroueh, della "As-Sunnah Fundation of America", che interpreta come reale, e non solo metaforica, una notazione di Colombo circa la forma di un rilievo simile a una moschea nei pressi di Gibara, sulla costa di Cuba. Un delirio.

(Il Foglio, 26 novembre 2014)


Braccialetti ai tifosi, l'Ajax accusa Parigi

Il colore giallo (che identificava gli ebrei) scatena le reazioni: misure antisemite da condannare.

di Benedetto Saccà

 
ROMA Con un intento decisionista poco ponderato, le autorità francesi sono scivolate sul terreno dell'antisemitismo. E, naturalmente, hanno suscitato un'ondata di polemiche alta almeno quanto la sensibilità europea al tema. In sintesi, la polizia parigina ha obbligato i tifosi dell'Ajax in trasferta di Champions a indossare un braccialetto giallo. Si può quindi immaginare che l'urgenza di prevenire abbia prodotto più danni delle possibili conseguenze relative alla fonte della cautela. Il problema del resto non era, come vedremo, l'adozione della misura ma un dettaglio ingigantitosi all'infinito e divenuto presto il cuore della faccenda: ovvero il color limone del bracciale. Sì, perché l'Ajax è un club storicamente vicino alla comunità ebraica e la tinta del braccialetto accompagnava la mente al ricordo della Stella di David, gialla per l'appunto, utilizzata dai nazisti durante la Shoah come sistema di identificazione degli ebrei. Per non dimenticare, anche gli ebrei internati nei campi di concentramento furono costretti a portare dei distintivi simili. Ecco il nodo; va sottolineato comunque che sul braccialetto parigino ieri appariva la scritta rossa: «Paris Saint-Germain/Ajax Amsterdam, mardi 25 novembre 2014».

LE REAZIONI
Il mare dei social network si è agitato fin dall'avvio del pomeriggio. Molti olandesi hanno calato la carta dell'ironia, scherzando su un invito a una festa esclusiva; tanti, all'opposto, hanno contestato la decisione in toto, condannando la scelta del bracciale e del colore giallo, e soprattutto tracciando analogie col passato. Fotografie e commenti, battute e dissenso dilagante. Perfino il quotidiano L'Equipe ha lanciato la provocazione tramite twitter: «Entrata vip in un night club o momento buio della discriminazione ... »', La caduta di stile complessiva, insomma, è sembrata evidente. «È scandaloso quello che sta succedendo. Non solo abbiamo ricevuto meno biglietti rispetto al preventivato ma ci sono anche queste regole restrittive che non abbiamo mai visto altrove», si è lamentato Sander Huisman, uno dei capi dell'Associazione dei tifosi dell' Ajax.

LE RAGIONI
Sulle teste delle autorità transalpine è piovuto un certo imbarazzo. I responsabili hanno spiegato però di aver avuto poche alternative: e, anzi, hanno contrapposto le ragioni abbracciando la sfera dell'ordine pubblico. «Era una gara classificata ad alto rischio, abbiamo evitato una lotta». Lunedì sera, d'altronde, 95 supporter dell'Ajax erano stati arrestati a Parigi: e i fermi confermati ieri sono stati 54. I tifosi (o presunti tali) erano armati di sbarre di ferro, indossavano maschere da sci e, secondo la ricostruzione, erano pronti a fronteggiare i supporter rivali nella zona del ponte de l'Alma, a 800 metri dalla Torre Eiffel. Il pericolo reale era costituito dai circa 200 sostenitori arrivati in Francia senza il biglietto. E non era stato un caso che sabato il ministero dell'Interno francese avesse vietato la trasferta agli olandesi sprovvisti del tagliando per il Parco dei Principi. Tanto più che ad Amsterdam, prima della gara d'andata, erano state fermate oltre 80 persone, specie francesi.

IERI SERA
Non bastasse, per la sfida di ieri sera, le autorità avevano anche stabilito di restringere il numero dei posti disponibili nel settore ospiti a quota 800/850. Gli agenti impiegati sono stati circa duemila. L'identità dei tifosi olandesi è stata trasmessa alla polizia e ai loro polsi si è posata, spiacevole, una striscetta di plastica gialla.

(Il Messaggero, 26 novembre 2014)


Gerusalemme: le strade del sospetto

Dopo gli episodi di «terrorismo individuale», la Città Santa si è scoperta vulnerabile La vita è ricominciata. Ma in ogni angolo, in ogni caffè, sotto una parvenza di normalità corrono l'angoscia e la paura.

di Marina Corradi

GERUSALEMME - Davanti al piccolo supermercato di Gershon Agron Street, nel centro di Gerusalemme Ovest, un sorvegliante scruta con attenzione chi entra, e soprattutto chi porta delle borse. A pochi giorni dalla strage nella sinagoga di Har Nof , la città è ancora sotto l'impressione di quel sangue. Tanti attentati qui hanno fatto molte più vittime, ma è la bestialità del gesto che questa volta ha lasciato il segno. E anche, pure in uno Stato efficiente come quello israeliano, la quasi impossibilità di fermare un terrorismo individuale, selvaggio, a cui per uccidere bastano coltelli o attrezzi da lavoro.
Gerusalemme
È una nuova sfumatura di angoscia quella che Gerusalemme sta sperimentando in questi giorni: la teorica vulnerabilità di ognuno, in ogni momento. Solo ieri, due ebrei ortodossi, allievi di una scuola religiosa, sono stati feriti con un coltello nella Città vecchia. Hanno detto di essere stati aggrediti da un gruppo di giovani arabi. Una paura che si rinnova. Ancora, e ancora.
E dunque nel supermercato di Gershon Agron lo sguardo del sorvegliante all'ingresso segue attento i clienti. Ti aspetti che in un momento simile si faccia la spesa di fretta, per tornare subito a casa. E invece, no: al banco le donne scelgono con cura la frutta, cercano la marca preferita di biscotti, poi alla cassa si mettono in fila. Fuori, scorre il traffico intenso delle cinque di sera. Chi ci sarà, tra quella folla in cammino? Le madri con i figli in passeggino escono nel buio con le loro borse, svelte e decise. Perché già pochi giorni dopo Har Nof la gente qui sa che, comunque, bisogna vivere: e che quel continuo pensiero di angoscia non lo permette. Dunque, come in un meccanismo istintivo, lo rimuove. Solo parlando a tu per tu viene fuori lo sbalordimento («Li hanno uccisi a colpi d'ascia, capisce? Qui, a Gerusalemme», dice la giovane hostess di terra all'aeroporto Ben Gurion, e trattiene a fatica le lacrime).
   In tv continuano a passare le immagini delle auto che si sono avventate sui pedoni nei giorni scorsi. Ma ci si adatta: si cammina lungo i tratti protetti da paracarri. o da veicoli in sosta. Del resto, Gerusalemme Ovest a quest'ora è tanto simile a una qualsiasi metropoli occidentale, che fatichi a credere che certe cose accadano davvero. Dopo poche ore anche il nuovo arrivato si abitua all'apparenza di quiete. Nel lussuoso centro commerciale di Mamilla, sotto a Jaffa Gate, nei caffè viene naturale sedersi con le spalle al muro e gli occhi verso la porta, e in fondo al locale. Poi, si ordina da bere e chiacchiera, come in ogni città del mondo all'ora dell'aperitivo. La tensione si avverte di più come entri nella CittàVecchia, percorsa da pochi turisti e da bottegai sconsolati, seduti davanti alle loro merci invendute. Lungo il perimetro interno delle Mura ogni pochi minuti passano mezzi della polizia, le luci azzurrine che balenano inquiete dal tetto. Nei vicoli verso il Sepolcro, a ogni crocicchio, soldati di guardia con i fucili in pugno. Ti colpiscono le loro facce da ragazzi. Hanno l'età dei tuoi figli: e chissà come vivono le madri dei soldati di leva israeliani, in notti come queste. Poi pensi alle macerie di Gaza, e alla sua gente. E la vecchia Gerusalemme stasera nella sua calma apparente ti sembra un viluppo di nodose, avvinghiate radici.
   Se guardi attentamente, contro al cielo limpido del tramonto vedi stagliarsi sui tetti le sagome di uomini armati di vedetta. Non c'è angolo, forse, che non sia sotto controllo. I giornali scrivono di un grosso sequestro nel porto di Ashdod, di merce proveniente dalla Cina. Addobbi natalizi, apparentemente. Ma sotto alle palline per gli alberi era nascosta una gran quantità di coltelli, spade e razzi, di quelli che sparati a altezza d'uomo possono uccidere. Il carico era destinato a commercianti di Gerusalemme Est. Quasi la traccia sinistra di un possibile disegno eversivo che miri a coinvolgere un'ampia fascia di popolazione.
   Tornando nella città nuova, in pochi minuti assisti al passaggio di quattro fra auto della polizia e ambulanze. Accade allora che la gente sui marciapiedi si fermi, e si volti a guardarle fino a che non sono scomparse; e poi, dopo un istante di esitazione, chinando il capo si rimetta in cammino, come prima. Perché vivere, a Gerusalemme, comunque bisogna.

(Avvenire, 25 novembre 2014)


Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi. La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino. Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.
(dalla lettera dell’apostolo Paolo ai Filippesi, cap.4)
 

Berlino - Israeliano aggredito: "Mi hanno aggredito perché avevo "sembianze ebraiche"

di Edoardo Amati

Un ragazzo di 22 anni israeliano ha denunciato alla polizia tedesca di essere stato aggredito da un gruppo di arabi, i quali lo hanno colpito e malmenato più volte al volto e su tutto il corpo. Il fatto riportato dal sito del quotidiano israeliano ynet.com, è accaduto domenica sera. Il giovane ha riferito alle autorità di essere uscito dal centro Chabad, nel quartiere Wilmersdorf , d'improvviso quattro arabi lo hanno insultato, urlando frasi in tedesco e colpendolo più volte: "avevano gli occhi da assassini, per fortuna alcuni passanti mi hanno aiutato, non so davvero come mi sono salvato". Il 22enne ha riportato delle fratture alle dita ed alcune escoriazioni su tutto il corpo, subito dopo è stato assistito dal consolato israeliano che lo sta aiutando nel denunciare il fatto alle autorità locali.

(Progetto Dreyfus, 25 novembre 2014)


Una app per tutto, anche per il sonno

- Il problema del sonno nella società contemporanea
 
  In un mondo che corre a grande velocità, dove durante le nostre giornate abbiamo sempre meno tempo e alcune volte siamo costretti a utilizzare le ore notturne per completare l'attività lavorativa, ecco che il sonno può diventare un problema. Sì, lo stress e l'inseguire il tempo fa ridurre in maniera evidente le ore che dovrebbero essere impiegate per dormire. Il risultato di tutto ciò è meno produttività sul posto di lavoro e maggiore nervosismo nel rapporto con gli altri, sia familiari che colleghi. Occorre recuperare il rapporto con Morfeo. Questo non vuol dire lasciarsi andare all'otium, bensì utilizzare nel migliore dei modi quelle cinque o sei ore di riposo che dovrebbero spettare a ogni persona nell'arco delle ventiquattro ore. Per recuperare un aspetto così importante della nostra vita, l'aiuto potrebbe arrivare da una app progettata in Israele. Si sa, gli ebrei sono ingegnosi e riescono a guardare verso l'orizzonte con maggiore facilità rispetto ad altri. Così non sorprende l'ennesima invenzione ad opera di una start-up israeliana che ha ideato "SleepRate".

- L'insonnia genera malattie
  Quest'azienda ha preso sul serio, e ha fatto bene, il problema dell'insonnia. Un qualcosa a cui sono soggette sempre più persone. Chi non riesce a dormire la notte lo fa di giorno, spesso nei luoghi meno appropriati. Questi individui, inoltre, hanno maggiore possibilità di soffrire di altre malattie, come l'ipertensione, il diabete, la depressione e l'obesità. A sostenere una tesi del genere è il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie degli Stati Uniti. Le cittadine e i cittadini che lavorano hanno perso ogni speranza di poter dormire otto ore. I ritmi del mondo globalizzato non permettono questi tempi, a meno di non essere pensionati o fuori da qualsiasi contesto lavorativo. Molti identificano il dormire poco con il successo. Meno dormi e più risultati hai in campo occupazionale. Per un simile motivo alcuni dipendenti non vanno neanche in ferie. Temono di perdere il posto e di essere sostituiti da qualche lavoratore insonne. "SleepRate" servirà a risolvere anche questi problemi.

- "SleepRate", la app che riporta gli studi universitari
  La progettista del sistema, dottoressa Anda Baharav, è una ricercatrice esperta che per anni ha studiato le relazioni tra la frequenza cardiaca e il sonno all'Università di Tel Aviv. Ha messo in luce come il problema di fondo è fisico e psicologico e non serve a nulla ingoiare pillole su pillole. Una soluzione alternativa, sottolinea la Baharav, la offre la app "SleepRate", che si basa sulla ricerca, condotta presso la Stanford University e l'Università di Tel Aviv, e mette in relazione il sonno, la frequenza cardiaca e la respirazione. "SleepRate" converge sui principi di comportamento e così il sistema può aiutare gli utenti a dormire in maniera più efficace. Già, ma come? Innanzitutto la app stabilisce un programma per il sonno: andare a letto quando si è stanchi, mentre si dorme non devono esserci distrazioni (come tv o musica), evitare di fumare e bere prima di addormentarsi. "SleepRate" non fa altro che riportare i principi della tecnica chiamata CBT-I (terapia cognitivo-comportamentale per l'nsonnia), sperimentata alle Università di Stanford e Tel Aviv, nella quotidianità delle persone. E' in grado di analizzare la variabilità della frequenza cardiaca per capire come dorme il singolo individuo.

- Utile per migliorare il sonno -
  Si tratta di un sistema all'avanguardia e ogni mattina sarà in grado di offrire dei dati dettagliati: il tempo totale e le diverse fasi del sonno, quante volte ci si è risvegliati e altre particolarità. L'unico dato negativo di "SleepRate", che può aiutare migliaia di persone nel migliorare le proprie abitudini del sonno, è il prezzo. Se la app in quanto tale è al momento gratuita, per far funzionare questa creazione è necessario un cardiofrequenzimetro che costa 99 dollari. Una cifra che molte persone potrebbero spendere, perché secondo i creatori di "SleepRate" l'incidenza della app ha un livello molto elevato e per essere precisi si attesta all'85 per cento. Dunque che aspettate? Basta occhiaie, nervosismo e scarsa produttività sul posto di lavoro. C'è "SleepRate", sogni d'oro.

(BlogTaormina, 25 novembre 2014)


New York - Il mega raduno dei rabbini chassidici

 
Circa cinquemila rabbini chassidici provenienti da tutto il mondo si sono radunati a Brooklyn, New York, per il loro incontro annuale. Provengono dai cinque continenti e si vedono per la Conferenza Internazionale di Chabad Lubavitch. "Siamo un gruppo di amici molto affiatati", dice Rabbi Yosef Landa, tra gli organizzatori dell'evento, "E la condivisione di esperienze ha un grosso significato per le comunità ebraiche di tutto il mondo".
La prima conferenza nazionale fu organizzata nell'autunno del 1983, e raccoglieva poche decine di partecipanti, tutti americani. "A volte ci sentivamo isolati" riconosce Landa, "anche perché non c'erano le mail o i fax, e anche telefonare era molto costoso". Da allora molto è cambiato: "La conferenza - dice ancora - è stata un luogo dove abbiamo potuto sentirci connessi, condividere consigli, trarre ispirazione e sostegno reciproco".

(La Stampa, 24 novembre 2014)


Il blocco di Gaza che non interessa a nessuno

Evidentemente al mondo non importa la sorte dei palestinesi, a meno che non la si possa usare contro Israele.

Si consideri il seguente scenario. Viene chiuso il principale punto di passaggio verso la striscia di Gaza. Migliaia di abitanti di Gaza restano bloccati all'esterno senza poter tornare a casa. Dall'altra parte, un migliaio di persone che necessitano di cure mediche disponibili solo all'estero non può uscire da Gaza: persone "affette da problemi di salute come insufficienza renale, cancro e malattie cardiocircolatorie e che hanno bisogno di cure urgenti o di ulteriori test diagnostici". Lo dice un funzionario del ministero della sanità palestinese, che aggiunge: "Se la chiusura continua, le loro condizioni di salute si deterioreranno e inizieremo a vedere i primi decessi". Secondo un altro reportage, "i funzionari dell'Autorità Palestinese affermano che il risentimento cresce per la continua chiusura del valico di frontiera, ormai sbarrato da più di un mese". Il reportage dice che il numero di palestinesi bloccati fuori è salito a 3.500, ed è più di mille il numero di quelli che hanno bisogno di cure mediche urgenti, ma sono bloccati dentro la striscia di Gaza.

(israele.net, 25 novembre 2014)


«Si allarga l'ondata di antisemitismo»

La cerimonia d'insediamento di Rav Scialom Bahbout alla guida spirituale della Comunità Ebraica di Venezia

di Enrico Tantucci

Ha messo in guardia contro il rigurgito di antisemitismo che si sta allargando in tutto il mondo il nuovo Rabbino Capo di Venezia Rav Scialom Bahbout che si è insediato ieri mattina nel nuovo incarico in una suggestiva e affollata cerimonia che si è svolta nella Sinagoga Spagnola del Ghetto Vecchio alla presenza anche delle principali autorità cittadine.
«È un problema di tutti», ha ricordato, «perché altre minoranze, dopo la nostra, potrebbero essere colpite e il ruolo della Chiesa Cattolica nel creare una nuova tolleranza è fondamentale. Dopo i tragici fatti avvenuti con l'eccidio nella Sinagoga di Gerusalemme, è importante che anche i principali laeder del Medioriente riconoscano in ogni ebreo un proprio fratello, per porre fine a questa spirale di violenza».
Il tema dell'antisemitismo montante è rimasto comunque sotto traccia per tutta la cerimonia nei diversi interventi che si sono succeduti, a cominciare da quello del presidente della Comunità Ebraica Paolo Gnignati, lamentando anche che non ci sia stata «una condanna senza se e senza ma della strage di innocenti avvenuta pochi giorni fa nella Sinagoga di Gerusalemme».
   E da parte sua, il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna ha sottolineato con preoccupazione il fenomeno crescente degli «ebrei lontani», che non partecipano più in alcun modo alla vita delle Comunità italiane, quasi dimentichi della loro religione, con un calo di partecipazione del 20 per cento negli ultimi trent'anni che rischia di accentuarsi. Grandi elogi e anche speranze sono riposte nel nuovo rabbino di Venezia, che è anche un intellettuale e un fisico, autore di numerosi libri e tra i fautori - è stato sottolineato - della riscoperta dell'ebraismo nel meridione d'Italia.
   Ne hanno sottolineato i meriti il presidente dell'Assemblea Rabbinica Italiana Giuseppe Momigliano e anche il direttore generale della Orthodox Union Rav Menachem Genack, che a sua volta ha sottolineato nel suo intervento: «Vediamo che il mondo sta diventando ostile a Israele e siamo testimoni di una crescente ondata di antisemitismo. Abbiamo bisogno di leader che ci guidino in tempi difficili a cercare l'Onnipresente. Rav Bahbput è un leader e la Comunità Ebraica di Venezia è davvero fortunata ad averlo come Rabbino. È un uomo di grande abilità e intelligenza».
Ed è stato proprio Rav Bahbput a prendere infine la parola, per il suo discorso di insediamento, in cui ha ricordato anche l'unicità di Venezia e il ruolo attivo che la Comunità Ebraica fin dalla sua nascita nel 1516 ha sempre svolto in città, citando ad esempio l'ebraicità di un patriota come Daniele Manin, che per la sua indipendenza si è battuto.
   Ma è stato appunto sul problema dell'antisemitismo crescente e di come superarlo che ha incentrato parte del suo intervento, ricordando anch'egli il tragico eccidio nella sinagoga di Gerusalemme. Auspicando che anche nei popoli arabi cresca una consapevolezza degli ebrei come «fratelli maggiori» all'interno della storia dei territori che occupano che possa favorire una reciproca convivenza civile.

(la Nuova, 25 novembre 2014)


L'archeologia di Israele è online

La Israel Antiquities Authority ha recentemente creato il sito web National Treasures Online che offre una selezione di migliaia di oggetti, che spaziano da un milione di anni fa al periodo ottomano, provenienti dalle collezioni del patrimonio nazionale. I manufatti sul sito web sono ordinati sia cronologicamente (secondo i periodi archeologici) sia tipologicamente (a seconda del tipo di manufatto). La scheda informativa di ogni manufatto presenta dati archeologici dettagliati sull'oggetto selezionato, tra i quali la provenienza, il tipo, le dimensioni, il materiale, il sito in cui è stato scoperto, la datazione e la bibliografia.
Il progetto è stato reso possibile grazie ad una donazione di David Rockefeller, figlio di John D. Rockefeller Jr., che ha istituito il museo, con un ulteriore contributo da parte di Paul e Eileen Growald e Jonathan e Jeanette Rosen. Questa è la prima volta che l'intera collezione in mostra di un museo in Israele è stata fotografata ed è stata resa disponibile online.

(Mondointasca.org, 25 novembre 2014)


L'industria della menzogna

Intervista a Ben Dror Yémini, giornalista israeliano di origini yemenite che si dice di sinistra, che appoggia la soluzione dei due stati, ma che non sopporta la spaventosa, crescente mole di menzogne che si stringe intorno ad Israele. Il video che segnaliamo è in ebraico con sottotitoli in francese. Varrebbe la pena che qualcuno ne facesse i sottotitoli, se non in italiano, almeno in inglese.


Così comincia l'intervista:

- Che cosa intende per industria della menzogna?
  Per esempio, quando un universitario israeliano sostiene che la maggior parte degli israeliani è favorevole alla deportazione dei palestinesi; quando un universitario e un giornalista pubblicano un articolo su una rivista inglese in cui si dice che gli israeliani si comportano come i nazisti, ma in modo più insidioso, aumentando la mortalità infantile presso i palestinesi. Secondo gli studi fatti a questo riguardo, risulta che il 50% degli europei pensa che gli israeliani si comportino verso i palestinesi come i nazisti verso gli ebrei. E' spaventoso, è il trionfo della menzogna. E' un'industria massiccia che in questi ultimi anni si sta sviluppando di giorno in giorno, di ora in ora, sui Campus degli Stati Uniti, in Europa. E' spaventoso.

(Notizie su Israele, 25 novembre 2014)


Gerusalemme - Accoltellati due studenti israeliani

Non si ferma la violenza a Gerusalemme. Due studenti israeliani sono stati accoltellati mentre si trovavano alla porta di Jaffa, uno degli ingressi alla Città Vecchia. Una delle vittime ha detto alla polizia di essere stato assalito da un palestinese, che è riuscito a fuggire (le sue ferite non sarebbero gravi). In seguito all'attacco, un portavoce della polizia israeliana ha affermato che un palestinese è stato fermato nelle vicinanze per accertamenti. Le vittima dell'aggressione sono uno studente di collegio rabbinico (ricoverato in ospedale) e un altro religioso (rimasto ferito in maniera superficiale). Una settimana fa un altro ebreo religioso era stato pugnalato alla schiena con un cacciavite: anche lui si trovava nelle vicinanze della Città Vecchia di Gerusalemme. Intanto, il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, in apertura della sessione plenaria a Strasburgo ha ricordato l'attentato alla sinagoga di Gerusalemme, esprimendo la «condanna» dell'Europarlamento e sottolineando come l'attentato in un luogo di culto segnala «un nuovo livello» della minaccia terroristica. «Un posto in cui si va a pregare - ha detto Schulz - non può mai essere in pericolo».

(La Stampa, 25 novembre 2014)


Scintille in campo in Israele

Una partita in forse fino all'ultimo, per l'alto rischio di disordini. Poi il via libera con misure di sicurezza imponenti. In campo l'unica squadra araba del campionato israeliano, il Bnei Sakhnin contro il Beitar Jerusalem. Alla fine ha avuto la meglio, a sorpresa, proprio la compagine di casa per 1-0. La tensione è salita alle stelle negli ultimi minuti, dopo che l'arbitro ha concesso 5 minuti di recupero. Sono volate parole grosse e anche qualche spintone di troppo. Fortunatamente le scintille sono rimaste confinate all'interno dello stadio; fuori soltanto la festa dei tifosi del Bnei Sakhnin.

(La Gazzetta dello Sport, 25 novembre 2014)


Il Paese più pericoloso? Per Rai 3 è Israele!

Commento alla trasmissione TV "Alle falde del kilimangiaro".

di Deborah Fait

Come ogni settimana, anche nella puntata di ieri, visibile sul web nei prossimi giorni, la trasmissione ha fatto l'elenco dei posti più pericolosi del mondo, il risultato di questa settimana è: Israele al primo posto. SCANDALOSO!
   Come sempre Rai 3, la tristemente nota Radio Kabul, non rinuncia a danneggiare in qualsiasi modo Israele, grande nemico di tutti i nemici della democrazia. Io vivo in Israele, vado in giro, viaggio in autobus, in treno, vado al ristorante, al bar, faccio una vita normale come gli altri 7 milioni di israeliani e mi sento assolutamente sicura, dirò di più, mi sento infinitamente più sicura qui in Israele che in Italia. Terrorismo? Certo c'è il terrorismo palestinese che però non è meno pericoloso della situazione in Europa con i milioni di arabi musulmani molti dei quali affiliati a organizzazioni violente, fanatiche, desiderose di distruggere la civiltà occidentale di cui in verità rimane molto poco ormai.
   In Francia i terroristi hanno ammazzato delle persone, in Belgio anche, in alcune città di Svezia e Norvegia è addirittura pericoloso entrare. Allora, non andiamo più in Francia, in Belgio, in Svezia, in Norvegia? In tutta Europa, Italia compresa, le aggressioni non si contano e non soltanto per mano di fondamentalisti islamici ma della delinquenza comune non meno violenta e feroce. Allora, non andiamo più a visitare l'Europa? In Usa proprio ieri c'è stata una strage a Cleveland, uno si è messo a sparare contro i passanti, a caso, così, senza motivo, senza contare che stragi del genere accadono relativamente spesso in Usa. Puntino rosso anche per gli Usa?
   L'Isis ha minacciato di ammazzare il Papa, dite allora che Roma è pericolosa. Via i turisti dalla città eterna! E i paesi arabi sempre pubblicizzati dalle agenzie di viaggio? Egitto, Sharm-el-Sheik, vacanze da sogno! Perchè non dite che in Egitto le organizzazioni del terrore ammazzano molto volentieri proprio i turisti? Proprio Sharm-el-Sheik e le piramidi sono stati colpiti più volte con un gran numero di vittime. E la Turchia con quel fondamentalista di Erdogan? Quanti religiosi cattolici sono stati uccisi in Turchia? E la Siria? Nessun pericolo per chi volesse andare a visitare quel paese? Ieri in Nuova Zelanda un musulmano ha aggredito un bambino ebreo di 4 anni. Non andate in Nuova Zelanda, i bambini sono in pericolo! Sono indignata perchè Radio Kabul sta aiutando la propaganda palestinese a distruggere una delle fonti più importanti dell'economia israeliana: il turismo. Di tutti i paesi enormemente pericolosi per i turisti si sceglie di colpire proprio quello in cui i turisti sono più sicuri. E' vergognoso e incivile.

(Inviato dall'autrice, 24 novembre 2014)


Da un'introduzione ai profeti minori della Bibbia

I profeti rivelano quello che l'occhio naturale non può vedere. Aprono i nostri occhi sulla realtà spirituale e ci insegnano a vedere il nostro tempo alla luce di Dio, anche le vicende politiche quotidiane. Per "luce di Dio" non s'intende una conoscenza esoterica per l'attuazione di un piano di cospiratori che vogliono arrivare al dominio del mondo. No, attraverso i profeti impariamo a riflettere con calma su Colui che guida tutto, veglia su tutto e tutto conduce al suo obiettivo. Vale a dire: non ho bisogno di spiegare ogni fatto di attualità e inserirlo in uno schema escatologico; non ho bisogno di trovare un versetto della Bibbia per ogni risoluzione dell'Onu e ogni insurrezione nella Città Vecchia di Gerusalemme. Non ho l'obbligo di comprendere in tutti i particolari quello che accade nei rapporti fra i popoli, ma devo sapere chi è Colui che ha nelle sue mani tutto il mondo, che indirizza le forze e guida i potenti. E per quale scopo Egli lo fa.
E soprattutto, Lo devo temere, perché è dal mio rapporto con Lui che dipende quello che sarà il mio destino personale e la mia fine.
Non ho bisogno di sconvolgermi per tutta l'ingiustizia della politica mondiale e per la parzialità dei media. Mi appaga il sapere che nulla accade senza Dio, e che anche il male e i malvagi devono contribuire al raggiungimento dei Suoi obiettivi.

 

Il museo di Berna accetta il tesoro nazi della collezione Gurlitt

Opere d'arte confiscate agli ebrei

Un patrimonio artistico inestimabile e un intreccio legale degno del grande schermo. Appassionerebbe George Clooney, che ha scritto, prodotto e interpretato il film Monuments men, ma intrigherebbe anche sua moglie, Amal Alamuddin, l'avvocatessa battagliera impegnata in una causa di restituzione dei marmi del Partenone.
Ma non è un film la storia della collezione Gurlitt. Più di 1400 opere, disegni e sculture di Canaletto, Courbet, Picasso, Chagall, Matisse et Toulouse-Lautrec. E' il tesoro "nazi", così è stato soprannominato, visto che 590 di quei quadri sono stati rubati agli ebrei dai nazisti. Ora quelle opere sono state accettate dal museo di Berna. Il museo più antico della Svizzera, infatti, è stato designato nel testamento compilato da Cornelius Gurlitt. Il presidente della Fondazione svizzera, Christoph Schaeublin, ha dichiarato che collaborerà con le autorità tedesche per determinare esattamente quali sono le opere rubate o estorte per restituirle ai legittimi proprietari.
Cornelius Gurlitt è il figlio di Hildebrand Gurlitt, un mercante d'arte che fu incaricato dai nazisti di confiscare le opere d'arte "degenerate", quelle che secondo il regime nazista potevano essere attribuite alla degenerata corruzione ebraica. Fu la polizia tedesca, appena due anni fa, a Monaco, a scoprire la preziosa collezione. I poliziotti stavano seguendo un caso di frode fiscale, un giro di affari di un miliardo di euro, e si sono imbattuti in un occulto museo privato con opere di inestimabile valore. Cornelius è morto lo scorso maggio all'età di 81 anni lasciando il tesoro al museo svizzero.
Ma non mancano le solite contese famigliari. Una cugina dei Gurlitt ha reclamato l'eredità. Le Monde racconta che si è presentata sventolando davanti agli avvocati una perizia psichiatrica in cui ci sarebbe scritto che nel momento in cui è stato siglato il testamento a favore del museo, Cornelius avrebbe sofferto di ossessioni paranoiche. Anche lei ha dichiarato che è pronta a restituire tutto, se venisse dimostrato che quelle opere sono frutto dei saccheggi nazisti.

(Il Messaggero, 24 novembre 2014)


Meir Khahloun
Intervista a Meir Khahloun su Israele ed ebrei di Libia

di David Bibi

Il Presidente mondiale degli ebrei di Libia in Israele Meir Khahloun, in collegamento dall'insediamento di Ramle', nei pressi di Tel Aviv, ci racconta la difficile situazione oggi in Israele, ci parla della sua storia personale e di quella degli ebrei fuggiti dalla Libia e si sofferma sul ruolo delle donne nella societa' israeliana attuale.


(Radio Radicale.it, 24 novembre 2014)


La Festa della Toscana: "Pessimo esempio di manifestazione unilaterale"

Commento dell'Associazione "Per Lucca e i Suoi Paesi"

LUCCA, 24 novembre - "Nell'ambito della Festa della Toscana, una ricorrenza artificiosa ed offensiva dell'identità lucchese che il nostro movimento ha sempre contestato, quest'anno si terrà a Lucca la giornata dell'ONU per i diritti della Palestina. Nonostante che l'evento avvenga sotto le insegne, apparentemente neutre, delle Nazioni Unite, ci sembra che quanto in programma rappresenti un pessimo esempio di manifestazione unilaterale ed a senso unico.
Il 28 novembre ci sarà nella sala dell'Accademia Lucchese un incontro con Ray Dolphin dell'ONU, Mohammed Kathib dei comitati popolari di resistenza dei villaggi palestinesi ed il giornalista israeliano Gideon Levy. Questo evento ci risulta essere l'unico in cui sia prevista la presenza di un ebreo, certo giornalista autorevole, ma da sempre critico con il proprio governo e con la maggioranza dei politici del suo paese. Il 29 ci sarà poi un evento per la solidarietà con il popolo palestinese in San Romano, tale riunione è definita dallo slogan "Ponti e non muri". Lo slogan appare contestabile in quanto esistono certo dei muri tra Israele e i territori arabi, ma essi sono stati costruiti per evitare attentati contro i civili, non certo per discriminare qualcuno. Sarebbe bello se al posto dei muri ci fossero dei ponti, ma ciò non sarà possibile senza la pace ed il rispetto e ci sembra ardito affermare che solo Israele sia oggi colpevole dello stato di guerra nella zona.
   In città ci saranno anche delle mostre. Una di essa, denominata "effetti collaterali" si terrà a Palazzo Ducale e si comporrà di fotografie dedicate alle sofferenze dei "palestinesi arabi". Naturalmente la tragedia altrettanto grande dei "palestinesi ebrei" uccisi dai terroristi non viene mai ricordata nella kermesse lucchese e questo non può non far riflettere chi abbia un minimo di senso critico. Inutile continuare con la serie di mostre ed eventi le quali hanno sempre e solo il solito obbiettivo di dimostrare come i palestinesi siano oppressi ed i loro territori occupati. Non vi è un accenno alla controparte occupante, che qui pare dover passare solo dalla parte del torto. Nessun cenno naturalmente nemmeno agli eventi storici, ovvero alle molte guerre scatenate dagli arabi, che hanno condotto alla situazione attuale e alle modifiche dei confini stabiliti nel 1948.
   Discutibili sono anche alcune associazioni che collaborano alla serie di eventi. Tra di esse ci sono anche l'Associazione "Ghassan Kanafani" di Lucca, il Coordinamento "Freedom Flotilla" La Spezia-Massa Carrara e l'Associazione "Invicta Palestina". Ci permettiamo di ricordare che lo scrittore Ghassan Kanafani fu vicino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un gruppo terroristico responsabile di vari attentati nei confronti di civili e che pare essere implicato anche nell'attacco alla Sinagoga di pochi giorni fa. Francesco Cossiga riteneva addirittura che il Fronte fosse responsabile della Strage della Stazione di Bologna. Kanafani fu eliminato dal Mossad in quanto ritenuto dagli israeliani responsabile dell'attacco suicida all'aeroporto Ben Gurion del 1972. Quanto alla "Freedom Flotilla" essa era appunto una flotta di navi che nel 2010 cercò di violare il blocco navale israeliano della striscia di Gaza. Dopo la dichiarazione di Israele di non voler concedere il passaggio tutte le navi accettarono di essere scortate nel porto di Ashdod, ma una di esse oppose resistenza ai militari israeliani che la abbordarono; da questo scaturì un conflitto a fuoco con nove morti tra gli attivisti filo palestinesi. Quanto a "invicta Palestina" parla da sola una pagina del suo sito internet in cui il fondatore Rosario Citriniti scrive che Israele sarebbe uno stato "colonialista" che ha come unico scopo la "pulizia etnica" della Palestina.
   Per Lucca e i Suoi Paesi ritiene che gli eventi in programma non possano dare alcun contributo alla rinascita di un processo di pace tra Israele e gli arabi. Per fare la pace infatti occorrono il reciproco riconoscimento ed il dialogo. Per dialogare e per conoscere le esigenze di tutti occorre ascoltare tutte le parti. A questi eventi una parte manca del tutto. Naturalmente l'iniziativa vedrà la presenza delle scuole e ai ragazzi verrà fornita una versione unilaterale del problema arabo israeliano. Una versione che non facilita certo la comprensione di quel che è accaduto e di quel che accade.Per Lucca e i Suoi Paesi sta cercando di organizzare, entro la fine dell'anno, un incontro pubblico che permetta ai lucchesi di udire anche la voce di Israele. Questo per completezza in quanto nessuno può farsi un'opinione senza conoscere tutte le posizioni delle parti in causa".
Per Lucca e i Suoi Paesi

(Lo Schermo, 24 novembre 2014)


Pacifici scrive a Renzi: avanzano i partiti xenofobi, subito il voto sul negazionismo

 
Gli ebrei romani lanciano un allarme per "l'avanzata dei partiti xenofobi in Europa e dei crescenti rigurgiti di antisemitismo" e sollecitano un intervento del presidente del Consiglio Matteo Renzi perché il voto sul Ddl negazionismo "possa essere calendarizzato al più presto, cosicché anche in Italia alcune ignominie, come quella della negazione della Shoah, vengano combattute e represse". La richiesta arriva con una lettera inviata al premier dal presidente della Comunità ebraica della Capitale Riccardo Pacifici.
   "Ti scrivo da Washington dove mi trovo per un meeting internazionale dei leader delle comunità ebraiche europee, insieme con i rappresentanti israeliani e con i leader della JFNA (Jewish Federation of North America) per discutere della preoccupante avanzata dei partiti xenofobi in Europa e dei crescenti rigurgiti di antisemitismo - scrive Pacifici - Sono stati affrontati diversi temi tra cui quello del Cybercrime e quello del negazionismo della Shoah, in specifici Panel tecnici. L'Italia, con circa nove anni di ritardo, si sta avviando a recepire il protocollo europeo di Budapest del 2003 in cui si invitavano i Paesi membri ad attivare leggi repressive per quel genere di reati (in merito alla Decisione Quadro dell'UE 2008/913/GAI la Commissione dedica un ampio paragrafo all'inadempimento italiano sull'introduzione al reato di Negazionismo). La Commissione Giustizia del Senato ha licenziato un buon testo, frutto di un lavoro approfondito svolto, tra l'altro, con dedizione e passione da tutti i suoi componenti. Quel testo, ad oggi, non è mai arrivato in aula al Senato nonostante gli sforzi del Presidente Grasso".
   "Leggendo le cronache di questi giorni, durante il processo ad alcuni componenti del Movimento Militia, in corso di svolgimento davanti al Tribunale di Roma, gli imputati, supportati da un nucleo di facinorosi che assiste alle udienze, hanno rivendicato con orgoglio la loro identità fascista ed il loro "diritto a negare la Shoah" - scrive ancora Pacifici - Da poche settimane, inoltre, è ripreso quello che viene definito "processo Stormfront 2" e tra pochi giorni arriverà in Aula anche il processo "Stormfront 3", con decine di imputati".
   "La vera risposta civile che possiamo dare è la votazione in Aula del testo licenziato dalla Commissione Giustizia, che introduce il reato di Cybercrime e di Negazionismo. In questo modo anche l'Italia, come avviene in altre 14 nazioni europee, avrebbe la sua legge contro chi nega la Shoah - sottolinea il presidente della Comunità ebraica romana - Nella Tua lettera, che ci hai gentilmente inviato il 16 ottobre scorso, in ricordo del rastrellamento degli ebrei romani del 1943, hai sottolineato l'importanza di contrastare il Negazionismo e i Negazionisti. E' per questo che, sia la Comunità ebraica di Roma sia l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, auspicano un Tuo sollecito intervento per far sì che il voto possa essere calendarizzato al più presto, cosicché anche in Italia alcune ignominie, come quella della negazione della Shoah, vengano combattute e represse".
   "Lo dobbiamo alle vittime e ai sopravvissuti alla Shoah. Lo dobbiamo soprattutto ai nostri figli. A quelle giovani generazioni a cui vogliamo consegnare un futuro costruito su una Memoria solida. E' troppo alto il rischio di far cadere il ricordo di ciò che è stato nell'oblio, a causa della inevitabile scomparsa di coloro che, con fatica e sofferenza, ci hanno regalato la loro testimonianza educandoci ai valori dell'antifascismo e del rispetto della dignità di ogni essere umano. Dobbiamo impegnarci fino in fondo affinché ciò che è successo non si ripeta mai più. In nessun luogo. In nessun tempo", conclude Pacifici.

(Adnkronos, 24 novembre 2014)


Restano comunque molti dubbi sull'utilità e l'opportunità di simili leggi repressive. Il riferimento ad altre nazioni europee non è decisivo: sono molte le cose in cui le nazioni europee non sono esemplari, e nel futuro si teme che lo saranno ancora meno. M.C.


Israele - La proposta che divide il governo

Mercoledì prossimo lascerà il segno sulla tenuta del governo di Gerusalemme. La Knesset, il parlamento israeliano, sarà infatti chiamata a votare il disegno di legge che riconosce ufficialmente Israele come Stato ebraico. Una proposta portata avanti dal primo ministro Benjamin Netanyahu, approvata ieri a maggioranza dal suo gabinetto ma fortemente contrastata da una parte dell'esecutivo. Tzipi Livni e Yair Lapid, rispettivamente ministro della Giustizia e delle Finanze, hanno promesso battaglia. "È una legge che danneggia Israele e non passerà", ha dichiarato questa mattina Livni, leader del partito Hatnua. "Se il primo ministro vuole legare la posizione di Israele al fatto di essere uno Stato ebraico e democratico, è possibile farlo", ha affermato il ministro, intervistata dal sito di informazione Ynet. "Ma portare avanti una legge radicale che è il contrario della dichiarazione di indipendenza, che indebolisce la democrazia e assoggetterà la popolazione di Israele a una teocrazia, questo non può accadere". Il disegno di legge, passato con 14 voti a favore, 6 contrari e un astenuto, riconosce il carattere ebraico di Israele, dichiara la legge ebraica come fonte di ispirazione del legislatore, e non prevede l'arabo tra le lingue ufficiali del paese. Sono diverse le voci contrarie al progetto normativo e il premier Netanyahu sta valutando di posticipare il voto di mercoledì alla Knesset per ricompattare la coalizione: Lapid e il suo partito Yesh Atid hanno dichiarato ieri notte che voteranno contro. Stessa posizione per Hatnua del ministro Livni.
Mentre il governo traballa, la rabbia e la tensione in Israele non si placano. E di poche ore fa la notizia di un'aggressione a Gerusalemme di un ragazzo palestinese da parte di tre giovani israeliani. La polizia sta indagando sull'attacco e ha riferito che il ragazzo aggredito è stato ricoverato in buone condizioni in un ospedale di Gerusalemme. Sabato sera ad essere vittima di un'aggressione era stato il conducente di un autobus. L'uomo, ultraortodosso di Bnei Brak, ha denunciato di essere stato colpito da due giovani passeggeri arabi sulla tratta tra Afula a Tel Aviv. d.r.

(moked, 24 novembre 2014)

*

E' vero o no che Israele è lo Stato della nazione ebraica?

 
La proposta di Netanyahu a difesa dell'ebraicità dello Stato d'Israele è passata con 14 voti a favore e 6 contrari: dunque una maggioranza netta. Chi ha riportato la notizia poteva scegliere di sottolineare il fatto che la proposta è stata approvata, riportare gli argomenti usati dalla maggioranza e auspicare che una maggioranza simile si ripeta in Parlamento. La maggior parte dei commentatori invece, compresi quelli israeliani, compresa l'italiana Pagine Ebraiche, ha preferito fare da megafono agli argomenti della minoranza e sottolineare la possibilità di una spaccatura del governo e forse del paese. E' una scelta possibile, certo, ma che cosa indica? Forse indica che il mondo in genere non gradisce, come Mohmoud Abbas, che si parli di Stato ebraico, e che il mondo ebraico, fuori e dentro Israele, è più sensibile alla voce di fuori che alla voce di dentro. Sensibile? o intimidito? Si possono fare, certo, come fanno tutti i politici di questo mondo, le più fini analisi sugli equilibri politici all'interno della Knesset, sugli interessi elettorali di questo o di quello, sui rischi di reazioni aggressive da parte degli arabi (come fa anche l'articolo di moked), ma forse sarebbe stato meglio sottolineare il fatto che il governo di Netanyahu ha formulato in forma giuridica una semplice verità: "Israele è lo Stato della nazione ebraica". Di questo sarebbe stato bene rallegrarsi, sulle conseguenze di questo si sarebbe dovuto discutere e decidere come procedere. Ma molti non l'hanno fatto. A loro si potrebbe allora porre la domanda in questa forma: "E' vero o no che Israele è lo Stato della nazione ebraica?" Se risponde "no", si ha un'informazione importante su chi ha risposto; se risponde "sì", si dovrebbe chiedergli: "Perché allora non sei contento di questa proposta di legge?" Quale che sia la risposta, bisognerebbe fargli notare che si rifiuta di difendere la verità. Ma non potrebbe essere proprio il rifiuto di difendere la verità su Israele a favorire il diffondersi della menzogna contro Israele? Un famoso rabbino che in seguito è diventato come fumo negli occhi per gli ebrei, Saulo di Tarso, un giorno ha risposto a quelli che che lo attaccavano (cristiani, non ebrei) con ogni sorta di accuse: "Noi non abbiamo alcun potere contro la verità; quello che possiamo è per la verità" (2 Corinzi 13:8). Qualcosa di simile vale anche per Israele. L'esistenza del minuscolo, odiato Stato ebraico è custodita nelle mani della Verità. E la verità, che è anche amore, alla lunga vince. Non sorprende allora che i nemici dichiarati di Israele navighino nell'odio e nella menzogna: è il loro habitat naturale. Tutte le volte che Israele si muove sul piano della verità (come il dire che Israele è lo Stato della nazione ebraica), ha potere; quando sceglie altre strade, non ha potere. M.C.

(Notizie su Israele, 24 novembre 2014)


Israele ha il diritto di difendersi

"Israele si riserverà sempre il diritto di difendersi con le proprie forze contro qualsiasi minaccia". Lo ha ribadito alla tv ABC il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alla vigilia della scadenza, lunedì, per un accordo tra le potenze mondiali e l'Iran sul controverso programma nucleare di Teheran. Netanyahu ha definito un "cattivo accordo" qualsiasi accordo "che permetta all'Iran di mantenere migliaia di centrifughe che potrebbe utilizzare per arricchire in un breve periodo di tempo l'uranio necessario per una bomba nucleare". Secondo Netanyahu, il "principio fondamentale" è quello di non smantellare il regime di sanzioni prima che sia smantellata la capacità dell'Iran di costruire una bomba nucleare. "E da quanto ho capito - ha aggiunto - gli iraniani sono ben lungi dall'accettare questo principio. Se, per qualsiasi motivo, gli Stati Uniti e le altre potenze decideranno di lasciare l'Iran con quella capacità, penso che si tratterà di un errore di portata storica", ha concluso Netanyahu.

(israele.net, 24 novembre 2014)


Oltremare - Neve
Della stessa serie:

“Primo: non paragonare”
“Secondo: resettare il calendario”
“Terzo: porzioni da dopoguerra”
“Quarto: l'ombra del semaforo”
“Quinto: l'upupa è tridimensionale”
“Sesto: da quattro a due stagioni”
“Settimo: nessuna Babele che tenga”
“Ottavo: Tzàbar si diventa”
“Nono: tutti in prima linea”
“Decimo: un castello sulla sabbia”
“Sei quel che mangi”
“Avventure templari”
“Il tempo a Tel Aviv”
“Il centro del mondo”
“Kaveret, significa alveare ma è una band”
“Shabbat & The City”
“Tempo di Festival”
“Rosh haShanah e i venti di guerra”
“Tashlich”
“Yom Kippur su due o più ruote”
“Benedetto autunno”
“Politiche del guardaroba”
“Suoni italiani”
“Autunno”
“Niente applausi per Bethlehem”
“La terra trema”
“Cartina in mano”
“Ode al navigatore”
“La bolla”
“Il verde”
“Il rosa”
“Il bianco”
“Il blu”
“Il rosso”
“L'arancione”
“Il nero”
“L'azzurro”
“Il giallo”
“Il grigio”
“Reality”
“Ivn Gviròl”
“Sheinkin”
“HaPalmach”
“Herbert Samuel”
“Derech Bethlechem”
“L'Herzelone”
“Tel Aviv prima di Tel Aviv”
“Tel Hai”
“Rehov Ben Yehuda”
“Da Pertini a Ben Gurion”
“Kikar Rabin”
“Sde Dov”
“Rehov HaArbaa”
“Hatikva”
“Mikveh Israel”
“London Ministor”
“Misto israeliano”
“Fuoco”
“I cancelli della speranza”
“Finali Mondiali”
“Paradiso in guerra”
“Fronte unico”
“64 ragazzi”
“In piazza e fuori”
“Dopoguerra”
“Scuola in guerra”
“Nuovo mese”
“Dafka adesso”
“Auguri dall'alto”
“Di corsa verso il 5775”
“Volo verso casa”
“La guerra del Kippur”
“Inverno, autunno”
“Ritorno a Berlino”
“Il posto della cucina”
“Fermi tutti”
“La merenda”



di Daniela Fubini, Tel Aviv

Tutti a fare il tifo perché scenda un po' di neve sul Monte Hermon, che in effetti è l'unica cosa paragonabile ad una montagna che abbiamo da queste parti, e quando si imbianca resta il montarozzo che è, ma fa un po' più effetto. Ogni anno i media creano questa aspettativa di neve, che poi ad un certo punto arriva anche (quest'anno potrebbe arrivare già a metà settimana), ma come un sabato del villaggio quel che conta è l'attesa stessa, perchè quando poi la neve davvero arriva la zona di accesso al Hermon viene sbarrata finché la neve non si stabilizza, le piste non vengono battute, e finalmente l'impianto può aprire.
E quelle (poche) volte che scende abbastanza neve per mettere in modo la macchina dell'apertura delle piste, la finestra di utilizzo è poi brevissima. Basta un aumento anche minimo della temperatura per sciogliere la neve e siccome è altamente improbabile che ne cada altra in poco tempo addìo slittini e sci e anche snowboard. Si resta tutti con un pugno di neve bagnata e una colonna di macchine in fila per rientrare.
Come se in un paese freddo ci fossero ogni anno soltanto tre o quattro giorni di vero caldo, e una sola spiaggia agibile, e in quei pochi giorni ci si affrettasse a setacciare ed appiattire la sabbia in riva al mare, costruire vedette per i bagnini, aprire un bar da spiaggia, piantare ombrelloni e mettere in fila le sdraio, e ora che tutto è pronto e si può dare il via all'entrata dei bagnanti si vede già il nuvolone all'orizzonte e il vento - gelido improvvisamente - porta le prime gocce di pioggia.
Ma l'israeliano per natura è giocherellone, e quindi il giocattolo Hermon, con la sua neve breve come uno starnuto non glielo si può negare, soprattutto in questi tempi bigi di violenza e tensioni. Sfogarsi un po' facendo spensieratamente a palle di neve potrebbe fare molto bene al paese.

(moked, 24 novembre 2014)


Tel Aviv, la città delle start-up, incontra l'Europa

Innovazione. Missione dei Giovani di Confindustria

di Enrico Netti

Economia, ricerca, start-up e innovazione tecnologica, medicina, scienze della vita, ambiente, agricoltura, sicurezza e biotecnologie. Sono queste alcune delle aree di business al centro dell'iniziativa «The common challenges of tomorrow», promossa dal ministero degli Esteri di Israele, che è iniziata ieri e prosegue fino al 27 novembre. La missione prevede la partecipazione di una quarantina di rappresentanti di spicco delle giovani generazioni, la «Future european leadership» di industriali, imprenditori, politici e amministratori locali di 17 Paesi europei. Potranno conoscere l'eccellenza nei vari campi dello sviluppo e le molte sfaccettature della società israeliana. Per l'Italia saranno presenti, tra gli altri, Marco Gay, presidente dei Giovani di Confindustria, e Gian Giacomo Gellini, vicepresidente con delega all'innovazione e internazionalizzazione.
   In prospettiva si punta a creare un ponte tra l'Europa e Israele, un'occasione per mixare il secolare spirito imprenditoriale europeo con la capacità di creare start-up e più in generale di fare innovazione del paese. Elementi da cui potrebbe nascere una proficua contaminazione. «In Israele c'è una politica industriale che appoggia le start-up, in Italia la capacità di fare impresa - rimarca Marco Gay -. Se la contaminazione riesce si potrebbero gettare le basi per un nuovo modo di lavorare tra realtà innovative».
   Nei quattro giorni della missione i partecipanti incontreranno giovani imprenditori locali che operano negli stessi settori e sono impegnati in aree d'interesse degli ospiti europei per confrontarsi e discutere di problemi e sfide comuni.
   Tra i molti appuntamenti in calendario sono previsti una visita all'Università Weizmann, specializzata nella ricerca scientifica, un workshop sul tema della «Leadership situazionale e condizioni mutevoli», incontri con parlamentari della Knesset, con rappresentanti dell'amministrazione comunale di Tel Aviv-Jaffa, visita al Technion, il Politecnico di Haifa.
   Per finire è previsto un tour alla scoperta dell'ecosistema di start-up che gravita nell'area di Tel Aviv e dintorni. La metropoli è tra le più innovative al mondo - a dirlo è il Wall Street Journal - e contende alla Sili-con Valley il record per la densità di start-up e iniziative simili. In questo esteso hub si è creato un mix di creatività e ricerca, con incubatori e spazi per il co-working, dove i giovani imprenditori presentano le iniziative ai venture capitalist e alle imprese. Un ecosistema che cresce e si sviluppa anche grazie alle generose risorse economiche messe a disposizione dal governo di Gerusalemme, a cui si sommano le agevolazioni offerte dall'amministrazione locale. Il percorso della missione inoltre punta a creare un network relazionale, una partnership tra chi fa ricerca e innovazione e gli imprenditori, in particolare coinvolgendo chi potenzialmente rappresenta la prossima generazione di dirigenti e leader in tutti i campi.

(Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2014)


Uno Stato "palestinese" in Francia?

Lettera aperta di Jacques Kupfer a Madame Elisabeth Guigou.

Signora Presidente,
 
Madame Elisabeth Guigou
Lei dunque ha deciso di presentare una proposta per il riconoscimento di uno "Stato palestinese".
  Non le importa che la mandataria Palestina britannica, destinata alla creazione di uno stato ebraico, sia già per tre quarti uno stato arabo in Transgiordania e che nella storia non è mai esistito uno stato palestinese!
  Né le importa che tra la creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la Guerra dei Sei giorni nel 1967, quelli che lei chiama "territori occupati" erano sotto il controllo arabo e nessuna richiesta di stato palestinese era all'ordine del giorno! Poco le importa, inoltre, che fino a quel momento nessuno aveva mai parlato di un "popolo palestinese". inventato poi dai servizi del KGB nella sua lotta contro l'Occidente! Naturalmente, Lei non si cura di sapere che Abu Mazen, ricevuto in Francia con il tappeto rosso, si proclama l'erede del Mufti Al Husseini, quello che ha creato divisioni SS musulmane accanto a Hitler! E non le importa che Fatah e Hamas, suoi amici "palestinesi", vogliano uno stato islamico al posto e non al fianco di Israele!
  Ovviamente non le importa di sapere che i sopravvissuti all'Olocausto hanno dovuto affrontare le orde arabe che si sono scagliate sul giovane Stato ebraico, di cui rifiutavano l'esistenza. Inutile ricordarle che lo Stato ebraico (ebraico, lo ripeto, perché è l'unico sulla Terra e sembra che il fatto la disturbi) ha dovuto affrontare molte guerre contro chi voleva cancellarlo dalla carta geografica! Non parliamo poi degli attacchi contro autobus, automobili, sinagoghe, associazioni giovanili, case, scuole, perché solo i "palestinesi" sono civili innocenti, mentre gli altri sono soltanto ebrei!
  Non le ricorderò gli sforzi fatti da Israele, come quei drammatici accordi di Oslo che alla fine hanno tolto la vita a migliaia d'israeliani, né le decine di migliaia di missili e razzi lanciati contro le città israeliane!
  A Lei non importano le lezioni della storia recente e l'accordo di Monaco destinato a salvare la "pace"! Il suo predecessore in Parlamento, Daladier, aveva dato a Hitler i Sudeti (con il risultato che sappiamo, ma che lei sembra ignorare)!
  Poco le importa sapere che le nostre terre in Giudea-Sanaria sono essenziali per la difesa dello Stato di Israele e poco le importa di sapere che questa terra è patrimonio ebreo per eccellenza, dove le tracce storiche sono soltanto ebree! Non le ricordo che senza la Giudea-Samaria i confini precedenti si chiamavano i "confini di Auschwitz"!
  Naturalmente, è inutile ricordarle che siamo uno Stato democratico e il suo amico Abu Mazen, una volta al potere, non si è mai più sottoposto al suffragio universale, cosa che, come tutti sanno, è la prerogativa dei paesi in cui regna l'Islam!
  La constatazione del fatto che ovunque l'Occidente si ritira, l'Islam che lei chiama "radicale" prenda il posto non le salta agli occhi. In Afghanistan, Iraq, Libia, o Gaza, la presa del potere da parte dei Talebani, Daesh, Al Qaeda o Hamas, tutto le sembra normale!
  Decisamente, gli accordi di Monaco non hanno lasciato nessuna traccia di memoria in lei!
   Non parliamo poi dei contributi alla scienza mondiale, all'agricoltura, alla tecnologia avanzata che lo Stato ebraico ha portato al mondo e nei paesi in via di sviluppo! Ma in fondo è poca cosa rispetto allo sviluppo di tecniche di racket, sequestri di arei e terrorismo inventate dai "palestinesi"!
   In realtà, a Lei non interessa la verità, la giustizia, un minimo di equità, perché ha già fatto la sua scelta di campo: contro Israele.
  Lei preferisce mettere a rischio l'unico stato ebraico sui suoi ventimila chilometri quadrati piuttosto che rischiare il malcontento dei 22 stati arabi su milioni di chilometri quadrati. Il coraggio qualche volta è merce rara in politica.
  D'altra parte, quello che m'interessa è capire le sue scelte, e vedo solo tre opzioni per spiegarle.
     La prima sarebbe, se posso esprimermi così, la vaga sensazione di un lavoro incompiuto. Dopo tutto, quel dieci per cento di ebrei europei sopravvissuti alla peste bruna è riuscito a creare uno stato ebraico,
Pochi giorni fa lo Stato ebraico ha festeggiato la nascita del suo seimilionesimo ebreo vivente sulla sua terra! Che coincidenza! Il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese sarebbe la forma moderna della soluzione finale!
nonostante l'Europa, nonostante i boicottaggi sulle armi, e a diventare una grande potenza. Se l'Europa non ha potuto completare la sua opera di distruzione, potrebbe farlo lei con lo Stato ebraico, che pochi giorni fa ha festeggiato la nascita del suo seimilionesimo Ebreo vivente sulla sua terra! Che coincidenza! Il sostegno alla creazione di uno Stato palestinese sarebbe la forma moderna della soluzione finale!
La seconda opzione consiste in un'ignoranza totale e assoluta della geografia e della storia. La Terra Promessa parzialmente riconquistata dagli ebrei e la sua capitale Gerusalemme liberata le dà problemi. Che il Corano non abbia mai menzionato Gerusalemme non è certo un motivo sufficiente per non dichiararla città santa per l'Islam. Che i suoi "territori", più piccoli di un piccolo dipartimento francese, diventino una base per l'aggressione contro lo stato ebraico (come a Gaza) non la disturba. Poco le importa anche che Abu Mazen abbia dichiarato che gli ebrei non avranno il diritto di calcare il suo eventuale territorio, che dovrà restare "Judenrein"!
  La terza opzione è essenzialmente la caccia alle voci musulmane e la codardia davanti a eventuali allargamenti delle "aree sensibili". Caricare Israele di tutti i peccati dandogli lo stesso nome può risultare elettoralmente utile.
  Israele non è e non sarà la Cecoslovacchia di Monaco e la Giudea-Samaria non sarà i Sudeti.
  Per quel che mi riguarda, non m'interessa il suo voto. La Douce France de mon enfance è scomparsa nei tumulti di un antisemitismo assassino e di una connivenza politica vergognosa nella sua sottomissione al terrorismo arabo.
  I miei nonni sono caduti indifesi nel turbine nazista perché gli aerei alleati non hanno bombardato Auschwitz e le porte della "Palestina" sono rimaste chiuse per loro, e i Daladier giravano la testa o collaboravano.
  Ma adesso i miei nipoti servono nell'esercito israeliano e hanno già imparato le lezioni della storia.
  Il popolo ebraico ha una memoria infallibile. Si ricorda ancora dell'uscita dall'Egitto, della Legge ricevuta sul Monte Sinai, dei suoi combattimenti e dei Giusti delle Nazioni che sono rimasti al suo fianco, come anche dei suoi nemici e degli "utili idioti" del Jihad.
  Voglia gradire, Signora Presidente, i sensi della mia più severa riprovazione da Gerusalemme riunificata e dalla Terra d'Israele liberata sotto la sovranità ebraica per l'eternità.

Jacques Kupfer
Co-presidente del Likud Mondiale

EuropeIsraël, 23 novembre 2014 -trad. www.ilvangelo-israele.it)


Caritas: "Israele sfrutta l'eroina per fiaccare e corrompere i palestinesi"

di Stefano Consiglio

Padre Raed Abusahlia, il direttore della Caritas di Terra Santa, ha lanciato una pesante accusa contro il Governo di Israele sottolineando la sua abitudine di ignorare volutamente lo spaccio di droga tra la popolazione palestinese di Gerusalemme Est. "I poliziotti israeliani chiudono entrambi gli occhi di fronte ai pusher che vendono kg di eroina nella zona orientale, araba della città". A detta del direttore si tratta di una precisa strategia adottata da Tel Aviv allo scopo di "fiaccare e corrompere i palestinesi".
L'effetto di questa "politica di tolleranza" è un triste primato detenuto da Gerusalemme Est, in cui c'è una delle maggiori concentrazioni di tossicodipendenti al mondo. Le stime effettuate dalla Caritas parlano di circa 5 mila eroinomani che debbono ricorrere a dosi quotidiane di eroina allo scopo di controllare la loro dipendenza. È bene sottolineare che i numeri raccolti dall'organizzazione religiosa rappresentano solamente quella parte della popolazione palestinese che ha dichiarato la propria tossicodipendenza accedendo a programmi di recupero. Ciò significa che molto probabilmente il numero di tossicodipendenti presenti a Gerusalemme Est è decisamente maggiore. In ogni caso pur limitando l'analisi ai 5 mila eroinomani abituali rilevati dalla Caritas, si tratta di una percentuale pari all'1,7 percento della popolazione complessiva, ben superiore alla media internazionale corrispondente allo 0,4 percento. A questi dati occorre aggiungere altre 15 mila persone che si drogano saltuariamente.

(International Business Times, 23 novembre 2014)


La “pesante accusa” del direttore della Caritas di Terra Santa contro il governo d’Israele è talmente stupida che la riportiamo soltanto per far conoscere, appunto, il livello di stupidità a cui si arriva da quelle parti pur di dire qualcosa di male contro Israele. M.C.


Gusto kosher 2014, successo per il mangiare ebraico

ROMA - Successo di pubblico per Gusto Kosher 2014, la manifestazione sul mangiare ebraico al Ghetto organizzata da Le Bon Ton Catering col patrocinio della comunità ebraica romana. Tra tavole rotonde sull'accoglienza - a cui hanno partecipato, tra gli altri il rabbino capo della capitale Riccardo Di Segni, il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici e l'ambasciatore d'Israele Naor Gilon - e assaggi di vino e cibi preprati secondo le regole della Kasherut, in tanti hanno voluto assaggiare le prelibatezze ebraiche.

(la Repubblica - Roma, 23 novembre 2014)


Israele, Stato della nazione ebraica

Il Governo approva a maggioranza il progetto di legge al termine di un dibattito teso.

Il Governo israeliano ha approvato a maggioranza un progetto di legge che definisce Israele "Stato della nazione ebraica". Sui 22 ministri che formano l'Esecutivo, 14 hanno votato a favore del testo al termine di un dibattito teso. Diversi rappresentanti del mondo laico hanno criticato il progetto, che indebolirebbe il carattere democratico del paese.
In apertura della discussione, Benyamin Netanyahu ha assicurato che i diritti di ogni cittadino saranno garantiti, ma al tempo stesso occorre ribadire che Israele è lo Stato nazionale del popolo ebraico, in quanto ciò viene sempre più spesso messo in questione da più parti.
La parola passa ora al Parlamento, che dovrebbe approvare il testo addolcendone i contenuti, secondo gli analisti.

(RSI News, 23 novembre 2014)


Quale Palestina riconoscere?

Lettera a Furio Colombo

Caro Furio Colombo,
non credo di essere prevenuto verso Israele in un senso o nell'altro, e sono sempre in disaccordo quando, sia pure per difesa, si uccidono tanti civili. Ma questa rincorsa a riconoscere la Palestina come Stato non finisce per essere più un invito alla guerra che alla pace?
Donata


Il percorso di questa nuova serie di iniziative (i Parlamenti di Paesi europei, che senza una politica europea o una discussione in comune, si inseguono nella decisione, che sembra a catena, di "riconoscere" lo Stato di Palestina) sembra avere creato un effetto strano ma forse tristemente rivelatore. Tutti gli episodi che hanno insanguinato Gerusalemme nelle ultime settimane (dalle auto lanciate sui passanti ai rabbini uccisi in sinagoga) sono accaduti dopo la sequenza norvegese, inglese e spagnola dei "riconoscimenti" parlamentari. Immaginate per un istante che non ci sia di mezzo la pietra delle infinite accuse lanciate continuamente contro Israele (che persino se fossero tutte vere, resterebbero la prova di un grave pregiudizio, perché neppure il Califfato ha meritato giudizi come quelli dedicati a Israele su espansionismo e attacchi militari a Gaza).
   Poi domandatevi se si può discutere intorno a questa riflessione: i palestinesi fondamentalisti, che si riconoscono in Hamas (e hanno come alleati inevitabili gli altri fondamentalismi di cui il mondo ha orrore) hanno inteso dire, con i loro improvvisi tentativi di uccidere gente comune o religiosi, purché ebrei, nelle strade di Israele, che la parte che si identifica in Hamas non ha alcun interesse alla benevolenza dei parlamenti norvegesi inglesi, spagnoli e degli altri che potrebbero decidere di unirsi, perché, in osservanza della loro carta costituzionale, non hanno alcun progetto di convivere Stato accanto a Stato. Intendono distruggere. E proprio per questo hanno Hezbollah, il Califfato e i gruppi islamici estremi che stanno smembrando ciò che resta dell'Iraq.
   Trovo strano che i parlamentari dei tre Paesi che hanno chiesto per la Palestina il riconoscimento di Stato, si siano dimenticati che ci sono due Palestine: Una a Ramallah, presidente Abu Mazen (che almeno ha espresso il suo cordoglio per i cittadini israeliani uccisi in strada o in preghiera). E una a Gaza, dove Israele resta il nemico unico e assoluto. Non parliamo dei palestinesi, parliamo di Hamas-Califfato- Hezbollah. Ma sono loro che comandano, senza alcuna forma di apparente democrazia. Vorrei chiarire, per coloro che staranno già redigendo la lista delle ragioni dei palestinesi che odiano comunque Israele (e che se ci fosse democrazia non sarebbero affatto la maggioranza): stiamo discutendo dei voti dei Parlamenti. A chi offriranno il riconoscimento? Ad Abu Mazen, che è debole, indeciso, impreciso anche nelle sue condanne? O alla ragguardevole forza militare di Hamas, che si è insediata in tutte le case e gli edifici di Gaza, in modo da costituire obiettivo militare dovunque, e tiene in ostaggio l'intera popolazione civile? La seconda domanda è più semplice, più triste, più inevitabile. Come si fa a riconoscere uno Stato che ha dichiarato, scritto nel proprio atto costitutivo, ripetuto in ogni incontro di "mediazione" e dimostrato in questi giorni nelle strade di Gerusalemme che non accetterà mai l'esistenza dello Stato di Israele?

(il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2014)


Truppe egiziane per la Palestina

Al Sisi: «Aiuteremo la polizia del futuro Stato E vogliamo garantire la sicurezza di Israele». Confermata linea dura verso Morsi e «azione comune» contro terrorismo.

di Franco Venturini

 
Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi
Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che compie da oggi una visita in Italia e in Vaticano prima di proseguire per Parigi, ha concesso al Corriere della Sera la sua prima intervista a un quotidiano occidentale. L'incontro, al quale ha partecipato il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli, si è svolto nel palazzo presidenziale di Heliopolis, al Cairo. Durante il soggiorno romano il presidente dell'Egitto incontrerà il presidente Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il presidente del Senato Pietro Grasso, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e una rappresentanza di imprenditori. Domani sarà ricevuto da papa Francesco.

- Signor presidente, quale messaggio intende portare ai massimi dirigenti italiani?
  «Voglio chiedere all'Italia, anche nel suo attuale ruolo di presidente di turno della Ue, di spiegare a tutta l'Europa quanto sta accadendo in Egitto e quanto sia preziosa per tutti la stabilità egiziana. Naturalmente desideriamo anche un aumento degli investimenti italiani che sono già consistenti ma che potrebbero esserlo molto di più. Stiamo provvedendo ad alcuni aggiustamenti legislativi che dovrebbero aiutare. Speriamo che il turismo, italiano ed europeo, riprenda. Ma il messaggio fondamentale riguarda la sicurezza comune, la lotta comune al terrorismo. Perché se non sarà comune, non funzionerà. Di ciò parlerò anche con il Papa, in particolare per l'aspetto che riguarda la sicurezza delle minoranze religiose, cristiani in testa».

- A proposito di terrorismo, l'Egitto ha subito e subisce molti attentati, nel Sinai dove siamo quasi alla guerra ma anche nelle grandi città. Lei pensa che esista un legame tra gli attentati e l'infiltrazione dell'Isis nella regione?
  «Il terrorismo è composto da tante facce di una stessa medaglia, l'Isis è soltanto una di queste ma all'origine esistono ideologie comuni tra tutte le formazioni terroristiche. Noi combattiamo anche militarmente contro il terrorismo, certo. Ma siamo nel contempo consapevoli del fatto che nessuno potrà fermare la minaccia senza una vera lotta alla povertà, senza interventi che servano a cambiare una certa cultura che poi porta alla facilità di reclutamento. Anche su questo è essenziale collaborare».

- È recente la strage nella sinagoga di Gerusalemme. Lei condivide il timore che lo scontro religioso radicalizzi il confronto tra israeliani e palestinesi? La diplomazia egiziana è riuscita a far cessare le ostilità dopo l'ultima guerra di Gaza, ma anche lì le tensioni stanno montando...
  «La guerra di religione è uno spauracchio da evitare a tutti i costi, ma servono componenti che talvolta mancano. Nel caso specifico bisogna garantire la sicurezza agli israeliani ma contemporaneamente restituire la speranza ai palestinesi e la creazione di uno Stato palestinese è lo strumento migliore per alimentare questa speranza. Poi, dopo la creazione di uno Stato palestinese, si aprirà un lungo processo, ci vorrà tempo per ristabilire la fiducia tra le parti, ma non è forse accaduto lo stesso tra Egitto e Israele dopo che abbiamo fatto la pace? Il periodo di transizione iniziale sarà determinante, perché gli israeliani non possono rischiare la loro sicurezza e i palestinesi non devono più compiere atti gravi e sconsiderati che sarebbero, a quel punto, anche autolesionisti. L'Egitto è pronto ad aiutare».

- Come?
  «Le dirò una cosa: noi siamo pronti a inviare forze militari all'interno di uno Stato palestinese. Aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani con il loro ruolo di garanzia. Non per sempre, s'intende. Per il tempo necessario a ristabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese dove inviare le truppe».

- Ma lei ha parlato con le parti di questa possibilità?
  «Ne ho parlato a lungo con il primo ministro Netanyahu, gli ho detto che va imboccata una via coraggiosa, altrimenti non si risolverà nulla».

- E con Abu Mazen?
  «Certo, ne ho parlato anche con lui».

- Presidente, quanto accade in Libia è molto preoccupante sia per l'Egitto sia per l'Italia. Come se ne può uscire?
  «Stabilizzare la Libia è una priorità per tutti, non soltanto per i nostri due Paesi. Lì regna il caos, ma soprattutto lì si stanno creando basi jihadiste di estrema pericolosità. La Nato non ha completato la sua missione. Perché dopo la guerra che ha eliminato Gheddafi la Libia è stata abbandonata? Non credo a nuovi interventi militari e l'Egitto non ne ha compiuti e non ne compie. Invece la Comunità internazionale deve fare una scelta molto chiara e collettiva a favore dell'esercito nazionale libico e di nessun altro. Aiuti, equipaggiamenti, addestramento devono andare esclusivamente all'esercito regolare che nel tempo avrà i mezzi per riportare l'ordine».

- Esiste pure il problema dei flussi migratori verso Italia...
  «Lo so e le faccio presente che ciò non accade in Egitto e non soltanto per ragioni di distanza. L'Italia non può affrontare il problema da sola, è ovvio. Ma serve una strategia della quale si è molto parlato e che andrebbe realizzata con urgenza: bisogna investire e creare lavoro nei Paesi di origine. I diritti umani si difendono anche così».

- A proposito, lei è stato accusato di eccedere in durezza nei confronti dei Fratelli musulmani. Proprio in questi giorni è stata chiesta dall'accusa la pena di morte per il suo predecessore regolarmente eletto Mohammed Morsi, sotto processo come migliaia di Fratelli che vengono equiparati ai terroristi. Ci sono state centinaia di condanne a morte, non eseguite in attesa delle sentenze definitive. E il 14 agosto dello scorso anno a Rabaa el Adaweya l'intervento dei militari ha provocato una strage. Non teme che un simile approccio aumenti le divisioni sociali in Egitto e riduca la sicurezza invece di aumentarla?
  «Guardi, è lei che esagera. Noi abbiamo soltanto reagito. Dal 3 luglio del 2013, quando Morsi cadde sotto la spinta di milioni di egiziani, fino al 14 agosto, quando dovemmo riportare la normalità al Cairo usando la forza, i Fratelli musulmani avrebbero potuto collaborare con le Forze armate, nessuno li perseguitava, si muovevano liberamente. Invece si dettero alla violenza e crearono una occupazione illegale permanente nella zona di Rabaa el Adaweya attirando provocatori di ogni genere. Cosa dovevamo fare? Abbiamo agito nell'interesse nazionale dell'Egitto e con il pieno consenso della popolazione. Quanto al processo contro Morsi, si tratta di una richiesta della pubblica accusa e siamo al primo grado, c'è l'appello, c'è una procedura lunga e lo stesso vale per gli altri. Noi non interferiamo nel corso della giustizia».

- Questo tipo di rapporto con i Fratelli musulmani potrà cambiare in futuro?
  «Le ho già risposto, dipende da loro. E dai giudici».

- Poi c'è l'altra questione dei tre giornalisti di al-Jazeera in carcere da oltre trecento giorni perché accusati di aver diffuso notizie false a sostegno dei Fratelli musulmani. Alcuni hanno visto nella pesante condanna un gesto ostile verso il Qatar, con il quale ora i rapporti potrebbero migliorare grazie a una mediazione saudita. Ma soprattutto è in gioco il suo rapporto con i media. C'è qualcosa di nuovo all'orizzonte, per il canadese Fahmy, l'australiano Greste e l'egiziano Baher Mohamed?
  «Se io avessi avuto il potere di decidere non li avrei condannati, li avrei espulsi. Ma ora ci sono le decisioni della magistratura, che noi, lo ripeto, rispettiamo. Comunque sì, qualcosa si muove nel senso che ci poniamo il problema di come risolvere questa situazione».

- Forse applicando il decreto sull'estradizione promulgato nei giorni scorsi?
«Posso soltanto dirle che di sicuro la decisione eventualmente presa corrisponderà all'interesse dell'Egitto e di nessun altro».

- Così come è stato nell'interesse dell'Egitto il taglio delle sovvenzioni sui prodotti energetici, che il Fondo monetario reclamava da tempo?
  «Precisamente. L'eliminazione delle sovvenzioni, non soltanto in campo energetico, è una necessità per l'economia egiziana ed è per questo che l'abbiamo applicata. Stiamo facendo il massimo, ma non sono soddisfatto. Abbiamo molti milioni di giovani senza lavoro, come potrei essere contento? E so benissimo che situazioni di questo genere sono collegate alla sicurezza, alla prevenzione del terrorismo. Questo lo dovete capire anche voi europei, io a Roma e poi a Parigi lo ripeterò senza stancarmi. Matteo Renzi è venuto al Cairo, lo sa già, ma io tornerò a insistere. Per aumentare la sicurezza reciproca, ma anche perché cooperando ci si conosce, si creano legami culturali, si restringe il Mediterraneo. Le do un esempio: il nostro ministero della Cultura sta traducendo un'opera sul viaggio della Sacra Famiglia. Un passo, e molti altri dovrebbero seguire reciprocamente se vogliamo trasformare la collaborazione economica e la sicurezza comune in un vero, profondo avvicinamento. Un avvicinamento che è nell'interesse reciproco».

- Un altro passo lo ha compiuto lei con la legge contro le molestie alle donne. Soddisfatto dei risultati?
  «Le rispondo nuovamente di no. Certo, i casi sono drasticamente diminuiti. Ma una legge non basta, bisogna modificare il costume sociale, dobbiamo avvicinarci al vostro modello che pure non è perfetto. E dire che in Egitto di donne in posizioni di responsabilità ne abbiamo parecchie».

- Lei è stato criticato da più parti, ma ora sembra essere al centro di una rinnovata attenzione internazionale...
  «Alle critiche ho risposto e l'importanza dell'Egitto evidentemente viene capita. Con gli Usa i rapporti di grande amicizia sono tornati ai tempi migliori. Con Putin c'è una ottima intesa. A Capodanno sarò in visita in Cina. Benissimo, ma io voglio più Europa».

(Corriere della Sera, 23 novembre 2014)


Inchiesta: bambini palestinesi indottrinati all'odio. Quale futuro per la Palestina?

Una incredibile inchiesta condotta da Yedioth Ahronoth ci mostra come vengono indottrinati all'odio i bambini palestinesi, il tutto nel totale silenzio della ONG per la difesa dei Diritti dei Bambini.

Una inchiesta condotta da Yedioth Ahronoth e pubblicata questa mattina anche sul suo sito web (in coda trovate il link) ci offre uno spaccato dell'infanzia palestinese che dovrebbe far parecchio riflettere chi ancora considera la dirigenza palestinese un "partner per la pace". Bambini piccolissimi che invece di andare a scuola vengono indottrinati all'odio verso gli ebrei e che partecipano alle rivolte e agli attentati, il tutto nel completo silenzio delle cosiddette ONG in difesa dei Diritti dei bambini, a partire da UNICEF e compagnia bella....

(Right Reporters, 23 novembre 2014)


Iran: La minoranza che non ti aspetti. Gli ebrei in Iran e la loro storia millenaria

di Simone Zoppellaro

Esclusa Israele, naturalmente, quella iraniana rappresenta oggi la comunità ebraica più numerosa dell'intero Medio Oriente. Essa ha origini antichissime, risalenti alla prima diaspora ebraica, nell'VIII secolo a.C., quando il re assiro Sargon II, in seguito alla conquista del Regno di Israele, deportò parte delle tribù israelitiche in terra d'Iran. Nei suoi 2.700 anni di storia, la comunità ebraica iraniana ha conosciuto periodi di grande splendore, come durante l'epoca sasanide, l'ultima prima dell'avvento dell'islam, quando essa rappresentava numericamente la prima comunità ebraica al mondo, sopravanzando persino la Palestina. A quell'epoca, si attesta la presenza in Iran di città a maggioranza ebraica.
Dopo la conquista islamica, gli ebrei continuarono per molti secoli ad essere una comunità numericamente importante in Iran. In questo periodo, e fino ancora al XIX secolo, si segnala inoltre lo sviluppo di una letteratura giudaico-persiana, scritta in caratteri ebraici e modellata, nelle forme, sui classici della poesia persiana medievale. Da un punto di vista politico, non mancarono figure capaci di distinguersi ai massimi livelli di potere, come Saad al Dawla, gran vizir fra il 1289 e il 1291, all'epoca del sovrano ilkhanide Arghun.
   Gli storici concordano nell'identificare nell'epoca safavide (1501-1722) l'inizio della decadenza della comunità ebraica in Iran. Le difficoltà aumentarono ulteriormente fra XVIII e XIX secolo, quando si registrarono diversi episodi di violenza nei confronti degli ebrei. Un'ultima età dell'oro per la comunità fu invece il regno di Mohammad Reza Pahlavi (1941-1979), quando gli ebrei videro, da molti punti vista, migliorato il loro status. Per la prima volta, circa la metà dei membri delle nuove generazioni poterono studiare in scuole di comunità in cui era previsto l'insegnamento dell'ebraico. Da un punto di vista socio-economico, diversi membri della comunità ebraica conobbero una rapida ascesa in campo imprenditoriale, accademico e medico, professione quest'ultima dove gli ebrei storicamente si erano sempre distinti. Si stima che, fra gli anni '60 e '70, la comunità ebraica iraniana fosse la più facoltosa dell'intero continente asiatico, al di fuori dello stato di Israele.
   Più complessa la valutazione dell'epoca tuttora in corso, sorta in seguito alla rivoluzione islamica del 1979. Sebbene la nuova Costituzione della Repubblica islamica, approvata quello stesso anno, riconosca che l'ebraismo, insieme a cristianesimo e zoroastrismo, "sono le uniche minoranze che, nei limiti stabiliti dalla legge, sono libere di svolgere i propri riti e di regolamentare lo stato civile e l'istruzione religiosa secondo la loro religione" (art. 13), non sono purtroppo mancati, soprattutto nei primi anni, esecuzioni ed episodi di violenza nei confronti di diversi membri della comunità. Così, spetta a un ebreo, l'imprenditore multimilionario Habib Elqanian, il triste primato di primo uomo d'affari vittima del nuovo regime, nel maggio 1979. Seguirono, nel dicembre 1980, altre sette esecuzioni di ebrei iraniani, e altre due nel 1982. Su di essi, gravavano accuse che andavano dallo spionaggio a favore di Israele e degli Usa, fino alla corruzione e all'alto tradimento. Un ulteriore duro colpo per la comunità si ebbe nell'agosto 1980, con la fuga del Rabbino capo Yedidia Shofet dal paese, e con l'invito da lui rivolto ai suoi correligionari a fare altrettanto.
   Eppure, anche in questa prima fase durissima, e a dispetto degli eventi traumatici di cui sopra, non è semplice parlare di un piano persecutorio preciso, né tantomeno di una volontà, da parte del nuovo regime, di estirpare la comunità ebraica locale. Del novembre 1979, ad esempio, è la seguente affermazione dell'Ayatollah Khomeini: "Gli ebrei sono differenti dai sionisti; se i musulmani vinceranno i sionisti, lasceranno in pace gli ebrei. Essi sono una nazione come le altre." È importante notare come tale netta distinzione fra ebraismo e sionismo sarà alla base, negli ultimi anni, di molte dichiarazioni da parte dei rappresentanti della comunità ebraica iraniana.
   Perché, come detto, nonostante una grave flessione demografica fra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, in Iran vivono ancora oggi diverse migliaia di ebrei, e sono tuttora in funzione sinagoghe e scuole per i membri di questa comunità millenaria. Le stime più ottimistiche parlano di 30.000 ebrei ancora presenti nel paese, mentre il censimento ufficiale del 2011 parla di 8.756 persone. Questi vivono soprattutto nella capitale, Teheran, e in grandi città come Isfahan e Shiraz, ma anche in alcune più piccole come Hamedan, Yazd e Sanandaj, dove sono presenti sinagoghe per le comunità locali. Sempre a Hamedan si trova la tomba dei biblici Ester e Mordecai, il luogo di pellegrinaggio più importante per gli ebrei iraniani, aperto anche ai turisti.
   Chiudiamo questa breve panoramica sugli ebrei iraniani con due note positive, nella speranza che si rivelino di buon auspicio per il futuro di questa comunità. Hanno fatto notizia, nel 2013, gli auguri di buon Rosh Hashanah (il capodanno ebraico) inviati agli ebrei iraniani via Twitter dal Presidente Hassan Rowhani e dal Ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif. Una boccata d'ossigeno, dopo la presidenza Ahmadinejad, celebre per le sue tesi negazioniste. Infine, è giusto ricordare i risultati della ricerca sull'antisemitismo Global 100, condotta fra il 2013 e il 2014 dall'Anti-Defamation League. I dati dimostrano come in Iran il pregiudizio contro gli ebrei sia meno diffuso che in qualsiasi altro paese del Medio Oriente o dell'Africa settentrionale.
   Una sorpresa per molti, forse, ma non per chi conosce bene l'Iran, e l'ospitalità e la tolleranza della sua gente.

(East Journal, 22 novembre 2014)


In un articolo di EuropeIsraël su Cohn Bendit si scrive:
    «Affermando che "Israele è la fine degli ebrei", Cohn Bendit mostra che il marranesimo si sta insinuando nella coscienza degli ebrei in diaspora. Certo, nessun popolo, nessuna comunità, nessuna minoranza è in grado di sopportare a lungo l'assalto quotidiano di attacchi e crimini come accade oggi agli ebrei in Europa. Così, pensando di salvare se stessi, una parte significativa degli ebrei di Francia ha cominciato a negarsi, a scoprire che Israele è responsabile del terrorismo, a difendere i "moderati" palestinesi, come ha fatto Alain Finkielkraut due giorni fa su I 24 News, quando il sangue dei rabbini uccisi a Gerusalemme non si era ancora asciugato».
Prendere le distanze da Israele, operare una netta distinzione tra ebrei e israeliani, può essere l'offerta che il mondo fa agli ebrei per ottenere il permesso di sopravvivere, come appunto già avviene in Iran. Questo conferma, ancora una volta, che il punto vitale della questione ebraica oggi è concentrato nello Stato ebraico d'Israele. Volerlo problematizzare culturalmente o aggirare cautamente, oltre che essere moralmente discutibile, sarà comunque vano nei risultati, sia storici, sia personali. M.C.


Stati Uniti, Obama scaricato dagli elettori ebrei

Sono multietnici, progressisti e poco religiosi. Eppure disperdono voti lontano dai democratici: -21% dal 2006 al 2010. Il primo presidente nero non piace più.

di Barbara Ciolli

- Meno neri e latinos, ma anche meno ebrei.
  In un momento critico, mai come prima, per le relazioni tra Israele e Stati Uniti, alle elezioni del 4 novembre 2014 il presidente americano Barack Obama ha raccolto il 66% delle preferenze dall'elettorato di religione ebraica: 21 punti percentuali in meno delle elezioni di medio termine del 2006, ha fotografato l'istituto indipendente Pew Reserch Center all'indomani del voto.
Al Midterm del 2010 non andò molto diversamente. Ma dal 2006 al 2014 il voto ebraico ai repubblicani è balzato dal 12% dei tempi di Bush al 33%

- In calo di 9 punti dal 2008
  Un segnale? Il parallelo calo di gradimento degli ebrei americani verso l'inquilino della Casa Bianca spicca anche confrontando le Presidenziali del 2008 con quelle del 2012. Sei anni fa, il 78% di loro diede con convinzione fiducia al primo capo di Stato nero nella storia degli Usa. Quattro anni dopo, la loro percentuale era calata al 69%, di nove punti.
Con Bush figlio alla Casa Bianca, gli ebrei d'America - tradizionalmente un elettorato democrat - premevano per il cambiamento.

- Minimo storico con Carter
  Poi, come i numeri dimostrano, Obama li ha convinti sempre meno nei suoi due mandati al governo.
Un declino che, negli annali degli Usa, è simile al minimo storico di consenso (45%) toccato alle presidenziali del 1980 da Jimmy Carter, alla fine del suo primo e ultimo mandato.
Nobel per la Pace, più a sinistra di Obama, Carter fu cannibalizzato dal thatcheriano, dopo quattro anni di presidenza debole, soprattutto in politica.

- Roosevelt e Clinton graditissimi
  Commander in chief degli Usa graditissimi degli ebrei sono stati invece il keynesiano Franklin Delano Roosevelt (90%), timoniere degli Usa dalla Grande depressione al Secondo dopoguerra, e l'altro presidente carismatico degli Usa, Bill Clinton, che durante il suo doppio mandato vide i consensi dell'elettorato ebraico gonfiarsi fino all'80%.

- Ebrei americani poco religiosi e progressisti: ma Obama non piace
  Non è facile capire cosa muove gli ebrei degli Stati Uniti. Intervistati, la maggioranza di loro racconta di non guardare a Israele, soprattutto per il voto di Midterm, e di non essere così interessati alle questioni di fede.
Nel Ritratto degli ebrei americani dell'ottobre 2013 del Pew Reserch Center, solo il 26% di loro ha dichiarato di considerare la religione «molto importante»: pressoché la medesima percentuale di chi va in sinagoga.
Al contrario, cresce il numero dei cittadini di origine ebraica che si uniscono in matrimoni misti, non si riconoscono in alcun credo e crescono i loro figli da atei. Una comunità, insomma, multietnica, tendenzialmente progressista e persino meno religiosa degli anglossassoni.

- Tra barack e Bibi rapporti tesi
 
  Come diversi analisti, Ester Fuchs, politologa della Columbia University, è dell'avviso che gli eventi in Medio Oriente influenzino solo la minoranza degli ebrei repubblicani.
Le politiche verso Israele, inoltre, sono un fattore che in genere condiziona le Presidenziali, più che per il medio termine.
I fatti, tuttavia, sono fatti. E, per quanto il premier israeliano Benjamin "Bibi" Netanyahu, conservatore e filo-sionista, stia antipatico all'ebreo medio americano, nei sei anni di rapporto conflittuale tra Obama e Netanyahu nella comunità il consenso all'Amministrazione democratica è andato nettamente calando.

- Urtati dalle politiche egalitarie
  La stessa tendenza si manifestò con Carter: l'ex presidente degli Usa che, nel 2006, ha pubblicato il bestseller Peace, not Apartheid, condannando senza appello le politiche israeliane verso il popolo palestinese.
Negli anni, anche Obama ha ripetutamente bacchettato "Bibi" sulla continua e illegale costruzione di abitazioni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, limitando al minimo i colloqui: l'ultimo climax, tra i due, risale all'ottobre 2014, dopo la Guerra di Gaza e la preoccupante escalation di Gerusalemme.
Certo, le politiche egalitarie sul welfare della Casa Bianca possono aver urtato l'ala destra dei democrat: il ceto medio che, il 4 novembre, ha tradito Obama può ben contare, oltre all'elettorato bianco anglosassone, la comunità di origine ebraica.

- Il guaio è anche economico: gli ebrei sono ottimi finanziatori
  L'indecisione di Obama sulle crisi della Primavera araba e il suo continuo aprire all'Iran sul nucleare, grande spettro di Israele, possono inoltre aver spinto gli ebrei americani - al di là del loro orientamento politico - a muoversi con prudenza, nel timore di una preoccupante e crescente insicurezza in Medio Oriente.
I cambiamenti più significativi tentati sia negli Usa sia in politica estera, come la riforma sanitaria e la fine delle guerre preventive, d'altra parte, sono osteggiati anche tra i politici democratici, dove la lobby ebraica ha un peso rilevante.

- Una lobby sempre presente
  La perdita di appeal tra gli ebrei statunitensi non è infatti indolore: una quota consistente di militanti del partito è di origine ebraica; ebrei, inoltre, sono in larga parte i finanziatori delle campagne dei candidati democratici.
Alle ultime Presidenziali, la lobby ebraica progressista affollava la convention di Obama con gli slogan «Pro Peace, Pro Israel».
Poi gli Usa hanno votato contro il riconoscimento dello Stato della Palestina all'Onu e appoggiato, più defilatamente possibile, Netanyahu nell'ultima guerra di Gaza.
Per raffreddare le tensioni a Gerusalemme, il segretario di Stato americano John Kerry ha incontrato ad Amman il premier israeliano e il re di Giordania Abdallah. Ma i negoziati di pace sono arenati e, negli Usa, i repubblicani in risalita sono pronti a raccogliere i voti dei delusi.

- L'Aipac pesa come un macigno
  L'Aipac, l'America's pro-Israeli lobby, è di ispirazione conservatrice. Ma il grande gruppo di pressione ebraico, che pesa come un macigno al Congresso in mano ai repubblicani, ha affiliati tra i democrat e potrebbe essere un trait d'union ideale per le Presidenziali del 2016.
L'esperto di elezioni americane Herbert Weisberg, professore emerito in Scienze politiche all'Ohio State University, non esclude uno spostamento di preferenza verso destra: «Alle Presidenziali il nodo di Israele pesa di più. Se guardiamo indietro agli Anni 70 e 80, prima dell'exploit di Clinton e del picco dei Bush, ai repubblicani andava il 30% del voto ebraico. Sembra di andare di nuovo in quella direzione».

(Lettera 43, 22 novembre 2014)


Civita (CS) incanta gli israeliani

Civita, il "Paese Albergo"
Il Parco nazionale del Pollino
La Timpa del Demanio
Le gole del Raganello
Un gruppo di travel agents proveniente da Tel Aviv è rimasto affascinato dalla bellezza paesaggistica e culturale del borgo arbereshe, ospiti del Consorzio Turistico Borghi del Pollino. Basta una giornata tra la natura ed i sapori del borgo arbereshe per innamorarsi di Civita e della sue atmosfere. La maestosità della Timpa del Demanio, lo scrosciare dell'acqua delle Gole del Raganello che hanno scavato nella roccia la storia di questo territorio, ma anche la tradizione spirituale degli albanesi d'Italia colpisce ed ammalia chiunque passa da queste latitudini.
E' accaduto oggi ad un gruppo di agenti di viaggio provenienti da Tel Aviv città dello Stato di Israele giunti nella piazza dell'abitato arbereshe con un mezzo della Santoro Viaggi, socio del consorzio turistico "Borghi del Pollino" che si occupa dei transfer che riguardano gli ospiti delle 9 strutture b&b che compongono la base societaria del progetto di accoglienza diffusa guidato dal presidente Gianluca Colaci.
Affacciati alla balconata del belvedere che guarda al fondo delle Gole del Raganello si sono lasciati conquistare dalla roccia bianca e rosa che compone la maestosa Timpa del Demanio dove i più arditi sportivi, al pari delle capre selvatiche, si inerpicano lungo le vie di arrampicata sportiva provando ad osservare un panorama mozzafiato che guarda al golfo di Sibari che si perde all'orizzonte.
Le icone bizantine della Chiesa di Santa Maria Assunta, i riti della tradizione arbereshe, i maestri iconografi sono stati la punta di diamante di una giornata tra cultura e natura terminata nella piazza di Civita, a due passi dalla casa comunale affidata alla guida del Sindaco Alessandro Tocci, a gustare le eccellenze gastronomiche del territorio del Pollino nell'accogliente e semplice Bottega de "L'Agorà", ristorante tipico che fa parte della schiera di imprese ed aziende del territorio che hanno scelto di vivere la formula del turismo territoriale ed identitario proposto da "Borghi del Pollino".
Tra la natura e la cultura i tour operator che stanno giungendo a Civita vengono anche conquistati dal calore e dall'accoglienza di un gruppo di imprenditori che hanno saputo fare rete e realizzare un modello di accoglienza diffusa che tra America, Russia, Polonia, Germania, ed ora anche Israele sta riempiendo di stranieri il periodo destagionalizzato nelle case che, sapientemente ristrutturate, sono diventate lo spazio ideale per godere del fascino di un territorio che ha da poco conquistato, attraverso il Parco Nazionale del Pollino, il riconoscimento della Carta Europea del Turismo Sostenibile.

(Sibarinet, 22 novembre 2014)


La scia di sangue

di Massimo Micucci

Ho aspettato un po' a scrivere. L'altro giorno, se non fossi stato un laico integrale, sarei entrato in un luogo di culto. Per confessarmi e pregare. Mi ha spinto l'immagine di un'assenza, la scia di sangue lasciata in un corridoio della sinagoga vicino a Gerusalemme da qualcuna delle 7 vittime del terrore. Assassinati a colpi di mannaia da criminali che hanno poi ricevuto le congratulazioni di Hamas . Ci sono cose che chiamano forte, ed io voglio innanzitutto confessarmi, pur non credendo nella grazia e nel perdono. Per tanti anni ho vissuto con due verità. Quella scia è anche colpa di questa doppia verità fasulla. Credevo che nella tragica lotta tra Palestinesi ed Israeliani ci fossero ragioni e torti equivalenti. Tra i torti subiti: quello della Shoah, con quello dell'esproprio della terra palestinese. Classi di grandezze non comparabili. Diritti squilibrati ma comprensibili: quello delle occupazioni e degli insediamenti, contro quello dell'intifada. Il terrorismo no, l'ho sempre ritenuto ineguagliabile e ingiustificabile ovunque. Ma c'era chi lo tollerava negandolo. Più viaggiavo e conoscevo uomini, donne e politiche di questo campo di battaglia e più quell'equazione decadeva. Da tanto tempo non la penso più così, ma le colpe non si debbono cancellare solo cambiando idea. Bisogna ricordarsene, mantenere la memoria anche della vergogna e, a qualcuno o a qualcosa ogni tanto bisogna chiedere perdono. Non vi faccio la storia degli argomenti perché non merita. Sento però che sarebbe inutile anche esprimere questo sentimento se non dicessi della conclusione cui sono pervenuto. E questa è la preghiera laica e politica che formulo: non c'è salvezza senza la difesa dello Stato di Israele. Lo Stato di Israele, nato com'è nato, è stato un innesto di democrazia e libertà in un mondo oscuro, è un luogo non paradisiaco, né puro, non è esente da errori e da orrori ma chi ci vive è libero di combatterli. Dentro e attorno ai suoi confini, come dentro e attorno ai nostri (civili e incivili cittadini dei paesi democratici) vive e ha prosperato un impero del male. Che costruisce e smonta confini, aiutato o avvicendato da tiranni ipocriti, mietendo vittime innocenti. L'Isis è parte di questo movimento armato confessionale, ma è anche un gigantesco paradigma pratico statale ed ubiquo: la pirateria, il razzismo, l'omicidio, l'oppressione sessuale fatti "stato globale". Questa ubiquità del nemico islamista, confessionalista ha però una sua cittadella della resistenza che condensa tutte le Kobane, assediate, sopravvissute e cadute. Israele è il luogo simbolico della resistenza e della libertà cui dovrebbero rivolgersi. Dunque non si può e non si deve chiedere ad Israele di essere flessibile, ma inflessibile contro il terrorismo. Come dobbiamo esserlo tutti dal cielo e da terra. Non si può chiedere di riconoscere lo Stato Palestinese, così com'è, se tutte le entità legali nello Stato Palestinese non riconosceranno il diritto alla sicurezza di Israele. Sarebbe come se chiedessimo all'Unione Europea di tollerare una Germania, o un'Italia in cui è legale un partito nazista o fascista che nel suo statuto si proponga di deportare, uccidere o investire con l'auto ebrei, comunisti e omosessuali. E' una scelta pragmatica quella che ipotizzo, di cui Europa e Stati Uniti debbono prendere atto. Non basta dunque inseguire, anche a piedi, i criminali dove sono. Si devono proteggere le mura della cittadella di Israele. Perderla o indebolirla porterebbe fin sotto casa nostra quella scia di sangue e non aiuterebbe quei milioni di Arabi, Palestinesi, Iraniani, Kurdi, Turchi e quant'altri vengono sgozzati e perseguitati in nome di un Dio e di una terra che non c'entrano nulla.

(Front Page, 22 novembre 2014)


Preghiera laica dell’autore: «non c'è salvezza senza la difesa dello Stato di Israele». Esatto. Ma il corrotto mondo occidentale sembra afferrato da un morboso fascino per la morte e per chi gliela vuole dare. E’ come qualcuno che, stanco della vita, volendo porre fine ai suoi giorni è attratto da chi gli mostra odio e manifesta l’intenzione di ucciderlo. Per l’Occidente questo è l’islam. Ma non si deve dire. Vietato disturbare il massacratore. M.C.


Emigrazione record di ebrei dall'Italia in Israele

GERUSALEMME - Il 2014 avrà un primato: registrerà il più alto numero di ebrei italiani emigrati in Israele negli ultimi 40 anni. Dovrebbero essere a fine anno, come indica l'andamento fino a ottobre,— circa 300 persone: ovvero ben oltre l'1% di tutti gli ebrei che vivono in Italia, circa 25mila. Lo rileva il demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola, che parla di «fenomeno non marginale». I motivi di questa emigrazione sono, a giudizio di Della Pergola, essenzialmente due, entrambi ascrivibili nella categoria del «disagio».
Il primo è quello dovuto alla crisi economica che investe tutti gli italiani.
Il secondo è «politico», dovuto agli aspetti legati al pregiudizio e all'antisemitismo nei media, in internet, in vasti settori del parlamento.
«Va dato atto al governo italiano — dice il demografo — di avere avuto sempre posizioni chiare al riguardo. E non c'è nulla di paragonabile alla Francia, dove vivono 480mila ebrei e dove la situazione è degenerata fino al pericolo fisico. In Italia il numero delle aggressioni è vicino allo zero, ma il disagio c'è».

(La Nazione, 22 novembre 2014)


Attentato in Israele: sinistre responsabilità

di Francesca Romana Fantetti

L'Alto Rappresentante per la politica estera
dell'Unione Europea
Cosa ci dice Federica Mogherini dell'attentato alla Sinagoga a Gerusalemme? Perché, se non ci arriva, è il risultato delle parole stolte pronunciate a nome dell'Europa. La Mogherini, rappresentante della politica estera nientedimeno che dell'Europa nominata da Renzi, in quanto moglie di un amico di Veltroni (Meriti? Zero. Competenza? Zero. Disastri conseguiti? Tanti, nefasti e per tutti) ha erroneamente affermato a inizio novembre che "ci vuole uno Stato palestinese, questa è la posizione di tutta l'Ue, il mondo non tollererà una quarta guerra".
   Eccola l'ennesima guerra, ecco uno dei primi risultati di quella catastrofica incauta affermazione. L'attacco terroristico e la carneficina di rabbini uccisi l'altro giorno, è stato rivendicato dagli islamici di Hamas, cioè da quell'organizzazione che la sinistra politica occidentale legittima. Adesso arriverà la dura "risposta" di Israele, Netanyahu l'ha già chiamata, "Sarà risposta dura" ha detto, e così via. La Mogherini e i rappresentanti della sinistra occidentale sono colpevoli di avere aizzato e chiesto sangue a nome dell'Europa (che li sconfessa), e sangue è arrivato e ne scorrerà ancora purtroppo. C'è un detto romano abbastanza rozzo e truce, ma che rende bene l'idea: fare i froci con il culo degli altri. Ecco cosa sta facendo la sconsiderata, incompetente sinistra politica occidentale, del governo italiano e dell' Europa, in testa Veltroni, Renzi e Mogherini, Napolitano per l'Italia.
   A che titolo si combatte la barbarie delle decapitazioni dell'Isis se, dall'altra parte, si legittimano e accettano gli attacchi terroristici?
   L'Unione europea che pronuncia e lascia si pronuncino paroline di quel genere, legittima e si rende corresponsabile degli attacchi stessi terroristici, come quello avvenuto recente nella sinagoga della capitale di Israele, Gerusalemme, da parte di palestinesi contro ebrei. I rappresentanti dei Paesi europei, con le cose dette ancora in questi giorni, sono corresponsabili e solidali delle feste e dell'esultare dei palestinesi mostrato nei video per la "gioia" dell'attacco terroristico compiuto a danno di ebrei, ripresi questi, sempre nei video, con visi contratti e terrorizzati. A Gaza si festeggia per le vittime israeliane, l'Europa di sinistra d'accordo. E non c'è storia che tenga, anche di fronte alle condanne espresse, perché sono tardive, e perché quelle stesse voci, sono state la rampa di lancio, il trampolino delle violenze. Abu Jamal, cugino degli autori dell'attentato, arabo che vive a due passi dal centro religioso ebraico di Gerusalemme, ha testualmente detto che "l'attacco è avvenuto a causa della pressione delle forze occupanti del governo israeliano sul popolo palestinese e specialmente sulla moschea di Al Aqsa. L'atto compiuto è normale per chiunque sia connesso al suo popolo, al coraggio, all'islam".
   L'atto sarebbe quindi normale e si inneggia, con la strage, al proprio popolo. Se i rappresentanti dell'Unione europea, lungi dal chiedere ai palestinesi di trattenersi da attacchi mortali terroristici contro Israele, spiegando loro che tali atti peggiorano la situazione, fanno da incitamento e da provocazione, oltre che in generale l'uso della forza, se non spiegano di smetterla di seguitare a compiere giorno dopo giorno attacchi, se al contrario addirittura si esprimono e fanno financo trapelare l'intenzione di sanzioni a Israele, alimentano, danno spazio alla linea di colpevolizzazione senza sosta di Israele. Dalle parole venute dall'Europa infatti i palestinesi hanno capito che vige un'assurda specie di nullaosta verso i gesti aggressivi e le loro violenze, che sono addirittura "giustificati" e che lo Stato palestinese esisterà alla fine non tanto come un compromesso ma come una compensazione dovuta. Questo è quello che hanno capito i palestinesi da questa Europa scellerata.
   Sono stati espressi sinora infausti, nocivi riconoscimenti dello Stato palestinese dalla Svezia, Gran Bretagna, Italia di Napolitano/Renzi e dalla Spagna, è necessario invece che ci si esprima nel senso della difesa generale da un mondo violento, fanatico ed ostile cui Israele non cede facili compromessi territoriali.
   Gli attacchi di questi giorni sono il risultato delle parole e dell'atteggiamento compiacente della sinistra politica occidentale d'Italia e d'Europa verso palestinesi e Abu Mazen, compagno di governo di Hamas.
   
(L'Opinione, 22 novembre 2014)


L'Unione Europea è dalla parte di Hamas. Non può dirlo apertamente, per motivi di decenza e perché questo implicherebbe l'assunzione di responsabilità operative conseguenti, ma la realtà di fatto è questa. Molti non l'hanno ancora capito, ma chi l'ha capito è Hamas. Il quale sa che a lui non verrà mai chiesto niente di preciso e condizionante, perché come controparte responsabile Hamas per l'Occidente non esiste. A lui non si pongono condizioni del tipo: se partiranno ancora dei razzi da Gaza, o se approverai pubblicamente il terrorismo, o se non ti impegnerai a distruggere i tunnel aggressivi sotto il territorio di Israele, allora ti faremo questo e quest'altro. A lui non si chiede nessun "atto di buona volontà": la sua volontà è insindacabile. Hamas può mettere tutti davanti al fatto compiuto e "aspettare a vedere l'effetto che fa". "Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu", diceva la canzone, e Hamas deve averla imparata, perché adesso la canta al resto del mondo, il quale, dicendosi fortemente preoccupato per la pace, raccomanda a Israele di favorire il più possibile la formazione dello "stato di Palestina", facendo finta di non sapere che l'obiettivo costitutivo di Hamas, più volte chiaramente espresso, è di distruggere Israele. L'Unione Europea però non vuole distruggere Israele, perché questo non le è concesso dal suo codice morale. Ma come gli ebrei ortodossi durante lo shabbat aspettano che qualche goy li agevoli svolgendo per loro qualche incombenza vietata dalla Torah, così gli stati europei "cristiani" aspettano pazientemente che gli islamici di Hamas, la cui religione non ha certi vincoli morali, anzi ne ha di opposti, svolga per loro il compito sgradevole, ma intimamente desiderato, di far sparire dalla terra quell'antipatico e rompiscatole Stato ebraico d'Israele. Ecco perché l'Unione Europea è dalla parte di Hamas. M.C.


I principi d'Israele

I quattro rabbini uccisi avevano lasciato le delizie dell'occidente. Per servire il Signore con il sorriso e un'agilità da prestigiatori.

di Giulio Meotti

Rav Moshe Twersky
Rav Aryeh Kupinsky
Rav Cary William Levine
Rav Avraham Shmuel Goldberg.
Ogni loro gesto, ogni loro parola rivelava un'antica civiltà e tradizioni filtrate attraverso i secoli. Martedì mattina i loro corpi sono stati trasformati in fontane di sangue dal delirio islamista omicida che gridava "Allah Akbar". Ma a vederli in vita, mentre dondolavano le loro ombre, quei quattro rabbini trasmettevano l'immagine plastica delle scene del Vecchio Testamento. Volevano essere dei "talmid khakham", come quei pii studiosi che fondarono una teocrazia democratica e si ribellarono alla più temibile monarchia autocratica del tempo, l'Egitto. I quattro rabbini israeliani uccisi a colpi di machete nella sinagoga di Har Nof, a Gerusalemme, vivevano con un senso acutissimo della tragedia ebraica. La distruzione del Tempio, il pogrom di massa di Chmielnicki e la Shoah erano fisicamente presenti nelle loro vite. Per questo ai loro funerali non si è parlato di politica e non si sono sentite grida di vendetta, ma i familiari delle vittime hanno ripetuto che "nessuno conosce i piani di Dio". Dicevano "mesirut nefesh", in ebraico autosacrificio. "Il Signore sceglie i suoi figli, dobbiamo rispettare il suo volere".
   Questa compassione infinita, che in loro era come custodita in un involucro di diffidenza e timore, era la grandezza di Moshe Twersky, Aryeh Kupinsky, Cary William Levine e Avraham Shmuel Goldberg. Avevano una bellezza pallida e inafferrabile, intensificata da un vago disprezzo per la sicurezza. Portavano lunghe barbe bianche, l'occhio azzurro sprizzante curiosità, un borsalino nero un po' liso sopra la kippah, dalla quale spuntavano in disordine i riccioli chiari.
   Twersky era l'erede di alcune delle casate che hanno scritto la gloria dell'ebraismo ortodosso. Una vita di studio e preghiera. A chi gli diceva di prendersi una vacanza ogni tanto, Twersky rispondeva: "Non ne ho bisogno, sono sempre in vacanza qui a Gerusalemme". Il nonno materno, il rabbino Joseph Soloveitchik, noto come "il Ray", è quello che durante la stesura della enciclica sull'ebraismo Nostra Aetate, in Vaticano, spinse Paolo VI a reinserire la condanna dell'accusa di deicidio, che era scomparsa dalla bozza di lavoro su pressione delle chiese arabe orientali. L'altro nonno di Twersky, il rabbino Isadore Twersky, ha fondato il centro di studi ebraici di Harvard. "Una famiglia di principi", così l'ha definita Marc Penner, preside della Yeshiva University di New York, la fucina dell'ebraismo ortodosso negli Stati Uniti.
   Pochi giorni prima della strage, il rabbino Twersky aveva spiegato ai membri della sua comunità che potevano essere uccisi in qualsiasi istante: "Dovete essere pronti per il kiddush Hashem (la santificazione del Nome, ndr). Non potete sapere dove. Può succedere a Mosca, a Parigi, a Londra, a New York, a Gerusalemme. Un arabo potrebbe prendere un coltello...". Sapeva di essere nel mirino dei terroristi palestinesi.
   Al primo approccio, il mondo israeliano presenta, talvolta quasi esasperandoli, i caratteri delle più evolute, spregiudicate società occidentali. Alle donne sono aperte tutte le carriere, dalla politica all'esercito; le ragazze fanno venti mesi di servizio militare, pattugliano col mitra a tracolla, la minigonna è l'uniforme delle adolescenti, le edicole espongono al pubblico riviste di audacia svedese, i gay pride sfilano sulla costa. A Har Nof, nella sinagoga della strage, era raccolto l'altro Israele, quello pio, umile, religioso, scuro, la pancia del paese che si snoda fra i popolatissimi quartieri ultraortodossi, le periferie povere e devotissime, le colonie e i grandi quartieri della Gerusalemme sorta dopo il 1967. E' l'Israele ritratto in maniera antipatizzante ma stupenda da Amos Gitai nel film "Kadosh". Nella collina della strage viveva anche Ovadia Yosef, scomparso un anno fa, quel gigantesco rabbino, terribile e magnifico, che aveva conquistato il titolo di "Ma'or Yisrael", la Luce di Israele. Il motto di questa parte del paese è: "Prima la Torah, poi lo stato".
   I quattro rabbini erano forti di matrimoni che durano per tutta la vita ed erano affollati di figli, perché il controllo delle nascite non è contemplato. Vivevano in case di pietra grigia, povere, sovraffollate, come in un'isola preclusa alla storia. Hanno lasciato 24 orfani, tutti avviati a una vita non certo facile nelle scuole di Bnei Brak, il quartiere ultrareligioso della secolarizzata, bellissima e lasciva Tel Aviv.
   Sveglia alle sei e mezzo. Preghiera per ringraziare e chiedere un altro giorno "pieno di significato". Alle sette e mezzo, in classe. Un'ora di preghiera, mezz'ora di colazione e poi tre ore di Talmud. L'ora del pranzo, alle tre del pomeriggio, non è un relax. Gli studenti la usano per andare a convincere gli altri ebrei della bellezza della loro religione. Alle quattro, di nuovo in classe per studiare le leggi-base dell'ebraismo, alle sette preghiera e cena. Alle otto filosofia, poi è permesso studiare con un compagno. Mezzanotte è l'ora del meritato riposo.
   L'attentato alla sinagoga è stato un déjà-vu. Gerusalemme, 19 agosto 2003, l'autobus numero due è pieno di fedeli di ritorno dal Muro del Pianto. Ventitré ebrei saltano in aria con il kamikaze palestinese e le sue uri dagli occhi scuri. Era chiamato "l'autobus della santità". Per molte delle vittime recarsi al Muro era una vacanza, fonte di gioia immensa.
   Gli assistenti sociali e i medici non erano preparati a quello che avrebbero visto. Perché molte delle vittime erano bambini. E perché le vittime erano tutti ebrei ultraortodossi. Come il rabbino Eliezer Weisfish, che apparteneva a una delle più famose famiglie assidiche d'Israele ed era appena stato in Ucraina per onorare la tomba del rabbino Nahman di Braslav, narrato nei libri di Martin Buber. Da anni cercava di avere un figlio, invano. Alla moglie, nel caso che fosse morto, aveva chiesto di essere sepolto con due valigie che contenevano i suoi libri più cari. Come Feiga Dushinksi, che andava a pregare ogni mattina a ciò che resta del Tempio di Salomone. I terroristi l'hanno uccisa sulla via del ritorno. Ogni sabato dava da mangiare a un centinaio di bambini nella sua casa. Come Liba Schwartz, che si sarebbe salvata se non si fosse attardata tanto al Muro per recitare i Salmi. Ma non poteva rinunciare, per nulla al mondo.
   Quando i paramedici cominciano a occuparsi dei cadaveri da sgombrare, sentono il vagito di un neonato. Ma non capiscono da dove viene. Poi si rendono conto che il neonato è sotto quei corpi. I morti lo hanno salvato. Ha tre mesi. Illeso. Sono i giorni di Ellul, il mese della penitenza. Poco lontano di lì, si forma un gruppo di preghiera spontaneo: "Perdonaci, padre dell'Universo, in nome dei neonati che non hanno colpa verso di te".
   Erano fatti di questa pasta i quattro rabbini di Har Nof. Erano tutti "saliti" a Gerusalemme, immigrati che frequentavano una sinagoga di ebrei ortodossi anglofoni. Dicevano di voler "aiutare i sedici milioni di ebrei nel mondo a raggiungere il contatto con Dio e con i Comandamenti". Le parole d'ordine di Twersky erano saggezza (chochmah), comprensione (binah) e conoscenza (daath). Alcuni erano hassidim, gli ebrei del contagio della gioia. Twersky e gli altri stavano nel mondo, ma fuori del mondo. Ma alla danza e all'allegria degli hassidim, i quattro coniugavano anche i rigori della Legge.
   Li vedi ovunque a Gerusalemme, sono sempre di buon umore, si rivolgono agli sconosciuti con il sorriso sulle labbra, si offrono immediatamente di allacciare i filatteri, che arrotolano intorno al braccio con un'agilità da prestigiatori. La famiglia Twersky risale al Baal Shem Tov, il fondatore dell'hassidismo a cui hanno dedicato pagine insuperate Martin Buber, Elie Wiesel e i fratelli Singer. Erano gli eroi di un mondo di semplicità, di schiettezza e di prodigiosa familiarità con Dio; quello stesso mondo che Marc Chagall ha rivelato con la sua arte pittorica. L'educazione e l'assistenza sociale erano le priorità dei quattro ebrei uccisi. Perché in nessun paese cultura e scuola hanno dovuto superare tante difficoltà come in Israele, dove gli immigrati sono giunti da civiltà, tradizioni, ambienti diversi. Nemmeno la lingua li univa, e la maggior parte ha dovuto imparare l'ebraico.
   Non si pensi a biografie edificanti e un po' noiose; al contrario, vibra nelle storie individuali dei quattro rabbini il paradosso di una dismisura che è interamente calata nella concretezza dell'umano, la radicale assenza di astrattezza, il continuo passaggio dalla terra al cielo, una sublimità intinta di umorismo. I rabbini uccisi dai terroristi palestinesi avevano tutti lasciato vite di agi e assimilazione nelle periferie d'occidente.
   Levine erano nato a Kansas City, era il figlio di un avvocato, se ne va in Israele nel 1952, si mette i filatteri rituali e non torna più indietro. Levine, coi suoi nove figli, frequentava il quartiere di Meah Shearim, che significa "cento porte", una fortezza in cui gli ebrei vivono, dormono, lavorano con la Bibbia e il Talmud sotto gli occhi. Non si tagliano le basette e raccolgono i capelli in lunghi boccoli che gli ricadono inanellati dalle tempie, il sabato non accendono luce, né fuoco, pregano in continuazione.
   Il rabbino Kupinsky veniva invece da Detroit, dove era molto noto in città (i genitori insegnavano alla Wayne State University). Kupinsky si era trasferito a Har Nof dalla colonia di Kiryat Arba, presso Hebron, la "città dei Quattro", quella dei Patriarchi ebrei Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, Rebecca e Lea. E' una vita dietro un alto recinto di metallo che corre tutt'attorno alle case, all'ufficio postale, alla scuola, e che divide gli ebrei che stanno dentro da tutto il resto del mondo. Un posto dove la guerra non sta in televisione, ma entra nelle case basse di pietra bianca, nei viali lindi, nella pineta, nei giochi per i bimbi. Per questo è una città dove tutti girano armati, perché gli agguati mortali sono all'ordine del giorno. "Benvenuto al Messia", dice lo striscione giallo che accoglie i visitatori all'ingresso. Fu fondata con la benedizione dei laburisti, non del Likud. Nacque con diciotto abitanti e undici Bibbie. Oggi vengono da tutto il mondo per vivere in quella conca dell'odio e della santità, una sorta di Svizzera ordinata buttata in mezzo all'inferno caotico del medio oriente.
   Il rabbino Goldberg invece era un ingemere chimico di Liverpool diventato consulente degli haredim, "i timorati", che vivono in case senza mobili, indossano calze bianche fino ai polpacci e pantaloni alla zuava su cui calano giacche di forma diversa, dai riccioli laterali che cambiano forma o posizione (lisci o a cavatappo, davanti o dietro le orecchie), con mogli che indossano parrucche e abiti lunghi fino ai piedi coi bottoni d'oro.
   Il rabbino Goldberg era arrivato in Israele nel 1991, mentre gli scud di Saddam Hussein colpivano Tel Aviv, l'Iraq minacciava di "bruciare metà Israele" e gli ebrei tiravano fuori la maschera antigas dalla scatola color kaki che avevano nascosto in un angolo della casa, per esorcizzarla. Goldberg aveva lasciato le idilliache collinette di Golders Green, il quartiere trendy e liberal della middle class ebraica di Londra.
   Quei quattro rabbini erano tutti figli di sopravvissuti, di pogrom zaristi o soluzioni finali naziste, che si sono stabiliti in America ed Europa e hanno continuato a testimoniare il rifiuto della modernità che i loro nonni avevano proclamato nelle campagne dell'Ucraina e della Bielorussia. Per esempio, vestendosi sempre con cappotti e cappelli neri dell'Ottocento e compiendo i loro riti secondo norme antiche e rigorosamente osservate. Hanno studiato a Berlino e a Parigi, hanno letto Proust e Hegel, hanno assaporato il mondo e i suoi peccati prima di dedicarsi completamente alla vita religiosa. Facevano parte di comunità ebraiche che in Unione sovietica più si adoperarono, eroicamente e subendo gravi persecuzioni, per la sopravvivenza dell'ebraismo, costruendo yeshivah, sinagoghe clandestine, bagni rituali sotterranei e organizzando l'emigrazione e la fuga di molti ebrei.
   Quando gli attentatori palestinesi hanno fatto irruzione nella sinagoga di Har Nof, i quattro rabbini non li hanno nemmeno visti, perché i loro occhi erano rivolti a est, raccolti in preghiera verso la città vecchia di Gerusalemme dove un tempo sorgeva il Tempio e l'Arca dell'Alleanza. Sono stati uccisi con indosso i filatteri, le capsule di cuoio contenenti versetti biblici che vanno cinte intorno alla testa e vicino al cuore durante le orazioni del mattino. Gli occhi ancora fissi sul siddur, il libro della preghiera. Su un Salmo: "Questa è la porta di Dio e i giusti vi entreranno".
   Erano davvero i principi di Israele. Le loro treccine, stando a una leggenda polacca, martedì scorso sono state usate dagli angeli per far risalire le anime di questi quattro santi. Il giorno dopo il massacro, alla yeshivah Bnei Torah sulla collina di Gerusalemme ovest, il sangue dei quattro martiri kedoshim era già stato portato via, per essere sepolto assieme ai loro poveri resti. Ma trenta caffettani neri si sono ripresentati alla porta della sinagoga di buon mattino per rendere grazie a Dio. Perché Dio possa tornare a sorridere dopo un giorno brutto.

(Il Foglio, 22 novembre 2014)


Israele, le facili critiche degli italiani

di Alon Altaras

 
David Grossman
Il grande scrittore israeliano David Grossman si trova in questi giorni in Italia per promuovere il suo nuovo e bellissimo romanzo, "Applausi a scena vuota". In occasione dell'uscita di questo libro, molto diverso dai precedenti, egli ha concesso un'intervista a "Sette" del Corriere della Sera. Grossman, come di consueto nel caso suo e di tanti altri scrittori israeliani, ha dedicato parte dell'intervista alla situazione del Medio Oriente, al conflitto israeliano-palestinese e all'ultima estate di sangue fra Hamas e Israele.
   Come risaputo, Grossman è molto critico verso la "miopia" dei governi israeliani, ma in questa intervista mi hanno colpito le sue parole dedicate all'ipocrisia dell'Occidente verso Israele e verso le guerre in Medio Oriente in generale. "Negli ultimi tre anni Bashar Al-assad ha fatto strage dei suoi stessi cittadini. Duecentomila, un genocidio. Quante dimostrazioni avete visto contro di lui? Sulla Siria, uscita dall'agenda internazionale, l'Occidente è ipocrita e indifferente".
Io, come intellettuale che vive fra le due culture, quella italiana e quella israeliana, noto da diverso tempo il senso critico smisurato che si usa in Italia quando si parla di Israele. Certi esponenti della sinistra radicale, come Diliberto (non so se i giovani lettori del blog se lo ricordano), dicevano "io riconosco il diritto di Israele di esistere" come fosse necessario che un politico italiano desse un sigillo di legittimità allo stato ebraico. In molte altre occasioni, per esempio nella seconda guerra del Libano (2006), si bruciavano bandiere israeliane a Milano. Non ricordo nemmeno una bandiera siriana bruciata in nessuna città italiana, e nel caso di Assad si parla di genocidio. Mi sembra umanamente ed eticamente doveroso che chi è sensibile all'occupazione israeliana dei Territori dovrebbe inorridire di fronte a un genocidio di questa portata.
   Troppo facile, mi ha insegnato l'amico scrittore arabo di Acri Ala Hlehel, dedicare tanta attenzione nell'ultimo anno all'Isis e lasciare Bashar Al-assad e il suo governo totalitario a massacrare bambini, donne, vecchi e anche stranieri.
   Un altro campo dove si rivela questo eccessivo senso critico verso Israele sono i commenti sui diversi giornali italiani. Comparare il sionismo all'apartheid è una cosa inacettabile. Parlare dell'esercito israeliano come simile a quello nazista o accusare Israele di "pulizia etnica" sono toni che si sono insinuati nel dibattito politico italiano che riguarda il Medio Oriente.
   Ogni italiano, di sinistra o di destra, ha un lungo elenco etico con cui deve fare i conti. La xenofobia dichiarata della Lega, la criminalità organizzata e il suo disprezzo per la vita umana, che costringe uno scrittore a vivere sotto scorta per un libro pubblicato, gli immigrati disperati che trovano la morte nelle acque territoriali italiane o che lavorano come schiavi nei campi. Ma anche un fatto non meno eclatante rilevato da Furio Colombo su il Fatto Quotidiano del 21 novembre: che in Italia, se sei di genitori stranieri, non basta nascere su questo territorio, crescere su questo territorio, parlare italiano, mangiare italiano, conoscere anche i dialetti del tuo luogo d'infanzia per diventare cittadino. Delle volte questi italiani al 100% aspettano 16, 18 anni prima che questo diritto venga loro riconosciuto.
   Gli scrittori e intellettuali israeliani sono molto seguiti e amati in Italia, tanti dei miei colleghi sono invitati nei maggiori festival di letteratura in Italia anche più d'una volta l'anno. In nessuna occasione qualcuno di loro ha criticato gli "armadi della vergogna", che certi governi italiani hanno chiuso per loro comodità. Quando vengono qua si occupano delle lacune del loro paese e del loro governo, perché così è giusto. Mi auguro di vedere altrettanto senso critico anche nella destra e nella sinistra italiana. A Israele ci penseranno i grandi scrittori e filosofi israeliani.

(il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2014)


La "miopia" dei governe israeliani a cui farebbe riferimento Grossman è niente rispetto alla cecità dei governi europei sulla questione di Israele. Che Grossman cominci forse ad accorgersene, è un buon segno. M.C.


Gabriele Coen in concerto a Cremona, prosegue 'Il violinista sul tetto'

Il terzo appuntamento della rassegna "Il violinista sul tetto", previsto per sabato 22 e domenica 23 novembre, è con la musica yiddish di Gabriele Coen e i violini di Chagall. Una conferenza e un concerto, tra musica e pittura.

 
Gabriele Coen
La rassegna cremonese Il violinista sul tetto rende omaggio a Marc Chagall e alla musica yiddish con un doppio appuntamento: sabato 22 novembre, alle 17:30, nella sala di Casa Elisa Maria (Via Aselli, 63), il musicista Gabriele Coen e il prof. Rodolfo Bona saranno i protagonisti di un incontro dedicato al celebre pittore russo e ai suoi altrettanto famosi violinisti colorati, mentre domenica 23, alle ore 11:00, sul palcoscenico dell'Auditorium del Museo del Violino, Gabriele Coen, in concerto con il suo trio, si esibirà in Yiddish Melodies in Jazz, conducendo il pubblico alla scoperta della penetrazione delle sonorità ebraiche nel mainstream americano e presentando, per la prima volta in chiave contemporanea, brani tratti dal repertorio della musica klezmer e della canzone yiddish che sono poi entrati a pieno diritto nella tradizione jazzistica. Questa appassionante esperienza musicale racconta una parte importante del jazz moderno e il suo debito segreto con la musicalità ebraica. Il klezmer e la musica ebraica est-europea rappresentano da sempre la fusione: sbarcati nel nuovo mondo, i klezmorim, musicisti girovaghi, furono naturalmente portati a confrontarsi con le altre culture, in una dialettica continua tra conservazione della propria identità e assimilazione alla nuova società americana. Sul piano musicale tutto ciò si è tradotto in un nuovo tipo di musica, che coniuga il sound ebraico con le nuove frontiere sonore offerte dal jazz e dalle altre culture musicali presenti negli Stati Uniti. La scommessa è quindi quella di riproporre in chiave contemporanea, attraverso scelte timbriche, armoniche e ritmiche che guardano all'attualità, un repertorio che ha attraversato in modo trasversale tutta la storia musicale del Novecento americano. Nascono così le sonorità à la Tom Waits, le atmosfere coltraniane e le composizioni originali dello stesso Coen.

(WelfareNetwork, 21 novembre 2014)


Attentato a Gerusalemme, l'appello alla non violenza del Rabbino Capo Riccardo Di Segni

ROMA, 21 nov - Questa mattina il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni ha riunito in preghiera i fedeli in seguito all'attentato di ieri a Gerusalemme. All'interno del Tempio Maggiore, dopo la preghiera di Schachrit, ha pronunciato un discorso per stringersi intorno al dolore delle famiglie delle vittime e ripetendo che "non ci piegheremo alla violenza, non rinunceremo a vivere la nostra identità".

(Il Messaggero, 21 novembre 2014)


Merkel: Il riconoscimento della Palestina non è la strada giusta

BERLINO - La cancelliera tedesca Angela Merkel ha sottolineato l'opposizione della Germania al riconoscimento dello Stato palestinese, nonostante alcuni Paesi europei abbiano preso questa decisione nelle ultime settimane. Merkel ha spiegato che Berlino sostiene la soluzione a due stati e "vediamo quanto è difficile, quindi pensiamo anche che il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese non ci farà avanzare" verso questo obbiettivo. Merkel ha aggiunto che è meglio concentrarsi onestamente sull'avvio di colloqui israelo-palestinesi anche se "questo sembra molto difficile nelle condizioni attuali". Il nuovo governo svedese ha riconosciuto ufficialmente uno Stato palestinese lo scorso 30 ottobre. Questa settimana il Parlamento spagnolo ha approvato una risoluzione non vincolante che riconosce uno Stato palestinese, dopo che simili mozioni sono state approvate nel Regno Unito e in Irlanda.

(LaPresse, 21 novembre 2014)


Torino, il Museo fa chiarezza sulla mostra della discordia

Immediata e chiara, è arrivata oggi la risposta del Museo Diffuso della Resistenza di Torino alle sollecitazioni della Comunità ebraica della città. Il Museo ospita in questi giorni una mostra, precedentemente esposta a Roma, che è stata curata dall'UNRWA, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi. Da oggi all'ingresso della mostra è presente un pannello che spiega ai visitatori l'accaduto. Quello che segue ne è il testo integrale:
    "La mostra che il Museo ospita, che è stata inaugurata a Roma nei locali della Camera dei Deputati, è stata curata e organizzata dall' Unrwa (United Nations Relief and Works Agency), l'istituzione delle Nazioni Unite che da più di sessant'anni svolge, per conto di tutta la comunità internazionale, il difficile compito di soccorso ai milioni di profughi palestinesi che vivono a Gaza, in West Bank, in Giordania, in Libano e in Siria. Dell'UNRWA i contenuti della Mostra riportano lo sguardo e il punto di vista. È giusto che i visitatori della Mostra siano informati che la Comunità Ebraica torinese, che è tra i soci del Museo e che ne ha sempre costituito una componente viva ed essenziale, ha espresso una indignata protesta contro i contenuti della Mostra, criticandone il carattere unilaterale, fazioso e pregiudizialmente antiisraeliano. Di fronte a questo contrasto il Museo non può che proporsi come spazio di ascolto, di dialogo e di comprensione tra posizione diverse. L'amicizia per Israele e la difesa del suo diritto alla sicurezza e il riconoscimento del diritto del popolo palestinese a un proprio stato non si escludono l'una con l'altro. È bene ricordarlo in un momento in cui il terrorismo rinnova la sua minaccia in Israele e in tutto il Medio Oriente".
(moked, 21 novembre 2014)


Lodi ai terroristi. Dagli ebrei sos all'ambasciata di Israele

La bufera sulla mostra a Portici. In sinagoga consiglio riunito: aspettiamo le scuse. «Parole inaccettabili in momenti di dolore Ma pronti a incontrare il sindaco».

di Antonio Menna

 
«Una vicenda che ci ferisce ancora di più perché arriva in un momento di grandissimo dolore». Sconcerto e rabbia nella Comunità ebraica di Napoli, dopo la polemica esplosa a Portici sulla scelta della curatrice di una mostra su Gaza, patrocinata dal Comune, di condividere su Facebook un post inglese che definiva «martiri» i terroristi dell'attentato di Gerusalemme. Ieri sera, nella Sinagoga di via Cappella Vecchia, si è riunito il Consiglio comunitario che ha ribadito la durissima condanna per ogni forma di incitamento alla violenza e di difesa di atti terroristici.
   «Si rispettano le idee di tutti ma non si puo accettare che si inneggi a chi compie atti di violenza terroristica così bieca», dice Pierluigi Campagnano, presidente della Comunità ebraica di Napoli. «Siamo in un momento di grande dolore - aggiunge Valter Di Castro, coordinatore dell'Ufficio rabbinico napoletano -. La comunità ebraica intera soffre per quello che è successo a Gerusalemme. Ma a maggior ragione, proprio adesso, nel dolore, bisogna ribadire che non c'è libertà di espressione o di pensiero che possa giustificare un qualunque sostegno a chi ammazza persone inermi; persone che peraltro sono raccolte in un momento di preghiera, com'è avvenuto l'altro giorno nella Sinagoga colpita. La condanna verso chi trova qualunque giustificazione alla morte e alla violenza è netta».
   Sulla polemica è stata allertata anche l'Ambasciata di Israele a Roma. Nelle prossime ore potrebbe esserci una nota ufficiale di protesta della diplomazia israeliana verso la Farnesina mentre sul caso alcuni deputati di varie forze politiche hanno annunciato interrogazioni al governo.
   Dalla Comunità ebraica di Napoli arriva, però, anche un segnale distensivo. La disponibilità ad un incontro nei prossimi giorni con il sindaco di Portici per costruire un momento comune di chiarimento e di confronto. «Abbiamo letto del dispiacere dell'amministrazione comunale per la polemica - dice Campagnano - in tal caso possiamo incontrarci e parlarne». Un patto di amicizia con la città all'insegna della chiarezza delle posizioni e del rispetto reciproco. «Da parte nostra c'è la massima disponibilità - conferma il presidente della Comunità ebraica - alla polemica preferiamo sempre gesti di pace e di chiarezza. Purtroppo ci ritroviamo spesso a fare i conti con posizioni di fanatismo politico che, spesso, poggiano su una conoscenza parziale dei fatti. Non tutti sanno cosa succede davvero su quei territori. C' è anche un problema di corretta informazione. Non contestiamo nessuna opinione. Ciascuno ha il diritto di esprimersi liberamente. Ma un sindaco, un ente locale, deve saper rappresentare tutti. Il sindaco di Napoli è anche il sindaco della nostra cornunità. Il sindaco di Portici deve saper rappresentare anche noi».
   «Io ci sono stato sotto le bombe - ricorda Valter Di Castro, che sostituisce temporaneamente il Rabbino capo a Napoli (Scialom Bahbout ha lasciato a maggio per guidare la Comunità di Venezia) - avevo quindici anni ed ero nella Sinagoga di Roma il 9 ottobre del 1982, quando un attentato uccise un bambino di due anni e ferì 37 persone. Ero lì in preghiera e mi ricordo di quella improvvisa ondata di terrore e morte. Chi inneggia a questi fatti, chi definisce martiri i terroristi, non sa di cosa parla. Trucidare persone inermi è la negazione assoluta di Dio».

(Il Mattino, 21 novembre 2014)


Come laurearsi in negazionismo: "I palestinesi? Vittime e pacifisti"

A Torino lezione di propaganda: la tesi di due studentesse racconta gli ebrei come schiavisti. E la prof se ne va.

di Nadia Muratore

 
La professoressa Daniela Santus
TORINO - Gli ebrei sono sionisti, sono in Palestina da dopo i pogrom zaristi per sfruttare la manodopera araba e nessun cenno agli attentati palestinesi contro i civili israeliani.
   Sono queste alcune delle riflessioni presenti in una tesi di laurea che hanno scatenato critiche e veleni al Dipartimento di Lingue, all'Università degli Studi di Torino, dove una docente si è rifiutata di presiedere la commissione che avrebbe dovuto laureare le due studentesse che avevano realizzato il lavoro: «Ho agito spinta da un senso di responsabilità e di coerenza verso il mio lavoro e la mia coscienza, certo non credevo di suscitare tutto questo clamore semplicemente per aver espresso il mio parere». Cerca di gettare acqua sul fuoco, Daniela Santus, la docente di geografia all'Università di Torino che, come ha scritto su Facebook: «Ho chiesto di non presiedere alla laurea di due studentesse che hanno presentato un lavoro sulle città palestinesi», uno sfogo che i motivi del suo gesto: «Ne ho discusso con la commissione e, dopo che il direttore Francesco Panero ha proposto di sostituirmi, me ne sono andata».
   Daniela Santus presiedeva al posto della professoressa di Storia Ada Lonni, relatrice della tesi finita nell'occhio del ciclone, dal titolo «Percorsi classici e letterari di città palestinesi». «Mancava la relazione della collega - ha spiegato - ho sfogliato i testi, diversi ma complementari, con una bibliografia prevalentemente araba e vi era una premessa storica nella quale, leggendo velocemente, ho letto frasi e concetti che non condivido». Le parti incriminate dalla docente, che non fa segreto di essere filo-israeliana, sono molte, tra queste l'affermazione secondo cui vi era un piano di sgombero della Striscia di Gaza, ma senza cenno alcuno dell'avvenuta evacuazione. Gli altri prof hanno considerato poco rilevanti queste considerazioni, anche se la stessa professoressa Lonni, nella presentazione dei testi, spiega che si tratta di un «lavoro buono, con alcune considerazioni di cui sono responsabili le autrici». «Non volevo rovinare la discussione con domande scomode, - prosegue Santus - però non me la sono sentita di firmare la certificazione di laurea».
   Molti i professori che avrebbero voluto rimandare la discussione di qualche giorno, poi la sostituzione della docente e l'arrivo della relazione della professoressa assente, hanno sbloccato la situazione: «Voglio precisare - conclude la docente - che non me ne sono andata per aver giudicato la tesi filo palestinese, un lavoro si giudica sulla sua scientificità e correttezza storica non sull'essere filopalestinese o filoisraeliana ma ho notato omissioni ed inesattezze che, per coerenza, non potevo avvallare. Le due signorine sono state gratificate con 6 punti: a parte le inesattezze, il loro lavoro doveva essere esemplare, le mie felicitazioni. Spero che, nel frattempo, si siano accorte che gli insediamenti ebraici sono stati davvero evacuati dalla Striscia di Gaza, che gli ebrei reduci dai pogrom nella Russia zarista non sono emigrati in Palestina allo scopo di sfruttare a basso costo la manodopera araba, che non si tratta solo di retorica israeliana se non si ha tuttora la pace e che le migliaia di vite ebraiche perse negli attentati compiuti dai palestinesi hanno avuto il loro peso».

(il Giornale, 21 novembre 2014)


Il "negazionismo del Tempio" che spiana la via all'ISIS

L'attuale ondata di terrorismo palestinese è il culmine di decenni di "revisionismo storico" antiebraico alimentato da Arafat e Abu Mazen

Due arabi, con in testa il proposito di fare una strage, hanno fatto irruzione martedì mattina in una sinagoga di Gerusalemme armati di pistole e mannaie. Sono riusciti a uccidere quattro fedeli ebrei e a ferirne diversi altri prima di essere abbattuti dalla polizia.
Subito i mass-media hanno etichettato l'attentato come una vendetta per la morte, domenica sera, di un autista di autobus arabo (dipendente della società israeliana Egged). L'esame autoptico condotto lunedì alla presenza di un medico legale arabo ha mostrato che il defunto si era suicidato impiccandosi. Ma famigliari e propagandisti palestinesi hanno continuato a sostenere che era stato assassinato "dagli ebrei". Ne sono seguiti violenti scontri per le strade.
In realtà, proteste e scontri contro quelli che vengono percepiti (e propagandati) come "crimini israeliani" sono in corso da mesi. Ogni singolo incidente ha la sua specifica definizione, ma fanno tutti parte di quella che chiamerei "l'intifada del Monte del Tempio"....

(israele.net, 21 novembre 2014)


Tel Aviv vince il premio come miglior Smart City del 2014

La quarta edizione dello Smart City Expo World Congress di Barcellona si è concluso con la premiazione di Tel Aviv come Best City del premio World Smart City Awards.
L'evento mondiale dedicato alle città intelligenti organizzato annualmente dalla fiera di Barcellona ha visto quest'anno la partecipazione di oltre 10.500 visitatori e 400 città, diventando il più internazionale della storia.
La città più grande dello Stato di Israele è stata giudicata la miglior smart city del 2014 per le diverse iniziative portate avanti dall'autorità locale per migliorare il dialogo e la partecipazione dei cittadini. Grazie alla distribuzione di massa della tecnologia wi-fi estesa gratuitamente a tutta la città e ad un sistema affinato di geolocalizzazione, Tel Aviv ha creato il modello Digi-Tel, una piattaforma destinata a trasformare la città in un punto di riferimento elegante e pioneristico dei nuovi modelli di partecipazione pubblica sotto il profilo dello sviluppo urbano e dell'economia partecipata.
Oltre alla rete di telecomunicazioni, il sistema Digi-Tel mette a disposizione dei cittadini una serie di App appositamente studiate per la città che consentono di monitorare in tempo reale le più svariate situazioni quotidiane come lo stato del traffico, i lavori stradali, le stazioni per il bike-sharing più vicine, i promemoria inviati dalle scuole, gli eventi culturali, fino ad arrivare agli sconti offerte dalla città per partecipare agli eventi pubblici.
Oltre al premio come miglior Smart City assegnato a Tel Aviv, l'evento catalano ha premiato Copenhagen come vincitore della categoria "Progetti" per 'Copenhagen Connecting: Driving Data to Quality Service' un innovativo sistema di gestione urbana guidato dalle priorità socio-economiche costruito sull'uso in tempo reale dei servizi offerti dalla città e sulle esigenze dei cittadini.
Mentre l'agenzia nigeriana Mobicure si è classificata prima nella categoria "Iniziative" per 'Omomi' un insieme di strumenti basati su tecnologie mobili sul modello OMS che permette ai genitori nigeriani di monitorare la crescita dei propri figli, di conoscere le tappe mediche più importanti e condividere la propria esperienza con quella degli altri genitori.

(Rinnovabili.it, 21 novembre 2014)


Servizi israeliani: sventato un piano di Hamas per uccidere Lieberman

Tre palestinesi volevano sparare alla sua auto con lanciagranate

GERUSALEMME - Il servizio di sicurezza interna israeliano Shin Bet ha annunciato che le forze di sicurezza hanno arrestato un gruppo di Hamas in Cisgiordania che intendeva uccidere il ministro degli Esteri israeliano, il "falco" Avigdor Lieberman. Tre persone che sono state arrestate "raccoglievano informazioni sul convoglio del ministro" nei suoi viaggi avanti e indietro dalla sua casa nella colonia in Cisgiordania di Nokdim e tentavano di procurarsi un lancia granate Rpg con cui prendere di mira l'auto del ministro.
  Una nota dello Shin Bet, enmessa ieri in tarda serata, afferma che i palestinesi Ibrahim el-Zir, Ziad el-Zir e Adnas Tzabih, tutti del villaggio di Harmala, nei pressi di Nokdim, sono stati arrestati, ma non indica quando. Durante l'operazione di guerra israeliana di giugno-luglio a Gaza Ibrahim el-Zir "ha cominciato a formulare un piano per attaccare il convoglio del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, con l'intenzione di mandare un messaggio a Israele e fermare la guerra a Gaza". "Negli ultimi giorni" gli arrestati sono stati incriminati da un tribunale militare della Cisgiordania di associazione a delinquere per commettere omicidio e associazione a delinquere per traffico d'armi.

(asknews, 21 novembre 2014)


Così è nato l'Iron Dome

Parla l'inventore dello scudo che ha fermato i razzi di Hamas: «II segreto? Non ragionare come fanno i militari»

Colloquio con Daniel Gold di Gianluca Di Feo

 
Daniel Gold
Non è una semplice arma, ma qualcosa che ha cambiato il modo stesso di fare la guerra. L'estate scorsa, la cupola anti-razzi di "Iron Dome" ha sostanzialmente neutralizzato la capacità palestinese di attaccare Israele, stravolgendo ancora una volta la situazione in Medio Oriente: mentre Gaza veniva bombardata senza sosta con centinaia di vittime, la popolazione ebraica ha subìto danni molto limitati. Un cambiamento che per la prima volta ha messo in crisi i punti di forza dei conflitti asimmetrici, quelli che in passato hanno visto i grandi eserciti tecnologici sconfitti da milizie come Hezbollah, Hamas, Al Qaeda, i talebani e infine lo Stato Islamico.
   Eppure il sistema anti-missile israeliano non è un'idea nuova. La struttura è semplice: un radar scopre gli ordigni in arrivo e li segue, poi vengono scagliate delle armi che li abbattono. È la stessa impostazione usata dagli anni Cinquanta in poi per tentare di fermare le ogive nucleari sovietiche. Quei programmi però duravano decenni, richiedevano installazioni colossali, costi multimiliardari e soprattutto portavano a risultati molto dubbi. Mentre ora Iron Dome disintegra il 90 per cento dei razzi nemici, usando batterie semoventi che possono spostarsi ovunque ed è diventato operativo in meno di sei anni: un successo talmente clamoroso da stupire, e in qualche modo addirittura intimorire, lo stesso Stato ebraico.
   ll padre di questa rivoluzione ha 51 anni e ha lasciato da pochi mesi il servizio attivo nelle forze armate israeliane: adesso è un generale della riserva, pronto a rimettere l'uniforme in caso di necessità. Daniel Gold si muove per le strade di Milano da solo, come un qualunque turista, senza scorte né auto blindate nonostante sia ritenuto l'artefice dell'ultima disfatta palestinese. Non ha nulla di militaresco: la testa calva e gli occhi in continuo movimento riportano alla mente gli scienziati stereotipati nelle vecchie pellicole di fantascienza. Una laurea in ingegneria elettronica e una in gestione d'impresa lo hanno portato a dirigere gli studi dell'aviazione nel settore fondamentale: le contromisure per accecare radar e comunicazioni nemiche. Poi alla fine del 2004 è diventato il capo di tutto il dipartimento ricerca e sviluppo delle forze armate ebraiche. Un anno dopo ha cominciato la sua battaglia personale per creare "Iron Dome". «Non è stato facile, nessuno credeva che si potesse realizzare un apparato antimissile efficace», racconta a "l'Espresso": «Tutti pensavano che ci sarebbero voluti parecchi anni per metterlo a punto e che le spese sarebbero state gigantesche. Io invece ero convinto che ci fossero soluzioni a portata di mano. Per mesi e mesi ho bussato a tutte le porte, ho parlato personalmente con i ministri e i comandanti dei quartieri generali. Ho anche paventato di essere pronto a trovare finanziamenti privati pur di andare avanti. Finché nell'estate 2005 mi hanno concesso i primi fondi per impostare il progetto».
   Un anno esatto dopo, l'offensiva in Libano contro Hezbollah si è trasformata in un incubo per il Nord di Israele. Le potenti milizie sciite hanno lanciato 4 mila razzi, proseguendo i tiri notte e giorno, incuranti degli aerei con la stella di Davide. Gli ordigni hanno ucciso 44 civili, costringendo 250 mila persone a evacuare la regione e un altro milione a vivere rinchiusi nei bunker. Una lezione che ha spinto il governo israeliano a dare la massima priorità a "Iron Dome". «Dovevamo bruciare le tappe e costruire un apparato perfetto: non potevano esserci errori. Per questo abbiamo mobilitato i migliori specialisti del Paese: tre-quattrocento persone che hanno lavorato spalla a spalla. C'erano esperti di missili settantenni accanto a ragazzi di venticinque anni, moltissime donne: è stato come coordinare una quindicina di start up che dovevano convergere su un unico risultato. E ci siamo riusciti».
   "Iron Dome" è entrato in azione nel 2011, sei anni dopo l'inizio del progetto. Durante l'operazione contro Gaza della scorsa estate, il 90 cento dei razzi diretti contro zone abitate sono stati abbattuti: in un caso ne sono stati intercettati quindici contemporaneamente. «Il nostro segreto è stato quello di avere concepito il sistema con una mentalità da civili, non da militari. I generali si preoccupano di proteggere una base, un aeroporto o un comando ma non gli importa cosa succede intorno. E considerano accettabile una certa percentuale di perdite. Noi invece dovevamo creare una cupola su un'intera città, cercando di impedire qualunque vittima.
   Iron Dome in meno di un secondo calcola la traiettoria dei proiettili in arrivo e stabilisce quali cadranno nelle zone popolate: solo su questi vengono diretti gli intercettori, che disintegrano l'obiettivo totalmente. Lo scorso luglio dei 4.594 ordigni sparati dai palestinesi, in genere molto rudimentali, soltanto 753 puntavano sui centri abitati: settanta sono riusciti a penetrare lo schermo, tutti gli altri sono stati neutralizzati.
   Un miracolo. Con un impatto economico, psicologico e politico senza precedenti nella società di Israele. Per la prima volta in assoluto, la guerra non ha fermato la vita del Paese. La barriera ha dissolto la minaccia dei razzi,permettendo di ignorare quello che accadeva a Gaza. Tutto aperto: uffici, fabbriche, scuole, negozi. "Business as usual", mentre nel 2006 i lanci di Hezbollah avevano creato danni diretti e indiretti per un miliardo di dollari. Il senso di sicurezza ha però fatto calare la guardia. Molti nelle zone a rischio hanno trascurato gli allarmi, rinunciando a scendere nei rifugi: due persone sono morte così; per l'esplosione di uno dei razzi che hanno penetrato la "cupola".

(L'Espresso, 21 novembre 2014)


Torino - La mostra dell'Unrwa. La Comunità ebraica: "Un chiarimento si rende necessario"

Sospensione immediata dell'esibizione della mostra oppure, se questo fosse contrattualmente impossibile, presa ufficiale di distanza dal contenuto della mostra stessa. Perché in caso contrario la Comunità si vedrebbe costretta "ad uscire dalla lunga lista di soci aderenti al museo".
È quanto scrive il presidente della Comunità ebraica di Torino Beppe Segre in una lettera inviata al presidente del Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e delle Libertà Pietro Marcenaro e al suo direttore Guido Vaglio.
La mostra cui si allude è l'esposizione realizzata dall'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, recentemente accolta nelle sale del museo, in cui si espongono le immagini falsificate della barriera protettiva costruita da Israele per difendere la propria popolazione civile dal terrorismo giustapposte ad arte ai monumenti storici delle capitali europee. Un accostamento già denunciato con forza dalla Comunità negli scorsi giorni.
"Il muro, che tale è solo per meno del dieci per cento della sua lunghezza - si legge nel documento - viene ampiamente riprodotto e, allo scopo di ingigantirne gli effetti, viene anche proposto con montaggi fotografici in alcune capitali straniere. È un'operazione di propaganda, falsa e tendenziosa, allo scopo di suscitare condanna emotiva e irrazionale verso lo Stato di Israele, che nulla ha a che fare con l'intenzione documentaria rivendicata dagli organizzatori della mostra. Per contro non vi è alcuna spiegazione che esso fu costruito, dopo anni di dibattito, per bloccare il terrorismo (con più di mille vittime civili israeliane tra il 2000 e il 2005), terrorismo che diminuì in effetti, grazie alla barriera protettiva, del 98% fino al recente inizio dell'Intifada a Gerusalemme".
Scrive ancora Segre: "Perché ospitare una mostra allestita dall'Unrwa che, pur essendo un organismo delle Nazioni Unite, ha notoriamente espresso atteggiamenti antisemiti? Essendo documentati da tempi i programmi di insegnamento improntati all'odio e all'indottrinamento alla distruzione di Israele nelle sue scuole e di collusione con Hamas, riconosciuta come organizzazione terrorista da Unione Europea, Stati Uniti e dalle stesse Nazioni Unite ci saremmo aspettati da parte del presidente del museo una doverosa attenzione per il rispetto del principio di verità dovuto ai visitatori".
È vero che il presidente della Comunità fu informato in anticipo del trasferimento a Torino della mostra ma, prosegue Segre, "unitamente a una dichiarazione di impegno del museo a una attenta verifica". Verifica che non sarebbe stata sufficiente, visto che la mostra viene definita "un atto di propaganda anti-israeliana".
Tra i motivi di fastidio che vengono segnalati il fatto che la copertura della didascalia che riporta il falso storico secondo il quale l'esercito israeliano avrebbe 'massacrato Sabra e Shatila' sarebbe avvenuta "solo dopo una nostra protesta" e non a seguito di una verifica della correttezza del materiale "prima che venisse esposto".

(moked, 20 novembre 2014)

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Il Museo della Resistenza risponde alle polemiche sulla mostra dei rifugiati palestinesi

di Sara Aliberti

TORINO - A nemmeno una settimana di distanza dalla sua inaugurazione, la mostra "Il lungo viaggio della popolazione palestinese rifugiata", ospitata presso il Museo Diffuso della Resistenza e realizzata dal Comitato Italiano per l'UNRWA (la struttura dell'ONU per i rifugiati palestinesi), ha sollevato un polverone di polemiche e accuse.
Ad accenderle sono stati inizialmente gli articoli comparsi su alcune testate, che accusavano la mostra di fomentare l'odio verso lo Stato di Israele. Il tutto col patrocinio del Comune di Torino e della Regione Piemonte.
A smorzare i toni ci ha provato Pietro Marcenaro, Presidente del Museo, che ha stilato un comunicato di risposta indirizzato a Il Foglio, su cui era comparso l'articolo che ha dato il "La" alle polemiche. Nel testo si legge che «la straordinaria documentazione dell'attività (dell'UNRWA ndr) di questi decenni, conservata a Gaza, è stata dichiarata patrimonio dell'Unesco. Con queste premesse, non vi era e non vi è alcuna ragione per cui il Museo - che porta nel suo titolo Museo della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà - dovesse rifiutare la proposta di una mostra sull'attività dell'UNRWA, basata su quella documentazione». E rispetto alla didascalia sbagliata riferita al massacro di Sabra e Chatila si specifica che, appena rilevato l'errore, la stessa «è stata cancellata e sostituita da una corretta».
«Non discuto il giudizio sulla mostra, sulla quale il giornalista esprime legittimamente un'opinione diversa dalla nostra - aggiunge Marcenaro - ma al Museo della Resistenza gli ebrei torinesi e la loro Comunità si sono sentiti e continueranno a sentirsi a casa loro».
Ma l'appello rivolto dalle pagine de Il Foglio alla Comunità ebraica affinché prendesse parola non è rimasto inascoltato a lungo e oggi il Presidente Beppe Segre ha annunciato che la stessa aveva preso in esame la mostra sui rifugiati palestinesi, trovandosi in profondo disaccordo con la maggior parte del materiale esposto. L'UNRWA viene definito nella lettera della Comunità Ebraica un organo che «ha notoriamente espresso atteggiamenti antisemiti», nelle cui scuole si indottrinerebbe alla distruzione di Israele.
E così i toni invece che smorzarsi si scaldano nuovamente, arrivando addirittura alla richiesta della Comunità ebraica riportata a chiare lettere da Segre: «sospendere l'esibizione della Mostra o, se questo fosse contrattualmente impossibile, prendere ufficialmente le distanze dal contenuto della mostra stessa».
Per ora, comunque, l'esposizione si trova ancora nei locali del Museo di corso Valdocco, dove è possibile visionare il viaggio dei rifugiati basato su fotografie storiche, testi e video che ripercorrono la storia dell'esodo del popolo palestinese, uno dei più duraturi della storia contemporanea, fino alla guerra a Gaza della scorsa estate.

(Nuova Società, 20 novembre 2014)


Dunque, una foto del 1982 in cui si trova scritto che "Diverse centinaia di rifugiati palestinesi e altri civili furono massacrati nei distretti di Sabra e Shatila a sud di Beirut dalle forze armate israeliane tra il 16 e il 18 settembre" sarebbe soltanto una "didascalia sbagliata", subito "cancellata e sostituita" non appena "rilevato l'errore". Ma si è capito chi ha commesso l'errore? e quando? chi se n'è accorto? chi l'ha corretto? Evidentemente non l'UNRWA stessa, perché quella scritta è lì da decenni, né il Comitato organizzatore, perché la sostituzione è stata fatta solo dopo segnalazione esterna. Questo significa che gli organizzatori della mostra sono o degli ignoranti o degli impostori in combutta con l'organizzazione antisemita e menzognera UNRWA, uno dei prodotti più evidenti della partigianeria con cui il mondo organizzato guarda e giudica lo Stato d'Israele.
"Con lo status di eterno profugo i paesi arabi gabbano i palestinesi"
"L'Onu e l'Unrwa, la gallina dalle uova d'oro"
"Aiuti a Hamas e la frode Unrwa"


Cucina ebraica, ritualità e tradizione

Incontro con Frida Russi alla Biblioteca di Ancona

 
ANCONA - Miele, datteri e verdure in agrodolce nel giorno del Capodanno ebraico (Rosh Hashanah) perché l'anno sia dolce e abbondante, e cibi fritti in olio e frittelle per la festa del miracolo dell'olio (Chanukkà ). Sono i piatti della cucina ebraica spiegati in un incontro alla Biblioteca Benincasa di Ancona da Frida Di Segni, presidente della locale sezione dell'Associazione donne ebree d'Italia (Adei). L'iniziativa rientra nel progetto 'Ancona e l'eredità ebraica' promosso dal Comune e dalla Regione Marche nell'ambito del Grand Tour Cultura 2014, con il coordinamento Marche Musei Archivi e Biblioteche.
   "La cucina ebraica - ha ricordato Di Segni - deriva direttamente dalle leggi alimentari consegnate insieme agli altri insegnamenti a Mosè sul Monte Sinai, ed è profondamente ritualizzata a partire dalla rigorosa esclusione di alcuni alimenti, animali o pesci considerati impuri". Sono permessi animali erbivori e ruminanti con lo zoccolo diviso in due, i volatili non devono essere rapaci, e tra gli animali acquatici sono concessi solo pesci 'con piume' (il naturalista Linneo non era ancora nato), ovvero le pinne, e le squame. C'è poi la rigorosa separazione tra carni e latticini, e quella delle pentole e delle stoviglie su cui cucinarli e servirli. Regole ferree anche per la macellazione: proibito far soffrire l'animale e cibarsi di sangue, che deve essere eliminato da ogni cibo.
   "La cucina ebraica attuale - ha spiegato Di Segni - riconosce dunque l'importanza non solo religiosa, ma anche culturale della preparazione del cibo Kasher (ovvero che risponde ai requisiti), in grado di trasformare un bisogno primario come l'alimentazione in un vero e proprio rito". A questa esigenza risale anche la preparazione anticipata di alcuni cibi per il sabato (Shabbat), giorno di riposo in cui non si può accendere il fuoco, come la Hallà, il pane del sabato, appunto, bianco semidolce a treccia, o le tagliatelle fredde, variamente condite a seconda dei luoghi.
   Altra caratteristica della cucina ebraica è la sua natura 'povera', con parti di vegetali abitualmente poco usate come le bucce dei piselli o i gambi delle rape rosse, o carni poco pregiate come il collo della gallina farcito di verdure, diventato in seguito un piatto tipico. Tra questi - è la provocazione di Di Segni - anche il famoso stoccafisso all'anconetana, che potrebbe essere stato importato in città dai Marrani, ebrei sefarditi costretti dall'Inquisizione a convertirsi al cristianesimo. Molte di queste ricette, raccolte in edizioni degli anni Trenta, sono oggi consultabili alla Biblioteca Benincasa, grazie ai fondi Del Vecchio, Modena e Terni, pervenuti all'istituto tra il 1959 e il 1974, oggetto di una mostra in programma fino al 14 dicembre. Ma il più antico ricettario della cucina ebraica italiana è stato rieditato da La Zisa, a cura di Ines De Benedetti, col titolo 'Poesia nascosta'.

(ANSA, 20 novembre 2014)


C'è apartheid in Israele?

di Barbara Mella

Testo di una conferenza tenuta a Udine, su invito dell'associazione amicizia Italia-Israele e patrocinata dall'Università degli Studi di Udine.

Il termine "apartheid", da qualche tempo a questa parte, è uno dei mantra più gettonati quando si parla di Israele e, come tutti i mantra, succede piuttosto spesso che venga usato senza sapere esattamente che cosa significhi. È dunque per cercare di fare un po' di chiarezza che ci troviamo qui oggi.
La parola, con la relativa politica, nasce in Sudafrica dove i bianchi, che costituiscono il 20% della popolazione, impongono al restante 80% di popolazione nera e mista un regime di totale separazione - questo è il significato del termine in lingua afrikaans. Tale politica, già almeno parzialmente in atto, viene codificata e istituzionalizzata nel 1948. Non intendo ripercorrere ora tutta la storia del Sudafrica: mi limiterò a ricordare che questa terra fu colonizzata a partire dal XVII secolo da varie popolazioni europee, fra cui predominavano gli olandesi (i boeri, ossia contadini, in lingua olandese) e gli inglesi. E vediamo in che cosa, esattamente, consisteva questa politica....

(ilblogdibarbara.wordpress.com, 20 novembre 2014)


Attentato nella sinagoga: Israele ora è rimasto solo

Distrutta la casa di un attentatore palestinese e Tel Aviv pensa al porto darmi per tutti. Ma Usa ed Europa restano immobili, anzi la Spagna riconosce lo Stato Palestinese.

di Carlo Panella

Carlo Panella
Israele è sola anche dopo la immonda e sacrilega strage di quattro rabbini, uno di 68 anni, massacrati a colpi di accetta mentre pregavano nella sinagoga di Har Nof, il mondo non sa che mettere in campo parole, parole, parole. Nulla per difendere Israele, che - come sempre - deve combattere da sola per la sua esistenza, per il diritto degli ebrei di pregare in una sinagoga. A questo siamo arrivati a 60 anni dalla Shoah. Come fanno le miss ai concorsi di bellezza, tutti i leader d'Europa e degli Usa auspicano «la pace nel mondo».
   Solo i più accorti, anche in Italia, comprendono finalmente che il conflitto che oppone palestinesi e israeliani non è la terra, ma che per i palestinesi e per i musulmani da sempre, dal 1920 è una guerra di religione, un jihad contro gli ebrei. Perché è l'islam a proibire l'esistenza di uno Stato degli ebrei, tanto che 34 Paesi islamici nel mondo non hanno relazioni diplomatiche con Gerusalemme perché non ne riconoscono il diritto all'esistenza per ragioni che nulla hanno a che fare con l'occupazione dei Territori, per la semplice ragione che si sono rifiutati di riconosceme la legittimità nel 1948, 20 anni prima che i Territori venissero occupati.
   Ciò nonostante non una voce si è levata, non quella di Obama, non quella dei leader europei, per stigmatizzare l'orrenda rivendicazione dell'attentato espressa martedì da Hamas. Peggio ancora, si scopre che il Segretario di Stato Usa John Keny è dovuto intervenire con forza su Abu Mazen per spingerlo a condannare la strage nella sinagoga (ieri è morto anche il poliziotto israeliano per primo entrato nell'edificio sacro per fennare la strage). Il leader dell'Anp, che per giorni ha eccitato gli animi dei palestinesi inventandosi false accuse contro Israele, non voleva condannarla. La ragione è semplice: Abu Mazen pochi mesi fa ha formato una coalizione con Hamas per formare un nuovo governo della Anp. Ma le cancellerie occidentali non protestano, non pronunciano neanche il nome Hamas, che ha definito la strage «un atto eroico», con l'ipocrita scusa di non compromettere un loro ruolo di mediazione.
   Il segno orrido della solitudine di Israele si è avuto nella serata stessa della strage della Sinagoga, quando le Cortès spagnole hanno votato un documento, presentato dal Pse, che chiede il «riconoscimento dello Stato di Palestina». Voltando le spalle dall'altra parte quando vengono maciullati ebrei, i parlamentari spagnoli hanno finto di non vedere, non sentire che in quel momento quella risoluzione che intende assegnare ad Hamas il governo di uno Stato, era semplicemente inaccettabile.
   In tanta desolazione morale si distingue la scelta dei sottosegretari italiani Benedetto della Vedova e Sandro Gozi che oggi si recano a pregare nella sinagoga della strage.
   Il premier israeliano Bibi Netanyhau ha riunito ieri il Gabinetto di Sicurezza, ha chiesto a tutti i partiti israeliani, tranne che a quelli arabi (i palestinesi di Israele sono gli unici a sedere in un parlamento democratico nell'area), di fare parte di una coalizione «che combatta il terrorismo».
   Il problema però è che le stragi palestinesi contro civili inermi, con accetta e coltello, o con macchine che investono i pedoni, sono difficilmente contrastabili (una misura allo studio è permettere ai cittadini israeliani - che hanno tutti fatto il servizio militare, donne incluse - di girare con la pistola). La prima misura presa è stata la distruzione dell'abitazione dei due attentatori palestinesi della sinagoga e del disgraziato che giorni fa ha maciullato con la sua auto una bimba ebrea di due anni e una giovane donna a una fermata dell'autobus . Naftali Bennet, ministro dell'Economia di Israele, leader di un forte «partito dei coloni» ha chiesto che si sviluppi un'operazione militare a Gerusalemme Est (il lato arabo della città) per sradicare il terrorismo, ma la misura non verrà adottata, perché di impossibile attuazione. Appoggiata da Hamas, non contrastata da Abu Mazen, la deriva palestinese per far scorrere il sangue di civili ebrei continuerà. E il mondo, al solito, volterà la testa dall'altra parte.

(Libero, 20 novembre 2014)


Israele, destinazione tra sacro e profano

Pubblichiamo di proposito questo invito d'agenzia a visitare Israele, nonostante tutto quello che è accaduto a Gerusalemme in questi giorni. Chi detesta l'odio assassino di chi ha ucciso ebrei innocenti e ama la terra d'Israele avrà un motivo in più per visitarla. NsI

di Marina D'Elia

Un'esperienza che arricchisce ciascun individuo, a prescindere dalla sua fede: visitare Israele è un'emozione per tutti, e il press tour proposto dall'Ufficio nazionale israeliano del Turismo ha fatto assaporare un Paese dagli spunti turistici che basterebbero per mille viaggi diversi.
Per Israele, quello italiano si colloca tra i primi sei mercati esteri: nel 2013 gli arrivi sono stati 175mila, e nella prima metà del 2014 sono cresciuti del 28%. Ben l'85% dei visitatori si ferma a Gerusalemme, e anche per questo è stato deciso di raddoppiare gli investimenti di promozione della città nel nostro paese, tra l'altro pubblicando in italiano molti materiali cartacei e online.

- La capitale religiosa
Eli Nahmias
Il nostro viaggio è da Gerusalemme, capitale religiosa che non lascia indifferenti neppure gli atei più convinti, soprattutto di fronte al patrimonio abbracciato dalle mura della Città Vecchia. Percorrendo i vicoli e le stradine, inoltrandosi tra le animate botteghe che costeggiano il percorso di Gesù verso la crocifissione, arrivando di fronte al Santo Sepolcro che ne conserva le testimonianze, la storia si respira con incredibile intensità. Più volte conquistata, distrutta e ricostruita, la città mostra in ogni pietra i segni del suo passato. E il panorama ne scandisce il riassunto, con le cupole delle chiese e i minareti delle moschee che i secoli hanno visto sorgere le une accanto alle altre.
«La città tuttavia offre molto, anche al di là dei luoghi di interesse religioso», spiega il direttore della Jerusalem Development Authority Eli Nahmias (nella foto). L'offerta di musei ed eventi musicali e culturali è decisamente ricca, come pure quella gastronomica, e viene ora presentata anche in convenienti formule city break proposte in Italia da vari t.o. in pacchetti denominati Gerusalemme città mozzafiato.

- Tel Aviv, la più trendy
Yael Zehori
Per quanto molto diversa da Gerusalemme, anche la seconda meta del nostro viaggio, Tel Aviv, risulta ideale per un city break. Tra le motivazioni per visitarla non si può non citare la sua vita mondana: un terzo della sua popolazione ha tra i 18 e i 35 anni, e si vede, soprattutto in giro di sera. Nei quartieri più trendy, locali e ristorantini per tutti i gusti punteggiano i graziosi viali, e il divertimento vivace è piacevolmente percepibile nell'atmosfera rilassata che caratterizza strade e ambienti. Tel Aviv è però anche una città operosa, una non-stop city dove si concentrano start-up di ogni settore, e Yael Zehori (nella foto), director of tourism del Tel Aviv Global & Tourism, evidenzia anche un altro aspetto che le è proprio: la tolleranza. «La capitale amministrativa d'Israele è infatti una città aperta in ogni senso, dal punto di vista della religione come della sessualità. Basti dire che qui ha luogo un seguitissimo Gay Pride - ricorda il direttore - Il mare inoltre la rende una città ideale anche per lo sport e la vita all'aria aperta, complice il clima felice, i 120 km di piste ciclabili e la spiaggia come parte integrante della città».
A Tel Aviv il concetto di ospitalità viene declinato in ogni modo: ne sono un esempio i suoi spazi pubblici allestiti con chaise longue e scaffali di libri, che li trasformano in biblioteche en plein air. Un ottimo modo per vivere la città è girare in bicicletta tra gli edifici in stile Bauhaus che le hanno fatto meritare l'inclusione nel Patrimonio mondiale dell'Umanità Unesco. E poi magari addentrarsi a piedi in uno dei tanti, suggestivi mercati di prodotti locali, come quello di Carmel, o il mercatino delle pulci di Giaffa (e, a proposito, il porto di questa storica località è una visita da non perdere, soprattutto di sera).
È davvero difficile elencare in poche righe tutti i motivi per visitare Israele, ma forse a riassumerli meglio è la sensazione che i suoi luoghi ti lasciano: il desiderio di tornarci.

- Ospitalità up level
Shmuel Zurel
Secondo Shmuel Zurel (nella foto), direttore generale della Israel Hotel Association, «tra le circa 400 strutture ricettive del Paese, per una capacità totale di 46mila stanze, un terzo è classificabile nel segmento più alto. Nel complesso il tasso medio di occupancy è del 66%». Il press tour è stato ospitato a Gerusalemme dall'Inbal Jerusalem Hotel: ben posizionato rispetto ai principali siti d'interesse, è l'unica struttura israeliana appartenente al prestigioso Preferred Hotel Group ed è stata votata Best Hotel in Israel dai lettori di Condé Nast Traveler. A Tel Aviv, il modernissimo Crowne Plaza Tel Aviv City Center, dallo squisito interior design, è invece ideale per lo shopping.

- Dall'italia con El Al
Compagnia di bandiera nata nel 1948, El Al Israel Airlines nel 2013 ha fatto viaggiare circa 2,2 milioni di persone, con un load factor dell'82,9% dei suoi 37 Boeing dedicati al trasporto passeggeri. L'eccellente servizio a bordo propone menu che rispettano le indicazioni della cucina kosher. Dall'Italia, in autunno-inverno, El Al opera 21 voli per Tel Aviv alla settimana (nove da Malpensa, 10 da Fiumicino e due da Venezia). Che arrivano a 30 in primavera-estate.

(Agenzia di Viaggi, 20 novembre 2014)


Attentato di Gerusalemme, quello che i media non dicono

di Maurizio Del Maschio

Prima di qualsiasi riflessione sugli scenari aperti dall'ultimo atroce attentato di Gerusalemme, occorre precisarne i retroscena. I media, al solito, non riferiscono mai il quadro completo della situazione.
   Da settimane in Palestina si è lanciata la notizia che gli ebrei intendono ricostruire il Tempio sulla spianata delle moschee. Come di consueto, si propaga una notizia falsata. In realtà, vi sono rabbini che rivendicano il diritto degli ebrei di pregare sull'area che fu sede dei due antichi santuari ebraici, diritto che vorrebbero fosse esteso anche ai cristiani che considerano quel luogo teatro di vicende importanti legate alla vita di Gesù e degli apostoli. Sarebbe un segno di ecumenica tolleranza e apertura nei confronti di tutte e tre le religioni monoteiste. Ma gli arabi ritengono quell'area, denominata Aram as-Sharif, "Recinto Nobile", di esclusiva pertinenza islamica, in quanto quello sarebbe il luogo da dove Maometto salì al cielo in groppa al cavallo alato Buraq per ricevere la conferma della rivelazione coranica. Ciò si basa su un'interpretazione di un oscuro versetto aprente la XVII Sura coranica che dice: "Gloria a Colui che rapì di notte il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Lontano, dai benedetti precinti per mostrargli alcuni dei nostri Segni". Il libro sacro dell'Islàm non nomina mai Gerusalemme, neppure trattando della "Moschea Lontana". Essa è stata successivamente identificata proprio con la moschea Al-Aqsa (La Lontana) di Gerusalemme. Non è sostenibile che Maometto sia stato portato alla moschea Al-Aqsa, dal momento che a Gerusalemme, al suo tempo, non c'era neppure una moschea. È più logico pensare, seguendo la maggioranza dei più antichi saggi islamici, che il trasferimento sia avvenuto dalla Kaaba della Mecca al Tempio "più remoto", il luogo di preghiera degli angeli in cielo. A conferma di tale affermazione si adducono altri versetti coranici di origine meccana (Sure VI,35; VII, 205; XV, 14-15; XXXIX, 75). Dal momento che è l'angelo Gabriele ad istruire Maometto e che fu Maometto portato da lui e non viceversa, questa interpretazione non solo appare la più plausibile, ma valorizza maggiormente la trascendenza della rivelazione coranica.
   Sul già citato versetto coranico (Sura XVII, 1) si basa, oggi, la rivendicazione da parte degli estremisti islamici su Gerusalemme. Nell'ottobre 2002 lo shaìkh Abd al-Raziq (1888-1966), della moschea Ijlin di Gaza, nel suo sermone del venerdì, il giorno della solenne preghiera settimanale islamica, affermò: "Adoratori di Dio, questo viaggio del Profeta dalla Mecca a Gerusalemme ci guida e fa sì che noi difendiamo scrupolosamente Gerusalemme e al-Aqsa, e porta tutte le nazioni del mondo arabo e tutte le nazioni islamiche a rifiutare con determinazione e condannare ciò che Bush, quel folle, ha fatto firmando l'annullamento della risoluzione delle Nazioni Unite in cui si afferma che Gerusalemme è una città occupata e che i territori occupati devono tornare ai loro proprietari". Ancora, lo shaìkh Ibrahim Madhi, della medesima moschea di Gaza, ha affermato:
    "Siamo convinti che questa guerra, tra noi e gli ebrei, continuerà sino a che conquisteremo gli ebrei ed entreremo a Giaffa come conquistatori. Non aspiriamo solo a uno Stato palestinese con Gerusalemme come capitale, ma miriamo alla creazione di un califfato islamico con Gerusalemme come capitale".
Ciò prova lo sfruttamento politico della religione, al punto che lo Sheikh di Al- Azhàr Muhàmmad Sayyìd al-Tantawi (1928-2010), Gran Mufti del Cairo da alcuni considerato un "moderato", è arrivato persino a negare che il Tempio ebraico fosse sulla Spianata delle Moschee: "Le affermazioni israeliane sono false e mirano a trarre in inganno l'opinione pubblica mondiale", trascurando la circostanza che non sono gli Israeliani, ma è la scienza internazionale a concordare che lì si ergeva l'antico Santuario sin dal tempo di Salomone.
   Un punto di vista diverso è quello dell'editorialista egiziano Ahmàd Muhàmmad Arafa che ha messo in dubbio niente meno che la versione ufficiale dell'esegesi islamica: "Al-Aqsa è una forma di superlativo che significa "la più distante". Quindi, il luogo al quale venne trasportato il Profeta era una moschea e non un luogo dove sarebbe stata costruita in seguito una moschea. Doveva trattarsi, quindi, di un edificio precedente, in quanto quella moschea venne costruita solo nell'VIII secolo dal califfo omayyade Abd al-Malìk, perciò ben oltre la morte di Maometto. In Palestina a quei tempi non esisteva alcuna moschea che avrebbe potuto essere la moschea più distante dalla moschea al-Haràm alla Mecca" (situata attorno alla Kaaba, n.d.r.). "A quel tempo a Gerusalemme non c'era nessuno che credesse a Maometto e che si sarebbe raccolto a pregare in un luogo che fosse adibito a moschea. La maggior parte degli abitanti della Palestina erano cristiani, con una minoranza di ebrei".
   Arafa ha messo in dubbio anche il verbo che in italiano traduciamo come "rapì di notte", affermando che l'interpretazione migliore sarebbe invece "lo spostò di nascosto da un luogo di pericolo a uno più sicuro". Il riferimento non è alla Palestina, ma alla dimora angelica di Gabriele.
   Due settimane dopo il suo articolo, il giornalista ha precisato che la moschea Al-Aqsa e la Cupola della Roccia erano state costruite dal califfo per distogliere i fedeli dall'andare alla lontana Mecca per non esporre i suoi sudditi alla propaganda a lui avversa, svolta dal suo nemico Abd Allàh al- Zubayr che controllava La Mecca, nei confronti dei pellegrini che si recavano nei suoi territori per assolvere al dovere del pellegrinaggio. Per non correre rischi, pensò di creare un santuario più vicino e controllabile. Comunque, la direzione della preghiera rimase la Mecca, non Gerusalemme, evidenziando la connotazione storico-politica e non religiosa dell'edificazione dei due ammirabili edifici di culto gerosolimitani.
   Questo, in Occidente, non lo sa quasi nessuno, ma la verità, alla fine trionfa sempre, perché è essa che rende liberi.

(Online News, 20 novembre 2014)


«Agli autori del massacro è stato fornito un appoggio logistico e propagandistico»

Intervista di Osvaldo Migotto a Ugo Volli

Sull'attacco alla sinagoga di Gerusalemme abbiamo rivolto alcune domande al professor Ugo Volli, ottimo conoscitore della realtà israeliana.

 
Ugo Volli
- L'attentato è stato rivendicato dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina di ispirazione marxista. Le dice qualcosa questo gruppo?
  «Bisogna innanzitutto vedere se vi sia davvero questo gruppo dietro l'attacco terroristico, perché non sempre le rivendicazioni coincidono con la realtà dei fatti. Comunque va sottolineato che l'attacco è stato approvato con gaudio da Hamas ed esaltato nella pagina Facebook in arabo di Fatah, che è il partito di Abu Mazen. Esiste dunque una rivendicazione collettiva, anche se vi sono delle prese di distanza necessitate da parte dello stesso Abu Mazen. Ad ogni modo il Fronte popolare di ispirazione marxista è una delle componenti dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina, che è per così dire la casa madre dell'Autorità palestinese. È un gruppo che ha sempre partecipato all'attività terroristica palestinese».

- È stato colpito un rione ortodosso sefardita, ciò ha un significato particolare per gli estremisti palestinesi?
  «Un paio d'anni fa era stata colpita anche una scuola religiosa di tipo aschenazita, ma secondo me l'obbiettivo specifico non è particolarmente significativo, se non per il fatto che si colpiscono delle persone in preghiera e quindi indifese, in quanto non si portano strumenti di autodifesa dentro un luogo di preghiera. Si tratta di una scelta fin troppo facile, e l'obiettivo è quello di colpire un luogo religioso, perché i terroristi palestinesi parlano sempre di ebrei, non parlano di israeliani. E quindi per loro è particolarmente significativo colpire una sinagoga, un luogo di preghiera».

- Gli autori dell'attacco, è stato detto, sono due cugini. Ciò lascia immaginare che si tratti di un attentato organizzato in proprio, oppure è più probabile la pista di un'azione organizzato dall'alto?
  «Le due cose non si escludono. Vi sono delle analogie con quanto accaduto la scorsa estate con il rapimento e l'uccisione di tre ragazzi israeliani. Anche in quel caso gli autori della brutale azione facevano parte dello stesso clan. La società palestinese è organizzata in famiglie allargate che sono poi clan o tribù, e che spesso hanno riferimenti politici esterni. A me sembra abbastanza chiaro che gli autori dell'attacco alla sinagoga hanno avuto un appoggio logistico, visto che possedevano delle armi, e comunque sono stati appoggiati sul piano propagandistico e su quello dell'approvazione collettiva. Pertanto c'è un clima politico di appoggio a queste azioni terroristiche».

- Netanyahu accusa le autorità palestinesi di incitare alla violenza e denuncia la passività della comunità internazionale. Ma come intervenire se sia israeliani che palestinesi non accennano alla ripresa di un negoziato?
  «Sì, ma il problema è che la comunità internazionale e in particolare l'Unione europea sta mandando segnali sbagliati ai palestinesi. Il Governo svedese, il Parlamento britannico e, a quanto pare, anche il Parlamento francese e quello spagnolo stanno riconoscendo lo Stato palestinese proprio mentre si susseguono gli attentati contro Israele. Rammento che ci sono stati otto morti anche la scorsa settimana. Quindi in qualche modo i Paesi UE che riconoscono lo Stato palestinese sembrano voler premiare questo tipo di azioni terroristiche. Si riconosce lo Stato Palestinese senza porre alcuna condizione. E questo comportamento secondo me rasenta la complicità. Si tratta di atti pericolosissimi perchè si procede al riconoscimento di uno Stato senza pensare che in questo momento la Palestina è governata da un Esecutivo in cui convergono sia il partito di Abu Mazen che Hamas, ossia un'organizzazione che la stessa UE ha bollato come terroristica. Ed è questo il problema che Netanyahu mette in evidenza».

- Il premier israeliano ha annunciato una dura risposta. Seguirà il solito copione mediorientale di violenze in risposta a violenze?
  «Va precisato che il Medio Oriente è in preda alle azioni di un movimento violentissimo da quattro anni. Un movimento che ha finora causato 200 mila morti e continua a fare circa mille morti alla settimana in Siria, investe l'Iraq, lo Yemen, la Libia e minaccia l'Egitto nel Sinai. In una tale situazione non bisogna abbassare la guardia. Solo la presenza di un Governo che agisce e punisce gli assassini da tutte le parti può garantire che in Israele e nei Territori palestinesi non si scateni una violenza di tipo siriano. Le autorità israeliane la scorsa estate hanno infatti catturato anche i criminali che hanno ammazzato quel ragazzo arabo e li hanno messi sotto processo. Quindi non vi deve essere la minima indulgenza nei confronti di attività criminali come il terrorismo».

(Corriere del Ticino, 20 novembre 2014)


La condanna a denti stretti di Abu Mazen (costretto da Kerry)

A parte il presidente, nessun altro esponente palestinese è disposto a condannare la strage alla sinagoga di Gerusalemme

Il Segretario di stato Usa John Kerry e il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) nel loro recente incontro ad Amman
Per la prima volta dall'inizio dell'attuale ondata di attentati terroristici a Gerusalemme, il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha diffuso martedì una condanna dell'ultimo di tali attacchi.
Abu Mazen è stato costretto a condannare l'attentato alla sinagoga di Har Nof dopo aver subito forti pressioni da parte del Segretario di stato americano John Kerry, che negli ultimi giorni aveva telefonato già due volte al presidente palestinese per chiedere che i palestinesi cessino la loro campagna di istigazione all'odio anti-israeliano. Martedì Kerry ha lanciato un vero e proprio appello alla dirigenza dell'Autorità Palestinese perché condannasse l'attentato alla sinagoga di Har Nof....

(israele.net, 20 novembre 2014)


«Gloria ai martiri palestinesi», bufera sulla mostra di Portici

A Portici diventa un caso il post condiviso sulla bacheca di un social network dall'orgamzzaursce della mostra su Gaza. A poche ore dall'attentato di Gerusalemme compare una foto dei due attentatori e una didascalia con la scritta «gloria ai martiri». Poi altre immagini dell'attivista con persone armate. Evento pagato dal Comune, l'organizzatrice su Facebook loda i terroristi. Gli agenti della Digos a Villa Savonarola e in municipio per acquisire informazioni.

di Maurizio Capozzo

Rosa Schiano festeggia in mezzo ai terroristi di Hamas

PORTICI - Doveva essere un'iniziativa destinata a favorire il dialogo tra i popoli, ma alla fine si è trasformata in un caso intemazionale. Protesta la comunità ebraica, con echi in tutto il Paese, per una mostra fotografica dal titolo «Gaza tra assedio e speranza» organizzata nel Palazzo della Cultura su iniziativadall'assessorato alle Politiche Giovanili nell'ambito della settimana dell'autodeterminazione e della pace varata dal Comune.
   A scatenare lepolemiche del mondo politico e la reazione indignata della comunità ebraica di Napoli, un post condiviso sulla bacheca di un social network dall'organizzatrice della mostra, Rosa Schiano, fotoreporter attivista dell'Intemational Solidarity Movement, un gruppo fondato nel 2001 per sostenere la causa palestinese nel conflitto israelo-palestinese. A poche ore dall'attentato di Gerusalemme nel quale due palestinesi armati di asce, coltelli e armi da fuoco hanno preso d'assalto una sinagoga durante la preghiera del mattino, causando sei feriti e sette morti, compresi i due attentatori uccisi dalle forze di sicurezza, compare una foto dei due attentatori con accanto un'ascia insanguinata e la didascalia, in inglese, «gloria ai martiri, la vittoria sarà inevitabilmente nostra». In una immagine del profilo Rosa Schiano appare accanto un gruppo armato in una manifestazione di un gruppo palestinese.
   Il post ha fatto il giro della rete scatenando le proteste del gruppo Amici della comunità ebraica di Napoli, fondato da Emilio Di Marzio, dell'associazione Italia Israele, presieduta da Giuseppe Crimaldi e della intera comunità ebraica presieduta da Pierluigi Campagnano. Dell'accaduto è stata informata l'ambasciata d'Israele a Roma mentre in mattinata agenti della Digos si sono recati a Portici nella sede della mostra per compiere accertamenti sulla vicenda. La mostra fotografica ieri mattina era chiusa ed il portone del palazzo della Cultura è rimasto sbarrato per cronisti e fotografi. Nel cortile della villa l'assessore alle Politiche Giovanili, Valentina Maisto e il consigliere Mauro Mazzone. Entrambi hanno evitato ogni commento sulla vicenda e rinviato ad un comunicato stampa ufficiale dell'Amministrazione. Ma, ormai, il caso era scoppiato.
   In pomeriggio, sempre attraverso la sua bacheca nel social network, l'organizzatrice della mostra si è dichiarata "sconcertata" della relazione creata tra l'attentato di Gerusalemme e la sua mostra fotografica, ipotizzando "ragioni politiche" dietro l'indignazione della comunità ebraica. La Schiano ha aggiunto: "Trovo assolutamente scorretto strumentalizzare un post non scritto da me e che non ho neppure commentato. Utilizzo la mia pagina Facebook principalmente a fine informativo, con quel post, condiviso da una pagina inglese, ho voluto esclusivamente sottolineare a fine informativo, far comprendere al pubblico italiano il modo in cui molti palestinesi vivono certi avvenimenti, non condivido il gesto estremo dei due attentatori. Non condivido in alcun modo l'agguato a civili inermi".
 
Rosa Schiano
   Ma ad alimentare le polemiche erano state anche altre frasi pubblicate direttamente dall'attivista che poco dopo l'attentato di Gerusalemme scriveva che «a seguito dell'agguato nella sinagoga per ore i telegiomali parleranno di terrorismo ed isoleranno tale agguato dal contesto in cui è avvenuto. Vedrete che nessun giornalista parlerà della colonizzazione, soprusi, violenze che hanno portato all'esasperazione e ad una esplosione di rabbia da parte dei palestinesi».
   In serata il Comune ha diffuso una nota per annunciare il rinvio a sabato pomeriggio «di un dibattito già programmato per la giornata di domani (oggi per chi legge, ndr) dal titolo "Crisi umanitarie e ruolo internazionale dei movimenti giovanili - reportage dalla Palestina, dal Kurdistan, dall'Africa e dal SudAmerica", invitando alla partecipazione anche rappresentanti del gruppo "Amici della comunità ebraica di Napoli" e dell'associazione "Italia Israele"». Un gesto distensivo in un momento estremamente delicato, «convinti che solo il dialogo e il confronto tra popoli possano costituire la via per la risoluzione dei conflitti internazionali» - scrive l'Amministrazione Comunale.
   Stasera la comunità ebraica di Napoli si riunirà nella sinagoga di via Cappella Vecchia per discutere del caso e valutare tutte le iniziative da adottare, come conferma il presidente, Pierluigi Campagnano, mentre le reazioni del mondo politico ed istituzionale si moltiplicano.

(Il Mattino, 20 novembre 2014)


In Israele il terrorismo paga
Ottimo articolo!


di Stefano Magni

Se è possibile avere qualcosa di peggio di un crudele attentato, questa è la reazione all'attentato stesso. Il terrorismo va avanti se i terroristi sono convinti che la loro azione paghi. E il messaggio lanciato dalle autorità palestinesi prima e dalla comunità internazionale poi, indica solo che il terrorismo paga.
   L'ultimo attentato, quello del 18 novembre, non ha neppure la dignità di un'azione terroristica. È stato un massacro, commesso con armi da mattatoio, in una sinagoga di Har Nof, sobborgo di Gerusalemme, che ha portato all'uccisione di quattro rabbini raccolti in preghiera e di un poliziotto (un druso) che ha cercato di proteggerli. I due attentatori sono stati uccisi a loro volta. Non sono stati colpiti bersagli militari o della polizia, come sempre nel caso del terrorismo. E, come sempre dall'inizio di questa nuova ondata di attentati, gli attaccanti hanno colpito di sorpresa con armi improprie, civili fra i civili che all'improvviso si trasformano in assassini.
   I due attentatori erano fra i 1000 prigionieri liberati dalle carceri israeliani in cambio del rilascio di Ghilad Shalit. Ancora una volta la percentuale di recidiva dei terroristi si dimostra altissima, quasi totale. Ma perché, appunto, le loro azioni sono "paganti".
   Reazione di Hamas: "Siamo alle porte di una vera e propria Intifada innescata da Gerusalemme, al-Aqsa e dalle colonie. I martiri innocenti (sic!), ultimi dei quali Ghassan e Ouday Abu Jabal sono i fari che illuminano la soglia" di questa nuova "Intifada benedetta". "A nulla serviranno i tentativi di far abortire questa Intifada".
   Reazione di Abu Mazen, presidente dell'Autorità nazionale palestinese: "(L'Anp, ndr) ha sempre condannato la morte di civili da ogni parte e condanna oggi l'uccisione di fedeli in una sinagoga a Gerusalemme ovest". E intanto il profilo Facebook del suo partito, Al Fatah, si riempiva di congratulazioni agli "eroi" della sinagoga, pubblicava vignette antisemite e festeggiamenti vari. L'Anp foraggia regolarmente i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, garantendo loro stipendio, aiuti alle loro famiglie e una promozione nelle forze di polizia o nella burocrazia. Una volta usciti di galera, come i due
La violenza antisemita che si sta scatenando in questi mesi dovrebbe suggerire che l'obiettivo di Hamas (dichiarato dal loro statuto, per altro) è quello di sterminare gli ebrei, non quello di dare l'indipen- denza alla Palestina.
stragisti della sinagoga, sono sicuri di avere piena copertura per sé e per le proprie famiglie. Importa addirittura poco che il governo israeliano distrugga le loro case (come è puntualmente stato ordinato dopo il massacro del 18 novembre), perché l'Anp non lascerà sole le loro famiglie. Reazione di Federica Mogherini, nuova alta rappresentante della politica estera Ue: dopo aver espresso una condanna d'ufficio all'uccisione di civili, ha fatto appello ai leader della regione: "perché lavorino insieme e facciano il possibile per calmare la situazione ed evitare ulteriori escalation". L'Alto rappresentante aggiunge inoltre che "la mancanza di progressi verso una soluzione a due stati sistematicamente genererà altra violenza. Per questo chiede che si trovino compromessi e che si eviti che l'assenza di un quadro politico credibile sia usato strumentalmente e determini l'ulteriore radicalizzazione delle posizioni politiche e religiose". La solita tesi, dunque, che questa violenza sia provocata dall'assenza di una soluzione politica. Che poi è sempre la stessa: due popoli, due Stati. Eppure la violenza antisemita che si sta scatenando in questi mesi, almeno a partire dal giugno scorso, dal rapimento di tre ragazzini ebrei, studenti di una scuola rabbinica, dovrebbe suggerire altro. Dovrebbe suggerire, per esempio, che l'obiettivo di Hamas (dichiarato dal loro statuto, per altro) è quello di sterminare gli ebrei, non quello di dare l'indipendenza alla Palestina. Il problema non è un mancato riconoscimento territoriale e politico, ma l'esistenza e la proliferazione di gruppi estremisti islamici, da Hamas all'Isis, che non tollerano l'esistenza di altre religioni. L'Ue, invece, continua nella sua politica di sostegno dello Stato palestinese e destina 450 milioni di euro alla ricostruzione di Gaza, città completamente controllata da Hamas. Che sicuramente saprà usare quei fondi al meglio delle sue capacità: contro Israele.
   Reazione del parlamento spagnolo: lo stesso giorno del massacro nella sinagoga, ha approvato all'unanimità una risoluzione, non vincolante, per il riconoscimento della Palestina come Stato indipendente. Il Congresso è il terzo parlamento europeo a pronunciarsi in tal senso, dopo quelli di Gran Bretagna e Irlanda. Ironia della sorte: lo stesso giorno in cui approvava l'indipendenza della Palestina, lo stesso parlamento spagnolo prendeva in esame la richiesta di oscurare un sito web reo di aver dato copertura al referendum per l'indipendenza della Catalogna.
   Dal punto di vista di un palestinese, di un qualunque estremista islamico, il terrorismo contro gli ebrei paga. Se muore, va in paradiso e sa che i suoi familiari non saranno lasciati soli. Se vive, avrà comprensione e riconoscimento internazionali. Per questo, il terrorismo non si fermerà.

(L'Opinione, 20 novembre 2014)


Israele in un angolo

di Giacomo Kahn

È una condizione molto sgradevole quella di trovarsi in un angolo, con le spalle al muro. Non vi sono vie di fuga, l'unico modo per uscire dall'impasse è uno scatto in avanti, forte, veloce, però non senza rischi. Questa metafora si adatta alla situazione che Israele sta vivendo. Non è una condizione militare: da quando lo Stato ebraico fu fondato è sempre stato accerchiato da paesi e popoli o dichiaratamente nemici, o tiepidamente dialoganti. Da un punto di vista della 'sicurezza' quindi nulla di nuovo, se non per il fatto che i nemici di Israele sono oggi molto più forti, dispongono di armi sofisticate - anche non convenzionali - sono animati non da un desiderio di riconquista delle terre, non di riparare a torti subiti, ma sostenuti da una ideologia religiosa che non concede spazi di dialogo o compromessi con "l'entità sionista". Il progetto di Hezbollah, Hamas, Fratelli Musulmani, Isis, jihadisti, ayatollah iraniani è assolutamente semplice: non c'è spazio per Israele nella terra della Mezzaluna, gli ebrei possono vivere come 'dimmi' (cittadini protetti ma con minori diritti), ma lo Stato degli ebrei deve essere cancellato, che sia al di là o al di qua della cosiddetta linea verde del 1967. Il radicalismo islamico, con forti componenti anche nella società palestinese, non si accontenta della riconquista della terra persa a seguito della Guerra dei sei giorni, ma mira alla conquista di tutta la terra persa con la caduta dell'Impero Ottomano.
   Questa aspirazione - che diventa per i musulmani radicali, una jihad, un comandamento divino - non può conoscere compromessi, non può essere oggetto di trattativa, tutt'al più di una 'hudna', una tregua, che viene accolta solo in una chiave tattica (come insegna il Corano: l'hudna si accetta unicamente quando si è in condizioni di inferiorità; può essere rotta in qualunque momento e serve unicamente a riarmarsi per portarsi in condizione di superiorità e riprendere il combattimento).
   In questa situazione senza alternative, con Hamas che lentamente si riarma beneficiando di milionarie elargizioni dei Paesi Arabi del Golfo e con l'Isis che annuncia l'istituzione del califfato nel Sinai come "il primo passo sulla strada dell'invasione di Gerusalemme", ci si può meravigliare che le trattative israelo-palestinesi siano ferme? E' palese e comprensibile che Israele non si fidi e voglia le garanzie e la sicurezza che la cessione di nuovi territori anziché portare la pace, non rafforzi gli estremisti islamici.
   Ci si aspetterebbe quindi che il mondo - anche davanti alle immagini delle violazioni dei diritti umani e della violenza senza freni, a Gaza come in tutti i Paesi islamici - comprendesse le preoccupazioni del governo israeliano. Sembrerebbe persino ovvio che le diplomazie internazionali premessero sull'Autorità palestinese perché prenda le distanze dalle violenze, dal terrorismo e dalla invocazione di una guerra santa per liberare la spianata delle moschee a Gerusalemme. Invece Israele viene accusata - anche dal suo principale alleato americano - di essere paurosa, di non avere il coraggio di fare la pace (l'amministrazione Obama ha addirittura definito Nehanyahu un "chickenshit", una 'cacca di gallina', un "codardo" che pensa solo alla sua sopravvivenza politica). È questo il vero angolo nel quale Israele è stato schiacciato: incapace a spiegare le sue ragioni, vive un crescente isolamento internazionale, ed è costretto ad assistere al successo di una diplomazia palestinese che porta a casa crescenti riconoscimenti, senza pagare alcun prezzo alla trattativa, senza dover dare nulla in cambio. La Palestina infatti ormai esiste, esiste dal 2011 per l'Unesco, dal 2012 per l'Onu come stato osservatore, esiste per 138 Stati fra cui la Svezia. E non basta davanti a questo processo di riconoscimento 'gratuito' - fatto senza stabilire, come la logica vorrebbe, quali saranno i confini tra i due stati - a questa enorme pressione che Israele subisce, liquidare la situazione con una battuta, come ha fatto il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che alla decisione di Stoccolma ha così reagito: "Il governo svedese deve comprendere che le relazioni in Medio Oriente sono più complicate del montaggio dei mobili di Ikea e che occorre agire in questo settore con responsabilità e sensibilità". È da questo angolo diplomatico che Israele deve saper uscire, rompendo l'accerchiamento, imponendo una sua agenda e una sua opzione. Dall'angolo si può e si deve uscire ma occorrerà forza e determinazione.

(Shalom, novembre 2014)


Avi Mizrachi, ebreo Sabra , israeliano, intervistato da Ivan Basana

- I.B.: Il prossimo mese sarai con noi a Catania per il 13o Raduno Nazionale EDIPI, alla vigilia di una recrudescenza nello scenario arabo-israeliano con il pericolo di una III intifada; qual è la tua posizione?
  A.M.: Io credo nella riconciliazione. L'unica speranza per lo Stato d'Israele è che gli Arabi e gli Ebrei si riconcilino e diventino un Solo Uomo Nuovo nel Messia.

 
Avi Mizrachi
- I.B.: Questa tua convinzione viene da un vissuto particolare che hai avuto con la tua famiglia fin dagli inizi dello Stato di Israele. Ce lo vuoi raccontare?
  A.M.: Nel 1947, quando Israele era ancora sottoposto al dominio britannico, mio padre arrivò sulle coste di Tel Aviv a bordo di una nave proveniente dalla Bulgaria. Fu immediatamente arrestato e imprigionato perché a quel tempo agli Ebrei non era permesso di entrare in questa terra. Dopo un anno venne rilasciato e combatté nella Guerra d'Indipendenza. La famiglia di mia madre arrivò in nave dalla Bulgaria, nel 1948. Il quel periodo tutte le persone che immigravano in Israele dalla Bulgaria, dalla Turchia, dalla Grecia, da Cipro e dagli altri paesi, venivano sistemate in tende o nelle case abbandonate dagli Arabi a Jaffa. Io nacqui proprio a Jaffa e fui allevato in questa città. I miei genitori parlavano il ladino o lo spagnolo; mia mamma parlava anche l'arabo con i nostri vicini. Cominciai a frequentare una scuola per studenti Ebrei e Arabi. La vita in Israele durante gli anni 50', era molto dura. Non c'erano opportunità di lavoro e i viveri scarseggiavano. Era ancora più difficile per i miei genitori, perché loro non conoscevano bene l'ebraico. Dopo la nascita della maggiore delle mie sorelle, mia madre cadde in depressione molto profonda. Era tornata nella sua patria, ma si ritrovava senza lavoro, senza provviste, senza la possibilità di comunicare bene in ebraico e per di più, suo marito si era arruolato nell'esercito lasciandola da sola con un bambino. Non riusciva proprio a tirare avanti, e arrivò perfino a considerare l'opzione del suicidio. Poi, qualcuno gli disse che c'era un rabbino, che forse avrebbe potuto aiutarla. Lei si recò alla Sinagoga per incontrarlo. Non appena ebbe terminato le sue preghiere del mattino, il Rav. Daniel Zion si diresse verso di lei e la salutò, cominciando a parlarle in spagnolo. Mia madre gli disse che non voleva continuare a vivere e che era molto depressa. Lui pose le sua mani sulle spalle di mia madre, pregò per lei e le diede un libro. Le disse: "leggi questo libro stasera, e torna a vedermi domani."
Quel libro era il Nuovo Testamento. Mia madre lo lesse e Yeshua toccò il suo cuore quella stessa notte. Lei diede la sua vita al Signore e venne alla fede. Il giorno successivo tornò dal Rav. Daniel piena di gioia. Presto si unì al gruppo di studio biblico che il rabbino conduceva segretamente. Alcuni anni più tardi anche mio padre divenne un credente.

- I.B.: La storia del Rabbino Daniel Zion meriterebbe di esser trattata, più ampiamente, a parte, ce la vuoi comunque sintetizzare?
  A.M.: In effetti il racconto della conversione del Rav. Daniel Zion è una storia formidabile. Lui era il Rabbino Capo della Bulgaria negli anni 40'. Un suo amico, che era un prete nato di nuovo, diede al Rav. Daniel una Bibbia affinché la leggesse. Il rabbino strappò il Nuovo Testamento dalla Bibbia e disse al suo amico che non avrebbe letto quella parte. Il suo amico replicò: "No, devi assolutamente leggerla. E' un libro ebraico ed è molto interessante. Se poi non ti piace potrai ridarmelo." Daniel Zion accettò la sfida e lesse il libro , scoprendo che la Bibbia era davvero un libro ebraico! Lo toccò così profondamente che si inginocchiò accanto al suo letto e pregò al Dio di Abraamo, d'Isacco e di Giacobbe di mostrargli la verità. Poco dopo, Yeshua gli apparve e il Rav. Daniel capì immediatamente che Lui era il Messia.
Il Rav. Daniel Zion era un personaggio molto popolare e influente i Bulgaria. Quando i Nazisti stavano esigendo la deportazione degli Ebrei, lui scrisse una lettera personale al re Boris della Bulgaria, nella quale affermava che se il re avesse cooperato con i Nazisti, Dio avrebbe domandato conto del sangue degli Ebrei dalle sue mani. E' un fatto storicamente risaputo che il re Boris rimandò indietro a Hitler i treni vuoti. Fu così che la maggior parte degli Ebrei in Bulgaria sfuggirono ai campi di concentramento.

- I.B.: La tua conversione a Yeshua fu comunque successiva a quella di tua madre e tua sorella, come andò in particolare la cosa?
  A.M.: Io prestai servizio nella Forza Aerea israeliana per quattro anni, dopo il servizio di leva nell'Aviazione, andai in America per visitare mia sorella. La mia intenzione era quella di esplorare gli USA, di andare a Las Vegas, di fare tanti soldi e di non tornare più in Israele. Una sera mia sorella, che era credente, mi invitò ad accompagnarla in chiesa. Io non volevo andarci. I monaci, le suore, i monasteri avevano tutti a che fare con il Cristianesimo e io non volevo avere niente a che fare con quello stile di vita, ma mia sorella mi convinse ad andare e alla fine la seguii in chiesa. Rimasi sconvolto da quello che scoprii. Mi accorsi che erano persone che avevano un vero amore per Dio, per Israele e per il popolo ebraico. Venni provocato ad una forte gelosia. Quando una delle sorelle presenti parlò dell'amore di Dio, il mio cuore fu colpito. Quella notte, mi rinchiusi nella mia stanza e invocai il Signore chiedendo il perdono e la redenzione dei miei peccati. Fu così che diedi la mia vita a Yeshua e lo accettai come mio personale Salvatore.

- I.B.: L'incontro con Yeshua stravolse i tuoi piani esistenziali, cosa successe infatti dopo?
  A.M.: La decisione della mia vita cambiò con quella decisione. Mi iscrissi ad una scuola biblica e poi tornai in Israele. Mi trasferì a Tel Aviv e iniziai a ministrare a tempo pieno in una delle congregazioni locali. Per diversi anni, fui pienamente coinvolto nei programmi nazionali di evangelizzazione. Tramite questi programmi, lavorai insieme a molti altri credenti arabi a Haifa e nei dintorni.

- I.B.: Si potrebbe definire un efficace apprendistato spirituale alla luce di quanto stai realizzando ora per l'avanzamento del Regno di Dio.
  A.M.: Si, vivo infatti con la mia famiglia in un insediamento ebraico situato all'interno di Tel Aviv. Credo che Dio ci abbia portato qui al fine di pregare per la città più popolata di Israele. Tel Aviv è il centro del commercio, degli affari, della moda e dello spettacolo. E' anche un posto al quale accorrono molte persone per trovare lo scopo e il significato della vita. E' un posto importante, e Dio mi ha guidato a proclamare la Buona Novella di Yeshua in questa città. Attualmente sono uno dei pastori della Congregazione Adonai Roi (Il Signore e il mio Pastore) e il Direttore Esecutivo del Centro Messianico per l'Evangelizzazione Dugit, a Tel Aviv. Dugit - una parola ebraica che significa - piccola barca da pesca - è un ministero che cerca di raggiungere le persone per le strade di Tel Aviv mediante la musica, danza, teatro, volantini e l'evangelismo personale. Il Centro Digit è situato proprio nel centro della città; è un posto dove le persone possono visitarlo in ogni momento per trovare ristoro e comunione. Questo ministero distribuisce anche una varietà di materiale e risorse per l'edificazione del corpo del Messia. Dugit è davvero un faro per le pecore smarrite della casa d'Israele.

- I.B.: E' veramente incoraggiante tutto questo e hai qualche testimonianza in particolare da comunicarci?
  A.M.: Nel corso degli ultimi anni, questi due ministeri hanno agevolato e favorito molte occasioni di riconciliazione tra Arabi e Ebrei. Una giovane ebrea, stanca della religiosità stava cercando di capire intensamente il significato della sua fede in Dio. Lesse un articolo su un giornale, nel quale, alcuni gruppi anti-missionari accusavano i movimenti messianici e avvertivano le persone a non visitare il locale Dugit, al n.o43 di Fishman Street di Tel Aviv. Questo avvertimento risvegliò la sua mente curiosa e venne da Gerusalemme per "dare un occhiata"a questo posto. Si dà il caso che quel giorno, una giovane credente araba stesse raccontando la storia del suo incontro con Yeshua e della sua scelta di dare la sua vita a Lui. Questa testimonianza di una credente araba che credeva nel Messia Ebraico , tocco questa giovane ebrea così profondamente che diede, a sua volta, la vita a Yeshua. Queste due ragazze avendo entrambe sperimentato un incontro con Yeshua, svilupparono un'amicizia duratura.

- I.B.: Un bell'esempio di come la questione arabo-israeliana si possarisolvere con l'unico denominatore comune: Yeshua! Ma come pensi si possa incentivare questa strategia?
  A.M.: Spesso cediamo il nostro pulpito ai pastori arabi provenienti da diverse regioni del paese. Regolarmente realizziamo dei programmi di scambio co una congregazione araba di Jaffa. Spesso celebriamo degli incontri di preghiera congiunti e celebriamo la Cena del Signore insieme. Nella nostra congregazione abbiamo anche dei membri palestinesi; uno di loro proviene dalla Riva Occidentale e da un ambiente musulmano. E' strano vedere un arabo palestinese in una congregazione di lingua ebraica ed è sicuramente un grande incoraggiamento vedere Ebrei e Arabi insieme che adorano.
Quando andiamo ad evangelizzare per la strada con i credenti arabi della nostra comunità, la gente ci guarda sbalordita e perplessa; rimane sconvolta quando vede degli Arabi ed Ebrei che condividono insieme l'amore di Yeshua. Questo è un esempio vivente che gli Ebrei e Arabi possono effettivamente amarsi ed accettarsi a vicenda e insieme essere una benedizione in mezzo alla terra.
Personalmente ho viaggiato in diverse occasioni con degli Ebrei messianici e con dei credenti arabi in altri paesi del Medio Oriente, per ministrare come unico corpo.
Sorprendentemente, Dio si è servito di noi credenti provenienti da questo paese come costruttori di ponti nella regione. Proviamo una grande gioia per il modo in cui Dio ha operato in mezzo a noi per guarire e rettificare i nostri cuori, individualmente e collettivamente.

- I.B.: E' veramente un lavoro importante quello che state portando avanti; quali sono i problemi più imminenti ed importanti?
  A.M.: La messe è pronta e gli operai sono pochi. Abbiamo bisogno di persone impegnate nel ministero a tempo pieno. Le persone sono smarrite e hanno fame della Parola di Dio. Questo è un tempo buono per diventare pescatori di uomini. Negli ultimi mesi, a dispetto dell'agitato clima sociale che si respira, abbiamo visto moltissime persone rivolgersi a Dio e accorrere a Lui.
Ogni congregazione ha sperimentato la crescita dei propri ministeri. Ci viene ripetuto in continuazione che i locali di culto non sono abbastanza spaziosi e che servono più collaboratori nelle congregazioni. Questo significa che il raccolto è maturo.
Migliaia di musulmani stanno venendo a Yeshua. In mezzo a questo conflitto, Dio si servirà di noi per abbattere lo spirito dell'Islam. Dobbiamo pregare con fervore per il pieno adempimento degli scopi di Dio in questo periodo cruciale. Stiamo vivendo in un tempo di grazia, questo è il momento giusto per ravvedersi.
Questo è il tempo in cui il Corpo di Cristo deve radunarsi per intercedere. Questo è il tempo giusto per costruire delle relazioni con il corpo in Israele - Ebrei e Arabi - intercedendo in preghiera per la Pace di Gerusalemme. Dobbiamo pregare che nasca un risveglio in questo paese e che si propaghi per tutto il Medio oriente. Questo evento cambierà il mondo. Credo che accadrà presto. Io credo nella riconciliazione. Credo che la riconciliazione tra gli Arabi ed Ebrei, mediante il Messia possa portare la Pace a questa terra. L'unica speranza per lo Stato d'Israele è che gli Arabi ed Ebrei si riconcilino e diventino un Solo Uomo Nuovo nel Messia.

- I.B.: Il ministero Dugit di Tel Aviv, la Road Map biblica della riconciliazione, per saperne di più arrivederci a Catania dal 6 all'8 dicembre nel 13o Raduno Nazionale EDIPI.
  A.M.: Si arrivederci a Catania, con mia moglie Chaja porterò fresche e buone notizie da Iraele. Shalom.

(EDIPI, 19 novembre 2014)


"Gerusalemme esige sangue per purificarsi dagli ebrei"

Nei giorni precedenti la strage alla sinagoga, incessante campagna di odio e menzogne ad opera di mass-media e dirigenti palestinesi

Intervistato lo scorso 5 novembre dalla tv ufficiale dell'Autorità Palestinese, il giudice della Suprema Autorità palestinese per la Shari'ah e consulente di Abu Mazen, Mahmoud Al-Habbash, ha dichiarato: «Prima di tutto, permettetemi di dire che noi baciamo ogni fronte, ogni mano e anche ogni piede che conduce la ribat (guerra a difesa delle terre rivendicate dall'islam) alla moschea di al-Aqsa a Gerusalemme. Non sto parlando di rafforzare la loro determinazione. Sto parlando di prendere parte alla loro determinazione. Noi siamo con loro. La dirigenza è con loro. Pochi giorni fa, il presidente [Abu Mazen] li ha salutati, li ha incoraggiati e ha chiesto da loro più ribat. Questa affermazione può aver fatto arrabbiare gli israeliani e l'occupazione: che il presidente inciti i palestinesi di Gerusalemme alla ribat. Sì, noi incitiamo il popolo di Gerusalemme alla ribat. Ribat significa proteggere e mantenere il proprio suolo. Siamo con loro in ogni movimento, in ogni azione e in ogni gesto, e accogliamo con favore quello che stanno facendo alla santa al-Aqsa». (TV ufficiale dell'Autorità Palestinese, 5.11.14)...

(israele.net, 19 novembre 2014)


Ecco gli interlocutori

di Carlo Panella

L'onore per il massacro sacrilegio a colpi di accetta di quattro rabbini dentro la loro sinagoga di Gerusalemme ad opera di palestinesi si moltiplica di fronte alla sua piena rivendicazione da parte di Hamas. Cresce all'infinito di fronte agli osceni dolci offerti in segno di tripudio e festeggiamento dai suoi militanti nella festa subito organizzata in un quartiere di Gaza. Questa è Hamas, a questa banda di assassini, maggioritaria a Gaza e fortissima in Cisgiordania le anime belle vorrebbero consegnare lo Stato Palestinese.
   Perché Hamas è oggi al governo della Autorità palestinese, la stessa Hamas che inneggia alle accette assassine in Sinagoga. E Hamas è al governo in Palestina perché così ha voluto quel «moderato» Abu Mazen che deplora sì l'efferato assassinio, ma essenzialmente perché è avvenuto in un luogo di preghiera. La strage di ieri, la prima in una Sinagoga in tutta la storia tormentata di Israele, dimostra che quel che muove Hamas, e che Abu Mazen tollera, non è antisionismo, non è lotta armata per liberare la terra.
   No, è antisemitismo, il più atroce, il più schifoso antisemitismo che permea tutti i documenti, tutte le dichiarazioni di Hamas. Quella stessa Hamas che Ahmad Assaf il portavoce di al Fatah, il partito che fu di Yasser Arafat e che oggi è di Abu Mazen, ha definito il 10 novembre «l'altra faccia della medaglia dell'Isil di Abu Bakr al Baghdadi. Dichiarazione netta, condivisibile, emessa il giorno dopo una serie di attentati di Hamas contro esponenti di Fatah, diffusa da tutte le agenzie del mondo ma che nessuno ha ripreso, perché «scomoda».
   Scomoda anche per un'incredibile Federica Mogherini che l'8 novembre ha rischiato di non potere recarsi a Ramallah a seguito proprio degli attentati di Hamas contro al Fatah, ma che nella sua prima missione come lady Pesc ha trovato il modo di non deprecare, di non condannare né le decine di migliaia di razzi e missili lanciati, a freddo, dalla Gaza di Hamas contro Israele, né l'assassinio barbaro di tre ragazzini ebrei che Hamas ha rivendicato trionfalmente. Né ieri ha avuto la decenza di bollare con parole di fuoco la rivendicazione dell'eccidio nella sinagoga, limitandosi a parole di circostanza «contro la violenza». Anzi, ha aggiunto che «la mancanza di progressi verso una soluzione a due stati sistematicamente genererà altra violenza». Siamo arrivati all'assurdo del portavoce di al Fatah che paragona Hamas al Califfato nero e di una Mogherini che omette colpevolmente ogni critica ad Hamas e che addirittura vorrebbe consegnargli quello Stato palestinese che invoca.
   Ma la Mogherini non è sola - purtroppo - in una Europa sempre più ignava verso Israele. Dopo la Svezia e la Norvegia, ieri il Pse spagnolo ha presentato al voto una mozione che impegna il governo iberico a riconoscere lo Stato Palestinese. Quello Stato, retto in potenza da una Hamas che rivendica il massacro di 4 rabbini a colpi di accetta! E mozioni per il riconoscimento di questo Stato retto da macellai attendono il voto anche nel Parlamento italiano. Questa è l'Europa di oggi, quella stessa che si commuove al ricordo della Shoà, ma che fa finta di non vedere, anzi supporta di fatto, l'antisemitismo sbandierato da Hamas e da tanti palestinesi e che li spinge a massacrare ebrei inermi.
   Un'Europa che è spesso stata ipocrita con Israele, che nel 1980 riconobbe l'Olp terrorista di Arafat solo per ingraziarsi gli arabi e avere il loro petrolio, ma sino alla presidenza Obama era comunque bilanciata dall'appoggio fermo e incondizionato degli Usa nei confronti di Gerusalemme. Ma oggi, Barack Obama ha interrotto anche quella pluridecennale tradizione che faceva onore agli Usa e ha portato i rapporti con Israele al livello più basso degli ultimi 50 anni. Basti pensare che ieri dopo avere definito «orribile» l'attentato alla sinagoga, ha subito sminuito e relativizzato la condanna affermando che «troppi israeliani e palestinesi sono morti negli ultimi mesi».
   Duplice la ragione di questa ennesima politica fallimentare di Obama in Medio Oriente. Una totale incomprensione delle dinamiche interne al mondo arabo e all'islam, con conseguente totale sottovalutazione della carica di violenza e odio oggi sviluppate da quello scisma islamico salafita a cui si rifanno sia Hamas, che i Fratelli Musulmani, che i seguaci del Califfato nero. Poi, l'arrendevolezza totale e supina all'Iran (l'attentato di ieri è stato esaltato anche da Jihad Islamica, eterocomandata da Teheran), nel vano tentativo di strappare uno «storico» accordo sul nucleare a cui ambisce come suggello della sua presidenza. A tal punto che si appresta ora a chiudere con gli ayatollah un accordo al ribasso, che di fatto permetterà loro di produrre un'atomica, se non ora, tra un anno o due.

(Libero, 19 novembre 2014)


Italia ebraica in raccoglimento

 
Rabbia, dolore, commozione. Sentimenti che attraversano i volti delle molte centinaia di ebrei romani ritrovatisi oggi nelle diverse sinagoghe della Capitale per la preghiera del mattino. Ognuno ha con sé Talled e Tefillim, come li avevano con sé i quattro rabbini barbaramente uccisi ieri a Gerusalemme. Un'immagine potente, una risposta identitaria all'odio del terrorismo palestinese.
"Non ci piegheremo alla violenza, non rinunceremo a vivere il nostro essere ebrei", spiega il rabbino capo Riccardo Di Segni al termine della funzione. Una delle vittime, spiega poi, era imparentata con il rav Joseph Dov Soloveitchik, tra le figure più significative sulla scena dell'ebraismo statunitense e internazionale. Le parole tratte da una derashà dello stesso rav Soloveitchik, cui sono state dedicate in passato importanti iniziative, toccano temi profondamente attuali alla luce della nuova pagina di orrore scritta ieri in Israele.
Presenti in sinagoga, tra gli altri, il segretario della Comunità ebraica Emanuele Di Porto e l'assessore ai rapporti istituzionali Ruben Della Rocca.
Un momento di raccoglimento, pochi minuti dopo, si svolge invece nel cortile della scuola ebraica. Assieme al leader comunitario Riccardo Pacifici, l'ambasciatore di Gerusalemme in Italia Naor Gilon, il ministro israeliano Silvan Shalom e il parlamentare Pd Emanuele Fiano.
Veglie e riflessioni sono in programma nelle prossime ore in diverse sinagoghe e Comunità dell'Italia ebraica. Da Torino a Napoli, da Genova a Trieste. A Milano, tra i vari appuntamenti, ci si ritroverà al Tempio di via Guastalla a partire dalle 19. La convocazione arriva a seguito di una nota diffusa dal presidente della Comunità ebraica Walker Meghnagi e dal rabbino capo Alfonso Arbib.
"Non possiamo non farci portavoce delle ragioni di Israele e del profondo desiderio di pace di tutto il popolo israeliano. Non possiamo non dire a voce alta che Il popolo ebraico ha pagato e sta pagando un prezzo altissimo sulla via della pace e per la propria esistenza. Nel Deuteronomio è scritto 'ed ho posto di fronte a te il bene ed il male, la morte e la vita, e tu sceglierai la vita"'. La forza della speranza e della fede hanno sempre sostenuto Israele e nulla potrà distoglierci dallo scegliere sempre la vita", scrive intanto in una nota il presidente nazionale Adei Wizo Ester Silvana Israel.
"L'auspicio - afferma Simone Disegni, presidente Ugei - è che la politica, anche a livello europeo ed internazionale, sappia trovare la forza di smentire con i fatti da qui in poi tale tremenda involuzione, ponendo come pietra miliare di qualsiasi ulteriore iniziativa il riconoscimento del terrorismo criminale volto a cancellare l'esistenza stessa dello Stato ebraico come nemico numero uno da sconfiggere ed estirpare".

(moked, 19 novembre 2014)


Anche l'Occidente è responsabile della carneficina in Israele

Il folle attacco terroristico contro la sinagoga a Gerusalemme, deriva anche dall'atteggiamento sconclusionato di Ue e Usa. Anche loro hanno sulla coscienza i quattro rabbini uccisi ieri dagli islamici,la cui azione è stata rivendicata da Hamas, ovvero da quell'organizzazione che una parte dell'Occidente legittima. Ma non si può combattere da una parte le decapitazioni dell'Isis, e dall'altra continuare ad accettare gli attacchi terroristici.

di Fiamma Nirenstein

Quei due cugini palestinesi con gli occhi annegati nel sangue, che sono entrati nella sinagoga di via Agassi per sparare alla gente che pregava e farla a pezzi con le mani brandendo coltelli da cucina non sono squilibrati, ma il risultato di una campagna cinica e fanatizzante che ha al suo centro la Moschea di AI Aqsa e Gerusalemme; ma al loro gesto ha contribuito, dispiace dirlo, l'atteggiamento sconclusionato e spastico dell'Unione europea e degli Stati Uniti. Non si può combattere da una parte le decapitazioni dell'Isis, e dall' altra seguitare a considerare gli attacchi terroristici contro gli ebrei di queste ultime settimane come una conseguenza pressoché logica del comportamento israeliano. Le condanne odierne, stanno a zero.
   La condanna di Abu Mazen strappatagli da una telefonata di John Kerry non parla di «terrorismo»: si è limitata a condannare «l'accaduto» e quanto legato all'odio religioso. Dà da pensare la curiosa parentela concettuale fra la dichiarazione di AlaaAbu Iarnal, familiare dei due assassini nel quartiere gerusalemitano di Iabael Mukabaer (in gran festa per l'attacco compiuto mentre i siti sociali si riempivano di immagini di asce insanguinate e di ebrei terrorizzati col naso curvo e lo zucchetto) e le cose dette in queste giorni dai rappresentanti dei Paesi europei. Ha detto Abu Jamal a nome della sua gente: «L'attacco è avvenuto a causa della pressione delle forze occupanti del governo israeliano sul popolo palestinese e specialmente sulla Moschea di Al Aqsa, L'atto compiuto è normale per chiunque sia connesso al suo popolo, al coraggio, all'islam».
   Se si guarda per esempio alle dichiarazioni dei ministri degli esteri dell'Unione europea riunitisi lunedì, fa impressione come per bloccare la violenza a Gerusalemme, invece di concentrarsi sull'enorme mole di bugie propagate anche da Abu Mazen stesso sull' atteggiamento israeliano rispetto alla Moschea di Al Aqsa, cioè che Israele voglia cambiare lo status quo della spianata delle Moschee per cacciarne i fedeli musulmani, i ministri abbiano insistito nel condannare Israele per le costruzioni nei territori; non si chiede ai palestinesi che seguitano a compiere giorno dopo giorno mortali attacchi terroristici a Gerusalemme di «trattenersi da atti che peggiorino la situazione, da incitamento, da provocazioni e dall'eccessivo uso della forza» ma a Israele.
   Intanto la fuoriuscita di notizie su un documento dell'Ue di applicare sanzioni a Israele deve avere confortato la linea della colpevolizzazione senza sosta di Israele. Adesso, Federica Mogherini ha dichiarato che si tratta di notizie vecchie e infondate. Ma l'aria che sale dall'Europa verso Israele non placa gli animi, li convince che i gesti aggressivi verranno compresi, forse giustificati, e che alla fine lo Stato Palestinese nascerà non come una forma di compromesso, ma come una forma di compensazione dovuta. Lo confermano i riconoscimenti dello Stato Palestinese da parte del governo svedese, del parlamento inglese, della mozione per il parlamento italiano e della mozione proprio di ieri al parlamento spagnolo. La scelta difensiva rispetto a un mondo fanatizzato e ostile con cui Israele non cede a facili compromessi territoriali dovrebbe ormai essere chiara anche ai ministri dell'Ue che ieri si sono affrettati a condannare. Se possiamo parafrasare il parente dei due assassini, gli attacchi odierni sono in parte frutto dell'atteggiamento compiacente e debole del nostro mondo verso i palestinesi e Abu mazen, compagno di governo di Hamas, come una vacca sacra.

(il Giornale, 19 novembre 2014)


L'Intifada dei coltelli e i pifferai del terrore. Pogrom a Gerusalemme

Radio, giornali, tv. Non solo Hamas, così i "moderati" di Abu Mazen incitano i palestinesi a uccidere gli israeliani.

di Giulio Meotti

ROMA - Qualche giorno fa sulla prima pagina di al Hayat al Jadida, il quotidiano ufficiale dell'Autorità palestinese, campeggiava un'esortazione: "Spingi il gas fino a 199 km orari. Fallo per al Aqsa". Si incitava a lanciare automobili sui passanti ebrei. Due attacchi simili sono stati compiuti nelle ultime due settimane a Gerusalemme. Ieri, alla Kehilat Bnei Torah di Gerusalemme, due cugini palestinesi della zona orientale
Ebrei ortodossi seppelliscono Rabbi Moshe Twersky dopo l'attacco terroristico a Gerusalemme
della capitale israeliana hanno usato le mannaie per uccidere quattro ebrei raccolti in preghiera. Nell'attentato ha perso la vita il rabbino Moshe Twersky, il nipote del grande Joseph Soloveitchik, il padre dell'ebraismo ortodosso americano.
   Il fondatore delle unità religiose di pronto soccorso, Yehuda Meshi Zahav, ha detto che il massacro di ieri, "con gli ebrei uccisi con i filatteri, i libri sacri, il sangue, ricorda l'Olocausto". L'attacco ha avuto luogo a tre chilometri dal memoriale della Shoah, Yad Vashem. La chiamano "l'Intifada dei coltelli". Idbah al Yahud. Uccidete gli ebrei. "Idbah" è un termine arabo mutuato dal vocabolario dei macellai. Sia Hamas sia il Fronte popolare per la liberazione della Palestina hanno rivendicato la strage. Ieri il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ha condannato l'attacco, ma è stata la sua prima e unica presa di posizione contro il terrorismo che sta insanguinando Gerusalemme, Tel Aviv e la Cisgiordania. Per questo, da Londra, il capo della diplomazia americana John Kerry ha chiesto a Ramallah di fermare la propaganda d'odio contro Israele.
    "Le mani che hanno impugnato le asce erano dei terroristi, ma la voce è di Abu Mazen", ha detto il ministro degli Affari strategici d'Israele, Yuval Steinitz, braccio destro del premier Benjamin Netanyahu. "Chiunque chiami i musulmani a difendere la moschea di al Aqsa con tutti i mezzi contro gli ebrei ha la diretta responsabilità per il pogrom alla sinagoga di Har Nof".
    Da settimane Abu Mazen ha impugnato la bandiera della moschea di al Aqsa al grido di "difendete i luoghi santi islamici" con "tutti i mezzi" dagli ebrei, da lui definiti "mandrie di bestiame".
    Era dai tempi di Yasser Arafat che non si vedeva così tanto incitamento all'odio sui media palestinesi, lautamente finanziati dall'Unione europea. Non soltanto Hamas e Jihad islamico, ma soprattutto Fatah e gli organi di informazione dell'Autorità palestinese del presidente Abu Mazen. Ieri il Congresso ebraico europeo ha chiesto a Bruxelles di vincolare gli aiuti economici a Ramallah con la fine della propaganda antisemita.
    La scorsa settimana, in un video per la televisione palestinese, Abu Mazen ha detto che la presenza degli ebrei sul Monte del Tempio, sacro sia agli ebrei sia ai musulmani, lo "contamina" e deve essere impedita "in ogni modo". Nella funerea pubblicistica palestinese, espressioni come "in ogni modo" e "con tutti i mezzi" indicano il ricorso al terrorismo. Così, mentre una bambina israeliana di tre mesi veniva uccisa in un attentato a Gerusalemme, l'ex premier palestinese Ahmed Qurei dichiarava che Israele pianifica "una invasione su larga scala" della moschea di al Aqsa.
   Il volto di Muataz Hijazi, il terrorista che ha attentato alla vita del rabbino Yehuda Glick, oggi campeggia sulla pagina Facebook di Fatah, il partito di Abu Mazen. Sorride il terrorista, con la cupola della Roccia alle spalle. In una vignetta, Fatah presenta come cani rabbiosi gli ebrei israeliani attorno alla moschea di al Aqsa. Alla televisione ufficiale palestinese, il dirigente di Fatah Muhammad al Biqa'i ha detto che "Gerusalemme ha bisogno di sangue per purificarsi degli ebrei". Poi è passato all'elogio degli ultimi attentatori. Intanto, dal carcere, il più popolare leader palestinese, il dirigente di Fatah Marwan Barghouti, condannato a cinque ergastoli, incita i palestinesi a compiere altri attentati. E' lo stesso Barghouti che in Europa si vede intitolare strade in suo onore (è appena successo a Valenton in Francia).
   Il professore israeliano Elihu Richter ha scritto che le mannaie e le pistole sono l'"hardware del terrore". Ma l'indottrinamento e l'incitamento all'odio sono il "software dei terroristi". Non è la prima volta che un capo palestinese invita la popolazione a "difendere" al Aqsa. Accadde anche nell'ottobre del 2000, quando l'allora leader dell'opposizione israeliana Ariel Sharon fece una visita sul Monte del Tempio (concordata con l'Autorità palestinese) e Arafat la usò a pretesto, definendo una "profanazione" la presenza di ebrei in quel sito, per scatenare la violenza contro Israele. Seguirono cinque anni di terrorismo, linciaggi e attentati suicidi, in cui persero la vita 1.200 israeliani.

(Il Foglio, 19 novembre 2014)


Perché terroristi palestinesi uccidono ebrei a Gerusalemme? Per odio religioso contro gli ebrei di Israele.
Perché stati occidentali riconoscono lo stato dei palestinesi? Per odio laico contro lo stato d'Israele. M.C.


Nella roccaforte araba dell'Est: "Ora sogniamo altri martiri"

A Jabel Mukaber, il quartiere degli attentatori, sono tutti con loro. Netanyahu: "Questa è la battaglia per la città, vogliono cacciarci".

di Maurizio Molinari

 
Un famigliare mostra la foto di Oday (a sinistra) e Ghassan

GERUSALEMME - Bandiere palestinesi sui pali elettrici, scritte inneggianti alla Jihad sui muri scrostati, resti di spazzatura data alle fiamme per protesta e una grande tenda con tappeti verde-rossi per celebrare il lutto come una festa collettiva. Siamo al numero 3 di Salman Al Farisi di Jabel Mukaber, ovvero nella casa della famiglia Abu Jamal a cui appartengono Oday e Ghassan, 22 e 32 anni, autori dell'attentato alla sinagoga di Har Nof. Parenti e amici portano tendaggi e sedie per adornare il luogo della celebrazione della morte.
   A ringraziare tutti a nome della famiglia è Aladin Abu Jamal, 32 anni. «Sono il cugino dei due shahid - dice - e a differenza da quanto dicono tutti non credo che siano morti, sono diventati dei martiri, rendendo onore a chi li ama». Kefiah bianconera attorno al collo, maglietta nera e jeans, Aladin parla attorniato da una piccola folla. «Oday e Ghassan amavano questa terra, lo hanno fatto per la moschea di Al Aqsa e per far capire al mondo che questa è casa nostra e gli ebrei ce l'hanno usurpata». Parla a getto, riscuotendo plausi rumorosi e sguardi ammirati dagli «shabab» - i giovani - che poche ore prima hanno fato battaglia proprio a Jabel Mukaber contro i soldati israeliani, arrivati per arrestare altri famigliari degli attentatori. È Mahmud, zio di Oday e Ghassan, che accusa i militari di «aver portato via 14 parenti, inclusa la moglie di Oday». Gli agenti dello «Shin-Beth», il controspionaggio, cercano informazioni su possibili complici dei due «lupi solitari» ma basta guardarsi attorno per rendersi conto che il sostegno per gli attentatori è ovunque.
   Una donna, sui 40 anni, vestita di nero, si avvicina ai reporter alzando le mani al cielo per gridare «Oday e Ghassan sono tutti nostri figli, speriamo che Allah ce ne dia molti come loro». Siamo a cinque minuti di auto dal cuore della Gerusalemme ebraica, gli Abu Jamal come tutti i 14 mila residenti del quartiere arabo di Jabel Mukaber hanno documenti israeliani e fra questa roccaforte nazionalista palestinese e il quartiere ebraico di Talpiot Est non ci sono barriere né posti di blocco. Basti pensare che i pullman turistici sostano a 800 metri da qui per far vedere ai visitatori il panorama mozzafiato della Città Vecchia. Gli oltre 300 mila palestinesi di Gerusalemme Est costituiscono un vulnus per la sicurezza dello Stato Ebraico perché vivono mischiati agli altri 600 mila residenti ebrei.
   Yoav Nissim, tassista di Talpiot Est, conosce Aladin Abu Jamal e ogni sabato porta i figli a giocare sul prato verde, attorno a una sede dell'Onu, che accomuna il quartiere ebraico a Jaber Mukaber. «Questo sabato non ci andrò, perché il clima in città è cambiato», spiega il tassista, riflettendo il timore per le violenze in crescita. D'altra parte proprio da Jaber Mukaber veniva Naif El-Jaabis, che alla guida di un trattore il 4 agosto scorso si è scagliato contro un bus di linea, uccidendo un 29enne.
   Se durante la Prima e Seconda Intifada i palestinesi di Gerusalemme Est hanno mantenuto un profilo più basso negli scontri con gli israeliani, rispetto agli arabi in Cisgiordania e Gaza, ora sono in prima fila. Mahmud lo dice così: «Se volete sapere perché ho due nipoti martiri, chiedetelo a Netanyahu che vuole strapparci la moschea di Al Aqsa». È proprio Benjamin Netanyahu a dire che «questa è la battaglia per Gerusalemme, vogliono cacciarci ma non ce ne andremo». Quando riportano ad Aladin queste frasi, risponde di getto: «Siamo tanti, abbiamo energia e fede in Allah, armi imbattibili per sfidare chi ci occupa». Dunque, la battaglia per Gerusalemme può iniziare. Anche perché a dare sicurezza agli Abu Jamsl c'è la processione di famiglie che gli rendono omaggio, snodandosi lungo le strade del quartiere, fino a pochi metri dal piazzale dove i militari israeliani hanno creato la loro base. Fra i loro mezzi anti-sommossa c'è un aerostato: è considerato più efficiente dei droni.

(La Stampa, 19 novembre 2014)


«Sharon sbagliò a ritirarsi da Gaza». Il professore pacifista: solo sangue

di Lorenzo Bianchi

«Israele — scandisce Sergio Della Pergola, demografo di fama internazionale e docente dell'Università ebraica di Gerusalemme — deve cercare di gettare acqua sul fuoco. Ma non è questa la chiave di volta. Uno dei due palestinesi che hanno ucciso quattro rabbini e un agente lavorava nel supermarket del quartiere. Non arrivavano dalla luna».

- Una sorpresa?
  «Veramente anche il terrorista che ha ferito gravemente il rabbino Glick che ora parla e che si sta riprendendo, lavorava alla caffetteria del Centro Menahem Begin nel quale il religioso aveva appena partecipato a un'assemblea. Sono persone abbastanza socializzate nella realtà israeliana, non sono poveracci che stanno in una baracca in un campo profughi».

- È difficile individuare una strategia?
  «Esistono due entità palestinesi del tutto separate e in conflitto. Una è Gaza, l'altra è la Cisgiordania. Però c'è una coerenza ideologica sotterranea. Da parte di llamas c'è stata una benedizione dell'incursione nella sinagoga. Abu Ma-zen ha condannato, ma poi ha attaccato Israele attribuendole gravi profanazioni dei luoghi santi, soprattutto nella spianata del Tempio. Quello che è avvenuto nel mondo negli ultimi tempi, a parte la nostra regione, è la radicalizzazione del conflitto».

- Pensa al Califfato islamico?
  «Quello stesso spirito non è estraneo a una parte dei Territori palestinesi. La posizione ideologica di llamas e di altre forze più o meno tollerate a Gaza è simile».

- Non ci sono speranze?
  «Non è un problema israeliano: è globale. Il momento cruciale sarà quando l'Occidente si renderà conto di essere una delle due parti del conflitto. Persino Papa Francesco ha detto che è in corso una terza guerra mondiale a rate».

- Davvero Israele non può fare nulla?
  «Sono un moderato e invito il mio Paese a mantenere la calma. Kerry e Mogherini hanno condannato. A chi parlano? I possibili autori di attentati sono decine di migliaia. L'attacco può arrivare in qualsiasi momento. Con chi si dovrebbe trattare? L'unica possibilità per Israele è scomparire, il che ovviamente è improponibile. Tutto con-tinuera come ora».

- Con i suoi studi sulle tendenze demografiche lei offrì una base concreta alla decisione di Sharon di ritirarsi da Gaza nel 2005.
  «Con il senno dipoi debbo ammettere che non ha funzionato. La carta costituzionale di Hamas, che risale agli anni '80, teorizza che si debbano ammazzare tutti gli ebrei uno per uno. Si sperava che fosse stata superata, ma per molti non lo è».

- Sharon progettava un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania.
  «Dopo 9 anni è improponibile. Non se ne parla più, neppure a sinistra».

(La Nazione, 19 novembre 2014)


Una domanda: ma non sono state proprio le catastrofiche previsioni demografiche di Sergio Della Pergola sull’irrefrenabile aumento della popolazione araba a convincere Ariel Sharon che per mantenere l’ebraicità dello Stato d’Israele bisognava favorire la nascita di uno stato palestinese? E che per questo era necessario abbandonare la striscia di Gaza? M.C.


Attentato di Gerusalemme: Hamas cerca lo scontro perché l'occidente lo sostiene

L'attentato di questa mattina a Gerusalemme rivendicato da Hamas è il frutto della cieca politica filo-terrorista portata avanti dall'occidente, una politica omicida e suicida che non può non fomentare nuove tensioni.
L'attentato terroristico di questa mattina alla sinagoga di Gerusalemme è solo l'apice di una lunga serie di atti criminali commessi dai palestinesi nei confronti di civili israeliani e certamente non sarà l'ultimo attentato a cui assisteremo. Il motivo è di una semplicità drammatica: Hamas ha bisogno come l'aria di innalzare la tensione e visto che l'occidente invece di condannarlo lo premia e addirittura lo legittima, continua imperterrito con i suoi attacchi ai civili israeliani...

(Right Reporters, 18 novembre 2014)


Ecco come si è salvato mio figlio

Parla il padre del ragazzo di origini italiane scampato all'attentato di questa mattina.

di Micol Anticoli

Rav Amitai Sermoneta è un rabbino italo-israeliano che per motivi lavorativi si trova costretto a fare la spola fra i due Paesi; tutta la sua numerosa famiglia vive in Israele e la sua abitazione si trova proprio nel quartiere di Har Nof. Sua moglie si trovava lì al momento dell'attentato, ma ancora più scioccante è il racconto del figlio che stamattina è scampato miracolosamente alla morte. Progetto Dreyfus ha raccolto la testimonianza esclusiva sull'accaduto.
"Mio figlio si chiama Nissim, 26 anni ed è padre di due femmine. Non voglio nemmeno pensare che a quest'ora le mie nipoti sarebbero potute essere orfane", così Rav Amitai inizia il racconto del dramma vissuto da suo figlio stamattina, mentre pregava nella sua solita sinagoga.
Shachrit, la funzione del mattino, è iniziato alle 6.30 del mattino come ogni giorno e alle 7.00 Nissim e gli altri fedeli stanno recitando l'Amidà, una preghiera che si recita in piedi ed immobili e da cui non ci si può distogliere. "Mio figlio è assorto nella preghiera quando sente passi pesanti e vetri infranti" - racconta il padre ancora scioccato - "pochi secondi per capire cosa accade e Nissim si ritrova ad un metro dai terroristi che sparano all'impazzata e colpiscono con i coltelli". Le grida, il panico e all'improvviso il sangue che segna profondamente una giornata che sembrava poter passare tranquillamente nello studio e nella preghiera come ogni giorno.
Senza riflettere, Nissim afferra una sedia e la scaglia contro il terrorista più vicino, ma il tentativo non impedisce al palestinese di girarsi e sparare proprio contro di lui. È solo questione di attimi, il giovane italo-israeliano afferra un tavolo per proteggersi e nella confusione riesce a scappare più velocemente possibile fuori dalla sinagoga.
Momenti terribili raccontati dalla voce provata di un padre la cui fede non cede neanche in questi momenti; gli chiedo un commento sull'accaduto e la prima cosa a cui pensa è il nome che 26 anni fa insieme alla moglie scelse per suo figlio. "Si chiama Nissim, lo sai che significa in ebraico? Miracoli. Lui è stato un miracolato, dobbiamo soltanto ringraziare il Signore se è ancora in vita".
Poi al momento dell'inevitabile domanda sull'ondata di terrore che sta attraversando Israele in queste settimane, rav Amitai Sermoneta esita un momento; "Vuoi sapere cosa penso? Forse è meglio che non dico cosa penso". "Ma cosa si potrebbe fare, quale potrebbe essere una soluzione?", incalzo ancora.
"I padri di questi terroristi tengono più alle loro case che ai propri figli" - si apre alla fine il rabbino - "Li mandano ad uccidere gli ebrei e non importa loro se muoiono. Fa bene lo Stato a distruggere le case dei terroristi, perché tanto è l'unica cosa che gli interessa, della vita non si curano".
E sui terroristi aggiunge ancora: "Quei due avevano la cittadinanza israeliana, hanno il Bituach Leumì, l'assicurazione, l'assistenza, il passaporto e tutti i miei stessi diritti, eppure compiono attentati e ci uccidono. Voglio vedere cosa farebbero se si togliesse loro la cittadinanza israeliana, voglio vedere che ne sarebbe delle loro vite. Come i leader Hanyeh e Abu Mazen che incitano all'odio contro gli israeliani per poi portare qui i loro parenti malati".
Ora Nissim sta fisicamente bene ma, secondo i racconti della moglie del Rabbino Sermoneta, è ancora provato dallo shock e si è ritirato solo nella sua camera.

(Progetto Dreyfus, 18 novembre 2014)


Netanyahu: la comunità internazionale deve indignarsi

Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, promette una risposta dura al massacro nella sinagoga di Har Nof. L'obiettivo della sua invettiva è in primo luogo l'Autorità palestinese, accusata di avere la responsabilità morale dell'attentato, il primo in un luogo di culto a Gerusalemme.
"Mi rivolgo a tutti i leader del mondo civilizzato - ha detto - perché voglio vedere il segno di un'indignazione profonda, senza distinguo, contro un atto come questo, contro l'assassinio di israeliani, di ebrei. Non fate distinzioni. Il sangue è sangue".

(euronews, 18 novembre 2014)


Martusciello (Fi): piena solidarietà a Israele

Eurodeputato, dalla comunità internazionale reazione 'tiepida'

BRUXELLES - L'attentato di questa mattina a Gerusalemme ha avuto ''ancora una volta una reazione tiepida'' da parte della comunità internazionale, che ''quando deve esprimere solidarietà a Israele lo fa con cautela, a bassa voce''. E' quanto ha affermato il presidente della delegazione del Parlamento Ue per le relazioni con Israele, Fulvio Martusciello (Fi), condannando l'attacco alla sinagoga di Har Nof. Si tratta di un ''vile attentato compiuto da terroristi: esprimiamo la nostra vicinanza a Israele e ai familiari di tutti coloro che sono stati assassinati mentre erano intenti a pregare'', ha detto l'eurodeputato.

(ANSA, 18 novembre 2014)


Attacco a sinagoga, la prima volta in Israele

 
L'ingresso della sinagoga Kehilat Yaakov
Per quanto possa apparire strano agli occhi di un europeo, abituato alle costanti misure di sicurezza che circondano i luoghi di preghiera ebraici nelle città del Vecchio Continente, le sinagoghe sono tra i luoghi pubblici meno protetti all'interno di Israele. E mai, nella storia dello Stato ebraico, il terrorismo palestinese aveva colpito i fedeli riuniti all'interno di un luogo di culto. Per questo, l'attacco di stamani alla sinagoga Kehilat Yaakov nel quartiere di Har Nof di Gerusalemme, che ha provocato quattro morti e otto feriti oltre all'uccisione dei due assalitori, segna un grave precedente nell'ennesima escalation di violenza che sta montando tra israeliani e palestinesi.
   C'era già stato, nel 2008, l'attacco alla Merkaz Harav Yeshiva, il più importante collegio rabbinico di Gerusalemme, nel quartiere di Kyriat Moshe, non lontano da Har Nof, con il suo tragico bilancio di otto studenti uccisi, oltre all'assalitore palestinese. Tecnicamente, la yeshiva serviva anche da sinagoga e la stessa Kehilat Yaakov, teatro dell'attacco odierno, è la sinagoga della Yeshiva Toras Moshe, la scuola religiosa di lingua inglese di Gerusalemme. Eppure, i media israeliani sottolineano la drammatica 'novità' di quanto avvenuto oggi.
   Diversi sono i motivi per cui in Israele le sinagoghe, a differenza di centri commerciali, ristoranti, cinema, e luoghi pubblici in genere, bersaglio di una lunga scia di attentati, non sono presidiate da guardie di sicurezza armate o dotate di strumenti di controllo. Innanzitutto, il numero incalcolabile di sinagoghe presenti nello Stato ebraico, al punto che non esiste un loro censimento ufficiale. Durante la Seconda Intifada, la polizia invitò le varie comunità a presidiare i rispettivi luoghi di preghiera, ma la pratica non resistette a lungo.
   Anche dopo l'attacco di oggi, il rabbino capo sefardita Yitzhak Yosef ha emanato un editto nel quale afferma che d'ora in poi le preghiere dovranno tenersi solamente in sinagoghe dotate di guardie armate. Un ordine "irrealistico", come viene definito da Haaretz. E' impossibile, oltre che finanziariamente insostenibile, mettere in sicurezza tutte le sinagoghe del Paese. Il piano per dotare tutte le scuole israeliane di guardie armate, avviato anni fa, è ancora lontano dall'essere realizzato.
   Difficile invece individuare le ragioni per cui, finora, il terrorismo palestinese aveva risparmiato le sinagoghe. Si può azzardare l'ipotesi, come scrivono alcuni giornali israeliani, che per attentatori provenienti perlopiù dalla Cisgiordania o dalla Striscia di Gaza, si tratti di obiettivi 'poco convenienti' rispetto ad esempio ad un mezzo di trasporto pubblico o ad un bar. Le sinagoghe di quartiere rimangono aperte solamente per un paio d'ore per le preghiere del mattino e della sera. Sono luoghi nei quali un 'esterno' salterebbe subito all'occhio per la sua scarsa familiarità con l'ambiente e la sua ritualità.
   Nell'attacco di oggi, invece, uno degli attentatori apparentemente conosceva bene la sinagoga Kehilat Yaakov, poiché lavorava in un vicino negozio. Sapeva, ad esempio, che la sinagoga alle 7 del mattino sarebbe stata affollata e che questo avrebbe consentito a lui e al suo complice di potersi muovere tra i fedeli, uccidendone un gran numero, prima di essere fermati. E la familiarità degli attentatori con i luoghi degli attacchi sembra essere una delle caratteristiche degli episodi che hanno insanguinato Gerusalemme. Tutti gli autori erano palestinesi residenti nei quartieri arabi della città. Erano tutti giovani, con carte di identità israeliane, che lavoravano nelle vicinanze dei loro bersagli.

(Adnkronos, 18 novembre 2014)


Si salvi chi può

di Michael Sfaradi

Alcuni giorni fa sulle colonne del quotidiano Yediot Ahronot in un articolo intitolato 'La leggenda della pace fermata dall'uccisione di Rabin', Yemini Ben Dror ha avuto il coraggio di dire quello che tutti sanno ma che ai molti amanti della pace a tutti i costi, costi quel che costi, non fa piacere sentire cioè che il processo di pace non è stato ucciso da Igal Amir nel momento che ha sparato a Rabin ma da Arafat con la sua seconda intifada. Non è un caso che Ben Dror abbia pubblicato il suo articolo proprio in questi giorni, un po' perché ricorre l'anniversario dell'omicidio di Rabin ma molto perché ci troviamo, ed è inutile far finta che gli eventi non stiano precipitando, all'inizio della terza intifada.
   Quella che si prospetta sarà probabilmente più dura delle due che l'hanno preceduta perché molti degli attori arabi che vi parteciperanno avranno passaporto o carta d'identità israeliana e si rivolteranno a mano armata contro lo stato che fino ad oggi li ha istruiti, curati e ha dato loro un'istruzione e una libertà che non hanno mai avuto e mai avranno in qualsiasi altro stato arabo. Libertà e istruzione che non sono capaci a dare, sia a Gaza con Hamas che in Cisgiordania con Fatah ne hanno dato ampia dimostrazione, neanche a loro stessi. I bulldozer impazziti e automobili killer sui passanti, accoltellamenti e cacciaviti nella schiena e ora uccisioni nelle sinagoghe a colpi di arma da fuoco e accette come in macelleria sono solo l'inizio,
Quella che è ormai sotto gli occhi di tutti non sarà solo la terza intifada, sarà anche una sorta di guerra civile e di religione al tempo stesso, una specie di tutti contro tutti che una volta cominciato porterà a una separazione netta di persone e territori.
giorni bui si addensano all'orizzonte. Il giorno della resa dei conti con la popolazione arabo israeliana che troppo spesso si è schierata dalla parte dei terroristi si sta avvicinando velocemente e a quel punto sarà difficile fermare l'ondata di violenza che inesorabilmente mieterà vittime fra i civili delle due popolazioni. Quella che è ormai sotto gli occhi di tutti non sarà solo la terza intifada, sarà anche una sorta di guerra civile e di religione al tempo stesso, una specie di tutti contro tutti che una volta cominciato, visto che la maggioranza della popolazione araba continua a dimostrare di non essere in grado di convivere pacificamente con gli altri popoli e le altre religioni, porterà a una separazione netta di persone e territori. Le fotografie di gente che festeggia gli attentati contro i civili distribuendo dolci e caramelle è difficile da perdonare e impossibile da dimenticare.
Distribuzione di caramelle e dolci a Rafah. Si festeggia perché quattro civili israeliani sono stati uccisi.


   Perché tutto questo? Perché proprio ora? Le domande sono semplici e le risposte anche, talmente semplici che manipolarle per far credere che si tratti di una situazione complessa e praticamente senza soluzione è, perdonate il gioco di parole, di una semplicità unica. Per dare un possibilità al dialogo sarebbe bastato che l'ONU e le nazioni occidentali Svezia e Regno Unito in primis avessero chiesto come condizione per il riconoscimento della Palestina che la stessa riconoscesse il diritto all'esistenza di Israele. Un semplice dare per avere cerchiobottista che anziché accendere gli animi avrebbe creato dei presupposti, un avvertimento ai palestinesi che il loro riconoscimento non è gratuito e un avvertimento agli israeliani di adoperarsi di più. Invece NO. L'Europa, continente in preda a un cortocircuito politico, economico e sociale, anziché ragionare ha fatto precisamente il contrario di quello che doveva fare e regalando miliardi di euro senza controllo conditi con un riconoscimento illegale, al di fuori di tutte le norme internazionali che regolano il riconoscimento fra stati, ha dato di nuovo fuoco alle polveri mediorientali.
   L'attentato di oggi a colpi di mannaia all'interno di una sinagoga è solo uno dei risultati della politica miope e criminale che gli U.S.A. con la corrente amministrazione e l'Europa con la classe politica figlia del '68 stanno portando avanti. Miope perché basata su interessi locali, la stretta islamica sulle impotenti e impreparate democrazie occidentali è sempre più forte, e il timore di vedere nelle vie di Londra, Parigi, Madrid e Roma, le stesse cose che accadono oggi a Gerusalemme fa gelare sangue dei politici del vecchio continente, e criminale perché pur sapendo che lo schierarsi in maniera palese con una delle parti non aiuterà il processo di pace, ormai completamente abortito, continuano a farlo sperando che le loro azioni guidate da un empatia forzata nei confronti di chi sta cambiando in peggio il mondo faccia allentare la stretta. Sono molti in Europa a dire che gli ebrei non hanno capito la lezione della seconda guerra mondiale, a loro rispondo che sono in errore, gli ebrei lo hanno capito perfettamente, e per questo da quando hanno il loro stato combattono per difenderlo, mentre chi ha dimenticato cosa è stata la seconda guerra mondiale sono proprio loro e che presto, purtroppo per tutti, dovranno fare un bel ripasso della lezione.

(Progetto Dreyfus, 18 novembre 2014)


Gerusalemme, attacco a sinagoga: quattro morti

 
L'esterno della sinagoga dopo l'attentato
Due uomini sono entrati in una sinagoga a Gerusalemme ed hanno aperto il fuoco. I fedeli ebrei uccisi sono quattro. Lo ha detto il portavoce delle polizia Micky Rosenfeld, che parla anche di cinque feriti. Alcuni dei fedeli ebrei feriti nell'attacco alla sinagoga sono in gravissime condizioni.
Non è chiaro ancora se l'aggressione, messa in atto da due uomini, sia avvenuta con armi da fuoco oppure con asce e coltelli. Secondo il portavoce militare, testimoni sul posto parlano di ''scena terrificante''. I due autori dell'attacco ai fedeli ebrei nella sinagoga nei sobborghi di Har Nof a Gerusalemme son stati uccisi. Lo dice la polizia. Gli autori dell'attentato sarebbero di Jabel Mukaber, quartiere arabo di Gerusalemme est. Lo dicono i media in base alle prime investigazioni.
Sono in corso incidenti nel quartiere di Jabel Mukaber, a Gerusalemme est, dove le forze di sicurezza israeliane hanno perquisito le case dei due autori dell'attacco alla sinagoga dove sono stati uccisi quattro israeliani. Ci sarebbero, secondo i media, alcuni contusi. I media hanno fatto anche i nomi dei due che sarebbero cugini tra loro, si tratta di Uday e Rassan Abu Jamal, entrambi del quartiere di Jabel Mukaber, a Gerusalemme est.
   Hamas si è felicitato per l'attentato. Secondo il portavoce Mushir al-Masri "si è trattato di una vendetta eroica e rapida per l'esecuzione di Yusuf al-Rumani", un conducente di autobus palestinese trovato ieri morto a Gerusalemme. L'uomo, secondo le autorità israeliane, si è suicidato. Ma la famiglia ritiene che sia stato ucciso da ultrà ebrei. "E' nostro diritto - ha proseguito al-Masri, da Gaza - vendicare il sangue dei nostri martiri". Al-Masri ha aggiunto che l'attentato odierno è da collegarsi anche alle recenti tensioni nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Un messaggio di tono analogo è giunto anche dalla Jihad islamica.
   Nel frattempo sul web il braccio armato di Hamas ha pubblicato un filmato in cui minaccia in arabo e in ebraico una serie di attentati nella città di Israele. Fra l'altro preannuncia che passanti saranno investiti da automobili guidate da palestinesi o anche pugnalati per strada. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu accusa il presidente palestinese Abu Mazen e Hamas di essere responsabili dell'attacco nella sinagoga di Gerusalemme ''che e' stato una conseguenza diretta del loro incitamento... un incitamento che la comunità internazionale ha irresponsabilmente ignorato''.
   Netanyahu ha convocato na consultazione urgente con i responsabili alla sicurezza. ''Reagiremo duramente - si legge in un comunicato - alla crudele uccisione di ebrei che si erano recati a pregare, da parte di biechi assassini''. Il segretario di stato Usa John Kerry ha condannato in una telefonata al primo ministro Benyamin Netanyahu l'attacco alla sinagoga di Gerusalemme porgendo le condoglianze per le vittime. Lo riferisce la portavoce Jan Psaki. Un attentato - ha detto, secondo i media- che ''non ha posto nel comportamento umano''.
Video

(ANSA, 18 novembre 2014)


Attacco alla sinagoga: celebrazioni in strada a Gaza

 
GAZA - Decine di persone sono scese in strada a festeggiare nella Striscia di Gaza dopo l'attacco di stamattina a una sinagoga a Gerusalemme. Alcuni portavano vassoi pieni di dolci e li hanno distribuiti a conducenti e passanti. Nella città meridionale di Rafah, donne e bambini hanno sventolato le bandiere verdi di Hamas e hanno elogiato l'attacco parlando agli altoparlanti. Le immagini a lato riprendono un gruppo di palestinesi di Rafah, nel sud di Gaza, mentre celebrano con asce e pistole e a volto coperto, l'attacco terroristico. L'attentato, avvenuto di mattina presto, ha visto due palestiniesi armati di pistole e asce irrompere nella sinagoga sparando all'impazzata e uccidere quattro persone prima di essere feriti a morte dalla polizia. Hamas ha elogiato l'attacco.

(Fonti: LaPresse, Reuters, 18 novembre 2014)


L'esultanza dei palestinesi di Rafah per l'attentato alla sinagoga

Le immagini riprendono un gruppo di palestinesi di Rafah, nel sud di Gaza, mentre celebrano con asce e pistole e a volto coperto, l'attacco terroristico di martedì alla Sinagoga di Gerusalemme. L'attentato, avvenuto di mattina presto, ha visto due palestiniesi armati di pistole e asce irrompere nella sinagoga sparando all'impazzata e uccidere quattro persone prima di essere feriti a morte dalla polizia. L'evento rischia di riaccendere il conflitto mai sopito tra palestinesi ed ebrei.

(la Repubblica, 18 novembre 2014)


Il Museo della Resistenza contro Israele. Una mostra-choc a Torino

di Giulio Meotti

"La lunga serie delle menzogne palestinesi contro Israele", questo potrebbe essere il titolo dell'igno- bile mostra che si svolge in questi giorni a Torino
ROMA -Torino da sempre fermenta di ostilità verso lo stato di Israele. Tre anni fa, al parco Ruffini, autorizzati dall'amministrazione comunale, i centri sociali promossero il lancio delle scarpe contro la sagoma del presidente israeliano Shimon Peres che teneva in mano una Stella di David. Adesso arriva una mostra ambiziosa del Museo della Resistenza in corso Valdocco. Ufficialmente il titolo della mostra è "Il lungo viaggio della popolazione palestinese rifugiata". Un'esposizione realizzata dal Comitato italiano per l'Unrwa, l'Agenzia dell'Onu per i palestinesi, che nella guerra di Gaza questa estate ha avuto qualche problema di stoccaggio dei missili di Hamas nelle proprie scuole e strutture. A finanziare la mostra, fra gli altri enti, sono il comune di Torino e la regione Piemonte. Alla conferenza stampa di presentazione della mostra erano presenti l'assessore della regione Piemonte Monica Cerutti e Maurizio Braccialarghe, l'assessore alla Cultura del comune di Torino.
  Si tratta di un incredibile fermo immagine contro Israele. A parte il fatto curioso che un Museo della Resistenza, che dovrebbe essere deputato a tramandare la memoria della resistenza antifascista, celebri la memoria della "resistenza palestinese". Stupisce poi la tempistica, subito dopo la guerra di Gaza. Nella mostra sono raffigurate in un video a flusso continuo le principali capitali occidentali, da Parigi a Londra, con sullo sfondo "il muro" d'Israele in Cisgiordania. L'Arco di Trionfo è messo in ombra dal segmento di fence israeliano in cemento (in realtà solo una piccola parte di quella barriera è in cemento, il resto è reticolato e sensori). Ma c'è anche il parlamento di Ottawa, in Canada. La mostra non dice che il fence è stato costruito per fermare l'ondata di attentati dei kamikaze palestinesi nelle città israeliane. Si spiega, invece, che "il muro danneggia gli ecosistemi, interrompe la continuità territoriale e la coesione sociale, distrugge l'economia, separa tra loro le famiglie e la comunità". Foto
  Nella mostra si parla molto di Sabra e Shatila, l'orrenda strage del 20 settembre 1982, in Libano, in cui furono uccisi centinaia di palestinesi per mano dei falangisti maroniti. Nella didascalia della mostra di Torino si legge che "diverse centinaia di rifugiati palestinesi furono massacrati nei distretti di Sabra e Shatila dalle forze armate israeliane tra il 16 e il 18 settembre". Dalle forze armate israeliane? Così quell'episodio che si staglia nella coscienza di Israele come l'ombra di Banquo (peccato di omissione sotto i riflettori di Tsahal) viene adesso ascritto dal Museo della Resistenza di Torino alla mano assassina dell'esercito con la Stella di Davide. Il sindaco, Piero Fassino, è al corrente di aver finanziato una simile e fatale menzogna? E perché la comunità ebraica di Torino, quella di Primo Levi, che figura fra gli enti finanziatori del Museo della Resistenza, tace e acconsente a questo scempio ideologico?
  La mostra si dipana come una sequela di fotografie di bambini palestinesi fra le macerie: "Bambini sulla strada verso la scuola di Gaza", una delle tante immagini di rovine e infanzie perdute. Ci sono i "bambini che fanno il bagno all'aria aperta a Gaza". Non mancano le fotografie di bulldozer israeliani che radono al suolo le case palestinesi. Case di terroristi e sempre su autorizzazione della Corte Suprema israeliana. Ma la mostra è più laconica e glissa su chi le abitava: "Demolizione di abitazioni". Cancellato ogni nesso causa-effetto del conflitto israelo-palestinese. E per descrivere i profughi palestinesi del 1948, la parola usata al Museo della Resistenza è quella araba, tratta dalla mitologia nera antisraeliana: "Nakba". La catastrofe.
  Alla presentazione della mostra, l'ex senatrice dei Verdi Tana de Zulueta ha detto che Unrwa si pronuncia "unrà", come dicono gli arabi. Rà, in ebraico, significa cattivo. Altre foto

(Il Foglio, 18 novembre 2014)


Tutti in Israele con una guida d'eccezione

L'archeologo Alessandro Fichera partecipa agli straordinari restauri della Basilica della Natività a Betlemme.

di Sara Landi

 
GROSSETO. Un cantiere in pieno fermento, con oltre 15 restauratori per turno della ditta Piacenti Spa di Prato impegnati a restituire al mondo in tutta la sua magnificenza la Basilica della Natività di Betlemme, luogo simbolo della cristianità. E ora che si avvicina il Natale, l'atmosfera è ancora più magica.
Parola di Alessandro Fichera, l'archeologo grossetano che con l'Università di Siena segue la parte storico-archeologica di un intervento eccezionale.
«Sono tornato pochi giorni fa dall'ultimo sopralluogo - spiega Alessandro - La copertura del tetto è a buon punto e i lavori si sono spostati contemporaneamente su altri fronti come il restauro delle superfici murarie esterne, il censimento del livello di degrado degli intonaci interni e il restauro della porta lignea degli Armeni, un meraviglioso lavoro di intarsio che risale al XIII secolo».
Se in origine l'Autorità nazionale palestinese (Anp) aveva aperto un bando internazionale per il recupero del solo tetto, l'interesse si è spostato anche ad altri elementi pregevoli come le superfici decorate.
«Proprio per questo è difficile dire quando i lavori potranno finire - osserva l'archeologo - perché i committenti hanno ampliato la dimensione stessa del restauro. Siamo di fronte a un intervento complesso ma ben gestito grazie alla perfetta collaborazione fa committenti, supervisor e ditta di restauro che offre una professionalità incredibile».
Dei lavori in corso alla Basilica della Natività si parla sabato 22 novembre a Grosseto in un incontro alle 15,30 al Caffé Carducci. In quell'occasione viene presentato, insieme all'agenzia Jabalì Viaggi di Grosseto e a CoopEra, il viaggio in Israele dal 13 al 20 dicembre che avrà come guida d'eccezione l'archeologo.
«La formula del viaggio studiata insieme a Jabalì e consolidata negli anni - spiega Fichera - mette insieme gli aspetti storici, archeologici, scientifici e sacri per apprezzare a tutto tondo il fascino di Israele».

(Il Tirreno, 18 novembre 2014)


Mogherini: il riconoscimento della Palestina non basta, bisogna costruire lo Stato

BRUXELLES - Il riconoscimento dello Stato di Palestina "non basta, serve la costruzione dello Stato palestinese, che possa vivere vicino a Israele in pace e sicurezza". Lo ha detto l'alto rappresentante Ue agli Affari esteri, Federica Mogherini, arrivando al Consiglio Ue Esteri, il primo presieduto nella nuova veste. "Stiamo lavorando e negli ultimi giorni sono stata in contatto con il segretario Kerry, con il presidente Abbas, con gli israeliani e i giordani per vedere quale iniziativa diplomatica e politica ci possa essere".
Mogherini ha spiegato che la discussione di oggi al Consiglio Esteri "si concentrerà sui modi in cui la Ue, che ha così tanto in termini di pace, storia e conoscenza da dare, può fare per riportare in strada il processo politico che al momento non sembra esserci ma che ha disperatamente bisogno di una prospettiva politica".
L'alto rappresentante ha sottolineato che "ci concentreremo su come la Ue può aiutare a fare ripartire il processo che al momento si è drammaticamente bloccato".

(Adnkronos, 17 novembre 2014)


“Uno Stato palestinese che possa vivere vicino a Israele in pace e sicurezza”, ripete la Mogherini. Una persona che dopo tutto quello che s'è visto sa soltanto ripetere questo trito slogan o è un incorreggibile ignorante o è in aperta malafede. O tutte e due le cose insieme. Il cosiddetto "stato palestinese" è un progetto pensato fin dall'inizio e poi mantenuto in vita al solo scopo di essere una spina nel fianco per lo Stato d'Israele, in attesa che si creino le condizioni adatte per il suo annientamento definitivo. Questo è il motivo inconfessato per cui altre nazioni hanno così tanta voglia di “riconoscere” uno “stato” che non c’è: affinché Israele resti perennemente in bilico e non si senta mai sicuro là dove è. Altro che "pace e sicurezza"! La statura culturale e morale di questo “Alto rappresentante” dell’Unione Europea è desolante. M.C.


Chi è Damari, il bomber israeliano che in Europa segna più di tutti

Omer Damari
Omer Damari è l'uomo del momento: in Israele, nazione natia di questo attaccante classe '89, ma anche nel resto d'Europa, della quale in questo momento è l'attaccante più prolifico, assieme all'inglese Danny Welbeck. I due sono infatti capocannonieri delle qualificazioni ad Euro 2016, con cinque reti. A differenza dell'inglese però, che ha disputato tutti e 4 gli incontri di qualificazione, il bomber di Rishon LeZion è sceso in campo solo 3 volte: una rete contro Cipro a Nicosia, tre contro Andorra ad Andorra La Vella e finalmente ieri la prima marcatura in casa, nell'importantissima sfida contro la Bosnia. Israele primo a punteggio pieno, 9 punti in tre partite, e tutti contenti.

STAGIONE MAGICA - Nazionale o club, la solfa non cambia: nove gol in tredici partite con la maglia dell'Austria Vienna sui 19 segnati dal club, davanti solo l'imprendibile Jonathan Soriano dei Red Bull Salisburgo, già a 16. Un periodo d'oro quindi, nel quale la punta israeliana trasforma in gol tutto quello che tocca. Cresciuto nel Maccabi Petah Tiqwa, la sua carriera non sembrava potesse rivelarsi granchè: solo 29 gol in 118 partite, non proprio l'ideale per un attaccante di peso il cui compito fondamentale è buttarla dentro. Poi il trasferimento all'Hapoel Tel Aviv, e l'inizio del sogno: tre stagioni, 101 presenze e 56 reti, con un'ottima media di più di un gol ogni due partite. In Austria non si fanno sfuggire questo attaccante che sa segnare in tutti i modi: a Vienna Damari diventa presto un idolo, grazie alle reti ma anche al comportamento, mai fuori posto. Inoltre diviene un simbolo per tutti gli immigrati israeliani, dato che tiene molto alle sue radici.

VECCHIA CONOSCENZA - Ha speso parole di elogio per Damari anche un ex conoscenza del campionato italiano, l'ex Palermo Eran Zahavi, compagno di Nazionale della punta ma anche suo amico dalla nascita: i due sono infatti nati nellla stessa città, a due anni di distanza (Zahavi è del 1987), e per un anno hanno anche giocato insieme nell'Hapoel. Il trequartista portato in Italia da Zamparini è ora tornato a giocare in patria, nel Maccabi, ma in nazionale è il vero leader: anche ieri è stato protagonista con un assist, proprio per Damari, e una rete, che hanno portato Israele in vetta.

CHI CERCA PUNTE? - In Italia un giocatore del genere potrebbe fare comodo a molti, sia per lo stipendio da risparmio (attualmente percepisce 500mila euro), sia per il prezzo del cartellino (attorno ai 2 milioni di euro): il contratto di Damari scade nel 2018, ma se continua a segnare con questa frequenza, nelle prossime sessioni di mercato è probabile che qualche big possa decidere di portarlo via da Vienna. Perchè l'israeliano giramondo del gol vuole scrivere un'altra importante pagina della sua carriera: quale miglior inchiostro se non le reti?

(Calciomercato.com, 17 novembre 2014)


Conferenza Osce di Berlino, «l'antisemitismo aumenta»

I delegati: c'è ancora molto da fare

di Lisa Palmieri-Billig*

 
Lisa Palmieri-Billig
Il decimo anniversario della Conferenza di Berlino sull'Antisemitismo dell'Osce (Organization for Security and Co-operation in Europe) è coinciso con altri anniversari significativi di novembre: i 104 anni dalla fine della prima guerra mondiale (che iniziò nel luglio di cento anni fa); i 76 anni passati dalla notte dei cristalli; i 25 anni dalla caduta del muro di Berlino. Sono anniversari segnati da contraddizioni che continuano a caratterizzare il mondo oggi.
   A dieci anni dalle proteste e dalle risoluzioni internazionali contro l'antisemitismo lanciate da Berlino, quando 55 Paesi mandarono delegazioni di massimo livello, quest'anno il numero di diplomatici internazionali presenti è diminuito di un terzo, ed è anche sceso il numero dei rappresentanti di massimo livello.
   Ciononostante, cinquecento rappresentanti dei governi e della società civile di tutta Europa hanno partecipato nella due giorni segnata da vari discorsi commoventi, tra cui quello del ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier e quello del rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, l'ambasciatrice Samantha Power, oltre a quelli degli alti rappresentanti della società civile e dei governi di Francia, Svizzera (presidente uscente dell'Osce), Canada, Finlandia, Ucraina, Slovacchia, Russia, Israele, ecc..
   Una delegazione diplomatica facente capo al ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni e il segretario della Commissione Vaticana per le Relazioni religiose con gli Ebrei, Padre Nobert Hofmann, erano presenti all'evento in qualità di osservatori.
   Gli oratori si sono trovati d'accordo che l'antisemitismo è in aumento, e che aumenta spesso in relazione al crescere delle tensioni in Medio Oriente. Nel dichiarare che la protesta politica è legittima, hanno aggiunto che le proteste non devono mai servire come scusa per l'antisemitismo o la violenza.
   Secondo un recente sondaggio commissionato in otto paesi europei dall'Agenzia dell'Unione Europea per i Diritti fondamentali, il 25% degli ebrei intervistati ha riferito di essere stato vittima di un episodio antisemita nel corso dell'anno passato. Molti cittadini ebrei della UE stanno pensando di emigrare a causa del peggioramento della situazione, mentre una serie crescente di violenze antisemite ha aumentato le loro preoccupazioni riguardo la propria incolumità.
   Proprio di recente ad Anversa, il 16 novembre, un rabbino è stato accoltellato alla gola mentre era di ritorno a casa da una sinagoga; lo scorso maggio, quattro persone sono state uccise da un terrorista nel Museo ebraico di Bruxelles; due anni fa un insegnante e tre bambini - di 3, 6 e 8 anni - sono stati uccisi da un attacco terroristico in una scuola ebraica a Tolosa e nel 2006, un giovane parigino ebreo di origine marocchina, Ilan Halimi, è stato torturato e ucciso.
   Il fatto che questi tragici episodi siano quasi sempre motivati dall'ideologia terrorista islamista (che non dobbiamo confondere però con la vera religione dell'Islam!
Vera religione dell'Islam?? Quale sarebbe?
), e alimentati dalla propaganda araba anti-israeliana, coincide in modo preoccupante con le manifestazioni di massa contro la guerra a Gaza che si sono svolte la scorsa estate in varie città europee, e che sono sfociate nella violenza antisemita. Durante le celebrazioni del «Giorno della Bastiglia» a Parigi, duecento fedeli ebrei furono costretti a barricarsi nella sinagoga Don Isaac Abravanel per mezz'ora in attesa di aiuto da parte delle forze di polizia che sono poi intervenute per disperdere una folla inferocita armata di coltelli, asce e spranghe di ferro che cantava «Morte agli ebrei», e che cercava di irrompere all'interno della sinagoga. Allo stesso tempo, sono state lanciate bottiglie molotov contro altre sinagoghe nelle città francesi e tedesche accompagnate da canti quali «Hamas, Hamas, gli ebrei al gas» (a Dortmund) o «Ebreo, Ebreo vile suino, esci e combatti da solo» (a Berlino).
   Ha creato grande indignazione la recente richiesta, a Dortmund il 16 novembre da parte di Dennis Giemsch, consigliere comunale del gruppo di estrema destra Die Rechte, di stilare "per ragioni politiche" un elenco di numeri, nomi e indirizzi degli ebrei della città!
   Memore di tali eventi, l'ambasciatore Samantha Power, ha ricordato la recente affermazione di Elie Wiesel che "i venti di follia stanno soffiando di nuovo" e che "l'Olocausto ha avuto inizio con le parole".
   In un potente e commovente discorso, ha detto alla platea di Berlino che "l'aumento allarmante degli atteggiamenti e degli attacchi antisemiti in molte parti d'Europa ... non è solo pericoloso in sé e per sé, ma rappresenta una minaccia più profonda e più insidiosa per l'ideale liberale europeo che crebbe quando crollò il Muro di Berlino... l'aumento dell'antisemitismo minaccia il progetto di integrazione europea e la promozione della democrazia liberale e delle libertà fondamentali. (L'antisemitismo) è spesso il proverbiale canarino nella miniera di carbone riguardo il degrado dei diritti umani in generale".
   Due giovani leader ebrei hanno preso la parola al pannello conclusivo della società civile dell'assemblea di Berlino, portando alcuni preziosi consigli pratici per prevenire l'antisemitismo e l'indottrinamento dell'islamismo estremista. Ilja Sichrovsky, fondatore e segretario generale della Conferenza islamo-ebraica con sede a Vienna - presente assieme a un collega musulmano - ha raccontato di come è stato in grado di trovare finanziamenti pubblici per portare alle riunioni di Vienna musulmani ed ebrei dei cinque continenti, e ha esortato i delegati dell'Osce a coltivare attività e amicizie interreligiose. "È più rischioso essere bombardati stando seduti in sinagoga che attraversando la strada per dialogare", ha detto. Jane Braden-Golay, presidente della Confederazione dell'Unione Europea degli studenti ebrei, ha riferito della disponibilità di fondi per programmi di prevenzione della radicalizzazione, come per esempio per un progetto dell'Università di Cambridge che ha dimostrato di poter cambiare gli atteggiamenti. Ha sottolineato che l'educazione dell'Olocausto deve essere integrata con l'insegnamento sulla vita e sul contributo degli ebrei quale aspetto integrante della storia europea.
   Wade Henderson, primo rappresentante di una delegazione interreligiosa della Leadership Conference sui Diritti civili e umani proveniente dagli Stati Uniti, ha sottolineato l'importanza di lavorare in un contesto multi-religioso, in quanto l'antisemitismo "non è un problema degli ebrei: si tratta di una minaccia per la società intera".
   La negazione dell'Olocausto, i pericoli del nazionalismo, il rafforzamento della leadership politica, il networking nella società civile, e l'antisemitismo in rete sono stati tra gli argomenti trattati nel workshop.
   Il problema della quantità enorme di discorsi di odio in continua espansione su internet è stato al centro delle gravi preoccupazioni di molti dei relatori e in particolare di Stefano Gatti, ricercatore presso il Centro di Documentazione ebraica contemporanea di Milano. Gatti ha svolto una presentazione dettagliata sulla distorsione e la negazione dell'Olocausto in Italia. Non è stato ancora trovato il modo efficace per contrastare il lavaggio del cervello in rete. Tuttavia, dal momento che il potere di questi messaggi di corrompere le menti si nutre dell'ignoranza, gli sforzi per arricchire i programmi educativi nelle scuole sono stati proposti quale antidoto più importante.
   L'ambasciatore Felix Klein, inviato speciale della Germania per le relazioni con le organizzazioni ebraiche, ha osservato che la Repubblica Federale aveva portato avanti e continua ancora oggi un processo di esame di coscienza rispetto al passato. Ha affermato di sentire che il medesimo processo riguardo l'antisemitismo è necessario anche in altri paesi, "tra cui il Vaticano, che auspichiamo renda finalmente accessibili gli archivi del tempo di guerra".
   Deidre Berger, direttore dell'Istituto Ramer dell'Ajc (American Jewish Committee) di Berlino ha ospitato un incontro speciale supplementare tra leader e specialisti della sicurezza della comunità ebraiche provenienti da 21 paesi europei oltre agli Stati Uniti, per consentire uno scambio più dettagliato delle informazioni riguardanti problemi specifici delle diverse comunità ebraiche. Thomas Kraus, presidente della Federazione della Repubblica Ceca delle comunità ebraiche ha notato che mentre l'atmosfera che si respira a Praga è buona rispetto al resto dell'Europa, il quadro generale somiglia in maniera inquietante a quello dell'Europa degli anni Venti.
   Rav. Andrew Baker, rappresentante permanente del presidente per la lotta all'antisemitismo dell'Osce e direttore dell'Ajc per gli affari internazionali ebraici, che ha giocato un ruolo organizzativo importante in questa conferenza, ha presentato un elenco delle principali raccomandazioni finali, auspicando che vengano approvate in tutti i paesi. Ha chiuso i lavori dell'assemblea dichiarando: "Dopo la guerra, nessuno pensava che gli ebrei sarebbero tornati - ma lo hanno fatto. Gli ebrei oggi si chiedono se ci sia un futuro per i loro figli in Europa. Pertanto, se se lo chiedono gli ebrei, non dovrebbe interrogarsi sul proprio futuro anche l'Europa?"


* Rappresentante dell'AJC in Italia e di collegamento presso la Santa Sede

(La Stampa, 17 novembre 2014)


Qualificazioni Euro 2016: Israele vola, tre gol alla Bosnia e vetta del girone.

Israele si aggiudica la vetta del gruppo B con una clamorosa vittoria sulla Bosnia, roboante tre a zero arrivato anche grazie all'inferiorità numerica degli ospiti per tutto il secondo tempo. Il pareggio a reti bianche di ieri tra Belgio e Galles sorride agli uomini di Guttman, stasera privi del proprio fuoriclasse: Edin Dzeko. Ofir Marciano, portiere israeliano, si disimpegna bene nella prima fase dell'incontro, al minuto 36 il tiro di Vermouth trova una deviazione che batte Begovic. Proprio sul finire del primo tempo Eran Zahavi lavora un buon pallone prima di servirlo a Damari - cannoniere della squadra - per il 2-0. Al 48esimo Sujic combina la frittata con un fallo su Damari che gli costa la doccia anticipata. Al 70esimo per Zahavi c'è la soddisfazione del gol personale (clicca QUI per gli highlights). Il pubblico di Haifa ha di che gioire, Israele comanda il raggruppamento a quota nove punti, uno in più del Galles che ha alle spalle più gare giocate. La squadra di Guttman sogna.

(Tuttocalcioestero.it, 17 novembre 2014)


Israele hi-tech, via il muro agli immigrati di qualità

Le aziende cercano specialisti. E cosí si pensa a uno «Startup Visa».

di Edoardo Segantini

Israele, di solito al centro dell'attenzione per le tensioni con il mondo arabo e palestinese, è anche la nazione delle startup ed è un Paese di università e imprese ad alta tecnologia In cui la dimensione politico-strategica e quella tecnologico-industriale sono in contatto e, talvolta, in contraddizione. Accade, ad esempio, sul terreno del mercato del lavoro, quando le aziende chiedono al governo più ampie libertà di assunzione di stranieri qualificati, attraverso modifiche alle leggi sull'immigrazione.
   E' il caso, ad esempio, di Wix, un'impresa innovativa di servizi cloud, che permettono a chiunque di creare e personalizzare siti Internet per pc e smartphone. E' una storia tipica della Tel Aviv Valley (anche se non la chiamano così). Creata nel 2006, Wix ha raccolto 127 milioni di dollari durante l'offerta pubblica di acquisto al Nasdaq di New York: una delle quotazioni high-tech israeliane più gloriose. Oltre al quartier generale nel porto di Tel Aviv, un ufficio con pareti di cristallo e dipendenti giovanissimi, ha aperto due centri di sviluppo a Vilnius, in Lituania, e a Dnipropetrovsk, in Ucraina.
   Ma quando ha cercato di portare uno dei suoi migliori progettisti ucraini a Tel Aviv, scrive John Reed sul Financial Times, è incappata in una rete di ostacoli burocratici che hanno richiesto un laborioso intervento legale. AI punto da far dire a Nir Zohan, il giovane direttore operativo: «E' stata un'esperienza terribile: non so se ci riproveremo». Il caso di Wix non è l'unico. Molte, tra le aziende hi-tech più lanciate, lamentano una difficoltà ad espandersi dovuta alla burocrazia. II vincolo pia sentito è quello delle assunzioni. Le leggi che regolano il mercato del lavoro agevolano le persone di origine ebraica, ma rendono l'accesso più difficile alle altre. Ciò, da un lato, è comprensibile considerando le tensioni nell'area. Dall'altro, secondo i critici interni, non è il modo più adeguato per affrontare al meglio la competizione globale per la conquista dei talenti. Infatti, per quanto molto ben dotato di competenze scientifiche e ingegneristiche, il Paese ha bisogno di importare cervelli anche dall'estero.
   Pressato dalle richieste dei suoi imprenditori, il governo sta preparando il cosiddetto «Start-up visa», un visto speciale, da tempo atteso, che permetterebbe ai tecnologi, provenienti dall'estero e richiesti in Israele, di imboccare una corsia veloce all'ufficio immigrazione. Il ministro dell'Economia Naftali Bennett, lui stesso cofondatore di un'azienda di software per le banche, promette di rimuovere in tempi brevi il «muro dei talenti».
   Certo, Israele ha problemi più gravi e permanenti di sicurezza. Ma considera altrettanto prioritaria e vitale la corsa alle competenze tecnologiche. Un atteggiamento che condivide con la Silicon Valley e con le aree più innovative del pianeta.

(Corriere Economia, 17 novembre 2014)


F-35: Israele dimezza gli ordini per il caccia-bombardiere Usa

 
Il caccia-bombardiere F-35 della Lockheed-Martin
GERUSALEMME - Nuovi problemi per il controverso programma del caccia-bombardiere F-35 dell'americana Lockheed-Martin. Il governo israeliano ha effettuato un secondo ordine limitandosi a tra 10/15 jet, pari a circa la meta' di quanto annunciato in precedenza. Lo riferisce il viceministro per gli Affari Strategici Yuval Steinitz, secondo il quale il piano annunciato lo scorso mese dal ministro della Difesa, Moshe Yaalon, negli Usa, per l'acquisto di altri 25/31 non e' stato sostenuto. Una decisione finale e' attesa nei prossimi giorni.
Un acquisto ridotto da parte di Israele, il maggiore alleato degli usa nella regione e dotato di una delle piu' potenti aeronautiche del mondo, rappresenta un problema per i tentativi di Lockheed Martin di ridurre il costo unitario degli F-35. Caccia.-bombardiere di ultima generazione di cui anche l'Italia ha ridotto dai 131 iniziali a 90 il numero di jet da acquistare. No comment al momento dal portavoce di Yaalon.
Il taglio si riferisce alla seconda tranche. Il comitato ministeriale chiamato a decidere sul programma, guidato dal premier Benjamin Netanyahu, si e' riunito 4 volte, rinviando per ben due volte una decisione finale. Il ritardo rischia comunque di costare caro a Israele che potrebbe essere costretta a pagare sostanziose penalita' all'americana Citibank che ha garantito il finanziamento per gli F-35.
Israele ha firmato il primo contratto nel 2010 per l'acquisto di 19 F-35 che saranno consegnati tra il 2016 ed il 2018. L'intesa dava l'opzione a Israele di acquistare altri 75 F-35, l'equivalente di 3 squadriglie.
Un altra fonte riferisce che e' stata l'ultima e nuovamente inconcludente offensiva nella Striscia di Gaza di quest'estate a spostare il pendolo delle spese per la Difesa (gli Usa garantiscono 3 miliardi di dollari l'anno a Tel Aviv) verso investimenti in trasporti truppe blindati piuttosto che in avveniristici jet. Un settore, quello della difesa aerea, in cui Israele non ha nemici nell'area.

(AGI, 17 novembre 2014)


Antisemitismo e omofilia

Antisemitismo e omofilia
sono due binari paralleli
su cui l'umanità ribelle e peccatrice
corre veloce verso la resa dei conti
con l'unico Dio Creatore e Legislatore.
Capofila dell'antisemitismo
è l'islamico Oriente.
Capofila dell'omofilia
è il marcio Occidente.
L'unico modo di scendere dal treno
sta nell'incontro personale
con l'unico Dio Salvatore e Redentore.
 

Oltremare - La merenda
Della stessa serie:

“Primo: non paragonare”
“Secondo: resettare il calendario”
“Terzo: porzioni da dopoguerra”
“Quarto: l'ombra del semaforo”
“Quinto: l'upupa è tridimensionale”
“Sesto: da quattro a due stagioni”
“Settimo: nessuna Babele che tenga”
“Ottavo: Tzàbar si diventa”
“Nono: tutti in prima linea”
“Decimo: un castello sulla sabbia”
“Sei quel che mangi”
“Avventure templari”
“Il tempo a Tel Aviv”
“Il centro del mondo”
“Kaveret, significa alveare ma è una band”
“Shabbat & The City”
“Tempo di Festival”
“Rosh haShanah e i venti di guerra”
“Tashlich”
“Yom Kippur su due o più ruote”
“Benedetto autunno”
“Politiche del guardaroba”
“Suoni italiani”
“Autunno”
“Niente applausi per Bethlehem”
“La terra trema”
“Cartina in mano”
“Ode al navigatore”
“La bolla”
“Il verde”
“Il rosa”
“Il bianco”
“Il blu”
“Il rosso”
“L'arancione”
“Il nero”
“L'azzurro”
“Il giallo”
“Il grigio”
“Reality”
“Ivn Gviròl”
“Sheinkin”
“HaPalmach”
“Herbert Samuel”
“Derech Bethlechem”
“L'Herzelone”
“Tel Aviv prima di Tel Aviv”
“Tel Hai”
“Rehov Ben Yehuda”
“Da Pertini a Ben Gurion”
“Kikar Rabin”
“Sde Dov”
“Rehov HaArbaa”
“Hatikva”
“Mikveh Israel”
“London Ministor”
“Misto israeliano”
“Fuoco”
“I cancelli della speranza”
“Finali Mondiali”
“Paradiso in guerra”
“Fronte unico”
“64 ragazzi”
“In piazza e fuori”
“Dopoguerra”
“Scuola in guerra”
“Nuovo mese”
“Dafka adesso”
“Auguri dall'alto”
“Di corsa verso il 5775”
“Volo verso casa”
“La guerra del Kippur”
“Inverno, autunno”
“Ritorno a Berlino”
“Il posto della cucina”
“Fermi tutti”



di Daniela Fubini, Tel Aviv

Se ogni società ha dei leitmotiv o delle piccole ossesioni, quella israeliana, essendo largamente ebraica, ha sicuramente quella del cibo. Che inizia in tutte le famiglie al mattino presto, quando si preparano i "sandwichim" (sic) per i figli, prima di spedirli a scuola. Cruccio di tutti i genitori, fonte di litigi infernali a casa e di competitività fra famiglie, perchè i ragazzi che arrivano a scuola con il sandwich "giusto" ovviamente ne fanno uno status, e gli altri incassano. Anche lì emergono le origini delle famiglie, che si portano dietro abitudini alimentari così diverse da fare il giro del mondo. Poi mica solo i bambini aprono ogni giorno quei contenitori di plastica: anche i genitori spesso se ne portano uno in ufficio. Ma in ufficio è più rara la competizione e al cibo si da meno importanza: da adulti, anche se non è il mangiare preferito lo si butta giù come combustibile e si ritorna al lavoro.
Bisognerebbe fare un progetto fotografico: una foto al giorno di tutte le merende di un campione di dieci classi, per un mese. Fra ripetitività e sorprese, sarebbe davvero interessante vedere come la cultura così prevalente del cibo si dipana nel quotidiano. Oppure no, meglio evitare le fotografie (che tutti ne fanno troppe, ormai), anche per non esporre la parte meno edificante dei "sandwichim": quella che mette a nudo le differenze di classe, come si sarebbe detto una volta. Per lo stesso motivo per cui i grembiulini stanno (ancora oggi) a unificare il vestiario dei bambini, la merenda o pranzo invece espone le possibilità economiche delle famiglie in modo lampante. E non sarà un caso, se in Israele fioriscono iniziative no-profit che portano migliaia di merende ogni giorno nelle scuole in cui alcuni (troppi) bambini sono meno uguali degli altri, e senza i provvidenziali pacchetti recapitati da queste organizzazioni, non avrebbero "sandwichim" affatto. Ma come, lo stato non provvede per le famiglie bisognose? In parte, ma si appoggia sempre di più sulle no-profit, che lavorano bene e non pesano sul bilancio annuale dei ministeri.

(moked, 17 novembre 2014)


Auschwitz. Italia e Spagna non versano i fondi per la memoria della Shoah

A lanciare l'accusa è il quotidiano iberico El Pais: Italia e Spagna sarebbero tra i pochi paesi europei a non versare i contributi per garantire la memoria di Auschwitz, mancando così di contribuire al "fondo perpetuo".
Si tratta, questo, di un fondo creato nel 2009 con l'intento di evitare la minacciata chiusura dell'intero complesso, che si amplia per 200 ettari nel sud della Polonia. Il fondo vorrebbe raccogliere 120 milioni di euro e, fino a oggi, è stato alimentato da 31 paesi, giungendo a 102 milioni. Il maggior contributore è stato la Germania, che ne ha versati 60.
Quasi tutti, comunque, hanno partecipato. L'Ue ha versato 4 milioni, la sola città di Parigi 310mila euro. Il Vaticano, lo scorso settembre, ne aveva donati 100mila, ma dell'Italia nessuna traccia. Una vergogna, considerato che i soldi servirebbero per la cura del complesso e per mantenere, così, il ricordo degli orrori che qui si videro compiuti (morirono, secondo le stime, 1,5 milioni di persone all'interno di Auschwitz), affinché non debbano mai più ripetersi.

(ArticoloTre, 16 novembre 2014)


Amos Oz racconta 'Giuda' in sinagoga Milano

MILANO - "Giuda è considerato il traditore più famoso della storia e non ho mai capito perché,
Tante altre cose non ha capito Amos Oz.
credo anche che questo atteggiamento sia anche un po' all'origine dell'antisemitismo che ha identificato gli ebrei con il tradimento": così lo scrittore israeliano Amos Oz ha raccontato il tema del suo ultimo libro, 'Giuda' (Giangiacomo Feltrinelli editore, 336 pagine, 18 euro) nel corso dell'incontro alla sinagoga centrale di Milano nell'ambito di Bookcity 2014.
Il giovane protagonista del romanzo, ambientato alla fine degli anni 50 a Gerusalemme, Shemuel Asch lascia incompiuta la sua tesi sulla figura di Gesù vista dagli ebrei. "Il protagonista - ha spiegato Oz - pensa che Gesù sia stato il più grande ebreo di tutti i tempi e in quanto tale non avrebbe voluto vedere le violenze perpetrate nella storia a suo nome, come le crociate ad esempio". Gesù secondo il protagonista "è nato ed è morto ebreo - ha detto Oz - non voleva cambiare le cose, non è mai entrato in una chiesa perché non esistevano, non si è mai fatto il segno della croce e non aveva alcuna conflittualità con gli ebrei". Giuda "era colui che credeva di più in Gesù - ha spiegato Oz parlando del suo libro che ha fatto molto discutere soprattutto in Israele - ma spesso i grandi personaggi che hanno cambiato la storia sono considerati traditori da chi non é pronto al cambiamento". "Anche io - ha concluso - sono stato chiamato traditore ma considero questo appellativo come una medaglia, un onore perché nel gruppo sono in ottima compagnia".
   
(ANSA, 16 novembre 2014)
   

Amos Oz è un traditore ed è in pessima compagnia. Non gli auguro di fare la stessa fine di Giuda. M.C.
    "Allora Giuda, che l'aveva tradito, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì, e riportò i trenta sicli d'argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, consegnandovi sangue innocente». Ma essi dissero: «Che c'importa? Pensaci tu». Ed egli, buttati i sicli nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi." (Matteo 27:3-5)

I nuovi uffici di Google a Tel Aviv

Le foto della nuova fantastica sede con alberi e frutteti nei corridoi e una gran vista sulla città.

Google ha recentemente aperto dei nuovi uffici a Tel Aviv, in Israele, che occupano 85 mila metri quadrati su sette piani della Electra Tower, uno dei grattacieli più alti della città. Gli uffici sono stati ideati da Camenzind Evolution, uno studio che ha lavorato con Google in passato realizzando, tra le altre, la sede di Zurigo, in collaborazione con Setter Architects e Studio Yaron Tal.
Anche in questo caso Google ha dimostrato un'incredibile cura nel creare e organizzare gli spazi richiesti da un ufficio: la sede di Tel Aviv vanta uno straordinario equilibrio tra design moderno ed elementi della natura tipici del paesaggio israeliano. Le aree relax ricordano dei frutteti e dei vigneti, con decine di alberi e tavoli da picnic da cui ammirare la vista su Tel Aviv, e i corridoi assomigliano a vicoli in cui passeggiare. La sala riunioni è invece ispirata a una spiaggia per surfisti.
Mentre le postazioni di lavoro sono abbastanza standard nel loro design, gli spazi comuni sono stati ideati per liberare la creatività e incoraggiare l'interazione e la collaborazione tra i dipendenti. Nella presentazione del progetto si legge: "Circa il 50 per cento di tutte le aree sono state progettate per creare paesaggi di comunicazione, dando numerose opportunità ai dipendenti di collaborare e comunicare con gli altri Googler's in un ambiente pronto a soddisfare ogni tipo di esigenza". Le foto sono state realizzate dal fotografo israeliano Itay Sikolski.

(il Post, 15 novembre 2014)


Le agenzie di stampa lavorano sotto dettatura palestinese?

Alcuni giorni fa, l'Organizzazione per la liberazione della palestina ha diffidato i giornalisti stranieri dall'impiegare la denominazione "Monte del Tempio" nell loro corrispondenze dai luogi sacri di Gerusalemme. Secondo l'OLP, il luogo sacro dell'ebraismo si troverebbe in territori occupati, per cui ogni riferimento ad esso diverso da Haram al Sharif (traducibile in "santuario nobile") lederebbe le aspirazioni palestinesi.
Il sito è denominato Monte del Tempio (Har HaBayit in ebraico) perché è dove si collocava il Tempio fatto costruire da Salomone e poi da Erode. Ebrei e cristiani conoscono questo luogo con questo nome da millenni, prima che una linea verde intersecasse fittiziamente la Città Santa....

(Il Borghesino, 16 novembre 2014)


Biella - Ritrovato un antico rotolo ebraico in biblioteca

Il «Libro di Ester», uno dei libri dell'Antico Testamento, sarà riconsegnato ai legittimi proprietari, una decisione sancita con una delibera votata dalla Giunta comunale che ne ha previsto la restituzione in comodato gratuito decennale.

BiELLA - Era sempre stato in biblioteca, ben nascosto agli occhi di chi ci ha lavorato e di chi ne aveva perso le tracce da decenni, ovvero i rappresentanti della comunità ebraica biellese: ora il rotolo, con il Libro di Ester, uno dei libri dell'Antico Testamento, sarà riconsegnato ai legittimi proprietari, una decisione sancita con una delibera votata dalla Giunta comunale che ne ha previsto la restituzione in comodato gratuito decennale.
Il ritrovamento del rotolo (quella è la forma in cui, tradizionalmente, vengono composti e conservati i libri sacri ebraici) è stato casuale: «Era ben nascosto in un ripiano alto e per nulla accessibile della Sala Biella» svela la direttrice della biblioteca Patrizia Bellardone. «Risistemando e riordinando la sezione, lo abbiamo scovato e ne abbiamo controllato il contenuto, insieme alla dottoressa Anna Bosazza».

- Lo stavano cercando da tempo
  Una volta riconosciuta la scrittura ebraica, le bibliotecarie hanno scattato qualche immagine del rotolo per inviarle a Rossella Bottini Treves, presidente delle comunità ebraiche di Biella, Vercelli e Verbania. La risposta è stata sorprendente: non solo il rotolo era davvero un libro sacro, ma la comunità lo stava cercando da tempo, sapendo delle tracce della sua esistenza decenni fa. «Possiamo ipotizzare che durante il conflitto sia stato nascosto in civica per preservarlo» spiega Patrizia Bellardone. «Quale migliore nascondiglio fra migliaia di libri: è passato inosservato ai tanti bibliotecari che si sono avvicendati in Sala Biella».
Oggi il rotolo potrà tornare nelle mani di coloro che lo stavano cercando da tempo: «Non ha segni di inventariazione, timbri o altro che indichino che sia di proprietà della biblioteca civica» dice l'assessore alla cultura Teresa Barresi. «Ora organizzeremo un incontro per riconsegnare il prezioso documento alla comunità ebraica».

(DiariodelWeb.it, 16 novembre 2014)



I rifugi israeliani, visti da vicino

Daniel Terna ha fotografo i rifugi sotterranei costruiti in Israele per proteggere la popolazione da bombe e missili (sono «i posti più tranquilli» del paese, ha raccontato).

 
Daniel Terna è un fotografo di Brooklyn, negli Stati Uniti, che nel 2007 ha trascorso sei mesi in Israele. Gli elementi che lo hanno colpito di più nell'architettura del paese, ha raccontato in un'intervista a Slate, sono i rifugi antimissile. È dal 1951, praticamente dalla nascita dello stato di Israele, che in tutto il paese ogni costruzione deve essere dotata per legge di un rifugio a prova di bomba. Durante la sua visita, Terna ha scoperto che questi rifugi sono spesso lasciati aperti, in modo che possano essere utilizzati da chiunque in caso di attacco improvviso. Grazie a questo fatto, Terna ha potuto visitarne e fotografarne parecchi, da quelli costruiti vicino a un parco giochi, con pareti dipinte con personaggi dei cartoni animati, a quelli che contengono un intero studio per dentisti. Sono luoghi silenziosi e deserti, ha spiegato il fotografo, dove non filtrano i rumori dell'esterno e l'unica cosa che si può sentire è il ronzio delle luci al neon. Paradossalmente, ha raccontato, nonostante i rifugi siano costruiti per la guerra «sono i posti più pacifici che ho visto in Israele». Con queste foto, Terna ha realizzato un progetto fotografico che sarà in mostra a New York e poi a Los Angeles.

(il Post, 16 novembre 2014)


Antisemitismo, Israele e Palestina: l'informazione manipolata

di Maurizio Del Maschio

L'ignoranza è una piaga dura a guarire, ma l'ipocrisia è anche peggio. Quando questi due virus contagiano anche gli operatori dell'informazione allora la propagazione diventa devastante. In questi giorni accadono nefandezze incredibili nel mondo arabo ma tutto viene ovattato, attutito, talvolta ignorato, come la nuova intifada, motorizzata o appiedata, che sta colpendo Israele. Di ciò nessuno parla, perché sono notizie scomode, ideologicamente pericolose, non politicamente corrette. Una nuova strisciante forma di antisemitismo sta dilagando in Europa, ma viene ignorata dai media. Come l'ebola, l'antisemitismo è un virus misterioso: non si sa come si propaghi e non se ne conosce la cura.
  In Polonia, in questi giorni, stanno smantellando un gazebo costruito in un parco pubblico di Varsavia con le lapidi del cimitero ebraico, ma ciò non fa notizia. In Germania, in Francia, in Inghilterra, in Belgio, in Norvegia, in Turchia e altrove gli ebrei da anni sono tornati ad essere il facile bersaglio preferito di violenze verbali e fisiche. Gli ebrei sono divenuti di nuovo la valvola di sfogo del disagio economico e sociale del vecchio continente, fatti oggetto di accuse e di odio dejà vu per secoli e culminato nella Shoàh. Quante lacrime, sincere o di circostanza, sono state versate quando il mondo fu informato di tale orrore. "Arriverà un giorno in cui qualche idiota dirà che non è mai successo", disse il generale Dwight David Eisenhower ordinando ai suoi soldati di filmare e documentare tutto ciò che trovarono nei campi di sterminio nazisti. Ma l'Uomo, si sa, ha la memoria corta, dimentica facilmente e commette sempre gli stessi errori. Gli "idioti", come li chiamò Eisenhower, si sono riuniti anche quest'anno a Teheran per la seconda conferenza negazionista della Shoàh denominata "New Horizon". Nader Talebzadeh, consigliere personale della Guida Suprema Ali Khamenei, all'apertura dei lavori ha affermato che l'iniziativa costituisce la "più grande minaccia per i sionisti". Erano presenti 31 personaggi della galassia antisemita e negazionista americana, brasiliana, francese ed anche italiana.
  Suona quasi comica l'accusa (trovata in internet) che Stefano Cucchi sarebbe stato ucciso dai sionisti, ma purtroppo l'idiozia a cui il grande stratega americano faceva profeticamente riferimento non ha limiti. Da tempo, in Israele e nei territori palestinesi, ma con particolare virulenza a Gerusalemme, è esplosa quella che ormai si può definire la Terza Intifada: dopo quella dei sassi e quella degli attentati kamikaze, questa è caratterizzata dall'azione di singoli individui, spesso arabi israeliani, che con mezzi improvvisati (un trattore, un'automobile, sassi, bombe molotov) aggrediscono i passanti e le forze dell'ordine con sempre maggiore frequenza e violenza. Sono episodi del tutto ignorati da giornali e telegiornali occidentali. Solo se la polizia uccide uno degli autori di tali gesti si alzano lamenti contro la violenza israeliana, trascurando che gli Israeliani corrono ormai un rischio quotidiano uscendo semplicemente di casa.
  Il conflitto israelo-palestinese e l'antisemitismo occidentale sono collegati e quando esplode la violenza tra arabi ed ebrei in Israele anche in Occidente l'antisemitismo diventa più audace ed aggressivo. Durante il recente conflitto contro Hamas a Gaza, a Parigi 200 ebrei, riuniti in preghiera in una sinagoga, si sono dovuti barricare perché assediati da una folla urlante "Mort aux juifs! Juifs aux fours!" (Morte agli ebrei! Ebrei ai forni!). Si tratta di un grido già udito anche in molte altre città d'Europa. La presenza di 30 milioni di immigrati musulmani in molti Stati europei (il 5% della popolazione globale del vecchio continnte) non è estranea a questo fenomeno. Sono essi, in genere, a diffondere gli stereotipi del peggiore antisemitismo storico (nel 2011 in Belgio una indagine ha verificato che il 50% dei musulmani ritiene che gli ebrei vogliano dominare il mondo e poco diversi sono i risultati di altre indagini effettuate in vari Paesi europei). In Francia, uno dei Paesi a dove la presenza musulmana è più rilevante, nel 2013 il 40% delle violenze razziste sono state rivolte contro ebrei che sono solo l'1% della popolazione. Queste aggressioni, in Europa e in Israele, pur avendo l'apparenza di episodi sporadici e senza apparente connessione fra loro, sono almeno in parte ispirati e organizzati dai "soliti noti": Iran, Hamas, Hezbollah, OLP.
  Dopo l'uccisione di una bambina di tre mesi (e di una donna, oltre a numerose persone ferite) da parte di un guidatore che aveva scagliato la sua auto contro un gruppo di ebrei chassidici ed era stato ucciso dai poliziotti accorsi, Sultan Abu al-Einen, leader di Al-Fatah in Libano e stretto collaboratore di Mahmoud Abbas (noto con il nome di battaglia di Abu Mazen), aveva esaltato nella sua pagina Facebook l'azione di questo "eroico martire" che si era congiunto in matrimonio con le 72 vergini che costituiscono il premio dei martiri di Allah.
  In Palestina, che sempre nuovi Stati occidentali riconoscono come Stato anche se di Stato non ha ancora i crismi, sul quotidiano ufficiale "Al Hayat al-Jadida" è stato scritto, lo scorso luglio, che gli ebrei usano il sangue dei bambini palestinesi (una volta erano i bambini cristiani…) per impastare le azzime, ed il 24 settembre scorso la televisione locale ha citato numerosi esperti secondo i quali Israele aveva avvelenato l'acqua potabile a Gaza e si preparava a fare altrettanto in Cisgiordania. Per non soffermarsi sulle fiction arabe, anche rivolte all'infanzia, in cui gli ebrei appaiono come scimmie, asini e maiali.
  Un esempio clamoroso dello schizofrenico atteggiamento omissivo dei media occidentali è il silenzio pressoché totale sulla decisione dell'Egitto di creare una zona di sicurezza larga 500 metri e lunga circa 10 km lungo il confine con Gaza, distruggendo tutte le 800 case che si trovano a ridosso della fascia di sicurezza. I bulldozer e gli esplosivi hanno già quasi completato l'opera e agli abitanti (1.165 famiglie) era stato ordinato di abbandonare l'area entro 48 ore a loro rischio. Inoltre, l'Egitto ha chiuso per tre mesi il passaggio di Rafah (gli aiuti umanitari diretti a Gaza transitano da Israele), ha distrutto numerosi tunnel e sta costruendo un muro lungo il confine con la Striscia.
  Hamas ha pubblicato una lista dei politici che saranno le prossime vittime dell'intifada di Gerusalemme, travolti da auto dei "militanti". Chi, da noi, ne ha dato notizia? Si è avuta qualche espressione di indignazione? Una settimana fa da Gaza è stato lanciato un missile su Israele e Hamas ha subito arrestato i 5 autori del lancio confermando di volersi attenere alla tregua. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il re Abd Allah II ibn Hussein di Giordania si sono incontrati in segreto ed hanno concordato sulla necessità di riportare la calma a Gerusalemme, ampliando la collaborazione fra Israele ed il WAQF, l'organismo che da tempo ha la responsabilità religiosa dei luoghi santi islamici di Gerusalemme.
  Anche il presidente Abu Mazen si è associato a questo appello ed ha ordinato alla sua polizia di impedire le violenze in tutta la Cisgiordania. Infine, il governo israeliano ha autorizzato la costruzione di una intera nuova città araba, che potrà arrivare ad avere 40.000 abitanti, nei pressi di Akko. Tutto ciò nessuno lo ha segnalato, alla faccia del dovere di un'informazione imparziale…

(Online News, 16 novembre 2014)


Ebreo ferito in Belgio preoccupa Israele

Timore per episodi simili anche in Olanda, si vuole evitare l'escalation.

TEL AVIV
- Il ferimento di un ebreo religioso, avvenuto ieri in una strada di Anversa (Belgio), viene riferito con toni allarmati dalla stampa israeliana. In dichiarazioni riportate da Maariv, il presidente del Congresso ebraico europeo Moshe Kantor lamenta che "gli ebrei in Europa hanno perso la sensazione di sicurezza". Maariv elenca altri episodi recenti che destano inquietudine, fra cui quello che sembra essere stato un tentativo di investimento del rabbino olandese Benyamin Yaakobs da parte di un'auto sospetta.
Secondo Kantor "è responsabilità delle istituzioni in Europa, dei politici, dei magistrati e di chi è preposto a farvi valere la legge di garantire che gli ebrei si sentano sicuri nelle strade". Invece, a suo parere, nelle strade e su internet "c"e una specie di guerra" nei confronti degli ebrei.
Maariv scrive che, oltre agli episodi avvenuti in Belgio e in Olanda, su una sinagoga di Istanbul ignoti hanno applicato un cartello: "Edificio da demolire".

(Corriere del Ticino, 16 novembre 2014)


Erdogan sfida anche Colombo: "Gli islamici scoprirono l'America"

Per il leader di Ankara «marinai musulmani arrivarono nel nuovo mondo bel 1178»

di Marta Ottaviani

Marta Ottaviani
Ma quale Cristoforo Colombo. L'America è stata scoperta dai musulmani. O almeno così la pensa il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che, in occasione del primo Forum dei Musulmani dell'America Latina, ospitato a Istanbul in questi giorni, ha esposto la sua teoria storica che metterebbe in discussione una delle date di riferimento più importanti per la civiltà moderna. «Un gruppo di navigatori musulmani - ha spiegato Erdogan - arrivò sulle coste americane nel 1178. Nel suoi diari Cristoforo Colombo ha riferito della presenza di una moschea sulla sommità di una montagna a Cuba». Insomma, non solo Colombo non avrebbe scoperto proprio un bel niente, nel cattolicissimo Sud America c'erano vere e proprie colonie di persone che professavano l'Islam e che però, stando alla realtà storica dei fatti, non risultano. Secondo il quotidiano «Hurriyet», il presidente potrebbe essere rimasto affascinato dagli scritti di Youssef Mroueh, ricercatore della Al-Sunnah Foundation of America, che nel 1996 elaborò per primo questa teoria. Colombo avrebbe scritto nei suoi diari di aver visto una moschea a Cuba. Edificio di cui però nessuno ha mai notato l'esistenza, come della comunità che lo frequentava.
   Le rielaborazioni storiche sono solo un'espressione delle manie di grandezza del presidente che iniziano a pesare in modo considerevole sui contribuenti turchi. L'ultima, solo in ordine di tempo, è il mega palazzo presidenziale da oltre 1000 stanze e che è costato oltre 600 milioni di euro. Ha un nome evocativo, si chiama Ak Saray, che in turco suona come «palazzo bianco» e per costruirlo hanno distrutto 7000 metri quadrati della foresta Ataturk, area sotto protezione nella capitale Ankara. Nemmeno una sentenza della magistratura ha fatto desistere Erdogan dai suoi propositi. In quell'occasione l'allora premier aveva dichiarato che sarebbe andato avanti con il progetto, incurante del parere dei giudici.
   Il nuovo palazzo oltre ad avere attirato polemiche per il suo costo esorbitante, tanto che gli architetti turchi hanno chiesto a Papa Francesco, che visiterà la Mezzaluna a fine novembre, di non andarci, rischia di diventare famoso anche per un altro motivo. Secondo i media di opposizione, somiglia molto al palazzo dell'ex dittatore romeno Nicolai Ceausescu. Davvero un pessimo paragone, per un presidente accusato di essere sempre più autoritario.

(La Stampa, 16 novembre 2014)


Spagna e Portogallo puntano sulla loro storia. E noi?

di Salvatore Giannella

La scena: una piazza di un villaggio vicino Madrid. Un amico scrittore sta prendendo un caffè con il suo editore spagnolo quando la loro attenzione è colpita da un inconsueto frastuono. Sta arrivando da un vicolo un gruppo di persone con in testa un giovane che impugna una chiave arrugginita. Il giovane si dirige verso una casa segnata dalle rughe del tempo. Infila la chiave nella toppa, la gira con emozione. Il portone si apre con un cigolio che viene coperto dalle urla di gioia e dagli applausi del gruppetto. Colpito dall'inconsueta scena, il mio amico chiede lumi. Gli viene fornita questa spiegazione: il giovane è discendente di una famiglia ebrea che, dopo aver abbandonato anni fa la Spagna, oggi rientra a riprendere possesso, grazie alla chiave trasmessa da padre in figlio, della casa che è rimasta chiusa a lungo.
   Quella che sembrava una fervida creazione poetica, in realtà ci riporta a una mossa virtuosa del governo spagnolo che colpisce chi, come me, ha girato per mesi l'Europa alla ricerca di eccellenze da emulare (le ho raccolte in un libro per Chiarelettere, "Voglia di cambiare"). Trovo i particolari in una testimonianza di
In Spagna la maggioranza si è convinta che il declino è iniziato dopo il decreto dell'Alhambra che ordinò agli ebrei spagnoli di convertirsi al cristianesimo o di lasciare il Paese, abbandonando le loro occupazioni e i loro averi.
Giuliano da Empoli, il dinamico scrittore che dirige il Gabinetto Viesseux di Firenze e collabora con diverse testate nazionali tra cui IL, supplemento del Sole 24 Ore.
In Spagna la maggioranza si è convinta che il declino è iniziato molti secoli fa, addirittura nel 1492, anno della scoperta dell'America. Risale a quell'epoca, infatti, il decreto dell'Alhambra che ordinò agli ebrei spagnoli di convertirsi al cristianesimo o di lasciare il Paese, abbandonando le loro occupazioni e i loro averi. Negli anni successivi, a furia di persecuzioni e di conversioni forzate, i regnanti e l'Inquisizione riuscirono ad annientare una collettività che contava 300 mila persone e che aveva costituito per secoli l'ossatura della business community iberica.
   Così facendo, gli spagnoli si diedero la classica zappa sui piedi, mentre le diaspora degli ebrei avrebbe, nei secoli successivi, regalato al mondo maestri della scienza, del pensiero e degli affari. A oltre cinque secoli di distanza, il governo Rajoy ha deciso di rimediare, varando una legge che concede la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei che siano in grado di dimostrare un'origine sefardita (erano detti sefarditi, dall'ebraico Sefarad, "Spagna", gli ebrei abitanti la penisola iberica) e "un legame speciale con la Spagna". In teoria sarebbero centinaia di migliaia di persone: ma, al di là della risposta, tutta da verificare, la legge spagnola è definita "una mossa geniale" per il modo in cui unisce l'ideale al profitto e il passato al futuro.
   "Da un lato ripara un'ingiustizia storica e fa onore al governo che l'ha proposta", spiega Giuliano da Empoli. "Dall'altra punta ad attirare professionalità e capitali indispensabili in un periodo di crisi come quello attuale".
   Pure dalla penisola iberica, ma dal Portogallo, viene un altro esempio virtuoso. In primavera 44 mila nuove cartine geografiche sono state appese ai muri di tutte le classi delle scuole pubbliche. Sono le nuove cartine ufficiali del paese, ma hanno qualcosa di singolare. Infatti il territorio portoghese è schiacciato sull'estrema destra della mappa, mentre la maggior parte dello spazio è occupata da una massa azzurra. L'idea è di far entrare nella testa degli studenti che Portugal è mar, il Portogallo è oceano. Quattro milioni di chilometri quadrati di acque territoriali a fronte di soli 92 mila chilometri quadrati di terra, poco più del 3 per cento.
   "Ancora un modo di ricollegarsi ai fasti del passato per proiettarsi nel futuro: nel segno glorioso dell'esploratore Vasco de Gama (primo europeo a navigare direttamente fino in India doppiando Capo della Buona Speranza), le potenzialità enormi dei traffici e dei giacimenti sottomarini", precisa Giuliano.
   E a me vengono in mente le tante visite a città e paesi italiani dove non trovi traccia dei grandi spiriti e delle profonde radici storiche e culturali, capaci di contribuire senza tagli, ma con orgoglio e creatività, a ridisegnare un nuovo modello economico.

(Corriere della Sera / Blog, 16 novembre 2014)


Khamenei scatena l'odio anti Israele su Twitter

Cane rabbioso. Tumore. Nazione da eliminare. Sono i post della Guida suprema iraniana contro lo Stato ebraico. Al culmine delle trattative sul nucleare.

di Barbara Ciolli

 
Le invettive anti-israeliane sono il cavallo di battaglia della Guida suprema Ali Khamenei. Anatemi della massima autorità iraniana sono stati puntualmente scagliati per la guerra in Iraq contro l'Isis, per l'invasione di Gaza, persino per le rivolte di Ferguson, negli Usa, che le colpe degli Stati Uniti vanno sempre a braccetto con quelle del «regime sionista».
Di certo le ultime sue esternazioni non giovano ai colloqui riservati sul nucleare in corso tra il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. Ma, con l'escalation di violenze in Terra Santa, a Khamenei appaiono necessarie.

«ISRAELE VA ELIMINATO» - A due settimane dalla deadline (24 novembre) per l'accordo definitivo, il braccio destro del presidente Barack Obama conduce trattative serrate in Oman con Zarif dopo che Obama ha scritto una lettera a Khamenei, e Khamenei cosa fa? Twitta in Rete sentenze al vetriolo, incitando alla distruzione di Israele.
«La Cisgiordania deve essere armata», ha postato la Guida suprema nel weekend, «contro il barbarico e infanticida regime di Israele, che si comporta come un lupo e non risparmia crimini, non c'è altra cura che l'annientamento». Nell'account riconducibile a Khamenei è apparso anche un prontuario con le «nove domande chiave» su «come possiamo eliminarlo» - con un referendum - e sul «perché farlo».

NO AL RICATTO ISRAELIANO - Un delirio, agli occhi dell'Occidente colpevole della Shoah.
Ma per la teocrazia iraniana che parla per iperboli, è l'ennesima alzata di testa al dogmatico no israeliano su una anche «residua capacità di arricchire l'uranio» concessa a Teheran e su «ogni collaborazione sull'Isis».
Al ricatto israeliano degli Usa, Khamenei risponde nei toni più estremi (e anche propagandistici) possibili, innalzando l'asticella della sua red line, la linea rossa iraniana sul nucleare: nessun eventuale compromesso con gli Usa passerà dal ricatto israeliano.

(Lettera 43, 16 novembre 2014)


Maltempo in Israele: piogge torrenziali, fulmini e caos del traffico

Anche Israele e' stata colpita la notte scorsa da un'ondata di maltempo con piogge torrenziali, tuoni e fulmini. Stamattina grandi difficolta' al traffico soprattutto sull'autostrada che collega Tel Aviv e Gerusalemme per gli allagamenti in alcune parti della carreggiata. Sulla tangenziale di Tel Aviv, la Ayalon, in alcuni tratti la pioggia battente ha inondato dei tunnel provocando intoppi nel traffico. E lo stesso e' avvenuto in qualche zona abitata. A Netanya (nel centro del paese) e ad Ashdod (nel sud), alcune persone sono tratte in salvo dai servizi di emergenza dopo essere rimaste intrappolate nei torrentelli causati dalla pioggia. Anche i treni tra Ashdod e Askelon si sono fermati per malfunzionamento tecnici. Ora la situazione sembra migliorata ma le previsioni del tempo non sono delle migliori.

(MeteoWeb.eu, 16 novembre 2014)


Dio creò l'uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina.
(dal libro della Genesi, cap.1)
 

Alta tensione a Gerusalemme

GERUSALEMME - Resta elevata la tensione a Gerusalemme est dove anche ieri si sono avuti incidenti fra dimostranti palestinesi e reparti della polizia israeliana. Gli scontri più gravi, precisa il sito Ynet, si sono verificati nel rione di Abu Tor, dove un giovane palestinese è rimasto ferito in modo grave. Due altre persone hanno necessitato cure mediche.
Oggi nella ferrovia leggera di Gerusalemme guardiani hanno fermato una donna palestinese trovata in possesso di un lungo coltello.
Israele non accetta che siano «definite colonie le attività di costruzione nei quartieri ebraici di Gerusalemme est». Lo ha detto il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, citato dai media, in un incontro il suo omologo tedesco Walter Steinmeyer. Per Lieberman definire colonie l'edificazione di rioni ebraici a Gerusalemme est «significa distorcere la realtà. Non lo accetteremo mai» Per quanto riguarda le tensioni delle ultime settimane a Gerusalemme, Lieberman ha detto che Israele si è sforzato molto negli ultimi giorni di riportare la calma. Un nuovo appello al presidente palestinese Abu Mazen affinchè «cessi immediatamente l'incitamento che conduce a gesti di violenza» è stato lanciato oggi dal premier israeliano Benyamin Netanyahu in apertura del consiglio dei ministri.
Netanyahu ha detto di riferirsi in modo particolare ad una «giornata di collera proclamata da mezzi di comunicazione ufficiali dell'Anp», venerdì a Gerusalemme est.

(Giornale di Sicilia, 16 novembre 2014)


L'ambasciatrice di Abu Mazen che in Italia esalta i terroristi

La Mogherini mette il riconoscimento dello Stato palestinese in cima alla sua agenda Peccato che la rappresentante Anp a Roma consideri «martiri» gli assassini politici.

di Fausto Carioti

Mai Al Kail
Stavolta forse ci siamo: la Palestina come Stato sovrano dotato di pieno riconoscimento. Al momento non è cosi: la Palestina non è membro dell'Onu, dove deve accontentarsi dello status di osservatore permanente presso l'Assemblea. Sul suo definitivo upgrade pesa il veto di Stati Uniti e Israele. Nei prossimi giorni l'Autorità nazionale palestinese presenterà una proposta al Consiglio di sicurezza per ottenere il completo riconoscimento. Quanto all'Italia, non ha effettuato scambi ufficiali di ambasciatori con la Palestina. Il nostro Paese ha comunque una propria rappresentanza consolare a Gerusalemme Est e ospita una missione diplomatica palestinese, guidata dalla signora Mai Al Kaila, riconosciuta ufficialmente come «ambasciatore straordinario e plenipotenziario».
Federica Mogherini, ex funzionaria del Pd, quindi ministro degli Esteri e da qualche giorno responsabile della politica estera europea, appena entrata in carica ha messo il riconoscimento della Palestina in cima alla propria agenda. «Sono profondamente convinta che la migliore garanzia perla sicurezza di Israele sia la nascita di uno Stato palestinese», ha spiegato. Nessun riflesso pavloviano di una esponente di sinistra verso la questione palestinese, insomma, ma sana realpolitik condotta anche nell'interesse di Israele.
   Sarebbe una posizione apprezzabile, se non fosse contraddetta dalle frequenti prese di posizione di un personaggio che la Mogherini dovrebbe conoscere bene: la stessa Mai Al Kaila, che non perde occasione per manifestare la propria vicinanza ai terroristi responsabili di azioni contro Israele e i civili israeliani.
   Classe 1955, legata al partito Al Fatah, prima di venire in Italia la signora Al Kaila ha servito come ambasciatore in Cile. Nata a Gerusalemme, ha studiato medicina. Per 17 anni ha lavorato per la Unrwa, l'Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi e i cui dipendenti spesso sono stati scoperti essere complici o affiliai di Hamas e altre organizzazioni terroristiche. Nel 1986 è stata prigioniera nelle carceri israeliane. Ha ricevuto il gradimento di Giorgio Napolitano come ambasciatore in Italia nell'agosto del 2013. Le uscite di Mai Al Kaila forse sfuggono all'attenzione della Mogherini e degli altri responsabili della diplomazia italiana ed europea perché rilasciate non su canali ufficiali, ma su Facebook e in arabo, dunque ad «uso interno», o quasi, dei suoi referenti palestinesi. Una traduzione dall'arabo di alcuni dei suoi post più recenti può quindi essere utile.
   Il 4 luglio scorso la signora Al Kaila dedica il suo messaggio a Moataz Washaha, 22 anni, membro del Fronte popolare perla liberazione della Palestina, organizzazione terroristica (riconosciuta come tale anche dalla Ue) di matrice marxista. Washaha era stato ucciso dall'esercito israeliano il 27 febbraio, nella città di Birzeit in Cisgiordania. Era accusato di avere pianificato e condotto numerosi raid terroristici. L'uomo aveva rifiutato di arrendersi ai soldati: barricatosi in casa, aveva iniziato a sparare con un fucile d'assalto. Al Kaila si reca in visita alla casa del terrorista e scrive sul social network: «Migliaia di ringraziamenti al martire Moataz, rimarrà immortale nei nostri ricordi».
   Il 20 agosto la benedizione via Facebook dell'ambasciatrice ricade su un membro delle brigate Abdul Qader Husseini, braccio arenato di Al Fatah. Costui faceva parte della unità che Ianciava missili sugli israeliani. Al Kaila chiede per lui la misericordia di Allah e l'accesso al paradiso islamico. Il 5 novembre Al Kaila annuncia via Face-book un evento organizzato dalla sua ambasciata per richiamare la solidarietà degli italiani su Ahmad Sa'dat e Marwan Barghouti, prigionieri nelle carceri israeliane. Previsto anche un seminario per spiegare «la lotta coraggiosa dei nostri prigionieri». In realtà Sa'dat, segretario del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, è in carcere perché ritenuto responsabile dell'omicidio del ministro israeliano del Turismo Rehavam Zeevi nel 2001, oltre che di diversi civili. Era stato arrestato nel 2002 dall'Autorità nazionale palestinese e prelevato con la forza dall'esercito israeliano nel 2006. Quanto a Barghouti, leader dell'Intifada, in carcere dal 2002, è stato condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi.
   Il 6 novembre oggetto degli elogi di Al Kaila è il terrorista Moataz Hijazi, 32 anni, ucciso pochi giorni prima dall'esercito israeliano dopo che costui aveva tentato di assassinare il rabbino ed attivista Yehuda Joshua Glick. «Pietà per il mille volte martire Moataz Hijazi e per Abu Ammar, signore dei martiri», scrive su Face-book l'ambasciatore palestinese, che con ogni probabilità quando parla di Abu Ammar» intende riferirsi ad Arafat. Difficile capire come il riconoscimento di uno Stato i cui rappresentanti considerano «martiri» i responsabili di atti terroristici contro i civili possa portare sicurezza a Israele.

(Libero, 16 novembre 2014)


Netanyahu toglie i divieti alla spianata delle moschee

di Maurizio Molinari

Kerry prova a bloccare l'Intifada 3.0, incentrata su Gerusalemme. Al termine di 36 ore di colloqui no-stop ad Amman con i leader di Israele, Autorità palestinese e Giordania, il Segretario di Stato Usa fa sapere di aver registrato una convergenza positiva, da parte di tutti, a ridurre la tensione. In particolare, Kerry assicura che Benjamin Netanyahu ha «confermato il rispetto per lo status quo sulla Spianata delle Moschee », Abu Mazen promette «massimo impegno per frenare ogni tipo di violenza contro gli israeliani» e re Abdallah assicura che «ripenserà il ritiro dall'ambasciatore da Tel Aviv» se la tensione sul territorio inizierà a dileguarsi.
   Il domino di dichiarazioni si regge sulla riconferma dello «status quo a Gerusalemme » ovvero le intese fra Israele e Giordania che prevedono l'impossibilità per gli ebrei di pregare sulla Spianata delle Moschee. Ma le fibrillazioni rimangono perché Netanyahu sottolinea a Kerry che «eliminare le violenze da parte di Abu Mazen non basta perché è lui che, diffondendo informazioni errate, alimenta la campagna di odio». E Abu Mazen non è da meno perché sottolinea all'inviato di Obama che «fidarsi di Netanyahu è impossibile».
   Resta il fatto tuttavia che sul terreno, a Gerusalemme, la giornata trascorre senza scontri nonostante Israele faccia venir meno le restrizioni sull'accesso alla Spianata delle Moschee. È un primo segnale positivo e la scommessa dell'amministrazione Usa è di riuscire a cementare due risultati: disinnescare la bomba-Gerusalemme e creare le premesse di un dialogo con Abu Mazen capace di riportare i palestinesi al negoziato diretto con lo Stato Ebraico. È proprio tale scenario che spiega l'annuncio del ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, di arrivare a Gerusalemme nel fine-settimana. Steinmeier si muove d'intesa con Washington e il tentativo è convincere Abu Mazen a prendere in considerazione un rinvio della presentazione all'Onu della risoluzione che chiede il ritiro di Israele da tutti i territori occupati nel 1967 entro il novembre 2016. Ed è in tale cornice che Benny Lau, popolare rabbino di Gerusalemme, avanza una proposta «tutti i politici facciano un passo indietro della Spianata delle Moschee, facciamola gestire solo dagli uomini di fede, magari grazie ad un'iniziativa che parta dal Papa».

(La Stampa, 15 novembre 2014)


«... facciamola gestire solo dagli uomini di fede», dice il rabbino Benny Lau. Ma non sono uomini di fede anche gli ebrei che vogliono andare a pregare sul Monte del Tempio? Perché allora ebrei e cristiani non possono dire la loro sull'uso di quella contesa "spianata"? Lo chieda pubblicamente il papa al responsabile del Waqf a Gerusalemme. M.C.


E' morto Davide Cavaglion, riferimento degli ebrei a Cuneo

Dopo una lunga malattia. Aveva 50 anni

 
Davide Cavaglion
Cuneo perde una figura rappresentativa. Oggi, dopo una lunga malattia, è morto Davide Cavaglion, 50 anni, che con il padre Enzo conduceva la storica ditta di tappeti orientali e antiquariato. E manteneva viva la comunità ebraica cittadina.
Sempre affiancato dalla moglie e dai figli Daniele, studente universitario, e Sara, iscritta all'ultimo anno del liceo scientifico, Cavaglion organizzava cerimonie religiose e apriva alle visite il tempio di contrada Mondovì, del quale aveva seguito, passo passo, i lavori di restauro. Fino all'anno scorso, proprio grazie alla sua disponibilità, gli ebrei di Cuneo aveva potuto celebrare nel tempio alcune delle feste del calendario e condividere con la cittadinanza i riconoscimenti dati ai Giusti tra le Nazioni.
La famiglia Cavaglion, per la sua attività commerciale e per il suo ruolo culturale e storico nel capoluogo, è molto conosciuta e stimata, anche per la riservatezza che ne contraddistingue lo stile di vita.
I funerali di Davide Cavaglion si terranno secondo il rito ebraico lunedì, alle 11, nel settore ebraico del cimitero di Cuneo. Secondo la religione ebraica non è uso allestire la camera ardente.

(La Stampa, 15 novembre 2014)


C'è del lusso in Palestina

Lontano, ma non troppo, dalla striscia di Gaza e le sue vicende, prosegue disordinato lo sviluppo economico della Cisgiordania, favorito dai lauti finanziamenti della comunità internazionale, da una situazione politica di relativa stabilità, e dagli investimenti degli emigrati palestinesi nella madrepatria. Il disegno politico inaugurato dall'ex premier dell' Autorità nazionale palestinese, Salam Fayyad, ex funzionario del Fondo monetario internazionale e uomo molto apprezzato in Occidente, prevede lo sviluppo economico della regione come base per il riconoscimento di uno Stato indipendente. Il piano, supportato da riforme strutturali in diversi campi, dalla sicurezza al settore bancario, ha avuto i suoi momenti di successo, con una crescita economica nell'area che ha raggiunto in alcuni anni tassi dell'8 e 9%. Naturalmente esistono aspetti negativi e soprattutto rimangono irrisolti problemi strutturali. La questione principale è che, a 21 anni dagli accordi di Oslo, l'area continua a crescere indipendentemente da ogni tipo di accordo sul riconoscimento di uno Stato autonomo. L'occupazione dei Territori non cessa, e Israele continua a controllare confini, sicurezza e risorse dei palestinesi. AI sogno di un Paese libero, indipendente e prospero si sovrappone un american dream fatto di opportunità notevoli per le classi più abbienti e gli imprenditori, ma che nasconde una crescente dipendenza del!'Autorità dal capitale straniero e dallo Stato ebraico. Palestinian Dream è il nome del progetto con il quale Andrea e Magda, duo di fotografi franco-italiano, si propongono di raccontare la realtà contraddittoria e per certi versi controproducente del boom economico in Cisgiordania. In mostra fino al 29 novembre a Parigi, in occasione del mois de la photo organizzato dalla Maison européenne de la photographiee sino al 23 novembre al Foiano fotofestival a Foiano della Chiana (Arezzo), il progetto contiene immagini di diverse città sotto il controllo del!' Autorità nazionale palestinese. Su tutte Ramallah, la capitale de facto, dove nuove banche, compagnie assicurative, outlet, fast food e hotel di lusso vedono la luce ogni giorno. Grazie al fatto che si trova in quel 40% di terra su cui i palestinesi possono costruire senza il permesso israeliano, quello che una volta era un piccolo villaggio oggi è una città moderna, con una popolazione raddoppiata in pochi anni. Nel 2010 è stato inaugurato il Movenpick hotel, una struttura a cinque stelle di proprietà svizzera, la cui forma è ispirata alla Città vecchia di Gerusalemme. Proprio il boom di Ramallah fa temere a molti palestinesi che il loro governo stia abbandonando la sua capitale formale, ormai sempre più isolata dal resto del Paese. Resort, centri commerciali, sushibar e palestre cominciano a comparire anche a Nablus, Betlemme e Qalandiya. Nove chilometri a nordest di Ramallah è stata nel frattempo costruita, dal nulla, una città per 40 mila persone. È Rawabi, frutto della mente di un imprenditore palestinese-americano e dei soldi di un fondo qatariota. Non ci abita ancora nessuno: non è stato raggiunto l'accordo con gli israeliani sulla fornitura idrica.

(pagina99we, 15 novembre 2014)


Forse la relativa prosperità dipende proprio dal fatto che la ricerca dello “Stato autonomo” è per il momento de facto messa da parte. Il “Paese libero, indipendente e prospero” è davvero un sogno, anzi un incubo, perché prevede la sparizione dello Stato ebraico (che non ci sarà) e impedisce agli abitanti arabi sulla terra d’Israele (anche in Giudea-Samaria, detta Cisgiordania) di vivere in una certa tranquillità. M.C.


Eurovision 2015: Israele conferma la partecipazione

Tempo fa avevamo riferito del processo di rinnovamento della tv israeliana, che ad inizio 2014 chiuderà e riaprirà in una forma diversa, più snella e più libera, sul modelo greco. Ebbene, nonostante questo processo stia per entrare in atto, IBA (Israeli Broadcasting Authority) ha confermato che farà parte del gruppo eurovisivo il 19,21 e 23 marzo a Vienna per la sessantesima edizione della rassegna.
A settembre si era iscritta in via preliminare, in questi giorni è arrivata l'ufficialità della sua partecipazione. A breve sarà reso noto il processo di selezione dell'artista. L'anno scorso fu selezionata internamente Mei Finegold e poi con uno show fu scelta, fra tre canzoni, "Same heart", che nonostante i favori del pubblico, non riuscì a centrare l'ingresso in finale.
Al momento sono 39 i paesi iscritti all'Eurovision Song Contest 2015: a Gennaio l'EBU renderà nota la lista ufficiale dei paesi iscritti in concorso, pronunciandosi relativamente alla questione della Grecia, ancora in sospesa perchè NERIT, la nuova tv ellenica, non ha ancora offerto le necessarie garanzie di copertura ed obiettività richieste dall'ente che riunisce le tv pubbliche.
Sono invece già 4 i cantanti ufficialmente selezionati: Knez (Montenegro), Trijntije Oosterhuis (Paesi Bassi), Daniel Kajmakoski (Ex Repubblica Jugoslavia di Macedonia) e Löic Nottet (Belgio). San Marino renderà nota la propria scelta a livello di artista dopo lo Junior Eurovision, mentre come è noto l'Italia passerà dal Festival di Sanremo, la cui finale è in programma il 14 febbraio.

(Eurofestival NEWS, 15 novembre 2014)


Perché Abbas non condannerà gli attentati terroristici
Ottimo articolo!


di Khaled Abu Toameh

La recente ondata di attentati terroristici a Gerusalemme, Tel Aviv e in Cisgiordania non ha stupito chi segue la campagna di istigazione alla violenza, tuttora in corso, condotta dai palestinesi contro Israele.
   Questa campagna si è intensificata subito dopo l'ultimo fallimento del "processo di pace" tra Israele e i palestinesi avviato dal segretario di Stato americano John Kerry. Il "processo di pace" di Kerry ha davvero messo gli israeliani e i palestinesi in una nuova rotta di collisione, che ha raggiunto il suo apice con i recenti attentati terroristici contro gli israeliani.
   Kerry non è riuscito ad ammettere che il presidente dell'Autorità palestinese (Ap), Mahmoud Abbas, non ha ricevuto un mandato dal suo popolo per negoziare, per non dire firmare, un accordo con Israele. Abbas è ormai arrivato al decimo anno di un mandato politico di quattro.
   Il segretario di Stato americano non ha nemmeno prestato ascolto ai consigli di chi lo aveva avvisato e
Abbas non è in grado di fare nessun accordo con Israele. Abbas non può nemmeno recarsi nella sua residenza privata nella Striscia di Gaza governata da Hamas e controlla meno del 40 per cento della Cisgiordania.
ai suoi collaboratori che lo avevano messo in guardia sul fatto che Abbas non fosse in grado di porre concretamente in essere nessun accordo con Israele. Abbas non può nemmeno recarsi nella sua residenza privata nella Striscia di Gaza governata da Hamas e controlla meno del 40 per cento della Cisgiordania. Ma Kerry dove si aspettava di attuare un accordo con Israele? A Ramallah o a Nablus?
Ciò che Kerry e gli altri leader occidentali non vogliono capire è che Abbas non è autorizzato a fare alcuna concessione in cambio della pace con Israele e ha anche più volte promesso al suo popolo che non avrebbe fatto alcuna concessione per amore della pace con lo Stato ebraico.
   In un discorso pronunciato a Ramallah l'11 novembre in occasione del decimo anniversario della morte del suo predecessore, Yasser Arafat, Abbas ha dichiarato: "Chi rinuncia a un solo granello di terra della Palestina e Gerusalemme non è uno di noi".
   Solo questa affermazione dovrebbe bastare a Kerry e ai leader occidentali per rendersi conto che sarebbe impossibile chiedere ad Abbas di fare delle concessioni. Come Arafat, il presidente dell'Ap è diventato ostaggio della propria retorica. Come ci si può aspettare che Abbas accetti un accordo che non include il 100 per cento delle sue richieste, e in questo caso, tutti i territori conquistati da Israele nel 1967?
   Lo stesso Abbas sa che se tornasse a casa con l'approvazione del 97-98 per cento delle sue richieste, il suo popolo gli sputerebbe in faccia o lo ucciderebbe, dopo averlo accusato di essere un "disfattista" e di "aver rinunciato ai diritti palestinesi".
   Questo è esattamente il motivo per il quale Abbas ha deciso di abbandonare il "processo di pace" di Kerry durato nove mesi. Rendendosi conto che Israele non avrebbe accettato tutte le sue richieste, la scorsa estate, Abbas ha preferito abbandonare i colloqui di pace.
   Per Abbas è più conveniente essere criticato dagli Stati Uniti e Israele piuttosto che essere denunciato dal suo popolo per aver raggiunto un pessimo risultato con Israele.
   Non tenendo conto di questi fatti, Kerry ha cercato di convincere Abbas a fare concessioni che trasformerebbero il presidente dell'Autorità palestinese in un "traditore" agli occhi del suo popolo.
   Invece di essere onesto con la popolazione e dirle che la pace richiede dolorose concessioni anche da parte dei palestinesi, e non solo di Israele, Abbas ha preferito - dopo il fallimento del "processo di pace" di Kerry - istigare i palestinesi contro lo Stato ebraico.
   Da allora, il presidente dell'Ap ritiene Israele responsabile del fallimento degli sforzi del segretario di Stato americano. Abbas usa al contempo i media e la retorica infiammata per dire al suo popolo che Israele non è un partner di pace e che l'unico obiettivo dello Stato ebraico è quello di conquistare le terre e compiere "la pulizia etnica" e "un genocidio" contro i palestinesi.
   Le recenti accuse lanciate da Abbas contro i coloni ebrei e gli estremisti, responsabili a suo dire di "contaminare" la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme vanno inserite nel contesto della massiccia
Negli ultimi mesi Abbas, Hamas e la Jihad islamica hanno radica- lizzato i palestinesi al punto che è diventato assurdo anche parlare di processo di pace con Israele. Abbas è ben consapevo- le che il suo popolo lo condan- nerebbe se mai tornasse a sedersi al tavolo dei negoziati con Israele.
campagna di istigazione alla violenza che si è intensificata all'indomani del fallimento del "processo di pace" di Kerry.
Nel corso degli ultimi mesi, Abbas, Hamas e la Jihad islamica hanno radicalizzato i palestinesi al punto che è diventato assurdo anche parlare di processo di pace con Israele.
Abbas è ben consapevole che il suo popolo lo condannerebbe se mai tornasse a sedersi al tavolo dei negoziati con Israele. È per questo che ora egli ha scelto una strategia differente: cercare di imporre una soluzione, con l'aiuto delle Nazioni Unite e della comunità internazionale.
Egli vuole che il Consiglio di sicurezza dell'Onu e la comunità internazionale gli diano ciò che lo Stato ebraico non potrà concedergli al tavolo dei negoziati.
   La campagna di istigazione alla violenza contro Israele ricorda l'atmosfera che regnava in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza subito dopo il vertice abborracciato di Camp David dell'estate 2000. Allora, anche Yasser Arafat abbandonò il tavolo dei negoziati dopo aver capito che Israele non gli avrebbe concesso tutto ciò che chiedeva, ossia un completo ritiro entro i confini precedenti al 1967.
   Al suo ritorno da Camp David, anche Arafat scatenò una campagna di istigazione alla violenza contro Israele che finì per portare allo scoppio della seconda Intifada, nel settembre 2000.
   Ora Abbas sta seguendo le orme di Arafat intensificando i suoi attacchi retorici contro Israele. Questa volta Hamas e gli altri gruppi terroristici si sono uniti apertamente alla sua campagna di istigazione alla violenza chiedendo ai palestinesi di usare le auto e i coltelli per uccidere gli ebrei al fine di "difendere" la moschea di al-Aqsa.
   Il rifiuto di Abbas di condannare i recenti attentati terroristici contro Israele può essere attribuito a due motivi: la paura del suo popolo e la convinzione che la violenza costringerà Israele a fare delle ampie concessioni. Rifiutando di denunciare gli attentati ed elogiando i perpetratori come fossero eroi e martiri (come ha fatto nel caso di Mu'taz Hijazi, l'uomo di Gerusalemme Est che ha sparato e ferito gravemente il rabbino e attivista Yehuda Glick), Abbas esprime la sua tacita approvazione della violenza.
   Di fatto, nessun funzionario dell'Ap ha denunciato l'ondata di attentati terroristici contro Israele. Anche loro hanno paura di essere condannati dal proprio popolo se denunciassero "le operazioni eroiche", come l'accoltellamento di una donna di 26 anni e l'episodio dell'auto che è stata lanciata contro un gruppo di persone alla fermata di un tram investendo la carrozzina di una neonata di tre mesi che è rimasta uccisa.
   Abbas spera che gli attentati terroristici continueranno a mantenere il conflitto israelo-palestinese in cima all'agenda internazionale nel momento in cui tutti gli occhi sono puntati sulla minaccia costituita dallo Stato islamico, il gruppo terroristico che opera in Siria e in Iraq. Egli sa anche molto bene che il popolo che lui ha radicalizzato gli si rivolterebbe contro se osasse alzare la voce contro l'uccisione degli ebrei.

(L'Opinione, 14 novembre 2014 - trad. Angelita La Spada)


Un articolo come questo, lucido, lineare, aderente ai fatti come si presentano da soli a chi li guarda con il solo desiderio di capire la realtà, se preso seriamente in considerazione obbligherebbe molti politici e giornalisti a cambiare radicalmente l’ottica con cui valutano la questione arabo-israeliana e la politica con cui la trattano. Ma non sembra che questo possa accadere. L’attenzione dei dicitori di pace non è diretta su Abbas e i palestinesi, ma su Netanyahu e gli israeliani. Di quello si parla, quello deve essere esaminato, soppesato, passato al setaccio, criticato, e nel migliore dei casi fatto oggetto di consigli, rimbrotti, ammonimenti. C’è disonestà in tutto questo. In molti casi la cosa è evidente, ma ci si può aspettare che i disonesti ammettano la propria disonestà? No, a meno che non ci sia un netto dietrofront, una forma di conversione. Non si passa dalla disonestà all’onesta per gradi. M.C.


Hamas fa la cresta sugli aiuti ai palestinesi

Nulla di nuovo sotto il sole di Gaza. L'organizzazione terroristica che da sette anni decide le sorti dei palestinesi che hanno la sventura di affacciarsi sul Mediterraneo continua a lucrare copiosamente dalla sua posizione di dominus incontrastato. Malgrado il sedicente governo unitario palestinese, infatti, le vecchie abitudini non sono tramontate: venute meno le laute entrate provenienti dal contrabbando praticato mediante le migliaia di tunnel fatti saltare in aria o allagati dall'Egitto, Hamas ha dovuto reperire nuove fonti di finanziamento....

(Il Borghesino, 15 novembre 2014)


Colorfood, con nove chef il cibo incontra l'arte

Da Oldani a Mazzucchelli nello shooting tour di Dan Lev

 
ROMA - Immagini così belle che viene voglia di morderle: il cibo fotografato dall'israeliano Dan Lev fa venire l'acquolina in bocca solo a guardarlo. Dal 14 al 18 novembre il fotografo è impegnato in uno "shooting tour" in Italia: quattro giorni di scatti che saranno protagonisti della mostra Colorfood@Expo al Padiglione israeliano di Expo Milano 2015. In linea con il tema della manifestazione, "Nutrire il pianeta, energia per la vita", arte e cibo diventano strumento di amicizia fra Israele e Italia. Una passione, quella di fotografare il cibo (e di postare le foto sui social network), che accomuna milioni di persone in tutto il mondo e che ha dato origine perfino a un termine specifico, "foodporn".
  Stavolta però gli scatti sono d'autore - Dan Lev collabora con chef e grandi ristoranti e realizza servizi per libri di cucina e per il magazine 'Al Hashulchan' (In Tavola) - e i soggetti sono i piatti di nove chef italiani, Enrico Bartolini, Iside De Cesare, Victoire Goulobi, Aurora Mazzucchelli (Ambassador del progetto solidale internazionale We Woman for Expo 2015), Giancarlo Morelli, Davide Oldani (Ambassador per Expo 2015), Emanuele Pollini, Tommaso Fara e Fausto Oneto detto U Giancu.
  Il processo creativo della mostra fotografica riflette tutte le fasi di preparazione dei cibi in cucina, dall'ispirazione alla creazione, dall'assaggio alla mise en place, perché Colorfood vuole dimostrare che i cuochi sono artisti a tutti gli effetti e che le loro creazioni devono soddisfare anche la vista, oltre che il gusto e l'olfatto. Con ristoranti e cantine a fare da insoliti set fotografici, una data è dedicata alle chef donne (venerdì 14); due date vedono coinvolti gli chef uomini (sabato 15 e martedì 18); domenica 16 è riservata agli outsider della cucina. Sponsor della giornata di shooting al femminile, con Victoire Goulobi e le chef stellate Iside De Cesare e Aurora Mazzucchelli è la cantina Travaglino di Calvignano, nelle colline sopra Casteggio (PV). Datata 1111, la cantina è stata ristrutturata negli anni '80 con un intervento conservativo che ne ha mantenuto il fascino e le caratteristiche funzionali. Davide Oldani, fra i più celebri allievi di Gualtiero Marchesi, apre in anteprima per lo shooting le porte del suo prossimo locale, il ristorante D'O a San Pietro all'Olmo di Cornaredo (MI), ancora in via di completamento. Le creazioni di Emanuele Pollini saranno fotografate nel nuovo gastro-bistro milanese Carlo e Camilla in segheria di Carlo Cracco, a due passi dal Naviglio Pavese, un'ex fabbrica trasformata in un luogo di convivialità e design. Ancora a Milano si ferma Dan Lev per fotografare i piatti del ricercatore culinario ed esperto di cotture alternative Tommaso Fara e di Fausto Oneto detto U Giancu. La location è un'altra anteprima, l'officina-laboratorio di Fara, di prossima inaugurazione. Sarà uno spazio per il "social cooking", dove si lavorerà insieme per cucinare e assaporare insieme quello che si è preparato. Gioca in casa, nel suo ristorante stellato Pomiroeu a Seregno (MB), lo chef Giancarlo Morelli. Spesso sede di mostre di artisti affermati o emergenti, il locale prende il nome dal dialetto locale, in cui Pomiroeu significa "pometo", per le coltivazioni di mele di cui un tempo Seregno era ricca. Lo chef stellato Enrico Bartolini ospita invece lo shooting al Devero, il ristorante che dirige nell'omonimo hotel a Cavenago di Brianza, vicino al lago di Como e alle stazioni invernali prealpine. La mostra ha il patrocinio di Expo Milano 2015, delle due ambasciate (quella israeliana in Italia e quella italiana in Israele) e della Fondazione Italia - Israele per la Cultura e le Arti. Appena finite le registrazioni di Hell's Kitchen Italia, si unirà al team di Colorfood anche il fascinoso Carlo Cracco.

(ANSA, 14 novembre 2014)


Giochi di distruzione d'Israele per i bambini palestinesi

di Franco Iacch

La propaganda anti-israeliana nella Striscia di Gaza non ha limiti: appare nei libri di scuola, discorsi pubblici e programmi televisivi. L'ultimo esempio antisemita è un nuovo videogioco online dal titolo 'Liberazione della Palestina'. In questo nuovo videogame, i giocatori devono "sbarazzarsi degli insediamenti israeliani, comprare armi ed attuare scambi di prigionieri", così come spiegato nel quotidiano ufficiale di Hamas. Il gioco insegna ai giocatori che i negoziati "non possono mai portare ad alcun risultato positivo e che il linguaggio delle armi è il più efficace con gli israeliani".
Continuano le pubblicazioni a cura dei servizi segreti israeliani sul modus operandi di Hamas, organizzazione terroristica che come obiettivo ha la cancellazione dello Stato di Israele. Oltre che con le armi, tra Israele ed i paesi che hanno giurato la sua eliminazione dalla cartina geografica, si combatte da anni una guerra a furia di pubblicazioni ed approfondimenti, mirati a screditare l'operato del governo in questione. Che Hamas sia un'organizzazione terroristica, non ci sono dubbi, considerando che è ritenuta tale anche dall'Unione Europea.
Secondo i programmatori, il gioco ha lo scopo di "rafforzare nei cuori degli utenti, sopratutto bambini, il desiderio nazionale di liberare la Palestina".
Nel gioco è possibile acquistare un certo numero di armi tra cui lanciagranate, fucili d'assalto AK-47 e razzi. Una cintura esplosiva può essere acquistata per compiesere attacchi suicidi. Aggiornamenti e punteggi ottenuti vengono condivisi sui social.
Commenti del tipo: "Venticinque insediamenti sionisti sono stati distrutti dall'utente X. Dio benedica il percorso che avete scelto" sono molto comuni sulla pagina Facebook del gioco.

(Difesa, 13 novembre 2014)


Ma esistono anche videogiochi in cui l’IDF combatte contro i terroristi di Hamas.


Israele, nessun limite all'ingresso dei musulmani alla Spianata

La polizia ha rimosso i posti di blocco verso Gerusalemme Est e tolto le restrizioni per i fedeli

di Lucio Di Marzo

Una serie di provvedimenti per far calare la tensione in Israele e la revoca delle misure che restringevano l'accesso per i musulmani alla Spianata delle moschee di Gerusalemme.
La polizia di frontiera pattuglia il Monte del Tempio a Gerusalemme
Sono queste le misure emerse da un incontro a tre tra il premier Benjamin Netanyahu, re Abdullah di Giordania e il segretario di Stato John Kerry ad Annab e da un comunicato della polizia pubblicato poco dopo.
Se nei mesi scorsi in diverse occasioni le forze dell'ordine hanno impedito l'ingresso per la preghiera del venerdì agli uomini con meno di cinquant'anni, oggi Israele consentirà ai fedeli di salire alla Spianata, dove si trova uno dei luoghi più santi per l'Islam, senza restrizioni. La polizia ha anche rimosso - scrive il quotidiano Haaretz - due posti di blocco sulle strade che conducono a Gerusalemme Est.
Al termine dell'incontro con Netanyahu, John Kerry ha dichiarato che il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha ribadito l'intenzione di "riportare la calma" e l'impegno "alla nonviolenza", mentre il premier israeliano di "mantenere lo status quo sul Monte del Tempio".
Un gruppo di ultranazionalisti rivendica per gli ebrei il diritto di pregare sulla Spianata e vorrebbe cambiare quanto deciso nel 1967, quando la la gestione del luogo fu affidata alla Giordania e il controllo della sicurezza esterna agli israeliani.

(il Giornale, 14 novembre 2014)


Sinai, giornata di sangue: jihadisti filo-turchi contro l'Egitto

di Carlo Panella

Spaventosa giornata di attentati in Egitto: il più grave e inquietante è avvenuto, 45 miglia al largo del porto di Damietta, nella zona del Canale di Suez, quando una motovedetta militare egiziana è stata attaccata da una flottiglia di barchini di terroristi. Gravissimo il bilancio dell'arrembaggio a colpi di granata: 8 marinai egiziani morti o dispersi e 5 feriti.
  È questo il primo attentato in mare di così grandi dimensioni, dopo l'assalto all'incrociatore Us Cole ad Aden nel 1996, ma il fatto politicamente più rilevante è che i Servizi egiziani, a seguito delle prime indagini che hanno portato all'arresto di 32 sospettati a Damietta, hanno diramato note ufficiose con le quali attribuiscono la responsabilità dell'arrembaggio terroristico addirittura alla Turchia.
  I terroristi, dunque, sobillati da Ankara (che avversa frontalmente il presidente al Sissi giudicato "golpista") avrebbero attaccato la nave militare egiziana per punire il Cairo del recente accordo siglato con Israele, Grecia e Cipro per il pattugliamento marittimo delle coste al largo di Cipro in cui si sta perforando il gigantesco giacimento di metano "Leviathan". E' questo uno dei più grandi giacimenti di nuova individuazione al mondo e il suo sfruttamento (siamo nella fase del trivellamento) avrà immense conseguenze geopolitiche. Oltre alla Grecia e Cipro, infatti, Israele non solo non sarà più costretta a importare energia, ma addirittura la potrà esportare (in primis all'Egitto, ovviamente). Ma la Turchia, che spalleggia il governo della Cipro turca - non riconosciuto dalla comunità internazionale - contesta sul piano del diritto la sovranità di Cipro e Israele su Leviathan, ha inviato una flotta al largo di Cipro e i suoi jet spesso sorvolano minacciosamente gli impianti e le flotte greca e israeliana che li proteggono.
  L'attentato di Damietta dunque - se hanno ragione i Servizi egiziani - segna l'apertura di un nuovo fronte di tensioni e di guerra a "bassa intensità", proprio a ridosso della zona più esplosiva del Mediterraneo. Gravissimi sono anche gli attentati che hanno colpito l'Egitto nel Sinai, al Cairo e persino in Libia. In un villaggio vicino a Rafah - al confine con Gaza - sono stati infatti uccisi due agenti della polizia, mentre tre soldati sono caduti in un'imboscata vicino alla città di Sheikh Zuweid. Episodi gravi in sé, ma ancora più gravi perché dimostrano che il pur serissimo impegno del Cairo a contrastare i terroristi di Ansar el Maqdis - che riconoscono il Califfato nero Siro-iracheno - non li riesce a debellare.
  Dal colpo di Stato dell'agosto 2013 del generale Fattah al Sissi, le vittime egiziane di attentati terroristi nel Sinai sono quasi un centinaio. Per di più, i terroristi minacciano esplicitamente i turisti di Sharm el Sheik e delle altre località turistiche del Sinai, provocando enormi danni a causa del crollo delle presenze. In risposta agli attentati l'esercito egiziano ha fatto saltare altri 9 tunnel (il totale supera ormai la trentina) che portano a Rafah da Gaza, considerata non a torto dagli egiziani il santuario dei jihadisti del Sinai.
  Sempre ieri attentato anche nella metropolitana del Cairo per fortuna con solo 21 feriti e infine un vero e proprio "sfregio" a Tripoli. La capitale della Libia è infatti sotto il ferreo controllo delle "brigate di Misurata" e dei partiti islamisti, in primis i Fratelli Musulmani, che l'Egitto di al Sissi non solo contrasta duramente dentro l'Egitto, ma che combatte anche in Cirenaica. Gli aerei egiziani e degli Emirati forniscono infatti una fondamentale copertura aerea alle truppe del generale "laico" Al Haftar che combatte duramente gli islamisti che avevano preso il controllo di Bengasi. In questo contesto l'attentato di ieri contro le ambasciate di Egitto e Emirati di Tripoli assume i chiari connotati di un "avvertimento" che ha forse avuto la piena complicità del governo islamista della Tripolitania.
  Nel complesso, questa serie di attentati, come tutti quelli che li hanno preceduti, è la controprova del ruolo di punta di diamante nel contrasto politico e militare degli islamisti e degli jihadisti che ha assunto l'Egitto di Fattah al Sissi, non a caso in piena collaborazione con Israele. Incluso il netto contrasto di Hamas a Gaza. Ruolo che al Sissi ieri ha rivendicato a fronte della platea araba: «La mappa del terrorismo si allarga oggi più che mai e i paesi arabi sono di fronte a un pericolo serio, devono quindi unire gli sforzi per sradicarlo».

(Libero, 14 novembre 2014)


L'isola verticale mai uguale a se stessa tra spiritualità e un'economia vivace

Simbolo dell'ingegno delle minoranze attira visitatori e studiosi da tutto il mondo. Una comunità che ama le tradizioni, il commento del rabbino capo di Venezia.

 
La signora Palmira...
... sfoggia pagnotte e pasticcini kosher nel panificio del Ghetto

VENEZIA - Aveva 12 anni la signora Palmira quando ha cominciato a lavorare nel panificio di Giovanni Volpe, aperto nel 1954. Ora ne ha 60 e con un sorriso sfoggia pagnotte e pasticcini kosher. «Ho abitato a lungo in Ghetto e ho visto cambiare tante cose qui». Compreso il titolare, che ora è Davide, figlio di Giovanni. Al panificio ci si arriva venendo dal ponte delle Guglie, nella calletta che fa angolo con il ristorante più famoso del Ghetto, il Gam Gam. Kosher, ovviamente. È di proprietà della comunità Lubanovitch, quella più ortodossa, che ha rivoluzionato il paesaggio degli ebrei veneziani con i loro vestiti di stretta osservanza religiosa. Arrivano da tutto il mondo e molti giovani vengono a seguire la Yeshiva Gedolah, la scuola spirituale. Ezequiel, per esempio, viene dall'Argentina, ha 21 anni e il sogno di diventare un businessman. Assieme ad altri dieci ragazzi inizia alle 8, studia la mistica dello Jasidismo, alle 9 prega, e poi si immerge nelle letture di filosofia e legge.
  «Venezia toglie il fiato», sussurra. Quasi a fianco c'è una delle più belle gallerie d'arte della città, la Ikona Gallery. Ziva Krauss l'ha fondata nel 1979 ma è solo dal 2003 che l'ha portata in Ghetto Nuovo. Dedicata alla fotografia, ora ospita David Weber, un giovane veneziano di base a Parigi. «Era una vecchia falegnameria, in condizioni disastrose. Allora non c'erano tutte queste attività né il fiume di turisti». Il Ghetto è un luogo che da 500 anni cambia continuamente. Tanto è il tempo passato da quel 29 marzo 1516 quando la Serenissima decretò che «li Giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case ed acciocché non vadino tutta la notte attorno». Il primo Ghetto della storia e nel mondo. La Repubblica non fu mai tenera coi suoi abitanti ebrei, «ma a differenza di Roma non voleva annichilirli - ricorda un grande storico come Riccardo Calimani - Era pragmatica, sapeva che erano vitali per la sua economia». Certo, aggiunge, «ricordare i 500 anni del Ghetto non sarà una festa da ballo: è solo una storia triste ». Prima il Ghetto Novo, poi il Vecchio e infine quello Novissimo: stipati e controllati a vista da «Custodi cristiani pagati da loro Giudei», col compito di chiudere le porte a mezzanotte e di riaprirle la mattina alla campana della Marangona.
  Gli stipiti di quelle porte ancora visibili agli ingressi del Ghetto sono comunque solo alcune delle cicatrici del Ghetto. Eppure dentro è sempre stato un eco-sistema vivacissimo: stamperie, artigiani, studiosi, medici, finanzieri, e intanto le case non potevano che crescere in altezza anche fino ai 9 piani. L'ingegno delle minoranze vessate. Le porte furono divelte nel luglio del 1797, sotto l'urto dell'onda napoleonica. Ora qui vive un numero di famiglie ebraiche che si conta in una mano. Il resto della comunità, circa 450 persone, è sparso per la città d'acqua e di terra. Nel 1931 se ne contavano 1814. Sette anni dopo 1200, travolti dalle leggi razziali prima e dalla furia dello sterminio poi. Furono in 230 i deportati. Ne tornarono 4. I volti del Ghetto, un giorno di maggio del 1945, sono impressi in una grande fotografia che campeggia al Museo Ebraico. Il rabbino della Brigata Ebraica aveva riportato in Ghetto i libri della Torah. Lo circonda un nugolo di persone, Guarda tra la felicità e lo strazio.
  Il rabbino capo Scialom Bahbout dice di aver incontrato una comunità che ama le tradizioni, più o meno osservante e molto vivace che attira due non-ebrei alla settimana, ogni anno almeno 80 mila visitatori, per metà stranieri, compresi 15 mila studenti. Il Museo sarà uno degli edifici che verranno ristrutturati dal progetto di Venice Heritage lanciato qualche giorno fa da New York. Michela Zanon, la direttrice, mostra sale e collezioni, apre le porte della Sinagoga Canton, con le pareti lignee ricoperte di foglie d'oro. È una delle cinque che qui rivaleggiano per bellezza. Al Ghetto il 23 novembre si insedierà il nuovo rabbino. Scialom Bahbout dice di aver incontrato «una comunità che ama le tradizioni, più o meno osservante e molto vivace». Una pecca? «Studiano poco, come il resto degli italiani. Ma l'ebraismo è impensabile senza studio», sorride. Racconta anche che almeno due persone non-ebree ogni settimana chiedono di «avvicinarsi alla cultura ebraica» e che una decina sta facendo un percorso di conversione. Il Ghetto riesce a sorprendere ogni volta.

(Corriere del Veneto, 14 novembre 2014)


Venezia - Il Ghetto compie 500 anni. Da New York i soldi per restauro

La Grande Mela lancia la campagna per raccogliere 12 milioni di dollari. Solo un anno per ristrutturare sinagoghe della prima comunità ebraica della storia.


VENEZIA - La scadenza è tassativa: il 2016. Una corsa contro il tempo per trovare dodici milioni di dollari e per completare i lavori di restauro del Ghetto di Venezia, uno dei più antichi d'Europa, in vista delle celebrazioni del cinquecentenario dalla disposizione del Governo della Serenissima di confinare gli ebrei in una zona circoscritta della città lagunare. Per salvare quest'isola nell'isola (al Ghetto si accede solo attraverso due ponti) è partita nei giorni scorsi da New York un'imponente campagna internazionale di raccolta fondi ad opera di Venetian Heritage, l'organizzazione non profit con sedi a New York e a Venezia che fa parte del programma Unesco- Comitati Privati per la Salvaguardia di Venezia.
Con l'appoggio del presidente della Comunità Ebraica di Venezia Paolo Gnignati, l'appello è stato lanciato dall'influente immobiliarista Joseph Sitt, dalla nota stilista Diane von Furstenberg e da Toto Bergamo Rossi, rispettivamente presidente, vicepresidente e direttore del Venetian Heritage Council, sezione di Venetian Heritage formata appositamente per la realizzazione di questa complessa e costosa operazione. Di fronte a una nutrita platea di mecenati e professionisti Sitt, von Furstenberg e Bergamo Rossi hanno illustrato gli interventi relativi al progetto che vedrà riunita una compagine cosmopolita di progettisti, architetti e designer, che lavoreranno sotto la supervisione della Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia Renata Codello, per il risanamento di tre delle cinque sinagoghe ancora esistenti nel Ghetto di Venezia (nel 1719 erano ben nove), ovvero la Scuola Grande Tedesca, la Scuola del Canton e la Scuola Italiana, edifici cinquecenteschi tanto sobri all'esterno quanto sontuosi all'interno.
   Le ristrutturazioni mirano a riparare le facciate e a rinforzare le pareti delle costruzioni, a ripristinare i pannelli lignei dorati intagliati e tutti quegli apparati decorativi che hanno subito il peso di mezzo millennio. «Si tratta - ha detto Joseph Sitt - di un progetto estremamente rilevante per l'identità europea ed ebraica. Ci sono 500 anni di importanza culturale e religiosa che risiedono all'interno di questa comunità ed è imperativo rivitalizzarla». L'ambizioso piano dei lavori non si ferma qui: «Oltre al restauro delle sinagoghe - ha spiegato Toto Bergamo Rossi - sarà realizzato un adeguamento del Museo Ebraico, col collegamento della sinagoga italiana al museo (le altre due già sono in comunicazione) e spazi per mostre temporanee, presentazioni di libri ed eventi». Il progetto punta anche a una razionalizzazione del percorso museale con un ingresso rinnovato grazie allo spostamento della scala che ridisegnerà la sala che accoglie i visitatori, abbellita da un nuovo pavimento in marmo d'Istria. Il museo inoltre verrà ampliato per ospitare i «Tesori del Ghetto» recentemente scoperti e che comprendono preziosi oggetti liturgici e corone in d'argento. «Questa iniziativa - ha sottolineato Diane von Furstenberg - è dedicata a preservare il passato della comunità veneziana ed ebraica, assicurando alle generazioni future l'accesso per altri 500 anni a queste testimonianze di cultura umana e di progresso».

(AIM Energy, 14 novembre 2014)


Il Califfo torna e minaccia: «Marceremo fino a Roma»

Per dimostrare di non essere stato ucciso nei raid americani, il leader dell'Isis diffonde un nastro in cui invita i mujaheddin a «eruttare ovunque come vulcani».

di Fausto Biloslavo

BAGDAD - «La marcia dei mujaheddin continuerà inarrestabile fino a quando non arriveremo a Roma», ha annunciato il Califfo, Abu Bakral Baghdadi, novello Mussolini in versione guerra santa. Nella capitale irachena nessuno ci credeva, ma in mezzo mondo lo avevano dato per ferito oppure morto sotto le bombe dei caccia americani. E così il capoccia dello Stato islamico è risorto con un messaggio audio di 17 minuti, che sembra autentico.
   Per accendere ancor più le polveri, è tornato ad annunciare la conquista di Roma, simbolo della cristianità, ovvero dei crociati, secondo la sua versione, che vorrebbe annientare. In realtà si tratta di un paio di frasi che durano pochi secondi, ma basteranno ad attizzare gli animi jihadisti ai quattro angoli del globo e di casa nostra. «I missili dei crociati - secondo il Califfo, che si riferisce ai deboli bombardamenti Usa e di qualche alleato in Siria e Irak - non fermeranno la nostra avanzata su Roma». AI Baghdadi, nei panni di duce dell'islam, l'aveva già annunciato nel famoso sermone dello scorso luglio nella moschea di Mosul, l' antica città irachena, appena conquistata ed epurata dai cristiani. In quell'occasione si proclamò Califfo e fece riferimento alla conquista di Roma. A ruota la grancassa mediatica dello Stato islamico ha pubblicato in rete e sulla sua rivista, abilmente a singhiozzo, dei fotomontaggi come la bandiera nera del Califfato che sventola in Vaticano. E qualche emulo dei tagliagole si è fatto fotografare in piazza San Pietro con barba d'ordinanza talebana e vessillo integralista.
   A parte il clamore mediatico della marcia islamica su Roma, il messaggio del Califfo contiene ben altri passaggi da far tremare i polsi. I raid aerei «dei crociati non fermeranno l'espansione dello Stato islamico, che secondo AI Baghdadi è già una realtà. «O mujaheddin eruttate ovunque come un vulcano» è l'invito del capo bastone a tutti i fanatici. Il Califfo incita a «schiacciare la testa del serpente» riferendosi all' Arabia Saudita. E avalla i giuramenti di fedeltà da parte di accoliti di altri paesi come Yemen, Egitto e Libia. Oltre a spiegare che sono stati nominati degli emiri per i nuovi territori di conquista. La bandiera nera sventola anche a Bengasi e Derna, dove cominciano ad andare di moda le decapitazioni on line (tre nelle ultime settimane). Una minaccia non indifferente che cresce alle porte di casa nostra.
   AIBaghdadi, per smentire indirettamente di essere stato centrato da un attacco mirato Usa nella notte fra il 7 e 1'8 novembre, fa riferimento al recente annuncio della Casa Bianca di voler mandare nuovi consiglieri in Irak. «Obama ha deciso l'invio di altri 1.500 soldati perché i bombardamenti giorno e notte contro le posizioni dello Stato islamico non hanno impedito la sua avanzata né indebolito la sua volontà» sostiene il Califfo. E aggiunge: «Presto gli ebrei e i crociati saranno costretti a venire sul terreno. Ad inviare sul campo le loro forze, che sono destinate a morire e a venir distrutte». Non mancano velate minacce di attentati: «L'America, l'Europa, l'Australia, il Canada e i loro schiavi tra i governanti delle terre d'islam saranno terrorizzati dallo Stato islamico. Ovviamente i suoi «lotteranno fino all'ultimo uomo». Alla fine, secondo il Califfo, «grazie ad Allah i crociati saranno sconfitti, mentre i musulmani risulteranno vittoriosi. E la marcia dei mujaheddin continuerà fino a Roma».

(il Giornale, 14 novembre 2014)


Grossman e Amos Oz, la questione palestinese apre l'agenda di Bookcity

Si apre oggi a Milano Bookcity, il festival della letteratura. Si chiama così perché la storia d'amore tra la città e i libri è di lunga data. Risale all'inizio del secolo scorso...

di Federica Manzon

 
                      Amos Oz                                 David Grossman
Si apre oggi [13 novembre] a Milano Bookcity, il festival della letteratura. Si chiama così perché la storia d'amore tra la città e i libri è di lunga data. Risale all'inizio del secolo scorso quando Mondadori, Rizzoli, Bompiani si ritrovano da queste parti a inseguire lo stesso sogno, quello di far leggere gli italiani. Nacque la grande editoria italiana.
   Alla sua terza edizione Bookcity presenta un calendario fittissimo di incontri. Gli ospiti stranieri non mancano, da Wilbur Smith a Sophie Kinsella, David Nicholls, Xialou Guo, Tzvetan Todorov e molti altri. Particolare attenzione per i romanzi noir con Marco Malvaldi, Massimo Carlotto, Donato Carrisi, Maurizio De Giovanni. E i grandi nomi: Claudio Magris, Gianrico Carofiglio, Alessandro D'Avenia, Mauro Corona, Daria Bignardi, Massimo Recalcati, Andrea De Carlo. (Il programma è consultabile online http://www.bookcitymilano.it).
   A inaugurare questa edizione è David Grossman, uno dei più importanti e amati scrittori della letteratura mondiale. Nell'occasione il sindaco Pisapia gli consegnerà il Sigillo della Città a testimonianza della stima e dell'affetto che lega il nostro paese allo scrittore israeliano. Da pochi giorni è nelle librerie il suo ultimo romanzo "Applausi a scena vuota" (Mondadori, pp. 176, 18,50 euro), uscito in Israele appena qualche mese fa e in anteprima mondiale per l'Italia.
   In questo romanzo ritroviamo l'incanto della scrittura di Grossman, il suo sguardo limpido sul mondo e sulle parti più nascoste del nostro animo, ma c'è anche un salto in una nuova direzione. Abbandonate le atmosfere liriche e struggenti degli ultimi romanzi "A un cerbiatto assomiglia il mio amore" e "Caduto fuori dal tempo" (entrambi dedicati alla perdita del figlio Uri, ucciso in guerra), in questo romanzo troviamo un nuovo Grossman che entra in teatro e racconta storielle divertenti.
   Una sorpresa? Sì e no. Come accade con la vera letteratura, con ogni libro lo scrittore intende esplorare terreni sconosciuti e provare nuovi linguaggi. Da bambino Grossman aveva partecipato a una competizione radiofonica sulla letteratura yiddish, aveva sbaragliato gli avversari, tutti professori di letteratura, e da allora ha sempre avuto grande familiarità con il palcoscenico. In questo nuovo libro il protagonista è Dova'le G., un comico alla sua ultima apparizione. Dal microfono di un sordido club, Dava'le mette in scena il suo spettacolo: racconta barzellette, provoca il pubblico con battute oscene e politicamente scorrette, è scatenato. Il lettore è spiazzato, lo segue senza sosta e ride, sghignazza, si diverte. Ma Dov'le quella sera ha un pubblico speciale, un lontano amico d'infanzia, un giudice, invitato appositamente per assistere a quella che sarà una confessione.
   Tra una battuta e l'altra Dova'le racconta infatti la sua infanzia e un mondo intero. Ritornano i grandi temi della letteratura di Grossman: il confronto con la memoria della Shoah e la sua cupa eredità, il potere liberatorio e pericoloso dell'immaginazione, il senso di colpa e la nostra inadeguatezza davanti alle prove della vita. È un l. ibro che non si può svelare, ma basti su tutto un'immagine. Dova'lè da bambino aveva la strana abitudine di camminare sulle mani: camminava così per evitare gli scappellotti dei compagni che lo prendevano in giro, per far ridere la sua triste mamma, per attirare lo sguardo dei passanti su di sé e non su di lei quando la sera la andava a prendere al lavoro. Non ha mai smesso di camminare così, per proteggersi e per raccontare il mondo da un'altra prospettiva, rovesciata. Dalla prospettiva dello scrittore.
   David Grossman crede fortemente nel potere dell'immaginazione e della letteratura di modificare la realtà: «Il nostro mondo ha tanta violenza e così poca fantasia - ha dichiarato in occasione dell'uscita del libro - però l'immaginazione ha un potere grandissimo perché ci suggerisce che possiamo sempre fare qualcosa, non abbiamo una sola realtà ma la possiamo reinventare».
   Lo stesso legame elettivo tra libri e mondo segna l'opera di Amos Oz, l'altro gigante della letteratura israeliana presente a Bookcity. Dopo dodici anni dal suo capolavoro "Una storia d'amore e di tenebra" torna al romanzo con "Giuda" (Feltrinelli, pp. 327, 18 euro), che presenterà in un incontro dal titolo "Passioni e tradimenti". Di tradimenti si parla infatti in questo inconsueto romanzo di formazione. Troviamo un giovane uomo, Shemuel Asch, che è appena stato lasciato dalla fidanzata, i genitori gli hanno tolto il sostegno economico, la tesi di laurea - "Gesù da una prospettiva ebraica" - si è impantanata e nel suo cercare qualcosa che non sa cos'è finisce per passare un lungo inverno al civico 17 di Rav Baz, nella Gerusalemme del 1959-60.
   In quella casa dolente che sa di pulizia di fino, appretto e ferro da stiro a vapore, Shemuel ha un lavoro: deve conversare per cinque ore al giorno con l'anziano professore che abita tra quelle mura, deve vedersela con il suo cinico scetticismo e il dolore per la morte del figlio in guerra. Ma in quella casa c'è anche una donna, Atalia, la gelida e bellissima nuora del vecchio, anche lei chiusa in una solitudine pericolosa e seducente. Atalia è anche la figlia di Shaltiel Abrabanel, l'unico politico che si era opposto alla fondazione di uno stato d'Israele e per questo era stato considerato un traditore.
   Come per Grossman anche per Oz la questione palestinese accerchia da tutti i lati. Dalle scritture: se Giuda, il primo e l'unico vero cristiano, non avesse creduto così tanto in Gesù da trascinarlo sulla croce per far assistere la disincantata Gerusalemme alla forza del suo miracolo, forse il giudaismo si sarebbe riformato, il cristianesimo non sarebbe nato, le due religioni non si sarebbero odiate in maniera così profonda e oscura, gli ebrei non si sarebbero sentiti così minacciati.
Se Abrabanel non fosse stato chiamato "traditore" e il suo sogno di dialogo con gli arabi non fosse stato deriso, forse il figlio del professore, la gioventù israeliana non sarebbe andata a morire.
   Libri importanti che i due scrittori consegnano ai lettori italiani, due libri che in modo diverso ma con la stessa intensità credono che le narrazioni abbiano il potere di cambiare le cose, riscrivere quello che siamo.

(Il Piccolo, 14 novembre 2014)


Amos Oz e David Grossman fanno del male agli ebrei, a Israele e al resto del mondo come solo i più bravi possono fare. M.C.


Tel Aviv Fashion: I Muslin Brothers

Lo scenario israeliano è forse ancora poco noto, anche se tutti riconoscono Tel Aviv come una delle metropoli più creative e dinamiche. Una meta molto gettonata anche per la frenetica vita notturna, conflitti permettendo! Da qui inizia l'avventura di Tamar Levit e Yaen Levi che si sono incontrati allo Shenker College of Engineering and Design. Nel 2011 il duo decide di fondare il brand Muslin Brothers a Tel Aviv-Jaffa con Nadav Sveltof, il quale ha poi lasciato il brand nel 2013. Il brand - oggi guidato da Tamar Levit e Yaen Levi - produce due collezioni l'anno. Sempre molto originale è il modo di presentare il loro lavoro tramite mostre, installazioni di moda e performance. I Muslin Brothers disegnano anche costumi per compagnie teatrali e di danza internazionali, partecipando a progetti in cui la moda è vissuta come progetto culturale.
Ispirato dalla diversità culturale e dagli opposti, per questa collezione Muslin Brothers giocano con elementi poetici e casual intrisi di humour, ma proponendo sempre una riflessione. Secondo la loro filosofia la moda svolge un ruolo significativo nella produzione culturale, la comunicazione umana e la comprensione dello spazio urbano. La collezione autunno/inverno 2015 si focalizza sui cambiamenti della natura e della forma della terra, seguendo il tema di quella precedente che esplorava l'evoluzione archeologica nelle forme. La storia dei territori e delle persone è sempre in evoluzione. Analogamente i look presentano tagli frammentati, attraverso dettagli e il contrasto tra rosso e blu. Una serie di elementi opposti si dissolvono poi l'uno nell'altro, mettendo in evidenza la necessità di allontanarsi sia nel tempo che nello spazio.

(la Repubblica - blog, 13 novembre 2014)


Nucleare iraniano: i repubblicani Usa pronti a far saltare accordo

Il termine per l'intesa scade il 24 novembre

NEW YORK - Due settimane prima di una scadenza diplomatica cruciale, i repubblicani statunitensi, forti della vittoria alle elezioni di metà mandato, hanno intenzione di bloccare uno dei maggiori obiettivi del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, per il suo secondo mandato: l'accordo sul nucleare con l'Iran.
L'accordo ad interim con Teheran, che prevede il congelamento del programma nucleare in cambio di una parziale cancellazione delle sanzioni, scade il 24 novembre, prima che il partito repubblicano prenda possesso della maggioranza delle due nuove Camere, a gennaio. Questo, però, non lo fermerà dal cercare di far naufragare il negoziato sul programma nucleare iraniano.
Oggi, i repubblicani cercheranno di far approvare una legge che richiede che ogni accordo con l'Iran debba ottenere il via libera del Congresso, non previsto perché non considerato alla stregua di un trattato internazionale. L'azione dovrebbe essere respinta dal Senato, ancora controllato dai democratici, ma già mostra la linea dei repubblicani nei confronti della politica di Obama, definita troppo debole verso la Repubblica islamica. Un voto favorevole all'Iran Nuclear Negotiations Act non svuoterebbe l'accordo con l'Iran, ma imporrebbe di nuovo qualsiasi sanzione sospesa. Se questa mossa riuscisse a scavalcare il veto presidenziale con un voto a maggioranza qualificata dei due terzi, farebbe effettivamente crollare l'intesa con Teheran.

(askanews, 13 novembre 2014)


Hamas va alla nuova intifada con i miliardi di Qatar e Iran

Forte del più ricco budget di un gruppo terroristico dopo Isis riapre lo scontro con Israele e avvia la prossima guerra.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - La simmetria dei due episodi di violenza di ieri in Israele disegna il peggiore degli incubi: la guerra di religione, peggiore del conflitto territoriale che forse, poi, alla fine, può presupporre una soluzione il cui logoro slogan è «due Stati per due popoli». Nella stessa giornata una moschea è stata data alle fiamme vicino a Ramallah, ad Al Maghir, un punto di continua frizione fra palestinesi e settler. Il sindaco sostiene che i coloni sono colpevoli dell'atto vandalico, e si rifà a un altro incendio, ad Aqraba, il 13 ottobre. Nella stessa notte una bottiglia molotov ha colpito le antiche mura della sinagoga a Shfaram, in Galilea. Il fuoco non ha causato danni gravi mentre ad Al Maghir fra il primo e il secondo piano si vedono pagine del Corano e suppellettili bruciate. Il danno più grave tuttavia lo testimonia il sindaco Faraj al Naassaneh, che è sicuro della colpevolezza dei membri di un gruppo fuori legge chiamato «Price tag», un nome che vuole indicare il prezzo del danno portato dal governo israeliano quando sgombera e distrugge gli insediamenti illegali, ma anche quello degli attacchi arabi alla popolazione israeliana. Se sono stati loro, si tratta di un gruppo di un centinaio di fanatici aggressivi e spesso razzisti, già bloccati e processati in alcuni casi. Molti dicono: non abbastanza. Il capo del consiglio regionale della Samaria Gershon Mesika però difende i settler : «Abbiamo già visto per la moschea che fu bruciata a Tuba-Zangariyye che proprio uno dei residenti arabi appiccò il fuoco per creare la provocazione». Mentre la polizia indaga, a Beit Safafa, un sobborgo arabo di Gerusalemme, sono apparsi graffiti antiarabi. Gli scontri non sono mai cessati dopo il giovane ucciso ad Al Arroub vicino all'incrocio di Gush Etzion, dove è stata pugnalata a morte due giorni fa una ragazza ebrea di 25 anni, mentre un soldato è stato ucciso a Tel Aviv.
   Domani, venerdì, la Moschea di Al Aqsa sarà di nuovo al centro dell'attenzione malata del Medio Oriente, ormai ubriacato dalla guerra di religione dell'Isis. La febbre si sente anche qui. Abu Mazen non osa tirarsi indietro adesso che il suo campo è tutto acceso all'idea che Israele voglia impossessarsi della Spianata delle Moschee, né condanna gli attentati di cui glorifica gli shahid. Nessuno getta acqua sul fuoco. Ha preso piede nei giorni scorsi il Movimento Islamico in Israele guidato dallo sceicco Raed Salah, che convoca raduni e emette comunicati, annuncia che «non sventoleremo la bandiera bianca e non abbandoneremo il dovere di proteggere la moschea di Al Aqsa». I terroristi vengono glorificati nei suoi discorsi come martiri ed eroi, proprio come fa Hamas. A Hamas, Salah sembra legato a doppio filo, ha gestito l'organizzazione «Gerusalemme per lo sviluppo» che raccoglieva denaro finché è stata chiusa in luglio come «fronte legale delle attività di Hamas». Ma certo non dei soldi di Salah Hamas ha bisogno. Un articolo su Israel Forbes documenta che, dopo l'Isis, che ha un budget annuale fra i due e i tre miliardi di dollari, Hamas è la seconda organizzazione terrorista per ricchezza, con un miliardo. Viene prima del Farc colombiano con 600 milioni, di Hezbollah con 500, dei talibani con 400, di Al Qaida con 150. Vengono dopo i pakistani Lashkar e-Taiba e Al Shabaab, poi l'Ira con 50 milioni e Boko Aram con 25. Sono dati che ci danno la dimensione della menzogna cui siamo quotidianamente sottoposti dalla propaganda sul volto pietoso e disperato di Gaza.
   Il denaro arriva dai fondi dei donor (fra cui anche l'Unione europea e gli Stati Uniti) che non si riesce a controllare, dal Qatar e dall'Iran e - secondo le fonti di Forbes - dai traffici illegali, compreso quello della droga. I donor , subito dopo la guerra, hanno promesso 4 miliardi di aiuti, ma dove andranno se non nelle tasche di Hamas? Se si guarda alla popolazione di Gaza, in stato di miseria e sofferenza, e si compara ai fondi di Forbes , si capisce dove finiscono i fondi per Gaza. Hamas sembra preferire spenderli in armi e terrore, o dirottarli nelle tasche dei leader che, secondo numerose fonti, possiedono ville, terreni, investimenti. Ismail Haniyeh, secondo l'egiziano Rose al Yusuf, ha pagato nel 2010 quattro milioni di dollari per un terreno sul mare registrato a nome della figlia. Il figlio fu fermato dagli egiziani al confine, carico di soldi in contanti da introdurre a Gaza. Forse glieli avevamo dati noi per coprire quelle famose fogne a cielo aperto, che invece restano là mentre Hamas prepara la prossima guerra.

(il Giornale, 13 novembre 2014)


Le responsabilità di Mahmoud Abbas nella nuova violenza a Gerusalemme

di Amit Zarouk

 
Amit Zarouk, portavoce e consigliere politico dell’Ambasciata d'Israele
Negli ultimi giorni i media internazionali hanno ripetutamente riportato le cronache degli scontri avvenuti tra le forze di polizia israeliana e i manifestanti palestinesi sulla spianata della moschea al-Aqsa. Come di consueto sono partiti i moniti dalla cancellerie affinché venisse tutelato e non compromesso il delicato status quo che permette la coesistenza nella città di Gerusalemme, culla delle tre religioni monoteiste. Da più parti si è puntato il dito contro una minoranza dell'estrema destra ebraica, responsabile secondo alcuni di aver provocato la reazione dei musulmani invocando il diritto di poter accedere liberamente alla spianata del tempio e per questo accusati di voler cambiare unilateralmente lo status quo.
   La realtà però è tutt'altra. Mentre Israele è da sempre impegnata nel garantire la libertà di religione e di accesso a tutti i luoghi sacri e si impegna a prende misure volte a mantenere l'ordine pubblico (le restrizioni degli accessi si verificano solamente quando le condizioni di pubblica sicurezza sono preponderanti), molti sul versante palestinese stanno cercando di sfruttare i luoghi sacri proprio per infiammare e minare il modus vivendi nella città. È in atto un tentativo di inquadrare il conflitto tra israeliani e palestinesi in termini religiosi. Tale tentativo è unicamente dettato dall'agenda politica, infatti chi promuove questa visione ha come unico scopo quello di far avanzare i loro progetti nazionali facendo leva sulle profonde credenze religiose della popolazione. Purtroppo il risultato potrebbe essere molto più pericoloso rispetto a quello che era il loro obiettivo primario. Ciò non solo rende più difficile il raggiungimento di una soluzione duratura, ma potrebbe spingere l'intera regione in una più profonda instabilità, pertanto promuovere attivamente tale visione è da irresponsabili.
   Purtroppo, teorie cospirativiste sulla minaccia da parte degli ebrei di distruggere la moschea di al-Aqsa sono prolificate per decenni nella regione, anche prima della fondazione dello stato d'Israele e pur essendo totalmente infondate, sono state sfruttate dai leader arabi e palestinesi per radunare le masse ed incitarle alla violenza contro gli ebrei. Al contrario di quanto si possa immaginare non sono solo i radicali di Hamas che promuovono questa retorica infiammatoria, ma bensì anche alcuni ufficiali dell'autorità palestinese, che si fingono interessati al raggiungimento di un pacifico accordo con Israele, non hanno remore nello sfruttare i simboli dell'Islam per avanzare i loro obiettivi diplomatici. Esempio recente sono state le dichiarazioni del presidente dell'autorità palestinese Mahmoud Abbas, ampiamente riportate nei media del 17-18 ottobre 2014, secondo cui l'Anp non permetterà al gregge dei coloni di dissacrare la moschea di al-Aqsa, e che l'Anp intende intraprendere azioni legali nell'arena internazionale per impedire ai coloni di danneggiare la moschea. Del resto non è certo la prima volta che Abbas ha rilasciato certe dichiarazioni. In un discorso del 31 dicembre del 2013 durante le celebrazioni per la fondazione di Fatah, il leader palestinese ha avvertito che pericolosi e sistematici attacchi alla moschea di al-Aqsa continuano incessantemente.
   Le false denunce di minaccia alla moschea sono spesso accompagnate da affermazioni semi-razziste riguardo alla cosiddetta "ebraicizzazione" di Gerusalemme, la quale implica l'esistenza di un piano segreto per rendere la città esclusivamente ebraica. Il tutto può essere riassunto nel titolo postato sul sito Internet dell'agenzia ufficiale palestinese Wafa: "I metodi utilizzati per ebraicizzare Gerusalemme". In realtà, sono piuttosto i leader palestinesi che si impegnano implacabilmente nel tentativo di "de-ebraicizzare" Gerusalemme negando e rifiutando qualsiasi connessione degli ebrei con la città e con i suoi luoghi sacri. Infatti, sono gli stessi che incitano all'azione in protezione dei luoghi sacri per l'Islam a Gerusalemme negando la santità della città per l'ebraismo. Le loro dichiarazioni sono cosparse di scetticismo riguardo la storica presenza del tempio ebraico al quale si riferiscono con termini quali "presunto tempio" oppure "mito". Oltre ad essere un triste tentativo di riscrivere la storia, questa negazione dell'altro può difficilmente condurre alla pace. La distorsione della storia e la promulgazione di una cultura di odio contro lo stato d'Israele e contro gli ebrei nel contesto di Gerusalemme non è solamente confinata alle dichiarazioni ufficiali, ma si manifesta anche nei contenuti educativi ai quali sono esposti i bambini palestinesi. Ad esempio, la televisione di stato palestinese ha trasmesso nel luglio 2013 un video di due ragazze palestinesi che recitano una poesia antisemita. La poesia, tradotta dall'osservatorio dei media Palestinian media watch, insegna che Gerusalemme non è per gli ebrei, poiché Gerusalemme rigetta (vomits out) gli ebrei che sono descritti come impuri e sudici.
   Pur non negando la sacralità di Gerusalemme per le tre religioni monoteiste e il valore spirituale universale, le radici ebraiche di Gerusalemme, al contrario di quanto si vorrebbe far credere attraverso una propaganda impregnata d'odio e menzogne, risalgono a tempi molto più remoti rispetto a qualsiasi disputa nazionalistica.

(L'Huffington Post, 13 novembre 2014)


Israele: entra in servizio il sottomarino "Tanin"

E' il primo della classe "Dolphin II"

di Franco Iacch

Il sottomarino israeliano Tanin
Israele ha ricevuto da qualche settimana un nuovo sottomarino: si tratta del "Tanin", il primo della classe "Dolphin II". E' uno dei battelli più avanzati del mondo. Il "Tanin" entrerà in servizio per l'anno in corso con lo 'Shayetet 7', flottiglia dell'IDF composta esclusivamente da sottomarini. Negli ultimi mesi, gli equipaggi che andranno a svolgere missioni a bordo del nuovo sottomarino, hanno compiuto prove nel Mar Baltico e nel Mare del Nord, simulando ogni tipo di contesto operativo possibile.
   Il "Tanin" (coccodrillo) ed il "Rahav" (Demone) sono stati acquistati dalla Germania nel 2012.
I sottomarini forniscono un vantaggio fondamentale nelle operazioni top-secret per infiltrare ed esfiltrare elementi dei reparti speciali. Il sommergibile è un ottimo strumento di spionaggio, ma se scoppiasse una guerra, diverrebbe la principale piattaforma d'attacco contro il nemico che non conoscerebbe mai la sua posizione. Usarono queste parole dall'esercito israeliano, nel presentare, lo scorso anno, i nuovi sottomarini classe "Dolphin II".
I nuovi sottomarini classe Dolphin II sono molto più moderni ed il 28% più grandi dei Dolphin I.
   E' opinione comune che Israele, con la nuova classe "Dolphin II", si sia dotata dei migliori sommergibili convenzionali al mondo.
   E' risaputo che tutti i "Dolphin" hanno la capacità di imbarcare testate nucleari. Almeno due di loro sono sempre in pattugliamento a scopo deterrente. La classe "Dolphin" infatti, ha conferito ad Israele capacità di "First strike" (attacco nucleare preventivo) e "Second strike" (capacità di risposta nucleare ad un attacco preventivo del nemico).
   Ovunque ed in ogni momento - hanno sempre affermato da Israele nel loro tipico stile - ci potrebbe essere un nostro sottomarino pronto a far fuoco.
   I Dolphin II, dietro esplicita richiesta del governo israeliano, sono stati dotati della propulsione indipendente dall'aria o AIP. I sistemi AIP consentono al sottomarino non nucleare di operare senza l'utilizzo dell'aria esterna. Mentre per il reattore di un sottomarino nucleare si deve pompare continuamente liquido di raffreddamento, generando una certa quantità di rumore rilevabile, i battelli non nucleari alimentati a batteria con sistema AIP, navigherebbero in silenzio.
   Un sottomarino propulso con sistema AIP, potrebbe operare per missioni di pattugliamento o deterrenza per 30/40 giorni. Gli Stati Uniti, dopo alcuni esperimenti, hanno deciso di continuare con la propulsione nucleare.

(teleradiosciacca.it, 13 novembre 2014)


Isis il più ricco, Hamas secondo. Al Qaeda non conta più niente

Forbes stila la classifica delle entrate dei gruppi terroristici. ll Carato, che ha anche iniziato a stampare moneta, sbaraglia tutti. ll gruppo fondato da Osama superato da talebani e Farc.

di Maurizio Stefanini

Il terrorismo è un affare. La notizia che lo Stato Islamico avrebbe deciso di coniare monete in oro e argento dimostra da parte del gruppo del forse defunto al-Baghdadi un'effervescenza economica, che corrisponde infatti a uno studio appena pubblicato da Forbes Israel, dal quale risulta appunto come sia l'Isis in questo momento in testa a una top list dei dieci gruppi annati più ricchi del mondo. Un bilancio da due míiardi di dollari di entrate all'anno, che ne fa tout court il gruppo terrorista più ricco di tutti i tempi, e che si alimenta innanzitutto con il contrabbando di petrolio, dal momento che fino a ieri controllava il 60% delle riserve siriane e sette giacimenti di gas e petrolio in Iraq. Ma poi ci sono estorsioni, i riscatti milionari per gli ostaggi, le donazioni di gruppi islamisti, l'imposizione di imposte in particolare agli «infedeli» dei territori sotto il loro controllo e le rapine in banca.
  Non se la cava però male Hamas, che è al secondo posto con un miliardo di dollari di entrata all'anno. Qui ci sono di mezzo ingenti finanziamenti di Paesi arabi, in particolare il Qatar. Ma dal 2007 Hamas gode anche dell'introito dei dazi che ha imposto a tutti i prodotti che entrano a Gaza, così come delle licenze concesse nel territorio. Paradossalmente, rincarando i prezzi l'embargo israeliano aumenta questi guadagni, e il Jerusalem Post nel 2012 stimò in almeno 600 i residenti a Gaza diventati milionari grazie alla gestione dei famosi tunnel sotterranei.
  Terze, e primo gruppo non jihadista in classifica, le Forze Annate Rivoluzionarie di Colombia (Farc), con 600 milioni di dollari di entrata all'anno. Anch'esse si riforniscono tradizionalmente con rapine, estorsioni, sequestri di persona e imposte «rivoluzionarie» nei territori sotto il loro controllo, ma una loro specialità è anche la protezione delle narcocolture, e un'altra le miniere clandestine di oro e smeraldi.
Al quarto posto viene il libanese Hezbollah, con 500 milioni all'anno. Ci sono finanziamenti dall'Iran e dalla Siria, e secondo fonti Usa anche dal Venezuela. Ma vengono fondi anche dalla diaspora sciita libanese nel mondo: contrabbando di sigarette e narcotraffico in America Latina, contrabbando di diamanti in Africa Occidentale, eroina nel Sud Est-Asiatico. Inoltre Hezbollah ha fonti di reddito in Libano, con affari legali e anche grazie alla coltivazione di marijuana nella valle della Beqaa. Quinti sono i Taleban, con 400 milioni. E qui si può ricordare come secondo il rapporto appena pubblicato dall'Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) nel 2014 è stato raggiunto in Afghanistan un nuovo record di coltivazione di papaveri per la produzione dell'oppio, con un aumento delle superfici coltivate del 7% rispetto al 2013.
  Fa quasi tenerezza il sesto posto di al-Qaida, ormai ridotta a 150 milioni di dollari l'anno. Una volta al centro di una sofisticatissima rete di traffici, dopo la morte del terrorista finanziare Osama Bin Laden il gruppo ha subito in modo devastante l'Opa ostile dell'Isis.
  Settimo è il gruppo pakistano Lashkar e-Taiba, con 100 milioni. In passato finanziato dai Servizi pakistani, raccoglierebbe molti soldi grazie alla cosiddetta "beneficienza islamica" nel mondo. Ottavi i somali al-Shabaab, con 70 milioni all'anno. Collette della diaspora somala, imposte nelle aree sotto controllo, pirateria, estorsione, contrabbando di avorio, forse anche finanziamenti da Eritrea, Qatar, Yemen e Iran. Nona la nord-irlandese Real Ira, con 50 milioni all'anno. L'altro gruppo non jihadista della Top Ten. Infine Boko Haram, con 25 milioni. Saccheggi a parte, anch'essa riceve fondi dalla diaspora nigeriana e beneficenza islamica.

(Libero, 13 novembre 2014)


Israele, un conflitto da film dell'orrore

di Stefano Magni

È un terrorismo di tipo nuovo, quello che stanno sperimentando sulla loro pelle gli abitanti di Gerusalemme. La chiamano "Intifadah delle auto" dopo quella "delle pietre" (1987) e quella "dei kamikaze" (2000). I primi atti di aggressione di questa nuova guerra sono stati infatti condotti con auto, lanciate a tutta velocità contro ebrei in attesa alla fermata del tram, lungo la linea dove, fino a mezzo secolo fa, correva il muro di separazione fra Israele e Giordania. La prima vittima è stata una bambina di tre mesi, travolta dall'auto "pirata" guidata da un terrorista di Hamas. Adesso i morti, fra i civili israeliani, sono già otto in una settimana. Non solo auto: per assassinare ebrei, gente presa a caso per strada, sono stati usati anche spranghe e coltelli. Il nuovo terrorismo ha colpito a Gerusalemme, Tel Aviv, Nazareth, in Giudea, a Gush Etzion. E ad ogni reazione della polizia, non solo la popolazione palestinese, ma anche quella araba israeliana. Cittadini di Israele, dunque, diversi dagli ebrei solo per lingua e religione.
   Sebbene meno sanguinosa, rispetto alle due Intifadah precedenti, questa terza insurrezione, per ora solo potenziale, presenta per Israele una sfida più difficile. Miliziani intruppati in Fatah sono facili da identificare e arrestare. Già il salto di qualità dei terroristi suicidi era più difficile da affrontare: trattandosi di persone, non solo disposte a morire, ma desiderose di morire, i margini di trattativa e i deterrenti erano nulli. Nonostante tutto, in cinque anni, solo grazie alla costruzione della barriera difensiva voluta da Ariel Sharon e dall'evacuazione delle colonie più esposte nella striscia di Gaza, Israele è riuscita a ripristinare la sua sicurezza anche in quel caso. I morti fra i civili furono più di mille. Ma adesso? Non ci sono miliziani inquadrati in partiti, neppure terroristi suicidi che possono essere fermati con barriere all'ingresso. Ci sono cittadini comuni, immigrati dalla Palestina o residenti in Israele da una vita, che di punto in bianco si trasformano in assassini efferati. Non ci sono organizzazioni che possano essere scoperte e smantellate
 
Yusuf Qaradawi, un "moderato" che condanna il terrorismo dell'Isis, perché è contro i musulmani, e promuove quello di Hamas, perché è contro gli ebrei
dalla polizia, né eserciti irregolari da affrontare con l'esercito regolare: solo comuni cittadini, neppure in contatto fra loro, che rispondono ad una chiamata, sentita in televisione o su Internet.
   La chiamata è esplicita e corale. La sua voce più nota è quella di Yusuf Qaradawi, un "moderato" che ha appena condannato il terrorismo dell'Isis (perché è contro i musulmani), ma sta attivamente promuovendo quello di Hamas e dei suoi simpatizzanti (perché è contro gli ebrei). «Arabi, musulmani, persone libere di ogni parte del mondo, alzatevi dal letargo, levatevi per difendere i vostri luoghi sacri e vi è vietato lasciare che gli ebrei si prendano gioco di al-Aqsa (la moschea di Gerusalemme, terzo luogo santo dell'Islam, ndr), che cerchino di spartirla […] tutto questo è vietato a ogni musulmano e a ogni musulmana e lungo la via della moschea di al-Aqsa scorre il sangue e i musulmani offrono vite, ricchezze e figli. Invito gli ulema del mondo intero a fare risuonare la verità nelle loro moschee, ad annunciare ai loro popoli musulmani quel che devono fare per i loro luoghi sacri e per salvare la loro al-Aqsa. Invito i leader e i governanti a livello mondiale di liberarsi dei propri interessi personali e delle divergenze parziali per ritrovarsi nella difesa dei luoghi santi della umma, invito i popoli a collaborare uno con l'altro nel costringere i governanti a unirsi e a cooperare. Invito i figli della Palestina ad affrettare la vittoria per al-Aqsa. Chi può raggiungerla e a resistere colà lo faccia, chi può recarsi a Gerusalemme, per unirsi ai ranghi dei suoi fratelli lo faccia. Chiamate la umma al vostro seguito per sostenere il popolo palestinese con tutto quel che necessita per rafforzare la resistenza e il loro fronte». Un'altra voce nota è Tareq Suwaidan, altro importante esponente dei Fratelli Musulmani, che l'estate scorsa tuonava: «Noi non abbiamo problemi con la morte, siamo diversi dagli israeliani […] Tutte le madri della umma - non solo quelle palestinesi - dovrebbero allattare i propri figli con l'odio verso i figli di Sion. Li odiamo, sono i nostri nemici. Dobbiamo instillare questo nei cuori dei nostri figli sino a che sorgerà una nuova generazione che li cancellerà dalla terra. […] Ciascuno di noi uscendo da questa sala dovrà pensare a un piano su come cancellare Israele».
   Per il nuovo terrorismo bastano queste parole. Non serve una grande preparazione militare, né addestramento, né una costosa organizzazione dotata di basi e campi. Basta la predicazione all'odio e gente determinata a mettere in pratica i suoi contenuti, con qualunque oggetto si trovi in mano. I palestinesi di oggi hanno imparato la lezione di Al Qaeda, come sempre all'avanguardia nel terrorismo: già nella metà degli anni 2000, sui suoi siti suggeriva di ammazzare gli occidentali a caso, nelle loro città, usando auto lanciate su locali pubblici e gruppi di gente, attaccando a caso con asce, coltelli e qualunque arma. Una lezione che è stata imparata dai nuovi "lupi solitari" della jihad, che hanno colpito a Londra (un soldato sgozzato), a Boston (una bomba rudimentale alla maratona); che è stata imparata anche dall'Isis, che ha rilanciato questo tipo di attacchi, provocando gli attentati di Montreal, Ottawa, New York: attacchi condotti da singoli, con auto (Montreal), fucile (Ottawa) e accetta (New York). Sparisce ogni forma di lealtà militare, sparisce anche la distorta e malata "etica" del terrorista suicida, resta solo il barbaro omicidio, la violenza nuda e cruda, senza più alcun rivestimento retorico, fatta di auto pirata, coltellate, sprangate, gente ammazzata a caso. Un "conflitto" da film dell'orrore, che è appena iniziato e non si sa come andrà a finire.

(L'Opinione, 13 novembre 2014)


L'intellighenzia d'Israele adesso spegne la luce e scappa all'estero

ROMA - Un paio di anni fa il suo libro "The invention of the Jewish people" suscitò dibattiti e polemiche senza fine, vendendo milioni di copie. Shlomo Sand, un famoso storico israeliano che insegna all'Università di Tel Aviv, sei giorni fa sul quotidiano inglese Guardian ha scritto: "How I stop-ped being a Jew". Una dichiarazione di profonda abiura dell'ebraismo e del sionismo. "Durante la prima metà del XX secolo, mio padre ha abbandonato la scuola talmudica, ha smesso di andare in sinagoga, e ha espresso la sua avversione per i rabbini. A questo punto della mia vita, nei primi anni del XXI secolo, sento l'obbligo morale di rompere definitivamente con l'ebraismo". Sand, che adesso passa più tempo in Inghilterra che in Israele, non è il primo intellettuale della sinistra israeliana a professare apostasia.
   Dal 2008 vive in Inghilterra Han Pappé, già docente all'Università di Haifa, icona di quella "nuova storiografia" che vede lo stato ebraico come una mera colonizzazione ai danni del popolo arabo, autore Einaudi in Italia e firmatario di manifesti per il boicottaggio dei docenti ebrei. Assieme a lui, nel Regno Unito, vivono lo storico israeliano Avi Shlaim e il giurista Oren Ben-Dor della Southampton University. Secondo il professor Steven Plaut, che insegna Business Administration all'Università di Haifa, questi intellettuali fanno parte di "gruppi di israeliani espatriati che si dedicano alla guerra contro la sopravvivenza di Israele".
   Nella sua villa in Toscana, sulle colline di Ponte Buggione, a Pistoia, è morto Amos Elon, decano dei corrispondenti di Haaretz, dove divenne il protetto dell'austero editore Gershom Schocken, e poi l'autore di libri adottati nelle scuole d'Israele e del bestseller "Gerusalemme" (Rizzoli). Anche la figlia, Danae Elon, apprezzata regista di sinistra, vive a New York. E pensare che Elon aveva scritto una delle più belle biografie di quell'uomo di teatro che nella Vienna di Freud e Mahler, nell'atmosfera fertile, nel bene e nel male, della mitteleuropa, diede una speranza agli ebrei: Theodor Herzl.
   Ha appena scelto Chicago lo scrittore israeliano Sayed Kashua, editorialista di giornali israeliani, romanziere popolarissimo, volto televisivo, che questa estate ha scritto un articolo dal titolo: "Why I leave Israel", perché lascio Israele.
   L'ex speaker della Knesset, Avraham Burg, che nel frattempo è diventato un saggista e un conferenziere blasonato e che si è professato "cittadino del mondo", ha preso il passaporto francese e vive a Parigi. Ari Shavit di Haaretz lo ha chiamato "il profeta di Brussels". Burg è l'autore di quel pamphlet antisionista intitolato "Sconfiggere Hitler". In una intervista, alla domanda se "raccomandi a ogni israeliano di prendere un passaporto straniero", Burg ha risposto: "A tutti quelli che possono".
   C'è poi la nutrita comunità di scrittori israeliani che hanno scelto la Germania come nuova patria, tipo Boaz Arad, Tal Alon e Nati Oman, che va fiero che "ci sono oggi più artisti israeliani a Berlino che in Israele". Anche lo scrittore David Grossman, in una intervista alla tv inglese Canale 10, ha detto di valutare l'ipotesi dell'esilio: "Ho considerato l'idea di lasciare Israele". Quest'estate, sull'Independent, la scrittrice e giornalista israeliana Mira Bar Hillel ha firmato invece un editoriale dal titolo: "Sto per bruciare il mio passaporto israeliano".
   Nel 1967, durante la Guerra dei sei giorni, sui giornali e nei salotti degli scrittori israeliani circolava un'amara battuta. All'aeroporto di Tel Aviv un'insegna recita: "L'ultimo ad andarsene spenga la luce". Allora fu un mugugno di sarcasmo. Oggi è ciò che fa l'intellighenzia israeliana coccolata dalle élite europee.

(Il Foglio, 13 novembre 2014)


La fedeltà di Dio nei confronti di Israele ci incoraggia ad essere certi della nostra salvezza

Intervista al prof. Berthold Schwarz, docente di Teologia Sistematica alla Freie Theologische Hochschule Gießen (Germania) e Direttore dell'Institut für Israelogie.

Il prof. Berthold Schwarz
Israele continua ad avere un ruolo importante nel piano di salvezza di Dio e per questa ragione è fondamentale che determinati passi degli evangeli, ma anche degli scritti apostolici, non siano fraintesi ma interpretati in modo corretto per fede. Nell'intervista Berthold Schwarz parla dell'istituto, di un'involontaria teologia della sostituzione, dell'importanza del tema Israele e del giusto uso della Bibbia.

- Lei è direttore dell'Istituto di lsraelogla, Qual è stato il motivo della sua fondazione?
  Già negli anni Ottanta il rettore della Freie Theologische Hochschule (FTH) di Gießen, Helge Stadelmann, era convinto che dovessimo riflettere più a fondo sul rapporto fra Israele e la storia della salvezza biblica. Quando dei predicatori visitano le chiese e conoscono poco o niente di Israele, o presentano soltanto una «teologia della sostituzione», in cui Israele è soppiantato dalla Chiesa e non svolge più alcun ruolo, a lungo andare provocano dei danni nella formazione dei giovani e delle assemblee. Negli anni Ottanta, tuttavia, non c'erano né le risorse finanziarie né quelle personali per realizzare la visione di Stadelmann. Nell'anno 2003 sono stato nominato docente alla FTH e si parlò della possibilità di creare un Istituto per lo studio di Israele. In quel processo è stato utile che io propugnassi lo studio dell'importanza biblica di Israele nella storia della salvezza. Poi ci furono offerte delle generose possibilità di finanziamento esterne da parte dell'associazione CfI (Cristiani per Israele). Tutto questo ci ha permesso di fondare l'Istituto a Giessen nel 2004.

- Quali sono i compiti dell'Istituto?
  
L'Istituto lavora secondo i mezzi finanziari che ha a disposizione. Per esempio pubblichiamo una collana di libri scientificamente rilevante, la Edition Israelogie, e cerchiamo così di raggiungere soprattutto i collaboratori con una preparazione teologica, gli studenti delle scuole bibliche e di teologia. Affrontiamo varie questioni importanti - anche dal punto di vista teologico - che riguardano Israele. All'Istituto collaborano, fra gli altri, degli studenti della FTH. Curiamo i contatti con gli ebrei messianici nei paesi germanofoni e nell'America settentrionale. Sul nostro sito pubblichiamo vari saggi per tenere vivi certi temi come il superamento della teologia della sostituzione, il significato d'Israele nel rapporto con la Chiesa di Gesù, la chiarificazione di cosa sia l'ebraismo messianico o la questione dell'interpretazione della storia della salvezza nella Bibbia.
Come ogni lettore della Bibbia ben sa, leggere e capire l'Antico e il Nuovo Testamento comporta una grande sfida esegetica. Talvolta affrontiamo dettagli provocatori e la domanda se un dato passo si riferisca soltanto a Israele oppure no. Oppure, come deve essere applicato concretamente un certo passo biblico alla Chiesa e/o a Israele. A chi affronta questi interrogativi, cerchiamo di offrire dei mezzi di orientamento con i contributi dell'Istituto. Per quanto mi riguarda, visito numerose comunità in tutta la Germania per insegnare il rapporto biblico fra Israele e la Chiesa di Gesù.

- Esistono altre opere, scuole bibliche o chiese che si rivolgono all'Istituto e chiedono aiuto in questo frangente? Oppure succede il contrario ed è l'Istituto che va incontro agli altri?
  L'Istituto esiste dal 2004 e nel frattempo sono nati molti rapporti con i leader dei gruppi di ebrei messianici negli USA, con gente in Israele, giornalisti e teologi, e con istituti di formazione teologica nell'America del Nord o in Israele, come per esempio l'Israel College ofthe Bible. Nei paesi germanofoni le scuole bibliche e gli istituti di formazione sono relativamente restii per quanto riguarda la dottrina su Israele. Noi proponiamo delle conferenze, per le quali invitiamo degli oratori competenti, ma la risposta da parte delle scuole bibliche e delle chiese non è ancora come vorrei. Generalmente sono le chiese locali o singoli credenti che chiedono un servizio dell'Istituto dicendo: «Passa da noi, parla durante un convegno biblico. Guida le riunioni durante un fine settimana su Israele. Predica da noi sul tema Israele.» Negli anni scorsi abbiamo creato dei contatti grazie al mio servizio di relatore itìnerante. Talvolta anche altri collaboratori viaggiano e partecipano a manifestazioni, per esempio studenti che informano e sensibilizzano sugli obiettivi dell'Istituto. A Israele e alla Chiesa di Gesù sono legate delle domande importanti che i credenti stessi devono chiarire nella fede. Qui non si tratta soltanto della «voce 5000 dell'ordine del giorno», che in fin dei conti non interessa più nessuno. Israele è un tema importante per i Cristiani, o se non altro dovrebbe esserlo! A mio parere, come cristiani siamo tenuti a farci un'idea molto chiara e a saper informare in modo appropriato su questo argomento. Perciò, come Istituto di Israelogia, cerchiamo di dare degli impulsi alla riflessione. Negli ultimi otto anni, per essere sincero, l'istituto non ha ancora raggiunto un buon grado di influenza. Tuttavia ringraziamo il Signore per l'inizio che ci ha concesso!

- Qual è l'obiezione più frequente che sentite pronunciare e con cui si giustifica la teologia della sostituzione, ossia la dottrina secondo cui la Chiesa avrebbe preso il posto di Israele?
  In Germania ci sono ancora delle persone che ragionano in modo strettamente legato alla teologia della sostituzione, ma con loro ho raramente occasione di parlare. Molti altri però affermano tale teologia involontariamente e in buona fede. Spesso sono dei cari fratelli che prendono sul serio gli insegnamenti biblici, ma finiscono per interpretarli secondo la teologia della sostituzione senza rendersene conto. Questo dipende dalla cosiddetta ermeneutica, ossia dalle regole con cui interpretano le Scritture. Se per esempio alcune affermazioni dell'Antico Testamento, le profezie pronunciate da Gesù o i messaggi degli apostoli vengono considerati soltanto delle «immagini», e quindi non ci si aspetta una loro realizzazione concreta (sebbene il testo non sostenga tale ipotesi), se ne dà un'interpretazione molto diversa che se vi si
Certi passi della Bibbia non con- tengono parole rivolte diretta- mente alla Chiesa di Gesù e, per interpretarle correttamente, è necessario tener conto prima di tutto del loro destinatario originario.
riconosce una promessa divina per il futuro d'Israele. In un certo senso è necessario cambiare approccio e riconoscere che determinati passi della Bibbia non contengono parole rivolte direttamente alla Chiesa di Gesù e che, per interpretarle correttamente, è necessario tener conto prima di tutto del loro destinatario originario. Una volta fatto questo, ci si può chiedere: «Che cosa significano queste parole per la Chiesa di Gesù?» L'esperienza insegna che alcuni fratelli non riescono a compiere questo trasferimento durante l'interpretazione, ma spesso ciò non è dovuto a cattive intenzioni. Si legge semplicemente il testo: «Ascolta, ascolta Israele» e ci si dice: «Oggi non vogliamo più sentire parlare di Israele, queste parole sono sicuramente rivolte alla Chiesa!» In questo modo un testo biblico, che aveva un altro destinatario, viene applicato direttamente alla Chiesa di Gesù, e si tralascia di chiedersi che cosa significasse o significhi ancora per Israele. Inavvertitamente si inserisce qualcosa nell'interpretazione biblica che ha delle gravi conseguenze per il destinatario iniziale, Israele, senza esserne consapevoli.

- I più radicali si rifanno spesso agli apostoli e affermano: «Anche gli apostoli usano l'Antico Testamento in questo modo e riferiscono dei passi veterotestamentari alla Chiesa!)) Come risponderebbe a tale affermazione?
  Il loro ragionamento non è nuovo. Se però ci si impegna un po' e si analizza il modo in cui gli evangelisti del Nuovo Testamento, gli apostoli e Gesù stesso hanno usato i passi dell'Antico Testamento, si costata che non esiste un unico metodo o modo di citare e applicare i passi veterotestamentari. Questa è un'osservazione importante per ribattere la drastica affermazione che gli apostoli abbiano agito sempre secondo lo stesso schema.
Esistono invece molte varianti nel modo in cui il Nuovo Testamento tratta l'Antico. Alcune parole dell'AT hanno un significato per la Chiesa, per esempio come esortazione, nel senso di: «Imparate da loro». Ma ci sono vari altri modi e non c'è una sola regola. Per esempio, esistono alcune affermazioni neotestamentarie che confermano che determinate promesse rivolte a Israele nell'Antico Testamento ancora non si sono avverate e si realizzeranno in futuro, dopo il tempo della Chiesa. Ciò significa che non si può generalizzare e che è necessario esaminare ogni singolo passo e capire come Gesù e gli apostoli abbiano veramente usato le promesse e le affermazioni dell'Antico Testamento.
   Il semplice schema in bianco e nero, che di tanto in tanto si usa per spiegare il comportamento del Signore Gesù e degli apostoli, a mio parere non è corretto.

- Come interpreta le promesse per Israele in vista dello Stato ebraico moderno? Anche qui si dibatte sul ruolo esatto che la nazione secolare d'Israele ha nel piano di salvezza di Dio.
  In linea generale dobbiamo fare lo sforzo di riscoprire le promesse dell'Antico Testamento e capirne il contenuto nel contesto temporale in cui sono state pronunciate e per il pubblico cui erano destinate. Il passo che si sta esaminando si riferisce a un periodo preesilico? Oppure parla dell'esilio? O vi si accenna a qualcosa che riguarda la fine dei tempi? Per cominciare, quindi, dobbiamo capire le profezie e le promesse di Dio nel modo in cui i destinatari le capirono. In seguito esaminiamo come se ne parla nel Nuovo Testamento, se per esempio il discorso viene ripreso e portato avanti, se la promessa va riferita a Gesù e come eventualmente può essere riferita a Israele. Se si procede in questo modo, non si potrà affermare che i versetti dell'Antico Testamento che contengono una promessa sono tutti ancora irrealizzati. Esistono
I primi destinatari, il popolo del patto, Israele o gli ebrei, hanno ricevuto delle promesse che ancora dovranno realizzarsi nel futuro. Tali promesse sono spesso legate a determinate con- dizioni che si devono realizzare in un certo momento storico.
numerose promesse che ebbero la loro realizzazione già nel corso della stesura della Bibbia (per esempio quelle riguardo a Gesù, alla sua venuta, alla sua messianicità, ecc.).
Tutti questi passi vanno distinti dalle promesse che ancora non si sono avverate. Allora ci si rende conto che i primi destinatari, il popolo del patto, Israele o gli ebrei, hanno ricevuto delle promesse che ancora dovranno realizzarsi nel futuro. Tali promesse sono spesso legate a determinate condizioni che si devono realizzare in un certo momento storico. Prima non si potrà affermare che quelle promesse bibliche si siano avverate. Se riusciamo ad affrontare una promessa biblica in questo modo, troveremo anche delle affermazioni e delle promesse valide e fondate che si possono mettere in relazione con lo Stato d'Israele. Bisogna tuttavia prestare attenzione perché alcune promesse rivolte a Israele si riferiscono a un tempo ancora futuro e non allo Stato ebraico attuale. Distinguere le une dalle altre non è sempre facile. I lettori della Bibbia devono accettare la sfida e impegnarsi a non identificare con leggerezza tutte le promesse rivolte all'Israele biblico con quelle rivolte allo Stato ebraico secolare moderno.
Bisogna sempre tener conto del contesto in cui le promesse e la loro realizzazione vengono riportate. Esistono delle promesse che riguardano il futuro ristabilimento d'Israele, cui deve precedere però un profondo pentimento o un risveglio o una determinata azione di Dio, o che si riferiscono al ritorno del Messia. Promesse di questo tipo non possono applicarsi semplicemente a una qualche situazione storica d'Israele, e neppure al moderno Stato ebraico. Studiare a fondo e distinguere questi aspetti non è facile, richiede molto lavoro e uno studio approfondito delle Scritture.
   
- Che cosa consiglia a chi non ha avuto una formazione teologica? Se un semplice lettore della Bibbia legge tutti questi passi, può applicare una regola generale per metterli in relazione con l'Israele del passato, quello presente, quello del futuro e con la Chiesa?
  Il lettore che vuole leggere la Bibbia con attenzione ed è spinto da una certa curiosità dovrebbe tentare, durante la lettura dell'Antico Testamento, di riconoscere le connessioni interne alla Bibbia. Per farlo possono essere utili una chiave biblica e le proprie crescenti conoscenze della Parola di Dio, non è necessario aver studiato teologia ma essere interessati. Per esempio ci si può chiedere: «Bene, abbiamo qui una parola di Ezechiele oppure è il profeta Amos a parlare? Un momento, qui sembra quasi che questo messaggio di Dio sia stato dato nel periodo dell'esilio. Parte di questa promessa si è forse già realizzata? Oppure si tratta di qualcosa che deve ancora avvenire?» Durante lo studio si può prendere spunto anche da testi utili, da libri che nel corso degli ultimi decenni sono stati pubblicati su varie domande. Consiglio che si tenti di individuare le relazioni con un lessico biblico, lo studio personale della Bibbia e con libri. In questo modo si accresce la comprensione del modo in cui i testi dell'Antico Testamento sono connessi a quelli del Nuovo e quali interventi di Dio nei confronti d'Israele sono già avvenuti e quali no. Questo approccio richiede una certa disciplina dal lettore biblico perché non dia risposte affrettate e superficiali ma si impegni a studiare e capire ciò che è scritto.

- Un'ultima domanda. Lei ha detto che la questione d'Israele non è soltanto la voce 5000 nell'ordine del giorno. Perché essa è rilevante anche nella vita quotidiana del cristiano medio?
  La Chiesa di Gesù non va considerata il sostituto del popolo d'Israele. Questa, in ogni caso, è secondo me la visione corretta dedotta dalla Bibbia. Ciò significa che Israele continua ad avere un ruolo importante nel piano di salvezza di Dio e per questa ragione è fondamentale che determinati passi degli evangeli, ma anche degli scritti apostolici, non siano fraintesi ma interpretati in modo corretto per fede. Per esempio, come si affrontano determinate affermazioni bibliche se non si possono applicare direttamente alla Chiesa?
Visto che non si possono eliminare, bisogna chiedersi: Se hanno un significato per Israele, come posso ugualmente trarre profitto dalle promesse, dalle esortazioni e dai giudizi dell'Antico Testamento (cfr. 2 Ti 3:16: «ogni Scrittura è utile»)? Quale significato concreto hanno questi versetti per la Chiesa di Gesù o
Guardare Israele rafforza anche la nostra fede in Gesù Cristo. Se riconosciamo le connessioni e vediamo come Dio sta scrivendo la storia della salvezza, come annuncia la sua salvezza tramite suo Figlio Gesù nel contesto neotesta- mentario del Giudaismo e di Israele, allora la nostra fede ne esce arricchita e incoraggiata.
per il singolo credente, anche se inizialmente non furono rivolti a loro? È di fondamentale importanza rispondere a queste domande per leggere la Bibbia con profitto e crescere nella fede. Osservando Israele, si possono imparare lezioni importanti. Israele è la dimostrazione che l'opera salvifica di Dio nella storia non è ancora finita. Qui non si tratta di una suggestione o di una filosofia, ma del fatto che Dio opera in questo popolo e continuerà a farlo in futuro. Guardare Israele rafforza anche la nostra fede in Gesù Cristo. Se riconosciamo le connessioni e vediamo come Dio sta scrivendo la storia della salvezza, come annuncia la sua salvezza tramite suo Figlio Gesù nel contesto neotestamentario del Giudaismo e di Israele, allora la nostra fede ne esce arricchita e incoraggiata. Per questa ragione i cristiani devono riflettere su Israele e imparare a riconoscere i nessi. Per esempio dobbiamo capire perché i capitoli 9, lO e Il di Romani si trovano proprio in questa lettera. Ciò ha fra l'altro qualcosa a che vedere con la certezza della nostra salvezza (cfr. il passaggio da Rm 8:31-39 a Rm 9:1 sgg. e 11:1 sg. a Il :25-29). Se i cristiani vogliono ottenere la certezza della loro salvezza devono evidentemente credere in Gesù Cristo, nella sua morte vicaria sulla croce e nella sua redenzione. Ma anche Israele vi gioca un ruolo. La fedeltà di Dio nel rapporto con Israele ci incoraggia a essere certi della nostra salvezza. Dio nella storia si è rivelato fedele nei confronti di Israele (Rm Il :28) e così è fedele verso «noi» che crediamo in Cristo (Rm 8:39). La fedeltà di Dio rafforza la nostra certezza della validità della salvezza per la fede nel Cristo risorto (Rm 4:25).
Per finire vorrei porre l'accento sul fatto che, in generale, dobbiamo riflettere soprattutto su Cristo stesso. Lui è il nostro Signore, Redentore, Salvatore, colui che serviamo e al quale ubbidiamo. La meditazione su Gesù Cristo non deve essere soppiantata da nessun altro studio, neppure dalle ricerche riguardo Israele. Ciò non significa tuttavia che bisogna trascurare o disprezzare gli aspetti biblici importanti che riguardano il popolo di Dio. Dobbiamo piuttosto mettere in relazione, sulla base dell'insegnamento biblico, la storia della salvezza di Dio con Israele e la fede nel Salvatore Gesù Cristo: proprio questo ci permette di vivere una vita di fede equilibrata, sana e orientata sulla Bibbia.

(Chiamata di Mezzanotte, ottobre 2014)


Gaza - Commissione Onu: Israele si ritira

Non parteciperà al comitato d'inchiesta sulle violazioni delle leggi sul diritto umanitario internazionale

Israele non parteciperà alla commissione d'inchiesta dell'Onu sulle violazioni delle leggi sul diritto umanitario internazionale commesse durante la guerra a Gaza nell'estate 2014. Lo ha annunciato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano.
«Dal momento che la Commissione Schabas (dal nome del suo presidente, William Schabas, ndr) non è una commissione d'inchiesta bensì una commissione che fornisce conclusioni in anticipo, Israele non coopererà con la commissione del consiglio dei diritti dell'uomo dell'Onu sull'ultimo conflitto con Hamas», si legge nel comunicato del portavoce del ministero degli Esteri israeliano Emmanuel Nahshon.

- Ostilità ossessiva verso Israele
  Nahshon ha parlato di una decisione presa a causa «dell'ostilità ossessiva dimostrata da questa Commissione nei confronti di Israele e delle dichiarazioni del suo presidente contro israele ed i suoi leader». Il giudice canadese William Schabas, appena nominato a capo della Commissione disse pubblicamente: «La mia ambizione è portare Netanyahu davanti alla Corte penale Internazionale».

(Fonte: Lettera 43, 12 novembre 2014)


Iran - Altro che trattative, Khamenei vuole «annientare Israele»

Mentre Teheran dialoga con gli Usa, in un tweet l'Ayatollah definisce il governo israeliano «un regime barbaro e infanticida. Poi spiega in nove punti perché va distrutto.

di Fiamma Nirenstein

Se inviti a cena una persona con cui vuole fare amicizia, e quello entra in casa, tira un calcio al tuo gatto, sputa per terra, tira un pugno a tuo figlio, d'un tratto capisci che hai commesso un errore. Invece dopo che, a seguito di una lettera di Obama nel segno dell'accordo e dell'alleanza l'ayatollah Khamenei ha twittato il suo progetto genocida di eliminazione di Israele urbi et orbi, non si è sentito ancora nessuna reazione da parte dei timidi ambasciatori dei P5+1 che in questi giorni sono rimasti a colloquio con gli iraniani in Oman per discutere il nucleare. Anche da Obamanonsisen-te niente. Ma si può discutere con uno che in 9 punti ti spiega perché il «regime sionista» deve essere distrutto? Khamenei lo spiega a fondo: «Perché il regime sionista deve essere distrutto? Durante 66 anni, il regime fantoccio sionista ha tentato di realizzare i suoi fini attraverso l'infanticidio, l'omicidio, la violenza e il pugno di ferro. L'unico modo di porre fine ai crimini di Israele è eliminarlo». Poi Khamenei, che preferisce far finta di preferire che gli ebrei se ne vadano senza troppo sangue, propone un referendum di tutti gli arabi e i cristiani (che per l'occasione sono diventati amici suoi, mentre niente ebrei prego) per votare la chiusura totale di Israele. Si dice certo che l'opinione pubblica internazionale accetterà il piano e poi però rassicura i terroristi: fino a che questo avvenga invita alla lotta armata.
   Khamenei dice la sua feroce, oscena verità mentre incarica i suoi inviati di prendere tempo sul nucleare, e questo ha sempre fatto l'Iran. Il tempo è sempre stata l'arma del nucleare iraniano, e non abbiamo imparato nulla ora che i colloqui coll'Iran in Oman sono andati male e la loro conclusione non si prospetta per il 24 come previsto, la chiacchera diplomatica si dilunga. Dopo che John Kerry, la Ashton e il ministro degli Esteri iraniano Javad Sharif (che gran signore!) se ne sono andati, restano a discutere minuti, disperati particolari tecnici sull'arricchimento, la proliferazione, la minuziosa tipologia delle centrifughe, i reattori a plutonio, le verifiche secondo l'Aiea e altri organismi internazionali la Gran Bretagna, la Cina, la Francia, la Germania, la Russia, l'Unione Europea, gli Usa e gli uomini di Zarif. Quanta gente! Ma con chi stiamo parlando? Insomma, abbiamo un interlocuttore razionale sul pericolo imminente di una, cento bombe atomiche, o stiamo girando intorno alla futile legacy di Obama, ora che l'Iran è rimasto una delle sue poche pallottole in canna? Dunque, Obama prende carta e penna, ha fretta di arrivare a un accordo perché presto il Senato sarà in mani repubblicane e può aumentare le sanzioni se l'Iran non ci sta, e stila il suo messaggio: «Caro supremo leader Ayatollah Ali Khamenei...». E vorrebbe aggiungere: tu che sei l'unico che decide, perché Rouhani sorride ma non conta. È ben la quarta lettera di conciliazione: Obama la pretende come un bambino che voglia una caramella. Durante il suo discorso programmatico disse: «Noi vi porgeremo la mano se vorrete aprire il vostro pugno». Poi al Cairo lanciò la sua proposta al mondo musulmano. Nel frattempo dall'Iran venne la risposta: «Noi non possiamo che odiare l'America dal profondo del cuore».
    Chiunque avesse avuto dei consiglieri migliori, avrebbe imparato che l'incompatibilità pratica e teologica, sulla democrazia, le donne, la sessualità, i diritti umani, è antitetica a quella dell'Iran. E l'Iran dalla rivoluzione knomeinista non è solo uno Stato ma la fiaccola del califfato sul mondo secondo la Shia. L'Iran ha le idee chiare, vuole riuscire ad abbattere le sanzioni, seguitare ad arricchire l'uranio mentre estende la sua egemonia alla Siria, ha già in mano il Libano, l'Irak è il suo campo di battaglia, lo Yemen è quasi nelle sue mani, giuoca col Golfo, ieri una delegazione era a Mosca per firmare contratti di natura energetica, gestisce la sua partita nel terrorismo internazionale, con finanziamenti, hezbollah e guardie della rivoluzione. Obama nella sua ultima lettera a Khamenei, immemore di come l'Irana bbia sempre giuocato l'America (ricordiamoci del rilancio della strategia atomica nascosta nel 2002) cerca tre accordi: uno sul nucleare, il secondo sulla comune guerra contro l'Isis, e il terzo, vergognoso, che salvaguardia Assad unavolta che gli altri accordi siano rispettati. La risposta di Khamenei non c'è stata, che può esserci di più repulsivo e finale di quel tweet?
   
(il Giornale, 12 novembre 2014)


Quei blocchi di cemento armato e la fine della «normalità»

 
La storia ormai ha iniziato a ripiegarsi. A ripetersi. Non importa se in grande o in piccolo. Perché la certezza da quelle parti, in Medio Oriente, è che prima o poi tutto torna. Tutto si replica. In un copione ormai stanco, fatto di strappi in avanti, di balzi all'indietro, di speranze che s'infiammano e di pessimismo che soffia subito dopo, non appena s'è girato l'angolo. Non appena all'orizzonte un proiettile s'infila in un corpo o una granata piomba in casa nel bel mezzo della cena.
   E così vedere i social network riempirsi di foto di blocchi di cemento che vengono posizionati alle fermate del tram di Gerusalemme o dei bus che portano qua e là in Cisgiordania, tra gl'insediamenti, ecco, vedere queste istantanee - scattate con telefonini e tablet e macchine fotografiche - non fanno altro che aumentare la fila, già lunga, degli scoraggiati. Di chi per anni ha creduto, ha combattuto, ha sacrificato la vita in nome della Pace tra i due popoli, della concordia - o almeno del minimo esistenziale che prende il nome di tranquillità - e che ora deve fermarsi, trattenere il respiro, aspettare che il polverone emotivo e informativo si disperda, per cercare di capire se è ancora rimasto qualcosa a cui aggrapparsi, un briciolo di speranza oppure mollare tutto. Dedicarsi ad altro. Magari a convincere i simili che non c'è proprio nulla da fare.
   Dopo le auto e i furgoni guidati da arabi o palestinesi e lanciati a folle velocità questi giorni contro le fermate dei mezzi pubblici dove si trovano soprattutto ebrei e israeliani, con quei blocchi di cemento le pensiline sono diventate presìdi militari. Degli arroccamenti che ricordano quelli usati nelle linee di confine lungo il Golan e la frontiera con il Libano per difendersi al meglio. Piccoli muri che corrono di fianco al Muro. E proprio mentre di qua, in Europa, celebriamo la caduta della nostra barriera, crollata un quarto di secolo fa.
   Ma quei blocchi di cemento segnano anche il ritorno di un incubo, quello che per anni - a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila - ha fatto versare fiumi di sangue e lacrime, costretto migliaia di genitori dello Stato ebraico a mandare i figli a scuola, la stessa scuola, in bus separati perché se un kamikaze dovesse farsi esplodere in uno dei mezzi dove si trova uno dei pargoli, almeno si salva l'altro.
   Una soluzione ingombrante, questi blocchi di oggi. Un pugno in faccia. Una mazzata all'ottimismo. In fondo in fondo un'idea provvisoria, in attesa che s'inventino la fermata a prova di auto e di bomba. Perché quelle pensiline arriveranno prima o poi. Nel frattempo ci sono questi ammassi di cemento. Quadrati. Parallelepipedi. Grandi. Medi. Posizionati in modo da non far passare alcun tipo di veicolo. Anche se, ne sono convinti molti israeliani, gli arabi s'inventeranno le moto-kamikaze. E allora bisognerà rendere gli accessi ancora più stretti. E la ferita ancora più evidente. E la divisione ancora più profonda.
   La verità è che da qualche anno - nonostante qualche incidente - molti abitanti dello Stato ebraico s'erano convinti che un po' di normalità fosse entrata nella loro vita. I controlli s'erano allentati. Accedere ai centri commerciali era sì vincolato al passaggio veloce di un metal detector, però era diventato quasi un residuato del (recente) passato. E i militari - israeliani e palestinesi - s'erano fatti via via più distesi, più rassicuranti.
   Poi è successo qualcosa negli ultimi mesi. L'area è ritornata a un clima da seconda intifada. I giovani - tutti i giovani - sono diventati all'improvviso delle vittime da sacrificare all'altare dell'estremismo. Non più il futuro, ma semplici oggetti da rapire, da bruciare. Simboli degli agguati e delle vendette agli agguati. Argomenti per risposte militari. Proiettili e razzi con cui far fuori altri adolescenti ancora, altri adulti, altri innocenti trascinati nel vortice della violenza da classi dirigenti non sempre all'altezza dei loro popoli.
   E ora eccoci qui. Con la polizia israeliana che da qualche ora chiede ai suoi connazionali di stare alla larga dai villaggi arabi. Non dai paesini della Cisgiordania. Ma dai centri abitati che si trovano all'interno dello Stato ebraico: al Nord (vicino Haifa e verso il Golan), al Centro (tra Tel Aviv e Gerusalemme), al Sud. Con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che - pressato dalla destra del suo partito, messo in discussione dalle formazioni estremiste e criticato dai connazionali - invita gli arabo-israeliani, il 20% della popolazione, a fare le valigie e ad andare a trasferirsi in Cisgiordania, dai palestinesi, se non gli piace la vita nello Stato ebraico. E intanto accusa Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità palestinese, gli chiede di smetterla di incendiare l'area e di diffondere bugie.
   E Abbas che - ormai tolte le spoglie della colomba - replica su tutto. Accusa Netanyahu di terrorismo e genocidio. Minaccia fuoco e fiamme. Invita i palestinesi a difendere la Spianata delle Moschee, nel cuore di Gerusalemme (vedi il video sotto con il discorso di ieri, 11 novembre). A non permettere - parole testuali - che «gl'israeliani la contamino» e che gli ebrei preghino «altrimenti si rischia una guerra religiosa globale». Poi annuncia che il mausoleo di Yasser Arafat sarà spostato proprio a Gerusalemme.
   Soffiano venti di guerra in Medio Oriente. Ancora una volta. E la sensazione - almeno a registrare il silenzio degli Stati Uniti e dell'Unione Europea - ecco, la sensazione è che stavolta anche i più ottimisti abbiano perso la voce. Le speranze. E, forse, anche la voglia.

(Falafel Cafè, 12 novembre 2014)


Lady G, l'avventuriera israeliana che combatte coi peshmerga

Gill Rosenberg, canadese di nascita, immigrata in Israele nel 2006, ha 31 anni, il brevetto da pilota civile, ha fatto due anni di militare ed ha alle spalle una condanna per frode negli Stati Uniti. E' andata volontaria a Erbil "perché i curdi sono nostri fratelli, minacciati dal terrore jihadista".

di Maurizio Molinari

Gill Rosenberg
GERUSALEMME - Lady G si svela. La misteriosa israeliana volontaria con i peshmerga curdi in Iraq si chiama Gill Rosenberg, è canadese di nascita, immigrata in Israele nel 2006, ha 31 anni, possiede il brevetto da pilota civile, ha fatto due anni di militare in Israele ed ha alle spalle una condanna per frode negli Stati Uniti. Al quotidiano "Yedioth HaHaronot" racconta di essere andata volontaria a Erbil "perché i curdi sono nostri fratelli, minacciati dal terrore jihadista" e "dobbiamo aiutarli". Si scioglie così il mistero su Lady G ovvero il primo cittadino israeliano che ha scelto di unirsi volontariamente a chi in Iraq si batte contro il Califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi. In alcune telefonate alle stazioni radio più seguite ha raccontato "Sono una donna ed un soldato della riserva ed ho deciso di mettere le mie conoscenze al servizio dei peshmerga curdi che si battono contro il Califfo". "Lady G" vive nell'area urbana di Tel Aviv, si è messa davanti al proprio laptop, ha contattato i guerriglieri curdi del Nord Iraq "che non hanno paura di morire" e si è messa a loro disposizione. Pochi giorni dopo è partita, dall'aeroporto "Ben Gurion" ha preso un volo per Amman, in Giordania, e da lì ha continuato per Erbil, maggiore centro del Kurdistan. Sull'incontro con i peshmerga non dice nulla, ma sottolinea la volontà di "aiutarli" ad "addestrarsi" al fine di essere "più efficaci nella lotta" contro i miliziani jihadisti dello Stato Islamico. Sotto le domande incalzanti di chi la intervista, "Lady G" aggiunge di aver portato con sè in Kurdistan il "motto dei militari israeliani" ovvero l'espressione "aharai", dietro di me, per indicare l'importanza della responsabilità personale nell'affrontare situazioni ad alto rischio. Ma c'è anche chi sospetta che abbia ancora guai con la giustizia americana e potrebbe dunque essere andata in Kurdistan per sfuggire all'Fbi. L'avventura personale di "Lady G" fa notizia in Israele perché bilancia le storie di una trentina di cittadini arabi-israeliani che hanno scelto di andare a combattere nelle fila dello Stato Islamico: tre di loro sono morti in combattimento in Siria e Iraq.

(La Stampa, 12 novembre 2014)


Iran e Russia, un'intesa pericolosa

Nuova partnership sul nucleare tra Iran e Russia. Gli accordi fra i due paesi riguardano la centrale di Bushehr, città del Golfo Persico, a pieno regime dal 2013. Bisognerà capire quale sarà il peso di questa intesa sugli sviluppi del programma nucleare iraniano. Il consiglio di sicurezza dell'Onu (cinque più uno: Usa, Russia, Cina, Francia, Germania, Regno Unito) vuole il raggiungimento di un accordo con Iran e il tempo sta per scadere. La richiesta Onu è che le operazioni iraniane di arricchimento dell'uranio restino a livelli inferiori a quelli utili per scopi bellici. Sull'argomento, il viceministro degli Esteri russo Sergei Ryabchov si è detto "ragionevolmente ottimista". I dettagli dell'intesa russo-iraniana prevedono che la Rosatom, agenzia atomica dell'Orso, si occuperà della costruzione di due nuovi reattori per la centrale di Bushehr, con opzione di portarli successivamente a quattro. Ulteriori quattro, per un totale di otto in tutto l'Iran, saranno poi costruiti in altre aree del paese. Location e tempi sono ancora da definire. Si tratta di uno smacco per Stati Uniti e Unione Europea? Forse anche l'Occidente ha i suoi motivi per abbozzare un timido sorriso. Rosatom dovrebbe fornire le barre di combustibile pronto per l'uso (quindi non utilizzabile per scopi militari) e anche lo smaltimento delle scorie nucleari sarà a carico dei russi. Un uranio non trattato in Iran e supervisionato dall'Aiea (Agenzia internazionale per l'energia atomica), che ha approvato l'accordo e controllerà la costruzione dei reattori, è garanzia di sicurezza. Barack Obama, poi, risolto lo scenario iraniano, potrebbe concentrarsi sulla questione siro-irachena. Paradossale che sia proprio Vladimir Putin a fornirgli un assist: al vertice Apec, i due si sono quasi ignorati. Tra Russia e Stati Uniti sta formandosi una nuova distanza che rende difficile una partnership a livello globale. Forse è per questo che Putin, a Pechino, ha curato molto il fronte cinese. Sulla sicurezza, il rapporto con Usa e Ue, difatti, è quasi compromesso.

(Diretta News.it, 12 novembre 2014)


La Comunità ebraica di Napoli compie 150 anni

La ricorrenza sarà celebrata con una mostra per festeggiare l'importante anniversario, che documenterà, attraverso testi, fotografie ed oggetti liturgici la storia della comunità, dalle origini ad oggi.

di Nicola Clemente

La Sinagoga di Napoli
Compie 150 anni la Comunità Ebraica di Napoli, con una mostra per festeggiare l'importante anniversario, che documenterà, attraverso testi, fotografie ed oggetti liturgici la storia della comunità, dalle origini ad oggi.
   L'ampia esposizione si sdoppia su due sedi prestigiose, che ospiteranno l'iniziativa, la Biblioteca Nazionale e l'Archivio di Stato di Napoli. L'inaugurazione si svolge il 12 novembre e sarà visitabile sino al 12 dicembre, presso la Biblioteca Nazionale di Napoli con l'intervento di: Sandro Temin, Consigliere Unione Comunità ebraiche, Pier Luigi Campagnano, presidente Comunità ebraica di Napoli, Simonetta Buttò direttrice della Biblioteca nazionale di Napoli, Imma Ascione , direttrice dell'Archivio di Napoli, Giancarlo Lacerenza del Centro di Studi Ebraici dell' Università L'Orientale, che ha curato la mostra insieme ad un équipe di bibliotecari ed archivisti.
   Importanti testimonianze provenienti dalla Comunità Ebraica, tra cui molti rari documenti mai esposti in precedenza, costituiscono il nucleo del percorso espositivo, suddiviso per ambiti tematici, che si arricchisce ogni volta di preziose fonti rispettivamente della Biblioteca Nazionale di Napoli e dell'Archivio di Stato di Napoli. Si comincia con una preziosa esposizione di arredi liturgici e varia documentazione a stampa sulle testimonianze ebraiche a Napoli dall'Antichità all'Età moderna. Un raro incunabolo ebraico edito a Napoli nel 1492 e una grammatica ebraico-latina, pubblicata a Venezia nel 1522, ma scritta dall'esule del Viceregno Abramo de Balmes recano testimonianza dell'espulsione avvenuta intorno al 1510. In questa sezione sono visibili anche le riproduzioni dei sepolcri studiati all'inizio del '900 da Gennaro Aspreno Galante nelle "Memorie della Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli".
   Ampio spazio è riservato all'età dei Rothschild, importante famiglia di banchieri che, aperta la filiale napoletana nel 1821 sotto i Borbone, fu vero motore della rinascita ebraica napoletana. Furono loro a prendere per primi in affitto i locali di via Cappella Vecchia dove tutt'oggi si trova la Sinagoga, poi acquistati con il contributo di tutti gli iscritti, e a fondare un ospedale israelitico in via Porta Posillipo. Si passa poi a illustrare la vita culturale e religiosa, tra arredi sacri della liturgia, immagini e scritti dei rabbini che si sono avvicendati negli anni, e la vita economica degli ebrei napoletani. Molte le testimonianze delle attività commerciali, come il primo negozio in città di battitura e scrittura a macchina The Empire, della famiglia Soria, la prima sala cinematografica di Mario Recanati, la Fabbrica di Biancheria Finissima Salvadore Campagnano, il Setificio Sinigallia, la ditta Samia o la Pace Cagli. Non mancano i documenti sulla famiglia Ascarelli, di cui Giorgio fu il fondatore nel 1926 dell'Associazione Calcio Napoli.
   Si arriva poi al doloroso capitolo delle leggi razziali e della Shoah, rappresentato da numerosi documenti e fotografie di quelle famiglie mai rientrate dopo la guerra. La mostra si conclude con la vita odierna dal dopoguerra fino ad oggi, passando per momenti che hanno segnato la storia comunitaria come quella ufficiale, un esempio lampante la visita nel 1966 alla Sinagoga del Cardinale Ursi, primo uomo di Chiesa a mettere piede in un luogo di culto ebraico.

(Chiaia Today, 12 novembre 2014)


Israele: al via l'operazione "Hospital Hope" contro l'Ebola

Cliniche mobili, equipaggiamenti e medici in Sierra Leone, Guinea e Liberia

 
Gil Haskel
ROMA - Contro l'Ebola ha ufficialmente preso il via in Israele l'operazione "Hospitals of Hope". Lo ha annunciato Gil Haskel, a capo del Mashav l'agenzia nazionale per la Cooperazione internazionale, durante un evento ad Ashdod. Il progetto è finanziato dal ministero degli Esteri dello stato ebraico e vuol essere un contributo nella lotta globale contro la diffusione del virus. In dettaglio verranno inviati due container di equipaggiamenti medici in ognuno dei tre stati più colpiti dalla pandemia: Sierra Leone, Liberia e Guinea. Tra il materiale ci saranno cliniche mobili con una capacità di 20 posti letto ognuna, complete di ogni dotazione in modo che potranno cominciate a operare immediatamente per le cure dei pazienti. I container lasceranno il porto di Ashdod il 14 novembre via nave e dovrebbero raggiungere le destinazioni di arrivo in una quarantina di giorni. Insieme al materiale arriveranno squadre di specialisti che addestreranno gli operatori locali sul montaggio e sull'utilizzo delle cliniche mobili. A loro si aggiungeranno anche alcuni medici israeliani che formeranno i loro omologhi in loco. Il ministero degli Esteri del paese ebraico invierà team medici in Camerun e in Costa D'Avorio per consigliare la popolazione locale su come affrontare al meglio l'emergenza e su come evitare scoppi dell'epidemia.

(il Velino, 11 novembre 2014)


Penalizzazione di due punti per Hapoel e Maccabi Tel Aviv

di Alessandra Stefanelli

Hapoel e Maccabi Tel Aviv sono stati sanzionati dalla commissione disciplinare con due punti di penalizzazione, oltre alla chiusura delle tribune nei match casalinghi. La decisione è stata presa in seguito ai violenti incidenti che si sono verificati nel derby dello scorso 3 novembre, quando un ultras dell'Hapoel a torso nudo, aveva fatto irruzione in campo aggredendo il giocatore del Maccabi Eran Zahavi (ex Palermo). Le cose poi sono degenerate fino all'interruzione della partita.

(TuttoMercatoWeb, 11 novembre 2014)


Palestinesi divisi nel decimo anniversario della morte di Arafat

Un clima di divisione ha segnato le celebrazioni del decimo anniversario della morte di Yasser Arafat, leader storico della Palestina. Accuse reciproche tra Hamas e al-Fatah, dopo una serie di attacchi intimidatori a Gaza contro abitazioni di esponenti di spicco di al-Fatah, movimento di liberazione nazionale palestinese fondato nel 1957 da Arafat. Mahmoud Abbas ha puntato l'indice contro Hamas che vuole ''distruggere l'unità nazionale.''
"Queste azioni rallentano la ricostruzione di Gaza'', ha detto il presidente dell'Autorità nazionale palestinese in un discorso a Ramallah in commemorazione di Arafat di fronte a migliaia di persone. ''Ritardano il ritorno di 100mila palestinesi nelle loro abitazioni prima dell'inverno.''
Parole che Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha bollato come ''insulti'' con il solo obiettivo di avvelenare l'anniversario della morte dell'ex leader palestinese Yasser Arafat.
"Il discorso di Abbas ha lo scopo di aumentare le tensioni. È un discorso di parte, esecrabile e irresponsabile senza nessuna buona intenzione né nei confronti di Hamas né del popolo di Gaza", ha detto Fawzi Barhoum.
Tensione alle stelle tra al-Fatah, partito del presidente Mahmoud Abbas, e Hamas il ''Movimento della resistenza islamica'' che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza. A rischio la riconciliazione siglata nel maggio scorso.

(euronews, 11 novembre 2014)


In quel giorno avverrà
che i monti stilleranno mosto,
il latte scorrerà dai colli,
e l'acqua fluirà da tutti i rivi di Giuda.
Dalla casa dell'Eterno sgorgherà una fonte,
che irrigherà la valle di Sittim.
L'Egitto diventerà una desolazione,
e Edom uno squallido deserto
a causa della violenza fatta ai figli di Giuda,
sulla cui terra hanno sparso sangue innocente.
Ma Giuda sussisterà per sempre,
e Gerusalemme d'età in età.
Io vendicherò il loro sangue,
non lo lascerò impunito;
e l'Eterno dimorerà in Sion.

(dal libro del profeta Gioele, cap.3)
 

Abu Mazen contro Hamas: "Distrugge l'unità nazionale"

Il leader palestinese accusa il gruppo fondamentalista per gli attacchi alle sedi di Fatah a Gaza. La replica: "Da Abbas menzogne e insulti". Tensione in Cisgiordania: sassaiola contro veicoli palestinesi a Betlemme. Jihad islamica rivendica aggressione di ieri.

"Hamas ha la responsabilità dei recenti attacchi, di rallentare la ricostruzione di Gaza e di distruggere l'unità nazionale". Il presidente palestinese Abu Mazen si scaglia contro Hamas mentre in Cisgiordania si respira un clima di forte tensione dopo l'attentato di mercoledì scorso a Gerusalemme, l'uccisione ieri di un soldato israeliano a Tel Aviv e l'aggressione a tre coloni ebrei in Cisgiordania che ha provocato la morte di una israeliana di 25 anni.
Abu Mazen, parlando a Ramallah durante la cerimonia per il decennale della morte di Yasser Arafat, ritiene Hamas responsabile dei recenti attacchi a Fatah a Gaza: "Perchè hanno messo quelle bombe? Questo dimostra che non vogliono l'unità", ha aggiunto Mazen. Il leader palestinese ha anche condannato l'organizzazione islamica per il rapimento e l'uccisione dei tre ragazzi ebrei a giungo scorso: "E' stata una mossa intelligente?". Nei fatti, secondo Abu Mazen, quella mossa ha minato "l'unità nazionale palestinese" e ha avuto anche come conseguenza "la distruzione di Gaza" durante il conflitto con Israele. Le parole di Abbas potrebbero siginificare la fine della rinnovata unità nazionale palestinese ritrovata a giugno scorso e sancita dalla nascita del governo presieduto da Rami Hamdallah.

(la Repubblica, 11 novembre 2014)

*

Hamas replica alle accuse di Abbas: discorso settario, esecrabile e irresponsabile

"Settario, di parte, esecrabile e irresponsabile". E' questa la reazione del movimento di Hamas al discorso pronunciato oggi dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, di fronte a una folla di palestinesi presso la Muqataa a Ramallah, in occasione del 10mo anniversario dalla morte dell'ex leader Yasser Arafat.
Nel suo discorso, Abbas ha accusato Hamas di essere responsabile delle esplosioni delle abitazioni di alcuni esponenti di Fatah a Gaza. "E' la leadership di Hamas che ha commesso questo crimine", ha detto Abbas. "Nell'interesse di chi viene ostacolata la ricostruzione di Gaza?", si è chiesto il presidente dell'Anp.
Per il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, "ci aspettavamo dal presidente Abbas un discorso incentrato sul nazionalismo e sull'unità che inaugurasse una nuova fase nello scontro con il nemico, anziché parole che hanno avvelenato l'anniversario della morte di Abu Ammar", ossia l'ex leader palestinese Yasser Arafat.
Secondo Barhoum, "Abbas ha fatto fallire la riconciliazione e ha ostacolato la ricostruzione di Gaza aprendo un fronte di scontro e di crisi con Hamas, e tutto questo serve solo all'occupazione". Dello stesso parere è il deputato di Hamas Mushir al-Masri, il quale ha esortato Abbas a "non scaricare le sue crisi interne su Hamas".

(Adnkronos, 11 novembre 2014)


Ecco lo “stato palestinese” che dovrebbe essere la soluzione dei problemi in Medio Oriente.


Storia e leggende del Monte del Tempio. Intervista all'archeologo Gabriel Barkay

L'archeologo israeliano, scopritore delle Silver scrolls (le più antiche iscrizioni bibliche mai ritrovate), racconta uno dei luoghi più importanti di Gerusalemme.

di Emiliano Di Silvestro

 
L'archeologo israeliano Gabriel Barkay
 
Scavi archeologici a Gerusalemme
Il Monte Tempio di Gerusalemme si eleva a un'altezza di 740 mt sul livello del mare. Le mura che lo circondano hanno forma trapezoidale i cui lati misurano rispettivamente 470 mt a est, 488 mt a ovest, 280 mt a sud e 315 mt a nord. L'intera area si estende su uno spazio di 145 mila metri quadri e occupa circa 1/6 della città antica di Gerusalemme.
Nella tradizione ebraica il Monte Tempio coincide con il Monte Moriah dove quasi 4 mila anni fa, messo alla prova dal Signore, Abramo stava per compiere il sacrificio di Isacco, suo figlio (Genesi 22,2 - 13). Secondo la tradizione islamica a essere sacrificato doveva essere Ismaele, non Isacco suo fratello. Ismaele è il progenitore del popolo arabo, Isacco del popolo ebraico.
Limes ha intervistato l'archeologo Gabriel Barkay, docente all'università Bar Ilan di Tel Aviv, scopritore delle Silver scrolls, le più antiche iscrizioni bibliche mai ritrovate, fondatore del Temple Mount Sifting project.

- C'è un'idea di dove possa trovarsi l'Arca dell'Alleanza con le Tavole della Legge?
  Dopo l'entrata del popolo ebraico in Terra d'Israele, l'Arca dell'Alleanza cadde nelle mani dei Filistei. Fece poi ritorno tra gli ebrei che la tennero in differenti posti, ultimo tra questi Gibeath, l'odierna Givat Yearim. Da lì re David la portò a Gerusalemme. L'Arca fu posta nel primo Tempio, contenuta in un'apposita struttura sovrastata da cherubini dalle lunghe ali ricoperte di oro. Non sappiamo più nulla circa il suo destino dalla fine del primo Tempio in poi. Esiste una lista di cose che furono sottratte dai babilonesi durante la distruzione del primo Tempio nel 586 a.C. guidati da Nabucodonosor II, ma l'Arca non figura in quella lista. Tra le speculazioni più interessanti c'è chi sostiene sia stata sotterrata dal profeta Geremia sotto il Monte Tempio. Dal mio umile punto di vista si tratta di un caso perso: l'Arca era composta prevalentemente da materiale deperibile, legno, tessuti, pelle. Vi era poi una copertura in oro che col tempo si sarà staccata e frammentata.

- Quali notizie si hanno invece della Menorah (il candelabro a sette braccia)? Qualcuno dice si trovi in Vaticano, è vero?
  Della Menorah presente nel primo Tempio non sappiamo più nulla. La leggenda, cui personalmente non credo, narra che si trovi in Vaticano, ma si riferisce alla Menorah del secondo Tempio. È una leggenda diffusa soprattutto tra gli ebrei che non hanno molta simpatia per la Chiesa cattolica. La Menorah presente nel secondo Tempio fu portata via dai romani guidati da Tito durante la distruzione del 70 d.C. Fu tenuta a Roma nel Tempio di Marte, insieme ad altri oggetti di valore derubati. Probabilmente da lì fu poi rubata da vandali che la portarono a Costantinopoli dove andò perduta. C'è chi sostiene che alcuni oggetti appartenuti al secondo Tempio furono riportati da Costantinopoli a Gerusalemme dall'imperatore Giustiniano nel VI secolo per dar lustro a una nuova chiesa bizantina, la Nea Theotokos, da lui fondata e che oggi sarebbe compresa nell'area del quartiere ebraico della Città antica. Se della Menorah del periodo del primo Tempio (950-586 a.C) non abbiamo nemmeno una descrizione o una rappresentazione artistica, della Menorah del secondo Tempio (530 a.C. - 70 d.C) abbiamo invece diverse raffigurazioni. Oltre a quella che appare sull'arco di Tito a Roma, rispetto alla quale c'è da dire che il basamento così come appare non è uguale bensì ingrandito rispetto all'originale della Menorah sottratta a Gerusalemme, ci sono altri ritrovamenti archeologici che la raffigurano. Sono state rinvenute anche incisioni su pietra ritrovate in un'antica sinagoga di Magdala, sul Mar di Galilea, altre su monete come quella del periodo di Mattatia Antigone II, ultimo re Asmoneo (140-37 a.C.).

- E' vero che fu un rabbino yemenita a indicare il luogo dove costruire la Cupola della Roccia?
  Si tratta di Ka'ab al-Ahbar. Venne da Medina a Gerusalemme con il califfo Omar bin al-Khat'tab nel 638 e gli parlò dell'importanza del Monte Tempio per gli ebrei, qualcosa che in un certo senso ha santificato il luogo anche per i musulmani. Omar fece costruire sul posto una moschea temporanea la cui locazione non conosciamo con esattezza ma deve esser stato nell'area sud del Monte Tempio. Francamente però quell'episodio non ebbe nulla a che fare con la costruzione della Cupola della Roccia.

- Allora chi costruì la Cupola della Roccia e in quali circostanze?
  La Cupola delle Roccia fu fatta costruire nel 691 da Abd al-Malik figlio di Marwan I della dinastia degli Umayyad. La dinastia degli Umayyad governava sull'intero mondo musulmano eccezion fatta per le due città sacre dell'Islam, Mecca e Medina, dove aveva una forte presa la famiglia Al-Zubayr. Al-Malik volle fare di Gerusalemme (mai menzionata nel Corano) un luogo di culto alternativo alle due città e creò una sorta di "Pietra bianca" per competere con la "Pietra nera" di Mecca. Sfruttò anche il pellegrinaggio per questo fine, sostenendo che i musulmani dovevano venire nei territori sotto il suo diretto controllo e non sotto il controllo dei suoi oppositori. Queste circostanze fecero di Gerusalemme la terza città più importante per i musulmani dopo Mecca e Medina. Il figlio di Al-Malik poi, Al-Walid I, fu il probabile responsabile della costruzione della moschea di Al Aqsa. Ciò lascia intendere come la Cupola della Roccia non sia una moschea.

- Perché la Cupola della Roccia è così importante per i musulmani?
  Perché Maometto salì in cielo da lì. Nella tradizione orale musulmana che affonda le radici nel VII secolo si narra di un viaggio notturno del profeta Maometto in sella al suo cavallo alato Buraq. Partendo da Medina in una sola notte avrebbe raggiunto Gerusalemme, approdando presso "la più lontana moschea" che si fa coincidere con l'odierna moschea di Al Aqsa. Da qui avrebbe raggiunto la pietra di fondazione, dove oggi sorge la Cupola della Roccia, e si sarebbe innalzato in cielo in quello che in arabo è chiamato Mi'raj, ascensione. La cupola dunque è ideologicamente identificata con la roccia. Sotto la roccia c'è una grotta con degli angoli di preghiera riconducibili a differenti figure venerate nell'Islam.

- Lei è lo scopritore delle più antiche iscrizioni bibliche che siano mai state ritrovate. Come avvenne quella scoperta?
  Le due Silver scrolls risalgono al VII secolo a.C.. Sono centinaia di anni più antiche delle famose Dead Sea scrolls. Sono state rinvenute nel 1979 a Ketef Hinnom, poco fuori le mura a sud ovest della Città antica. Abbiamo scavato sette grotte sepolcrali del periodo del primo Tempio. Una di queste al suo interno presentava una camera che includeva una specie di deposito sotterraneo in cui venivano conservati gli oggetti preziosi appartenuti ai deceduti col fine di creare, nella parte superiore, nuovo spazio per la tumulazione. La porta di questo deposito aveva ceduto e ciò ha fatto sì che al suo interno si preservassero più di mille oggetti, soprattutto gioielli. Questi oggetti includevano le due Silver scrolls che nell'antichità venivano indossate come amuleti. La più piccola delle due contiene una versione contratta della Birkat Cohanim, la benedizione dei sacerdoti (Numeri 6,23 - 27). Quella più grande ha incisa una dichiarazione di fede dal libro del Deuteronomio che recita: "Il Signore onnipotente che mantiene il patto e la benevolenza verso chi Lo ama e segue i Suoi comandamenti".

- Nonostante la città di Gerusalemme sia la più scavata al mondo, il Monte Tempio non è mai stato interessato da scavi archeologici perché?
  Gerusalemme ospita scavi da circa 150 anni ma sul suo posto più importante, il Monte Tempio, non una sola buca è stata fatta con finalità scientifiche. Si tratta di un caso unico e speciale. Le leggi lì non sono implementate come in ogni altra area. Non esistono normative per la pianificazione, per la concessione di licenze o per la costruzione. Gli affari sul Monte Tempio sono gestiti giorno per giorno dal Waqf islamico, un ente amministrativo religioso sotto il controllo giordano che da secoli vieta ogni tipo di scavo archeologico. Mai un solo vaso è stato ufficialmente estratto dal Monte Tempio. Piccoli ritrovamenti sono stati fatti ma in scavi clandestini e illegali, mai resi pubblici. All'Autorità per le antichità non è consentito di inviare i propri ispettori, farli girare liberamente, controllare ogni punto e documentare ciò che vedono. La legge generale per le antichità del 1978, in seno alla Corte suprema di giustizia, è implementata in ogni posto tranne in quelli che servono per funzioni religiose per i quali, specialmente a Gerusalemme, occorre un provvedimento speciale da parte di un Comitato del gabinetto di governo.

- Lei gestisce il Sifting project in un'area adiacente al Monte Tempio. Di cosa si tratta?
  Una notte di novembre del 1999 dei bulldozers apparvero sul Monte Tempio e cominciarono a rimuovere terra. In totale 400 camion saturi di antichità furono rimossi e gettati prevalentemente nella attigua Kidron Valley. Nel 2004 sono riuscito a ottenere una licenza dall'Autorità per le antichità, ho recuperato parte di quelle terre e ho dato inizio a un progetto di filtraggio che avviene con un'apposita procedura e strumentazione in una struttura ad hoc nella Zurim Valley, tra l'università ebraica di Gerusalemme e il Monte degli ulivi.

- Perché è stata rimossa quella terra?
  L'allora primo ministro Ehud Barak accettò una richiesta avanzata dal Waqf islamico di costruire un'uscita di emergenza per la moschea sotterranea di Al Musalla Al-Marwani. Ma al posto dell'uscita fu costruita un'entrata monumentale senza alcuna supervisione archeologica. La moschea di Al Marwani si estende su un unico livello sotterraneo nell'edificio a sud est del Monte Tempio conosciuto col nome di Solomon's stables. Per costruirla, il Waqf ottenne una licenza dal governo israeliano che doveva servire per costruire una temporanea area di preghiera al coperto dato che il Ramadan in quell'anno cadeva d'inverno. Venne costruita la più grande moschea nella parte occidentale del Vicino Oriente, con una capacità di contenere fino a 15 mila persone, inaugurata nel 1996. Il lavoro fu illegale e il governo di Israele non intervenne, chiuse un occhio e mezzo. Giungevano pullman di lavoratori il sabato, giorno in cui non lavoravano perché solitamente impiegati in imprese israeliane che di sabato riposano. Fu un'opera finanziata in parte da donazioni dell'Arabia Saudita e fu probabilmente una risposta all'idea dell'allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton di dividere orizzontalmente la sovranità sul Monte Tempio: la parte superiore ai musulmani e la parte inferiore, inclusi i resti archeologici, agli ebrei.

- Vi è poi un'altra moschea sotterranea. Quali sono le sue caratteristiche?
  Si tratta di Al Aqsa al-kadima. È stata aperta nel 1998, due anni dopo Al-Marwani. È costruita in un passaggio sotterraneo e si trova sotto la moschea di Al Aqsa. Non è grande come Al-Marwani ma è molto importante. Contiene delle volte originali decorate con intagli che sono la migliore testimonianza dell'arte ebraica del periodo del secondo Tempio. C'è anche una colonna munita di capitello sempre del periodo del secondo Tempio.

- Moshe Dayan nel 1967, durante la Guerra dei sei giorni, riferendosi al Monte Tempio disse: "Chi vuole qui tutto questo Vaticano?" Fu per lei un errore?
  Un grande errore. Penso che in quel momento la situazione politica era tale per cui determinate decisioni, se fossero state prese, avrebbero portato a tutt'altri risvolti relativi alla presenza degli ebrei sul Monte Tempio, il luogo a loro più sacro, anzi, l'unico luogo a loro sacro.

- Se la politica di Israele degli insediamenti cambiasse, crede che ci sarebbe da parte palestinese una maggiore disponibilità a trattare sul Monte Tempio?
  In nessun modo. Non vedo la connessione tra le due cose. Yasser Arafat diede uno shock all'ex presidente Clinton quando gli riferì che non c'è mai stato un Tempio degli ebrei a Gerusalemme. Questo tipo di negazionismo è cominciato negli anni Novanta ed è andato avanti diffondendosi non solo tra gli arabi ma anche tra alcuni intellettuali europei. Sono stato intervistato dalla Bbc e la prima domanda che mi hanno fatto è stata: che prova ha lei che ci fu mai un Tempio a Gerusalemme?

- Hilik Bar, il segretario generale del Labor Party, ha recentemente rivendicato la questione del Monte Tempio come centrale anche per la sinistra e non di esclusiva proprietà della destra. Bar si era inizialmente unito a una mozione del Likud per estendere il diritto di preghiera agli ebrei nell'area ma subito dopo si è ritirato, perché secondo lei?
  Sono un archeologo e non un politico, ma dal mio punto di vista il Labor Party si è ritirato da quella mozione per mantenere buoni rapporti con la Corona di Giordania, che è sotto la continua minaccia di elementi di Hamas presenti al suo interno e che insidiano la stabilità del potere ad Amman. Hamas presidia anche il Monte Tempio ed è tra gli uomini del Waqf islamico. Spesso i loro stipendi sono pagati proprio dal regno di Giordania. Hamas non vuole la soluzione dei due Stati, forse Bar è l'unico a volerla. Non la vuole nemmeno il Likud e lo stesso Mahmoud Abbas: se si volesse si sarebbe già realizzata, da anni, non è poi così difficile.

- Per concludere: nella parte occidentale del Monte Tempio, sul lato di Yemin Moshe, c'è un sacco di acqua corrente. A sud e sul versante est invece, dalla parte del Monte degli ulivi, la presenza di acqua è pressappoco nulla. È ipotizzabile portare acqua corrente al Monte Tempio?
  Sul Monte esiste un acquedotto che portava acqua nel periodo del secondo Tempio. L'acquedotto proveniva dalle Salomon's pools a sud di Bethlehem e non è più in funzione. La sua destinazione finale si trova tra la Cupola della Roccia e la moschea di Al Aqsa, dove oggi sorge una struttura per le abluzioni dei fedeli musulmani. Nel Monte Tempio ci sono circa 50 cavità, alcune sono antichi passaggi sotterranei, altre antiche installazioni per varie finalità, ma la maggior parte di esse sono cisterne. Vicino all'entrata della moschea di Al Aqsa ce n'è una molto grande che in arabo è chiamata Bir el-wàraka, il Pozzo della foglia; non si sa a che epoca risalga ma è piuttosto noto. In antichità i servizi al Tempio richiedevano molta acqua. Serviva acqua per ripulire gli ambienti dal sangue degli animali sacrificati, per mantenere il posto pulito, per mantenere la purezza dei sacerdoti. L'acqua proveniva dall'acquedotto che data al periodo del secondo Tempio, ma fu utilizzato anche durante il periodo degli Asmonei (140-37 a.C.), e di nuovo riparato e utilizzato in epoca romana e poi in quella bizantina (313-636 d.C.). Di tale sistema di acque si parla anche nel Talmud.

(Limes, 11 novembre 2014)


Intifada coi coltelli, uccisi due israeliani

Dopo gli attacchi con le auto, quelli all'arma bianca. Hamas plaude, Netanyahu: gli arabi se ne vadano a Gaza.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Due palestinesi scelgono i coltelli da cucina per portare il terrore fra gli israeliani. Nur a-DM Hashiya ha 18 anni, viene dal campo profughi di Askar vicino Nablus, e alle 12 di ieri passeggia alla stazione Haganà del treno di Tel Aviv. Si avvicina a un soldato, di 20 anni, estrae un coltello rudimentale e lo colpisce per venti volte. Quando il militare si accascia in una pozza di sangue, gli prende il fucile e fugge. Un passante di 50 anni tenta di fermarlo ma viene anch'esso ferito. Nur a-Din Hashiya si rifugia in un vicino edificio e nello scontro che segue con la polizia viene ucciso. Il controspionaggio Shin Bet non fa fatica a ricostruirne il profilo: il killer ha postato foto in cui innalza la bandiera di Hamas e il cartello «amiamo la morte più di quanto i nostri nemici amano la vita». Il soldato, ricoverato d'urgenza, muore a causa dei gravi danni subiti.
   Passano poche ore e arriva il secondo attacco. Questa volta alla fermata del bus di Mon Shvut a Gush Etzion, oltre la linea verde a Sud di Gerusalemme, ovvero a pochi metri dove il 12 giugno scorso due palestinesi di Hamas rapirono i tre ragazzi ebrei poi uccisi. In questo caso il killer è Maher Hamdi A-Shalmon, 30 anni, viene da Hebron, appartiene alla Jihad islamica e ha alle spalle cinque anni di detenzione per terrorismo: alla guida di un'auto, travolge una donna di 26 anni, scende, torna indietro con il coltello e infierisce più volte sul corpo caduto. Poi aggredisce un altro passante ma un agente lo ferisce, viene arrestato e ora è ricoverato sotto sorveglianza della polizia, intenzionata a sapere se vi sono complici o mandanti.
   Le tv israeliane parlano di «Ondata di terrore» spiegando che «sebbene non sia ancora un'Intifada gli attacchi si succedono rapidamente» con «il consenso non solo di Hamas e Jihad ma anche di Fatah». Nelle ultime settimane ne sono avvenuti cinque: tre con auto e ora due con coltelli. A compierli sono dei singoli, più o meno legati a altri armati, e per le forze di sicurezza è una sfida temibile perché agiscono da «lupi solitari» sfuggendo alla prevenzione. A rendere incandescente la situazione è la sovrapposizione con due rivolte: nei quartieri arabi di Gerusalemme, da Wadi Joz a Si-Iwan, dove i «shaabab» lanciano pietre contro i «sacrilegi sulla Spianata delle Moschee», e a Kfar Kanna, il villaggio arabo della Galilea dove migliaia manifestano contro l'uccisione di un 20enne da parte della polizia.
   Hamas plaude da Gaza agli autori dei «gesti eroici» e lo scontento contagia la Galilea araba, arrivando al Monte Carmelo dove compaiono le scritte «Daesh Falistin» ovvero «Isis Palestina». II premier Benjamin Netanyahu ammonisce gli arabi-israeliani: «Chi nuoce a Israele può trasferirsi a Gaza o nei Territori palestinesi». E per la sicurezza vara un piano di emergenza. La rabbia è palpabile a Tel Aviv dove la gente grida «Morte agli arabi», mentre alla Knesset il premier deve vedersela con l'ala destra della coalizione, guidata da Naftali Ben-net, che lo accusa di inerzia: «Non sai proteggere i cittadini».
   
(La Stampa, 11 novembre 2014)


Israele ancora nel mirino, due assassinati

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Forse non è ancora una vera intifada, ma il pericolo è grande. Il secondo regolare attacco terrorista della giornata ha avuto luogo proprio allo stesso incrocio, la «trampiada» dove i ragazzi chiedono un passaggio a Allon Shvut, nel Gush Etzion, appena fuori di Gerusalemme. Fu là che il 12 giugno scorso cominciò ad avvolgersi la spirale di violenza col rapimento dei tre studenti subito macellati sulla strada. A seguire, alcuni pazzi il 5 luglio rapirono e uccisero un ragazzo arabo, Mohammed Abu Khdeir.
   Le tre famiglie, la società, le istituzioni israeliane respinsero con orrore l'atto. Invece Abu Mazen flirta con la violenza e Hamas esalta gli innumerevoli attacchi terroristi di questi giorni. Ieri ci ha lasciato la vita una ragazza, e i feriti ad Allon Shvut sono due. Il tenorista ha cercato di investire con l'auto un gruppo alla «trampiada», non ci è riuscito, è uscito col coltello e ha tagliato la gola alla giovane e il viso e una spalla ad altri due. II terrorista è un ventenne proveniente da Hebron, città tutta di Hamas. Poco prima, lontano dai «territori», alla stazione di Tel Aviv è stato ucciso un soldato di vent'anni mentre aspettava il treno. II terrorista, un ragazzo di Nablus, Nur a-Din Hashiya, è stato affrontato da un passante di mezza età che gli ha tirato un pugno in faccia, la polizia l'ha ferito e catturato. Sulla strada di Eilat, nell'estremo sud, un autobus veniva attaccato; a Fureidis domenica la polizia è stata bersagliata da una bomba; a Taibe, mentre l'auto veniva data alle fiamme, una folla di arabi israeliani cercava di linciare un israeliano che è stato salvato da un coraggioso arabo locale. Magli ha salvato Misha da morte certa. L'ultima esplosione di rabbia nasce dall'uccisione da parte della polizia israeliana, due giorni fa, del ventiduenne Kheir a-Din Hamdan, nel corso di una manifestazione violenta. La polizia è adesso sotto inchiesta per aver ucciso Hamdan. La sua città, Kfar Khana, nella Bassa Galilea, è adesso uno dei centri della rivolta. I toni sono saliti a tal punto che Netanyahu ha dichiarato che gli arabi israeliani sono parte integrante del Paese, ma chi preferisce la parte palestinese, non verrà trattenuto con la forza. Un'imponente escalation di attentati disegna l'ultimo periodo, e un'intenzione suicida domina i terroristi ovunque esaltati. La risposta è stata molto decisa: fermare l'assassino. Ma i palestinesi protestano che viene usato dalla polizia un «happy nigger» dovuto alla mancanza di rispetto per gli arabi. Gli israeliani vivono invece l'angoscia di una possibile nuova intifada, vogliono fermare l'ondata fomentata da Hamas, esaltata da Facebook che invita al martirio, dalla lettera di Abu Mazen in cui si fanno le condoglianze alla famiglia di uno dei terroristi. Accanto a questo, monta la questione della Spianata delle Moschee, il Monte del Tempio: di venerdì per evitare scontri è stato spesso bloccato ai minori di cinquant'anni.
   L'interpretazione che ha preso piede è che Israele voglia cambiare lo status quo sul Monte del Tempio. Una teoria della cospirazione che incita la violenza alimentata dalle accuse di razzismo, apartheid, discriminazione. Prevale lo spirito rappresentato da una canzone palestinese che dice «Investili, distruggili, annientali, falli esplodere, non lasciare che nessun ebreo possa diventare vecchio, o Al Aqsa noi siamo i tuoi difensori.»
   
(il Giornale, 11 novembre 2014)


Parte la formazione su Gerusalemme con Eden Viaggi e Etnia Travel Concept

Una collaborazione a sei mani fra Jerusalem Development Authority, Eden Viaggi e Ministero del Turismo di Israele per proporre alle agenzie la città Santa e le bellezze di Isreale e le molte possibilità offerte ai visitatori.
Il Jda, infatti, ha deciso di promuovere Gerusalemme non solo per le testimonianze di storia, religione, arte e cultura, ma come una destinazione adatta anche a chi ama le mete cosmopolite, moderne, innovative e divertenti, adatte a lunghe permanenze e contemporaneamente perfette per visite più brevi.
La collaborazione con il t.o. si svilupperà in otto tappe che nel mese di novembre porteranno in giro per l'Italia la bellezza di Israele: incontri mirati dedicati agli agenti di viaggi nelle città di Trieste, Udine, Padova, Verona, Trento, Vicenza, Mantova e Bologna.
A questo programma si aggiunge un training organizzato con Etnia Travel Concept dedicato alle agenzie di Cremona, a cui farà seguito un altro incontro, sempre realizzato con Etnia, a Venezia.

(TTG Italia, 11 novembre 2014)


Infografica della fine di Israele

L'ayatollah Khamenei spiega come vuole distruggere lo stato ebraico

 
L'ayatollah Ali Khamenei
La Guida suprema della rivoluzione iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, ha pubblicato sul proprio account twitter un piano dettagliato in nove punti per "l'eliminazione del regime sionista" da presentare "alle comunità internazionali". La forma è quella di una tabella, con nove domande dei fedeli alle quali l'ayatollah fornisce altrettante risposte. Domande tipo: "Perché il regime sionista deve essere eliminato?". "Qual è la via giusta per eliminare Israele?". A cui Khamenei fornisce una allucinante ma suggestiva risposta: un "referendum" tra tutti gli abitanti "nativi" della regione se Israele debba o meno scomparire, referendum dal quale saranno ovviamente esclusi gli ebrei.
Nel frattempo serve la lotta armata dalla West Bank, dopo aver conquistato Gaza con Ha-mas. Lo ha spiegato giorni fa anche uno dei capi di Hamas, Mahmoud Zahar. "Se la Cisgiordania avesse un quarto dei mezzi della resistenza di Gaza, l'entità israeliana finirebbe in un giorno". Il problema non è soltanto che la Guida suprema si sta prendendo gioco dell'occidente e dell'America nelle trattative sul nucleare. Il grafico di Khamenei è stato pubblicato, infatti, mentre era in corso una riunione tra i rappresentanti del gruppo dei 5+1 con il ministro degli Esteri iraniano per decidere come progredire nei colloqui sul nucleare e nello stesso momento in cui l'agenzia iraniana Isna ribadiva il "diritto dell'Iran al nucleare" e a mantenere gli impianti di Natanz, Fordo e Arak. Che strana coincidenza. C'è anche che l'idea di Khamenei di fare a meno di Israele è penetrata da tempo nelle classi dirigenti occidentali. Giorni fa, il manager delle pubbliche relazioni di Amnesty International a Londra, Kristyan Benedict, ha paragonato lo stato ebraico allo Stato islamico del califfo. Intanto, in Germania, il Nobel per la Letteratura Günter Grass diceva in una conferenza che Israele, "stato nucleare fuori controllo come il Pakistan", mina la pace e la sicurezza mondiale. Grass ha anche detto, da bravo allievo dell'ayatollah (SS), che la responsabilità dei tedeschi per il genocidio degli ebrei non può pesare "sulle spalle dei palestinesi".
Ieri, alla stazione dei treni di Tel Aviv, un attentatore palestinese proveniente da Nablus ha accoltellato un soldato israeliano, che poi è deceduto. Una donna invece è stata uccisa in Cisgiordania. Sono state due settimane di attentati a Gerusalemme. L'incitamento all'odio funziona. E la menzogna, come sempre, fa scattare la volontà genocida. Accadde così anche settantasei anni fa, durante la "notte dei cristalli".

(Il Foglio, 11 novembre 2014)


La sciagura Arafat, dieci anni dopo

La sua leadership fu carismatica, ma anche violenta, corrotta, distruttiva: un flagello che ancora pesa sui palestinesi e sui loro vicini

Yasser Arafat è morto 10 anni fa, l'11 novembre 2004. Scrivo questo pezzo anticipando l'ondata di celebrazioni ed encomi che invaderà la società palestinese per l'occasione. In realtà, Arafat per i palestinesi è stato una vera sciagura.
Per misurare il danno fatto da Arafat come leader palestinese, si può iniziare con un confronto. Solo nove giorni prima della morte di Arafat, il 2 novembre 2004 moriva lo sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan. La morte di Zayed non venne accolta dal lutto globale, né venne accompagnata dalle cerimonie e dai discorsi alle Nazioni Unite che furono riservati ad Arafat. Il che è paradossale, perché Zayed fu davvero il padre fondatore del suo paese, gli Emirati Arabi Uniti, e un modello di leadership sobria, costruttiva e responsabile....

(israele.net, 11 novembre 2014)


Parte da New York la raccolta fondi per il ghetto di Venezia

Il progetto da 12 milioni di dollari per il restauro del museo ebraico e di tre sinagoghe di Venezia sarà completato entro il 2016 anno del 500o anniversario del ghetto.

di Claudia Balbi

"Qualcuno ha detto che il Ghetto Veneziano del 1700 assomigliava alla Manhattan degli anni '70. Entrambe piene di ebrei che davano il loro contributo alla società e alla cultura del paese in cui vivevano". Proprio partendo da questa consapevolezza il presidente della Comunità ebraica di Venezia, Paolo Gnignati, da New York ha promosso il progetto per il restauro del Museo e delle tre sinagoghe del Ghetto di Venezia. "Il museo è un simbolo di una comunità ancora viva, che ha avuto un ruolo chiave nella cultura europea", ha detto Gnignati. Lo spazio espositivo, dovrebbe essere terminato entro il 2016 in occasione dei festeggiamenti per i 500 anni dalla nascita del ghetto della Laguna.
Il piano di rifacimento ideato dal Venetian Heritage Council, associazione no-profit che fa parte della Commissione Unesco per la salvaguardia di Venezia, è basato sul lancio di una raccolta fondi allo scopo di raggiungere la quota di 12 milioni di dollari. "Siamo positivi, in una settimana abbiamo raccolto un milione di dollari e chiunque vorrà potrà donare tramite il nostro sito" ha affermato Toto Bergamo Rossi, direttore del Venetian Heritage Council, "la soprintendenza dovrebbe approvare il progetto in quattro mesi, spero che nel giro di sei mesi aprano i cantieri".
I primi a rispondere alla chiamata dell'associazione e a stanziare dei fondi per il progetto sono stati il presidente e il vicepresidente di VHC, azienda che opera nel settore della tecnologia, rispettivamente Joseph Sitt e Diane von Furstenberg. Grazie all'operazione di fundraising promossa dal Venetian Heritage Council, il museo ebraico verrà restaurato e la sinagoga italiana, finora chiusa al pubblico, potrà essere collegata alle altre sinagoghe, quella tedesca e la sinagoga Cantoni. "Il museo verrà aggiornato anche dal punto di vista della sicurezza" ricorda Toto Bergamo Rossi, e come tiene a sottolineare Paolo Gnignati "potrà essere un posto di incontro e di riunione per l'intera comunità, perché fare un museo non significa solo salvaguardare il passato ma anche guardare al futuro".

(America24, 10 novembre 2014)


Modena - Mauro Perani martedì 11 novembre alla Fondazione San Carlo

 
La Fondazione Collegio San Carlo di Modena
Martedì 11 novembre proseguono alla Fondazione Collegio San Carlo di Modena (via San Carlo, 5 ) le lezioni del ciclo dedicato al tema Ospite, ideato dal Centro Studi Religiosi. Mauro Perani tiene la conferenza dal titolo Tra esodo e diaspora. La questione dell'ospitalità nella storia dell'ebraismo.
   Perani è professore di Ebraico presso l'Università di Bologna, polo di Ravenna. Direttore del progetto Genizah italiana, è membro dell'European Association for Jewish Studies e dell'Associazione italiana per lo studio del giudaismo. È inoltre direttore della rivista «Materia giudaica» e fondatore della collana Corpus Epitaphiorum Hebraicorum Italiae (La Giuntina Editrice). Studioso della storia e della cultura ebraica, nelle sue pubblicazioni unisce l'esegesi dei testi della tradizione al recupero e alla valorizzazione del patrimonio documentale ebraico italiano. Tra le sue pubblicazioni: Fragments from the Italian Genizah (a cura di, Firenze 2009); Ramhal. Pensiero ebraico e kabbalah tra Padova ed Eretz Israel (a cura di, Padova 2010); Il cimitero ebraico di Lugo (et al., Firenze 2011); Nuovo catalogo dei manoscritti ebraici della Biblioteca Universitaria di Bologna (et al., Argelato 2013).
   Secondo una forte affermazione della Bibbia ebraica, la terra appartiene a Dio che ne è il possessore e la dà a chi vuole. Prima l'aveva data ad altri popoli, ma essendosi essi macchiati di gravi colpe, Dio gliel'ha tolta. Anche a Israele Dio dona la Terra come dono di nozze della sua alleanza con il popolo che egli ha liberato dalla schiavitù facendone un popolo libero. Tuttavia, se il popolo d'Israele non osserverà le clausole del patto non seguendo i precetti e profanando i sabati, la terra lo vomiterà e sarà da essa cacciato.
   Questa visione teologica - spiega Perani - connota il risiedere degli ebrei nella terra come una ospitalità da parte di Dio che ne è il possessore. Del resto gli ebrei furono schiavi in Egitto e in esso stranieri, motivo per cui anche dopo l'insediamento nella terra stillante latte e miele, essi sono invitati dalla Bibbia a non dimenticare ma ricordare bene la loro situazione iniziale e, proprio per questo, essere ospitali ed accogliere lo straniero.
   L'ospitalità nell'ebraismo - prosegue Perani - nasce anche dal fatto che, senza saperlo, qualcuno accogliendo un ospite ha ospitato Dio, come avvenne ad Abramo presso le querce di Mamre quando accolse i tre angeli che gli annunciarono il prossimo figlio che Sara gli avrebbe partorito.
   La conferenza si tiene nel Teatro della Fondazione, con inizio previsto alle ore 17,30. La conferenza, come tutte le altre del ciclo, sarà inserita nell'archivio conferenze presente nel sito www.fondazionesancarlo.it, da cui potrà essere scaricata gratuitamente. A richiesta si rilasciano attestati di partecipazione. Il ciclo di lezioni gode dell'accredito ministeriale per la formazione del personale della scuola (DM 18 luglio 2005).

(Sassuolo2000, 10 novembre 2014)


Chi fomenta la violenza?

Abu Mazen ha cambiato toni e atteggiamenti, e le conseguenze si vedono

Amana Muna era stata condannata all'ergastolo. Faceva parte di una cellula terroristica che nel 2001 assassinò Ofir Rahum, uno studente israeliano di 16 anni, dopo che lei lo aveva attirato con "profferte sessuali" via internet ad un "appuntamento galante" dove gli altri membri del gruppo lo hanno preso e ucciso a sangue freddo.
Muna è stata scarcerata nel 2011 nel quadro del cosiddetto accordo Gilad Shalit (il ricatto di Hamas per la liberazione dell'israeliano trattenuto in ostaggio per più di cinque anni). Poco dopo il suo arrivo in Turchia, il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) vi si recò per incontrarla e onorarla...

(israele.net, 10 novembre 2014)


L'immagine dello Stato d'Israele nella sinistra italiana

 
E' uscito pochi giorni fa l'ultimo libro di Valentino Baldacci, 1967 comunisti e socialisti di fronte alla guerra dei sei giorni. La costruzione dell'immagine dello Stato d'Israele nella Sinistra italiana, Aska Edizioni, p. 640.
Ringraziando l'autore che ha voluto inviarcene in anteprima una copia, segnaliamo l'opera riportando la presentazione in terza pagina di copertina.
    «L'ipotesi su cui si fonda questo lavoro è che l'immagine dello Stato d'Israele presente da decenni nella Sinistra italiana (non solo in quella più estrema) - cioè quella di uno Stato aggressivo, espansionista, militarista, violento, razzista, con tratti assimilabili a quelli del nazismo, che pratica la discriminazione e l'apartheid nei confronti degli arabi - sia stata costruita in occasione della guerra dei sei giorni del giugno 1967, ad opera del PCI come risultato di uno scontro politico e mediatico con il Partito Socialista. Per trovare la conferma di questa ipotesi è stata analizzata la stampa comunista e socialista, in particolare i rispettivi organi ufficiali "L'Unità" e "Avanti!" - ma anche i periodici e le riviste che facevano capo ai due partiti e anche quelle che, in senso lato, facevano parte dell'area culturale della Sinistra, nonché il principale quotidiano fiancheggiatore del PCI, "Paese Sera". È stato anche tenuto conto delle lettere inviate ai tre quotidiani ed è stato messo in rilievo il ruolo specifico dei dirigenti politici e dei giornalisti dei due partiti. La ricerca ha prodotto una delle più accurate e approfondite analisi del comportamento politico dei partiti della sinistra italiana su un tema che continua ancora oggi a essere al centro della politica italiana e internazionale.»
(Notizie su Israele, 10 novembre 2014)


Nucara (Pri) a Mogherini: Hamas vuole solo distruggere Israele

ROMA - "Il commissario Ue Mogherini vorrebbe riconoscere uno Stato palestinese senza accorgersi che il modello di stato nazionale arabo, quale imposto dal colonialismo inglese, è entrato in una crisi irreversibile, come pure dimostrano la Libia, l'Iraq, la Siria, lo Yemen". Lo dichiara il presidente del Pri Francesco Nucara. "Ad Hamas - vontinua Nucata - non è mai interessato lo Stato palestinese: si poteva fare nel 2000 dopo gli accordi di Camp Daviv. Hamas vuole solo la distruzione di Israele. Il precursore dell'Isis è già insediato a Gaza da tempo e Mogherini rischia di aiutarlo a distruggere l'unico Stato democratico in Medioriente, quando l'Unione europea dovrebbe semmai sostenere i curdi che combattono i tagliagole dell'Isis. La visione arafattiana del problema arabo israeliano di Mogherini che non sembra essersi emancipata dalla sua formazione nel partito comunista, diverrà un problema molto serio per la Commissione Junker".

(il Velino, 10 novembre 2014)


Museo della Shoah. Docenti universitari nel comitato culturale

ROMA - Docenti universitari, studiosi del '900, testimoni dello sterminio. Si allarga il numero dei componenti del Comitato d'onore scientifico e culturale della Fondazione Museo della Shoah di Roma, organismo pluridisciplinare presieduto dal giurista Giovanni Maria Flick con funzioni di consulenza scientifica, espressione di pareri e indicazioni per lo sviluppo delle attività della fondazione e suggerimenti per una divulgazione delle informazioni sulle sue iniziative. Lo si apprende dal portale dell'ebraismo italiano www.moked.it. Il collegio dei Fondatori del Museo ha votato l'ingresso di otto figure: le sopravvissute alla Shoah Edith Bruck e Andra Bucci, gli storici Mario Avagliano, Tullia Catalane Michele Sarfatti, i docenti universitari Donatella Di Cesare e David Meghnagi, il sovraintendente ai beni culturali, Claudio Parisi Presicce. L'annuncio è del presidente della Fondazione, Leone Paserman».

(Il Tempo, 10 novembre 2014)


Firenze - Commemorata la partenza del primo convoglio di deportati ebrei

Nardella: "Qui il memoriale italiano del Block 21 di Auschwitz"

 
FIRENZE - Un'irruzione nei locali della comunità ebraica di via Farini a Firenze segnò, settantuno anni fa, il destino di molti ebrei fiorentini. Era l'alba del 6 novembre 1943 quando i nazi-fascisti decisero di colpire la comunità ebraica, circa trecento persone catturate e ammassate nella stazione di Santa Maria Novella, destinate a non tornare.
   A far scattare la retata erano state le SS tedesche ma anche i militi italiani della Repubblica di Salò. Tre giorni dopo, il 9 novembre, i vagoni piombati partirono meta il campo di sterminio di Auschwitz, dove gli ebrei giunsero il 14 novembre: 193 prigionieri furono immediatamente uccisi nelle camere a gas. Nell'elenco dei deportati figuravano anche otto bambini nati dopo il 1930 e 30 anziani, nati prima del 1884. La più giovane era Lia Vitale, nata nel 1942, la più anziana Fanny Tedesco ed aveva 93 anni. Questa mattina il ricordo del 71o anniversario della deportazione al binario 16 della stazione di Santa Maria Novella con una cerimonia commemorativa alla presenza, tra gli altri, del sindaco Dario Nardella, dell'assessore al welfare Sara Funaro, del rabbino Joseph Levi, della presidente della comunità ebraica fiorentina Sara Cividalli e della senatrice Rosa Maria Di Giorgi. E c'erano, soprattutto, gli studenti della scuola secondaria di primo grado Spinelli di Scandicci che hanno letto alcune poesie sulla Shoa.
   «Questo anniversario è sempre stato molto sentito dalla nostra città grazie anche alla comunità ebraica fiorentina - ha sottolineato nel suo intervento Nardella - è un altro segno di quanto Firenze viva la sua identità di città di pace, della memoria, della Liberazione. Ma non basta solo ricordare, bisogna agire. Un gesto concreto è quello di essere riusciti ad avere la possibilità di ospitare a Firenze il Memoriale italiano del Block 21 di Auschwitz. Sarà sistemato negli spazi di Ex3, a Gavinana». Il Memoriale è chiuso al pubblico dal luglio 2011 per decisione unilaterale della direzione del museo, inaccessibile persino agli studiosi. La direzione del museo, sostenuta dal governo polacco e dal consiglio internazionale di Auschwitz, ha ritenuto che non corrispondesse più alle linee guida emanate dal museo negli ultimi anni, che richiedono allestimenti di taglio pedagogico-illustrativo, mentre quella italiana è un'opera che, ripromettendosi di comunicare un orrore non altrimenti descrivibile, parla appunto con il linguaggio dell'arte.
   «Il Memoriale sarà un ulteriore strumento per lavorare con i nostri giovani - ha proseguito il sindaco - attraverso la memoria e l'educazione si può continuare a far crescere il seme del rispetto e del dialogo. Quando non avremo più testimoni diretti della Shoa la più grande testimonianza sarà quella del racconto di chi, per legami di sangue o di amicizia, ha ascoltato le efferatezze compiute in quel periodo. Per la memoria la cultura è il più grande veicolo».
   Nel 1931 vivevano a Firenze 2730 ebrei. Le leggi razziali e le persecuzioni della Shoa colpirono duramente la comunità: dopo la guerra rimasero in meno di 1200. La persecuzione si rivolse anche agli edifici con la distruzione della piccola sinagoga di via de' Giudei e le gravi devastazione subite dal tempio.
   La comunità ebraica (antichissima, risalente addirittura all'epoca romana) aveva dato molto a Firenze nel campo della cultura, dalle case editrici all'italianista Attilio Momigliano, passando per il giurista Federico Cammeo e lo psicoanalista Enzo Bonaventura. Ma anche prima gli ebrei fiorentini avevano partecipato attivamente al Risorgimento e alla prima guerra mondiale.

(gonews.it, 9 novembre 2014)


Netanyahu: "Dietro alle rivolte Hamas e il movimento islamico"

Chiunque invocherà la distruzione dello Stato di Israele vedrà la propria cittadinanza revocata. È l'avviso del primo ministro Benjamin Netanyahu a chi in queste ore è sceso in strada a manifestare contro Israele. Da settimane le autorità israeliane devono affrontare rivoltosi armati di molotov e pietre, in particolare nella zona Est di Gerusalemme. La situazione si è aggravata negli ultimi due giorni, dopo la notizia dell'uccisione a Kafar Kanna, paese vicino a Haifa, di un ventiduenne palestinese che, secondo le ricostruzione, aveva attaccato la polizia armato di coltello. A seguito dell'incidente gli animi si sono ulteriormente scaldati e molti settori del mondo arabo hanno indetto uno sciopero per oggi, tenendo chiusi i propri esercizi in segno di protesta contro le autorità israeliane. "Israele è uno stato di diritto. Non tollereremo disordini e agiremo in modo deciso contro il lancio di pietre, di bombe molotov, il blocco delle strade e dimostrazioni che invochino la nostra distruzione - ha dichiarato Netanyahu - Non tollereremo nessuna manifestazione in cui vi saranno bandiere di Hamas o dell'Isis e in cui si dice alle persone di liberare i palestinesi con il sangue e il fuoco". Secondo il primo ministro dietro alle violenze degli scorsi giorni - e che continuano in queste ore con l'arresto di 20 persone a Kafar Kanna - c'è la mano di Hamas e dei movimenti jihadisti, che istigano la realtà araba contro Israele. In questo ore, Netanyahu deve anche affrontare una crisi all'interno della sua coalizione. Amir Peretz, ministro dell'ambiente, sembra intenzionato a rassegnare le dimissioni perché ai ferri corti con il capo di governo. Oggetto del contendere, la questione palestinese e la gestione delle rivolte a Gerusalemme Est e ora nel nord del paese. Secondo Peretz, Netanyahu non ha trovato soluzioni ma capri espiatori e ha contribuito ad infiammare ulteriormente la situazione.

(moked, 9 novembre 2014)


Vini Kosher: perché Mevushal?

Secondo le norme ebraiche alimentari (kasherut) il vino ha un ruolo importante tanto che è sottoposto ad una serie di regole rigide che risalgono ad un passato lontano, regole ancora oggi molto attuali e osservate nelle più importanti comunità ebraiche del mondo. Prima di tutto il vino kosher commercializzato deve avere il così detto sigillo di approvazione lo hechscer dato da un'apposita agenzia di controllo riconosciuta dall'autorità ebraiche internazionali o di un rabbino autorevole che sia preferibilmente un esperto nella legge ebraica, inoltre il processo di vinificazione deve essere controllato dal tribunale religioso ebraico.
Forse non tutti sanno che vista l'importanza del vino anche nelle altre religione il kasherut stabilisce che non può essere considerato kosher se destinato ad un uso come quello dell'idolatria: come nel caso del vino versato ad un idolo (Yayn Nesekh) o quello versato da una persona che crede nell'idolatria (Stam Yainom). Per evitare questo inconveniente e rendere la bevanda non adatta a questa pratica si sottopone ad un processo di cottura o bollitura detto Yayn Mevushal, in tal modo il vino manterrà il suo stato kosher anche se versato da un idolatra. In questo caso la produzione del vino non è limitata a garantire l'osservazione delle ferree regole alimentari ebraiche da parte del rabbino e dei mashghikhim, quest'ultimi diventano parte attiva della pastorizzazione. Sulla spesakasher.it sono disponibili alcuni vini mevushal prodotti nelle più rinomate cantine italiane.
Un particolare procedimento inoltre subisce la grappa: in questo caso le bucce una volta raccolte vanno chiuse in sacchi che verranno poi trasportate in una distilleria apposita controllata e kasherizzata, ogni intervento sarà effettuato da ebrei. Il rabbino dovrà autorizzare ingredienti e eventuali collaboratori: il tutto dovrà avere un certificato valido per l'anno in corso.

(informazione.it, 9 novembre 2014)


Riconoscere lo Stato di Palestina? Non aiuta la pace

L'ambasciatore israeliano sulle mozioni al Parlamento italiano: «Premio anticipato per Abu Mazen»

di Paolo Valentino

«Riconoscere oggi lo Stato di Palestina senza chiedere nulla in cambio non aiuta la pace, al contrario la allontana. Perché non riporterà i palestinesi al tavolo negoziale, visto che ottengono in anticipo quello che vogliono, e inoltre alimenterà la delusione del popolo palestinese, perché la loro vita quotidiana non cambierà in ragione di questo».
   Naor Gilon è l'ambasciatore israeliano in Italia: La dinamica politica innescata in Europa dal riconoscimento della Palestina da parte del governo svedese e dal voto con cui il Parlamento di Londra ha invitato Downing Street a fare altrettanto, preoccupa il governo di Gerusalemme, contrario a ogni «ricompensa preventiva» per Abu Mazen e l'Autorità palestinese.
La presentazione di tre mozioni per il riconoscimento alla Camera e al Senato ha confermato che il tema è entrato nell'agenda politica italiana. «I fatti degli ultimi sei anni — spiega Gilon — dimostrano che la scelta fatta dall'Europa, di dare ai palestinesi una sorta di premio anticipato, non ha funzionato. Furono indicati dall'inizio obiettivi finali, che avrebbero dovuto essere invece frutto di negoziato, come i confini del 1967 e lo Stato palestinese. Da ultimo, due anni fa, gli europei, compreso il governo italiano, votarono per dare all'Autorità palestinese lo status di osservatore all'Onu. Ma questi incentivi non hanno riportato Abu Mazen alla trattativa».
   Forse, facciamo presente all'ambasciatore, anche gli insediamenti israeliani nei territori occupati non hanno spinto il leader palestinese a un atteggiamento più morbido. Israele ha continuato a farli, ben sapendo che questi creano situazioni di fatto destinate a complicare ogni accordo sui confini, per esempio. «Rispetto il suo punto di vista sugli insediamenti, anche se non lo condivido. Ma noi abbiamo dimostrato in passato che quando c'è da lasciare un insediamento in nome di un'intesa per la pace, lo abbiamo fatto. Vale per tutti il ritiro unilaterale da quelli di Gaza. Ma gli insediamenti non c'entrano con il riconoscimento della Palestina».
   Perché secondo lei la Svezia si è decisa a questo passo? «Lo trovo un po' strano. Nella prima settimana del nuovo governo, mentre il Medio Oriente esplode dalla Siria alla Libia e migliaia di persone muoiono, il tema numero uno per Stoccolma è stato il riconoscimento dello Stato palestinese. Non vedo alcun altro Paese seguirli. Quello che fanno i Parlamenti, come quello inglese e forse quello italiano è un'altra cosa». Per Gilon, si tratta di un nuovo «tentativo dei palestinesi di ottenere, attraverso i loro amici, riconoscimento internazionale del loro Stato».
   Ma «dal punto di vista del diritto internazionale, uno Stato per essere accettato deve avere il controllo effettivo del suo territorio. A Gaza non è così». E all'obiezione che Abu Mazen sia l'unico interlocutore ragionevole che Israele possa trovare e che se vuole la pace, non dovrebbe delegittimarlo, Gilon ribatte che «la ragionevolezza non basta a fame un partner per la pace, se continua a rifiutarsi ogni assunzione di responsabilità».

(Corriere della Sera, 9 novembre 2014)


L'Italia filo palestinese allontana la pace

di Fiamma Nirenstein

Ci dev'essere un errore, tanta ignoranza e malizia non possono rovesciarsi tutte insieme sul parlamento italiano. Tre mozioni, una di maggioranza con 16 firme, una di ultrà di Cinque stelle e una insensata di Sel chiedono il riconoscimento dello Stato palestinese senza trattative perché così si assicurerebbe «unasoluzione negoziata», affermazione stravagante mentre la si nega.
In due parole, e ce ne vorrebbero mille per descrivere l'irresponsabilità dei firmatari: illudere i palestinesi che possano ottenere tutto gratis, senza trattare e senza rinunciare al sogno di cancellare Israele, disincentiva l'accordo.
E invece la trattativa è indispensabile, perché altrimenti Israele si troverà i missili di Hamas sull'aeroporto Ben Gurion e una pioggia di attentati.
Così è successo con lo sgombero di Gaza.
Con l'aiuto italiano i palestinesi nelle scuole continueranno a cancellare Israele dalla carta geografica, a usare la tv e la musica per l'incitamento omicida, le piazze seguiteranno a essere chiamate con i nomi dei terroristi morti, quelli vivi riceveranno uno stipendio nelle prigioni israeliane.
Inoltre, un riconoscimento gratuito non contribuirà a modificare la verità della società e delle istituzioni palestinesi, dove la corruzione arricchisce le classi dirigenti, la legislazione discrimina le donne e gli omosessuali, la pena di morte è vigente,ilsettore giudiziario è senza regole.
Abu Mazen è stato eletto nel lontano 2005, il fanatismo religioso e il terrorismo crescono. Nessuno ha chiesto al moderato Abu Mazen perché ha stretto un patto di governo con Hamas, organizzazione tenorista islamista, che si batte per il Califfato?
Come si concilia questo coll'offrire un contributo di pace al Medio Oriente in fiamme? Speriamo che qualcuno presenti tre contromozioni per chiedere ai palestinesi di sedersi, invece, al tavolo delle trattative.

(il Giornale, 9 novembre 2014)


Mogherini: "Serve uno Stato palestinese", Gerusalemme "capitale di due Stati"

"Questa è la posizione di tutta l'Ue, il mondo non tollererà una quarta guerra"

di Massimo Lomonaco

Gli amorosi sensi tra Mogherini e Abu Mazen
e quelli tra Mogherini e Netanyahu
Il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, ha rilanciato con forza l'azione Ue per il riavvio a breve del processo di pace in Medio Oriente nel quadro della soluzione a 2 nazioni e ''Gerusalemme capitale di due stati''. Il tutto con l'''obiettivo della nascita di uno stato palestinese''. Lo ha ripetuto alla leadership israeliana e palestinese visitando Israele e Gaza e la Cisgiordania. E, nell'urgenza di concretizzare questo disegno, proseguira' per Amman dove vedra' re Abdallah di Giordania: sul tavolo le tensioni in atto nella zona, a cominciare da Gerusalemme. Mogherini ha piu' volte sottolineato il principio di fondo della sua prima missione, ad una settimana dalla nomina come ministro Ue: ''dobbiamo continuare verso questa soluzione, altrimenti si rischia il ritorno della violenza. Il mondo non tollerera' una quarta guerra'', specialmente a Gaza.
   Punti fermi di questo rinnovato impegno europeo - anche di fronte al blocco dell'iniziativa Usa, nonostante l'impegno costante del segretario di stato Kerry - sono appunto la ripresa del negoziato, il passaggio dal cessate il fuoco nella Striscia al consolidamento di una stabilita' effettiva, la nascita dello Stato palestinese e la sicurezza di Israele. Tutti temi sui quali - ha detto il capo della diplomazia Ue - l'Europa intende impegnarsi a fondo, proprio perche' conscia non solo delle difficolta' sul campo ma anche del tempo che passa e che - ha spiegato Mogherini - ''non puo' essere lasciato trascorrere''.
   Un quadro segnato anche dall'intenzione dell'Autorita' nazionale palestinese di presentare entro novembre al Consiglio di sicurezza dell'Onu il riconoscimento della Palestina, a cui Israele e Usa si oppongono. Su Gaza - dove ha incontrato quattro ministri del governo di riconciliazione nazionale - il ministro Ue ha insistito che ''se c'e' un modo per far ripartire la Striscia e' garantirle un esecutivo palestinese che pur in condizioni difficili deve poter governare''. Poi incontrando a Ramallah il premier Rami Hamdallah ha ribadito il sostegno di Bruxelles all'esecutivo palestinese condannando le esplosioni di ieri nella Striscia ai danni di esponenti di Fatah (che ha accusato Hamas) e che hanno spinto lo stesso Hamdallah ad annullare la sua prevista visita a Gaza.
   Mogherini ha quindi sottolineato la necessità che da parti di tutti ci sia responsabilita' "senza atti che possano danneggiare in modo irreversibile il processo di pace''. Senza questo, l'aiuto economico alla Striscia deciso al Cairo, non sarebbe che un passo e basta. ''Il cessate il fuoco raggiunto ad agosto - ha aggiunto - non e' una pace e quindi e' fragile''. Mogherini ha rivendicato sia il sostegno Ue al nuovo governo palestinese di unita' sia il ruolo politico giocato dall'Europa nell'ottenere quel cessate il fuoco, dopo 50 giorni di guerra.''Mi auguro - ha detto rivolta ad Hamdallah nella conferenza stampa congiunta a Ramallah - di poterla incontrare di nuovo a Gaza''. Su Gerusalemme - luogo di tensioni e scontri durante queste settimane - Mogherini ha ricordato che ''la citta' deve essere un esempio di coesistenza. Se questo viene meno non e' un problema solamente per Israele o per i palestinesi ma è un problema di tutti visto che Gerusalemme e' una citta' importante per molti''.
Rispondendo ad una domanda dei giornalisti durante la conferenza stampa, Mogherini - che piu' volte ha rivendicato nei suoi incontri in Israele quanto sia importante la sicurezza dello stato ebraico - e' tornata a condannare le colonie israeliane. ''L'Europa le considera illegali e un ostacolo alla pace. L'ho ripetuto al premier Benyamin Netanyahu. Sono in contraddizione con gli interessi stessi di Israele. Sono profondamente convinta di questo come del fatto che la migliore garanzia per la sicurezza di Israele sia la nascita di uno Stato palestinese'', ha concluso.

(ANSA, 9 novembre 2014)


Lavorare per la soluzione dei due stati non significa andare verso la pace, ma verso il suo contrario. E' una soluzione che non vogliono i palestinesi, come Hamas ripete incessantemente, e non vogliono nemmeno gli israeliani, se questo dovesse implicare la divisione di Gerusalemme in due, come Abu Mazen e compagni pretendono. Appoggiare il riconoscimento dello stato di Palestina dicendo che si vogliono i "due stati" ha dunque un solo significato: mantenere accesa la guerra contro Israele impedendo che si arrivi a una quasiasi forma di equilibrio che mantenga Gerusalemme come capitale unica dello Stato ebraico. Questa non è politica di pace: questa è guerra. Molti israeliani, soprattutto le anime belle come Amos Oz e simili, vorrebbero che non fosse così, ma è così. Resta ovviamente da chiedersi che fare, ma quale che sia la risposta, deve basarsi sulla realtà, non sulle fantasie o sui desideri. M.C.


Hamas forma una nuova forza armata

Sarà chiamata “Esercito Popolare per la Liberazione di Al-Aqsa e della Palestina”

Hamas questo venerdi ha annunciato la creazione di un "esercito popolare", riferisce AFP, dicendo di essere pronto a qualsiasi futuro conflitto con Israele, particolarmente a proposito del complesso della moschea Al-Aqsa.
Ad una cerimonia al campo Jabaliya nel nord di Gaza, un portavoce per l'ala militare di Hamas, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, ha detto che 2.500 reclute formerebbero "la prima sezione dell'esercito popolare per la liberazione di Al-Aqsa e della Palestina".
Mohammed Abu Askar, un ufficiale di Hamas, ha detto che quelli di età superiore a 20 anni potrebbero firmare "per essere preparati a qualsiasi confronto" con Israele.
Abu Askar ha detto che la nuova forza è stata stabilita "nel momento in cui la moschea Al-Aqsa è soggetta a varie violazioni israeliane".

(Guerre nel mondo, 8 novembre 2014)


Al posto di uno stato, otto emirati palestinesi

In concomitanza con la morte di Yasser Arafat, venerdì una serie di esplosioni ha colpito a Gaza abitazioni e proprietà appartenenti ad Al Fatah, il partito di Abu Mazen. Dopo aver apparentemente accantonato una sanguinosa rivalità, che culminò nel 2007 con il colpo di Stato con cui Hamas si è insediata a Gaza, eliminando fisicamente diecine di appartenenti alla fazione rivale; il governo unitario palestinese traballa. Secondo testimonianze raccolte dalla stampa, le denotazioni sarebbero state innescate proprio da uomini di Hamas, che tiene tuttora in pugno l'enclave palestinese, e ha affermato a chiare lettere di non accettare la titolarità esclusiva dell'ANP nella gestione della massa di denaro (5,4 miliardi di dollari) che sta per piovere sulla Striscia.
L'Alto rappresentante per la politica estera, signora Mogherini, ha auspicato entusiasticamente di vedere la nascita di uno stato palestinese al termine del mandato conferitole. Ignorando la realtà locale, e trascurando tutti gli sforzi finalizzati al conseguimento di una pace duratura, profusi dal governo israeliano prima che lo stesso Abu Mazen rovesciasse clamorosamente il tavolo delle trattative, replicando un atteggiamento sprezzante non nuovo per il fondatore di Al Fatah di cui si "celebra" oggi il decimo anniversario della scomparsa....

(Il Borghesino, 8 novembre 2014)


Shoah - Un docente di Marconia rappresenterà la Basilicata a Gerusalemme

Un docente dell'Itas di Marconia è stato segnalato dall'Ufficio Scolastico Regionale di Potenza al Ministero dell'Istruzione, per un corso di formazione sulla didattica della Shoah, presso l'Istituto Internazionale di Studi Superiori sull'Olocausto Yad Vashen di Gerusalemme.

 
Il Cerabona è una scuola che da oltre dieci anni promuove lo studio della Shoah. Nella sua aula magna si sono avvicendati ben 4 ex deportati nei campi di sterminio nazi-fascisti e sono state riproposte fedeli ricostruzioni sceniche delle vicende belliche. Mentre oltre 100 studenti hanno visitato i campi di Mauthausen e di Auschwitz e successivamente una loro rappresentanza ha visitato il Parlamento Europeo, simbolo della ritrovata fratellanza dei Popoli. Progetti che si sono potuti realizzare grazie ai contributi economici di alcuni Istituti bancari, Enti pubblici e privati cittadini.
   L'equipe del Progetto Shoah è composta dai Professori Flavia Depretto, Giuseppe Gallo e Antonio Romano, cui recentemente si è aggiunta Maria Carmela Baglivo e cui in passato hanno dato il loro contributo anche i colleghi Rosa Mirizzi, Patrizia Porreca ed Anna Sabba.
   Un protocollo firmato dai Ministri dell'Istruzione italiano e israeliano prevede che un docente per ogni regione d'Italia partecipi ad un seminario di formazione presso lo Yad Vaschen, impegnandosi a cooperare a livello nazionale ed a formare i docenti di ogni ordine e grado della regione di appartenenza.
   Dall'8 al 16 novembre 2014 i docenti designati saranno a Gerusalemme per seguire il seminario internazionale, i cui lavori saranno aperti dall'ambasciatore d'Italia in Israele, Francesco Maria Talo, che porterà il saluto del Governo italiano.
   Il programma di formazione in full immersion prevede una serie di conferenze in open Discussion sulla Shoah ed alcuni focus fra cui: Philosophy of Yad Vashen, Introduction of Judaism, Text and context: Why Should We Teach the Holocaust, Lecture From 19o century antisemitism to Nazizism, The North Africa Jewisch Community during the Holocaust and Holocaust Surivivor testimony.
   
Altre conferenze tratteranno The Final Solution Holocaust, anti-Zionism and How Was it Humanly Possible: An Educational Unit on the Pepetrators, Juncction of Religions and Cultures.
   
Alla fine del seminario sono previste alcune visite al Righteous among the Nations, allo Yad Vashen ed ai luoghi simbolo di Israele e nei territori del Nord Israel.
   Per tutta la durata del Seminario di formazione i docenti saranno assistiti a Gerusalemme da alcuni funzionari del Ministero dell'Istruzione.
   L'equipe storica che ha curato il Progetto Shoah ha indicato nella persona del Prof. Giuseppe Gallo, il docente che seguirà il corso di formazione presso l'Internationl School for Holocaust Studies di Gerusalemme.
   Il Preside dell'Itas, Prof. Francesco Di Tursi, nel dare notizia agli interessati dell'importante riconoscimento ministeriale, si è complimentato per il loro impegno, per la loro tenacia e per l'alto profilo professionale raggiunto in tanti anni di attività didattica, nonché per la loro sapiente capacità d' interazione con il territorio e per l'apertura delle iniziative culturali alle comunità, nel cui territorio opera l'Itas di Marconia.

(Sassilive, 8 novembre 2014)


Il paradosso della guerra ad Hamas: apprezzata dagli arabi, criticata dagli occidentali

Israele è stata isolata proprio da chi dovrebbe essergli più vicino per cultura, storia, e condivisione di principi democratici. Dobbiamo essere pessimisti? Al contrario, dobbiamo essere più forti.

di Ugo Volli

L'operazione contro Hamas dell'estate scorsa e soprattutto il suo contesto diplomatico hanno confermato la capacità di difesa dello Stato di Israele, anche in un quadro in cui la diffusione delle tecnologie low cost anche sul piano militare ha eroso il vantaggio di cui godevano gli eserciti regolari nei confronti dei guerriglieri fino a qualche tempo fa. Hanno anche mostrato delle interessanti possibilità di collaborazione informale fra Israele e parte del mondo arabo (l'Egitto, la Giordania, per certi versi l'Arabia Saudita), al di là dei vecchi slogan ideologici e dei ricordi delle guerre del passato.
  Ma hanno anche confermato un generale atteggiamento antisraeliano delle diplomazie di tutto il mondo, in particolare dell'Europa, con una freddezza americana che non si vedeva da tempo. E hanno mostrato, ancora una volta, che l'atteggiamento nei confronti degli ebrei non può essere separato da quello nei confronti di Israele. La diffusione degli attacchi antisemiti in Europa (e anche, questa è una brutta novità, lo sviluppo di certi focolai americani, per esempio in molte università) risultano spesso coerenti alle
Esiste un orientamento dell'opi- nione pubblica e soprattutto dei media in cui vecchi stereotipi antisemiti vengono proiettati sul "sionismo"
politiche antisraeliane degli stati in cui si sono manifestati, anche se questi stati si sono affrettati a condannare l'antisemitismo. Insomma esiste un orientamento dell'opinione pubblica e soprattutto dei media in cui vecchi stereotipi antisemiti vengono proiettati sul "sionismo" mentre le "primavere" arabe sono state accolte con speranza finché sembravano pacifiche e poi più o meno rimosse nei loro sviluppi violenti e sanguinosissimi, salvo magari attribuire questi ultimi a entità più o meno demoniache, nate chissà dove e chissà perché, ma sempre senza relazione con l'Islam "religione di pace". E questi atteggiamenti influenzano scelte governative o di organizzazioni internazionali come l'Unione Europea, che sostengono di applicare criteri di giustizia nelle loro politiche, ma in realtà sono mossi dagli stessi pregiudizi antichi e radicati, o talvolta dal più ovvio e banale interesse economico. La conclusione di questa situazione è alquanto paradossale, ma per nulla illogica: l'operazione di Israele è stata più apprezzata (o se si vuole meno condannata) nella maggior parte del mondo arabo, o almeno della sua classe dirigente, con l'eccezione del Qatar spalleggiato solo dalla Turchia, che in Occidente; la piazza dei paesi islamici è stata più fredda di quelle europee, che pure non hanno raggiunto la mobilitazione del 2009. Insomma Israele è più isolato da quelli che dovrebbero per cultura, forma di governo, esperienza storica, essere i suoi naturali alleati che dal suo contesto geografico immediato, dove pure ha avuto sempre i suoi nemici più espliciti e violenti. E' l'Europa, e in parte l'amministrazione Obama che si allinea alle posizioni islamiste di diffidenza per la politica israeliana; non i governi del Medio Oriente, che nella parte non sciita (non dunque l'Iran, Hizbollah ecc.) e non rivoluzionaria sunnita (non l'Isis, il Qatar, la fratellanza Musulmana) ne capiscono la sua razionalità e la sua funzione positiva per gli equilibri regionali. Non bisogna farsi troppe illusioni, però. Anche se vi sono convergenze tattiche e perfino tacite alleanze sul terreno, la posizione fondamentale del mondo arabo non è cambiata e non può cambiare: la distruzione della sovranità ebraica e anche semplicemente della sua presenza in un pezzetto anche se molto piccolo del territorio conquistato dagli arabi ai tempi dei primi califfi e poi rimasto sotto dominio musulmano se non arabo è un obiettivo così radicato nella propaganda e nella mentalità religiosa che è difficilissimo rinunciarvi.
  Israele è dunque isolato, circondato da nemici, privato ormai di quel "secondo anello" intorno al suo territorio di stati che una volta erano amici (Iran, Turchia) che ormai sono diventati nemici accaniti; privo della solidarietà europea, con un presidente americano che è fondamentalmente, ideologicamente ostile
Riuscire a non farsi del tutto emarginare e sopraffare nella politica internazionale è stato l'obiettivo di Netanyahu, che ha richiesto molti difficili passaggi politici diplomatici e militari, gesti e azioni tatticamente necessari.
allo stato ebraico, anche se qualche volta è costretto dall'orientamento dell'opinione pubblica del suo paese a mostrarsi amico. In questa situazione riuscire a non farsi del tutto emarginare e sopraffare nella politica internazionale è stato l'obiettivo di Netanyahu, che ha richiesto molti difficili passaggi politici diplomatici e militari, gesti e azioni non davvero condivisi ma tatticamente necessari. Esserci riuscito finora è un autentico capolavoro politico, di cui gli va dato atto. Per gli osservatori attenti e partecipi ai destini di Israele, questa situazione è fonte di grande preoccupazione ed angoscia. Noi sappiamo che Israele è un paese democratico, liberale, tollerante, ricco di innovazioni economiche e scientifiche, un sistema politico ed economico all'avanguardia nel mondo che ha in se stesso tutte le ragioni e le energie per progredire ancora e contribuire al benessere dell'umanità ben al di là della sua dimensione. Lo vediamo invece discriminato, isolato, messo in pericolo da politiche ciniche e violente, che riusciamo a spiegarci solo comprendendole come prosecuzione di due millenni di antisemitismo cristiano e musulmano. Sentiamo le minacce crescere: il terrorismo, di Hamas, Hezbollah e dei nuovi movimenti, l'atomica iraniana, la guerra legale e diplomatica, la ripresa della violenza quotidiana in Giudea e Samaria.
  C'è la tentazione del pessimismo, di pensare che questo sia il periodo più difficile per Israele. Ma non è così. Nella concitazione del momento rischiamo di perdere di vista i progressi. A parte la Shoà e gli anni difficilissimi della fondazione dello Stato di Israele e della battaglia contro eserciti di gran lunga più potenti e (oggi sono finalmente disponibili i documenti) appoggiati in tutti i modi dal colonialismo britannico, ci sono stati momenti molto peggiori. Nei dieci o quindici anni successivi al '67, per esempio, Israele fu bersagliato dal terrorismo in maniera più grave di quanto accade adesso (i dirottamenti aerei e navali, Monaco, i primi attentati suicidi) e fu più isolato politicamente per esempio nell'Europa dei Brandt, Kreiski, Moro; l'ondata terroristica interna del 2001-2003 fu peggiore ancora. I boicottaggi che si lanciano adesso, di solito con scarsissimo successo, sono stati lanciati all'Onu negli anni Ottanta e così il tentativo di
La propaganda antisraeliana continua a ripetere vecchie canzoni stantie, gli intellettuali che si schierano contro Israele oggi copiano discorsi molte volte ripetuti dagli "impegnati" compa- gni di strada.
accostare Israele al Sudafrica. Gli assalti alle sinagoghe e alle istituzioni ebraiche che si sono visti in questi mesi e anni erano già stati perpetrati negli anni Ottanta, anche contro la sinagoga di Roma. La propaganda antisraeliana continua a ripetere vecchie canzoni stantie, gli intellettuali che si schierano contro Israele oggi copiano discorsi molte volte ripetuti dagli "impegnati" compagni di strada. Constatare che in materia di antisemitismo e di odio per Israele non vi è nulla di nuovo sotto il sole non è una consolazione, come non lo è sapere che le guerre di difesa si sono ripetute per tutta la storia di Israele. Ma saperlo, pensarci, documentarsi storicamente serve a resistere alla pressione degli eventi, alla tentazione del pessimismo. Purtroppo l'antisemitismo è una costante della cultura occidentale come di quella araba, che dopo la Shoà ha preso la maschera di "virtuosa" indignazione per i "crimini" di Israele, come prima aveva indossato quella dello "scientifico" razzismo contro la razza inferiore o del "religioso" odio per il popolo deicida dalla dura cervice. Dobbiamo capire che si tratta di una costante, rinunciare all'idea che possa esservi un gesto politico (la mitica "pace" coi "palestinesi") che possa d'improvviso guarire questa profonda malattia dello spirito. Bisogna sapere che dobbiamo resistervi (culturalmente, politicamente e in Israele anche militarmente) e che restare noi stessi, non assimilarci a chi ci odia, non assumere i suoi pretesti come ragioni ne è la condizione essenziale.

(Shalom, ottobre 2014)


Mogherini-Palestina: nuova veste ma stesso amore

In Israele gelo con Netanyahu

Nuova veste, stessi amori. Federica Mogherini, Alto rappresentante per la Politica estera della Ue, era ieri in Israele e visiterà i Territori palestinesi (bombe permettendo). Intanto è riuscita a gelare il premier Benjamin Netanyahu sul tema delle colonie e a riempire di ottimismo il ministro degli Esteri palestinese Riad al-Malki. In linea coi bei tempi in cui lavorava al dipartimento esteri dei Ds e stringeva la mano ad Arafat durante la Seconda Intifada.


Detto in modo semplice e chiaro: Federica Mogherini è una nemica di Israele. Come tale si comporta e agisce nella misura in cui le è consentito dalla posizione che occupa. Proprio come Barack Obama. Non c'è quindi da meravigliarsi né da farsi illusioni. M.C.

(il Giornale, 8 novembre 2014)


Il ponente ligure e gli ebrei

di Pierluigi Casalino

L'universalità dello spirito ebraico favorì il sorgere di comunità di quel popolo già nelle colonie greche e fenicie della riva settentrionale del Mediterraneo, ancor prima della conquista romana. La tolleranza verso gli ebrei a Roma fu uno dei punti della politica di Giulio Cesare. In seguito non sempre tale atteggiamento continuò da parte delle autorità romane.
Nel Ponente ligure, come avveniva nella vicina Gallia, comunità ebraiche si andarono costituendo, dopo che a Genova si era consolidata la presenza giudaica. Tracce di esse restano, se pur quasi del tutto cancellate, in località come Buggio di Pigna (u cugu du ebreu). A Ventimiglia mercanti ebrei convivevano con quelli arabi, siriaci, iberici ed africani, così come ad Albenga. Il fiorire di insediamenti ebraici proseguì anche successivamente alla caduta dell'impero romano, se pur avversato da ricorrenti momenti di ostilità. Nel corso dei secoli ebrei di origine spagnola si stabilirono in Provenza (già terra di comunità ebraiche ) e anche in Liguria. Dopo il 1492, ebrei "marrani" in fuga dalla Spagna non mancarono di accrescere il numero dei loro fratelli in Liguria, oltre che nel resto d'Europa, in Turchia, in Marocco e nel resto del Nord Africa, zona con gli ebrei liguri aveva da sempre relazioni frequenti. La comunità ebraica di Sanremo era cosmopolita e solo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale mise in crisi quel felice contributo alla cultura locale.
E' da salutare in proposito il libro Ombre al confine dello studioso Paolo Veziano di Isolabona, il quale ha ricostruito le vicende drammatiche degli ebrei liguri e di altre regioni italiane, espatriati in Francia alla fine degli Anni Trenta e durante gli anni del conflitto, per sfuggire alle persecuzioni razziali e naziste. L'opera di Veziano getta nuova luce su un periodo terribile, ma riconosce pure alle genti liguri quel senso di umanità e di solidarietà che non è mai venuto meno anche nei periodi oscuri della storia.

(Sanremo News, 8 novembre 2014)


1864 - 2014: la Comunità Ebraica di Napoli celebra i suoi 150 anni con una doppia mostra

Compie 150 anni la Comunità Ebraica di Napoli e una doppia mostra festeggia l'importante anniversario documentando attraverso testi, fotografie ed oggetti liturgici la storia della comunità, dalle origini ad oggi. L' ampia esposizione si sdoppia su due sedi prestigiose, che ospiteranno l'iniziativa, la Biblioteca Nazionale e l'Archivio di Stato di Napoli. L' inaugurazione il 12 novembre alle ore 11 alla Biblioteca Nazionale di Napoli: intervengono Sandro Tenin, Consigliere Unione Comunità ebraiche, Pier Luigi Campagnano, presidente Comunità ebraica di Napoli, Simonetta Buttò direttrice della Biblioteca nazionale di Napoli, Imma Ascione, direttrice dell'Archivio di Napoli, Giancarlo Lacerenza del Centro di Studi Ebraici dell' Università L'Orientale, curatore della mostra.
  Importanti testimonianze provenienti dalla Comunità Ebraica, tra cui molti rari documenti mai esposti in precedenza, costituiscono il nucleo del percorso espositivo, suddiviso per ambiti tematici, che si arricchisce ogni volta di preziose fonti rispettivamente della Biblioteca Nazionale di Napoli e dell'Archivio di Stato di Napoli.
  Si comincia con una preziosa esposizione di arredi liturgici e varia documentazione a stampa sulle testimonianze ebraiche a Napoli dall'Antichità all'Età moderna. Un raro incunabolo ebraico edito a Napoli nel 1492 e una grammatica ebraico-latina, pubblicata a Venezia nel 1522, ma scritta dall'esule del Viceregno Abramo de Balmes recano testimonianza dell'espulsione avvenuta intorno al 1510. In questa sezione sono visibili anche le riproduzioni dei sepolcri studiati all'inizio del '900 da Gennaro Aspreno Galante nelle "Memorie della Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli".
  Ampio spazio è riservato all'età dei Rothschild, importante famiglia di banchieri che, aperta la filiale napoletana nel 1821 sotto i Borbone, fu vero motore della rinascita ebraica napoletana. Furono loro a prendere per primi in affitto i locali di via Cappella Vecchia dove tutt'oggi si trova la Sinagoga, poi acquistati con il contributo di tutti gli iscritti, e a fondare un ospedale israelitico in via Porta Posillipo.
  Si passa poi a illustrare la vita culturale e religiosa, tra arredi sacri della liturgia, immagini e scritti dei rabbini che si sono avvicendati negli anni, e la vita economica degli ebrei napoletani. Molte le testimonianze delle attività commerciali, come il primo negozio in città di battitura e scrittura a macchina The Empire, della famiglia Soria, la prima sala cinematografica di Mario Recanati, la Fabbrica di Biancheria Finissima Salvadore Campagnano, il Setificio Sinigallia, la ditta Samia o la Pace Cagli. Non mancano i documenti sulla famiglia Ascarelli, di cui Giorgio fu il fondatore nel 1926 dell'Associazione Calcio Napoli.
  Si arriva poi al doloroso capitolo delle leggi razziali e della Shoah, rappresentato da numerosi documenti e fotografie di quelle famiglie mai rientrate dopo la guerra. La mostra si conclude con la vita odierna dal dopoguerra fino ad oggi, passando per momenti che hanno segnato la storia comunitaria come quella ufficiale, un esempio lampante la visita nel 1966 alla Sinagoga del Cardinale Ursi, primo uomo di Chiesa a mettere piede in un luogo di culto ebraico.

Biblioteca Nazionale di Napoli dal 12 novembre al 12 dicembre
Orario di apertura:
lunedì - venerdì 9.30-18.30
sabato 9.30-12.30
Visite guidate su prenotazione:
URP tel. 0817819231, e-mail: bn-na.urp@beniculturali.it
————
Archivio di Stato di Napoli dal 14 gennaio al 28 febbraio 2015

(fame di Sud, 7 novembre 2014)


Portavoce Anp: Hamas è responsabile degli attacchi a Gaza

GERUSALEMME - Un portavoce delle forze di sicurezza palestinesi ha accusato Hamas "di essere responsabile degli attacchi" che hanno colpito proprietà di leader di Fatah nella Striscia. Adnan al-Dmiri, citato dalla Maan, ha detto che tutte le armi e gli esplosivi nella Striscia sono sotto controllo di Hamas e che sembra "improbabile" che 15 esplosioni accadano nello stesso tempo nell'enclave senza che le autorità di Hamas non ne siano al corrente.

(ANSA, 7 novembre 2014)


Agricoltura - Il comparto lombardo guarda Israele per tecnologie avanzate

 
Ronni Benatoff
MILANO - L'assessore regionale all'Agricoltura Gianni Fava ha incontrato oggi il presidente della Camera di commercio Israele Italia Ronni Benatoff, insieme al segretario generale Clelia Di Consiglio. Al centro dei colloqui la possibilità di organizzare la partecipazione di una delegazione di imprenditori lombardi del comparto agricolo a eventi 'B2b' finalizzati allo scambio di know how su tecnologie innovative (sistemi di irrigazione, mungitura, florovivaismo). "Stiamo valutando la possibilità di partecipare a due eventi a Tel Aviv - ha spiegato Fava - e in Israele, con la possibilità di coinvolgere imprenditori del comparto agricolo e agroalimentare interessati a sviluppare nuove conoscenze e ad applicarle in uno dei territori, quello lombardo, con la maggior vocazione in Europa alla produzione agricola".
  "Stiamo dando corso a un rapporto storico di vicinanza e scambio con Israele - ha detto Fava -, che, nel 2012, aveva sottoscritto con la Lombardia un accordo bilaterale in diversi settori. Per quanto riguarda la mia competenza specifica, credo che la grande capacità tecnologica messa in campo dalle aziende che sviluppano ricerca in Israele potrebbe essere uno degli elementi di interesse per quelle imprese lombarde che si apprestano ad affrontare gli investimenti del Programma di sviluppo rurale, da qui al 2020".
  "Un incontro utile - ha detto Benatoff -, la Lombardia è una regione importante in tanti settori, a partire dall'agricoltura, e Israele può essere un partner significativo. Credo che insieme si possa lavorare. Abbiamo parlato di due eventi specifici, nei quali mettiamo in mostra le nuove tecnologie dei settori della coltivazione, dell'irrigazione e zootecnia. Forte convergenza quindi, per portare avanti iniziative concrete di collaborazione".

(Adnkronos, 7 novembre 2014)


The Israel Film Festival: show e documentari raccontano la cultura israeliana

The Israel Film Festival di Los Angeles ha chiuso ieri sera 6 novembre il sipario. Attraverso documentari, racconti e film, l'evento è una vera e propria avventura nel mondo della cultura israeliana

- Festival del Film Isreliano.
  Si è concluso ieri 6 novembre a Los Angeles presso il Steve Tisch Cinema Center la 28esima edizione dell' Israel Film Festival, vera e propria avventura nel mondo della cultura israeliana. "Abbiamo avuto un sacco di film sul conflitto arabo-israeliano", ha detto Meir Fenigstein, che ha presentato circa 900 film all'interno del suo festival. "Questo è ciò che i registi e sceneggiatori hanno realizzato."
La celebrazione del cinema israeliano, che comprende 28 film, fiction e documentari, continua con proiezioni nei dintorni di Los Angeles.
Grazie all'aiuto finanziario da parte del governo e dei contributi di emigrati ebrei di tutto il mondo, ha dichiarato Fenigstein, le proiezioni di quest'anno comprendono drammi storici, commedie e persino un racconto sulla mafia.

- Film Festival Israele Next to Her.
  Il festival ha aperto la sua nuova edizione presso il Steve Tisch Cinema Center al Saban Theatre di Beverly Hill con il West Coast premiere di Next to Her. Il dramma ha premiato la stella Dana Ivgy, l'attrice Ophir presso l'Accademia israeliana di Cinema e Televisione, onorandola con il Cinematic Achievement Award.
Fenigstein ha raccontato se stesso nel documentario "La storia di Poogy", un breve docufilm diretto da Ofer Naim. Il film racconta le esperienze di Fenigstein come batterista per Kaveret, uno dei leggendari gruppi rock del paese. "Un anno e mezzo fa, abbiamo avuto il nostro 40o anniversario", ha detto Fenigstein. "Abbiamo avuto due concerti, e 100.000 persone si sono presentate."
Il documentario racconta anche il suo rapporto con la figlia, che non conosceva fino a quando lei lo ha contattato quando aveva 18 anni (ora 34enne). Lei ha assistito alla proiezione del domumentario.

- Film Festival Israeliano The Go-Go Boys.
  Hilla Medalia di "The Go-Go Boys: The Inside Story of Cannon Films", è un documentario sui cugini produttori nati in Israele Menahem Golan e Yoram Globus, prodotto che inoltre ha avuto la sua anteprima americana al festival. Alll'evento Medalia ha organizzato un Q & A e una tavola rotonda che si è concentrerà sul Golan, che è morto quest'estate.
Le "Go-Go Boys" ha aumentato d'intensità dopo la morte di Golan, ha detto Medalia.
"Mi sento molto privilegiato per aver speso tutto questo tempo con Menahem," ha dichiarato Medalia. "Sento per molti versi che si tratta di una testimonianza per la sua eredità e la sua opera."
Il festival ha inoltre onorato l'attore-regista Assi Dayan, che è morto quest'anno, con la proiezione del documentario autobiografico "La vita come un Rumor".

(Mauxa, 7 novembre 2014)


Hanin Zoabi attacca i militari israeliani citando la Shoah

Hanin Zoabi ha continuato nei suoi attacchi contro Israele, questa volta su un video preso sul Monte del Tempio. Zoabi cerca di provocare una reazione da parte della polizia dei check-point, che molto disciplinatamente non reagisce.
Allora, stizzita dal fatto di non riuscire a ottenere niente con le sue provocazioni, Zoabi si lancia in un'accusa pesante: "Non avete imparato niente dai sei milioni di voi che sono stati uccisi". Così alla fine non è tutto negativo: è un primo passo verso il riconoscimento della Shoah.
Zoabi è un membro della Knesset appartenente al partito Balad, che ha fondato insieme ad Azmi Bashara, ora latitante all'estero con l'accusa di spionaggio a favore di un'organizzazione terrorista.

(JSS, 6 novembre 2014, trad. www.ilvangelo-israele.it)


Perché Hanin Zoabi non va a Gaza e si unisce ad Hamas per combattere contro Israele? Certo, come donna lì non potrebbe fare molto, e certamente non potrebbe permettersi di scagliarsi in questo modo contro le "forze dell'ordine" lì operanti. Meglio, molto meglio restarsene comodamente in Israele e avere la libertà di parlarne male. M.C.


Delegazione Ppe in visita alla comunità ebraica romana

Di Segni: preoccupante il dilagante antisemitismo in Europa

ROMA, 7 nov - Il rabbino capo, Riccardo Di Segni, e il presidente della Comunita' ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, hanno ricevuto questa mattina il capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, Manfred Weber, e il vicepresidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani. Lo rende noto un comunicato stampa, nel quale si aggiunge che durante l'incontro privato nello studio del rabbino Capo si e' discusso dei temi di stringente attualita' a iniziare dall'antisemitismo crescente in Europa. Riccardo Di Segni ha espresso le sue preoccupazioni sui temi che piu' strettamente riguardano l'ebraismo: "Ho evidenziato ai rappresentanti del Ppe le mie preoccupazioni per il dilagante antisemitismo in Europa e per la crescente insofferenza verso pratiche che sono parte integrante della nostra religione, come la circoncisione e la macellazione rituale".

(ASCA, 7 novembre 2014)


Alitalia incrementa i voli su Tel Aviv e offre servizi speciali ai passeggeri israeliani

Dal 29 marzo 2015, con l'avvio dell'orario estivo, Alitalia aumenterà la propria offerta sui voli fra l'Italia e Israele, portando da 26 a 29 i collegamenti settimanali Roma - Tel Aviv. Con l'incremento dei collegamenti su questa rotta, da fine marzo 2015 Alitalia garantirà 5 voli andata/ritorno nei giorni di Giovedì e Sabato, 4 voli andata/ritorno il Lunedì, il Martedì, il Venerdì e la Domenica e 3 voli andata/ritorno il Mercoledì.
Le frequenze aggiuntive consentiranno a chi parte dall'Italia di scegliere, in base alle proprie esigenze, fra più voli per Tel Aviv durante l'arco della giornata, mentre i passeggeri in partenza da Israele avranno a disposizione connessioni più comode per raggiungere, via Roma Fiumicino, le destinazioni nazionali, europee, nord e sud americane servite da Alitalia.
Tutti i collegamenti Alitalia fra Roma e Tel Aviv verranno effettuati con aerei della famiglia Airbus di medio raggio (A320 e A321) configurati in due classi di servizio: "Ottima" - la business class di Alitalia sui collegamenti internazionali - e "Classica", l'economy class.
L'incremento dei voli su Israele è conseguenza della crescita di passeggeri registrata su questa rotta da Alitalia nel 2014. Fra gennaio e ottobre di quest'anno, la Compagnia ha trasportato sulla rotta Roma - Tel Aviv oltre 267 mila passeggeri - con una crescita del 4% rispetto allo stesso periodo del 2013 - e il trend di crescita si evidenzia anche per i mesi di novembre e dicembre 2014, in particolare per il numero dei passeggeri che partono da Israele, che cresce del 7% rispetto agli ultimi due mesi del 2013.
Sui voli fra Roma e Tel Aviv Alitalia offre inoltre servizi speciali dedicati ai passeggeri di cultura ebraica quali, ad esempio, i pasti Kosher, preparati nel pieno rispetto delle norme della religione ebraica.
La Compagnia rivolge una sempre maggiore attenzione alla multiculturalità e agli usi e costumi dei passeggeri stranieri che ospita a bordo dei propri aerei.
Per questo motivo, nel mese di ottobre, in occasione delle festività religiose ebraiche dello "Yom Kippur" e dello "Sukkot", su tutti i voli da e per Tel Aviv, l'assistente di volo responsabile di cabina ha concluso il proprio annuncio di "Benvenuti a Bordo" con un augurio in lingua ebraica per queste due festività.
L'iniziativa è stata molto apprezzata dai passeggeri Israeliani e verrà riproposta anche per le prossime festività nazionali ebraiche o di altri Paesi del Medio Oriente, a dimostrazione che anche un semplice messaggio di auguri nella propria lingua madre rappresenta un gesto di attenzione verso il cliente nell'ottica di rendere migliore la qualità del servizio offerto a bordo.

(Megamondo, 7 novembre 2014)


Israele: due stati non è una soluzione

Il piano di Oslo per il risolvere il conflitto israelo-palestinese è finito, Abbiamo bisogno di un nuovo modello.

di Naftali Bennett

Naftali Bennett, ministro israeliano dell'economia e leader del partito "La Casa Ebraica"
GERUSALEMME - I recenti avvenimenti in Medio Oriente fanno capire che i vecchi modelli di pace tra Israele e i palestinesi non sono più adatti. È giunto il momento di ripensare la soluzione dei due stati.
L'estate scorsa, Hamas e i suoi alleati hanno sparato oltre 4.500 razzi e colpi di mortaio contro Israele, dimostrando ancora una volta che cosa succede ad evacuare territori dalle cosiddette linee del 1967 e consegnarli ai nostri avversari. La pace non si ottiene. Al contrario, quello che si ottiene sono guerre e spargimento di sangue.
L'ascesa dello Stato islamico, noto anche come ISIS, e altri elementi estremisti in Iraq, Siria e Libano, fanno capire in modo altrettanto chiaro i rischi. Israele non può permettersi di giocare con la sua sicurezza. Non ci sono seconde possibilità nell'instabile Medio Oriente.
Per questo motivo, per la sua sicurezza, Israele non può più recedere dal territorio e non può consentire la creazione di uno stato palestinese in Cisgiordania. Se dovessimo ritirarci dalla Cisgiordania, l'intero paese diventerebbe un bersaglio per i terroristi che sarebbero in grado di creare lanciarazzi adiacenti alla Città Vecchia di Gerusalemme e sulle colline che sovrastano le piste dell'aeroporto internazionale Ben-Gurion e la Borsa di Tel Aviv.
Prendiamo la Valle del Giordano. I palestinesi chiedono che Israele si ritiri da questo stretto lembo di terra che confina con la Giordania. Ma se lo facciamo nel clima di oggi, abbiamo potenzialmente aperta la porta allo Stato islamico e ad altri estremisti perché possano andare ad inondare il nuovo stato palestinese. Non possiamo correre questo rischio.
Come faccio a saperlo? Perché è successo. Non una, non due, ma tre volte.
A metà degli anni 1990, abbiamo lasciato delle città palestinesi come parte degli accordi di Oslo. Nel 2000 è scoppiata la seconda intifada e oltre 1.000 israeliani sono stati uccisi in attacchi condotti dai terroristi, molti dei quali provenienti dalle stesse città che avevamo evacuate.
Quando abbiamo lasciato il Libano nel 2000, abbiamo visto un significativo rafforzamento di Hezbollah, la milizia sostenuta dall'Iran. Durante la seconda guerra del Libano, sei anni dopo, Hezbollah ha sparato più di 4.300 razzi contro le nostre città.
Nel 2005 ci siamo ritirati dalla Striscia di Gaza e l'abbiamo consegnata all'Autorità palestinese. Ci hanno detto che Gaza si sarebbe trasformata in una Singapore del Medio Oriente e che la pace sarebbe venuta fuori dalle serre che i residenti ebrei avevano lasciato alle spalle.
Al contrario, quelle serre sono state usate per coprire i tunnel dei terroristi scavati fin oltre il confine, in città e villaggi israeliani. Gaza si è trasformata rapidamente in una roccaforte del terrorismo.
Questo però non significa che ogni speranza sia perduta. C'è ancora molto che possiamo fare per
Il segreto sta nella bottom-up peace. Dopo più di due decenni di lavoro indirizzato verso un'unica soluzione del conflitto israelo-palestinese, è il momento di rendersi conto che la coesistenza e le relazioni pacifiche non saranno ottenute attraverso processi artificiali imposti a noi dall'alto.
migliorare le relazioni con i nostri vicini di casa arabi, per produrre pace e aumentare la prosperità economica di tutte le persone che vivono in questa terra.
Il segreto sta nella bottom-up peace. Dopo più di due decenni di lavoro indirizzato verso un'unica soluzione del conflitto israelo-palestinese - la creazione di uno stato palestinese - è il momento di rendersi conto che la coesistenza e le relazioni pacifiche non saranno ottenute attraverso processi artificiali imposti a noi dall'alto. Io propongo invece un piano in quattro fasi.
In primo luogo, dovremmo lavorare per migliorare l'autonomia palestinese in Cisgiordania, nelle zone in gran parte sotto il controllo palestinese (nota come le aree A e B, in base agli accordi di Oslo). Idealmente, questo sarebbe fatto in coordinamento con l'Autorità palestinese.
I palestinesi avranno l'indipendenza politica, potranno tenere le proprie elezioni, selezionare la propria leadership, eseguire le proprie scuole, mantenere i propri servizi sociali e rilasciare i propri permessi di costruzione. Essi dovrebbero governare se stessi e gestire la loro vita giorno per giorno. Israele non dovrà interferire. Molto di questo esiste già, ma possiamo fare di meglio.
A questa entità palestinese mancherà uno stato. Non potrà controllare i suoi confini e non le sarà permesso di avere un esercito.
Gaza funziona già come uno stato, ma l'attuale governo di Hamas si è votato alla distruzione di Israele. Finché Gaza continua a camminare su questa via, non può essere parte di un accordo.
La seconda fase vedrà il massiccio aggiornamento di strade e infrastrutture, nonché la rimozione di blocchi stradali e posti di blocco in tutta la Cisgiordania. L'obiettivo sarà quello di garantire la libera circolazione di tutti i residenti - palestinesi e israeliani - e di migliorare la loro qualità di vita.
Nessuna pace, tuttavia, può durare senza scambi economici. Il terzo passo quindi sarà quello di costruire ponti economici di pace tra israeliani e palestinesi.
Nella mia precedente carriera come imprenditore high-tech, ho visto che persone diverse provenienti da ambienti diversi possono imparare a lavorare insieme nella ricerca della prosperità economica. Ci sono già 15 zone industriali in Cisgiordania, dove gli israeliani lavorano insieme a circa 15.000 palestinesi. Queste zone portano all'economia palestinese circa $ 300milioni all'anno. Immaginate che cosa potrebbero fare altre 15 zone industriali.
Infine, propongo di applicare la legge israeliana nell'Area C, che è la parte della Cisgiordania controllata da Israele nell'ambito degli accordi di Oslo. Ai palestinesi che vivono lì sarebbe offerta la piena cittadinanza israeliana. Potremmo iniziare con i noti blocchi di insediamenti che tutti sono d'accordo a far rimanere parte di Israele anche nel quadro di un accordo sullo status definitivo. Applicando la legge israeliana e affermando la sovranità nazionale di questi blocchi, contemporaneamente all'aggiornamento dell'autonomia palestinese nelle aree A e B, sarà possibile ridurre la parte di territorio contesa, rendendo più facile raggiungere un accordo a lungo termine per il futuro.
Sono consapevole del fatto che il mondo non accetterà immediatamente questa proposta. Sembra andare contro tutto il lavoro che Israele, i palestinesi e la comunità internazionale hanno fatto nel corso degli ultimi 20 anni. Ma lavorerò per fare di questo il piano politico del governo, perché c'è una nuova realtà in Medio Oriente, che ha posto fine alla fattibilità del processo di pace di Oslo.
Lo sconvolgimento regionale e la disintegrazione di stati nazionali ci obbligano ad agire in modo responsabile. Dobbiamo lavorare per obiettivi realistici che siano in grado di fornire reale sicurezza e prosperità economica.

(International New York Times, 7 novembre 2014 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Striscia di Gaza - Attentati contro al Fatah

Tornano a esplodere le bombe a Gaza: dieci ordigni hanno colpito nella notte case e auto di vari memebri del partito fondato da Arafat, tra cui quella del portavoce Fayez Abu Alta. Il premier palestinese Hamdalla annulla l'incontro di domani con il rappresentante europeo Federica Mogherini.

GERUSALEMME - Salta l'incontro di domani tra Federica Mogherini e il primo ministro palestinese, Rami Hamdalla, nella striscia di Gaza, dopo le esplosioni di questa notte contro case e veicoli di membri del partito di al Fatah, il movimento del presidente palestinese Abu Mazen. Una decina le bombe esplose nella notte hanno colpito la macchina del portavoce di Fatah, Fayez Abu Alta, e danni anche alle abitazioni e vetture di altri due esponenti del movimento. Un ordigno è esploso anche in una delle piazze centrali della striscia dove la prossima settimana era prevista una cerimonia per il decimo anniversario della morte di Yasser Arafat, storico leader di Fatah. Per ora non ci sono state rivendicazioni degli attentati, ma l'incidente rischia di alimentare le tensioni fra Fatah e Hamas, con il partito di Abu Mazen che accusa il movimento islamico per l'accaduto. Il giornale israeliano Jerusalem post fa sapere dalle sue colonne che Hamas ha condannato gli attentati di questa notte, definendolo un atto criminale. Il movimento ha fatto sapere che le sue forze di sicurezza stanno svolgendo indagini per trovare i responsabili e fare giustizia. Dall'altra parte del muro, Israele, da quanto fanno sapere fonti delle forze armate, non è coinvolta nella vicenda.

- Mogherini da Israele: "Le costruzioni in Cisgiordania sono un ostacolo alla pace".
  
 
Salta dunque l'appuntamento tra l'ex ministro italiano Mogherini - quella in medio oriente è la prima missione all'estero del neo eletto Alto rappresentante per la Politica estera europea - e il premier Hamdalla, la scelta di cominciare da questi territori voleva essere un segnale: l'Europa vuole aiutare a sbloccare il dialogo israelo-palestinese. In mattinata, Mogherini ha incontrato il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman e durante i colloqui ha chiarito l'intenzione europea di aiutare ad arrivare a una situazione di compromesso che garantisca la sicurezza di Israele, ma che conceda alla Palestina il riconoscimento internazionale. "L'Ue ha un ruolo politico da giocare nella regione molto più forte che in passato - ha detto - c'è molto che possiamo fare a favore della sicurezza di Israele e della capacità di governo dell'Autorità nazionale palestinese". Ha anche avvisato quelli che sono i suoi timori per il futuro dei rapporti tra i due Paesi se la situazione non si sblocca immediatamente. "Se non ci muoveremo a livello politico tornerà la violenza - ha detto - le nuove costruzioni in Cisgiordania sono un ostacolo alla pace. C'è bisogno di un approccio regionale per il processo di pace e l'Ue è pronta a lavorare in questa direzione".

- Netanyahu: "Gli insediamenti non sono il problema".
  L'agenda degli appuntamenti non si interrompe: dopo i colloqui con il ministro degli esteri Lieberman, Federica Mogherini incontra il premier israeliano Benyamin Netanyahu. Il primo ministro risponde in maniera chiara alle dichiarazioni fatte da Mogherini sulle abitazioni in costruzione in Cisgiordania. "Gerusalemme è la nostra capitale e non un insediamento. I quartieri dove vivono gli ebrei sono qui da più di 50 anni, sotto qualunque governo israeliano, e chiunque dovrebbe sapere che, come parte di qualsiasi 'accordo di pace', rimarranno parte di Israele". Per Netanyahu, il conflitto israelo-palestinese "non riguarda il territorio, ma il rifiuto di riconoscere il diritto di Israele a esistere, a prescindere dai confini" e ha definito "irresponsabile" la posizione di alcuni politici europei a riconoscere unilateralmente la Palestina.

- Sale a 14 il bilancio delle vittime dell'attentato palestinese di mercoledì in Israele.
  Muore in ospedale uno degli israeliani rimasti gravemente feriti mercoledì scorso da una auto piombata addosso a un gruppo di passanti a Gerusalemme. Con il suo decesso sale a 14 il bilancio delle vittime. "La persona che era stata gravemente ferita nell'attacco è morta stamattina", ha spiegato un comunicato dell'ospedale Hadassa di Ein Kerem. Diversi, nei giorni scorsi, gli attacchi compiuti con automobili guidate da palestinesi, lanciate ad alta velocità contro i passanti, in Israele. Alcuni degli attacchi sono stati rivendicati da Hamas.

(la Repubblica, 7 novembre 2014)


La guerra al terrorismo dell'Egitto: il doppio standard della comunità internazionale

di Khaled Abu Toameh*

Tre mesi dopo la tregua tra Hamas e Israele, gli egiziani muovono la loro guerra al terrorismo nel nord del Sinai. Ma la guerra dell'Egitto, che è iniziata dopo che i terroristi hanno massacrato 33 soldati egiziani, non sembra preoccupare la comunità internazionale e le organizzazioni per i diritti umani, almeno non tanto quanto l'operazione israeliana volta a fermare il lancio di razzi e di missili dalla Striscia di Gaza.
  Il giro di vite sulla sicurezza voluto dall'Egitto comprende la demolizione di centinaia di case lungo il confine con la Striscia di Gaza e le espulsioni forzate di migliaia di persone. L'obiettivo del Cairo è quello di stabilire una fascia di sicurezza lungo il confine che collega l'Egitto con la Striscia di Gaza per impedire ai terroristi di utilizzare i tunnel di contrabbando per lanciare attacchi contro i soldati e i civili egiziani. In altre parole, gli egiziani rafforzano il blocco a Gaza e puniscono i palestinesi che vivono lì, non solo Hamas.
  Tutto questo avviene sotto gli occhi della comunità internazionale e dei media. Tuttavia, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non è stato chiesto di indire una riunione di emergenza per condannare ciò che gli attivisti egiziani per i diritti umani definiscono "trasferimenti" ed "evacuazioni" di centinaia di famiglie del Sinai. Gamal Eid, un avvocato egiziano e attivista per i diritti umani, ha detto che le misure di sicurezza egiziane sono "incostituzionali". Egli ha osservato che l'art. 63 della Costituzione egiziana vieta il trasferimento forzato e arbitrario dei cittadini in tutte le forme.
  Gli esperti egiziani della sicurezza questa settimana hanno messo in guardia sul fatto che "l'evacuazione" dei residenti del Sinai non fermerebbe gli attacchi terroristici contro la polizia e l'esercito. L'ex generale
L'ex generale dell'esercito Safwat al-Zayyat non esclude l'ipotesi che i terroristi inten- sificheranno i loro attacchi non solo nel Sinai ma anche in altre parti dell'Egitto, incluso il Cairo.
dell'esercito Safwat al-Zayyat non esclude l'ipotesi che i terroristi intensificheranno i loro attacchi non solo nel Sinai ma anche in altre parti dell'Egitto, incluso il Cairo, per dimostrare che le misure prese dall'esercito egiziano sono inefficaci. Inoltre, a suo dire il trasferimento di migliaia di famiglie e la demolizione delle loro abitazioni farebbe il gioco dei terroristi. L'attivista egiziano Massad Abu Fajr ha scritto su Facebook che l'espulsione coatta della famiglie dalle loro case in Egitto equivale a "una dichiarazione di guerra da parte delle autorità egiziane" ai tre clan più grandi e più potenti del Sinai. Anche secondo lui il giro di vite sulla sicurezza avrà un effetto boomerang e rafforzerà ulteriormente i terroristi.
  Ma ciò che forse è più preoccupante è la paura che il giro di vite sulla sicurezza in Egitto indurrà Hamas e altri gruppi terroristici della Striscia di Gaza a riprendere i loro attacchi contro Israele. Gli egiziani, naturalmente, hanno il diritto di scatenare una guerra senza quartiere contro i vari gruppi terroristici che operano nel Sinai. Tuttavia, rafforzando il blocco intorno a Gaza, gli egiziani forniranno a Hamas e alla Jihad islamica una scusa per riprendere i loro attacchi contro Israele. I due gruppi terroristici palestinesi non compiono azioni di rappresaglia attaccando l'Egitto. Essi sanno che la reazione egiziana a un attacco del genere sarebbe più grave di una risposta militare di Israele.
  Questo spiega perché Hamas e altri gruppi palestinesi sono cauti nella loro reazione alle misure prese dal Cairo: finora non c'è stata nessuna condanna o protesta. In realtà Hamas è preoccupato a causa delle accuse lanciate da alcuni egiziani che i palestinesi della Striscia di Gaza sono stati coinvolti nell'uccisione dei soldati egiziani nella penisola del Sinai. Ancora una volta, i giornalisti egiziani chiedono al loro presidente di dare la caccia a Hamas in risposta agli attentati nel Sinai.
  Un precedente attacco sferrato all'inizio dell'anno contro i soldati egiziani stanziati nel Sinai ha indotto ad appelli del genere. Reham Noaman, un'autorevole giornalista egiziana, ha chiesto al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi di "schiacciare" Hamas e il suo braccio armato, le Brigate Ezaddin al-Qassam. "Israele
Gli egiziani hanno finalmente capito che la Striscia di Gaza controllata da Hamas è diventata una delle maggiori esportatrici di terrorismo della regione. Israele l'aveva già capito molti anni fa.
non è meglio di noi", ella ha detto. "Quando Israele vuole colpire Hamas a causa di un razzo che non vale un centesimo, non chiede l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza".
Gli egiziani hanno finalmente capito che la Striscia di Gaza controllata da Hamas è diventata una delle maggiori esportatrici di terrorismo della regione. Israele è giunto a tale conclusione molti anni fa, quando Hamas e altri gruppi terroristici hanno iniziato a lanciare razzi e missili contro le comunità israeliane. Gli egiziani sono anche venuti a conoscenza del fatto che i tunnel di contrabbando lungo il confine comune con la Striscia di Gaza operano in entrambe le direzioni. In passato, gli egiziani credevano che i tunnel fossero usati solo per il contrabbando di armi nella Striscia di Gaza. Ora, però, sono convinti che questi tunnel sono utilizzati per fare uscire di contrabbando da Gaza armi e terroristi.
  Ora che il Cairo ha deciso di sigillare il confine con la Striscia di Gaza, sono aumentate le probabilità di un nuovo confronto militare fra Hamas e Israele. Gli egiziani, dal canto loro, non si preoccupano che possa scoppiare un'altra guerra fra i palestinesi e Israele - e questo finché il confronto militare si svolge oltre il confine della Striscia di Gaza con l'Egitto. E naturalmente, la comunità internazionale si precipiterà di nuovo ad accusare Israele di "genocidio" contro i palestinesi di Gaza e ovviamente continuerà a fingere di non vedere la demolizione di centinaia di case operata dall'Egitto e le espulsioni coatte di centinaia di persone nel Sinai.
  Semmai, il giro di vite dell'Egitto nel Sinai mostra ancora una volta il doppio standard della comunità internazionale verso la guerra al terrorismo. Se per l'Egitto va bene demolire centinaia di abitazioni e allontanare con la forza migliaia di persone in nome della guerra al terrorismo, a Israele non è permesso di rispondere al fuoco di chi lancia razzi e missili contro la propria popolazione civile.


* Gatestone Institute

(L'Opinione, 7 novembre 2014)


Israele alza blocchi di cemento contro la 'car intifada'

Rafforzate ulteriormente le misure di sicurezza nella Città Santa dopo l'Attentato di ieri e gli scontri

La Polizia israeliana vicino a blocchi di cemento alla stazione di French Hill, a Gerusalemme
Blocchi di cemento alle fermate dei tram per impedire nuovi attacchi come quello di ieri. Una metodologia - segnalano i media - che e' gia' definita on line dai palestinesi 'car intifada'. La prima fermata del tram ad essere stata cintata con i blocchi e' stata quella della 'French Hill', ma lo stesso e' avvenuto con altre lungo le arterie principali della citta'.'' Un altro attacco con la macchina puo' avvenire in differenti modi'', ha detto il comandante della polizia distrettuale Moshe Edri, citato dai media. Oltre ai blocchi le autorita' di sicurezza hanno messo sul campo altri 300 poliziotti, in aggiunta ai 1000 gia' schierati nei giorni scorsi.
Israele non cambierà lo status quo sulla Spianata delle Moschee. Lo ha ribadito l'ufficio del primo ministro Benyamin Netanyahu che ieri notte, dopo gli avvenimenti a Gerusalemme, ha avuto consultazioni di sicurezza. "Chi esprime posizioni differenti - ha detto Mark Regev portavoce del premier - lo fa a titolo personale e non come posizione del governo".
La polizia israeliana ha ulteriormente rafforzato le misure di sicurezza a Gerusalemme, dopo gli attentati delle ultime settimane e le tensioni intorno alla Spianata delle Moschee. Dopo l'attacco di ieri pomeriggio quando un palestinese - indicato dalla polizia come operativo di Hamas - ha lanciato la propria auto contro la gente a due fermate del tram leggero, sono stati posti blocchi di cemento alle stazioni di attesa in modo da impedire nuovi assalti del tipo. Una metodologia - segnalano i media - che e' gia' definita on line dai palestinesi - con vignette dedicate - come 'car intifada'. La prima fermata del tram ad essere stata cintata con i blocchi e' stata quella della 'French Hill', ma lo stesso e' avvenuto con altre lungo le arterie principali della citta'.'' Un altro attacco con la macchina puo' avvenire in differenti modi'', ha detto il comandante della polizia distrettuale Moshe Edri, citato dai media. Oltre ai blocchi le autorita' di sicurezza hanno messo sul campo altri 300 poliziotti, in aggiunta ai 1000 gia' schierati nei giorni scorsi.

(ANSA, 6 novembre 2014)


Monte del Tempio di Gerusalemme: un'escalation alimentata a freddo

Israele non ha modificato lo status quo, mentre estremisti palestinesi usano la moschea di al-Aqsa per aggredire polizia e visitatori

Negli ultimi mesi, estremisti palestinesi hanno cercato di alterare lo status quo in vigore da decenni impedendo a cristiani ed ebrei di visitare in tranquillità il Monte del Tempio a Gerusalemme. Incitati da Hamas e dal ramo estremista del Movimento Islamico israeliano, facinorosi palestinesi hanno molestato e aggredito in vario modo i visitatori e la polizia, ricorrendo sempre più spesso a lanci di pietre e petardi e usando come base e covo per le loro imprese la moschea di al-Aqsa (che sorge sulla spianata del Monte del Tempio).
Lo scorso 5 novembre diverse decine di arabi col volto coperto hanno nuovamente scatenato violenze sul Monte del Tempio. Non appena è stata aperta, come di consueto, la Porta Mughrabi, l'unica destinata ai visitatori non musulmani, gli estremisti sono usciti dalle loro posizioni approntate all'interno della moschea di al-Aqsa iniziando a lanciare pietre e ordigni incendiari contro la polizia di stanza al cancello. Gli agenti hanno risposto utilizzando mezzi anti-sommossa non letali....

(israele.net, 7 novembre 2014)


Il carro armato tra presente e futuro

di Francesco Tucci

Il carro armato, sistema d'arma nato per superare lo stallo della guerra di posizione, sembra vivere una fase di declino. È davvero così o la situazione è più complessa di quanto sembri?

UN'ARMA OBSOLETA?
 
Carri Merkava in movimento durante l'operazione Protective Edge, nell'agosto 2014
Un assetto da Seconda guerra mondiale superato ormai dall'uso dell'aviazione, che può cambiare le sorti di un conflitto. È questo il comune sentire "occidentale" che sembrerebbe condannare senza appello il Main Battle Tank (MBT), anche alla luce delle nuove dottrine strategiche post Guerra Fredda e delle operazioni militari asimmetriche successive all'11 settembre 2001. Ma è davvero così? Per comprendere quale sia la reale importanza e il futuro del MBT bisogna considerare l'evoluzione del suo impiego dalla Guerra fredda a oggi, esaminando quali siano state - e come si siano svolte - le ultime battaglie che hanno coinvolto in uno scontro simmetrico i carri armati.

L'ULTIMA 'BATTAGLIA DEI GIGANTI': LO YOM KIPPUR
La guerra arabo-israeliana del 1973, nota come Yom Kippur, dal nome della festività ebraica (6 ottobre) del giorno in cui ebbe inizio l'attacco congiunto delle forze militari egiziane e siriane, rispettivamente dal Sinai e dalle alture del Golan, contro Israele. I primi due giorni del conflitto rappresentarono uno shock per le IDF (Israeli Defense Forces), non solo per l'effetto sorpresa legato alla festività in corso, ma soprattutto per le tattiche utilizzate sul campo di battaglia. Infatti Israele non riuscì a imporre immediatamente la superiorità aerea, perché le forze corazzate arabe avanzavano protette da nuovi sistemi d'arma di fabbricazione e fornitura sovietica: il semovente ZSU-23 Shilka e le batterie SAM (Surface-to-Air-Missile) SA-6 Gainful. Questa circostanza costrinse gli israeliani a difendersi ricorrendo principalmente alle forze corazzate e ai sistemi anticarro da fanteria. Le IDF concentrarono la maggior parte delle proprie forze di terra sul fronte siriano, consapevoli che la perdita di terreno in quel settore, vista la conformazione geografica, avrebbe spianato la strada al nemico, che in poche ore avrebbe potuto raggiungere il cuore del Paese: Netanya, Haifa e Tel Aviv.
Per questi motivi gli israeliani lanciarono in battaglia tutte le risorse disponibili, inviando immediatamente i riservisti nel Golan, costretti ad affrontare gravi svantaggi operativi come l'impossibilità di calibrare il cannone dei propri carri, l'utilizzo di mezzi privi di alcune dotazioni (come le mitragliatrici) ed equipaggi diversi da quelli che si erano addestrati insieme.
Il ribaltamento dell'esito della guerra fu possibile grazie al ponte aereo di rifornimenti e mezzi militari, noto come Nickel Grass, voluto e condotto dagli USA sotto la presidenza Nixon, ma anche grazie alla determinazione dei carristi israeliani, che, scontratisi con i nemici dotati di T-55 e T-62 con tutti i mezzi disponibili (M-4 Sherman, M-48 Patton, M-60, Centurion e AMX-13), dopo aver perso il proprio carro ne hanno guidati altri per continuare a combattere (vedi il Chicco in più).
Per questo motivo la successiva dottrina israeliana ha dato estrema importanza alla sopravvivenza dell'equipaggio del mezzo, richiedendo requisiti che hanno portato allo sviluppo della caratteristica serie dei carri armati Merkava (blocco motore presente nella parte anteriore dello scafo) che ha delle spiccate qualità difensive.
Un chicco in più
Un chicco in più

Il primo giorno della guerra dello Yom Kippur, i siriani avevano un vantaggio numerico valutato di nove soldati a uno, ma gli israeliani dimostrarono uno spirito combattivo e una determinazione impressionanti che contribuirono alla vittoria. Un esempio famoso è costituito dal comandante Zvika Greengold, che, arrivato di notte nella zona operazioni solo con il suo carro, ingaggiò il nemico combattendo nelle 20 ore successive, cambiando mezzo ogni volta che il proprio veniva distrutto dal nemico (per un totale di 6-7 carri) e noncurante delle ferite riportate in battaglia.


(Fonte: Il Caffè Geopolitico, 6 novembre 2014)


A Gaza sit-in di medici e pazienti per riapertura Rafah

RAFAH, 6 nov - Decine di medici di Gaza e i loro pazienti hanno dato vita oggi ad un sit-in davanti al valico di Rafah - che collega il territorio palestinese all'Egitto - per chiedere a gran voce al Cairo la sua riapertura. "Aprite il terminal" o "il blocco minaccia i malati di cancro", si leggeva su degli striscioni branditi dai partecipanti che rispondevano ad un appello del ministero della Sanit? di Gaza. "Bisogna aprire il terminal per far entrare farmaci e le delegazioni di medici e per far passare i malati di Gaza che si devono far curare negli ospedali specializzati in Egitto e nei Paesi arabi", ha reclamato Ashraf al Qodra, portavoce del ministero, davanti ai manifestanti. Rafah, chiusa fino a nuovo ordine dall'Egitto dal 25 ottobre dopo un sanguinoso attentato nel Sinai, ? l'unico punto di passaggio che collega la Striscia di Gaza al resto del mondo che non sia controllato da Israele. Lo Stato ebraico sottopone Gaza ad un blocco da otto anni. L'Egitto ha recentemente lanciato i lavori per la creazione di una zona-cuscinetto alla frontiera di Gaza, sostenendo cos? di "affrontare alla radice la minaccia esistenziale" rappresentata dai jihadisti attivi nel vicino Sinai.

(ContattoNews.it, 6 novembre 2014)


La Corte penale non perseguirà Israele per il raid alla flottiglia diretta a Gaza

Per il procuratore i crimini commessi non sono sufficientemente gravi

L'AIA, 6 nov 2014 - La Corte penale internazionale (Cpi) non perseguira' Israele per il raid compiuto contro la flottiglia che era diretta a Gaza nel maggio 2010 per consegnare aiuti umanitari ai palestinesi e costato la morte di nove attivisti turchi. Lo ha annunciato il procuratore Fatou Bensouda. Anche se e' "ragionevole pensare" che siano stati commessi dei crimini di guerra di rilevanza per il Cpi a bordo della nave Mavi Marmara - ha spiegato in un comunicato - "tuttavia dopo aver attentamente vagliato tutti i fattori pertinenti, sono giunta alle conclusioni che gli eventuali casi che potrebbero scaturire da una inchiesta non sarebbero 'sufficientemente gravi' da giustificare una ulteriore azione della Corte". "Ho concluso - ha precisato Bensouda - che la vicenda non presentava le condizioni giuridiche previste dallo Statuto di Roma (il trattato fondatore della Corte) per l'apertura di una inchiesta ed e' per questo che dichiaro chiuse le indagini preliminari". Secondo lo statuto, il Cpi "deve prima di tutto concentrarsi sui crimini di guerra commessi su grande scala o nel tentativo di perseguire obiettivi piu' politici".

(ASCA, 6 novembre 2014)


Falciati da un furgone: un morto e 17 feriti a Gerusalemme e in Cisgiordania

 
A Gerusalemme e in Cisgiordania, una giornata di attentati e sangue. Un veicolo con targa palestinese si è lanciato contro un gruppo di soldati israeliani vicino al campo profughi di El-Arub, a Sud di Betlemme, in Cisgiordania. Tre militari sono rimasti feriti in modo non grave.
L'attacco è avvenuto poche ore dopo un attentato simile costato la vita a un soldato israeliano a Gerusalemme. Un furgoncino si è lanciato sulla folla in una delle arterie al confine tra Gerusalemme Ovest e Gerusalemme Est: 14 persone sono rimaste ferite. Quando il suo mezzo è rimasto bloccato nel traffico l'attentatore è sceso e ha colpito i passanti con un piede di porco. A quel punto è stato ucciso dalla polizia israeliana.
Per le autorità dello Stato Ebraico si tratta di un militante di Hamas, 38 anni, originario del campo profughi di Chouafat.
I due attentati della giornata, simili a quello avvenuto lo scorso 22 ottobre in cui erano rimaste uccise 3 persone tra cui una bambina, sono arrivati nell'ennesima giornata di scontri nella spianata delle Moschee, tornata da alcuni giorni al centro delle tensioni israelo-palestinesi.
Chiuso dalle autorità israeliane, poi brevemente riaperto, quello che per gli ebrei è il Monte del Tempio era stato ieri mattina oggetto di un'incursione di attivisti ebrei.

(euronews, 6 novembre 2014)


Gerusalemme, dilaga la strategia del Lupo Solitario

di Aldo Baquis

GERUSALEMME - Impotenti di fronte alla forza di un apparato di sicurezza tra i più attrezzati al mondo, i palestinesi sembrano aver messo a punto una nuova arma letale: e Israele si scopre impreparato. Per seminare la morte bastano un veicolo qualsiasi, un militante più o meno improvvisato, un acceleratore e la determinazione a seminare la morte. E' la Strategia del Lupo Solitario. Cinque minuti prima, l'uomo al volante e' un automobilista come tutti gli altri. Ma al momento decisivo, scelto da lui, diventa una macchina da morte. Nessun servizio di sicurezza al mondo potrebbe mai prevenire attentati del genere. Negli ultimi episodi avvenuti a Gerusalemme (4 agosto; 22 ottobre; e oggi, 5 novembre) gli attentatori sono stati colpiti a morte pochi istanti dopo essersi lanciati sulla folla, mentre nelle vicinanze si udivano le sirene delle prime ambulanze. Ma sull'asfalto giacevano già le loro vittime. In realtà si tratta di un'arma disperata solo relativamente nuova. Già negli anni caldi dell'intifada, la tecnica dell'auto che piomba su soldati o coloni - ai margini delle arterie della Cisgiordania - era nota. E ancora oggi, accanto alle fermate dei bus israeliani, si vedono colonnine o blocchi di cemento, in funzione antikamikaze. Gradualmente, il 'Pigu'a Drissa' ' (in ebraico: attentato mediante investimento di passanti) e' giunto tuttavia anche nelle strade di Gerusalemme. L'episodio più clamoroso risale al luglio 2008 quando un palestinese a bordo di una grande ruspa semino' la morte con una furiosa gimkana di centinaia di metri lungo la principale strada della città, la via Jaffa. Questa estate, ad agosto, un altro palestinese lo ha emulato travolgendo a morte con una ruspa un rabbino ortodosso. Due settimane fa un giovane alla guida delle propria automobile si e' lanciato contro passeggeri che scendevano dalla ferrovia leggera, uccidendo cosi' una neonata ed una giovane donna sudamericana. Oggi, di nuovo, sono stati presi di mira un gruppo di persone ad una fermata della ferrovia leggera. La settimana scorsa, inoltre, un militante della Jihad islamica ha sparato (secondo la versione israeliana) contro un rabbino di estrema destra a Gerusalemme, scappando poi in motocicletta. Sarebbe stato eliminato alcune ore dopo da un'unita' della polizia. Queste azioni 'fai da te' hanno in comune la loro totale imprevedibilità. E adesso i responsabili alla sicurezza si chiedono come impedire che le loro 'gesta' - la cui risonanza viene subito amplificata dal web - vengano emulate. Come in un riflesso condizionato, la prima cosa che viene in mente e' il cemento: blocchi robusti saranno disposti a Gerusalemme lungo le rotaie della ferrovia leggera. Altri suggerimenti riguardano la dislocazione di posti di blocco volanti e il ricorso a pattugliamenti più fitti della polizia. Ma nella Città Santa - fa notare un ex ufficiale di polizia - "la popolazione ebraica e quella araba si mischiano". E in queste condizioni la prevenzione totale resta praticamente impossibile.

(ANSA, 6 novembre 2014)


I sassi e gli attacchi a Gerusalemme

Ci sono un colpevole e un complice. Parla l'ambasciatore israeliano

Rabbi Yehuda Glick aspetta in fila all'ingresso del Monte del Tempio. Sempre identificabile a causa della sua altezza e dei capelli rossi, Glick indossa una camicia che richiama l'attenzione sullo sciopero della fame che si è impegnato a fare per protesta contro la politica del governo che vieta agli ebrei di adorare sul Monte del Tempio.
Ci sono un colpevole evidente e un complice inconsapevole davanti agli eventi terribili che in queste settimane accadono a Gerusalemme est. Ieri un terrorista palestinese si è schiantato con un minivan contro un gruppo di pedoni vicino a una fermata del treno urbano. Un uomo che lavorava come guardia di frontiera è stato ucciso, e ci sono 14 feriti, tre gravissimi. E' il secondo attacco di questo tipo in due settimane, il 22 ottobre un'altra auto si buttò contro i pedoni, uccise una donna e una bimba di tre mesi. Nel mezzo, mercoledì scorso, c'è stato l'attentato contro l'attivista israeliano Yehuda Glick, attaccato con colpi di pistola e gravissimo in ospedale, e decine cli casi minori, lanci di sassi, aggressioni contro gli ebrei che a Gerusalemme vanno avanti da mesi, senza mai fermarsi. Le autorità israeliane dalla settimana scorsa hanno chiuso e riaperto più volte la Spianata delle moschee al pubblico, ieri nel luogo più sacro della città ci sono stati lanci di pietre contro i non musulmani. I terroristi di Hamas si sono complimentati con gli attentatori, che con l'estremismo palestinese avevano dei legami, ma le responsabilità ultime per questo stato di cose sono più a monte, e sono del presidente dell'Anp Abu Mazen. Lo ha detto ieri il premier israeliano Netanyahu, e lo ribadisce al Foglio, a margine di una tavola rotonda della Fondazione Magna Charta, l'ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon, che aggiunge al quadro il complice inconsapevole: la comunità internazionale. "Negli ultimi cinque anni Abu Mazen si è rifiutato di parlare con Israele direttamente, e ha preferito rivolgersi alla comunità internazionale per cercare il riconoscimento del suo stato, anche se solo Israele può dare uno stato ai palestinesi", dice Gilon. "La comunità internazionale, specie l'Europa, continua a dargli risultati", e questo spinge Abu Mazen a lasciar morire il processo di pace con Israele. "Ma senza una road map, per quanto fragile come è stata in questi anni, i palestinesi non vedono un'alternativa al terrorismo di Hamas", ci dice l'ambasciatore, "e ora Abu Mazen è passato a un nuovo livello, sta eccitando la violenza della popolazione. Quando incita a fare qualsiasi cosa' per difendere la Spianata delle moschee la gente lo prende alla lettera, ma la verità è che l'unico posto dove tutte le religioni possono pregare in pace è Israele". A Gerusalemme però le violenze non sembrano fermarsi, mentre scricchiolano i rapporti tra Israele e l'alleato più solido, l'America, all'ombra di un accordo sul nucleare iraniano che, come dice Gilon, se dovesse dare a Teheran la Bomba sarebbe una minaccia molto più grande di quella dello Stato islamico. Ci sarà una Terza Intifada a Gerusalemme? "Spero di no, direi di no, ma è una speranza, non una certezza", dice Gilon. E' l'unico momento in cui l'ambasciatore ha un secondo di esitazione.

(Il Foglio, 6 novembre 2014)


Per l'ambasciatore di Israele, il maggiore pericolo viene dall'Iran e non dall'Isis

ROMA - L'Iran rappresenta per Israele e per gli equilibri del Medio Oriente un pericolo strategico maggiore di quello costituito dai jihadisti dello Stato Islamico (Is): è quanto ha affermato l'ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon, in alcune dichiarazioni all'ANSA, ai margini di un convegno organizzato a Roma dalla fondazione Magna Carta sull' "instabilità mediorientale". "La vera minaccia - ha spiegato Gilon - è il rafforzamento, grazie all'atomica, di Teheran. Non solo perchè l'Iran è lo sponsor di nemici storici di Israele come Hezbollah (movimento sciita libanese) o di Hamas, sebbene quest'ultimo movimento sia sunnita. Ma anche perchè le capacità militari nucleari dell'Iran innescherrebbero una corsa al riarmo in tutta l'area, e la guerra esistente tra sciiti e sunniti, la principale frattura della regione, si trasformerebbe in uno scontro tra Stati in possesso di armi atomiche''. "Per tali motivi, l'Iran rimane per noi, da un punto di vista strategico, il pericolo numero uno.
Poi, in seconda e terza posizione, si piazzano il terrorismo dei jihadisti dell'Is, estremisti sunniti che sono riusciti ad occupare 'terre di nessuno', ovvero zone non controllate in Siria e in Iraq, e il terrorismo di Hamas", ha osservato il diplomatico. Quanto alle crescenti tensioni a Gerusalemme, Gilon ha puntato il dito sulle responsabilità del presidente dell'Anp Abu Mazen. "Abu Mazen si è rivelato un partner di pace inaffidabile.
E' lui che ha innescato l'escalation, invitando i palestinesi a fare qualsiasi cosa e a usare qualsiasi mezzo per impedire agli ebrei di avvicinarsi al 'Monte Santo'. E' lui che sta facendo giochetti per ottenere un riconoscimento artificiale della Palestina, senza passare da un serio negoziato di pace". L'ambasciatore ha ribadito che è pieno diritto israeliano costruire insediamenti nella parte est di Gerusalemme, in quanto la città è stata proclamata da Israele capitale unica e indivisibile dello Stato ebraico dal 1980.
Quanto alla decisione della Giordania di richiamare il proprio ambasciatore da Israele, il diplomatico si è augurato che le relazioni tra i due paesi non subiscano mutamenti. "Noi vediamo nella Giordania - ha detto - un nostro alleato, un partner essenziale, con cui condividiamo gli stessi interessi". Al convegno organizzato da Magna Carta, sono intervenuti, tra gli altri, l'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi, e l'ex sottosegretario agli Esteri, Giannio Vernetti.

(ANSAmed, 5 novembre 2014)


Il mistero ebraico

Molte contraddizioni ancor oggi fanno dire ad alcuni: che cosa significa essere ebreo?
La risposta è: un mistero, un enigma (Yehoshua).
Un grande sionista, Martin Buber, ha affermato che il rapporto fra l'universalità della storia degli ebrei e l'universalità della storia dei gentili è un mistero e che in questo mistero consiste il carattere profondo dell'ebraicità.
Freud, laico e razionalista, si è sentito legato all'ebraismo da «forze occulte, sentimenti indefinibili ... e proprio per questo tanto potenti» e ha considerato la sua ebraicità un mistero.
(da "Storia degli Ebrei in Italia" di Giampiero Carocci)

*

Infatti, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi in voi stessi: un indurimento parziale è avvenuto ad Israele, finché non sia entrata la pienezza dei gentili. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: «Il liberatore verrà da Sion; egli rimuoverà l'empietà da Giacobbe. E questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati»
(dalla lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani, cap. 11)

 

150 milioni di cristiani perseguitati nel mondo. I "nazareni" bruciati vivi

Il gran rabbino di Francia: "Sono i nuovi ebrei". Le ong denunciano: "Muoiono cinque cristiani al minuto".

di Giulio Meotti

ROMA - "Il numero dei cristiani perseguitati nel mondo è di 150 milioni". Ci sono molte altre cifre, terrificanti, nelle pagine del "Libro nero della condizione dei cristiani nel mondo", una straordinaria iniziativa di studiosi francesi, coordinata dal giornalista Samuel Lieven e adesso portata in Italia da Mondadori. Istantanee di una guerra globale e amorfa, in cui ci sono le vittime "sbagliate", i paria di cui non vuole sentire parlare l'occidente.
   In particolare, un dato sconcerta: "L'ottanta per cento degli atti di persecuzione religiosa nel mondo è orientato contro i cristiani". Quante le vittime? Il Center for the
Study of Global Christianity riporta la stima media di centomila cristiani uccisi ogni anno per la loro fede lungo l'ultimo decennio. Una media di cinque cristiani al minuto.
   Ieri in Pakistan due cristiani, fra cui una donna incinta, sono stati arsi vivi nella fornace per mattoni in cui lavoravano. E' stato un pogrom con la partecipazione di quattrocento musulmani. Hanno lavorato al libro anche esponenti della sinistra come Lucie Peytermann, corrispondente del giornale Libération da Islamabad, che definisce il Pakistan "il peggiore al mondo quanto a violenze commesse in nome della religione".
   Haim Korsia, gran rabbino di Francia, invoca una reazione fraterna di fronte al dilagare dell'odio nei confronti dei cristiani, e stabilisce un paragone con la distruzione dell'ebraismo orientale: "Dove sono le comunità ebraiche un tempo così vive di Aleppo, di Beirut, di Alessandria, del Cairo o di Tripoli? Dove sono le scuole di Nehardea e di Pumbedita in Iraq? E dov'è il florido ebraismo di Esfahan e di Teheran? Nella nostra memoria. Scacciati, uccisi, decimati, perseguitati ed esiliati, i cristiani d'oriente vivono in prima persona la stessa condizione degli ebrei con cui hanno così a lungo convissuto e che hanno visto partire da quei luoghi". Come i "nazareni" di Mosul.
   La ong Open Doors ieri ha diffuso il suo rapporto annuale sui cristiani. Scrive che la loro persecuzione in Iraq ha raggiunto "proporzioni bibliche". Martedì, a Roma,
è stata presentata anche l'annuale relazione di Aiuto alla chiesa che soffre. Dei venti paesi in cui la libertà religiosa è praticamente assente, quattordici sono musulmani, e gli altri satrapie militari o comuniste, come la Corea del nord.
   Siamo di fronte a quella che Habib Malik dell'Università di Stanford chiama "la fase terminale del declino regionale dei cristiani". Oggi Mosul sembra essere stata inghiottita, come Giona nel ventre della balena. "Fra il 2003 e il 2009, quasi 800 cristiani sono stati giustiziati a sangue freddo, senza contare i cinquanta martiri della cattedrale siro-cattolica di Baghdad, tra i quali due preti, uccisi il 31 ottobre 2010 nel corso dell'attacco di un gruppo islamista. A oggi, è stato superato il migliaio di cristiani uccisi, tra i quali un vescovo e cinque preti. Più di sessanta chiese sono state distrutte".

- "Non si convertono. Che ne facciamo?"
  Nel libro, un jihadista dello Stato islamico parla invece al telefono con il suo capo terrorista: "Ho qui una famiglia di cristiani che non vuole convertirsi, cosa ne facciamo?". Una frase che ricorda quella di sette pastori avventisti che, durante il genocidio in Rwanda, si appellavano alloro pastore con una lettera: "Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie".
   Ci sono i cristiani di Maaloula, in Siria, come Antoun Taalab e i suoi due cugini, che avevano ricevuto l'''aman'', ovvero la garanzia islamica di essere salvati. Disarmati e fiduciosi nella parola dei ribelli, sono stati uccisi e poi decapitati. Cinquecentomila cristiani hanno già lasciato la Siria. Secondo Frédéric Pichon, ricercatore dell'équipe di arabistica dell'Università François Rabelais di Tours, i cristiani di Siria sono "il simbolo con cui si misura la capacità di tutti gli altri cristiani di non soccombere" .
   E prima di loro c'era Jean-Pierre Schumacher, l'ultimo monaco di Tibhirine, in Algeria, dove sgozzarono i meravigliosi trappisti che condividevano i pasti con i musulmani. Lui si salvò perché i jihadisti sbagliarono a contare. Ai funerali dei monaci, frère Jean-Pierre chiese di poter aprire le bare per dare l'ultimo saluto ai compagni. Scoprì che le casse di legno non contenevano corpi, ma soltanto sette teste. Quella strage fu la luce verde per i massacri futuri. Adesso Jean-Pierre teme che la prossima a rotolare sarà la sua testa.

(Il Foglio, 6 novembre 2014)


Egitto: esplosioni, ordigni, attacchi armati, uccisi cinque poliziotti

Israele dà l'ok a rinforzi di truppe nel Sinai

 
IL CAIRO - Esplosioni, ordigni, attacchi armati. E' ancora una notte nera per le forze dell'ordine egiziane, sotto attacco terroristico dalla deposizione dell'ex presidente Mohammed Morsi. Cinque poliziotti egiziani sono morti ieri sera per l'esplosione di una bomba trovata su un treno fermo alla stazione di Menouf, nel Delta del Nilo. Un'altra decina di persone sono rimaste ferite. Secondo fonti della sicurezza, si è trattato di un ordigno artigianale. Il convoglio era entrato in stazione appena un quarto d'ora prima, i passeggeri erano scesi, ed erano già cominciate le pulizie del vagone, ha riferito il governatore di Menoufeya Ahmed Sherin.
L'esplosione è avvenuta quando un agente ha trovato una busta sospetta e la stava segnalando agli artificieri. Una seconda bomba è stata disinnescata a bordo dello stesso treno. Sabato scorso l'ennesimo ordigo era stato disinnescato sulla stessa linea ferroviaria. Poliziotti del mirino anche a un check point lungo la strada tra Alessandria e Marsa Matruh, nel nordovest dell'Egitto: cinque gli agenti rimasti feriti in un attacco armato. Esplosioni si sono registrate in serata anche al Cairo.
La prima nella stazione della metropolitana di Marje, nel nordest della capitale, dove stava passando l'ultima corsa che porta i pendolari in periferia. Anche qui si sarebbe trattato di un ordigno artigianale, ma non si hanno notizie di eventuali feriti. Poi ancora a Ramadan City, altro quartiere a nord della capitale: qui testimoni e media hanno riferito di aver udito altre tre esplosioni, senza precisarne la natura, che non avrebbero comunque causato vittime. Ordigni artigianali, generalmente di bassa potenza, vengono trovati e disinnescati quasi quotidianamente in diverse località dell'Egitto. Altri vanno a segno ferendo poliziotti o passanti, un militare è morto al Cairo a settembre. Ma è nel nord del Sinai che le forze armate e dell'ordine egiziane subiscono il maggior numero di attacchi, attribuiti ai Fratelli musulmani - dichiarata organizzazione terroristica - o ai jihadisti filo-al Qaida e filo-Isis di Ansar beit al Maqdis. Lo scorso 24 ottobre l'attentato più sanguinoso che ha ucciso almeno 30 militari.
In seguito agli attentati, Israele ha autorizzato l'ingresso nel Sinai di rinforzi militari. In un'ulteriore deroga agli accordi di smilitarizzazione (scaturiti dal trattato di pace fra i due Paesi), Israele acconsente adesso al dislocamento nel Sinai settentrionale di altri due battaglioni egiziani e di elicotteri da combattimento. Lo ha riferito la radio militare.

(ANSAmed, 6 novembre 2014)


E se costruissero una moschea nella vostra chiesa? La battaglia del Monte del Tempio

Cosa direste se domani un gruppo di musulmani si impadronisse della vostra chiesa e vi dicesse che da quel momento essa diventa la loro moschea? La battaglia del Monte del Tempio è molto più importante di quanto si creda (o di quanto vogliono farvi credere).

Quello che sta avvenendo sul Monte del Tempio a Gerusalemme è qualcosa che dovrebbe far riflettere con molta attenzione il mondo cristiano. Il Monte del Tempio (o spianata delle moschee) è un luogo santo per i cristiani, per gli ebrei e anche per i musulmani. Solo che a quanto sembra ultimamene ebrei e cristiani non hanno più il diritto di accedervi per pregare, almeno così la pensano i palestinesi.
La nuova campagna religiosa lanciata da Abu Mazen punta infatti con molta decisione sulla corda della fede islamica, punta a rendere il Monte del Tempio un luogo unicamente musulmano. E badate, la mossa è molto intelligente e sta ottenendo il suo obbiettivo....

(Right Reporters, 6 novembre 2014)


Auto sui passanti a Gerusalemme: un morto e almeno dieci feriti

Tramite la sua TV, Hamas (a cui l'attentatore era affiliato) ha fatto sapere di salutare "chi oggi si è immolato per difendere la moschea di al Aqsa" ed ha incitato "a prenderne esempio". ancora una volta in poche settimane, l'automobile viene usata dai terroristi come arma.

Un pedone è rimasto ucciso e almeno dieci feriti a Gerusalemme Est da un'automobile in un attentato palestinese sul modello di quello avvenuto due settimane fa. E' il bilancio di un attentato avvenuto nella mattinata di mercoledì 5 novembre a Gerusalemme, nel rione di Sheikh Jarrah.
   "Il terrorista che ha compiuto l'attentato a Gerusalemme è stato identificato come un operativo di Hamas di Shuafat a Gerusalemme Est", ha scritto il sito Ynet. Da Gaza l'organizzazione islamica, tramite la sua TV, ha fatto sapere di salutare "chi oggi si è immolato per difendere la Moschea di Al Aqsa" ed ha incitato "a prenderne esempio".
   Dopo aver lanciato l'auto contro la folla in due diverse zone vicino ai binari della fermata del tram a Gerusalemme, il guidatore è sceso con un piede di porco e ha iniziato ad aggredire chiunque gli capitasse a tiro. Due agenti, uno dei quali delle forze di frontiera, hanno aperto il fuoco e lo hanno ucciso.
   
- L'automobile diventa un'arma
  L'ultimo attentato è identico nella dinamica a quello avvenuto il 22 ottobre, quando un palestinese si era lanciato in auto contro un gruppo di pedoni a una fermata del tram, uccidendo una bambina di tre mesi e due donne, morte per le ferite. Come ha sottolineato Fiamma Nirenstein sul suo blog, l'automobile, mezzo di trasporto che fa parte della quotidianità di quasi tutti, è diventato un'arma per i terroristi, sia palestinesi che dell'Isis. Fa infatti riflettere il fatto che il 21 ottobre, il giorno prima che un'altra automobile uccidesse tre persone a Gerusalemme, in Canada un neo convertito all'Islam, affiliato all'Isis uccideva nella stessa maniera un passante a Montreal.
   "Quindi oggi Londra e Roma potrebbero essere come Gerusalemme, che è in questi giorni un campo di battaglia, città in cui ogni passante può essere l'obiettivo, ogni automobilista un attentatore - scrive la Nirenstein -. Ed è qui che la nostra mentalità ci impedisce di capire il punto di vista del terrorismo: gli infedeli, per motivi svariati, sia che partecipino alla coalizione che attacca l'ISIS in Iraq e in Siria, sia che perseguitino i palestinesi su una terra che gli jihadisti ritengono proprietà dell'Ummah islamica, sono nemici dell'unica soluzione auspicabile, la islamizzazione complessiva. La scelta degli strumenti quotidiani è la nuova strategia che permette di passare dal deserto alle nostre città. Adesso fra le armi alla portata di tutti, quella che si profila più pericolosa è l'uso delle malattie infettive. Uno 'shahid' che porta una malattia mortale è una bomba atomica".
   
(Mosaico, 5 novembre 2014)


Netanyahu: l'attentato è conseguenza delle parole di Abu Mazen
   
"L'attentato condotto oggi mediante un investimento stradale è una conseguenza diretta delle parole di Abu Mazen e dei suoi partner di Hamas": lo ha affermato Benyamin Netanyahu in una cerimonia commemorativa in memoria di Yitzhak Rabin. Il premier e leader del Likud ha criticato il presidente dell'Anp per aver inviato una lettera di condoglianze alla famiglia del palestinese che la settimana scorsa ha sparato a bruciapelo contro un rabbino e attivista dell'estrema destra nazional-religiosa ebraica.
Netanyahu ha addossato ad Abu Mazen la responsabilità di aver preso parte "ad un incitamento crescente" contro Israele, in particolare quando ha fatto appello ad impedire in tutti i modi "le profanazioni della Moschea di al-Aqsa" da parte degli israeliani "impuri".
Anche il leader del partito nazionalista Focolare ebraico, Naftali Bennett, ha attaccato il presidente palestinese affermando che "è lui stesso alla guida delle macchine della morte a Gerusalemme. I terroristi - ha aggiunto - sono solo i suoi emissari".

(swissinfo.ch, 5 novembre 2014)


Sanremo: al Museo Civico le 'Ombre al confine' di Paolo Veziano

La storia degli ebrei nel ponente ligure. Sabato pomeriggio dialogherà con l'autore il giornalista Romano Lupi.

 
SANREMO - Sabato pomeriggio alle 17 al Museo Civico di Palazzo Borea d'Olmo di Sanremo, Paolo Veziano presenterà il suo nuovo lavoro "Ombre al confine" (fusta editore) dedicato all'espatrio clandestino egli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra (1938-1940).
Veziano, appassionato studioso di Isolabona, riprende in mano la storia degli ebrei nel ponente ligure già affrontata anni prima nel volume "Ombre di confine" approfondendola con nuovi documenti, interventi, testimonianze. E inserendo anche nella rigorosa costruzione storica qualche frammento di Francesco Biamonti, raffinato narratore dell'epopea di frontiera. Sabato pomeriggio dialogherà con l'autore il giornalista Romano Lupi. L'appuntamento è organizzato dall'Assessorato alla Cultura guidato da Daniela Cassini. Ingresso libero.
Dalla prefazione di Alberto Cavaglion:
    «La figura geometrica dominante in questo libro è la "serpentina", o meglio bisognerebbe dire le serpentine, che da Ventimiglia conducevano i profughi ebrei in fuga dall'Italia fascista in direzione di Garavan, il quartiere di Mentone prossimo alla frontiera. I luoghi che fanno da sfondo sono carichi di memorie letterarie, ma tornano nella nostra attualità quotidiana. La pressione migratoria al confine tra Italia e Francia percorre quelle stesse serpentine. Foscolo le chiamava le fauci del Mediterraneo, là dove il Roja incomincia ad avere più spazio per la sua discesa verso il mare. "Le quinte di un teatro", scenograficamente, le definiva Italo Calvino, nel Sentiero dei nidi di ragno. Sono i sentieri del contrabbando che Francesco Biamonti ha descritto nei suoi libri: in questi scenari impervi Paolo Veziano ha ambientato una storia emozionante, che svela le contraddizioni della politica razziale di Mussolini.»
Scheda
Paolo Veziano è nato a Isolabona (Imperia) nel 1957. Di professione olivicoltore, da anni si dedica per passione alla studio della presenza ebraica in provincia e della condizione degli ebrei sotto l'occupazione italiana nel Nizzardo. Nel 2002 ha pubblicato il volume Ombre di confine. L'emigrazione clandestina degli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori verso la Costa Azzurra (1938-1940), Alzani Editore, Pinerolo. Nel 2004 ha curato il catalogo della mostra Angelo Donati. Un ebreo modenese tra Italia e Francia. Nel 2007, ha pubblicato Sanremo. Una nuova comunità ebraica nell'Italia fascista 1937-1945, Diabasis, Reggio Emilia.


(Sanremo News, 5 novembre 2014)


Arrivano i miliardi: palestinesi a bocca asciutta

Non si sono ancora spenti i riflettori sulla grande conferenza del Cairo, che ha riunito i donatori internazionali, rappresentati da una cinquantina di ministri e alti esponenti delle principali ONG internazionali. Sontuoso il piatto: più di 5 miliardi di dollari (5,4 miliardi, per l'esattezza), di cui uno offerto soltanto dal "generoso" Qatar. Non hanno mancato di promettere un lauto assegno gli Stati Uniti e l'Europa, ancora attanagliata da una crisi esasperata dall'austerità fiscale autoimpostasi....

(Il Borghesino, 5 novembre 2014)


Israele forma gli agenti di viaggi

Avital Kotzer Adari
«Sono contenta di celebrare con voi la festa di Sukkot. Dopo un'estate complicata, ora tutto è tornato nella norma. Abbiamo già avuto molti appuntamenti con tour operator e Israele presenta un'ampia gamma di novità». A parlare è Avital Kotzer Adari (nella foto), nuova direttrice Italia dell'ufficio nazionale israeliano del turismo, al suo debutto al Ttg di Rimini. «Vogliamo promuovere city break a Gerusalemme e Tel Aviv - informa - per dimostrare che Israele non è solo una grande destinazione religiosa, ma offre anche molte altre possibilità: culturali, musicali, sportive e gastronomiche».

- Dal Bird Festival alle maratone
  Con la Formula 1 ospitata a ottobre a Gerusalemme, è iniziato un periodo ricco di eventi sportivi e culturali. Tra questi la 15a edizione del Tamar Music Festival, sulle rive del Mar Morto, al quale hanno partecipato i più importanti e noti musicisti israeliani e internazionali in tre luoghi eccezionali: a Masada, nel Giardino Botanico di Ein Gedi e nel Kikar Sdom Village. Senza dimenticare la rappresentazione della Tosca di Puccini a giugno 2015 a Masada.
  Per gli amanti del birdwatching c'è la quarta edizione del Bird Festival, dal 16 al 23 novembre nella valle di Hula, che offre l'oppurtunità di conoscere questa regione e il nord d'Israele. Qui in autunno sono presenti gru, pellicani e oltre 25 specie di rapaci, tra cui le aquile reali.
  Per i podisti sono in programma, invece, una serie di maratone. La prima si svolgerà a novembre ad Eilat, dalle rive del Mar Rosso al deserto del Neghev. A gennaio, poi, si correrà lungo lo storico territorio del Lago di Tiberiade e del Giordano, e in febbraio sarà la volta di Tel Aviv, dove in ottobre si è già svolta un'escursione in bicicletta. Il ciclo delle maratone si chiuderà a marzo 2015 a Gerusalemme.

- e-learning per agenti: un viaggio in palio
  «Per promuovere la conoscenza di Gerusalemme, cuore di tre religioni monoteiste e città ricca di teatri e musei, ristoranti, shopping ed eventi - afferma Laura Moreni di Interface, rappresentante in Italia della Jerusalem Development Authority (JDA) - abbiamo lanciato un progetto di formazione online per adv, in collaborazione con Go Asia e la compagnia di bandiera El Al».
  Si tratta della Go Academy, un progetto multimediale unico in Italia «nato da un'inchiesta sulle esigenze delle agenzie di viaggi», chiarisce Andrea Alessandrelli, product manager Middle East e Central Asia di Go Asia. «Vogliamo modificare la percezione della destinazione - aggiunge - con indicazioni su cosa fare e dove andare e affiancando agli itinerari classici fly& drive e city break di quattro notti, non solo per gruppi ma anche per individuali.
  Accedere all'e-learning, già attivo all'indirizzo Goacademy.it, è molto semplice: basta iscriversi per ricevere username e password da seguire per il corso, quando si vuole. I migliori "allievi" saranno premiati con alcuni regali, tra cui un soggiorno in hotel offerto da Go Asia e il volo da El Al. «Le agenzie che lavorano con noi sono circa 6mila e il primo feedback della Go Academy è molto positivo», conclude Alessandrelli.

- El Al, promo Business biglietti a 750 euro
  «Israele è una destinazione vicina - sottolinea Oranit Beithalahmi Amir, managing director per Europa Centrale e Africa di El Al - È molto indicata per i weekend e ben collegata all'Italia con 21 voli settimanali dal 26 ottobre al 28 marzo 2015: nove da Milano Malpensa, 10 da Roma Fiumicino e due da Venezia a Tel Aviv. Frequenze che arrivano fino a 30 nel periodo primavera-estate».
  Nonostante l'estate difficile, la compagnia ha registrato da gennaio a settembre un incremento del 2-3% sul mercato italiano rispetto allo scorso anno». «Dal 1o novembre - prosegue il direttore - abbiamo una promozione in Business Class da Roma e Milano per Tel Aviv, con una tariffa di 750 euro a/r tutto compreso».

(L'Agenzia di Viaggi, 5 novembre 2014)


Martino Godelli (1922-2014)

 
Il documento di riconoscimento di Martino Godelli
È scomparso all'età di 92 anni Martino Godelli, nato Goldstein, uno degli ultimi sopravvissuti italiani all'orrore di Auschwitz Birkenau.
Nato in Romania, trasferitosi giovanissimo nella Fiume fascista, Godelli - tra i pionieri del sionismo socialista in Italia - viveva nel kibbutz di Netzer Sereni, in Israele, dove si è svolto ieri il suo funerale.
Godelli fu arrestato a Fiume il 25 gennaio 1944. Fu prima trasferito all'ex distilleria Wortmann, a Sussak, adibita dai nazisti a luogo di interrogatorio e prigionia e successivamente alla Risiera di San Sabba, a Trieste, dove verrà trattenuto per una notte. Il 28 gennaio sarà fatto salire sul treno per Auschwitz Birkenau.
La sua tormentata vicenda, insieme a quella dei cugini Laci e Andi, è stata raccontata da Silvia Cuttin in un libro di struggente intensità: "Ci sarebbe bastato", pubblicato nel 2011 da Epika. "Martino Godelli - lo ricorda Cuttin - è stato un gigante, un uomo speciale a cui ho voluto molto bene. Un uomo rigoroso, che ha seguito sempre quello che credeva giusto, capace di insegnare. Un uomo profondamente sensibile, anche se non lo faceva vedere; attento, rispettoso, mai invadente".
Viveva in Israele, rifiutava di tornare in Italia. "Nessuno mi ha mai chiesto scusa", spiegò in un colloquio con il direttore scientifico del Museo della Shoah di Roma Marcello Pezzetti.
(Nell'immagine, pubblicata su Pagine Ebraiche per gentile concessione di Silvia Cuttin, il documento di riconoscimento di Martino Godelli pochi giorni dopo la liberazione di Auschwitz Birkenau. All'uscita dal lager nazista il suo peso era di 28 chili).

(moked, 5 novembre 2014)


Una normalizzazione delle relazioni fra Ankara e Gerusalemme?

di Burak Bekdil*

"La lobby ebraica ha perso molto dei suo potere mitico. La retorica e le azioni del nostro premier hanno in gran parte causato questo. Il modo in cui [Erdogan] ha abbandonato il forum di Davos [nel 2009] ha notevolmente offuscato il carisma regionale di Israele. Ciononostante, lo Stato ebraico è riuscito a danneggiare la Turchia."
   Queste parole sono state pronunciate dall'ex-alto diplomatico e parlamentare Volkan Bozkir, membro del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), in un'intervista rilasciata al quotidiano Hurriyet il 18 marzo 2013. Nel mini-rimpasto governativo del premier Ahmet Davutoglu, avvenuto il mese scorso, Bozkir è diventato ministro turco per l'Unione Europea e capo-negoziatore nel processo di adesione della Turchia all'UE.
   Dal momento che la Turchia, quattro anni fa, ha allentato le relazioni diplomatiche con Israele, quest'ultimo tenta, invano, di normalizzarle. Tra i vari tentativi, la telefonata che il premier israeliano Benjamin Netanyahu fece all'allora primo ministro (e ora presidente) Recep Tayyip Erdogan per scusarsi dell'episodio del 2010 della nave Mavi Marmara. Dall'attacco israeliano alla flottiglia turca che mirava a rompere "l'assedio illegale" di Gaza, Ankara ha ripetutamente detto che non ci sarà una normalizzazione dei rapporti se Israele a) non si scuserà per la vicenda della Mavi Marmara; b) non avrà risarcito le famiglie dei nove turchi uccisi a bordo della nave; e se c) lo Stato ebraico non avrà rimosso del tutto il blocco navale imposto a Gaza. In entrambi i paesi, non sono mai assenti nelle pagine dei quotidiani notizie di una potenziale svolta.
   Più di recente, Verda Ozer, una giornalista di Hurriyet ha riportato le parole di un "alto funzionario di Ankara" che le ha detto: "Siamo disposti a normalizzare i rapporti con Israele". Ecco quanto scritto dalla Ozer in un articolo del 25 ottobre:
   Gli ho chiesto: "La Turchia sta prendendo in considerazione l'ipotesi di normalizzare le relazioni con Israele e l'Egitto, che sono gli unici paesi in grado di offrire stabilità nella regione diversamente dall'Iran? Il funzionario ha risposto: "Rimane in sospeso solo la questione del risarcimento. Una volta risolta, invieremo di nuovo lì il nostro ambasciatore e le relazioni saranno normalizzate". Ma la normalizzazione è possibile? Teoricamente lo è. In realtà, è quasi impossibile.
   Dopo le scuse presentate da Netanyahu, la Turchia è arrivata a toccare livelli di antisemitismo come mai prima. Un anno e mezzo dopo l'iniziativa del premier israeliano di presentare le proprie scuse per l'episodio della Mavi Marmara, Erdogan ordinò all'ambasciatore turco a Washington, Serdar Kilic, di scrivere a suo nome all'American Jewish Congress per dirsi disposto a restituire il premio "Profile of Courage" assegnatogli nel 2004 dall'organizzazione con sede a New York. Poco prima, l'organizzazione aveva detto che Erdogan era diventato "il leader anti-Israele più virulento" e lo aveva invitato a restituire il premio. Durante l'operazione "Protective Edge" del luglio scorso, Erdogan disse che "Israele ha sorpassato Hitler in barbarie".
   Motivazioni emotive e pragmatiche spingono Erdogan (e del resto Davutoglu) a sfidare Israele pubblicamente e a mantenere "una guerra fredda" con Israele. Emotive perché una guerra santa contro lo Stato ebraico è un prerequisito per il suo islamismo pro-Hamas. E pragmatiche perché la guerra fredda e la sua retorica esplosiva nei confronti di Israele si sono rivelate una fonte inesauribile di voti in un paese che difende l'antisemitismo. Le cruciali elezioni politiche programmate per giugno 2015, molto probabilmente saranno un altro luogo d'azione per nuove aggressioni verbali contro Israele.
   In un discorso della settimana scorsa, Erdogan ha difeso la libertà di stampa esistente in Turchia asserendo che 16 giornalisti sono stati uccisi la scorsa estate durante l'offensiva militare di Israele contro Gaza, nella cosiddetta operazione "Protective Edge".
   "Purtroppo, qualche politico in Turchia ed alcuni organi d'informazione internazionali criticano aspramente la Turchia, dicendo che nel paese non c'è libertà di stampa", egli ha asserito. "Ma i 16 giornalisti che sono stati uccisi da Israele durante gli attacchi a Gaza non sono mai stati menzionati". Questo è quanto ha dichiarato Erdogan riguardo alla libertà di stampa in Turchia e in Israele. Come sempre, la realtà è diversa dall'immaginazione.
   Secondo la Commissione per la protezione dei giornalisti (Cpj), i 16 giornalisti menzionati da Erdogan non sono stati uccisi durante l'operazione "Protective Edge", ma dal 1992. Anzi, nel database della Cpj il numero dei giornalisti uccisi in Turchia dal 1992 ammonta a 20. Nell'indice mondiale della libertà di stampa stilato dallo Freedom House, la Turchia appartiene al gruppo dei paesi "non liberi" classificandosi al 143mo posto a livello globale e condividendo lo stesso punteggio con il Sud Sudan, la Libia, l'Ecuador e l'Armenia. Israele appartiene al gruppo dei paesi "liberi" occupando il 62mo posto e classificandosi meglio di alcuni Stati membri dell'UE come l'Italia (al 64mo posto), Ungheria (71mo), Bulgaria (78mo) e Grecia (92mo).
   Nella classifica dell'indice sulla libertà di stampa a livello mondiale pubblicato ogni anno da Reporters Without Borders, la Turchia occupa un imbarazzante 154mo posto, un risultato peggiore rispetto al Burundi, al Myanmar, all'Etiopia, al Bangladesh, alla Cambogia, all'Afghanistan, alla Libia, all'Uganda e al Kyrgyzstan, tra gli altri. Nella stessa classifica, Israele si piazza al 96mo posto.
   Ancora una volta, Erdogan ha alterato i fatti e le cifre per colpire Israele - mentre i suoi diplomatici parlano della "disponibilità della Turchia a normalizzare le sue relazioni con Israele". In realtà, con o senza la distensione dei rapporti diplomatici fra Ankara e Gerusalemme, i turchi non hanno mai nascosto i loro obiettivi più ampi nel conflitto arabo-israeliano: ossia che Gerusalemme dovrebbe essere la capitale di uno Stato palestinese; e che Israele dovrebbe ritirarsi entro i confini precedenti al 1967. Fino ad allora, sarà halal (permesso nell'Islam) a Erdogan di dare la colpa allo Stato ebraico del riscaldamento globale, del virus dell'ebola, della fame in Africa e di ogni altra disgrazia che affligge il mondo.


* Gatestone Institute

(L'Opinione, 5 novembre 2014 - trad. Angelita La Spada)


Derby tra Hapoel e Maccabi sospeso per incidenti

TEL AVIV, 4 nov. - Una pagina nera per il calcio israeliano: il derby di Tel Aviv tra l'Hapoel ed il Maccabi e' stato sospeso ieri in seguito ad incidenti che hanno portato all'arresto di dieci persone. Tutto e' cominciato al 33' del primo tempo, quando un invasore di campo, a torso nudo, si e' scagliato contro Eran Zahavi, ex Hapoel trasferitosi al Maccabi, che aveva appena realizzato il gol dell'1-1 su calcio di rigore.
Il 27enne centrocampista della nazionale israeliana, che dal 2011 al 2013 ha militato nel Palermo, si e' difeso con pugni e calci dall'assalitore, portato poi via con la forza dagli uomini della sicurezza. Tutto sembrava comunque essere tornato nella norma quando il direttore di gara ha comminato il secondo cartellino giallo a Zahavi, 'reo' di aver reagito con violenza alla rabbia dell'invasore. A questo punto, sugli spalti si e' scatenata una bagarre ed i suppoters del Maccabi sono a loro volta entrati nel terreno di gioco, costringendo l'arbitro a dichiarare conclusa anzitempo la gara. Zahavi e' stato 'scortato' negli spogliatoi dai suo dirigenti e gli oltre 600 tutori dell'ordine presenti hanno faticato a riportare la calma dentro e fuori l'impianto di gioco.

(AGI, 4 novembre 2014)


Insediamenti e rivolta araba: Israele e palestinesi al bivio

di Maurizio Molinari.

Assenza di negoziati di pace fra Israele e palestinesi, rivolta araba a bassa intensità a Gerusalemme Est e tregua precaria a Gaza fanno del Medio Oriente un dossier ad alto rischio. E tutti i protagonisti si allontanano dalla soluzione dei due Stati: a Ramallah Abu Mazen persegue il riconoscimento della sovranità con una risoluzione Onu e non più grazie ai negoziati bilaterali come previsto da Oslo; a Gerusalemme Benjamin Netanyahu autorizza nuove costruzioni oltre la linea verde del giugno 1967 sospinto dal 74% dei cittadini che non credono più a Oslo; a Gaza la leadership di Hamas è convinta di aver vinto il conflitto estivo contro Israele e si sente più forte di Abu Mazen non rinunciando alla lotta armata. È uno scenario di disgregazione aggravato dalla diffusa sfiducia nei confronti di Washington e da quanto avviene ai confini della regione: Hezbollah ha 100 mila missili, Isis minaccia la Giordania, Al-Nusra si impone sul Golan siriano e nel Sinai i salafiti spadroneggiano.

(La Stampa, 4 novembre 2014)


E' il fallimento della politica di Oslo: a questo ha portato la ricerca della "pace" per la via buonista degli accordi bilaterali basati sulla richiesta di atti di "buona volontà" da parte di Israele. Se un giorno i buonisti lo ammetteranno, sarà soltanto per dire che la causa del fallimento sta nella cattiva volontà di Netanyahu e di chi lo ha preceduto. Che a questo si sarebbe arrivati invece lo sapevano già i "moderati" palestinesi come Arafat e il suo discepolo Abu Mazen. Adesso quindi cambiano politica e atteggiamento, tanto sanno che a loro la comunità internazionale non rimproverà mai la loro incoerenza. A loro tutto viene perdonato, perché il fatto di avere come controparte Israele li giustifica di tutto. M.C.


Quei simboli palestinesi virtualmente genocidi

Prima di riconoscere lo "stato di Palestina", si dovrebbe esigere dai palestinesi che la facciano finita con le mappe che propugnano l'eliminazione di Israele.

C'è qualcosa di veramente inquietante, e un po' nauseante, nel vedere nazioni moderne e civili che assicurano riconoscimento ufficiale e massicci finanziamenti a organizzazioni terroristiche che dichiarano obiettivi virtualmente genocidi.
La Svezia è il caso più recente di un paese che ha deciso di riconoscere ufficialmente "lo stato di Palestina" (senza che i palestinesi abbiano firmato un accordo di pace negoziato con Israele). Per mettere nella sua giusta prospettiva internazionale la dilettantesca e imbarazzante decisione svedese, evidentemente volta a racimolare un po' di consensi interni, basta dare un'occhiata ai simboli dei movimenti nazionalisti dei palestinesi: giusto per avere un'idea dei veri obiettivi di questi "costruttori di pace"....

(israele.net, 4 novembre 2014)


Israele approva una legge che blocca il rilascio di prigionieri palestinesi

GERUSALEMME, 4 nov. - Il parlamento israeliano ha approvato una legge che blocca il rilascio di prigionieri palestinesi condannati per omicidio in eventuali futuri negoziati di pace. Stando a quanto riferito da un portavoce dell'assemblea, la norma, approvata con 35 voti a favore e 15 contrari, assegna ai giudici il potere di infliggere le condanne di omicidio sotto la nuova categoria di "circostanze estremamente gravi", nel qual caso il governo non potrebbe rilasciare detenuti a cui è stata inflitta tale condanna.
Il testo di legge è stato presentato dopo la liberazione di 78 palestinesi avvenuta durante gli ultimi negoziati di pace tra il luglio 2013 e l'aprile scorso; molti dei detenuti erano stati condannati per l'omicidio di civili israeliani. L'iniziativa fece insorgere l'estrema destra israeliana, promotrice del nuovo testo di legge, che ha poi avuto il via libera del governo a giugno.

(TMNews, 5 novembre 2014)


Israele riaprirà i suoi valichi

Israele riaprirà i suoi valichi con la Striscia di Gaza a Erez e Kerem Shalom a partire da oggi [4 novembre]. Lo rende noto un portavoce militare, senza fornire altre indicazioni. I valichi erano stati chiusi per la prima volta dalla fine della guerra fra Israele e Hamas in agosto a causa delle tensioni verificatesi nei giorni scorsi a Gerusalemme e nei territori palestinesi.
Sul video - Il commento del ministro degli Esteri dello Stato di Israele, Avigdor Liberman, a margine dell'audizione in commissione Esteri alla Camera dei Deputati, sul sì della Camera dei Comuni britannica alla mozione che chiede il riconoscimento della Palestina.

(Primocanale.it, 4 novembre 2014)


Gerusalemme è Israele? Il caso alla Corte Suprema

Approdano alla Corte Suprema le tensioni su Gerusalemme: i giudici di Washington che vigilano sulla Costituzione americana hanno accettato di esaminare la richiesta di un cittadino ebreo Usa, nato nella Città Santa, di indicare sul suo passaporto a stelle e strisce Israele come Paese di origine. In giorni di rinnovate polemiche sugli insediamenti e sui Luoghi Santi, l'azione legale della famiglia di Menachem Zivotofsky è una grana con potenziali implicazioni politico-diplomatiche. Menachem è nato nel 2002 a Gerusalemme e i suoi genitori, anche loro cittadini americani, invocano una legge del Congresso - approvata poco prima della sua nascita su pressione dell'influente lobby filo israeliana d'America - per costringere il Dipartimento di Stato a riconoscere che la città fa parte dello stato di Israele. Lo status di Gerusalemme è uno dei problemi più spinosi dei negoziati tra stato ebraico e palestinesi. Israele sostiene per bocca del governo Netanyahu che la città sia la sua capitale «eterna, unita e indivisibile»; i palestinesi vogliono chiedono al contrario la restituzione di Gerusalemme est - il settore a maggioranza arabo occupato dallo Stato ebraico nel 1967 e più tardi annesso unilateralmente contro il volere della comunità internazionale - dove ambiscono a costituire la loro capitale. Negli Usa sia l'amministrazione Bush sia quella di Barack Obama hanno fino ad oggi sostenuto che la legge invocata dagli Zivotofsky - promossa in Congresso dagli alleati più stretti dello Stato ebraico e della destra israeliana per cercare di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv (dove oggi sono tutte le rappresentanze diplomatiche dell'occidente) a Gerusalemme - è in conflitto con la decisione politica di non riconoscere per ora alcun tipo di sovranità sulla città. Almeno fintanto che israeliani e palestinesi non ne avranno risolto lo status attraverso il processo di pace. Ed è cosi« che sul passaporto dei cittadini americani nati all'estero, dove usualmente è indicato il Paese di provenienza, Gerusalemme resta al momento priva di qualunque collegamento nazionale, in ossequio alla linea adottata da sempre dal Dipartimento di Stato. È la seconda volta in tre anni che i genitori di Menachem cercano tuttavia di costringere la diplomazia americana a cambiare rotta e a riconoscere Gerusalemme come una città israeliana tout court. Nel 2011, quando per la prima volta il caso approdò alla Corte Suprema i giudici evitarono di decidere rinviando il caso a un tribunale di livello inferiore. Ma adesso la patata bollente è tornata nelle loro mani.

(OnlineNews, 4 novembre 2014)


Ancora una volta, il problema su cui si va a sbattere è la città di Gerusalemme, come la Bibbia ripete più volte. I politici però pensano di potersi disinteressare di quello che Dio ha già detto a questo riguardo nella sua Parola. Ma dovranno cambiare idea. "L'Eterno ruggirà da Sion, farà sentire la sua voce da Gerusalemme, e i cieli e la terra saranno scossi; ma l'Eterno sarà un rifugio per il suo popolo, una fortezza per i figli d'Israele (Gioele 3:16).


Diventare ebrei sarà più facile, ma la nuova legge non piace agli ortodossi

Finora le conversioni all'ebraismo in Israele sono state gestite dai quattro tribunali rabbinici nazionali. Ora invece le competenze passano ai tribunali locali, facilitando l'iter. Soddisfazione per centinaia di immigrati: "Si va verso una maggiore integrazione".

di Maurizio Molinari

 
                                       Tzipi Livni                                                                  Naftali Bennet
GERUSALEMME - Diventare ebrei in Israele è più facile grazie ad una nuova legge che assegna maggiori poteri ai rabbinati locali. Finora le conversioni all'ebraismo in Israele sono state gestite dai quattro tribunali rabbinici nazionali, centralizzando ogni pratica e rendendola di conseguenza più lunga e complessa. Grazie alla legge approvata domenica dal governo Netanyahu invece tale competenza passa ai rabbinati locali ovvero ai tribunali che saranno istituiti in ogni maggiore città del Paese (ve ne sono almeno 30).
   A battersi per tale svolta è stato il ministro della Giustizia, Tzipi Livni, assieme a Naftali Bennet, il leader di "Ha Bayt HaYeudì" che rappresenta gli ebrei "modern orthodox" impegnati a guadagnare terreno rispetto al rabbinato ortodosso. In concreto, la legge dà vita ad una sorta di federalismo rabbinico ovvero aumenta l'autorità di un rabbino locale rispetto al rabbinato centrale sul tema delle conversioni da sempre oggetto di difficili contese. In Israele sono almeno 364000 i cittadini immigrati che, pur avendo la cittadinanza, non rientrano nella definizione di "ebreo" del rabbinato centrale ed è a loro - in gran parte immigrati dall'ex Urss - che la legge è rivolta. "La nuova legge è una grande notizia per le centinaia di migliaia di cittadini - ha detto Tzipi Livni - che abbiamo incoraggiato ad immigrare, che vivono con noi ma sono ancora cittadini di serie B".
   Natan Sharansky, ex leader dell'emigrazione ebraica dall'Urss ed oggi alla guida dell'Agenzia Ebraica, parla di "una legge di importanza cruciale per il successo dell'assorbimento e dell'integrazione di migliaia di immigrati" divenuti cittadini di Israele in quanto ebrei ma poi ostacolati da un rabbinato ortodosso che non li ha riconosciuti come tali. Proprio i portavoce del rabbinato centrale di Gerusalemme hanno ribadito l'opposizione alla legge promettendo di dare battaglia per impedirne l'applicazione. Le conseguenza della nuova normativa saranno numerose, andando fra l'altro incontro alle richieste delle comunità ebraiche riformate americane che da tempo chiedevano una revisione delle leggi del rabbinato ortodosso.
   
(La Stampa, 4 novembre 2014)


Ancona e l'eredità ebraica

Mostre e incontri in biblioteca fino a dicembre

ANCONA, 3 nov - Ancona e l'eredità ebraica è il titolo di un'iniziativa alla Biblioteca Benincasa, che con una mostra e una serie d'incontri intende valorizzare l'apporto della cultura ebraica alla storia della città, anche attraverso i lasciti librari di suoi tre illustri esponenti. Il programma rientra nel Grand Tour Cultura 2014, promosso dalla Regione Marche in collaborazione col coordinamento Marche Musei Archivi e Biblioteche.
   Si parte giovedì prossimo con una mostra dei tre fondi librari, pervenuti alla Biblioteca tra il 1959 e il 1974, di Gina Del Vecchio, scrittrice e critica letteraria legata a Benedetto Croce e Sibilla Aleramo, Gustavo Modena, celebre psichiatra tra i primi ad introdurre l'opera di Freud in Italia, e Giorgio Terni, avvocato e bibliofilo, che guidò la Comunità ebraica di Ancona durante le persecuzioni razziali. Tra le opere più significative in esposizione il "Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini" di Rousseau, nella prima edizione del 1755 stampata ad Amsterdam (fondo Terni), "Gli elementi di psicanalisi" di Edoardo Weiss, uscito nel 1931 per Hoepli (fondo Modena), e "Ebrei senza denaro", prima edizione italiana per Corbaccio (1933), scritta da Michael Gold, tra i più importanti autori della letteratura proletaria statunitense (fondo Del Vecchio). Nel corso dell' inaugurazione della mostra, che resterà aperta fino al 14 dicembre, anche due incontri: uno con Gioia Sturba, dell'Archivio di Stato di Ancona, su "I capitoli del Banco ebraico nell'Ancona del XV secolo", la cui copia è esposta in mostra, e l'altro con il prof. Ercole Sori su "La Comunità ebraica di Ancona". Spazio anche ai bambini con il Museo della Città, che il 16 novembre organizza il laboratorio "Favole dell'altro mondo", e alla cucina ebraica con una conferenza in biblioteca di Frida Russi Di Segni (19 novembre). Stefania Fortuna, docente di Storia della Medicina all'Università Politecnica delle Marche, dedicherà infine una conferenza alla Benincasa alla figura di Modena (3 dicembre).
   
(ANSA, 4 novembre 2014)


2o Marrano's Tour in Castello alla scoperta della Cagliari ebraica

Domenica 9 novembre dalle 9.30 visita guidata con le associazioni Aloe Felice, Aloe Solidale e Turisti per Cagliari. La comunità ebraica, dal 1323 al 1492, viveva nel Vicus Judeorum, dalla via Santa Croce sino alla Torre dell'Elefante.
Le associazioni Aloe Felice, Aloe Solidale e Turisti per Cagliari, organizzano domenica 9, il 2o Marrano's tour, alla scoperta della Cagliari ebraica, che aveva ubicazione nell'antica rocca di sopra.
I partecipanti, riscopriranno nelle viuzze del Castello, le radici dei nostri antenati ebrei, che furono espulsi da Cagliari e dalla Sardegna nel 1492.
Molti di essi, abiurarono la loro fede e si convertirono al cristianesimo, rimanendo nell'isola. Molte espressioni popolari o cognomi, che ancora utilizziamo, discendono dall'ebraico: tra le tante parole, "cenabara" o "nara marranu".
Ci soffermeremo nel groviglio di viuzze, riscoprendo il fascino, le suggestioni, le storie maledette, i misteri dell'antica roccaforte, tra palazzi gentilizi e torri medievali. Si racconterranno gli aneddoti castellani, le storie e legende castellane, gli allumingiusu e il vernacolo Cagliaritano.
Tra i siti ebraici, nel percorso giudaria, ci soffermiamo nella chiesa di Santa Croce ex Sinagoga, nella chiesa di Santa Maria del Monte, ex Sinagoga beccia, i cimiteri giudaici, nella fossa di San Guglielmo.
Si darà risalto ai cognomi sardi di origine ebraica, nonché ai cultori della Cagliaritanità: Giovanni Spano, Enrico Serra, Lorenzo Manconi, Gian Pietro Zara
Raduno: ore 9.30 all'ingresso di Porta Cristina, fine ore 12.
Contributo : 8 euro. I bimbi, gratis
Per info: 340.360.23.65- redazioneap@gmail.com

(Comune Cagliari, 4 novembre 2014)


Gaza - Israele ha autorizzato l'apertura di uno stabilimento della Coca Cola

Finora nella Striscia si produceva soltanto la Pepsi. La fabbrica pronta in sei mesi.

 
I filopalestinesi francesi però sono contrari, perché la Coca Cola è un'icona degli odiati USA, che secondo loro sostengono incondizionatamente Israele. "Il gusto del sionismo. Bere Coca Cola è uccidere Gaza", dice il cartello in francese.

È questione di tempo, ma a breve anche la Coca Cola sarà prodotta e venduta normalmente a Gaza. Israele ha infatti autorizzato un imprenditore palestinese ad aprire uno stabilimento nella Striscia, dando così il via non solo a una maggiore presenza del prodotto, ma anche all'assunzione di centinaia di operai e personale amministrativo, impiegati nella produzione e nella distribuzione della bevanda. Una boccata di ossigeno per le possibilità di lavoro nell'enclave islamica palestinese e per la sua economia.

FINORA SOLTANTO LA PEPSI - A Gaza circolava finora in prevalenza solo la grande concorrente, la Pepsi, prodotta direttamente nella Striscia, mentre era piuttosto difficile trovare la Coca Cola. Quella venduta di norma arrivava da Ramallah. Ma, con i valichi di frontiera controllati da Israele spesso chiusi per motivi poitici e militari, molto spesso era difficile trovarla. Ora il Cogat, l'autorità amministrativa israeliana che controlla i Territori Occupati e l'accesso alla Striscia, ha raccomandato al ministero della difesa di Moshe Yaalon di autorizzare la richiesta dell'imprenditore.

FABBRICA PRONTA IN SEI MESI - La realizzazione dello stabilimento della Coca Cola è prevista nella zona industriale di Karni (Nord della Striscia), a ridosso dell'omonimo valico di frontiera costruito sul lato israeliano nel 1993. Le previsioni parlano di sei mesi per completarlo. Il valico è attualmente chiuso, ma la zona industriale è attiva: grandi spazi e strutture usati sia dalle organizzazioni internazionali, sia dagli imprenditori palestinesi. Nella futura organizzazione, il passaggio di Karni continuerà comunque a restare chiuso. Tutti prodotti e le merci necessarie all'attività della fabbrica passeranno per il confine di Kerem Shalom, tradizionale posto di transito di ogni bene e materiale tra Israele e la Striscia.

(Lettera43, 3 novembre 2014)


Isis: "Istituiremo il Califfato islamico in Sinai. Primo passo verso l'invasione di Gerusalemme"

Lo Stato islamico torna poi a minacciare le forze dell'ordine egiziane

L'Isis annuncia che il Califfato islamico sarà istituito in Sinai e che questa mossa sarà "il primo passo sulla strada dell'invasione di Gerusalemme". Lo Stato islamico torna poi a minacciare le forze dell'ordine egiziane, vittime della strage del 24 ottobre, invitando i jihadisti della regione a "distruggere i check-point e i commissariati di polizia", ad aggredire "le loro adunate e a dimostrare al mondo che bisogna imporre la legge di Dio".
Decapitati otto ribelli siriani - Intanto non si fermano le violenze compiute dall'Isis. Otto miliziani siriani anti-regime sono stati decapitati dai jihadisti nell'est del Paese. Lo riferisce l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) precisando che il crimine è avvenuto ad Albukamal, al confine con l'Iraq. I cadaveri degli otto sono stati poi crocifissi.

(TGCOM24, 3 novembre 2014)


Arrivano gli alberi solari nei parchi

A Ramat HaNadiv gli alberi non mancano, querce, pini e salici costeggiano i sentieri che attraversano il parco naturale nei pressi del Monte Carmelo nel nord di Israele.
E piantato nella ghiaia a bordo di una radura vi è una nuova specie, l'albero ad energia solare. Biologicamente parlando, ovviamente, tutti gli alberi sono alimentati dal sole. Ma questo è diverso.
Il suo tronco e rami di metallo marrone puntano verso il cielo, come l'albero di acacia da cui questo modello prende il nome. Le sue sette grandi "foglie" sono pannelli solari standard. Fa ombra alle panchine sottostanti, così come alimenta le prese elettriche e USB, il raffreddamento dell'acqua di una fontanella e la rete per la connessione wi-fi.
L'inventore Michael Lasry dice che è un nuovo modo di portare l'energia solare alle persone.
"Siamo abituati a vedere le grandi aziende lavorare su sistemi su vasta scala", dice. "Ora vediamo l'energia solare diventare accessibile a ciascuno di noi."
"La gente va nei coffee shop con i computer", ha detto Gideon Inbar, un pensionato presente all'inaugurazione. "Adesso possono venire qui."
"E 'meraviglioso", ha detto Wang Xia, dalla Cina, che ha partecipato alla inaugurazione. "Molte funzioni ed è anche ad energia pulita."
La società di Wang, Mode PV-Tech, ha realizzato i pannelli solari. La società israeliana che ha ideato l'albero, Sologic, sta puntando le città in Cina e in Francia per le prime vendite, dice Claude Brightman, un pubblicista della Sologic.
"Le nuove città di domani, le città intelligenti … questo sarà l'icona della città che ha fatto una scelta del genere," dice.
Brightman lo chiama una combinazione di arte, convenienza, energia verde e comunità - tutte finalità frequenti nella progettazione urbana.
Un albero di sette pannelli solari in grado di generare un massimo di 1,4 kW, sufficienti per alimentare 35 computer portatili. Una batteria immagazzina l'energia in eccesso, illuminando la zona di notte tramite LED e fornendo alimentazione di backup nelle giornate nuvolose.
Un politico israeliano, parlando alla cerimonia di inaugurazione, ha suggerito campi di alberi solari potrebbero essere più belli dei campi di pannelli solari industriali che sono sorti sui tetti e nei deserti. Eli Barnea, un investitore nella più grande azienda elettrica privata di Israele, è d'accordo che sono più belle. Ma lui dice che l'albero solare ha i suoi limiti.
"E 'un'ottima idea per i giovani lontano da casa, vanno al parco, giocano e possono caricare il loro smartphone o fare altre cose."
Ma per utilizzare alberi solari per la produzione di energia seria sarebbe difficile.
"Sarebbe costoso. Quando non lo si intende come mezzo di produzione di energia, ma come un altro elemento in un parco (vedi le panchine solari), penso che prenderà piede in tutto il mondo."
Sologic CEO Lasky non vuole collegare gli alberi alla rete in ogni caso.
I futuri modelli di alberi solari sono progettati per includere tecnologie per condensare l'acqua dall'aria, così come touch screen per visualizzare le informazioni o consentire l'accesso a internet.
E telecamere, dice Lasry, per collegare le persone sotto un albero solare in una parte del mondo con persone sotto un altro albero solare in un altro.
"Questa è l'idea, per avvicinare le comunità. Tutti gli alberi di tutto il mondo sarebbero in grado di comunicare tra loro", dice.

(PPPP.it, 3 novembre 2014)


Un profeta moderno

Traditore e cantore di Israele. Ritratto di Amos Oz, lo scrittore che ha offerto al mondo la normalità sofferente dello stato ebraico. Il Cechov di Gerusalemme che faceva il cameriere in un kibbutz.

di Giulio Meotti

 
Arad
Yigal Schwartz, che ne ha a lungo curato i romanzi presso la casa editrice Keter, ha paragonato Amos Oz a "una sorta di monaco". E i monaci sono attratti dal deserto. Non si può capire lo scrittore israeliano senza quello che circonda la sua città, Arad. Un ammasso di dune di sabbia e rocce rossastre, di agavi e di cactus, ciuffi di macchia mediterranea, rododendri e fichi d'India, tra larghi spiazzi di pietra nuda, d'un colore fra il bianco e il giallo. E' la pietra con la quale re David costruì Gerusalemme. Tremila anni fa. Un deserto allucinante mosso da rilievi color ocra, trinciato da canyon tortuosi. Il cielo manda giù da due a tre centimetri di acqua in un anno; quasi niente.
   Ad Arad, lo stato d'Israele e Amos Oz volevano creare una società di tipo nuovo. Case abitate da contadini e giocatori di scacchi. Ogni casa è una biblioteca, un negozio ogni sette è una libreria. Arad fu pianificata come una città residenziale per professionisti e operai impegnati nelle cave nel mar Morto, nelle industrie chimiche e petrolchimiche, nel centro di ricerche nucleari di Dimona, nelle industrie e nelle università della non lontana Beersheba.
   Per il naturalista, Arad è un paradiso, la caccia è proibita. Vi sono iene, sciacalli, coyote, antilopi Ibex, gazzelle, roditori e insettivori che non si trovano in nessun'altra parte del mondo, scorpioni, tarantole, farfalle rarissime, leopardi e linci. Il deserto, il caldo, la lontananza dal mondo abitato, fanno di Arad il simbolo affascinante della drammatica lotta di Israele per conquistare la terra necessaria a un popolo che da seicentomila unità quando nacque, nel 1948, oggi ne conta sette milioni.
   L'Arad di Amos Oz è come una bandiera lanciata lontano, che la nazione intera si ripropone di raggiungere attaccando dal nord su tutto il fronte, con ogni mezzo, il desolato Negev. Oz ci ha vissuto vent'anni, fino alla scorsa primavera, quando è tornato a dividere il suo tempo con Tel Aviv per stare vicino ai nipoti. Ogni mattina va a fare una passeggiata di mezz'ora in quel deserto. Poi il monaco se ne torna nello studio spoglio, con la scrivania ereditata dal padre, i libri alle pareti, una poltrona e la musica di Bach. Il deserto del Negev è lo specchio dell'anima di Amos Oz: un luogo dove c'è posto per tutti, ebrei e arabi, assenti luoghi di culto e simboli politici, riflette persino l'assenza divina.
   Per la sinistra israeliana, Amos Oz è una sorta di oracolo, di Ulisse, di profeta che porta il nome di quello biblico. Per la destra, è un collaborazionista dei palestinesi, "un bolscevico", come lo ha definito il giornalista Uri Dan, o un "boged", un traditore in ebraico. La prima volta che lo chiamarono così fu quando, a dodici anni, fece amicizia con un soldato inglese, prima che lo stato d'Israele venisse proclamato. La verità dello scrittore non abita in nessuna di queste due definizioni. Piuttosto, la sua storia e i suoi libri (l'ultimo in Italia "Giuda", per Feltrinelli) sono frammenti autografi d'Israele che si ricompongono come i piani sfalsati di una tela cubista, assemblando una prospettiva dissonante.
   Il grande merito di Amos Oz è stato quello di porgere al mondo la normalità sofferente e controversa d'Israele, più che i suoi miti e il suo eroismo. La società palestinese non va al cinema e non va al ristorante, è tutta concentrata sullo scontro. La società israeliana è diversa, vuole seguitare a vivere. La guerra in pace, come la pace in guerra. Di questo parla Amos Oz. E' stato chiamato "il Cechov d'Israele", come lo scrittore russo di origine servile, il medico di campagna incapace di atteggiamenti solenni, il sorriso tra il benevolo e il lievemente ironico, il cantore di
   Quando divenne famoso in tutto il mondo, quarant'anni fa, Amos Oz incarnò l'iconografia israeliana: lo scrittore kibbutznik e il sabra dalla coscienza politica, romantico, generoso, sentimentale. L'epopea sionista diceva che, nel momento in cui gli ebrei avessero fatto ritorno nella terra della Bibbia, sarebbero cambiati anche nell'aspetto, sotto il sole cocente di Eretz Israel. Amos Oz, figlio di genitori dai capelli bruni dell'Europa orientale, era un ragazzo biondissimo. Per questo lo chiamavano "shayges", una parola yiddish che indicava gli ucraini che lanciavano pietre contro gli ebrei nei ghetti europei. Di quella bellezza così unica in medio oriente restano oggi le rughe fitte e sottili ai lati degli occhi turchesi, splendidi.
   Il nonno, in Lituania, aveva chiesto visti alle ambasciate francese, inglese e svedese. Ogni volta gli era stato rifiutato. Lo chiese anche a quella tedesca, un anno e mezzo prima che Hitler salisse al potere. E per fortuna di Oz, anche quella richiesta venne cestinata. Per questo per Oz, Israele è un miracolo. Ma anche un peccato. La pensa come Isaac Deutscher, che commentava così la nascita dello stato ebraico: "Un uomo si trovò a dover saltare dall'ultimo piano d'un palazzo in preda alle fiamme, che avevano già ucciso molti suoi familiari. Poté salvarsi, ma precipitando cadde sopra una persona spezzandogli braccia e gambe. L'uomo saltato dall'edificio non aveva nessun'altra scelta, ma quello con gli arti spezzati vide in lui la causa della sua rovina…".
   Anche Oz non si è mai riconciliato con l'idea che, inverandosi nuovamente nella storia, il regno di Israele avrebbe comportato una sofferenza per un altro popolo. Per questo l'emozione principale che trasmettono i suoi romanzi è quella di una perdita. In Amos Oz c'è un aspetto diurno della personalità, che è sempre israeliano, e un risvolto notturno, che è sempre ebraico. I sogni sono israeliani, gli incubi ebraici.
   Amos Oz non è, come David Grossman, un "writer's writer", uno scrittore per scrittori. Non è un autore cerebrale o manieristico, incarna invece tutti i volti di Israele, la sua sensualità e la sua tragedia, i trionfi e le paure. Oz è l'unico scrittore israeliano che venga dai kibbutz, un microcosmo, come Yoknapatawpha County per William Faulkner, in cui l'amore e la morte se la giocano, un mondo in cui il fallimento umano ricopre un ruolo inevitabile. In Oz, erotismo e dolore sono limiti della stessa tensione amorosa. Il velo di parole che lo scrittore cesella, nella sua sontuosità, racchiude e porge sempre un nodo di morte e dolore. E' la storia di Israele.
   I suoi autori preferiti sono Gogol' e Melville. L'unico narratore ebreo americano che salverebbe è Saul Bellow. Oz è l'unico scrittore israeliano davvero "europeo", paragonato a Dostoevskij dalla critica di tutto il mondo e nello stesso tempo così ferocemente israeliano, nel cuore e nei tratti. I suoi romanzi sono voci di speranza e rassegnazione, vigliaccheria e realismo. I suoi personaggi sono gli intellettuali problematici, cinici e vulnerabili; gli insopportabili piccolo-borghesi narcisisti; i ragazzi la cui massima aspirazione è quella di godersi la vita allontanando "maestri" di ogni genere; i nazionalisti religiosi avidi di soldi; i legulei maneggioni e sullo sfondo qualche figura minore, giusto per dare la battuta agli altri. C'è in ogni sua pagina, con l'intelligenza e la forza di volontà del popolo ebraico, il senso della sua insicurezza, la sua eterna tragedia, i suoi desideri, il suo disappunto e il suo senso di colpa.
   Amos Oz è venuto al mondo come Amos Klausner a Gerusalemme nel 1939. I genitori, Yehuda e Fania, si rivolgevano al figlio nell'ebraico della redenzione e discutevano in russo quando c'erano segreti da custodire (il padre, bibliotecario per mancato ingaggio accademico, parlava dodici lingue e ne capiva sedici). Due seguaci di Ze'ev Jabotinsky, il "lupo solitario" padrino della destra israeliana, così profondamente pessimista sulla tenuta della cultura illuminista, che vide la debolezza del liberalismo weimariano e il suo irenismo cosmopolita che si sarebbe mangiato gli ebrei, che ordinava ai suoi seguaci del Betar di strappare la bandiera nazista dal consolato tedesco a Gerusalemme, il filologo in fuga dalla persecuzione, concentrato di orgoglio e tristezza, rabbia e fierezza, apolide e rivoluzionario morto a New York nel 1940 dopo un'esistenza di lotte e sconfitte.
   La madre introdusse il piccolo Amos all'amore per Tolstoj, Kleist, Maupassant e Flaubert. Lui resterà per sempre segnato dal suicidio di quella madre malinconica. In rivolta con il severo mondo borghese e di destra del padre, Oz se ne andò a vivere nel kibbutz Hulda, affacciato sulle colline della Giudea e fondato su un appezzamento che i pionieri ebrei avevano acquistato da un proprietario terriero arabo. Ebrei seguaci di A. D. Gordon, un visionario tolstoiano dell'Ucraina. E' lì che Amos Klausner ha cambiato nome in "Oz", che in ebraico vuol dire forza. Era un ragazzo emaciato, debole, confuso. Trovò nel kibbutz una replica dello shtetl dell'Europa orientale. Tel Aviv era troppo urbana. Oz voleva le mucche, il radicalismo ideologico, le mele, le discussioni su Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Ma poi ha finito per vivere di libri in un appartamento tappezzato di libri: il destino che per lui avrebbe voluto il padre.
   Il suo primo romanzo, "Michael mio", Oz lo scrisse di notte, chiuso in bagno, fumando una sigaretta dietro l'altra. Voleva diventare un bravo conducente di trattori agricoli, ma non riuscì a resistere alla scrittura. Arrivò il successo ma fu soltanto al quarto romanzo che decise di dedicare quattro giorni alla settimana alla scrittura, due all'insegnamento e uno, la domenica, a lavorare come cameriere nella sala ristorante del kibbutz. Per anni ha devoluto le royalty dei suoi libri al fondo economico del kibbutz. La scelta di trasferirsi nel deserto di Arad arrivò alla nascita del terzo figlio, Daniel. Il bambino soffriva di asma, aveva bisogno di un clima secco. Ma Oz cercava anche un nuovo microcosmo, un'altra piccola diaspora.
   Nel frattempo, serve nell'esercito. Nella guerra dei Sei giorni è un carrista nel Sinai. Nel 1973, guerra dello Yom Kippur, serve al confine con la Siria, sul Golan. Mentre combatte con i siriani, inventa un metodo per non farsi decifrare i messaggi radio dall'intelligence di Damasco. Anziché chiamare le località sul campo di battaglia con nomi o numeri, propone di indicarli con i nomi degli shtetl polacchi da cui proviene la dirigenza israeliana.
   Durante il servizio militare, un giorno Oz lesse un articolo del primo ministro David Ben-Gurion su Spinoza. Dissentì dall'interpretazione che ne dava il fondatore di Israele e scrisse un articolo per replicargli. Il giorno dopo la segretaria di Ben-Gurion chiese a quel giovane scrittore di presentarsi nella residenza del primo ministro. La segretaria gli disse: "Ricordi che è un uomo terribilmente occupato. Non prenda più di dieci minuti del suo tempo". Oz rimase in piedi di fronte alla sua scrivania mentre Ben-Gurion camminava avanti e indietro, facendo a pezzi la sua confutazione. Parlava e parlava, e i dieci minuti svanirono rapidamente. Oz non disse nulla. Alla fine Ben-Gurion gli chiese: "Ha fatto colazione?". E tirò fuori una brocca di succo d'arancia, gli versò un bicchiere, e continuò la tirata. A un certo punto la segretaria interruppe, ricordandogli di un altro incontro. Ben-Gurion si girò e disse: "Non vede che sto avendo una delle conversazioni più interessanti che abbia avuto da anni?". Fu l'inizio di una grande amicizia.
   Negli anni Novanta, Shimon Peres disse che aveva tre possibili eredi alla guida del Partito laburista: il generale Ehud Barak, Shlomo Ben-Ami e Amos Oz. La sua risposta fu che non sapeva pronunciare le parole "no comment", quindi non avrebbe mai potuto fare il politico. C'era anche chi voleva farne il "Vàclav Havel israeliano", l'artista presidente.
   E' con un articolo sul quotidiano laburista Davar che Oz chiede per la prima volta la spartizione della terra di Israele con i palestinesi. Per la seconda volta lo accusano di "collaborazionismo". Nel 1978, fonda Achshav, Pace Adesso, e ipnotizza il paese con lo slogan messianico di "terra in cambio di pace". Ma Oz è anche un pragmatico a cui non è mai piaciuto Yasser Arafat, che ha definito "un misto di Che Guevara e Saladino", e che difende la barriera di sicurezza israeliana, anche se "andava costruita sulla linea del 1967".
   Gli israeliani oggi lo considerano il loro maggiore scrittore, ma come intellettuale è tutto fuori dal "consensus". E' qui il fallimento politico di Oz come specchio e banco di prova dell'élite fondatrice d'Israele
Oz ha sempre cercato di portare alla luce le ferite del paese, le sue contraddizioni, ma sempre di più in modo considerato sovver- sivo e sleale dalla maggioranza dell'opinione pubblica, che si è sentita profondamente ferita da alcune sue prese di posizione.
e di tutti i suoi figli. Oz ha sempre cercato di portare alla luce le ferite del paese, le sue contraddizioni, ma sempre di più in modo considerato sovversivo e sleale dalla maggioranza dell'opinione pubblica, che si è sentita profondamente ferita da alcune sue prese di posizione. Come quando Oz firmò un appello per boicottare il centro culturale della città di Ariel, ventimila abitanti nel cuore dei Territori, la Samaria biblica. Non è considerato fair in un piccolo paese sotto assedio come Israele. O come quando scrisse una lettera un po' troppo accorata a Marwan Barghouti, il capo di Fatah durante la Seconda Intifada, condannato a cinque ergastoli per la partecipazione materiale a numerosi attentati terroristici. O ancora, quando predisse, all'uscita di Israele dal Libano nel 2000, che la parola "Hezbollah" sarebbe scomparsa dal vocabolario. O quando nel 2003, mentre i kamikaze palestinesi insanguinavano le sale da ballo e i ristoranti di Haifa e Gerusalemme, andò a cogliere olive con i contadini palestinesi. Un gesto generoso, ma per l'opinione pubblica israeliana non è altro che disfattismo.
   Eppure la scorsa estate, durante la guerra di Gaza, Oz non ha esitato a schierarsi con il suo governo nella campagna militare contro Hamas: "L'unico modo per respingere l'aggressione è la forza. Un mio parente sopravvissuto a Theresienstadt mi ha ricordato che la sua vita è stata salvata nel 1945 non dai manifestanti per la pace con cartelli e fiori, ma dai soldati sovietici con i mitra". Tutto si tiene in Oz, il patriota come il traditore.
   Cosmopolita a proprio agio nei salotti europei e nelle chattering classes, sofisticato e bohémien, Amos Oz è uno dei grandi vanti del pluralismo intellettuale israeliano, pegno della grande eccezione ebraica in un medio oriente autocratico, buio e fondamentalista. Ma è anche il simbolo di una certa, pericolosa malinconia della bohème pacifista israeliana. Fra i detrattori di Oz, infatti, il più acuto e duro non proveniva dalla destra religiosa, ma dall'establishment letterario: era il maggiore critico culturale d'Israele, quel Baruch Kurzweil morto suicida. Kurzweil scrisse che "Michael mio", il primo, il più discusso e controverso romanzo di Oz, "è più pericoloso per Israele di tutte le armate arabe messe insieme". La protagonista del libro, Hannah Gonen, è rimasta vergine e pura per il geologo Michael fino al matrimonio. Ma nei suoi sogni, Hannah chiede ai gemelli arabi suoi amici, Khalil e Aziz, di stuprarla. Kurzweil capì che c'era qualcosa di sinistro, e allo stesso tempo di ammaliante, di torbido, nell'affresco dei sensi di Amos Oz, in questo desiderio della vittima di essere presa da una forza predatrice, avversa.
   Un gigantesco scrittore dunque, ma come ha detto di sé, anche "il congiurato della tribù" d'Israele.
   
(Il Foglio, 3 novembre 2014)


Tra artisti, letterati e sportivi
ci sono persone di grandi capacità
che sanno dire con grande serietà
le più grandi stupidità.
E' tra quelle Amos Oz?


Oltremare - Fermi tutti
Della stessa serie:

“Primo: non paragonare”
“Secondo: resettare il calendario”
“Terzo: porzioni da dopoguerra”
“Quarto: l'ombra del semaforo”
“Quinto: l'upupa è tridimensionale”
“Sesto: da quattro a due stagioni”
“Settimo: nessuna Babele che tenga”
“Ottavo: Tzàbar si diventa”
“Nono: tutti in prima linea”
“Decimo: un castello sulla sabbia”
“Sei quel che mangi”
“Avventure templari”
“Il tempo a Tel Aviv”
“Il centro del mondo”
“Kaveret, significa alveare ma è una band”
“Shabbat & The City”
“Tempo di Festival”
“Rosh haShanah e i venti di guerra”
“Tashlich”
“Yom Kippur su due o più ruote”
“Benedetto autunno”
“Politiche del guardaroba”
“Suoni italiani”
“Autunno”
“Niente applausi per Bethlehem”
“La terra trema”
“Cartina in mano”
“Ode al navigatore”
“La bolla”
“Il verde”
“Il rosa”
“Il bianco”
“Il blu”
“Il rosso”
“L'arancione”
“Il nero”
“L'azzurro”
“Il giallo”
“Il grigio”
“Reality”
“Ivn Gviròl”
“Sheinkin”
“HaPalmach”
“Herbert Samuel”
“Derech Bethlechem”
“L'Herzelone”
“Tel Aviv prima di Tel Aviv”
“Tel Hai”
“Rehov Ben Yehuda”
“Da Pertini a Ben Gurion”
“Kikar Rabin”
“Sde Dov”
“Rehov HaArbaa”
“Hatikva”
“Mikveh Israel”
“London Ministor”
“Misto israeliano”
“Fuoco”
“I cancelli della speranza”
“Finali Mondiali”
“Paradiso in guerra”
“Fronte unico”
“64 ragazzi”
“In piazza e fuori”
“Dopoguerra”
“Scuola in guerra”
“Nuovo mese”
“Dafka adesso”
“Auguri dall'alto”
“Di corsa verso il 5775”
“Volo verso casa”
“La guerra del Kippur”
“Inverno, autunno”
“Ritorno a Berlino”
“Il posto della cucina”



di Daniela Fubini, Tel Aviv

Questa cosa di bloccare i centro città a ogni piè sospinto è un po' snervante, ammettiamolo. Quando vivevo a Gerusalemme mi ricordo una sera, mentre arrivavo ad attraversare Rehov Gaza, di esser stata fermata da un figuro sbucato dal nulla, vestito di nero integrale e armato fino ai denti. Inutile tentare di chiedere spiegazioni, col mio ebraico allora smozzicato. Simultaneamente si spargeva nel buio gelido il suono di mille sirene in avvicinamento. Ho pensato oddìo, attentato multiplo, decine di morti, ritorno dell'intifada... Poi hanno iniziato a sfilare una dozzina di limousine nere con i vetri oscurati, e un altro passante immobilizzato a lato strada come me ha commentato rassegnato "Condoleeza Rice". Ah. Tutto sto cinema per l'arrivo di una politica? Ma da lì ho imparato. In Israele, a Tel Aviv come a Gerusalemme, le strade principali, naturalmente del cuore del centro città, vengono chiuse, a volte per giorni interi, in occasione degli avvenimenti più strani.
Passi l'arrivo di una super-delegazione che deve fare molto rumore, in tutti i sensi, a partire appunto dalle sirene e spesso elicotteri di scorta. In quei casi si tratta di pochi minuti, e passata la carovana si ritorna ai propri affari. Ma di recente a Gerusalemme han chiuso punti nevralgici della città per fare una corsa di Formula Uno - bloccando la popolazione che, sorpresa sorpresa, a Gerusalemme vive vite più o meno normali, e di norma si sposta da un luogo all'altro liberamente. E non è che a Tel Aviv siamo messi meglio: nell'ultimo mese, per ben tre volte la macro-area intorno a Kikar Rabin è stata chiusa (per fortuna solo al traffico delle macchine) per due lunghe serate, e per una notte intera causa "Night Run".
Si deduce che il potere municipale, in Israele, si dimostra e si esercita anche nel togliere ai cittadini la primaria libertà di andare dove vogliono. Per fortuna, alla rinuncia di quella libertà si accompagnano anche manifestazioni socialmente utili: con tutte queste maratone, i telavivesi diventeranno la popolazione più in forma del pianeta.

(moked, 5 novembre 2014)


Merano - Cimitero ebraico, omaggio ai caduti della Grande Guerra

 
Cittadini dell'Impero Austro Ungarico, morirono sotto i colpi dell'esercito italiano. Lo stesso esercito che rende loro omaggio oggi, quasi 100 anni dopo, nel segno della sofferenza e del dolore che accomunarono i due schieramenti. Onori militari, deposizione di corone, presenza delle più importanti cariche istituzionali (a partire dal sindaco Günther Januth) hanno caratterizzato la prima storica cerimonia di commemorazione delle molte decine di ebrei austriaci che caddero in Trentino Alto Adige durante la Grande Guerra e i cui corpi riposano dal 1931 nel cimitero ebraico di Merano. Un'iniziativa inquadrata all'interno di celebrazioni volutamente omnicomprensive in una regione in cui il tema del conflitto tra diverse identità nazionali ha spesso infiammato lo scontro politico.
Perché Merano? Insediatasi all'inizio del 19esimo secolo, la locale Comunità ebraica è protagonista dell'espansione nella città altoatesina a cavallo tra Otto e Novecento e contribuisce in modo concreto al suo sviluppo non solo commerciale ma anche culturale, turistico, ricreativo. Un dato su tutti: negli stessi mesi in cui avviene la traslazione dei corpi un censimento certifica la presenza di 1293 ebrei in città. Pochi anni e, con l'emanazione delle leggi razziste e con l'inizio delle persecuzioni antiebraiche, quel mondo fiorente verrà quasi del tutto annientato.
A proporre l'apertura di questo nuovo fronte di Memoria il vicepresidente della Comunità ebraica Mirko Wenter, sostenuto dalla presidente (oltre che consigliere UCEI) Elisabetta Rossi Innerhofer. Un'iniziativa, spiega quest'ultima, "immediatamente e positivamente accolta dalle istituzioni".

(moked, 3 novembre 2014)


I crimini di guerra di Hamas

Ora che le ostilità a Gaza sono cessate, almeno per il momento, incominciano a trapelare frammenti di informazioni da parte dei giornalisti che hanno seguito in loco il conflitto. Buona parte delle informazioni fornite conferma le accuse di Israele circa la condotta e la strategia di Hamas, che potrebbe fruttare all'organizzazione terroristica una accusa per crimini di guerra.
L'impiego di scudi umani, lo sbandierare morti e feriti, il fornire dati inventati sulle vittime, il tutto accompagnato da una costante opera di intimidazione dei reporter allo scopo di far emergere sempre e soltanto la versione di Hamas: non si tratta più di propaganda israeliana.
Dei circa 700 giornalisti presenti a Gaza, molti si sono prestati a questa mistificazione, vantando un orientamento ideologico che considerava Hamas il soccombente rispetto al cattivo Israele imperialista e guerrafondaio....

(Il Borghesino, 2 novembre 2014)


Rafah, l'Egitto istituisce una zona-cuscinetto: ventimila persone costrette a lasciare casa

L'Egitto ha deciso di istituire una zona cuscinetto, lunga 13 km e profonda 300 metri, lungo il confine con Gaza per facilitare le operazioni antiterrorismo dell'esercito. Secondo le autorità egiziane, attraverso i tunnel che attraversano il valico passano terroristi, armi e rifornimenti.
L'area è stata interamente svuotata dai residenti: oltre 20 mila persone, 1.500 famiglie, sono state costrette a lasciare le loro case a Rafah, al confine con la Striscia di Gaza. Le loro case sono state rase al suolo.
Il governatore del nord del Sinai, Abdel Fatah Herhour, ha affermato che gli evacuati riceveranno un'indennità di 1.200 sterline egiziane (circa 130 euro) a metro quadro per le case in cemento armato e 600 per le altre. Le case costruite sopra i tunnel che collegano la Striscia non saranno indennizzate.
La maggior parte degli abitanti di Rafah, raccontano testimoni sul posto, ha lasciato la propria casa per trasferirsi da familiari, in attesa di trovare una nuova casa e di incassare l'indennità. Le famiglie sono in lacrime. «Lascio la casa dove sono nato, una casa di tre piani dove vivono anche i miei 4 figli con le loro famiglie e i bambini», ha detto Samir Adib, ex insegnate di 63 anni.
«Siamo stati costretti a partire, nonostante sia stato sempre contro i tunnel, ma è in nome della sicurezza nazionale. Per il momento andrò ad Al Arish (il capoluogo della regione, ndr) da altri membri della famiglia», ha aggiunto. «Il vero dispiacere è per quello che succederà dall'altra parte del confine, nella Striscia di Gaza, che soffocherà in pochi giorni perchè verranno privati di tutto», ha dichiarato dal canto suo una donna di 50 anni che ha richiesto l'anonimato.
Dopo gli attentati del 24 ottobre che hanno provocato una strage di militari egiziani, è stato immediatamente chiuso il valico di Rafah. Il presidente Abdel Fattah al Sisi ha inoltre decretato lo stato d'emergenza nel nord del Sinai dove è stato imposto il coprifuoco dalle 17 alle 7. Alcune famiglie sono state autorizzare a violare il coprifuoco per poter lasciare le loro case, mentre elicotteri Apache continuano a sorvolare la zona.

(Il Messaggero, 2 novembre 2014)


Netanyahu: non cambieremo lo status quo sulla Spianata dell Moschee

Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha ribadito che non vi sarà nessun cambiamento nello status quo della Spianata delle moschee a Gerusalemme, terzo luogo sacro dell'Islam ma anche sito dove sorgevano i due templi ebraici descritti dalla Bibbia. "Siamo impegnati a preservare lo status quo per tutte le religioni", ha detto Netanyahu al termine della consueta riunione domenicale del governo israeliano. "E' molto facile appiccare un incendio religioso, ma è più difficile spegnerlo", ha aggiunto.
Netanyahu è intervenuto dopo che questa settimana la tensione è nuovamente salita a Gerusalemme attorno ai luoghi santi. E questa mattina un deputato dell'ala destra del suo partito Likud, Moshe Feiglin, ha visitato la Spianata, che gli ebrei chiamano Monte del Tempio. Feiglin era scortato dalla polizia ed è stato accolto da grida e insulti di fedeli musulmani.
In base allo status quo in vigore da decenni, la Spianata è gestita dalla fondazione islamica Wafq e gli ebrei possono salirvi, ma non pregare. Giovedì Israele ha chiuso ogni accesso al sito dopo l'uccisione di un attivista palestinese accusato dell'agguato in cui è stato ferito gravemente l'israeliano Yehuda Glick, sostenitore del diritto ebraico alla preghiera sul Monte del Tempio. La decisione ha provocato proteste in tutto il mondo arabo, fra timori di un cambiamento dello status quo, come viene richiesto da settori della destra israeliana. Secondo i media, la dichiarazione resa oggi da Netanyahu è giunta su richiesta della Giordania e del segretario di stato americano John Kerry. L'accesso, seppur limitato alla Spianata, era già stato ripristinato venerdì.

(Adnkronos, 2 novembre 2014)


L'India preferisce le armi israeliane a quelle americane

Gli Usa hanno subito un ennesimo fiasco. L'India ha rinunciato all'acquisto del complesso missilistico anticarro portatile Javelin. E' stata la società israeliana Rafael Advanced Defence Systems ad aggiudicarsi la gara per la fornitura di questo mezzo, infliggendo un'inaspettata sconfitta al complesso bellico industriale americano sul mercati degli armamenti indiano.
Il 25 ottobre il Consiglio per l'acquisto degli armamenti (Defence Acquisition Council) presieduto dal ministro della difesa dell'India Arun Jaitley dopo lunghi dibattiti ha deciso di commissionare in Israele 8356 missili anticarro Spike e 321 rampe di lancio. L'ammontare del contratto d'acquisto è di 32 miliardi di rupie, pari a circa 525 milioni di dollari.
E' significativo che la preferenza agli armamenti israeliani rispetto a quegli americani è avvenuta soltanto qualche giorno dopo l'annunciato allargamento delle forniture militari degli USA in India. E' stato il ministro della difesa degli USA Chuck Hagel in prima persona a fare il lobbista a favore della stipula del contratto di vendita all'India dei missili anticarro Javelin. Nello stesso tempo gli americani stavano tentando l'India con la possibilità di trasferire le tecnologie per la fabbricazione dei missili anticarro. Tuttavia l'India ha messo in dubbio che gli americani davvero potessero cedere delle tecnologie all'avanguardia per la fabbricazione degli armamenti, ritiene Igor Korotcenko, caporedattore della rivista "Difesa nazionale":
La politica dell'India consiste nell'organizzazione della produzione sul proprio territorio a condizione dei contratti di cessione di licenze. E' evidente che gli USA non daranno una simile possibilità all'India. Oppure daranno per quei tipi dei sistemi degli armamenti che non interessano New Delhi.
D'altronde anche gli israeliani hanno mostrato la stessa prontezza alla cooperazione. Il ministero della Difesa dell'India ha comunicato ai giornalisti che Israele trasferirà le tecnologie di fabbricazione dei missili anticarro Spike alla società indiana Bharat Dynamics Limited per organizzarne la fabbricazione su vasta scala. Secondo i calcoli degli esperti indiani, per equipaggiare 382 battaglioni di fanteria e 44 unità meccanizzate di fanteria ci vorranno almeno 40 mila missili anticarro.
Israele opera da molto tempo e con successo sul mercato degli armamenti in India. Nel 2010 la società israeliana Rafael Advanced Defence Systems è stata l'unica società straniera ad aver partecipata alla gara d'appalto per le forniture dei complessi missilistici anticarro portatili all'India. Da allora i militari indiani hanno effettuato i test su vasta scala di Spike, accertandosi della sua efficienza. Tuttavia nel febbraio del 2014 gli USA hanno cercato di far fallire il contratto in via di finalizzazione tra India e Israele, convincendo New Delhi ad acquistare i missili americani Javelin.

(La Voce della Russia, 2 novembre 2014)


Io, ostaggio della cucina yiddish

di Federico Rampini

 
Il ticket
NEWYORK - Non è vero che tutto il mondo è ormai piatto, che la globalizzazione ha cancellato le differenze, che i sapori sono fusi in una contaminazione indistinta. Laboratorio multietnico per eccellenza, luogo di tutti gli incroci, New York riesce tuttavia a coltivare anche dei riti antichi, dei mondi isolati e immutabili. Da Katz's Delicatessen, per non avere rispettato queste tradizioni, io ho rischiato di subire un sequestro di persona. Accadde anni fa in una delle mie prime visite a questo tempio della cucina yiddish, quando dopo una lunga fila d'attesa mi venne infilato in mano, quasi distrattamente, un minuscolo ticket numerato che assomiglia ai biglietti d'ingresso nei nostri cinematografi di una volta. Un pezzetto di carta unto e bisunto, del quale sottovalutai la funzione con gravi conseguenze. Quel ticket conteneva un numero, poi registrato dal brusco cameriere che prendeva le mie ordinazioni (corned beef, pastrami, più maxicetrioloni sottaceto, da insaporire con tanta senape). Solo all'uscita lo sguardo cadde sul vetusto e ingiallito avviso: chi non conserva quel biglietto numerato — dal quale la cassiera deduce il conto finale — deve pagare una somma vertiginosa, l'equivalente dell'aver consumato tre volte tutto il menu. È un po' come se perdi il biglietto d'ingresso sull'Autosole, presumo ti facciano pagare la massima tratta, forse Napoli-Milano. Alle mie proteste intervennero due robusti uscieri-buttafuori afroamericani (la proprietà di Katz's è rigorosamente Jewish ma il personale è multietnico) che m'impedivano l'uscita. Per fortuna ero con una coppia di amici ebrei newyorchesi, lui l'economista Steve Cohen conosciuto a Berkeley. Ci volle una lunga trattativa diplomatica, condotta a regola d'arte, per ottenere la liberazione dell'ostaggio italiano che aveva buttato il ticket (ormai introvabile) in un cestino. Usanze, riti e tradizioni, fanno di Katz's un luogo dove le ricette della cucina yiddish, pur semplici e perfino grossolane, ti riportano in luoghi antichi: l'Europa centrale fra le due guerre, il "mondo di ieri' raccontato con struggente malinconia da Stefan Zweig, poi l'esodo verso il Nuovo Mondo, le atmosfere di Saul Bellow, Philip Roth e Isaac Bashevi Singer. Non tutto, non dappertutto, sopravvive all'implacabile rullo compressore della storia. Che ne sarà, ad esempio, del Waldorf Astoria, acquisito da una compagnia assicurativa cinese il cui top manager è nipote di Deng Xiaoping? Un covo di spie, l'hotel dei presidenti americani? Ma soprattutto: che succederà in cucina?

(la Repubblica, 2 novembre 2014)


Monito dal Congresso ebraico

Se il Kunstmuseum di Berna accetterà il lascito di Gurlitt, sarà travolto da una "valanga di cause"

Il Congresso ebraico mondiale, per bocca del suo presidente Ronald Lauder, ha lanciato un monito al Kunstmuseum di Berna, destinatario del lascito del controverso collezionista tedesco Cornelius Gurlitt, morto a Monaco di Baviera il 6 maggio scorso.
Lauder ha detto al periodico tedesco Der Spiegel che se il museo bernese accetterà l'eredità sarà travolto da una "valanga di cause" da parte dei possibili eredi dei proprietari orginali delle opere: i dipinti della collezione sono circa 1400, tra i quali diversi sottratti in apparenza in modo illegittimo durante il nazismo.
La Germania ha avviato trattative con il museo d'arte, il quale comunicherà la sua decisione il 26 novembre.

(RSI.ch, 2 novembre 2014)


L'ultimo segreto (nero) di Heidegger

Nei «Quaderni» inediti un antisemitismo metafisico. «L'ebraismo mondiale sradica i popoli dall'Essere». La criminalizzazione e la compiacenza assolutoria servono solo ad aggirare la scottante questione della responsabilità per la Shoah.

di Donatella di Cesare

Pubblicati in Germania nella primavera del 2014, i Quaderni neri assomigliano al diario di bordo di un naufrago che attraversa la notte del mondo, rischiarata da profondi sguardi filosofici e potenti visioni escatologiche. Martin Heidegger parla con una cruda libertà, l'occhio teso al futuro. Dal suo «avamposto» si rivolge a nuovi interlocutori che, grazie alla distanza della storia, potrebbero intendere in modo differente quell'epoca tragica dell'Europa. La pubblicazione dei Quaderni neri è stata infatti voluta da Heidegger, quasi a coronamento della sua opera. Qual è allora il significato di questi inediti che vanno dal 1931 al 1941?
   L'intenso dibattito che i Quaderni neri stanno suscitando non solo in Germania, ma anche in Francia, negli Stati Uniti, in Israele, riguarda però soprattutto quello che finora era un non-detto: la «questione ebraica».
Per la prima volta Heidegger parla apertamente degli ebrei e dell'ebraismo. All'indomani dell'offensiva tedesca a est, scatenata da Hitler il 22 giugno 1941, Heidegger annota: «La questione riguardante il ruolo dell'ebraismo mondiale non è una questione razziale, bensì è la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradica-mento di ogni ente dall'Essere il proprio compito nella storia del mondo».
   Heidegger avverte che il tema dell'ebraismo va affrontato nella storia dell'Essere. Qual è il rapporto tra l'Essere e l'Ebreo? Ecco dunque la novità dei Quaderni neri. L'Ebreo è insediato nel cuore del pensiero di Heidegger, nel centro della questione per eccellenza della filosofia. Ma, d'altra parte, proprio all'Ebreo viene ascritto l'oblio dell'Essere, la colpa più grave.
   L'antisemitismo metafisico getta nuova luce sulla adesione di Heidegger al nazismo, che non può essere considerata né un dettaglio biografico né un errore politico. Piuttosto si tratta di una scelta coerente con il suo pensiero.
E di una coerenza esemplare appare anche il suo silenzio dopo la Shoah. L'antisemitismo non è infatti un di più ideologico, ma è il cardine del nazionalsocialismo.
   Di fronte ai Quaderni neri c'è chi si è affrettato a tacciare Heidegger di essere un sinistro oscurantista, chiudendo il tema del totalitarismo con un gesto altrettanto totalitario; dal versante opposto non è mancato chi lo ha già assolto, liquidando immediatamente la questione. Entrambi questi gesti, del tutto inadeguati, sono profondamente antifilosofici. Proprio la gravità dei temi dovrebbe vietare sia la condanna criminalizzante che la reticenza complice, sia l'indignazione morale che la banalizzazione cinica. Eppure in questi mesi si sono moltiplicati giudizi sommari e verdetti apodittici che fomentano il processo postumo a Heidegger. Inaccettabile è lo schema del processo che, soprattutto in Francia, ha assunto tratti imbarazzanti e caricaturali.
   A che cosa servirebbe processare il filosofo? E a chi? La speranza, neppure troppo segreta, di vecchi e nuovi procuratori, è quella di chiudere una volta per tutte con Heidegger. II che consentirebbe anche una resa dei conti con la filosofia continentale, che al suo pensiero si richiama.
   Ma liberarsi di Heidegger significherebbe anche sbarazzarsi dei difficili interrogativi che ha sollevato, aggirare la questione — forse la più complessa? — sulle responsabilità dei filosofi verso lo sterminio. Soprattutto in Germania sono gli scritti più radicali di Heidegger, quelli degli anni Trenta, a incutere timore. Chi definisce «patologiche» le sue riflessioni vuole continuare a rimuovere il nazismo, come se si fosse trattato di una «follia». Al contrario i Quaderni neri possono essere l'occasione per pensare filosoficamente quel che è accaduto, e cioè non solo il Terzo Reich, non solo Auschwitz, ma la «questione ebraica» nella storia dell'Occidente.
   Nel suo antisemitismo metafisico Heidegger non è isolato, ma segue una lunga scia di filosofi.
Se Immanuel Kant aveva accettato gli ebrei come cittadini a condizione di una «eutanasia dell'ebraismo», G.W.F. Hegel li aveva fermati sulla porta dell'Europa e della salvezza: dal punto di vista teologico l'ebraismo doveva essere superato dal cristianesimo, da quello politico gli ebrei erano stranieri privi di terra e di Stato, incapaci di possesso e proprietà. In breve: come cittadini erano «un nulla».
   Come ha detto Hannah Arendt, la «questione ebraica» viene sollevata dal mondo non ebraico che non sa come definire gli ebrei. Appartengono a una religione? Oppure a un popolo? E se costituiscono una «nazione ebraica», allora sono una minaccia. Prenderanno il sopravvento?
Friedrich Nietzsche adombra un'alternativa inquietante: «Ormai non resta loro che divenire i padroni d'Europa oppure perdere l'Europa, come una volta persero l'Egitto». Ma c'è già chi lancia l'allarme: gli ebrei avrebbero subdolamente dato inizio alla guerra contro i tedeschi.
   Da Lutero a Schopenhauer, fino a Hitler, viene ripetuta l'accusa della menzogna: gli ebrei falsificano e mentono. In Mein Kampf la menzogna diventa la chiave per decifrare l'arcano dell'ebraismo: maestri
Solo il popolo tedesco può ten- tare di salvare l'Occidente. E gli ebrei? Per loro non c'è posto, non solo in Europa, ma neppure in una periferia del mondo. ll loro destino non è quello di altri popoli emarginati. Gli ebrei sono esclusi dall'Essere.
dell'inganno, gli ebrei si spacciano per tedeschi, mentre sono «stranieri», fanno credere di essere quello che non sono, mimetizzano il loro non-essere, il loro costitutivo nulla. Proprio questa accusa metafisica ha avuto esiti devastanti.
;La storia dell'Essere, che Heidegger delinea nei Quaderni neri, si dispiega lungo l'asse greco-tedesco. Solo il popolo tedesco può tentare di salvare l'Occidente. E gli ebrei? Per loro non c'è posto — non solo in Europa, ma neppure in una periferia del mondo. ll loro destino non è quello di altri popoli emarginati. Gli ebrei sono esclusi dall'Essere.
   Si può ancora dire che l'antisemitismo sia solo una forma di razzismo? Certo l'Ebreo è il nemico metafisico che dissimula l'essere, lo occulta. Heidegger giunge a denunciare un nesso di complicità tra ebraismo e metafisica. «II motivo per cui l'ebraismo è andato temporaneamente accrescendo il proprio potere è che la metafisica dell'Occidente, almeno nel suo sviluppo moderno, ha offerto un punto di partenza per il diffondersi di una altrimenti vuota razionalità e abilità di calcolo». L'ebraismo si è insediato nello «spirito» dell'Occidente e lo ha minato. Esito ultimo della modernità, il potere ebraico è legato al destino della metafisica. Oltrepassare quest'ultima significa liberarsi anche dell'ebraismo. Sta qui uno dei nodi della visione di Heidegger e una delle novità dei Quaderni neri.
   In modo analogo a Carl Schmitt, che ricorre ai codici della retorica antisemita, Heidegger descrive l'immagine dell'ebreo anche quando parla di «circoncisione del sapere», «abilità di calcolo», «comunità degli eletti». Accusa gli ebrei, privi di radici, di portare lo sradicamento, di desertificare il pianeta, di derazzificare i popoli, cioè di imbastardirli. L'accusa è molto grave: la «autoestraneazione dei popoli» è la strategia che gli ebrei perseguono per realizzare la democrazia, il parlamentarismo, l'uguaglianza e raggiungere cosi il «dominio sul mondo». A questo scopo non combattono lealmente; con l'inganno cancellano i confini e la distinzione amico-nemico. Gli ebrei più temibili sono perciò quelli assimilati.
   Heidegger sembra prendere parte all'impresa di definire l'ebreo nel periodo intorno alle leggi di Norimberga, un'impresa che non impegna solo giuristi e scienziati, dato che le fantasie razziste non sono basate su criteri «scientifici». Invano si cerca di definire l'«essenza» ebraica attraverso una metafisica del sangue. Proprio il filosofo è chiamato a rispondere.
   Privo di mondo, im-mondo, impuro, l'ebreo complotta per il dominio del pianeta. Non può non sorprendere che Heidegger parli di «poteri» che reggono le fila di una inarrestabile «macchinazione». Il «giudeobolscevismo», un messianismo secolarizzato, non è che una realizzazione di quell'occulto potere ebraico che combatte con l'inganno, assumendo figure diverse. In un testo del 1941 scrive: «L'ebraismo mondiale, istigato dagli emigranti, lasciati andar via dalla Germania, è penetrato ovunque, fino ad essere impercettibile e, con tutto quel dispiegamento di potere, non c'è luogo in cui abbia bisogno di prendere parte alle azioni belliche, mentre a noi non resta che sacrificare il miglior sangue dei migliori del nostro popolo».
   Nella sua apocalittica Heidegger vede nell'Ebreo la figura di una fine che si ripete ossessivamente impedendo al popolo tedesco di risalire all'«altro inizio», cioè a un nuovo mattino dell'Occidente. Non diversamente da altri intorno a lui, crede che la Germania, chiamata a difendersi, si costituisca ricollegandosi, oltre a Roma, alla Grecia mai realizzata, quella mistica e arcaica, puramente pagana. Ma l'Imperium si è trovato sempre contro Israele. Il secolare scontro teologico-politico diventa guerra planetaria contro gli ebrei.
   In quegli stessi anni sono gli allievi ebrei di Heidegger, già «emigrati», a riconoscere in quel che sta per accadere un nuovo bellum judaicum. Ma a Hans Jonas non sfugge la differenza: se Roma aveva consentito a un ebraismo politicamente sconfitto di continuare a sopravvivere, ciò non sarebbe accaduto «sotto il tacco della Gestapo». Questo è stato d'altronde il nazionalsocialismo: il primo progetto di rimodellamento biopolitico dell'umanità. Nel non-essere dell'ebreo risuona già l'annientamento. Ma prendere alla lettera le metafore dei filosofi è stato il lavoro dei boia nell'organizzazione burocratica dei campi.
   Dopo i Quaderni neri Auschwitz appare più strettamente connesso con l'oblio dell'Essere. Per quel che riguarda Heidegger, le domande, almeno per chi non cerchi risposte sbrigative, si moltiplicano. Tanto più che a lui si devono quei concetti che oggi consentono una riflessione sulla Shoah: dal dispositivo alla tecnica, dalla banalità del male alla «fabbricazione dei cadaveri». 11 suo errore è stato filosofico prima che politico, e cioè il cornpromesso con la metafisica che lo ha spinto a definire l'essenza dell'Ebreo, piuttosto che a scorgere in questo altro, così prossimo, il varco verso un nuovo oltre. Se in seguito avesse riconosciuto l'evento traumatico dl Auschwitz, avrebbe lasciato che quel trauma mandasse in frantumi la storia dell'Essere.

(Corriere della Sera, 2 novembre 2014)


Ieri a Gerusalemme ancora scontri nel «giorno dell'ira» dei musulmani

di Fiamma Nirenstein

 
Netanyahu commenta l'attentato di ieri a Gerusalemme  
GERUSALEMME - Gerusalemme è nella fantasia di ognuno, di tutte le religioni e di tutti i popoli, è un luogo che desta gelosie e odio, è la culla del monoteismo che è terra contesa, Gerusalemme è il luogo dove tutti sono stati, dove tutti vogliono andare, la città di Abramo e Davide, di Cristo, di Maometto. La Spianata delle Moschee, ovvero il Monte del Tempio, è sempre il centro della battaglia per la città, e anche ieri lo è stata.
   Qui la guerra non finisce mai, anche se per le strade sempre fiorite, sulle pietre grigie, sul panorama glorioso lo svolgersi del tempo quasi non si sente. Ieri, come nei giorni passati, sono volate pietre e bombe molotov, mentre la polizia cercava, con caschi e scudi, gas e spintoni di bloccare migliaia di giovani islamici che cercavano di sfondare i blocchi verso la Moschea di Al Aqsa. Per fortuna ci sono stati pochi feriti e pochi fermati, i disordini sono dietro l'angolo, letteralmente. Tutto può accadere, e tutto è successo in questi giorni. Venerdì è il giorno della preghiera collettiva dei musulmani, giovedì sera Israele aveva deciso di chiudere la Spianata per evitare scontri e lanci di pietre sugli ebrei al Muro del Pianto. Ma il coro in difesa dello Status Quo ha fatto riaprire la Spianata ai musulmani maggiori di 50 anni e alle donne. Ne sono entrati circa 5000 mentre in Città Vecchia e nei quartieri di Gerusalemme est i giovani inginocchiati sui tappetini di preghiera occupavano le vie. Probabilmente quello che ha indotto il governo a riaprire per il venerdì è la minaccia della Giordania di rivedere il trattato di pace di vent'anni fa: il re Abdullah è l'affidatario legale, mentre di fatto il Mufti palestinese le guida, delle antichità musulmane di Gerusalemme, proprietà del Waqf, che controlla la spianata centellinando le visite e proibendo ogni preghiera. L'agitazione nasce da una serie di fatti: la vecchia origine è nel rapimento e assassinio dei tre ragazzi ebrei e poi nell'uccisione crudele di un ragazzo palestinese. Più vicino però, l'attacco su un'auto, di un terrorista, Rahman Shaloudi, alla folla che scendeva dal tram: una neonata uccisa, sette feriti fra cui una ragazza, poi morta. La polizia ha ucciso Shaloudi per fermarlo, ma mentre sulla sua casa sventolava la bandiera di Hamas che rivendicava l'attentato, Israele è stata accusata di aver ucciso un innocente. Da qui, scontri e lanci di pietre, mentre a Gerusalemme l'auto è diventata un'arma. Mercoledì sera, invece Moataz Hejazi, un palestinese di 32 anni, per 12 anni in prigione, membro della Jihad Islamica si è avventato in moto, nel centro, sull'attivista Yehuda Glick, ferendolo gravemente con tre spari. Glick è un attivista del Monte del Tempio, sostiene senza sosta che anche gli ebrei e i cristiani devono poter pregare sulle loro vestigia. Ma sarebbe una violazione dello Status Quo. Hejazi ha dimostrato con tre colpi che non si può. Di notte la polizia ha trovato l'attentatore, l'ha circondato, Hejazi ha sparato, la polizia l'ha ucciso. Da qui di nuovo scontri, mentre i proiettili verificavano l'identità del terrorista. Di nuovo la città est è insorta rivendicando l'eroismo dello shahid, Hamas e Jihad l'hanno fatto loro, Abu Mazen non ha condannato, e ha invece chiamato al «giorno dell'ira» per la chiusura delle Moschee. Ismail Hanjeh, il capo di Hamas, ha dichiarato gli ebrei vogliono distruggere le Moschee. Una sarabanda di esclamazioni confuse, incendiarie da cui emerge che Abu Mazen pensa di potere ricavare dei dividendi politici potenti se insiste sul fatto che Israele vuole cambiare lo Status Quo.
   Nel 1967 Moshe Dayan, conquistata la Città Vecchia, esclamò: «E ora che ce ne facciamo di tutto questo Vaticano?». La decisione presa fu di riconsegnare all'Waqf la gestione della Moschea di Al Aqsa. Gli ebrei facendo questo avevano sacrificato anche la loro anima, la memoria del Tempio meraviglioso distrutto dai Romani nel 70 d.C. L'Waqf ha fatto di tutto per cancellarne la memoria, anche quella archeologica molto evidente, testimoniata da Flavio Giuseppe come da Tacito. Arafat ha inventato che gli ebrei non sono mai stati a Gerusalemme, che prima delle Moschee c'era il nulla. Clinton, quando Arafat gli propose questa sua verità, minacciò di lasciare la stanza. Ma già si preparavano schiere di seguaci.

(il Giornale, 1 novembre 2014)


Se torna l'antisemitismo

In Europa l'ostilità e le aggressioni contro gli ebrei sono in aumento. Alla base ci sono pregiudizi antichi, che oggi trovano un pretesto nella politica israeliana in Palestina e si alimentano con il risentimento dei giovani immigrati musulmani.

di Jim Yardley *

Dai quartieri degli immigrati alla periferia di Parigi alla piovosa e burocratica Bruxelles fino al cuore industriale della Germania: nell'estate del 2014 il vecchio demone dell'Europa ha rialzato la testa. "Morte agli ebrei" e "Gli ebrei alle camere a gas", gridavano i manifestanti in alcuni cortei per la Palestina in Belgio, Francia e Germania. Quelle minacce terribili sono state superate da violenze ancora più brutali. A maggio quattro persone sono state uccise a colpi d'arma da fuoco davanti al museo ebraico di Bruxelles. A luglio a Sarcelles, nella periferia di Parigi, una farmacia di proprietà di ebrei è stata distrutta da giovani che protestavano contro la campagna militare israeliana nella Striscia di Gaza. Negli stessi giorni a Wuppertal, in Germania, una sinagoga è stata attaccata con bottiglie molotov. E l'elenco potrebbe continuare.
   Queste aggressioni hanno suscitato allarme sui cambiamenti in corso in Europa, spingendo molti a chiedersi se il continente sia ancora un posto sicuro per gli ebrei. Intanto il numero di ebrei che emigrano in Israele è in aumento, anche se la cifra totale rimane relativamente modesta. E nei quartieri musulmani di alcune città europee ci sono zone dove gli ebrei non si azzardano a entrare. A suscitare preoccupazione è anche un pregiudizio antiebraico più insidioso perché più sfumato, che oggi sembra farsi strada nella mentalità degli europei indebolendo l'impegno, contratto unanimemente nel secondo dopoguerra, a estirpare l'antisemitismo. In questa situazione bisogna chiedersi se nella società si stia verificando un cambiamento sottile che rende più accettabili i commenti e i comportamenti ostili agli ebrei. "Il timore è che ormai certe cose si possano dire apertamente, senza che nessuno batta ciglio", dice Jessica Frommer, un'ebrea laica di 36 anni che lavora per un'organizzazione non profit di Bruxelles. "L'Europa moderna è nata per impedire il ripetersi di quello che è successo nella seconda guerra mondiale. Ma oggi c'è gente che grida morte agli ebrei' davanti al parlamento europeo".
   L'Europa di oggi, pert), non è quella del 1938. I leader politici francesi hanno condannato energicamente le violenze, e a settembre la cancelliera tedesca Angela Merkel ha guidato una manifestazione in cui ha dichiarato ai suoi concittadini: "È un nostro dovere nazionale e civico combattere l'antisemitismo".

- La piccola Gerusalemme
  L'Europa assiste a proteste e a rigurgiti di ostilità verso gli ebrei ogni volta che il conflitto israelo-palestinese torna a infiammarsi. Secondo alcuni analisti, le manifestazioni di rabbia di quest'estate sono episodi destinati a sgonfiarsi come già successo in passato. Altri osservano che i casi di antisemitismo denunciati quest'anno, per esempio in Francia, sono stati meno numerosi di quelli registrati in alcuni anni
Mentre in Europa cresce il sostegno alla causa palestinese e le critiche verso Israele si fanno più aspre, molti ebrei denunciano che il confine tra essere anti-israeliani ed essere ostili agli ebrei tout court è sempre più fragile.
dello scorso decennio. Tuttavia, mentre in Europa cresce il sostegno alla causa palestinese e le critiche verso Israele si fanno più aspre, molti ebrei denunciano che il confine tra essere anti-israeliani ed essere ostili agli ebrei tout court è sempre più fragile. Con il continente ancora scosso dalla reazione populista contro le politiche di austerità, negli ambienti ebraici alcuni dicono di sentirsi politicamente isolati e privi di un'appartenenza ideologica. Molti partiti di sinistra sono su posizioni anti-israeliane, mentre spesso le formazioni di destra, alcune delle quali hanno radici antisemite, sono violentemente ostili agli immigrati. Numerosi ebrei francesi e belgi che hanno votato per partiti di sinistra ne temono però la debolezza e la crescente dipendenza dall'elettorato musulmano in rapida espansione. Il problema è che, perfino tra quelli che condannano il razzismo in ogni sua forma, la lotta contro l'antisemitismo non è più considerata una priorità: paragonati ai musulmani e ad altre minoranze che subiscono discriminazioni, gli ebrei sono spesso visti come dei privilegiati.
   In Europa molti giovani musulmani avvertono un forte senso di alienazione. Non riuscendo a trovare lavoro e a sentirsi accettata, una parte di loro, minoritaria ma molto rumorosa, ha cominciato a indignarsi per la situazione politica del Medio Oriente e in particolare per il conflitto israelo-palestinese. Oggi i leader europei temono che l'islam radicale, nato e cresciuto in Medio Oriente, possa diffondersi anche in Europa. Mehdi Nemmouche, il francese di fede musulmana arrestato per l'attentato al museo ebraico di Bruxelles, aveva combattuto in Siria con i jihadisti. "Siamo diventati un modello in scala del Medio Oriente", sostiene Philip Carmel del Congresso ebraico europeo. "Stiamo importando il Medio Oriente in Europa".
   Visitando i luoghi dove si sono verificati gli ultimi episodi di violenza si ha un quadro chiaro di questo "nuovo antisemitismo", come lo ha chiamato il primo ministro francese Manuel Valls. A Sarcelles si avverte subito che gli immigrati e le minoranze vivono emarginati.Anhe a Bruxelles il clima sta cambiando: alcuni ebrei non osservanti ci hanno detto che stanno pensando di lasciare il paese. E a Wuppertal, una città tedesca da sempre impegnata a favore delta diversità religiosa ed etnica, il tentativo di incendiare una sinagoga ha rivelato l'esistenza di profonde tensioni.

- Minoranze e religioni
  Il pomeriggio del 20 luglio il quartiere ebraico di Sarcelles, conosciuto come la Petite Jérusalem, è piombato in un clima da assedio. Durante una manifestazione filo-palestinese, che il ministro dell'interno Bernard Cazeneuve aveva cercato di vietare, sono scoppiati disordini: alcune macchine sono state incendiate, diversi manifestanti hanno lanciato sassi contro la polizia, che ha risposto con i lacrimogeni, e una farmacia di proprietà di ebrei è stata data alle fiamme. "Noi eravamo tutti qui, per difendere la sinagoga", racconta Levi Cohen Solai, 21 anni, che con altri ragazzi ebrei ha formato una catena umana intorno all'edificio. Alla fine la polizia ha fermato i manifestanti, impedendogli di raggiungere la sinagoga. Ma Sarcelles è diventata il simbolo del nuovo antisemitismo francese.
   Molti dei suoi abitanti, però non ci stanno. Nei palazzoni di edilizia popolare di questo sobborgo operaio di Parigi vivono stipate generazioni di immigrati. Sarcelles è un vero crogiolo di religioni ed etnie che, a detta di molti, convivono pacificamente. Secondo molti abitanti del posto la manifestazione, organizzata da gente estranea al quartiere usando i social network, è stata un attacco nei confronti non solo di Sarcelles, ma dell'intera Francia. La disoccupazione giovanile è in vertiginoso aumento in tutto il paese (e in particolare nelle aree dove vivono gli immigrati) e molti figli e nipoti di immigrati, anche se nati in Francia, si sentono tagliati fuori dalla società, al punto da "provare un vero odio nei confronti dello stato", spiega Bassi Konaté, un assistente sociale che lavora per il comune. "Molti dei manifestanti", racconta, "sono arrivati dai quartieri vicini, più poveri. Molti di loro si sentono abbandonati dalle istituzioni e non sanno nulla di Gaza: avevano semplicemente voglia di scontrarsi con la polizia".
   Un primo segnale della trasformazione di questo malcontento in esplicito antisemitismo si è avuto qualche anno fa con il successo del comico francese Dieudonné Mbala Mbala, che nei suoi spettacoli se la
Sono quattro o cinque anni che viviamo in un clima d'insicurezza crescente", spiega David Harroch, proprietario di una libreria ebraica a Sarcelles. "I miei clienti hanno paura. In molti hanno lasciato il paese".
prende con gli ebrei e minimizza la Shoah. Nel corso degli anni Dieudonné si è anche avvicinato a Jean-Marie Le Pen, il fondatore del partito di estrema destra Front national. Molti dei suoi show sono stati vietati, ma la sua popolarità ha continuato a crescere.
Sono quattro o cinque anni che viviamo in un clima d'insicurezza crescente", spiega David Harroch, proprietario di una libreria ebraica a Sarcelles. "I miei clienti hanno paura. In molti hanno lasciato il paese". Le autorità israeliane prevedono che alla fine del 2014 seimila ebrei francesi saranno emigrati in Israele. Una netta inversione di tendenza rispetto agli anni cinquanta, quando gli ebrei sefarditi, gli arabi e altri immigrati dal Nordafrica cominciarono a stabilirsi nella zona. A quell'epoca la Francia era in pieno boom economico e il lavoro abbondava. Poi, a partire dalla recessione degli anni settanta, le diverse comunità hanno cominciato a contendersi le sempre più esigue risorse pubbliche.
   Secondo Rahsaan Maxwell, un politologo che ha studiato la composizione etnica di Sarcelles, i sefarditi hanno suscitato il risentimento delle altre comunità perché meglio organizzati e quindi più capaci di mobilitarsi per strappare qualche concessione all'amministrazione locale: per esempio la creazione di un settore riservato agli ebrei nel cimitero locale; l'ampliamento della strada che costeggia la sinagoga; l'inclusione di piatti kasher nel pranzo offerto ogni anno dal comune agli anziani; e infine turni separati per maschi e femmine alla piscina comunale. Nel libro Ethnic minority migrants in Britain and France, Maxwell ricorda che negli anni settanta i sefarditi di Sarcelles acquisirono una grande influenza, arrivando a usare "la guerra contro il Libano del 1982 come cartina di tornasole per misurare il sostegno dei politici locali a Israele e agli ebrei". Eppure molti ebrei e musulmani nati in quel periodo sono cresciuti insieme nelle case popolari senza problemi o conflitti.
   Non lontano da una delle moschee di Sarcelles, ospitata in un vecchio negozio, c'è un piccolo supermercato di proprietà di una famiglia musulmana. Dietro al bancone uno dei proprietari, Abdel Badaz, chiacchiera con il suo amico d'infanzia Mickaèl Berdah, un ebreo di 36 anni la cui famiglia è immigrata dalla Tunisia. Entrambi criticano la manifestazione degenerata in scontri, dando la colpa ad alcuni giovani teppisti. "In questo quartiere ci siamo cresciuti e conosciamo tutti: tanto odio non l'avevamo mai visto", dice Berdah. "Un odio simile ha radici profonde, dipende dal modo in cui certi genitori educano i figli".
   Poco dopo un ragazzo in bicicletta viene verso di noi e ci grida di andarcene: i giornali - dice - hanno raccontato un sacco di bugie su Sarcelles. Poi si calma. Si chiama Diakité Ismael, ha i9 anni ed è nato in Francia da immigrati senegalesi. Come gli altri, conferma che nel quartiere tra musulmani ed ebrei non c'è ostilità. "Guardate, eccone uno", dice indicando un ebreo con la barba lunga, la kippà e un caffettano nero che passa per strada.
   Quando però gli facciamo una domanda sulla guerra nella Striscia di Gaza, Ismael si accalora di nuovo e comincia a sostenere che il mondo sta correndo verso la catastrofe. Ci racconta di aver visto un video girato laggiù in cui una bomba israeliana cadeva sui partecipanti a un funerale. "Non so, certi ebrei controllano la politica, l'informazione, l'economia e la finanza", dice. "Non parlo degli ebrei di qui. Parlo degli ebrei in generale". Poi aggiunge: "Ti fanno vedere solo quello che vogliono farti vedere".

- Il peso della fede
  Il 21 settembre a Bruxelles c'è stata, come ogni anno, la giornata senz'auto. Ciclisti e pedoni sono diventati padroni della città. Per qualche ora ha regnato un clima allegro e spensierato, quasi da fiera di paese. Non perle organizzazioni ebraiche di Bruxelles, pert): la polizia aveva imposto misure di sicurezza più stringenti del solito, a causa di due episodi avvenuti poco tempo prima. II primo si era verificato la domenica precedente, il i4 settembre, data in cui si celebra la giornata europea della cultura ebraica. La cerimonia per la posa di una targa che inaugurava un memoriale per le vittime della Shoah era stata disturbata da alcuni giovani che avevano lanciato sassi e bottiglie. Tre giorni dopo, nel quartiere di Anderlecht, era andato a fuoco il piano superiore di una sinagoga: le autorità inquirenti sospettano che si sia trattato di un incendio doloso.
   A maggio, poi, c'era stato l'attentato davanti al museo ebraico, che ha attirato su Bruxelles l'attenzione di tutto il mondo: quattro persone, compresi due israeliani, uccise a colpi di arma da fuoco. In tutto il paese ci sono stati anche altri episodi di minore gravità, passati quasi inosservati. A Liegi un negoziante turco ha affisso un cartello in cui si diceva disposto a servire i cani ma non gli ebrei. A febbraio, su un treno da Namur a Bruxelles, gli altoparlanti hanno trasmesso una comunicazione che annunciava la fermata di Auschwitz e invitava tutti gli ebrei a scendere.
   "Quest'estate ho cominciato a vedere il mondo sotto una luce diversa", racconta Marco Mosseri, un ebreo italiano che lavora a Bruxelles. "Avevo paura. Ho passato diverse notti insonni. Per la prima volta ho pensato che potevo morire per via della mia religione".
   Con i suoi negozi di cioccolato, le sue birrerie e il tipico cima grigio, Bruxelles è il cuore della burocrazia europea, simbolo delle odiate politiche di austerità. Ma è anche un osservatorio privilegiato per capire le tendenze demografiche che stanno trasformando gran parte dell'Europa urbana, dove gli immigrati
Alcuni ebrei della comunità belga hanno smesso di portare al collo la catenina con la stella di David e impediscono ai figli di indossa- re sugli autobus o in treno le magliette dei centri estivi ebraici.
musulmani rappresentano ormai circa un quarto della popolazione. La comunità ebraica belga è piccola: conta circa 20mila persone, quasi tutti ebrei integrati e laici come Mosseri, solitamente restii a ostentare la propria appartenenza. Alcuni di loro ci hanno confessato che hanno smesso di portare al collo la catenina con la stella di David e che impediscono ai figli di indossare sugli autobus o in treno le magliette dei centri estivi ebraici. Molti sottolineano come con la guerra nella Striscia di Gaza la scorsa estate i social network, e in particolare Facebook, si siano trasformati in un serbatoio di odio. "Ho degli amici che non si sono mai occupati di politica e che all'improvviso si sono messi a postare ogni giorno qualcosa su Gaza", racconta Jessica Frommer, che lavora per un'ong. "Sembrava un'ossessione. È perché vi stanno a cuore quei bambini o perché avete un problema con gli ebrei?".
   In una città che vive di politica come Bruxelles, affrontare la questione di Israele pub sembrare inevitabile per alcuni ebrei, anche per quelli che si sforzano di mantenersi politicamente neutrali o che tendono a criticare il governo israeliano. Frommer cresciuta nella capitale belga, ma ha studiato nel Regno Unito e per lavoro ha vissuto a lungo in Cambogia. Quando è tornata a Bruxelles, nel 201=, è rimasta impressionata da quanto le posizioni fossero polarizzate: i suoi amici ebrei stavano sempre più tra di loro, e chiacchierando con i colleghi non ebrei erano sempre più frequenti le battute cattive. Una volta un collega belga ha cercato insistentemente di coinvolgerla in un dibattito sul conflitto israelo-palestinese. "Io provavo a evitare l'argomento, ma lui tornava all'attacco di continuo", racconta Frommer. "Poi ha cambiato argomento e da Israele è passato a parlare degli ebrei. Alla fine mi sono sentita chiedere: Ma è proprio vero che nella seconda guerra mondiale sono stati ammazzati sei milioni di ebrei?". Non è stato un commento isolato. Da molti segnali si capisce che le critiche a Israele per l'offensiva di quest'estate nascondono sentimenti antiebraici. In Ungheria, per esempio, l'ascesa del partito di estrema destra Jobbik ha suscitato il timore che le idee antisemite stiano prendendo piede nella maggioranza della popolazione, mentre in Italia sui muri di alcune città sono comparsi graffiti antiebraici e svastiche.

- Conflitti a Bruxelles
  Quest'estate a Bruxelles si sono tenute diverse manifestazioni a favore della Palestina. La maggior parte è stata pacifica, ma in qualche caso ci sono stati atti di carattere antisemita e in un corteo si è perfino
I politici belgi hanno condannato sl'attacco al museo ebraico, ma la reazione alle proteste violente, anche da parte dei socialisti, è stata troppo tiepida. "I socialisti hanno paura per motivi elettora- li": non vogliono esporsi perché hanno molti elettori musulmani".
sentito lo slogan "Morte agli ebrei". I politici belgi hanno condannato senza esitazione l'attacco al museo ebraico, ma secondo alcuni cittadini ebrei la reazione alle proteste violente, anche da parte dei socialisti, è stata troppo tiepida. "I socialisti hanno paura per motivi elettorali", sostiene Maurice Sosnowski, figura di spicco della comunità ebraica di Bruxelles. "Non vogliono esporsi perché hanno molti elettori musulmani".
La politica israeliana ha anche reso più difficile mantenere la lotta all'antisemitismo tra le priorità delle ong attive a Bruxelles. "C'è chi pensa che combattere l'antisemitismo sia in contraddizione con le altre lotte antirazziste", osserva Robin Sclafani, direttrice dell'ong Ceji (A Jewish Contribution to an Inclusive Europe). L'associazione, con sede a Bruxelles, fornisce a insegnanti e operatori sociali corsi di formazione contro le discriminazioni. Sclafani spiega che ultimamente sta ricevendo molte richieste per seminari sulla lotta alle discriminazioni contro i musulmani, mentre l'interesse per i corsi sull'antisemitismo è scarso: "Non ci viene nessuno", racconta. Secondo Michaèl Privot, direttore della Rete europea contro il razzismo (Enar), dare la colpa dell'antisemitismo esclusivamente ai gruppi islamici significa però ignorare gli studi secondo cui i pregiudizi sono radicati tra tutti i belgi e gli europei. Il rischio, sostiene Privot, è fare il gioco dei gruppi di estrema destra, offrendogli un'occasione d'oro per puntare il dito contro i musulmani e proclamarsi innocenti".
   Il 21 settembre, mentre gran parte degli abitanti di Bruxelles si godeva le strade senza auto, abbiamo parlato con un gruppo di ebrei laici della vita quotidiana in città. Per motivi di sicurezza, all'ingresso c'erano tre poliziotti in borghese. Come molti altri presenti, anche Frommer ha ammesso di sentirsi spesso isolata. Quand'era adolescente partecipava con i suoi coetanei alle attività dei gruppi ebraici giovanili di sinistra. Oggi alcuni suoi amici sono attratti dal partito dell'estrema destra fiamminga Vlaams Belang, guidato da Filip Dewinter. Da sempre apertamente ostile all'immigrazione musulmana, da qualche tempo Dewinter si è messo a corteggiare la comunità ebraica, nonostante le vecchie simpatie antisemite del suo partito. "Non potrei mai votare per una persona del genere", dice Frommer. "Eppure alcuni ebrei lo fanno. Votare l'estrema destra sta diventando sempre più accettabile". Molti dei suoi amici stanno meditando di trasferirsi in Canada o negli Stati Uniti, o perfino in Israele, anche se non riescono a capire se le loro ansie siano davvero giustificate. "Sono persone che hanno un buon lavoro", osserva Frommer. "E qui si vive bene. Il grande interrogativo è: dobbiamo farci prendere dal panico oppure no?".

- Vecchi fantasmi
  Erano le prime ore della mattina del 29 luglio quando la notizia si è diffusa tra gli ebrei di Wuppertal, in Germania. Qualcuno aveva lanciato bombe molotov contro la sinagoga della città. Ma l'incendio non era scoppiato e l'edificio aveva subito pochi danni. A subire un trauma sono state invece le persone che la frequentano. "Per gli ebrei tedeschi, e specialmente per noi, l'attentato suscita echi molto, molto profondi", spiega Artour Gourari, imprenditore di Wuppertal e membro della comunità ebraica locale. "Le sinagoghe che tornano a bruciare di notte in Germania".
   Nel dopoguerra in nessun paese europeo l'imperativo di combattere l'antisemitismo fu così sentito come in Germania, dove si è anche intrecciato con il riscatto nazionale dopo il nazismo. La sinagoga di Wuppertal era stata incendiata già nel 1938, durante le due giornate di furia distruttiva passate alla storia con il nome di Kristallnacht (la notte dei cristalli), in cui l'intera Germania fu teatro di un enorme pogrom antiebraico.
   Alla fine della guerra la comunità ebraica di Wuppertal non aveva una sinagoga e, contando appena sessanta membri, sembrava destinata all'estinzione. Ma negli anni novanta, con la disgregazione dell'Unione Sovietica, il governo tedesco ha aperto le porte agli ebrei sovietici e in città si sono stabiliti profughi provenienti dall'Uzbekistan, dall'Ucraina, dalla Russia e dalla Bielorussia. La popolazione ebraica ha così raggiunto le 2.500 persone. E nel 2002 è stata finalmente inaugurata la nuova sinagoga.
   Oggi nei giardini di fronte all'edificio staziona un furgoncino della polizia. Quanto all'attentato, sono stati arrestati tre sospetti, tutti palestinesi, tra cui un uomo proveniente da Gaza e un rifugiato di 17 anni che aveva vissuto in città all'interno delle diverse comunità musulmane di turchi, nordafricani e persone fuggite da Egitto, Siria, Giordania e Libano. Fino all'attentato, le autorità cittadine si proclamavano orgogliose della convivenza pacifica di tante religioni ed etnie diverse. Molti dei musulmani più anziani arrivarono a Wuppertal per lavoro negli anni sessanta, pensando che un giorno sarebbero tornati in patria. I loro nipoti, nati in Germania, oggi crescono con aspettative diverse e con un forte senso di frustrazione: "Sono ragazzi che si trovano a dover giustificare il motivo per cui non appartengono del tutto alla società in cui vivono", afferma Samir Bouaissa, esponente della comunità musulmana locale.
   A Wuppertal c'è un liceo intitolato a una famosa poetessa ebrea tedesca, Else Lasker-Schüler. E conosciuto da tutti come "la scuola senza razzismo". Due ragazzi diplomati da poco, tuttavia, parlano di
Una ragazza di 19 anni spiega che gli studenti estremisti sono una piccola minoranza, ma che ormai è sempre più diffuso un tipo di pregiudizio più sottile: "Nella mia scuola la parola ebreo è usata come un insulto".
tensioni nelle classi, soffermandosi in particolare sul malcontento mostrato da alcuni studenti musulmani per il recente gemellaggio con una scuola israeliana. Una ragazza di 19 anni che ha appena preso la maturità, Antonia Lammertz, ci spiega che tra gli studenti gli estremisti sono una piccola minoranza, ma sottolinea che ormai è sempre più diffuso un tipo di pregiudizio più sottile. "Nella mia scuola la parola ebreo è usata come un insulto", racconta Lammertz, evidenziando un problema che le autorità tedesche hanno cercato di sradicare da molte scuole del paese.
   La reazione degli esponenti religiosi di Wuppertal all'attentato è stata tempestiva. Imam e sacerdoti cristiani si sono precipitati sul posto per ribadire il proprio appoggio alla comunità ebraica, e oltre trecento persone hanno partecipato a una manifestazione per la pace indetta in fretta e furia per il giorno seguente. "La gente era sconvolta", ricorda Samir Bouaissa. "Una minaccia contro uno dei nostri luoghi di culto è una minaccia contro tutti noi".
   All'inizio di settembre i leader religiosi di Wuppertal, compresi quelli musulmani, hanno subito un altro shock: un gruppetto di uomini ha organizzato delle ronde per pattugliare le strade di un quartiere musulmano. A quanto pare non ci sono stati riferimenti agli ebrei. Gli uomini indossavano giubbotti arancioni con su scritto "polizia della sharia" ed erano guidati da Sven Lau, un salafita che ha parlato di un gesto pubblico estemporaneo che voleva animare il "dibattito tra i musulmani". Se lo scopo era questo, è stato raggiunto. La procura ha aperto un'inchiesta. Le autorità tedesche, compresa la cancelliera Merkel, hanno reagito con un misto di sorpresa, indignazione e allarme. Hanno protestato anche i musulmani moderati. E i neonazisti, che non mancano neanche a Wuppertal, hanno risposto organizzando una ronda per "proteggere i cittadini dagli islamisti".
   Per Leonid Goldberg, presidente della comunità ebraica di Wuppertal, la presenza di una frangia di islamisti radicali non è cosa sorprendente. Appena quattro giorni prima dell'attentato alla sinagoga, altre persone avevano scritto con una bomboletta spray "Palestina libera" su una delle sue facciate. Da qualche anno Goldberg approfitta delle celebrazioni del Rosh Hashanah - Il capodanno ebraico, a cui partecipano rappresentanti politici ed esponenti religiosi della città, anche musulmani - per lanciare l'allarme sulla crescita dell'antisemitismo tra le frange estremiste della comunità musulmana. "Ma nessuno ha mai voluto ascoltarci", commenta oggi.


* The New York Times, Stati Uniti

(Internazionale, 31 ott / 6 nov 2014)


Il vecchio trucco della moschea al-Aqsa

Quelli che oggi lanciano ordigni incendiari su auto e case ebraiche, domani faranno fuoco coi Qassam e i razzi RPG

Poliziotto israeliano in servizio sulla spianata del Monte del Tempio colpito da un ordigno incendiario palestinese
Lo stratagemma di fare appello alla strenua difesa della moschea di Al-Aqsa da presunte minacce allo scopo di istigare violenze a Gerusalemme è uno dei più vecchi trucchi registrati negli annali di storia.
Il Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin el-Husseini vi fece ricorso già nel 1929 e riuscì a scatenare sommosse di massa sfociate nel massacro degli ebrei di Hebron. Nel 2000, l'allora presidente dell'Autorità Palestinese Yasser Arafat usò lo stesso trucco per innescare la seconda intifada. Nel corso degli anni tutti questi disordini hanno certamente causato la morte di centinaia di ebrei e di arabi, ma non hanno fatto fare un solo passo avanti alla causa palestinese....

(israele.net, 31 ottobre 2014)


Mille anni di storia degli ebrei in Polonia

La mostra "Mille anni di storia degli ebrei polacchi" è in corso a Varsavia presso il nuovo Museo POLIN dedicato alla storia di questo popolo. Polin significa anche "resto qui". Si fa quindi riferimento all'arrivo degli ebrei in Polonia nel Medioevo. Si racconta come siano entrati nelle grazie dei sovrani per installarsi definitivamente qui.
Per secoli la fiorente cultura Yiddish diede il suo contributo alla storia della Polonia prima di essere spazzata via dall'occupazione nazista.
Gli oltre tre milioni di ebrei polacchi si ridussero a 300 mila durante la seconda guerra mondiale, ma le persecuzioni continuarono anche in epoca comunista tanto da scoraggiare la presenza dei pochi sopravvissuti.
Dariusz Stola, Direttore del Museo Polin:
"L'esposizione presenta la ricchezza della cultura ebraica sbocciata in Polonia. Mostra inoltre il patromonio delle esperienze ebraiche dalle stagioni piu' felici quando si viveva in prosperità fino ai momenti piu' tragici. Questa mi sembra la cosa piu' importante del museo".
In epoca comunista gli ebrei scomparvero dalla scena pubblica ed ancor oggi il paese non sa piu' molto del ricco passato degli ebrei.
Hanna Gronkiewicz-Waltz, Sindaco di Varsavia: "L'esposizione maggiore del museo è importante per la storia comune di entrambi i popoli. Questa si puo' dire sia una fotografia dei tempi quando la fotografia non esisteva. La foto dell'arrivo degli ebrei in Polonia, il loro insediamento, la vita quotidiana con i polacchi che a volte non è stata facile. I 1000 anni di storia degli ebrei in Polonia sono stata ricostruiti per questa mostra".
Il museo è stato eretto là dove sorgeva il vecchio ghetto e le mura esterne assomigliano all'onda del Mar Rosso grazie alla quale gli ebrei erano scappati dall'Egitto. Parla l'architeto finlandese autore dell'edificio.
Rainer Mahlamäki, architetto: "L'idea era quella di lasciare un'area in bianco per gli eventi temporanei e i designer. In modo da dare loro mano libera per sfruttare le moderne tecnologie e creare la loro mostra".
La lunga storia degli ebrei di Polonia è adesso un libro aperto per coloro che esploreranno il nuovo museo a Varsavia.

(euronews, 31 ottobre 2014)


Il conflitto arabo-israeliano nell'ultimo libro di Steinhaus

«Mi rivolgo ai giovani, affinché superino i pregiudizi». Approccio nuovo: Il passato e il presente vanno letti con occhi genuini e meno politicizzati.

di Marika Damaggio

E' facile giudicare, fissare gli eventi dall'alto di un fragile piedistallo. E altrettanto facile restare incastrati in quel sottile substrato superficiale, fallace per definizione, che avvolge ogni cosa. È molto meno facile, viceversa, scalfire stereotipi e pregiudizi, tentare d'informarsi e capire. È con simili premesse che Federico Steinhaus individua un vulnus e offre alle giovani generazioni la possibilità di acquisire strumenti (e conoscenze). Già presidente della comunità ebraica di Merano, negli ultimi anni ha pubblicato una storia degli ebrei di Spagna nel Medio Evo (Ebraismo Sefardita, Forni editore), una storia dei nazionalismi arabo ed ebraico (La terra contesa, Carucci editore), una storia degli ebrei del Trentino Alto Adige negli anni '30 e'40 (Ebrei/Juden, Giuntina editrice), un'analisi politologica del conflitto arabo-israeliano attraverso i media (Le parole malate: la disinformazione come sistema, edizioni del Faro, anche come e-book). Oggi aggiunge un nuovo e importantissimo tassello. Lo fa attraverso le pagine di Un convento a Gerusalemme. Genesi del conflitto arabo-israeliano (Europa Edizioni). Qui, Steinhaus racconta l'inizio di un conflitto attraverso un documento storico assolutamente inedito: il diario di un convento di suore francesi a Gerusalemme.
   Le annotazioni diventano una leva, nitida quanto originale, per ripercorrere un pezzo di storia delicatissimo. «Steinhaus — scrive Arrigo Levi nella prefazione — racconta e commenta, con convincente schiettezza e qualche ingenuità, gli eventi che, dal 1929 al 1967, conducono alla nascita dello Stato d'Israele». Ancora: «Di tale evento le brave suore offrono una testimonianza originale e suggestiva, non senza momenti di forte emozione, visto che vi furono periodi in cui attorno al lom convento esplodevano bombe e si combatteva il conflitto tra la popolazione araba della città che il mondo musulmano conosce come la Santa, e gli ebrei, che si preparavano a fare, di quella che era per loro la città di Davide, la capitale del nuovo Stato d'Israele».
   Sono sufficienti questi elementi per comprendere il valore di un volume che in un colpo solo offre uno scorcio nuovo (e scientifico) per comprendere un fenomeno tanto complesso e, di pari passo, diventa strumento didattico. «Io ho avuto il diario proprio per caso — spiega Steinhaus — E stata un'evenienza fortuita ma sin dal primo momento ho pensato che quel diario, seppur frammentario, ci consentiva di vedere con occhi genuini e meno politicizzati ciò che sta accadendo e ciò che è accaduto».
   Non è un esercizio accademico, sia chiaro. «Partendo dal diario ho voluto dare un taglio meno professorale e più vicino alla realtà — aggiunge —Quando si parla di Medio Oriente e conflitto arabo si conosce solo ciò che è successo ieri o poche ore fa, ma solo gli specialisti ne sanno di più». Di qui la consapevolezza: il vuoto va colmato. «Ho voluto aiutare i più giovani a capire meglio, infatti il testo si sviluppa attraverso documenti e testi originali dell'epoca — dice — ho cercato di immergere il lettere nella storia, negli eventi». Tutto ciò per offrire ai ragazzi uno sguardo d'insieme realmente completo, profondo, complesso. «Spesso prevalgono i pregiudizi, i giovani recepiscono i giudizi altrui quasi fossero verità — aggiunge — Nei confronti degli ebrei e verso lo Stato ebraico i pregiudizi sono fin troppi».
   Non mancano gli aneddoti personali. «Ho inserito alcune pennellate vissute in prima persona — prosegue — Cito, per esempio, il fondatore del Congresso mondiale ebraico, Nahum Goldmann, con cui ho collaborato».
   Passo dopo passo, anno dopo anno, attraverso le testimonianze inedite del convento di Gerusalemme, prende corpo un volume dal profilo didattico. Un volume che unisce sia generazioni sia culture differenti: Islam, ebraismo, cattolicesimo. Ed ecco svelato il senso ultimo: «Se alla fine riusciamo a superare qualche luogo comune, comprendendo il passato, riusciamo a leggere con maggiore consapevolezza il presente». Il volume potrà essere ordinato anche online, all'indirizzo www.europaedizioni.it. Con le stesse tempistiche, sarà disponibile anche la versione e-book.

(Corriere del Trentino, 1 novembre 2014)


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